L’esperienza letteraria in Italia: Dal secondo Ottocento al Duemila [3A]
 9788828608455

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Giulio Ferroni Andrea Cortellessa, Italo Pantani, Silvia Tatti

3A

3A L’esperienza

L’esperienza profilo

letteraria storico

in Italia e antologia

Einaudi scuola

Dal secondo Ottocento al Duemila

L’esperienza letteraria in Italia

VOLUME 1 Dalle origini al Cinquecento Verifiche 1 Strumenti

VOLUME 2 Dal Cinquecento al primo Ottocento Verifiche 2

VOLUME 3A+3B Dal secondo Ottocento al Duemila Verifiche 3

In copertina Giorgio De Chirico, Le Muse inquietanti, . Collezione privata, Milano La parte storica riproduce, riadatta, aggiorna il testo del Profilo storico della letteratura italiana (prima edizione ). Andrea Cortellessa, Italo Pantani e Silvia Tatti hanno contribuito alla cura di varie parti dell'antologia, concepita e realizzata da Giulio Ferroni. In questo volume Andrea Cortellessa ha curato parti dei capitoli T. (pp. -), T. (pp. -), T. (pp. -, ), T. (pp. -, -, -), T. (pp. -), e il capitolo T.. Italo Pantani ha curato le pp. -. Tommaso Pomilio ha collaborato per le note dei capitoli T. (pp. -), T. (-, -), T., T. (pp. -), T., T. (pp. -), T. (pp. -), T. (pp. -, -), T. (pp. -, -), T. (pp. -, -, -), T... Al capitolo T. e alle pp. - del capitolo T. ha collaborato Gabriele Pedullà. Al capitolo T. ha collaborato Roberto Gigliucci (pp. -). Al capitolo T. (pp. -) ha collaborato Paola Cosentino.

Copertina e progetto grafico Licia Zeli Redazione e impaginazione Nova Itinera, Milano Consulenza didattica Carlo Minoia Copertina e progetto grafico Licia Zeli Stampa Rotolito Lombarda, Pioltello (MI) Redazione e impaginazione Nova Itinera, Milano Segreteria Daniela Venneri Consulenza didattica ©  by Einaudi scuola®, Milano Carlo Minoia Edumond Le Monnier S.p.A. Tutti i diritti riservati Stampa Rotolito Lombarda, Pioltello (MI) www.pianetascuola.it-www.einaudiscuola.it Segreteria Daniela Venneri ©  by Einaudi scuola®, Milano

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Giulio Ferroni Andrea Cortellessa, Italo Pantani, Silvia Tatti

L’esperienza letteraria in Italia

3A Dal secondo Ottocento al Duemila

Einaudi scuola

V

Presentazione

Questo manuale è costituito da una parte storica, che amplia e aggiorna il testo del Profilo storico della letteratura italiana (), e da una parte antologica, che offre una scelta di testi essenziali della tradizione letteraria italiana, puntando in primo luogo sui grandi classici. La pubblicazione di L’esperienza letteraria italiana fa seguito a quella della Storia e antologia della letteratura italiana (-) e di essa ripropone integralmente struttura e orientamenti critici. Una cura particolare è stata posta a rendere coerenti mezzi didattici e obiettivi educativi, offrendo una serie di tavole e di materiali esplicativi e informativi, sul presupposto che nessun dato deve darsi per scontato e che ogni discorso sulla letteratura deve mirare a stimolare e accompagnare la lettura dei testi, cercando una diretta comunicatività e mirando alla “centralità della lettura”: e proprio per questo si è evitato di appesantire i testi con un eccesso di apparati, di griglie, di materiali analitici. Tutto il necessario materiale di supporto è stato affidato alle introduzioni ai singoli passi e a una annotazione che mira a “spiegare” i testi dal loro interno, mentre proposte di verifiche di comprensione e avvio all’analisi autonoma del testo vengono presentati in fascicoli che accompagnano ognuno dei tre volumi dell’opera. In questo impianto antologico apparentemente “tradizionale” (e attento a tutti i testi davvero “necessari” nell’uso scolastico) si sono inseriti vari elementi di novità, tra cui ricordo soltanto le tavole dedicate a testi “canonici” delle letterature straniere (che si infittiscono man mano che si arriva ai nostri giorni), le sintesi di opere narrative per cui ogni antologizzazione sarebbe di per sé fuorviante, e le letture critiche da diversi punti di vista su alcuni testi esemplari, che vogliono offrire modelli di analisi non vincolanti e dare un’immagine concreta del necessario carattere dinamico e “aperto” dello studio della letteratura. In un momento in cui la letteratura, nella scuola, nell’università, nella comunicazione pubblica, sembra attraversare una crisi pericolosa, che può dar luogo a esiti assai gravi nella coscienza “civile” delle nuove generazioni, questo manuale vuole essere un invito ad amare la nostra letteratura e il nostro paese, a sentire il valore irrinunciabile di una tradizione che vorremmo sempre più aperta in un orizzonte europeo e mondiale. A varie parti dell’antologia hanno collaborato, in vario modo e con diversa responsabilità, alcuni giovani studiosi, il cui lavoro è stato sempre coordinato, concordato e rivisto dal sottoscritto. A loro va il mio piú sincero ringraziamento (e, spero, anche quello di quanti vorranno far uso di questo manuale).

G.F.

VII

Indice generale

Presentazione

...

La Scapigliatura piemontese

STORIA

. ... ...

Carducci e il classicismo Il ritorno del classicismo Vita di un poeta-professore: Giosue Carducci (TAV. , Metrica barbara, p. ) Le raccolte poetiche del Carducci Svolgimento e caratteri della poesia carducciana Temi e risultati del Carducci poeta Carducci prosatore e critico Tra realismo e classicismo: la poesia dell’età carducciana

EPOCA  LA NUOVA ITALIA - . ... ... ...

...

... ... ... ... ...

. ...

...

...

... ... ... ...

L’Italia borghese e liberale nella società e nella cultura europea Limiti cronologici Uno sviluppo senza limiti (TAV. , Bicicletta e letteratura, p. ) La nuova Italia: orizzonti sociali, politici, ideologici (TAV. , La questione meridionale, p. ) (TAV. , Modernismo, p. ) (TAV. , Evoluzionismo, p. ) Le tendenze dominanti della cultura europea (TAV. , Sociologia, p. ) (TAV. , Antropologia, p. ) Il positivismo e le nuove scienze Intellettuali e istituzioni culturali (TAV. , Psicologia/Psicoanalisi, p. ) Editoria, stampa e mercato librario: verso una cultura di massa La lingua italiana e la scuola Nuovi caratteri e distribuzione dei centri culturali Scapigliatura e dintorni L’arte contro la società (TAV. , Decadentismo/Decadenti, p. ) (TAV. , Charles Baudelaire, I fiori del male, p. ) (TAV. , Gustave Flaubert, Madame Bovary, p. ) (TAV. , Arthur Rimbaud, Opere, p. ) (TAV. , Stéphane Mallarmé, Poesie, p. ) (TAV. , Emily Dickinson, Poesie, p. ) Il decadentismo europeo (TAV. , Parnassianesimo/ Parnassiani, p. ) (TAV. , Simbolismo/Simbolisti, p. ) Il primo tentativo italiano di una nuova arte: la Scapigliatura (TAV. , Preraffaelliti, p. ) La Scapigliatura milanese degli anni Sessanta (TAV. , Scapigliatura, p. ) Carlo Dossi tra vita e letteratura La ricerca espressionistica di Dossi La Scapigliatura democratica

... ...  

... ... ...



      

 . ... 

 

  



... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ...

. ... 

...

 ...    

... ... ...

Giovanni Verga e il verismo La narrativa naturalista (TAV. , Naturalismo/Verismo, p. ) Realismo e verismo nella nuova letteratura italiana I nuovi narratori siciliani Luigi Capuana (TAV. , La letteratura per l’infanzia, p. ) Vita di Giovanni Verga Verga prima del verismo La strada del verismo Verga novelliere: Vita dei campi I Malavoglia Tra mondo contadino e mondo cittadino (TAV. , Stile indiretto libero, p. ) Mastro-don Gesualdo Le ultime raccolte di novelle Il teatro di Verga Vita e opere di Federico De Roberto «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri»: il mondo de I Viceré Nell’orbita del naturalismo Modi di rappresentazione tra il reale e l’ideale Il mondo di Pinocchio (TAV. , Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo, p. ) (TAV. , Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, p. ) (TAV. , Lev Tolstoj, Guerra e pace, p. ) (TAV. , Lev Tolstoj, Anna Karenina, p. ) Narratori toscani (TAV. , Macchiaioli, p. ) Le varie facce della narrativa meridionale La Napoli di Salvatore Di Giacomo (TAV. , Il teatro dialettale dopo l’unità, p. ) Varie esperienze dialettali



             

 

   

VIII

... ... ... ... ... ...

. ... ...

... ... ... ... ...

... ... ... ... ... ... ...

. ... ... ... ... ... ... ... ... ... ...

. ... ... ...

Forme della narrativa settentrionale  Edmondo De Amicis e Cuore  Antonio Fogazzaro: un intellettuale cattolico nella nuova Italia  I romanzi di Fogazzaro  La Sardegna di Grazia Deledda  Verso un teatro borghese  (TAV. , Henrik Ibsen, L’anitra selvatica, p. ) (TAV. , Antòn Cˇèchov, Il giardino dei ciliegi, p. ) D’Annunzio e l’estetismo Il tempo dell’estetismo (TAV. , Estetismo, p. ) Il «vivere inimitabile» di Gabriele D’Annunzio (TAV. , Liberty, p. ) Il sistema della scrittura dannunziana Da Primo vere al Poema paradisiaco: una poesia onnivora Il romanzo della Roma bizantina: Il piacere Nuovi tentativi di romanzo problematico (TAV. , Kitsch, p. ) Il superuomo e la folla (TAV. , Superuomo, p. ) (TAV. , Friedrich Nietzsche, Cosí parlò Zarathustra, p. ) I romanzi da Le Vergini delle rocce a Forse che sí forse che no Il teatro dannunziano Le Laudi Le faville del maglio e altri scritti, memorie, racconti, esplorazioni D’Annunzio politico e militare Il Notturno e l’ultimo D’Annunzio Significato storico dell’opera di D’Annunzio Verso una nuova poesia: Giovanni Pascoli Alla ricerca di uno spazio nascosto: vita di Pascoli Le raccolte poetiche di Pascoli La nuova poesia di Myricae La poetica del fanciullino (TAV. , Onomatopea, p. ) I Poemetti I Canti di Castelvecchio Grandi ambizioni: dai Poemi conviviali ai Poemi del Risorgimento Pascoli critico e prosatore Pascoli e la poesia del Novecento Nuovi tentativi poetici fra tradizione e innovazione L’alba del nuovo secolo L’Italia giolittiana Tra protagonismo intellettuale e distruzione della ragione Nazionalismo e imperialismo

... ... ...

... ... ... ...





TESTI



T.

  

Il socialismo e la cultura La ricerca solitaria di Gian Pietro Lucini La poesia come scoperta della crisi: il crepuscolarismo (TAV. , Verso libero, p. ) (TAV. , Crepuscolarismo, p. ) Sergio Corazzini Guido Gozzano: vita e opere La poesia dei Colloqui Un poeta che non ha «nulla da dire»: Marino Moretti

  

   

L’ITALIA BORGHESE E LIBERALE NELLA SOCIETÀ E NELLA CULTURA EUROPEA Graziadio Isaia Ascoli Lingua e dialetti in Italia



 T.

      

   



  

Iginio Ugo Tarchetti da Racconti fantastici La lettera U (Manoscritto d’un pazzo) da Disjecta Retrospettive



Emilio Praga da Penombre Preludio



Arrigo Boito da Il libro dei versi Dualismo Scritto sull’ultima pagina

 

Carlo Dossi da L’Altrieri Ricordi dell’infanzia da Amori La mano di Lisa e il bacio sul cristallo

    

SCAPIGLIATURA E DINTORNI

T.



 

GIOSUE CARDUCCI Rime nuove Traversando la Maremma toscana (XXXIV) Pianto antico (XLII) San Martino (LVIII) Primavere elleniche III. Alessandrina (LXIV)

   

IX

Odi barbare Dinanzi alle Terme di Caracalla (I, IV) Fuori alla Certosa di Bologna (I, XII) Alla stazione in una mattina d’autunno (II, XXIX) Rime e ritmi da Rime e ritmi, III Jaufré Rudel T.



Emilio De Marchi (TAV. , Demetrio Pianelli, p. ) da Demetrio Pianelli La partenza di Demetrio (V, III)

GIOVANNI VERGA E IL VERISMO Luigi Capuana (TAV. , Giacinta, p. ) da Per l’arte Dal documento umano all’invenzione narrativa da Decameroncino Conclusione Giovanni Verga Vita dei campi Fantasticheria Rosso Malpelo La Lupa



Novelle rusticane La roba Libertà

   

 

NELL’ORBITA DEL NATURALISMO Carlo Collodi da Occhi e nasi Un cavaliere del secolo XIX (TAV. , I  capitoli de Le avventure di Pinocchio, p. ) La letteratura napoletana Matilde Serao da Il ventre di Napoli Bisogna sventrare Napoli

Antonio Fogazzaro (TAV. , Malombra, p. ) da Malombra Marina allo specchio (II, ) (TAV. , Piccolo mondo antico, p. ) da Piccolo mondo antico La fine di un mondo, l’avvento di un altro (III, ) (TAV. , Il Santo, p. )

  



Federico De Roberto da Processi verbali Il rosario da I Viceré Il duca deputato e i suoi nemici (II, VIII)

Edmondo De Amicis da Cuore Il mio amico Garrone La madre di Franti (TAV. , I racconti di Cuore, p. )



I Malavoglia (TAV. , Schema riassuntivo dei capitoli de I Malavoglia, p. ) I Malavoglia e il negozio dei lupini (I)

Mastro-don Gesualdo L’incendio del palazzo Trao La morte di Gesualdo nelle due redazioni (: IV, V; : XVI)

T.

Salvatore di Giacomo da Canzone A Marechiare Palomma ’e notte da Ariette e sunette Dint ’o ciardino

  





Grazia Deledda (TAV. , Canne al vento, p. ) da Canne al vento L’inizio del romanzo (I) T.

  



 







GABRIELE D’ANNUNZIO Il piacere L’attesa di Andrea Sperelli (I, I) Roma sotto la neve (III, III)

 

Poema paradisiaco Hortus Conclusus



Le Laudi da Maia Laus Vitae da Alcyone Lungo l’Affrico nella sera di giugno dopo la pioggia La sera fiesolana La pioggia nel pineto Stabat nuda Aestas Sogni di terre lontane. I pastori

    

Il teatro (TAV. , La figlia di Jorio, p. ) da La figlia di Jorio Tutta di verde mi voglio vestire (I, I)





X

Notturno Prima offerta T.

STORIA  EPOCA  GUERRE E FASCISMO -

GIOVANNI PASCOLI Myricae Arano Galline Lavandare Il passero solitario L’assiuolo Il fanciullino È dentro noi un fanciullino (I; III) Poemetti da Primi poemetti Digitale purpurea

     

. ... ... ...

... ... ...



Canti di Castelvecchio Nebbia La bicicletta Il gelsomino notturno La tessitrice

   

Poemi Conviviali Alexandros



...

. ...

... T.

L’ALBA DEL NUOVO SECOLO Gian Pietro Lucini da Revolverate Nuova Ballata in onore degli Imbecilli di tutti i Paesi



Sergio Corazzini da Piccolo libro inutile Desolazione del povero poeta sentimentale



Guido Gozzano da I colloqui La signorina Felicita ovvero La felicità da La via del rifugio L’amica di nonna Speranza da I colloqui Totò Merúmeni Marino Moretti da Il giardino dei frutti Io non ho nulla da dire

... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ...

 

. ...



...



... ... ... ... ... ... ...

Modernità e distruzione Da una guerra all’altra La rivoluzione scientifica e filosofica Arte e letteratura di fronte alla modernità. (TAV. , Le avanguardie storiche, p. ) (TAV. , Formalisti russi, p. ) La cultura di massa e i nuovi mezzi di comunicazione Istituzioni culturali in Italia (TAV. , Sceneggiatura cinematografica, p. ) Il lavoro e la condizione sociale degli scrittori (TAV. , Elzeviro, p. ) Tra centro e provincia: una nuova geografia culturale (TAV. , I centri culturali [-], p. ) Ideologia, filosofia, politica: da Croce a Gramsci La battaglia intellettuale (TAV. , Le riviste culturali da «La Voce» a «Primato», p. ) La «dittatura» intellettuale di Benedetto Croce L’estetica e la filosofia crociana Croce storico, politico e critico Il modello intellettuale de «La Voce» La difficile resistenza dei «fatti» La cultura e la «grande guerra» L’attualismo di Giovanni Gentile La cultura fascista Il liberalismo rivoluzionario di Piero Gobetti Antonio Gramsci e la lotta comunista Composizione e struttura dei Quaderni del carcere Motivi essenziali del pensiero di Gramsci Una cultura antifascista Fuori dell’orizzonte italiano Avanguardia ed espressionismo La letteratura de «La Voce»: espressionismo e modernità (TAV. , Espressionismo, p. ) I «moralisti» vociani: Slataper, Boine, Jahier Il rifiuto di Carlo Michelstaedter Renato Serra: classicismo e nichilismo L’avanguardia futurista Poeti e prosatori futuristi La poesia inarrestabile di Corrado Govoni Aldo Palazzeschi: la giocosa libertà del nulla Trasformazioni e serietà di Borgese

  

  





             



       

XI

... L’espressionismo «provinciale» di Federigo Tozzi



Luigi Pirandello e il teatro del primo Novecento Dalla Sicilia al mondo: vita di Pirandello  ... La scrittura come tortura  ... Maschere, fantasmi e personaggi  ... I primi romanzi e Il fu Mattia Pascal  ... Da L’umorismo a Si gira…  ... Le Novelle per un anno e i caratteri della novellistica di Pirandello  ... La nascita del teatro pirandelliano  (TAV. , Il doppio, p. ) ... I Sei personaggi e il «teatro nel teatro»  ... Dalla tragedia al mito  ... Pirandello, la politica, il fascismo  ... L’ultima narrativa pirandelliana  ... Tendenze del teatro del primo Novecento  (TAV. , Regia / regista, p. ) . ...

Italo Svevo Una singolare condizione intellettuale La vita di Ettore Schmitz La vocazione letteraria di Svevo nella Trieste del tardo Ottocento ... Una vita e Senilità (TAV. , James Joyce, Ulisse, p. ) ... Il «silenzio» di Svevo e gli scritti saggistici (TAV. , Monologo interiore / Flusso di coscienza, p. ) ... La coscienza di Zeno ... Il personaggio di Zeno ... L’io, la nevrosi, il tempo ... Il «raccoglimento» del vecchio e il progetto di un nuovo romanzo ... Il teatro di Svevo ... La scomposizione di Svevo . ... ... ...

Le forme della prosa tra le due guerre La tradizione narrativa Ancora il classicismo: l’ordine de «La Ronda» Gli scrittori de «La Ronda» La letteratura del fascismo tra polemiche, schieramenti, programmi ... La «modernità» di Massimo Bontempelli ... Problematicità di Corrado Alvaro ... «Solaria» e le riviste fiorentine (TAV. , Thomas Mann, La montagna incantata, p. ) (TAV. , Franz Kafka, Il processo, p. ) (TAV. , Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, p. ) ... Esiste un surrealismo italiano? ... Alberto Savinio: la saggezza del «dilettantismo» (TAV. , Scrittura automatica, p. ) ... Le opere letterarie di Savinio . ... ... ... ...

... Tommaso Landolfi: la letteratura di fronte all’«impossibile» ... Le opere di Landolfi ... Antonio Delfini ... Dino Buzzati ... Achille Campanile e la scrittura umoristica ... La critica letteraria ... Verso un nuovo realismo (TAV. , La letteratura americana, p. ) ... Romano Bilenchi ... Un realismo dal punto di vista dei proletari . ... ... ...

...     

     

... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ...

      

  

La nuova poesia La lirica del Novecento. L’ultimo «maledetto»: Dino Campana La tensione morale di Clemente Rèbora (TAV. , Orfismo /Orfico p. ) Il mondo deserto e frantumato di Camillo Sbarbaro Tra ricerca e tradizione Umberto Saba: una vita fra tenerezza e angoscia Poesia e cultura di Saba Genesi, struttura e temi de Il Canzoniere Gli scritti in prosa Giuseppe Ungaretti: la vita Poetica e cultura di Ungaretti Il primo Ungaretti: L’Allegria Sentimento del tempo e l’ultimo Ungaretti Altre strade per una lirica moderna. Salvatore Quasimodo L’ermetismo fiorentino e Alfonso Gatto La via della poesia dialettale

Eugenio Montale La vita (TAV. , Thomas Stearns Eliot, La terra desolata, p. ) (TAV. , Fernando Pessoa, Molti autori, p. ) (TAV. , Antonio Machado, Poesie, p. ) ... Una cultura europea ... Critica e poetica di Montale (TAV. , Correlativo oggettivo, p. ) ... Ossi di seppia ... Le occasioni ... La bufera e altro ... Montale prosatore ... Vuoto della parola e negatività del mondo: la miscela di Satura ... La poesia dell’ultimo Montale ... Il «classico» del Novecento italiano . ...

        

  

             



        

XII

Carlo Emilio Gadda Vita dell’«ingegnere» (TAV. , Robert Musil, L’uomo senza qualità, p. ) (TAV. , Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte, p. ) ... La guerra e i diari ... Letteratura, tecnica, scienza, filosofia ... Da La Madonna dei Filosofi a Il castello di Udine ... Espressionismo e plurilinguismo (TAV. , Pastiche, p. ) ... La Milano de L’Adalgisa ... La cognizione del dolore ... Il Pasticciaccio ... Eros e Priapo: il fascismo e il «putrido lezzo» della storia ... Gadda e l’Italia moderna . ...



        

IDEOLOGIA, FILOSOFIA, POLITICA: DA CROCE A GRAMSCI Benedetto Croce da La storia come pensiero e come azione (XII) La storia come storia della libertà Giovanni Papini da «Lacerba»,  giugno  Chiudiamo le scuole! Piero Gobetti da La Rivoluzione Liberale Il fascismo: autobiografia della nazione e repressione Antonio Gramsci da Quaderni del carcere, ,  Per la storia degli intellettuali Gli intellettuali

T.





Giovanni Boine da Frantumi Delirii Piero Jahier da Poesie in versi e in prosa Uomo-vestito

Renato Serra da Esame di coscienza di un letterato Il letterato e la guerra



Filippo Tommaso Marinetti da Fondazione e manifesto del futurismo Manifesto del futurismo



Ardengo Soffici da BÏF§ZF+. Simultaneità. Chimismi lirici Crocicchio



 

Aldo Palazzeschi da Poemi La fontana malata da L’Incendiario L’incendiario La passeggiata

 

Giuseppe Antonio Borgese da Rubè A Milano il  aprile 



Federigo Tozzi (TAV. , Con gli occhi chiusi, p. ) da Con gli occhi chiusi Pensiero di Ghísola. Morte della madre (TAV. , Il podere, p. )





 T.



AVANGUARDIA ED ESPRESSIONISMO I moralisti vociani Scipio Slataper da Il mio Carso L’ordine, il lavoro, il nido disfatto



Corrado Govoni da Gli aborti Le dolcezze da L’inaugurazione della primavera Povertà

TESTI T.

Carlo Michelstaedter da La persuasione e la rettorica Impossessarsi del presente







LUIGI PIRANDELLO Il fu Mattia Pascal (TAV. , I  capitoli de Il fu Mattia Pascal, p. ) Prima dell’inizio (I-II)  L’umorismo Il sentimento del contrario (II, II)



Novelle per un anno La disdetta di Pitagora La tragedia d’un personaggio Il treno ha fischiato… Una giornata

   

Il teatro (TAV. , Il giuoco delle parti, p. ) da Sei personaggi in cerca d’autore L’irruzione dei personaggi (TAV. , Enrico IV, p. )



XIII

T .

ITALO SVEVO Senilità Emilio e gli altri (I)



Una vita (TAV. , Una vita: un inetto, p. ) La coscienza di Zeno Il fumo Salute individuale e malattia collettiva: il finale della Coscienza di Zeno

T.

 

Emilio Cecchi da Pesci rossi Pesci rossi

 



Altri scrittori tra le due guerre Massimo Bontempelli da La vita intensa. Romanzo d’avventure, Prefazione e I-II Due capitoli di un romanzo scritto «per i posteri»



Corrado Alvaro da L’età breve, IV Primi tempi al collegio



Alberto Savinio da Achille innamorato Icaro Tommaso Landolfi (TAV. , La pietra lunare, p. ) da La pietra lunare Gurú e Giovancarlo (V) Antonio Delfini da Il ricordo della Basca, Introduzione Due apparizioni femminili Dino Buzzati da Sessanta racconti Il crollo della Baliverna Giacomo Debenedetti da Saggi critici. Terza serie Personaggi e destino



Ignazio Silone da Fontamara (I) Fontamara al buio



LA NUOVA POESIA Dino Campana da Canti Orfici La Chimera Barche amorrate

LE FORME DELLA PROSA TRA LE DUE GUERRE Gli scrittori de «La Ronda» Vincenzo Cardarelli da Solitario in Arcadia Passo di Ronda da Poesie Sera di Gavinana

.

Verso il realismo Romano Bilenchi da «Anna e Bruno» e altri racconti Una città







Clemente Rèbora da Frammenti lirici O carro vuoto sul binario morto (XI) da Poesie sparse e prose liriche Voce di vedetta morta Camillo Sbarbaro da Pianissimo (I) Taci, anima stanca di godere da Trucioli (I, ; ) L’anima avventurosa Umberto Saba Il Canzoniere (TAV. , Edizioni e struttura de Il Canzoniere di Saba, p. ) da Casa e Campagna A mia moglie La capra da Trieste e una donna Città vecchia da Preludio e canzonette (canzonetta ) Il poeta da Preludio e fughe Preludio da Il piccolo Berto Cucina economica da Parole Squadra paesana da Mediterranee Ulisse da Epigrafe Vecchio e giovane

 

 

 



        





da Scorciatoie e raccontini, Prime scorciatoie Laura ()



XIV

Giuseppe Ungaretti da L’Allegria Agonia In memoria Stasera Silenzio I fiumi Allegria di naufragi Soldati da Sentimento del Tempo La madre da Il Dolore Giorno per giorno Leonardo Sinisgalli da Vidi le Muse Poesia per una cicala Salvatore Quasimodo da Acque e terre Vento a Tindari da Giorno dopo giorno Alle fronde dei salici Alfonso Gatto da Morto ai paesi Alla mia bambina .

       

   

La bufera e altro La bufera L’anguilla

 

Satura La storia L’angelo nero

 

 T. 

 



EUGENIO MONTALE Ossi di seppia In limine I limoni Non chiederci la parola Meriggiare pallido e assorto

Le occasioni Dora Markus Il ramarro, se scocca Ti libero la fronte La casa dei doganieri

   

CARLO EMILIO GADDA Giornale di guerra e di prigionia Il senso di colpa del prigioniero ( maggio )



L’Adalgisa L’Adalgisa



La cognizione del dolore da Parte seconda (V) I pensieri della madre



Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana Il commissario Ingravallo (I) Il «sogno del carabiniere» (VIII)

 

Bibliografia Indice dei nomi Indice dei termini notevoli

  

E

P

O

C

A

 La nuova Italia -

SOMMARIO

.. Il nuovo Stato unitario si inserisce, con molte contraddizioni, nel contesto della società borghese e liberale europea, modellando le basi dell’Italia moderna, mentre si affacciano sulla scena nuove forze sociali e si definiscono le prime forme del mercato culturale; il positivismo e la mentalità scientifica dominano la vita intellettuale e le istituzioni ufficiali. .. L’arte e gli artisti rifiutano i modelli borghesi e realizzano nuove esperienze di tipo «decadente». Con la Scapigliatura si ha il primo tentativo italiano di arte «sperimentale», in rivolta contro la società. .. La tradizione classicistica sopravvive intrecciandosi con il nuovo interesse per la realtà: in Carducci essa diviene espressione ufficiale della nuova Italia. .. Il verismo degli scrittori siciliani fa irrompere nella narrativa una nuova realtà, concreta e insieme vista «da lontano»: in Verga un universo fuori della storia si scontra con il mondo moderno, con una singolare forza critica e «negativa»; in De Roberto si svolge una corrosiva deformazione della vita sociale. .. I modi del naturalismo dominano la produzione narrativa e teatrale del tardo Ottocento, con un insieme di autori e opere che rappresentano le piú diverse realtà regionali. Fogazzaro dà voce a una moderna sensibilità cattolica e spiritualistica. .. Nell’estetismo di D’Annunzio le piú diverse forme della sensibilità contemporanea vengono convogliate verso il consumo culturale, lo spettacolo e l’effetto di massa: nei piú vari generi letterari, nella vita mondana, nell’attività politica e militare, egli usa trionfalmente la cultura come «barbarie» e strumento di conquista della «vita». .. Con una sensibilità vicina al simbolismo, Pascoli crea una poesia nuova, attenta alle piccole cose e alle analogie segrete che animano la realtà: tra tensioni psicologiche e ideologiche, essa è come una difesa da un mondo minaccioso e ostile. .. Nei nuovi equilibri sociali dell’inizio del Novecento si affermano ideologie vitalistiche, nazionalistiche, imperialistiche. Ma la poesia dei crepuscolari si oppone nel modo piú reciso a ogni esaltazione della «vita» e del valore assoluto della poesia.

˜

9.1 L’ITALIA BORGHESE E LIBERALE NELLA SOCIETÀ E NELLA CULTURA EUROPEA ... Limiti cronologici.

Tutta la seconda metà del secolo XIX e la parte iniziale del secolo XX, fino alla prima guerra mondiale (), vedono la massima espansione della società borghese, con una diffusione su scala mondiale dei modi di produzione capitalistici, con uno sviluppo irresistibile di nuove industrie e di nuove tecnologie, con il definirsi di istituzioni e di modi di governo di tipo liberale: gli Stati europei creano dei sistemi imperiali, che esercitano il potere su gran parte del pianeta, sia attraverso una diretta amministrazione coloniale, sia attraverso le piú svariate forme di dominio e di sfruttamento economico. Il borghese europeo si sente padrone del mondo, si sente destinato a conoscere e a controllare, con la sua ragione dominatrice, con il suo spirito di iniziativa, con la sua crescente capacità di trasformare la materia e di creare oggetti, tutti i possibili spazi e territori della terra: la produzione e il lavoro sono al centro della vita umana e appaiono destinati a costruire benessere e civiltà, a liberare l’uomo europeo dai condizionamenti secolari della natura, a creare sempre nuove possibilità di libertà, di movimento, di espansione e sviluppo. Come per ogni circostanza storica, non è possibile nemmeno per questa epoca fissare limiti cronologici precisi: sul piú ampio orizzonte europeo si può partire dalla crisi rivoluzionaria del - (cfr. ..), dopo la quale si ha un assestamento di equilibri sociali accompagnato, nei paesi piú sviluppati (e in primo luogo in Inghilterra), da una nuova intensa fase di espansione produttiva, con una diffusione su larga scala di nuove forme industriali già sperimentate nei decenni precedenti. Dopo una fase di guerre e di turbamenti istituzionali che coinvolgono diversi paesi europei, culminante nella guerra franco-prussiana del , si ha un lungo periodo di relativa pace, senza guerre dirette tra gli Stati europei, che giunge appunto fino al  (quando scoppia il grande conflitto mondiale) e che vede lo svilupparsi di nuovi modi di organizzazione della produzione e lo svolgersi di una competizione sempre piú aggressiva tra le economie dei diversi paesi: da una economia liberale «pura» si passa a un capitalismo strettamente legato agli apparati statali; la stessa concorrenza nell’espansione imperialistica crea sempre nuove occasioni di contrasto tra gli Stati piú ricchi, fino all’esplosione della Grande Guerra, che segna la fine del mondo della borghesia liberale. Sempre piú chiara si fa intanto, tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX, la coscienza del verificarsi di una trasformazione radicale della civiltà, il senso di una nuova «modernità». Nel piú ampio orizzonte europeo e mondiale si possono insomma indicare come limiti di quest’epoca, da una parte il -, dall’altra il : ma se ci si colloca all’interno dell’esperienza italiana e in una prospettiva di storia della cultura e della letteratura, è necessario prendere le mosse dalla realizzazione dell’unità d’Italia (), dopo la quale soltanto è possibile, nel nostro paese, un’espansione borghese e capitalistica, che cerca di mettersi al passo con i grandi paesi europei. L’arretratezza della situazione italiana e l’eredità di una storia secolare danno un carattere particolare a questo processo, che si intreccia strettamente con la nascita delle strutture del nuovo Stato unitario: ma, tra limiti, contraddizioni, velleità di tutti i tipi, l’Italia partecipa della generale tendenza della civiltà borghese europea, fino a entrare, nel , nella grande guerra mondiale; tenendo conto però delle particolari vicende politiche italiane e di un accentuarsi di nuovi fenomeni culturali intorno al , abbiamo preferito indicare questa data (e non quella dell’ingresso in guerra dell’Italia) come limite conclusivo di questa epoca della nostra storia letteraria.

La borghesia europea

Il capitalismo imperialista

Verso la «modernità» In Italia

Lo Stato unitario

... Uno sviluppo senza limiti. La vorticosa espansione dell’industria capitalistica nell’ultima fase del secolo XIX si appoggia su nuove forme di produzione, il cui insieme dà luogo alla cosiddetta seconda rivo-

Il mercato mondiale

EPOCA



Trionfo del positivismo

Progresso scientifico e trasformazioni sociali



LA NUOVA ITALIA

-

luzione industriale; le grandi potenze industriali controllano, con i loro sistemi coloniali e imperialistici, gran parte del pianeta: si crea un vero e proprio mercato mondiale, con rapporti economici che mettono in relazione tra loro anche i luoghi piú remoti, generando condizionamenti e interazioni capaci di omogeneizzare, per la natura stessa delle merci e della loro circolazione, tutte le forme di vita della terra. La realtà industriale crea modificazioni velocissime del paesaggio naturale, e porta la presenza dell’uomo anche nei luoghi piú inaccessibili e incontaminati. L’atteggiamento culturale dominante trova espressione nel positivismo (cfr. PAROLE, tav. ), che guarda ai fatti, alle loro condizioni concrete; e le diverse scienze, raccogliendo l’eredità della tradizione scientifica laica e moderna, individuano mezzi di misurazione razionale, rigorosa e uniforme, della realtà su cui intendono intervenire. La stessa realtà fisica del nostro pianeta viene sottoposta a misurazioni e a rilievi esatti, che rifiutano le approssimazioni a cui spesso ci si era limitati nel passato: nascono tra l’altro una geografia e una cartografia moderne, e si mira a unificare le varie misure in uso nei diversi paesi (fondamentale la convenzione, sottoscritta anche dall’Italia, che fissa il sistema metrico decimale come metodo universale di misurazione). Proprio la collaborazione tra industria e ricerca scientifica consente di definire e diffondere su vasta scala nuove tecnologie, che contribuiranno a modificare radicalmente sia la produzione sia la vita quotidiana: in primo piano sono le scoperte nel campo della chimica (fondamentali tra l’altro la lavorazione della gomma e quella del petrolio) e in quello dell’elettricità, che portano alla costruzione di nuovi materiali e all’impiego di un nuovo tipo di energia (sullo scorcio della fine del secolo comincia a diffondersi, specie nelle grandi città, l’illuminazione

BICICLETTA E LETTERATURA DATI

tav. 169

Mezzo di trasporto in ogni senso singolare, che associa caratteri meccanici e industriali al solo impiego dell’energia del corpo umano e permette un libero movimento individuale, un rapporto diretto con la natura. La bicicletta (inventata alla fine del Settecento, ma perfezionata e diffusasi su larga scala solo verso la fine dell’Ottocento) ha suscitato la curiosità e l’attenzione di vari scrittori, che ne hanno variamente parlato nelle loro opere (d’altra parte, specialmente tra gli anni Trenta e Sessanta di questo secolo, il ciclismo sportivo è stato una presenza cospicua nella vita sociale italiana). Si dà qui un elenco in ordine cronologico di alcuni testi italiani dedicati a questo mezzo di trasporto o a viaggi ciclistici. ALFREDO ORIANI

Bicicletta, : la parte intitolata Sul pedale è la cronaca di un viaggio in bicicletta compiuto nell’estate  (cfr. ..).

GIOVANNI PASCOLI

La bicicletta, in Canti di Castelvecchio,  (cfr. ..).

ALFREDO PANZINI

La lanterna di Diogene, : su un viaggio da Milano alla riviera romagnola

GUIDO GOZZANO

Le due strade, in La via del rifugio, .

GIORGIO CAPRONI

Le biciclette, -, in Il passaggio d’Enea (cfr. ..).

VASCO PRATOLINI

Cronache dal Giro d’Italia, articoli sul Giro ciclistico del , raccolti in volume nel .

DINO BUZZATI

Buzzati al Giro d’Italia, articoli sul Giro ciclistico del , raccolti in volume nel  (cfr. ..).

ANNA MARIA ORTESE

articoli sul Giro d’Italia del .

TOTI SCIALOJA

La grande boucle, in Versi del senso perso,  (-).

FRANCO CORDELLI

L’Italia di mattina, : sul Giro d’Italia del  (cfr. ..).

. L’ITALIA BORGHESE E LIBERALE NELLA SOCIETÀ E NELLA CULTURA EUROPEA

elettrica). I rapporti tra gli uomini mutano radicalmente, grazie anche ai nuovi mezzi di comunicazione a distanza: se in passato l’unico mezzo per inviare messaggi consisteva nello spedirli, nel farli trasportare da qualcuno, ora diviene possibile trasmetterli attraverso strumenti in collegamento tra loro; la prima grande invenzione in questo senso è quella del telegrafo elettrico, che risale agli anni Trenta, ma che dopo la metà del secolo si diffonde su scala mondiale. A esso si aggiunge, nella seconda metà del secolo XIX, il telefono, anche se in questa prima fase la rete di comunicazione riguarda aree relativamente limitate e non supera grandi distanze; ma a questo obiettivo ci si avvicina grazie alla sperimentazione di un nuovo mezzo, basato sull’impiego delle onde sonore, la radio, che nella prima metà del nuovo secolo avrà un eccezionale sviluppo. Ulteriori modificazioni si danno, già prima della fine dell’Ottocento, nel settore dei trasporti: la scoperta del motore a scoppio porta all’invenzione dell’automobile, che all’inizio del Novecento comincia a diventare una presenza importante nel paesaggio umano (e all’automobile si affiancano mezzi piú popolari come autobus, camionette ecc.). Dopo una serie di sperimentazioni di volo svoltesi nel corso dell’Ottocento, si giunge anche all’invenzione dell’aeroplano. Per questi nuovi mezzi di trasporto sono indispensabili la benzina e gli altri derivati del petrolio, che si imporranno come fonti di energia determinanti per lo sviluppo industriale. Ma tra i nuovi mezzi di trasporto non bisogna dimenticare i tram elettrici, che diventano elemento primario del contesto urbano, e la bicicletta, originalissimo mezzo meccanico, che si muove con il solo impiego dell’energia umana (cfr. DATI, tav. ). Tutte queste invenzioni hanno notevole incidenza sulla cultura, producono modificazioni fortissime nella mentalità e nell’immaginario stesso: ma un impatto ancor piú diretto hanno i nuovi mezzi di registrazione dell’immagine e della voce. Anzitutto si sviluppa la fotografia, che fa le sue prime prove già negli anni Trenta, e che nella seconda metà dell’Ottocento ha già una grande diffusione. Il mondo comincia a popolarsi di immagini che riproducono artificialmente qualsiasi figura, volto, paesaggio reale, con una fedeltà agli originali molto maggiore di quella raggiungibile dai pittori piú scrupolosamente realisti. Verso la fine del secolo si scopre poi la possibilità di proiettare le immagini in movimento, e le sperimentazioni dei fratelli Lumière portano alla nascita del cinema, che già nel primo decennio del nuovo secolo produce spettacoli destinati a un pubblico di massa (specialmente in Francia e in America). Intanto l’invenzione del fonografo rende possibile la riproduzione della voce umana e di ogni suono.

Questa vorticosa serie di invenzioni e di sperimentazioni tecniche, che non ha precedenti nella storia dell’umanità, porta il mondo occidentale verso una nuova modernità, fatta di modificazioni materiali e pratiche, e capace di mutare radicalmente lo stesso aspetto fisico della vita. Al centro di questa modernità sono le città, soprattutto le grandi metropoli, dove piú è possibile entrare in contatto con le infinite merci accumulate dalla produzione industriale. Nella città la vita sociale si configura come complessa organizzazione di servizi e di scambi. Il rapporto del cittadino con gli altri è filtrato da varie strutture che egli non può, né deve controllare personalmente: chi partecipa alla vita cittadina è membro di un «pubblico», di una massa di fruitori di servizi e di compratori di merci; e in questo orizzonte si crea il nuovo meccanismo della pubblicità. Le nuove forme di benessere e la nuova organizzazione della vita borghese conferiscono un ruolo del tutto diverso alla donna, nel suo rapporto con la cultura, con l’educazione, con le forme dell’intrattenimento sociale: se solo in rarissimi casi vengono accettate nel mondo del lavoro e se rimangono completamente escluse dalla vita politica, le donne borghesi si vedono tuttavia riconosciuto lo spazio della cultura e dell’educazione, la coltivazione dei valori e dei sentimenti (tutto ciò anche per effetto della diffusione sociale di alcuni modelli romantici). Del resto anche la donna è consumatrice di merci e in ciò è la premessa per la sua emancipazione. Già alla fine del secolo XIX nei paesi piú emancipati hanno luogo le prime manifestazioni del femminismo che culminano in Inghilterra nella battaglia per l’estensione alle donne dei diritti elettorali, con la Women’s Social and Political Union fondata nel .



Nuovi mezzi di comunicazione

Nuovi mezzi di trasporto: l’automobile

Fotografia, cinematografia e fonografo

Trasformazione della vita quotidiana

Pubblico e comunicazione commerciale La donna borghese

Origine del femminismo

EPOCA





LA NUOVA ITALIA

-

... La nuova Italia: orizzonti sociali, politici, ideologici. Il paese reale

Unificazione amministrativa e centralizzazione dei mercati

La questione meridionale

La coscienza della borghesia italiana

In Italia il raggiungimento dell’unità politica, dopo secoli di dominazione straniera e di particolarismi regionali, impone uno sforzo di unificazione reale delle strutture delle istituzioni, delle condizioni materiali, delle mentalità e delle abitudini sociali, in un paese che presenta situazioni tra loro lontanissime e inconciliabili, dai modi di sviluppo industriale e borghese del Nord, alla sopravvivenza di forme di tipo feudale nel Sud. Lo sviluppo del capitalismo italiano si trovò a dover fare i conti con la frantumazione del paese e si concentrò soprattutto in alcune zone dell’Italia settentrionale, che godevano di condizioni favorevoli per tutta una serie di fattori storici, economici e sociali. L’inflessibile politica di unificazione amministrativa, giuridica, istituzionale del paese intrapresa dai governi del nuovo Stato unitario creò d’altra parte le condizioni per una omogeneizzazione del mercato e finí per favorire la capacità di iniziativa e di penetrazione di gruppi economici già costituiti, che furono fortemente appoggiati dallo Stato. La frattura tra il Nord e il Sud si rivelò un ostacolo insormontabile all’effettiva unificazione del paese, a ogni ipotesi di sviluppo organico e coerente: la questione meridionale (cfr. DATI, tav. ) apparve subito in tutta la sua evidenza a quanti, anche da posizioni conservatrici, miravano a creare strutture civili unitarie, senza discriminazioni tra le diverse zone del paese. Le varie tensioni dovute alle difficoltà dello sviluppo, alla cattiva integrazione tra le diverse regioni e alla frattura fra Nord e Sud non impedirono il formarsi presso le classi dirigenti di una coscienza borghese e liberale di tipo piuttosto omogeneo: esse sentivano di appartenere a una nazione che aveva espresso il meglio di sé nelle lotte del Risorgimento e che cercava ora di ritrovare il posto di rilievo assegnatole dalla tradizione entro la civiltà europea. Tra remore di vari tipi, la nostra borghesia cercò di adeguare i suoi comportamenti e i suoi modi di vita a quelli della grande borghesia europea, pur avvertendo i limiti del pro-

LA QUESTIONE MERIDIONALE DATI

tav. 170

La questione meridionale ha costituito uno dei nodi essenziali della vita sociale, economica, politica e culturale italiana dopo l’unità: la creazione dello Stato unitario mostrò infatti quanto diverse fossero le condizioni tra il Nord e il Sud del paese e quanto pesasse nel Sud la secolare sopravvivenza di antiche strutture economiche, di forme di oppressione e di arretratezza. Il modo in cui le strutture dello Stato vennero impiantate al Sud, la durezza con cui fu represso il fenomeno del brigantaggio, il mantenimento e l’adattamento di antichi privilegi alla nuova situazione, il sorgere di nuove clientele e di nuove forme di oppressione, parvero addirittura aggravare il divario tra un Settentrione tendente a uno sviluppo industriale di tipo europeo e un Meridione immerso ancora in una società agricola immobile. Lo stesso sviluppo del Nord verso il moderno capitalismo aggravò la condizione delle masse meridionali, generando contraccolpi di estrema gravità, che trovarono uno sfogo parziale nell’emigrazione transoceanica. Il confronto tra le arretrate condizioni della società meridionale e l’aspirazione a una moderna civiltà borghese di tipo europeo creò in molti intellettuali meridionali un senso di sradicamento, che si espresse in grandi esperienze letterarie (cfr. .). Numerosi furono coloro che elaborarono proposte politiche, suggerendo ipotesi di riforme che rimediassero ai mali della società meridionale e creassero un nuovo equilibrio tra Nord e Sud. Nella vasta letteratura «meridionalistica», ricordiamo le Lettere meridionali pubblicate nel  da Pasquale Villari (cfr. ..) e l’Inchiesta in Sicilia, apparsa nel , di due liberali conservatori di grande intelligenza come LEOPOLDO FRANCHETTI (-) e SIDNEY SONNINO (-), direttori della «Rassegna settimanale»; l’attività di PASQUALE TURIELLO (-), di GIUSTINO FORTUNATO (-) e di Gaetano Salvemini (cfr. ..). Un intervento decisivo nella questione meridionale si ebbe con Gramsci e con l’ipotesi di una nuova alleanza storica tra la classe operaia del Nord e quella contadina del Sud. Questa ipotesi dominerà la politica della sinistra dopo la seconda guerra mondiale, mentre una varia letteratura, specialmente negli anni del neorealismo, richiamerà di nuovo l’attenzione sulla concreta vita sociale del Sud (in questo senso il documento piú intenso e sconvolgente sarà fornito dal settentrionale Carlo Levi).

. L’ITALIA BORGHESE E LIBERALE NELLA SOCIETÀ E NELLA CULTURA EUROPEA

prio provincialismo, come se qualche forza nemica venisse a ostacolare una nuova, piena e gloriosa espansione della civiltà italiana (e di qui scaturirono pulsioni aggressive e nazionalistiche che si fecero sentire sempre piú fortemente con il nuovo secolo). I modelli borghesi furono raccolti e fatti propri da una classe sempre piú ampia di impiegati e funzionari, dalla nuova piccola borghesia, che si formò con l’espansione delle strutture dello Stato unitario e che divenne una sorta di ossatura del paese, ramificata e presente su tutto il territorio nazionale, piena di frustrazioni, di risentimenti, di velleità politiche e intellettuali (in questa piccola borghesia la produzione culturale trovò un nuovo ampio pubblico). Una nuova e moderna serie di tensioni sociali fu originata dalla pressione operaia, dalla diffusione del socialismo, dalle lotte nelle fabbriche e nelle città (che trovarono echi e ripercussioni anche nel mondo contadino): in molti settori della borghesia si diffuse una vera e propria paura del socialismo, a cui contribuí lo spettro minaccioso della Comune di Parigi del  e che fu amplificata dalle sommosse degli anni Novanta. Superata la fase della violenta repressione, la spinta del socialismo, pur controllata dalla attenta e moderata politica di Giolitti, ottenne dei successi (come il grande sciopero generale del ) che lasciarono profonda impressione in tutto il paese e stimolarono nella borghesia e nella piccola borghesia una aggressiva volontà di rivalsa. Il modo in cui era stata realizzata l’unità e i nuovi problemi generati dal nuovo Stato unitario portarono a un rapidissimo esaurimento delle ideologie maturate negli anni della lotta risorgimentale. La gestione dei nuovi poteri toccò a un liberalismo conservatore, ma orientato in senso laico, che non si identificò con una precisa struttura partitica, si collegò a orientamenti ideologici e filosofici diversi ed ebbe espressioni, tendenze e sfumature differenti. Una posizione come quella di De Sanctis (cfr. .) rappresenta l’esito piú avanzato di questo liberalismo dominante sulla scena politica postunitaria, ancora vivamente legato all’eredità risorgimentale; ma altri personaggi di orientamento liberale, intellettualmente vicini a De Sanctis, rinunciarono molto presto a ogni ipotesi di rinnovamento radicale e si collocarono su posizioni di realismo politico, tendenti a giustificare, sulla base della filosofia hegeliana, la funzione equilibratrice della monarchia. L’eredità teorica della tradizione liberale venne raccolta e sintetizzata nell’opera di Benedetto Croce, che già all’inizio del Novecento poneva le basi per una sua vera e propria egemonia su tutta la cultura italiana (cfr. .. e soprattutto ..).



Il ceto impiegatizio

Paura del socialismo

Il liberalismo postunitario

Tra riformismo e moderatismo

MODERNISMO

Movimento religioso che prende avvio nella fase finale del secolo XIX e che assume grande rilievo in Francia e in Italia, con il proposito di confrontare il cattolicesimo con le piú essenziali acquisizioni della cultura e della civiltà moderna. Esso si svolge in un primo momento nel campo dell’esegesi biblica e degli studi teologici, cercando di farvi valere un nuovo metodo «positivo» e scientifico; tiene conto in modo particolare dell’evoluzionismo – nelle sue forme piú moderate – applicandone gli schemi alla storia della rivelazione (fino a interpretare tutta la storia del cristianesimo come storia dell’evoluzione della presenza di Dio nel mondo). Il modernismo ebbe le piú avanzate soluzioni filosofiche in Francia, nel primo decennio del Novecento; in Italia si incontrò con la tradizione del cattolicesimo liberale e trovò uno dei suoi organi piú vivaci nella rivista «Il Rinnovamento» (pubblicata tra il  e il ), mirando soprattutto a un’azione sociale e al rinnovamento della Chiesa e delle sue strutture. Sullo scorcio del primo decennio del Novecento, il diffondersi del modernismo suscitò dure condanne da parte della Chiesa, culminate nell’enciclica del papa Pio X Pascendi ( settembre ). Si deve tener presente che nelle lingue anglosassoni il termine modernism indica invece varie forme di manifestazione culturale della «modernità» (e varie esperienze artistiche che si sviluppano alla fine dell’Ottocento); nella penisola iberica si definiscono in particolare con il termine di modernismo una serie di esperienze e movimenti letterari che si svolgono in Spagna e Portogallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.

PAROLE

tav. 171

EPOCA



Il radicalismo e Felice Cavallotti

Il movimento socialista in Italia

Filippo Turati

Antonio Labriola e la tradizione marxista

Leone XIII e la solidarietà sociale

Romolo Murri ed Ernesto Buonaiuti



LA NUOVA ITALIA

-

La tradizione repubblicana e mazziniana restò comunque viva, specialmente in alcune particolari zone d’Italia, ma non riuscí piú a incidere sui processi reali; fu rappresentata in parlamento da oratori veementi e pittoreschi, ma non fruí di un’adeguata elaborazione ideologica, e si intrecciò ad altre tendenze di opposizione, in primo luogo al radicalismo anticlericale; occorre ricordare, tra gli esponenti della sinistra repubblicana e radicale, la generosa figura del milanese FELICE CAVALLOTTI (-). Ben diverso peso assunse, sul piano delle ideologie politiche, il movimento socialista, che del resto si rapportava a un ricco patrimonio intellettuale, elaborato in Europa già a partire dalla prima metà dell’Ottocento (e in Italia originalmente avvicinato già da Carlo Pisacane). Dopo una prima fase di incubazione, segnata dall’influsso mazziniano, e dopo una forte diffusione di orientamenti anarchici, le varie tendenze del socialismo italiano confluirono nella fondazione del Partito dei lavoratori italiani (), poi Partito socialista dei lavoratori italiani (). Strumento fondamentale della riflessione ideologica del socialismo italiano fu la rivista «Critica sociale», fondata nel  da FILIPPO TURATI (-), che fu a lungo il leader del socialismo italiano. Gli sviluppi teorici piú rilevanti vennero dalle componenti marxiste, che trovarono una vigorosa sintesi nell’opera di ANTONIO LABRIOLA di Cassino (-), studioso della filosofia hegeliana, professore di filosofia della storia a Roma dal , che con i suoi studi e le sue polemiche ispirò tutta la successiva tradizione marxista italiana. Ricordiamo soltanto i due fondamentali saggi di Labriola: In memoria del Manifesto dei comunisti () e Del materialismo storico. Delucidazione preliminare (). Per il mondo cattolico, gli anni successivi all’unità rappresentano un momento di chiusura: esso rifiuta qualsiasi confronto con il mondo moderno e qualsiasi elaborazione teorica che dia un nuovo senso all’identità dei cattolici. Di fronte ai nuovi problemi sociali la Chiesa cerca d’altra parte di assumere un ruolo di mediazione: il papa Leone XIII (-) interviene varie volte a definire, nei confronti dello sviluppo capitalistico, una dottrina che propone la solidarietà con i piú deboli, invita all’armonia e alla pace sociale, condanna il socialismo e tutti i propositi di mutamento dell’ordine costituito (il documento piú noto in questo senso è l’enciclica Rerum novarum, ). Negli ultimi anni del secolo XIX e all’inizio del nuovo secolo il mondo cattolico tenta di uscire dal suo isolamento politico e culturale, nonostante l’opposizione delle gerarchie ecclesiastiche (che vietano per lungo tempo il diretto impegno politico dei cattolici all’interno delle strutture dello Stato). ROMOLO MURRI (-) tentò di creare un movimento democratico cristiano che portasse i cattolici a partecipare attivamente alla vita politica su posizioni progressiste. Maggiori ambizioni e piú forte risonanza sul piano culturale ebbe l’opera di ERNESTO BUONAIUTI (-): egli percorse la strada del modernismo (cfr. PAROLE, tav. ), dopo la cui condanna pubblicò le Lettere di un prete modernista ().

EVOLUZIONISMO PAROLE

tav. 172

Concezione che vede l’intero universo e i diversi organismi come regolati da una continua evoluzione: la vita cambia di continuo i suoi caratteri, seguendo un ordine progressivo che porta incessantemente da stadi inferiori a stadi superiori. Nelle piú diverse scienze una concezione evoluzionistica si sviluppa in vari modi già nel Settecento; ma verso la metà dell’Ottocento essa si impone in modo risolutivo nel campo della biologia, con la grande opera dell’inglese Charles Darwin (-), On the Origin of Species (“Sull’origine delle specie”, ). A partire dal grande modello di Darwin, la cultura positivistica recepisce l’evoluzionismo (indicato anche, in modo piú specifico, con il termine darwinismo) in tutti i campi del sapere, e in particolare in quello delle scienze storiche e sociali. La filosofia di Herbert Spencer (-) divulga variamente, in tutta Europa, un evoluzionismo sociale, che induce a considerare gli stessi corpi sociali e le loro forme culturali come organi viventi in continua trasformazione nel senso dell’accrescimento e del perfezionamento.

. L’ITALIA BORGHESE E LIBERALE NELLA SOCIETÀ E NELLA CULTURA EUROPEA



... Le tendenze dominanti della cultura europea. Una sensibilità di tipo romantico era ancora assai diffusa nell’esistenza quotidiana, soprattutto nei comportamenti giovanili, negli atteggiamenti femminili, negli affetti e nelle passioni amorose, ma la cultura dell’epoca che stiamo studiando non può piú essere compresa sotto l’etichetta del Romanticismo. Nei termini piú generali e sociali la cultura europea della seconda metà dell’Ottocento appare dominata dal positivismo (cfr. .. e PAROLE, tav. ), che condiziona l’esperienza tecnica e scientifica e sostiene il fortissimo sviluppo delle scienze naturali e delle scienze esatte. Le scienze della natura, con le loro scoperte e i loro successi, si pongono come modello di conoscenza e di ricerca, anche nell’ambito della realtà umana, storica e sociale: si estendono cosí a ogni campo culturale il criterio sperimentale della verifica, il confronto con i fatti e il rifiuto di categorie tradizionali non controllate. Ma siamo anche molto lontani dall’Illuminismo settecentesco: il progresso non si commisura direttamente ai principî della ragione, ma a quelli della fattualità; non si fanno battaglie per creare una nuova realtà basata su principî razionali, ma ci si impegna piuttosto a ricavare idee e giudizi dai dati offerti dalla realtà fisica. Fra tutte le teorie scientifiche che vengono elaborate all’interno delle diverse discipline, ha un rilievo centrale l’evoluzionismo (cfr. PAROLE, tav. ), che si pone come guida e schema di interpretazione di tutta la realtà umana, come vero e proprio strumento teorico del positivismo. La concezione delle realtà storiche come complessi organici, la cui trasformazione ed evoluzione è regolata da leggi costanti, si riallaccia d’altra parte a certa storiografia romantica e alle nuove scienze umane sviluppatesi nella prima metà del secolo XIX, come la sociologia (cfr. PAROLE, tav. ), che si organizza in un orizzonte positivistico partendo proprio da premesse definitesi in età romantica. Ma la storiografia positivistica cerca, molto piú di quella romantica, la verifica dei fatti, accumulando e confrontando elementi concreti, notizie e documentazioni particolari. L’accurato riscontro dei dati, facilitato dai nuovi mezzi tecnici a disposizione, agisce fortemente anche sulla filologia e sull’archeologia, e permette di interrogare realtà che erano sempre sfuggite alla ricerca sperimentale, come le società preistoriche e quelle che non hanno lasciato tracce di scrittura o di architettura. L’espansione coloniale incrementa i contatti con popoli non ancora toccati da forme avanzate di sviluppo: nasce da questo un’altra disciplina, che conoscerà uno straordinario sviluppo nel secolo XX, l’antropologia (cfr. PAROLE, tav. ). Ma mentre il positivismo, pur in forme diverse, appare comunque guidato da una sostanziale fiducia nel progresso civile, dalla convinzione che i caratteri che questo assume

L’età del positivismo Sviluppo delle metodologie scientifiche

Applicazioni dell’evoluzionismo

La ricerca dei dati, la storiografia e le scienze umane

Le filosofie antiborghesi

SOCIOLOGIA

Parola composita, costruita sul termine latino societas, “società”, e su quello greco lógos, “discorso” (significa dunque “discorso sulla società”): il suo inventore fu il filosofo positivista Auguste Comte (cfr. PAROLE, tav. ), che ne fece uso nel Cours de philosophie positive (), per indicare lo «studio positivo delle leggi fondamentali che son proprie dei fenomeni sociali». Nel corso dell’Ottocento si sviluppò un’amplissima serie di studi volti ad analizzare da vicino i fenomeni sociali, alla stregua di fenomeni naturali, con metodi e strumenti d’indagine ricavati dalle scienze fisico-matematiche o modellati su di esse: la storiografia ottocentesca sviluppò cosí vari orientamenti di tipo sociologico, tendenti a spiegare lo sviluppo storico e culturale con le strutture della società e con le loro trasformazioni. In questo senso un peso importante ebbe lo studio delle strutture sociali compiuto da Marx (cfr. ..), che non si poneva però sul piano di una indagine neutrale dei fenomeni sociali, ma ne ricostruiva i processi nel loro carattere dinamico, in vista di una trasformazione rivoluzionaria della società. La sociologia moderna, legata a precise ricerche su situazioni concrete e a un’approfondita verifica teorica del proprio metodo e dei propri strumenti, si inaugura con l’attività di Max Weber (cfr. ..), di Vilfredo Pareto (cfr. ..), del francese Emile Durkheim (-).

PAROLE

tav. 173

EPOCA



Il marxismo

Il capitale

Max Weber e Sigmund Freud

Le teorie irrazionalistiche



LA NUOVA ITALIA

-

nel mondo contemporaneo sono i soli praticabili, altre filosofie e altri atteggiamenti corrodono questa fiducia, prospettando una critica radicale ai valori su cui si basa la società borghese, o scoprendo nuove sfere e modi di organizzazione dell’esperienza che sfuggono a ogni stretto controllo fattuale e «positivo». Dalla filosofia tedesca e da una critica interna all’idealismo hegeliano (cfr. ..) si sviluppa il nuovo materialismo storico e dialettico di Karl Marx (-) e di Friedrich Engels (-), che diventa la filosofia del socialismo scientifico e del comunismo: esso critica rigorosamente tutte le forme di socialismo umanitario, anarchico e utopistico, e si pone come interpretazione globale dei processi storici e come analisi generale della società capitalistica. Un cardine dell’analisi marxista è la critica dell’economia politica: essa nega il carattere assoluto e inevitabile dei meccanismi della nuova scienza economica borghese e, interpretando i dati concreti del modo di produzione capitalistico, individua la necessità e la possibilità di un suo rovesciamento, che porti a una socializzazione dei mezzi di produzione e a un libero sviluppo delle forze produttive dell’umanità. L’ultima grande opera di Marx, Das Kapital (“Il capitale”), il cui primo libro apparve nel , costituisce un grande monumento di scienza economica e uno dei maggiori contributi alla lotta per l’emancipazione delle classi lavoratrici. Il marxismo ebbe un peso determinante nella storia culturale per la sua critica delle ideologie e per il modo in cui individuava il legame tra elaborazioni ideologiche e struttura economica delle società in cui esse venivano prodotte. Nel campo della sociologia si avvertí per contro come i fenomeni sociali non fossero ricostruibili secondo schemi rigidamente evoluzionistici, ma implicassero una serie di fattori ideologici e comportamentali (essenziale a tal proposito l’opera di Max Weber, ). Dal terreno della psichiatria clinica si sviluppò l’opera rivoluzionaria di Sigmund Freud (-), il fondatore della psicoanalisi (cfr. PAROLE, tav. ), che rivolgeva lo sguardo all’ambito inesplorato dell’inconscio e mostrava come dietro tutte le espressioni e i comportamenti dell’uomo agissero desideri e pulsioni sessuali, radicati nell’infanzia e mai completamente risolti. A questi ridimensionamenti della razionalità positivistica, che riguardano ambiti scientifici particolari, se ne accompagnano altri piú radicali. Tutta l’epoca positivistica e borghese è percorsa in effetti da filosofie e da atteggiamenti di tipo irrazionalistico, che si riallacciano spesso a orientamenti romantici, rivendicano il valore assoluto di esperienze religiose o svolgono prospettive radicalmente pessimistiche.

ANTROPOLOGIA PAROLE

tav. 174

Parola formata sul greco (dove esiste l’aggettivo anthropólogos, “che parla dell’uomo”), indicante in generale lo studio dell’uomo e delle sue condizioni naturali, biologiche, sociali, culturali: questo studio, presente anche in antiche concezioni filosofiche e religiose, comincia a svilupparsi in senso scientifico nel secolo XVI. Ma solo nel corso del secolo XIX l’antropologia si definisce come una vera e propria disciplina, con aspetti e orizzonti diversi. Da una parte essa si sviluppa attraverso rilievi di tipo fisico e biologico, che tendono a far risalire le differenze di cultura e di civiltà a ineluttabili differenze naturali (è un’antropologia naturale, quasi sempre di carattere «razzistico»). In altra direzione essa si svolge attraverso precise indagini sulle differenze linguistiche, le condizioni culturali, gli usi e i costumi dei vari popoli, con una particolare attenzione (di origine romantica) per le forme originarie della vita popolare: in questo senso si pone piú specificamente come etnologia (cioè studio della vita dei popoli, dal greco éthnos, “popolazione”, e lógos, “discorso”), che predilige lo studio del folclore (cfr. PAROLE, tav. ). Dal seno degli studi etnologici si sviluppa, sempre nel corso del secolo XIX, l’antropologia culturale, che si dedica allo studio piú ampio delle forme di comportamento dell’uomo, delle regole e delle funzioni culturali su cui si basa la vita di qualunque civiltà. Gli studi antropologici hanno conosciuto sviluppi assai ampi tra Ottocento e Novecento: essi si sono posti in primo luogo come studi etno-antropologici, come ricerche sempre piú accurate sulla vita

. L’ITALIA BORGHESE E LIBERALE NELLA SOCIETÀ E NELLA CULTURA EUROPEA

Ma la teoria piú radicale e piú distruttiva è quella elaborata da Friedrich Nietzsche (-), che cerca fondamenti «ultimi», ciechi e negativi, di ogni comportamento e di ogni valore annunciando la «morte di Dio» e lo svolgersi di un mondo umano al di là dell’umano, basato sull’assoluto presente, sulla negazione dei valori del passato e sul trionfo di una Wille zur Macht, “volontà di potenza”. Dal rifiuto dell’immagine meccanica e quantitativa della realtà fornita dal positivismo prende avvio la filosofia di Henri Bergson (-), che verso la fine del secolo rivendica il valore dell’intuizione, il carattere qualitativo della realtà, individuabile attraverso concetti come durée, “durata”, e mémoire, “memoria”. Nello stesso orizzonte culturale si sviluppano, all’inizio del nuovo secolo, varie filosofie della vita, di tipo irrazionalistico, che rivendicano il valore assoluto della vitalità, la forza espansiva di principî non definibili in termini sperimentali. Il senso della modernità, che domina le piú varie manifestazioni della cultura del primo Novecento, è ispirato dai nuovi innumerevoli oggetti prodotti dalla tecnica, che modificano la stessa percezione della realtà, ma spesso si esprime nelle tendenze irrazionalistiche delle filosofie della vita: la modernità del nuovo secolo sembra imporsi prepotentemente, spazzando via proprio quei metodi positivi che avevano creato le condizioni per la sua nascita; la tecnica possiede una forza espansiva non controllabile e la borghesia ne trae un’ideologia che aspira a una vitalità assoluta e totale, tesa solo a espandere se stessa, senza piú confini, senza le vecchie cautele e le ipocrisie del passato.



Friedrich Nietzsche

Henri Bergson

Le filosofie della vita

... Il positivismo e le nuove scienze. A parte il caso tutto particolare costituito da Carlo Cattaneo, che rimase senza un vero seguito, la penetrazione ufficiale del positivismo nella cultura italiana viene solitamente fissata al , data in cui apparve su «Il Politecnico» il saggio di un antico allievo di De Sanctis, il napoletano Villari, dal titolo La filosofia positiva e il metodo storico. PASQUALE VILLARI (-) fu uno dei maggiori storici del tempo, studioso di Savonarola e di Machiavelli, impegnato a fondare le proprie indagini su una documentazione precisa, sulla verifica di dati circostanziati (grande rilievo ebbero anche i suoi interventi sulla questione meridionale, cfr. DATI, tav. ). L’ambito della cultura italiana maggiormente segnato dal positivismo fu quello della ricerca storica: la creazione dello Stato unitario e di strutture di documentazione centralizzate (come

di popolazioni ancora estranee allo sviluppo della moderna civiltà industriale; ma l’ottica di tipo antropologico si è rivolta anche verso tutte le forme di vita delle civiltà storiche e della stessa civiltà contemporanea. L’antropologia si è aperta a una considerazione globale delle varie forme culturali umane, attenta all’intreccio tra i piú diversi livelli di esperienza che costituiscono l’essere individuale e sociale dell’uomo: si è posta come il punto d’incontro delle nuove scienze umane, dalla sociologia alla psicoanalisi, alla semiotica, alla linguistica ecc. (cfr. PAROLE, tavv. , ). Piú di recente, l’antropologia è stata un punto di riferimento essenziale per lo strutturalismo (cfr. TERMINI BASE ), con l’antropologia strutturale del francese Claude Lévi-Strauss (nato nel ). La semiotica (cfr. TERMINI BASE ), studiando le forme della comunicazione tra gli uomini, a sua volta si è posta direttamente come studio globale della cultura, e quindi in chiave antropologica, come mostra l’attività degli studiosi sovietici Jurij M. Lotman (nato nel ) e Boris A. Uspenskij (). Nel campo piú specifico degli studi etno-antropologici, in Italia ha avuto un particolare sviluppo lo studio della cultura delle classi subalterne, e in particolare dei riti e delle tradizioni delle diverse regioni, soprattutto meridionali: grande rilievo di metodo e di pratica, in questi studi, ha assunto l’attività di ERNESTO DE MARTINO (-), che li ha affrancati dalle riserve che su di essi ha fatto pesare a lungo l’idealismo crociano, e ha aperto la via all’attività scientifica di numerosi e valenti studiosi.

Pasquale Villari

Positivismo e ricerca storica

EPOCA



Cesare Lombroso

Vilfredo Pareto

Gaetano Mosca



LA NUOVA ITALIA

-

gli Archivi di Stato) stimolò una serie di ricostruzioni concrete e minute e la raccolta dei dati riguardanti vari momenti della storia nazionale: un’attività che si riallacciava, ma con mezzi piú moderni, al grande lavoro svolto dagli eruditi del Settecento (cfr. ..). Questa scuola storica, che spesso si appoggiò su principî di tipo evoluzionistico, dominò anche nel campo delle ricerche sulla letteratura: a essa si collegò in parte anche il lavoro critico del Carducci; suo autorevole strumento fu il «Giornale storico della letteratura italiana», fondato nel . Il positivismo si impose anche nelle scienze sociali, specialmente attraverso l’opera del veronese CESARE LOMBROSO (-), che studiò le forme dell’anormalità e della devianza sociale, facendole risalire a caratteri somatici e psicologici fissati fin dalla nascita e atavici (cioè ereditati dagli antenati). Di matrice positivistica fu anche la ricerca di VILFREDO PARETO (-), economista e sociologo, il cui lavoro culminò nel grande Trattato di sociologia generale (). Egli si propose un’analisi spregiudicata delle forme della vita sociale, attenta all’evidenza dei «fatti». L’equilibrio sociale si regge per lui sulla disuguaglianza e sul rapporto tra gruppi che gestiscono il potere e gruppi a essi sottoposti: la trasformazione sociale è determinata dal ricambio dei gruppi governanti, che egli definisce circolazione delle élites. Da queste premesse egli giunge a mettere in luce i caratteri distruttivi su cui si fondano la vita sociale e lo stesso sviluppo storico. Una risonanza internazionale ebbe anche, nel campo della scienza della politica, il pensiero di GAETANO MOSCA (-), che mise in luce il carattere separato dei corpi di governo (di quella che egli chiama «classe politica») rispetto alla piú generale struttura della società. La teoria di Mosca offre un’articolata giustificazione alla tendenza dei tecnici e dei gestori della politica a costituirsi in gruppi separati, riflessione che può ancora essere utile per interpretare l’espandersi delle burocrazie e dei gruppi di potere nel corso del secolo XX.

... Intellettuali e istituzioni culturali. Partecipazione istituzionale

La creazione del nuovo Stato unitario comportò un totale riassestamento delle istituzioni culturali e una ridefinizione dei rapporti degli intellettuali con le istituzioni stesse. Nel periodo della lotta risorgimentale si era creata una frattura tra gran parte degli intellettua-

PSICOLOGIA PAROLE

tav. 175

/ PSICOANALISI

La psicologia (dal greco psyché, “anima”, e lógos, “discorso”) ha sempre costituito un aspetto importante di tutte le filosofie che hanno cercato di spiegare i comportamenti mentali e di distinguere diverse componenti dell’anima umana, ma si è definita in senso scientifico solo tra il Settecento e l’Ottocento, quando si è rivolta alla verifica sperimentale dei comportamenti, dei meccanismi interiori, delle azioni e delle reazioni che avvengono nella mente, e ha iniziato a elaborare categorie teoriche, che prescindono da richiami al mistero o a valori ultraterreni. Nell’orizzonte positivistico, la psicologia, con sviluppi in molteplici direzioni, cerca di far risalire la vita mentale e sentimentale dell’uomo alla sua condizione naturale e biologica, spiegandone tutti gli aspetti nel quadro delle determinazioni poste dalla realtà esterna. Ma già verso la fine dell’Ottocento anche la psicologia tende a porre l’accento sui caratteri particolari della realtà mentale e a sganciarsi da prospettive deterministiche e naturalistiche. Non coincide con il dominio piú vasto della psicologia la psicoanalisi, che ha assunto un rilievo centrale in tutta la cultura del Novecento, e in particolare nella letteratura. La psicoanalisi è infatti un metodo di indagine e di terapia della vita interiore dell’uomo, sorto sulla base di un confronto con la psicologia e con i metodi clinici in uso nel secondo Ottocento per opera del medico viennese Sigmund Freud (cfr. ..): rovesciando le tradizionali impostazioni che facevano risalire alcune malattie mentali a dati organici, Freud affermò il rilievo essenziale che, nell’equilibrio dell’individuo, assumono tutta una serie di impulsi e di contenuti emotivi che non gli è possibile esprimere direttamente e che vengono quindi rimossi, cancellati dalla coscienza, relegati in una zona della psiche che egli definisce con il termine di inconscio. La necessità di risalire all’origine dei processi di rimozione induce a rivol-

. L’ITALIA BORGHESE E LIBERALE NELLA SOCIETÀ E NELLA CULTURA EUROPEA



li e le istituzioni statali (a parte il caso del Piemonte negli anni Cinquanta); ora si tenta di integrare le forze culturali in strutture pubbliche che vogliono essere espressione di una coscienza nazionale e realizzare quell’unità di sforzi intellettuali che non era mai stata possibile nella nostra storia. Molti intellettuali, già impegnati nelle lotte del Risorgimento, partecipano ora direttamente alla nuova vita politica dello Stato unitario, sedendo nel parlamento o addirittura nel governo (è il caso, particolarmente rilevante, di Francesco De Sanctis): si crea una nuova figura di intellettuale-politico e nasce un nuovo tipo di cultura «parlamentare», legata alla dialettica della vita politica. Ma la cultura e il lavoro intellettuale penetrano nella realtà sociale in modo piú diffuso e articolato grazie alle specifiche istituzioni di insegnamento e di ricerca, che aggregano un crescente numero di intellettuali al servizio dello Stato: la scuola e l’università ricevono una attenzione di primo piano, in quanto strumenti essenziali per l’unificazione culturale del paese e luoghi di lavoro di molti intellettuali. Oltre alla creazione di una ampia rete scolastica, il nuovo Stato unitario provvede a una riorganizzazione delle università, a una omogeneizzazione delle loro strutture; si forma una classe di professori di alto livello e prestigio, che dà nuova vitalità a tutto il mondo accademico. È assai frequente il caso di intellettuali e scrittori di grande rilievo il cui lavoro viene riconosciuto pubblicamente con l’attribuzione di una cattedra universitaria o che svolgono gran parte della propria attività all’interno dell’università; a molti intellettuali (di origine borghese o piccolo-borghese) lo stipendio universitario garantisce spesso una vita di studio e di ricerca. Tra gli universitari troviamo non soltanto filosofi, storici, critici, scienziati, giuristi, ma anche alcuni tra i maggiori poeti dell’epoca, come Carducci e Pascoli. Oltre alle strutture scolastiche e universitarie, ricevettero particolare attenzione e sostegno pubblico altri organismi di ricerca e di incontro tra gli intellettuali, come le antiche accademie (per esempio fu rilanciata la romana Accademia dei Lincei, cfr. DATI, tav. ) o le deputazioni di storia patria (che si svilupparono in varie regioni impegnandosi nello studio della storia locale). Per la raccolta della documentazione storica si organizzarono Archivi di Stato, che raccoglievano l’eredità di precedenti istituzioni regionali, e una serie di provvedimenti di ristrutturazione riguardarono le grandi biblioteche (ma cfr. DATI, tav. ).

gere d’altra parte una particolare attenzione all’infanzia, al nesso di desideri e di divieti che il bambino ha subito nei suoi originari rapporti con i genitori. Sullo studio delle rappresentazioni e dei comportamenti originati dai contenuti inconsci si fonda sia il diretto lavoro terapeutico, che mira a trarre alla luce della coscienza i contenuti rimossi (spesso espressi in sintomi inconsci), sia l’analisi delle piú diverse manifestazioni della vita mentale e culturale dell’uomo (a partire dal sogno, studiato da Freud in Die Traumdeutung, “L’interpretazione dei sogni”, , per arrivare al lapsus, al motto di spirito, alle forme letterarie e artistiche). Con la scoperta dell’inconscio e dell’azione che sulla vita dell’uomo hanno i desideri (la cui fonte primaria è sempre di tipo sessuale), Freud ha suscitato nella civiltà contemporanea un nuovo ed eccezionale interesse per tutti gli aspetti della vita individuale che solitamente venivano relegati ai margini, considerati «bassi» o inconfessabili; ha mostrato che nel mondo borghese la malattia mentale sorge spesso dalla rete di divieti e di interdizioni che la società costruisce sui desideri originari; ha messo in opera un nuovo metodo di interpretazione (cfr. TERMINI BASE ), rivolto a cercare in ogni espressione e in ogni comportamento dei contenuti latenti, non esplicitamente manifesti. Muovendo dall’insegnamento di Freud, la psicoanalisi si è sviluppata in una serie amplissima di studi, di esperienze, di scuole diverse. La letteratura e l’arte hanno costituito strumenti essenziali per lo sviluppo di queste teorie. Molti psicoanalisti nel corso di questo secolo hanno studiato le forme artistiche e letterarie, ma anche molti critici e studiosi della letteratura hanno utilizzato, nei loro studi, strumenti tratti dalla psicoanalisi (cfr. TERMINI BASE ).

L’intellettualepolitico

Scuola e università

I docenti universitari

Altre istituzioni

EPOCA





LA NUOVA ITALIA

-

La cultura giuridica

Un peso determinante, nella formazione di modelli culturali, ebbe l’istituzione giuridica, rappresentata sia dalla nuova classe dei magistrati statali, sia dal vario mondo degli avvocati.

L’unificazione culturale del paese

Creando istituzioni culturali unitarie, le nuove classi dirigenti ambivano a promuovere lo sviluppo di una cultura nazionale omogenea, capace di esprimere l’unità di intenti che sembrava aver caratterizzato il Risorgimento: ma quest’ipotesi era già messa in dubbio non solo dalle fratture tra i diversi gruppi risorgimentali e dai dislivelli incolmabili tra le diverse zone e le diverse classi del paese, ma anche dal modo in cui la cultura veniva diffondendosi all’interno del mondo borghese e capitalistico. In tale contesto comincia a delinearsi la figura, abbastanza nuova per la situazione italiana, dello scrittore che rifiuta completamente i modi di vita borghesi, vive miseramente alla giornata, dedicandosi interamente all’esperienza artistica (è la cosiddetta vita di bohème); all’opposto c’è la figura dello scrittore che si fa interprete dei valori «medi» diffusi tra il pubblico borghese, propugnando severi modelli morali e nazionali, assumendo pose e gesti esemplari, o esprimendosi in modi di pacato e sereno buon senso; mentre piú complesse e contraddittorie sono quelle figure di artisti che mirano a conquistare il pubblico borghese sorprendendolo e scandalizzandolo con comportamenti estremi e provocatori, con ostentazioni di lusso e di mondanità.

Tra rifiuto e integrazione

... Editoria, stampa e mercato librario: verso una cultura di massa. Verso l’industria editoriale La stampa quotidiana

Il pubblico medio La letteratura popolare

Le lettrici

Le riviste e la cultura militante

L’unificazione del paese e l’espansione del pubblico creano le premesse per uno sviluppo dell’editoria in senso industriale (ma cfr. ..), che porta gli scrittori a confrontarsi sempre piú con il mercato, con le sue leggi non sempre prevedibili e identificabili, con le richieste del pubblico e degli editori. Un ruolo essenziale di mediazione culturale, di identificazione del pubblico, di azione sulle sue opinioni, acquista la stampa quotidiana, che con i primi anni dell’unità e soprattutto nella fase finale del secolo XIX vede nascere i primi giornali moderni, in grado di fornire un’informazione ampia e articolata, in cui non mancano servizi e rubriche di tipo culturale e letterario. All’interno della stampa quotidiana (e di vari periodici popolari, rivolti a un pubblico molto ampio) raggiunge il suo massimo sviluppo la letteratura d’appendice (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ), che costituisce spesso la base essenziale per la produzione editoriale nel campo della narrativa (questo è naturalmente il genere che raggiunge il numero piú ampio di lettori, anche appartenenti a strati popolari e proletari, e che si rivela piú redditizio dal punto di vista economico). Ma il mercato editoriale, per la sua stessa natura, non è omogeneo, né può raggiungere dimensioni eccezionali: deve scontrarsi con una depressa situazione culturale, con l’analfabetismo dominante, con le infinite stratificazioni del pubblico, con lo scarso interesse per la lettura che mostrano anche molti alfabetizzati. Il pubblico «medio» è costituito dalla borghesia piú colta e dalla piccola borghesia intellettuale; ma la letteratura piú «popolare» raggiunge anche vasti strati di lettori proletari (e il socialismo porrà grande cura nell’educazione popolare e nella formazione di una cultura operaia, capace di prestare attenzione alle piú grandi realizzazioni della scienza e della letteratura borghese). Un’importante funzione svolge il pubblico femminile, perché a esso si riconosce lo spazio dell’interiorità e del sentimento, che si coltiva proprio attraverso lunghe giornate di lettura passate nei tranquilli interni delle case borghesi. Un ruolo considerevole hanno ancora le riviste legate spesso a iniziative e a tendenze di gruppo, dominate da propositi polemici: come nella fase precedente, esse costituiscono uno strumento di cultura militante, la cui libera espansione è facilitata dalla nuova situazione politica. Ma cresce la distanza tra le riviste specializzate, dedicate ad ambiti tecnici e a discipline particolari, e le riviste divulgative o militanti, rivolte a un pubblico molto ampio e costruite per dare un’immagine del mondo presente, della funzione in esso svolta dalla cultura.

. L’ITALIA BORGHESE E LIBERALE NELLA SOCIETÀ E NELLA CULTURA EUROPEA

La moderna stampa quotidiana e periodica garantiva alla tematica letteraria una diffusione ben piú vasta: gli intellettuali e gli scrittori vi collaborarono in modo sempre piú massiccio; e nacquero nuove figure di scrittori-giornalisti, la cui attività si risolse quasi tutta nella collaborazione a giornali, nella creazione di riviste e periodici, nella ricerca di nuovi modi di comunicazione, fatti di divulgazione elegante o di atteggiamenti singolari e ben riconoscibili dagli affezionati lettori. Campo privilegiato per l’attività di questi scrittori-giornalisti fu la terza pagina dei grandi quotidiani, destinata proprio alla cultura e alla letteratura; e notevole rilievo ebbero anche i giornali domenicali e varie riviste letterarie volte a propugnare immagini moderne e «pubbliche» della letteratura. Si ricordino almeno i nomi di RUGGERO BONGHI (-), che nel  fondò «La Cultura», del giornalista letterario FERDINANDO MARTINI (-), di EDOARDO SCARFOGLIO (-), incline a pose eroiche e retoriche e a un gusto estetizzante (ma cfr. ..), di ENRICO NENCIONI (-), di ENRICO PANZACCHI (-). In tale contesto svolsero una funzione essenziale anche alcune figure di imprenditori, che promossero collaborazioni tra scrittori diversi, come l’editore ANGELO SOMMARUGA (-), che ebbe un ruolo fondamentale nel mondo giornalistico e letterario romano tra il  e il , fondando tra l’altro la «Cronaca bizantina» (cfr. ..). In questo variegato mondo editoriale e giornalistico, pieno di successi e di fallimenti, di sorprese e di scandali, di alleanze e di dissidi tra gruppi, venivano creandosi le prime forme di una cultura di massa, le prime tecniche e le prime strutture che, attraverso molteplici modificazioni, sono giunte fino al giornalismo di oggi: la stampa provava a confrontarsi con un mercato assai ampio, a lottare per conquistarne nuovi settori. Per far ciò doveva tener conto di gusti e di curiosità diverse (per esempio differenziando tra loro le parti di un giornale e inserendovi rubriche specializzate), conferire all’informazione un carattere in qualche modo «spettacolare» (che di ogni evento esaltasse la risonanza «pubblica») e tener conto dei meccanismi della pubblicità.



Gli scrittorigiornalisti

L’editore Angelo Sommaruga Conquistare i lettori

... La lingua italiana e la scuola. L’unificazione del paese pose per la prima volta in evidenza il problema della comunicazione linguistica, da fondarsi su una lingua comune non soltanto letteraria, ma praticabile da tutti i cittadini, di tutte le regioni e di tutte le classi sociali. Gli ostacoli erano però enormi e venivano dalla secolare differenziazione regionale, dalla vitalità dei dialetti (spesso adottati anche nella conversazione delle classi colte), dal fatto che l’uso dell’italiano come lingua comune era limitato quasi soltanto alla scrittura, dall’elevatissimo numero di analfabeti (che intorno al  costituivano circa il % della popolazione, con punte molto alte nelle regioni meridionali). Fu subito evidente alle nuove classi dirigenti che l’alfabetizzazione e il conseguimento di una omogeneità linguistica erano condizioni essenziali per la costruzione di una comunità civile, al passo con i piú moderni paesi d’Europa: e la struttura di base per il raggiungimento di queste condizioni fu individuata nella scuola, che, unificata nelle forme e nei programmi, doveva raggiungere tutto il territorio nazionale e assicurare a tutti i cittadini il possesso di comuni strumenti linguistici. Oltre alla scuola, anche altri fattori, come l’emigrazione all’estero, le migrazioni interne e quindi i rapporti sempre piú fitti tra le diverse regioni, il primo sviluppo industriale, il parziale miglioramento delle condizioni di vita, fecero sí che il numero degli analfabeti scendesse notevolmente, arrivando nel  a una percentuale del % (con punte particolarmente basse in alcune regioni del Nord, ma sempre elevatissime, anche al di sopra del %, in molte regioni del Sud). D’altro canto riemergeva in termini nuovi la secolare questione della lingua: si poneva cioè il problema di quale lingua insegnare e promuovere a uso nazionale. Grande fortuna ebbe, in questa prospettiva, la teoria manzoniana (cfr. ..), per l’orizzonte ideologico moderato in cui si inscriveva e per il prestigio dell’autore de I Promessi Sposi: essa proponeva il fiorentino

Alfabetizzazione e omogeneità linguistica

La prospettiva linguistica toscana

EPOCA



Il manzonismo

Un modello astratto e autoritario

Graziadio Isaia Ascoli

Potenzialità dell’italiano letterario

Elaborazione di un italiano «medio»

Il linguaggio letterario



LA NUOVA ITALIA

-

dell’uso contemporaneo come norma da seguire sia nello scritto, sia nel parlato, cosí da garantire una comunicazione e una letteratura «popolari», cariche di concretezza e di spontanea immediatezza. Tra i vari sostenitori del manzonismo un ruolo rilevante ebbe il già ricordato Ruggero Bonghi, che già nel  pubblicò le sedici lettere Perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia; e lo stesso Manzoni, presidente di una apposita commissione nominata dal ministro della Pubblica Istruzione Emilio Broglio, pubblicò nel  la relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla (cfr. ..), punto di riferimento per una politica di toscanizzazione linguistica, non priva di aspetti assurdi (come il tentativo di reclutare i maestri soprattutto in Toscana). Il limite piú evidente di tale progetto consisteva ancora una volta (nonostante gli originari propositi anticlassicistici del Manzoni) nella sua radice tutta letteraria, nell’idea che fosse possibile imporre dall’alto, in tutto il paese, una «buona lingua» sviluppatasi in un ambito come quello della Firenze contemporanea. Nella pratica della scuola italiana questo fiorentinismo non ebbe penetrazione: ma lasciò molti negativi residui in tanta sterile letteratura della seconda metà dell’Ottocento. Il manzonismo incontrò l’opposizione di molti scrittori, dagli scapigliati al Carducci; e l’inconsistenza dei suoi fondamenti teorici fu mostrata dal fondatore della moderna linguistica italiana, GRAZIADIO ISAIA ASCOLI (-), con il suo celebre Proemio che nel  aprí la nuova rivista «Archivio glottologico italiano». L’Ascoli rilevò l’impossibilità di imporre in astratto dei modelli normativi di uso linguistico e rivendicò il valore storico della stessa tradizione della lingua letteraria italiana: mentre il fiorentino dell’uso contemporaneo rivelava orizzonti troppo limitati, la lingua letteraria comune costituitasi nella tradizione letteraria restava aperta ai rapporti piú vivaci con la cultura europea e con gli stessi dialetti regionali, dei quali occorreva riconoscere tutta la vitalità e la validità culturale.

Nel primo cinquantennio dell’unità, il problema della comunicazione linguistica nazionale si rivelò sempre piú come un problema sociale e culturale: le immense difficoltà incontrate dall’educazione linguistica non derivavano tanto dalla scelta dei modelli da usare, quanto dalle condizioni, spesso ancora spaventose, di arretratezza e di miseria; i parziali progressi furono resi possibili solo dal miglioramento delle condizioni di vita. Il confronto tra le varie realtà dialettali ebbe effetti profondi nello sviluppo della lingua italiana, mentre una funzione essenziale, nell’elaborazione di una forma linguistica «media», ebbero i giornali e le prime forme di comunicazione di massa. La piú ampia circolazione sociale delle forme linguistiche operò nelle direzioni piú diverse, e tra l’altro si ebbero due fenomeni opposti, ma altrettanto essenziali: da una parte le modificazioni create, soprattutto nel lessico, dal nuovo mondo della tecnica e degli oggetti industriali; e dall’altra la diffusione di un linguaggio sontuoso, aulico e retorico di massa (tanto diverso da quello del classicismo tradizionale). Tutto ciò si risentí naturalmente nella letteratura, che contribuí in modo determinante alla dissoluzione delle forme tradizionali, sia nei casi in cui volle esaltare in modo nuovo la propria letterarietà, quasi inseguendo gli ultimi bagliori di classicismo e di culto della forma (come in Carducci e ancora di piú in D’Annunzio), sia nei casi in cui volle accostarsi direttamente al «vero» e confrontarsi con la vivace concretezza dei dialetti e della lingua parlata.

... Nuovi caratteri e distribuzione dei centri culturali. Sopravvivenza delle tradizioni locali

La nuova situazione unitaria modifica fortemente i caratteri dei diversi centri culturali: ma l’accentramento istituzionale non arriva a mettere fine al tradizionale pluricentrismo della cultura italiana. Nella nuova Italia non è possibile costruire d’incanto una capitale che coordini e raccolga gli intellettuali e le iniziative, che offra un modello di cultura omoge-

. L’ITALIA BORGHESE E LIBERALE NELLA SOCIETÀ E NELLA CULTURA EUROPEA

neo. Mentre per la particolare natura della storia francese Parigi s’imponeva come l’indiscutibile centro culturale del paese, come il luogo di attrazione e di riferimento per tutte le sue esperienze intellettuali, nulla di simile poteva accadere per Roma, divenuta capitale dello Stato unitario nel , dopo che per secoli era stata capitale della Chiesa e dello Stato pontificio: e la situazione era tanto piú anomala, in quanto nel secolo XIX la città era rimasta tagliata fuori da tutte le tendenze piú vitali della cultura contemporanea, in una condizione di relativa chiusura e arretratezza (cfr. ..). Anche dal punto di vista culturale (come da quello istituzionale e urbanistico), a Roma si tentò un’operazione di trapianto dall’esterno: sul vecchio tessuto cittadino si sovrapposero una serie di componenti diverse della cultura di tutta Italia, chiamate a raccolta dalla nuova funzione della città-capitale. La nuova cultura romana fu cosí il risultato di un insieme di stimoli e di prospettive di differente matrice: pur collocandosi all’interno delle nuove funzioni burocratiche e di rappresentanza che la città acquistava, queste diverse componenti mantennero però molti legami con i centri regionali originari, non riuscirono mai a ricostituirsi fino in fondo come qualcosa di nuovo, di «romano» a tutti gli effetti. Insomma, come centro culturale della nuova Italia, Roma acquistò una fisionomia confusa: in essa si intrecciavano le tendenze della nuova aristocrazia legata alla monarchia sabauda e alla presenza della corte, quelle piú varie e complesse delle classi dirigenti, governative, burocratiche, parlamentari, quelle di una borghesia che si faceva strada soprattutto con la frettolosa speculazione edilizia (favorita dallo sviluppo delle funzioni della capitale), quelle di una media e piccola borghesia impiegatizia che conveniva da tutta Italia per lavorare nei ministeri e negli uffici pubblici. In quanto capitale e luogo di rappresentanza, la città fu vista, specialmente nel corso degli anni Ottanta e Novanta, anche come lo spazio esemplare del lusso e dell’eleganza, di una vita aristocratica e pseudoaristocratica: essa divenne cosí la patria dell’estetismo (cfr. .. e PAROLE, tav. ) e per breve tempo fu il centro della vita culturale del paese, grazie anche ad alcune importanti iniziative editoriali e giornalistiche. Ma una produzione editoriale su vasta scala si sviluppò soprattutto a Milano, che, come effettivo polo dello sviluppo industriale nazionale, diede vita a una cultura attenta alle diverse forme della realtà contemporanea, volta alla ricerca di un pubblico molto ampio, in continuità con gli intendimenti della prima metà del secolo. Il rapido modificarsi del paesaggio urbano, il contatto diretto con la nuova dimensione industriale, i conflitti determinati dall’emergere della classe operaia generarono in Milano tendenze contrastanti: da atteggiamenti di ribellione e di insofferenza verso la tradizione ad atteggiamenti duramente conservatori. Qui trovarono il loro punto di riferimento le principali spinte di rinnovamento della letteratura italiana del tempo, legate a una ricerca di contatti europei, come la Scapigliatura e la nuova narrativa naturalista. Firenze fu al centro della cultura nazionale negli anni Sessanta, specialmente nel breve periodo in cui ebbe il ruolo di capitale. Per la cultura toscana, non solo radicata nel mondo cittadino di Firenze, ma anche in vivo contatto con la realtà agricola e rurale, ebbe un rilievo notevolissimo l’attività del gruppo di pittori noti come macchiaioli (cfr. PAROLE, tav. ). Benché fosse uno dei piú importanti centri editoriali italiani, Firenze si andò però chiudendo sempre piú, nel corso del secolo XIX, in un orizzonte ristretto e provinciale: e ritrovò un ruolo determinante solo all’inizio del nuovo secolo, con le vivaci riviste a cui si accennerà in ... Come frustrata per aver perduto il suo ruolo di capitale appare Torino: vi si mantengono in piedi alcune essenziali strutture create negli anni Cinquanta, ma quasi svuotate di energia, consumatesi nel trasferimento delle strutture statali prima a Firenze e poi a Roma: su Torino e il Piemonte sembra ricadere, in negativo, la «piemontesizzazione» dell’intero paese, la riuscita espansione del Piemonte verso il resto d’Italia. Da una parte la cultura della regione guarda malinconicamente indietro verso il proprio passato autosufficiente; ma dall’altro assiste a un notevole sviluppo industriale (e un ruolo non trascurabile svolge Torino nel campo dell’editoria) e si accanisce a confrontarsi con la nuova realtà nazionale: questa contraddizione tra chiusura provinciale e percezione della modernità troverà un’intensa espressione nell’opera di Gozzano.



Roma

Sovrapposizioni di culture diverse

La città, i misteri e il mito dell’Urbe

Milano e l’editoria

Spinte di rinnovamento

Firenze

Torino

EPOCA



Napoli

Altri centri

La letteratura della provincia



LA NUOVA ITALIA

-

Altra ex capitale che ha perduto il proprio ruolo, ma che non rimpiange la spaventosa arretratezza del regime borbonico e si adatta presto alla nuova realtà culturale, è Napoli, che è dominata da una cultura filosofica e speculativa (cfr. anche ..) e che già all’inizio del secolo XX vede imporsi una nuova grande figura di intellettuale: Benedetto Croce. Metropoli vivace, che richiama visitatori di tutti i tipi per la sua bellezza, abitata da un pullulante proletariato urbano, Napoli vede svilupparsi anche una cultura attenta alla realtà locale, al mondo popolare, al dialetto: si forma ora quella immagine moderna della «napoletanità» che avrà tanta fortuna per gran parte del secolo XX e costituirà uno dei modelli della cultura italiana piú noti nel mondo. Ai centri ora elencati se ne devono aggiungere altri che, tra molte contraddizioni, conservano una loro identità culturale (anzitutto Bologna, dominata dalla presenza di Carducci, e Trieste, che, rimasta sotto l’Impero asburgico, gode di un notevole sviluppo economico e civile e si trova in una posizione singolare, all’incrocio di culture diverse, quasi ai margini della cultura italiana, ma piú di essa proiettata sull’onda della modernità, e in vivi rapporti con l’Europa, cfr. ..). Caratteri del tutto nuovi, di sconvolgente e impassibile durezza critica, di violentissima forza inventiva, assume la cultura siciliana, con scrittori che si formano a contatto con i centri culturali piú importanti del paese e che mettono in evidenza la città e la zona di Catania (cfr. ...).

La condizione unitaria crea un nuovo tipo di rapporto tra i centri piú importanti e quelli relativamente marginali: l’emergere delle varie realtà sociali e culturali induce gli intellettuali non piú soltanto ad abbandonare, come è sempre accaduto, gli ambienti provinciali per convergere verso i centri di maggior rilievo, ma anche a riscoprire le realtà locali, a cercare di comprenderle e a dar loro voce, a opporle spesso alle tendenze dominanti. Il mondo della provincia, spesso immobile, fissato nella ripetizione di un arcaico passato, sottratto a ogni sviluppo in senso moderno, arriva cosí ad attrarre molti intellettuali. Vari orientamenti, dal verismo al crepuscolarismo, esprimono una nuova serie di rapporti e di opposizioni tra «centri» e «province», danno voce all’emergere di nuove realtà locali; e una componente provinciale si rivela anche in alcune ambiziose rivendicazioni di cultura «nazionale» (come in Carducci) o in certe spettacolari recitazioni di cosmopolitismo (come in D’Annunzio).

˜

9.2 SCAPIGLIATURA E DINTORNI ... L’arte contro la società.

L’espansione della società borghese e lo sviluppo di nuovi orizzonti culturali e scientifici trovano una singolare resistenza e contraddizione nell’atteggiamento degli artisti. Soprattutto nei paesi dove è piú forte la spinta del progresso tecnico, dell’industria, della nuova cultura scientifica, l’artista sceglie sempre piú frequentemente un’opposizione radicale, riallacciandosi alle forme piú diverse della tradizione o tentando esperienze nuove e sconvolgenti, tende a porsi comunque contro il buon senso pratico del borghese, contro la sua mentalità calcolatrice, contro la fede nella scienza e nelle tecniche, contro la fiducia in un tranquillo e sereno progresso. Il nuovo paesaggio industriale, le modificazioni materiali che l’industria crea nell’aspetto del mondo, le metropoli, dove tutto è anonimo, dove tutto è immerso nel movimento vano e inarrestabile della folla, creano negli artisti un desiderio di fuga e di evasione. In questo universo ogni esperienza artistica tende a essere riassorbita entro i meccanismi del mercato e del consumo: l’artista deve constatare che la sua opera è ridotta a merce e che la sua stessa esistenza è condizionata dai valori dominanti nella società. Molti artisti scelgono comunque di confrontarsi con il mercato, ne accettano le leggi inevitabili, e addirittura cercano un pubblico piú ampio di quello borghese, rivolgendosi alle classi popolari che si stanno affacciando sulla scena della storia; molti tentano invece di rivendicare la superiore purezza dell’esperienza artistica e di sottrarla alle leggi del mercato, comunicando soltanto con gruppi di intenditori, di raffinati iniziati. Si dà insomma in questa fase storica (soprattutto nei paesi di piú forte sviluppo borghese e industriale) una frattura radicale tra gli artisti e la società, in termini che non si erano mai dati prima: l’artista, libero nella sua ricerca, si scopre «separato» dal mondo circostante, dalle classi da cui proviene (e che, d’altra parte, dovrebbero costituire il suo pubblico). Contro il mediocre mondo dell’interesse, l’arte può affermarsi solo come centro e sintesi di ogni possibile esperienza: e ciò in modi molteplici, che vanno da una rivendicazione della sua autonomia, dell’indifferenza verso tutto ciò che è estraneo alla sua forma (si tratta delle teorie dell’arte per l’arte), a un’identificazione integrale e continua di arte e vita, di ricerca artistica ed esperienza quotidiana.

DECADENTISMO

Gli artisti e la società

Il rapporto con la città moderna Confronto e scontro con il mercato

Autonomia della ricerca creativa

/ DECADENTI

Il termine nacque in Francia negli anni Ottanta, in seguito all’uso della critica ufficiale di designare come décadents, “decadenti”, gli artisti anticonformisti la cui vita e la cui opera costituivano uno scandalo per il pubblico borghese: variamente diffusa era del resto, già nei decenni precedenti, l’attenzione per le epoche di decadenza, la curiosità per l’eleganza e la raffinatezza di antiche società sull’orlo della fine. La ricerca di una nuova poesia di tipo simbolista portò nel  alla fondazione della rivista «Le Décadent» (“Il Decadente”), che assumeva in positivo l’accusa di «decadenza». Negli anni Novanta la tematica e gli orientamenti di questo gruppo esplicitamente «decadente» e lo stesso uso del termine si diffusero in tutta Europa (in proposito va ricordato anche il titolo Decadenza di un romanzo del  dell’italiano Luigi Gualdo, cfr. ..). Al di là di questo uso piú circostanziato, il termine decadentismo si è allargato a definire i piú vari aspetti della letteratura e dell’arte del secondo Ottocento, mantenendo a lungo un’accezione negativa e acquistando un’estensione molto vasta, fino a ricoprire tutti i fenomeni di rottura dei modelli tradizionali. La cultura idealistica italiana ha attribuito genericamente l’etichetta di decadentismo a tutte le esperienze della letteratura del Novecento che frantumavano le forme della comunicazione classica e romantica. A queste generalizzazioni si sono opposte piú precise definizioni di una poetica, di un programma stilistico, di una tematica «decadente», sviluppatesi soprattutto tra gli anni Ottanta e Novanta, e poi variamente continuate nel primo Novecento (in questo senso vanno ricordati almeno i contributi di Mario Praz e di Walter Binni). Oggi appare comunque preferibile un uso piuttosto limitato e circostanziato del concetto di decadentismo.

PAROLE

tav. 176

EPOCA





LA NUOVA ITALIA

-

CHARLES BAUDELAIRE. I FIORI DEL MALE IL CANONE EUROPEO

tav. 177

L’INIZIO DELLA MODERNITÀ Con Charles Baudelaire (Parigi, -) la lirica europea viene a immergersi fino in fondo nella modernità, nel groviglio contraddittorio del nuovo mondo industriale, nella vita della grande metropoli piena di sorprese, di lacerazioni, di desideri e di rovine, che trascina i suoi abitanti in un movimento vorticoso, che non trova né soste né quiete. La prima edizione de Les Fleurs du mal (“I fiori del male”), costituita da  componimenti divisi in cinque sezioni, apparsa nel  presso l’editore Poulet-Malassis, fu sequestrata dopo pochi giorni e subí un processo per oscenità, che si concluse con una condanna pecuniaria e con l’ingiunzione di sopprimere sei poesie. La nuova edizione definitiva, del , comprende  nuovi componimenti e si divide in  sezioni (Spleen et idéal, “Spleen e ideale”; Tableaux parisiens, “Quadri di Parigi”; Le vin, “Il vino”; Fleurs du mal; Révolte, “Rivolta”; La mort, “La morte”). UNA POESIA FRA TENEBRE E LUCE Come indica lo stesso titolo, I fiori del male traggono poesia dal fango e dall’artificio, dai fantasmi infiniti che attraversano Parigi, dagli esseri marginali che in essa si agitano, vivono soffrendo, amando, cercando qualcosa che non si raggiunge: il poeta sprofonda nelle tenebre e si esalta nella luce, scende nell’abiezione e si innalza verso paradisi per sempre perduti, è attirato dalle piú diverse forme del male e della disgregazione e dall’aspirazione a un bene assoluto e incontaminato; esalta Satana come angelo del male e della sconfitta, dà voce all’ossessione del sesso e alle sue perversioni, e nello stesso tempo sente il richiamo di qualcosa di divino e di celeste; la bellezza lo attrae non come immagine di equilibrio e di misura, ma come inutilità, sregolatezza, dilapidazione; e arriva a riconoscerla, al di là delle sue forme tradizionali, anche in ciò che è deforme, corrotto, disgregato. IL RIFIUTO DELLA NORMALITÀ Tutto ciò si lega al rifiuto della normalità e al disprezzo verso la borghesia, verso il suo ipocrita perbenismo, verso il suo spirito produttivo: il poeta (anche per le sue vicende biografiche) sceglie di essere «contro», assume il comportamento del dandy (raffinato e scandaloso), sceglie la dissipazione in tutte le sue forme possibili; anche se è dalla parte dei poveri e diseredati, arriva comunque a esaltare il lusso e la ricchezza, ma solo nel loro aspetto di spreco, di dilapidazione, al di là di ogni funzione economica. E questo rifiuto dei valori dominanti comporta la continua tensione verso un al di là irraggiungibile, che non è quello della religione, ma un oltre assoluto e negativo («non importa dove, purché sia fuori del mondo»), un ignoto insondabile e misterioso: e questo movimento verso l’ignoto corrisponde, per l’esperienza dell’arte, alla ricerca inesauribile del nuovo. IL VIAGGIO VERSO L’IGNOTO E IL NUOVO Il grande poemetto che chiude il libro, Le voyage (“Il viaggio”) ripercorre il senso di questa ricerca attraverso il tema del viaggio: il desiderio di «altro» che guida il viaggiatore resta sempre insoddisfatto, spinge sempre ad andare oltre, ma la sola meta autentica è la morte, «vieux capitaine», “vecchio capitano”, invocata con il suo veleno che annuncia l’abisso dell’ignoto («plonger au fond du gouffre, Enfer ou Ciel, qu’importe? / Au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau!», “tuffarsi in fondo all’abisso, che importa se Inferno o Cielo? In fondo all’Ignoto per trovare qualcosa di nuovo!”). Verso questa ricerca del nuovo, che costituirà il dato caratterizzante di gran parte della poesia e dell’arte moderna, Baudelaire procede utilizzando ancora forme ereditate dalla tradizione e dai piú recenti modelli della poesia romantica: segue modelli della metrica classica, entro una linea di discorso sempre chiaramente comprensibile, che evita di frantumare la sintassi. La sua rivoluzione agisce soprattutto sui contenuti, è data in primo luogo dalla novità della materia: egli crea un nuovo immaginario poetico, un nuovo formidabile repertorio di situazioni, di metafore, di vere e proprie allegorie del mondo contemporaneo, una nuova dimensione dell’io e della presenza del poeta (la maschera, il vampiro, la putrefazione, i gatti, la prostituta, la donna creola, la città grigia e piovosa, la legna nei cortili dei grandi caseggiati, le sere al balcone, il verde paradiso degli amori infantili ecc.). E tutta questa materia si immerge in un’atmosfera inconfondibile, appare

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come filtrata da un occhio insieme lucidissimo e appannato, che penetra nel fondo delle cose e nello stesso tempo si lascia catturare dal velo nero che le ricopre: è sotto il segno della malinconia e della noia (ennui), che agisce su ogni momento dell’esistenza, che muove la parola e il suo stesso rapporto con il lettore (che all’inizio del libro è chiamato hypocrite, ipocrita e insieme semblable e frère, simile e fratello del poeta). Si tratta di un malessere oscillante e suggestivo, amato e sofferto, che Baudelaire indica con la parola inglese spleen, che egli usa come titolo per una sezione de I Fiori del male e che è stato usato per la raccolta postuma dei suoi poemetti in prosa, Le Spleen de Paris, grande e affascinante modello per tanta «prosa poetica» successiva (ma di Baudelaire occorrerebbe ricordare altre opere: in primo luogo gli scritti memoralistici, le riflessioni di costume, la lucidissima attività critica e teorica). Il testo Si presenta qui il quarto componimento della prima sezione de I fiori del male, il celebre sonetto Correspondances (“Corrispondenze”), presente già nell’edizione del . In versi alessandrini con schema ABBA CDDC EFE FEE, esso definisce in tutta evidenza l’idea dell’unità delle forme e delle entità naturali, che parlano all’uomo attraverso tutta una rete di simboli e di corrispondenze. Ricollegandosi a concezioni molto diffuse nella letteratura romantica, Baudelaire indica la strada (che sarà percorsa in modo esplicito e sistematico dal simbolismo) dell’analogia universale (cfr. TERMINI BASE  e PAROLE, tav. ): ma, mentre il simbolismo ricondurrà questo movimento analogico alla funzione sacrale e magica del poeta, intento a scandagliare i profondi segreti della natura, Baudelaire è attratto dall’evidenza dei dati sensoriali, da quella rispondenza tra profumi, colori e suoni, che si concentra alla fine nel richiamo di quei profumi che sembrano trascinare verso l’infinito, che esaltano lo spirito e i sensi, quasi portandoli lontani da se stessi. [EDIZIONE: Charles Baudelaire, Opere, a cura di G. Raboni e G. Montesano, Mondadori, Milano ; la traduzione del sonetto è di G. Raboni]

CORRESPONDANCES

CORRISPONDENZE

La Nature est un temple où de vivants piliers laissent parfois sortir de confuses paroles; l’homme y passe à travers des forêts de symboles qui l’observent avec des regards familiers.

È un tempio la Natura, dove a volte parole escono confuse da viventi pilastri; e l’uomo l’attraversa tra foreste di simboli che gli lanciano occhiate familiari.

Comme de longs échos qui de loin se confondent dans une ténébreuse et profonde unité, vaste comme la nuit et comme la clarté, les parfums, les couleurs et les sons se répondent.

Come echi che a lungo e da lontano tendono a un’unità profonda e oscura, vasta come le tenebre o la luce, i profumi, i colori e i suoni si rispondono.

Il est des parfums frais comme des chairs d’enfants, doux comme les hautbois, verts comme les prairies, – et d’autres, corrompus, riches et triomphants,

Profumi freschi come la carne d’un bambino, dolci come l’oboe, verdi come i prati – e altri d’una corrotta, trionfante ricchezza,

ayant l’expansion des choses infinies, comme l’ambre, le musc, le benjoin et l’encens, qui chantent les transports de l’esprit et des sens.

con tutta l’espansione delle cose infinite: l’ambra e il muschio, l’incenso e il benzoino, che cantano i trasporti della mente e dei sensi.

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LA NUOVA ITALIA

-

GUSTAVE FLAUBERT. MADAME BOVARY IL CANONE EUROPEO

tav. 178

LA LETTERATURA CONTRO LA VOLGARITÀ L’opera di Gustave Flaubert (Rouen -Croisset ) si impone nel quadro della narrativa realista dell’Ottocento per il rigore e la concentrazione estremi della scrittura, per la drammatica e impassibile rappresentazione della negatività della vita sociale, entro un mondo in cui non viene ad affermarsi nessun valore positivo e in cui i personaggi sono trascinati da un desiderio sempre deviato, da interessi e passioni che li portano lontano da se stessi, dalla stessa possibilità di riconoscere il senso della propria esistenza. Flaubert ha concepito la letteratura come una sorta di ascesi, che si oppone alla volgarità del mondo borghese, che nel suo costruirsi manifesta il desiderio e la nostalgia di una bellezza e di un equilibrio per sempre perduti. I suoi primi scritti sono ancora legati a modelli romantici, ricchi di elementi autobiografici e di sfondi di tipo storico. I dati autobiografici si distendono in una forma romanzesca nel romanzo terminato nel  e rimasto allora inedito, L’educazione sentimentale, che, mutato radicalmente e pubblicato nel , offrirà uno spietato quadro critico delle illusioni e delle speranze degli intellettuali della generazione dell’autore. LA TEORIA DELL’IMPERSONALITÀ

Essenziale fu per lui proprio il rifiuto di ogni intromissione dell’io nella narrazione, secondo il canone dell’impersonalità, che comportava una distanza assoluta dell’autore dalla materia, da analizzare scientificamente e da sottoporre a una vera e propria dissezione, senza che ciò comportasse una mancanza di sentimento nell’autore stesso, che doveva stare nell’opera «come Dio nella creazione, invisibile e onnipotente,… presente dappertutto, visibile in nessun luogo». Questa poetica si collegava all’aspirazione a porsi, attraverso la scrittura, in un mondo diverso dal proprio, a proiettarsi fuori da se stesso, quasi a non voler vedere e a negare la propria esistenza. Il realismo accuratissimo della rappresentazione, attento ai dettagli piú minuti e alle parole piú appropriate, poggiante su di uno strenuo lavoro di correzione e di revisione del testo, è cosí animato da una singolare tensione interna, da un fuoco segreto che lo anima, che sembra come corrodere la realtà nel momento stesso in cui la fa balzare in tutta evidenza davanti al lettore. In questa prospettiva Flaubert è giunto a pensare addirittura a un «libro su nulla», come capace di cancellare se stesso e la realtà.

L’OPERA E un «libro su nulla», perché rivolto a rappresentare un mondo grigio e mediocre, fatto di sentimenti falsi e banali, voleva in parte essere Madame Bovary, il suo grande capolavoro che affermò in pieno la sua fama di scrittore e si impose come uno dei modelli essenziali della letteratura europea moderna. A questo romanzo egli lavorò dal settembre  al maggio : esso apparve in sei puntate sulla «Revue de Paris» tra l’ottobre e il dicembre ; all’inizio del  subí un processo per oltraggio alla morale e alla religione, da cui fu prosciolto, ed ebbe nell’aprile una prima edizione in volume. L’opera è articolata in tre parti: come mostra il sottotitolo (Costumi di provincia) intende rappresentare la vita della provincia normanna (che l’autore direttamente conosceva e che volle studiare con estrema cura dei dettagli), mettendo al centro il personaggio di una giovane donna della campagna, Emma Rouault, educata in collegio, appassionata lettrice di romanzi, che fantastica una vita di passioni assolute e sublimi, andata sposa a un medico di un piccolo villaggio della Normandia, l’onesto, ma mediocre, Charles Bovary: presto delusa della vita matrimoniale, Emma cade in uno stato di prostrazione, che spinge il marito a trasferire la famiglia nella piú vitale cittadina Yonville. Delusa dalla vita che anche lí conduce e dal mondo che si vede intorno, Emma viene corteggiata dal giovane Léon, che, senza arrivare a dichiararsi, parte per Parigi; ma poi diventa amante di un ricco e mediocre possidente, Rodolphe, che presto si stanca di lei. Mentre con il marito assiste a Rouen alla rappresentazione della Lucia di Lammermoor di Donizetti, ritrova Léon, diventandone poi amante. Ma anche qui le insoddisfatte aspirazioni romantiche di Emma stancano l’amante, mentre ella si indebita all’insaputa del marito e cade vittima di un usuraio. Non sapendo come uscire dalla situazione si uccide con il veleno. Sconvolto da questo suicidio e andato in rovina economica, anche Charles morirà non molto dopo. Questa sintesi cosí sommaria potrebbe far credere che questo grande romanzo si risolva in una banale storia di adulterio: in realtà attraverso la vicenda di Emma e la rappresentazione della grigia e stupida umanità che ruota intorno a lei, Flaubert viene a dare un’immagine spie-

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tata di un mondo privo di ogni speranza, in cui si muovono esseri volgari e ipocriti (tra cui si distingue il farmacista Monsieur Homais): il tema della stupidità percorrerà del resto tutta la sua opera e troverà un’apoteosi eccezionale nell’ultimo romanzo, incompiuto, Bouvard et Pécuchet. La passione romantica di Emma, che si scontra con questo universo, non è però qualcosa di autentico e di puro: anch’essa ha qualcosa di falso e artificiale, costruita sui modelli romanzeschi e su un indeterminato e illusorio desiderio di evasione. In lei c’è come un’ostinata ottusità, una volontà di illudersi, a cui il romanziere guarda con una sorta di astio, ma insieme anche con una sotterranea e ambigua partecipazione: e del resto ebbe a sottolineare nello stesso tempo la sua distanza estrema dal personaggio e la sua paradossale identificazione con esso, con la celebre battuta «Madame Bovary, c’est moi», cioè “sono io”. Il testo Si riporta qui un breve passo del capitolo XV (l’ultimo) della Seconda parte, dedicata alla serata all’opera a Rouen; prima del casuale incontro con Léon (che avverrà nell’intervallo) Emma assiste nel suo palco accanto a Charles alla rappresentazione, che ella segue ritrovando i sentimenti suscitati in lei dalla giovanile lettura dei romanzi di Walter Scott (da uno dei quali era tratta la vicenda della Lucia). Nella passione espressa dal tenore e dal soprano, nei sentimenti che si manifestano nell’opera, e che il rozzo Charles è incapace di comprendere, ella sente ancora il richiamo di un amore che non ha mai avuto: prova emozioni legate a quella sua tendenza a cercare un modello di vita illusorio e romanzesco. E nel passo riportato giunge addirittura a fantasticare una fuga d’amore con lo stesso cantante che sostiene la parte dell’innamorato Edgardo: è un tipo di fantasia che Flaubert segue con impassibile lucidità (mettendosi nel punto di vista di Emma, sottolineando la sua convinzione di essere guardata dal cantante) e che del resto possiamo vedere all’opera ancor oggi nella società di massa, nel gioco di identificazioni e desideri che suscita tuttora lo star system. [EDIZIONE: Gustave Flaubert, Madame Bovary, a cura di Cl. Gothor-Mersch, Garnier, Paris ]

Toutes ses velléités de dénigrement s’évanouissaient sous la poésie du rôle qui l’envahissait, et, entraînée vers l’homme par l’illusion du personnage, elle tâcha de se figurer sa vie, cette vie retentissante, extraordinaire, splendide, et qu’elle aurait pu mener, cependant, si le hasard l’avait voulu. Ils se seraient connus, ils se seraient aimés! Avec lui, par tous les royaumes de l’Europe, elle aurait voyagé de capitale en capitale, partageant ses fatigues et son orgueil, ramassant les fleurs qu’on lui jetait, brodant elle-méme ses costumes; puis, chaque soir, au fond d’une loge, derrière la grille à treillis d’or, elle eût recueilli, béante, les expansions de cette âme qui n’aurait chanté que pour elle seule; de la scène, tout en jouant, il l’aurait regardée. Mais une folie la saisit: il la regardait, c’est sûr! Elle eut envie de courir dans ses bras pour se réfugier en sa force, comme dans l’incarnation de l’amour même, et de lui dire, de s’écrier: «Enlève-moi, emmène-moi, partons! A toi, à toi! toutes mes ardeurs et tous mes rêves!»

Ogni sua velleità denigratoria sfumava di fronte alla poesia di quel ruolo che la prendeva tutta; e, l’illusione del personaggio spingendola verso l’uomo, cercò d’immaginarne la vita, quella vita strepitosa, straordinaria, splendida, ma che sarebbe stata anche sua, se il caso l’avesse voluto. Si sarebbero conosciuti, si sarebbero amati! Con lui avrebbe viaggiato di capitale in capitale per tutti i reami d’Europa, condividendo fatiche e orgoglio, raccogliendo i fiori che gli buttavano, ricamandogli lei stessa i costumi di scena; e ogni sera, sul fondo di un palco, dietro la rete d’oro della grata, a bocca aperta lei avrebbe raccolto le espansioni di quell’anima che soltanto per lei avrebbe cantato; dal palcoscenico, recitando, lui l’avrebbe guardata. Ma l’afferrò un’idea pazza, lui la guardava davvero! Ebbe l’impulso di corrergli fra le braccia per rifugiarsi nella sua forza come nell’incarnazione stessa dell’amore e di dirgli, di esclamare: «Rapiscimi, portami via, partiamo! A te, a te, tutti i miei ardori e tutti i miei sogni!».

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LA NUOVA ITALIA

-

ARTHUR RIMBAUD. OPERE IL CANONE EUROPEO

tav. 179

L’ESPLOSIONE DEL LINGUAGGIO L’avventura umana e poetica di Rimbaud propone un modello di rivoluzione del linguaggio poetico opposto a quello indicato da Mallarmé: con eccezionale violenza tende a rovesciare i cardini della tradizione e a fare della poesia qualcosa che entra fino in fondo nella vita, che si immerge nel cuore dell’esistenza e la stravolge, proiettandosi sempre in avanti, verso nuove impensate possibilità. Ogni valore precostituito viene rifiutato e aggredito: la poesia vuole imporre la sua forza e la sua vitalità sulla scena del mondo, non trova altra misura che se stessa, e nello stesso tempo rifiuta di concentrarsi sui propri dati formali, tende a frantumare e sconvolgere i rapporti linguistici, a far esplodere lo stesso equilibrio del linguaggio; e giunge alla fine alla negazione di se stessa, a un distruttivo nichilismo. Tra tutti i poeti del tardo Ottocento, Rimbaud è cosí quello che, nei termini piú radicali ed estremi, al di là della stessa consistenza della sua opera, pone le premesse degli sviluppi delle avanguardie del Novecento, soprattutto di quelle che si porranno in piú violento antagonismo verso la società costituita e mireranno a una totale distruzione dei modelli e degli equilibri della tradizione. LA VITA E L’OPERA Rimbaud è apparso giovanissimo come una meteora sulla scena della letteratura francese e ha bruciato la sua esperienza in pochissimi anni: nato nel  a Charleville nelle Ardenne da famiglia borghese e autoritaria, contro cui si ribellò già nell’adolescenza; di ingegno precocissimo, si diede molto presto alla poesia, e fuggí piú volte da casa. Nel  entrò in contatto con il poeta Paul Verlaine (-), che lesse con entusiasmo le sue poesie (e in particolare il poemetto Le bateau ivre, “Il battello ubriaco”); ne nacque un legame tra i due poeti, che condussero insieme una vita sregolata, tra litigi, separazioni, soggiorni in luoghi diversi, finché Verlaine, che aveva abbandonato la famiglia per seguire Rimbaud, lo ferí leggermente con un colpo di pistola a Bruxelles nel luglio del . Mentre Verlaine veniva condannato a due anni di prigione, Rimbaud faceva pubblicare un’operetta in prosa, Une saison en enfer (“Una stagione all’inferno”), dove ripercorreva, con linguaggio acceso e fulminante, la sua esperienza, definendo la propria concezione della poesia (ma non si curò di far diffondere l’edizione), e scriveva, fino al , una serie di poemetti in prosa, le Illuminations (“Illuminazioni”), che saranno pubblicate a cura di Verlaine nel  (che nel  incluse alcune sue poesie in una sua antologia dedicata a I poeti maledetti). Con le Illuminations Rimbaud mise bruscamente fine alla sua attività poetica: vagò per alcuni anni per l’Europa, e nel  partí come agente commerciale per l’Abissinia, dove si diede a spregiudicati traffici di ogni genere. Malato per un tumore al ginocchio, nel  tornò in patria e morí a Marsiglia il  novembre. IL POETA VEGGENTE Già in alcune lettere scritte nel  il poeta adolescente aveva definito alcuni dei motivi essenziali della sua rivolta: affermava di voler essere poeta voyant (“veggente”), per arrivare «à l’inconnu par le dérèglement de tous le sens» (“all’ignoto attraverso il deragliamento di tutti i sensi”), di voler uscire in tutti i modi fuori dai vincoli dell’io, di trasformare se stesso in oggetto (con la famosa formula «Je est un autre», “Io è un altro”); e indicava per la poesia il compito di essere en avant (“in avanti”). Le poesie, spesso precocissime, scritte fino al Bateau ivre mantengono in realtà una struttura relativamente regolare, seguendo per lo piú i metri classici della poesia francese (e risentendo soprattutto del modello di Baudelaire), e affidano il loro spirito anarchico soprattutto ai contenuti, all’evidenza delle immagini e delle metafore: vi si nota un certo legame con il simbolismo e con la nozione corrente del poeta come veggente, alla ricerca dell’ignoto e del mistero, delle segrete corrispondenze tra le cose e tra le parole, sulla quale Rimbaud sovrappone il suo spirito distruttivo (e il battello ubriaco è l’immagine di una forza sovrabbondante, di una sregolatezza sinistra che conduce alla distruzione e alla morte). Altre poche poesie successive mostrano invece una radicale rottura della prosodia tradizionale, trovano un singolare ritmo musicale, che viene a dare un’evidenza misteriosa alla realtà, sembra come farla divampare in un fuoco divoratore.

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UNA STAGIONE ALL’INFERNO Ma la piú originale espressione della poesia di Rimbaud, della sua aspirazione a qualcosa di radicale e di assoluto, a risolvere tutto il senso dell’esistenza in un atto dotato di forza immediata, capace di afferrare tutto il senso del mondo, in una pretesa di totalità in cui nel momento stesso in cui si nega l’io afferma la sua potenza distruttrice, è data dalle prose di Une saison en enfer e delle Illuminations, costruite su di un ritmo fulminante, che fa saltare tutti i confini tra prosa e poesia, e che lascerà notevoli tracce nella letteratura del Novecento (per esempio nel nostro Campana: cfr. T.). Il testo Il sonetto qui riportato, scritto probabilmente a Parigi nei primi mesi del , è uno dei piú celebri di Rimbaud. Costruito secondo la forma regolare del sonetto francese, in alessandrini con rima ABBA ABBA CCD EED, esso si collega al proposito, di cui l’autore parlerà in Une saison en enfer, di costruire una «alchimia della parola», di estrarre dalle parole i segni segreti della realtà e di renderle permeabili a tutti i sensi: secondo quel principio dell’analogia che Baudelaire aveva messo in evidenza in Correspondances (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ). I colori attribuiti qui alle cinque vocali sono carichi di valori simbolici e rinviano a una realtà sensoriale carica di mistero, a una materia biologica, fisica, intellettuale che si espande in modi contrastanti, riavvolgendosi su se stessa, nel proprio pullulare inquietante (soprattutto nelle quartine) o nel proprio distendersi su spazi sterminati (soprattutto nelle terzine). [EDIZIONE: Arthur Rimbaud, Oeuvres, a cura di S. Bernard, Garnier, Paris ]

VOYELLES

VOCALI

A noir, E blanc, I rouge, U vert, O bleu: voyelles, je dirai quelque jour vos naissances latentes: A, noir corset velu des mouches éclatantes qui bombinent autour des puanteurs cruelles,

A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali, io dirò un giorno le vostre segrete origini: A, nero, corsetto villoso delle mosche lucenti che ronzano intorno a crudeli fetori,

golfes d’ombre; E, candeurs des vapeurs et des [tentes, lances des glaciers fiers, rois blancs, frissons [d’ombelles; I, pourpres, sang craché, rire des lèvres belles dans la colère ou les ivresses pénitentes;

golfi d’ombra; E, candori di vapori e di tende, lance di fieri ghiacciai, bianchi re, brividi [d’umbelle; I, porpora, sputo di sangue, riso di belle labbra nella collera o nelle ebrezze penitenti;

U, cycles, vibrements divins des mers virides, paix des pâtis semés d’animaux, paix des rides que l’alchimie imprime aux grands fronts [studieux;

U, cicli, fremiti divini dei mari verdi, pace dei pascoli disseminati di animali, pace [delle rughe che l’alchimia scava nelle ampie fronti studiose;

O, suprême Clairon plein des strideurs étranges, silences traversés des Mondes et des Anges: – O l’Oméga, rayon violet de Ses Yeux!

O, Tromba suprema piena di stridori strani, silenzi solcati dai Pianeti e dagli Angeli: – O l’Omega e il raggio violetto dei Suoi Occhi!

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LA NUOVA ITALIA

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STÉPHANE MALLARMÉ. POESIE IL CANONE EUROPEO

tav. 180

UNA RIVOLUZIONE NEL LINGUAGGIO POETICO La poesia di Stéphane Mallarmé (Parigi -Valvins ) ha dato luogo a una radicale rivoluzione del linguaggio poetico, che si è imposta nel corso del Novecento e che ha avuto prosecuzioni fin nella cultura decostruzionistica del tardo Novecento: una rivoluzione che ha portato la poesia a concentrarsi in modo assoluto dentro se stessa, nel rilievo della parola e della scrittura, nell’abbandono di ogni esplicito riferimento alla realtà, ai sentimenti, alla presenza dell’io. Nel modo piú conseguente ed estremo Mallarmé ha cercato un linguaggio depurato da ogni vincolo con la banalità dell’esistenza, della vita quotidiana, dell’orizzonte sociale, cercando di attribuire «un sens plus pur aux mots de la tribu» (“un senso piú puro alle parole della tribú”): e ha costruito dei testi che si presentano come oggetti avvolti nello splendore e nel mistero, che si svolgono in un inarrestabile movimento analogico che sembra far scaturire le parole l’una dall’altra, in assenza di ogni vita e di ogni esperienza, senza nessuna partecipazione dell’autore. La poesia vuol essere voce impersonale, processo che sembra scaturire da se stesso, evidenza pura della «scrittura», che si riavvolge in un’oscurità spesso indecifrabile, in quella che vuol essere una vera e propria sospensione del senso; tende a realizzarvisi quella «morte dell’autore» su cui insisterà la cultura francese degli anni Sessanta e Settanta e le varie filosofie decostruzionistiche di fine Novecento (cfr. TERMINI BASE ). LA POESIA COME RIFIUTO DELLA VITA Ma a queste scelte Mallarmé arrivò attraverso una dolorosa esperienza personale, affidando alla poesia il rifiuto di una vita insoddisfacente, passata in gran parte tra preoccupazioni familiari e l’insegnamento di inglese in licei di provincia, fino al trasferimento a Parigi (), dove intrecciò rapporti con i maggiori scrittori e artisti del tempo e venne ben presto sentito come un maestro dalle nuove generazioni (grande successo ebbero le riunioni dei «Martedí» nella sua casa di rue de Rome). A parte varie pubblicazioni separate (tra cui nel  quella de L’Après-Midi d’un Faune, “Il pomeriggio di un fauno”), la prima raccolta delle sue Poésies apparve solo nel : si tratta di un insieme relativamente esiguo, composto perlopiú di testi assai brevi, salvo il poema in tre tempi Hérodiade (“Erodiade”), su di un tema di grande successo nel decadentismo europeo (quello della corte di Erode e della morte di Giovanni Battista), ma come sospeso in un astratto rilievo simbolico, e il già ricordato Pomeriggio di un fauno. LA SCRITTURA COME UNA SFIDA ALL’ASSOLUTO La concentrazione assoluta, l’impersonalità, la splendida oscurità di questa poesia sono comunque il risultato di un percorso che parte da una serie di temi e figure che riconducono soprattutto ai modelli di Baudelaire e dell’americano Edgar Allan Poe (della cui poesia Mallarmé fu rigoroso traduttore) e che fanno risaltare la ricerca di un mondo lontano e inaccessibile, la stanchezza della vita e della cultura (fino alla famosa esclamazione con cui si apre la poesia Brise marine, “Brezza marina”: «La chair est triste, hélas! Et j’ai lu tous les livres», “La carne è triste, ahimè! E ho letto tutti i libri”), la fascinazione di una bellezza sterile, distante e inaccessibile. Partendo da questa materia, Mallarmé tende a renderla sempre piú astratta e preziosa, lavorando sottilmente sulle metafore, che scaturiscono l’una dall’altra, e sulla sintassi, che altera i rapporti normali tra le parti del discorso, che attribuisce al verso un ritmo dislocato, allo stesso tempo rigoroso e ambiguo: la lingua sembra cosí evaporare al di fuori di ogni sua funzione consueta, tende come a dire la propria volontà di essere al di là di se stessa, aspira a porsi come una sorta di ricamo intorno al nulla della vita e del mondo. Gli oggetti preziosi che sono le singole poesie si presentano spesso come omaggi, semplici accompagnamenti di doni, o come canti funebri, epigrafi per morti: le analogie si intrecciano spesso sotto il segno del dono, della morte, della non nascita, della sterilità, dell’abolizione, della spirale che indica il riavvolgersi della parola su se stessa. La negazione della realtà si dispone comunque in immagini che, inevitabilmente, evocano qualche realtà. La concentrazione della

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scrittura costituisce ancora una sfida all’assoluto: nel quadro di una vera e propria tensione metafisica, essa confronta continuamente il rigore della propria costruzione con l’emergere del caso, riconosce di essere solo un frammento casuale del Livre, il libro totale in cui si può riconoscere tutto il senso dell’esperienza, della vita come della scrittura stessa. E Mallarmé progettò a lungo, fino agli ultimi anni di vita, di costruire questo Livre risolutivo e totale, di cui compí e pubblicò () solo un difficile frammento, Un coup de dés jamais n’abolira le hasard (“Un colpo di dadi non abolirà mai il caso”), poema in cui vengono frantumate sia la sintassi sia la disposizione grafica della pagina, e che anticipa i tanti esperimenti di disgregazione della struttura verbale che saranno operati dalle avanguardie novecentesche. Il testo Il sonetto presentato (schema ABBA ABBA CCD EDE) offre uno degli esempi piú celebri della preziosa oscurità di Mallarmé. Una spiegazione dettagliata richiederebbe un’analisi molto lunga: in sintesi si può solo far notare come il sonetto prenda avvio dalla figura del tempo, con un’esclamazione che evoca un lago che sembra rappresentare un passato congelato in desideri mai realizzati (i vols qui n’ont pas fui, “i voli che non sono fuggiti”, che non si sono mossi per andare lontano). Dall’immagine del lago scaturisce quella del cigno, figura di animale che con la sua sinuosa eleganza affascina particolarmente Mallarmé e che può essere interpretato come simbolo della poesia e del poeta. Il cigno è impossibilitato a volare, come la poesia nel mondo moderno: nello splendore di qualcosa di perduto, vittima della propria incapacità di evadere da quello sterile mondo. Le terzine sono dedicate all’immobilità del cigno, al suo riavvolgersi nell’abbaglio di una bianca agonia, al suo essere imprigionato in uno spazio chiuso che invano esso cerca di negare: nel suo inutile esilio esso cinge la propria bellezza di un freddo sogno di disprezzo verso il mondo. Questa trama di immagini si sostiene su di una fitta serie di rispondenze foniche, di dislocamenti e riecheggiamenti sintattici. [EDIZIONE: Stéphane Mallarmé, Poesie, traduzione di P. Valduga, Mondadori, Milano ]

Le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui va-t-il nous déchirer avec un coup d’aile ivre ce lac dur oublié que hante sous le givre le transparent glacier des vols qui n’ont pas fui!

Il verde e vergine e bell’oggidí d’un colpo d’ala ebbra viene a incidere l’aspro lago obliato che in brina assilla qui dei voli non fuggiti il ghiaccio limpido!

Un cygne d’autrefois se souvient que c’est lui magnifique mais qui sans espoir se délivre pour n’avoir pas chanté la région oú vivre quand du stérile hiver a resplendi l’ennui.

Un cigno d’un tempo ricorda che è sí splendido, ma disperato si libera per non aver cantato il dove vivere quando d’arido inverno la noia chiarí.

Tout son col secouera cette blanche agonie par l’espace infligé à l’oiseau qui le nie, mais non l’horreur du sol où le plumage est pris.

Scrollerà il collo la bianca agonia che lo spazio che nega gli infligge, cosí non l’orrore del suolo che l’ali ghermí.

Fantôme qu’à ce lieu son pur éclat assigne, il s’immobilise au songe froid de mépris que vêt parmi l’exil inutile le Cygne.

Spettro che il puro abbaglio qui designa al freddo sogno di sprezzo si fissa che in inutile esilio cinge il Cigno.

EPOCA





LA NUOVA ITALIA

-

EMILY DICKINSON. POESIE LETTERATURE DEL MONDO

tav. 181

LA VITA Quasi dal segreto, da una vita chiusa nella casa di una famiglia puritana del Massachusetts, senza echi e risonanze pubblici, sorge la grande poesia di Emily Dickinson, pubblicata e diffusa solo dopo la sua morte (salvo sette sole poesie apparse allora su periodici). Ella nacque nel  ad Amhst, dove sempre visse, salvo i soggiorni in collegio e alcuni viaggi compiuti con i familiari: nella sua fervida sensibilità, si trovò a sfiorare tanti amori che rimasero come sospesi, spesso soltanto immaginati, e molto presto cominciò a scrivere quasi clandestinamente poesie, che raccoglieva in bella copia in volumetti da lei stessa confezionati, che dopo la sua morte furono ritrovati dalla sorella Lavinia in parte nel suo scrittoio, in parte in una cassetta di legno di ciliegio. Come testimonia il suo abbondante epistolario, cercò vari interlocutori per la sua passione poetica: tra questi il piú importante fu Thomas Wentworth Higginson, a cui inviò delle poesie nel  (anno in cui ne scrisse circa ) e che le ritenne non pubblicabili, ma con cui scambiò molti essenziali punti di vista. A partire dalla fine degli anni Sessanta, si chiuse definitivamente nella sua casa, vivendo appartata, in solitario colloquio con la natura circostante, ai visitatori presentandosi sempre vestita di bianco. Dopo aver sofferto per la morte di vari familiari e amici, morí nella sua casa il  maggio ; una prima scelta di  poesie (Poems) fu pubblicata nel , ma il corpus completo consta di ben  testi, la cui edizione critica apparve nel . UNO SPIRITO DI LIBERTÀ E DI RIVOLTA La grandezza della poesia di Dickinson trova una delle sue prime motivazioni proprio nella solitudine, nel mondo remoto da cui nasce: è legata a una forza interiore, a uno spirito di libertà e di rivolta, a una ricerca di assoluto che si esprime paradossalmente proprio entro la scelta di restare fino in fondo dentro un mondo chiuso e appartato, accettando nella vita quotidiana tutte le convenzioni della vita familiare, tutti i limiti che l’universo borghese e puritano impone a una donna. Da questo suo mondo cosí ridotto (che però, collocato in America, è segnato da caratteri del tutto particolari, ha qualcosa di «altro» rispetto all’Europa della tradizione) Dickinson arriva a rivolgere lo sguardo al senso del tutto, ai dati piú segreti della realtà, con una poesia che sa interrogare tutte le forme della natura, della cultura, dell’esistenza, che fa parlare, con un linguaggio carico di cristallina purezza e di misteriosa profondità, il desiderio, la passione, la conoscenza, e frantuma tutte le false sicurezze, tutte le immagini «normali» e consuete. Proprio a partire dalla sua situazione, la poetessa «segreta» ci fa vedere la realtà come da un angolo laterale, da dove non è stata mai vista: e la critica di tipo femminista ha ricondotto questo suo sguardo alla sua sensibilità di donna, capace di rivelare una proiezione «femminile» del mondo, sempre negata e repressa dalla cultura maschile. La forza e l’acume dello sguardo della Dickinson risale certamente a questa sua particolare condizione femminile, sprigiona dai limiti in cui sono chiuse la sua vita e la sua scrittura: ma non restano entro i confini di un «genere», si rivolgono a una interrogazione del senso della vita in tutte le sue espressioni, tanto piú vasta e radicale quanto piú appunto sembra partire da quello spazio cosí ristretto e parziale. LE FORME DELLA POESIA La sua poesia è fatta perlopiú di brevi strofette che vanno del tutto al di là delle forme «regolari» della poesia romantica, si riconnettono in parte al modello dell’innologia protestante, ma scavano dall’interno il ritmo del verso, come a frantumare la parola e il movimento sintattico: e sono essenziali, in tal senso, i numerosi trattini che ella vi inserisce. Su questo movimento ritmico il discorso poetico si svolge attraverso un susseguirsi di metafore e di simboli, che sembrano come fissare i dati dell’esistenza, i rapporti personali, le immagini della natura, in un trascorrere di luci e di ombre, in un diverso e vario disporsi della visione; gli oggetti e le forme del mondo sembrano sempre come proiettarsi da un’altra parte, e cosí i momenti della vita, gli incontri, le delicatissime, sfuggenti, inafferrabili situazioni amorose. Tutto è strano e nello stesso tempo è familiare; ciò che è visto da vicino sembra come spostarsi, per una progressiva dilatazione dello sguardo. Da un punto di

.

SCAPIGLIATURA E DINTORNI



vista limitato come quello da cui lo vede la Dickinson, il paesaggio si allarga verso orizzonti sterminati, che vanno al di là degli stessi confini della terra; le apparizioni si confrontano con l’assenza, la visione con il non vedere, con la cecità; e ogni colore si confronta con la cancellazione del colore, tende come a trascolorare nel bianco e nel grigio, in una musicalità distesa e sempre straniata, come in fuga da se stessa. Si tratta di una poesia difficile, che si legge quasi con il timore di sfiorarla e lacerarla, di violarne il segreto: e che, al di fuori di ogni programma letterario, sembra come precorrere lo svolgersi della linea piú «pura» della moderna lirica europea. Il testo Si riporta qui, con la traduzione di Mario Luzi, una delle poesie piú celebri e difficili della Dickinson, che mostra tutta la singolarità del suo sguardo a un paesaggio che suscita sottili e complesse risonanze interiori. Tutto viene visto attraverso l’obliquità o lo “slargo” (slant) della luce nei meriggi d’inverno, il cui effetto viene paragonato all’oppressione suscitata da antiche musiche misteriose di austere cattedrali: quella luce obliqua è segno di una lacerazione che grava su ogni significato, che vi crea come una “differenza interna” (internal difference: che Luzi traduce «interiore disappunto»): è un sentimento che chiama in causa il fondo della conoscenza, ma che non può essere trasmesso e insegnato, che resta come “una prepotente afflizione” (an imperial affliction) discesa nell’aria. Tutto resta allora come sospeso (come mostrano quelle ombre che si intrecciano con la luce e hold their breath, “trattengono il respiro”): la visione si proietta in una distanza che evoca la morte, che è simile a quella che si affaccia sul volto di chi muore. Davvero ardua e sconvolgente questa rivelazione di tutta l’esperienza e delle sue apparenze di sbieco, da un angolo obliquo, in un misto di incanto, di sgomento, di oppressione, in una identificazione del volto del mondo con il volto della morte. Si notino nel testo inglese le maiuscole e i trattini, che riproducono l’uso dei quaderni della poetessa. [EDIZIONE: Emily Dickinson, Tutte le poesie, a cura di M. Bulgheroni, Mondadori, Milano ]

There’s a certain Slant of light, Winter Afternoons – That oppresses, like the Heft Of Cathedral Tunes –

Taglia i pomeriggi d’inverno una certa obliquità di luce che grava con la stessa pesantezza delle note in una cattedrale.

Heavenly Hurt, it gives us – We can find no scar, But internal difference, Where the Meanings, are –

Celestialmente ci ferisce cicatrici non se ne trovano, solo un interiore disappunto dove risiedono i significati, c’è.

None may teach it – Any – ’Tis the Seal Despair – An imperial affliction Sent us of the Air –

Nessuno può insegnarlo – quasi – e un sigillo disperato, una imperiale afflizione che ci elargisce l’aria.

When it comes, the Landscape listens – Shadows – hold their breath – When it goes, ’tis like the Distance On the look of Death –

Quando viene il paesaggio sta in ascolto, le ombre trattengono il respiro, quando va via è come la lontananza sul sembiante della morte.

EPOCA



Rifiuto della morale borghese

Atteggiamenti e prospettive



LA NUOVA ITALIA

-

L’artista può cosí sentirsi e vivere come una sorta di sacerdote dell’assoluto, di valori supremi ed essenziali, negati dalla volgarità della morale borghese: può assumere atteggiamenti irregolari e provocatori che colpiscono e scandalizzano i buoni borghesi; può vivere questa esistenza senza nessun ordine, consumandone ogni attimo in pericolose esperienze, in una dissipazione quotidiana che spesso porta alla distruzione fisica e psichica. In questi ultimi casi l’artista si presenta come maudit, “maledetto”, satanico e corrotto, polemico negatore di ogni valore corrente. È necessario comunque tener presente che il contrapporsi dell’arte alla società contemporanea può assumere forme molto varie: l’opposizione piú radicale si dà soltanto in alcune grandi esperienze straniere (soprattutto nella poesia francese da Baudelaire a Rimbaud), mentre in molti casi il rifiuto del presente assume forme moderate, che collimano con la stessa mentalità borghese o che si propongono addirittura come suoi nuovi modelli di comportamento; in alcune circostanze gli artisti scoprono, come punto di riferimento per la loro lotta, il proletariato (l’unica forza reale che minacci i valori dominanti), e si avvicinano al socialismo o maturano una nuova sensibilità di tipo sociale. Ma a volte lo spirito antiborghese assume connotati di tipo reazionario, spinge al recupero di antichi valori tradizionali, ad atteggiamenti aristocratici e nazionalistici, violentemente ostili al liberalismo, alla democrazia e alle «moltitudini».

... Il decadentismo europeo. Il : un anno fondamentale

Superamento della cultura romantica

Il concetto di decadentismo

Le nuove tendenze dell’arte europea, di cui si è parlato nel paragrafo precedente, si affermano a partire dagli anni Cinquanta, specialmente dopo il riflusso dell’ondata rivoluzionaria del  e con l’assestarsi sempre piú evidente, nei maggiori paesi europei, del potere della borghesia, che attua una serie di compromessi e mediazioni con antiche strutture e antiche forme di dominio; una data fondamentale è il , quando in Francia appaiono due opere eccezionali, che suscitano scandalo e subiscono addirittura dei processi: la raccolta poetica Les fleurs du mal (“I fiori del male”) di Charles Baudelaire (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ), e il romanzo Madame Bovary di Gustave Flaubert (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ). Lo spirito radicalmente negativo delle nuove forme artistiche mostra molti punti di contatto con la cultura romantica: esse però non vanno considerate come un semplice prolungamento del Romanticismo, perché incarnano un culto dell’arte assai piú estremo e distruttivo, concentrato sulla solitudine e la libertà dell’artista, non sui suoi legami con la comunità e con i valori nazionali, con cui si tende spavaldamente a negare ogni comunicazione. Un termine che serve a definire i caratteri particolari di gran parte dell’arte della seconda metà dell’Ottocento e ancora del primo Novecento è decadentismo (cfr. PAROLE, tav. ): esso esclude l’idea di una troppo stretta continuità con il Romanticismo e sottolinea la novità di contenuti e forme che rompono esplicitamente con tutta la tradizione dell’arte

PARNASSIANESIMO PAROLE

tav. 182

/ PARNASSIANI

Con queste parole ci si riferisce agli scrittori che nel secondo Ottocento si oppongono alla poetica romantica e al sentimentalismo e affermano l’impassibilità dell’arte e la sua superiorità sugli eventi storici, rifacendosi alla bellezza classica (soprattutto alla scultura greca), in cui ravvisano un modello di perfezione ideale e astratta da opporre alla mediocrità della vita borghese. Il nome del Parnaso, il monte di Apollo e delle Muse della mitologia classica, fu assunto come insegna di un vero e proprio gruppo con la raccolta Le Parnasse contemporain (“Il Parnaso contemporaneo”), che apparve nel  e poi ancora nel  e . Piú in generale, con il termine parnassiano si sogliono definire tutte le moderne forme di classicismo estetizzante, che mirano a tener lontana dall’arte ogni traccia della realtà presente e cercano forme preziose, gelide e impassibili.

.

SCAPIGLIATURA E DINTORNI



e della cultura occidentale e sembrano volerla portare al suo punto-limite, registrando la «decadenza» e la consunzione di un’intera civiltà. La poesia di Baudelaire costituisce il maggiore punto di riferimento per tutte le esperienze «decadenti». Dalla sua rivoluzionaria esperienza, che intreccia in modo originale vita e poesia, si svolgono in Francia nuove tendenze: da quelle dei parnassiani a quelle dei simbolisti (cfr. PAROLE, tavv.  e ). La piú scatenata carica eversiva e anarchica, rivolta contro l’intera tradizione poetica, si esprime nell’opera di Jean-Arthur Rimbaud (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ); un approfondimento delle piú segrete possibilità del linguaggio poetico è presente nella poesia di Stéphane Mallarmé (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ); una ricerca di nuova musicalità in quella di Paul Verlaine (-). Nella sua diffusione europea la nuova poesia francese invita a rompere gli equilibri e le gerarchie tradizionali, svela l’ambiguo fascino del brutto, del deforme, dell’artificiale, dissolve ogni legame tra la bellezza e la morale, e si immerge nelle piú varie forme della corruzione, nel male, nell’allucinazione. L’arte del passato viene recuperata, amata e contemplata soprattutto come serbatoio di oggetti inutili, inconciliabili con la praticità della vita borghese; e nello stesso tempo molti aspetti della realtà moderna, frammenti, figure, situazioni del quotidiano possono diventare oggetto del discorso poetico. Si spezza ogni razionalità della parola, che si confronta con le continue sorprese che si danno nella vita cittadina e può essere stravolta dal contatto con la piú corposa e pullulante realtà fisica; al contrario essa può cercare un nesso strettissimo con la musica, evocare sensazioni e realtà segrete, evanescenti, inafferrabili, inseguire l’inconoscibile che giace al di là dell’apparenza delle cose. La natura appare percorsa da corrispondenze segrete, di cui la poesia deve ritrovare le tracce e gli echi, avvalendosi in primo luogo dello strumento dell’analogia (cfr. TERMINI BASE ). Sempre piú forte è la tendenza verso l’espressione difficile e oscura: il poeta vuole porsi come sacerdote di una forza spirituale segreta; il suo discorso tende ad abbandonare i generi tradizionali e a chiudersi nell’ambito della lirica o addirittura a farsi parola pura e astratta, priva di ogni riferimento esterno. E ci si avvia anche a una disintegrazione della base stessa della metrica tradizionale, il verso, con la nuova esperienza del verso libero (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ). Una delle opere che piú contribuiscono a diffondere in tutta Europa un modello di comportamento «decadente» è il romanzo di Joris-Karl Huysmans (-), A rebours (“Controcorrente”, ), che ha come protagonista un raffinato intellettuale, Jean Des Esseintes, desideroso di sfuggire alla noia della vita contemporanea con tutte le possibili esperienze dei sensi. Questo e simili atteggiamenti possono essere fatti rientrare nella categoria dell’estetismo (cfr. PAROLE, tav. ), che accomuna gran parte delle posizioni definibili come «decadenti».

SIMBOLISMO

La ricerca poetica in Francia

Oltre la bellezza e la morale

La parola poetica

Corrispondenze e analogie

L’estetismo

/ SIMBOLISTI

Piú genericamente si intende per simbolismo ogni organizzazione del simbolo e ogni uso della comunicazione simbolica (cfr. TERMINI BASE ). Nell’ambito della storia letteraria, per simbolismo si intende, in senso molto ampio, la lunga tradizione della poesia europea che prende avvio in Francia intorno alla metà dell’Ottocento con l’opera di Baudelaire e ha molteplici sviluppi nella poesia europea, concentrandosi sull’uso del simbolo e dell’analogia e mirando a fare della poesia un modo di comunicazione svincolato da regole convenzionali, teso a interrogare il fondo segreto e misterioso della realtà, a cercare le corrispondenze e i legami nascosti tra le cose. Inteso in questo senso, il simbolismo approfondisce quegli usi del simbolo e dell’analogia che erano già stati tentati da alcuni scrittori romantici, e si pone a fondamento di quasi tutta la poesia del Novecento. Se si guarda allo sviluppo della poesia contemporanea in modo meno generico, l’uso del termine simbolismo va limitato peraltro a quelle tendenze che esaltano la ricerca del mistero e aspirano a raggiungere valori segreti e assoluti: tendenze che hanno uno dei punti di riferimento piú significativi nella poesia di Mallarmé (in questo senso l’espressione piú conseguente del simbolismo è data in Italia dall’ermetismo, cfr. ..).

PAROLE

tav. 183

EPOCA



Richard Wagner e l’arte totale



LA NUOVA ITALIA

-

L’estetismo è una componente fondamentale di molte esperienze inglesi, da quella dei preraffaelliti (cfr. PAROLE, tav. ) a quella di autori come John Ruskin (-) e Oscar Wilde (-). Una superba sintesi di tante tendenze artistiche del secondo Ottocento, che mira a un’arte totale, capace di combinare ogni sorta di sensazione e di tecnica e di agire fisicamente e intellettualmente sullo spettatore, è data dal grande musicista tedesco Richard Wagner (-), che crea una nuova forma di opera in musica, da cui sprigiona un’energia distruttiva e assoluta, che va al di là di ogni prospettiva razionale e pratica, mettendo lo spettatore a contatto con forze minacciose e segrete.

... Il primo tentativo italiano di una nuova arte: la Scapigliatura.

Esperienze d’opposizione nelle letterature postunitarie

Recupero del Romanticismo estremistico

Percezione di una realtà contraddittoria

Le tendenze critiche e «negative» della nuova arte europea penetrano in Italia con notevole ritardo, a causa della particolare situazione dei nostri intellettuali impegnati nella lotta per l’unità, della arretratezza del nostro sviluppo borghese e capitalistico, della mancanza di precedenti esperienze di Romanticismo estremistico. Aspetti piú esplicitamente «decadenti» si manifestano da noi soprattutto a partire dagli anni Ottanta, specialmente nell’ambito dell’estetismo (cfr. .): ma intanto, già nei primi anni successivi all’unità un tentativo di uscire dai limiti angusti e provinciali della nostra letteratura, di accostarsi alle nuove esperienze europee (soprattutto francesi), di confrontarsi con una realtà non piú comprensibile attraverso gli schemi ideologici romantici e risorgimentali, si deve a un gruppo di scrittori operanti soprattutto a Milano, la città in cui piú forte era lo spirito borghese e in cui piú rapido avvio aveva avuto il nuovo sviluppo industriale e capitalistico. Questi scrittori, che ebbero orientamenti comuni soprattutto negli anni Sessanta, erano animati da uno spirito di ribellione contro la cultura tradizionale e contro il buonsenso borghese: per definire il loro indirizzo fu usato il termine di Scapigliatura (cfr. PAROLE, tav. ), che gli storici della letteratura adoperano per designare tutte le forme di ribellione agli equilibri culturali dominanti dell’Italia postunitaria soprattutto negli anni Sessanta e Settanta. Uno dei primi obiettivi della lotta degli scapigliati fu il moderatismo del Romanticismo italiano, la sua cautela e il suo rifiuto degli «eccessi» manifestatisi nelle altre grandi letterature europee: essi cercarono di recuperare alla nostra cultura gli aspetti piú «negativi» ed estremi della tradizione romantica e nello stesso tempo si scagliarono contro il provincialismo della nostra cultura risorgimentale, contro il romanticismo languido, esteriore, superficiale di Prati e di Aleardi, contro gli orizzonti politici conservatori e il moralismo che si erano subito imposti nel nuovo Stato unitario. Guardarono la realtà in modo diverso, percependola non piú come processo organico omogeneo e coerente, orientato verso uno sviluppo progressivo (come era apparsa a Nievo e come, in modo diverso, continuava ad ap-

PRERAFFAELLITI PAROLE

tav. 184

Con questo termine si designano i partecipanti al movimento artistico Pre-Raphaelite Brotherhood (“Fratellanza preraffaellita”), fondato in Inghilterra nel , che ebbe come principale animatore il pittore e poeta Dante Gabriel Rossetti (-), figlio dell’esule italiano Gabriele Rossetti (). Questo movimento, che ebbe le sue piú notevoli espressioni nel campo della pittura, ma poi, a partire dagli anni Sessanta, diede risultati significativi anche nel campo della letteratura, si opponeva alle convenzioni dominanti nell’arte ottocentesca e mirava a tornare a un’arte naturale, semplice e carica di religiosità, identificandone i modelli nell’arte europea precedente a Raffaello (della quale forniva un’immagine assai deformata e convenzionale). Il gusto per la purezza naturale si collegò, nei preraffaelliti, a un rifiuto del mondo industriale, del materialismo e dell’egoismo sociale contemporaneo, e a un’esaltazione delle piú diverse forme della vita collettiva e dell’immaginario medievale, coltivando un vero e proprio culto per Dante e lo Stilnovo.

.

SCAPIGLIATURA E DINTORNI

parire a De Sanctis), bensí come congerie di fenomeni, frantumata e contraddittoria, insidiata dal male e dal caos (mentre negli stessi oggetti della tecnica e della scienza si insinuava il mistero). La realtà fisica veniva confrontata con quella psichica, con gli effetti della sensibilità e della malattia: l’osservazione del nuovo mondo cittadino, del suo rapido e turbinoso sviluppo, si intrecciava alla rivelazione del fantastico, all’emergere di casi strani, bizzarri, inquietanti. Al fondo di tutto ciò c’era la convinzione che l’arte e l’artista fossero estranei ai canoni borghesi, emarginati da una società dedita a uno sviluppo tutto materiale: a tale emarginazione gli scapigliati rispondevano negando il valore tradizionale della bellezza, rivendicando scandalosamente il legame del bello con l’«orrendo», consumando le proprie stesse esistenze in esperienze nuove e sconcertanti, vivendo spesso alla giornata, minati dall’alcool e dalle malattie, senza nessuna cura di sé, nelle osterie e nei luoghi di ritrovo. Impressionando i benpensanti, l’artista scapigliato mostrava cinicamente la «miseria della poesia», rivelava attraverso la propria vita come essa fosse ormai priva di quelle funzioni ufficiali che ancora aveva nel Risorgimento: la forza eversiva dell’arte si reggeva proprio su questa sua inessenzialità, su questa perdita di autorizzazione sociale; ma nello stesso tempo si affacciava nell’artista scapigliato un’ostinata nostalgia di valori e di forze ideali, di qualcosa di grande che purificasse tutta la sua «misera» esperienza. Ne derivava un atteggiamento contraddittorio: a una pratica di vita mondana, laica e libertina, si mescolavano spesso aneliti religiosi, nostalgie per perdute e rassicuranti certezze. La Scapigliatura non si tradusse in un vero e proprio gruppo organizzato: il suo momento piú intenso, nella Milano degli anni Sessanta, coincise con una serie di spontanei contatti e scambi personali tra alcuni giovani scrittori, per i quali l’essenziale punto di riferimento, vero maestro di ribellione, di impegno artistico, di curiosità culturali fu rappresentato da Giuseppe Rovani (cfr. ..).



Emarginazione dell’artista

Inessenzialità e «miseria della poesia»

... La Scapigliatura milanese degli anni Sessanta. Un ruolo di profeta, di disordinato e polemico propagandista della Scapigliatura, spetta al milanese CLETTO ARRIGHI (pseudonimo di CARLO RIGHETTI, -). Ma la piú ampia varietà di interessi e di curiosità, di aperture alla contemporanea letteratura europea, bruciata in una breve esistenza di «ribelle», si rivela nell’opera di IGINIO UGO TARCHETTI. Nato a San Salvatore Monferrato, Alessandria, nel , egli dovette partecipare, come militare, alla repressione del brigantaggio nel Meridione subito dopo l’unità; poi, abbandonato l’esercito nel , visse miseramente a Milano, minato dalla tisi, fino alla morte avvenuta nel . Tutta la sua esistenza è segnata da qualcosa di cupo e di disperato: nel suo comportamento e nella sua stessa scrittura si riconoscono fortissimi elementi romantici, avvertibili soprat-

Cletto Arrighi

Iginio Ugo Tarchetti

SCAPIGLIATURA

Questa parola s’impose nel corso degli anni Cinquanta dell’Ottocento come libera traduzione del termine francese bohème (propriamente “vita da zingari”), riferito alla vita disordinata e anticonformista degli artisti parigini descritta nel romanzo – che ebbe una certa risonanza anche in Italia – di Henry Murger (-), Scènes de la vie de bohème (-). Nel romanzo di Cletto Arrighi (cfr. ..), La Scapigliatura e il  febbraio (Un dramma di famiglia). Romanzo contemporaneo, edito nel , ma di cui due frammenti erano stati anticipati nel , veniva esplicitamente indicato con il termine Scapigliatura un certo ambiente di giovani artisti e letterati milanesi, irrequieti, turbolenti, alla ricerca delle piú varie esperienze, privi di qualunque sicuro punto di riferimento: il romanzo rappresentava la loro vita sullo sfondo di una rivolta operaia avvenuta nel . Il termine passò a indicare le varie esperienze dei giovani scrittori e artisti ribelli e insoddisfatti nel nuovo orizzonte dell’Italia dopo l’unità: l’aggettivo scapigliato indicò atteggiamenti di ribellione e di spregiudicatezza intellettuale.

PAROLE

tav. 185

EPOCA



Le opere narrative

Emilio Praga

Le opere

Poesia e realtà Una ribellione incompiuta

Arrigo Boito

Poesia scapigliata

Un umorismo macabro



LA NUOVA ITALIA

-

tutto nelle poesie, che apparvero postume nel  con il titolo Disjecta. Piú interessanti sono però le sue opere narrative, racconti umoristici o fantastici, che descrivono casi strani e bizzarri, e tre romanzi: Paolina (), Drammi di vita militare,  (in volume con il titolo Una nobile follia), opera fortemente antimilitarista, e Fosca (). Quest’ultimo romanzo è certamente l’opera piú riuscita e interessante di Tarchetti: vi si racconta la storia inquietante dell’amore di un personaggio, che parla in prima persona, per una donna di singolare bruttezza e di sottile sensibilità. Nell’opera di EMILIO PRAGA il persistere di modelli romantici e di legami con la tradizione italiana si intreccia con l’aspirazione a confrontarsi con la piú moderna poesia europea (in primo luogo Baudelaire). Nato nel  a Gorla (presso Milano) da ricca famiglia, egli fu pittore e poeta. Dopo aver pubblicato nel  la raccolta poetica Tavolozza, fu in stretto rapporto con Arrigo Boito, collaborando con lui alla fase piú acuta della battaglia «scapigliata». Consumato dall’alcool e dalla sua esistenza dissipata, morí a Milano nel . Il suo libro di poesie piú significativo è Penombre (); postumi apparvero la raccolta Trasparenze () e il romanzo Memorie del presbiterio (). Nella sua soggettività ribelle e inquieta, Praga mira a confrontare continuamente la poesia con la «realtà», a inglobare nel linguaggio il «vero», rinnovando l’orizzonte espressivo, ma nello stesso tempo svalutando la funzione del poeta. Pur guardando alle nuove esperienze europee, Praga non riesce ad abbandonare del tutto il grande modello del lombardo Manzoni: è convinto di vivere nell’ora degli «antecristi», quando «Cristo è rimorto»; si scatena in tirate di violento anticlericalismo e cerca espressioni di morbosa sensualità, ma nella sua ribellione si sente bloccato da molteplici ostacoli. Il «vero» che egli vuole rappresentare si trasfigura in effetti pittorici, in sfumature di colore, in sottili evanescenze. Assai diversa da quella di Praga fu la vicenda intellettuale e umana del suo compagno delle prime battaglie scapigliate, ARRIGO BOITO, nato a Padova nel  da un pittore veneto e da una contessa polacca, e passato a Milano nel  per compiere studi di musica. Già all’inizio degli anni Sessanta egli è impegnatissimo nell’attività musicale e letteraria, nella quale mette a frutto una cultura ricca ed eclettica. Ardito sperimentatore, Boito intende farsi interprete di una umanità proiettata verso il futuro e svincolata da tutti i valori tradizionali. Egli dà il meglio di sé proprio negli anni Sessanta, con la sua poesia piú esplicitamente «scapigliata» (i migliori componimenti saranno raccolti nel Libro dei versi nel ), con un singolare poema narrativo in metri diversi, Re Orso (), e con l’opera Mefistofele (), di cui scrive sia la musica sia il libretto, tratto dal Faust di Goethe. Piú tardi egli diviene il rappresentante piú prestigioso e «ufficiale» del mondo musicale e artistico italiano: questa sua ascesa culmina nella collaborazione con Verdi nei libretti dell’Otello e del Falstaff (cfr. ..). La poesia «scapigliata» di Boito si caratterizza per un umorismo macabro e grottesco, che poggia su una costante percezione della dualità e contraddittorietà del mondo, dell’intreccio tra il bene e il male, l’angelo e il demonio, il sublime e il ridicolo, l’alto e il basso. Rispetto a queste forze contrastanti il poeta si pone come un giocoliere, che segue tutte le sfasature dell’essere, che con la parola e con la musica vuole afferrare un senso in continuo movimento, cercando di coglierne gli echi piú remoti; e per questo stravolge, piega e avviluppa su se stesso ogni segmento del reale. Di qui il pericolo di un’eccessiva freddezza da sperimentatore: una sorta di cinico ghigno finisce per sterilizzare anche gli atteggiamenti piú provocatori, per trasformarli in qualcosa di manieristico, di troppo recitato.

... Carlo Dossi tra vita e letteratura. Innovazione linguistica e umorismo

Carlo Dossi condivide con la Scapigliatura soprattutto la ribellione alle tradizionali forme letterarie, che lo porta a rompere (nell’ambito della prosa) gli schemi linguistici dominanti nell’Italia del tempo e a elaborare un linguaggio originalissimo e sottile, carico di colore e di tensione senza inseguire a tutti i costi la modernità: prendendo la via della piú scin-

.

SCAPIGLIATURA E DINTORNI

tillante invenzione linguistica, egli si riallaccia infatti a quel filone espressionistico che aveva avuto lunga e sotterranea vita nella nostra letteratura, e che egli sentiva particolarmente forte e affascinante nella letteratura lombarda, da Maggi a Porta, dove si accompagnava a una vigorosa attenzione alla realtà (cfr. .. e ..). In questa sua rivolta stilistica ha un ruolo essenziale l’arma dell’umorismo, che rivela un’ambigua partecipazione alla materia della scrittura. Differenziandosi dagli scapigliati della prima generazione, Dossi evita la troppo diretta manifestazione dei sentimenti e delle passioni: cerca un’arte piú sottile e segreta, che si accosti alla realtà attraverso una raffinata manipolazione del linguaggio; intreccia inesauribilmente la rappresentazione realistica, piena di concretezza e di colore, con la deformazione fantastica, surreale, fiabesca, che dilata gli oggetti e li trasporta verso spazi impensati; svolge una critica corrosiva agli schemi illusori su cui si basa la vita dell’uomo, alle artificiose finzioni della vita sociale, e insieme traccia immagini di comportamenti ideali, animati da una raffinata sensibilità e da un sontuoso gusto estetizzante. CARLO ALBERTO PISANI DOSSI (che si sarebbe firmato solo Carlo Dossi), era nato nei pressi di Pavia il  marzo  da ricca famiglia: fin da bambino aveva mostrato interessi letterari; giovanissimo, ebbe vivaci contatti con l’ambiente culturale milanese. Dopo i due romanzi, L’Altrieri () e Vita di Alberto Pisani (), che costituiscono i suoi precocissimi capolavori, egli si impegnò in opere in cui si intrecciavano alcuni temi costanti, e in cui i brandelli della sua esperienza, le tensioni opposte della sua personalità e della sua scrittura miravano a comporsi in una sorta di equilibrata sintesi. Un interessantissimo documento dello stato magmatico dei suoi progetti, delle sue aspirazioni, dei suoi giudizi, è costituito dagli appunti, raccolti per gran parte della sua vita in quaderni dalla copertina azzurra, che ebbero poi il titolo di Note azzurre. Tutta la sua giovinezza fu segnata da una sorta di difficoltà del vivere: la letteratura e la famiglia gli sembravano altrettanti rifugi, capaci di proteggerlo contro questo disagio (ed essenziale fu per lui l’amore per la madre). Nel  iniziò la carriera diplomatica, lavorando a Roma presso il Ministero degli Esteri; ma alla fine dell’anno, alla morte del padre, abbandonò quel posto e passò alcuni anni tra Milano e la campagna lombarda; nel  riprese la carriera diplomatica, tornando a Roma e assumendo vari incarichi, ma senza interrompere l’attività letteraria. Dopo la pubblicazione di Amori (), mise praticamente fine al suo lavoro di scrittore e si concentrò esclusivamente nell’attività pubblica. Nel  sposò Carlotta Borsari, da cui ebbe tre figli; fu poi console in Colombia e tra il  e il  ambasciatore ad Atene. Andato in pensione nel , si dedicò alla collezione di oggetti artistici e archeologici. Morí il  novembre .



Tra concretezza e deformazione fiabesca

La formazione

Le Note azzurre

La carriera diplomatica

L’attività pubblica

... La ricerca espressionistica di Dossi. Con il breve romanzo L’Altrieri-nero su bianco, pubblicato a soli diciotto anni nel , Dossi rivela la forza di uno stile inconsueto, che si immerge nella rievocazione dell’infanzia e dell’adolescenza (un tempo che, come rivela il titolo, per l’autore non è nemmeno tanto lontano): la narrazione, in prima persona, segue alcuni episodi della vita di Guido Etelredi, alter ego dell’autore, attraverso il quale i ricordi reali del Dossi si deformano, traducendosi in qualcosa di fantastico, di artificiale. L’infanzia si presenta qui come un caldo e fascinoso mondo di figurine coloratissime, come felicità originaria (assicurata dal legame con la madre) in cui, a poco a poco, il protagonista scopre però le prime presenze del dolore e della costrizione. La scrittura è retta da un lessico ricchissimo, in cui agli elementi toscani si intrecciano forme lombarde e di altre aree regionali, parole rare e letterarie, termini che designano oggetti concreti e minuti, vere e proprie invenzioni lessicali. Il furore espressionistico del linguaggio de L’Altrieri andò parzialmente riducendosi e modificandosi negli scritti successivi: l’invenzione linguistica e il rifiuto dei modi banali e tradizionali della prosa rimasero costanti, ma lo scrittore mirò poi a un equilibrio piú «poetico», a una scrittura meno aggressiva e piú compiaciuta nella sua stranezza. Una forte ca-

L’Altrieri-nero su bianco

Rievocazione dell’infanzia

EPOCA



Vita di Alberto Pisani

Biografia di un «inetto»

La desinenza in A Alcune opere minori

Amori: autobiografia evanescente



LA NUOVA ITALIA

-

rica polemica anima comunque anche la Vita di Alberto Pisani (), storia dell’educazione letteraria e sentimentale di un personaggio ancora autobiografico (come rivela lo stesso nome), ma distanziato grazie all’uso della terza persona e all’immissione di bizzarri elementi fantastici. La memoria si pone qui come memoria «da penna d’oca», esibisce continuamente il suo carattere artificioso; il processo stesso della narrazione – che vede il protagonista ansioso di raggiungere, attraverso la scrittura, una donna capace di conferire un senso assoluto alla sua vita – è sottoposto a una corrosiva ironia, a un continuo spostamento di piani. La biografia dello scrittore, il percorso della sua formazione, è all’insegna dell’inettitudine, dell’incapacità di partecipare alla vita sociale, che egli guarda sempre da lontano, appartandosi sempre piú. L’esistenza e la scrittura appaiono come realtà che sfuggono a ogni previsione, che si muovono sempre in direzioni diverse da quelle che si vorrebbe loro imprimere. Mettendo insieme una serie di brevi racconti, descrizioni e riflessioni, Dossi mira a costruire una galleria di figure e di atteggiamenti «negativi»: nei Ritratti umani, dal calamaio di un medico () egli manifesta tutto il suo «malumore» verso la razza umana, verso i suoi incongrui e irrazionali comportamenti, ricorrendo alla sua corrosiva invenzione linguistica. Dalle figure maschili Dossi passa poi, con piú ambigua aggressività, a una serie di figure femminili nei racconti e nelle divagazioni de La desinenza in A (). La scrittura, per Dossi, rivela la propria piú autentica natura nel suo stesso materiale divenire, in quanto nasce dal coagularsi di gocce d’inchiostro (il volume Goccie d’inchiostro, , riunisce alcuni raccontini e bozzetti stravaganti e marginali): nei momenti migliori essa concentra in sé la piú ricca densità di idee, di sensazioni, di risentimenti; ma talvolta sembra fermarsi ai margini delle cose, risolversi in svolazzi esteriori e originali. E ancor piú debole essa si rivela quando tenta di disegnare l’immagine utopistica di un mondo «buono», governato da leggi paradossali e felici (si vedano i due scritti Il Regno dei Cieli, , e La colonia felice-Utopia lirica, ). Ma, quando ormai si stava immergendo nell’attività diplomatica, Dossi si congedò dalla letteratura con un delizioso ed elegantissimo volumetto, Amori (), che si presenta come punto di arrivo della sua costante ricerca di un nesso tra scrittura e felicità amorosa: Dossi traccia una aerea autobiografia amorosa, seguendo la storia di tanti legami affettivi evanescenti e inafferrabili e delineando figure femminili reali, immaginarie o effimere; e il ricordo di queste lievi presenze lo accompagna in un’ascesa nei cieli del paradiso, verso un amore in cui «ritornano, si rinfrescano, si riassumono» tutti gli amori passati. La prosa si arricchisce qui di leggere movenze liriche, di delicate vibrazioni, di eleganze estetizzanti, allontanandosi dal suo furore espressionistico piú tipico. Lo scrittore si abbandona alle piú umbratili e sfuggenti manifestazioni dell’amore.

... La Scapigliatura democratica. Adesione alla problematica sociale

Il «Gazzettino rosa» La narrativa

Esaurita la spinta sperimentale della prima generazione lombarda, l’atteggiamento ribelle della Scapigliatura animò poi un gruppo di scrittori e di intellettuali di varia origine, assai sensibili alla problematica sociale, attenti alle continue trasformazioni che lo sviluppo industriale creava in Italia e in particolare a Milano, impegnati a denunciare l’egoismo dei ricchi e a difendere i poveri, gli spostati, i reietti e gli abbandonati. Organo battagliero di questo gruppo fu il «Gazzettino rosa», fondato a Milano nel  da ACHILLE BIZZONI (-) e da Felice Cavallotti (cfr. ..): nelle sue pagine si esplicò l’ingegno critico di FELICE CAMERONI (-). All’orientamento della Scapigliatura democratica si legarono la produzione di Cletto Arrighi (cfr. ..); la narrativa violentemente antimanzoniana di CESARE TRONCONI (-), autore del romanzo Passione maledetta (); la convulsa narrativa popolare dell’anarchico e poi socialista PAOLO VALERA (-), di cui ricordiamo il romanzo Alla conquista del pane (; su Valera, cfr. anche ..).

.

SCAPIGLIATURA E DINTORNI

Lontano dalla carica aggressiva degli scapigliati, ma impegnato attivamente nella Milano di fine Ottocento in favore della causa socialista, fu il veronese POMPEO BETTINI (-), a cui si deve una varia produzione poetica, giornalistica, teatrale: la sua poesia rivela originali accenti di delicato realismo.

 Pompeo Bettini

... La Scapigliatura piemontese. Di una Scapigliatura piemontese si può parlare a proposito di alcuni aspetti della vita culturale torinese manifestatisi già negli anni Cinquanta. Una ricerca poetica legata agli orientamenti dei primi scapigliati è quella di GIOVANNI CAMERANA (-), morto suicida dopo una carriera di magistrato e una vita nutrita di vari interessi letterari e artistici (la raccolta dei suoi Versi fu pubblicata postuma dagli amici nel ). Nella poesia di Camerana, autore anche di notevoli disegni di paesaggi, si presentano spunti pittorici, immagini di natura ricche di evanescenti sfumature, percorse da luminose analogie, dietro le quali si annunciano richiami religiosi e cupi segni funebri; specialmente negli anni piú tardi, dopo il , i suoi versi rivelano contatti con modelli francesi (nell’orizzonte del simbolismo); ma ogni fase della sua attività è caratterizzata dalla ricerca di una musicalità leggera, dai toni smorzati e sospesi. Nell’ambito della prosa si svolge il lavoro del torinese ROBERTO SACCHETTI (-). Ma una migliore riuscita stilistica troviamo in GIOVANNI FALDELLA (-), di Saluggia, presso Vercelli, giornalista, deputato e senatore: la sua «irregolarità», tutta di tipo stilistico, tende a frantumare la realtà in una serie di elementi di colore, in forme linguistiche di diversa origine, manipolate con divertita indifferenza, senza la carica radicale caratteristica di Dossi. Ricordiamo le sue prose giornalistiche A Vienna. Gita con il lapis (), Roma borghese (), e, tra le opere narrative, Un serpe (-), Madonna di fuoco e madonna di neve (). Strettamente legato al modello stilistico di Faldella, anche se con una piú ampia presenza di elementi sentimentali, è il vercellese ACHILLE GIOVANNI CAGNA (-).

Giovanni Camerana

Giovanni Faldella

Un arguto espressionismo

˜

9.3 CARDUCCI E IL CLASSICISMO ... Il ritorno del classicismo.

Anche nella fase di maggiore diffusione del Romanticismo, le tendenze classicistiche non erano mai venute meno nella nostra letteratura: l’educazione scolastica contribuiva fortemente a mantenere in vita una cultura legata, anche se in modo piuttosto esteriore, alla tradizione classica, allo studio dei latini e anche dei greci; e poeti come Monti, Foscolo, Leopardi offrivano ancora originali modelli di linguaggio legato alla tradizione. Nel processo di formazione dello Stato unitario e nello svilupparsi di una nuova realtà industriale, il classicismo ridusse fortemente i suoi caratteri illuministici e razionalistici: si pose esclusivamente come rivendicazione di una secolare tradizione, come affermazione di continuità della cultura nazionale, come rifiuto di un troppo impegnativo confronto con la nuova cultura europea. Dal classicismo la nostra borghesia ricavò una sorta di repertorio di figure, di nozioni, di temi, sterile e chiuso in se stesso, legato spesso a una rivendicazione provinciale della presunta grandezza italiana. Con Carducci il classicismo si impose come modello di comunicazione poetica proprio perché fu recepito dal pubblico in una prospettiva retorica e nazionalistica. Intorno al  il rilancio del classicismo si spiega però anche con l’ormai diffuso fastidio per il Romanticismo fumoso e convenzionale. Contro di esso il classicismo esprimeva un’esigenza di realismo, proponendo un ritorno alla rappresentazione della realtà, ma in termini mediati dalle forme classiche; la realtà a cui esso mirava era quella catalogata e controllata dal linguaggio dei classici, anche se vi venivano incorporati piú diretti riferimenti alla vita contemporanea, e ne risultavano esclusi gli aspetti piú arcaici e convenzionali della tradizione. Un caso a sé – un esempio di spontaneo e discreto rapporto con la tradizione classicistica – costituisce l’opera del prete vicentino GIACOMO ZANELLA (-): nella sua poesia un sincero spirito religioso si associa a un altrettanto sincero patriottismo e a una cauta apertura al progresso scientifico (molto celebre l’ode Sopra una conchiglia fossile, del , apparsa nella raccolta dei Versi, ). Ma i suoi risultati migliori si hanno quando egli presenta le immagini di una serena e limitata vita provinciale, a contatto con una natura quieta e misurata (soprattutto nei sonetti dell’Astichello, ).

Classicismo e tradizione nazionale

Un repertorio retorico

Un realismo mediato

Giacomo Zanella

... Vita di un poeta-professore: Giosue Carducci. Nell’esperienza di GIOSUE CARDUCCI ebbero un peso fondamentale l’infanzia e la prima adolescenza passate in Maremma, a contatto con una natura dalle tinte forti e accese, con un mondo campestre che suscitò in lui un cumulo di sensazioni immediate e vigorose e un senso di vitalità e di rude energia, alimentando il suo spirito ribelle e aggressivo. Nato il  luglio  a Valdicastello, in Versilia, Giosue visse dal  al  in Maremma, ove, come medico condotto, lavorava il padre, abitando a Bolgheri e soprattutto a Castagneto. Lí fece i primi studi e le prime letture, stimolate soprattutto dal padre, dotato di buona cultura classica e molto curioso della letteratura contemporanea, di idee liberali, ma piuttosto autoritario nel contesto familiare. Nel  il padre perdette la condotta per le sue idee politiche e la famiglia dovette trasferirsi a Firenze, dove Giosue frequentò le scuole dei Padri scolopi: nel  fu ammesso alla Scuola Normale Superiore di Pisa, da dove uscí nel  laureato in filosofia e in filologia. In questo periodo universitario soggiornò anche in vari centri rurali della Toscana, dove il padre esercitava la sua professione, e tornò spesso a Firenze: qui partecipò alla società degli «Amici pedanti», che in modo duramente polemico mirava a una restaurazione del classicismo, contro tutte le tendenze romantiche e modernizzanti. Nell’anno scolastico - insegnò nel ginnasio di San Miniato, dove gli amici lo convinsero a stampare la sua prima raccolta di Rime; la sua situazione familiare, tipicamente piccolo-borghese e segnata da sacrifici e difficoltà, divenne allora particolarmente dura, an-

L’infanzia maremmana

Gli studi

EPOCA



L’attività editoriale

L’insegnamento

La stagione giacobina

Poeta di successo



LA NUOVA ITALIA

-

che in seguito a due gravi disgrazie: il suicidio del fratello Dante (novembre ), di cui alcuni attribuirono la responsabilità al padre, e la morte del padre stesso (agosto ). Giosue dovette farsi carico della madre e dell’altro fratello e si arrangiò curando varie edizioni di classici italiani per l’editore Barbèra di Firenze e impegnandosi in studi filologici; nel  sposò Elvira Menicucci, che conosceva già da alcuni anni, e alla fine dell’anno ne ebbe la prima figlia, Beatrice (ebbe poi altre due figlie e il piccolo Dante, morto nel ). Gli eventi del , con la guerra in Lombardia e con la caduta del governo granducale toscano, suscitarono il suo entusiasmo. Nella nuova situazione, fu subito nominato professore nel liceo di Pistoia, dove insegnò nell’anno -. Con decreto del  settembre , fu nominato professore di eloquenza italiana (piú tardi chiamata letteratura italiana) nella rinnovata università di Bologna. Trasferitosi con la famiglia a Bologna, pur tra molte difficoltà economiche e pratiche, si immerse in un intenso lavoro di insegnamento e di ricerca critica e filologica (a questi primi anni universitari risalgono i suoi piú riusciti scritti storici e critici). La delusione per la politica praticata dalla classe dirigente del nuovo Stato unitario (specie per ciò che riguardava il completamento del processo d’indipendenza e la liberazione di Roma), il malessere e l’insoddisfazione per la sua condizione economica e familiare, le stimolanti letture di quegli anni (soprattutto di storici repubblicani francesi, come Michelet e Quinet, e di poeti romantici laici e radicali, come il tedesco Heinrich Heine, -), lo spinsero su posizioni di tipo giacobino e repubblicano, con acceso e violento tono polemico, con un anticlericalismo furente e viscerale, fino ad atteggiamenti anarchici e socialisteggianti. Questi suoi atteggiamenti suscitarono vari interventi repressivi da parte delle autorità (e tra l’altro nel  Carducci fu sospeso per due mesi e mezzo dall’insegnamento). Nel  la sua vita fu funestata da gravi lutti: dalla perdita della madre e del figlioletto Dante; ma al dolore e all’insoddisfazione esistenziale si accompagnarono il successo di poeta (notevole già con la raccolta delle Poesie del ), una sorta di ripiegamento su se stesso

METRICA BARBARA GENERI E TECNICHE

tav. 186

Data la diversa natura della versificazione romanza rispetto a quella greca e latina (cfr. TERMINI BASE ), è estremamente difficile riprodurre in qualche modo nella poesia volgare gli schemi e le forme

della metrica antica; ma, a partire dall’Umanesimo, si annoverano numerosi tentativi di rimettere in uso i metri classici. Questo tipo di poesia e di metrica fu chiamata barbara da Carducci, che nelle sue Odi barbare tentò di metterne a punto alcune forme (cfr. ..): il termine barbara intendeva sottolineare il fatto che quella riproduzione dei metri classici poteva essere solo approssimativa e parziale, come in un tentativo fatto da «barbari» di appropriarsi delle forme classiche. Due sono stati gli orientamenti di coloro che hanno tentato questa difficile impresa. Alcuni hanno cercato di ricreare una vera e propria metrica basata sulla quantità, attribuendo valore quantitativo alle sillabe volgari (considerandole lunghe o brevi come quelle latine), in modo da riprodurre direttamente i piedi dei versi antichi: il primo a fare un tentativo in questo senso è stato Leon Battista Alberti, in occasione del Certame coronario (cfr. ..), seguito nel Cinquecento da Claudio Tolomei e altri (cfr. ..). Ma la natura stessa della lingua volgare rendeva questi tentativi insoddisfacenti: cosí, tra Cinquecento e Settecento ci furono vari esperimenti, soprattutto nell’ambito della lirica, orientati a riprodurre non la diretta scansione metrica dei versi antichi, ma il loro ritmo, attraverso usi e combinazioni di versi volgari che riproducessero l’andamento risultante dalla lettura moderna dei versi antichi. Carducci riprese e perfezionò quest’ultimo metodo, eliminando completamente l’uso della rima; ma il suo contributo piú originale fu costituito dalla individuazione di una forma per i due versi fondamentali della poesia latina, che avevano un numero variabile di sillabe, l’esametro e il pentametro (rispettivamente di sei e cinque piedi). La poesia barbara di Carducci, con le varie imitazioni che la seguirono alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento, contribuí alla rottura degli schemi strofici e ritmici della tradizione poetica, alla ricerca di nuove forme non codificate, alla variazione della misura del verso, indirizzando la scrittura poetica verso nuove forme di verso libero (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ).

.

CARDUCCI E IL CLASSICISMO

e l’affacciarsi di nuovi desideri ed esperienze. Nel  iniziò una relazione amorosa (durata fino al ) con una donna piena di ambizioni intellettuali, che era entrata in rapporto con lui attraverso uno scambio epistolare: Carolina Cristofori Piva (-), moglie di un colonnello dell’esercito (chiamata Lina o Lidia nelle lettere e in alcune poesie). Nel  fu candidato democratico alle elezioni parlamentari: ma il suo giacobinismo andava progressivamente riducendosi e annacquandosi e, dopo la liberazione di Roma, egli si avviava ad accettare il ruolo della monarchia dei Savoia come garante dell’unità italiana. Giunse cosí a uno spettacolare cambiamento di posizione (simile a quello di molti personaggi di origine democratica e repubblicana e di ampi settori della massoneria, a cui egli era affiliato): e la cosa fu favorita dal fascino che esercitava su di lui la figura della regina Margherita (che vantava curiosità intellettuali) e dall’apprezzamento che essa manifestò per la sua poesia. Dopo un incontro con i sovrani in occasione di una loro visita ufficiale a Bologna nel novembre del , scrisse un’ode Alla regina d’Italia, e intorno al  infittí i suoi riconoscimenti alla monarchia e cercò sempre nuove occasioni di celebrazioni ufficiali (sia in poesia, sia in discorsi di circostanza di vario tipo). Aderí alla politica «forte» di Crispi, nutrendo una crescente avversione per il socialismo e ponendosi come «vate» ufficiale dell’Italia umbertina; nel  fu nominato senatore del Regno. Il suo carattere impetuoso e risentito restava però dominato da desideri e malumori e attirato da nuovi sentimenti amorosi (come quello per la giovane poetessa ANNIE VIVANTI, -); ma, nonostante la celebrità, visse tetramente gli ultimi anni. Presso l’editore bolognese Zanichelli curò l’edizione completa delle sue Opere (-); nel  lasciò l’insegnamento e nel  vide consacrata la sua posizione di poeta ufficiale della nuova Italia con il premio Nobel per la letteratura; morí a Bologna, per un attacco di broncopolmonite, il  febbraio .



L’adesione alla monarchia

Vate dell’Italia umbertina

Gli ultimi anni

... Le raccolte poetiche del Carducci. È abbastanza difficile seguire lo sviluppo della poesia di Carducci attraverso le raccolte da lui edite, perché egli organizzò i suoi componimenti piú volte e in modi diversi, dandone solo relativamente tardi una sistemazione generale e definitiva (nell’edizione delle Opere), che non corrisponde precisamente all’ordine con cui egli pubblicò le prime raccolte, e che si basa insieme su criteri cronologici e su distinzioni di «generi»: componimenti contemporanei e dai caratteri molto simili possono quindi trovarsi in raccolte diverse.

Le raccolte e l’edizione definitiva

Dopo la pubblicazione, nel , delle Rime giovanili (dette Rime di San Miniato), la prima organica raccolta di Carducci fu quella, in quattro libri, dei Levia Gravia (titolo latino, ricavato da Ovidio, che indica un insieme di poesie leggere e di poesie gravi), pubblicata nel  con lo pseudonimo di Enotrio Romano. Nel  uscí un volume dal titolo Poesie, in tre parti (di cui la prima, Decennalia, comprendeva le poesie politiche del decennio -, la seconda si intitolava ancora Levia Gravia, la terza Juvenilia, cioè poesie giovanili); dopo il successo di questo volume, apparvero nel  le Primavere elleniche, dedicate a Lidia e basate su un’elegante ripresa di modelli antichi (e passate poi nella raccolta delle Rime nuove); nel  apparvero le Nuove poesie di Enotrio Romano, con quarantasei componimenti di vario tipo; nel  uscí il primo libro di versi costruiti secondo gli schemi della metrica barbara (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ), le Odi barbare (a cui seguirono nel  le Nuove Odi barbare e nel  le Terze Odi barbare). Nel  usciva la raccolta intitolata Giambi ed Epodi, che includeva gran parte delle precedenti poesie polemiche e giacobine (il titolo si riferisce a un verso e a un tipo di componimento usati dai classici per una poesia polemica o moralistica), nel  venivano pubblicate le Rime nuove (nelle quali confluiva il meglio della precedente poesia non «barbara»: la parola rime indicava appunto che i componimenti si basavano sui metri della tradizione romanza) e nel  la raccolta definitiva delle Odi barbare (che riuniva i testi delle tre precedenti raccolte); nel  usciva l’ultima raccolta, Rime e ritmi (che includeva sia poesie basate sulla metrica italiana, sia poesie basate sulla metrica barbara, chiamate ritmi).

Bibliografia carducciana

EPOCA





LA NUOVA ITALIA

-

... Svolgimento e caratteri della poesia carducciana. Classicismo e progresso umano

Contro lo squallore contemporaneo

Esaltazione del libero pensiero e l’Inno a Satana

Realismo classicistico

Attenzione alla poesia europea La ricerca della bellezza

Classicismo celebrativo

Il ripiegamento malinconico

La poesia di Carducci si articola in piú momenti, riconducibili alle diverse esperienze umane e ai diversi orientamenti ideologici dell’autore: ma resta sempre fedele a un ideale di classicismo fiero e vigoroso, a un rifiuto della «vaporosità» e del languore sentimentale romantico, alla ricerca di un equilibrio «ideale», che vuol essere espressione di una umanità sana e operosa. Carducci mira costantemente a una letteratura che si accosti alla realtà e si opponga a ogni dissoluzione delle forme tradizionali, che «restauri» i grandi modelli del passato confrontandoli con le esigenze del presente. A questo bisogno di armonico equilibrio si sovrappone però uno spirito aspro e «selvaggio» che gli fa cercare l’urto, lo scontro, la polemica: il richiamo della rude vita campestre della Maremma, il ricordo del mondo della sua infanzia e della sua adolescenza, lo fanno scattare a piú riprese contro il mondo politico e intellettuale, e lo inducono a cercare una vita diversa e piú libera, che non abbia nulla a che fare con i ritmi tetri e lenti della sua esistenza di professore e di studioso. Egli giudica i modelli classici lo strumento idoneo a dar voce a questi impulsi e guarda al passato storico come a una fonte di vigore, che la poesia deve risuscitare contro lo squallore del presente, collaborando cosí all’autentico progresso dell’umanità. Nei primi anni giovanili queste energie si incanalano nella rivendicazione dell’unità d’Italia e nell’esercizio di un classicismo che si oppone testardamente a tutte le forme della cultura contemporanea; ma subito dopo il  egli rivitalizza quel classicismo collegandolo alla tradizione repubblicana, giacobina, anticlericale, esalta il «libero pensiero» che porta l’umanità verso un futuro ricco di nuovi ideali e di nuove possibilità materiali, e si fa attento alla realtà sociale e alle genuine forze del «popolo». Il celebre Inno a Satana (), che suscitò scandalo e diede luogo a varie polemiche, ha la forma di un’ode classicheggiante (principale modello sono certe odi di Monti), ma è una esaltazione del libero pensiero laico, che, riallacciandosi alla tradizione del paganesimo antico, si è liberato dai vincoli della superstizione religiosa e si muove vittoriosamente verso il futuro. La poesia carducciana negli anni Sessanta e in gran parte degli anni Settanta si risolve (soprattutto nei Giambi ed Epodi, ma anche in alcune delle Rime nuove) in un realismo classicistico, che si basa su immagini corpose e plastiche e fa irrompere negli schemi della poesia tradizionale frammenti di una materia nuova, «pezzi» di realtà fisica. Questo realismo classicistico esplode nel modo piú violento nelle poesie politiche e satiriche, che si riferiscono spesso a occasioni molto precise, ma raggiunge i risultati migliori in alcuni testi piú distesi e trionfanti (come nella «ripresa» tra i due libri dei Giambi ed Epodi, dal titolo Avanti! avanti!, dell’ottobre ), o in alcune evocazioni di immagini storiche o di accesi paesaggi naturali (soprattutto in Rime nuove). Questo realismo classicistico si nutre anche di una cauta attenzione alla moderna poesia europea, traendo temi e spunti da poeti come Victor Hugo e Heinrich Heine (e interessanti sono le traduzioni di Carducci da questi e altri poeti ottocenteschi). Soprattutto a cominciare dalle Primavere elleniche, il classicismo di Carducci comincia a cercare soluzioni che mirano a una riesumazione preziosa della bellezza classica: i richiami al mondo contemporaneo si traducono ora in momenti di piú sfumata malinconia e di piú ambigua sensibilità, oppure in toni pomposi e celebrativi, con una retorica piú esteriore e atteggiata. Nel corso degli anni Settanta nella scrittura di Carducci coesistono ancora prospettive diverse: il suo realismo plastico si sovrappone ancora a un classicismo prezioso e celebrativo, che finisce però per dominare nelle Odi barbare; qui la ripresa dei metri e delle forme classiche assume spesso caratteri estetizzanti, che fanno pensare addirittura ad atteggiamenti parnassiani (cfr. PAROLE, tav. ). Mentre si avvicina a posizioni monarchiche e conservatrici e si trasforma in poeta ufficiale dell’Italia umbertina, Carducci riduce progressivamente il suo spirito irruente e polemico: una volta che la società riconosce ed esalta il valore della sua poesia, il vecchio leone smette di ruggire. La fedeltà alla tradizione classica e alle idealità nazionali, il suo energico spirito laico e anticlericale non sono scomparsi, ma gli accenti piú sinceri coincidono ora con i momenti di sottile malinconia o di cupa disperazione.

.

CARDUCCI E IL CLASSICISMO

Se la si considera nella sua globalità, l’esperienza poetica di Carducci si risolve non tanto in un’ultima vigorosa difesa della tradizione classica, ma piuttosto in un suo impoverimento, in una sua chiusura in un ambito nazionalistico e provinciale: di un simile classicismo, che manca di quel respiro universale che caratterizzava il classicismo di Leopardi, Carducci riesce a fare un modello «nazionale», che si impone e resiste nella media cultura borghese, fino agli anni del fascismo: il suo successo testimonia anche l’arretratezza di gran parte della cultura e delle classi dirigenti dell’Italia postunitaria, e dà in ogni modo un’immagine concreta delle aspirazioni, delle velleità, delle incertezze di quel mondo.



Un classicismo professorale

... Temi e risultati del Carducci poeta. In un saggio Benedetto Croce definí Carducci «poeta della storia», sottolineando il vigore delle sue rappresentazioni storiche, il pathos e il calore con cui la sua poesia sa evocare momenti del passato, ricrearne i contorni concreti, rilevarne la distanza e insieme recuperarne tutto il valore umano e ideale. Questa dimensione storica della poesia di Carducci era per Croce un segno essenziale della sua sanità e classicità, che egli contrapponeva all’irrazionale e alle «malattie» del decadentismo: egli sopravvalutava cosí il valore delle rievocazioni carducciane, ma metteva comunque in evidenza uno dei temi piú costanti della poesia del maremmano. Le immagini, le situazioni, gli incontri del presente sospingono sempre Carducci verso il passato, verso momenti in cui fioriva una vita diversa, avvertita come piú integra e vigorosa di quella attuale; in quanto tale, il passato ha un carattere «classico» e non presenta quegli aspetti oscuri, mitici, fantastici, contraddittori, che avevano avuto un peso essenziale per la visione romantica della storia. L’attenzione di Carducci non va solo al mondo degli antichi, ai modelli della bellezza greca e della «virtú» romana: egli sente il fascino anche di altre epoche, che però riconduce sempre a quella prospettiva di impronta classica; e particolare attenzione egli presta al Medioevo comunale, visto come esperienza di libertà, come grande espressione di virtú laiche, come vigoroso modello di vita repubblicana; ma molte poesie dedica anche alla Rivoluzione francese (fino ai sonetti del Ça ira del , compresi poi nelle Rime nuove), agli eventi piú vicini del Risorgimento italiano, e alle realtà piú diverse e lontane. Ma questo culto della storia si lega anche a una visione del mondo retorica e professorale: Carducci sembra volere a tutti i costi trascrivere nella poesia le impressioni e gli entusiasmi delle sue letture e dei suoi studi; le sue evocazioni si sviluppano spesso in modo sistematico, prendendo spunto da visioni di monumenti o di paesaggi, e si configurano come una appassionata ma meccanica illustrazione, paragonabile a quella che una guida turistica fa di luoghi e di nomi incontrati nel corso di un viaggio. La poesia storica di Carducci raggiunge un tono inconfondibile proprio a partire dalla sua origine libresca: nonostante le sue ambiziose intenzioni, essa finisce per rappresentare una storia degradata, ridotta a misure borghesi e piccolo-borghesi; e risulta piú felice quando lascia trasparire gli umori personali dell’autore, le sue rabbie e insoddisfazioni, il suo originario fondo paesano e popolare (come per esempio ne Il comune rustico, , nelle Rime nuove). I risultati migliori di Carducci vanno cercati là dove, sotto la scorza del classicismo e della retorica professorale, si rivelano il mondo semplice e selvaggio della natura, il paesaggio maremmano dell’infanzia e adolescenza del poeta, la vita popolare semplice ed elementare, improntata al lavoro e ai sani valori familiari e insieme minacciata dalle forze ineluttabili della malattia e della morte. Le immagini piú intense di questo mondo nascono dal confronto con la vita cittadina di Carducci professore, tanto diversa da quella vissuta in quel passato ormai irrecuperabile: la Maremma e il ricordo degli anni là trascorsi vengono incontro al poeta con la forza di un mondo acceso e violento, ma nel quale tutto si ripete secondo ritmi eterni e immutabili, «ove soffia dal mare il maestrale». È un mondo arcaico che la nuova realtà in movimento rende sempre piú lontano e di cui la memoria vuole ostinatamente conservare alcuni bagliori vivacissimi, solari: là infatti il poeta riconosce le ragioni

Poeta della storia e del passato

Virtú antica e mediocrità del presente

Un repertorio erudito

Tra storia e risentimento personale

La Maremma: il passato irrecuperabile

Un mondo arcaico e genuino

EPOCA



Il moto distruttivo della natura

Un linguaggio cupo e dolente

Due capolavori

Tra malinconia e retorica



LA NUOVA ITALIA

-

della sua forza piú autentica e genuina. In alcune poesie (per quanto discontinue e piene di asprezze) Carducci riesce a fare della sua Maremma uno dei paesaggi piú intensi e concreti della nostra moderna letteratura (si ricordino, tra le Rime nuove, Idillio maremmano, -, e Davanti San Guido, ; e, tra le Odi barbare, Sogno d’estate, ). In altre poesie delle Rime nuove si insinuano sfumature piú intime e dolorose, uno sguardo inquieto al moto distruttivo che domina la natura, anche nelle sue sembianze piú semplici e leggere: in primo luogo Pianto antico (, sulla morte del figlioletto Dante), Nostalgia (), Tedio invernale (): le immagini della natura e del paesaggio esterno tracciano allora un tessuto di grigie apparenze, sembrano immergersi in una fosca caligine che riduce a nulla il senso del vivere. In alcune Odi barbare il verso, lavorato con cura sottile, approfondisce le «sue possibilità di risonanza pensosa e dolente», il linguaggio si fa «piú brunito e “fosco”» (Binni), la stessa sintassi sembra scavarsi entro colori grigi e di cenere: i risultati piú intensi sono due componimenti del , l’ode Alla stazione in una mattina d’autunno e l’elegia Mors-nell’epidemia difterica, e l’altra elegia Nevicata (). Anche in queste «barbare» permane tuttavia il linguaggio classicistico, che spesso stride con lo sfondo realistico e con l’aspirazione del poeta a dar voce a un «tedio che duri infinito», ad azzerare il suo stesso linguaggio. Questi limiti non si sentono piú in alcune Rime nuove, che traducono grigiore e malinconia in nitidissime ed elementari immagini di natura, precise e oggettive, ma nello stesso tempo piene di risonanze segrete, che sembrano aprire la strada alla poesia di Pascoli; piccoli capolavori sono due testi del : San Martino (la cui ricezione è però rovinata dal troppo uso che se ne è fatto nelle scuole) e Visione (in cui l’infanzia lontana si riaffaccia come qualcosa di inafferrabile, senza spessore, «senza memorie, senza dolore, / pur come un’isola verde, lontana, / entro una pallida serenità»). Questa aspirazione a «perder peso», ad annullarsi, contrasta singolarmente con la pesantezza, il vigore polemico, l’empito retorico della piú corrente poesia di Carducci: qualche prova originale si manifesta anche nell’ultima raccolta Rime e ritmi, dominata da testi celebrativi; ma la malinconia è qui troppo atteggiata, tende a esibirsi in forma colta e sapiente, ad appoggiarsi su immagini erudite ed esteriori.

... Carducci prosatore e critico. Una prosa tra tradizione e parlato

Un toscano aggressivo

I lavori accademici e la critica carducciana

Alcuni titoli

Oltre all’opera in versi, Carducci ha lasciato una fittissima produzione in prosa, frutto di un lavoro quotidiano: essa si lega in gran parte alla sua attività di studioso della letteratura italiana, ma è anche rivolta a precisare le sue scelte letterarie e ideologiche, e si configura come intervento nel mondo politico e culturale contemporaneo. Spesso legata a esigenze e a finalità pratiche, questa prosa presenta comunque un impasto linguistico e stilistico di notevole interesse: libera dai troppo stretti vincoli classicistici che pesano sulla poesia dell’autore, essa intreccia con vivacità diversi modelli della tradizione italiana (dai toscani del Trecento ai prosatori cinquecenteschi), schemi ricavati dagli autori antichi, aperture verso il parlato e la lingua della media conversazione colta contemporanea. Alla base c’è naturalmente il toscano popolare, acquisito da Carducci fin dalle sue origini familiari: un toscano pieno di aggressività e di tensione, esattamente agli antipodi del fiorentino tutto assettato e ripulito dei manzoniani (cfr. ..), contro cui il Carducci polemizzò sempre duramente. Gli scritti in prosa possono distinguersi sommariamente in tre gruppi: . Scritti storici e critici, legati piú direttamente al lavoro di studioso e di professore di Carducci, che si impegnò in un vero e proprio dissodamento della tradizione letteraria italiana, in un’analisi approfondita di autori, testi, generi letterari di tutti i secoli. Egli non ha un metodo definito, ma è costantemente guidato da un senso preciso della concretezza dei testi, del loro aspetto linguistico, retorico e formale; è attento al «fare» dei poeti, ai modi con cui essi costruiscono le loro opere, ai rapporti che i generi e le forme istituiscono tra loro. Tra i moltissimi saggi ricordiamo Della varia fortuna di Dante (-), Dello svolgimento della letteratura nazio-

.

CARDUCCI E IL CLASSICISMO

nale (-), la Storia del «Giorno» di Giuseppe Parini (), Dello svolgimento dell’ode in Italia (). Egli curò molte edizioni di testi: e restano utilissimi i suoi ricchi commenti al Poliziano () e alle Rime di Petrarca (con la collaborazione dell’allievo Severino Ferrari, ). . Scritti di polemica e di intervento, sia in materia letteraria, sia su altri temi (di carattere politico, ideologico, autobiografico, celebrativo ecc.). Qui l’impasto della prosa carducciana raggiunge le sue punte piú vigorose, in modi anche eterogenei e disordinati, tra momenti di rabbiosa aggressività, di acre ironia, di invettiva concitata, tra ricordi e richiami alla propria condizione personale. Questi scritti, frutto della collaborazione alle piú importanti riviste letterarie, furono raccolti inizialmente nelle tre serie di Confessioni e battaglie (, , ). . L’epistolario, pubblicato in ventun volumi tra il  e il o: esso ci mostra la varietà degli atteggiamenti umani di Carducci, pronto ad accostarsi anche a quei modi della sensibilità contemporanea che egli tiene invece lontani dalla propria poesia, e spesso vittima di momenti di sconforto, di tetraggine e di malinconia, insofferente della fatica quotidiana e perfino del proprio ruolo ufficiale. Grande interesse hanno le lettere scambiate con Carolina Cristofori Piva, che costituiscono una sorta di «romanzo d’amore»: in quelle pagine Carducci sembra tentare tutte le strade possibili per evadere dal suo mondo professorale e familiare, insegue i modelli piú diversi di linguaggio amoroso, proietta il suo rapporto con la donna in una sfera di gesti eleganti, che si contrappongono alla banale e pesante mediocrità del mondo quotidiano.



Gli interventi polemici

L’epistolario

Le lettere a Caterina Cristofori Piva

... Tra realismo e classicismo: la poesia dell’età carducciana. Si è già detto in .. che nella poesia dei decenni immediatamente successivi all’unità è presente una cauta ricerca di realismo, sotto il segno di una sostanziale continuità con la tradizione classica. Di questa ricerca di realismo Carducci rappresentò l’aspetto piú teso e «sublime», prima piú solido e vigoroso, poi piú prezioso e ufficiale. Altri poeti (assai apprezzati dallo stesso Carducci) si tennero su toni piú bassi e colloquiali, tentando di aderire ai caratteri piú quotidiani dell’esistenza contemporanea, senza proiettarla su colorati sfondi storici; non cercarono il sublime, ma il canto leggero, qualche volta sostenuto da spunti di ironia, di falsetto, di tenue malinconia di fronte alle cose, che fornirà qualche spunto alla poesia dei crepuscolari (cfr. ..). A una pacata rappresentazione di una vita borghese chiusa in un cerchio di esperienze private e casalinghe, percorsa da intenerimenti amorosi, ma controllata sempre da uno spirito moralistico, mira la poesia del veronese VITTORIO BETTELONI (-), che raggiunge i suoi risultati piú nitidi nella raccolta In primavera (). Grande successo ebbe la poesia del forlivese OLINDO GUERRINI (-), funzionario e poi direttore della Biblioteca universitaria di Bologna, che esordí nel  con Postuma, sotto lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti, da lui presentato come un suo cugino morto di tisi a trent’anni. Il falso personaggio-poeta raccoglieva nella sua voce lirica le immagini di una realtà squallida e in disfacimento, figure umane quotidiane e tristi, concreti segni di corruzione, di sofferenza e di morte, accompagnate da scatti satirici e parodistici. In risposta alle polemiche sorte dopo la scoperta della vera identità dell’autore, Guerrini pubblicò con il proprio nome nel  altri versi, Polemica e Nova polemica, difendendo una poesia di tipo «verista». Un classicismo ridondante e pedantesco, inadatto a esprimere i nuovi contenuti, pesa su molti tentativi di poesia radicale e materialistica, per esempio sui versi del catanese MARIO RAPISARDI (-). Il successo e l’autorità di Carducci generarono, infine, una vera e propria scuola classicista, amante degli sfondi storici e aperta a toni e a misure diverse, a equilibrate rappresentazioni di paesaggi naturali, a intenzioni celebrative ed erudite, ma anche a sfumature piú sottili e «moderne». Strettamente legati al piú ortodosso classicismo carducciano sono vari autori dell’area tosco-emiliana, tra i quali si può ricordare SEVERINO FERRARI (-), assistente di Carducci all’università; vicina alle prospettive carducciane, ma arricchita dai rapporti con le letterature straniere è la poesia di Enrico Nencioni (cfr. ..).

Quotidianità colloquiale

Vittorio Betteloni

Olindo Guerrini

Mario Rapisardi La scuola classicista

˜

9.4 GIOVANNI VERGA E IL VERISMO ... La narrativa naturalista.

Il terreno su cui la letteratura europea si impegna piú compiutamente nella rappresentazione della realtà è quello della narrativa, che si accosta in modo diretto alla vita quotidiana e opera una attenta ricostruzione di ambienti, personaggi, situazioni e conflitti, cosí da offrire una immagine efficace del mondo contemporaneo. Nella seconda metà del secolo, specialmente in Francia, la narrativa realista non guarda alla realtà sociale in modi generici, ma elaborando un metodo rigoroso che si basa sui fatti, su un’analisi delle condizioni ambientali e psicologiche che agiscono sui personaggi, e rifiuta ogni ingerenza del narratore nelle vicende narrate. Si vuole una narrazione oggettiva, che intrecci circostanze concrete, che riproduca in modo esatto, con un controllo quasi scientifico, le circostanze reali, cosí come esse si presentano a un’osservazione spregiudicata e libera da proiezioni deformanti di tipo ideale o sentimentale. Per definire questo tipo di narrativa si tende a usare il termine naturalismo (cfr. PAROLE, tav. ), spesso esteso a tutte le forme narrative che si propongono di riprodurre la «natura» esterna in maniera precisa, quasi di fotografare il reale: in senso piú generale questa scrittura «naturalistica» si basa sulla convinzione che un linguaggio diretto, privo di particolari artifici stilistici, sia in grado di offrire un’immagine credibile della realtà; essa quindi mira a concentrare l’interesse sulla materia della narrazione, piú che sulle sue forme. Il trionfo del naturalismo narrativo è il frutto di una vera e propria battaglia condotta in Francia da diversi scrittori, che collaborano a definire una poetica naturalistica in senso stretto. Nel corso degli anni Sessanta il giovane Emile Zola (-) usa deliberatamente il termine naturalismo e dà, con il romanzo Thérèse Raquin (), una rappresentazione analitica e scabrosa della vita di un personaggio femminile, iniziando poi il grande ciclo dei Rougon-Macquart, una serie di romanzi che seguono la storia «naturale e sociale» dei membri di una famiglia. Al  risale il saggio di Zola Le roman expérimental (“Il romanzo sperimentale”), definizione del metodo narrativo naturalistico, che segue da vicino gli orientamenti della scienza positivistica e mira a sviluppare la narrazione per via «sperimentale», da premesse che con il loro intreccio determinano il destino di personaggi e di gruppi sociali. Il naturalismo di Zola ha un’impronta laica, democratica e progressista, e mira, attraverso la conoscenza della realtà sociale, a un miglioramento delle condizioni di vita. Accanto al naturalismo in senso stretto, nacque già negli anni Ottanta una narrativa che, discostandosi dall’orientamento «sperimentale», tentava soprattutto di svolgere sottili analisi psicologiche, incentrandosi su individui eccezionali (e sviluppando motivi «decadenti», che qualche volta erano penetrati anche nella narrativa realistica e naturalistica).

NATURALISMO

Lo scrittore, il narratore e la realtà

Una scrittura «scientifica»

Émile Zola

I romanzi psicologici

/ VERISMO

La grande diffusione di una letteratura e di un’arte di tipo realistico intorno alla metà dell’Ottocento suscitò vivaci dibattiti e discussioni sulla rappresentazione della realtà, sui diversi modi di avvicinare la letteratura al vero: i dibattiti che si svolsero in Francia negli anni Cinquanta ebbero come loro insegna il termine piú generale di realismo (cfr. TERMINE BASE ). Fu Emile Zola a usare per primo, nel suo programma per una narrativa capace di rispecchiare le forme concrete della realtà, il termine naturalisme (cfr. ..), che nel secolo XIX era variamente impiegato nella scienza, nella filosofia e nelle arti figurative, per indicare diversi modi di attenzione alle forme della realtà. Naturalismo è quindi un termine dai molteplici significati e viene usato, tra l’altro, per indicare quelle filosofie che mettono al centro del loro interesse la natura, escludendo ogni realtà a essa estranea. In Italia i diversi tentativi, configuratisi con forza già negli anni Cinquanta, di un piú diretto rapporto con la realtà (cfr. .) portarono a un uso molto insistente del concetto di vero, e ciò determinò l’adozione del termine verismo, che cominciò a diffondersi negli anni Sessanta, e negli anni Settanta fu assunto come formula per definire una nuova narrativa che guardava a Zola e al naturalismo francese, ma con una sua autonoma specificità.

PAROLE

tav. 187

EPOCA



Italia e Francia



LA NUOVA ITALIA

-

La produzione narrativa francese e le discussioni a essa collegate suscitarono echi continui nel nostro paese: molti critici e critici-scrittori contribuirono a sostenere e ad approfondire questo interesse; oltre a De Sanctis, attento all’opera di Zola (cfr. ..), una funzione di primo piano nella diffusione del naturalismo francese ebbero Felice Cameroni (cfr. ..) e Luigi Capuana (cfr. ..).

... Realismo e verismo nella nuova letteratura italiana. Dopo Manzoni

La ricerca del «vero»

Dopo il : il regionalismo

Narrativa moralistica e psicologica

Dopo il 

Già a partire dagli anni Cinquanta, la letteratura italiana si accosta in vari modi alle nuove realtà e ai nuovi modi di rappresentazione che si collocano nella prospettiva del realismo. Dalle esperienze della letteratura «campagnola», e dello stesso Nievo, all’attenzione al mondo popolare di un autore «democratico» come Dall’Ongaro (cfr. .. e ..), dalla ricerca di De Sanctis all’intreccio tra realismo e classicismo che si dà in molte esperienze poetiche, prima fra tutte quella di Carducci, ai molteplici tentativi lirici e narrativi che si svolgono nell’orizzonte della Scapigliatura, tutta la letteratura italiana sembra voler cercare la via della «realtà», al di là dei modelli offerti dalla letteratura romantica e dal moderato e controllato realismo di Manzoni. In questo accumularsi di esperienze, si comincia a usare già negli anni Sessanta il termine verismo (cfr. PAROLE, tav. ), per designare una letteratura che si accosta al «vero» nella sua nuda e semplice evidenza: e i decenni Sessanta e Settanta sono percorsi da un’animata serie di discussioni e di tentativi, che mirano a precisare i limiti e le forme in cui questo tipo di letteratura deve operare. Firenze (soprattutto nel periodo dal  al , in cui svolge il ruolo di capitale del nuovo Stato unitario) e Milano sono i centri in cui il dibattito si sviluppa nel modo piú animato: a Firenze si elabora l’ipotesi di una rappresentazione «temperata» della realtà, di un misurato equilibrio tra ideale e reale; ma in Toscana i risultati piú notevoli di questo orientamento sono raggiunti dalla pittura dei macchiaioli (cfr. PAROLE, tav. ). Molto piú aperte ai nuovi caratteri dello sviluppo industriale e alle contraddizioni sociali della nuova Italia sono le esperienze che hanno il loro punto di riferimento in Milano: la loro carica di insoddisfazione e di ribellione si riassume nelle diverse tendenze della Scapigliatura e in un’attenzione spregiudicata, anche se spesso disordinata, alla narrativa straniera, soprattutto francese, e alle prime prove del naturalismo. Gli anni Settanta, per la narrativa italiana, sono caratterizzati da riprese di modelli narrativi francesi e da varie prove di accostamento al «vero»: e, in alcuni casi, si manifesta una nuova attenzione alle realtà locali, che rivelano sempre piú le difficoltà del loro inserimento nelle prospettive di sviluppo del nuovo Stato unitario. Dal confronto con il naturalismo francese e dall’interesse per le realtà regionali derivano i maggiori risultati del verismo italiano, che trova la sua massima spinta intorno al , con l’opera di Verga e di Capuana, e l’affermarsi del metodo dell’impersonalità (cfr. ..); nel corso degli anni Ottanta la produzione narrativa è dominata da questo tipo di verismo, ma molti scrittori tendono già a distaccarsene, a formulare immagini piú equilibrate e controllate, a esprimere propositi moralistici o sottili sfumature sentimentali o psicologiche (in primo piano, in tal senso, è l’opera di Fogazzaro). Nel , mentre Verga mette fine alla sua esperienza veristica con Mastro-don Gesualdo, suo ultimo romanzo, si ha, con Il piacere, l’esordio narrativo di D’Annunzio, che inaugura un orientamento estetizzante e decadente, volto alla ricerca di sensazioni e di esperienze d’eccezione. I modi della scrittura narrativa restano comunque, per tutti gli anni Novanta – anche negli autori lontani dal verismo – dominati da schemi di rappresentazione di tipo naturalistico: e proprio negli anni Novanta appare uno dei capolavori del verismo, I Viceré di De Roberto, mentre si hanno le prime prove narrative di Pirandello (cfr. ..) e, completamente ignorati, i due primi romanzi di Svevo (cfr. ..).

.

GIOVANNI VERGA E IL VERISMO



... I nuovi narratori siciliani. Il metodo verista viene elaborato nel modo piú coerente e con i piú alti risultati da alcuni scrittori siciliani (tutti originari di un’area geografica molto ristretta, quella di Catania), particolarmente sensibili alla contraddizione tra la nuova realtà dello Stato unitario e il fondo arcaico della vita della Sicilia, resistente a ogni integrazione nazionale. Capuana e Verga fanno parte della generazione che aveva vent’anni al momento dell’impresa dei Mille; De Roberto, nato a Napoli da padre napoletano e da madre siciliana, ma tornato molto presto a Catania, è di vent’anni piú giovane. Ma, in modi diversi, tutti e tre vivono la frattura tra la propria condizione siciliana, l’appartenenza a un mondo rimasto a lungo separato dalle tendenze essenziali della cultura italiana, e l’ambizione di partecipare da protagonisti alla nuova letteratura, di inserirsi senza complessi al centro della nuova cultura unitaria. Da una parte essi sentono la spinta ad allontanarsi dal loro paese, a cercare contatti con i piú vivi centri nazionali (Firenze negli anni Sessanta, e poi soprattutto Milano), ma dall’immersione in questa vita piú mossa, piú aperta e progredita, ricevono poi anche una sollecitazione opposta a recuperare le proprie radici: ritornano allora in patria, o fanno del mondo siciliano materia centrale della loro narrativa. Animati da una forte coscienza unitaria, condividono gli ideali del Risorgimento, le aspirazioni di rinnovamento radicale che esso aveva suscitato in Sicilia; ma proprio per questo vivono, in modo molto piú acuto che non gli intellettuali di altre aree regionali, la delusione per la sconfitta di quegli ideali, per il loro impoverimento nella pratica e nell’amministrazione quotidiana, per la loro incapacità di trasformare una realtà dura e violenta come quella siciliana. Questa delusione non li porta però ad assumere posizioni democratiche o progressiste: la conoscenza della realtà sociale siciliana, della secolare prepotenza che ne domina ogni aspetto e che con l’unità ha trovato soltanto nuove forme e nuovi strumenti, li induce a guardare con sfiducia a ogni possibile modificazione, ad accettare in sostanza le gerarchie e il sistema sociale presente. Ma negli esiti piú alti la loro narrativa, capace di guardare impassibilmente il «vero», ci offre l’immagine piú concreta della realtà siciliana, di un mondo che sembra rimasto fuori della storia; Capuana e Verga espongono per la prima volta questa materia al confronto con un linguaggio narrativo nazionale, con una lingua che si rivolge a tutta l’Italia borghese. Essi non propongono modelli o ideali di comportamento, esistenze esemplari da imitare o da contemplare con ammirazione: negano al lettore la possibilità di identificarsi con la materia narrata, di compiacersi dei caratteri del mondo che descrivono. Le loro pagine sono dominate da un senso di solitudine e di costrizione, lontanissimo dallo spirito aperto e nutrito di scambi collettivi che anima il naturalismo francese: ma i rapporti con la narrativa francese sono comunque essenziali per i veristi siciliani, in particolare per quanto concerne il canone dell’impersonalità. Questo canone, che ha uno dei suoi grandi modelli in Flaubert, consiste nel far vivere e parlare direttamente i personaggi, rappresentando la loro realtà mentale e sociale senza che l’autore proietti su di loro le proprie idee e i propri sentimenti. Con questi scrittori, capaci di rappresentare un mondo rimasto compresso per secoli, nasce un nuovo paesaggio letterario, quello della Sicilia accesa e bruciata, violenta e passionale, funebre e solare; nasce tutta una serie di nuovi personaggi guidati da impulsi ciechi, da cupa voracità economica, da distruttivi lampi di follia: e nasce una nuova letteratura che nella propria «sicilianità» trova la forza e la capacità di rifiutare tanti miti ed equivoci dell’Italia moderna, e che si svilupperà con vigore fino a Pirandello, Brancati, Sciascia.

... Luigi Capuana. Tra i «veristi» siciliani, LUIGI CAPUANA è quello che raggiunge i risultati meno estremi e radicali: egli si pone, con la sua ricchissima attività di critico e di narratore, come attento

Sicilianità e cultura unitaria

Crollo degli ideali risorgimentali

Un pessimismo conservatore

Una letteratura radicale

Il canone dell’«impersonalità»

Rifiuto dei miti contemporanei

EPOCA



Mediatore del naturalismo europeo Vocazione letteraria

Arte, scienza e ricerca della «forma»

L’attività critica e didattica

Una vasta produzione

Giacinta: i malesseri privati della borghesia



LA NUOVA ITALIA

-

mediatore della cultura naturalistica europea, che sa tradurre in equilibrata osservazione della realtà, in attente analisi psicologiche, in curiosità per gli aspetti strani e inquietanti dell’esperienza. Nato nel  a Mineo (in provincia di Catania) da una famiglia di borghesia agraria, Capuana, dopo vari tentativi nella poesia di tipo romantico, si propose di cimentarsi nel teatro; dal  al  visse a Firenze, allora capitale, e intrecciò rapporti con gli ambienti letterari della città (e lí tra l’altro iniziò la sua lunga amicizia con Verga), divenendo nel  critico teatrale de «La Nazione». Il soggiorno fiorentino fu essenziale per l’approfondirsi del suo interesse per la narrativa (apparve allora la sua prima novella, Il dottor Cymbalus, ) e per la definizione di alcune idee di base sull’arte e sul necessario rapporto tra arte e scienza, idee che egli precisò e sviluppò negli anni successivi, ma alle quali rimase sostanzialmente fedele: egli intese l’opera d’arte come «forma» vivente, come organismo dotato di una propria vita, e sottolineò l’affinità tra l’esperienza dell’artista che dà forma alla vita e quella dello scienziato «positivo». Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta si impegnò nella battaglia per una letteratura aderente al «vero», ma lontana dal ribellismo della Scapigliatura: e il rapporto con Verga lo spinse a precisare il canone dell’impersonalità. Il percorso dei suoi interventi militanti e delle sue idee sull’arte si può seguire tra l’altro nelle due serie di Studi sulla letteratura contemporanea ( e ), nello studio Per l’arte () e nella raccolta Gli «ismi» contemporanei (). Tornato a Mineo nel , Capuana si occupò dell’amministrazione dei beni familiari e di politica locale. Visse poi tra Roma, Milano e Mineo; nel  ebbe il posto di docente di letteratura italiana presso l’Istituto superiore femminile di Magistero di Roma (dove insegnò piú tardi il giovane Pirandello, che con Capuana ebbe stretti rapporti, cfr. ..). Nel  si trasferí all’Università di Catania, come docente di lessicografia e stilistica; e a Catania morí nel . I molteplici e vivaci interessi di Capuana, la sua disponibilità a sperimentare generi e tecniche diverse, l’eccezionale ampiezza e varietà della sua produzione, rendono difficile fornire anche solo un rapido elenco delle sue opere (e oltre al lavoro di scrittore, di critico e di giornalista, occorrerebbe ricordare gli studi sul folclore siciliano, la sua curiosità per la poesia popolare, le sue indagini sullo spiritismo e sui fenomeni parapsicologici, la sua attività di fotografo). La sua prima opera di forte impegno, che suscitò discussioni e polemiche, è il romanzo Giacinta, del . Dedicato a Zola, Giacinta segue la vicenda di un personaggio femminile, che al vuoto di autentici affetti familiari e al peso dei pregiudizi sociali (sul suo onore grava il ricordo di uno stupro subito nell’infanzia) reagisce cercando di affermare i propri sinceri sentimenti

LA LETTERATURA PER L’INFANZIA GENERI E TECNICHE

tav. 188

Una letteratura dedicata all’infanzia comincia a svilupparsi soltanto nel secolo XVII, raccogliendo in primo luogo le tradizioni della fiaba popolare. Nella raccolta di fiabe di Basile (cfr. ..), il riferimento all’infanzia contenuto nel sottotitolo (lo trattenemiento de li peccerille) non indica una vera e propria destinazione dell’opera a un pubblico di bambini, ma piuttosto il tono infantile e fiabesco che l’autore vuole dare alla narrazione. Esplicitamente destinata a un pubblico di bambini è invece la raccolta del francese Charles Perrault (-), Contes de ma mère l’Oye (“Racconti di mia madre l’Oca”, ), che utilizza tradizioni orali e raccolte fiabesche di varia origine. Con il Romanticismo l’attenzione all’infanzia si collega alla passione per la letteratura popolare e per le forme originarie e «ingenue» del mito: con le celebri fiabe dei fratelli Jakob (-) e Wilhelm (-) Grimm, Kinder und Hausmärcken (“Fiabe per bambini e per famiglia”, -), si crea un nuovo linguaggio mitologico-simbolico. Al di là degli schemi della fiaba e della narrazione fantastica, la letteratura infantile del secondo Ottocento, a cui la diffusione della scolarità offrí un mercato sempre piú ampio, vide l’uso di schemi

.

GIOVANNI VERGA E IL VERISMO

fuori da un normale modello di esistenza. Ma questa situazione provoca fatalmente un’alterazione del suo equilibrio psichico, che ha come sbocco il suicidio: il narratore rappresenta con lucidità il malessere della protagonista, il suo scontro con la chiusa e mediocre società che la circonda, ma nel fatale percorso che porta alla sua sconfitta sembra voler riconoscere quasi l’esito di una legge razionale. Il romanzo ha qualcosa di acerbo, anche dal punto di vista linguistico: ma il suo interesse sta nel tentativo di analizzare in maniera sottile e spregiudicata i malesseri interni alla vita privata borghese. La vastissima produzione novellistica di Capuana (circa trecento novelle, distribuite in vario modo nelle numerose raccolte da lui pubblicate) si configura come obiettiva disamina di situazioni irregolari, dei disorientamenti e delle contraddizioni che insorgono nell’intimo dei personaggi, condizionando i loro comportamenti quotidiani e minando fatalmente il loro equilibrio; numerose novelle della prima fase sono dedicate a personaggi femminili, alla vita privata di donne che si muovono su eleganti sfondi cittadini e borghesi; l’autore indaga con sottigliezza le forze inquietanti che sorgono all’interno di questi personaggi femminili, gli indefinibili malesseri che ne ostacolano una libera espressione. L’attenzione del novelliere ai casi psicologici si intreccia spesso alla ripresa di motivi bizzarri e fantastici (riferibili anche allo spiritismo e alla parapsicologia); nelle novelle ambientate in Sicilia (raccolte nel  nel volume Le paesane) Capuana non mira agli effetti drammatici delle analoghe novelle di Verga, ma insiste su casi singolari e curiosi, su figure e situazioni di colore locale (utilizzando anche la sua conoscenza del folclore siciliano). Capuana possiede grandi doti artigianali e dà alle sue novelle una misura «perfetta»: la sua nitida prosa sembra adeguarsi con naturalezza ai fatti narrati e dà i risultati migliori nelle numerose fiabe per bambini che compose attingendo al vasto repertorio del folclore siciliano. Nella schematicità e nel ritmo ripetitivo della tradizione fiabesca popolare Capuana inserisce una delicata ironia e un’allegra invenzione fantastica, che fanno delle sue fiabe veri e propri capolavori (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ). Meno felice è invece la fitta produzione teatrale, che si colloca soprattutto negli ultimi anni: con Malía (), egli imboccò la strada del teatro dialettale siciliano, in cui si impegnò soprattutto nel nuovo secolo, a contatto con il lavoro del commediografo catanese NINO MARTOGLIO (-). Ma il risultato piú sicuro di questa multiforme attività di Capuana è costituito dall’ultimo romanzo, Il marchese di Roccaverdina (), la cui redazione si prolungò per quasi vent’anni. Ambientato nel mondo contadino siciliano, il romanzo cerca di portare a una purezza quasi «classica» l’oggettività e lo psicologismo (che avevano caratterizzato altri suoi romanzi di minor rilievo). Siamo di fronte a un naturalismo depurato: ma dietro l’oggettività della narrazione balenano le tracce, appena percettibili, di un’inquietudine personale, di un ambiguo rapporto che certamente Capuana visse con il concreto mondo del suo paese natale.

ricavati dalla letteratura per gli adulti, con elementi avventurosi, sentimentali, umoristici: si venne a distinguere una letteratura rivolta ai piú piccini, essenzialmente fiabesca e fantastica, e una letteratura rivolta ai ragazzi tra infanzia e adolescenza, di tipo piú realistico, spesso con propositi pedagogici. Il secondo Ottocento, con le opere di Collodi e di De Amicis (cfr. .. e ..), ma anche con le raccolte di fiabe di Capuana, costituisce il grande momento della letteratura infantile in Italia. Nel Novecento si è avuta, naturalmente anche in Italia, una vastissima produzione di letteratura infantile: scrittori di primo piano (come per esempio Italo Calvino) hanno spesso composto testi destinati ai ragazzi. Tra quanti si sono piú direttamente impegnati in quest’ambito, vanno ricordati almeno VAMBA (pseudonimo di LUIGI BERTELLI, -), autore di uno dei maggiori successi del genere, Il giornalino di Giamburrasca (), SERGIO TOFANO (-), scrittore, disegnatore e uomo di teatro, «padre» del celebre Signor Bonaventura, e GIANNI RODARI (-), che con grande inventiva ha percorso la via di una letteratura per l’infanzia insieme fantastica e razionale, orientata verso un’educazione civile e democratica.



La novellistica

Un mondo contadino allucinato

Le fiabe per l’infanzia

Il teatro dialettale

Il marchese di Roccaverdina: oggettività e psicologismo

EPOCA





LA NUOVA ITALIA

-

... Vita di Giovanni Verga. Recupero delle radici

Una sfiducia crescente

La vocazione letteraria

A Firenze

Il rapporto con Giselda Foianesi

A Milano

L’attività narrativa

La vocazione di scrittore di GIOVANNI VERGA prende avvio come ricerca del rapporto con un «centro», al di fuori dell’originario mondo siciliano. Ma proprio il contatto con le città piú vitali del nuovo Stato unitario (Firenze e Milano), con modelli culturali e un pubblico di tipo nazionale, determina in lui una originalissima riscoperta delle radici «provinciali», una spinta opposta a recuperare la realtà siciliana per dare voce a quel mondo rimasto per tanto tempo fuori dal divenire, dominato da leggi dure e immutabili. Questo ritorno si lega a una sfiducia sempre piú forte nei confronti della mobile società moderna e a un atteggiamento di sempre piú chiuso conservatorismo sociale: e dopo la fase piú creativa (che coincide con gli anni Ottanta), lo scrittore, ritornato anche fisicamente in patria, vede inaridirsi la sua vena e si distacca progressivamente dal mondo letterario, vivendo una vecchiaia ombrosa e appartata di possidente. Verga nacque il  settembre  a Catania (o, secondo alcuni, a Vizzini, dove i suoi avevano delle proprietà) da una famiglia di piccola nobiltà agraria, di orientamenti liberali e antiborbonici. Iscrittosi nel  alla Facoltà di legge dell’Università di Catania, seguí svogliatamente gli studi, attratto da una vocazione letteraria che i familiari, piuttosto colti e illuminati, non ostacolarono. Nel , con l’arrivo dei garibaldini, si arruolò nella Guardia Nazionale (che aveva la funzione di sostenere il nuovo regime unitario) e vi rimase fino al . In questi anni collaborò a riviste letterarie e politiche e pubblicò i romanzi patriottici I Carbonari della montagna e Sulle lagune; nella primavera del  compí un primo viaggio a Firenze, allora capitale d’Italia, dove tornò nella primavera del , con una lettera di presentazione per Francesco Dall’Ongaro (cfr. ..): si inserí allora nei salotti intellettuali fiorentini, partecipando alla vita elegante e mondana, pieno di interessi per il «movimento incessante» da cui vedeva animata la vita della città. Aveva già pubblicato il romanzo Una peccatrice (), ma il successo lo toccò nel  con l’altro romanzo Storia di una capinera: intanto tentava anche esperimenti teatrali e lavorava al romanzo Eva (concluso e pubblicato a Milano nel ). Conosciuta la giovane maestrina Giselda Foianesi, viaggiarono insieme nel settembre  da Firenze a Catania, dove lei iniziò a insegnare nel Convitto provinciale: la ragazza sposò nel  Rapisardi (cfr. ..), ma un nuovo incontro con Verga nel  fece nascere tra loro un’intensa relazione amorosa, scoperta nel  dallo stesso Rapisardi, che scacciò Giselda. Nel novembre  Verga si trasferí a Milano (dove risiedette quasi stabilmente per una ventina d’anni), attratto dal vivace mondo editoriale e giornalistico della città, dai numerosi stimoli che lí poteva trovare una narrativa rivolta al pubblico della nuova Italia borghese: notevoli furono i suoi contatti con alcuni degli scapigliati e con altri letterati interessati alla moderna narrativa europea. Assai importanti, tra gli altri, i suoi rapporti con Gualdo, Cameroni, Giacosa (e dal  con Capuana, trasferitosi in quell’anno a Milano e legato a Verga da forte amicizia già dai tempi del soggiorno fiorentino). Alla realtà culturale milanese si intrecciava, specialmente negli anni Settanta, la componente mondana, l’elegante vita dei salotti borghesi: e a questo universo sono collegati i nuovi romanzi di Verga, Tigre reale ed Eros, pubblicati nel . Ma intanto, con la pubblicazione di Nedda (), lo scrittore aveva inaugurato una intensa produzione di novelle e insieme quell’interesse per il mondo popolare siciliano che doveva poi «convertirlo» al verismo: dal vario lavoro dei tardi anni Settanta, funestati dalla perdita della madre molto amata (), nascevano le raccolte di novelle Vita dei campi () e Novelle rusticane (), la progettazione del ciclo romanzesco de I vinti, la pubblicazione de I Malavoglia (). Nel contempo Verga pubblicava anche opere di ambientazione non siciliana, come il romanzo Il marito di Elena () e le novelle Per le vie (), e iniziava la stesura del Mastro-don Gesualdo. Convinto dell’importanza delle sue nuove opere, egli ne intraprendeva anche la promozione e diffusione internazionale, iniziando nel  la corrispondenza con lo scrittore svizzero Edouard Rod (-) e compiendo nella primavera del  un viaggio a Parigi (durante il quale fece visita a Zola) e a Londra.

.

GIOVANNI VERGA E IL VERISMO

Lo scrittore era deluso per la scarsa fortuna de I Malavoglia e stanco per l’intenso lavoro svolto, ma nel  ottenne un grande successo a teatro, con il dramma Cavalleria rusticana. Sull’onda di questo successo compí in quell’anno un altro viaggio a Parigi, incontrando Zola, Edmond de Goncourt, Rod (che nel  pubblicò la traduzione francese de I Malavoglia), e lavorò ad altre novelle (nel  uscirà la raccolta Vagabondaggio) e al Mastro-don Gesualdo. Aveva intanto avviato un nuovo rapporto con la contessa Paolina Greppi, ma nel contempo difficoltà economiche e psicologiche fecero arenare il suo progetto di continuare il ciclo de I vinti. Tra il  e il  fece lunghi soggiorni a Roma: ma tra l’estate del  e il novembre del  risiedette soprattutto in Sicilia, lavorando ancora al Mastro-don Gesualdo, che apparve in volume nel , con notevole successo. Visse poi ancora alcuni anni a Milano, scrivendo e pubblicando varie novelle, confluite nelle due ultime raccolte, I ricordi del capitano d’Arce () e Don Candeloro e C.i. (); nell’autunno del  si recò a Francoforte e a Berlino, dove veniva rappresentata la Cavalleria rusticana. L’eccezionale successo toccato alla Cavalleria rusticana nella versione musicata da Pietro Mascagni, e andata in scena per la prima volta il  maggio , spinse Verga a una lunga azione legale contro il musicista e l’editore Sonzogno, per veder riconosciuti i propri diritti economici: al termine della causa incassò, nel , la considerevole somma di . lire. Verga si ritirò definitivamente a Catania, confortato dall’affettuosa amicizia della contessa Dina Castellazzi di Sordevolo, conosciuta nel : dalla sua città si mosse solo per brevi viaggi e vacanze. Nella sua vita di possidente a riposo, egli ridusse sempre piú l’attività letteraria. Visse l’inizio del nuovo secolo appartato, deluso della propria passata attività di scrittore, chiuso in una tetraggine di conservatore angosciato di fronte a ogni novità e mutamento della vita sociale, preoccupato in modo ossessivo dell’amministrazione del suo patrimonio, tormentato da risentimenti e cattivi umori e allietato solo dalla frequentazione di amici come Capuana e il devotissimo De Roberto. Un nuovo interesse per la sua opera si manifestò negli anni della sua estrema vecchiaia: Luigi Russo gli dedicò nel  un saggio, e affettuosi riconoscimenti gli vennero da Pirandello e da Tozzi. Nominato senatore nell’ottobre , fu un’ultima volta a Roma a prestare giuramento; colpito da trombosi cerebrale, morí a Catania il  gennaio .



Il successo teatrale

Le ultime raccolte

Definitivamente in Sicilia

Gli ultimi anni

... Verga prima del verismo. Una formazione di tipo romantico e patriottico, sostenuta da appassionate letture di romanzi storici e d’appendice (da Guerrazzi a Dumas padre), portò il Verga giovanissimo alla stesura di tre romanzi storico-patriottici costruiti proprio sugli schemi della piú convenzionale letteratura d’appendice (Amore e patria, scritto nel  e rimasto inedito; I Carbonari della montagna, -; Sulle lagune, ). A situazioni sentimentali inserite nella vita quotidiana contemporanea, senza piú nessun risvolto politico o patriottico, è dedicata la successiva produzione narrativa di Verga fino all’approdo al verismo: i cinque romanzi che spesso vengono designati come «mondani» pongono in primo piano l’incontro-scontro di un personaggio maschile con le attrazioni pericolose della femminilità, con l’universo «mondano» che circonda la donna nella società borghese. Essi costituiscono una specie di autobiografia fittizia: ci descrivono infatti il giovane provinciale che, in cerca della vocazione artistica, subisce la seduzione della vita sociale elegante e brillante dei grandi centri borghesi, e insieme avverte il pericolo, la minaccia di disintegrazione che quella società comporta per la sua esperienza piú autentica e originale. Discontinui e molto diversi tra loro, questi romanzi si adeguano spesso a modelli e immagini convenzionali, presentano personaggi, ambienti, situazioni troppo atteggiate e sovraccariche (sovente riconducibili a contemporanei romanzi francesi); non riescono a equilibrare sviluppo narrativo e presenza del narratore, con il suo irresistibile bisogno di espressione autobiografica, e la lingua appare spesso incerta, troppo affrettata e disinvolta. Il primo di essi, Una peccatrice, scritto nel  e pubblicato nel , ha per protagonista un giovane commediografo

L’esordio storicopatriottico

Un’autobiografia fittizia Riflesso del gusto contemporaneo Una peccatrice

EPOCA



Storia di una capinera Eva

Tigre reale ed Eros



LA NUOVA ITALIA

-

catanese, che il rapporto con una seducente contessa riduce a una distruttiva sterilità, a una condizione di artista fallito. Storia di una capinera, apparso a puntate nel  sulla rivista di moda «La Ricamatrice» e in volume l’anno dopo, è un romanzo epistolare che si pone direttamente dal punto di vista di una figura femminile. In Eva, iniziato già a Firenze nel  e poi pubblicato a Milano nel , si narra la vicenda di un pittore siciliano a Firenze, distrutto dall’amore per una ballerina. I due romanzi del , Tigre reale ed Eros, si orientano in due direzioni diverse: il primo descrive gli effetti corruttori esercitati sul protagonista da una contessa russa; Eros registra il progressivo consumarsi, fino al suicidio, di un «uomo di lusso».

... La strada del verismo. Ragioni di una «conversione»

La narrativa giovanile di Verga si lega a generici modi «realistici», che intorno alla metà degli anni Settanta piegano verso il «verismo»; s’impongono un nuovo sguardo alla realtà siciliana e la ricerca di una narrazione «oggettiva», da cui sia allontanata ogni traccia dei sentimenti dell’autore. Sono vari i motivi che portano Verga a questa sorta di «conversione»: una sostanziale insoddisfazione per i futili ambienti mondani, una diffidenza crescente verso il sentimentalismo romanzesco, l’attenzione al naturalismo francese stimolata anche dall’amicizia con Capuana, la nostalgia per la terra natale, un nuovo interesse per la questione meridionale (cfr. DATI, tav. ). Ma soprattutto egli avverte il bisogno di rappresentare una realtà «lontana», che, pur sorgendo da un mondo ben conosciuto, non coincida con la sua esperienza attuale, collocandosi altrove, in un’origine remota.

Il mondo contadino di Nedda

Con la novella Nedda, pubblicata in opuscolo nel , Verga tenta per la prima volta di rappresentare il mondo contadino siciliano, narrando le disgrazie di una povera raccoglitrice di olive: seguendo i modi della letteratura «campagnola» (cfr. ..), l’autore propone al pubblico una commossa partecipazione alle sventure dell’umile personaggio. E mentre la raccolta di novelle Primavera ed altri racconti (, ma datata ) continuava modi e temi ancora romantici, questa attenzione alla realtà siciliana si acuiva nel «bozzetto marinaresco» Padron ’Ntoni, primo abbozzo de I Malavoglia, già compiuto nel ; scontento di questo bozzetto, Verga rinunciò a pubblicarlo, ma nel giro di pochi anni (specialmente dopo l’arrivo di Capuana a Milano nel ) conquistò appieno la nuova ottica verista, progettando un ciclo di romanzi dal titolo I vinti, lavorando a I Malavoglia e alle novelle raccolte in Vita dei campi e nelle Rusticane.

Il bozzetto Padron ’Ntoni

Osservare «da una certa distanza»

L’amante di Gramigna Concezione del ciclo de I vinti

Da alcuni documenti di questi anni risulta chiaro come il canone dell’impersonalità si leghi strettamente, per Verga, alla necessità di guardare al mondo dei contadini o dei pescatori «da una certa distanza»: egli è convinto di poter dar forma alla verità di quel mondo solo osservandolo «sotto un dato angolo visuale», secondo un’ottica «lontana» che si colloca «in mezzo all’attività di una città come Milano o Firenze». Nella parte iniziale della novella L’amante di Gramigna pubblicata nel , egli manifesta l’intenzione di sviluppare il racconto «colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare», mettendo il «fatto nudo e schietto» al centro della creazione artistica. Verga inserisce questa dimensione narrativa nella propria visione globale dell’esistenza (di matrice positivistica), che si riassume nell’ideazione di un ciclo di cinque romanzi, sotto il titolo complessivo I vinti (in un primo momento La marea): I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, La duchessa di Leyra, L’onorevole Scipioni, L’uomo di lusso. In una lettera all’amico Salvatore Paola Verdura del  aprile , lo scrittore presenta questo ciclo come «una specie di fantasmagoria della lotta per la vita», che egli intende seguire gradualmente nelle diverse classi sociali, dalle piú basse alle piú alte. In questa lotta per la vita, come indica poi la prefazione de I Malavoglia, si traduce il «cammino fatale» dell’umanità verso il progresso, l’«immensa corrente dell’attività umana» che trascina tutto con sé, indipenden-

.

GIOVANNI VERGA E IL VERISMO



temente dalle aspirazioni degli individui: lo scrittore si pone come «osservatore», che si interessa (senza giudicare) dei vinti, cioè di quanti vengono travolti dalla «fiumana» del movimento sociale. In questa registrazione «distante» di un processo che riguarda l’intera scala sociale, Verga inizia dalle classi piú basse, da quel mondo popolare siciliano che per secoli era rimasto ancorato ai suoi valori arcaici: la sua lontananza dal moderno mondo borghese e cittadino viene sottolineata nella novella del  Fantasticheria, inserita come novella introduttiva nella raccolta Vita dei campi. Sotto forma di discorso rivolto a una elegante signora che ha soggiornato con l’autore per quarantott’ore nel borgo di pescatori di Aci Trezza, il testo offre un sintetico scorcio sul mondo poi rappresentato nel romanzo I Malavoglia. Verga sottolinea cosí tutta l’incommensurabilità tra il mondo «alto» (quello dei precedenti romanzi) e il mondo di «quei poveri diavoli»; alla frivolezza, ai desideri sottili e alle artificiali vanità della vita borghese, viene opposto l’orizzonte chiuso, immobile, dominato dalla dura necessità naturale della vita dei poveri. E lo scrittore rivendica l’autenticità di questa esistenza ripetitiva e rassegnata, retta dalla «religione della famiglia», fatta di poche essenziali certezze: alle «irrequietudini del pensiero vagabondo», al «turbine» di una realtà in continua trasformazione, si oppone la forza di «quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione».

Fantasticheria

La «religione della famiglia»

... Verga novelliere: Vita dei campi. La raccolta Vita dei campi, pubblicata dall’editore Treves nel , comprende novelle apparse in rivista tra il  e il  e assai vicine all’elaborazione de I Malavoglia (si tratta, nell’ordine in cui sono raccolte, di Fantasticheria, ; Jeli il Pastore, ; Rosso Malpelo, ; Cavalleria rusticana, ; La Lupa, ; L’amante di Gramigna, ; Guerra di santi, ; Pentolaccia, ): in esse la nuova esperienza veristica si impone con uno scatto di vitalità primigenia, che cambia radicalmente l’orizzonte della comunicazione narrativa, sconvolgendo i suoi consueti punti di riferimento. La scoperta della nuova materia sembra presentarsi qui come «insurrezione lirica dei primitivi» (L. Russo), come fulminea affermazione di personaggi estranei alle artificiali complicazioni della vita civile, dominati da passioni elementari e originarie. Questo mondo, rimasto tanto a lungo fuori della storia, appare regolato da una «fatale necessità», che impone rapporti fatti di cose, di crude esigenze materiali; la vita della campagna siciliana si rivela attraverso i suoi ritmi sempre uguali, la costrizione della miseria e del lavoro piú ingrato, l’ostilità della natura, la violenza reciproca tra gli uomini, motivata da immutabili gerarchie sociali, dall’egoismo individuale, da tradizioni e da precise regole di comportamento. Come si è già accennato, Verga vede in questo mondo elementare e assoluto una sorta di valore originario: nell’adesione dei suoi personaggi a una immobile natura e ad arcaiche tradizioni egli scorge una piú profonda autenticità, l’immediata capacità di accettare fino in fondo la durezza della lotta per la vita. Ma lo scrittore deve nello stesso tempo affermare l’alterità di quei personaggi e di quel mondo; e la sua nozione di impersonalità e la sua poetica della «distanza» servono proprio a portare fino in fondo questa alterità. La materia non viene piú proiettata entro il linguaggio e la coscienza dell’autore (come accadeva, per la rappresentazione del mondo contadino, ne I Promessi Sposi, nella letteratura «campagnola» e in parte ancora in Nedda): la narrazione viene da una voce popolare, che racconta i fatti dall’interno di quel mondo a cui i personaggi appartengono. Essa procede in modo rapido e immediato, affidandosi soprattutto a un incalzante dialogo, come se ci si trovasse su di una scena teatrale, mentre i particolari descrittivi, i gesti, i movimenti, le azioni, le interpretazioni nascono entro il linguaggio stesso del narratore, che comporta varie deformazioni e alterazioni rispetto alla realtà oggettiva.

Struttura della raccolta

Fatale necessità di un mondo ripetitivo

Alterità della materia

Il narratore popolare interno alla materia

EPOCA

 Tragicità e sarcasmo



LA NUOVA ITALIA

-

Ma questa voce del narratore popolare non delinea i personaggi con una particolare simpatia: spesso essa descrive gli «eroi» protagonisti, il loro tragico destino con sarcasmo e aggressività (del resto in molte arcaiche società contadine non si prevede alcuna partecipazione sentimentale alle sventure degli altri). Il sovrapporsi di tensione tragica e di interventi sarcastici, quasi estranianti (del narratore popolare), costituisce uno dei caratteri essenziali di queste novelle; e in molte di esse il dramma sorge dallo scontro tra gli «eroi», immersi nel loro mondo arcaico e immobile, e qualcosa che viene da fuori, dal mondo civile, e turba il difficile equilibrio della loro vita naturale.

... I Malavoglia. Progettazione e stesura

Il romanzo I Malavoglia, pubblicato a Milano dall’editore Treves nel , in quindici capitoli, costituisce la prima tappa del ciclo de I vinti ed è frutto di un lungo lavoro di progettazione e di stesura.

Vicenda narrata

Secondo il programma del ciclo, si comincia ora dal livello sociale piú basso: si rappresenta la vita dei pescatori di Aci Trezza e si narra la vicenda della famiglia Toscano (detta Malavoglia, con nomignolo ingiurioso, secondo un diffusissimo uso popolare) negli anni successivi all’unità d’Italia. La famiglia è guidata dal vecchio padron ’Ntoni; la barca da pesca (la Provvidenza) e la casa patriarcale detta «del nespolo» costituiscono i suoi essenziali mezzi e valori di vita. Ma una serie di disastri (che prende avvio dal tentativo di commerciare un carico di lupini e da un naufragio in cui muore il figlio di ’Ntoni, Bastianazzo) porta alla rovina economica e alla disgregazione della famiglia. I Malavoglia perdono la barca e la casa; il nipote ’Ntoni, venuto a contatto con la civiltà in seguito al servizio militare, rifiuta di tornare al duro lavoro tradizionale, si dà al contrabbando e a una vita dissipata, e finisce in carcere. L’altro nipote Luca muore nella battaglia di Lissa, nella guerra del ; la nipote Lia fugge a Catania dandosi alla prostituzione. Solo dopo lunghi sacrifici, il nipote Alessi riesce a riacquistare la casa del nespolo e a ricostituire gli essenziali valori familiari; ma questo ritorno è funestato dalla morte del vecchio ’Ntoni in ospedale, lontano da casa, mentre il giovane ’Ntoni, uscito dal carcere, capisce di non poter piú partecipare a quella vita antica che a stento ricomincia, e abbandona tristemente e per sempre il suo paese.

La voce della collettività

Orizzonte epico e mondo popolare

Per rappresentare questo mondo popolare Verga si basa su una rigorosa documentazione, dopo aver raccolto informazioni e dati concreti sulla vita dei pescatori e dei contadini, su usi, tradizioni, proverbi e modi linguistici del popolo siciliano. Ma la sua scrittura non è documentaria, non ha la freddezza dell’inchiesta sociale: essa vuole offrire di quel mondo un’immagine ricca e intensa, calandosi all’interno dei suoi valori arcaici; la partecipazione al destino dei personaggi esclude comunque una diretta partecipazione dell’autore. Anche qui lo scrittore realizza il canone dell’impersonalità, dando la parola a un narratore popolare; ma qui la voce tende a coincidere con l’intera comunità dei parlanti di Aci Trezza. Gli eventi appaiono tutti proiettati entro un punto di vista collettivo, come se a parlare fosse una sorta di «coro» (Russo). Le vicende dei Malavoglia sono sempre «pubbliche» (o meglio, in questa comunità non c’è nessuna differenza tra pubblico e privato), e la voce che racconta dà l’effetto di una comunicazione indifferenziata, in cui coincidono anche il presente e il passato, in cui tutto è immediatamente oggettivo. Il dialogo incalza con l’urgenza di qualcosa che è presente, lí davanti al lettore, in ogni momento dell’azione: esso si affida alle ripetizioni tipiche dell’epica e della letteratura popolare (attraverso l’uso di formule, di proverbi, di nomignoli, di allusioni a realtà e valori considerati assoluti e da tutti condivisi). In questo orizzonte epico e popolare anche i rapporti tra le cose sono caricati di motivazioni e di significati e grande rilievo possono assumere i particolari piú marginali e in apparenza insignificanti. Ma la stessa evidenza quasi «magica» della voce popolare mantiene uno scatto di ironia e di aggressività nei confronti dei personaggi e del loro destino. Il «coro»

.

GIOVANNI VERGA E IL VERISMO

che segue le vicende dei Malavoglia è sempre pronto a riconoscere che tutto ciò che accade è giusto, è come deve essere, e quindi a considerare le vittime come colpevoli di quanto loro accade; dal suo orizzonte è esclusa ogni pietà e ogni partecipazione sentimentale. Verga non rifà il verso alla narrativa popolare, ma crea un organismo nuovo, che contiene il punto di vista popolare entro il punto di vista (nascosto dal procedimento dell’impersonalità) dello scrittore borghese. E ciò comporta un’eccezionale soluzione linguistica: Verga inventa una nuova lingua, che si allontana radicalmente dalla tradizione manzoniana e che proietta entro le strutture medie dell’italiano corrente (includenti anche notevoli tracce di fiorentinismi e di lombardismi) le forme sintattiche, gli scatti colloquiali, le rapide condensazioni del dialetto siciliano. Si crea cosí una originalissima lingua dell’immediatezza narrativa. Ne emerge una narrazione dal singolare tono espressionistico e plurilinguistico, come se la scrittura si svolgesse da un fondo segreto di tensioni anche di tipo linguistico. In realtà tutto l’universo de I Malavoglia è in preda a laceranti contrasti: questa società arcaica è infatti rappresentata nel momento in cui comincia a recepire le trasformazioni destinate a mutarne i connotati e a distruggerla. La sventura dei Malavoglia (cosí come l’intreccio del romanzo) prende avvio proprio dalle prime novità che la «rivoluzione» e la formazione dello Stato unitario hanno portato in quel mondo (la partenza del giovane ’Ntoni per il servizio militare, imposto dal nuovo regime unitario). E numerose sono nel romanzo le situazioni in cui quel mondo immobile, rimasto sempre chiuso in se stesso, entra in un rapporto rovinoso e distruttivo con il nuovo mondo borghese. Il comportamento del vecchio ’Ntoni e quello del giovane incarnano i due modi diversi, ma entrambi destinati alla sconfitta, di confrontarsi con le trasformazioni a cui il loro mondo va incontro: il vecchio cerca di difendere i valori e le sicurezze della famiglia, ma tenta una nuova e rischiosa strada, quella del commercio, che lo porta a contatto coll’usuraio zio Crocifisso. Il giovane ’Ntoni, una volta segnato dal contatto con il mondo cittadino, perde le sue radici, non riesce piú a riconoscersi nei valori della famiglia e del lavoro tradizionale, e percorre una lunga parabola che lo porta all’esclusione, alla partenza senza ritorno. La ricostruzione della casa del nespolo e di quella arcaica «religione della famiglia» che essa rappresenta è possibile (nei termini di un idillio severo e privo di compiacimenti) solo per il giovane Alessi, che non è stato mai tentato dai richiami del nuovo mondo. Nel processo che porta alla sconfitta coloro che tentano di confrontarsi con il divenire storico del mondo e che fa ritrovare la pace familiare a chi rinuncia a ogni trasformazione si può riconoscere uno schema di tipo mitico: ne I Malavoglia i movimenti, i gesti, le vicende dei personaggi assumono il valore di simboli assoluti e senza tempo. Ma la grandezza di Verga sta nell’aver creato «un tempo misto, che concilia romanzo storico e romanzo etnologico, storia e mito» (Luperini): il mito è sempre confrontato con la sua distruzione, l’adesione ai valori arcaici è contraddetta dal punto di vista borghese, dall’ottica inevitabilmente distante con cui si guarda a quella realtà. Il lettore deve comprendere che per quel mondo si può provare un’inestinguibile nostalgia solo se si è altrove, solo se si avverte quanto in esso c’è di irrespirabile e soffocante, solo se si ha coscienza che da esso si deve partire, e se si è in grado di intuire che in esso è già presente il germe della disgregazione. La secolare rappresentazione letteraria delle classi subalterne esce cosí dallo spazio del comico e abbandona l’uso diretto del linguaggio popolare e dialettale: il nuovo originalissimo intreccio tra lingua e dialetto e la tecnica dell’impersonalità consentono per la prima volta di inserire un mondo «provinciale» concreto e circostanziato entro una visuale che nasce dal «centro» del sistema letterario nazionale.



Una narrazione «epica» in un romanzo borghese

Il confronto con i mutamenti

Due prospettive perdenti

Tra storia e mito

... Tra mondo contadino e mondo cittadino. Le due raccolte Novelle rusticane e Per le vie (uscite nel dicembre del  con la data del ) sono dedicate alla rappresentazione rispettivamente del mondo contadino siciliano e di quello popolare milanese. Nella prima raccolta (dodici novelle) la campagna catanese, che già era sta-

Novelle rusticane

EPOCA



Vicende collettive

La roba

Libertà

Il mondo popolare milanese: Per le vie

Il marito di Elena

Due prospettive inautentiche



LA NUOVA ITALIA

-

ta l’ambiente di Vita dei campi, si presenta nei suoi colori piú accesi e crudi, negli aspetti piú ossessivi del suo paesaggio naturale e sociale: le novelle non sono piú basate, come quelle della raccolta precedente, su singoli «eroi» primitivi, ma su situazioni collettive, che chiamano in causa numerose figure umane o interi gruppi sociali, legati tra loro da vincoli materiali, dalla durezza delle condizioni naturali e del lavoro agricolo, dal peso delle gerarchie e delle necessità economiche. È una folla di presenze spesso allucinate: frammenti di storie personali, brandelli di esistenza non si risolvono qui nelle forme tragiche e definitive di Vita dei campi, ma si prolungano nella ripetizione – spesso monotona – di gesti e situazioni, dove la sofferenza piú sorda si configura ormai come qualcosa di normale, di terribilmente consueto. Il punto di vista della narrazione tende a coincidere con quello dei personaggi, traducendosi in un uso particolare dello stile indiretto libero (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ), che già era presente ne I Malavoglia, ma che qui diventa direttamente azione, conflitto tra le voci dei personaggi, esplosione di mutui, aggressivi sarcasmi. Le novelle piú celebri della raccolta sono La roba (), rapidissimo scorcio sulla figura quasi mitica di un uomo, Mazzarò, che si è fatto da sé, che dal nulla ha costruito un’immensa ricchezza agricola, vivendo solo in funzione della sua «roba» e che, di fronte alla morte, vorrebbe portarla via con sé; e Libertà (), narrazione ellittica e incalzante dei tragici fatti avvenuti a Bronte nel  con la violenta insurrezione dei contadini contro i ricchi e la successiva repressione compiuta dai garibaldini (qui la cruda rappresentazione del conflitto sociale è dominata da un’ottica tutta «negativa», che implicitamente condanna ogni ipotesi di mutamento degli equilibri tra le diverse classi sociali). Nelle dodici novelle di Per le vie Verga coglie invece momenti e frammenti di vita del mondo popolare milanese: trasferisce la sua curiosità per i poveri dalla sua terra d’origine alla città, tanto diversa, in cui si svolgeva la sua esistenza quotidiana. A questa materia lo scrittore guarda con occhio meno «lontano»: la vita milanese, fitta di figure grigie e anonime, di persone chiuse nella loro solitudine, estranee alla frenesia che domina la città, suscita nel narratore suggestioni piú vaghe e malinconiche. Sull’opposizione tra la frivolezza cittadina e i solidi valori del mondo contadino si basa il romanzo Il marito di Elena (), che solo a uno sguardo superficiale può sembrare un ritorno ai romanzi «mondani». Nel mondo della Napoli borghese e piccolo-borghese contemporanea si svolge la vicenda di Cesare, un giovane povero di provincia, di origine contadina, che con grandi sacrifici della famiglia ha compiuto gli studi di legge all’università e che ha sposato Elena, una ragazza di città di famiglia impiegatizia, piena di velleità, di aspirazioni romantiche e mondane (che in parte fa pensare alla Madame Bovary di Flaubert). Con linguaggio secco ed essenziale, questo romanzo registra l’assoluta estraneità tra i due protagonisti, nessuno dei quali si trova a essere depositario di modelli assolutamente positivi o negativi: una stessa carica critica agisce sulla frivola «cittadina» Elena e sul patetico e inetto Cesare, «contadino» che non può piú essere ciò che era all’origine. STILE INDIRETTO LIBERO

GENERI E TECNICHE

tav. 189

Con questo termine, che traduce quello tedesco erlebte Rede, “discorso rivissuto”, si designa un discorso indiretto in cui è stato soppresso il verbo reggente (come «disse che…», «pensò che…» ecc.) e che quindi si presenta come direttamente proferito dal personaggio, pur mancando le virgolette o altri segni che distinguono la voce di questo da quella del narratore. Si tratta di un procedimento presente in ogni forma di narrativa e nello stesso linguaggio comune, quando chi parla riferisce indirettamente i discorsi fatti da altre persone senza piú distinguere la propria voce: esso rende possibili interferenze e scambi tra voci diverse, permettendo al narratore di modificare il proprio punto di vista (cfr. TERMINI BASE ) e di assumere quello dei personaggi di cui riporta le frasi. Nella narrativa piú antica l’uso dello stile indiretto libero è relativamente circoscritto per cui raramente turba lo svolgimento lineare del racconto; nella narrativa realistica dell’Ottocento, il suo uso diventa viceversa particolarmente insistente, consentendo cosí al narratore di passare di continuo la parola ai personaggi, fino a mischiare e confondere la propria voce con la loro.

.

GIOVANNI VERGA E IL VERISMO



... Mastro-don Gesualdo. Il secondo romanzo del ciclo de I Vinti ebbe un’elaborazione assai lunga, di cui si trovano le prime tracce già in alcune delle Novelle rusticane; mentre una prima fase di stesura si concluse nel , e una prima redazione fu pubblicata a puntate sulla «Nuova Antologia» tra il luglio e il dicembre , quella definitiva, con notevoli modifiche linguistiche e strutturali, apparve a Milano presso l’editore Treves nel novembre . Nel suo assetto finale, l’opera rivela una costruzione solidissima, articolata in quattro parti: al centro è la corposa figura del protagonista, un muratore di una cittadina nei pressi di Catania, divenuto, con la sua abilità e il suo lavoro, padrone di una grande ricchezza economica, che gli consente di trattare da pari a pari con la nobiltà feudale. La passione di Gesualdo per il lavoro è radicata nel mondo contadino, nei suoi valori e sentimenti semplici ed elementari (che caratterizzano tra l’altro il suo rapporto con Diodata, una serva-amante a lui legatissima), ma l’ambizione e il successo lo portano lontano da questo suo mondo, lo legano alla corrotta nobiltà del paese. Le vicende del romanzo prendono avvio nel , quando la brama di ascesa sociale spinge Gesualdo ad accettare il matrimonio con l’inquieta Bianca Trao, che appartiene a una famiglia di nobili decaduti ed è compromessa da un rapporto con il cugino Niní Rubiera. Questo nuovo legame con il mondo aristocratico costringe Gesualdo a rinunziare alla relazione con la fedelissima Diodata e lo mette in contrasto con quasi tutti i membri della sua famiglia (a cominciare dal padre, mastro Nunzio). La sua posizione non è mai veramente accettata dal ceto nobiliare del paese, che vede in lui un estraneo, un intruso, ed egli non riesce a comunicare con la moglie, che pure vorrebbe amare. Nessuna gioia viene a Gesualdo nemmeno dal rapporto con la figlia Isabella (che in realtà potrebbe essere frutto del rapporto di Bianca con il cugino Rubiera): la bambina, inafferrabile e ostile, viene educata in collegio e, divenuta donna, avvia un rapporto compromettente con un lontano cugino, coperto da un altro matrimonio di convenienza con l’anziano e spiantato duca di Leyra, in seguito al quale ella si trasferisce a Palermo. Le ricchezze di Gesualdo vengono dilapidate dal genero, mentre la figlia duchessa si vergogna di lui e del suo mondo. Sempre piú solo con se stesso, guardato ostilmente da tutti i concittadini, egli subisce le vicende del , che i suoi nemici cercano di sfruttare sobillandogli contro il popolo, mentre muore la moglie Bianca. Ormai cosciente della vanità della sua lunga lotta per la «roba», vecchio e malato, è costretto ad affidarsi all’ospitalità della figlia, a Palermo; e nel palazzo di questa, che gli mostra estraneità e astio, muore solo, tra la servitú indifferente.

Il metodo dell’impersonalità si traduce qui in uno stile asciutto ed essenziale, in una sintassi fatta di periodi brevi e incisivi, che trascina con sé ogni elemento lessicale, senza dare rilievo alle singole parole, mettendo in piena evidenza i gesti e le azioni: sparisce la voce del «narratore popolare» e la narrazione sembra fondarsi su un’ottica totalmente oggettiva, porsi come secca registrazione della violenza della realtà. I punti di vista dei personaggi, e soprattutto quello del protagonista, sono illuminati dall’interno, attraverso l’uso del discorso indiretto libero (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ); e i loro rapporti emergono dall’incalzare dei dialoghi (il dialogo si rivela qui come strumento micidiale, con cui i personaggi si maltrattano e si corrodono reciprocamente). Tutta la rappresentazione converge comunque sul protagonista, sulla dimensione economica della sua esistenza, che ha qualcosa di assoluto e anche di eroico: Gesualdo è un vero eroe della «roba», è l’immagine suprema della forza umana che accumula, che domina la realtà fisica. Ma la sua forza viene contaminata e piegata dalla sottile vanità che lo induce a voler cambiare classe, ad abbandonare le sue origini contadine per entrare nel ceto piú elevato, tra coloro che sempre hanno detenuto il potere. Il suo è un dramma che incarna anche un fenomeno piú vasto, quello dell’ascesa di una nuova borghesia imprenditoriale, che nella Sicilia, dominata ancora da forme feudali, trovava ostacoli particolarmente gravi; ma collocando il tempo del romanzo all’incirca tra il  e il , Verga ar-

Stesura e redazioni

La lunga lotta per la «roba»

Don Gesualdo rifiutato da due società

Uno stile essenziale e oggettivo

L’eroismo economico di Gesualdo

EPOCA



La passione contro l’indifferenza

I rapporti sociali

La sconfitta dei sentimenti

Negatività e assenza di valori

Fallimento del progetto de I Vinti



LA NUOVA ITALIA

-

retra questo dramma a una fase storica precedente, quando la società siciliana è attraversata da tensioni e turbamenti, ma non è ancora a contatto con la modernità e resta chiusa in se stessa, autosufficiente. In un simile contesto l’eroismo economico di Gesualdo risulta ancor piú assoluto e solitario, trova le sue ragioni piú profonde in valori arcaici, in una concezione dura e primigenia del lavoro, della lotta, del dominio: poggia su corpi e cose concrete, non ha l’astrattezza e la freddezza tipiche dell’accumulazione capitalistica. Il suo dramma nasce dal contrasto tra la fortissima passione con cui egli vive la propria ascesa sociale e la gelida indifferenza con cui il mondo intorno a lui considera la realtà economica: egli è costretto a scoprire che l’uso che il mondo fa della «roba» esclude ogni strenua tensione affettiva. Il contatto con la nobiltà gli fa progressivamente perdere le ragioni della propria lotta, lo porta a chiudersi in se stesso come uno sconfitto, fino alla morte in solitudine. In questa vicenda i dati psicologici del protagonista si intrecciano immediatamente con il suo essere sociale, con il suo modo di agire e di rapportarsi agli altri; ma in tutto il romanzo analisi interiore e definizione di ruoli sociali si saldano strettamente tra loro, come rivelano le varie e numerose figure che si affollano intorno a Gesualdo (muratori, contadini, servitori, poveri diavoli, piccoli affaristi, nobilucci spiantati, possidenti taccagni ecc.). Dappertutto, in ogni situazione e in ogni episodio, i rapporti tra questi personaggi innescano spietati conflitti, diventano momenti di una lotta senza quartiere e senza sbocco, in cui si prolungano senza fine la sorda ostilità, l’ottusa diffidenza, la falsità che dominano ogni aspetto dell’esistenza. Non solo nei conflitti tra le classi, non solo nel rifiuto che le classi superiori oppongono al parvenu Gesualdo, ma anche all’interno di ogni classe sociale vige una legge di egoismo cieco, che impedisce ogni reale comunicazione, che blocca ogni autenticità e sincerità, che rende inattendibile qualsiasi sentimento. L’impassibile realismo di Verga delinea qui un’immagine assolutamente negativa della realtà sociale, mostra con tragica potenza come nessun valore autentico (nemmeno quello cosí crudamente economico della lotta per la «roba» e per l’ascesa sociale) sia praticabile in un mondo pieno di maschere perverse e di rivoltanti volgarità, nel quale domina il sordo rancore di ogni uomo verso ogni altro uomo. A questo mondo tutto negativo, d’altra parte, Verga non contrappone alternative: l’orizzonte del suo grande romanzo (e del paesaggio siciliano che vi fa da sfondo) risulta ancora piú carico di tensione, come rappreso in un nodo intricato che non prevede alcuna esplosione liberatoria. Questa analisi radicalmente negativa avrebbe dovuto toccare anche gli strati superiori della società contemporanea (secondo un procedimento che va dalla periferia al centro) negli altri romanzi progettati per il ciclo de I Vinti, che dovevano riguardare rispettivamente l’ambiente nobiliare, quello parlamentare e quello della piú alta mondanità. Ma Verga non riuscí a continuare il ciclo, e lavorò, con molta fatica, solo allo schema generale e alla parte iniziale della Duchessa di Leyra.

... Le ultime raccolte di novelle. Vagabondaggio

I ricordi del capitano d’Arce

Le ultime novelle di Verga si allontanano dalla piú rigorosa impostazione «veristica» delle precedenti, ma continuano una ricerca narrativa intensa, che troverà qualche sviluppo nella novellistica di Pirandello. Nel  apparve a Firenze la raccolta Vagabondaggio, dodici novelle, vicine in parte a Mastro-don Gesualdo e variamente ambientate, ma ancora segnate dalla presenza del mondo agricolo siciliano. Una strada tutta diversa percorre la raccolta del , I ricordi del capitano d’Arce; la voce di un capitano vi racconta le vicende sentimentali di Ginevra, moglie di un comandante di marina. Sullo sfondo di un ambiente in apparenza frivolo e leggero ogni gesto pare indecifrabile, gli atti banali della vita dei salotti e degli interni borghesi sembrano venati da una sorta di malessere, che corrode soprattutto le piú eleganti figure femminili.

.

GIOVANNI VERGA E IL VERISMO

Al centro dell’ultima raccolta, apparsa nel , Don Candeloro e C.i., è il mondo del teatro e degli attori, dove la vita reale non riesce in nessun modo a separarsi dalla finzione, dalla maschera e dalla scena: nella vita dei teatranti piú poveri, nella loro lotta per sopravvivere di fronte al pubblico di provincia, si rivela nel modo piú semplice e dolente la costrizione a rinunciare a ogni autenticità, a ogni grande desiderio e ideale.



Don Candeloro e C.i.

... Il teatro di Verga. Fin dalla giovinezza Verga mostrò interesse per il teatro: al  risale probabilmente il dramma, pubblicato solo nel , Rose caduche, traduzione teatrale della tematica di Una peccatrice. Ma Verga sviluppò un piú diretto impegno teatrale, in funzione di una effettiva pratica scenica, solo dopo l’affermazione della prospettiva veristica: la sua nuova narrativa mise capo a vari testi drammatici, attraverso i quali l’autore cercava anche un certo successo e guadagno economico, benché giudicasse il teatro una forma d’arte piú limitata. Il successo di Cavalleria rusticana, l’atto unico ricavato dall’omonima novella e rappresentato a Torino il  gennaio , impose anche sulle scene il mondo popolare e diede un fondamentale impulso allo sviluppo del teatro realistico. L’opera forniva, della Sicilia contadina, un’immagine fatta di gesti assoluti e definitivi, di figure violente e ricche di colore, sospesa in una distanza quasi mitica, ma troppo convenzionale, schematica, esteriore (e questa esteriorità si accentuò nella versione musicale di Mascagni). Spinto dal successo, Verga tentò anche un teatro ambientato nel mondo popolare milanese; nel dramma in due atti In portineria (), l’autore ricava, dal grigio mondo di Per le vie, una rappresentazione carica di «verità», ma troppo patetica. Al mondo di Vita dei campi l’autore tornò invece piú tardi con la versione teatrale, in due atti, de La Lupa, rappresentata a Torino il  gennaio . Un teatro in cui gli elementi realistici si collegano a piú sotterranee suggestioni simboliche fu tentato in due «bozzetti»: La caccia al lupo e La caccia alla volpe, rappresentati nel novembre  al teatro Manzoni di Milano. Ancora al Manzoni andò in scena, nel novembre , il dramma in tre atti Dal tuo al mio, nato direttamente per il teatro e poi trasformato, in modo un po’ meccanico, in un romanzo dallo stesso titolo, che apparve sulla «Nuova Antologia» nel  e poi in volume nel . Qui l’ambientazione siciliana si lega a un’analisi dei conflitti sociali contemporanei: dallo scontro tra la vecchia aristocrazia, la piccola borghesia arrivista e la debole e divisa classe operaia dei lavoratori delle solfare, l’autore intende ricavare una vera e propria tesi di morale sociale, secondo cui l’interesse individuale e l’attaccamento alla «roba» soverchiano qualsiasi solidarietà di classe e rendono impossibile ogni prospettiva democratica o socialista. Nonostante il suo schematismo, il dramma ha momenti di grande durezza e concretezza rappresentativa; ma, nel momento in cui condanna le lotte operaie, il pessimismo sociale di Verga sembra perdere il suo rigore impietoso e la sua impassibile carica distruttiva.

Primi tentativi teatrali

Cavalleria rusticana

Dalle novelle alla scena

I bozzetti

Dal tuo al mio

... Vita e opere di Federico De Roberto. Federico De Roberto nacque a Napoli il  gennaio  da un ufficiale napoletano e da una nobile siciliana, e si trasferí molto presto a Catania, dove visse sempre in stretto rapporto con la madre, invadente e autoritaria (il padre era morto molto presto, nel ). Intorno ai vent’anni iniziò a Catania una vivace attività giornalistica, che lo fece subito entrare in contatto con Verga e Capuana: sviluppò la propria vocazione di scrittore negli anni Ottanta, il decennio di piú forte espansione del verismo italiano e di piú vivace creatività dei due piú anziani scrittori siciliani. Collaborò a vari giornali nazionali (tra i quali il «Fanfulla della Domenica»); dal  compí vari viaggi e fece lunghi soggiorni a Milano, dove da Verga fu introdotto negli ambienti e nei salotti letterari.

La formazione

EPOCA



I romanzi

I Viceré

Ultime esperienze creative



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-

Come narratore De Roberto esordí nel , con il volume di novelle La sorte, a cui seguí l’anno dopo un’altra raccolta dal titolo Documenti umani, caratterizzata da un’attenzione sperimentale ai casi piú vari. Nel  uscí il suo primo romanzo, Ermanno Raeli, fitto di dati autobiografici e incentrato su un personaggio maschile che deve fare i conti con la propria immaturità sentimentale. Molto piú riuscito il successivo romanzo L’illusione (), storia di un personaggio femminile, Teresa, che si configura come «l’incarnazione della ricerca dell’amore e dello scacco a cui questa ricerca conduce» (C.A. Madrignani): tra vicende di inquietante lentezza e corrosiva analisi psicologica, la protagonista vede catturato il proprio io nel gioco di illusioni che domina i rapporti umani. Nel  vide la luce il grande romanzo I Viceré, che aveva imposto allo scrittore uno sforzo gravosissimo; e da allora egli ebbe a soffrire di una malattia nervosa che si protrasse per gran parte della vita. Deluso dallo scarso successo dell’opera, De Roberto intensificò la sua produzione saggistica e giornalistica, collaborando, con articoli sugli argomenti piú diversi, al «Corriere della Sera». Appartato rispetto alle tendenze culturali dominanti nel nuovo secolo, visse quasi sempre a Catania, nella casa familiare, accanto alla vecchia madre. Tentò anche nuove esperienze di scrittura, come quella teatrale. Piú intensi e vivaci furono i suoi soggiorni a Roma tra il  e il  (quando lavorò, senza però condurlo a termine, al romanzo L’imperio, iniziato già da tempo come continuazione de I Viceré). Aveva sempre guardato con distacco e sdegno alla vita politica, ma poi si accostò ai movimenti nazionalistici e seguí con partecipazione le vicende del grande conflitto mondiale, durante il quale scrisse vari articoli politici e novelle di guerra. Visse gli ultimi anni solo e dimenticato, dedicandosi all’assistenza della vecchia madre malata: pochi mesi dopo la morte di questa, si spense a Catania il  luglio .

... «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri»: il mondo de I Viceré.

La Sicilia postrisorgimentale

Una folla di voci e presenze

Le scene di massa

Dopo una prima stesura nel novembre  e un lungo lavoro di correzione durato fino al luglio , De Roberto pubblicò il romanzo I Viceré nell’agosto . Il romanzo, diviso in tre parti, narra la storia di una famiglia catanese di antica nobiltà di origine spagnola, gli Uzeda, principi di Francalanza (antichi viceré di Sicilia sotto la dominazione spagnola). La vicenda si colloca negli anni -, che videro il passaggio dalla dominazione borbonica ai recenti sviluppi dello Stato unitario e del suo regime parlamentare: si tratta di una vicenda d’invenzione, ma fittamente intessuta di riferimenti a fatti reali e concreti; ed estremamente precisa è la rappresentazione degli eventi pubblici e dell’ambiente cittadino in cui si svolge la storia privata della famiglia. Il romanzo affronta dunque una realtà in divenire che converge verso il presente: i processi innescati in Sicilia dal Risorgimento vi sono seguiti attraverso gli echi e le reazioni che essi suscitano nell’antica nobiltà feudale dell’isola, da sempre abituata a gestire il potere, a guardare le cose dall’alto.

Il metodo naturalistico si presenta ne I Viceré in una delle sue soluzioni piú ambiziose: la narrazione è tutta versata all’esterno, intessuta di presenze fisiche, di realtà concrete, di gesti e di azioni, e il linguaggio emana da persone caratterizzate con immediata evidenza. Non ci sono personaggi e punti di vista dominanti, ma una folla varia e rissosa di voci e di presenze, un proliferare di figure che si muovono sullo sfondo di ambienti diversi; e tra spazi pubblici e spazi privati si dà un costante e mutuo scambio. La vita privata degli Uzeda si riflette in alcune essenziali scene di massa, tracciate da De Roberto con respiro potente; esemplari quella iniziale e quella finale, che fanno da suggello al romanzo e ci mostrano tutto lo spostamento che l’asse della famiglia ha compiuto in seguito al moto della storia. All’inizio, il teatralissimo funerale della vecchia principessa Teresa, il cui rituale è ancora da Antico regime; verso la fine, il comizio del giovane principe Consalvo, al termine della campagna elettorale che lo porterà, deputato «progressista», nel parlamento italiano.

.

GIOVANNI VERGA E IL VERISMO



Ma le scene di massa fanno soprattutto da sfondo alle voci dei singoli personaggi che si intrecciano all’interno del mondo familiare. Queste voci hanno tutte una loro netta caratterizzazione linguistica: la lingua della famiglia (e di quanti a essa si collegano) si frantuma in una serie vastissima di varianti individuali in contrasto tra loro, che danno al romanzo un carattere «polifonico» tutto particolare. È infatti una polifonia che crea non un’impressione di apertura e di libertà, bensí di violenza, che è di tutti contro tutti; e dall’interno della famiglia dei Viceré questa aggressività si proietta su tutta la vita sociale, su ogni aspetto del mondo esterno. I membri della famiglia si usano prepotenze reciproche e palesano maligne ostinazioni e manie, dominati da una continua volontà di contendere, di ripetere gesti crudeli. Divisi tra loro, essi sono però sempre uniti contro gli altri: si tratta di una allucinante galleria di personaggi-maschere, dal principe Giacomo, paziente e meticoloso nei suoi propositi, arrogante e glaciale, al coerede contino Raimondo, cinico uomo di mondo, indifferente torturatore di esistenze femminili, dal benedettino Lodovico, che si costruisce con determinazione una esemplare carriera ecclesiastica, al «babbeo» don Ferdinando, che insegue insulse utopie di coltivatore, da Chiara, ostinata nell’impossibile ricerca della maternità, a Lucrezia, che lotta puntigliosamente per sposare un borghese in ascesa, ma poi, una volta raggiunto lo scopo, resta sordamente ostile al marito tanto desiderato. A questi diretti rampolli della autoritaria principessa Teresa vanno aggiunti gli zii, dallo scatenato don Blasco, benedettino gaudente e ferocemente borbonico, che, al prospettarsi di vantaggiose attività economiche, passa nel campo opposto, fino a festeggiare la presa di Roma del , all’accorto duca d’Oragua, il «liberale» della famiglia, che non ha corso mai grandi pericoli per la causa nazionale, ma che si serve della sua posizione per intraprendere, nonostante la sua scarsa abilità tecnica, una esemplare carriera parlamentare nel nuovo Stato unitario, appoggiandosi su clientele locali, seguendo tutte le evoluzioni del trasformismo politico e costruendosi una grande fortuna economica attraverso una sistematica corruzione amministrativa (il suo programma è definito in questa battuta, che caratterizza esemplarmente l’universo de I Viceré: «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri»). Attorno ai membri principali della famiglia si addensa e cresce nel tempo tutta una serie di parenti, di comprimari, di nuovi rampolli: e nella fase finale assume crescente rilievo la figura del giovane erede del titolo principesco, Consalvo, che raccoglie, in modo piú vitale e baldanzoso, l’eredità dello zio e intraprende la carriera politica (prima come sindaco di Catania e poi come deputato) puntando su un ambiguo compromesso tra forze diverse, cinicamente indifferente al contenuto di parole e programmi, pronto a ogni manipolazione pur di mantenere, in forme «democratiche», il potere che la sua famiglia ha sempre esercitato.

Una polifonia opprimente

La sequela di questi personaggi dà alla vicenda un senso di ciclica e ossessiva continuità: in essi si ripetono, al di là di tutte le trasformazioni storiche, un potere e una prepotenza immutabili, che si mantengono tanto piú forti quanto piú sembrano degradarsi e involgarirsi. Di fronte a ogni evento gli Uzeda sono pronti a farsi guerra tra loro, a far esplodere i loro modi abnormi di essere: la loro psicologia e i loro comportamenti sociali proiettano dappertutto malessere e sofferenza, si concretizzano in gesti assurdi e deliranti. Ma ancor piú inquietante è il fatto che questa vera e propria pazzia conserva il controllo del potere, dà forme nuove a un ordine sociale immutabile nonostante tutte le trasformazioni (che d’altra parte De Roberto registra con analitico rigore), un ordine volgare e spregevole, fondato solo su inganni e mistificazioni: il romanzo mostra cosí che la storia recente e ancora in corso non è che un perpetuarsi e un amplificarsi di un potere folle, ma capace di mutare volto, di adattarsi alle strutture dell’Italia moderna. De Roberto segue dunque l’assestarsi, nella nuova Sicilia e nella nuova Italia, dei nuovi poteri e delle nuove forme di autorità; ma nella sua ottica il mondo appare assolutamente perverso e immodificabile e sembrano venuti meno anche quei residui valori autentici che nel Mastro-don Gesualdo (essenziale punto di riferimento per I Viceré) erano tragicamente difesi dal protagonista. Qui non si dà nessuna identificazione positiva, con nessuna figura umana, a nessun livello della scala sociale; ma ogni sorte individuale, anche tragica, viene

Continuità di una «razza»

Una galleria di maschere

Trasformismo e clientele

Il «democratico» Consalvo

Degenerazione del vecchio potere

Un naturalismo critico e negativo Negazione di ogni ottimismo

EPOCA

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come trascinata via dall’incalzante ritmo della narrazione, che tutto nervosamente corrode. Nel delineare gli atti, le risse e le dissennatezze della famiglia Uzeda, il libro raggiunge momenti di comicità impietosa e scatenata: pare allora di assistere alle smorfie di un grottesco carnevale o di visitare un bislacco inferno che racchiude in sé tutto il senso della vita sociale. Siamo di fronte a una delle prove piú alte di naturalismo critico e negativo. L’Imperio

Nei successivi scritti De Roberto non riuscí a mantenere la tensione corrosiva de I Viceré: e non riuscí a lavorare con altrettanta lena a L’Imperio (pubblicato postumo, ma lacunoso, nel ). Il romanzo intende rappresentare dal centro – da Roma capitale – la realtà politica del nuovo Stato, attraverso le imprese spregiudicate del principe Consalvo, deputato, e le disillusioni del giovane Federico Ranaldi, pieno di ideali risorgimentali.

˜

9.5 NELL’ORBITA DEL NATURALISMO ... Modi di rappresentazione tra il reale e l’ideale.

Le numerose e varie esperienze letterarie che si svolgono fino alla fine dell’Ottocento si collegano tutte a modi di rappresentazione di tipo naturalistico: tutta la narrativa (e lo stesso accade per il teatro) parte dal presupposto che il linguaggio possa registrare direttamente le forme della realtà, possa riprodurre in sé lo svolgersi di «fatti» determinati. Ma all’interno di questo piú ampio orizzonte naturalistico ci sono tendenze molto diverse, anche molto lontane dal rigore estremo del verismo: in molti casi si ha una forte partecipazione dell’autore alla materia e si tende invece ad attribuire ai fatti narrati espliciti significati morali e spirituali. In altri casi si tende invece a rappresentare realtà regionali e locali, ma con una forte predilezione per gli aspetti folclorici, o con propositi di polemica sociale; o ancora ci si concentra sulle vicende di personaggi eccezionali, si elude la realtà piú materiale e concreta per delineare modelli ideali, per suggerire l’immagine di un mondo nuovo, superiore al mediocre presente. La ricerca della realtà si intreccia insomma ai richiami dell’ideale, che si fanno tanto piú forti con l’imporsi di tendenze religiose, mistiche, estetizzanti, già presenti nella fase di maggiore affermazione del verismo, e cioè nel corso degli anni Ottanta (a partire da Malombra di Fogazzaro, , fino a Il piacere di D’Annunzio, ). In questo capitolo seguiremo le piú varie forme della narrativa e del teatro, concentrate soprattutto nell’ultimo ventennio del secolo: molti degli autori qui analizzati provengono però da esperienze maturate negli anni precedenti, spesso in diretto rapporto con la Scapigliatura. L’attenzione che dagli anni Settanta si rivolge in modo sempre piú netto alle realtà regionali e il rilievo che negli anni Ottanta assume la grande narrativa verista suggeriscono di distinguere gli autori secondo diverse aree geografiche, e rendono necessario inserire in questo capitolo anche la poesia dialettale, che risente in modo essenziale del nuovo orizzonte veristico. Si diffonde in questi anni una narrativa «media» che vuol essere genericamente «popolare» e si rivolge ad ampi settori di pubblico borghese e piccolo-borghese, con propositi educativi e formativi (cfr. specialmente .. sgg.); si riproducono, con variazioni, temi fantastici e schemi romanzeschi della narrativa europea contemporanea (in cui si impongono intanto, specie in Russia, altre fondamentali esperienze, che vanno al di là dei limiti del naturalismo: cfr. CANONE EUROPEO, tavv. -) e circola una narrativa di consumo, sentimentale e di avventura, lontana da propositi letterari, tesa solo a suscitare la curiosità del pubblico per situazioni e vicende sorprendenti. In questo ambito presenta caratteri originali la ricca produzione di EMILIO SALGARI (-), che con le sue storie ambientate in un Oriente fantastico e convenzionale ha appassionato generazioni di giovani lettori.

Alternative al verismo

I richiami dell’ideale

Realtà regionali

Emilio Salgari

... Il mondo di Pinocchio. Un caso a sé costituisce il libro piú celebre di tutta la letteratura italiana del secondo Ottocento, Le avventure di Pinocchio, apparso a puntate su «Il giornale per i bambini» tra il luglio del  e il gennaio del  e raccolto in volume nello stesso . L’autore si firmava con il nome di COLLODI (il paese natale della madre, in Valdinievole, presso Pistoia), ma si chiamava in realtà CARLO LORENZINI ed era nato a Firenze nel : aveva partecipato alle lotte del - e aveva svolto, soprattutto negli anni Cinquanta, una intensa attività giornalistica e pubblicistica.

Un libro intramontabile

Nel  aveva pubblicato una curiosa operetta, specie di guida turistica svolta attraverso divagazioni narrative e umoristiche, Un romanzo in vapore. Da Firenze a Livorno (che costituisce uno dei primissimi esempi di opera letteraria dedicata alla nuova realtà della ferrovia, cfr. DATI, tav. ). Dopo il  entrò nell’amministrazione del nuovo Stato unitario, ma continuò l’attività giornalistica e pubblicò altri numerosi scritti d’occasione, bozzetti, disegni di vita quotidiana, schizzi umoristici. Negli anni Settanta cominciò a interessarsi di letteratura infantile

La produzione precedente

EPOCA

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FËDOR DOSTOEVSKIJ. DELITTO E CASTIGO IL CANONE EUROPEO

tav. 190

UNA POTENTE RAPPRESENTAZIONE DEL MALE DELLA VITA L’opera vastissima di Fëdor Michailovicˇ Dostoevskij (Mosca -Pietroburgo ) si sviluppa entro l’eccezionale vitalità narrativa della Russia dell’Ottocento, per cui essenziale punto di riferimento è, oltre a Pusˇkin (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ), Nikolaj Gogol’ (-), il cui realismo è dotato di una forza corrosiva e sa toccare le piú varie corde del comico e del grottesco. Pur partendo da una rappresentazione di tipo realistico e da una attenzione alle piú varie situazioni sociali, e in particolare a un’umanità lacerata dal dolore e dalla miseria, carica di umiliazione e di sofferenze, Dostoevskij, che visse una vita difficile e tormentata, tra malattie e disgrazie di ogni tipo, si rivolge a un’indagine implacabile delle pieghe piú sottili e nascoste dell’anima umana, traendo alla luce gli impulsi piú segreti e distruttivi che agiscono sugli individui e sui loro rapporti: tra tutti i narratori di ogni tempo egli è forse quello che piú potentemente, e senza nessun compiacimento, ha saputo rappresentare l’azione del male nella vita quotidiana, l’aggressività e la violenza che fluisce entro di essa, il gusto e l’ostinazione con cui gli esseri umani arrivano a stravolgere le loro esistenze, a degradare gesti e situazioni, a violarne l’intimità; e nello stesso tempo ha rappresentato l’ansia del riscatto, l’aspirazione al bene e all’assoluto, entro un’inquieta e mai soddisfatta religiosità, in un perpetuo conflitto tra ateismo e fede, nella ricerca di un cristianesimo che faccia affidamento sui valori piú puri del Vangelo, ritrovati entro il piú profondo spirito «popolare» dell’anima russa. Questi dati cosí conflittuali e contraddittori vengono fatti agire entro il tessuto stesso della narrazione, la quale non definisce preliminarmente valori positivi e negativi, ma fa parlare direttamente le voci piú diverse e contrastanti, lascia libero campo alle diverse scelte umane in conflitto. Le vicende dei suoi romanzi non si svolgono tanto attraverso una successione di fatti esterni, di situazioni materiali, ma piuttosto attraverso un inseguirsi e uno scontrarsi di posizioni psicologiche e ideologiche che si esprimono attraverso le diverse voci dei personaggi: i suoi sono romanzi «polifonici» (Bachtin), in cui quelle voci si incontrano e si scontrano, si uniscono e si separano, trovano accordi e dissonanze del genere piú vario. I dati psicologici si intrecciano strettamente a quelli fisiologici (Dostoevskij è attentissimo ai dati materiali dell’esistenza, alle condizioni fisiche e biologiche), a quelli sociali, a quelli ideologici: questa narrativa costituisce una sorta di mappa dei valori in gioco nel presente, dello stato fisico e mentale del mondo contemporaneo all’autore, e assume anche caratteri profetici, sembra quasi «vedere» disagi, orrori, contraddizioni del Novecento. Ma questa mappa è di tipo essenzialmente «teatrale»: la narrativa di Dostoevskij ha una eccezionale tensione drammatica, sostenuta da tutta una serie di «scene», da quegli accaniti dialoghi in cui ciascun personaggio si ostina a rivendicare le motivazioni del proprio essere. In questo continuo rivendicare, in questo fissarsi di ciascuno nelle proprie ragioni si affaccia anche qualcosa di irresistibilmente comico: la comunicazione tra i vari personaggi si svolge spesso sull’onda di un riso violento e deformante; ma la presenza del comico approda quasi sempre a una vera e propria esplosione del tragico, con una forza lacerante, che permette di riconoscere nei romanzi di Dostoevskij le vere, assolute, incontenibili tragedie della letteratura moderna. L’OPERA Delitto e castigo (Prestuplenie i nakazanie), scritto nel -, pubblicato a puntate nel  e in volume nel , è il primo dei grandi romanzi di Dostoevskij e, tra essi, quello con la struttura piú semplice, con al centro un personaggio protagonista, Rodiòn Romànovicˇ Raskol’nikov, studente a Pietroburgo, che per la sua povertà ha dovuto sospendere gli studi e che, per procurarsi del denaro, decide di uccidere una vecchia usuraia, giustificandosi anche con una sua «teoria», secondo cui gli esseri superiori hanno diritto di schiacciare quelle volgari o insignificanti, pur di raggiungere i loro scopi. Ma dopo aver compiuto il delitto, in uno stato di confusione ed entro una serie di circostanze impreviste, che hanno portato anche all’uccisione della sorella della vecchia, Raskol’nikov è

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preso da una varia agitazione, da terrori e da impulsi che intaccano ogni sua sicurezza, dall’avvertimento della volgarità e dell’inutilità dell’atto compiuto: si ammala e poi fa delle mosse che lo rendono sospetto; una forza segreta lo spinge quasi sfidare la polizia che indaga sul delitto. Intorno a lui si muovono gruppi diversi di personaggi: la madre e la sorella Dunja, che giungono proprio in quei giorni a Pietroburgo, l’onesto amico Razumichin, la disgraziata famiglia dell’impiegato ubriacone Marmeladov, l’ipocrita arrivista Luzˇin, il corrotto Svidrigajlov. E alla fine sarà la fragile Sonja, la figlia di Marmeladov, che la miseria aveva spinto alla prostituzione, a convincere Raskol’nikov a confessare il suo delitto, seguendolo poi in Siberia, dove egli sconta la pena dei lavori forzati: e se, quasi fino alla fine del romanzo, il protagonista sembra restare chiuso nella sua aridità, nell’ossessione data dalla sua «teoria» (in cui Dostoevskij mira a rappresentare un modello intellettuale molto diffuso nella cultura europea, che ha prosperato a lungo ancora in tutto il Novecento), sarà l’amore per Sonja, sotto il segno del Vangelo, a segnare infine il riscatto, l’attesa di una «nuova vita». Il testo Si riporta qui, dal capitolo VII della Parte prima, il passo culminante della scena dell’uccisione della vecchia usuraia Alëna Ivanovna da parte di Raskol’nikov: questi, che ha nascosto un’accetta dentro il soprabito, ha appena consegnato alla vecchia un involto, dicendo che si tratta di un pegno; quando la Ivanovna si gira per slegarlo, Raskol’nikov tira fuori l’accetta e la colpisce alla testa. Si noti la tremenda evidenza della rappresentazione, che è tutta costruita attraverso il punto di vista dell’assassino, attraverso l’agitazione e l’incertezza che lo dominano, in un atto che si compie quasi meccanicamente. Agli occhi di Raskol’nikov sembra quasi che sia la testa stessa della vittima a lacerarsi e disintegrarsi da sé, come un oggetto sinistro, con l’imporsi di alcuni particolari, sostenuti da similitudini di forte espressività: i capelli unti di grasso, con la «treccia che sembrava una coda di topo», il sangue che sgorga «come da un bicchiere rovesciato», gli occhi sbarrati che sembrano voler «schizzar fuori». [EDIZIONE: Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo, traduzione di A. Polledro, Einaudi, Torino ]

– Ma cosa ha rinvoltato qui! – esclamò con dispetto la vecchia e si mosse per girarsi dalla sua parte. Non c’era piú un minuto da perdere. Egli tirò fuori l’accetta, la brandí con tutt’e due le mani. a mala pena conscio di sé, e quasi senza sforzo, quasi macchinalmente, la lasciò cadere sulla testa della vecchia dalla parte opposta al taglio. In quel momento pareva che la sua forza non esistesse piú. Ma appena ebbe lasciato andar giú l’accetta, subito la forza gli ritornò. La vecchia, come sempre, non aveva nulla in testa. I suoi capelli chiari, brizzolati e radi, unti abbondantemente di grasso come al solito, erano attorcigliati in una treccina che sembrava una coda di topo e raccolti sotto un frammento di

pettine di corno che le spuntava sulla nuca. Il colpo le cadde proprio sul sommo del capo, cosa che fu agevolata dalla sua bassa statura. Ella gettò un grido, ma debolissimo, e d’un tratto si accasciò sul pavimento, pur avendo ancora fatto in tempo a levare tutte e due le mani alla testa. In una mano continuava ancora a tenere il «pegno». Allora egli la colpí a tutta forza una volta, poi un’altra, sempre col dorso dell’accetta, sempre sulla sommità del capo. Il sangue sgorgò, come da un bicchiere rovesciato e il corpo stramazzò bocconi. Egli si ritrasse, lasciò che cadesse e poi subito si chinò verso il suo viso; era già morta. Gli occhi erano sbarrati, come se volessero schizzar fuori, e la fronte e tutta la faccia eran contratte e deformate dallo spasimo.

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FËDOR DOSTOEVSKIJ. I FRATELLI KARAMAZOV IL CANONE EUROPEO

tav. 191

L’opera di Dostoevskij, dopo gli altri grandi romanzi seguiti a Delitto e castigo (L’idiota, -, I demoni, , L’adolescente, ) e una serie vastissima di opere di minore estensione, ma di grande forza narrativa, culmina nello smisurato capolavoro (dodici libri e un epilogo) de I fratelli Karamazov (Brat’ja Karamazovy), apparso a puntate nel -, dove l’intreccio, l’incontro e lo scontro tra voci diverse trova il suo centro in un mondo familiare i cui diversi componenti tendono ad affermare la propria personalità, il proprio carattere, la propria volontà di vita, presentando e imponendo il proprio modello di mondo e di linguaggio. La narrazione è animata da una tensione lacerante, che è dovuta non tanto a fatti e a vicende, quanto al continuo scontrarsi dei personaggi, dei loro comportamenti reciproci, dei dati psicologici e ideologici che sostengono quei comportamenti: in un dibattere continuo, in una violenza data dal fatto stesso che quei diversi caratteri sono costretti a vivere in uno stesso spazio, a incontrarsi e a confrontarsi, ad ascoltare le loro contrastanti ragioni. In un imprecisato luogo della provincia russa vive il vecchio vedovo Fëdor Pàvlovicˇ Karamazov, sensuale, corrotto e attaccato al denaro, che ha tre figli legittimi, Dmitrij, avuto dalla prima moglie, Ivàn e Alësˇa, avuti dalla seconda moglie, e il figlio illegittimo Smerdjakòv, che vive presso di lui come servo. La vicenda si svolge a partire dal ritorno presso il padre dei tre figli legittimi, vissuti in luoghi diversi. Dmitrij, militare violento e impulsivo, dalla sovrabbondante fisicità, pieno di slanci generosi e insieme attratto da situazioni torbide, entra subito in violenti contrasti con il padre, anche in rapporto a una bellissima donna, la Grúsˇen’ka, che il padre vuole far sua con il denaro e di cui Dmitrij si innamora, abbandonando la donna precedentemente amata, Katerina Ivànovna, per amor della quale aveva compiuto un’azione indegna. Di Katerina è segretamente innamorato Ivàn, raffinato intellettuale e freddo ragionatore, ateo ma con un grande bisogno di fede, e angosciato dalla violenza e dal male che sente dominare il mondo, pieno di disprezzo per la cieca sensualità del padre. Il piú giovane Alësˇa rappresenta invece, con una particolare dolcezza e ingenuità, lo spirito di carità e la purezza della fede: dopo essere stato novizio presso il convento del padre Zosíma, viene da questi invitato a tornare nel mondo, che ha bisogno della sua carità. Ma la purezza di Alësˇa, a cui pure Ivàn guarda con sincera amicizia, nulla può contro lo scatenarsi della violenza all’interno della famiglia, che approda all’uccisione del vecchio, di cui viene accusato Dmitriij, ma che è opera dell’abietto e vile Smerdjakov, spinto al delitto dalle teorie atee che ha ascoltato da Ivàn. Dopo aver sospettato di Dmitrij, Ivàn riceve la confessione di Smerdjakov, che però poco dopo si impicca. Nel processo che Dmitrij subisce, Ivàn non riesce a provarne l’innocenza: egli viene condannato ai lavori forzati. Ma il finale resta come sospeso: il romanzo si chiude con i funerali di un bambino, celebrati da Alësˇa, le cui parole annunciano la futura resurrezione. Nelle intenzioni dell’autore Alësˇa doveva essere al centro di un romanzo successivo in cui si sarebbero affermati le ragioni del bene e i piú autentici valori cristiani: ma la grandezza de I fratelli Karamazov sta proprio nel tragico scontro senza soluzione, nell’indagine spietata sulla forza che spinge gli uomini al male, al di là delle loro stesse intenzioni, sulla mancanza di limiti, sul modo in cui ciascuno aspira ad andare fino in fondo, fino all’eccesso, con la manifestazione di sé, dei propri desideri e impulsi, del proprio modo di essere, delle proprie stesse idee. Lo scontro tra le diverse voci consegue alla spinta che conduce ciascuno a voler affermare una propria immagine personale del mondo, a volere che esso risponda fino in fondo ai propri modelli e ai propri desideri: dove spesso la ricerca del bene e della verità si intreccia con la degradazione e l’umiliazione. Ma in questo scontro, nella smania e nello strazio che agita tutti i personaggi, si riflette il senso stesso del mondo, il suo stato fisico e psichico, pieno di disagio, di dolore, di speranza. Nell’orizzonte familiare dei Karamazov, dei membri della famiglia come di tutti coloro che ruotano loro intorno (e un grande rilievo assumono anche i personaggi femminili), si proietta il destino dell’intera umanità: si avverte il senso di una grande storia che precipita, di un passato (dell’Europa, della Russia, dell’intera civiltà) che pesa sul presente, e di un futuro che si annuncia con minacciosi bagliori, che promette insieme utopie e cata-

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strofi. Questa storia trova il suo nodo risolutivo nello scontro tra cristianesimo e nichilismo, tra ricerca di Dio e negazione di Dio: e questa tematica dà luogo a episodi e situazioni di forte intensità simbolica, come tutta la vicenda della morte del padre Zosíma, e la leggenda del Grande Inquisitore, che Ivàn Karamazov presenta ad Alësˇa, come un «poema» da lui stesso ideato e mai scritto (con la fantasia di un ritono sulla terra di Cristo nel secolo XVI e di un suo processo e condanna per opera di un cardinale inquisitore). Il testo Nel capitolo III del libro V ha inizio un lungo colloquio tra Ivàn e Alësˇa, che «fanno conoscenza», conversando in una trattoria: è soprattutto Ivàn a esporre le proprie idee, a presentare il proprio malessere e il proprio inquieto rifiuto del cristianesimo, nel quadro di una rivolta contro la violenza e il male che dominano un mondo, dove, per l’assenza di Dio, sembra che tutto sia «permesso», che non si diano vincoli morali per le azioni degli uomini. Nel passo che qui si presenta Ivàn manifesta il suo desiderio di viaggiare in un’Europa che egli sente come un «cimitero», deposito di una cultura amata, ma ormai morta, che non ha piú presa sulla realtà contemporanea; ma nella sua passione per l’Europa e quella cultura Alësˇa riconosce un forte amore per la vita, e prospetta la necessità di andare oltre la «logica» raziocinante del fratello, di superare il nichilismo ridando valore anche a ciò che si crede morto. Già qui, nella sua passione religiosa, Alësˇa afferma la necessità di una «resurrezione», che può aver luogo nel quadro di un’accettazione serena del mondo. [EDIZIONE: Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, traduzione di A. Polledro, Mursia, Milano ]

Io voglio viaggiare in Europa, Alësˇa, e me ne andrò di qui; so bene che partirò soltanto alla volta di un cimitero, ma del piú caro fra i cimiteri, sicuro! Dei cari morti riposano là, ogni pietra posta su di essi parla di una vita lontana cosí ardente, di una cosí appassionata fede nella propria impresa, nella propria verità, nella propria lotta e nel proprio sapere, che io, lo so fin d’ora, cadrò a terra, bacerò quelle pietre e vi piangerò sopra, convinto nello stesso tempo con tutto il mio cuore che quello ormai da un pezzo è un cimitero e nulla piú. E non piangerò di disperazione, ma soltanto perché sarò felice delle lacrime da me versate. Mi inebrierò della mia stessa commozione. Le foglioline viscose a primavera, il cielo azzurro, ecco quello che amo! Qui non c’entra l’intelligenza, né la logica, qui tu ami con le viscere, col ventre ami le tue prime forze giovanili… Comprendi tu qualche cosa Alësˇa, nel mio garbuglio, o no? – e Ivàn tutto a un tratto si mise a ridere.

– Comprendo troppo bene, Ivàn: si vuol vivere con le viscere e col ventre: tu l’hai detto magnificamente e io sono felicissimo che tu abbia tanta voglia di vivere, – esclamò Aljòsa. – Io penso che tutti debbano amar la vita avanti ogni cosa al mondo. – Amar la vita piú che il senso della vita? – Proprio cosí, amarla piú della logica, come tu dici, proprio piú della logica, e allora soltanto ne afferrerai anche il senso. Ecco quello che da tempo mi passa per il capo. Metà del tuo compito, Ivàn, è adempiuto ed assicurato: tu vuoi vivere. Adesso devi occuparti della seconda metà, e sei salvo. – Tu mi salvi di già, ma io non naufragavo forse ancora! In che cosa consiste la tua seconda metà? – In questo, che bisogna risuscitare i tuoi morti, i quali forse non sono neppure mai morti. Su, dammi del tè. Io sono lieto che possiamo parlare insieme, Ivàn.

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LEV TOLSTOJ. GUERRA E PACE IL CANONE EUROPEO

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UN ROMANZO EPICO A questo grande romanzo, il solo forse, in tutta la narrativa moderna, che attraversa la storia recente con il ritmo e la misura dell’epica antica, che può far pensare addirittura al grande respiro dei poemi omerici, Lev Tolstoj (nato nel  da famiglia di antica nobiltà nella tenuta familiare di Jasnaja Poljana, morto nel  nella stazione di Astapovo) giunse dopo una serie di racconti dedicati in gran parte alla sua esperienza militare e dopo essersi ritirato nella tenuta familiare, amministrata con una particolare attenzione al benessere dei contadini. Scritto tra il  e il , Guerra e pace (Vojna i mir), costruito su quattro libri (ciascuno articolato in piú parti) e su un doppio epilogo, costituisce un grande affresco della società russa all’inizio dell’Ottocento, in cui Tolstoj vedeva già svolgersi le problematiche politiche e sociali tuttora in gioco: tra le due date-limite del , anno della prima guerra contro Napoleone, con la sconfitta subita dai russi nella battaglia di Austerlitz, e del , con la vittoriosa difesa della Russia contro la spedizione napoleonica. L’ossatura della vastissima narrazione è rappresentata dalle vicende di tre diverse famiglie della nobiltà, tra loro intrecciate e unite da diversi matrimoni: ma queste vicende particolari si svolgono sulla scena della grande storia, che chiama in causa sia gli eventi bellici, fino alla grande rappresentazione dell’incendio di Mosca e della ritirata dei francesi invasori, che i piú vari momenti della vita sociale, sia nel mondo cittadino e nobiliare, sia nella campagna, con l’autenticità e la purezza dei contadini russi. La molteplicità delle vicende dà al romanzo una struttura aperta, quasi incontrollabile per il lettore, che offre l’immagine piú adeguata della complessità e della varietà del mondo, della ricchezza illimitata di una realtà sempre in movimento. Il narratore onnisciente abbraccia nella sua totalità il flusso della vita che scorre, ha una capacità eccezionale di rappresentare in tutta evidenza i gesti e gli atti delle persone, di far vivere oggetti e ambienti, movimenti e conflitti, la singolarità degli individui e i grandi eventi collettivi, di far percepire il dolore e la gioia, la bellezza e la fragilità, la forza e la passione. Tutto appare sempre in piena luce, fissato da una mano ferma che riconnette ogni dettaglio al quadro generale, che con sicurezza illumina anche i sentimenti piú oscuri, le sfumature piú tortuose e segrete degli animi umani. E in questo orizzonte si inseriscono in modo del tutto naturale i piú diversi spunti morali e ideologici, le digressioni polemiche e problematiche, le pause e le interruzioni della narrazione: il romanzo fa vivere direttamente la storia in tutta la sua complessità e insieme offre il pensiero dell’autore sul senso e il valore della storia stessa, che è fatta non dai condottieri, ma dalle masse, da grandi movimenti collettivi, che i condottieri possono interpretare o deformare. Guerra e pace è come un grande specchio della realtà, che lo scrittore assume dentro di sé in tutte le sue espressioni, che abbraccia e accoglie in tutta la sua varietà e in tutte le sue contraddizioni, senza negarne nessun aspetto: e per questo è indifferente a ogni cautela di tipo letterario, è pronto a far valere tutti i mezzi e tutte le tecniche possibili, nel quadro di un realismo totalizzante, in cui si espandono un vigore e una vitalità sovrumani. LE VICENDE NARRATE È naturalmente impossibile ogni sintesi delle molteplici vicende del romanzo, in cui, nel quadro dell’alta società moscovita, il tramite tra le tre famiglie dei Bolkònskij (di cui fa parte il giovane energico, brillante, appassionato principe Andréj, e che possiedono una grande tenuta in campagna, a Lysye Gory), dei Rostòv (tra i cui giovani ragazzi c’è la tenera e affascinate Natasˇa) e dei Kuràgin (tra cui il brillante e vanitoso Anatòlij), è dato dal personaggio di Pierre Bezúchov, intellettuale che si muove in società con una certa goffaggine. Ricevuta la ricca eredità del padre, Pierre sposa la bella e infedele Elèna Kuràgina, mentre Andréj torna ferito dalla battaglia di Austerlitz, vede morire di parto la moglie Lisa, che dà alla luce il piccolo Nikolen’ka, e si innamora di Natasˇa, che lo ama, ma che, per vari ostacoli frapposti al loro matrimonio, arriva a subire l’attrazione di Anatolij Kuràghin. Ferito gravemente nella battaglia di Borodino (nel ), Andréj ritrova Natasˇa prima di morire, mentre Pierre, rimasto a Mosca, tenta azioni contro i francesi invasori, che lo fanno prigioniero: du-

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rante la prigionia si ha il suo incontro con il soldato Platon Karataev, che gli fa capire tutto il profondo valore, la sanità, la giustizia dell’anima popolare russa e gli rivela la necessità di un avvicinamento al popolo. Tornato a Mosca alla fine della guerra, in seguito alla morte della moglie Elèna, Pierre sposa Natasˇa, che da tempo amava in silenzio, mentre il fratello di Natasˇa, Nikolaj, sposa la dolce e pia sorella di Andréj Bolkònskij, Marja: tutti vanno a vivere nella tenuta di Lysye Gory. Il primo dei due epiloghi del romanzo si conclude con uno sguardo alla vita di questi personaggi piú tardi, nel : il fascino di Natasˇa è come attenuato nella normalità quotidiana, in questo esito che ha riunito i Rostòv e i Bolkònskij e in cui la presenza di Nikolen’ka, il figlio di Andréj, segna una sorta di continuità e fedeltà alle passioni e agli amori di quegli anni turbinosi. Il secondo epilogo contiene invece l’esposizione delle idee di Tolstoj sulla storia e sul ruolo che in essa gioca il popolo. Il testo Tra i tanti segni della potenza della rappresentazione di Tolstoj, dello spessore morale con cui egli dà corpo ai momenti cruciali dell’esistenza, si riporta un passo del capitolo finale della Parte prima del libro IV, con la narrazione della morte del principe Andréj Bolkònskij, assistito da Natasˇa e dalla sorella Marja. Si noti come le due donne sentano ormai la distanza della persona, già in viaggio verso la morte, e si occupino di ciò che persiste ancora di lui, che costituisce il ricordo fisico della sua esistenza, il corpo. Il morente compie poi dei gesti (come la benedizione del figlio Nikolen’ka) che gli sono richiesti da chi è in vita. E tutto avviene nel silenzio, sottolineato dall’impassibile linearità della narrazione, che non indugia su particolari fisici o su dati patetici, ma culmina in quella semplice domanda che non può avere risposta. [EDIZIONE: Lev Tolstoj, Guerra e pace, traduzione di A.S. Gladkov e A. Osimo Muggia, Mursia, Milano ]

I suoi ultimi giorni e le sue ultime ore trascorsero come al solito, semplicemente. La principessa Marja e Natasˇa, che non si allontanavano da lui, lo sentivano. Esse non piangevano, non tremavano, e negli ultimi tempi – esse stesse lo sentivano – non curavano piú lui (non era già piú, le aveva abbandonate), ma il suo ricordo piú intimo: il suo corpo. Questo sentimento era in entrambe cosí forte, che la parte esteriore terribile della morte non agiva su di esse e non sentivano necessario eccitare il loro dolore. Non piangevano dinanzi a lui, né fuori della sua presenza, cosí esse non parlavano mai di lui fra loro. Sentivano che non potevano esprimere a parole quello che capivano. Entrambe lo vedevano scomparire laggiú, sempre piú lontano, lentamente, tranquillamente, e tutt’e due sapevano che doveva essere cosí e che era bene. Ricevette gli ultimi sacramenti; tutti andarono a

dirgli addio. Quando gli condussero il figlio, egli posò le labbra su di lui e si volse, non perché gli fosse penoso o per pietà (la principessa e Natasˇa lo capivano), ma perché pensava che in ciò stesse tutto quello che esigevano da lui. Quando però gli chiesero di benedirlo, lo fece e si guardò attorno, come per chiedere se dovesse fare ancora qualche altra cosa. All’ultimo sussulto del corpo che l’anima abbandonava, la principessa Marja e Natasˇa erano presenti. – È finita – disse la principessa Marja, quando il corpo disteso dinanzi a loro, immobile da qualche minuto, cominciò a raffreddarsi. Natasˇa si avvicinò, guardò gli occhi del morto e si affrettò a chiuderli… Ella li chiuse, ma non li baciò, e solo si avvicinò a ciò che era il ricordo piú intimo di lui. «Dov’è andato? Dov’è ora?»

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LEV TOLSTOJ. ANNA KARENINA IL CANONE EUROPEO

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UNA NARRAZIONE CHE ABBRACCIA LA VASTITÀ E LA COMPLESSITÀ DELLA VITA L’altro grande romanzo di Tolstoj, iniziato nel  e concluso nel , fu pubblicato (salvo l’ultima parte) nella rivista «Russkij Vestnik» (“Il Messaggero russo”) tra il  e il  e poi in volume nel . Esso consta di otto parti e si presenta come un grande ritratto della società nobiliare contemporanea, vista attraverso le vicende di varie famiglie, con al centro quella dell’amore dell’insoddisfatta Anna, moglie dell’alto funzionario Alekséj Karenin, per il giovane e brillante ufficiale Alekséj Vrònskij. La storia di Anna e dell’adulterio che alla fine la conduce al suicidio, nei suoi termini piú generali, potrebbe ricordare quella della Bovary di Flaubert (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ): ma del tutto diverso è l’ambiente in cui essa si inserisce, come diverso è l’orizzonte della narrazione di Tolstoj. Qui l’amore di Anna non si svolge come evasione e ingannevole desiderio, ma dà luogo a una cosciente scelta di vita, da cui sorgono fratture e contraddizioni che vengono seguite in tutti i loro complessi sviluppi; e la narrazione non si concentra su di un ristretto mondo borghese e provinciale, ma si allarga al vasto orizzonte di un’aristocrazia che vive tra le grandi capitali russe, Mosca e Pietroburgo, e le tenute di campagna. Alla concentrazione assoluta di Flaubert, qui si oppone una disposizione a seguire la molteplicità e la varietà delle esperienze (con la rappresentazione di diverse e contrastanti situazioni familiari); alla sua implacabile negatività, qui si oppone una attenzione alle diverse responsabilità degli individui, alle diverse risposte che essi danno alle piú autentiche esigenze di vita, in un problematico intreccio tra bene e male, tra ragioni e colpe. Con il suo sguardo cosí capace di abbracciare la vastità del reale, di immergersi nella sua complessità, di far sentire il respiro concreto delle piú diverse esistenze e degli ambienti in cui si svolgono, Tolstoj arriva a dare un respiro epico alla rappresentazione della vita familiare contemporanea, a quello che era l’universo privilegiato del romanzo e del dramma borghese, a quanto poteva apparire di piú lontano dai caratteri dell’epica: e ciò era reso possibile dalla specificità della situazione e della cultura russa e dal grande valore che Tolstoj attribuiva al mondo familiare, alla santità del legame coniugale. LA TRAMA La vicenda di Anna prende avvio inserendosi direttamente in quella della famiglia del fratello Stepàn Oblònskij, che l’ha chiamata a Mosca per mettere pace tra lui e la moglie Dolly, che ha scoperto una sua relazione con la governante dei bambini: e proprio all’arrivo alla stazione Anna incontra il conte Vrònskij, di cui è innamorata Kitty, la sorella di Dolly. A Mosca si trova anche il vigoroso possidente Lévin, che aspira a una sana vita familiare e che è innamorato di Kitty, di cui chiede la mano, venendone respinto. Nasce intanto l’attrazione tra Anna e Vrònskij: e con il ritorno a Pietroburgo, Anna sente piú fortemente l’insoddisfazione per la sua vita familiare, per l’arido carattere del marito, che non compensa la gioia che le dà il figlio Serjòza. Incontra Vrònskij nei salotti alla moda, e finisce per cedere all’amore di lui; rimasta incinta, giunge a confessare al marito il suo tradimento. Karénin pensa di salvare le apparenze e di farle pagare la sua colpa facendola rimanere in casa, ma con il tempo la situazione diventa insostenibile e si avviano le pratiche per il divorzio. Grande è il turbamento di Anna al momento della nascita di una bambina: e infine parte con Vrònskij per l’estero, passando alcuni mesi sereni. Al ritorno in patria, ella vive con Vrònskij nella sua proprietà, ma l’apparente tranquillità è turbata dal divieto di Karénin, che le impedisce di vedere il figlio, e dal rifiuto che l’ambiente mondano oppone alla coppia irregolare. Disperata per non poter vedere il figlio, chiusa in solitudine fuori dal suo mondo e dalle sue abitudini, Anna vede nascere tutte una serie di incomprensioni e malintesi tra lei e l’amante; tra gelosie e sospetti, finisce per suicidarsi gettandosi sotto un treno. Vrònskij, disperato, tornerà alla vita militare, partendo per la guerra russo-turca del . Ma alla vicenda di Anna fanno da specchio quelle delle altre famiglie, tra cui si impone in primo piano quella di Lévin, che appare una specie di continuatore del Pierre Bezúchov di Guerra e pace e una specie di alter ego dell’autore. Dopo un periodo trascorso in campagna, occupandosi della sua azien-

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da, Lèvin rivede Kitty, ormai allontanatasi da Vrònskij, che ora accetta di sposarlo; i due si trasferiscono in campagna e, pur tra difficoltà e crisi di vario genere, costruiscono una vita coniugale felice e serena, il cui valore si oppone alla corruzione e alla frivolezza della vita mondana: nell’attività agricola, nel contatto con la natura e con i contadini, nei progetti per migliorare la loro vita (che riflettono quelli messi in opera dallo stesso Tolstoj) egli si muove verso una ricerca della fede, di un cristianesimo evangelico, che nel popolo riconosce la sua verità piú autentica. Il testo Si riporta qui la conclusione della Parte settima, con la famosa scena del suicidio di Anna, che avviene in una stazione, come in una stazione era avvenuto il primo incontro con Vrònskij (che con il suo gesto ella pensa di «punire»). La decisione è sorta quasi improvvisa, dopo un breve viaggio in treno, al ricordo del primo incontro con Vrònskij, quando avevano assistito alla morte di un uomo stritolato da un treno. Si noti come la narrazione si svolga in modo quasi «rallentato», come seguendo la lentezza del movimento del treno in stazione: e come in questa lentezza si affaccino esitazioni, echi delle abitudini piú normali (la consueta esitazione a entrare nel bagno, accompagnata dal segno della croce, che ora acquista un carattere del tutto diverso), ricordi fulminanti della vita vissuta. Gettatasi sotto al treno, Anna esita, vorrebbe tornare indietro, e giunge a chiedere perdono a Dio. La metafora della luce e quella del libro suggellano il chiudersi della sua vita, che sembra per un attimo illuminarsi in un bagliore che sembra farle leggere il libro pieno di tenebre della sua esistenza. [EDIZIONE: Lev Tolstoj, Anna Karénina. Racconti coniugali, a cura di E. Bazzarelli, Mursia, Milano ]

Scese con passo rapido e leggero gli scalini che conducevano al deposito, fino alle rotaie, e si fermò vicino al treno che passava. Guardò la parte inferiore dei vagoni, i mozzi e le catene, le alte ruote di ferraccio del primo carrozzone, che avanzava lentamente e, coll’occhio, cercò di determinare la metà dello spazio compreso fra le ruote anteriori e quelle posteriori, e di calcolare il momento in cui quella metà sarebbe stata davanti a lei. «Là sotto», disse fra sé, guardando l’ombra del vagone e la sabbia mista al carbone che ricopriva le traversine. «Là sotto, proprio in mezzo; cosí lo punirò, e mi libererò da tutti e da me stessa». Volle gettarsi sotto il primo vagone, la metà del quale era già davanti a lei; ma perdette tempo a liberare le braccia dalla sacca rossa. La metà era già passata e bisognava aspettare il vagone successivo. Fu colta da un sentimento simile a quello che provava quando s’apparecchiava ad entrare nel bagno, e si fece il segno della croce. Quel gesto consueto risvegliò nel suo animo una

folla di ricordi d’infanzia e di gioventú e, all’improvviso, le tenebre che le coprivan tutto si lacerarono; per un momento la vita le si presentò dinnanzi, con luminose gioie del passato. Ma lei non distoglieva lo sguardo dalle ruote del secondo vagone che avanzava; e quando la metà fu proprio davanti a lei, gettò la sacca rossa, affondò la testa fra le spalle e si buttò sotto la ruota. Poi, con un lieve movimento, come se avesse voluto risollevarsi subito si mise ginocchioni: atterrita di quel che aveva fatto, pensò: «Dove sono? Che ho fatto? Perché?». Volle rialzarsi e fuggire; ma una massa enorme e spietata la colpí al capo e l’abbatté sulla schiena. «Signore Iddio, perdonatemi tutto!» pensò, comprendendo l’impossibilità della lotta. Il piccolo muzˇík, borbottando, batteva la ferraglia. E la luce al bagliore della quale ella leggeva il libro pieno di tante miserie, d’inganni, di sofferenze e di mali, brillò d’un fulgore piú vivo che mai, rischiarando tutto ciò che prima era stato soltanto tenebra; poi incominciò ad affievolirsi e si spense per sempre.

EPOCA

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LA NUOVA ITALIA

-

(cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ), pubblicando nel  I racconti delle Fate (traduzioni da Perrault) e scrivendo poi vari libri destinati alla scuola, con propositi pedagogici e moralistici. La redazione de Le avventure di Pinocchio si svolse quindi in età avanzata, nella fase finale della sua attività. L’autore morí a Firenze nel . Al di là della letteratura

La forza della narrazione

Le finalità pedagogiche

Quasi un romanzo di formazione

Il fascino dell’avventura

Struttura del libro e solitudine del personaggio

Psicologia infantile e meccanicità

Il successo di Pinocchio è stato costante per tutto il tempo che ci separa dalla sua prima apparizione: è andato al di là dei confini del nostro paese, fino ad attribuire al piccolo burattino di legno quasi una vita propria, indipendente dal testo che lo ha fatto nascere. Pinocchio è penetrato nell’immaginario di milioni di bambini in tutto il mondo, è diventato un giocattolo che ha accompagnato e stimolato la fantasia infantile: sull’invenzione di Collodi sono intervenuti stuoli di disegnatori, che hanno dato a Pinocchio e al suo mondo forme svariate. Questa esistenza quasi autonoma di Pinocchio trova la sua giustificazione nella grande forza narrativa di questo «romanzo», capace di mettere in gioco i piú vari elementi fiabeschi, di attingere a un fondo di simboli sotterranei, di evocare situazioni e figure misteriose, affascinanti e inquietanti: l’opera si immerge in un magma oscuro di fantasie originarie, che si confrontano però con la realtà del mondo contemporaneo e con un piccolo universo quotidiano, dominato dal lavoro e dalla cattiveria, fatto di miseria e di implacabile durezza nei rapporti tra gli uomini. Trattandosi di un libro destinato ai «ragazzi», Collodi attribuisce alla sua narrazione anche finalità pedagogiche, indugia qualche volta in brevi riflessioni e raccomandazioni di tipo moralistico, secondo un’etica piccolo-borghese, che invita allo studio, al lavoro piú duro, al risparmio, alla rassegnazione, che diffida di ogni piacere e di ogni abbandono, che raccomanda di evitare le cattive compagnie, che si confronta continuamente con la minaccia della povertà e della fame, con la paura dell’autorità e della forza. Orientata in senso pedagogico è la stessa vicenda del burattino di legno, che trasgredisce continuamente ai suoi doveri verso il «babbo» Geppetto, che non ascolta le sagge raccomandazioni del Grillo parlante, che si lascia traviare continuamente da cattivi compagni, ma poi, dopo tante esperienze negative, si mette, grazie ai consigli della Fata Turchina, sulla difficile strada dello studio e del lavoro, e ottiene cosí di abbandonare la sua condizione di burattino di legno e di trasformarsi in un buon bambino «vero»: sembra proprio di essere di fronte a un piccolo romanzo di formazione e di educazione. Ma il percorso narrativo di Pinocchio va comunque molto al di là di questi intenti pedagogici, sembra vigorosamente resistere a essi; il fascino del racconto sta tutto nelle avventure del burattino, nel modo in cui esso attraversa densi motivi simbolici e fiabeschi che danno connotati sorprendenti alla realtà quotidiana piú povera, crudele e violenta. La struttura del libro ricorda quella del romanzo picaresco (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ), perché consiste in una serie di avventure che si svolgono fuori dell’orizzonte familiare, in un mondo furfantesco e crudele, pieno di insidie e di tranelli; il burattino fugge subito dal modesto mondo familiare offertogli da Geppetto, il falegname che l’ha costruito, è attratto dalle strade e dalle sorprese del mondo e le affronta da solo, senza mai comunicare veramente con i personaggi che incontra e che, in un modo o nell’altro, si comportano verso di lui in modo freddo o ostile. Le tante avventure e sventure portano Pinocchio sempre vicino alla rovina, da cui egli si salva solo in extremis; ma il burattino (nonostante i propositi pedagogici di cui si è detto) non sembra acquisire mai nessuna vera esperienza, è sempre pronto a ripetere i suoi errori, a cacciarsi di nuovo in situazioni pericolose. Il fascino di questa sua ostinazione è accresciuto dalla sua natura non umana, dalla meccanicità dei suoi movimenti di marionetta. In lui coesistono una elementare psicologia infantile (Pinocchio «scopre» il mondo con gli occhi di un bambino che lo vede per la prima volta) e una meccanicità estranea alla psicologia (come si conviene a un burattino di legno): nel suo essere allo stesso tempo figura umana e oggetto «costruito», Pinocchio dà voce nel modo piú intenso (e con una semplicità originaria) allo sgomento dell’io di fronte a un universo completamente ignoto, all’intreccio di fascinazione e paura con cui ciascuno, nell’infanzia, è attratto dagli aspetti della realtà.

.

NELL’ORBITA DEL NATURALISMO

In tutte le avventure di Pinocchio si afferma cosí una dura morale «realistica», che vede nella vita sociale violenza e sopraffazione, e nei rapporti umani quasi soltanto cattiveria e indifferenza (e quante spaventose figure di aguzzini troviamo nel romanzo, quanti truci personaggi sfruttano crudelmente i piú deboli e indifesi, e quanto pericolosi sono i rapporti con le istituzioni giuridiche, che mettono sempre in prigione gli innocenti!). E perfino la benefica Fata Turchina sembra spesso ostinarsi in una vera persecuzione del povero Pinocchio. Sorprende, in un libro per ragazzi, questo senso «realistico» della violenza sociale e della crudeltà dei rapporti umani (a cui si aggiunge la percezione della miseria e della fame, di una lotta quotidiana per sopravvivere che appartiene a una società ancora agricola, chiusa in forme economiche arcaiche); ma la grande originalità di Pinocchio sta nel fatto che questo «realismo» si esprime attraverso un’eccezionale accensione fantastica e simbolica, attraverso figure che vanno al di là dei limiti del reale, attraverso apparizioni magiche e misteriose, animali parlanti, trasformazioni e trasmutazioni, spazi fantastici. Nelle varie avventure del burattino di legno Collodi proietta in incalzante successione, quasi senza respiro, motivi che hanno spesso radice nelle piú antiche tradizioni dell’immaginario umano (per esempio il viaggio nel ventre di un «Pescecane», dove Pinocchio ritrova Geppetto). Questo capolavoro sembra voler offrire alla nuova Italia l’eredità fantastica di un mondo arcaico in cui l’infanzia non era un’isola felice, ma uno spazio di sofferenza e di miseria, di dura lotta per la vita, di primo confronto con inquietudini e terrori: e il libro deve il suo fascino anche al fatto che rifiuta ogni immagine zuccherosa del mondo infantile. Il suo ritmo narrativo vivace e animato, la sua carica comunicativa, presente anche nei momenti piú visionari, poggiano su una prosa semplice e cordiale, su un fiorentino agile e concreto, fatto di cose e di oggetti, assai lontano dalla leziosità dei modelli «manzoniani».



Un mondo violento e indifferente

Realismo fantastico

Infanzia dolorosa

... Narratori toscani. Nel breve periodo tra il  e il  Firenze, come capitale d’Italia, fu il centro del dibattito culturale sulle forme narrative e sui diversi modi di rendere il «vero»; e già da tempo era forte in Toscana l’attenzione alla realtà agricola, mentre la pittura dei macchiaioli (cfr. PAROLE, tav. ) tentava una rappresentazione del mondo campestre carica di «verità». La narrativa toscana del secondo Ottocento si accosta solo parzialmente alle tendenze di tipo veristico: essa si fa riconoscere soprattutto per una nuova attenzione alla realtà locale, si discosta dai clichés della vecchia tradizione della letteratura «rusticale», cerca colori accesi e intensi, ma non possiede quel rigore critico che è tipico del verismo siciliano. Il narratore di maggior successo, strettamente radicato nel mondo maremmano e lí divenuto popolare, è RENATO FUCINI (-): egli aveva esordito nel  pubblicando i Cento sonetti in vernacolo pisano, sotto il nome di NERI TANFUCIO, e pubblicò nel  la celebre rac-

Il dibattito intorno al «vero» La sensibilità toscana

Renato Fucini

MACCHIAIOLI

Derivata da macchia, questa parola fu usata per la prima volta a proposito di molti pittori presenti a Firenze nell’Esposizione del  con tele in cui erano rappresentati paesaggi con forte chiaroscuro e con colori dati «a macchia»: il termine entrò subito in uso per definire tutto un gruppo di pittori che operavano a Firenze fin dagli anni Cinquanta e si riunivano al caffè Michelangelo, conducendo una vita simile a quella degli scapigliati lombardi (cfr. PAROLE, tav. ). In forte polemica contro l’accademismo della pittura storica romantica, essi avevano sviluppato un nuovo stile e una nuova attenzione alla realtà, specie dopo viaggi a Parigi e contatti con la recente pittura francese. Tra i maggiori pittori macchiaioli (alcuni dei quali erano dotati anche di acuta coscienza teorica), ricordiamo Giovanni Fattori (-), Telemaco Signorini (-) e Adriano Cecioni (-), notevole anche come scultore.

PAROLE

tav. 194

EPOCA

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Mario Pratesi



LA NUOVA ITALIA

-

colta di novelle e bozzetti maremmani Le veglie di Neri (a cui ne seguirono altre dello stesso tipo: All’aria aperta, , e Nella campagna toscana, ). Qui la vita contadina è vista come un aspetto della violenta e accesa natura maremmana, e i risultati migliori si hanno quando l’autore si abbandona al gusto della beffa e della deformazione caricaturale. Una piú autentica partecipazione alle sofferenze di personaggi tormentati, vittime di violenze, di aspirazioni insoddisfatte, di drammi psicologici, si ha nella narrativa di MARIO PRATESI (-), autore delle novelle raccolte nel volume In provincia () e dei romanzi L’eredità () e Il mondo di Dolcetta ().

... Le varie facce della narrativa meridionale. La letteratura napoletana

Se le condizioni particolari della Sicilia stimolavano la grande narrativa verista di cui si è parlato nel capitolo ., in altre zone del Mezzogiorno (e in primo luogo a Napoli, che aveva perduto il suo ruolo di capitale del regno borbonico) si sviluppava una narrativa meno rigorosa, ma comunque incline a osservare la realtà locale in modo nuovo, a rivelarne la diversità rispetto alle condizioni del resto del paese, a mostrare la sua irriducibilità a un modello nazionale omogeneo e unitario.

Vittorio Imbriani

Estraneo a ogni proposito di analisi sociale, chiuso in un groviglio di accesi risentimenti, sdegni e inimicizie, è il napoletano VITTORIO IMBRIANI (-), di famiglia di patrioti, studioso di filosofia, intransigente nazionalista, che assunse posizioni duramente reazionarie: notevoli i suoi racconti Mastr’Impicca (), Dio ne scampi dagli Orsenigo (), Per questo Cristo ebbi a farmi turco (). Un notevole impegno nell’analisi della realtà sociale, una vitalissima operosità, una passione per il lavoro e per la diretta comunicazione con il pubblico caratterizzano invece la scrittrice MATILDE SERAO, che (insieme a quello scrittore tutto particolare che è Di Giacomo, cfr. ..) offre l’immagine piú viva e concreta della Napoli del tardo Ottocento, recependo anche l’influsso dei grandi veristi siciliani. La Serao, nata il  febbraio  a Patrasso, in Grecia, da padre napoletano in esilio e da madre greca, crebbe a Napoli, in una dura e povera esistenza piccolo-borghese, animata dall’intelligenza e dalla cultura della madre, che dava lezioni di lingue. Ottenuto il diploma di maestra elementare, si diede all’attività letteraria e giornalistica: nel mondo giornalistico si fece subito strada, come «donna fatta da sé», grazie a un ingegno vivace e a un dinamismo che la rendevano affascinante. Nel  si trasferí a Roma e qui collaborò a numerosi giornali: nella capitale conobbe uno dei piú intraprendenti giornalisti del tempo, Edoardo Scarfoglio (cfr. ..), che la sposò nel  (e dal matrimonio nacquero quattro figli). Insieme, i due intrapresero una serie di importanti iniziative: nel  fondarono «Il corriere di Roma» e dopo due anni passarono a Napoli, dando vita a «Il corriere di Napoli», che nel  si trasformò nel giornale, ancora esistente, «Il Mattino». Il matrimonio entrò però presto in crisi, anche se la coppia continuò per un certo tempo a collaborare, finché nel  la Serao abbandonò la redazione del giornale, dando vita a un quotidiano rivale, «Il Giorno». Tra gli anni Ottanta e Novanta, la Serao ebbe un ruolo di punta come agitatrice di problematiche sociali e culturali, attenta tanto alle condizioni di vita delle classi povere, quanto ai conflitti e alle istituzioni del mondo letterario e giornalistico e alle forme della vita mondana ed elegante. La sua vastissima produzione narrativa, che nel corso degli anni divenne sempre piú convenzionalmente sentimentale, si preoccupò costantemente di seguire le inclinazioni di un cauto pubblico piccolo-borghese. La scrittrice morí a Napoli il  luglio . Non è facile orientarsi nella vastissima produzione giornalistica e narrativa della Serao, rivolta in direzioni diverse, sempre pericolosamente sospesa tra ambizioni artistiche e culturali e l’assillo della fretta, la curiosità piú disordinata, la provvisorietà dello stile, la disposizione a seguire gli schemi alla moda o le forme della piú facile letteratura d’appendice. La forza della Serao sta nella sua concretezza piccolo-borghese, nel suo senso di una vita fatta di poveri ogget-

Matilde Serao

L’attività giornalistica

L’impegno sociale e culturale

Una produzione disordinata

.

NELL’ORBITA DEL NATURALISMO

ti, di elementari economie, di lavoro paziente e quotidiano: da ciò le deriva la capacità di rappresentare la realtà di tutti i giorni nei suoi caratteri piú circostanziati. Piena di vitalità è la sua Napoli fitta di personaggi in lotta quotidiana per l’esistenza, spesso chiusi in interni oscuri e affollati. Di questo mondo umano la Serao segue tutti i momenti e gli aspetti: dall’alimentazione ai riti e alle superstizioni religiose, dai piccoli impieghi alle occasioni in cui le diverse classi sociali s’incontrano e si mescolano. Eccezionale analisi della vita dei vicoli napoletani offre l’inchiesta giornalistica Il ventre di Napoli (); tra le sue opere piú riuscite, vanno poi ricordati la novella La virtú di Checchina (), e i tre romanzi La conquista di Roma (), Vita e avventure di Riccardo Joanna () e Il paese di cuccagna, uscito a puntate nel  sul «Mattino» e poi pubblicato in volume nel . Nell’orizzonte della narrativa meridionale possono essere ricordati il calabrese NICOLA MISASI (-), legato agli schemi della letteratura d’appendice, e l’abruzzese DOMENICO CIAMPOLI (-), studioso di lingue slave e autore di novelle ambientate in un Abruzzo selvaggio e patriarcale.



Una concretezza piccoloborghese

Altri narratori meridionali

... La Napoli di Salvatore Di Giacomo. La voce di Napoli emerge in una forma tutta particolare nell’opera di SALVATORE DI GIACOMO, che attinge direttamente alla tradizione dialettale, ma dandole un colore tutto «contemporaneo»: ne nasce un inedito intreccio di elementi plebei e di elementi piccoloborghesi, tra segni di antica miseria, irrazionali scatti di passione, dolci malinconie e intenerimenti sentimentali. Con la sua produzione narrativa e teatrale, e soprattutto con la sua poesia, Di Giacomo crea una nuova «napoletanità», sospesa tra concretezza realistica, senso fatalistico della condizione umana, improvvisi guizzi di gioia e di cupa disperazione, abbandoni alla musicalità piú soave e dispiegata: è un mondo in cui si campa di espedienti, in cui è spesso incerto e aleatorio il confine tra onestà e malavita, in cui si affacciano povere donne abbandonate, guappi e prostitute, piccoli impiegati attaccati ai loro riti quotidiani, e in cui si mescolano sentimenti e sofferenze silenziose. Un mondo agitato dalle piú violente contraddizioni, tutte però come attutite da un continuo tradursi in spettacolo e in canto, dal piacere di mettersi comunque in scena, di offrirsi a un pubblico. Nato a Napoli il  marzo , Di Giacomo manifestò i suoi interessi letterari fin dal liceo e si diede a una intensa attività giornalistica. Rapido fu il successo delle sue novelle e soprattutto delle sue poesie e canzoni (nel  compose la prima canzone per la festa di Piedigrotta); di carattere scontroso e malinconico, viaggiò assai poco e visse un’umbratile vita familiare. Nel , dopo undici anni di travagliato fidanzamento, sposò la piú giovane Elisa Avigliano. Il successo, consolidato soprattutto grazie alle canzoni e alle opere teatrali, fece di Di Giacomo, nel corso del nuovo secolo, quasi un’immagine «ufficiale» della cultura napoletana, tanto che nel  fu nominato accademico d’Italia; morí a Napoli il  aprile . Di Giacomo scrisse novelle di ambiente napoletano, apparse sui giornali soprattutto negli anni Ottanta e Novanta e poi riunite in diversi volumi, fino alle due raccolte definitive Novelle napolitane () e L’ignoto (). Ogni novella è come una scena patetica in cui gli affetti (l’amore innanzitutto) si dispiegano in gesti e in colori vibranti, a cui l’autore partecipa in modo discreto e malinconico. Questa dimensione scenica viene naturalmente amplificata nelle opere teatrali in dialetto, che Di Giacomo ricava soprattutto da alcune novelle: i tre atti intitolati ’O voto (in un primo momento il titolo era Mala vita), rappresentati con grande successo a partire dal , derivano dalla novella Il voto; l’atto unico ’O mese mariano () deriva dalla novella Senza vederlo (), i due atti Assunta Spina () sono tratti dall’omonima novella del . Le poesie dialettali di Di Giacomo furono pubblicate nei modi piú vari e diedero luogo ad alcune raccolte apparse in questo ordine: Sonetti (), ’O Fúnneco verde (), ’O munasterio (), Zi’ munacella (), Canzoni napolitane (), A San Francisco (), Ariette e su-

Una nuova «napoletanità»

Il piacere di mettersi in scena L’esordio giornalistico

Le novelle: concretezza e sentimenti Il teatro dialettale

Le raccolte

EPOCA

 Fascinazione della distanza Commozione e partecipazione

L’incanto della «voce della città»



LA NUOVA ITALIA

-

nette (), Canzone e ariette nove (). Esse sono dominate da un senso tutto particolare della distanza, da una vera e propria fascinazione del lontano. Molto diversa da quella con cui Verga guarda al mondo popolare, questa «distanza» si carica di sentimento, implica la partecipazione e l’intenerimento dell’autore per le immagini, i segni, le voci che egli «da lontano» percepisce. Ciò non esclude rappresentazioni realistiche, scene di vita della piú misera plebe napoletana, che raccontano le abitudini e le passioni elementari di quanti abitano nei luoghi piú malsani della città: tutto con un alto senso di verità e di concretezza, con una continua apertura a forme di dialogo, con una spontanea adesione alla sofferenza, con intense affermazioni di volontà di vita e di passione, e con spunti di deformazione che sfuggono quasi sempre agli esiti comici tradizionali del realismo «popolare».

Di fronte al brulicante mondo napoletano il poeta evita ogni atteggiamento «critico», ogni denuncia sociale: tende invece a subirne l’incanto, seguendo i guizzi improvvisi e ciechi delle passioni che lo animano, come cercando di afferrare la «voce della città». Di Giacomo sente fortemente il rapporto poesia-musica, e cerca un originale linguaggio dei sentimenti che si rifà al suo amato Settecento, il secolo del melodramma: nelle celebri canzoni

IL TEATRO DIALETTALE DOPO L’UNITÀ DATI

tav. 195

Nella tensione unitaria del Risorgimento le tradizioni di spettacolo in dialetto, diverse da regione a regione e in parte legate ancora all’eredità della commedia dell’arte, furono guardate con un certo sospetto, ma ciò non impedí l’attività di varie compagnie dialettali, che si appoggiavano su un repertorio convenzionale o su testi di mediocre valore letterario. Tuttavia, già dopo il  cominciarono a svilupparsi in alcune regioni nuove esperienze di teatro dialettale, legate al diffondersi di una nuova curiosità per la rappresentazione della vita «reale», degli ambienti borghesi o popolari, e a una ripresa di vitalità delle tradizioni comiche locali. A Milano queste esperienze si collegarono anche allo spirito critico e polemico della Scapigliatura. Dopo il  l’orizzonte del teatro dialettale si allargò per effetto dei nuovi modelli del verismo, dando spazio alla rappresentazione di determinati ambienti sociali. Un ruolo di primo piano assunse, nel nuovo secolo, il teatro siciliano, grazie all’attività di Capuana, Martoglio, Pirandello, e alla genialità di un attore capocomico come Angelo Musco. Per tutta la prima metà del Novecento la vitalità di diverse tradizioni di teatro dialettale fu assicurata soprattutto dal lavoro di alcuni grandi attori comici, che utilizzavano un vario repertorio locale (come a Venezia, soprattutto Goldoni), davano versioni dialettali di commedie e drammi di origine diversa o producevano essi stessi testi che servivano da base per grandi scene di abilità comica. Tra tutte le tradizioni dialettali locali, quella che nel Novecento ha prodotto i risultati piú notevoli è stata quella napoletana, con Viviani e soprattutto Eduardo De Filippo; ma a partire dagli anni Sessanta queste tradizioni, pur continuando a svolgersi localmente come per forza d’inerzia, appaiono ormai consunte, anche per il ben diverso uso che del dialetto era stato fatto nel frattempo nel cinema e per la nuova situazione della comunicazione linguistica nazionale (cfr. ..). Elenchiamo qui gli autori piú importanti nella storia del teatro dialettale dell’Italia unitaria (indicando qualche opera piú significativa ed escludendo quelle di cui si parla nel testo); nell’elenco, diviso per aree regionali, includiamo anche i grandi attori, che, oltre a rappresentare testi altrui e scene comiche di repertorio, hanno composto testi adatti alla misura e alla personalità del proprio personaggio. Piemonte

VITTORIO BERSEZIO

Genova

GILBERTO GOVI

Milano

CARLO BERTOLAZZI

(cfr. ..) (-) (-)

Le miserie d’Monssú Travet (). Comico genovese. El nost Milan (“La nostra Milano”), in due parti, di quattro atti; La povera gent (“La povera gente”, ); I sciôri (“I signori”, ).

.

NELL’ORBITA DEL NATURALISMO



e nelle poesie in cui segue il filo dell’eterna vicenda dell’amore (ma sempre collocata sullo sfondo vitalissimo di Napoli, del suo paesaggio e dei suoi ambienti umani), egli arriva a dare una versione «dialettale» e insieme tutta moderna del linguaggio sentimentale metastasiano, e crea cosí una nuova lingua (la sola veramente autentica nell’Italia tra Ottocento e Novecento) della poesia amorosa. È una lingua limpida e colorata, insieme spontanea e smaliziata, in bilico tra le radici popolari e una sottile sapienza letteraria e musicale: una lingua che il poeta sente come espressione «sua», non soltanto come strumento per rappresentare la vita del popolo. La piú alta poesia di Di Giacomo si presenta come continuo abbandono patetico, come espansione teatrale e musicale, come ripiegamento e ricerca interiore di una dolcezza mai soddisfatta e continuamente rinnovata: essa è la voce di un desiderio che vorrebbe nascondere la propria intensità, che vorrebbe addirittura ignorarsi, smarrirsi in improvvise sospensioni, in sfuggenti momenti di incoscienza; e nello stesso tempo avverte l’insidia della fragilità, presagisce il consumarsi di ogni passione e di ogni dolcezza, ed è attratta da un tormento segreto, da una malinconia appesa a tenerissimi fili musicali.

EDOARDO FERRAVILLA

(-) Veneto

GIACINTO GALLINA

(-) RENATO SIMONI

(-) CESCO BASEGGIO

(-) Napoli

ANTONIO PETITO

(-)

L’opera del Maester Pastizza ( ca.). El moroso de la nona (“L’innamorato della nonna”, ); La famegia del santolo (“La famiglia del padrino”, ). La vedova (). Grande interprete goldoniano. Attore con le maschere di Pulcinella e Pascariello, autore e interprete di numerose farse e testi del tipo piú vario.

SALVATORE DI GIACOMO

(cfr. ..) EDUARDO SCARPETTA

(-) RAFFAELE VIVIANI

(-)

Attore, capocomico, autore, inventore del personaggio di don Felice Sciosciammocca: Miseria e nobiltà (). Autore e attore, passato dal café-chantant alla prosa drammaturgica, con un fittissimo numero di drammi e commedie.

EDUARDO DE FILIPPO

(cfr. ..) PEPPINO DE FILIPPO

(-) Sicilia

LUIGI CAPUANA

(cfr. ..) NINO MARTOGLIO

(cfr. ..) ANGELO MUSCO

(-) LUIGI PIRANDELLO

La metamorfosi d’un suonatore ambulante (). Malía (); Lu cavaleri Pidagna (); Cumparaticu (“Comparatico”, ); Lu Paraninfu (“Il sensale di matrimoni”, , scritta per Musco). San Giuvanni Decullatu (); Annata ricca massaru cuntentu (); L’aria del continente (, con parziale collaborazione di Pirandello). Attore catanese, grande interprete di Capuana, Martoglio, Pirandello. (cfr. ..)

Una lingua nuova

Teatralità e musicalità

EPOCA





LA NUOVA ITALIA

-

... Varie esperienze dialettali. Rappresentazione del mondo provinciale

Il teatro

La poesia

Cesare Pascarella Ferdinando Russo

L’attenzione a realtà locali e regionali tanto diverse fra loro portava con sé una nuova curiosità per i dialetti, non piú considerati soltanto come forme di espressione comica e grottesca, ma come strumenti per rappresentare in maniera realistica la vita della multiforme provincia italiana, cittadina e contadina, borghese e popolare. La ricerca del «vero», le tendenze naturalistiche e veristiche costituirono uno stimolo essenziale alla riproposta dei dialetti, intesi come documenti di realtà concrete e specifiche; e la prosa narrativa recepí elementi dialettali nella propria struttura (lo abbiamo visto in Verga) o frammenti di discorso in dialetto vero e proprio, messi in bocca a figure popolari o fortemente caratterizzate nella loro origine regionale. Ma, come mostra il caso di Di Giacomo, l’uso diretto del dialetto si ebbe soprattutto nel teatro (cfr. DATI, tav. ) e nella poesia: in questi generi, oltre al rilancio di tradizioni già esistenti (come, appunto, quella napoletana), si ebbe la creazione di tradizioni nuove (come quella del teatro dialettale siciliano, a cui si è già accennato a proposito di Capuana). Si ebbe infatti una rilevante produzione di impronta genericamente naturalistica, che intendeva dare rilievo drammatico alle vicende di personaggi dialettali e ricostruire i loro specifici ambienti. Per ciò che riguarda la poesia, un punto di partenza della nuova produzione dialettale si suole fissare al , data della pubblicazione della raccolta di versi in vernacolo pisano del Fucini (cfr. ..). La scoperta dei Sonetti di Belli, parzialmente diffusi prima dell’edizione del - (cfr. ..), suscitò una fioritura di testi in dialetto romanesco: in quest’ambito si distingue la poesia di CESARE PASCARELLA (-). Ma in nessun centro si ebbero risultati cosí intensi come quelli raggiunti dalla poesia di Di Giacomo, che a Napoli non costituí nemmeno un frutto isolato, poiché si inscriveva in una varia produzione legata al mondo giornalistico e dello spettacolo. Tra gli altri poeti napoletani va ricordato FERDINANDO RUSSO (-).

... Forme della narrativa settentrionale. Una produzione di tipo medio

Milano e la cultura borghese

Camillo Boito

La narrativa settentrionale non presenta una caratterizzazione regionale cosí marcata come quella delle regioni centro-meridionali: tende a un livello piú omogeneo di comunicazione di tipo nazionale, vuole in primo luogo rappresentare il mondo borghese e cittadino, e si fa espressione dei valori «medi» del nuovo Stato unitario; ma questa situazione non esclude conflitti e tensioni anche molto violenti. Ed è comunque possibile distinguere orientamenti e caratteri diversi nella produzione dei diversi centri. A Milano – luogo di formazione di un nuovo mercato editoriale che si rivolge a un pubblico relativamente ampio e che trova nella narrativa il genere piú praticabile e di consumo – si esprimono tutte le principali tendenze della nuova narrativa, a partire da quelle «scapigliate»; e, come si è visto, la città è punto di riferimento anche per il verismo e per i grandi scrittori siciliani. Piú che in qualsiasi altro centro del paese, a Milano si vivono gli effetti di una organizzazione della cultura rivolta al consumo del pubblico borghese, che a esso offre forme e modelli in cui riconoscersi (e un ruolo fondamentale in questo senso Milano assume anche nell’ambito del teatro); inoltre vi si sviluppa ampiamente anche la letteratura d’appendice (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ) indirizzata a un largo pubblico «popolare». Tra i numerosi narratori lombardi o legati all’ambiente milanese, vicini all’orizzonte della Scapigliatura, ma che non possono essere compresi sotto l’etichetta della Scapigliatura, va ricordato CAMILLO BOITO (-), nato a Roma, fratello maggiore di Arrigo (cfr. ..), che compose in un arco di tempo relativamente limitato una serie di racconti, raccolti nei due volumi Storielle vane () e Senso. Nuove storielle vane ().

.

NELL’ORBITA DEL NATURALISMO

Stretti rapporti con alcuni degli scapigliati ebbe il milanese LUIGI GUALDO (-), gran signore, elegante e raffinato uomo di mondo, vissuto a lungo a Parigi in rapporto con i maggiori scrittori francesi. Il suo romanzo migliore è Decadenza, del , costruito come la parabola di un personaggio ambizioso, Paolo Renaldi, che, dopo aver raggiunto un’elevata posizione sociale, si consuma in un esistere vano e vuoto, interamente dominato dalla «noia». Una volontà di comunicare in forme semplici e aperte con un ampio pubblico caratterizza l’opera del narratore milanese di maggiore successo, EMILIO DE MARCHI (-), che connette tradizione manzoniana e naturalismo. Di famiglia piccolo-borghese, insegnante di lettere, impegnato in varie iniziative pubbliche, autore di scritti pedagogici, De Marchi guardò a Manzoni (ma tentando di rappresentare la realtà urbana contemporanea con uno sfondo molto diverso da quello manzoniano) e si propose una letteratura edificante: i suoi scritti sono infatti dominati da un fervido moralismo, mirano a denunciare corruzioni e prepotenze, a mettere in luce positiva umili figure di «onesti», quasi sempre sconfitti dagli impietosi meccanismi della società; ma nello stesso tempo affermano la necessità delle gerarchie sociali, con un atteggiamento conservatore che diventò sempre piú duro nei suoi ultimi anni. Il successo gli toccò con il primo romanzo, Il cappello del prete, apparso a puntate nel  e in volume nel , che riunisce elementi tipici della letteratura d’appendice. Seguirono il suo romanzo piú importante, Demetrio Pianelli, uscito a puntate nel  e in volume nel , Arabella (-), Il redivivo (-), Giacomo l’idealista () e Col fuoco non si scherza (). In Piemonte ebbe, fin dagli anni Sessanta, un ruolo di suprema autorità letteraria VITTORIO BERSEZIO (-), di cui ricordiamo il romanzo La plebe (). Nell’ambiente piemontese si svilupparono poi varie esperienze narrative in qualche modo riconducibili all’orizzonte della Scapigliatura (cfr. ..): non è invece accettabile (anche per motivi cronologici) ascrivere alla Scapigliatura l’opera del torinese EDOARDO CALANDRA (), di solida famiglia borghese, pittore (soprattutto di soggetti storici), illustratore di edizioni di scrittori contemporanei, che si diede alla narrativa solo verso la metà degli anni Ottanta. Contrariamente alle tendenze prevalenti nel tempo, Calandra preferí guardare al passato, soprattutto a quello piemontese: ricordiamo la serie di bozzetti I Lancia di Faliceto () e i romanzi La bufera (), La signora di Riondino (), La marchesa Falconis (-), Juliette (). Di notevole valore è La bufera, ambientato in Piemonte negli anni tra il  e il , tra il crollo dell’Antico regime, la guerra rivoluzionaria e le azioni delle bande reazionarie: il disfarsi di un antico mondo nobiliare e contadino è guardato qui con struggente nostalgia. Non trascurabile è l’opera narrativa di REMIGIO ZENA (pseudonimo del nobile genovese GASPARE INVREA, -), fervente cattolico: la sua opera piú importante è il romanzo La bocca del lupo (), che segue le vicende che conducono in rovina (nella «bocca del lupo», appunto) povere donne del popolo genovese abbandonate a se stesse, vittime dell’irrazionalità e della crudeltà della vita sociale.

 Luigi Gualdo

Emilio De Marchi

I romanzi

Vittorio Bersezio Edoardo Calandra

Remigio Zena

... Edmondo De Amicis e Cuore. In Liguria e in Piemonte svolse la sua attività EDMONDO DE AMICIS, lo scrittore e giornalista che con il celebre Cuore () offrí ai ragazzi italiani un modello pedagogico di singolare fortuna, che diffuse in tutte le classi sociali, grazie a una forte carica patetica, gli ideali patriottici e familiari della società umbertina, il senso rigido e sicuro del dovere, del sacrificio, dell’impegno strenuo nel lavoro e nello studio, il rispetto della dignità altrui, il riconoscimento dell’appartenenza a un comune organismo nazionale. Questo libro ebbe un successo eccezionale e contribuí a formare, nel bene e nel male, intere generazioni di Italiani, almeno fino agli anni Cinquanta del nostro secolo; e da questo punto di vista ebbe un’essenziale funzione unificatrice, creando un sistema di comuni valori «civili» (nonostante gli aspetti repressivi, l’orizzonte gerarchico e di classe, il rigido moralismo su cui questi valori si reggono).

Gli ideali della società umbertina

EPOCA



Ideazione e pubblicazione di Cuore

Il diario di Enrico

Valori laici e solidarietà

Una produzione con finalità pedagogiche



LA NUOVA ITALIA

-

Nato a Oneglia (Imperia) nel , De Amicis si diede a una vivacissima attività letteraria e giornalistica: come inviato di vari giornali compí viaggi in ogni parte del mondo, da cui ricavò molti e fortunati libri di viaggio. Già prima del  cominciò a pensare a un libro fatto «col cuore», destinato ai ragazzi e in particolare ai «ragazzi poveri»: terminato all’inizio del  e subito stampato dall’editore Treves, Cuore fu in libreria in ottobre, all’inizio dell’anno scolastico. Il libro è costruito su una attenta distribuzione di temi e si configura come un diario tenuto durante l’anno scolastico - da Enrico, un ragazzino di famiglia medio-borghese, che frequenta a Torino la terza elementare (corrispondente alla quarta di oggi): al diario si intrecciano lettere-commenti dei genitori e nove racconti, dettati ogni mese dal maestro agli scolari. Anche gli eventi quotidiani narrati nel diario presentano casi esemplari, che hanno come protagonisti i diversi compagni di classe di Enrico, le loro famiglie o altri personaggi osservati nei piú vari momenti della vita cittadina: ne esce una galleria di fatti minuti, ma sempre carichi di valore pedagogico, che esortano a una collaborazione-solidarietà tra i diversi strati sociali.

Oggi ci sentiamo lontanissimi dai valori esaltati in Cuore: quel modello di infanzia e di scuola ci appare chiuso, conformista, insopportabile. Ma non va trascurato il valore positivo che, di fronte ai violenti squilibri sociali del tempo, il discorso «deamicisiano» poté assumere. Attraverso l’esperienza della scuola si cercava un comune terreno nazionale e civile: si offrivano ai ragazzi «poveri» modelli e valori laici elaborati dalla borghesia risorgimentale, ma nello stesso tempo si sollecitava la borghesia a praticare la solidarietà verso le classi piú umili, al di là dei crudi meccanismi economici. Non è quindi del tutto sorprendente l’accostarsi di De Amicis, sul finire degli anni Ottanta, al socialismo, a cui egli rimase fedele in modo rigoroso, tutt’altro che esteriore e sentimentale, fino alla morte, avvenuta a Bordighera nel . Parallelamente, De Amicis si impegnò in una narrativa legata sempre a prospettive pedagogiche, ma molto piú attenta alle contraddizioni tra le classi sociali (ricordiamo Il romanzo di un maestro, , La maestrina degli operai, , e l’interessante romanzo elaborato intorno al  e rimasto allora inedito, Primo maggio); alla condizione degli emigrati è dedicata l’appassionata inchiesta Sull’oceano (). Vari racconti (soprattutto quelli raccolti in Fra scuola e casa, , tra cui Amore e ginnastica) rivelarono una nuova capacità di descrivere turbamenti e tensioni sottili (e di rappresentare il mondo scolastico), molto lontana dal sentimentalismo di Cuore.

... Antonio Fogazzaro: un intellettuale cattolico nella nuova Italia. Tradizione cattolica e cultura contemporanea

Naturalismo e suggestioni del mistero

L’opera di ANTONIO FOGAZZARO nasce dal solido mondo borghese e aristocratico della provincia veneta, ma ha l’ambizione di proiettarsi in un orizzonte piú vasto. Fogazzaro raccoglie l’eredità della tradizione cattolica, aprendola sia alla nuova realtà dell’Italia unitaria, sia al mondo contemporaneo, agli sviluppi della scienza e a una piú inquieta e problematica sensibilità religiosa. Cattolico moderato e aperto, mantenne un fondo di viva sensibilità romantica e una convinta fedeltà agli ideali risorgimentali; e nella sua inquieta ricerca di un rapporto tra tradizione cattolica e cultura contemporanea fu vicino alle tendenze che cercavano di rinnovare il cattolicesimo, di farlo uscire dalla condizione di chiusura culturale a cui si era ridotto nel secolo XIX (cfr. ..). Questo fervore conoscitivo lo spinse in una serie di contraddizioni, che la sua narrativa seppe mettere in luce in forme assai articolate, disegnando personaggi travagliati e problematici e rappresentando mondi densi di presenze, atti e oggetti concreti. Il suo modo di raccontare è di stampo naturalistico, ma nel ritrarre la realtà egli cerca di definire stati d’animo, casi intellettuali e morali, intrecci di sogni e di sensazioni, suggestioni musicali e paesaggistiche, richiami del mistero, che però solo in parte avvicinano lo scrittore alle prospettive «decadenti»: la usuale ascrizione di Fogazzaro al «decadentismo» non è accettabile e ri-

.

NELL’ORBITA DEL NATURALISMO

schia di darne una immagine tendenziosa. Con il successo che ebbe ai suoi tempi, l’opera di Fogazzaro testimonia la vitalità della cultura cattolica italiana. Egli infatti definí le forme di una narrativa cattolica moderna, lontana da ogni retrivo clericalismo e capace di esprimere le contraddizioni fra la piú sincera sensibilità religiosa e il mondo contemporaneo. Nato a Vicenza il  marzo  da ricca famiglia borghese, cattolica ma sinceramente patriottica, Fogazzaro ebbe un’educazione legata alla presenza di vari religiosi nell’ambiente familiare. Soggiornò spesso in Valsolda (sul versante orientale del lago di Lugano, terra d’origine della madre) e iniziò poi gli studi di legge all’università di Padova. Dopo gli eventi del - la famiglia si trasferí a Torino, in attesa della liberazione del Veneto, e lí egli si laureò in legge. Nel  sposò la ricca contessa Margherita di Valmarana (da cui ebbe tre figli) e nel  si stabilí a Vicenza, dove visse quasi sempre, a parte lunghi soggiorni in una villa nei pressi di Arsiero e numerosi viaggi. Dopo un periodo di dubbio e di indifferenza religiosa, tornò a una fervente fede cattolica nel , impegnandosi anche in numerose letture filosofiche, alla ricerca di una problematica conciliazione tra il cattolicesimo e le tendenze della scienza e del pensiero contemporaneo. Il suo vero esordio letterario avvenne piuttosto tardi, con la pubblicazione della novella in versi Miranda (), in seguito alla quale il padre (allora deputato a Roma) cessò di ostacolarlo nelle sue ambizioni di scrittore. Egli raggiunse il successo solo nel , con il romanzo Malombra, a cui seguirono Daniele Cortis (), la raccolta Fedele e altri racconti (), Il mistero del poeta (), che fu subito tradotto in francese. Un successo ancora piú grande toccò al romanzo Piccolo mondo antico (), pubblicato dopo la morte del figlio Mariano. Intanto, sullo scorcio degli anni Novanta, intorno all’opera e all’attività di Fogazzaro si addensava l’attesa di quanti auspicavano una nuova letteratura mistica e spiritualistica. Il prestigio nazionale e internazionale valse tra l’altro a Fogazzaro, nel , la nomina a senatore. Ma il suo impegno continuò a esplicarsi nell’ambito del cattolicesimo: egli propugnava infatti un moderato rinnovamento della Chiesa, che non contraddicesse radicalmente la tradizione e a cui partecipassero come protagonisti i laici dotati di piú viva sensibilità culturale. Egli si accostò solo parzialmente al modernismo (cfr. .. e PAROLE, tav. ) e soprattutto cercò di dar voce a queste esigenze attraverso i personaggi inquieti, contraddittori e pieni di fervore religioso che animano i romanzi Piccolo mondo moderno () e Il santo (); quest’ultimo venne però condannato dalla Chiesa e l’anno dopo fu messo all’Indice. Da sincero cattolico, lo scrittore fece atto di sottomissione, ma non rinunciò alle sue convinzioni. Dopo l’apparizione del nuovo romanzo Leila (messo anch’esso all’Indice), morí all’ospedale di Vicenza, durante un’operazione chirurgica, il  marzo .



Un cattolicesimo moderno La formazione

Gli interessi e gli studi

L’attività letteraria

Un modernista moderato

... I romanzi di Fogazzaro. L’impegno piú autentico dello scrittore (a parte la produzione poetica, che annovera anche le liriche Valsolda, , e i numerosi interventi su problemi scientifici, religiosi, letterari) è nei romanzi. Con Malombra, apparso nel maggio  dopo cinque anni di lavoro, Fogazzaro raggiunge risultati di estrema suggestione narrativa, sospesi tra la rappresentazione di un piccolo mondo aristocratico e paesano nei primi anni dopo l’unità d’Italia e una sottile indagine psicologica: vi campeggiano l’affascinante figura della marchesina Marina di Malombra e le drammatiche contraddizioni che agitano il giovane Corrado Silla, scrittore senza successo, pieno di aspirazioni e di velleità culturali, che si sente chiamato da una missione etica e spirituale, ma è condannato a una sostanziale inettitudine dalla propria sensualità, dalle seduzioni del mistero, dai condizionamenti sociali e intellettuali. Qui l’attrattiva che Marina di Malombra esercita è accentuata dallo scenario fosco e arcano della vicenda e dai lati patologici e distruttivi del suo carattere: chiusa nella sua bellezza agile e inafferrabile, in un disprezzo ostinato del mondo e della propria condizione (è orfana e ospite nel palazzo dello zio), Marina si ritiene la reincarnazione di una sventurata abitatrice del palazzo,

Malombra

L’intellettuale «inetto» Un’inquieta figura femminile

EPOCA



Paesaggi indecifrabili

La problematica intellettuale

Daniele Cortis

Il mistero del poeta

Piccolo mondo antico

Un Risorgimento provinciale

Tra idealismo passivo e impegno concreto



LA NUOVA ITALIA

-

della quale ha ritrovato un delirante messaggio, e crede di vedere in Corrado la reincarnazione del suo antico amante. Il fascino enigmatico di Marina agisce oscuramente sull’irresoluto Corrado: dopo aver provocato la morte dello zio, Marina uccide Corrado e si dilegua come un fantasma in un tempestoso recesso del lago. La narrazione comunica un vivo senso di mistero, addensando attorno a Marina l’attesa per qualcosa di indefinibile, un’aura romantica che sembra evocare un altro mondo e un altro tempo, indecifrabili. Si impone la magia del paesaggio, umido e dalle tonalità ora forti ora pacate, e di tante sottili sensazioni che trovano nella musica la loro espressione piú intensa. Il sapiente uso di schemi narrativi d’effetto, tipici del romanzo di successo, è bilanciato da una sofferta problematica intellettuale e religiosa, che nel personaggio di Corrado si manifesta in atteggiamenti aristocratici, in un supremo disprezzo della «folla» e del volgare mondo borghese. Malombra è il romanzo piú affascinante di Fogazzaro proprio perché le diverse tensioni che lo percorrono non trovano un vero equilibrio, conservano un che di irrisolto e di acerbo: le contraddizioni del libro rivelano appunto la volontà di rappresentare una realtà non rinserrabile in organismi letterari assoluti e chiusi in sé. Il successivo romanzo, Daniele Cortis (), molto piú compatto, si incentra sui progetti e sugli ideali politici del protagonista, un deputato cattolico: la vicenda politica si intreccia con quella di un amore impossibile che afferma la propria intensità nella rinuncia, nel sacrificio e nella lontananza. Il mistero del poeta () presenta una vicenda romantica e melodrammatica, ambientata in Germania: il motivo della vocazione letteraria si lega qui strettamente a quello della impossibilità del rapporto amoroso, che ha una sua sublimazione ideale al di là della vita terrena.

Piccolo mondo antico, pubblicato nel , ma iniziato dal , quando alcune pagine uscirono su «Il corriere di Napoli», segnò per l’autore un tuffo nel mondo dell’adolescenza, nel paesaggio naturale e umano della Valsolda. Ambientato nel periodo compreso tra il  e il , tra cospirazioni e propositi patriottici, tra contrasti familiari e psicologici, nell’attesa del compiersi del Risorgimento, il romanzo ritrae, con cura minuta, particolari di vita quotidiana, personaggi e figure minori che concorrono a formare un ambiente vivo e concreto, uno spaccato di realtà provinciale in quegli anni decisivi (e la concretezza del quadro viene corroborata da inserti dialettali, vere e proprie «citazioni» del linguaggio dei personaggi minori e «comici»). Piccolo mondo antico è la storia di un mondo e insieme la storia di una famiglia, quella del nobile lombardo Franco Maironi, di sentimenti patriottici, e della borghese Luisa Rigey, il cui matrimonio non viene accettato dalla marchesa Maironi, nonna di Franco, duramente filoaustriaca. Gli sposi e la loro piccola figlia Ombretta vengono aiutati dalla nobile e nitida figura dello zio di Luisa, Piero. Tra difficoltà materiali, tra gioie e dolori, nell’amore tra Franco e Luisa si apre sempre piú evidente una distanza, un malessere che nasce dalla diversità dei loro caratteri, dalla non conciliabilità dei loro modi di concepire l’esistenza: da una parte c’è il fervente cattolicesimo di Franco, il suo acceso idealismo, che si risolve però in una singolare passività, in una sorta di inettitudine, in una rinuncia a lottare contro le ingiustizie subite a causa della nonna; dall’altra c’è la concretezza di Luisa, la sua aspirazione a lottare per la giustizia, a cercare una morale che si traduca piú in impegno terreno che in fervore religioso. Di qui una serie di confronti psicologici tra i due sposi, di situazioni difficili che rendono sempre piú ardua la loro comunicazione reciproca. Gli episodi piú vibranti e intensi (come quello della morte della bambina) hanno origine proprio da questo nucleo esistenziale sordo e difficile, dal malessere che corrode il rapporto tra i due coniugi. La morte di Ombretta, d’altra parte, mette in moto oscuri sensi di colpa e separa ulteriormente i due sposi: Luisa si concentra tutta nel ricordo della figlia, in una impossibile volontà di comunicare ancora con lei; Franco approda a una fede piú forte e sicura. I due si allontanano sempre piú, specialmente quando Franco si trasferisce a Torino, dove trova un lavoro e si impegna nella preparazione della lotta contro l’Austria; ma il romanzo si

.

NELL’ORBITA DEL NATURALISMO



conclude con la suggestiva scena del loro incontro nell’Isola Bella del lago Maggiore, mentre si affacciano dappertutto i segni della prossima guerra del  e mentre in dignitoso silenzio muore lo zio Piero, «l’uomo savio, l’uomo giusto» del passato.

La prosa di Fogazzaro raggiunge qui un ritmo rapido e sicuro, trovando forma in un italiano di grande equilibrio, dominato dalla paratassi, che rifiuta complicazioni stilistiche e sintattiche: la lingua sembra cosí avvolgersi intorno a quel vecchio mondo e ricostruirne affettuosamente, uno dopo l’altro, i diversi strati. Questa disposizione affettiva si avverte anche nella rappresentazione del paesaggio, che spesso fa eco ai sentimenti dei personaggi e che costituisce un costante e sicuro punto di riferimento, una presenza familiare e cordiale in tutto il corso del romanzo.

Una prosa di grande equilibrio

Il ritorno alla rappresentazione della realtà contemporanea significò per Fogazzaro mirare a una narrativa che desse voce alla problematica religiosa e intellettuale che gli stava a cuore, alle sue aspirazioni di «riforma» del cattolicesimo. Ma nello stesso tempo rimise in moto una serie di ambigue suggestioni erotiche: in quel contesto si affacciano immagini femminili raffinate e contraddittorie, emananti un fascino sensuale che promette un’esperienza di comunicazione assoluta e senza limiti, ma che poi si sublima in una difficile, tortuosa, spesso inquietante comunicazione spirituale. Questa materia si sviluppa in un vero e proprio ciclo, che segue nella generazione successiva l’universo di Piccolo mondo antico, messo a confronto con la nuova realtà dell’Italia postunitaria e con la crisi del cattolicesimo italiano. Protagonista di Piccolo mondo moderno () è il figlio di Franco e Luisa, Piero Maironi, uomo dalla personalità contraddittoria, oscillante tra una distruttiva sensualità e il senso di una missione ideale da svolgere per il bene della Chiesa. Nel romanzo successivo, Il santo (), ritroviamo lo stesso Piero Maironi a contatto con religiosi e intellettuali cattolici che aspirano a fondare un movimento per la rigenerazione e la riforma della Chiesa. Il romanzo è tutto tenuto su un tono alto e quasi rarefatto, e risente, anche nello stile, di una volontà di elevazione e di continua tensione. Nell’ultimo romanzo, Leila (), Fogazzaro torna a una rappresentazione piú varia nei toni e nelle prospettive. Gli ultimi romanzi, giudicati severamente dalla critica, ma molto amati al loro tempo da un ampio strato di lettori (e soprattutto di lettrici), possono apparirci molto lontani, percorsi da una problematica che non appartiene piú nemmeno al mondo cattolico di oggi: ma essi, come tutta l’opera di Fogazzaro, vanno al di là dei loro stessi propositi ideologici, dando voce al malessere reale della società italiana dell’inizio del secolo e degli ambienti legati alla tradizione cattolica.

Gli ultimi romanzi

Piccolo mondo moderno

Il santo

Leila

... La Sardegna di Grazia Deledda. Nella narrativa di GRAZIA DELEDDA, che si rivelò nei primi anni del nuovo secolo, anche una regione appartata come la Sardegna sembrò trovare una sua rappresentazione viva e concreta, collegabile alle prospettive del verismo: al centro dei suoi numerosi romanzi e delle sue molte novelle c’è quasi sempre il mondo rurale e pastorale dell’isola, con le sue tradizioni e i suoi modi di vita arcaici, con la sua natura selvaggia. La scrittrice segue le piú correnti formule di tipo naturalistico, ma non ha propositi di oggettività, è indifferente a una disposizione di tipo «scientifico», a un’attenzione rigorosa ai meccanismi sociali ed economici, ai conflitti tra diversi livelli umani e linguistici. Da un fondo romantico e adolescenziale (che si alimenta anche di storie di vita sarda, trasmesse dalla viva voce dei parlanti locali) Deledda ricava una disposizione istintiva e quasi ingenua a inventare e a narrare, a dipanare vicende e a muovere personaggi in cui si intrecciano sogni e inquietudini, richiami sentimentali e tormenti morali, spunti mitici e particolari di vita quotidiana.

Istintiva disposizione narrativa

EPOCA

 Una narrazione fuori del tempo

La vita e le opere



LA NUOVA ITALIA

-

Nella Sardegna di Deledda, chiusa in un cerchio di antiche tradizioni e valori religiosi e familiari, si agitano passioni che fanno in genere precipitare i personaggi verso una «colpa», a cui segue l’inevitabile punizione. La sua narrazione si svolge come fuori del tempo, è il frutto di un artigianato onesto, schivo, ripetitivo, estraneo ai grandi conflitti della cultura contemporanea, concentrato in una assoluta problematica sentimentale-morale, in drammatiche e solitarie figure: la sua prosa sa attingere toni e sfumature diverse, ma manca di incisività e talvolta presenta improvvise cadute di tensione e di gusto. Nata a Nuoro nel , la Deledda si trasferí a Roma nel , dopo aver sposato un impiegato del Ministero delle Finanze conosciuto a Cagliari; e proprio in quell’anno uscí sulla «Nuova Antologia» il suo primo romanzo notevole, Elias Portolu (poi in volume nel ). La sua vastissima produzione fu seguita da un grande pubblico, in Italia e fuori: fu il successo di pubblico a valerle l’assegnazione del premio Nobel nel . Morí a Roma nel . Tra gli oltre cinquanta volumi di narrativa pubblicati da Deledda, ricordiamo (oltre a Elias Portolu) Cenere (), L’edera (), Canne al vento (), Marianna Sirca (), La madre ().

... Verso un teatro borghese. Il nuovo dramma e le convenzioni sceniche

Il pericolo del conformismo

I divi del teatro Gli autori drammatici

Paolo Ferrari

Per ciò che riguarda il teatro, lo sviluppo di modi di rappresentazione naturalistici trovò un ostacolo nella persistenza di convenzioni sceniche e di generi tradizionali, in primo luogo della tragedia storica di tipo romantico. Ma sia la tragedia storica sia la commedia (legata in Italia alla tradizione settecentesca e soprattutto al modello di Goldoni) contenevano in sé componenti realistiche che avrebbero consentito di rappresentare la vita quotidiana e il mondo contemporaneo nella loro «verità», di portare sulla scena frammenti di autentica esistenza borghese, in tutti i suoi aspetti. Intorno alla metà dell’Ottocento l’esigenza di realismo tanto fortemente sentita dalla narrativa (cfr. ..) penetra con vigore anche nel teatro. La tragedia storica viene sostituita da vicende, drammi e conflitti attuali; agli eroi romantici si sostituiscono personaggi borghesi; a quella morale sublime si sostituisce la morale borghese, subentrano conflitti che interessano gli ambienti mondani e familiari e la moderna civiltà metropolitana, dove il perbenismo e il conformismo si scontrano con i desideri e con la passione. Agli ambienti esotici o ricchi di colore storico si sostituisce il salotto borghese, luogo di incontri e di scontri tra personaggi del mondo presente. Si giunge a un mimetismo estremo, che riguarda sia gli oggetti che popolano la scena, sia i discorsi tra i personaggi: questo mimetismo comporta un’attenzione per i particolari piú minuti, per le circostanze anche banali che costellano la vita di ogni giorno; drammi, conflitti, passioni si dispongono entro le dimensioni di questo mondo concreto, che è però pieno di cose e di atti inessenziali, e rischia di diventare stancamente ripetitivo, sempre uguale a se stesso. Tutto il teatro europeo del secondo Ottocento è dominato dal dramma borghese, almeno a partire dal grande successo di Alexandre Dumas figlio (-): e nel dramma borghese si esaltano spesso i piú conformistici valori correnti. Ma da questo «ceppo» si sviluppano anche forme di teatro critico di eccezionale intensità (da quello di Ibsen a quello di Cˇèchov: cfr. CANONE EUROPEO, tavv.  e ). In Italia, anche dopo l’unità, la vita teatrale continua a essere dominata dai grandi attori: la nuova generazione è illustrata da grandi interpreti come ELEONORA DUSE (-) ed ERMETE ZACCONI (-). Delle opere teatrali di quegli autori che hanno operato soprattutto nell’ambito di altri generi letterari si parla nei luoghi a loro destinati (le piú importanti sono certamente le opere di Verga, cfr. .., di Di Giacomo, cfr. .., di D’Annunzio, cfr. ..); mentre al teatro dialettale si accenna in .. (oltre che in DATI, tav. ). I primi anni del teatro dell’Italia unita videro in piena attività alcuni autori che avevano già raggiunto il successo negli anni Cinquanta: prima di tutti il modenese PAOLO FERRARI (-

.

NELL’ORBITA DEL NATURALISMO

), e quindi PAOLO GIACOMETTI (-), che ebbe eccezionale successo con il dramma La morte civile (). Come esempio di teatro capace di una equilibrata rappresentazione della realtà contemporanea fu salutato il dramma del napoletano ACHILLE TORELLI (-), I mariti (): ma quello di Torelli è un naturalismo addomesticato, dominato da propositi moralistici. La ricerca del «vero» cominciò tuttavia, intorno a quegli anni, a condizionare perfino il dramma storico, come mostra la fortunata tragedia in versi Nerone () del romano PIETRO COSSA (-). Un vero e proprio dramma borghese sorse negli anni Ottanta, per influsso indiretto della nuova narrativa verista e degli stessi esperimenti teatrali di Verga: e Verga venne sollecitato alla versione teatrale della Cavalleria rusticana proprio da quello che sarebbe stato il protagonista del teatro borghese di quegli anni, GIUSEPPE GIACOSA (-). Questi infatti rappresentò con intelligente misura i conflitti tipici del triangolo borghese (marito-moglie-amante) in Tristi amori (); e in Come le foglie (), cercando di seguire i modelli di Ibsen, intrecciò conflitti economici e conflitti familiari, delineando personaggi sospesi tra l’ansia per ciò che si va dissolvendo e patetiche speranze in un futuro in cui il lavoro ricostruisca e rifondi i valori familiari. Tra le ventidue commedie del milanese MARCO PRAGA (-), figlio dello scapigliato Emilio (cfr. ..), quella di maggior valore e successo è La moglie ideale (), che sfugge al moralismo dominante nel dramma borghese del tempo, presentandoci un caso al limite del paradosso. Il napoletano ROBERTO BRACCO (-) produsse opere di vario orientamento, provando con successo la strada del dramma popolare a effetto, di vaga ascendenza veristica. Da non trascurare è, infine, la vasta produzione librettistica, legata agli sviluppi del melodramma, che, nella ricerca di forme diverse da quelle vitalissime dell’opera romantica, si avvaleva di una notevole espansione del mercato. Mentre Verdi continuava la sua attività, fino al tardo Falstaff del  (con il libretto di Arrigo Boito), si faceva sentire anche in Italia la suggestione dell’opera di Richard Wagner, che aveva creato nel teatro musicale la piú ambiziosa sintesi di tutte le espressioni, si era proposto come «autore totale», contemporaneamente poeta, musicista, scenografo, e aveva cercato di dar voce alle forze piú oscure e distruttive dell’irrazionale, aspirando a un’arte mistica e sacrale. L’opera di Wagner ebbe una fortuna eccezionale nella cultura italiana, anche al di fuori dell’ambito del melodramma, ponendosi come arte capace di scatenare le energie piú profonde dell’uomo e di aprirle verso l’«avvenire», e influí ampiamente sulle tendenze letterarie estetizzanti e decadenti (a cominciare da D’Annunzio, cfr. ..). Ma nell’ambito del melodramma ebbe un rilievo notevole anche un diverso modello, quello realistico-esotico esemplificato da quel capolavoro del  che è la Carmen del francese Georges Bizet (-). Nella produzione melodrammatica italiana si intrecciarono tendenze diverse, operazioni dettate piú dalla ricerca di nuove soluzioni teatrali e musicali che da un’autentica sensibilità drammatica. Un elemento di novità nell’opera italiana fu la diffusione di schemi di tipo «veristico» (dai toni accesi e vibranti, carichi di colore), inaugurato nel  dalla celebre Cavalleria rusticana di PIETRO MASCAGNI (-), su libretto di GIOVANNI TARGIONI TOZZETTI (-) e GUIDO MENASCI (-) ricavato dal dramma di Verga (cfr. .. e ..); un altro successo del verismo si ebbe nel  con i Pagliacci del napoletano RUGGERO LEONCAVALLO (), insieme musicista e librettista. Ma l’autore che seppe trovare una eccezionale misura musicale e drammatica e insieme una comunicazione realmente «popolare» (sia pure dentro le forme declinanti del melodramma), ottenendo un successo internazionale, fu GIACOMO PUCCINI (-), che per i libretti si valse spesso di un lavoro a piú mani su cui interveniva secondo le sue esigenze espressive: essenziale per molte delle sue prime opere fu la collaborazione di Giuseppe Giacosa. Giacosa partecipò, con un gruppo di scrittori (tra cui anche Marco Praga), alla stesura del libretto della Manon Lescaut (), e poi – insieme al maggior librettista professionista del tempo, LUIGI ILLICA (-) – ai testi de La Bohème (), della Tosca () e di Madama Butterfly ().

 Paolo Giacometti Achille Torelli

Pietro Cossa

Giuseppe Giacosa

Marco Praga

Roberto Bracco Il melodramma Il successo di Wagner

La Carmen di Bizet

L’opera verista: Mascagni e Leoncavallo

Giacomo Puccini Libretti e librettisti: Giacosa e Illica

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



LA NUOVA ITALIA

-

HENRIK IBSEN. L’ANITRA SELVATICA IL CANONE EUROPEO

tav. 196

UNA CRITICA CORROSIVA DELLA IPOCRISIA BORGHESE Nei drammi del norvegese Henrik Ibsen (Skien -Oslo ) si dà una rottura radicale dei modelli del teatro borghese, raggiunta attraverso una critica corrosiva dell’ipocrisia, della menzogna, dei pregiudizi su cui si regge l’edificio della famiglia e della società borghese: questa critica non resta qualcosa di astratto e programmatico, ma entra nel vivo delle forme drammatiche, dei comportamenti e delle psicologie dei personaggi, e, partendo da un fondo naturalistico, si proietta verso un orizzonte mitico e simbolico, che diventa sempre piú intenso negli ultimi drammi. La fama di Ibsen si diffuse in tutta Europa a partire da Casa di bambola (), con la vicenda di Nora, che giunge a rifiutare l’ipocrisia su cui si basa il suo rapporto con il marito e lascia la famiglia affermando la propria esigenza di autonomia e di libertà: l’opera suscitò scandalo e polemiche, quasi anticipando molte tematiche e prospettive del femminismo. Tra gli altri capolavori di Ibsen (ricordiamo Spettri, , La donna del mare, , Hedda Gabler, , Il costruttore Solness, , John Gabriel Borkmann, , Quando noi morti ci destiamo, ), L’anitra selvatica (Vildanden, ) mostra una particolare complessità e ambiguità di significati, in un piú esplicito sovrapporsi tra l’ambientazione naturalistica, la polemica sociale e la prospettiva simbolica: questa è data dalla figura dell’anitra selvatica e dai diversi significati che essa assume per i vari personaggi. LA TRAMA L’anitra, che viene custodita in una strana soffitta, nella casa della famiglia Ekdal suscita una serie di suggestioni (evocando il tema della caccia, quello del mare, quello della natura selvaggia ecc.), che sono come uno specchio interno del dramma, ne animano i motivi e le situazioni. Si tratta di cinque atti che si svolgono in un breve giro di tempo e rinviano, come spesso nei drammi di Ibsen, a una serie di antefatti oscuri, che riguardano i rapporto tra il vecchio Werle, commerciante all’ingrosso e proprietario di miniere, e il suo antico socio Ekdal, accusato di malversazioni e caduto in miseria: antefatti da cui è derivata la situazione presente e che hanno dato luogo alle diverse fortune dei personaggi, alla loro diversa posizione economica, sociale, familiare. Nel primo atto si presenta una cena in casa del vecchio Werle: per il ritorno del figlio Gregers, che ha lavorato per molti anni presso le miniere del padre, è stato invitato anche un vecchio amico di Gregers, Hjalmar, figlio del vecchio Ekdal. Gregers è un giovane idealista che non tollera l’ipocrisia e l’egoismo del padre, che gli rimprovera il comportamento verso la madre, morta quando lui era bambino, e, alla notizia che il vecchio sta per sposare una certa signora Sörby, decide di lasciare la sua casa. Gli altri atti si svolgono tutti nello studio della modesta abitazione di Hjalmar, da cui si passa nella stanza in cui vive il vecchio Ekdal e nella soffitta dove con altri animali si trova l’anitra, donata dal vecchio Werle, che l’aveva ferita durante una battuta di caccia (e nella soffitta il vecchio Ekdal rivive illusoriamente la propria antica passione di cacciatore): lí Hjalmar esercita una attività di fotografo (messa su con l’aiuto del signor Werle), illudendosi di essere destinato a una grande «scoperta» nel campo della fotografia, compiacendosi della sua tranquilla vita familiare, con la moglie Gina e la figlia quattordicenne Hedvig, minacciata da una malattia alla vista (quello della cecità e della visione è un altro tra i piú intensi dati simbolici del dramma), che ha un amore infantile e appassionato per l’anitra. Gregers si reca da Hjalmar e rompe l’apparente felicità di quel suo «focolare domestico», rivelandogli le ragioni del sostegno economico che gli dà il vecchio Werle, che in realtà è stato amante di Gina; pensa che, liberando i suoi rapporti con Gina dalla menzogna, Hjalmar possa ricostruire una nuova vita ideale e sincera, ma questi cade nello sconforto e progetta di abbandonare la casa, suscitando la disperazione della figlia Hedvig. Un vitalizio che il vecchio Werle lascia a Hedvig lo porta poi addirittura a sospettare che Hedvig sia figlia di Werle e a trattarla con freddezza e ostilità. La ragazza, fragile e piena di un disperato bisogno di amore, crede a Gregers, che le suggerisce di uccidere l’anitra, come prova d’a-

.

NELL’ORBITA DEL NATURALISMO



more per recuperare l’affetto del padre: all’insaputa di tutti, prende la pistola usata dal nonno e si reca nella soffitta; ma rivolge contro se stessa il colpo di pistola che riecheggia nello studio. La sua morte non fa uscire gli altri personaggi dalle loro ostinazioni, dallo sterile egoismo su cui si reggono le loro esistenze: sia il perbenismo familiare di Hjalmar, che il programmatico idealismo di Gregers rivelano la loro cecità, il loro egoismo, che impedisce loro di riconoscere la propria responsabilità, di capire che le sole ragioni autentiche sono quelle della bambina, del mondo naturale rappresentato dall’anitra selvatica. Il testo Riportiamo una parte del dialogo che nell’atto V si svolge tra Gregers e il medico Relling, vicino di casa degli Ekdal, che al suo idealismo astratto oppone la necessità di conservare negli individui la «menzogna vitale», che sola permette di mantenere una relativa felicità. Appare poi Hedvig, a cui l’ostinato Gregers chiede se ha deciso di far sacrificare l’anitra per prova d’amore verso il padre; sono proprio queste parole di Gregers a precipitare la situazione, a condurre Hedvig verso il gesto fatale. [EDIZIONE: Henrik Ibsen, L’anitra selvatica, traduzione di A. Rho, Einaudi, Torino ] RELLING: A proposito, signor Werle figlio… non adoperi quel vocabolo straniero: «ideale». Abbiamo la nostra brava parola nostrana: «menzogna». GREGERS: Crede che vi sia affinità fra le due cose? RELLING: Sí, all’incirca come tra il tifo e la febbre putrida. GREGERS: Dottor Relling, io non mi darò pace finché non avrò strappato Hjalmar dalle sue grinfie. RELLING: Sarebbe il peggio che gli potesse capitare. Se lei toglie a un individuo comune la menzogna vitale, gli porta via in pari tempo la felicità. (A Hedvig che viene dal salotto) Ebbene mammina dell’anitra selvatica, adesso vado giú a vedere se il babbo è ancora là sdraiato a ruminare la sua famosa invenzione. (Esce dalla porta del pianerottolo). GREGERS: (avvicinandosi a Hedvig) Le leggo in viso che il sacrificio non è ancora compiuto. HEDVIG: Che cosa? Ah, parla dell’anitra selvatica? No. GREGERS: Capisco. Il coraggio l’ha abbandonata quando si è trattato di metterlo in atto.

HEDVIG:

No, non è questo. Ma stamattina quando mi son svegliata e ho ripensato a quello che avevamo detto, mi è parsa una cosa cosí curiosa. GREGERS: Curiosa? HEDVIG: Sí, non so… Ieri, al primo momento, mi era sembrato meraviglioso; ma oggi, quando me ne sono ricordata, dopo aver dormito, non sapeva piú di nulla. GREGERS: Eh, lei non poteva crescere qui dentro senza che qualcosa si guastasse in lei. HEDVIG: Non me ne importa niente; purché il babbo ritorni… GREGERS: Ah, se lei avesse occhi per vedere quello che dà valore alla vita… se lei avesse il vero, sereno, coraggioso spirito di sacrificio, allora sí che lo vedrebbe ritornare. Ma io ho ancora fede in lei, Hedvig.

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



LA NUOVA ITALIA

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ANTÒN CˇÈCHOV. IL GIARDINO DEI CILIEGI IL CANONE EUROPEO

tav. 197

Antòn Pàvlovicˇ Cˇèchov, nato nel  a Taganrong, nella provincia russa, da famiglia disagiata, laureato in medicina, pubblicò una ricchissima serie di novelle, tra le piú importanti della moderna letteratura europea, in cui si affolla un’umanità sofferente, che vive tra inganni e illusioni, tra vicende comiche e patetiche, seguite con sottile attenzione alle sfumature psicologiche e alle risonanze interiori. Si dedicò molto presto anche al teatro, inizialmente con testi piú brevi, poi, a partire da Ivanov () con drammi in quattro atti. Nei suoi capolavori, Il gabbiano (), Zio Vanja (), Le tre sorelle () e Il giardino dei ciliegi (), la rappresentazione della vita delle famiglie della borghesia e dell’aristocrazia russa si svolge al di là del realismo convenzionale del teatro borghese: la scena teatrale sorge da un convergere di piú personaggi, in un orizzonte corale che vede intrecciarsi e sovrapporsi sensazioni sottili, che suggerisce atmosfere attraverso dettagli; il dramma è dato dalla molteplicità degli stati d’animo che si affidano ai piú diversi particolari, entro un presente lacerato, minato da un’insoddisfazione senza scampo («Il loro presente è oppresso dal passato e dall’avvenire; è un intervallo, un periodo d’esilio», P. Szondi). I personaggi assistono al consumarsi delle loro vite e del loro mondo sociale, su cui grava il peso del passato e la minaccia del futuro, sono segnati da un’impossibilità di vita, da una sofferenza che mina la loro consistenza, che blocca e deforma i loro gesti, che rende difficile una reale comunicazione: in essi sembra esprimersi il malessere di una società, come quella della Russia zarista, che si sente minacciata dalla fine, che sembra quasi attendere le rivoluzioni e i disastri del secolo XX. In questa rappresentazione gli elementi patetici ed elegiaci, i segni della sofferenza e del disagio, si combinano con elementi di tipo comico, con spunti ironici e corrosivi: nella nuova forma drammatica creata da Cˇèchov il tragico e il comico convivono e quasi si confondono, agli spettatori suggeriscono nello stesso tempo partecipazione e distacco, dolorosa identificazione con il destino dei personaggi e del loro mondo e considerazione della loro cecità, del loro essere ostinatamente prigionieri di un passato, di un modello di vita senza speranza. Il giardino dei ciliegi (Visˇnëvyi sad), rappresentato al Teatro d’arte di Mosca il  gennaio , pochi mesi prima che la tisi conducesse Cˇèchov alla morte (avvenuta in Germania, a Badenweiler, dove cercava di combattere la malattia), costituisce la sintesi estrema del suo teatro, dominata dalla figura simbolica del giardino, antica proprietà della famiglia Ranèvskij, che sarà venduto e abbattuto. Si tratta del tema, molto diffuso nella letteratura dell’Ottocento e del primo Novecento, della famiglia aristocratica decaduta che deve cedere i suoi beni agli esponenti di una nuova classe in ascesa (qui rappresentata dal mercante Lopachin, figlio di un servo della gleba, che compra la proprietà messa all’asta e abbatte il giardino per farvi costruire delle villette per i nuovi villeggianti): ma Cˇèchov non lo svolge in un’ottica politica o sociologica, non si pone dal punto di vista né di coloro che decadono né di coloro che li rimpiazzano, ma registra poeticamente il dolore della fine, la sofferenza e lo strazio del mutamento, e il carattere ingannevole del muoversi dei personaggi, delle loro sensazioni e dei loro turbamenti, dei loro rimpianti e delle loro speranze. Qui gli elementi tragici e quelli comici si intrecciano nel modo piú inestricabile, entro una tensione drammatica che si costruisce non grazie a degli eventi, ma grazie al convergere dei gesti, delle sensazioni, delle figure, del ritmo dato dalle diverse battute. Le scene si susseguono in un movimento circolare che riconnette l’inizio alla fine, tra disperazione e ironia, tra delicatezza e crudeltà. Il primo atto si svolge in maggio, in una stanza della tenuta, sul cui sfondo si scorge il giardino fiorito, e vede il ritorno di Ljubòv’ Andréevna Ranèvskaja, dal suo soggiorno a Parigi. Il secondo atto presenta una passeggiata in campagna, durante la quale i vari

.

NELL’ORBITA DEL NATURALISMO



personaggi manifestano i loro diversi atteggiamenti verso il giardino, che per ciascuno assume valori diversi. Il terzo atto vede svolgersi nella casa un’ultima festa, mentre giunge notizia dell’asta in cui il giardino viene venduto. Se per i vecchi possidenti il giardino rappresenta la felicità del loro passato, che, con la loro vita oziosa e i loro comportamenti superficiali e irresponsabili, essi non sono capaci di difendere, per l’arricchito Lopachin, tutto dedito al lavoro, esso rappresenta un’essenziale occasione economica (e, già prima di impadronirsene, egli suggeriva invano ai proprietari di salvare la proprietà tagliando il giardino e lottizzando il terreno); mentre per l’inconcludente studente Piotr Trofímov il giardino rappresenta l’oppressione del passato, a cui egli oppone l’immaginazione di un felice mondo futuro, di un progresso che si avvicina come una «stella luminosa». Il quarto atto si svolge nella stessa stanza del primo, ma in ottobre, con il giardino nudo e ormai sotto i colpi della scure, con la partenza della famiglia dalla casa che sarà demolita per far posto alla lottizzazione di Lopachin: sulla scena vuota resta il vecchio e fedele servo malato, Firs, che constata come non è rimasto «niente», mentre si sentono i colpi della scure che taglia gli alberi. Il testo Si riporta la battuta finale dell’atto III, con le parole che la giovane Anja, innamorata di Piotr Trofímov, rivolge alla madre Ljubòv’ Andréevna, dopo che è giunta la notizia della perdita del giardino: sono parole di speranza, di fiducia nella vita futura, in cui qualche critico ha voluto vedere uno sbocco «positivo», o almeno non completamente pessimistico, della vicenda. Ma dall’insieme del tessuto del dramma risulta come la giovane e candida Anja sia solo suggestionata dalle parole di Trofímov, dalle sue elucubrazioni utopiche. L’immagine del nuovo giardino può avere un senso per le giovani generazioni, ma non per l’incapace Ljubova, che del resto partirà per Parigi per raggiungere l’amante e per riprendere la vita dissipata che aveva appena lasciato. Con le sue parole Anja si trova semplicemente a consolare ingannevolmente se stessa e la madre: nella loro semplicistica dolcezza sono tanto piú laceranti, in quanto appaiono come il frutto di un’ingenua, quasi sciocca illusione. [EDIZIONE: Antòn Cˇèchov, Racconti e teatro, Sansoni, Firenze ]

Nella sala e nel salotto non c’è nessuno, eccetto Ljubòv’ Andréevna che sta seduta rannicchiandosi tutta e piangendo amaramente. L’orchestra suona in sordina. Entrano in fretta Anja e Trofímov; Anja si avvicina alla madre e si ferma dinanzi a lei in ginocchio. Trofímov resta presso la porta per cui si entra nella sala da pranzo. ANJA:

Mamma!… Mamma, tu piangi? Dolce, buona, cara mamma mia, mia bella mammina, io ti voglio bene… io ti benedico. Il giardino dei

Ciliegi è venduto, esso non c’è piú, è vero, è vero; ma non piangere, mamma: dinanzi a te rimane la vita, rimane la tua buona anima pura… Vieni con me, andiamo via di qui, cara, andiamo!… Noi pianteremo un nuovo giardino piú lussureggiante di questo; tu lo vedrai, comprenderai; e una gioia quieta, una profonda gioia scenderà nella tua anima: come il sole nel crepuscolo; e tu sorriderai, mamma! Andiamo, cara! Andiamo!…

˜

9.6 D’ANNUNZIO E L’ESTETISMO ... Il tempo dell’estetismo.

Negli anni Ottanta, quando il naturalismo e il positivismo sembrano aver raggiunto la loro massima presa sulla cultura italiana, cominciano a diffondersi anche da noi quelle tendenze estetizzanti che caratterizzano la piú raffinata cultura decadente europea (cfr. .. e PAROLE, tav. ). Un nutrito gruppo di scrittori e intellettuali parte in battaglia contro l’utilitarismo e i ristretti orizzonti mentali della società borghese, esaltando in primo luogo l’arte come esperienza assoluta, come conquista della bellezza, come idealità superiore, che si manifesta anche in forme esteriori, nel lusso, nell’eleganza, nello splendore degli ornamenti: non ci sono in questo estetismo (cfr. PAROLE, tav. ) quello spirito anarchico e radicalmente critico, quella negazione ironica della stessa arte e del ruolo dell’artista che animavano l’orientamento degli scapigliati; esso mira invece a rivendicare una superiorità dell’arte su qualsiasi altra esperienza e a conquistare lo stesso mondo borghese, soggiogandolo con una accorta azione di mercato e con nuovi mezzi spettacolari di propaganda e di comunicazione. L’estetismo propone modelli «eccezionali», offre immagini eleganti, bizzarre, morbose, ha il gusto dell’inutile e del prezioso, si presenta come il punto d’arrivo di una cultura estenuata e raffinata, tanto sofisticata da risultare abnorme e distruttiva. L’estetismo nutre un fortissimo disprezzo per la volgarità e la folla, e, nello stesso tempo, un’ossessiva predilezione per la mondanità, per la vita frivola e capricciosa, per gli oggetti minuti e preziosi. La vita stessa deve essere vissuta come un’opera d’arte. Rispetto agli orientamenti prevalenti dell’estetismo europeo, che spesso critica radicalmente il mondo borghese e la società costituita, l’estetismo italiano sembra essere piuttosto un mezzo per impadronirsi del mercato culturale borghese, per incrementare una cultura dell’inutile e della spettacolarità esteriore, per attribuire agli artisti un ruolo di guide culturali, di sacerdoti e asceti della bellezza, che affermano nello stesso tempo la propria separazione dal mondo sociale, il proprio diritto a una irresponsabilità assoluta, a una illimitata libertà di sperimentazione. I caratteri dell’estetismo italiano si riassumono nell’opera e nella vita del suo grande propulsore e mediatore, Gabriele D’Annunzio, che ne guidò baldanzosamente le varie fasi, soprattutto nel ventennio -; ma il movimento si impose come una vera e propria moda culturale attraverso una serie programmata di iniziative collettive (in primo luogo editoriali), che videro la partecipazione di scrittori e di artisti anche molto diversi: essi diffusero presso il pubblico uno stile figurativo e decorativo che confluí nel cosiddetto liberty (cfr. PAROLE, tav. ). Roma, la nuova capitale che negli anni Ottanta viveva una tumultuosa espansione e alimentava un’ambiziosa vita mondana, fu il centro dell’estetismo, che fruí del nuovo giornalismo e della nuova editoria. Essenziali per Roma furono, nel primo lustro degli anni Ottanta, l’attività editoriale di Angelo Sommaruga (cfr. ..) e la sua elegantissima rivista «Cronaca bizantina» (-), che in partenza guardò al classicismo carducciano come a supremo modello, ma

Superiorità dell’esperienza artistica

L’estetismo come esperienza «eccezionale»

In Italia: una moda culturale

Roma capitale dell’estetismo «Cronaca bizantina»

ESTETISMO

Termine generico (modellato su estetica, cfr. TERMINI BASE ) con cui si indica il culto dell’arte, la sua esaltazione al di sopra di ogni altro aspetto della vita, la risoluzione della vita stessa nell’arte, anche al di là di ogni vincolo morale o sociale. Si può parlare di estetismo per le piú diverse epoche della storia della cultura, ma in modo integrale e programmatico esso si sviluppa solo nell’Ottocento, con la formulazione delle teorie dell’arte per l’arte elaborate in Francia dai parnassiani (cfr. PAROLE, tav. ) e con alcuni raffinati teorici inglesi (primo fra tutti Walter Pater, -): essi suggeriscono il modello di una vita intellettuale interamente dedicata al culto della bellezza, in cui la ricerca del bello si risolve in assoluta libertà spirituale e materiale, opposta alla volgarità del mondo borghese. Ma da segno di contestazione della società contemporanea l’estetismo diventa sempre piú frequentemente, nel corso dell’Ottocento, un modello di raffinatezza esteriore, e di superiorità sociale.

PAROLE

tav. 198

EPOCA



Altre riviste

La Contessa Lara



LA NUOVA ITALIA

-

che poi diede notevole voce agli orientamenti estetizzanti (in primo luogo a D’Annunzio). Piú tardi, l’estetismo dannunziano (che trovò un luogo di incontro, divenuto poi mitico, nel Caffè Greco in via Condotti) allargò i propri riferimenti culturali e si espresse attraverso una nuova rivista romana, «Il Convito» (-), diretta da ADOLFO DE BOSIS, di Ancona (-), autore del notevole libro di poesie Amori ac silentio sacrum (“Sacro all’amore e al silenzio”, ); di piú lunga durata fu la rivista fiorentina «Il Marzocco», fondata nel , in cui ebbe un ruolo notevole il romano ANGELO CONTI (-), grande amico di D’Annunzio: Conti fu il massimo teorico dell’estetismo e ne sintetizzò le prospettive in un’opera apparsa nel , con una prefazione dello stesso D’Annunzio, La beata riva: trattato dell’oblio. All’universo mondano della Roma tardottocentesca si collega la poesia di una donna che fece molto parlare di sé nelle cronache del tempo, EVA CATTERMOLE MANCINI (-), dalla vita avventurosa e fitta di scandali, morta assassinata da un pittore che conviveva con lei: come poetessa si firmò CONTESSA LARA (Versi, ; E ancora versi, ; Nuovi versi, apparsi postumi nel ).

... Il «vivere inimitabile» di Gabriele D’Annunzio. Una precoce passione per la letteratura

A Roma

Attività editoriale e vita mondana

GABRIELE D’ANNUNZIO nacque a Pescara il  marzo  da famiglia borghese di modeste origini, che viveva di rendita grazie alla ricca eredità dello zio Antonio D’Annunzio. A undici anni Gabriele fu inviato al Collegio Cicognini di Prato, dove compí gli studi brillantemente (ma con una condotta indisciplinata, non rispettosa delle severe norme del collegio) fino alla licenza liceale, conseguita nel . Rivelò una precoce passione per la letteratura e insieme una incontenibile smania di imporsi, di primeggiare, di mostrare le proprie doti, e già negli anni di collegio pubblicò a spese del padre, sotto il nome di Floro Bruzio, la sua prima raccolta poetica, Primo vere (), che ebbe un buon successo e gli aprí la strada alla collaborazione ai giornali letterari del tempo. All’ultimo anno di collegio risale l’amore per la fiorentina Giselda Zucconi, che diede luogo a una fitta corrispondenza. Dopo aver trascorso l’estate  in Abruzzo (stringendo un’amicizia per lui molto importante con il pittore Francesco Paolo Michetti, -, di cui fu ospite a Francavilla), il giovane Gabriele, ambizioso e brillante, elegante e curato nella persona, si trasferí a Roma, iscrivendosi alla Facoltà di Lettere (ma non portò mai a termine gli studi universitari) e soprattutto gettandosi nel vortice della vita letteraria, giornalistica e mondana: collaborò allora al «Capitan Fracassa», alla «Cronaca bizantina», al «Fanfulla della Domenica», a «La Tribuna», con testi poetici, narrativi, critici, polemici, con maliziose cronache di vita mondana (pubblicate sotto vari pseudonimi). In breve tempo si conquistò un ruolo di protago-

LIBERTY PAROLE

tav. 199

Tendenza artistica diffusa tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, specialmente nel campo dell’architettura, dell’arredamento e della produzione di oggetti della vita quotidiana. Essa si lega al proposito di diffondere la bellezza e l’arte in tutti gli oggetti di consumo, nelle stesse forme della produzione industriale, e si basa su un insieme di motivi ornamentali, ricavati dall’arte del passato o dall’arte orientale, su un gusto per l’esotico, per i movimenti sinuosi, per le forme floreali e vegetali. Tutta una serie di elementi d’arredo o d’uso sono cosí modellati e ornati secondo schemi che diventano rapidamente di moda e ambiscono a riprodurre, attraverso nuove tecniche industriali, le forme di un antico artigianato. Il termine liberty deriva dal nome del proprietario di un grande magazzino londinese, A.L. Liberty, specializzato in oggetti dell’artigianato orientale che contribuirono fortemente al diffondersi di questo stile: esso venne chiamato liberty soprattutto in Italia (altro termine usato fu stile floreale); in Francia e in Belgio fu chiamato art nouveau, “arte nuova”; nei paesi di lingua tedesca Jugendstil, “stile della giovinezza”.

.

D’ANNUNZIO E L’ESTETISMO

nista nella vita culturale romana, sfruttando nel modo piú intelligente il mercato librario e giornalistico: in quella dimensione frivola, tra amori e frequentazioni di salotti aristocratici, tra avventure e vagabondaggi, egli utilizzò la propria abilità e raffinatezza di poeta come strumento di successo mondano, sovrapponendo immediatamente vita e letteratura. Dopo il buon esito di due libri pubblicati nel  da Sommaruga, Canto novo e Terra vergine, l’autore entrò in un vortice di eventi clamorosi, che trovarono un primo coronamento erotico-mondano nella fuga e nel matrimonio ( luglio ) con la duchessina Maria di Gallese (nonostante l’opposizione dei parenti di lei): ne nasceranno tre figli, ma l’unione resisterà, fra tradimenti e sempre nuovi innamoramenti del poeta, solo fino al . D’Annunzio seppe orchestrare attorno alle opere che veniva producendo tutta una serie di iniziative pubblicitarie e spettacolari. Questa giovinezza romana, dedicata al piacere e alla conquista del successo, trascorse tra una varia produzione poetica, novellistica, giornalistica, avventure erotiche, vacanze in Abruzzo e altri viaggi, polemiche e duelli, a cui fu data conveniente risonanza. Al vertice di questa fase c’è il romanzo «romano», pieno di risvolti autobiografici, Il piacere (). Le energie erotico-mondane di D’Annunzio trovavano modo di scatenarsi in una relazione con Barbara Leoni, incontrata nell’aprile ; ma nel contempo crescevano pericolosamente i suoi debiti, dovuti alla vita dissipata. L’assedio dei creditori lo convinse nel  ad allontanarsi prudentemente da Roma: dopo un lungo soggiorno a Francavilla, si trasferí con l’amico Michetti a Napoli, dove restò un paio d’anni, vivendo un periodo che egli definí di «splendida miseria»: collaborò allora ai giornali locali (in primo luogo a «Il Mattino» di Scarfoglio) e avviò una nuova relazione con la principessa Maria Gravina Cruyllas. Per le difficoltà economiche, aggravate dai debiti lasciati dal padre, morto nel giugno , alla fine dell’anno D’Annunzio dovette abbandonare anche Napoli: ritiratosi in Abruzzo, ancora presso Michetti, portò a termine nell’aprile del  il Trionfo della morte, che segna il punto piú alto del suo impegno nel genere del romanzo dopo Il piacere (anche nel campo della poesia quegli anni avevano dato nuovi risultati, culminati nel Poema paradisiaco, ). Intanto il suo nome e i suoi testi cominciavano a circolare anche fuori d’Italia, grazie soprattutto all’attività del traduttore francese Georges Hérelle (-), con cui egli aveva intrecciato una fitta corrispondenza fin dal . Inizia per lo scrittore un «periodo abruzzese», trascorso in un villino a Francavilla; nel novembre a Venezia intraprende una relazione con la grande attrice Eleonora Duse (cfr. ..). Le sue ambizioni vanno ora molto al di là dell’orizzonte mondano, mirano a un’arte suprema, capace di esprimere energie profonde e assolute, e si fa banditore della teoria del superuomo, ricavata da Nietzsche, e dal teatro musicale di Wagner. Dopo il romanzo Le vergini delle rocce (), egli cerca la strada di una grande tragedia moderna con La città morta, ispirata dalla Duse e terminata nel novembre , cui fanno seguito una fittissima produzione teatrale, rifacimenti di opere precedenti, primi svolgimenti della poesia delle Laudi, e il romanzo «veneziano» Il fuoco, che apparirà nel marzo ; a ciò si aggiunge un certo impegno politico, che nel  assicurerà al poeta l’elezione a deputato per il collegio di Ortona, con il sostegno della Destra. Nel  lo scrittore si stabilisce a Settignano, presso Firenze, in una villa detta La Capponcina (perché appartenuta ai Capponi), dove vive fastosamente: la Duse abita in una villetta attigua, detta, con parola francescana, La Porziuncola. Tra la fine del  e l’inizio del  D’Annunzio segue la Duse in tournée in Egitto e in Grecia; intanto definisce piú chiaramente il progetto delle Laudi. Il  marzo , in una delle sue non frequenti presenze alle sedute parlamentari, D’Annunzio lascia clamorosamente la maggioranza e si unisce alla Sinistra che attua l’ostruzionismo contro le leggi reazionarie del governo Pelloux. Dopo un viaggio in Svizzera, Germania e Austria con la Duse, si ripresenta alle nuove elezioni come candidato della Sinistra nel collegio di Firenze, ma non viene eletto. I primi anni del secolo, tra splendide vacanze estive passate nella Versilia e nel Casentino, vedono il trionfo del D’Annunzio poeta: la conclusione dei tre libri delle Laudi, pubblicati nel , e la stesura della piú fortunata delle sue tragedie, La figlia di Iorio, dello stesso anno. Ma il rap-



Spettacolarità ed estetismo

A Napoli

In Abruzzo

L’amore per Eleonora Duse La stagione del superuomo

Deputato del Regno

I viaggi

Un successo crescente

EPOCA



La fuga in Francia

La grande guerra

Interprete del nazionalismo

D’Annunzio e il fascismo

A Gardone

Gli ultimi anni Il Vittoriale degli Italiani



LA NUOVA ITALIA

-

porto con la Duse entra nel frattempo in crisi e già nell’ottobre  D’Annunzio avvia una nuova relazione con la nobile Alessandra di Rudiní; seguono poi nuovi amori, tra cui quello per la contessa Giuseppina Mancini. Tra la stesura di nuove opere teatrali e del romanzo Forse che sí forse che no (), il poeta trova modo di distinguersi, da vero e proprio pioniere, anche come pilota dei nuovi moderni mezzi di trasporto, dall’automobile all’aeroplano. Ma gli amori e i debiti incalzano di nuovo e Gabriele si rifugia in Francia nel marzo : vive allora tra Parigi e una villa ad Arcachon, nelle Lande (Gironda), e partecipa alla mondana vita della belle époque internazionale, a contatto con il vivace ambiente letterario e artistico parigino; compone opere in francese, cercando in ogni modo di mettersi in evidenza, e nello stesso tempo di mantenere un rapporto con il pubblico italiano. Tra il  e il , dalla Francia, fa pervenire al «Corriere della Sera» (il cui direttore Luigi Albertini cerca di sistemare la sua difficile situazione finanziaria) le prose de Le faville del maglio; l’occasione di fare buoni guadagni lo induce poi a scrivere sceneggiature cinematografiche, come quella per il film Cabiria (). Ma venne la guerra mondiale a ridargli nuova vitalità e un ruolo di protagonista: il suo estetismo e il suo superomismo si convertirono in fiammante oratoria nazionalistica, in abile sfruttamento politico e militare delle masse: preceduto da una campagna giornalistica sapientemente orchestrata e finanziata da gruppi industriali, nel maggio  tornò in Italia e qui tenne violenti discorsi interventistici. Entrata anche l’Italia in guerra il  maggio, si arruolò come tenente dei Lancieri di Novara e si comportò con coraggio, compiendo numerose e audaci azioni belliche, soprattutto in mare e in cielo; in seguito al distacco della retina, perdette l’occhio destro il  febbraio  e trascorse una lunga convalescenza a Venezia senza poter far uso della vista (e al buio nacque la singolare prosa del Notturno, pubblicato nel ); nonostante la perdita dell’occhio, riprese l’attività militare, impegnandosi in imprese spettacolari che gli dettero la fama di eroe (celebri la beffa di Buccari del  febbraio , con una compagnia di motoscafi da combattimento, i Mas, e il volo su Vienna del  agosto dello stesso anno). Alla fine della guerra, emergevano in Italia istanze nazionalistiche e reazionarie, vaghe aspirazioni a un cambiamento radicale della situazione, impulsi verso un nuovo spirito comunitario e collettivo; e D’Annunzio, avvalendosi del prestigio conquistato in guerra e del fascino che esercitava sulle folle, divenne protagonista politico nei primi confusi anni del dopoguerra: condusse una violenta battaglia per l’annessione all’Italia dell’Istria e della Dalmazia e guidò l’impresa di Fiume alla testa di bande armate di «legionari», che occuparono la città il  settembre , instaurandovi una singolare repubblica da lui presieduta, la «Reggenza italiana del Carnaro», che fu fatta cadere dal governo Giolitti il  dicembre  (il celebre «Natale di sangue»). Fatalmente la logica nazionalistica e imperialistica dell’impresa fiumana avvicinava D’Annunzio al nuovo partito fascista; nei momenti nevralgici della crisi che portò il fascismo al potere, D’Annunzio si trovò preso tra propositi diversi: aspirava a un nuovo protagonismo personale, ma nutriva riserve verso alcuni aspetti del programma fascista e diffidenze verso il personaggio Mussolini. Ma fu tagliato fuori dal corso degli eventi e preferí ritirarsi nella villa di Cargnacco, presso Gardone, sul lago di Garda, esaltato come artista supremo e come precursore politico del regime fascista, come eroe e nume nazionale. Nel  fu nominato principe di Montenevoso, e nel  sorse un istituto per l’edizione completa delle sue opere, che fu affidata all’editore Arnoldo Mondadori; il regime trovò varie forme di finanziamento per rendere agevole la sua vita dispendiosa e per permettergli di trasformare la villa di Cargnacco in un vero e proprio museo. Era inevitabile che, in uno splendido isolamento, il vecchio esteta guardasse alla propria vita, che aveva amato definire «inimitabile», con un’ombra di egoistica malinconia, come a qualcosa di perduto. Pareva abbarbicato alla villa, che egli lasciò in eredità allo Stato e che fu trasformata in un’apposita istituzione, il «Vittoriale degli Italiani»; D’Annunzio morí il ° marzo , osannato da rumorose celebrazioni ufficiali.

.

D’ANNUNZIO E L’ESTETISMO



... Il sistema della scrittura dannunziana. Quasi in ogni momento della sua vita D’Annunzio rivela una creatività eccezionale, una incredibile prontezza nella scrittura, nell’invenzione, nella manipolazione di parole e di immagini: tenne sempre a presentarsi come supremo «artefice» e «imaginifico». Questa creatività non deriva però da una inesauribile fantasia o da sovrabbondanza di potenza vitale, ma da una singolare ricettività di fronte alle letture e alle esperienze piú varie, dalla capacità di utilizzare e riciclare attraverso la propria scrittura gli spunti letterari piú diversi; egli combina infatti modelli antichi e moderni (al punto di suscitare numerose accuse di plagio) e spesso travasa materiali dall’una all’altra delle sue stesse opere. Lettore attentissimo, D’Annunzio è sempre all’erta per ricavare prodotti letterari dalle fonti piú disparate. Anche nei confronti delle tendenze piú moderne della cultura europea egli è pronto a far proprio tutto ciò che appare nuovo e piú rispondente alle esigenze del pubblico: servendosi in primo luogo di letture francesi, soprattutto nel ventennio -, egli mette in circolazione tematiche di estrema attualità, costruendo con la sua opera «una monumentale enciclopedia del decadentismo europeo» (Praz).

Creatività e capacità ricettiva

«Enciclopedia del decadentismo europeo» (M. Praz)

Intorno alle sue opere vere e proprie (delle quali si hanno numerosissimi manoscritti autografi) si situa una messe svariata di altri scritti, da cui egli è sempre pronto a ricavare spunti, suggestioni, combinazioni, e che spesso confluiscono in modi imprevedibili in nuovi testi. Moltissimi gli appunti da lui presi in ogni momento della sua esistenza ed esplicitamente utilizzati per la composizione delle sue opere: si tratta dei Taccuini, pubblicati in gran parte solo a partire dal . Un vero repertorio di temi è costituito anche dal fittissimo epistolario, pubblicato soltanto in parte e che non ha ancora fruito di un adeguato ordinamento.

... Da Primo vere al Poema paradisiaco: una poesia onnivora. La poesia di D’Annunzio è costantemente animata da un impulso a dominare lo spazio della parola, a trovare originali intonazioni sonore, muovendo da qualsiasi tema e materiale. C’è in lui un’aspirazione onnivora a impadronirsi di tutta la letteratura, a sperimentare tutte le forme di vita (attraverso però lo specchio e il filtro della letteratura): di qui una ricca varietà di moduli metrici e di scelte linguistiche, una libertà di tipo barocco, raggiunta attraverso la moltiplicazione e l’espansione degli schemi tradizionali, piuttosto che attraverso un’autentica ricerca conoscitiva ed espressiva (ma questa sua esuberante «libertà» contribuisce comunque a creare nuovi modi che avranno un’incidenza notevole sul linguaggio della nostra poesia novecentesca). Primo vere, la raccolta pubblicata nel  dal collegiale sedicenne, rivelò subito l’eccezionale capacità mimetica di D’Annunzio. L’incontenibile entusiasmo e la serpeggiante sensualità del poeta dovevano esplodere in Canto novo, sessantatré componimenti in cinque libri, apparso presso il Sommaruga nel maggio : i versi si basavano su schemi metrici «barbari» (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ) in un lucido e prezioso linguaggio classicistico; ma soprattutto manifestavano una esplosiva affermazione di sensibilità per le forme fisiche della natura, i paesaggi solari, marini, silvestri, attraversati da una vitalità incontenibile, da vibrazioni erotiche fresche e trionfanti. Dappertutto affioravano fremiti sottili, si svelavano linfe vitali, guizzavano fibre, nervi, sangue, si fondevano intimamente elementi animali e vegetali, figure agili e palpitanti, di sinuosa e ferina eleganza (per esempio, la donna si presentava sotto le sembianze di animali scattanti come l’antilope). In un dispiegato piacere di canto (e nella ricerca di una risonanza spettacolare, quasi di un pubblico pronto ad applaudire), il poeta si affidava a un linguaggio fisico e corporeo, ma tenuto su un tono alto, in modi di grande novità nella poesia italiana. D’Annunzio esprimeva una vitalità eccitata e quasi animalesca, il cui fondo era gio-

Una ricerca esuberante

Primo vere e Canto novo

Poesia della vacanza

EPOCA





LA NUOVA ITALIA

-

vanilmente ingenuo, situandosi ancora al di qua di ogni schema ideologico, di ogni vera pretesa culturale. L’edizione del : nuove ambizioni culturali

Intermezzo di rime

Il trionfo del kitsch

Le Elegie romane e le Odi navali Il Poema paradisiaco

Simbolismo e innocenza

Ma una nuova edizione di Canto novo, apparsa nel , con un numero molto ridotto di componimenti (solo ventitré), trasformò la struttura dell’opera, esprimendo le piú recenti ambizioni culturali e ideologiche dell’autore: grazie a una piú accurata resa stilistica, quel mondo solare e trionfante si atteggiava in modi sacrali, si riallacciava ai miti pagani della natura, tra metamorfosi, rivelazioni, esaltazioni della forza rigeneratrice della «gioia» (con nozioni ricavate dalla lettura di Nietzsche). La raccolta apparsa nel luglio del , Intermezzo di rime, contiene componimenti nei metri piú consueti della tradizione italiana, ma svolge una tematica di tipo esplicitamente decadente, tra immagini di disfacimento e di corruzione, figure malsane e impudiche. Nella nuova e piú ampia edizione del , dal piú breve titolo Intermezzo, D’Annunzio modificò radicalmente la raccolta, che divenne preziosa immagine di una iniziazione alla lussuria, considerata essenziale per caratterizzare la figura del poeta moderno. Su una analoga prospettiva era costruita la raccolta Isaotta Guttadàuro ed altre poesie, pubblicata alla fine del , ma poi divisa in due raccolte, apparse in un solo volume nel , L’Isottèo e La chimera (quest’ultima con molti nuovi componimenti). D’Annunzio vi operava una raffinata ripresa di temi, frammenti, citazioni, formule linguistiche e metriche della piú varia poesia antica e moderna: c’era tutto un pullulare di passi fatti «alla maniera di» questo e di quell’autore, un fiorire di ornamenti, di figure eleganti e mostruose, di suppellettili e feticci erotico-mondani, di immagini storiche di artificiosa violenza o di estenuato languore. Nel  apparvero le Elegie romane, composte a partire dal , e orientate invece verso un piú equilibrato classicismo, che guarda al modello delle omonime elegie di Goethe, utilizzando gli schemi «barbari» carducciani. Nel  videro la luce le Odi navali, roboanti esaltazioni nazionalistiche della Marina militare italiana. Ma l’opera che conclude la poesia giovanile di D’Annunzio, la piú ricca di elementi di novità, è il Poema paradisiaco, uscito nello stesso : il poeta sembra avere operato qui un’audace virata, che lo porta verso toni piú delicati e smorzati, verso una inquieta malinconia, e lo avvicina a un mondo familiare, fatto di affetti intimi e «buoni». Le scelte metriche confortano questi nuovi toni, poiché vi prevalgono endecasillabi dallo svolgimento lento, quasi prosastico, e cadenze che sfiorano l’irregolarità e il falsetto e che saranno tenute presenti dai poeti crepuscolari (cfr. ..). Ma attraverso queste smorzature D’Annunzio cerca di fare suoi alcuni temi e atteggiamenti del piú recente simbolismo (cfr. PAROLE, tav. ), individuando segrete analogie tra le cose, inseguendo l’eco di realtà piú profonde, di «paradisi / inaccessi», di verità segrete. Il poeta vuole apparire sazio e disgustato dall’esaltazione dei sensi, di ciò che si vede e si tocca, vicino a una disillusa maturità che lo spinge a cercare ciò che è dentro le cose, a piegarsi su di sé, a ritrovare una primordiale innocenza, legata al «sogno d’un passato lontano».

... Il romanzo della Roma bizantina: Il piacere. Terra vergine e Novelle della Pescara Il piacere

D’Annunzio esordí nella narrativa con i bozzetti di vita abruzzese Terra vergine (), seguiti da altre novelle confluite in gran parte nella raccolta delle Novelle della Pescara (), in cui la vita contadina è vista come qualcosa di primigenio, di selvaggio e barbarico, in una evidente prospettiva estetizzante (tanto diversa da quella del contemporaneo verismo). Il primo romanzo di D’Annunzio, Il piacere, fu scritto tra il luglio e il dicembre del , in gran parte nella villa di Francesco Paolo Michetti a Francavilla detta il «Convento», e venne pubblicato nel  dall’editore Treves di Milano. Il libro ha un impianto narrativo e strutturale piuttosto esile e modi di rappresentazione che appartengono in pieno al naturalismo; ma, nutrito delle riflessioni sulla narrativa che si svolgevano in Francia alla fine degli anni Ottanta, tenta di uscire dai limiti dal naturalismo, di inoltrarsi in sottili anali-

.

D’ANNUNZIO E L’ESTETISMO



si psicologiche, di scoprire segreti nessi tra le sensazioni, di scandagliare le complicazioni della vita intellettuale. Al centro del romanzo c’è infatti un personaggio di intellettuale, Andrea Sperelli, che per molti caratteri si identifica con l’autore (come del resto già accadeva nei primi romanzi di Fogazzaro, cfr. ..) e del quale si descrivono le ambizioni, le contraddizioni, le idee e i gusti artistici: la vita estetizzante e mondana del giovane D’Annunzio si trasfigura, in Andrea, in un modello di distinzione e di eccezionalità, che si offre alla sbalordita ammirazione del pubblico borghese; gli ozi edonistici e le velleità culturali del bel mondo romano si innalzano a mito sociale, divengono segni di superiorità di carattere, di gusto, di ambiente. Sperelli è un aristocratico, «ultimo discendente d’una razza intellettuale», educato dal padre a costruire la propria esistenza come «un’opera d’arte» e nello stesso tempo a dominare e a possedere: nel suo estetismo, egli progetta un’opera unica e assoluta, in un solo esemplare, ma nello stesso tempo è dominato dalla passione dell’artificio e della finzione, che lo portano a instaurare un rapporto distaccato e ambiguo (di tipo teatrale e istrionico) con gli stessi oggetti che colleziona, con gli ambienti che frequenta, e soprattutto con le numerose donne a cui è legato. Il romanzo (scritto in terza persona, nonostante la sua componente autobiografica) si apre con l’incontro di Andrea con l’antica amante Elena Muti, che egli non vede da circa due anni e che ora trova sposata con il ricco e vizioso inglese Lord Heathfield; ricorrendo a un flash-back (le sfasature e gli scarti temporali costituiscono ne Il piacere un’interessante trasgressione degli schemi naturalistici), lo scrittore narra le vicende della passata relazione tra Andrea ed Elena (una donna dalla sensualità dirompente e aggressiva) e poi il rinascere di quella passione nel protagonista e il suo desiderio di riannodare i rapporti con la donna. Al rifiuto di questa, lo Sperelli si rituffa nella vita mondana di Roma. Ferito in un duello, egli passa la convalescenza presso una cugina, dove conosce Maria Ferres, una donna dolce, appassionata e piena di curiosità intellettuali, che impersona una femminilità opposta a quella di Elena. Nel nuovo rapporto con Maria si inserisce però sempre piú velenosamente il desiderio e l’immagine dell’altra: ottenebrato dalla gelosia per Elena, che si è concessa a un altro amante, egli giunge a proferire il nome di lei mentre ha tra le braccia Maria, che lo sta salutando prima di un lungo distacco.

Un estetismo autobiografico

Il romanzo, che si conclude sull’effetto devastante di questo scambio di persona, svolge a suo modo un’analisi critica delle deviazioni e delle contraddizioni in cui si inviluppa l’esteta decadente: in Andrea Sperelli l’autore denuncia piú volte l’incapacità di sintesi, l’incoerenza, la dispersiva mobilità, l’arrendevolezza nei confronti degli istinti, la mancanza di autenticità e spontaneità. Ma questa dimensione critica è molto superficiale, ricalcata meccanicamente su vari modelli della contemporanea cultura europea: ne Il piacere c’è solo qualche vago tratto di stanchezza e di tristezza, che vela appena quella che prima di tutto vuol essere l’immagine di un’esperienza eccezionale; i risvolti «tragici» o addirittura demoniaci di certe situazioni del romanzo non sono altro che ingredienti per far meglio risaltare l’artificiale splendore della vita-opera d’arte di Sperelli. E l’estetismo trova il suo trionfo nell’elencazione di oggetti artistici veri e fittizi (che creano una sorta di bizzarro museo del decadentismo europeo, dominato dall’esagerazione e dal kitsch, cfr. PAROLE, tav. ), e nella descrizione del consumo che il mondo romano fa degli oggetti preziosi del passato, del lavoro artistico di tutti i tempi: l’autore vuole che il pubblico resti comunque abbagliato da quelle ricercatezze, da quegli amori profumati, da quella estraneità alle norme morali. Questa prospettiva si affida a una prosa levigata e preziosa, che scorre con grande semplicità sintattica (con un dominio quasi totale della paratassi), ma rivela un’ostinata accuratezza nella scelta di parole rare e preziose, di nomi esotici o peregrini o singolarmente sonori: una sorta di sotterranea partitura musicale, ma di una misura esteriore, che sembra esalare in estenuati profumi.

Contraddizioni di un esteta

La passione dell’artificio

Andrea Sperelli, Elena e Maria

Un’esperienza eccezionale

Gli oggetti, la bellezza e il consumo

Una rete di corrispondenze

EPOCA





LA NUOVA ITALIA

-

... Nuovi tentativi di romanzo problematico. L’approfondimento psicologico

L’innocente

Trionfo della morte

La malattia di Giorgio Aurispa

La prova fortunata de Il piacere spinse D’Annunzio a ulteriori passi sulla strada del romanzo, a un approfondimento dell’analisi psicologica, attenta agli stati patologici, ai turbamenti e alle sensazioni sotterranee. Fin dall’estate del , D’Annunzio cominciò a pensare a un nuovo romanzo, L’invincibile, basato sull’analisi di una crisi intellettuale e legato alle vicende del suo amore con Barbara Leoni. Ma varie difficoltà interruppero il lavoro, e la recente conoscenza della narrativa russa portò D’Annunzio a cimentarsi in una lunga novella, costruita sul monologo di un umile personaggio, apparentabile a quelli del «sottosuolo» dostoevskijano: Giovanni Episcopo (). Proseguendo nella rappresentazione di casi patologici e di personalità delittuose, lo scrittore avviò subito la stesura del romanzo L’innocente, ideato inizialmente come una novella e scritto a Francavilla tra la primavera e l’agosto del ; rifiutato dall’editore Treves, esso fu pubblicato tra la fine del  e l’inizio del  su «Il corriere di Napoli» e poi in volume nel . Il romanzo si presenta come la confessione di un personaggio che appartiene anche lui al bel mondo romano, Tullio Hermil, un nobile pieno di qualità intellettuali, sempre pronto all’analisi di se stesso e delle proprie passioni, insidiato continuamente dalla sensualità e dal gusto della finzione, che gli impediscono qualsiasi autentica comunicazione con gli altri. La voce del narratore (in prima persona e spogliata delle preziosità abbaglianti che caratterizzavano la prosa de Il piacere) condensa in sé la forza incontenibile che spinge Tullio al delitto (con l’uccisione di un «innocente» neonato, frutto di un adulterio della moglie) proprio mentre egli si nasconde sotto vaghe aspirazioni alla pace e alla mitezza: ma nello svolgimento di questa tematica della «doppiezza» c’è qualcosa di freddo e impassibile. Intanto, tra varie interruzioni, D’Annunzio era tornato piú volte su L’Invincibile: all’inizio del  ne inizia la pubblicazione a puntate su «Il Mattino» di Napoli, con il nuovo titolo Trionfo della morte, ma il lavoro viene concluso soltanto nell’aprile  a Francavilla (e il volume è subito pubblicato dall’editore Treves, con dedica al Michetti). Articolato in sei libri, questo romanzo (di nuovo in terza persona) indaga il male che mina dall’interno il personaggio principale, il tipico intellettuale dannunziano (anche qui sono fitti i dati autobiografici, a cominciare dalla figura dell’amante, Ippolita Sanzio, che trae spunto da quella reale di Barbara Leoni). Il protagonista, Giorgio Aurispa, è un nobile di origine abruzzese e ha molti caratteri in comune con Andrea Sperelli, ma sembra aver perduto la sua disponibilità e il suo gusto della conquista ed è vittima di sottili turbamenti psicologici, che il narratore analizza con cura, mettendone in luce anche i risvolti fisiologici e le radici familiari ed ereditarie. La «malattia» di Giorgio si riassume nel contrasto tra una forte volontà di vita, sostenuta da altissime doti intellettuali, e il fascino che su di lui esercitano la passività e la morte: la sua mente è continuamente preda di immagini e pensieri inibenti, che bloccano le sue aspirazioni al lavoro e alla creazione artistica.

KITSCH PAROLE

tav. 200

Parola tedesca (propriamente “spazzatura, robaccia”) usata in Baviera intorno al  per indicare oggetti copiati, costruiti con falsi effetti di vecchio e di rustico, e poi passata all’inizio del Novecento nella critica, nella letteratura, nella teoria della cultura, per indicare oggetti e opere di cattivo gusto, costruite secondo schemi convenzionali: kitsch sono sia gli oggetti fatti in serie, che diffondono un’immagine dell’arte pacchiana o banale (come certi souvenirs: le piccole gondole di Venezia, le torri di Pisa in miniatura, i monumenti chiusi in una sfera di vetro in cui si può creare l’effetto della nevicata ecc.), sia ogni forma culturale ridotta a oggetto di consumo, che tuttavia pretende di presentarsi come valore estetico, come segno di distinzione e di prestigio: cosí kitsch è ogni combinazione di forme «alte» e di forme volgari e di massa, ogni produzione artistica degradata e moltiplicata all’infinito.

.

D’ANNUNZIO E L’ESTETISMO

Siamo qui davanti a una successione di situazioni e di «stati d’animo», piú che a una vera narrazione: ne Il Trionfo della morte D’Annunzio mira a far proprio un tema, quello del «fallimento dell’intellettuale», che era ormai all’ordine del giorno nella cultura europea. Con la sua consueta freddezza, l’autore intreccia tutta una serie di tonalità e di motivi, facendo somigliare il romanzo «a un grande melodramma», lacerato da ritmi dissonanti, capaci di svuotare di densità gli oggetti (Raimondi); ma la dedica a Michetti mette in luce la profonda distanza tra la vicenda dell’autore e quella del suo personaggio, affermando, al di là del fascino della malattia e del dissolvimento, la nuova fede dannunziana nel superuomo.

 Fallimento dell’intellettuale

... Il superuomo e la folla. L’estetismo di D’Annunzio si dibatte costantemente tra opposte sollecitazioni: da una parte il gusto dello spettacolo e l’attenzione estrema agli effetti da provocare nel pubblico (e ai meccanismi del mercato), dall’altra un disprezzo (che si pretende aristocratico) della folla e del volgo; da una parte l’ossessione decadente per il negativo, per una sensualità disfatta e malsana, dall’altra una voglia di felice godimento, di vitalità piena e conquistatrice, di trionfante autoaffermazione; da una parte le aspirazioni piú sublimi, dall’altra i richiami della volgarità e del piú pacchiano cattivo gusto. Per sintetizzare le sue idealità, D’Annunzio conia alcune espressioni esemplari, che si sono trasformate in veri e propri slogans, come la «vita opera d’arte», il «vivere inimitabile», «rinnovarsi o morire». La scoperta di Nietzsche e soprattutto della teoria del superuomo (cfr. PAROLE, tav.  e CANONE EUROPEO, tav. ) all’inizio degli anni Novanta offrí a D’Annunzio l’occasione di risolvere le contraddizioni del suo estetismo in una sintesi ambiziosa e programmatica: banalizzando il pensiero di Nietzsche, riducendolo a ideologia di facile consumo, eliminandone la radicale negatività, egli ne fece uno strumento per liberarsi dalla crisi del modello decadente e per affermare la positività del divenire della natura e della storia; egli additò infatti nella potenza conquistatrice e nella gioia vitale il destino degli individui superiori, capaci di tracciare la strada di un luminoso futuro per la loro «stirpe» e per l’umanità intera. Con tale teoria l’esteta tende a trasformarsi in eroe, che sa donarsi all’esterno e ritrovare per gli uomini, in una fusione piena tra poesia e azione, il valore e l’energia originaria del mito. In altre parole, l’artista si attribuisce il compito essenziale di guidare l’umanità alla piú piena e vigorosa espressione di sé e nello stesso tempo alla scoperta delle proprietà segrete e profonde della realtà: questo compito si realizza grazie alle qualità dell’uomo superiore, allo scatenarsi delle sue energie piú sotterranee e corporee, che si affermano con spregiudicata ostentazione e perdono ogni aspetto «negativo». Il teatro si rivela ben presto come strumento essenziale per esibire tali facoltà davanti alla «folla», per riattivare il mito antico, per liberare nuove forze dionisiache, per realizzare un’arte che afferri e unifichi tutte le forme e le tensioni in una sintesi totale (ma cfr. i paragrafi seguenti).

Ossessione negativa e vitalità conquistatrice

Superamento della contraddizione

Potenza e gioia dell’eroe

L’artista superuomo

SUPERUOMO

Traduzione italiana del termine tedesco Übermensch, usato da Friedrich Nietzsche a partire da Cosí parlò Zarathustra (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ), per indicare un tipo di uomo nuovo, che sarebbe sorto dalla critica radicale di tutte le tradizioni estetiche, morali, religiose, libero da ogni trascendenza, immerso nel presente, in una piena affermazione delle sue facoltà animali e istintuali. Il concetto di superuomo (come quello a esso collegato di volontà di potenza) agiva nella filosofia di Nietzsche soprattutto come negazione delle forme della vita borghese, e implicava la ricerca di una vita emancipata da ogni schiavitú a ideologie e a valori considerati falsi e repressivi. Tuttavia, nella prima diffusione che ebbe in Europa, esso fu usato per esaltare la preminenza di individui eccezionali sulle masse, in chiave violentemente antidemocratica; in seguito, con una deliberata deformazione del pensiero di Nietzsche, divenne strumento di varie ideologie nazionalistiche e razzistiche, fino al nazismo.

PAROLE TECNICHE

tav. 201

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FRIEDRICH NIETZSCHE. COSÍ PARLÒ ZARATHUSTRA IL CANONE EUROPEO

tav. 202

L’opera di Friedrich Nietzsche (nato a Röcken, in Sassonia nel , morto a Weimar nel ) appartiene piú propriamente all’ambito del pensiero filosofico, e come tale è stata letta, studiata, discussa, trovando vastissima eco nella filosofia del Novecento, e in particolare nelle varie forme delle filosofie negative, nichilistiche, decostruzionistiche che hanno avuto nuovi sviluppi alla fine del secolo; ha influito fortemente sulle forme letterarie e artistiche, sui piú diffusi modelli culturali, sui comportamenti collettivi, che hanno percepito e fatto valere il suo spirito rivoluzionario, la sua sconvolgente critica della tradizione religiosa e metafisica, la sua sistematica demistificazione dei fondamenti del pensiero e della cultura dell’Occidente (che è stata accostata a quella, operata sui terreni diversi, da Karl Marx e da Sigmund Freud). Il pensiero di Nietzsche non è però affidato a un vero e proprio sistema: la maggior parte delle sue opere si svolgono attraverso aforismi, riflessioni sparse, illuminazioni e folgorazioni, con procedimenti e modi di argomentazione che rientrano a pieno titolo nell’ambito della letteratura e che spesso raggiungono un’alta tensione poetica. UNA RIFLESSIONE SULLA LETTERATURA Contributo essenziale per la riflessione sulla letteratura è già la sua prima grande opera, la Nascita della tragedia dallo spirito della musica (), in cui si definiscono i concetti di apollineo (che indica la tensione verso la forma, la razionalità, la misura, il distacco dal fondo istintuale della vita) e dionisiaco (che indica l’espressione dei piú profondi istinti naturali, il contatto con il fondo irrazionale, informe, animale, non umano della natura), e in cui lo spirito della tragedia greca viene visto rivivere nel teatro di Richard Wagner (che piú tardi Nieztsche criticò duramente). I dati fondamentali della sua filosofia si svolgono nelle successive opere costruite già in modo non sistematico, entro una rete di aforismi e di massime, animata da un vigoroso impulso retorico, da una dispiegata volontà di affermazione di sé: Umano, troppo umano () e La gaia scienza (). UN’OPERA CHE TENDE ALLA POESIA A queste succede Also sprach Zarathustra (“Cosí parlò Zarathustra”), opera assolutamente atipica, che si svolge attraverso tutto un dispiegarsi di discorsi attribuiti a un saggio che ha il nome dell’antico profeta iranico, fondatore dello zoroastrismo, la religione che vedeva il mondo diviso tra gli opposti poteri del bene e del male: è un’opera che abbandona l’argomentazione filosofica e tende verso l’invenzione e la poesia; concetti capitali e prospettive polemiche vi si espandono in una oratoria sovrabbondante, in fantasie, apologhi, parabole, in splendide immagini di natura, in sublimi esaltazioni liriche. Presentata come «un libro per tutti e per nessuno», quest’opera fu composta in quattro parti, messe insieme tra il gennaio  e il marzo , in diversi luoghi dove l’autore cercava sollievo alle sue precarie condizioni di salute (le montagne di Sils-Maria, in Engadina, Svizzera; il mare prima nei pressi di Portofino, poi a Nizza). Dopo una sosta di dieci anni tra i monti, Zarathustra discende tra gli uomini, per portar loro il dono della sua saggezza; intraprende un cammino che lo porta in luoghi diversi e gli procura incontri da cui scaturiscono i suoi ispirati discorsi, che l’autore trascrive seguendo con intento parodico e rovesciante il modello dei libri sacri e apponendo quasi sempre alla fine di ciascun discorso la formula Cosí parlò Zarathustra; al protagonista fanno eco altre figure che egli incontra nel suo cammino e che interloquiscono e si fanno piú numerose nella quarta parte. Le prime due parti sono dominate dalla tematica dell’Übermensch, il “superuomo” (cfr. PAROLE, tav. ), già toccata ne La gaia scienza, legata strettamente a quella della morte di Dio: Zarathustra afferma la necessità di un nuovo inizio, di una radicale mutazione di valori che

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D’ANNUNZIO E L’ESTETISMO



tenga conto della morte di Dio, del crollo di tutti i valori della tradizione metafisica; alla morale dell’uguaglianza, della sofferenza e dell’amore per il prossimo viene opposta la salute degli uomini superiori, la fedeltà alla terra, l’accettazione della materia, l’innocenza dei processi naturali, nel moto incessante del divenire e della distruzione. A partire dalla terza parte si affaccia un’altra delle tematiche essenziali del pensiero di Nietzsche, quella dell’eterno ritorno dello stesso, l’idea insieme angosciosa ed esaltante del ripetersi infinito della realtà e delle sue lacerazioni, che il superuomo proietta dentro di sé, accettando fino in fondo il carattere ciclico della vita naturale, la necessità insuperabile della sofferenza e della morte, negando ogni compassione per se stesso e per il mondo. Sovrapponendosi alla poesia e all’invenzione letteraria, la filosofia di Nietzsche arriva qui ad assumere un carattere mitico, mantenendo peraltro una forte dose di ambiguità, che non verrà meno nel suo sviluppo, anche se le grandi opere che seguiranno (le piú importanti: Al di là del bene e del male, , e Per una genealogia della morale, ) daranno un’esposizione piú sistematica delle idee di Zarathustra. Schiacciato anche dalla sovrabbondanza e dal carattere estremo del suo pensiero, Nieztsche visse gli ultimi anni (a partire dal ) nella follia, abbandonando una fitta serie di appunti e di frammenti, tra cui quelli destinati a un libro incompiuto su La volontà di potenza, da cui le filosofie irrazionalistiche, nichilistiche e nazionalistiche del Novecento ricavarono molteplici spunti. Il testo Riportiamo il passo iniziale del primo discorso di Zarathustra, in cui si afferma subito la tematica del superuomo, inserita nel quadro di una concezione evoluzionistica, mutuata da Darwin (cfr. PAROLE, tav. ): si noti come l’argomentazione si sviluppi in un tono affermativo, che sembra come prendere di petto gli ascoltatori, che non ammette repliche o obiezioni di sorta. [EDIZIONE: Friedrich Nietzsche, Cosí parlò Zarathustra, Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, volume VI, tomo I, versione di M. Montinari, Adelphi, Milano ]

Giunto nella città vicina, sita presso le foreste, Zarathustra vi trovò radunata sul mercato una gran massa di popolo: era stata promessa infatti l’esibizione di un funambolo. E Zarathustra parlò cosi alla folla: «Io vi insegno il superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che avete fatto per superarlo? Tutti gli esseri hanno creato qualcosa al di sopra di sé: e voi volete essere il riflusso in questa grande marea e retrocedere alla bestia piuttosto che superare l’uomo? Che cos’è per l’uomo la scimmia? Un ghigno o una vergogna dolorosa. E questo appunto ha da essere l’uomo per il superuomo: un ghigno o

una dolorosa vergogna. Avete percorso il cammino dal verme all’uomo, e molto in voi ha ancora del verme. In passato foste scimmie, e ancor oggi l’uomo è piú scimmia di qualsiasi scimmia. E il piú saggio tra voi non è altro che un’ibrida disarmonia di pianta e spettro. Voglio forse che diventiate uno spettro o una pianta? Ecco, io vi insegno il superuomo! Il superuomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: sia il superuomo il senso della terra! Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze!»

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... I romanzi da Le Vergini delle rocce a Forse che sí forse che no. Le vergini delle rocce

Il fuoco

Stelio Èffrena l’«imaginifico»

Una tematica esteticoideologica

Un teatro per la stirpe latina

La nuova prospettiva trova subito manifestazione nel romanzo Le vergini delle rocce, ideato già nel , scritto tra la fine del  e il giugno del  e pubblicato, man mano che veniva composto, ne «Il Convito» (cfr. ..) e poi subito in volume dall’editore Treves. È un’opera assurda e ambiziosa, dominata da una violenta polemica contro il mediocre e volgare mondo borghese e plebeo, da un’altisonante riproposizione di valori eroici e dal culto aristocratico della bellezza, dalla esaltazione della potenza, del dolore, delle sensazioni forti e straordinarie. Siamo ancora davanti a un protagonista nobile e pieno di qualità intellettuali, l’abruzzese Claudio Cantelmo, che cerca una donna di nobile stirpe degna di generare con lui un figlio che avrà la missione di salvare l’Italia dalla miseria del presente: la ricerca punta su tre sorelle «vergini», la cui «virtú» è però destinata a fallire, e che restano come cristallizzate in quel paesaggio di pietre e di acque (D’Annunzio fa riferimento a una celebre tela di Leonardo da Vinci, detta appunto La vergine delle rocce).

Con Il fuoco, scritto tra il  e il  e uscito nel marzo di quell’anno, si ha una squillante esplosione del romanzo come forma poetica, saggistica e teatrale, come ambiziosa e dorata sintesi di tutte le arti e di tutti i generi: il libro è scritto in terza persona e propone un protagonista che è ancora una figura (autobiografica) di intellettuale, Stelio Èffrena; ma la prosa dannunziana si immerge qui soprattutto negli effetti di luce e di colore, nelle suggestioni musicali e tonali che sprigionano da Venezia e dai suoi dintorni. Artista supremo, Stelio Èffrena, detto l’«imaginifico» (con appellativo che l’autore attribuiva volentieri a se stesso), rappresenta l’incarnazione piú ambiziosa dell’estetismo dannunziano: è un superuomo sicuro di sé e della propria capacità di passare attraverso tutte le esperienze, di dominare la realtà e l’artificio, di vivere l’arte come conquista, espressione di vitalità e giovinezza. Tutte le immagini e le sensazioni offerte da Venezia e dal mondo, tutti i personaggi che gli si fanno incontro, servono a Èffrena per potenziare il proprio io, in vista di un progetto estetico con il quale egli ambisce ad abbracciare il fondo piú intenso e oscuro della realtà, a sintetizzare il suo «istinto» e il «genio della stirpe». Questo progetto dovrà imporsi all’ammirazione irrazionale della massa attraverso il genere piú spettacolare e piú carico di forza mitica, quello teatrale: e il romanzo narra i rapporti dell’artista con una grande attrice drammatica, la Foscarina (trasparente immagine di Eleonora Duse), votata a «servire» l’arte di lui, ma minacciata nel suo amore da un cupo senso tragico, da un’incontenibile irrequietezza e da molteplici segni che annunciano il prossimo sfiorire della sua giovinezza. Mentre la donna rinuncia all’amante per lasciarlo alla sua arte e alla sua inesauribile vitalità, Èffrena progetta una grande tragedia e un nuovo teatro per la stirpe «latina», che intende raccogliere l’eredità del teatro di Wagner: il musicista tedesco è un personaggio de Il fuoco e vive a Venezia gli ultimi mesi della sua vita (in realtà lí morí nel febbraio ), oggetto della venerazione di Stelio, che lo incontra su un battello, lo sostiene in un momento di malessere e poi partecipa ai suoi funerali (con i quali il romanzo si chiude).

Gli amanti e il paesaggio

Piú che nella tematica estetico-ideologica, il meglio de Il fuoco va cercato nei continui giochi tonali, negli echi coloristici e musicali che si creano tra i due amanti e il paesaggio veneziano, specie quando questo si offre nella sua veste autunnale, sinuosamente angosciosa. La prosa è costantemente esaltata, accesa, e i vezzi retorici e mondani abbondano: si avverte nella rappresentazione della figura femminile una dose di aggressività sorda e risentita, che viene solo mascherata dagli splendori paesaggistici e dalle roboanti ambizioni estetico-intellettuali.

Forse che sí forse che no

Dal progetto di una «lunga novella», formulato nel , nacque l’ultimo romanzo, Forse che sí forse che no, pubblicato da Treves nel febbraio . Qui il protagonista Paolo Tarsis, ancora un alter ego dell’autore, estende il suo raggio d’interesse e d’azione dall’arte ai nuovi mez-

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D’ANNUNZIO E L’ESTETISMO

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zi della tecnica (l’automobile e l’aeroplano): è un audace pioniere della velocità, che vive il rapporto con i motori sotto il segno di una retorica eroica, come un «ulisside», un esploratore di nuove strade per l’umanità, tutto proiettato verso la scoperta e la conquista. Ma questo superuomo sportivo è prigioniero di una situazione esistenziale malsana, in cui si ripresentano i modelli e le figure piú distruttive e decadenti, atteggiate in pose estreme, anticipatrici di quelle esagerazioni spettacolari che avrebbero di lí a poco caratterizzato il cinema.

... Il teatro dannunziano. Attraverso i progetti del protagonista del Il fuoco D’Annunzio definisce ambiziosamente la propria idea di teatro, che sviluppa negli ultimi anni del secolo, sollecitato sia dalla relazione con la Duse, sia dalla conoscenza di Nietzsche (e in particolare della sua Nascita della tragedia) e di Wagner: egli mira a un nuovo teatro tragico che, associando in sé la potenza della parola, della musica, della danza, ponga il superuomo in un rapporto supremo con la folla, attinga al fondo piú oscuro e violento della natura, resusciti l’innato vigore della nazione, additi il futuro e induca a procedere «avanti, avanti, sempre piú in alto». Da questo programma discese una grande quantità di testi teatrali, quasi sempre costruiti come preziosi e artificiali arabeschi, privi di vera e propria tensione drammatica, tutti (salvo poche eccezioni) invasi dall’onda della parola, dalla sua piú esteriore vocalità. Il lavoro piú riuscito, carico di una sua allucinata teatralità, è la prima tragedia, che D’Annunzio ideò durante il viaggio in Grecia del  e che portò a termine, dopo varie incertezze, solo nel novembre del : La città morta. L’opera era destinata alla Duse, ma poi, in seguito a una serie di contrasti con l’attrice-amante, venne rappresentata la prima volta (in francese, a Parigi) dalla piú celebre attrice francese del tempo, Sarah Bernhardt, il  giugno . Si tratta di cinque atti in prosa, ambientati in Grecia, ma in età moderna, presso le rovine di Micene. La tragedia intende proiettare in un ambiente borghese immagini del mito e della tragedia greca, con segni sinistri che elevano di tono e, nello stesso tempo, deformano gli schemi tipici del dramma borghese. Alcuni motivi originari della tragedia greca (come quello dell’incesto e della cecità) vengono spostati e ricombinati, cosí da creare un’inquietante atmosfera di attesa, mentre lo sfondo, dominato da una luce bianca e accecante, carico di oggetti simbolici funebri, ha gli attributi della siccità e della sterilità: sulla scena pesa una forza misteriosa che costringe i personaggi moderni a ripetere i tragici gesti degli eroi antichi. Ma il paesaggio greco è presentato attraverso gli schemi di un’archeologia molto convenzionale, da turisti e visitatori di musei. Nelle opere che subito seguirono, il neodrammaturgo tentò un teatro di ambientazione borghese, ma nutrito di una problematica «estetica» e animato da figure femminili su misura per la Duse: si tratta dei due drammi «simbolici», Sogno di un mattino di primavera () e Sogno di un tramonto d’autunno (), e de La Gioconda (). Le nuove ambizioni politiche del superuomo, deputato dal , e i recenti conflitti sociali trovano un riflesso ne La gloria, singolare pasticcio politico-estetizzante, scritto e rappresentato nella primavera del . In seguito D’Annunzio passò a un teatro in versi basato sulla moltiplicazione interminabile della parola, su una versificazione facile e fluente (spesso con notevole libertà metrica e con suggestive variazioni ritmiche, anche se con una predilezione per il novenario), su un gioco di echi fonici e su vocaboli rari e peregrini. Il cliché di un’Italia nobiliare tra Medioevo e Rinascimento, dominata da istinti barbarici e da passioni micidiali, con figure femminili di incontenibile sensualità, votate alla piú distruttiva passione, trovò modo di esplicarsi nella Francesca da Rimini () e poi nella Parisina (), musicata da Mascagni.

Ma il piú grande successo teatrale dannunziano venne da un astuto adattamento di questo teatro «poetico» al mondo pastorale abruzzese: La figlia di Iorio, scritto nell’estate del  e rappresentato a Milano il  marzo . La tragedia si presenta come un «canto del-

Il dionisiaco e la folla

Esteriore vocalità

La città morta

Immagini mitiche in un dramma borghese

I drammi per la Duse

La produzione in versi Francesca da Rimini

La figlia di Iorio

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LA NUOVA ITALIA

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l’antico sangue», che mette in scena un Abruzzo favoloso e ancestrale, dominato da una scatenata sensualità, da una rigida ritualità, da un’implacabile superstizione, da una violenza selvaggia. L’autore intende trasferire tutto il mondo popolare nell’assolutezza del mito, nella ripetizione di figure archetipiche e senza tempo: ma l’impressione che ne nasce è quella di essere davanti a curiose e verbose figurine di cartapesta, a marionette dai colori rutilanti e dai gesti spropositati (nelle quali si svela un cupo gusto per le forme della magia e dell’allucinazione). La fiaccola sotto il moggio

Piú che l’amore La nave Fedra

Un’altra tragedia abruzzese seguí nel , La fiaccola sotto il moggio: vi si narra una storia di delitti e di vendetta che si svolge all’interno della nobile famiglia dei Sangro e ha come protagonista una figura di fanciulla delicata e virtuosa, Gigliola, modellata sulle eroine della tragedia greca (i richiami classici rendono l’opera meno stridente, ma anche meno originale della precedente). Un ritorno alla tragedia in prosa costituisce Piú che l’amore (), ambientata nella Roma contemporanea e incentrata sullo scacco di un nuovo «superuomo». Simili a preziosi arabeschi, a ricami sontuosi che proliferano su se stessi, sono due altre tragedie in versi: La nave (), che evoca (in chiave nazionalistica e imperialistica) la Venezia delle origini e un Adriatico medievale, barbarico e bizantino; e Fedra (), riscrittura di un mito classico. D’Annunzio scrisse altre opere teatrali durante l’esilio francese (in primo luogo il «mistero» in versi Martyre de Saint Sebastian, “Martirio di San Sebastiano”, , che fu musicato da Claude Debussy), ma solo nel , al ritorno in Italia, poté gettarsi in un vero «teatro totale», quello della guerra e della politica, tanto atteso e annunciato dai suoi superumani personaggi.

... Le Laudi. La nuova poesia dannunziana «Rinascenza eroica»

Il progetto

I cinque libri delle Laudi

Maia e Laus vitae

A ridosso delle nuove esperienze teatrali esplode una nuova poesia dannunziana, di irresistibile vitalità, stimolata dall’ideologia del superuomo, dalla nuova attenzione dell’autore al mito classico e dal suo stesso viaggio in Grecia del . Tra il  e il  si svolge, con momenti di esuberante creatività, il ciclo delle Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi, con il quale il poeta si propone come campione di una «rinascenza eroica», costruendo il piú ambizioso modello di una poesia che afferma la «gioia», la conquista del mondo da parte di una nuova umanità pagana, e che si ritiene capace di reimmettere nel presente tutta la vitalità del mito antico. Il titolo Laudi mostra come D’Annunzio voglia utilizzare, in chiave tutta moderna e anticristiana, la suggestione francescana delle Laudes creaturarum e delle laude (cfr. .., ... e GENERI E TECNICHE, tav. ). Egli voleva una sorta di poesia continua, in cui dovevano intrecciarsi parti epico-narrative e parti liriche, secondo una struttura molto articolata che nel piano iniziale prevedeva ben sette libri, dedicati ciascuno a una stella delle Pleiadi; ma il progetto e la stesura ebbero varie fasi e diversi aggiustamenti. Singole liriche apparvero su giornali e riviste, in tutto il corso della stesura del ciclo, finché nel  si arrivò alla pubblicazione di tre libri in due volumi: il primo vide la luce nel maggio, con il titolo Maia; il secondo nel dicembre (ma con la data ), con i titoli Elettra e Alcyone. Solo piú tardi il poeta aggiunse alle Laudi altri due libri, improntati però a una retorica nazionalistica e privi di qualunque legame coi caratteri piú vitali del ciclo originario: Merope, apparso nel , e Canti della guerra latina (che in un primo momento si doveva intitolare Asterope), apparso nel  e inclusivo di poesie d’occasione scritte durante la prima guerra mondiale. Il primo libro, Maia, ha la funzione di una accesa premessa epico-ideologica, ma fu composto quasi completamente dopo le liriche che costituirono Elettra e Alcyone, soprattutto nei primi mesi del . Dopo due canti che fanno da premessa a tutto il ciclo, ecco svolgersi, con

.

D’ANNUNZIO E L’ESTETISMO

la furia e la velocità di un torrente, un lunghissimo poema, Laus vitae, diviso in ventuno parti e fatto di strofe di ventuno versi, costruite su una libera successione di versi di differente misura (tra i quali dominano il settenario e il novenario). È una esaltazione della vita, «dono terribile del dio», e della varietà dell’universo, che si offre alla conquista, al desiderio e al potere umano: i piú diversi aspetti del mondo naturale, del mito, della storia, diventano per l’io del poeta (che si presenta esplicitamente come il protagonista-eroe del poema) oggetti da ghermire e possedere. A questa esaltazione del possesso – che insegue ogni presenza, si avventura in frequenti digressioni e mescola le immagini piú eterogenee – l’autore tenta di conferire un ritmo epico con la narrazione del proprio viaggio in Grecia del , che viene trionfalmente interpretato nel segno di Ulisse: come inesausta ricerca di conoscenza e come recupero della forza originaria del mito greco. Il libro di Elettra contiene componimenti in metri diversi, composti e già pubblicati quasi tutti tra il  e il , dedicati all’esaltazione e alla commemorazione di vari «eroi», che il poeta riconosce come altrettanti specchi di sé e come guide nel suo programma di immersione nell’universo. La seconda parte del libro propone una pausa di «silenzio» e presenta una serie di componimenti dedicati a Le città del silenzio, città italiane la cui muta vita promette gloria futura.

Ma il vertice delle Laudi e dell’intera poesia dannunziana è toccato da Alcyone (nelle prime edizioni con la grafia Alcione), che vuole costituire una sorta di «tregua» nell’ascensione eroica del poeta-vate e rappresentare un’immersione di trionfante sensualità nella gioia e nel calore dell’estate. È un’ampia serie di componimenti, di grande varietà metrica, organizzati in modo da percorrere l’intero ciclo della stagione: dalla freschezza rigogliosa di giugno alla matura malinconia di settembre. Solo poche liriche risalgono al  o al  (le prime, tra cui la celebre La sera fiesolana, apparvero su «La Nuova Antologia» nel novembre ), mentre l’intera struttura dell’opera e quasi tremila versi furono il frutto di una febbrile attività poetica dell’estate  (a cui faceva da sfondo il paesaggio della Versilia) e altri testi risalgono al . In Alcyone, che la critica ha sempre considerato il migliore risultato di D’Annunzio, si espande nel modo piú pieno quella poesia dell’estate e della vacanza che già si era affacciata in Canto novo. La gioia per il fisico sprofondarsi nel sole, nel mare, nelle forme vegetali, si amplifica sotto il segno del dio Pan e degli antichi miti della fertilità, del rigoglio, della metamorfosi, che spesso D’Annunzio riscrive e sviluppa in nuove figurazioni (si ricordino in particolare L’oleandro e Undulna). Il virtuosismo verbale del poeta, che dalle sensazioni corporee trascorre abilmente a trionfanti visioni di paesaggio, non è mai stato cosí furente e incontenibile: dappertutto cerca segni di entusiasmo e godimento, si concede a un piacere che vorrebbe essere orgiastico e dionisiaco, ma che appare ancora una volta tutto narcisistico, teso a un’espansione dell’io e della sua parola. Dall’insieme del libro si ricava un’impressione di eccesso, di sovraccarico barocco, di ostinata ripetitività o di variazione infinita intorno a una tematica in realtà assai semplice. Proprio all’interno di questa dismisura fine a se stessa, ecco però che una sottilissima sapienza sonora priva di peso la parola, la sospende in una sorta di incantata allucinazione (spesso corrispondente alla abbacinante solarità del paesaggio e all’oscura accensione dei sensi di chi lo attraversa). La sintassi obbedisce a una metrica ancora tradizionale, ma disponibile a molte libertà, e procede in modo flessuoso, quasi carezzando le parole (come al solito, preziose, compiaciute del loro rilievo fonico), trascinandole in un movimento serpentiforme che sembra spesso interrompersi, ma in realtà torna su di sé e poi riparte e si prolunga inarrestabile. Nelle liriche piú riuscite, meno cariche di pretese mitiche e di materiali classico-eruditi, la parola pare estenuarsi nell’atto stesso di offrirsi: e la onnivora sensualità dannunziana, cosí bramosa di possesso, ha i suoi esiti piú felici quando si stempera in una dolcissima e tenue femminilità, quando si fa invadere dalle forme vegetali e sembra perdersi in esse; nascono allora liriche «perfette», giustamente celebri, come La sera fiesolana e La pioggia nel pineto.



La vita, l’universo e il potere

Elettra: commemorazione degli eroi

Alcyone e la gioia dell’estate

Poesia del dionisiaco

Virtuosismo verbale

Sapienza sonora

Le liriche «perfette»

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LA NUOVA ITALIA

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... Le faville del maglio e altri scritti, memorie, racconti, esplorazioni. Una nuova scrittura autobiografica

Il venturiero senza ventura Il compagno dagli occhi senza cigli

Solus ad solam

La Leda senza cigno

Un D’Annunzio diverso – teso a esplorare i risvolti segreti e oscuri della sua vita e della sua arte, le inquietudini e i desideri inespressi, pronto a interrogarsi piú che a esporsi teatralmente – si rivelò con le prose pubblicate sul «Corriere della Sera» tra il luglio del  e il settembre del , sotto il titolo de Le faville del maglio, cioè scintille, frammenti, schegge emessi dagli strumenti della sua arte, dal lavoro della sua officina. Si tratta di scritti brevi a cui l’autore continuò a lavorare variamente, fino alla pubblicazione di due raccolte: la prima nel , dal titolo Il venturiero senza ventura e altri studii del vivere inimitabile; la seconda nel , dal titolo Il compagno dagli occhi senza cigli; non fu invece portata a termine la suggestiva favilla La Violante dalla bella voce, pubblicata postuma solo nel . In questi scritti si riconoscono una inquieta disposizione lirica e una tendenza all’analisi interiore che si concretano in piccoli apologhi, in brevi notazioni su figure mitiche o simboliche, in visioni di opere d’arte, in pause meditative; la consueta effervescenza della prosa dannunziana si frantuma in scaglie, si fa piú sottile e lenta, subisce improvvise incrinature. Nelle prose de Il venturiero senza ventura (che l’autore presenta come le piú antiche) si intrecciano divagazioni preziose, eleganti riflessioni estetiche, aperture verso motivi laterali dell’ideologia e dell’immaginario dannunziano. Le faville di tipo autobiografico si svolgono come una successione di figurazioni esemplari (modellate sui piú vari schemi del mito e della tradizione letteraria), dalle quali risalta il sublime destino artistico di Gabriele: la piú interessante è la lunga favilla Il compagno dagli occhi senza cigli, che l’autore data al , ma che fu certamente stesa molto piú tardi; nelle pause della scrittura de Il fuoco, l’autore ci descrive la visita inquietante di Dario, un vecchio compagno di collegio ora gravemente malato; l’affacciarsi di tanti ricordi non fa che rendere piú spettrale e intollerabile l’apparizione presente. Dominano l’orrore del ritorno di un passato che proietta sinistri riverberi sul presente e il rifiuto del ricordo, della vita larvale, sotterranea, che può turbare l’officina dell’artista (un’analoga lacerante negatività impronta la piú breve favilla Esequie della giovinezza). Si può capire meglio questo «rovesciamento» della scrittura autobiografica dannunziana, se si esamina la spietata cronaca dell’amore per Giuseppina Mancini, in forma di diario con il titolo Solus ad solam, con le date  settembre- ottobre . All’ambito delle Faville si possono collegare le prose della Contemplazione della morte () in memoria di Giovanni Pascoli e di Adolphe Bermond (il proprietario della villa di Arcachon abitata da D’Annunzio in Francia), e il racconto La Leda senza cigno, apparso sul «Corriere della Sera» tra il luglio e l’agosto del , ambientato nelle Lande: scritto in prima persona, questo racconto narra una cupa vicenda di delusione, di fronte allo svelarsi della volgarità quotidiana. Nell’edizione del , alla Leda fu aggiunta la Licenza, un ampio testo che elabora ricordi e sogni del periodo francese.

... D’Annunzio politico e militare. Un’ideologia nazionalistica

Nell’attività politica e militare l’estetismo e il narcisismo di D’Annunzio trovano un immediato pubblico in quella «folla» a cui il suo superuomo guardava con disprezzo e dalla quale era nello stesso tempo affascinato: nell’Italia a cavallo dei due secoli, segnata da tanti conflitti e contraddizioni, la scontentezza dello scrittore per la situazione politica e il suo bisogno di protagonismo sembrano ancora aperti agli sbocchi piú diversi; ciò spiega la sua brevissima simpatia per il socialismo all’inizio del nuovo secolo. Ma in realtà tutta l’ideologia dannunziana è orientata verso un orizzonte nazionalistico e imperialistico, che converge con atteggiamenti molto diffusi nella piccola borghesia del tempo (cfr. ..), si appoggia a un culto fermo della violenza e della distruzione e trova il suo terreno ideale nella grande guerra mondiale, bagno di sangue e «fucina» che dovrebbe forgiare nuovi radiosi destini umani.

.

D’ANNUNZIO E L’ESTETISMO

D’altra parte egli si serve della dimensione dello spettacolo, già esperita in ambito letterario, per farsi protagonista nei nuovi metodi spettacolari della politica e della guerra (in cui si collocano anche le sue coraggiose azioni belliche, volte a creare sorpresa ed effetti di propaganda, piú che a produrre veri risultati militari). Inoltre egli sa spregiudicatamente servirsi dei nuovi mezzi tecnici e degli strumenti di distruzione costruiti dalla nuova industria e messi per la prima volta in opera su vasta scala proprio nel primo conflitto mondiale. D’Annunzio immerge insomma la sua cultura classicistico-decadente e la sua aspirazione al mito nella moderna azione di massa, definendo i primi esempi di quella estetizzazione della guerra e della politica che sarà essenziale per il fascismo. Il punto di partenza della politica dannunziana è sempre la parola, che crea un’oratoria infiammata, vibrante, aggressiva, aliena da ogni argomentazione razionale, tesa a esaltare il gusto del rischio e del pericolo mediante modi scattanti e militareschi, immagini eroiche e motti esemplari che devono diventare parole di battaglia (e il linguaggio politico fascista seguirà spesso questi modelli dannunziani). D’altra parte la stessa impresa di Fiume, basata sul rifiuto della legalità, sull’uso di bande armate, su un esasperato nazionalismo, su un’attenta manipolazione dell’informazione, può essere considerata una specie di prova generale delle azioni fasciste che subito seguirono. Anche se D’Annunzio rifiutò poi di impegnarsi direttamente nella politica e nutrí dubbi e riserve sul fascismo (e gli storici a noi piú vicini insistono su questo punto), egli fu comunque uno dei cardini della cultura del regime, e gli va attribuita tutta la responsabilità di aver fatto convergere nel fascismo e nell’azione di massa una cultura decadente, irrazionalistica, individualistica. I suoi discorsi politici valgono come triste modello di un uso accecante della sapienza letteraria e retorica; vi si sente l’esito deprimente di una cultura anticritica, tesa non a far conoscere la realtà, ma a creare un consenso puramente emotivo.

 Decadentismo e azione di massa

Oratoria infiammata

Un cardine della cultura fascista

... Il Notturno e l’ultimo D’Annunzio. La convalescenza per la perdita dell’occhio patita durante la guerra indusse il poeta-soldato a ritentare, in forme insolite, una scrittura intima e «segreta» come quella delle Faville: costretto a letto e privato della vista, nei primi mesi del  egli cominciò a scrivere una prosa di riflessione e di ricordo su dei piccoli cartigli, che furono in parte trascritti dalla figlia Renata (che lo assisteva e che egli chiamava con il nome di Sirenetta), ma vennero poi da lui stesso sistemati in tre parti (chiamate «offerte») e pubblicati solo piú tardi, alla fine del , con il titolo di Notturno. Quest’opera suscitò entusiasmi, proprio perché svolgeva alla lettera un’originale «esplorazione dell’ombra» (Cecchi), partendo da una condizione di «buio», che annullava la presenza fisica e sensuale della realtà esterna e degli stessi testi letterari, solitamente utilizzati a piene mani dallo scrittore; condizionata d’altra parte dalla dimensione ridotta dei cartigli, la scrittura si basava su notazioni brevi e secche, su periodi concisi e sintetici, su pause e sospensioni capaci di generare suggestivi effetti. La concentrazione sul proprio io sollecita un flusso di sensazioni e di ricordi che si affacciano nel buio; lo scrittore sembra costretto a fare i conti con dei fantasmi, a seguire visioni di morte; e tra i fantasmi emerge quello inquietante della madre malata e poi morta all’inizio del . Ma tra scatti d’umore improvvisi, sfuggenti allucinazioni e interrogativi sulla propria condizione, D’Annunzio non può rinunciare, in una circostanza come questa, a proiettare se stesso e il mondo della guerra sul piano del mito; l’esplorazione interiore poggia sempre su «una specie di immanente montatura» (Gargiulo); la nuova frantumazione ed elementarità del linguaggio nascondono spesso una ruvida retorica militaresca, che sembra affermare l’ineluttabilità della distruzione e della morte e prospettare come solo paesaggio umano degno di essere vissuto quello grigio, secco e violento della guerra. L’ultima opera a cui lo scrittore lavorò nel ritiro del Vittoriale s’intitola Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D’Annunzio tentato di morire e fu pubblicata nel : assistiamo qui a una ulteriore frantumazione del linguaggio (che si avvale anche di un uso particolare della punteggiatura), legata al tentativo di scandagliare le zone d’ombra, di delusione, di inappagamento rimaste nelle pieghe del trascorso «vivere inimitabile». E tuttavia il

La scrittura dei cartigli

La guerra come mito assoluto

Il libro segreto

EPOCA





LA NUOVA ITALIA

-

vecchio D’Annunzio non sa attingere a una negatività radicale: nel suo malumore senile vibra un estremo compiacimento di sé, il senso della propria superiorità sul teatro della società; ne esce qualcosa di arido e di ingrato, l’ultima traccia di un invincibile narcisismo.

... Significato storico dell’opera di D’Annunzio. Oggetti estetici in serie

La letteratura si riappropria del mondo

Un classicismo per le masse

Uso sociale della cultura

Se si analizzano le ragioni del successo di D’Annunzio, straordinario e di lunga durata, risulta impossibile separare l’opera dal personaggio che l’ha prodotta, i testi scritti dai gesti e dalle pose spettacolari che li hanno accompagnati. Uomo dalle mille trasformazioni, dal mimetismo inesauribile, egli rivela una sostanziale indifferenza per l’autentica origine degli oggetti estetici e dei modelli di comportamento di cui si serve: nella vita e nell’opera gli interessa in realtà produrre-riprodurre degli oggetti estetici in serie, che ogni volta fa passare per unici e irripetibili, circondandoli di una posticcia assolutezza, di un’aura tutta fittizia e recitata. Viste nel loro insieme, le opere di D’Annunzio costituiscono uno sterminato museo del kitsch (cfr. PAROLE, tav. ), che si espande per un’Italia ancora pre-industriale, carica di storia e di bellezza, ma trasformata dallo scrittore in scenario per fittizie passioni eccezionali, e già aperta al consumo turistico, all’invasione degli oggetti meccanici e industriali. Nei confronti della natura, dei luoghi storici, degli oggetti artistici, D’Annunzio mostra una volontà di conquista totale, che sembra dar voce estrema al processo di appropriazione e trasformazione dell’ambiente storico e naturale appena avviato dal mondo borghese e industriale: con lui la letteratura, proprio recitando la propria superiorità sul presente, esaltandosi in recuperi del mito e del piú glorioso passato, rivendicando l’assoluta libertà dell’artista e la sua funzione di guida eroica, diviene strumento di questa appropriazione. Esercitando un accecamento sistematico, la sua opera utilizza la cultura come barbarie, come strumento per possedere e soggiogare l’universo e l’uomo: essa manipola la tradizione culturale, occultandone ogni possibile contraddizione e configurandosi soltanto come un prendere, un ghermire, che ignora sistematicamente tutto ciò che è «altro». Si tratta di un atteggiamento minacciosamente «moderno», ma con esso contrasta il fondo ancora classicistico e tradizionale del linguaggio dannunziano: l’arretrato tessuto sociale italiano e la nuova cultura di massa, che in esso si sviluppa, generano un curioso linguaggio classicistico massificabile, che si libera dall’impronta professorale carducciana e si apre (ma solo in superficie) al parlato e a nuove suggestioni musicali. Questa misura linguistica permette all’opera dannunziana di sopravvivere a lungo, da una parte come modello per la retorica e la propaganda fascista, dall’altra come punto di riferimento per tanta poesia novecentesca. L’opera di D’Annunzio ci dà cosí un’immagine ricca e articolata di un uso sociale della cultura da parte della società borghese a cavallo dei due secoli: una società sospesa tra chiusure provinciali e ambiziose aperture verso la cultura europea, che si lascia catturare volentieri da miti che la convincono della sua superiorità e del suo diritto di impossessarsi del mondo.

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9.7 VERSO UNA NUOVA POESIA: GIOVANNI PASCOLI ... Alla ricerca di uno spazio nascosto: vita di Pascoli.

A differenza di quella di D’Annunzio, la vita di Pascoli rifugge da ogni gesto avventuroso e spettacolare, è solitaria e priva di eventi eccezionali, chiusa in una carriera di professore, scandita da trasferimenti in sedi diverse e segnata dall’ossessiva ricerca di uno spazio nascosto, atto a proteggere il poeta dal ricordo di una tragedia familiare avvenuta nell’infanzia. L’origine piccolo-borghese, la vita stentata e faticosa della giovinezza, la stessa condizione di poeta-professore possono indurre ad assimilare la sua vita a quella di Carducci, maestro di Pascoli all’Università di Bologna: ma l’allievo è lontanissimo dalla estroversa vitalità di Carducci, dal suo umore sanguigno e polemico, dalla sua «sanità»; tende a sottrarsi al mondo, vive i rapporti con la società come una costrizione, li riconosce come necessari, ma li adempie solo per potersi poi rinchiudere piú a fondo in una sorta di «nido», in segreta intimità con se stesso e con le piccole cose della natura; e non crea intorno a sé una nuova famiglia, ma ricostruisce insieme alla sorella Maria (sua fedelissima compagna per tutta la vita) un’immagine dell’originario nucleo familiare precocemente distrutto.

Chiudersi in un «nido»

Nato a San Mauro di Romagna il  dicembre , GIOVANNI PASCOLI era il quarto dei dieci figli di Ruggero, amministratore della locale tenuta agricola dei principi Torlonia, e di Caterina Allocatelli Vincenti. La famiglia godeva di una buona situazione economica e il bambino passò una felice infanzia nella campagna romagnola; nel  iniziò gli studi, con i fratelli piú grandi Giacomo e Luigi, nel collegio degli scolopi della vicina Urbino, dove rimase fino al . Ma il  agosto del  una sciagura si era abbattuta sulla famiglia: l’assassinio del padre, dovuto probabilmente a una vendetta per ragioni di interesse, che restò impunito; a breve distanza seguirono le morti della sorella maggiore, della madre e poi del fratello Luigi. All’uscita del collegio, quanto restava della famiglia, che ormai versava in cattive condizioni economiche, si stabilí a Rimini: Giovanni concluse gli studi liceali a Firenze e, forte della sua ottima preparazione classica, ottenne una borsa di studio per la Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna. Gli anni bolognesi furono molto difficili, nonostante l’attenzione che per lui ebbe Carducci e l’intrecciarsi di importanti amicizie (in primo luogo quella con Severino Ferrari, cfr. ..); i suoi studi si svolgevano tra ostacoli e momenti di stanchezza; i primi tentativi di poesia si alternavano a scatti di ribellione, che sboccarono nell’adesione alle nuove tendenze socialiste, molto diffuse tra gli studenti bolognesi. Viveva assai poveramente, tra Bologna e San Mauro, e svolgeva attività di propaganda sindacale; fu arrestato durante una manifestazione e rimase in carcere dal settembre al dicembre del : l’esperienza, per lui molto dura, gli provocò una grave depressione e lo portò quindi a rifiutare l’azione politica, a tradurre il suo socialismo e il suo spirito ribelle in una piú vaga aspirazione alla «pace» e alla «bontà», in un umanitarismo indeterminato, in un ideale di solidarietà degli uomini nel dolore. Riprese con piú vigore gli studi, e si laureò in lettere nel giugno del  con una tesi sul poeta greco Alceo. Passò subito a insegnare latino e greco nel liceo di Matera, da dove nel  fu trasferito a Massa: lí poté stabilirsi in una modesta casetta con le sorelle minori Ida e Maria (detta Mariú); nel  passò a insegnare e ad abitare, sempre con le due donne, a Livorno, dove rimase fino al . La vita comune con le sorelle fu per lui un modo di ricostituire, dopo tante sciagure, la famiglia originaria, il nido distrutto dell’infanzia: si trattò di un legame intenso e non privo di aspetti anche morbosi, fitto di piccoli riti, manie e gelosie; una grave crisi si verificò nel , in seguito al matrimonio di Ida, che gettò il poeta nello sconforto, ma che rafforzò il suo legame con Mariú (che si dedicò interamente al fratello, rinunciando a ogni possibilità di un diverso destino personale e rimanendo fedele cultrice della sua memoria fino alla morte, avvenuta nel ). Pascoli vide sempre il mondo femminile attraverso questo schermo familiare, escludendo l’amore e il sesso dall’orizzonte della sua vita.

Un’infanzia di lutti

Gli anni bolognesi

L’esperienza del carcere

La vita con le sorelle

EPOCA



Il rapporto con D’Annunzio Un poeta latino moderno Castelvecchio e gli incarichi accademici

Gli ultimi anni



LA NUOVA ITALIA

-

Cominciava intanto a pubblicare alcuni componimenti in sedi diverse, fino al primo volumetto, dal titolo Myricae, apparso nel  e seguito l’anno dopo da un’edizione piú ampia. Infittiva inoltre i suoi contatti con gli ambienti letterari e, tra l’altro, entrava in rapporto con D’Annunzio, che recensí favorevolmente Myricae: la loro fu un’amicizia a distanza, tra due personaggi con caratteri e comportamenti diversissimi e incompatibili. Nel  Pascoli vinse la medaglia d’oro all’annuale concorso internazionale di poesia latina di Amsterdam: era la prima di ben dodici medaglie, conseguite negli anni successivi, che premiavano in lui il maggiore poeta latino moderno. Nel , anno del matrimonio di Ida, prese in affitto con Maria una casa a Castelvecchio di Barga, nella valle del Serchio, vivendovi appartato, a diretto contatto con la campagna, e facendone un luogo essenziale per la sua poesia; nello stesso anno venne chiamato come professore straordinario di grammatica greca e latina all’Università di Bologna e nel  fu trasferito come ordinario di letteratura latina all’Università di Messina, dove restò fino al , con l’intervallo di lunghe vacanze a Castelvecchio. Intanto pubblicava le sue nuove poesie su importanti riviste, come «Il Convito» e «Il Marzocco», vari interventi critici, fortunate antologie destinate alla scuola e originali studi danteschi. Nel  usciva la prima edizione dei Poemetti, nel  quella dei Canti di Castelvecchio, nel  quella dei Poemi conviviali. Nel  realizzò, con i suoi faticati risparmi (utilizzando tra l’altro anche l’oro fuso delle medaglie di Amsterdam), il sogno di comprare la casa di Castelvecchio con l’annesso podere (la cui cura gli procurò tuttavia molte ansie e fastidi, anche per i difficili rapporti che ebbe con i coloni); e nel  ottenne il trasferimento dall’Università di Messina a quella di Pisa. Pensava di essere giunto a una vita serena e tranquilla, vicino alla sua Mariú, nel ricostituito nido di Castelvecchio, ma nel  accettò, tra ansie ed esitazioni, di succedere alla cattedra del maestro Carducci all’Università di Bologna: una chiamata che egli sentí non tanto come un onore alla sua persona e alla sua poesia, quanto come un risarcimento per le antiche umiliazioni patite dalla sua famiglia e per le sofferenze dei suoi poveri morti. La vita a Bologna risultò piuttosto faticosa: alla scarsa risonanza del suo insegnamento presso gli studenti si sommavano i fastidi accademici, i compiti ufficiali e i discorsi celebrativi che egli si assumeva, sulle orme di Carducci (ma frequenti furono anche i soggiorni a Castelvecchio). Anche la sua poesia assumeva toni sempre piú ambiziosi e ufficiali, come rivelarono la raccolta Odi e inni () e numerosi altri componimenti di quegli anni. Dal socialismo giovanile Pascoli era alla fine passato a una piena accettazione dell’ordine dominante nell’Italia giolittiana, a un nazionalismo venato di prospettive umanitarie, che usava un linguaggio di matrice socialista per affermare la necessità di una collaborazione tra tutte le classi sociali e di un’espansione coloniale, capace di dare uno sbocco alle forze di lavoro italiane e di mettere argine alla piaga dell’emigrazione. Vide queste prospettive realizzate dalla guerra di Libia, che celebrò nel suo ultimo discorso La grande proletaria si è mossa, pronunciato a Barga il  novembre . Ma era ormai da tempo stanco e malato: minato da un cancro al fegato e allo stomaco, morí a Bologna il  aprile .

... Le raccolte poetiche di Pascoli. Un lavoro costante su forme e generi diversi

Come le raccolte poetiche di Carducci, quelle pascoliane presentano una successione e un’organizzazione che non corrispondono alla reale sequenza cronologica dei testi: in ogni momento della sua attività (a parte la fase iniziale), Pascoli lavora a diverse forme di poesia, seguendo contemporaneamente contenuti e «generi» diversi, che distribuisce in varie raccolte, destinate ad accrescersi e a mutare assetto in edizioni successive; la prima edizione di ogni raccolta non corrisponde quindi alla chiusura di una fase di lavoro, ma solo a una provvisoria sistemazione di forme e di temi, che è contemporanea alla elaborazione di altre forme e di altri temi che Pascoli riconsidera costantemente.

.

VERSO UNA NUOVA POESIA: GIOVANNI PASCOLI

Le sue prime poesie vennero pubblicate in varie riviste o in edizioni per nozze negli anni Ottanta; nel  vide la luce a Livorno la prima edizione vera e propria di Myricae, costituita di soli ventidue componimenti e dedicata alle nozze di amici; ma la raccolta assunse una dimensione molto piú ampia con la seconda, del . Il libro si accrebbe ed subì varie modificazioni in una nuova veste del  (dove per la prima volta compare la dedica alla tomba del padre) e raggiunse un assetto assai vicino a quello definitivo nella quarta edizione (); Pascoli apportò aggiunte e variazioni consistenti ancora in quella successiva del . Intanto nel corso degli anni Novanta il poeta aveva variamente lavorato al nuovo «genere» dei Poemetti, alcuni dei quali uscirono a partire dal  su «Il Marzocco» e furono poi raccolti nel  in una prima edizione, a cui seguí una seconda – accresciuta – nel : ma la composizione di molti altri poemetti indusse Pascoli a dividerli in due raccolte distinte, i Primi poemetti () e i Nuovi poemetti (). Parallelamente, a cavallo tra i due secoli, il poeta lavorava ad altri generi, con componimenti che apparvero in sedi diverse: . poesie che continuavano in forme piú ampie il «genere» di Myricae e vennero raccolte nel marzo  nei Canti di Castelvecchio (dedicati alla tomba della madre, i Canti furono variamente ampliati fino all’edizione del ); . poemi di materia «greca», in gran parte apparsi su «Il Convito» di De Bosis (cfr. ..) e raccolti poi nel  con il titolo Poemi conviviali; . poesie di tipo «civile», con propositi morali e celebrativi e spesso composte su temi di attualità, raccolte nel  con il titolo Odi e inni e accresciute fino all’edizione postuma del ; . poesie «storiche», risalenti agli anni dell’insegnamento bolognese e costituite dalle Canzoni di re Enzio, apparse in parte nel , e dai Poemi del Risorgimento, la cui raccolta uscí postuma nel ; a questo tipo di poesia si collegano i Poemi italici (), uno dei quali (Paulo Uccello) risaliva al . Non vanno poi trascurati i Carmina latini (apparsi postumi nel : durante la vita del poeta erano apparsi solo i testi premiati ad Amsterdam, in edizioni a cura degli organizzatori del concorso); scrivere in latino è per Pascoli come riattivare una lingua assoluta, di purezza originaria, sottratta alle contaminazioni e alle deformazioni del presente, e nello stesso tempo è un modo di risalire oltre la propria infanzia individuale, verso un mondo prenatale, verso la fanciullezza dell’umanità.

 Le edizioni di Myricae

La novità dei Poemetti

I Canti, i poemi «greci» e le poesie «civili»

La poesia latina

... La nuova poesia di Myricae. Con la raccolta Myricae, contenente alcuni dei primi testi pascoliani, ma variamente accresciuta tra le edizioni del  e del , si rivela una poesia nuova al suo stato piú semplice e puro, libera da incrostazioni ideologiche, che condensa i caratteri piú originali di tutta l’opera pascoliana. Il titolo è spiegato da un’epigrafe, che adatta un verso di Virgilio, arbusta iuvant humilesque myricae, “piacciono gli arboscelli e le umili tamerici”: esso ci dice che l’autore si propone una poesia di breve respiro, dedicata ai piú semplici aspetti della vita della natura, a un mondo campestre fatto di piccole cose. Riferendosi a Virgilio, questa poesia si situa deliberatamente all’interno della tradizione classica: mantiene un certo legame con la poesia carducciana, ma se ne distingue subito per una ricerca di forme brevi e quasi frammentarie. Questi brevi componimenti si affidano a una grande varietà di metri, a molteplici combinazioni di strofette, a varie e originali contaminazioni tra schemi della tradizione (significativo, tra l’altro, l’uso di un verso non frequente nella nostra poesia, il novenario). Ma quello che piú colpisce è il linguaggio, che si adatta in modo diretto alle piccole cose, ai momenti piú semplici della vita familiare e del mondo campestre, basandosi su termini assai precisi, che aderiscono nel modo piú minuto ai particolari di quell’umile realtà: si tratta di una vera e propria «democrazia linguistica» (Contini) che apre lo spazio della poesia a tanti nomi di piante, di fiori, di uccelli, di attività agricole, di piccoli oggetti quotidiani, rimasti sempre estranei alla nostra tradizione poetica.

Un classicismo «delle piccole cose»

La metrica

EPOCA



Un linguaggio fonosimbolico

Rappresentazioni non realistiche

L’infanzia e la morte

Il sogno, il mistero, l’assenza



LA NUOVA ITALIA

-

Ma non è soltanto la scelta dei vocaboli a ricreare questo mondo «basso»: l’aderenza alle piccole cose viene assicurata anche da un linguaggio che Contini ha definito «fono-simbolico», «agrammaticale o pregrammaticale», che supera i parametri istituzionali e comunicativi della lingua ed evoca le cose attraverso puri suoni: le manifestazioni piú esplicite di tale orientamento sono l’uso – con una frequenza senza precedenti – dell’onomatopea (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ), gli improvvisi salti dei legami logici e sintattici e le associazioni di immagini lontane, che hanno tra loro solo un rapporto di analogia (cfr. TERMINI BASE ). Questo linguaggio dà vita a paesaggi naturali o a ritratti umani di estrema precisione, ma che non hanno nulla di realistico: tutto appare come abitato dal mistero, da qualcosa di nascosto e segreto, tutto si vela di sfumature di sogno; dietro quelli che potrebbero sembrare brevi quadretti campestri affiora una musica sotterranea, una forza inquietante che avvicina incredibilmente le cose ai sensi del poeta e nello stesso tempo le allontana, trasformandole in apparizioni sfuggenti, inafferrabili. Le presenze umane sfumano in lontananza: non vediamo piú individui reali e concreti, ma soggetti indeterminati, che si confondono con la vitalità degli animali e delle piante. L’occhio e l’orecchio del poeta sono intenti a seguire le vibrazioni di essenze oscure e segrete, essenze che risultano tanto piú oscure quanto piú si presentano con nitida semplicità: dietro una serena apparenza di idillio si disegna una misteriosa inquietudine. Nel suo rapporto con le cose, il poeta aspira a ritrovare una calda intimità, uno spazio chiuso e felice: lo rivela nel modo piú chiaro la frequenza delle figure del nido (che accoglie la vita alla sua origine) e della siepe (che separa dal mondo minaccioso e nemico). La poesia sembra quindi un modo per ritrovare il mondo dell’infanzia: ma proprio le immagini dell’infanzia richiamano la morte e le figure dei morti, che dominano tutto l’orizzonte di Myricae. Si scopre allora che il linguaggio pregrammaticale di Pascoli tende costantemente e ossessivamente a evocare presenze che non sono piú (i genitori, i fratelli, altre immagini di bimbi e di madri defunte), che appaiono vicinissime e nello stesso tempo fissate in un’irraggiungibile distanza (per la sua formazione positivistica, Pascoli non crede all’immortalità dell’anima, anche se prova simpatia per il Cristianesimo, inteso come religione degli affetti familiari, della fratellanza e della solidarietà umana). Le sensazioni arcane risvegliate dalla vita della natura, il sogno e il mistero che si annidano tra le cose, non fanno altro che riproporre la lacerante contraddizione di questo rapporto con i morti: ovunque il poeta sembra interrogare qualcosa che non può piú esistere.

... La poetica del fanciullino. Il bisogno di memoria

Con la loro apertura verso il mistero e l’impossibile, con il loro uso dell’analogia e la loro ricerca di una musica segreta, le Myricae si collegavano spontaneamente alle tendenze del simbolismo (cfr. PAROLE, tav. ), senza che Pascoli (legato fortemente a una cultura classicistica e all’educazione carducciana) conoscesse la contemporanea poesia europea. Le idee di Pascoli sono invece radicate nella sua esperienza personale: egli non ha una menta-

ONOMATOPEA GENERI E TECNICHE

tav. 203

Dal greco ónoma-atos, “nome”, e poiêin, “fare”, è una figura fonica, che riproduce nelle parole suoni o rumori non verbali, naturali o artificiali: essa può limitarsi a una semplice allitterazione, cioè a una ripetizione di fonemi in parole diverse, da cui risulta appunto un effetto di suono non verbale, o a una vera e propria trascrizione del suono stesso (per esempio il din-don delle campane). Abbastanza rara – ma non assente – nella poesia antica, l’onomatopea è molto presente nella poesia contemporanea. Pascoli ne fa un uso ampio e ossessivo: per esempio nella forma dell’allitterazione: «Un cocco! / ecco ecco un cocco un cocco per te!», e in quella della riproduzione diretta: dlin… dlin, per il campanello della bicicletta, gre gre, per il gracidare delle rane ecc.

.

VERSO UNA NUOVA POESIA: GIOVANNI PASCOLI



lità speculativa e, piú che sviluppare una vera e propria teoria, preferisce ricondurre la sua poesia a un bisogno esistenziale di memoria (convinto che poesia «è rivivere ciò che fu») e di rapporto con le cose, che egli coglie nella loro spontaneità e immediatezza e con ossessiva precisione. Verso gli ultimi anni del secolo egli tentò di precisare e razionalizzare il senso della propria esperienza in numerosi interventi, tra i quali spicca quello celebre dal titolo Il fanciullino, apparso in parte su «Il Marzocco» nel , e poi pubblicato in forma piú ampia nel  nel volume Miei pensieri di varia umanità (che raccoglieva conferenze e saggi sugli argomenti piú diversi). In quelle pagine Pascoli giustificava implicitamente l’attenzione prestata dalla sua poesia al mondo dell’infanzia, muovendo dalla constatazione che all’interno di ogni uomo vive un «fanciullino»: un «fanciullino» capace di vedere «tutto con maraviglia, tutto come per la prima volta», con occhi intatti e primigeni, e di comunicare con la realtà piú autentica. Il poeta è colui che sa dar voce a questo «fanciullino», che ne usa le qualità per il bene di tutti gli uomini: la vera poesia è forza originaria, capace di metterci in rapporto con le piú semplici emozioni dell’infanzia, di risvegliare la bontà e la solidarietà che dovrebbero accomunare gli individui. La poesia classica, specchio dell’infanzia dell’umanità, sapeva dare libera espressione a questo «fanciullino», riconoscendogli compiti di educazione civile e morale: ne è grande esempio Omero, il cieco poeta che coglie una realtà piú profonda di quella apparente. Il poeta-fanciullino è «ispiratore di buoni e civili costumi, d’amor patrio e familiare e umano»: può non solo cantare le cose piú minute, i particolari piú nascosti e inavvertiti, ma anche manifestarsi in forme epiche, celebrative, educative. Questa poetica suggerisce al pubblico contemporaneo una sorta di modello poetico positivo, di ridotte pretese, di impronta piccolo-borghese, del tutto opposto all’ambiziosa aggressività del «superuomo» dannunziano: ma la piú autentica poesia di Pascoli va molto al di là di tale programma, al quale troppo spesso la critica si è rifatta per limitare il valore dei versi pascoliani, per metterne in luce solo certe sdolcinature e certo moralismo. Dietro il «fanciullino» ci sono in realtà malesseri e sofferenze, che nei migliori risultati della poesia di Pascoli affiorano in modi sorprendenti e laceranti; c’è infatti il tentativo di dar voce a ciò che non riesce ad avere voce, di far parlare desideri assoluti e inappagati, di scoprire l’infanzia come autenticità, che resiste alla spietatezza della vita sociale, al suo moto di distruzione e di morte; e c’è il desiderio di fuggire dal presente e di regredire verso un passato prenatale, verso impossibili affetti infantili, verso un’indistinta unità dell’io con la madre. Se la fanciullezza è per Pascoli la fonte sorgiva della poesia, è anche vero d’altra parte che egli tende a concepire l’espressione poetica come una lingua non viva, non comunicativa: quella della poesia è per lui essenzialmente «una lingua morta», che proprio in quanto tale può attingere ai valori piú veri (e ciò spiega tra l’altro il suo impegno nella poesia latina).

L’ispirazione civile

L’orizzonte sociale

Una poesia che dà voce a ciò che non ha voce

... I Poemetti. A differenza di Myricae, i Poemetti sono componimenti piú ampi, costituiti da brevi serie di strofe di endecasillabi in terza rima, che hanno un pacato andamento narrativo e in cui la serena vita della natura è quasi sempre filtrata attraverso il rapporto tra figure umane. In questa raccolta si sente il peso di un’intenzione ideologica, legata alle prospettive del Fanciullino: il poeta vuole infatti esaltare i valori autentici della vita campestre e fornire ai lettori un modello di resistenza al «male» che minaccia la società. La poesia è una sorta di rifugio, in calda intimità con il mondo animale; come suggerisce la prefazione del , Pascoli mira a sorprendere «una viva conversazione familiare dentro un nido», a trasmettere una «gioia» autentica, che nasce da una amara esperienza di «dolore». Questo bisogno di protezione e di conforto genera un’ideologia di solidarietà e di rassegnazione, e si traduce in una difesa di spazi limitati e intimi, che s’oppongono alle forme piú

Una misura piú ampia

Il rifugio nella poesia

Romanzo «georgico»

EPOCA



Bontà della vita contadina

I componimenti maggiori



LA NUOVA ITALIA

-

ambiziose e spettacolari della vita sociale contemporanea. Figura sociale ideale appare qui quella del contadino piccolo proprietario, che lavora duramente, a contatto con la natura piú genuina, che vive in un esiguo mondo, fatto di sentimenti familiari e di attività sempre uguali, regolate dal ritmo delle stagioni. La vita contadina diventa qui una specie di repertorio di esempi morali, di atti e gesti carichi di «bontà» e di concretezza; il linguaggio nomina con precisione gli oggetti e le circostanze piú minute, si infittisce di dati espressivi, appoggiandosi anche al dialetto parlato dai contadini di Barga e riproducendone i ritmi sintattici. Pascoli abbandona i tradizionali modelli di descrizione della vita contadina, ma si oppone alla violenta rappresentazione naturalistica e veristica, offrendo una sua immagine positiva, dolce, quasi generosamente remissiva, di quella realtà (che in parte risale anche alle Georgiche di Virgilio e che evidenzia solo i segni della spontaneità e della purezza, nascondendo contraddizioni e conflitti): nel far questo trova un originale andamento narrativo-discorsivo, dalle cadenze stanche e tenui, quasi un falsetto moderato e rinunciatario, in cui riecheggia un’antica moralità popolare. Ma, al di fuori delle intenzioni ideologiche del «romanzo georgico», numerosi poemetti si affacciano su ricordi inquietanti, su figure di morte, su sensazioni oscure. Ne nascono alcuni dei migliori componimenti pascoliani, come La calandra (), Digitale purpurea (), Suor Virginia (), L’aquilone, scritto nel .

... I Canti di Castelvecchio.

Due paesaggi a confronto

Un discorso disteso

Il romanzo delle stagioni

Il poema «cosmico»

I Canti di Castelvecchio sono in genere considerati dalla critica come una «continuazione» di Myricae in forma piú ampia e distesa, da cui si svolgono alcuni risultati eccezionali, ma anche zone di ombra e stanchezza: in realtà in questi Canti Pascoli sembra voler confrontare la natura di Castelvecchio, in cui egli ha faticosamente ricostituito il suo nido, con il continuo tornare di impressioni e di ricordi che frustrano ogni appagamento, che riattivano una segreta inquietudine. Due mondi diversi si sovrappongono: nel nuovo paesaggio si insinuano le presenze di un paesaggio piú antico, nelle nuove sensazioni vive l’eco di sensazioni precedenti. Anche qui la metrica è molto varia, si sperimentano diverse combinazioni di versi e strofe; ma i componimenti sono piú ampi di quelli di Myricae, non si configurano piú come illuminazioni improvvise, ricavate da singole immagini o da brevi associazioni, bensí come discorso disteso, spesso costruito con un ritmo narrativo (che può ricordare anche la vicina esperienza dei Poemetti). La disposizione dei vari canti è attentamente regolata, con un «ordine latente» cosí suggerito dal poeta stesso: «prima emozioni, sensazioni, affetti d’inverno, poi di primavera, poi d’estate, poi d’autunno, poi ancora un po’ d’inverno mistico, poi un po’ di primavera triste, e finis»; la raccolta si conclude con alcuni canti dedicati alla morte del padre, come il celebre La cavalla storna, , e con una sezione di nove componimenti intitolata Il ritorno a San Mauro. Il libro si presenta insomma come un romanzo lirico sul ciclo delle stagioni, sulle emozioni suscitate da una vita campestre in cui il poeta si sprofonda quasi a difendersi dal resto del mondo: l’universo vegetale e animale potrà infatti tenere lontana la visione dell’orrore e del pianto (ce lo dice la bellissima poesia Nebbia, : «Nascondi le cose lontane, / nascondimi quello ch’è morto! / Ch’io veda soltanto la siepe / dell’orto, / la mura ch’ha piene le crepe / di valeriane»). Nella animata solitudine di questo microcosmo, il poeta spia e interroga suoni indefinibili, frulli e vocíi, immagini che sfumano e trascolorano in altre immagini; ascoltando la vita del paesaggio, egli si confronta con tutto ciò che ha perduto e che non ha avuto, fino a voler vedere ciò che non può vedere, a voler sapere ciò che non può sapere. Lo sguardo si allarga cosí al movimento dell’universo e ne ravvisa la pace apparente, abitata dalla distruzione e dalla morte; ma la poesia piú intensa sprigiona proprio dall’ostinata e vana domanda rivolta alle cose, dall’esitante balenare di segni segreti e di sogni impossibili, da accorate fantasie su cose che non si sanno e che non possono esserci.

.

VERSO UNA NUOVA POESIA: GIOVANNI PASCOLI

In questo orizzonte del non sapere e del non essere si situano anche l’amore e il sesso, che Pascoli vive come cose lontane, rimaste rinchiuse nel bocciolo dell’infanzia perduta, che annunciano vaghe felicità, ma che sono assolutamente negate alla sua diretta esperienza (è chiaro che causa di tale atteggiamento è la particolare biografia del poeta). In alcune grandi poesie si intrecciano strettamente desideri, fascino dell’ignoto, velate fantasie sessuali, ossessione del divieto, tenerezza e dolcezza inappagate; ricordiamo in particolare: La figlia maggiore (), Il gelsomino notturno (), Il sogno della vergine (), La tessitrice (). La morte ritorna in tutti i ricordi, nelle immagini dell’infanzia e della famiglia distrutte (di particolare bellezza Il nido di «farlotti»); ma è lo stesso poeta a riconoscersi come appartenente al mondo dei morti, come fragile larva che emerge da qualcosa che non è piú, e che proprio per questo «non sa» e vede il proprio sguardo e la propria voce svanire ed estinguersi. Le emozioni della sera lo invitano a immergersi in un sonno che è quello della culla e insieme quello del nulla (La mia sera, ). Il poeta giunge a una tomba che si confonde con la cuna e si dissolve in «un sogno di nulla» (Il mendico, ); il partire delle rondini, che parlano una «lingua di gitane, / una lingua che piú non si sa», suscita in lui il desiderio di un eterno ripetersi, di un «ritorno dal mondo di là» (Addio!); e in un convergere di non essere e di eternità, di fuga dalla realtà e di ripetizione del dolore, di sogno felice e di crudo disinganno, sta il nucleo piú intenso e resistente di questa poesia.

 La tematica erotica

Il poeta e la morte

... Grandi ambizioni: dai Poemi conviviali ai Poemi del Risorgimento. Con i Poemi conviviali () Pascoli ci propone una poesia classicistica (per lo piú in lasse di endecasillabi sciolti, salvo pochi casi di studiatissime combinazioni di strofe) dedicata al mondo greco e orientale: prendendo spunto da aspetti secondari del mito e della storia, suscita atmosfere di mistero, esplora grovigli di desideri e ambizioni, illumina figure che aspirano alla conoscenza e scoprono la vanità del sapere. Sul mito e la storia si proiettano cosí la sensibilità, l’inquietudine, il languore moderni, ma il tutto è sotto il segno di un’erudizione ossessiva (avvertibile nella scelta peregrina dei nomi, nella minuzia dei termini coniati sul greco antico) e di un’eleganza troppo esteriore: su Pascoli pesa la volontà di gareggiare da una parte con il piú raffinato estetismo, dall’altra con la poesia storica del maestro Carducci. Egli si propone di ripercorrere, nella successione dei poemi, il cammino dell’umanità, dalla antica e illimitata brama di conoscenza, alla solidarietà e alla fratellanza tra gli uomini prospettata dalla «buona novella» del Vangelo. Se l’ambizione mitico-storica dei Poemi conviviali produce risultati preziosi ed esteriori, ma non privi di un certo calore nell’evocazione di quel lontano passato, del tutto infelici e astratti restano i propositi educativi, moralistici e celebrativi della raccolta Odi e Inni (). Insopportabili sono i Poemi italici (con l’eccezione delle delicate e volutamente ingenue immagini francescane di Paulo Uccello), le Canzoni di Re Enzio (faticoso tentativo di delineare un’immagine del Medioevo bolognese), i Poemi del Risorgimento (incongruo tentativo di proporsi come poeta epico della nuova Italia), i due retorici e magniloquenti inni nazionalistici scritti nel  per le celebrazioni del cinquantenario del Regno d’Italia, in duplice versione, latina e italiana, l’Inno a Roma e l’Inno a Torino. La vera poesia di Pascoli non poteva essere in queste esibizioni di voce sonora e ufficiale: restava affidata a una segreta intimità, a uno spazio lontano dai clamori della storia e dalle ambiziose ideologie che percorrevano l’Italia all’inizio del secolo.

La materia dei Poemi conviviali

La poesia pedagogica, moralistica, celebrativa

Gli inni nazionalistici

... Pascoli critico e prosatore. Privo di mentalità critica e teorica, attento soprattutto ai problemi che coinvolgevano le sue esigenze piú intime, Pascoli si accosta ai testi letterari con l’inclinazione a farli propri, a considerarli proiezione dei propri bisogni e della propria sensibilità: ciò è evidente non solo nelle ri-

Una critica interiorizzante

EPOCA



Gli studi danteschi

Un’ambigua cordialità



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flessioni di poetica (come quella del Fanciullino), ma anche nei vari interventi e scritti critici, come quelli su Leopardi, nel quale egli vedeva per l’appunto un «divino fanciullo». I maggiori lavori critici, su cui egli si concentrò puntigliosamente per diversi anni, sono quelli su Dante, interpretato secondo una sottile chiave simbolica: si tratta di ben tre volumi, Minerva oscura (), Sotto il velame () e La mirabile visione (). Le aspirazioni moraleggianti e celebrative legate alla poetica del «fanciullino», manifestatesi molto presto nella sua poesia, trovano espressione piú diretta in numerosi scritti in prosa, derivati spesso da discorsi d’occasione (ma notevole interesse ha anche l’ampio epistolario, pubblicato per ora solo parzialmente). La prosa di Pascoli ha un suo particolare tono di pacata conversazione, sembra volersi presentare non come operazione letteraria, ma come voce fraterna di uomo comune, che parla con cordialità ad altri uomini comuni; questa bonarietà nasconde tuttavia un insistente vittimismo: l’autore sembra sempre pronto a rivendicare valori di «bontà» conculcata, a recriminare in forme un po’ piagnucolose contro tutte le forze che ostacolano e perseguitano i «buoni».

... Pascoli e la poesia del Novecento. La prospettiva piccoloborghese

La prospettiva simbolica

Novità della poesia pascoliana

Vista nel suo insieme, l’opera di Pascoli sembra condensare in sé gli ideali di una piccola borghesia agricola, impegnata nella difesa del proprio spazio contro le laceranti trasformazioni della modernità, ma che non rinuncia totalmente agli ideali positivistici, a un vago laicismo di origine risorgimentale e a una generica fiducia nel progresso: Pascoli ricava da questo orizzonte piccolo-borghese una prospettiva di solidarietà nazionale, ipotizzando un’alleanza tra le classi che metta capo a un imperialismo con venature sociali e umanitarie. A questo orientamento si collega anche l’uso che della poesia di Pascoli, poeta-professore, si è fatto nella scuola italiana: la tematica infantile e familiare, gli atteggiamenti filantropici e moraleggianti, l’intenzione, manifestata dallo stesso autore, di rivolgersi alle «anime giovanili», hanno originato in gran parte del Novecento una interpretazione edulcorata o oratoria di questa poesia, intesa come modello di «bontà», come costumata rappresentazione dell’infanzia, come esaltazione di valori domestici, civili e patriottici. Nel corso di questo capitolo si è visto però come la piú autentica poesia pascoliana sia dominata da una tensione straziante, in un groviglio psicologico che le conferisce una forza conoscitiva singolare, che va molto al di là dei suoi orizzonti sociologici e ideologici e che la collega alle esperienze piú moderne della poesia europea della fine dell’Ottocento (Pascoli è certo il poeta italiano che piú si avvicina, ma in modo tutto originale e senza condividerne i supporti culturali e teorici, al simbolismo, cfr. ..). E d’altra parte essa, benché si mantenga nella linea del classicismo e assuma alla fine una immagine ufficiale e declamatoria, ha radicalmente mutato l’orizzonte del linguaggio e dell’espressione, ponendosi come punto di riferimento essenziale (assai piú che la poesia dannunziana) per tutte le nuove esperienze del Novecento: dai crepuscolari agli ermetici, da Saba a Montale. Questi i punti essenziali attraverso i quali si può riassumere l’essenziale apporto dato da Pascoli al rinnovamento della poesia, al definitivo abbandono di una secolare tradizione: . apertura alle cose, a infiniti nuovi oggetti (che si incarnano in una serie di vocaboli mai usati prima dalla poesia, in una vasta nomenclatura di matrice addirittura tecnica); . plurilinguismo, che va dall’inserzione di elementi fono-simbolici (cfr. ..) all’uso di lingue speciali e straniere; . frattura e sospensione del ritmo sintattico, a sostegno degli aspetti simbolici e analogici; . sperimentazione metrica, con frattura del ritmo del verso e dell’organizzazione strofica.

.

VERSO UNA NUOVA POESIA: GIOVANNI PASCOLI



... Nuovi tentativi poetici fra tradizione e innovazione. Tra le esperienze poetiche che si svolsero soprattutto negli anni a cavallo tra i due secoli e che non coincidono con le prospettive dominanti alla fine dell’Ottocento cui si è accennato in .. e in .. (quella del classicismo carducciano e quella dell’estetismo), ricordiamo quella del romano DOMENICO GNOLI (-), che nel  diede voce a una diffusa esigenza di rinnovamento dell’orizzonte poetico: nel volume Fra terra e astri (pubblicato come opera del giovane GIULIO ORSINI, pseudonimo che il poeta continuò a usare in raccolte successive) figurava una poesia, Apriamo i vetri, che suscitò grande scalpore, poiché l’autore vi annunciava la morte delle vecchie forme artistiche, la necessità di una nuova «freschezza» e di una nuova vita. Ricche di interesse appaiono alcune esperienze che si svolsero tra Piemonte e Liguria: in primo luogo quella di ARTURO GRAF, nato ad Atene nel  da padre tedesco e madre italiana, dal  professore di letteratura italiana all’Università di Torino, critico che seguiva i metodi della scuola storica (cfr. ..), nutrendo tuttavia una grande curiosità per i motivi tematici e simbolici. La sua conoscenza delle piú varie letterature europee, il suo razionalismo rigoroso e la sua simpatia per il socialismo influirono notevolmente sulla cultura letteraria della capitale piemontese, dove morí nel . La sua poesia presenta moduli romantici, ma complicati da simboli e tematiche estetizzanti e decadenti (tra le sue raccolte si ricordino Medusa, , e Morgana, ). A una poesia come espressione di sentimenti essenziali ed eterni, radicata nel patrimonio romantico, ma insieme sensibile alla realtà contemporanea, mira Il poema dell’adolescenza () del torinese ENRICO THOVEZ (-), esperto di arte e di musica, acuto e polemico saggista, che nel  pubblicò Il pastore, il gregge e la zampogna, battagliera e spregiudicata analisi delle insufficienze e delle arretratezze del linguaggio poetico italiano. Il modello carducciano agisce sul genovese CECCARDO ROCCATAGLIATA CECCARDI (), che sa però elaborare un linguaggio originale, duro, essenziale, come scavato in una materia secca e ingrata. A tale linguaggio si ispireranno poi alcuni poeti liguri, come Sbarbaro (cfr. ..) e Montale (cfr. ..).

Tendenze incompiute

Arturo Graf

Enrico Thovez

Ceccardo Roccatagliata Ceccardi

˜

9.8 L’ALBA DEL NUOVO SECOLO ... L’Italia giolittiana.

Si è soliti definire i primi anni del Novecento con l’espressione «età giolittiana» per il ruolo di guida della politica nazionale assunto allora da Giovanni Giolitti. La situazione politica e sociale del paese presenta in realtà caratteri relativamente stabili in tutta la fase che va dal  al . Il sistema liberale, dopo i rischi di involuzione autoritaria profilatisi nell’ultimo decennio dell’Ottocento, sembra trovare un suo equilibrio, basato sull’abile opera di mediazione dei conflitti sociali operata da Giolitti e dalla vasta area politica che a lui si collega, a vantaggio del grande capitale del Nord: ciò permette di accelerare il processo di industrializzazione nelle regioni settentrionali (proprio nel momento in cui nei paesi occidentali, in Europa e negli Stati Uniti, si impongono nuove tecnologie e nuove invenzioni), grazie anche a una politica protezionistica, che mette al riparo dalla concorrenza straniera e favorisce i grandi monopoli e le grandi concentrazioni finanziarie. Tra laceranti contraddizioni si registra comunque un considerevole miglioramento della qualità della vita, con la diffusione di nuovi servizi pubblici nelle città e una relativa espansione della cultura: il primo decennio del secolo vede tra l’altro ridursi notevolmente l’analfabetismo e ampliarsi di molto lo strato degli intellettuali piccolo-borghesi, soprattutto insegnanti e dipendenti statali. Si tratta di un nuovo pubblico, sensibile non soltanto alla letteratura di consumo o ai grandi modelli poetici, ma anche alle ideologie e alle prospettive politiche: in esso serpeggia una forte scontentezza per la situazione del paese, che genera sovente atteggiamenti estremistici e ambizioni sproporzionate.

Stabilità politica e industrializzazione

Percorsa da mille tendenze e conflitti, la cultura dell’età giolittiana vive un inquieto rapporto con la «modernità», un impulso a intervenire sul movimento del mondo, come mostrano vari autori dei quali si è trattato nei capitoli precedenti, già attivi nel tardo Ottocento e ancora all’inizio del nuovo secolo; di numerosi altri, operanti per un lungo periodo a partire dall’inizio del secolo, si parlerà nell’Epoca . Coerentemente al taglio che abbiamo dato alla nostra periodizzazione, in questo capitolo non copriremo tutto l’arco cronologico e tutte le esperienze culturali dell’età giolittiana, ma ci limiteremo a fornire alcune indicazioni generali sulle tendenze che caratterizzano il primo decennio del Novecento, rinviando a . la trattazione delle esperienze che si proiettano nel futuro, come quelle de «La Voce» e del futurismo, e mettendo invece a fuoco il crepuscolarismo.

Il difficile rapporto con la «modernità»

Gli intellettuali piccoloborghesi

... Tra protagonismo intellettuale e distruzione della ragione. La reazione al positivismo e al culto della scienza, che negli anni Novanta si era manifestata attraverso la riproposta dell’«ideale», si definisce meglio all’inizio del nuovo secolo: da una parte attraverso il rilancio dell’idealismo da parte di Croce (che assume un ruolo essenziale per l’estetica e la critica letteraria) e di Gentile (ma cfr. .); dall’altra attraverso un’ampia diffusione dell’estetismo e del superomismo dannunziano. Molti giovani che iniziano in questi anni la loro attività culturale si sentono attratti dai modelli di D’Annunzio e di Croce (molto spesso intrecciati, nonostante la loro diversità): ma in loro si fa strada un nuovo, prorompente bisogno di intervenire sul presente, di contribuire alla sua trasformazione, al movimento delle idee e della realtà. Si tratta in fondo di una ripresa di quell’orientamento «militante» già manifestatosi nella cultura risorgimentale (cfr. soprattutto . e .): ora, tuttavia, non interessa realizzare valori collettivi e unitari, segni di solidale coscienza nazionale, bensí elaborare continuamente il nuovo, rifiutare situazioni e ideologie assestate e riconosciute, dare sfogo alla propria vitalità, conquistare e dominare il mondo. Questi atteggiamenti intellettuali si intonano con il primo turbinoso affacciarsi della modernità, tentano di far acquisire velocità alla cultura, di metterla al passo con la rapida trasformazione guidata dall’industria e dai nuovi mezzi tecnici. Si inaugura cosí la dialettica dell’avanguardia (cfr. ..).

Croce e D’Annunzio

Una cultura militante Elaborare il nuovo

EPOCA

 Individualismo e protagonismo intellettuale

Le riviste fiorentine

Giovanni Papini, ribelle e «teppista»

Giuseppe Prezzolini



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Questa volontà di fare della coscienza intellettuale la spinta propulsiva della trasformazione del mondo assume subito toni irrazionalistici e individualistici, andando molto al di là del rifiuto della scienza positivistica: in polemica contro il sistema giolittiano e contro una borghesia priva di autentici ideali, che appare debole e imbelle e disposta al compromesso con il socialismo, si respingono i principî liberali e illuministici, la democrazia e l’umanitarismo; seguendo la suggestione del vitalismo dannunziano, si esaltano lo spirito di conquista, l’appropriazione della realtà, la ricerca di nuovi e assoluti spazi ideali, per imporli a tutto l’orizzonte della vita sociale. In questa battaglia gli intellettuali assumono un ruolo di protagonisti: contro la volgarità e la viltà del presente universo politico, essi si propongono come guida di un nuovo corso che deve coinvolgere la società, come un vero e proprio partito. Questi orientamenti trovarono la prima e piú battagliera espressione in tre riviste apparse a Firenze, che ebbero tra loro vari contatti e scambi: «Leonardo» (gennaio -agosto ), «Il Regno» (novembre -dicembre ), «Hermes» (gennaio -luglio ). Mentre «Il Regno», diretto da Corradini (cfr. ..), fu il portavoce del nazionalismo (cfr. ..) e «Hermes», fondato dal giovane Borgese (cfr. ..), si rapportò in modo problematico al modello dannunziano, «Leonardo» interpretava le aspirazioni di un «gruppo di giovini» che si volevano nella vita «pagani e individualisti», nel pensiero «personalisti ed idealisti», nell’arte ricercatori di una bellezza che rivelasse «una vita profonda e serena». Alla guida della rivista, con spirito polemico e aggressivo, furono due giovani che saranno poi per tutta la vita agitatori culturali, pronti ad annusare, ad annunciare, a seguire le idee fluttuanti nell’aria, a provocare e sorprendere con gesti improvvisi e clamorosi, con scelte paradossali. Si tratta del fiorentino GIOVANNI PAPINI (-) e di GIUSEPPE PREZZOLINI, nato a Perugia nel  e morto a Lugano nel ; questi due personaggi saranno protagonisti di varie vicende culturali negli anni successivi, specialmente nella zona tra «La Voce» e il futurismo. Papini prediligerà la parte di acre e malevolo ribelle e «teppista», disponibile a tutte le esperienze, a conversioni e a trasformazioni, fino a una clamorosa conversione al cattolicesimo durante la prima guerra mondiale. Dotato di maggior senso pratico, piú disposto a riconoscere il valore delle posizioni altrui e meno impegnato a esibire se stesso, Prezzolini, dopo le aggressive battaglie del «Leonardo», si muoverà come abile organizzatore e giornalista e si farà appassionato e lucido divulgatore dell’idealismo crociano; nonostante la sua simpatia per il fascismo, preferirà svolgere un’attività a distanza, come mediatore di cultura, operando a lungo anche in America (dal  al ).

... Nazionalismo e imperialismo. Il nuovo e articolato programma nazionalistico e imperialistico si ricollegava in Italia alla scontentezza diffusa per l’esito del processo risorgimentale (che tra l’altro aveva lasciato «irredenti», ancora sotto il dominio austriaco, i territori di Trento e di Trieste), per il ruolo di secondo piano che la nuova Italia svolgeva rispetto alle potenze europee, per le umiliazioni subite nei primi tentativi coloniali in Africa. Completava tale quadro la volontà di reagire alla diffusione del socialismo e al suo internazionalismo proletario, in un intreccio tra le aspirazioni di rivalsa della piccola borghesia, la sua ricerca di uno spazio sociale, e gli interessi del grande capitale industriale. Alfredo Oriani

Enrico Corradini

Nel nazionalismo confluivano, in una miscela nuova ed esplosiva, anche elementi della ideologia repubblicana e mazziniana, le istanze difensive del mondo agricolo, il rifiuto di un mondo borghese e industriale basato sulla forza del denaro, e confuse e provinciali aspirazioni eroico-tragiche, come dimostra l’opera vasta e pletorica di un intellettuale romagnolo isolato e quasi ignorato, ma interpretato poi come una sorta di nume tutelare e di antesignano del nazionalismo e del fascismo, ALFREDO ORIANI (-). Ma supremo ideologo e guida del nazionalismo italiano fu il già ricordato fondatore de «Il Regno», il toscano ENRICO CORRADINI (-), che scrisse opere teatrali dalle grandi ambizioni ma dallo scarso successo, e mol-

. L’ALBA DEL NUOVO SECOLO



teplici testi di propaganda e di teoria del nazionalismo; fu fondatore dell’Associazione Nazionalistica Italiana (), fiancheggiatore e poi esponente di primo piano del fascismo.

... Il socialismo e la cultura. La critica al positivismo e la ricerca di una nuova idealità nel primo decennio del Novecento non si risolvono in un vero e proprio rilancio della cultura cattolica, che si dibatte nel difficile tentativo di confrontarsi con le conquiste della cultura laica e con l’universo della modernità, in una serie di esperienze variamente collegabili al modernismo (cfr. .. e PAROLE, tav. ). In una situazione di crisi e di incertezza si trova anche la cultura socialista: si è notevolmente ridotto il suo ascendente sugli intellettuali, che in genere guardano con disdegno all’indefinito umanitarismo, alla pacifica fiducia nel progresso, alle vaghe tendenze positivistiche che sembrano prevalere nel socialismo italiano dell’età giolittiana. I gruppi dirigenti del partito socialista hanno un orientamento riformista: favorito dal nuovo spazio istituzionale che Giolitti riconosce al partito e dai notevoli miglioramenti ottenuti in questa fase dalla classe operaia, il riformismo italiano crede nello sviluppo industriale come strumento di emancipazione, di generale avanzamento della vita sociale; ma esso è soprattutto una pratica politica, non elabora nessuna vera teoria, nessun pensiero di portata piú ampia e problematica. Al pubblico dei lettori operai, d’altra parte, vengono proposti ancora i modelli di cultura popolare del secolo precedente, specialmente una narrativa con intenti educativi e sociali, che diffonde valori di solidarietà e di umanità, basandosi su elementari schemi del romanzo d’appendice e su banalizzati moduli naturalistici. Un romanzo «sociale» di ottimo livello è però costituito da Gli ammonitori () di GIOVANNI CENA (-). Una piú audace ricerca di letteratura operaia si deve al già ricordato Paolo Valera (cfr. ..), che nel  pubblicò un notevole romanzo, La folla, e curò praticamente da solo una battagliera e vivace rivista, chiamata anch’essa «La Folla», uscita tra il  e il  e poi tra il  e il . Alla scontentezza per la moderazione del riformismo è da ricondurre lo sviluppo del sindacalismo rivoluzionario, che vedeva nel sindacato e nella diretta e violenta azione sociale (la cui arma suprema era vista nello sciopero generale) lo strumento essenziale per rovesciare il capitalismo; tra gli esponenti italiani di questa tendenza, scrissero opere di rilievo ARTURO LABRIOLA (-) ed ENRICO LEONE (-).

Difficoltà del socialismo italiano

La pratica riformista

Una narrativa umanitarista Paolo Valera e La folla

Sindacalismo rivoluzionario e irrazionalismo

... La ricerca solitaria di Gian Pietro Lucini. Estraneo a tutti gli orientamenti dominanti nella cultura di inizio secolo, spirito ribelle e intollerante, esuberante e disordinato sperimentatore, diviso fra tradizione e anticipazioni del futuro, GIAN PIETRO LUCINI visse una vita breve e infelice: nato a Milano nel  da nobile famiglia, fu colto in giovinezza dalla tubercolosi, che minò il suo fisico e lo ridusse all’immobilità, fino alla morte, avvenuta nel  nella sua villa di Breglia, sul lago di Como. Solitario, inquieto e irascibile, animato da un furore che si rivolgeva soprattutto contro i valori imperanti e le glorie riconosciute e assestate, sviluppò un atteggiamento anarchico, antireligioso, antimilitarista, e un coerente spirito antiborghese, lontano dalle ideologie decadenti e irrazionalistiche, attento alle classi oppresse, a coloro che vivevano ai margini della società e della cultura. Con grande passione mirò a una letteratura che guardasse al «nuovo», che chiamasse in causa la società e la storia nel suo complesso, e si impegnò convulsamente nella ricerca di inediti modi espressivi, nella proposta di forme sperimentali, nella riflessione su tecniche e tendenze innovative, accumulando con furia materiali del tipo piú vario, anche senza discriminazione (oltre alle opere pubblicate in vita, ha lasciato molti scritti inediti, che hanno visto la luce soltanto in anni recenti).

Coerenza antiborghese

EPOCA

 Incontro con il simbolismo

Audacia teorica e limiti pratici

Revolverate: le «marionette» della vita borghese



LA NUOVA ITALIA

-

L’esercizio di una critica letteraria animata da vivaci spunti polemici si accompagna sempre in Lucini alla riflessione teorica, al tentativo di definire percorsi di sperimentazione, e in ciò fu per lui essenziale l’incontro con il simbolismo (cfr. .. e PAROLE, tav. ): in numerosi scritti egli tracciò infatti le linee di una teoria generale del simbolo, inteso come espressione poetica di un futuro che liberasse l’uomo da ogni oppressione, che realizzasse tutte le sue potenzialità. Lucini auspicava inoltre la liberazione delle stesse forme metriche e condusse una battaglia per il verso libero, anticipando cosí le scelte del futurismo (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ). Rispetto alle sue vivaci prospettive critiche e teoriche, la scrittura di Lucini resta insoddisfacente, come sopraffatta dal volontarismo, da un eccesso di ambizioni, da uno scarso controllo linguistico e stilistico: tra le sue opere scomposte e farraginose che conservano sempre qualche motivo di interesse, qualche spunto di grande forza conoscitiva, ricordiamo il romanzo di impianto naturalistico Gian Pietro da Core () e le opere in versi, basate sul miscuglio di generi diversi (lirico, storico-narrativo, drammatico). La sua denuncia dell’ipocrisia sociale raggiunse i toni piú pungenti nella raccolta Revolverate, pubblicata nel  con prefazione di Marinetti: qui Lucini, sull’onda di un vendicativo sarcasmo, muove le piú diverse «marionette» della vita borghese (dall’avventuriero coloniale all’uomo di mondo, dalla prostituta all’ideologo imperialista), che sciorinano, nel fluire del verso libero, tutta la variopinta serie dei luoghi comuni del loro linguaggio, assimilabile a quello della moda e del giornalismo. A questo mondo infrollito e falso si oppone l’immagine straniante degli esclusi e degli oppressi, delle masse che lavorano e soffrono.

... La poesia come scoperta della crisi: il crepuscolarismo. Il rifiuto del poeta-vate

Svalutazione del ruolo della poesia

Lo spirito di rivolta di cui si è parlato in .., basato sul vitalismo e sull’irrazionalismo individualistico, tende a esaltare il ruolo dell’intellettuale e dello scrittore, visto come promotore del movimento della storia, come creatore delle forze dell’avvenire: ma negli stessi anni si svolgono, in ambienti diversi, alcune esperienze poetiche che, al contrario, svalutano la funzione del poeta, giudicandola marginale, non collimante con i grandi valori e disegni collettivi. Sono esperienze che si è soliti indicare con il termine di crepuscolarismo (cfr. PAROLE, tav. ). La condizione della poesia viene ora confrontata con i caratteri reali del mondo moderno: i nuovi poeti, di origine borghese o piú spesso piccolo-borghese, riconoscono il carattere illusorio di ogni uso ufficiale, celebrativo, vitalistico della parola, avvertono una fratVERSO LIBERO

GENERI E TECNICHE

tav. 204

Con questo termine piuttosto generico si designano tutte le forme di versificazione e di metrica che, a partire dal tardo Ottocento, rompono la regolarità tradizionale, variando il numero delle sillabe dei versi e facendo saltare le strutture strofiche chiuse. La versificazione libera si diffuse in Francia verso la fine dell’Ottocento nell’ambito della poesia simbolista. Varie sperimentazioni che conducono al verso libero possono trovarsi in Italia già nella poesia degli scapigliati; la stessa metrica barbara carducciana (cfr. GENERI E TECNICHE, tav.  costituisce un importante punto di riferimento per una rottura dei vincoli della metrica tradizionale; ma un impetuoso sviluppo del verso libero si ha soprattutto nel primo decennio del Novecento, con l’appassionata teorizzazione di Lucini (cfr. ..), con la nuova poesia dei crepuscolari (cfr. ..) e con la violenta rivoluzione dei futuristi (cfr. .. sgg.). Tutte le sperimentazioni delle avanguardie fanno leva sul verso libero, ma esso penetra progressivamente anche in quella poesia che conserva forti legami con la tradizione. Va tenuto presente che la poesia moderna oscilla tra forme di metrica libera e forme del tutto aperte, in cui la scansione dei versi segue solo il ritmo del pensiero, dell’emozione, del procedere casuale della parola. Infatti il ritmo può essere affidato soltanto al caso, a rumori e a contesti esterni: ma spesso la presenza di versi tradizionali o di misure che a essi somigliano serve a costituire criteri di organizzazione anche per le strutture piú aperte e irregolari.

. L’ALBA DEL NUOVO SECOLO

tura totale tra gli alti raggiungimenti dell’arte e la vorticosa accelerazione del mondo moderno; ma non credono nemmeno piú che l’arte possa attribuirsi la missione di combattere contro il mondo borghese e suggerire valori alternativi e assoluti. Essi cercano un linguaggio che non falsifichi l’esperienza presente, ma nello stesso tempo evitano ogni partecipazione al movimento del mondo, ogni proiezione costruttiva verso il futuro; sono lontanissimi dal magnificare le forze della «vita» e non credono piú che la poesia debba assurgere (come pretendeva il D’Annunzio delle Laudi) a guida per la conquista di un nuovo mondo umano. I poeti cosiddetti «crepuscolari» (le cui prime esperienze si svolgono proprio negli anni della pubblicazione delle Laudi) rendono quindi conto nel modo piú coerente di una condizione di «crisi» della poesia e dell’arte nel momento di maggiore accelerazione della modernità: a questa crisi essi non rispondono con una ribellione veemente (come, in un contesto tutto diverso, aveva fatto la Scapigliatura), ma con una coerente scelta linguistica e porgendo attenzione a realtà dimesse, elementari, di breve respiro. Si pongono fuori delle grandi direttrici storiche e intellettuali, tendono a mettersi tra parentesi, guardando alle piccole cose (ma senza attribuire a esse quei valori segreti che vi cercava Pascoli), a frammentarie presenze, agli oggetti umili o dimenticati, a situazioni banali, alla «grigia» quotidianità. Il crepuscolarismo non è un movimento o un gruppo compatto, ma un insieme di autori accomunati in primo luogo dal rifiuto dei clamori e delle ambizioni della poesia ufficiale e dalla non partecipazione alla battaglia intellettuale contemporanea. Ma, su questa base, esso opera una vera rivoluzione stilistica, dando uno sbocco reale a quella esigenza di nuovo che percorreva la poesia tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento; con i poeti crepuscolari la rottura con il linguaggio poetico della tradizione è totale: vengono definitivamente abbandonate le forme auliche e classicistiche (che persistevano ancora entro il tessuto pur cosí nuovo della lingua di Pascoli), si immettono nella poesia materiali e toni di tipo prosastico. Si tratta di una conquista anche linguistica del mondo quotidiano, poiché «si nominano» anche gli aspetti normali e banali della vita piccolo-borghese: ora il linguaggio della poesia italiana non vuol essere a un livello «piú alto» di quello dell’esistenza, si sottopone a una trasformazione che fa della prosa, del comune parlato quotidiano, una propria forza interna, capace addirittura di produrre nuove musicalità. Questo desiderio di prosa porta a una piena affermazione del verso libero (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ) e agisce anche quando vengono esteriormente rispettate le forme metriche tradizionali. Alle radici di questa rivoluzione «crepuscolare» stanno vari orientamenti della poesia di fine Ottocento, in primo luogo alcune tendenze del tardo simbolismo francese e fiammingo, alcuni aspetti della Scapigliatura, vari tentativi «realistici» di età carducciana, il D’Annunzio del Poema paradisiaco (cfr. ..), e soprattutto il Pascoli delle Myricae e dei Canti di Castelvecchio.



Contro il sublime

Poesia del grigiore quotidiano

Verso il parlato

I modelli

CREPUSCOLARISMO

Il primo a usare il termine come categoria critica fu Giuseppe Antonio Borgese (cfr. ..), in un articolo apparso su «La Stampa» il ° settembre , Poesia crepuscolare, dedicato a raccolte poetiche di Moretti, Martini e Chiaves. Scegliendo la metafora del crepuscolo per indicare una situazione di spegnimento e di declino, il predominio di toni smorzati e attenuati, il critico parlava di «lirici che s’annoiano e non hanno che un’emozione da cantare: la torpida e limacciosa malinconia di non aver nulla da dire e da fare». Borgese vedeva in questa poesia «una voce crepuscolare, la voce di una gloriosa poesia che si spegne», ne indicava le distanze dalla poesia precedente e riconosceva sue essenziali ascendenze nel D’Annunzio del Poema paradisiaco e in Pascoli. Nel  Scipio Slataper (cfr. ..) riprendeva dal testo stesso della Signorina Felicita di Gozzano l’espressione «perplessità crepuscolare». Il termine prese cosí subito a circolare ampiamente nella critica e diventò abituale per definire un gruppo di poeti che non costituivano peraltro una vera e propria «scuola», ma erano collegati da temi e scelte linguistiche e da un comune rifiuto di ogni forma di poesia eroica e sublime.

PAROLE

tav. 205

EPOCA



Il fascino dell’usuale



LA NUOVA ITALIA

-

Rispetto ai loro modelli, i crepuscolari conquistano una capacità tutta nuova di far parlare e respirare le semplici cose, senza operare discriminazioni tra cose poetiche e cose non poetiche e senza cercare in esse valenze segrete, ma scoprendo la poesia di ciò che è usuale, comune, mediocre; ciò comporta, qualche volta, il rischio di un certo compiacimento per quel limitato orizzonte, la chiusura entro un repertorio elementare di oggetti e di situazioni. Ma se si guarda alla cultura italiana all’alba del nuovo secolo, alle roboanti e distruttive ambizioni vitalistiche che in essa prendevano corpo, si deve comunque riconoscere il rilievo dell’esperienza crepuscolare, della sua riduzione della poesia a misure cosí tenui e marginali: dalla sua sostanziale rivoluzione linguistica prenderà le mosse gran parte della poesia del Novecento. I primi testi definibili come «crepuscolari» nascono tra il  e il , per opera di Govoni (per il quale cfr. ..), Corazzini, Gozzano, Moretti, e, per una breve fase, Palazzeschi (cfr. ..).

... Sergio Corazzini. La vita e le opere

In attesa della morte

Nella sua brevissima vita, distrutta dalla tubercolosi, il romano SERGIO CORAZZINI (-) fu impiegato presso una compagnia di assicurazioni. Ingegno precoce e sensibile, Corazzini pubblicò tra il  e la morte una serie di piccoli volumi di poesie, tra i quali Dolcezze (), Piccolo libro inutile (), Elegia (), Libro per la sera della domenica (), sperimentando, anche in modo audace e coerente, il verso libero. La sua biografia, la sua vita strozzata dal male e dall’attesa della morte, lo pone in una condizione di poeta-fanciullo, che confronta la sua voce con la prossima fine. La sua poesia coglie il vuoto che si annida nelle cose, nel tempo, nella parola: sembra volersi svolgere in assenza di pubblico, nella musica di un «organo di Barberia» (figura assai amata dai crepuscolari) che «nessuno ascolta»; cerca un colloquio e una comunione di «anime» che si dia nel silenzio, che riesca a vivere entro la negazione della vita. In poche essenziali immagini Corazzini insegue questa vita che vive fuori di sé, queste voci inascoltate: vecchie canzoni di cui si è perso il ricordo e il senso, specchi che sembrano conservare la traccia di presenze svanite, sere domenicali piene di stanca tristezza, luoghi abitati da malati che attendono la morte.

... Guido Gozzano: vita e opere. La formazione

L’esordio letterario: La via del rifugio Poeta della rinuncia

La malattia

GUIDO GUSTAVO GOZZANO (che si fece poi chiamare soltanto Guido) nacque a Torino il  dicembre  da buona famiglia borghese, che possedeva ville nella zona di Agliè, nel Canavese, dove egli soggiornò a piú riprese. Si iscrisse alla Facoltà di legge, ma non giunse mai a laurearsi e preferí interessarsi di letteratura, seguendo all’università di Torino i corsi di Arturo Graf (cfr. ..), insieme ad alcuni giovani, che costituirono con lui il gruppo dei crepuscolari torinesi. Di salute malferma, non ebbe mai un vero lavoro, ma partecipò alla vita culturale e mondana della Torino di inizio secolo; dopo appassionate letture di Schopenhauer e di Nietzsche e dopo alcuni tentativi in versi di impronta dannunziana, rivelò la sua nuova poesia nel  con il volumetto La via del rifugio: il titolo indicava già chiaramente come egli cercasse nella poesia un «rifugio» dal turbine delle passioni e delle aspirazioni mondane, uno spazio ai margini, fuori da ambiziose prospettive storiche e intellettuali. La figura del poeta vi appariva sotto il segno della rinuncia alla vita e di una sospensione dei desideri, spesso con accenti fortemente patetico-sentimentali; ma vi si trovavano anche due dei componimenti piú originali di Gozzano, Le due strade e L’amica di nonna Speranza, che dovevano confluire nella piú importante raccolta successiva. Nello stesso  iniziò la sua inquieta relazione con la scrittrice torinese AMALIA GUGLIELMETTI (), con la quale intrattenne un rapporto epistolare assai interessante; e vide aggravarsi, in seguito a una pleurite, i segni della tubercolosi, che doveva condurlo alla morte. Alla vita torinese fu costretto ad alternare sempre piú frequentemente i soggiorni di cura al mare

. L’ALBA DEL NUOVO SECOLO

(soprattutto in Liguria) e in montagna, oltre che nella prediletta villa del Meleto ad Agliè. Nel  apparve il suo libro piú importante, I colloqui, che non ebbe il successo di pubblico del volume precedente, ma confermò comunque la fama di Gozzano; nel  compí un lungo viaggio in India, alla ricerca di climi adatti al suo stato di salute. Al ritorno egli pubblicò su vari giornali (in primo luogo «La Stampa» di Torino) alcune prose dedicate al viaggio, che furono raccolte postume nel  con il titolo Verso la cuna del mondo. In ogni momento della sua vita Gozzano collaborò a giornali e riviste con prose di vario genere, dalle recensioni letterarie alle fiabe per bambini e alle novelle. Dopo I colloqui pubblicò in riviste pochi componimenti poetici: la ricerca di nuove esperienze lo conduceva ora al di là del suo ironico pessimismo, verso una nuova forma di fede (una sorta di religione della natura). Prima della morte, avvenuta a Torino il  agosto , egli lavorò a un ampio poema in endecasillabi sciolti, modellato sui poemi didascalici settecenteschi e su alcune recenti opere di scrittori fiamminghi, le Farfalle. Epistole entomologiche, che rimase incompiuto. Abbandonato l’orizzonte dei Colloqui, Gozzano contempla qui, con sottile partecipazione, la vita di quegli insetti, animata dallo spirito profondo della natura: lo sguardo che rivolge alle farfalle e ai loro «sensi minimi» diventa uno sguardo struggente alla vita della poesia, alla sua inutilità e alla sua delicatezza, minacciata dall’«ingannevole» natura artificiale costruita dall’uomo moderno.



I colloqui Il viaggio in India

Farfalle: una religione della natura

... La poesia dei Colloqui. A parte la suggestiva prova, incompiuta, delle Farfalle, la poesia di Gozzano resta affidata ai Colloqui, nel cui organismo si dispongono ventiquattro componimenti in metri diversi, legati tra loro da una comune tematica e da un ritmo narrativo e colloquiale. La voce del poeta non si abbandona qui a una diretta effusione lirica, bensí disegna (quasi sempre parlando in prima persona) una ideale biografia intellettuale, costellata di figure in movimento, di luoghi e di vicende, che restano però quasi sospese, inafferrabili. Alla radice di questi versi c’è uno struggente ed elementare fondo romantico, un giovanile desiderio di felicità e di amore, di comunicazione appassionata e vitale, di bellezza, di dolcezza, di contatto con il mondo femminile. La formazione di Gozzano è stata segnata (anche a livello stilistico) dal dannunzianesimo, con il quale egli continua a confrontarsi anche dopo averne avvertito il carattere fittizio. La sua poesia piú autentica nasce quindi da un «dannunzianesimo rientrato» (Sanguineti): dopo essersi formato sulla poesia delle sensazioni trionfanti, della vitalità onnivora, Gozzano scopre invece la presenza quotidiana della malattia, della delusione, della incomunicabilità amorosa, della menzogna e della malinconia, che lo spinge a guardare non verso un futuro da conquistare, ma verso un passato fatto di esistenze fragili, marginali e irrilevanti. I romantici sogni iniziali si trasformano cosí in passione per tutto ciò che si perde e si cancella, per le vite appartate e ombrose, per i quieti interni casalinghi, per le stampe d’altri tempi, per le «buone cose di pessimo gusto». Desideroso di immergersi nella dimensione «borghese» piú incolore, egli sostituisce alla figura eroica del poeta-vate un esile soggetto umano, «un coso con due gambe / detto guidogozzano», che arriva a vergognarsi «d’essere un poeta»; e agli amori per donne fatali oppone gli amori ancillari, i rapporti privi di sentimento con cuoche, cameriste, «crestaie» o i sogni di quieti affetti con donne troppo da lui diverse e lontane. Questo rovesciamento del sublime poetico, artificioso e spettacolare, è però carico di ambiguità: nessuna scelta risulta veramente definitiva e consolante per il poeta. Tutta la poesia di Gozzano si costruisce cosí su un confronto, carico di ambigui risvolti, tra livelli diversi: anche per quanto riguarda la lingua, egli non crea un discorso direttamente prosaico, ma, come ha notato Montale, raggiunge grandi risultati proprio «facendo cozzare l’aulico con il prosaico», piegando il linguaggio della tradizione piú alta a toni da conversazione quotidiana, intrecciandolo a modi banalmente «borghesi», a termini del lessico piú grigio.

Un’ideale biografia intellettuale

Il confronto con i modelli

Rovesciamento del sublime

Tra livelli diversi

EPOCA



L’ironia gozzaniana

Le due strade

L’amica di nonna Speranza

La signorina Felicita



LA NUOVA ITALIA

-

La compresenza di diversi livelli stilistico-linguistici è al tempo stesso compresenza e confronto tra diverse possibilità di vita: per questa via si costruisce l’ironia di Gozzano, che corrode tutto il suo mondo poetico, le stesse figure «buone» (verso cui sembra andare la sua partecipazione sentimentale), la stessa figura del poeta, i suoi gesti, le sue parole. L’accento piú singolare di questa poesia sta proprio nell’inscindibile legame che essa istituisce tra il momento della partecipazione affettiva, del rimpianto per ciò che si perde, per la fragilità delle cose e delle esistenze, e il momento dell’ironia, che assume anche toni scostanti, ingrati, traducendosi in difesa dal rischio del sentimentalismo. I componimenti piú belli dei Colloqui ben manifestano questo confronto tra patetismo e ironia. In Le due strade, l’incontro del poeta, che passeggia insieme a una «Signora scaltra», con un’adolescente in bicicletta genera un immediato confronto tra opposte immagini della femminilità, tra la donna matura, «da troppo tempo bella, non piú bella tra poco», e la giovane «forte bella vivace bruna», da cui traspare il miraggio di un’inafferrabile felicità. Su un confronto tra presente e passato si regge L’amica di nonna Speranza, che prende spunto dall’amore del poeta per le vecchie stampe e le vecchie foto per rievocare appassionatamente il mondo borghese di metà Ottocento. Il confronto si dà spesso tra livelli sociali e intellettuali diversi, sotto il segno di un desiderio di comunicare con ciò che è estraneo, con chi non può capire il malessere del poeta; ecco dunque i rapporti amorosi con le domestiche (c’è addirittura un Elogio degli amori ancillari); ecco, soprattutto, l’amore vissuto nella reticenza e nella distanza, con una ragazza borghese, «quasi brutta, priva di lusinga», dai modesti orizzonti casalinghi e familiari: ce ne parla il celebre poemetto in sestine di endecasillabi La signorina Felicita ovvero La Felicità ().

... Un poeta che non ha «nulla da dire»: Marino Moretti. Normalità del vuoto

Mentre la poesia di Gozzano si caratterizza per il continuo confronto di piú livelli, quella di MARINO MORETTI si costruisce su una sorta di vuoto totale, sull’abbandono di qualunque valore, sull’accettazione incondizionata della normalità piú dimessa. L’esperienza poetica di Moretti sembrò chiudersi all’inizio della prima guerra mondiale, sostituita da un’ampia serie di opere narrative, di scritti di memoria e di divagazione, ma negli anni Sessanta il vecchio scrittore tornò a una sorprendente produzione in versi che si riallacciava alla sua esperienza iniziale. Con Moretti il crepuscolarismo manifesta la propria lunga vita, la propria singolare, sotterranea sopravvivenza.

Da Cesenatico a Firenze

Nato a Cesenatico nel , da una famiglia della piccola borghesia, Moretti restò sempre strettamente legato alle sue radici familiari e provinciali; ebbe un’infanzia e un’adolescenza difficili, segnate da cattivi risultati scolastici, e nel  si recò a Firenze dove si legò di grande amicizia con il coetaneo Palazzeschi. Al  risale la raccolta poetica Fraternità, cui seguirono quelle piú importanti, Poesie scritte col lapis (), Poesie di tutti i giorni () e Il giardino dei frutti (). Si diede poi a una lunga produzione narrativa, che ebbe un consistente successo di pubblico. Collaboratore assiduo del «Corriere della Sera», con prose del tipo piú vario, Moretti si presentò come figura di letterato «medio», discreto e civile, attento a trasmettere un’immagine «moderata» della letteratura. Superati gli ottant’anni, nella vecchia casa familiare di Cesenatico (dove morí nel ) tornò inaspettatamente all’attività poetica con quattro raccolte: L’ultima estate (), Tre anni e un giorno (), Le poverazze. Diario a due voci (), Diario senza le date ().

L’ultima produzione

La poesia di Moretti nasce da una condizione di totale inappartenenza ed estraneità ai modelli culturali vigenti. Egli iniziò guardando soprattutto a Pascoli, cercando, attraverso di lui, un linguaggio dell’intimità, delle cose concrete e limitate; ma non tentò alcuna idealizzazione delle piccole cose, alcuna ricerca di sensi nascosti e segreti, ed eluse qualunque richiamo del classicismo. Nelle tre raccolte pubblicate tra il  e il  riuscí a dare voce

. L’ALBA DEL NUOVO SECOLO

a una condizione particolare segnata dal non avere, dal non sapere, dal non essere: Moretti si vuole poeta proprio perché non partecipa al dibattito culturale, non possiede mezzi tecnici, né capacità di vita, non ha né «remo» né «ali», non ha letteralmente niente da dire («Aver qualcosa da dire / nel mondo a se stessi, alla gente. / Che cosa? Non so veramente / perché io non ho nulla da dire»). Su questo vuoto totale si svolge il filo esilissimo di una malinconia dolce e rassegnata, «versi staccati quasi senza senso», con una musica tenera, nello stesso tempo cinica e delicata, egoistica e affettuosa: partendo da un linguaggio quasi neutro, che riduce al minimo i richiami letterari, Moretti vi costruisce sopra, anche con sottili effetti metrici, una leggera melodia che fa pensare a un Metastasio al grado zero, trasformato in sereno cantore dell’indifferenza. Tornando alla poesia nella vecchiaia, Moretti ripropone quell’atteggiamento «minimo» attraverso una insistente conversazione musicale, in cui l’io del poeta sembra emergere miracolosamente fuori del tempo, e afferma una sopravvivenza che è continua sorpresa: il vecchio sembra scoprire se stesso proprio grazie alla sua condizione marginale e appartata, in cui tutte le cose si negano e insieme si riconoscono, in cui si svela la natura aleatoria del rapporto tra essere e non essere, tra sapere e non sapere, tra partecipare e non partecipare: è una poesia che trova la sua forza proprio nella sua inattualità, nella sua indifferenza al divenire.



Poesia come non essere

˜ TESTI

9.1 L’ITALIA BORGHESE E LIBERALE NELLA SOCIETÀ E NELLA CULTURA EUROPEA Graziadio Isaia Ascoli Lingua e dialetti in Italia

L’

importanza dell’opera linguistica e glottologica di Graziadio Isaia Ascoli deriva in gran parte dalla sua straordinaria capacità di integrare la prospettiva storica e la ricerca erudita con una inesausta progettualità concreta, in una capacità di intervenire con tutto il suo prestigio di studioso in un dibattito scottante come quello sulla lingua. Ancora nel Novecento proprio questo «doppio passo» dell’opera di Ascoli ne ha fatto un punto di riferimento tanto per gli studiosi di formazione accademica, che ne hanno sempre apprezzato il rigore, la vastità delle competenze e il ruolo di pioniere (nonché una precocissima attenzione alle diverse realtà regionali che sarà profondamente valorizzata, per esempio, da Carlo Dionisotti nella sua Geografia e storia della letteratura), quanto per gli intellettuali militanti schierati a difesa del plurilinguismo e delle differenti parlate regionali contro l’omologazione realizzata dalla radio e dalla televisione. Il testo qui antologizzato, tratto dalla voce sui dialetti e la lingua italiana composta per l’autorevole Enciclopedia Britannica e poi pubblicata sull’«Archivio glottologico italiano», VIII, 18821885 (rivista che lo stesso Ascoli aveva fondato nel 1873), testimonia della fama internazionale che Ascoli seppe guadagnarsi con i suoi lavori. In queste pagine troviamo riassunti i termini che lo studioso aveva piú diffusamente esposto nel Proemio programmatico all’«Archivio glottologico italiano» insieme con la condanna dell’ipotesi manzoniana, accusata di astrattezza, dirigismo e soprattutto di non tener conto della specificità del caso italiano, dove è sempre mancato un centro unificatore quale invece Parigi ha saputo essere per la Francia. Se perciò Ascoli manifestò sempre grande considerazione per l’opera letteraria di Manzoni, assai piú severo si presenta il suo giudizio nei confronti dei suoi imitatori, mostrando in definitiva come, applicata in modo meccanico, la soluzione de I Promessi Sposi non faccia che riproporre in forma diversa i medesimi difetti che si era proposta di sanare: astrattezza, eccessiva letterarietà e scollamento dalla lingua parlata tutti i giorni. Con conseguenze non meno deleterie anche sul piano dello stile e della riuscita propriamente artistica. [EDIZIONE: Lingua e dialetti in Italia, «Archivio glottologico italiano», VIII (1882-1885)]

L’italiano vero e proprio, non è la resultanza del latino volgare che si combini o collutti con altre favelle, ma è la limpida continuazione del solo latino volgare. In altri termini, qui si tratta di quell’antica fusion nazionale, per la quale appunto il latino volgare è surto. Qui è nativo, quel che altrove è immesso. – La maggior purezza della tempera del linguaggio si combina poi con una persistenza che rasenta l’invariabilità. Non c’è cosí un antico italiano da contrapporre al moderno, come al moderno francese si contrappone un antico. E se pur è vero, dall’un canto, che nelle antiche scritture francesi, o anche nelle dialettali dell’Alta Italia, c’entri piú o meno la tendenza degli autori a rannobilitare le forme ch’eran sulla bocca del popolo; com’è pur vero, dall’altro, che delle mutazioni ne ha pur sofferto lungo i secoli anche il toscano o il linguaggio che dagli Italiani si scrive; rimane però sempre, che nel primo caso si abbia a discorrere di trasformazioni generali tra l’antico e il nuovo; laddove è all’incontro evidente per tutti, che la lingua di Dante è l’italiano che ancor vive e si scri-

. resultanza: risultato, esito. . collutti: si scontri.

. surto: sorto.

Prospettiva storica e ricerca erudita nel dibattito sulla lingua

Condanna della posizione manzoniana

˜

EPOCA





LA NUOVA ITALIA

-

ve. Quando dunque era in sé spontaneo o genuino questo linguaggio, e tanto poi egli resulta invariabile; e dove all’incontro il latino volgare è stato assunto da gente alloglossa, la elaborazione, ch’egli subisce secondo le disposizioni orali di cotesta gente, si fa tanto maggiore, quanto piú ci allontaniamo dal punto della immissione, quanto cioè piú largamente, nello spazio e nel tempo, s’agita per quelle bocche la parola importata. […] Quanto alla precisa patria del linguaggio letterario dell’Italia, essa non solo si circoscrive in quella piú ristretta Toscana, che in sul principio di questo paragrafo era additata, ma essa è per l’appunto la città di Firenze. Prescindendo perciò da uno scarso numero di vocaboli che la lingua letteraria ha ricevuto dai dialetti d’altre parti d’Italia, come ne ha naturalmente avuto da piú linguaggi stranieri, si può dire, che tutto quanto non era toscano andasse ignorato dalla lingua delle lettere italiane. Se cosí noi ci risolleviamo all’Italia dialettale dei tempi di Dante, ritroveremo che vi si avesse perspicuo, per quasi tutto il continente, dalla Toscana in fuori, quel movimento di vocali tra singolare e plurale, che si rappresenterebbe per paese paisi, quello quilli, amore amuri; ma la lingua letteraria non ne sa punto, perché non ne sapeva la regione toscana. Ma nella Toscana stessa c’eran delle differenze tra fiorentino e non fiorentino; e in fiorentino si diceva e si dice, a cagion d’esempio: unto giunto punto, laddove nel non fiorentino: onto ponto gionto (lat. UNCTO ecc.). Orbene, sono appunto quelle forme fiorentine, che sole invalgono nel linguaggio letterario. Nelle antiche scritture volgari, e in ispecie nella poesia, gli autori non toscani piegavano, dall’un canto, il proprio dialetto all’analogia di quello in cui sentivano continuarsi piú schietta la parola dell’antica civiltà romana, cioè al toscano; mentre gli autori toscani, alla lor volta, non si rifiutavano di accoglier delle forme che nella famiglia dei letterati erano immesse da reputati scrittori d’altre regioni; e da questa condizione di cose trassero origine, in addietro, le molte dispute circa la patria vera e le origini della lingua letteraria degli Italiani. Ma eran dispute o dubitazioni a cui la scienza storica dei parlari italiani toglie in effetto ogni buon fondamento. Se l’antica poesia italiana assunse o mantenne delle forme aliene dalla parlata toscana, esse andarono successivamente eliminate per lasciare il campo, quasi senza eccezione, alle schiette forme toscane od anzi fiorentine, e rimane perciò compiutamente vero, che per tutto quanto concerne la fonetica, la morfologia, la sintassi rudimentale, e in somma tutto intiero lo stampo e la materia della parola e del discorso, nessun linguaggio letterario dell’Europa si potrebbe dire piú omogeneo ed uno, piú d’un sol getto, di quello che l’italiano sia. Ma all’incontro rimane altrettanto vero, che per quanto concerne la viva sicurezza e l’uniformità nell’uso e nello stile del linguaggio letterario, che è quanto dire di codesta materia, toscana o fiorentina, chiamata a alimentare la civiltà e la cultura di tutti gl’Italiani, la cosa muta non poco d’aspetto, e la nazione italiana qui appare in condizioni men buone che non sieno quelle d’altre nazioni europee. L’Italia moderna non ebbe un centro in cui fervesse la vita della nazione intiera, e da cui per ciò sgorgasse continuamente un pensiero o un linguaggio assorbente e collettivo: Firenze non è stata Parigi. L’attiguità territoriale e la scarsa differenza del dialetto indigeno rendettero facile nella moderna Roma un buon conguaglio della lingua della conversazione con la lingua letteraria che veniva di Toscana. Ne uscí un linguaggio, che di certo non ha le grazie o l’abbondante duttilità del parlare fiorentino; ma è pur tale, che dà una bell’imagine di quel che naturalmente diventi il dialetto di un municipio nel farsi la lingua di una nazione che matura in molti e disparati centri la

. alloglossa: parlante un altro idioma. . ci risolleviamo: ritorniamo indietro, ci rivolgiamo. . perspicuo: evidente. . non ne sa punto: non conosce questo genere di soluzioni.

. a cagion d’esempio: per esempio. . invalgono: si affermano. . piegavano: conformavano. . all’incontro: viceversa. . rendettero: resero. . conguaglio: convergenza, combinazione.

T. L’ITALIA BORGHESE E LIBERALE NELLA SOCIETÀ E NELLA CULTURA EUROPEA. GRAZIADIO ISAIA ASCOLI

propria civiltà. Perde allora il dialetto quanto sa di gergo (ma insieme una certa parte della sua freschezza), e viene a esprimere con sobrietà piú riflessa, con elevatezza piú sicura, il pensiero e il sentimento delle genti diverse che si confondono in una stessa vita nazionale. Ma quello che in Roma avveniva facilmente, non poteva cosí compirsi nelle regioni i cui dialetti distavan grandemente dal toscano. Nel Piemonte, a cagione d’esempio, o nella Lombardia, la lingua della conversazione non si conguagliava con la lingua dei libri; e questa diventava artificiale e stentata. La poesia meno si risentiva delle non liete condizioni; poiché un linguaggio vario e mal fisso, che richieda o conceda l’arbitrio o l’individuale impronta di chi scrive, può alla poesia convenire. Ma troppo ne soffriva la prosa; e doveva fare giusta invidia agli Italiani la spontaneità e la sicurezza della prosa d’altre letterature, della francese in ispecie. In questa legittima invidia ha la sua ragione e la sua forza la scuola capitanata da Manzoni, che aspira a quell’assoluta naturalezza del linguaggio letterario, a quell’assoluta identità tra il linguaggio della conversazione e quello dei libri, che la generalità degl’Italiani non potrebbe conseguire e mantenere se non connaturandosi la viva favella dell’odierna Firenze. La riscossa del Manzoni contro quanto era invalso di artificiale e ammanierato nella lingua e nello stile, è stata grandemente fruttuosa, e degna del suo genio. Ma la differenza storica tra il caso della Francia (lingua della conversazione di Parigi) e quello dell’Italia (lingua della conversazione di Firenze), è tale che implica piú di una difficoltà di principio, qui or volendosi produrre, come per opera postuma di letterati, quel che nella Francia è stato e rimane il prodotto necessario e spontaneo della civiltà universale. Le teorie del Manzoni si prestarono troppo facilmente a esagerazioni deplorevoli; si cadde in una nuova artifiziosità, in una maniera di scrivere, che potrebbe dirsi vernacolare e quasi gergale; alla quale dovrà portar rimedio l’azione moderatrice del lavoro sempre piú largo, piú assiduo e veramente collettivo della risorta intelligenza nazionale.

. non liete: non buone. . ammanierato: manierato. . come per opera postuma di letterati: è questo il fulcro della critica di Ascoli alla proposta manzoniana: alla pretesa cioè di forgiare a piacimento la lingua imponendo all’evoluzione storica peculiare dell’Italia un modello astratto di sviluppo preleva-

to dalla Francia. Ai pochi scrittori è contrapposta cosí la civiltà universale, all’artificio la spontaneità, poiché la lingua rappresenta per Ascoli il prodotto dell’intero insieme dei parlanti e degli scriventi e non può essere modificata a piacimento di un piccolo gruppo di individui.



˜ TESTI

9.2 SCAPIGLIATURA E DINTORNI Iginio Ugo Tarchetti La lettera U (Manoscritto d’un pazzo) (da Racconti fantastici)

l

a novella, che con ogni probabilità fu scritta nel 1868, fu pubblicata nel 1869, all’indomani della morte dello scrittore appena trentenne, in un volume che ne raccoglieva i Racconti fantastici. Si tratta di una delle vette piú drammatiche e originali della narrativa scapigliata, sospesa fra l’accesa messa in scena di una patologia interiore (esplicitamente segnalata nel sottotitolo) e un umorismo nero e paradossale che risente della lezione di Lawrence Sterne e che Tarchetti drammatizza in senso quasi espressionistico: la sua frequentazione di Sterne (cfr. CANONE EUROPEO, tav. 117) è del resto evidente anche in altri scritti, come in uno di quelli piú strambi, Ad un moscone: viaggio sentimentale nel giardino Balzaretti. La cornice di questa novella, rispondente al topos del manoscritto ritrovato, si rivela solo alla fine in maniera quanto mai laconica, quasi indicando una sorta di collusione fra i due narratori (colui che raccoglie, e pubblica, il testo – l’Autore stesso? – e il «pazzo», a cui si deve invece la stesura del «manoscritto»); d’altra parte, la «U» contenuta nel nome del narrante-protagonista può alludere a quella di «Ugo», che non fu però originario per Tarchetti, ma da lui assunto in omaggio al Foscolo. Andrà notato peraltro come, fin nell’impaginazione, nel groviglio tra le sfere sensoriali (tra il sonoro e il visivo) qui messo in campo, questo racconto sembri preludere, per vie misteriosissime, al celebre sonetto di Arthur Rimbaud, Voyelles (“Vocali”: cfr. CANONE EUROPEO, tav. 179), «manifesto» per una nuova poesia segnata da una sensibilizzazione sinestetica e dal dominio della magmatica retorica del profondo. La consapevolezza di aver prodotto una vera e propria «invenzione» letteraria sembra manifestarsi nella didascalia finale (tipica a quell’epoca di molte rubriche di riviste popolari), in cui la voce che ha raccolto il «manoscritto» non trova miglior modo per definirlo che, astrattamente, linee («righe»); d’altra parte, sembra qui prefigurarsi, fino alle conseguenze piú estreme, quella mitica idea di una «predominanza del significante» che, da Saussure in avanti, si definirà come tratto fra i piú tipici nella letteratura moderna. Con questa straordinaria «performance» narrativa, di grande modernità e suggestione (si pensi, nelle battute iniziali, alla descrizione dettagliatissima e alterata della forma della lettera, e il successivo «viaggio» all’interno di essa…), Tarchetti sembra staccarsi dai modelli, soprattutto francesi (Gautier, in special modo), da cui aveva preso avvio la sua novellistica «fantastica», per riaccostarsi all’alto sperimentalismo dello Sterne del Tristram Shandy e produrre un prototipo letterario praticabile, poi, dalle avanguardie. Nemmeno troppo piú avanti, infatti, ritroveremo il dinamismo di quella «U» nei trionfalistici (e per nulla piú interiorizzanti) giochi fonetici del Futurismo. [EDIZIONE: Iginio Ugo Tarchetti, Tutte le opere, a cura di E. Ghidetti, vol. II, Cappelli, Bologna 1967]

«U! U! Ho io scritto questa lettera terribile, questa vocale spaventosa? L’ho io delineata esattamente? L’ho io tracciata in tutta la sua esattezza tremenda, co’ suoi profili fatali, colle sue . profili fatali: il tema della «fatalità» ricorre assai spesso nell’opera di Tarchetti; esso implica, insieme, un senso di maledizione e di ineluttabilità, dovuto all’azione di una divinità malevola (come in Boito). Lo si può vedere in un altro dei Racconti fantastici, intitolato proprio I fatali (dove si fron-

teggiano due misteriosi personaggi, portatori entrambi di jettatura); e nel romanzo Fosca, dove il protagonista, un giovane ufficiale, verrà progressivamente soggiogato (e quasi vampirizzato, quanto meno sotto il profilo emotivo) da una epilettica femme fatale, donna «fatale» non per la sua bellez-

Drammaticità e umorismo nero La lezione di Lawrence Sterne Il topos del manoscritto

Sinestesie rimbaudiane

Modernità anticipatrice del Futurismo

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due punte detestate, colla sua curva abborrita? Ho io ben vergata questa lettera, il cui suono mi fa rabbrividire, la cui vista mi riempie di terrore? Sí, io l’ho scritta. Ed eccovela ancora: U Eccovela un’altra volta: U Guardatela, affissatela bene – non tremate, non impallidite – abbiate il coraggio di sostenerne la vista, di osservarne tutte le parti, di esaminarne tutti i dettagli, di vincere tutto l’orrore che v’ispira… Questo U!… questo segno fatale, questa lettera abborrita, questa vocale tremenda! E l’avete ora veduta?… Ma che dico?… Chi di voi non l’ha veduta, non l’ha scritta, non l’ha pronunciata le mille volte? – Lo so; ma io vi domanderò bensí: chi di voi l’ha esaminata? chi l’ha analizzata, chi ne ha studiato la forma, l’espressione, l’influenza? Chi ne ha fatto l’oggetto delle sue indagini, delle sue occupazioni, delle sue veglie? Chi vi ha posato sopra il suo pensiero per tutti gli anni della sua vita? Perché… voi non vedete in questo segno che una lettera mite, innocua come le altre; perché l’abitudine vi ci ha resi indifferenti; perché la vostra apatia vi ha distolto dallo studiarne piú accuratamente i caratteri… ma io… Se voi sapeste ciò che io ho veduto!… se voi sapeste ciò che io vedo in questa vocale! U E consideratela ora meco. Guardatela bene, guardatela attentamente, spassionatamente, fissi! E cosí, che ne dite? Quella linea che si curva e s’inforca – quelle delle due punte che vi guardano immobili, che si guardano immobili – quelle delle due lineette che ne troncano inesorabilmente, terribilmente le cime – quell’arco inferiore, sul quale la lettera oscilla e si dondola sogghignando – e nell’interno quel nero, quel vuoto, quell’orribile vuoto che si affaccia dall’apertura delle due aste, e si ricongiunge e si perde nell’infinità dello spazio… Ma ciò è ancor nulla. Coraggio! Raddoppiate la vostra potenza d’intuizione; gettatevi uno sguardo piú indagatore. Partite da una delle due punte, seguite la curva esterna, discendete, avvicinatevi all’arco, passatevi sotto, risalite, raggiungete la punta opposta… Che cosa avete veduto? Attendete! Compite adesso un viaggio a rovescio. Discendete lungo la linea interna – discendetevi con coraggio, con energia – raggiungete il fondo, arrestatevi, fermatevi un istante, esaminatelo attentamente; poi risalite fino alla punta d’onde eravate partito dapprima… Tremate? impallidite? Non basta ancora! Posatevi un istante sulle due linee che ne tagliano le punte; andate dall’una all’altra; poi guardate l’assieme della lettera, guardatela d’un sol colpo d’occhio, esaminatene tutti i pro-

za (anzi, Fosca è una donna brutta), ma per la sua malattia e il suo disperato attaccamento alla vita.

. vergata: scritta a mano.

T. SCAPIGLIATURA E DINTORNI. IGINIO UGO TARCHETTI

fili, afferratene tutta l’espressione… e ditemi se non siete paralizzati, se non siete vinti, se non siete annichiliti da questa vista?!?! Ecco. Io vi scrivo qui tutte le vocali: a e i o u Le vedete? Sono queste? a e i o u Ebbene?! Ma non basta il vederle. Sentiamone ora il suono. A – L’espressione della sincerità, della schiettezza, d’una sorpresa lieve, ma dolce. E – La gentilezza, la tenerezza espressa tutta in un suono. I – Che gioia! Che gioia viva e profonda! O – Che sorpresa! che meraviglia! ma che sorpresa grata! Che schiettezza rozza, ma maschia in quella lettera! Sentite ora l’U. Pronunciatelo. Traetelo fuori dai precordi piú profondi, ma pronunciatelo bene: U! uh!! uhh!!! uhhh!!!! Non rabbrividite? Non tremate a questo suono? Non vi sentite il ruggito della fiera, il lamento che emette il dolore, tutte le voci della natura soffrente e agitata? Non comprendete che vi è qualche cosa d’infernale, di profondo, di tenebroso in quel suono? Dio! che lettera terribile! che vocale spaventosa!! Vi voglio raccontare la mia vita. Voglio che sappiate in che modo questa lettera mi ha trascinato ad una colpa, e ad una pena ignominiosa e immeritata. Io nacqui predestinato. Una terribile condanna pesava sopra di me fino dal primo giorno della mia esistenza: il mio nome conteneva un U. Da ciò tutte le sventure della mia vita. A sette anni fui avviato alle scuole. Un istinto, di cui ignorava ancora le cause, mi impediva di apprendere quella lettera, di scriverla: ogni volta che mi si facevano leggere le vocali mi arrestava, mio malgrado, d’innanzi all’U; mi veniva meno la voce, un panico indescrivibile s’impossessava di me – io non poteva pronunciare quella vocale! Scriverla? era peggio! La mia mano sicura nel vergare le altre, diventava convulsa e tremante allorché mi accingeva a scrivere questa. Ora le aste erano troppo convergenti, ora troppo divergenti; ora formavano un V diritto, ora un capovolto; non poteva tracciare in nessun modo la curva, e spesso non riusciva che a formare una linea serpeggiante e confusa. Il maestro mi dava del quadrello sulle dita – io m’inacerbiva e piangeva. Aveva dodici anni, allorché un giorno vidi scritto sulla lavagna un U colossale, cosí: V

U . precordi: le regioni della parte anteriore del torace (alla lettera: anteriori al cuore), in senso sia fisiologico che emotivo. . Io nacqui predestinato: ancora una ricorrenza (e ancor piú esplicita, stavolta) del tema della «fatalità». . il mio nome … sventure della mia vita: è qui che è piú palpabile (e decisiva, fino a gettare una stra-

na luce umoristica sul tutto) la presenza dello Sterne: è ne La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo che il protagonista-narrante attribuisce all’apposizione di quel nome (Tristram, appunto) la causa prima delle proprie sventure (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ). . mi dava del quadrello: mi batteva con il righello.

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Io stava seduto di fronte alla lavagna. Quella vocale era lí, e pareva guardarmi, pareva affissarmi e sfidarmi. Non so qual coraggio mi nascesse improvvisamente nel cuore: certo il tempo della rivelazione era giunto! Quella lettera ed io eravamo nemici; accettai la sfida, mi posi il capo tra le mani e incominciai a guardarla… Passai alcune ore in quella contemplazione. Fu allora che io compresi tutto, che io vidi tuttociò che vi ho ora detto, o tentato almeno di dirvi, giacché il dirvelo esattamente è impossibile. Io indovinai le ragioni della mia ripugnanza, del mio odio; e progettai una guerra mortale a quella lettera. Incominciai col togliere quanti libri poteva a’ miei compagni e cancellarvi tutti gli U che mi venivano sott’occhio. Non era che il principio della mia vendetta. Fui cacciato dalle scuole. Vi ritornai tuttavia piú tardi. Il mio maestro si chiamava Aurelio Tubuni. Tre U!! Io lo abborriva per questo. Un giorno scrissi sulla lavagna: Morte all’U! Egli attribuí a sé medesimo quella minaccia. Fui ricacciato. Ottenni ancora di tornarvi una terza volta. Presentai allora, come lavoro di esame, un progetto relativo all’abolizione di questa vocale, alla sua espulsione dalle lettere dell’alfabeto. Non fui compreso. Fui tacciato di follia. I miei compagni, conosciuta cosí la mia avversione a quella vocale, incominciarono contro di me una guerra terribile. Io vedeva, io trovava degli U da tutte le parti: essi ne scrivevano dappertutto: sui miei libri, sulle pareti, sui banchi, sulla lavagna – i miei quaderni, le mie carte ne erano ripieni: né io poteva difendermi da questa persecuzione sanguinosa ed atroce. Un giorno trovai nella mia saccoccia una cartolina, su cui ne era scritta una lunga fila in questo modo infernale, cosí:

U

U

U

U

U

U

U

U



Divenni furente! La vita di tutti quegli U disposti in questa guisa, collocati con questa gradazione tremenda, mi trasse di senno. Sentii salirmi il sangue alle tempia, sconvolgersi la mia ragione… Corsi alla scuola; ed afferrato alla gola uno de’ miei compagni, l’avrei per fermo soffocato, se non mi fosse stato tolto di mano. Era la prima colpa a cui mi trascinava quella vocale! Mi fu impedito di continuare i miei studi. Allora incominciai a vivere da solo, a pensare, a meditare, ad operare da solo. Entrai in una nuova sfera di osservazioni, in una sfera piú elevata, piú attiva: studiai i rapporti che legavano ai destini dell’umanità questa lettera fatale; ne trovai tutte le fila, ne scopersi tutte le cause, ne indovinai tutte le leggi; e scrissi ed elaborai, in cinque lunghi anni di fatica, un lavoro voluminoso, nel quale mi proponeva di dimostrare come tutte le umane calamità non procedessero da altre cause che dall’esistenza dell’U, e dall’uso che ne facciamo nella scritturazione e nel linguaggio; e come fosse possibile il sopprimerlo, e rimediare, e prevenire i mali che ci minaccia. Lo credereste? non trovai mezzo di dare alla luce la mia opera. La società ricusava da me quel rimedio che solo poteva ancora guarirla. A venti anni mi accesi d’amore per una fanciulla, e ne fui riamato. Essa era divinamente buona, divinamente bella: ci amammo al solo vederci; e quando potei parlarle, le chiesi: – Come vi chiamate? – Ulrica! – Ulrica! – U. Un U! Era una cosa orribile. Come sottomettermi alla violenza atroce, continua di quella vocale? Il mio amore era tutto per me, ma nondimeno trovai la forza di rinunziarvi. Abbandonai Ulrica.

. l’adozione di questo espediente grafico fa pensare, nuovamente, agli strambi grafismi nello Shandy sterniano; e sembra anticipare le tavole pa-

rolibere che saranno dei futuristi un quarantennio piú tardi (cfr. ..). . ci minaccia: il soggetto è ancora U.

T. SCAPIGLIATURA E DINTORNI. IGINIO UGO TARCHETTI

Tentai di guarirmi con un altro affetto. Diedi il mio cuore ad un’altra fanciulla. Lo credereste? Seppi piú tardi che si chiamava Giulia. Mi divisi anche da quella. Ebbi un terzo amore. L’esperienza mi aveva reso cauto: m’informai del suo nome prima di darle il mio cuore. Si chiamava Annetta. Finalmente! Apparecchiammo per le nozze, tutto era combinato, stabilito, allorché, nell’esaminare il suo certificato di nascita, scopersi con orrore che il suo nome di Annetta non era che un vezzeggiativo, un abbreviativo di Susanna, Susannetta, e oltre ciò – inorridite! aveva cinque altri nomi di battesimo: Postumia, Uria, Umberta, Giuditta e Lucia . Immaginate se io mi sentissi rabbrividire nel leggere quei nomi! – lacerai sull’istante il contratto nuziale, rinfacciai a quel mostro di perfidia il suo tradimento feroce, e mi allontanai per sempre da quella casa. Il cielo mi aveva ancora salvato. Ma ohimè io non poteva piú amare, la mia affettività era esaurita, prostrata da tanti esperimenti terribili. Il caso mi condusse ad Ulrica; le memorie del mio primo amore si ridestarono, la mia passione si raccese piú viva… Volli rinunciare ancora al suo affetto, alla felicità che mi riprometteva da questo affetto… ma non ne ebbi la forza – ci sposammo. Da quell’istante incominciò la mia lotta. Io non poteva tollerare che essa portasse un U nel suo nome, non poteva chiamarla con quella parola. Mia moglie!… la mia compagna, la donna amata da me… portare un U nel suo nome!… Essa che aveva già fatto un acquisto cosí tremendo nel mio, perché io pure ne aveva uno nel mio casato! Era impossibile! Un giorno le dissi: – Mia buona amica, vedi quanto quest’U è terribile! rinunciavi, abbrevia o muta il tuo nome!… te ne scongiuro! Essa non rispose, e sorrise. Un’ altra volta le dissi: – Ulrica, il tuo nome mi è insopportabile… esso mi fa male… esso mi uccide! Rinunciavi. Mia moglie sorrideva ancora, l’ingrata! sorrideva!… Una volta mi sentii invaso da non so qual furore: aveva avuto un sogno affannoso… Un U gigantesco postosi sul mio petto mi abbracciava colle sue aste immense, flessuose… mi stringeva… mi opprimeva, mi opprimeva… Io balzai furioso dal letto: afferrai la grossa canna di giunco, corsi da un notaio, e gli dissi: – Venite, venite meco sull’istante a redigere un atto formale di rinuncia… Quel miserabile si opponeva. Lo trascinai meco, lo trascinai al letto di mia moglie. Essa dormiva; io la svegliai aspramente e le dissi: – Ulrica, rinuncia al tuo nome, all’U detestabile del tuo nome! Mia moglie mi guardava fissamente, e taceva. – Rinuncia – io le replicai con voce terribile – rinuncia a quell’U… rinuncia al tuo nome abborrito!!… Essa mi guardava ancora, e taceva! Il suo silenzio, il suo rifiuto mi trassero di senno: mi avventai sopra di lei, e la percossi col mio bastone. . Postumia … Lucia: è qui che si manifesta, al massimo grado, lo humour paradossale e contorto su cui s’impernia e drammatizza questo racconto. . Essa che aveva … mio casato: sposandolo, la moglie ha acquistato anch’essa un u, dato che c’è un u anche nel nome di famiglia, cioè nel cognome del narratore (che però non ci viene detto). . postosi sul mio petto: sembra echeggiare, in questo passo, la terribile «A» cucita, all’altezza

del petto, sul vestito di Hester Prynne, la protagonista de La lettera scarlatta () di Nathaniel Hawthorne (-), condannata a portarla in segno di condanna ed eterno dispregio per l’adulterio commesso; qui, però, il tratto delirante trasferisce il dramma dalla sfera morale e sociale a quella solipsistica della follia dell’individuo. . canna di giunco: usata come bastone da passeggio.

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Fui arrestato, e chiamato a render conto di questa violenza. I giudici assolvendomi mi condannarono ad una pena piú atroce, alla detenzione in questo ospizio di pazzi. Io pazzo! Sciagurati! Pazzo! perché ho scoperto il segreto dei loro destini! dell’avversità dei loro destini! perché ho tentato di migliorarli?… Ingrati! Sí, io sento che questa ingratitudine mi ucciderà: lasciato qui solo, inerme! faccia a faccia col mio nemico, con questo U detestato che io vedo ogni ora, ogni istante, nel sonno, nella veglia, in tutti gli oggetti che mi circondano, sento che dovrò finalmente soccombere. Sia. Non temo la morte: l’affretto come il termine unico de’ miei mali. Sarei stato felice se avessi potuto beneficare l’umanità persuadendola a sopprimere quella vocale; se essa non avesse esistito mai, o se io non ne avessi conosciuto i misteri. Era stabilito altrimenti! Forse la mia sventura sarà un utile ammaestramento agli uomini; forse il mio esempio li spronerà ad imitarmi… Che io lo speri! Che la mia morte preceda di pochi giorni l’epoca della loro grande emancipazione, dell’emancipazione dall’U, dell’emancipazione da questa terribile vocale!!!». L’infelice che vergò queste linee, morí nel manicomio di Milano l’ settembre . . non avesse esistito: non fosse esistita. . emancipazione: è possibile forse interpretare il ricorso a questo termine in chiave di parodizzazio-

ne implicita dei risultati della scienza positiva, delle prospettive di sviluppo e di emancipazione suggerite dai suoi entusiastici sostenitori.

Retrospettive (da Disjecta)

Due visioni «a specchio»

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i

n questa coppia di sonetti «a specchio», pubblicata sulla rivista «Il Gazzettino» il 13 novembre 1867, Tarchetti presenta due visioni «a specchio», analoghe e inverse l’una all’altra, assai rappresentative della sua turbata sensibilità tardoromantica (sospesa fra un intimismo esasperato e rinunciatario, una visionarietà onirico-metafisica, e un culto delle forme dissolte e desuete): un piccolo campionario di temi e immagini che ricorrono nella sua novellistica «fantastica». Da notare la presenza di ossessioni proprie della Fosca, prima di tutto l’attrazione /repulsione (quasi da necrofilo) per una bellezza corrosa, per una giovinezza pronta a rivelare la sua decrepitezza e la sua consunzione; qui, Tarchetti sembra addirittura recuperare, in chiave drammatico-visionaria, il motivo della vituperatio (“vituperio”) proprio della poesia comico-realistica delle origini. Il maledettismo romantico (con le figure dei due demoni che accompagnano il poeta) si stempera nel gioco degli equivoci inversi che si rivelano alla fine dei due sonetti: la vecchia scambiata per la fanciulla nel primo, nel secondo la fanciulla scambiata per la vecchia. [EDIZIONE: Iginio Ugo Tarchetti, Tutte le opere, cit., vol. II] METRO: coppia di sonetti; in entrambi, le quartine seguono lo schema di rime alternate ABAB ABAB, mentre le terzine seguono lo stesso asimmetrico schema di Ell’era (CDC EDE). Nel secondo sonetto, però, nelle terzine si riprendono due rime delle quartine, in modo che si ha uno schema ABAB ABAB CAC BAB. Da notare infine che le quartine del primo e quelle del secondo sonetto sono assolutamente speculari l’una all’altra, presentando le medesime rime (oltre che gli stessi termini all’interno dei versi).

T. SCAPIGLIATURA E DINTORNI. IGINIO UGO TARCHETTI

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Oggi di negro umor mi son svegliato; esco di casa, e lunghesso la via due demoni cavalcanmi allato il mal d’amore e la malinconia. 



Vo’ esorcizzarli; e in chiesa appena entrato scorgo nell’ombra la fanciulla mia, che china sullo spazzo del sagrato, mormora preci alla vergin Maria. La miro, e in cor mi muto, e mi domanda l’afflitta anima mia s’ella mi vide, e lacrime per gli occhi il cor mi manda. Ma mentre ch’io la guardo s’è voltata e vedo che è un error che mi deride… Era una vecchia rugosa e sdentata. II

Co’ miei demoni accanto io son tornato muto e triste a rifar la stessa via: tutto era mesto, e il sol bianco e velato siccome preso da malinconia. 

Cavalcanmi i demoni allato bestemmiando la vergine Maria, e un giovincello a una vecchia abbracciato, lieto e scherzoso innanzi mi venia.

I v. . negro: nero, cattivo. v. . lunghesso la via: lungo la via. v. . cavalcanmi allato: «mi cavalcano al fianco»: il verso è aspro e irregolare dal punto di vista metrico; si può infatti considerare endecasillabo solo se si dà una dialefe tra cavalcanmi e allato. L’asprezza è resa piú forte dalla faticosa enclitica di cavalcanmi. Altrettanto aspro, e ancor piú nettamente irregolare il v.  del sonetto successivo, che riprende gli stessi termini, mutandone la collocazione. v. . Vo’: Voglio. v. . spazzo: pavimento; sagrato: di norma, sarebbe uno spazio consacrato, antistante la chiesa, destinato all’origine alla sepoltura dei morti; qui, però, il giovane che narra la vicenda è già entrato nella chiesa: per «sagrato» s’intenderà forse una zona centrale della chiesa. Si noti poi che, in certo uso popolare, sagrato sta per «bestemmia» (l’eco di questa accezione anticiperebbe in qualche modo il

v.  del sonetto successivo). v. . preci: preghiere. v. . in cor mi muto: si tratta, naturalmente, di una mutazione negli stati emotivi; dal negro umore dell’inizio, all’«afflizione» conseguente alla visione della donna; mi domanda: il soggetto è l’«anima», al verso seguente. v. . per gli occhi: attraverso gli occhi. v. . l’immagine della donna si trasforma in quella di un equivoco, di un errore che sembra qui animarsi, personificarsi, sino a «deridere» il poeta. II v. . e il sol: sottinteso «era». v. . siccome: come se fosse. v. . il verso rispecchia, invertendolo, il v.  del sonetto precedente. vv. -. giovincello … scherzoso: evidente richiamo al garzoncello scherzoso de Il sabato del villaggio, v. .

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La vecchierella a un amator sí stolto diceva: Io t’amo, o giovine adorato! E l’abbracciava, e baciavalo in volto. E mentre tento imaginar chi sia quella vecchia che ha il giovine abbracciato si volse… ed era la fanciulla mia!



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T. SCAPIGLIATURA E DINTORNI. EMILIO PRAGA

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Emilio Praga Preludio (da Penombre)

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uesta lirica risale al novembre 1864, un anno dopo Dualismo di Arrigo Boito (cfr. pp. 146 sgg.), con cui condivide molti elementi, ed è probabilmente l’ultima in ordine di composizione della raccolta Penombre, che apre come una sorta di manifesto programmatico (preceduta dall’epigrafe «Nos canimus surdis», “Cantiamo ai sordi”). Il poeta parla a nome di una generazione «caduta», che ha visto svanire tutti gli slanci, le generosità, gli ideali della generazione precedente (quella che ha combattuto per il Risorgimento): l’avvento di una modernità distruttiva ha fatto crollare la secolare tradizione cristiana; ormai fuori tempo è l’ultimo erede di quella tradizione, Manzoni, «vegliardo in sante visioni assorto», mentre si annuncia l’avvento degli antecristi. A quella poesia del passato, fondata su valori certi e assoluti di cui il poeta canta non senza nostalgia la fine, si sostituisce la nuova materia moderna: e nel definirne il tono e il carattere Praga ricava spunti essenziali da Les fleurs du mal di Baudelaire (cfr. CANONE EUROPEO, tav. 177). Appunto a Baudelaire risale l’immagine di un ambiguo e difficile rapporto con il lettore (insieme nemico, v. 17, e fratello, v. 27), e il rilievo attribuito alla Noia (v. 17), la suggestione dell’ignoto, del peccato, del fango. In questa «caduta» che caratterizza la condizione moderna del poeta, che riduce la sua poesia a una misera canzone, si afferma comunque il rifiuto di ogni ipocrisia e di ogni finzione e l’impegno a cantare comunque il vero. Una serie di temi e termini essenziali della poetica di Praga vengono cosí presentati con un succedersi aspro e dissonante di simboli, che però restano indeterminati e non sembrano aver trovato un linguaggio davvero adeguato. [EDIZIONE: Emilio Praga, Opere, a cura di G. Catalano, Fulvio Rossi, Napoli 1969] METRO: strofe saffiche, con quartine a rima alternata, composte da 3 endecasillabi piú un verso che è, alternativamente, settenario e quinario (ABAb).

Noi siamo i figli dei padri ammalati; aquile al tempo di mutar le piume, svolazziam muti, attoniti, affamati, sull’agonia di un nume. 

Nebbia remota è lo splendor dell’arca, e già all’idolo d’or torna l’umano, e dal vertice sacro il patriarca s’attende invano;

v. . ammalati: Praga si riferisce al logoramento della generazione già eroica dei padri (o dei loro ideali), al termine della stagione che l’aveva veduta protagonisti (il Risorgimento); altri, per anastrofe, lega ammalati a figli. v. . ossia inadatte alla pienezza del volo, proprio nel momento – storico, culturale, individuale – di questa «muta»; ma la fame di cui si parla al v.  sembra trasformare questi rapaci in avvoltoi. v. . agonia di un nume: il nume indica, insieme, le fedi (religiose, politiche, letterarie), ma anche Manzoni (simbolo di esse, e nume tutelare della letteratura stessa, per Milano) con gli altri «padri»

ormai destituiti e in decadimento. v. . Praga si riferisce, in questa strofe, all’episodio dell’Antico Testamento, in cui il popolo ebraico, al ritirarsi di Mosè sul Sinai, prende ad adorare un vitello d’oro, al modo dei pagani; l’arca è quella dell’alleanza, contenente le tavole dei dieci comandamenti (il cui splendore viene dimenticato – fatto nebbia remota – dal popolo ebraico). v. . «e già l’umanità torna dalla parte del vitello», cioè venera il denaro e i beni materiali. vv. -. «e invano si aspetta che Mosè (il patriarca) discenda dalla vetta sacra del Sinai» (dal vertice sacro: cioè nessuno viene a portare le tavole della leg-

Tra la nostalgia di una generazione «caduta» e la modernità distruttiva

L’analisi di Baudelaire nella «caduta» del poeta

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LA NUOVA ITALIA

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s’attende invano dalla musa bianca che abitò venti secoli il Calvario, e invan l’esausta vergine s’abbranca ai lembi del Sudario… Casto poeta che l’Italia adora, vegliardo in sante visioni assorto, tu puoi morir!… Degli antecristi è l’ora! Cristo è rimorto! O nemico lettor, canto la Noia, l’eredità del dubbio e dell’ignoto, il tuo re, il tuo pontefice, il tuo boia, il tuo cielo, e il tuo loto! Canto litane di martire e d’empio; canto gli amori dei sette peccati che mi stanno nel cor, come in un tempio, inginocchiati.



Canto le ebbrezze dei bagni d’azzurro, e l’Ideale che annega nel fango… Non irrider, fratello, al mio sussurro, se qualche volta piango:

ge, la rivelazione della verità divina). vv. -. strofa piuttosto faticosa e oscura: la musa bianca che per venti secoli ha abitato il Calvario dovrebbe essere la fede e la civiltà cristiana, che in tutto quel tempo ha ispirato quasi tutta l’arte e la poesia (per questo viene chiamata musa), ma ora non è piú in grado di mantenere le attese dell’umanità: essa attende invano il patriarca capace di rigenerarla; con questa stessa musa bianca dovrebbe identificarsi l’esausta vergine, che invano afferra i lembi del Sudario di Cristo; questa figura evoca esplicitamente la Veronica, la donna che, secondo la leggenda, asciugò il volto insanguinato di Cristo che saliva il Calvario. Si tratta comunque di immagini ellittiche, che intendono evocare una tradizione lontana giunta ormai a esaurimento. v. . Casto poeta: è Manzoni, simbolo di una letterarietà «istituzionale» che gli scapigliati combattevano con il loro maledettismo, e al cui modello si riferiva implicitamente già il v. , parlando di agonia di un nume. v. . antecristi: nel senso di «anticristi» (e non dunque di anteriorità rispetto a Cristo): sono gli scapigliati stessi, che si presentano come poeti maledetti, posti dalla storia stessa in una cosí scomoda posizione. vv. -. L’avvio della strofa echeggia assai esplicitamente (mentre la trasforma) la formula che conclude la poesia iniziale de Les fleurs du mal di

Baudelaire («hypocrite lecteur», “lettore ipocrita”). Mentre Baudelaire stabilisce con il lettore – dopo il riconoscimento della sua «ipocrisia» – un patto di complicità («mon semblable, mon frère», “mio simile, mio fratello”), qui esso resta ostile, nel suo inerte attaccamento a valori (poteri) consolidati e già sentiti come vuoti: re, pontefice, boia, ma anche cielo e loto, fango (quello del fango della città e del mondo borghese è un altro essenziale tema baudelairiano): ma piú avanti (v. ) anche Praga chiamerà il lettore fratello. Alla lirica iniziale de Les fleurs du mal risale anche il motivo della Noia (“Ennui”): Praga si colloca insomma entro l’intero orizzonte «negativo» della poesia baudelairiana, a cui riconduce anche «l’eredità del dubbio e dell’ignoto». v. . litane … empio: litanie di martirio e di empietà, due condizioni che si considerano avverse al sistema dominante, bersaglio della critica scapigliata. v. . sette peccati: i sette peccati capitali della tradizione cattolica. v. . dei bagni d’azzurro: dell’elevazione nella radiosità del cielo. v. . a mettere questo verso in rapporto con quello precedente, si rivela ancora quel «dualismo» cielo/fango incontrato pochi versi prima, qui però complicato con un terzo elemento, anch’esso baudelairiano: l’Ideale (per cui vedi la sezione Spleen

T. SCAPIGLIATURA E DINTORNI. EMILIO PRAGA

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giacché piú del mio pallido demone, odio il minio e la maschera al pensiero, giacché canto una misera canzone, ma canto il vero!

et Idéal, da Les fleurs). v. . pallido demone: qui demone è nel senso di «estro», di «passione»; pallido riporta a quella dichiarazione d’incompiutezza, da Praga attribuita alla propria generazione fin dalla prima strofe.

v. . minio: belletto. v. . ma canto il vero!: ricorrenti, negli scapigliati, le affermazioni di «realismo», nel senso di una rappresentazione diretta e non eufemistica (senza maschera al pensiero) della realtà piú cruda.

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LA NUOVA ITALIA

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Arrigo Boito Dualismo (da Il libro dei versi)

Il «manifesto» della Scapigliatura

Le suggestioni del Faust di Goethe e de Les fleurs du mal di Baudelaire Compresenza dei contrari nell’anima

Romanticismo «nero»

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ubblicata sulla rivista «Figaro» il 18 febbraio 1864 (ma datata 1863), questa lirica appare il piú compiuto «manifesto» degli scrittori della Scapigliatura: e per questo costituí il componimento d’apertura della raccolta delle poesie di Boito, Il libro dei versi (che, nella sua forma unitaria, apparve solo nel 1877). Qui Boito riprende, portandola all’estremo, la suggestione di un celebre passo del Faust di Goethe, vv. 1112-1117 (cfr. CANONE EUROPEO, tav. 147), che si riferiva alla compresenza in Faust di due anime («Zwei Seelen»): l’una che tende a librarsi in volo verso le «plaghe alte e lontane», a cui con la morte sono ascesi i nobili «spiriti degli avi», e quella che invece «s’avvinghia alla terra e al mondo» con tutte le sue forze, in «avida stretta d’amore». Il fascino del testo di Goethe agiva del resto fortemente su Boito, che, a partire almeno dal 1862, si impegnava a trasporre il Faust nell’opera in musica Mefistofele (la quale debutterà alla Scala il 5 marzo 1868 con un clamoroso insuccesso); ma il richiamo alla irresolubile tensione delle «due anime» sarà costante in tutta la sua opera, e per tutto Il libro dei versi. Ma altra suggestione essenziale per questa poesia, per l’immagine dell’uomo sospeso tra l’aspirazione all’ideale e l’ossessione del male, tra il sogno di mondi meravigliosi e la prigione della noia, è costituita da Les fleurs du mal di Baudelaire (cfr. CANONE EUROPEO, tav. 177). Questo tema della compresenza insuperabile dei contrari nell’anima del poeta dà luogo ad antitesi e parallelismi che si succedono di strofa in strofa. Nelle prime quattro strofe (vv. 1-28) è in evidenza il soggetto, che attribuisce a se stesso tutta la serie delle opposizioni (a cominciare dalla prima luce/ombra, seguita da «angelica farfalla/verme immondo», per arrivare al conflitto tra i pensieri, «or mansueti e rosei, / or violenti e neri»; e si noti come dopo l’anafora entro la prima strofa tra il v. 1 e il v. 3, Sono… son, si dà l’insistente anafora Ecco perché nelle strofe che seguono, sia al loro inizio sia all’interno della terza e della quarta). Le tre strofe successive (vv. 2949) allargano la prospettiva a un noi in cui si identifica tutta la condizione umana, che appare come il trastullo di un Dio buio, estraneo e indifferente, che ride dell’affannarsi degli uomini che ha fatto di fango e foco, condannati a consumarsi nel procedere monotono degli anni. Le quattro strofe che seguono (vv. 50-77) ritornano all’io e mettono in evidenza il lato della luce, il momento in cui il soggetto si sente trascinato verso l’alto, si libra nella speranza e nell’illusïon e giunge a sognare un’Arte eterea, la cui forma è creata dall’Ideale (l’attacco E sogno del v. 71 è in anafora con gli inizi di due strofe ulteriori, vv. 85 e 92). Ma ancora altre tre strofe (vv. 78-98) mostrano il ricadere in basso, il fuggire di quei santi sogni, il lasciarsi catturare dalle piú perverse seduzioni, fino al sogno di un’Arte reproba, fatta di aspro carme e pronta alla bestemmia. Infine le due strofe conclusive (vv. 99-112) riconducono queste contraddizioni alla condizione sospesa dell’uomo, sempre in bilico tra bene e male, con l’immagine finale dell’equilibrista librato sovra una tesa corda. Si tratta di una tematica da Romanticismo «nero» assai diffusa nella cultura ottocentesca, che Boito svolge attraverso tutta una serie di immagini tradizionali, ma come portate all’estremo, svolte in una musica aspra e dissonante: come hanno mostrato molti interpreti, qui l’orizzonte tardoromantico sembra legarsi a una continuità con le antiche filosofie dello gnosticismo e del manicheismo, che sostenevano un’opposizione radicale tra Bene e Male, Luce e Ombra, Spirito e Materia, e attribuivano la creazione della materia a un Demiurgo o Dio cattivo. Ma, ciò che piú conta, precisi sono i riferimenti che seguono. Il buio Iddio che ha fatto l’uomo di fango e foco scagliandolo «sull’umida / gleba che ci incatena» non è altri se non il Demiurgo o Dio cattivo degli gnostici. Anche l’immagine del demone che sale verso un lontano ciel (vv. 5-7) o di quello che redento… s’indía «hanno attinenza con la teurgia neoplatonica di Giamblico e di Proclo e con la dottrina manichea che prevede la liberazione dei principii di luce dalla materia nella quale sono caduti. Lo stesso “homunculus” foggiato da un “chimico demente” non è privo di relazione con le ragioni gnostiche e neoplatoniche dell’alchimia medievale» (Quadrelli).

T. SCAPIGLIATURA E DINTORNI. ARRIGO BOITO

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[EDIZIONE: Arrigo Boito, Tutti gli scritti, a cura di P. Nardi, Mondadori, Milano 1942] METRO: strofe composte di sette settenari, rimate secondo lo schema abcbdde. Ogni strofe ha due versi sdruccioli (il primo e il terzo) e uno tronco (l’ultimo). Inoltre, il verso finale di ogni strofa dispari è in rima con quello della strofe pari successiva.



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Son luce ed ombra; angelica farfalla o verme immondo, sono un caduto chèrubo dannato a errar sul mondo, o un demone che sale, affaticando l’ale, verso un lontano ciel. Ecco perché nell’intime cogitazioni io sento la bestemmia dell’angelo che irride al suo tormento, o l’umile orazione dell’esule dimone che riede a Dio, fedel. Ecco perché m’affascina l’ebbrezza di due canti, ecco perché mi lacera l’angoscia di due pianti, ecco perché il sorriso che mi contorce il viso o che m’allarga il cuor. Ecco perché la torbida ridda de’ miei pensieri,

vv. -. si noti la disposizione a chiasmo (con aggettivi all’esterno e sostantivi all’interno) tra angelica farfalla (con rinvio a Dante, Purgatorio, X, : «siam vermi / nati a formar l’angelica farfalla») e verme immondo. Quello del verme è un topos del Romanticismo nero (cosí in una celebre poesia Il verme conquistatore, di Edgar Allan Poe), ricorrente assai spesso nei testi della Scapigliatura, e soprattutto nell’opera di Boito, che del verme fa l’autentico antagonista del poemetto Re Orso. v. . chèrubo: «angelo»; caduto come Satana, anche se condannato a vagare senza posa nel mondo terreno. v. . che sale: che cerca di recuperare una redenzione (e vedi poi v.  e vv. -). v. . spossando le ali. vv. -. nell’intime cogitazioni: vale, soprattutto, per «all’interno di me» (dove è possibile «sentire» il dissidio). v. . il motivo della bestemmia di Satana (l’angelo caduto), come quello della sua caduta, è particolar-

mente presente ne Les fleurs du mal di Baudelaire. vv. -. del demone che torna (riede) alla fede. Da notare qui l’approfondirsi dell’intima e intricata relazione fra un «angelo» ribelle e blasfemo, e un «demone» umile e fedele, già enunciata nella prima strofe. vv. -. di nuovo (come nel caso del rapporto angelo/demone) una relazione asimmetrica; non è del tutto chiaro, infatti, a quale dei due poli vadano attribuiti i due canti e i due pianti: se c’è una relazione di opposizione tra fascino, ebbrezza e canto da un lato, e lacerazione, angoscia, e pianto, dall’altro (in cui il primo gruppo di termini va riferito al polo demoniaco e peccaminoso, il secondo a quello angelico e penitenziale), è anche vero che i due tipi di canti nonché i due tipi di pianti potrebbero attribuirsi ciascuno a uno dei due poli. vv. -. in questo caso, il sorriso è un ghigno (demoniaco). v. . ridda: la ridda era un ballo turbinoso: il termine indica, per estensione, un moto convulso e

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LA NUOVA ITALIA

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or mansueti e rosei, or violenti e neri; ecco perché, con tetro tedio, avvincendo il metro de’ carmi animator. O creature fragili dal genio onnipossente! Forse noi siam l’homunculus d’un chimico demente, forse di fango e foco per ozïoso gioco un buio Iddio ci fe’ e ci scagliò sull’umida gleba che c’incatena, poi dal suo ciel guatandoci rise alla pazza scena, e un dí a distrar la noia della sua lunga gioia ci schiaccerà col piè. E noi viviam, famelici di fede o d’altri inganni, rigirando il rosario monotono degli anni, dove ogni gemma brilla di pianto, acerba stilla fatta d’acerbo duol. Talor, se sono il dèmone redento che s’indía,

vorticoso di una folla di persone o cose. vv. -. avvicendo: «alterno il metro, che anima i componimenti». Il poeta attribuisce il suo stesso sperimentalismo metrico (particolarmente virtuosistico poi nel Re Orso) alla scissione dualistica; il gioco metrico viene inoltre collegato al tedio, che ricorda il «tedio» di Leopardi o la «noia» (ennui) di Baudelaire. Notare le aspre allitterazioni tetro tedio… metro. v. . homunculus: si tratta dell’uomo artificiale, dotato di poteri straordinari, che gli alchimisti sognavano di poter ottenere con le loro pratiche; ma il riferimento è ancora al Faust di Goethe, dove l’homunculus viene creato alchemicamente in provetta da Wagner, famulus, servitore di Faust (con cui si può identificare il chimico demente del verso successivo). v. . di fango e foco: complemento di materia (con questi due elementi il buio Iddio avrebbe creato gli uomini).

v. . buio Iddio: si tratta, forse, del Demiurgo della tradizione gnostica, autore di una creazione cattiva o imperfetta, cui si attribuiscono caratteri comico-grotteschi. v. . gleba: terra (alla lettera, zolla), nella sua materialità piú dura, che asservisce. v. . guatandoci: guardandoci. vv. -. a distrar … gioia: per ingannare la noia dovuta a un divertimento senza fine. v. . ogni gemma: continua la metafora della vita come rosario: i momenti della vita sono come le gemme, cioè i diversi grani della corona del rosario, che ne segnano i singoli segmenti. v. . acerba stilla: amara goccia. v. . s’indía: s’innalza fino al livello divino (dantismo: cfr. Paradiso, IV, ); si avvicina alla divinità, compenetrandosi in essa nella sua contemplazione. Di nuovo, come nelle prime due strofe, l’immagine del demone redento (che, nelle edizioni del , , e , era addirittura un «Satana redento»).

T. SCAPIGLIATURA E DINTORNI. ARRIGO BOITO

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sento dall’alma effondersi una speranza pia e sul mio buio viso del gaio paradiso mi fulgureggia il sol. L’illusïon – libellula che bacia i fiorellini, – l’illusïon – scoiattolo che danza in cima i pini, – l’illusïon – fanciulla che trama e si trastulla colle fibre del cor, viene ancora a sorridermi nei dí piú mesti e soli e mi sospinge l’anima ai canti, ai carmi, ai voli; e a turbinar m’attira nella profonda spira dell’estro ideator. E sogno un’Arte eterea che forse in cielo ha norma, franca dai rudi vincoli del metro e della forma, piena dell’Ideale che mi fa batter l’ale e che seguir non so. Ma poi, se avvien che l’angelo fiaccato si ridesti, i santi sogni fuggono impauriti e mesti; allor, davanti al raggio del mutato miraggio, quasi rapito, sto.

vv. -. fulgureggia: risplende il sole del gaio paradiso. vv. -. si sussegue un serie di immagini, un po’ manierate (e parodistiche, forse), che designano l’illusione, evidenziata dalla ripresa anaforica e dalla forma con dieresi illusïon: essa, come è poi precisato, è la spinta verso l’Ideale e la sua Arte eterea; l’ultima immagine è quella allegorica di una fanciulla che tesse servendosi dei sentimenti piú intimi (le fibre del cor), ma insieme (come il buio Iddio) gioca con essi. vv. -. e m’induce a poetare, attirandomi nel vortice (spira) dell’estro creativo. v. . eterea: di celeste purezza; sublime. v. . che risponde a leggi invisibili e superne,

scritte solo nel cielo. vv. -. libera dagli opprimenti vincoli metrici e retorici. v. . non appena enunciata l’aspirazione all’Ideale (angelico, celeste), il poeta si dichiara incapace di condurla a conseguenza: la sua ironica consapevolezza gl’impedisce, evidentemente, di trasformare in volo il suo «battito d’ali». v. . si risvegli stanco, spossato di quell’impotente «battito d’ali». vv. -. raggio … miraggio: un’immagine ottica, addirittura, quasi che le visioni, che ora mutano e sono diverse da quelle precedenti, si proiettassero da una lampada magica.

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LA NUOVA ITALIA

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E sogno allor la magica Circe col suo corteo d’alci e di pardi, attoniti nel loro incanto reo. E il cielo, altezza impervia, derido e di protervia mi pasco e di velen. E sogno un’Arte reproba che smaga il mio pensiero dietro le basse imagini d’un ver che mente al Vero e in aspro carme immerso sulle mie labbra il verso bestemmïando vien. Questa è la vita! l’ebete vita che c’innamora, lenta che pare un secolo, breve che pare un’ora; un agitarsi alterno fra paradiso e inferno che non s’accheta piú! Come istrïon, su cupida plebe di rischio ingorda, fa pompa d’equilibrio sovra una tesa corda, tale è l’uman, librato fra un sogno di peccato e un sogno di virtú.

vv. -. il sogno del male e del peccato è rappresentato con la figura della maga Circe, con il suo corteo di uomini trasformati in animali selvatici, resi attoniti, imprigionati nel maligno incantesimo. vv. -. di protervia … di velen: mi nutro di una intossicante forma di protervia. v. . reproba: ribelle alla divinità (e da questa condannata). v. . che fa sí che il mio pensiero si smarrisca; smagare era usato nello stesso canto dantesco da cui derivava, all’inizio della lirica, l’espressione angelica farfalla (Purgatorio, X, -: «tu ti smaghi / di buon proponimento»). vv. -. ancora un dualismo tra due ordini di verità: le immagini basse e aderenti al reale terreno

contraddicono il Vero assoluto e supremo. v. . aspro carme: nel senso, forse, di sgradevole; ma si può vedere anche qui un rimando dantesco, al Dante delle «rime aspre e chiocce» (Inferno, XXXII, ). v. . bestemmïando: è il verso stesso, personificato, che sembra prendere la parola, ma quasi demonizzandosi nella bestemmia. v. . l’ebete: nel senso di banale, ottusa. v. . istrïon: in questo caso, indica l’equilibrista, il cui stesso virtuosismo tecnico è però gravato di soverchio, «istrionico» esibizionismo, davanti alla plebe vorace, affamata di rischio. v. . fa pompa: fa sfoggio; quasi che il gesto rischioso dell’equilibrista si caricasse di un sovrappiú di finzione.

T. SCAPIGLIATURA E DINTORNI. ARRIGO BOITO

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Scritto sull’ultima pagina (da Il libro dei versi)

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a lirica, datata 3 luglio 1867, è, appunto, l’ultima de Il libro dei versi: dove il contorto «dualismo» espresso fin dalla poesia iniziale si risolve in una composta e non meno inquietante simmetria; la lirica si regge tutta, infatti, su un parallelismo fra il libro (l’albo, inizialmente bianco, che il poeta ha ricevuto in dono dalla madre, e che ha riempito con l’inchiostro delle sue scritture in verso) e l’anima del poeta stesso, che si scurirà a misura del trascorrere dell’esperienza. È l’affermarsi melanconico dell’ombra e dell’Arte reproba di cui si diceva in Dualismo (cfr. p. 150, v. 92): la scrittura, lungi dall’offrire un riscatto alla negatività dell’esperienza, diviene essa stessa tratto negativo, perdita d’innocenza (Baudelaire aveva parlato di «perdita d’aureola»), intreccio di cicatrici depositate su una pagina per corromperla con le proprie oscurità. Un parallelismo dello stesso ordine sarà quello che, qualche decennio piú tardi, Oscar Wilde, nel romanzo The Picture of Dorian Gray (“Il ritratto di Dorian Gray”), traccerà tra il modificarsi del personaggio di Dorian Gray e quello del suo ritratto. METRO: due strofe saffiche, composte di tre endecasillabi e un quinario, a rima alternata ABAb; le rime Bb sono tronche.

Mia madre un dí mi diede un libro bianco, ogni pagina avea l’aureola d’òr; vergin di penna egli era ed io pur anco vergin d’error. 

Passaron gli anni, i mali e la ventura, vissi, lottai col corpo e col pensier. Oggi l’anima mia s’è fatta scura, e il libro ner.

v. . l’aureola d’òr: il bordo d’oro. v. . vergin di penna: non ancora scritto; parallelamente il poeta era ancora privo di error. v. . la ventura: le esperienze della vita.

v. . il libro ner: il libro s’è scurito, non solo in quanto riflesso dell’anima del poeta, ma anche perché lui lo ha usato, annerendolo con l’inchiostro, scrivendo i propri versi sulle sue pagine.

Il libro e l’anima

La scrittura «perdita d’innocenza»

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LA NUOVA ITALIA

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Carlo Dossi Ricordi dell’infanzia (da L’Altrieri)

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Lo stile sovraeccitato

Rievocazione di ricordi

L’infanzia, una culla calda e protettiva

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iportiamo qui le pagine introduttive del romanzo, pubblicato per la prima volta nel 1868 in cento copie non venali come omaggio da offrire agli amici per il Natale. Qui diamo il testo della seconda edizione (1881), in cui l’autore normalizzò parzialmente la lingua, riducendo il tasso espressionistico e dialettale, in un momento in cui si era trasferito a Roma e cercava di rivolgersi a un pubblico piú vasto e meno connotato regionalmente. La prima frase della prima pagina del primo libro è a tutti gli effetti emblematica di uno stile che non vuole mai lasciare distrarsi il lettore: «I miei dolci ricordi!», con un punto esclamativo che appare già una dichiarazione di poetica per una pagina insonne e sovraeccitata. Dialetto, arcaismi, onomatopee, un gran numero di vezzeggiativi chiamati a restituire la percezione infantile del mondo: sin dall’inizio Dossi rifiuta la lingua piattamente manzoniana della maggior parte dei suoi contemporanei e si impegna in scelte lessicali preziose e peregrine (complicate anche dalla grafia arcaizzante, come si può vedere nell’uso di imàgine per immagine, di aqua per acqua, e nella cura ossessiva per gli accenti, contraria al normale uso italiano). La rievocazione dei ricordi è frutto di un processo laborioso di riconquista del passato che si realizza dunque anche attraverso il recupero di espressioni personali e fortemente idiosincratiche e sotto l’effetto di una decisa eccitazione sensoriale, quasi epidermica: e prende avvio in modo giocoso con la personificazione degli stessi ricordi, nascosti «sotto un bernòccolo della mia testa» (ma l’edizione del 1868 invece di testa recava cipollone). L’infanzia è per Dossi una sorta di culla calda e protetta, e a una stessa immagine di calore e protezione rimandano non a caso tutti i ricordi evocati in modo fuggitivo in queste pagine: dalla gatta che «písola accovacciata sulla predella del focolare» ai «roventi carboni, dal leggier crepolío», dal «piú allegro fuoco del mondo» che vampeggia e scoppietta «trèmolo illuminando lieti visi dai colori freschissimi» alla «gorgogliante acqua del bottíno», dalla sala «calda, inondata dal giallo chiarore di una lucerna ad olio» al tepore del bagno nella vasca. Queste immagini restituiscono un senso di sicurezza e di riparo reso ancora piú forte dai riferimenti insistiti a un mondo esterno freddo e inospitale, dove all’abbondanza della tavola imbandita si sostituisce la minaccia della fame, della povertà e del dolore. [EDIZIONE: Carlo Dossi, Opere, a cura di D. Isella, Adelphi, Milano 1995]

I mièi dolci ricordi! Allorché mi trovo rincantucciato sotto la cappa del vasto camino, nella oscurità della stanza – rotta solo da un pàllido e freddo raggio di luna che disegna sull’ammattonato i circolari piombi della finestra – mentre la gatta pìsola accovacciata sulla predella del focolare, ed anche il fuoco, dai roventi carboni, dal leggier crepolío, sonnecchia; oppure quando seduto sulla scalèa che dà sul giardino, stellàndosi i cieli, sèntomi in faccia alla loro sublime silenziosa immensità, l’ànima mia, stanca di febbrilmente tuffarsi in sogni di un lontano avvenire e stanca di battagliare con mille dubbi, colle paure, cogli scoraggiamenti, stríngesi ad un intenso melancònico desiderio per ciò che fu. . mièi: Dossi rende esplicita l’accentazione in tutte le parole in cui essa è equivoca oppure in presenza di dittonghi (come in questo caso) o quando ha a che fare con le parole sdrucciole. . circolari piombi: allude all’armatura di metallo in cui sono inseriti i vetri della finestra. . pìsola: dorme, fa un pisolino.

. predella: largo gradino. . crepolío: crepitio, scoppiettio. . scalèa: scalinata. . stellàndosi i cieli: mentre i cieli si riempiono di stelle. . sèntomi in faccia: mi sento davanti.

T. SCAPIGLIATURA E DINTORNI. CARLO DOSSI



Io li evòco allora i mièi amati ricordi, io li voglio; li voglio, uno per uno, contare come la nonna fa co’ suòi nipotini. Ma essi, sulle prime, mi si tírano indietro: quatti quatti èrano là sotto un bernòccolo della mia testa; io li annojo, li stúzzico; quindi han ragione se fanno capricci. Pure, a poco a poco, il groppo si disfa; uno, il men timoroso, caccia fuori il musetto; un secondo lo imita: essi comínciano ad uscire a sbalzi, a intervalli, come la gorgogliante acqua dal borbottino. Ed èccomi – a un tratto – bimbo, sovra una sedia alta, a bracciuoli, con al collo un grande tovagliolo. La sala è calda, inondata del giallo chiarore di una lucerna a olio, e, intorno intorno alla tavola dalla candidíssima mappa, dai lucenti cristalli, quà e là arrubinati, dalla scintillante argentería, vi ha molti visi – di chi, non sovvengo – visi rossi ed allegri, da gente rimpinzita. E lí, due mani in bianchi guanti, pòsano nel mezzo, su un piatto turchino, quel dolce che è la vera imàgine dell’inverno, che cosí bene rappresenta la neve e le foglie secche. Io batto le palme, e… Io mi trovo un cialdone, gonfio di lattemiele, appiccicato al naso. E tutto rovina. Segue una tenebría: a mè par d’èssere solo, solissimo, in una profonda caverna in cui l’aqua stilla, gelata, lungo le pareti; in cui la terra risuona. E mi fu detto ch’io ebbi molto bìbì … Sia! doppiamente presto che sopra un teatro, la scena si muta. Rimpolpato, rimpennato, stavolta le rondinelle mi scòrgono in un giardino a capo di una viuzza orlata dall’una e dall’altra banda con cespi di sempreverdi. Il cielo è d’un azzurro smagliante; l’àura fresca, odorosa. Una bambina con i capelli sciolti spunta all’estremo della viuzza e corre spingendo davanti a sé un cerchio. Com’ella mi giunge, si arresta, si sbassa: stringèndomi colle sue manine le guancie, m’appicca uno di quelli schietti baci che làsciano il succio. E il cerchio intanto, abbandonato, traballa, disvìa… giravoltando, cade. Ma, col sangue che questo baciozzo attira, vien, pelle pelle, ogni ricordo dei tempi andati. È la paletta che sbraccia il caldano. Spiccatamente io comincio a vedere, io comincio a sentire. E tò, in un salone (che stanzettina mi sembra adesso!) entro una màchina di una sèggiola, mia nonna, ammagliando una bianca calzetta eterna, col suo ricco e nero amoerre dal fruscìo metàllico e con intorno allo scarno adunco profilo un cuffione a nastri crèmisi e a pizzi: vicino a lei, sul lúcido intavolato, rùzzola, da mè lanciata, una trottola. . nipotini: in tutto il libro Dossi fa un uso abbondantissimo di diminutivi e di vezzeggiativi, anche con l’intento di restituire il mondo fatato dell’infanzia. . li annojo: li infastidisco (a forza di sollecitarli). . il groppo si disfa: il nodo dei ricordi si scioglie, rimettendoli in libertà. . borbottino: «fiasco» dal collo lungo e ritorto. . mappa: «tovaglia». Latinismo, ma anche voce tradizionale e regionale. . arrubinati: resi color rubino (evidentemente dal vino rosso in essi contenuto). . non sovvengo: non mi ricordo. . rimpinzita: rimpinzata, satolla. . palme: mani. . lattemiele: panna montata. È una voce lombarda. . tenebría: tenebra, oscurità. La desinenza in -ía è tipicamente lombarda. . stilla: gocciola. . bìbì: espressione onomatopeica infantile per «male», «malattia». Le ragioni del sogno «acquatico» sono in realtà di tipo fisiologico.

. doppiamente … un teatro: a una velocità doppia che al teatro. . si muta: cambia. . rimpennato: coperto di nuove penne, cioè rivestito. . cespi: insieme di rami a forma di ciuffo. . si sbassa: si abbassa, si china. . m’appicca: mi imprime. . schietti: sinceri. . succio: segno del bacio. . disvía: abbandona la traiettoria lineare. . pelle pelle: in superficie. . la paletta … il caldano: la paletta che smuove il braciere, riattizzando il fuoco del ricordo. . Spiccatamente: in modo intenso. . màchina: struttura. . ammagliando: facendo a maglia. . amoerre: stoffa di seta molto consistente: dal francese moire, che a sua volta proviene dall’inglese mohair, dall’arabo muhajjar. . crèmisi: rosso vivo. . intavolato: pavimento di tavole. . rúzzola: rotola.

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



LA NUOVA ITALIA

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Striduli suoni d’un ansante organetto sàlgono dalla strada. Io, súbito, dimenticando il favorito pècoro di cartone e gli abitanti di una gigantesca arca di Noè, delle cui verniciate superfici sèntomi ancora ingommate le mani, balzo al poggiuolo, arràmpico sul balaustrato e giú vedo un microcosmo di cavalieri e di dame che salterèllano convulsi sullo sfiatato istrumento. – Oh i belli! i belli! – grido applaudendo… e lascio cadere verso quel cenciosello, che con un berretto, da guardia cívica, del padre, cerca d’impietosire impannate e vetriere, il mio piú lampante soldo. In questa, uno zoccolare dietro di mè. È Nencia, la bambinaja: sobbràcciami d’improvviso, mi porta via – mi porta, in làgrime e sgambettando, in una càmera dove sta un tèpido bagno. E lí, essa e mamma, mi svèstono, mi attúffano, m’insapònano da capo a piedi. Imaginate la bizza! Ma il martirio finisce: tocco il paradiso. Sciutto, incipriato, rinfoderato in freschi lini dal sentor di lavanda, mamma mi piglia sulle ginocchia… Giuochiamo a chi fà il bacio piú píccolo. Un barbaglio di quelle graziose paroline, dolce segreto fra ogni madre e il suo mimmo, le nostre labbra, nel baciucchiarsi, pispígliano. E babbo sopraviene; ei vuole averne la parte sua, naturalmente! – Cattivo babbino – dico io schermèndomi – tu punci, tu… – Oh, i mièi amati ricordi, èccovi. Mentre di fuori, ai lunghi sospiri del vento, frèmono, piègansi le pelate cime degli àlberi e batte i vetri la pioggia – quí vampeggia il piú allegro fuoco del mondo, scoppietta, trèmolo illuminando lieti visi dai colori freschíssimi; quí, un mucchio di crepitanti marroni, or or spadellati, forma il centro del círcolo… Amici mièi, novelliamo. . pècoro: montone. . ingommate: appiccicaticce (evidentemente per la vernice). . al poggiuolo: sul balconcino. . balaustrato: sulla parte del terrazzino dotata di balaustra. . un microcosmo: un piccolo gruppo. . sullo sfiatato istrumento: al ritmo dello strumento consunto (e per questo sfiatato). . cenciosello: un bambino povero. . impannate: infissi di chiusura per finestre, costituiti da telai che sorreggono riquadri di stoffa, carta ecc. . vetriere: vetrate. . piú lampante: piú lucido. . zoccolare: rumore di zoccoli. . sobbràcciami: mi prende in braccio. . tèpido: tiepido. . mi attúffano: mi gettano nell’acqua.

. sciutto: asciutto. . rinfoderato … di lavanda: rivestito di freschi vestiti di lino profumati di lavanda. . barbaglio: luce. . mimmo: «bimbo». Voce onomatopeica del linguaggio infantile. . pispígliano: bisbigliano. . tu punci, tu: «tu pungi» (in probabile riferimento alla barba). Dossi cerca di rendere cosí la deformazione infantile della lingua. . pelate cime degli àlberi: senza foglie, perché è inverno. . vampeggia: manda le sue vampate di calore. . trèmolo: tremolante. . marroni: castagne. . spadellati: usciti dalla padella. . amici mièi: Dossi si riferisce direttamente ai ricordi. . novelliamo: lasciamoci andare al racconto.

T. SCAPIGLIATURA E DINTORNI. CARLO DOSSI



La mano di Lisa e il bacio sul cristallo (da Amori)

i

l Dossi piú convincente, dopo quello degli esordi giovanili, è il narratore del libro che conclude i suoi esperimenti narrativi, Amori, uscito al momento della sua definitiva consacrazione a tempo pieno alla carriera diplomatica. Con la sua struttura fortemente elaborata Amori è ancora una volta un’autobiografia immaginaria (cioè mezza vera e mezza falsa), in cui il narratore ripercorre la propria vicenda sentimentale tra figure femminili reali e immagini soltanto vagheggiate (una regina del mazzo di carte è per esempio l’oggetto delle sue attenzioni infantili…): la narrazione è divisa in sette «cieli», intervallati da tre soste «in terra», sino alla definitiva ascesa al Settimo cielo, nel paradiso di un amore che riassume in sé tutte le passioni precedenti. Il volume presenta cosí un distillato perfetto di uno dei due atteggiamenti complementari caratterizzanti il rapporto di Dossi con l’universo femminile, il momento, per cosí dire, tutto ideale e contemplativo, fatto di fanciulle diafane e quasi trasparenti, irraggiungibili nella loro immaterialità e destinate immancabilmente a essere strappate all’innamorato da una morte prematura. A questa posizione corrisponde invece, nei libri di Dossi piú segnati dall’acre moralismo satirico di Giovenale e Marziale (come in alcune delle Note azzurre o nel violentissimo La desinenza in A), una fortissima vena misogina che tende a rappresentare tutte le donne come libidinose Messaline o truffatrici disponibili a commettere qualsiasi crimine per danaro, mentre gli uomini rivestono in questo caso la parte dei poveri illusi. Di questa polarità, presente in ciascun momento della vita di Dossi, Amori mette in scena dunque solo il momento lirico e idillico, sotto forma di un contatto quasi impossibile. Qui si riporta la parte finale di un capitolo In terra, intitolato ai nomi di due donne, Èster e Lisa; vi si parla, con sottile umorismo, di un rapporto con Lisa, risoltosi tutto a strette di mano (nei momenti di saluto, all’inizio e alla fine di ogni incontro), e poi di un bacio dato a una fanciulla sconosciuta, attraverso un cristallo: un singolare bacio attraverso uno schermo, un fuggevole contatto che non è un contatto con una presenza che resta al di là, visibile e reale, ma insieme ignota e inafferrabile. Perché l’amore, anche qui, è soprattutto una metafora, e la lastra di vetro che separa il ragazzo dalla bella sconosciuta indica icasticamente una dolorosa impossibilità di toccare l’esistenza, di immergersi nella vita vera: un tema che Dossi aveva affrontato piú volte, già a partire da La vita di Alberto Pisani del 1870, e che in lui si lega alla crescente convinzione di aver vissuto una vita sotto ogni aspetto segnata dall’incompletezza. [EDIZIONE: Carlo Dossi, Opere, a cura di D. Isella, Adelphi, Milano 1995]

Un altro mio amore naque, crebbe, finí a strette di mano. Fra i tatti, quel della mano è il rè. Màssima intèrprete o còmplice della volontà, la mano coltiva ed edífica, scrive e plasma, carezza ed uccide. Essa è l’azione ed è la persona: essa ci fà súbito noto con chi trattiamo, chè vi ha la mano intellettuale e la mano cretina, una tutta frèmiti, geli, accensioni, l’altra impassíbile, dura: vi ha la mano che attira e quella che respinge; vi ha la mano di pressoché tutte e la mano di… Lisa. Era, questa, lunga e bianca, liscia qual perla, trasparente come alabastro, dalle dita le cui cime polseggiàvano – dita affusolate e flessíbili sí da poterle rovesciar su sé stesse quasi fòsser senz’ossa, eppur tali, per nervosità, da non èsser piegate che a forza, se non volèvano cèdere. I microscòpici òrgani elettro-motori, da Pacini scoperti ne’ polpastrelli, dovèvano èssere in siffatta mano sàturi di elettricità. La prima volta che io l’ebbi nella mia, parèa muta, . naque: si noti ancora la grafia di Dossi, che tende a evitare il nesso cq. . rè: come nel brano de L’altrieri, qui Dossi usa l’accento con i monosillabi e con le parole sdrucciole (come nella successiva parola Màssima).

. chè: dato che, poiché. . polseggiàvano: palpitavano. . Pacini: il medico e anatomista Filippo Pacini (-) aveva individuato i corpuscoli sensoriali cutanei, detti appunto corpuscoli di Pacini.

Autobiografia immaginaria

Momento lirico e idillico

Impossibilità di una vita vera

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LA NUOVA ITALIA

-

marmorea, cadavèrica: il suo tocco, una forma convenzionale di saluto, non l’accòrrere di una sensibilità verso l’altra. Ma, a poco a poco, le nostre mani si intèsero: quella di Lisa cominciò a prèmer piú forte quand’io mi congedavo da lei di quando me le presentavo. Oh come bianca quella manina! oh come negri gli occhi di chi me la offriva! Una sera, toccàndola, scattò da essa un trèmito che mi arrivò sino al cuore. D’allora in poi, Lisa piú non mi porse la palma sua con l’abbandono, piú non serrò la mia con la sicurezza di prima: nell’istante del commiato un indefiníbil ritegno, una parèntesi di riflessione, si metteva fra noi, incerti a chi primo dovesse stènder la mano. Dove l’amore è molto, poca è la disinvoltura. Senonché, quando il casto connubio era osato, non piú sapevamo, quasi a compenso della anteceduta tardanza, dissòlverlo. E allora, guardàndoci, tacevamo. Non è forse il silenzio, in amore, la piú deliziosa delle sue dichiarazioni? Ma, pur troppo, altri parlò in vece mia. Costúi potèa coprire di gemme quanto io avrèi solo potuto di baci, e fu dai parenti, se non da Lisa, ascoltato. Or la manina di lei, quell’augelletta che, a volte, io dubitavo, per non sciuparla, di stríngere, giace sepolta nel cavo di una manaccia rozza, callosa, insensíbile – teca di piombo e di quercia - ad un inno, in cinque strofe, d’amore. Oh strette di mano, celate elemòsine di affetto, oh sguardi densi di preghiere e promesse, oh titubanze e rossori, impallidimenti e sospiri, oh cento e mille sottintesi e presensi, quanto mai vi ricordo, e come, tuttora, mi consolate! Né tra voi manca il bacio – único bacio che nel dar mi fu dato. Era allora il settembre dell’anno e il maggio della mia vita. Io mi trovavo sulla sponda di un lago straniero, in un vasto albergo. L’albergo era stipato di gente che io non conoscevo neppure di linguaggio, e però in esso, vivente deserto per mè, godevo tutti i vantaggi, tutto il piacere della solitúdine. E un dí, sul tramonto, rincasavo da una delle mie camminate a caccia di fiori e di idèe. La campanella avèa già sussultato di bronzea tosse chiamando a tàvola, dal giardino, dai pòrtici, dalle càmere, i forastieri sbadigliosi e nojati. Solo, dietro la grande vetriata del salone che si apriva sul pòrtico esterno, una fanciulla indugiava. Un rosso scialletto le copriva le spalle cingèndole i fianchi, e il pellùcido volto di lei, improntato a sofferenza gentile e serbante le traccia di una pioggia di làgrime, appoggiàvasi estaticamente all’ampio cristallo, contro il qual la punta del suo nasino e le labbra mostràvansi, a mè di quà della lastra, espanse e come schiacciate. E sulle labbra parèa sospeso un sospiro in attesa di un bacio. Come negàrglielo? Con un súbito moto posài la mia bocca sovra il cristallo contro la sua e baciài. Le ànime nostre toccàronsi. Fu un istante ineffàbile. La fanciulla si distaccò, si strappò quasi dalla vetriata e fuggí. Ma splendeva. Ed io? Io, all’alba seguente, partivo – sbigottito e felice di aver tanto osato o sí poco.

. stènder: porgere, per dare il saluto e stringere la mano. . quando … osato: quando il casto contatto tra le due mani era stato osato, quando ci eravamo stretti le mani. . tardanza: ritardo, esitazione nello stringerci le mani. . dubitavo … di strìngere: esitavo a stringere. . teca … d’amore: ironicamente la rozza mano del marito di Lisa viene equiparata a un astuccio di metallo e di legno, una bara in cui è sepolto l’inno d’amore che lo scrittore avrebbe rivolto alla donna (ironica è naturalmente la precisazione in cinque strofe). . presensi: presentimenti, intuizioni improvvise. . il maggio della mia vita: ovvero il momento del-

la fioritura primaverile, la fine dell’adolescenza. . neppure di linguaggio: Dossi era celebre per il gran numero di lingue da lui conosciute sin da piccolo (oltre al latino e all’antico greco: l’inglese, il francese, il tedesco, lo spagnolo, il greco moderno, l’olandese – e anche un po’ di russo). . vivente deserto per mè: per la sua condizione di isolamento tra la gente. . sussultato di bronzea tosse: «suonato». Si noti l’immagine peregrina e volutamente ironica (un aggettivo solenne come bronzea connesso a una parola comune e alla quale comunque non lo immagineremmo mai connesso come tosse). . vetriata: vetrata. . pellùcido: trasparente.

˜ TESTI

9.3 GIOSUE CARDUCCI Rime nuove Traversando la Maremma toscana (XXXIV)

Q

uesto sonetto fu composto in seguito a un attraversamento della Maremma (avvenuto il 10 aprile 1885 durante un viaggio a Roma) e pubblicato su «La domenica del Fracassa» del 3 maggio 1885, con il titolo Traversando la Maremma pisana, mantenuto nell’edizione delle Rime nuove del 1887; il titolo definitivo è adottato nella raccolta delle Poesie del 1901. Il passaggio nei luoghi della propria infanzia e adolescenza (la Maremma tra Bólgheri e Castagneto) fa sorgere immediatamente (nella prima quartina) l’immagine della consonanza tra il proprio carattere fiero e la severa fierezza di quei luoghi: ma riconoscere quel mondo fa ritrovare anche i sogni e le speranze della giovinezza e avvertire la vanità di tutto l’inquieto agitarsi dell’esistenza che ne è seguita, di quel movimento continuo che lo ha portato lontano. La malinconia che ne sorge sembra come placarsi e rasserenarsi nella contemplazione del paesaggio, che con la sua freschezza mattutina promette quella pace e quella quiete che il poeta solo sfiora durante il viaggio. Questa tematica, che sarà ripresa con un ritmo piú disteso e appassionato in Davanti San Guido, è qui espressa attraverso un meccanismo di studiata misura classica, ricco di echi letterari: la visione, il ricordo, la malinconia, la pace, sono come delle categorie assolute che vanno a formare l’immagine di sé che il poeta propone al suo pubblico. [EDIZIONE: Giosue Carducci, Tutte le poesie, a cura di P. Gibellini, note di M. Salvini, Newton & Compton, Roma 1998] METRO: sonetto con rime alterne, con schema ABAB ABAB CDC DCD.

Dolce paese, onde portai conforme l’abito fiero e lo sdegnoso canto e il petto ov’odio e amor mai non s’addorme, pur ti riveggo, e il cuor mi balza in tanto. 



Ben riconosco in te le usate forme con gli occhi incerti tra ’l sorriso e il pianto, e in quelle seguo de’ miei sogni l’orme erranti dietro il giovenile incanto. Oh, quel che amai, quel che sognai, fu in vano; e sempre corsi, e mai non giunsi il fine; e dimani cadrò. Ma di lontano

vv. -. «dolce paese, dal quale ho ereditato del tutto simile il mio carattere fiero, il mio canto sdegnoso e il mio cuore sempre in preda ai sentimenti, dove vigilano sempre odio e amore»; l’espressione Dolce paese si ritrova al v.  di Romagna di Pascoli: «Romagna solatia, dolce paese». v. . pur ti riveggo: «ancora ti rivedo»; espressione molto diffusa nella tradizione poetica e nel melodramma. v. . diretta ripresa da Petrarca, Canzoniere, CCCI, : «ben riconosco in voi l’usate forme».

vv. -. «e attraverso quelle forme (nell’aspetto del paesaggio) inseguo le tracce dei miei sogni che si muovono verso le immagini dell’incanto giovanile»: la visione del paesaggio conduce a sognare a occhi aperti il mondo incantato dell’infanzia e dell’adolescenza. v. . di lontano: le colline si allontanano per il viaggiatore che soltanto passa (come nell’allontanarsi del treno in Davanti San Guido, v. ), ma sono anche lontane nel tempo, fissate nel mondo dell’infanzia.

Consonanza tra il carattere del poeta e la fierezza della Maremma Ricordo, malinconia, pace

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LA NUOVA ITALIA

-

pace dicono al cuor le tue colline con le nebbie sfumanti e il verde piano ridente ne le pioggie mattutine.

Pianto antico (XLII)

In ricordo della morte del figlio

Il rifiorire della primavera e l’immobilità della morte

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Q

uesto breve componimento fu scritto nel giugno del 1871, in ricordo del figlioletto Dante, morto a soli tre anni il 9 novembre 1870, a cui Carducci aveva già dedicato il sonetto Funere mersit acerbo: in origine esso non aveva titolo e nelle prime edizioni (la raccolta Nuove poesie, 1873 e 1875) aveva come epigrafe versi del Canto funebre di Bione bifolco amoroso del poeta greco Mosco (secolo II a.C.), già tradotto da Leopardi («le malve, o l’appio verde, o il crespo aneto, / rivivono e rinascono un altr’anno / … Or tu sotterra in tenebroso loco / sempre muto starai»); il titolo Pianto antico comparve solo nell’edizione delle Rime nuove (1887), indicando il legame di questo lamento con le forme poetiche antiche e la loro originaria «ingenuità». Come nei versi di Mosco, la poesia oppone il fiorire e il rinascere della primavera all’immobilità della morte, distribuendo i dati dell’opposizione in due parti di uguale misura nettamente distinte (le prime due e le seconde due strofette). L’immagine del rifiorire, nella prima parte, è tutta concentrata sul verde melograno a cui il bambino tendeva fiduciosamente la pargoletta mano, e che nel mese di giugno ritrova nuova luminosa e calda vitalità. La seconda parte è costruita su di un’analogia tra il melograno e la vita dello stesso poeta (travagliata da tanti dolori) e tra la pianta stessa e il bambino, che ne costituisce il fiore (l’ultima consolazione tra quei dolori): essa si svolge con tutta una serie di corrispondenze e opposizioni con i dati della prima parte, disposte in un movimento regolato dalle anafore (prima tra i vv. 9 e 11; poi, in modo piú fitto, nell’ultima quartina, tra i vv. 13 e 14, con la piú ampia ripresa di sei ne la terra, e tra i vv. 15 e 16). Opposizioni e corrispondenze si dispongono nel ritmo leggero della canzonetta, che sembra come voler semplificare e tradurre per il bambino una trama di echi e di richiami letterari (oltre che da Mosco, da Pontano, da Tasso, da Leopardi e da altri). METRO: canzonetta anacreontica, di 4 quartine di settenari rimati abbx: il quarto verso ha sempre la rima or, per giunta con la stessa parola fior nella prima e nella terza.

L’albero a cui tendevi la pargoletta mano, il verde melograno da’ bei vermigli fior, 

nel muto orto solingo rinverdí tutto or ora

v. . tendevi: correzione dell’edizione del  rispetto al precedente stendevi, che seguiva piú direttamente Tasso, Gerusalemme liberata, XII, , : «la pargoletta man secura stendi». v. . melograno: pianta che gli antichi considerava-

no sacra alla dea dei morti, Persefone; un melograno sorgeva nel giardino della casa in cui Carducci abitava a Bologna. v. . il silenzio e la solitudine dell’orto alludono già ora all’assenza del bambino, che si farà esplicita

T. GIOSUE CARDUCCI. RIME NUOVE



e giugno lo ristora di luce e di calor. 



Tu fior de la mia pianta percossa e inaridita, tu de l’inutil vita estremo unico fior, sei ne la terra fredda, sei ne la terra negra; né il sol piú ti rallegra né ti risveglia amor.

nella quartina successiva. v. . in opposizione al rinverdí del v. ; l’immagine del poeta colpito dal fulmine e inaridito si ritrova in una lirica latina di Pontano per la morte del figlioletto Lucio; e si può riconoscere un’eco da Leopardi, Il risorgimento, - («Piansi spogliata, esanime / fatta per me la vita; / la terra inaridita / chiusa in eterno gel»). v. . cfr. ancora Leopardi, Le ricordanze, : «o

dell’arida vita unico fiore». vv. -. corrispondono perfettamente ai vv. -: al rinverdire dell’albero nell’orto corrisponde il definitivo stare (sei) del bimbo sotto terra; e inoltre fredda e negra corrispondono rispettivamente a calor e a luce. vv. -. perfetta corrispondenza con i vv. -; mentre rallegra e risveglia rispondono a ristori, sol risponde a luce e amor (che è soggetto di risveglia) a calor.

San Martino (LVIII)

i

l giorno di San Martino è l’11 novembre, quando si fa la svinatura. Precedentemente intitolato Autunno, il pezzo fu scritto però l’8 dicembre del 1883; l’autografo testimonia di un processo correttorio piuttosto vistoso, nonostante la rapidità della composizione (dalle due alle tre del pomeriggio!). In particolare si nota l’evolversi da un linguaggio ancora fortemente classicheggiante, elevato, talora squisitamente pariniano, a un eloquio piú vivace, piú realistico ed efficace. Si leggano le prime tre quartine nella primissima versione: «La grigia nebbia a i nudi / colli selvaggi sale, / e sotto il maestrale / biancheggia il mar là giú. // Odora via per l’aria / da gli spumanti tini / dei ben compressi vini / la rigida virtú. // Su gli odorati fuochi / lento lo spiedo gira / e su la porta mira, / fischiando, il cacciator». Si noti per esempio, nell’ultimo verso citato, il calco piú vistoso di Leopardi, Il sabato del villaggio, v. 29: fischiando, il zappatore. O il livello alto di espressioni del tipo odorati fuochi, ben compressi vini, rigida virtú ecc. nonché l’enjambement ai primi versi: nudi / colli. E si confronti tutto questo con l’esito finale della poesia, dove la mediazione letteraria e classicistica è meno evidente e la resa realistica è piú ricercata, attraverso notazioni descrittive piú assaporate e nervose. Questo non significa che i versi di San Martino non siano carichi comunque di memorie letterarie, come hanno messo in evidenza vari studiosi (Isella, Di Benedetto, Donini, Capovilla): Carducci ha in mente versi di Chiabrera («e sotto i fulmini / rimugghia il mar», Canzonette morali VII, 11-12) o addirittura di Ippolito Nievo («L’ombra per colli e monti / inerpicando sale», dal canzoniere Le lucciole, pubblicato nel 1858: cfr. 8.8), ulteriore conferma del fatto che in Carducci «tutto si depone sul foglio di carta dopo essere stato filtrato attraverso il filtro della letteratura e della poesia» (Martelli). E allo-

Classicismo e realismo

Memorie letterarie

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



LA NUOVA ITALIA

-

ra il bozzetto «realistico» di San Martino non può essere letto senza pensare anche a certe odi oraziane, di ambientazione invernale, con il mare in burrasca e gli interni riscaldati dal fuoco e dal vino (cfr. per esempio Orazio, Carmina, I, 9; 11). Insomma, la perfezione descrittiva «moderna» di una lirica come San Martino si fonda sul rifiuto di un classicismo troppo mediato, troppo aulico e composto, a favore di una spigliatezza piú sensibile e accesa, ma non evita il confronto con la tradizione poetica a tutto campo, dai classici antichi ai piú moderni verseggiatori italiani e stranieri. Cosí il finale, con la notazione di esilio spirituale, di svanimento serale, può rievocare luoghi romantici come il sonetto Alla sera di Foscolo o il gusto leopardiano per l’indefinito, per il lontanare delle immagini e dei suoni. Ma gli ultimi versi sono anche tutti intimamente carducciani, di un poeta cioè che dalla meditazione sulla morte trae sempre le note piú vitali della sua poesia.

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METRO: strofette anacreontiche, di quartine di settenari con rime abbc; l’ultimo verso delle quartine è sempre tronco e con la stessa rima.

La nebbia a gl’irti colli piovigginando sale, e sotto il maestrale urla e biancheggia il mar; 



ma per le vie del borgo dal ribollir de’ tini va l’aspro odor de i vini l’anime a rallegrar. Gira su’ ceppi accesi lo spiedo scoppiettando: sta il cacciator fischiando su l’uscio a rimirar

v. . irti colli: sono detti irti perché popolati di alberi spogli, con rami acuti e appuntiti. D’altra parte l’aggettivo irti sostituisce, in un certo senso, il piú ovvio erti, che ci saremmo potuti attendere; e può venire in mente l’ermo colle leopardiano, in una catena di giochi fonici ininterrotti, all’interno della tradizione poetica. v. . piovigginando: «sciogliendosi in pioggerella»; si osservi, in questi due primi versi, l’effetto descrittivo fatto non di ampie pennellate, ma di notazioni acute, sottili, pungenti. v. . sotto il maestrale … mar: «sotto il violento soffio del vento gelato di nord-ovest il mare rumoreggia e si imbianca di spume» (cfr. Presso l’urna di Percy Bysshe Shelley, Odi barbare, XLVIII, : «Biancheggia l’oceano d’intorno»). Rispetto ai primi due versi, i vv. - presentano una tecnica opposta, un rapido ma grandioso affresco marino in cui vento e acque si fanno guerra. Là un silenzio appena bucherellato dalla pioggia finissima, qui un tutto pieno orchestrale, nella furia della natura. v. . borgo: potrebbe essere, come suggeriscono i

commentatori, Bólgheri, o Castagneto (di cui Bólgheri è frazione), paesi maremmani, in provincia di Livorno, dove Carducci trascorse l’infanzia. Ma non è necessario indicare referenti precisi. v. . dal … tini: nei tini ribollono le uve pigiate, fermenta il mosto che si fa vino e il cui aroma si diffonde per le vie del paese. La seconda quartina, introdotta dall’avversativa ma, sposta l’attenzione dalle nebbie solitarie e dal furore invernale del mare in tempesta al nucleo umano, il borgo dove ferve l’attività della svinatura. v. . aspro: in questa notazione tagliente c’è una sorta di sferzata piacevole che riscalda e, come detto al v. , rallegra. vv. -. Gira … scoppiettando: l’atmosfera calda dell’interno è vivacizzata dalla descrizione dell’arrosto che gira sullo spiedo; lo scoppiettío è proprio in realtà dei ceppi, della legna accesa, ma lo spostamento per contiguità (metonimico) è artificio retorico usatissimo. v. . fischiando: fischiettando un motivo. v. . rimirar: contemplare assorto.

T. GIOSUE CARDUCCI. RIME NUOVE





tra le rossastre nubi stormi d’uccelli neri, com’esuli pensieri, nel vespero migrar.

v. . rossastre: per il tramonto. Cfr. La guerra (Rime e ritmi, IX), vv. -: «al vespero / nel sol rossastro». Si pensa anche a un verso di Ippolito Nievo, «al rosseggiar del vespro / cinguetta il passerajo», in un bozzetto autunnale (Gli amori in servitú, VII, vv. -). v. . stormi … neri: cfr. Presso l’urna di Percy Bysshe Shelley, cit., : «volano uccelli strani per il

purpureo cielo». Gli uccelli neri si disegnano con colorismo ben nitido sul cielo rosso della sera. vv. -. com’esuli … migrar: gli uccelli che volano lontano nel tramonto sono paragonati a pensieri «migratori», che vanno verso un indefinito esilio (esuli), che si perdono nella sera (nel vespero) in uno svanire che è immagine di morte, per quanto pacifica.

Primavere elleniche III. Alessandrina (LXIV)

l

e Primavere elleniche sono tre odi pubblicate dapprima a Firenze, presso l’editore Barbèra, nel 1872, e poi, dopo diverse vicende editoriali (con l’inserimento nella raccolta Nuove poesie del 1873), confluite nel quarto libro della raccolta Rime nuove. Sono dedicate a Carolina Cristofori Piva, conosciuta nel 1871 e cantata poeticamente con il nome di Lina o, altrove, di Lidia; le prime due, dette Eolia e Dorica, sono dominate dal sogno neoclassico di isole lontane e incantate, votate ad Apollo e Afrodite, dove perdersi nella poesia e nella voluttà. Carducci si sente greco come i lirici antichi, Alceo e Saffo, e lo ribadisce in questa terza delle Primavere, ove però si fa presente il tema della morte: il sottotitolo Alessandrina indica forse proprio questo clima funebre, decadente, quindi ellenistico, appunto «alessandrino», che domina l’ode. Essa mette in scena un incontro reale fra il poeta e l’amata, a Milano, nel freddo maggio del 1872, quando i due visitarono insieme il cimitero di San Gregorio (che oggi non c’è piú) e Lina passò fra le tombe con il suo abito di seta (l’autografo reca infatti il titolo In camposanto e le date 21-27 maggio 1872). Il contrasto fra la calda voluttuosa vitalità che promana dalla donna e il gelido marmo sepolcrale su cui batte una pioggia acuta e insistente domina gran parte dell’ode, che si conclude all’insegna di una morte pagana, tutta sensuale, con la balenante promessa di una beatitudine nei campi elisi dove i poeti e le loro amanti non potranno essere separati (l’amore per Lina era clandestino, giacché sia lei sia Carducci erano sposati). Giosue scrive al suo amore, a proposito dell’Alessandrina: «Quella poesia è tutta cosa tua: sei tu, vedi! Io non ho fatto altro che prenderti in un momento felice, e rappresentarti plasticamente, e significare artisticamente quel che io sentivo dinanzi alla tua estetica influenza». Le tre Primavere sono in sostanza «una apoteosi aulente [profumata] e risplendente della bellezza (e questo è il vero divino ellenico)», aggiunge Carducci, che compone con l’Alessandrina un capolavoro di estetismo erotico-mortuario, dove la rigidità del marmo e la vaporosità del sogno non si distinguono piú. METRO: ode alcaica composta da strofe di quattro versi, i primi due decasillabi non rimati, composti ciascuno da due quinari di cui il secondo sempre sdrucciolo, e i rimanenti due settenari piani a rima baciata.

Sogno neoclassico e tema della morte

La vitalità della donna e il marmo sepolcrale

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LA NUOVA ITALIA

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Gelido il vento pe’ lunghi e candidi intercolonnii fería; su tumuli di garzonetti e spose rabbrividian le rose 

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sotto la pioggia che, lenta, assidua, sottil, da un grigio cielo di maggio battea con faticoso metro il piano fangoso; quando, percossa d’un lieve tremito, ella il bel velo d’intorno a gli omeri raccolto al seno avvinse e tutta a me si strinse: voluttuosa ne l’atto languido tra i gotici archi, quale tra’ larici gentil palma volgente al nativo orïente. Guardò serena per entro i lugubri luoghi di morte; levò la tenue fronte, pallida e bella, tra le floride anella che a l’agil collo scendendo incaute tutta di molle fulgor la irradiano:

v. . intercolonnii: sarebbero gli spazi fra le colonne; qui il termine indica complessivamente il bianco colonnato del cimitero milanese di San Gregorio, dove passeggiano l’autore e la donna amata; fería: «soffiava tagliente», in una primavera gelata; tumuli: «sepolcri». Si veda, per una possibile imitazione, D’Annunzio, Gorgon, -: «emergean lunghe figure / fra gli intercolonni» (nella raccolta La chimera: cfr. ..). v. . garzonetti: fanciulli, giovinetti. vv. -. faticoso / metro: «ritmo insistente, noioso, ossessionante». Si osservi l’efficacia della descrizione della pioggia, dovuta soprattutto alla triplice aggettivazione dei vv. - (vd. anche sotto, v.  e nota); il clima di spleen, di tedio, sotto il grigio cielo, è reso ancor piú oppressivo dall’indicazione stagionale: è maggio, il mese delle rose, ma sembra un giorno di novembre, i colori si spengono e la pioggia acuta entra nell’animo e fa rabbrividire. v. . ella: l’amata; omeri: «spalle». Il brivido delle rose e della natura si incarna ora nel bel corpo neoclassico della donna. v. . avvinse: «chiuse», per proteggersi dal freddo. v. . voluttuosa … languido: nel gesto femminile e delicato (languido) di stringersi al poeta c’è una sorta di sensualità voluttuosa.

v. . gotici archi: le arcate del colonnato sono «gotiche», a sesto acuto. vv. -. quale … orïente: la donna è come una elegante e delicata palma che, trovandosi al freddo fra alberi nordici, come i larici, si protende verso i nativi paesi orientali, pieni di calore e di sole. v. . serena … lugubri: la donna è portatrice di elementi antitetici rispetto all’ambiente; non soltanto essa è calore rispetto al gelo, ma è soprattutto vita e serenità in mezzo alle lugubri immagini di morte del camposanto. v. . tenue: «piccola, breve», in quanto ricoperta dai riccioli folti (floride anella, v. ), ma anche «delicata, aggraziata»; l’immagine deriva dalla raffigurazione oraziana di Licoride «insignem tenui fronte», “magnifica con la sua tenera, sottile fronte” (Odi, I, , ). I capelli di Lina, l’amata da Carducci, erano effettivamente mossi in riccioli castani intorno al viso, come si legge nelle lettere del poeta alla donna. v. . incaute: «sciolte», non raccolte e quindi anche dolcemente spavalde, ardite; il collo è detto agil per la sua snellezza sottile ed elegante. Il lessico carducciano è denso, ricco di sfumature evocative che gli derivano dalle etimologie latine classiche e dallo sforzo figurativo messo in gioco. v. . tutta … irradiano: i floridi capelli illuminano

T. GIOSUE CARDUCCI. RIME NUOVE



e piovvemi nel cuore sguardi e accenti d’amore 

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

lunghi, soavi, profondi: eolia cetra non rese piú dolci gemiti mai né sí molli spirti di Lesbo un dí tra i mirti. Su i muti intanto marmi la serica vesta strisciava con legger sibilo, spargeanmi al viso i venti le sue chiome fluenti. Non mai le tombe sí belle apparvero a me ne i primi sogni di gloria. Oh amor, solenne e forte come il suggel di morte! Oh delibato fra i sospir trepidi su i cari labri fiore de l’anima e intraviste ne’ baci interminate paci! Oh favolosi prati d’Elisio, pieni di cetre, di ludi eroici

la fronte e il viso della donna con un molle fulgor, uno splendore morbido, dolce. vv. -. «e fece piovere sul mio cuore sguardi e parole (accenti) calde d’amore», al posto della acuta gelida pioggia di cui sopra. La donna trionfa, sostituendo al brivido grigio e mortuario del cimitero un’ondata di inebriante calore. v. . lunghi, soavi, profondi: aggettivazione relativa sia agli sguardi che agli accenti; si noti ancora una formazione ternaria, come ai vv. -: si tratta di un trícolon (cfr. p. ), formulazione trimembre di aggettivi o sostantivi, di perfetta misura classica. vv. -. eolia … mirti: la poesia (metonimicamente cetra) dei lirici eolici Saffo e Alceo (fra i secoli VII-VI a.C.) non espresse mai lamenti d’amore piú dolci né sentimenti cosí languidi, teneri (sí molli spirti), fra i mirti dell’isola di Lesbo, arbusti sacri ad Afrodite, dea dell’amore. vv. -. «frattanto l’abito di seta (serica / vesta) della donna trascina il suo lembo con leggero fruscío sopra le silenziose tombe marmoree». Da osservare il gioco antitetico, questa volta nella sfera sonora, fra il mutismo sepolcrale e il legger sibilo dell’orlo della veste. vv. -. il vento muove la fluente capigliatura della donna e la spinge sul viso del poeta; immagine che traduce il topos petrarchesco («erano i capei d’oro a l’aura sparsi») in forme piú neoclassiche e sensuali.

v. . sí belle: «cosí belle». Carducci intende dire che non aveva mai colto la sublime bellezza dei sepolcri come in quel momento in cui la donna passeggiava con lui nel camposanto; neppure in giovinezza le tombe dei grandi a Santa Croce a Firenze lo avevano entusiasmato fino a quel punto. v. . l’amore è definito sacro e invincibile (solenne e forte) come lo è la morte, che pone il sigillo (suggel) su ogni cosa, che chiude l’esistenza per sempre. Il dittico romantico amore e morte (e si pensi al canto di Leopardi), viene riproposto da Carducci con singolare energia erotica e plastica. vv. -. «o fiore delle nostre anime, reciprocamente gustato sulle amate labbra, fra i trepidanti sospiri, nell’attimo del bacio, e infinite stagioni di perenne tranquillità intraviste nell’atto di baciarci!». Il poeta fa riferimento implicito a una complessa tradizione poetico-filosofica, per cui, durante il bacio, l’anima degli amanti si affaccia sulle labbra e si trasfonde nell’amato, in una miscela di morte e vita paradossale, di impronta neoplatonica. Le interminate paci possono evocare, in un contesto del tutto diverso, gli interminati spazi de L’infinito di Leopardi, vv. -. v. . Elisio: l’aldilà classico dei beati. v. . intende dire che il paradiso pagano è pieno di poeti che cantano sulla loro cetra e di eroi che gareggiano nei giochi (ludi).

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LA NUOVA ITALIA

-

e del purpureo raggio di non fallace maggio, 

ove in disparte bisbigliando errano (né patto umano né destin ferreo l’un da l’altra divelle) i poeti e le belle!

vv. -. quel paradiso è pieno poi di una luce vivace, rossa, accesa, luminosità di una primavera eterna, che non inganna (non fallace maggio). Il purpureo raggio è memoria virgiliana («lumine… purpureo» Eneide, VI, -) e tutta la descrizione dei campi elisi, compresa la strofa seguente, è carica di memorie di poeti classici elegiaci (Tibullo, Properzio). vv. -. nell’aldilà felice nulla separa (divelle, la-

tinismo) il poeta dalla sua bella, né vincolo umano, come il matrimonio, né destino duro, spietato (ferreo). Il riferimento al patto umano assume maggiore significato se si pensa alla condizione matrimoniale di Lina, sposata a un colonnello, e a quella dello stesso Carducci, marito di Elvira Menicucci dal  (e proprio nel , anno di pubblicazione delle Primavere elleniche, Elvira dà a Giosue la quarta figlia, Tittí).

Odi barbare Dinanzi alle Terme di Caracalla (I, IV)

s

Contrasto modernitàantichità

˜

otto l’impressione di una visita ai monumenti romani nel marzo 1877 Carducci scrisse, tra il 14 e il 24 aprile, l’ode Dinanzi alle Terme di Caracalla, ispirata alla maestosa e sacrale immagine delle rovine delle antiche terme romane, con una polemica contro i moderni che costruiscono case orribili, si dànno alla speculazione edilizia e minacciano la religiosità, se pure pagana, dell’antica Roma, che vince il tempo con le sue mura imponenti. Ma il contrasto è complessivamente quello modernità-antichità, con tutta una serie di disvalori e negatività per la prima, opposta alla bellezza, sublimità, sacralità della seconda, con cui soltanto il poeta si sente in sintonia, diversamente dagli altri uomini novelli e anche da figure come quella della turista inglese con il suo Baedeker, quantomai antisublime ed estranea, e del ciociaro ammantellato, indifferente quasi come un animale selvatico. La prima sezione dell’ode, la piú felice, descrive una Roma cupa e gelata, tutta vento, nuvole, corvi e desolazione, con le maestose rovine che incutono sgomento e venerazione; la seconda sezione, con la lunga invocazione alla dea Febbre e la finale immaginazione della dea Roma distesa fra i colli e la via Appia, non manca di effetti plastici, ma risulta piuttosto viziata da una retorica talora anche pesante. METRO:

ode saffica in strofe di quattro versi, tre endecasillabi e un quinario senza rime.

Corron tra ’l Celio fosche e l’Aventino le nubi: il vento dal pian tristo move v. . Corron: le nubi trascorrono veloci nel cielo, tra i due colli romani Celio e Aventino, in mezzo ai quali stanno le rovine delle Terme di Caracalla, dette cosí dal nome dell’imperatore che ne iniziò la costruzione (Caracalla, ovvero Marco Aurelio

Antonino, imperatore fra il  e il  d.C.). v. . dal pian … move: il vento umido, gonfio di pioggia, avanza (move) dalla pianura dell’agro romano, squallido e paludoso (tristo), verso la città. Siamo nel mese di marzo, in una Roma fredda e

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umido: in fondo stanno i monti albani bianchi di neve. 

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

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A le cineree trecce alzato il velo verde, nel libro una britanna cerca queste minacce di romane mura al cielo e al tempo. Continui, densi, neri, crocidanti versansi i corvi come fluttuando contro i due muri ch’a piú ardua sfida levansi enormi. «Vecchi giganti, – par che insista irato l’augure stormo – a che tentate il cielo?» Grave per l’aure vien da Laterano suon di campane. Ed un ciociaro, nel mantello avvolto, grave fischiando tra la folta barba, passa e non guarda. Febbre, io qui t’invoco, nume presente.

opaca: come si legge nelle lettere di Carducci di quel  marzo, la notte precedente aveva addirittura nevicato: «Questa notte in Roma è nevicato: caso singolare, e fa freddo», scrive il poeta alla moglie. vv. -. una turista inglese (britanna), ricopertasi le trecce grigio-cenere con il velo verde, ricerca nella sua guida (nel libro) informazioni circa queste grandiose rovine romane, che sembrano minacciare il cielo e sfidare il tempo con la loro capacità di superare i secoli. Non si trascuri, in questo schizzo che contrappone la turista moderna e l’immane antichità, la nota cromatica del velo verde e delle cineree trecce. Nonché la probabile memoria virgiliana per le minacce di romane mura: «minaeque / murorum ingentes», “grandiose minacce delle mura” (Eneide, IV, -). vv. -. Continui … corvi: i corvi si riversano a ondate, risalendo e discendendo in volo le mura; sono definiti attraverso quattro attributi (formazione quadrimembre o tetràcolon), che indicano rispettivamente la ripetitività incessante del volo delle schiere (continui), la grande quantità di uccelli fitti nel gruppo (densi), il lugubre colore (neri) e, con parola onomatopeica, il loro gracchiare (crocidanti). vv. -. i due muri … enormi: i due muri piú alti, che svettano sugli altri ruderi e si elevano (levansi) grandiosi a sfidare maggiormente e piú arditamente (a piú ardua sfida) il tempo e il cielo, come detto sopra.

vv. -. «Vecchi giganti … il cielo?» lo stormo dei corvi (detto àugure perché dal volo dei corvi gli antichi Romani traevano augúri, auspici, presagi per il futuro) sembra dire alle possenti mura: o giganti antichi, annosi, perché (a che) inutilmente sfidate il cielo, come già i Titani della mitologia classica che tentarono di assalire il regno degli dèi? v. . Grave per l’aure: solenne attraverso l’aria giunge il rintocco delle campane da San Giovanni in Laterano. v. . Ed un ciociaro: secondo bozzetto, dopo quello della turista: è il ciociaro, cioè un pastore o contadino della Ciociaria, nel Lazio sudorientale, detta cosí dal nome delle tipiche calzature, le «ciocie». v. . grave fischiando: fischiettando una cupa cantilena, grave come grave era il rintocco della campana. Tutto si adegua all’atmosfera livida e severa del paesaggio romano. v. . passa e non guarda: inversione del dantesco «guarda e passa» (Inferno, III, ). Il ciociaro rappresenta l’assoluta indifferenza verso l’antica sacralità delle rovine, cosí come la turista rappresentava la curiosità distante e quasi dissacrante della modernità ignara. A questo punto il poeta, l’unico che si sente realmente vicino all’antico, scatta con la sua invocazione a una divinità romana, Febris, Febbre. v. . nume presente: deità operativa, attiva, propizia. Era la dèa invocata per allontanare le febbri malariche provocate dalle paludi che arrivavano fino a Roma.

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LA NUOVA ITALIA

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Se ti fûr cari i grandi occhi piangenti e de le madri le protese braccia te deprecanti, o dea, dal reclinato capo de i figli: 

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se ti fu cara su ’l Palazio eccelso l’ara vetusta (ancor lambiva il Tebro l’evandrio colle, e veleggiando a sera tra ’l Campidoglio e l’Aventino il reduce quirite guardava in alto la città quadrata dal sole arrisa, e mormorava un lento saturnio carme); Febbre, m’ascolta. Gli uomini novelli quinci respingi e lor picciole cose: religïoso è questo orror: la dea Roma qui dorme. Poggiata il capo al Palatino augusto, tra ’l Celio aperte e l’Aventin le braccia, per la Capena i forti omeri stende a l’Appia via.

v. . Se ti fûr cari: «se gradisti, se ti mossero a compassione». I commentatori concordemente richiamano un passo dei Sepolcri di Foscolo: «se, diceva / a te fur care le mie chiome e il viso» (vv. ), che a sua volta ricalca altri testi della tradizione (da Petrarca a Galeazzo di Tarsia: cfr. le nostre note in T.). v. . protese braccia: in atto di supplica. vv. -. madri che ti supplicano di allontanare l’influsso malarico dal capo piegato, sfibrato per la malattia, dei figlioli. Raffigurazione statuaria, marcatamente classicheggiante. vv. -. su ’l Palazio … vetusta: l’antichissimo altare dedicato alla dea Febbre sull’elevato colle Palatino (Palazio eccelso), come informa Cicerone, citato dallo stesso Carducci nell’autografo della poesia: «araque vetusta in Palatio Febris» (De legibus, II, , ). vv. -. ancor lambiva … saturnio carme: a quei tempi il Tevere (Tebro) bagnava ancora il Palatino (l’evandrio colle, dove regnò Evandro) e il romano di ritorno dal mare (il reduce quirite) che risaliva il fiume sulla barca a sera, tra il Campidoglio e l’Aventino, sollevava lo sguardo verso la rocca palatina, l’antico nucleo della città di Roma sul Palatino (la città quadrata), illuminata dal sole declinante (dal sole arrisa), e mormorava lentamente un can-

to in versi saturnii, la forma metrica piú arcaica della romanità. Fu il re Tarquinio Prisco a far deviare il corso del Tevere, che precedentemente bagnava la pianura fra Campidoglio e Aventino e lambiva appunto il Palatino. v. . m’ascolta: ascoltami; uomini novelli: gli uomini d’oggi, i contemporanei e precisamente coloro che, con la speculazione edilizia, minacciano i monumenti, come scrive lo stesso Carducci a spiegazione di questi versi. v. . allontana da qui (quinci) loro e il loro mondo mediocre, ignobile, le loro costruzioni insignificanti e banali (le lor picciole cose), offensive nei confronti della sacralità delle rovine. v. . religïoso … orror: questo luogo che suscita stupore e venerazione (questo orror) è sacro, perché qui riposa la stessa dea Roma, l’essenza divina di Roma. vv. -. la Roma antica è immaginata come una grande divinità distesa sul proprio sito geografico, con il capo adagiato (Poggiata il capo, accusativo alla greca) sul nobile colle Palatino, con le braccia spalancate una sul Celio, l’altra sull’Aventino, le forti spalle e il resto del corpo disteso sulla via Appia che inizia da porta Capena, oggi porta San Sebastiano, e scende verso i monti Albani.

T. GIOSUE CARDUCCI. ODI BARBARE

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Fuori alla Certosa di Bologna (I, XII)

L’

ode, in metro elegiaco che imita il distico latino, fu scritta da Carducci tra la fine di agosto e i primi giorni di settembre del 1879 e apparve sul «Fanfulla della Domenica» del 23 novembre 1879 e poi nel volume delle Nuove odi barbare del 1882; è dedicata ad Adele Bergamini, romana, poetessa e giornalista cantata da Giosue con il nome classico di Delia, derivato da Tibullo. La poesia fa riferimento a una visita alla Certosa bolognese, il grande cimitero monumentale, compiuta dai due amanti a metà agosto 1879. Si tratta nuovamente, come era nella Primavera alessandrina (cfr. p. 161), di una meditazione classica sulla morte; la donna amata, sensitiva poetessa, entra in contatto con il mondo dell’aldilà, gremito di folle antiche, di morti lontani nella storia e di altri piú vicini, un coro di mormoranti fantasmi che, negli ultimi versi, si rivolgono ai passanti, come è d’obbligo nella poesia di tipo epigrafico-tombale, e invitano a godere la luce e la giovinezza: essi sono soli, nel freddo e nel marcio, senza fiori né stelle. Come accade spesso in Carducci, il tema mortuario – qui con inserti preziosamente macabri – suscita i migliori risultati poetici, dando vita a un classicismo funebre profondo e pieno di armonici. Notevole è poi l’apertura tutta estiva e fiammante (all’opposto della piovosa Alessandrina), con una figuratività accecata e liquida, dove il paesaggio della pianura diventa marino, con un gioco di fusione di elementi quasi impressionista, carico di cromatismi, se pure non privo talora di contorni nitidi (come le «solitarie due nuvolette bianche» del v. 10). METRO: distici elegiaci (esametro + pentametro). Per rendere in italiano la misura di questi versi latini, Carducci adottò soluzioni di vario tipo: in questo componimento l’esametro è riprodotto con due emistichi, un ottonario seguito da un novenario: l’ottonario ha sempre accenti di 1a o 2a, 4a e 7a, salvo che al v. 5 con accento di 5a (ma il primo emistichio del v. 1 va letto con dialefe dopo che); il pentametro è reso con un doppio settenario.

Oh caro a quelli che escon da le bianche e tacite case de i morti il sole! Giunge come il bacio d’un dio: bacio di luce che inonda la terra, mentre alto ed immenso cantano le cicale l’inno di messidoro. 

Il piano somiglia un mare superbo di fremiti e d’onde: ville, città, castelli emergono com’isole. Slanciansi lunghe tra ’l verde polveroso e i pioppi le strade: varcano i ponti snelli con fughe d’archi il fiume.



E tutto è fiamma ed azzurro. Da l’alpe là giú di Verona guardano solitarie due nuvolette bianche.

vv. -. Oh caro … sole: a chi esce dal camposanto è graditissima la luce del sole; le bianche e tacite case sono ovviamente le tombe marmoree e silenziose, o forse piú propriamente le cappelle mortuarie, vere e proprie «case» dei morti. v. . l’inno di messidoro: «l’inno dell’estate»; messidoro era il mese compreso fra il  giugno e il  luglio nel calendario creato durante la rivoluzione francese. Sul canto delle cicale nell’estate infiammata Carducci scrisse notevoli pagine all’inizio

della sua prosa autobiografica Le «risorse» di San Miniato al Tedesco. v. . la pianura incendiata di sole è paragonata al mare, con tutto il suo dinamismo fremente. v. . com’isole: simili a isole nel mare. v. . i ponti dal profilo sottile, non massiccio, oltrepassano, con arcate che sembrano inseguirsi, il fiume, cioè il Reno che scorre a nord di Bologna. v. . E tutto … azzurro: sintesi dinamica e luministica. Carducci è del resto sempre assai sensibile al

Meditazione sulla morte

Inserti macabri

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LA NUOVA ITALIA

-

Delia, a voi zefiro spira dal colle pio de la Guardia che incoronato scende da l’Appennino al piano, v’agita il candido velo, e i ricci commove scorrenti giú con le nere anella per la superba fronte. 

Mentre domate i ribelli, gentil, con la mano, chinando gli occhi onde tante gioie promette in vano Amore, udite (a voi de le Muse lo spirito in cuore favella), udite giú sotterra ciò che dicono i morti.

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Dormono a’ piè qui del colle gli avi umbri che ruppero primi a suon di scuri i sacri tuoi silenzi, Apennino: dormon gli etruschi discesi co ’l lituo con l’asta con fermi gli occhi ne l’alto a’ verdi misterïosi clivi, e i grandi celti rossastri correnti a lavarsi la strage ne le fredde acque alpestri ch’ei salutavan Reno,



e l’alta stirpe di Roma, e il lungo-chiomato lombardo ch’ultimo accampò sovra le rimboschite cime.

motivo della metafora fiammeggiante per descrivere la luce solare; si veda, in questa stessa ode, sotto al v.  (cfr. comunque anche un esempio dalle Rime nuove, Idillio maremmano, -: «e a te davante / la grande estate, e intorno, fiammeggiava»). L’«alpe là giú di Verona» deve essere il monte Baldo, nei pressi di Verona, notevolmente lontano da Bologna. vv. -. a voi zefiro … piano: verso di voi soffia un vento leggero proveniente dal colle della Guardia, pio in quanto vi sorge il santuario della Madonna di San Luca e incoronato perché cinto da un lungo porticato che scende fino a Bologna. vv. -. e i ricci … fronte: e agita i ricci che scendono giú neri e inanellati sulla fronte magnifica. Figuratività analoga a quella della Primavera alessandrina; si osservi la consueta cura carducciana per i contrasti cromatici, qui il candido velo e le nere anella della capigliatura. v. . Mentre … mano: mentre, o donna gentile, ricomponete i riccioli ribelli con la mano. v. . onde: dai quali occhi, tramite i quali; in vano: «inutilmente»; la donna non si concede facilmente, è sdegnosa come vuole la tradizione della bella senza pietà, qui però spietata piú che altro per gioco. v. . a voi … favella: a voi scende nel cuore l’ispirazione delle Muse, in quanto anche la Bergamini è poetessa. v. . sotterra: «sottoterra», dalle tombe.

v. . a’ piè qui del colle: «qui ai piedi del colle». Gli avi umbri sarebbero i primi italici che disboscarono e abitarono le pendici dell’Appennino emiliano. vv. -. gli etruschi … clivi: gli Etruschi discesero dalla Toscana a sconfiggere gli Umbri e a popolare le loro terre; avevano il lituo, cioè il bastone ricurvo degli àuguri, dei sacerdoti, e l’asta, la lancia dei guerrieri; tenevano fissi (fermi) gli occhi verso l’alto, verso i fianchi appenninici verdi e per loro inesplorati. vv. -. e i grandi … Reno: segue la popolazione dei Celti, i Galli che invasero la pianura padana nel secolo IV a.C.; parte di loro, sconfitti gli Etruschi, si insediarono nel territorio di Bologna, la Felsina etrusca, e chiamarono il fiume bolognese Reno, come il grande fiume germanico a loro familiare. Sono detti grandi perché di grande statura e rossastri perché di capigliatura biondo-rossastra; Carducci li descrive nell’atto di detergersi dal sangue dei nemici uccisi (lavarsi la strage) nelle acque del Reno. vv. -. i Romani, nobile (alta) stirpe, sconfissero i Galli all’inizio del sec. II a.C.; l’ultima popolazione straniera ad accamparsi sulle campagne e sui colli bolognesi, ritornati verdi e boscosi (rimboschite cime) a seguito della decadenza dell’impero, fu quella dei Longobardi, che portavano lunghi i capelli (il lungo-chiomato lombardo).

T. GIOSUE CARDUCCI. ODI BARBARE



Dormon con gli ultimi nostri. Fiammeggia il meriggio su ’l colle: udite, o Delia, udite ciò che dicono i morti. 

Dicono i morti – Beati, o voi passeggeri del colle circonfusi da’ caldi raggi de l’aureo sole. Fresche a voi mormoran l’acque pe ’l florido clivo scendenti, cantan gli uccelli al verde, cantan le foglie al vento. A voi sorridono i fiori sempre nuovi sopra la terra: a voi ridon le stelle, fiori eterni del cielo. –



Dicono i morti – Cogliete i fiori che passano anch’essi, adorate le stelle che non passano mai. Putridi squagliansi i serti d’intorno i nostri umidi teschi: ponete rose a torno le chiome bionde e nere.



Freddo è qua giú: siamo soli. Oh amatevi al sole! Risplenda su la vita che passa l’eternità d’amore.

v. . Dormon … nostri: tutte queste popolazioni, stratificatesi nella storia, dormono nel cimitero bolognese insieme con i piú recenti morti, nostri perché vicini al Carducci, come gli uomini celebri e i patrioti ma soprattutto come i congiunti del poeta, quali la madre Ildegonda e il figlio Dante. v. . udite … udite … dicono: si notino le ripetizioni cantilenanti, come sopra dormono … dormon e ancora sotto dicono i morti ecc. v. . passeggeri del colle: che passeggiate sul colle. v. . circonfusi … sole: avvolti dai raggi caldi del sole dorato. v. . florido clivo: fiorito pendío. v. . sempre nuovi: che sempre sbocciano nuovamente a primavera. v. . passano anch’essi: anche i fiori sono mortali, effimeri. v. . adorate … mai: l’eternità (poetica, ovviamente) delle stelle, rispetto al caduco mondo terrestre,

è degna di venerazione. v. . le corone funebri di fiori (i serti) sottoterra imputridiscono e si disfanno intorno ai teschi dei morti, umidi di marcescenza. Momento di grande efficacia espressiva, in cui la parola mira a cogliere l’infradiciarsi della materia preziosa (gli aulici serti) con ricercatezza sonora ed evocativa (putridi squagliansi). v. . l’invito è a porre piuttosto corone di rose intorno al capo dei viventi, sulle chiome bionde o nere della gioventú. vv. -. il lamento dei morti è decisamente pagano, tutto proteso verso la bellezza della vita, della giovinezza, verso l’esistenza che trascorre veloce, pur se vi risplende l’amore che in sé è eterno: il loro invito ad amarsi al sole erompe con estrema semplicità, come elementare e agghiacciante è l’espressione precedente, «Freddo è qua giú: siamo soli», di una nudità davvero sepolcrale.

Alla stazione in una mattina d’autunno (II, XXIX)

L’

episodio cui si ispira l’ode sembra essere datato 23 o 27 ottobre 1873, quando Giosue accompagnò alla stazione di Bologna l’amata Carolina Cristofori Piva (la Lidia delle Primavere Elleniche: cfr. p. 161) che era venuta a trovarlo, dovendo raggiungere il marito a Civitavecchia; l’elaborazione della poesia deve essersi però protratta fra il 1875 e il 1876: e al

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Il treno, emblema di dolore infinito Un viaggio senza ritorno

La «sublimazione del moderno» attraverso il filtro classicista

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LA NUOVA ITALIA

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giugno del 1875 risale il nucleo di strofe che evocano l’immagine della bella donna nella prima estate luminosa (vv. 37-48), mentre al dicembre dell’anno seguente si deve ascrivere il resto del lavoro. Nell’epistolario carducciano si leggono numerose lettere alla Cristofori che si avvicinano al linguaggio e all’atmosfera dolorante dell’ode; si veda questo passo della lettera del 20 dicembre 1874: «Oh, oh, oh! fuora piove acqua tinta [scura, nera] e neve su le sudicie vie: dentro, dentro l’anima mia, piove malinconia, malinconia e disperazione»; o quest’altro dell’8 marzo 1876: «Che triste giornata! Pioveva fitto, minuto, lento, freddo. La terra era fango e il cielo colore del fango» ecc. In altri luoghi dell’epistolario si fa preciso riferimento, come nella poesia, al treno quale mostro ansante e stridente o al roseo pallore del volto di Lidia inquadrato nel finestrino del vagone che si allontana. Insomma, l’immaginario carducciano intorno alla stazione ferroviaria come emblema di dolore infinito e di orrore tenebroso, in un giorno piovoso e livido, in un plumbeo mattino, è un motivo quasi ossessionante e si manifesta in piena perfezione poetica in quest’ode, il cui titolo originario (nell’autografo) suonava semplicemente Alla stazione. La partenza del treno-mostro (cfr. p. 172, nota al v. 29), con la folla dei viaggiatori simile a una massa di anime sgomente, con i vigili incappucciati pari a spettri o a demoni oltraggiosi e sarcastici, i rumori violenti, metallici o scroscianti, i fischi atroci e l’ansimare del ferro, tutto configura un paesaggio chiaramente allusivo della partenza per un viaggio senza ritorno. È un antinferno, questo che Carducci mette in scena, è il prologo di una discesa agli inferi, di un viaggio nell’aldilà. Con piglio veramente moderno il poeta sa rappresentare efficacemente uno scenario contemporaneo-tecnologico (la vaporiera) come un grandioso emblema di un mito eterno, quello della discesa nell’Averno, della separazione degli amanti sul limitare del regno delle ombre. Dal punto di vista stilistico questa ode segna il punto piú alto del classicismo carducciano teso a una «sublimazione del moderno», cioè al trattamento di una materia figurativa moderna, non classica, anzi, spesso anti-aulica (la ferrovia, il treno, i dettagli dell’avviamento ecc.), con un filtro classicista, lessicale e retorico che non solo miscela il contemporaneo e l’antico, l’umile e l’elevato, ma fonde i due elementi in un unico linguaggio perfettamente omogeneo, trasformando l’evento banale in un evento quasi mitico. Sul piano del lessico è stata piú volte fatta notare la diversa ascendenza di parole tecniche, di registro basso, come fanali, vaporiera, guardia, convoglio, vigili, lanterna, mazze di ferro, freni, sportelli e di quelle classicheggianti e latineggianti come empio, speme, caligine, fiammei, immane ecc. Siamo di fronte a una operazione complessa che ha peraltro una sua tradizione: dalla poesia manierista e barocca, che si esercitava su materie umili con linguaggio sublime e concettoso, fino alla mitologizzazione galante del moderno nella lirica arcadica e settecentesca, fino a Parini, a Foscolo e, oltre Carducci, fino a D’Annunzio. Ed è una tradizione che si esercita anche in prosa e avrà una presenza essenziale nel Novecento: una mitizzazione-sublimazione di immagini e situazioni perfettamente moderne (l’apparire di un aeroplano, le gite in automobile, le conversazioni al telefono ecc.) potremo trovarla anche nel corpo di A la recherche du temps perdu, il grande romanzo di Marcel Proust. METRO: ode alcaica, la cui strofe è composta da due endecasillabi alcaici (quinario piano + quinario sdrucciolo), un enneasillabo (novenario) e un decasillabo.

Oh quei fanali come s’inseguono accidïosi là dietro gli alberi, tra i rami stillanti di pioggia sbadigliando la luce su ’l fango!

v. . quei fanali: si tratta dei lampioni che illuminano il viale che conduce alla stazione ferroviaria, percorso dal poeta e dalla sua donna prima di entrare in stazione e fermarsi sulla pensilina insieme con gli altri passeggeri.

v. . accidïosi: «monotoni», che ispirano un senso di noia, tedio. v. . prosegue nell’ambito metaforico dei fanali accidïosi, e definisce la loro fioca illuminazione una sorta di sbadiglio che si apre sul fango della strada

T. GIOSUE CARDUCCI. ODI BARBARE



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Flebile, acuta, stridula fischia la vaporiera da presso. Plumbeo il cielo e il mattino d’autunno come un grande fantasma n’è intorno. Dove e a che move questa, che affrettasi a’ carri foschi, ravvolta e tacita gente? a che ignoti dolori o tormenti di speme lontana? Tu pur pensosa, Lidia, la tessera al secco taglio dài de la guardia, e al tempo incalzante i begli anni dài, gl’istanti gioiti e i ricordi. Van lungo il nero convoglio e vengono incappucciati di nero i vigili, com’ombre; una fioca lanterna hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei freni tentati rendono un lugubre rintocco lungo: di fondo a l’anima

(sbadigliando si fa addirittura verbo transitivo). Il senso di desolazione autunnale è subito evidente in questa prima quartina, con il suo linguaggio immaginoso e ardito. v. . Flebile, acuta, stridula: nuova formazione trimembre, per cui vedi p. , nota a Primavere elleniche. III. Alessandrina, v. . I tre aggettivi sono posti in evidente climax, salendo dal suono fioco (flebile) alla nota squillante (acuta) fino a quella stridula. v. . da presso: la locomotiva a vapore è ormai vicina al poeta e alla sua donna. v. . n’è intorno: «è intorno a noi». Ancora un gusto per le invenzioni analogiche suggestive e ardite: il cielo livido (plumbeo) e lo stesso mattino autunnale sono come un grande spettro lattiginoso e opaco. vv. -. Dove … gente: «dove e a quale scopo si muove tutta questa gente, stretta nei pastrani e muta, che si affretta verso i tetri, scuri vagoni del treno?». La folla che si accalca intorno al convoglio ha qualcosa di dantesco, cosí silenziosa nell’angoscia plumbea del mattino. vv. -. a che ignoti … lontana: verso quali ancora ignote sofferenze future o tormenti di speranza (speme) ancora lontana si muove questa gente? «Ciò che il poeta indovina nei passeggeri anonimi e confusi in folla indistinta è ciò ch’egli riconosce in sé e nella sua donna; in altri termini, il poeta continua a proiettare da sé a ciò che lo circonda turbamento e tristezza» (Saccenti). v. . Tu pur pensosa: anche tu pensierosa, malinconica. v. . secca e rapida è la foratura del biglietto (tesse-

ra), operazione compiuta dal controllore (la guardia); il secco taglio evoca, quasi onomatopeicamente, il rumore brusco della macchinetta foratrice; tessera è un latinismo, che contribuisce linguisticamente alla complessiva «sublimazione del moderno» che caratterizza il raffinato classicismo carducciano. vv. -. mentre Lidia consegna al controllore il biglietto, segno irrevocabile della sua partenza, sembra consegnare anche all’incalzare del tempo i begli anni trascorsi, i momenti vissuti nella gioia (gl’istanti gioiti) e i ricordi; nell’allontanarsi dal poeta, la donna sacrifica al tempo distruttore tutte le felicità passate, soprattutto quelle condivise con l’amato. Che partire sia morire è luogo comune ben consolidato. E che questa partenza sul treno, per Lidia come per l’anonima folla, sia un’immagine di morte sembra ormai ben evidente. v. . nero convoglio: cfr. i carri foschi del v. . v. . incappucciati di nero: avvolti negli impermeabili neri con il cappuccio sulla testa; i vigili sono qui propriamente i «frenatori», gli addetti ai freni del treno. v. . com’ombre: come spettri, ad accentuare il clima lugubre e visionario (vedi sopra anche il v. , come un grande fantasma). vv. -. ed i ferrei … lungo: i vigili, con le loro mazze ferrate, battono sui freni di ferro del treno per controllarne la funzionalità (i ferrei / freni tentati, «saggiati»); i freni cosí colpiti producono (rendono) un prolungato e lugubre rintocco. Artifici retorici come la ripetizione o l’allitterazione insistono ora sul rumore inquietante (ferro-ferrei fre-

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un’eco di tedio risponde doloroso, che spasimo pare. 

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E gli sportelli sbattuti al chiudere paion oltraggi: scherno par l’ultimo appello che rapido suona: grossa scroscia su’ vetri la pioggia. Già il mostro, conscio di sua metallica anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei occhi sbarra; immane pe ’l buio gitta il fischio che sfida lo spazio. Va l’empio mostro; con traino orribile sbattendo l’ale gli amor miei portasi. Ahi, la bianca faccia e ’l bel velo salutando scompar ne la tènebra. O viso dolce di pallor roseo, o stellanti occhi di pace, o candida

ni), ora sull’angosciosa oscurità (nero-nero). v. . un’eco di tedio: come un’eco di angoscia e noia che viene dal fondo dell’anima e risponde al rumore dei ferri battuti. v. . che spasimo pare: simile a uno spasimo, a una contrazione di sofferenza. L’angoscia è poeticamente esplicitata fino a manifestare con violenza il male psichico. vv. -. gli sportelli chiusi sbattendo suonano brutali come un oltraggio, un’offesa incivile; e anche l’ultimo richiamo dei ferrovieri a salire in carrozza è gridato con rapidità, con brutalità e con un tono che sembra derisione (scherno). Questi addetti al treno e alla ferrovia sembrano tutti guardiani crudeli e persino sarcastici che presiedono al viaggio nell’aldilà. v. . grossa scroscia: si osservi la scelta dell’aggettivo grossa nel senso di «fitta, a catinelle». I vetri dovrebbero essere quelli «della grande tettoia ad arco che ricopriva allora il reparto partenze della stazione di Bologna» (Valgimigli) o forse semplicemente quelli dei finestrini dei vagoni. v. . il mostro: l’idea di paragonare la locomotiva a un moderno mostro metallico è tipica della letteratura ottocentesca sul treno: «Sono molti i testi che, a partire dai primi decenni dell’Ottocento, presentano il treno e la ferrovia come una novità perturbante e minacciosa […]. Furono create allora alcune fortunate immagini e metafore: la locomotiva come mostro infuocato e fumante, che fa tornare in vita il mito di Vulcano; il treno che si snoda come un serpente o un drago che emette fumo e fuoco» (Ceserani). Precedentemente Carducci, nell’Inno a Satana, , aveva invece esaltato l’energia moderna e indomita della vaporiera, definita allora «Un bello e orribile / mostro» (vv. -).

vv. -. conscio … anima: cosciente della propria potenza, di avere un’anima di indistruttibile metallo. v. . sbuffa, crolla, ansa: «si agita, ansima», come fosse vivente; si osservi ancora un trícolon (cfr. p. , nota al v. ); fiammei: «fiammeggianti», come quelli di un drago. v. . immane: spaventoso; pe ’l buio: nel buio, attraverso l’oscurità. v. . gitta: getta, lancia. vv. -. «il mostro spietato (empio) si muove; trainando orribilmente i vagoni e sbattendo le ali porta via con sé (portasi) il mio amore, Lidia (gli amor miei, con plurale latineggiante, per cui cfr. Eneide, IV, -)». Il traino del convoglio è detto orribile sia per il rumore assordante, o per il fumo, sia per il colore scuro dei vagoni, simili cosí al corpo di un serpente alato. «La locomotiva muove sempre piú velocemente i suoi stantuffi, e l’intero treno, locomotiva e carrozze, procede scuotendosi e spostandosi sul suo binario e da un binario all’altro, e sempre rumoreggiando. Ne risulta l’impressione visiva di uno sbatter d’ali che completa l’immagine del mostro favoloso» (Saccenti). v. . la bianca faccia: il volto di Lidia che parte, candido a contrasto con l’oscurità tutt’intorno. Il velo circonda il viso della donna «com’era costume, allora, delle signore» (Valgimigli): ma bel velo potrebbe indicare anche il fazzoletto agitato in senso di saluto. v. . pallor roseo: incarnato dal colore misto di bianco e di rosa, volto delicatamente pallido ma soffuso di rosa, a suggerire suprema dolcezza. Si può evocare Tasso, Rime, , -: «Al tuo vago pallore / la rosa il pregio cede». v. . stellanti occhi di pace: occhi luminosi come stel-

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tra’ floridi ricci inchinata pura fronte con atto soave! Fremea la vita nel tepid’aere, fremea l’estate quando mi arrisero; e il giovine sole di giugno si piacea di baciar luminoso

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in tra i riflessi del crin castanei la molle guancia: come un’aureola piú belli del sole i miei sogni ricingean la persona gentile. Sotto la pioggia, tra la caligine torno ora, e ad esse vorrei confondermi; barcollo com’ebro, e mi tocco, non anch’io fossi dunque un fantasma. Oh qual caduta di foglie, gelida, continua, muta, greve, su l’anima! io credo che solo, che eterno, che per tutto nel mondo è novembre. Meglio a chi ’l senso smarrí de l’essere, meglio quest’ombra, questa caligine: io voglio io voglio adagiarmi in un tedio che duri infinito.

le che ispirano un senso di pace; cfr. Petrarca, Canzoniere, CC, : «li occhi sereni e le stellanti ciglia». v. . floridi: fiorenti, folti. v. . pura: in quanto candida, senza macchia né ruga, luminosa, giovanile. vv. -. «la vita palpitava nell’aria tiepida, palpitava l’estate quando mi sorrisero quegli occhi, quel volto, quella pura fronte». Scatta la memoria dei bei giorni trascorsi insieme con Lidia in Lombardia, giorni di luminosa prima estate sempre a contrasto con il momento presente tenebroso. v. . giovine sole: primo sole d’estate. v. . si piacea: si compiaceva. v. . tra i riflessi castani della capigliatura (del crin). v. . molle: «morbida», con accentuazione di languore e dolcezza. v. . ricingean: «circondavano, abbracciavano» la delicata e bella figura di Lidia; si noti la magnifica immagine dei sogni amorosi del poeta che cingono, quasi un’aureola piú dorata del sole, la donna amata. v. . tra la caligine: «nella nebbia oscura». Concluso il ricordo luminoso, si ritorna nel buio antinferno della stazione ferroviaria. v. . ad esse: con la pioggia e la nebbia. v. . com’ebro: come un ubriaco. v. . l’autore tocca il proprio corpo nel dubbio di

essere diventato un fantasma. vv. -. gelida, / continua, muta, greve: cumulo di quattro aggettivi; per i gruppi di tre cfr. sopra, note ai vv.  e ; e cfr. inoltre Dante, Inferno, VI, - («la piova / etterna, maladetta, fredda e greve»). L’attributo greve, «pesante», sembra paradossale se riferito alle leggerissime foglie secche, ma si addice bene al peso metaforico che grava sull’animo del poeta. vv. -. credo che ovunque nel mondo sia soltanto novembre, un eterno novembre. v. . è meglio per chi ha smarrito il senso dell’esistere, ha cioè miglior sorte chi ha perso la coscienza di sé. v. . meglio perdersi, confondersi in questa tenebra e in questa nebbia, abbandonando ogni individualità dolorante nel buio. v. . io voglio io voglio: la ripetizione indica sí la volontà assoluta di lasciarsi andare, ma ha anche un che di lento, un ritmo di cantilena, un senso di abbandono al tedio. v. . tedio: parola-chiave, a indicare il perdersi, lo smemorarsi in una eternità senza confini, piuttosto che la «noia» in senso stretto, lo spleen, l’accidia. Siamo cioè vicini alla chiusa di un’altra ode barbara carducciana, Davanti il Castel Vecchio di Verona, dove il fiume Adige, con il suo perenne scorrere, canta «i tedi insonni de l’infinito».

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LA NUOVA ITALIA

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Rime e ritmi Jaufré Rudel (da Rime e ritmi, III)

Suggestione della poesia d’amore di Jaufré Rudel

Medioevo romantico e decadente Legame tra amore e morte La scansione della poesia

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Scritta il  febbraio  e poi piú volte rimaneggiata nei giorni successivi, questa poesia fu piú tardi raccolta in Rime e ritmi (): essa nasce dalla suggestione della poesia del trovatore del secolo XIII Jaufré Rudel, basata sul tema dell’amor de loing (“amore lontano”) e dalla vicenda d’amore e morte, ricavata da una interpretazione della sua stessa poesia, narrata nella sua Vida (cfr. T.). Quella Vida parlava dell’amore di Jaufré, principe di Blaia, per la contessa di Tripoli del Libano, nato da ciò che ne aveva sentito dire dai pellegrini, del suo viaggio in mare come crociato, della sua malattia e dell’incontro con la principessa, fino alla morte tra le sue braccia. La poesia di Carducci segue fedelmente questo racconto, aggiungendovi una serie di particolari e inserendolo nel quadro di un Medioevo di maniera, visto attraverso un’ottica di tipo romantico, seguendo i modi e il linguaggio delle romanze, delle ballate e dello stesso melodramma ottocentesco: l’ottica romantica è appena leggermente complicata da qualche dato di sensibilità decadente, che si riconosce nel tono di eleganza mondana in cui viene sottolineato il legame tra amore e morte. Le undici strofe sono scandite in una serie di momenti narrativi: nelle prime due strofe si presenta l’avvicinarsi della nave di Jaufré febbricitante alle rive libanesi, con il canto d’amore del poeta (vv. -); nelle tre strofe successive (vv. -) lo scudiero di Jaufré si reca dalla contessa Melisenda, dandole notizia dell’arrivo dell’amante sconosciuto e della morte che incombe su di lui, e la dama accetta subito di fargli visita; altre due strofe (vv. -) presentano Jaufré malato intento ancora a cantare il suo amore e il momento in cui lo raggiunge l’amata; nelle ultime strofe (vv. -) si ha l’incontro, con il saluto del poeta alla donna (nella strofa piú celebre, ma anche piú esteriormente mondana della poesia) e la sua morte tra le braccia di lei. METRO: romanza di undici strofe di otto novenari ciascuna, nelle strofe dispari (salvo l’ultima) con schema ababcdcd, nelle pari (e nell’ultima) con schema ababcddct.



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Dal Libano trema e rosseggia su ’l mare la fresca mattina: da Cipri avanzando veleggia la nave crociata latina. A poppa di febbre anelante sta il prence di Blaia, Rudello e cerca co ’l guardo natante di Tripoli in alto il castello. In vista a la spiaggia asïana risuona la nota canzone:

vv. -. l’aria fresca del mattino fa tremolare e trascolorare di una luce rosata le onde del mare, provenendo dal monte Libano (tra la Siria e la Palestina), da cui sorge il sole; l’immagine ricorda Dante, Purgatorio, I, - («L’alba vinceva l’ora mattutina / che fuggia innanzi, sí che di lontano / conobbi il tremolar de la marina»). v. . da Cipri: dall’isola di Cipro (da cui si naviga verso le coste della Siria). v. . Jaufré Rudel si è imbarcato verso l’Oriente co-

me crociato (appartenente alla stirpe latina). v. . Jaufré Rudel era principe di Blaye. v. . natante: perduto, smarrito. v. . asïana: asiatica. vv. -. traduzione dei vv. - della canzone Quan lo rius de la fontana: «Amor de terra lonhdana, / per vos tot lo cor mi dol». vv. -. il volo di un grigio gabbiano (alcïone), segno di tristezza, sembra come seguire, espandere nel cielo il dolce lamento del poeta.

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«Amore di terra lontana, per voi tutto il core mi duol». Il volo d’un grigio alcïone prosegue la dolce querela, e sovra la candida vela s’affligge di nuvoli il sol. La nave ammaína, posando nel placido porto. Discende soletto e pensoso Bertrando, la via per al colle egli prende velato di funebre benda lo scudo di Blaia ha con sé: affretta al castel: – Melisenda contessa di Tripoli ov’è? Io vengo messaggio d’amore, io vengo messaggio di morte: messaggio vengo io del signore di Blaia, Giaufredo Rudel. Notizie di voi gli fûr porte. V’amò vi cantò non veduta: ei viene e si muor. Vi saluta, signora, il poeta fedel. – La dama guardò lo scudiero a lungo, pensosa in sembianti: poi surse, adombrò d’un vel nero la faccia con gli occhi stellanti: – Scudier, – disse rapida – andiamo. Ov’è che Giaufredo si muore? Il primo al fedele rechiamo e l’ultimo motto d’amore. – Giacea sotto un bel padiglione Giaufredo al conspetto del mare: in nota gentil di canzone levava il supremo desir. – Signor che volesti creare per me questo amore lontano, deh fa’ che a la dolce sua mano commetta l’estremo respir! –

vv. -. l’oscurarsi del cielo per le nuvole, che contrastano con il bianco della vela, viene visto in termini umani, come un affliggersi. v. . ammaína: quadrisillabo per ragioni metriche: «raccoglie le vele, giunta in porto». v. . Bertrando: nome attribuito allo scudiero, personaggio inventato da Carducci. v. . per al colle: che conduce al colle, dove è il castello. v. . messaggio: messaggero. v. . in sembianti: nell’aspetto. v. . surse: si alzò; adombrò: «coprí». Il vel nero di

Melisenda corrisponde alla funebre benda di cui è velato lo scudo di Blaia (vv. -). Si noti come si susseguano figure di oscurità. v. . stellanti: luminosi, rilucenti. vv. -. portiamo all’amante fedele la prima e l’ultima parola d’amore. v. . padiglione: tenda. v. . innalzava il supremo desiderio. vv. -. libera traduzione dei vv. - della canzone di Jaufré Lan quan li jorn son lonc e may (cfr. T.): «Dieus que fetz tot quant ve ni vay / e formet sest’ amor de lonh / mi don poder, que cor be n’ai,

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Intanto co ’l fido Bertrando veniva la donna invocata; e l’ultima nota ascoltando pietosa risté su l’entrata: ma presto, con mano tremante il velo gittando, scoprí la faccia; ed al misero amante – Giaufredo, – ella disse – son qui. – Voltossi, levossi co ’l petto su i folti tappeti il signore, e fiso al bellissimo aspetto con lungo sospiro guardò. – Son questi i begli occhi che amore pensando promisemi un giorno? È questa la fronte ove intorno il vago mio sogno volò? – Sí come a la notte di maggio la luna da i nuvoli fuora diffonde il suo candido raggio su ’l mondo che vegeta e odora, tal quella serena bellezza apparve al rapito amatore un’alta divina dolcezza stillando al morente nel cuore. – Contessa, che è mai la vita? È l’ombra d’un sogno fuggente. La favola breve è finita, il vero immortale è l’amor. Aprite le braccia al dolente. Vi aspetto al novissimo bando. Ed or, Melisenda, accomando a un bacio lo spirto che muor. – La donna su ’l pallido amante chinossi recandolo al seno, tre volte la bocca tremante co ’l bacio d’amore baciò, e il sole dal cielo sereno calando ridente ne l’onda l’effusa di lei chioma bionda su ’l morto poeta irraggiò.

/ qu’ieu veya sest’ amor de long» (“Dio che fece quel che viene e va / e creò questo amore lontano mi dia potere, che l’animo ne ho, / che veda questo amore lontano”); commetta: affidi. v. . fissando gli occhi nel bellissimo volto. v. . pensando: attraverso il pensiero. v. . a la notte: durante la notte. v. . Riprende un celebre verso di Petrarca, Canzoniere, CCLIV, : «La mia favola breve è già compita».

v. . al novissimo bando: «al momento del giudizio universale», con la resurrezione dei corpi: battuta che, in questo contesto, sembra suonare un po’ fuori luogo. v. . accomando: affido. v. . effusa: «sciolta». Il finale, con questo sole che cala nel mare e illumina i biondi capelli di Melisenda, mette in modo manierato e convenzionale un prezioso suggello di luce e di splendore sulla romantica vicenda.

˜ TESTI

9.4 GIOVANNI VERGA E IL VERISMO Luigi Capuana GIACINTA

Già nelle novelle della raccolta Profili di donne, apparsa nel , Capuana aveva fissato la sua attenzione su personaggi femminili, con il proposito di compiere dei veri e propri «studii di donne»: già nel  aveva dato corpo al soggetto di Giacinta, in parte ispirandosi a un fatto di cronaca contemporaneo. L’ideazione e poi la stesura del romanzo si accompagnò al piú diretto avvicinarsi dell’autore ai modelli del naturalismo francese: secondo i principî di Zola, Capuana mirò a osservare e rappresentare il personaggio femminile all’interno del contesto sociale, studiando con atteggiamento tendenzialmente scientifico la sua psicologia, mettendone in luce tutte le componenti che ne fanno un caso di «patologia morale». La prima edizione del romanzo, in dodici lunghi capitoli, apparsa presso l’editore Brigola nella primavera del , suscitò reazioni scandalizzate, per il modo nuovo in cui vi si metteva al centro della scena il personaggio femminile e per le situazioni ritenute scabrose; ma Capuana ebbe l’apprezzamento di Zola, di Verga e dei sostenitori del naturalismo, tra cui Felice Cameroni (cfr. ..), che in una sua lunga recensione avvicinò il romanzo alla Madame Bovary di Flaubert (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ). Al fine di superare certi scompensi della costruzione e del linguaggio, Capuana sottopose poi il romanzo a un vero e proprio rifacimento, che approdò a una nuova edizione nel , presso l’editore catanese Giannotta, con lo smembramento dei lunghi capitoli e la loro suddivisione in tre parti, «con lo scopo evidente di ottenere una drammatizzazione della vicenda» (Ghidetti), secondo quanto era stato suggerito dall’amico Verga. Una nuova edizione riveduta, con una prefazione rivolta A Neera (la scrittrice milanese Anna Zuccari, -), apparve nel ; l’autore allestí anche una riduzione teatrale del romanzo, in cinque atti, che fu messo in scena dalla compagnia di Cesare Rossi al teatro Sannazaro di Napoli il  maggio . Il romanzo si apre con una scena in cui la protagonista viene presentata all’interno di un salotto borghese, in cui ella si muove con il suo fascino, ma sotto il segno del pregiudizio che sulla sua presenza ha caricato la violenza sessuale che ha subito da bambina: il salotto dà «un quadro di espressionistica evidenza (mai piú perseguita dallo scrittore con tanta convinzione), una galleria di tipi umani senza speranza di redenzione», con «la rappresentazione impietosa dei molti vizi privati e delle scarse pubbliche virtú della nuova borghesia» (Ghidetti). La narrazione torna poi indietro, alla vicenda familiare di Giacinta, cresciuta in un ambiente malsano, con una madre corrotta e senza nessun amore per lei e lasciata in balía dello stupratore Beppe, servitore presentato secondo lo schema tipico del «delinquente». Nel suo farsi strada nel mondo, sotto lo sguardo del pregiudizio che la segue dovunque, Giacinta coltiva dentro di sé una volontà di vendetta verso l’universo maschile e verso la società nel suo insieme: e ciò la conduce a sposare un vecchio nobile degenerato, mentre, con il proposito di far scandalo, prende subito come amante il mediocre e squallido impiegato Andrea. Mentre questa situazione attira su di lei la riprovazione e insieme il desiderio di altri uomini, Giacinta prende coscienza dello squallore della propria vita e dell’ambiente in cui si trova a vivere, del contrasto tra il suo desiderio di un’innocenza per sempre perduta e il vuoto mediocre a cui la sua esistenza si riduce (e il tutto è aggravato dalla morte della bambina che ha avuto dall’amante). A un certo punto un «medico filosofo», il dottor Follini (che è una sorta di controfigura dell’autore), la frequenta e la studia proprio come «un caso di patologia morale», interessandosi «alla evoluzione lenta e misteriosa con cui quel bel caso procedeva verso uno scioglimento certamente terribile». Giacinta si sente come automaticamente trascinata verso la catastrofe: mentre sembra portare sempre oltre la sua sfida alla società, si avvelena con una dose di curaro, vittima dell’ostilità del mondo che la circonda, rappresentata dal «sollievo» con cui lo stesso amante apprende la notizia. Il suicidio del personaggio femminile si pone qui come un’ultima vana protesta contro la società che ha condizionato la sua vita: ed è cosa diversa da quello della Bovary di Flaubert, determinato invece dalla sconfitta delle immagini romantiche e sentimentali che la donna ha costruito dentro di sé, dal carattere illusorio dei suoi desideri.

DATI

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Dal documento umano all’invenzione narrativa (da Per l’arte)

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Attenzione ai documenti umani e impegno a scrutare il vero

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a raccolta di saggi Per l’arte, pubblicata dall’editore catanese Giannotta nel 1885, è introdotta dal saggio dallo stesso titolo, la cui parte essenziale (comprendente le pagine qui riportate) era già apparsa sul «Fanfulla della Domenica» del 14 dicembre 1884. Si tratta di una difesa della narrativa naturalista che prende avvio dai grandi modelli francesi, ma punta poi in modo determinante sul romanzo dell’amico Verga, I Malavoglia. Nel suo insieme lo scritto (nel quale, come si noterà, i termini naturalismo e verismo appaiono perfettamente equivalenti) si svolge come un dialogo tra l’autore, che riflette sulle difficoltà e le prospettive delle forme artistiche nel mondo contemporaneo, e un interlocutore che ogni tanto lo interrompe, sostenendo il punto di vista del pubblico tradizionale, ostile alla nuova narrativa naturalista. Nella parte che precede quella qui riportata Capuana mostra la caduta di interesse (con la sola eccezione di Manzoni e di Leopardi) per la letteratura dell’Ottocento italiano e la necessità di una narrativa che si appoggi su di «una prosa viva, efficace, adatta a rendere tutte le quasi impercettibili sfumature del pensiero moderno». Agli inviti a tornare ai classici si oppone la necessità di guardare al vero: ma dall’attenzione ai documenti umani, in cui si riconosce un dato caratterizzante del naturalismo, consegue l’impegno a scrutare «il segreto processo di quel fatto vero», dato che «è solamente artista colui che ripete, nella forma letteraria, il segreto processo della natura». La discussione si svolge entro il quadro di un’idea «dell’opera d’arte come organismo succedaneo e parallelo alla realtà», che costituisce «il piú alto punto che la riflessione critico-estetica di Capuana raggiunge» (Scrivano) e che negli anni successivi lo porterà sempre piú lontano dal naturalismo. Le pagine che riportiamo insistono sull’atteggiamento «scientifico» del romanziere moderno, sul legame del suo lavoro con la «riflessione positiva», sulla sua attenzione al particolare (l’esempio di Verga appare proprio quello di uno scrittore che «circoscrive il terreno»): ma distinguono il romanziere dallo scienziato vero e proprio, sottolineando il ruolo fondamentale che, anche per la narrativa naturalista, assumono la fantasia e l’immaginazione. [EDIZIONE: Luigi Capuana, Per l’arte, a cura di R. Scrivano, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1994]

Dio! come mancano d’immaginazione questi romanzieri naturalisti! Che il volgo dei lettori dica questo, anche dinanzi a un lavoro dello Zola o del Verga, passi pure. Ma che delle persone colte, le quali dovrebbero sapere che cosa siano l’immaginazione e la fantasia, rimpiangano il nodo, l’imbroglio, la favola, la machine – chiamatela come diavolo voi volete – dei romanzi di trenta anni fa; che delle persone di talento si lamentino di veder perdere a poco a poco il segreto di costruire l’ossatura di un romanzo come ai bei tempi di Dumas il vecchio e di Eugenio Sue, e ripetano anch’essi a carico degli scrittori moderni: mancano di fantasia! mancano d’immaginazione! – mi pare, scusate, una enormità inconcepibile. Dunque essi credono sul serio che lo Zola, il Verga e tutti gli altri non facciano che accozzare, riordinare alla meglio le loro osservazioni personali dirette, insomma una specie d’ignobile processo verbale di cui spesso leggiamo anticipatamente i sunti, i frammenti, gli accenni nella spicciola cronaca cittadina dei giornali quotidiani? . Dio! … naturalisti!: l’autore ritiene che cosí avranno esclamato molti lettori del romanzo La femme d’Henri Vanneau (“La moglie di Henri Vanneau”), del romanziere svizzero di lingua francese Edouard Rod (-): si tratta di un’accusa frequentemente rivolta ai romanzieri naturalisti, per la loro attenzione ai documenti umani. . machine: macchina, ordigno narrativo.

. Dumas … Sue: i due autori di maggior successo della narrativa popolare ottocentesca, Dumas padre e Eugène Sue (cfr. Romanzo d’appendice, tav. ), sono indicati come i modelli preferiti da un certo tipo di pubblico che nel romanzo cerca emozioni e trame avventurose. . processo verbale: «documento registrato, per scopi giuridici o amministrativi»: i documenti uma-

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Dunque essi credono sul serio che per la rappresentazione cosí portentosamente viva dell’Assommoir e dei Malavoglia gli autori non abbiano dovuto adoperare, per lo meno, tanto sforzo di fantasia e d’immaginazione quanto il Dumas nel suo Mille e una notte francese da lui intitolato il Conte di Montecristo, o Eugenio Sue nelle complicate avventure dei suoi Misteri di Parigi? Dunque essi prendono gli scrittori cosí detti naturalisti o veristi proprio sulla parola, e pensano che i malaugurati documenti umani (la materia prima, la materia greggia delle nuove opere d’arte) siano assolutamente tutto, e che debba esser bastato allo Zola lo studiare e il prender delle note intorno all’alcoolismo degli operai parigini, e al Verga il vivere per qualche mese, durante la villeggiatura, fra i pescatori di Aci-Trezza, perché tutti e due abbiano potuto poi scrivere la storia della Gervasia e del Coupeau, e i casi di Padron ’Ntoni e di tutta la famiglia dei Malavoglia? Andiamo, via! Non la mando giú! Certamente il carattere di un’opera d’arte moderna – stringiamoci alla novella e al romanzo – non è piú quello di prima. L’opera d’arte – può darsi che sia anche una decadenza – è diventata seria: troppo seria! dicono i maligni. Infatti non è divertente. Il romanziere ruba il mestiere al psicologo, al fisiologo, al professore di scienze sociali. Non già che predichi, che dimostri, che voglia far la lezione; ma egli scortica vivi vivi i suoi personaggi; egli pianta il bisturi in quelle carni palpitanti con la stessa spietata indifferenza di un anatomico. Almeno io non vorrei vedere il sangue sul coltello e sulle mani dell’operatore, mi diceva un giorno una signora gentile quanto colta, a proposito di un nuovo romanzo. La signora su questo punto aveva ragione. Però ella non pretendeva che il romanzo moderno tornasse all’antico: non pretendeva che, prima d’ogni cosa, divertisse, e fosse una bella fiaba grande pei bambini grandi. Questa benedetta o maledetta riflessione moderna, questa smania di positivismo di studi, di osservazioni, di collezione di fatti, noi non possiamo cavarcela di dosso. È il nostro sangue, è il nostro spirito; chi non la prova può dirsi un uomo di parecchi secoli addietro smarritosi per caso in mezzo a noi. Ed è naturale quindi che dal nostro sangue e dal nostro spirito la riflessione positiva passi a rivelarsi anche nell’opera d’arte, nel mondo, s’intende, e colla misura compatibile con un’opera d’arte. Questa trasformazione non è un bizzarro capriccio degli scrittori: è l’effetto di un’evoluzione che nessuno al mondo è nel caso di arrestare o d’impedire. Ve lo dicano quelle buone persone che vi si son provate, in politica, in religione, come in arte, e son rimaste deluse. Sarà sempre da vedere se gli artisti abbiano sbagliato il modo, o ecceduto nella misura. Vuol forse dire intanto che l’opera d’arte moderna non sia piú un’opera d’arte? No. La fantasia, l’immaginazione rimangono, come prima, i sostanziali elementi d’essa; se non che si combinano un po’ diversamente. Il romanziere, il novelliere guarda di qua e di là, osserva, prende nota. Se non poggia un piede sopra un fatto vero, non si crede punto sicuro, e non si avventura a metter l’altro innanzi. Il Verga – parliamo di cose nostre, non guasta – quando gli vien l’idea di foggiare in forma artistica i suoi contadini, non si limita soltanto a raccogliere delle generalità, ma circoscrive il suo terreno. Non gli basta che quei suoi personaggi siano italiani – il contadino italiano è un’astrattezza – egli va piú in là, vuole che siano siciliani: molto di piú e di piú ni della narrativa naturalistica spesso si presentavano come registrazioni di fatti reali; e Federico De Roberto avrebbe intitolato Processi verbali una delle sue raccolte di novelle (cfr. p. ). . Assommoir: “Lo scannatoio”, titolo di uno dei romanzi considerati piú scandalosi di Zola, pubblicato nel , la cui traduzione italiana, a cura di Emanuele Rocco, era apparsa nel . . Dumas … Conte di Montecristo: il celebre ro-

manzo di Dumas padre (pubblicato nel -) viene designato come «Mille e una notte francese» per il suo carattere fantastico e avventuroso; si cita poi l’opera piú celebre di Eugène Sue. . Gervasia … Copeau: protagonisti dell’Assommoir: la popolana Gervaise e l’operaio Copeau, che finisce distrutto dall’alcol (e per rappresentarlo Zola aveva studiato il mondo dell’alcolismo parigino).

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concreto. Credete voi che n’abbia assai? Nemmeno per sogno. Ha bisogno che siano proprio d’una provincia, d’una città, d’un pezzettino di terra largo quanto la palma della sua mano. Allora soltanto si ferma. – Che ce n’importa? – Ma importa a lui, alla sua coscienza d’artista moderno: importa a tutti noi che vogliamo esser moderni, del nostro tempo, al pari di lui. – E allora? Se i vostri romanzieri moderni han bisogno di tanti amminnicoli che gli antichi, i loro grandi predecessori, non immaginavano dovessero essere, un giorno, cosí indispensabili; se non inventan nulla, come voi volete che non ci si lamenti del loro difetto di fantasia, d’immaginazione? Qui vi casca l’asino. – Inventano, creano, signori belli! Tutto quel materiale accumulato è roba morta. Voi, io, il piú stupido dei contadini, di codesta roba morta ne abbiamo tutti in testa forse assai piú di qualche gran romanziere, e potremmo dargli elementi per ben cinquanta volumi. Che è per questo? Noi non li scriveremo mai; e se tenteremo di scriverli, faremo tutto quel che ci parrà, ma non già un’opera d’arte, se non avremo la fantasia, l’immaginazione che dovrà dar vita nuova alla materia raccolta. Quando il materiale è lí pronto, il romanziere moderno fa precisamente come lo scienziato moderno. Questi è poeta, è creatore, è romanziere anche lui. La natura gli porge dei fatti; ma egli non saprebbe che farsene se non sapesse anche di potere arrivare a cavarle di mano la cosa piú importante: il vivo processo di quei fatti. Allora lo scienziato cerca, tenta di compenetrarsi con quei fatti, si sforza, sto per dire, di diventar Natura; e a furia d’immaginazione – domandatelo ai grandi fisiologi – combina, rifà un processo che la Natura, gelosa dei suoi segreti, vorrebbe tenergli nascosto; e quando riesce – non vi paia una bestemmia – si mette quasi pari con Dio. Il romanziere moderno è uno scienziato, aggiungiamolo subito, dimezzato. Lo scienziato, appena creato o scoperto un processo (val tutt’una) è piú fortunato di quello: può riprodurne il fatto a piacere, quante volte gli garba, e può servirsi di tal processo per scopi piú belli e piú ragionevoli che non siano quelli della Natura. Il suo fatto avviene fuori di lui; è il suo schiavo. Il romanziere moderno, invece, dopo che ha scoperto o creato un processo (ripetiamolo: val tutt’una) non può verificare il fatto, non può riprodurlo a suo piacere. È un’inferiorità naturale, invincibile: non sappiamo che farci. Ma voi vi lamentate contro ragione, perché egli si serve, precisamente, come facevano i suoi predecessori, degli stessissimi elementi dell’opera d’arte. Per rappresentare, per far del vivo ci vogliono sempre quelle due divine facoltà: la fantasia, l’immaginazione, che potrebbe anche darsi siano un’identica cosa. Vi dirò anzi che il romanziere moderno ne adopera oggi in maggior quantità che non quelli del passato. Come potete affermare di no, se egli ha rinunziato volontariamente a tutti i mezzucci di effetto della vostra vecchia rettorica? Trovatemi venti righe di descrizione oziosa nelle cose del Verga, e vi darò causa vinta. Se quel suo dialogo narrato, se quella sua narrazione parlata dal personaggio, che dànno tanto sui nervi all’amico Scarfoglio (mi permetta di dirglielo l’amico mio, egli questa volta è andato fuori di carreggiata per troppa foga); se quella semplicità di mezzi ottiene un effetto di colorito, di rilievo, di movimento, di vita vera, come nessun romanziere di trent’anni fa se l’è mai sognato, da che diavolo dunque provien questo? Dalla fantasia, dall’immaginazione! Sissignori! E da null’altro. Ed ego autem dico vobis: v’è cento volte piú ricchezza, piú sfoggio d’immaginazione in mezzo volume dei Malavoglia, che non in tutti i Montecristo, i Tre Moschettieri, i Misteri di Parigi e simili libri presi insieme. . n’abbia assai: se ne accontenti. . amminnicoli: appoggi, accessori esteriori e artificiali. . Scarfoglio: giornalista e narratore (cfr. ..), che nella raccolta di scritti critici Il libro di don

Chisciotte, , aveva rivolto pesanti critiche a Verga, accusandolo di essere un imitatore di Zola. . Ego … vobis: «ma io vi dico», espressione latina usata da Cristo nel Vangelo (Matteo , ), e qui ripresa in tono ironico.

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Conclusione (da Decameroncino)

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i presenta qui la novella conclusiva (intitolata proprio Conclusione) della breve raccolta Decameroncino, pubblicata dall’editore catanese Giannotta nel 1901, costituita da undici novelle, distribuite, in riferimento al Decameron di Boccaccio, in dieci giornate piú questa Conclusione. L’io narrante immagina qui di trascrivere le novelle narrate a voce dal vecchio dottor Maggioli, una sorta di medico-filosofo abilissimo nell’improvvisare la narrazione di vicende di tipo fantastico o sorprendente: vicende in cui spesso si affacciano fenomeni paranormali, secondo una tendenza sempre piú forte nell’ultima fase della narrativa di Capuana, che, partendo da un’ottica scientifica di tipo positivista, si rivolge sempre piú verso ipotesi fantascientifiche o verso indagini sulle forze misteriose che agiscono sotto il velo della realtà naturale. Questa breve novella assume particolare interesse perché la curiosità per i fenomeni paranormali si collega a una singolare immagine della creazione artistica, e in particolare del rapporto che si istituisce tra l’invenzione e la realtà, tra l’autore e il mondo dei suoi personaggi (altre invenzioni di questo tipo si trovano in altre novelle di Capuana, come La redenzione dei capolavori e Melodramma). Il dottor Maggioli parla qui della sua prodigiosa capacità di improvvisare novelle, per pura forza di voce, quasi senza rendersi conto di ciò che viene raccontando; quando una volta ha tentato di mettere una novella per iscritto, si è trovato in grande difficoltà, fin quando non si è dato, secondo la moda naturalista, a una osservazione diretta della realtà, prendendo come personaggi due giovani innamorati che si incontravano al secondo piano della sua casa. Presentata con velata ironia verso i principî del naturalismo (da cui in questa fase Capuana si è distaccato), questa decisione conduce l’autore alla folle risoluzione di agire sui personaggi stessi, facendo del personaggio maschile un cattivo soggetto e di se stesso un brav’uomo che va a mettere in guardia la madre della ragazza. Gli interventi sulla vita reale dei personaggi che ha preso a modelli della sua immaginazione creano situazioni comiche e imbarazzanti, a cui egli crede di metter fine abbandonando il racconto: ma dopo una settimana i personaggi che ha lasciato in sospeso cominciano ad apparirgli nella notte, come esseri che reclamano che si porti a termine la loro vicenda. Si tratta di una sorta di ossessione, a cui il protagonista sfugge solo riprendendo le carte della novella per ultimarla con la rapida morte dei due amanti. La conclusione ci lascia supporre che, per l’interferenza tra l’invenzione e la realtà su cui la novella è costruita, qualcosa di tragico possa essere nel frattempo accaduto ai due personaggi reali da cui il dottor Maggioli ha preso ispirazione: ma, al di là di questo, il grande interesse della novella sta proprio in quell’identificazione dei personaggi come persone vive che appaiono all’autore e chiedono che la loro vicenda sia conclusa: è un tema da cui trarrà spunto Luigi Pirandello, grande amico di Capuana, nella novella Tragedia di un personaggio e poi nella grande invenzione dei Sei personaggi in cerca d’autore (cfr. T10.4). [EDIZIONE: Luigi Capuana, Racconti, a cura di E. Ghidetti, Salerno Editrice, Roma 1974]

Il dottor Maggioli era stato proprio meraviglioso. Io non ho l’audacia di trascrivere la sua storiella di quella sera. Il maggior pregio di essa non consisteva tanto nel soggetto e nella forma, quanto, e soprattutto, nell’espressione del viso, nell’efficacia dell’accento e del gesto, che avevano trasformato il narratore in attore e, direi quasi, in protagonista. – Ah – gli dissi, stringendogli la mano. – Voi potreste essere un gran novelliere, se vi decideste a fare la dolce fatica di scrivere quel che vi piace di narrare a voce, con immenso piacere di chi vi ascolta. – Dio me ne guardi, caro amico – egli rispose. E aveva un’aria cosí atterrita, che non potei fare a meno di insistere: – Perché?

Vicende fantastiche

Interferenza fra personaggi reali e immaginari

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– Perché ho provato, una sola volta. Oh, non ritenterei per tutto l’oro del mondo! – Eh, via! – Sí, sí, per tutto l’oro del mondo! – Che vi è mai accaduto? – Una cosa incredibile. – Sentiamo. – Voi mi costringete a ricordare i piú tristi giorni della mia vita! – Oh! – Molti anni fa, precisamente come voi, un amico mi disse: «Perché non scrivete qualcuna di queste vostre novelle? Sarebbero lette con lo stesso piacere con cui sono ascoltate». Vah! Grattate l’uomo piú modesto e troverete, sotto, un vanitoso; per ciò mi lasciai lusingare. Io, sappiatelo, non ho mai riflettuto un istante intorno al soggetto delle mie storielle. Esso mi fiorisce nella mente cosí all’improvviso, che io sono il primo ad esserne stupito. Una parola, un accenno… e mi sento costretto a raccontare. Che cosa? Non lo so neppur io cominciando; ma, dopo il po’ di esordio destinato ad attirare l’attenzione degli uditori, l’immaginazione, tutt’a un tratto, mi si schiarisce; e veggo i miei personaggi, osservo i loro atti, odo la loro voce, quasi avvenga in me una semplice operazione di memoria, piú che di altro. Spesso, quel che mi dà la spinta è un concetto astratto, un principio morale, o anche una nozione scientifica. Per qual processo essi mi si trasmutano subito in persone vive, e con tale rapidità da farmi dimenticare il lor punto di origine? Non saprei dirlo, né mi son mai curato di saperlo. Ho creduto anzi, per un pezzo, che questo fenomeno avvenisse in tutti e fosse cosa ordinaria. Noi respiriamo, digeriamo, adopriamo i nostri sensi; pensiamo forse a cavarci la curiosità di sapere in che modo ciò avvenga? Lasciamo che vi perdano il lor tempo gli scienziati; ci basta poter respirare, digerire, adoprare liberamente i nostri organi. Quella esplosione di storielle – proprio, esplosione! – mi sembrava dunque un fatto comune, ed io mi divertivo ad ascoltarmi, al pari degli altri. La novella che cosí mi usciva dalle labbra era una novità anche per me. – Che? Vorreste darmi ad intendere…? – La piú schietta verità. A furia di sentirmi applaudire, a furia di osservare la meraviglia dei miei uditori, ho dovuto poi convincermi che ero dotato d’una facoltà d’improvvisazione… in prosa, non tanto comune e ordinaria quanto prima credevo. Non dirò che io l’abbia coltivata di proposito; ma esercitandola continuamente e volentieri, ogni volta che mi si presentava l’occasione – non posso resistere, debbo raccontare per forza – essa si è talmente educata, aumentata, ed è divenuta cosí facile e cosí varia, che forse formerebbe la fortuna di un novelliere di professione. – Forse? Certamente potreste dire. – Purché non gli accadesse quel che poi è accaduto a me! – Ma, insomma, che cosa? – Una cosa incredibile – ripeté il dottore. – Quando la vanità se ne mescola, noi ci riduciamo impazienti come i bambini. E quel giorno tornando a casa, pensavo: «Perché, infine, non dovrei scrivere le mie novelle? Mi riescono cosí facilmente! E piacciono tanto!». Non vedevo l’ora di cominciare un esperimento che solleticava il mio amor proprio, anche per la ragione che mi era stato suggerito da un altro, e a me non sarebbe mai passato per la testa. Voi immaginate, senza dubbio, che io dovetti soltanto sedermi a tavolino e prendere un quaderno di carta e la penna per scrivere, di foga, senza esitazione alcuna, quasi raccontassi, la mia prima novella… Lo credevo anch’io, caro amico! – Capisco – lo interruppi. – La novità dell’atto, la trepidazione… Ma poco dopo… – Né quel giorno, né parecchi altri appresso. Ero stato assalito da scrupoli letterari, dalla paura del pubblico, io, io che pure solevo improvvisare una, due novelle davanti a un eletto uditorio, formato di colte e spiritose signore, di professori, di letterati, di artisti, di ele-

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ganti uomini di mondo, senza punto badare alla loro qualità, imperturbabile, con tale faccia tosta da destare invidia in un ciarlatano. In quel tempo era in gran moda il verismo o naturalismo che voglia dirsi, assai piú che non adesso. Dovevo essere, pensavo, verista naturalista, anch’io; e osservare, studiare, dipingere minuziosamente la realtà. In che modo? Non sapevo da che parte rifarmi. E rimanevo là, con la penna tra le dita, tormentandomi i baffi e la barba allora biondi, stropicciandomi la fronte, quasi il calore della mano dovesse farvi scaturire le idee. Una malaugurata ispirazione mi balenò nella mente: non avevo, a portata di mano, al secondo piano della casa dove abitavo, quella coppia di giovani che facevano all’amore da un anno? I parenti della ragazza chiudevano un occhio, anche tutti e due, nelle serate in cui ricevevano poche famiglie di amici. Vi andavo pure io, qualche volta, insistentemente invitato, e mi divertivo a osservare le manovre dei due innamorati per darsi una stretta di mano, per susurrarsi tenere paroline in questo o quel canto del salotto. Il babbo e la mamma di lui non mancavano mai; sembravano contenti anche loro che quell’amoretto prendesse piede. La ragazza, figlia unica, aveva una buona dote; egli si sarebbe laureato dottore fra qualche anno, e avrebbe ereditato la clientela del padre, medico un po’ all’antica e pieno di acciacchi… Come non ci avevo pensato subito? E imbastii, faticosamente, sí, il piano della mia novella; infine! E non meno faticosamente scrissi le prime cartelle. Ma dopo che ebbi buttato giú quel che avevo tante volte osservato, non seppi andare piú avanti. Intanto non pensavo ad altro, agitato per la condotta di quel giovanotto che non si curava di fare ai parenti della ragazza la richiesta in piena regola; intendo del giovanotto della mia novella. Giacché, modificando un po’ la realtà, io volevo fare di quel personaggio un cattivo soggetto, un seduttore di bassa lega; e bisognava mettere in guardia almeno la mamma di lei. Una mattina… Avevo ideato che un brav’uomo, amico di quella famiglia, si assumesse il difficile incarico di aprire gli occhi alla signora. E da due giorni mi sforzavo inutilmente di entrare, come si dice, nella pelle del brav’uomo, d’indovinare la scena, il dialogo che avrebbe dovuto aver luogo tra lui e quella signora. Se avessi dovuto raccontare in conversazione questa scena, il dialogo mi sarebbe uscito dalle labbra quasi senza che io me ne accorgessi. Ora, invece, mi sentivo impacciato dal maledetto verismo o naturalismo, dalla maledettissima teorica dell’osservazione diretta. Avevo io mai badato a queste sciocchezze? E in quei giorni me ne sentivo oppresso, ossesso; e non vivevo piú, e piú non curavo i miei affari. I fatti da me ideati mi torturavano quasi fossero realtà. Una mattina, dunque, salendo le scale, investito della parte che colui doveva rappresentare, tiro il campanello del secondo piano e mi faccio annunziare alla signora… Vi figurerete facilmente la scena che accadde! «Ma voi siete matto, dottore! Mia figlia…? È impossibile!» Mentre la povera signora protestava, mezza svenuta, con le lagrime agli occhi, atterrita dalla terribile rivelazione da me fattale per conto del mio brav’uomo, io gongolavo di assistere a qualcosa che non avrei saputo immaginare, felice di raccogliere frasi, brani di dialogo di efficacia suprema, gridi di dolore, schianti di desolazione che avrebbero dato alla mia novella tale impronta di verità da farla riuscire – e me n’inorgoglivo – un capolavoro! Soltanto il giorno dopo cominciai a comprendere la stupida enormità che avevo commesso. Ne fui sbalordito. Cercavo di persuadermi che avevo fatto un brutto sogno, quand’ecco il giovanotto, il vivo, il vero, che viene a chiedermi ragione della calunnia con cui avevo . senza … qualità: senza preoccuparmi affatto del loro alto rango e delle loro competenze. . da che parte rifarmi: da che parte volgermi, da dove cominciare. . facevano all’amore: amoreggiavano, si comporta-

vano da innamorati. . per conto del mio brav’uomo: il dottore ha agito per conto del personaggio immaginario a cui ha attribuito il compito di mettere in guardia la signora.

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tentato di denigrarlo! Balbettavo: «Ecco!… Ecco!…» e additavo le cartelle del manoscritto ammucchiate su la scrivania. Ci volle del bello e del buono per convincerlo di che si trattava. E dovetti soffrire l’umiliazione di andare assieme con lui dall’afflitta signora e dare schiarimenti e chiedere scuse, senza riuscire compiutamente a scancellare il sospetto che avessi voluto metter male tra le due famiglie, chi sa per quale inconfessabile scopo! La vanità però ne poté piú del dispiacere che mi aveva colpito. Tra i personaggi della novella c’era anche una vecchia donna, che faceva da mezzana ai due amanti; e la mia donna, vecchia e sempliciona, mi era servita da modello per foggiare quel personaggio. Io le parlavo degli amori di quei due, quasi ella potesse capirmi. Mi spalancava in viso gli occhi smorti, e protestava forte che lei certi mestieri non li aveva mai praticati… «Tu menti!» le gridai un giorno, investendomi della parte del babbo della ragazza. La povera vecchia scoppiò in pianto dirotto, giurando e spergiurando che non era vero. «Via, via di qua, megera!» Ed era andata via davvero quel giorno, povera vecchina! E si era presentata dalla signora per dirle che l’avevano ingannata, e che lei non sapeva nemmeno che la signorina facesse all’amore. «Di nuovo? Ancora?» esclamò la mamma, furibonda. E ne nacque tal putiferio, ed ebbi una serie di cosí gravi dispiaceri… che, appianata alla meglio ogni cosa, corsi di lancio nel mio studio, feci una manata delle cartelle scritte e andai a ficcarle in fondo a un baule per liberarmi dall’oppressione di quella sciagurata novella. Avrei dovuto buttarle nel fuoco; sarebbe stato piú spiccio. Mah! Le mie viscere paterne non furono capaci di cotanto sacrifizio. Respirai! Per una settimana credetti di essermi liberato dall’enorme peso che mi gravava sul petto. Una notte, però, nel piú fitto del sonno, mi par di sentirmi scotere da mani che volevano destarmi, e che mi destarono infatti. E subito, appena sveglio, ecco tornarmi alla memoria i due amanti della novella! Sentii un brivido di orrore. Ricominciavo? Accesi la candela, fumai una sigaretta, sorridendo della strana allucinazione, e mi riaddormentai. Ma la notte appresso, alla stess’ora, riecco l’impressione di quelle mani che mi scotevano per destarmi; e, appena desto, riecco la figura dei due amanti, che quasi mi sembrava di scorgere nel buio della camera, con l’aria dolente di chi invoca soccorso e pietà: «O dunque? Ci lascia cosí, né in cielo né in terra; con le mani in mano, in questo stato? Una fine dobbiamo farla, non possiamo rimanere perpetuamente innamorati, e nelle circostanze in cui ha avuto la crudeltà di abbandonarci!» Mi sentivo ammattire. Capivo che era affare di nervi, di allucinazione proveniente dallo sconvolgimento prodotto in me dai casi in cui mi ero impigliato; e intanto non sapevo come dominarla, come scacciarla! Voi ridete; vi sembra assurdo che un uomo cosí solidamente imbastito possa essere giunto a tal estremo; ma in questo momento io non invento niente, caro amico! Quella idea diventava una fissazione, una persecuzione. Me li sentivo attorno, dovunque, imploranti: «O dunque? Ci lascia cosí? Né in cielo, né in terra?» Ah! Il pensiero di riprendere in mano la novella mi faceva sudar freddo. Temevo che non dovessero accadermi peggiori complicazioni delle già sofferte; e mandavo al diavolo l’amico che mi aveva soffiato il maligno suggerimento di diventar novelliere. Finalmente, una notte che non ero riuscito a chiuder occhio, e l’allucinazione aveva preso tale intensità che io vedevo e udivo quei due quasi fossero persone vive, balzai dal letto, in camicia, a piedi scalzi, corsi a cavar fuori dal baule le infami cartelle; e scritta, rapidamente, nell’ultima mezza pagina questa laconica chiusa: «Una pleurite uccise Giulio; il dolore e la febbre tifoidea sopraggiunta uccisero Ernesta!», tracciai con mano convulsa la parola: «Fine!» . di lancio: di slancio, a precipizio.

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Fui liberato, per sempre! Ed ora voi vorreste che tornassi a tentare? Nemmeno, ve lo giuro, per tutto l’oro del mondo! Il dottor Maggioli si era allontanato, continuando a dir di no coi gesti, di no, di no! Ebbene, non ho potuto mai sapere con certezza se quella sera egli mi abbia detto la verità o si sia burlato di me con quest’altra improvvisazione. Non vorrei, però, che l’aver trascritto, alla peggio, queste ed altre sue storielle (ne lasciò inedite parecchie) potesse essere creduto una specie di mia vendetta contro il povero dottor Maggioli, e menomarmi l’indulgenza dei lettori del Decameroncino.

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Giovanni Verga Vita dei campi Fantasticheria

Testo programmatico che presenta il mondo de I Malavoglia

Due mondi diversi ed estranei

Il proposito di raccontare il dramma dei Vinti

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omposta con ogni probabilità fra il dicembre 1877 e il gennaio 1878, la novella apparve per la prima volta nel «Fanfulla della Domenica» il 24 agosto 1879, per essere inclusa, l’anno successivo, nella raccolta Vita dei campi, di cui costituisce il testo introduttivo e programmatico, ma che allude già esplicitamente a I Malavoglia. Sul retro di una pagina cancellata di una prima redazione di Fantasticheria si trova la minuta di una lettera del 4 febbraio 1878 con cui Verga rispondeva a Sidney Sonnino, che gli aveva chiesto di collaborare con dei racconti alla rivista «La rassegna settimanale di politica, scienze, lettere ed arti» (cfr. DATI, tav. 170). In questa risposta Verga proponeva la pubblicazione di una prima redazione de I Malavoglia: la vicinanza del testo della novella mostra che essa doveva essere concepita inizialmente come un accompagnamento dello stesso romanzo, che intendeva mettere in scena il rapporto e lo scontro tra il mondo elegante e mondano presentato nella precedente narrativa di Verga e il mondo popolare de I Malavoglia. Scritta alla seconda persona, come discorso rivolto a una elegante signora con cui l’autore ha passato quarantotto ore da turista nel borgo di pescatori di Aci-Trezza, la novella si basa su di un confronto continuo tra il mondo della donna, l’ambiente mondano e salottiero da essa frequentato, e quello umile e semplice dei pescatori di Trezza: da questo confronto sorgono, anche se con qualche piccola differenza, le figure dei vari personaggi de I Malavoglia, presentati come personaggi reali con cui lo scrittore e la donna sarebbero stati in contatto in quel loro breve soggiorno. In questo modo, secondo Nino Borsellino, Verga «chiede ancora la solidarietà sentimentale del suo ambiente mondano col suo mondo creativo, e lo fa col gusto dello scandalo mascherato dalla sprezzatura». Si danno cosí alcune situazioni in cui i due mondi opposti e lontani, quello del precedente mondo narrativo di Verga e quello del nuovo mondo de I Malavoglia, sembrano come sfiorarsi, mostrare la loro distanza nell’atto in cui sono provvisoriamente vicini: cosí nello stamparsi della figurina artificiale della donna sullo sfondo del paesaggio marino, cosí nell’atto di comprare le arancie vendute dalla povera donna, cosí nell’arrossire, agli sguardi della signora, del pescatore poi morto a Lissa (il Luca de I Malavoglia), cosí nell’impaccio dell’altro pescatore (il Bastianazzo del romanzo) di fronte al piede della signora rimasto impigliato nel lacciuolo teso ai conigli. Lo sguardo a quel mondo popolare che l’autore oppone alle «irrequietudini del pensiero vagabondo» e alla artificiosa instabilità della vita borghese si proietta in una serie di metafore ricavate dal mondo animale: quella dell’esercito di formiche che resiste a ogni atto che lo scompiglia (immagine che ricorda una similitudine de La ginestra di Leopardi, vv. 202-212), quella dell’ostrica attaccata allo scoglio, quella del mondo come pesce vorace che ingoia gli sventurati. Si noterà che il soggiorno con la donna a cui l’autore si riferisce è comunque lontano nel tempo: il ricordo di esso è confrontato con il tempo piú vicino, in cui l’autore, ritornato da solo in quel luogo, è venuto a conoscenza di quanto è accaduto a quei personaggi, delle diverse disgrazie che essi hanno poi subíto: il proposito di raccontare il loro dramma sorge cosí dal confronto tra il passato e il presente; e in questo confronto si sintetizzano quelle che saranno le vicende essenziali de I Malavoglia, e si definisce il senso stesso del dramma implicito nella legge inesorabile (che coincide con la prospettiva dell’intero ciclo de I vinti) per cui chi dalla propria vita povera ed essenziale cerca di sfuggire «o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo», viene dal mondo stesso divorato e schiacciato. La donna a cui il narratore si rivolge è stata identificata con la contessa Paolina Greppi, con cui Verga ebbe una lunga relazione amorosa, ma è possibile anche che il personaggio sia soltanto fittizio e che il discorso che le è rivolto sfumi in una immagine indistinta della memoria: anche perché, rispetto al momento della narrazione, quel soggiorno in due ad Aci-Trezza si presenta come assai lontano nel tempo (dato che nel frattempo si suppongono accadute tutte le varie vicende de I Malavoglia). A tal proposito Leonardo Sciascia ha mostrato come in realtà la donna

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non possa aver visto Aci-Trezza dal treno né esserne partita con il treno e aver nello stesso tempo visto il pescatore (Luca Malavoglia) morto poi nella battaglia di Lissa (20 luglio 1866), per il semplice fatto che la ferrovia Giardini-Catania (primo tronco della linea che passa appunto per Aci-Trezza) fu aperta solo il 3 gennaio 1867: Sciascia ne deduce appunto che la donna della novella non sia mai esistita e che in essa vada riconosciuto un simbolo della memoria: «Lei cosí svagata e capricciosa, cosí lontana: appunto come la memoria che ha bisogno della lontananza, del capriccio, del caso, delle piú vaghe e appena percettibili sollecitazioni». [EDIZIONE: Giovanni Verga, Tutte le novelle, a cura di C. Riccardi, Mondadori, Milano 1979]

Una volta, mentre il treno passava vicino ad Aci-Trezza, voi, affacciandovi allo sportello del vagone, esclamaste: «Vorrei starci un mese laggiú!». Noi vi ritornammo e vi passammo non un mese, ma quarantott’ore; i terrazzani che spalancavano gli occhi vedendo i vostri grossi bauli avranno creduto che ci sareste rimasta un par d’anni. La mattina del terzo giorno, stanca di vedere eternamente del verde e dell’azzurro, e di contare i carri che passavano per via, eravate alla stazione, e gingillandovi impaziente colla catenella della vostra boccettina da odore, allungavate il collo per scorgere un convoglio che non spuntava mai. In quelle quarantott’ore facemmo tutto ciò che si può fare ad Aci-Trezza: passeggiammo nella polvere della strada e ci arrampicammo sugli scogli; col pretesto d’imparare a remare vi faceste sotto il guanto delle bollicine che rubavano i baci; passammo sul mare una notte romanticissima, gettando le reti tanto per far qualche cosa che a’ barcaiuoli potesse parer meritevole di buscare dei reumatismi; e l’alba ci sorprese nell’alto del fariglione, un’alba modesta e pallida, che ho ancora dinanzi agli occhi, striata di larghi riflessi violetti, sul mare di un verde cupo; raccolta come una carezza su quel gruppetto di casuccie che dormivano quasi raggomitolate sulla riva, e in cima allo scoglio, sul cielo trasparente e profondo, si stampava netta la vostra figurina, colle linee sapienti che ci metteva la vostra sarta, e il profilo fine ed elegante che ci mettevate voi. – Avevate un vestitino grigio che sembrava fatto apposta per intonare coi colori dell’alba. – Un bel quadretto davvero! e si indovinava che lo sapevate anche voi dal modo col quale vi modellavate nel vostro scialletto, e sorridevate coi grandi occhioni sbarrati e stanchi a quello strano spettacolo, e a quell’altra stranezza di trovarvici anche voi presente. Che cosa avveniva nella vostra testolina mentre contemplavate il sole nascente? Gli domandavate forse in qual altro emisfero vi avrebbe ritrovata fra un mese? Diceste soltanto ingenuamente: «Non capisco come si possa viver qui tutta la vita».

. Aci-Trezza: il paesino sulla costa, che costituirà l’ambientazione degli stessi Malavoglia, si trova subito a sud di Acireale ed è una delle borgate che mantennero il nome di Aci dopo che l’antica città di Aquilia era stata distrutta da terremoti e da eruzioni dell’Etna. . terrazzani: abitanti del paese. . boccettina da odore: la boccetta per il profumo. . sotto il guanto: sulle mani (da cui la protagonista/destinataria della novella non sembra mai togliere i guanti). . buscare: prendere, beccarsi. . nell’alto del fariglione: lo scrittore e la donna sono saliti insieme al maggiore dei faraglioni, le grandi rupi basaltiche che emergono sul mare davanti ad Aci Trezza e sono chiamate anche Scogli dei Ci-

clopi, secondo la leggenda che vuole siano stati scagliati da Polifemo contro Ulisse in fuga. . figurina: «sagoma» (ma con riferimento, anche, all’immagine da rivista di moda, che la figura di lei può evocare – per cui vedi, subito oltre, il riferimento alla sarta, al quadretto e al modellarsi della donna nello scialletto). . testolina: da notare l’ironica affettazione nell’uso dei diminutivi, specie di quelli riferiti alla capricciosa protagonista della novella. . emisfero: il narratore, qui, allude alla perpetua condizione di turista, che lo stato sociale consente alla protagonista, e che si oppone alla staticità del mondo da lei visitato in questa novella, con le dure leggi di sopravvivenza che lo reggono.

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Eppure, vedete, la cosa è piú facile che non sembri: basta non possedere centomila lire di entrata, prima di tutto; e in compenso patire un po’ di tutti gli stenti fra quegli scogli giganteschi, incastonati nell’azzurro, che vi facevano batter le mani per ammirazione. Cosí poco basta perché quei poveri diavoli che ci aspettavano sonnecchiando nella barca, trovino fra quelle loro casipole sgangherate e pittoresche, che viste da lontano vi sembravano avessero il mal di mare anch’esse, tutto ciò che vi affannate a cercare a Parigi, a Nizza ed a Napoli. È una cosa singolare; ma forse non è male che sia cosí – per voi, e per tutti gli altri come voi. Quel mucchio di casipole è abitato da pescatori; «gente di mare», dicon essi, come altri direbbe «gente di toga», i quali hanno la pelle piú dura del pane che mangiano, quando ne mangiano, giacché il mare non è sempre gentile, come allora che baciava i vostri guanti… Nelle sue giornate nere, in cui brontola e sbuffa, bisogna contentarsi di stare a guardarlo dalla riva, colle mani in mano, o sdraiati bocconi, il che è meglio per chi non ha desinato; in quei giorni c’è folla sull’uscio dell’osteria, ma suonano pochi soldoni sulla latta del banco, e i monelli che pullulano nel paese, come se la miseria fosse un buon ingrasso, strillano e si graffiano quasi abbiano il diavolo in corpo. Di tanto in tanto il tifo, il colèra, la malannata, la burrasca, vengono a dare una buona spazzata in quel brulicame, il quale si crederebbe che non dovesse desiderar di meglio che esser spazzato, e scomparire; eppure ripullula sempre nello stesso luogo; non so dirvi come, né perché. Vi siete mai trovata, dopo una pioggia di autunno, a sbaragliare un esercito di formiche tracciando sbadatamente il nome del vostro ultimo ballerino sulla sabbia del viale? Qualcuna di quelle povere bestioline sarà rimasta attaccata alla ghiera del vostro ombrellino, torcendosi di spasimo; ma tutte le altre, dopo cinque minuti di panico e di viavai, saranno tornate ad aggrapparsi disperatamente al loro monticello bruno. Voi non ci tornereste davvero, e nemmen io; ma per poter comprendere siffatta caparbietà, che è per certi aspetti eroica, bisogna farci piccini anche noi, chiudere tutto l’orizzonte fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori. Volete metterci un occhio anche voi, a cotesta lente, voi che guardate la vita dall’altro lato del cannocchiale? Lo spettacolo vi parrà strano, e perciò forse vi divertirà. Noi siamo stati amicissimi, ve ne rammentate? e mi avete chiesto di dedicarvi qualche pagina. Perché? à quoi bon? come dite voi. Che cosa potrà valere quel che scrivo per chi vi conosce? e per chi non vi conosce che cosa siete voi? Tant’è, mi son rammentato del vostro capriccio un giorno che ho rivisto quella povera donna cui solevate far l’elemosina col pretesto di comperar le sue arancie messe in fila sul panchettino dinanzi all’uscio. Ora il pan-

. gente di toga: come avvocati o magistrati. . suonano … del banco: risuona ben poco denaro sulla superficie metallica del banco dell’osteria. . fosse un buon ingrasso: desse loro forza, li incoraggiasse. . malannata: annata di cattivo raccolto (o anche, in questo caso, la cattiva pesca). . brulicame: «folla, moltitudine»; in riferimento, per lo piú, agli insetti (esercito di formiche si dirà al capoverso successivo). Ma l’immagine parrebbe richiamare anche quella dantesca del «bulicame», che l’Alighieri mutua dalla sorgente di acqua bollente nei pressi di Viterbo (cfr. Inferno, XII, : «gente che ’nfino a la gola / parea che di quel bulicame uscisse»). . ripullula: nasce di nuovo, germoglia, seguendo il suo inarrestabile impulso vitale.

. ghiera: punta metallica dell’ombrellino. . dall’altro lato del cannocchiale: ossia, riducendo la prospettiva al proprio egoistico punto di vista; rimpicciolendo, e non ingrandendo i particolari (le piccole cause). . à quoi bon? : “a che pro?” (espressione francese, secondo il lessico mondano della destinataria del racconto). . quella povera … all’uscio: nella figura della donna che vende le arance si riconosce una prima immagine di quello che ne I Malavoglia sarà il personaggio di Maruzza (detta la Longa), come mostra subito la successiva immagine del nespolo (la casa del nespolo è quella dei protagonisti del romanzo): nell’edizione in rivista non si trattava ancora di un nespolo, bensí di un arancio.

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chettino non c’è piú; hanno tagliato il nespolo del cortile, e la casa ha una finestra nuova. La donna sola non aveva mutato, stava un po’ piú in là a stender la mano ai carrettieri, accoccolata sul mucchietto di sassi che barricano il vecchio posto della guardia nazionale; ed io girellando, col sigaro in bocca, ho pensato che anche lei, cosí povera com’è, vi avea vista passare, bianca e superba. Non andate in collera se mi son rammentato di voi in tal modo a questo proposito. Oltre i lieti ricordi che mi avete lasciati, ne ho cento altri, vaghi, confusi, disparati, raccolti qua e là, non so piú dove; forse alcuni son ricordi di sogni fatti ad occhi aperti; e nel guazzabuglio che facevano nella mia mente, mentre io passava per quella viuzza dove son passate tante cose liete e dolorose, la mantellina di quella donnicciola freddolosa, accoccolata, poneva un non so che di triste e mi faceva pensare a voi, sazia di tutto, perfino dell’adulazione che getta ai vostri piedi il giornale di moda, citandovi spesso in capo alla cronaca elegante – sazia cosí da inventare il capriccio di vedere il vostro nome sulle pagine di un libro. Quando scriverò il libro, forse non ci penserete piú; intanto i ricordi che vi mando, cosí lontani da voi in ogni senso, da voi inebbriata di feste e di fiori, vi faranno l’effetto di una brezza deliziosa, in mezzo alle veglie ardenti del vostro eterno carnevale. Il giorno in cui ritornerete laggiú, se pur ci ritornerete, e siederemo accanto un’altra volta, a spinger sassi col piede, e fantasie col pensiero, parleremo forse di quelle altre ebbrezze che ha la vita altrove. Potete anche immaginare che il mio pensiero siasi raccolto in quel cantuccio ignorato del mondo, perché il vostro piede vi si è posato, – o per distogliere i miei occhi dal luccichio che vi segue dappertutto, sia di gemme o di febbri – oppure perché vi ho cercata inutilmente per tutti i luoghi che la moda fa lieti. Vedete quindi che siete sempre al primo posto, qui come al teatro. Vi ricordate anche di quel vecchietto che stava al timone della nostra barca? Voi gli dovete questo tributo di riconoscenza perché egli vi ha impedito dieci volte di bagnarvi le vostre belle calze azzurre. Ora è morto laggiú all’ospedale della città, il povero diavolo, in una gran corsia tutta bianca, fra dei lenzuoli bianchi, masticando del pane bianco, servito dalle bianche mani delle suore di carità, le quali non avevano altro difetto che di non saper capire i meschini guai che il poveretto biascicava nel suo dialetto semibarbaro. Ma se avesse potuto desiderare qualche cosa egli avrebbe voluto morire in quel cantuccio nero vicino al focolare, dove tanti anni era stata la sua cuccia «sotto le sue tegole», tanto che quando lo portarono via piangeva guaiolando, come fanno i vecchi. Egli era vissuto sempre fra quei quattro sassi, e di faccia a quel mare bello e traditore col quale dové lottare ogni giorno per trarre da esso tanto da campare la vita e non lasciargli le ossa; eppure in quei momenti in cui si godeva cheto cheto la sua «occhiata di sole» accoccolato sulla pedagna della barca, coi ginocchi fra le braccia, non avrebbe voltato la testa per vedervi, ed avreste cercato invano in quelli occhi attoniti il riflesso piú superbo della vostra bellezza; come quando tante fronti altere s’inchinano a farvi ala nei saloni splendenti, e vi specchiate negli occhi invidiosi delle vostre migliori amiche. . posto della guardia nazionale: posto di guardia di una milizia civile, che venne costituita subito dopo l’Unità per la difesa dell’ordine pubblico; fu attiva fino al , e, fra il  e il , impiegata soprattutto per combattere il brigantaggio. . il capriccio … di un libro: il capriccio è quello della richiesta da lei fatta, come detto poco prima, di essere dedicataria di qualche pagina dello scrittore, quindi di avere il proprio nome in uno dei suoi libri. . eterno carnevale: la vita di lei, che si conduce in una serie infinita di occasioni mondane. . o: o anche.

. febbri: passioni. . quel vecchietto: il riferimento è a quello che ne I Malavoglia sarà padron ’Ntoni (e morirà proprio nell’ospedale di Catania). . guaiolando: derivativo di «guaire»; nel senso di «gemere fievolmente». . pedagna: è (come spiega lo stesso Verga) la «tavola, fissata nel fondo della barca, alla quale il marinaio appoggia i piedi nel remare». . riflesso: colto invece nei suoi ammiratori. . farvi ala: per far largo alla sua bellezza quasi maestosa.

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La vita è ricca, come vedete, nella sua inesauribile varietà; e voi potete godervi senza scrupoli quella parte di ricchezza che è toccata a voi, a modo vostro. Quella ragazza, per esempio, che faceva capolino dietro i vasi di basilico, quando il fruscio della vostra veste metteva in rivoluzione la viuzza, se vedeva un altro viso notissimo alla finestra di faccia, sorrideva come se fosse stata vestita di seta anch’essa. Chi sa quali povere gioie sognava su quel davanzale, dietro quel basilico odoroso, cogli occhi intenti in quell’altra casa coronata di tralci di vite? E il riso dei suoi occhi non sarebbe andato a finire in lagrime amare, là, nella città grande, lontana dai sassi che l’avevano vista nascere e la conoscevano, se il suo nonno non fosse morto all’ospedale, e suo padre non si fosse annegato, e tutta la sua famiglia non fosse stata dispersa da un colpo di vento che vi avea soffiato sopra – un colpo di vento funesto, che avea trasportato uno dei suoi fratelli fin nelle carceri di Pantelleria: «nei guai!» come dicono laggiú. Miglior sorte toccò a quelli che morirono; a Lissa l’uno, il piú grande, quello che vi sembrava un David di rame, ritto, colla sua fiocina in pugno, e illuminato bruscamente dalla fiamma dell’ellera. Grande e grosso com’era, si faceva di brace anch’esso se gli fissavate in volto i vostri occhi arditi; nondimeno è morto da buon marinaio, sulla verga di trinchetto, fermo al sartiame, levando in alto il berretto, e salutando un’ultima volta la bandiera col suo maschio e selvaggio grido d’isolano. L’altro, quell’uomo che sull’isolotto non osava toccarvi il piede per liberarlo dal lacciuolo teso ai conigli nel quale v’eravate impigliata da stordita che siete, si perdé in una fosca notte d’inverno, solo, fra i cavalloni scatenati, quando fra la barca e il lido, dove stavano ad aspettarlo i suoi, andando di qua e di là come pazzi, c’erano sessanta miglia di tenebre e di tempesta. Voi non avreste potuto immaginare di qual disperato e tetro coraggio fosse capace per lottare contro tal morte quell’uomo che lasciavasi intimidire dal capolavoro del vostro calzolaio. Meglio per loro che son morti, e non «mangiano il pane del re», come quel poveretto che è rimasto a Pantelleria, e quell’altro pane che mangia la sorella, e non vanno attorno come la donna delle arancie, a viver della grazia di Dio; una grazia assai magra ad Aci-Trezza. Quelli almeno non hanno piú bisogno di nulla! Lo disse anche il ragazzo dell’ostessa, l’ultima volta che andò all’ospedale per chieder del vecchio e portargli di nascosto di quelle chiocciole stufate che son cosí buone a succiare per chi non ha piú denti, e trovò il letto vuoto, colle coperte belle e distese, e sgattaiolando nella corte andò a piantarsi dinanzi a una porta tutta brandelli di cartaccie, sbirciando dal buco della chiave una gran sala vuota, sonora e fredda anche di estate, e l’estremità di una lunga tavola di marmo, su cui era . povere gioie … dei suoi occhi: è stato notato, in questo passaggio, per la combinazione odoroso… intenti… riso dei suoi occhi, un riferimento esplicito alle strofe iniziali del canto leopardiano A Silvia («occhi ridenti», v. , «all’opre femminili intenta», v. , «maggio odoroso», v. ). La ragazza, di cui si parla, corrisponde alla Lia de I Malavoglia, figlia di Bastianazzo, nipote di padron ’Ntoni, che nel romanzo finisce prostituta in città; nel passo che segue, si riassume l’intera vicenda della disgrazia della famiglia (il naufragio è quello in cui perde la vita Bastianazzo; le carceri, quelle in cui finisce ’Ntoni, fratello maggiore di lei). . a Lissa … dell’ellera: sempre ne I Malavoglia, nella battaglia navale di Lissa ( luglio ) perde la vita Luca, altro figlio di Bastianazzo, che Verga rassomiglia alla statua del David di Donatello per il suo fisico scultoreo e per il colore della sua pelle (di rame): la fiocina richiama la spada del David, la cui testa è come illuminata da una corona di

edera (ellera). . trinchetto: è l’albero anteriore, quello piú vicino alla prua (la verga ne è il pennone). . sartiame: cordame (della nave). . L’altro … di tempesta: l’altro morto della famiglia è Bastianazzo, al cui naufragio già si è accennato: esso viene identificato come il pescatore che, accompagnando la donna nella gita al faraglione, si è trovato a dover liberare il piede della donna impigliatosi tra i lacci delle trappole per i conigli selvatici, disposte sull’isolotto; il suo naufragio viene evocato in termini simili a quelli in cui se ne parla nel capitolo III de I Malavoglia, dove però esso avviene non d’inverno, ma in settembre. . «non mangiano il pane del re»: espressione idiomatica, per «non sono in prigione» (come invece il giovane ’Ntoni). Di nuovo, in questo capoverso, stretti riferimenti alle vicende de I Malavoglia. . gran sala vuota: è la camera mortuaria; sotto il lenzuolo è il cadavere di padron ’Ntoni.

T. GIOVANNI VERGA E IL VERISMO. GIOVANNI VERGA. VITA DEI CAMPI

buttato un lenzuolo, greve e rigido. E dicendo che quelli là almeno non avevano piú bisogno di nulla, si mise a succiare ad una ad una le chiocciole che non servivano piú, per passare il tempo. Voi, stringendovi al petto il manicotto di volpe azzurra, vi rammenterete con piacere che gli avete dato cento lire al povero vecchio. Ora rimangono quei monellucci che vi scortavano come sciacalli e assediavano le arancie; rimangono a ronzare attorno alla mendica, a brancicarle le vesti come se ci avesse sotto del pane, a raccattar torsi di cavolo, buccie d’arancie e mozziconi di sigari, tutte quelle cose che si lasciano cadere per via ma che pure devono avere ancora qualche valore, perché c’è della povera gente che ci campa su; ci campa anzi cosí bene che quei pezzentelli paffuti e affamati cresceranno in mezzo al fango e alla polvere della strada, e si faranno grandi e grossi come il loro babbo e come il loro nonno, e popoleranno Aci-Trezza di altri pezzentelli, i quali tireranno allegramente la vita coi denti piú a lungo che potranno, come il vecchio nonno, senza desiderare altro; e se vorranno fare qualche cosa diversamente da lui, sarà di chiudere gli occhi là dove li hanno aperti, in mano del medico del paese che viene tutti i giorni sull’asinello, come Gesú, ad aiutare la buona gente che se ne va. – Insomma l’ideale dell’ostrica! direte voi. – Proprio l’ideale dell’ostrica, e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo che quello di non esser nati ostriche anche noi. Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere mentre seminava principi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano, mi sembrano – forse pel quarto d’ora – cose seriissime e rispettabilissime anch’esse. Parmi che le irrequietudini del pensiero vagabondo s’addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione. – Parmi che potrei vedervi passare, al gran trotto dei vostri cavalli, col tintinnío allegro dei loro finimenti e salutarvi tranquillamente. Forse perché ho troppo cercato di scorgere entro al turbine che vi circonda e vi segue, mi è parso ora di leggere una fatale necessità nelle tenaci affezioni dei deboli, nell’istinto che hanno i piccoli di stringersi fra loro per resistere alle tempeste della vita, e ho cercato di decifrare il dramma modesto e ignoto che deve aver sgominati gli attori plebei che conoscemmo insieme. Un dramma che qualche volta forse vi racconterò e di cui parmi tutto il nodo debba consistere in ciò: – che allorquando uno di quei piccoli; o piú debole, o piú incauto, o piú egoista degli altri, volle staccarsi dal gruppo per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo, il mondo, da pesce vorace com’è, se lo ingoiò, e i suoi piú prossimi con lui. – E sotto questo aspetto, vedete che il dramma non manca d’interesse. Per le ostriche l’argomento piú interessante deve esser quello che tratta delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro che le stacca dallo scoglio. . alla mendica: la venditrice di arance (di cui sopra). . tireranno … coi denti: in analogia e contrasto con l’immagine appena evocata delle chiocciole («cosí buone a succiare per chi non ha piú denti»), si riferisce alla strenua lotta per la sopravvivenza, che gli abitanti di borghi come Aci-Trezza sono costretti a condurre. . chiudere gli occhi … aperti: non, quindi, all’ospedale come invece padron ’Ntoni. . l’ideale dell’ostrica: la donna definisce cosí, come l’autore specifica piú avanti, una vita concepita come radicamento totale in un luogo, che evoca la totale aderenza dell’ostrica allo scoglio su cui è nata, e al quale sembra quasi cementata.

. forse pel quarto d’ora: fosse anche, cioè, nella loro relatività. . Parmi che potrei vedervi passare: l’autore immagina ora se stesso radicato nello stesso mondo di Aci-Trezza, dalla cui immobilità potrebbe veder passare la donna su una elegante carrozza a cavalli. . Un dramma … con lui: si esprime, qui, il tema narrativo del carattere distruttivo che assume, per le persone di quel povero mondo («uno di quei piccoli»), il richiamo del mondo piú grande e sconosciuto, la brama di meglio, l’aspirazione a migliorare la propria condizione di vita: fonte di rovina non solo per i singoli che cercano quelle nuove strade, ma anche per le loro famiglie (suoi piú prossimi).

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LA NUOVA ITALIA

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Rosso Malpelo

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Coro popolare

Violenza cieca del mondo

Orizzonte miticosimbolico

Il mondo di Rosso Malpelo è oscuro, senza luce

Pessimismo leopardiano

uesta novella, apparsa sul «Fanfulla della Domenica» dal 2 al 5 agosto 1878 e ripresa in un opuscolo della «Biblioteca dell’artigiano» (1880), costituí la prima grande uscita pubblica del Verga «verista». Uno spunto determinante per la sua elaborazione fu fornito dall’appendice su Il lavoro dei fanciulli nelle zolfare siciliane dell’inchiesta sulla Sicilia di Franchetti e Sonnino: al mondo delle zolfare, dove bambini e adolescenti venivano costretti a un lavoro malsano, massacrante e rimunerato in modo irrisorio, Verga sostituisce quello di una cava di rena, mettendo in evidenza la figura particolare ed estrema di un ragazzo preso nel cerchio di una realtà violenta e senza speranza. L’inizio stesso mostra immediatamente che l’autore attribuisce il racconto a una voce che rappresenta il pensiero di una comunità popolare: un pensiero che fa affidamento sul pregiudizio, evidente nella giustificazione della presunta cattiveria del personaggio protagonista con il suo essere rosso di capelli; nel suo soprannome del resto (che, come si dice all’inizio, si è del tutto sostituito al vero nome, che è stato addirittura dimenticato) non fa che fissarsi un diffuso detto siciliano, russu malpilu, cioè rosso pelo cattivo. E nel corso della novella «il pregiudizio ha il potere di orientare la narrazione e lo stesso corso degli eventi, e soprattutto offre allo scrittore l’opportunità di mascherare la sua ricerca formale» (Merola): Verga impone al lettore un’interpretazione delle vicende e una partecipazione sentimentale che vanno al di là di quanto esplicitamente detto, che contraddicono la crudeltà di quel pregiudizio e del punto di vista popolare. D’altra parte la durezza di quel punto di vista corrisponde alla durezza del mondo rappresentato, alla violenza cieca con cui si impone una realtà materiale da cui sono esclusi ogni consolazione e ogni riscatto. Ma l’immagine di questa realtà e del pregiudizio che la rappresenta sono tanto estremi da assumere caratteri mitici. La vita del ragazzo che si fa carico fino in fondo della crudeltà del mondo, che assume su di sé l’ostilità degli altri, esprimendo il proprio bisogno di amore solo con la violenza, identificandosi con il mondo animale e con il fondo oscuro della terra dove è costretto a lavorare, acquista un assoluto rilievo simbolico: e la sua fine, nel labirinto oscuro della cava, lo trasforma in una sorta di fantasma che i ragazzi della cava temono di vedere apparire nel buio, ricollegandolo alle leggende a cui si accenna nel corso del racconto, di operai perdutisi e vaganti in eterno nei corridoi senza uscita. Questo orizzonte mitico-simbolico è dominato dal colore rosso della rena (con cui vengono come a identificarsi i capelli e l’intero corpo del ragazzo) e dal nero che è dell’oscurità sotterranea, ma anche del paesaggio esterno, dominato dalla lava della sciara (a ciò si aggiungono altri effetti di colore, come il colore grigio dell’asino bastonato da Rosso e poi gettato nella sciara). Essere oscuro della terra e della notte, nell’assumere su di sé la violenza dell’ambiente e del mondo intorno Rosso Malpelo è spinto da una sorta di frenesia fisica, da una volontà di subire e di far subire: ed è come se tutto ciò sia stato suscitato dalla morte del padre, schiacciato da un pilastro di rena durante un lavoro a cottimo stupidamente assunto. La frenesia di Rosso, la sua oscura volontà di vendetta, si scarica contro i piú deboli, in un misto di odio e amore, come a sottolineare fino in fondo la negatività e l’assurdità del fatto stesso di vivere. Cosí accade con l’asino, cosí accade con Ranocchio, il ragazzo sciancato con cui egli si accompagna per un certo tempo e verso cui assume un atteggiamento addirittura pedagogico: come quando va con lui a visitare la carcassa dell’asino grigio e gli insegna «a vedere in faccia ogni cosa bella o brutta», a riconoscere fino in fondo la violenza del mondo, concludendo a proposito dell’asino con una massima che si rifà al piú antico e radicale pessimismo: «E se non fosse mai nato sarebbe stato meglio». E in fondo è lo stesso Rosso a vivere negando la propria stessa nascita, negando ogni possibile affetto, identificando il mondo con la sua cava, come un’unica, chiusa prigione (e per questo prova una malsana curiosità per l’evaso che si nasconde nella cava). Ma in questa negazione della vita, Rosso rimane attaccato, oltre che ai poveri esseri su cui può scaricare la sua rabbia, a pochi semplici oggetti, come gli «arnesi di suo padre», che non a caso lo accompagnano nella sua ultima discesa, o le scarpe del padre stesso, che la domenica egli cura amorosamente, restando poi a contemplarsele.

T. GIOVANNI VERGA E IL VERISMO. GIOVANNI VERGA. VITA DEI CAMPI

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

Nella novella si possono distinguere queste sequenze: presentazione e prima descrizione di Rosso Malpelo; racconto della morte del padre; descrizione di come Rosso lavora; il rapporto con Ranocchio e i rapporti con la casa e la famiglia; ritrovamento del cadavere del padre; l’asino grigio gettato nella sciara e le visite di Rosso con Ranocchio; malattia e morte di Ranocchio; l’evaso si nasconde nella cava; esplorazione della cava e sparizione di Rosso.

Malpelo si chiamava cosí perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre col sentirgli dir sempre a quel modo aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo. Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c’era anche a temere che ne sottraesse un paio di quei soldi; e nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni. Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non piú; e in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vedersi davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro. Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel suo pane di otto giorni, come fanno le bestie sue pari; e ciascuno gli diceva la sua motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c’ingrassava fra i calci e si lasciava caricare meglio dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso e lordo di rena rossa, ché la sua sorella s’era fatta sposa, e aveva altro pel capo: nondimeno era conosciuto come la bettonica per tutto Monserrato e la Carvana, tanto che la cava dove lavorava la chiamavano «la cava di Malpelo», e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e perché mastro Misciu, suo padre, era morto nella cava. Era morto cosí, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a cottimo, di un pilastro lasciato altra volta per sostegno nella cava, e che ora non serviva piú, e s’era calcolato cosí ad occhio col padrone per  o  carra di rena. Invece mastro Misciu sterrava da tre giorni e ne avanzava ancora per la mezza giornata del lunedí. Era stato un magro affare e solo un minchione come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone; perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l’asino da basto . riescire: riuscire, diventare. . corbello: cestino di vimini. . soprastante: sorvegliante, addetto al controllo del lavoro degli operai. . s’era fatta sposa: si era fidanzata. . bettonica: pianta medicinale, molto diffusa e allora molto nota. . Monserrato … Carvana: località nei pressi di Catania. . mastro Misciu: l’appellativo mastro si usa in Sicilia per gli artigiani e operai non agricoli (cosí

sarà per mastro-don Gesualdo, la cui prima attività era quella di muratore); Misciu è diminutivo di Domenico. . a cottimo: con pagamento complessivo, dato una volta per tutte, indipendentemente dalle ore effettive di lavoro. . carra: forma di antico plurale neutro per «carri» (la misura della sabbia veniva calcolata per carri). . minchione: sciocco, ingenuo. . asino da basto: bestia da soma.

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di tutta la cava. Ei, povero diavolaccio, lasciava dire e si contentava di buscarsi il pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe. Malpelo faceva un visaccio come se quelle soperchierie cascassero sulle sue spalle, e cosí piccolo com’era aveva di quelle occhiate che facevano dire agli altri: «Va’ là, che tu non ci morrai nel tuo letto, come tuo padre». Invece nemmen suo padre ci morí nel suo letto, tuttoché fosse una buona bestia. Zio Mommu lo sciancato, aveva detto che quel pilastro lí ei non l’avrebbe tolto per venti onze, tanto era pericoloso; ma d’altra parte tutto è pericoloso nelle cave, e se si sta a badare al pericolo, è meglio andare a fare l’avvocato. Adunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che l’avemaria era suonata da un pezzo, e tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa e se n’erano andati dicendogli di divertirsi a grattarsi la pancia per amor del padrone, e raccomandandogli di non fare la morte del sorcio. Ei, che c’era avvezzo alle beffe, non dava retta, e rispondeva soltanto cogli ah! ah! dei suoi bei colpi di zappa in pieno; e intanto borbottava: «Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella di Nunziata!» e cosí andava facendo il conto del come avrebbe speso i denari del suo appalto – il cottimante! Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiú la lanterna fumava e girava al pari di un arcolaio; ed il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa, contorcevasi e si piegava in arco come se avesse il mal di pancia, e dicesse: ohi! ohi! anch’esso. Malpelo andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone, il sacco vuoto ed il fiasco del vino. Il padre che gli voleva bene, poveretto, andava dicendogli: «Tirati indietro!» oppure «Sta’ attento! Sta’ attento se cascano dall’alto dei sassolini o della rena grossa». Tutt’a un tratto non disse piú nulla, e Malpelo, che si era voltato a riporre i ferri nel corbello, udí un rumore sordo e soffocato, come fa la rena allorché si rovescia tutta in una volta; ed il lume si spense. Quella sera in cui vennero a cercare in tutta fretta l’ingegnere che dirigeva i lavori della cava ei si trovava a teatro, e non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, perch’era gran dilettante. Rossi rappresentava l’Amleto, e c’era un bellissimo teatro. Sulla porta si vide accerchiato da tutte le femminucce di Monserrato, che strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia ch’era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva i denti quasi fosse in gennaio. L’ingegnere, quando gli ebbero detto che il caso era accaduto da circa quattro ore, domandò cosa venissero a fare da lui dopo quattro ore. Nondimeno ci andò con scale e torcie a vento, ma passarono altre due ore, e fecero sei, e lo sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo dal materiale caduto ci voleva una settimana. Altro che quaranta carra di rena! Della rena ne era caduta una montagna, tutta fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle mani e doveva prendere il doppio . buscarsi: procurarsi. . Zio Mommu: appellativo usato in genere per le persone anziane. Mommu è diminutivo di Girolamo. . onze: l’onza era antica moneta siciliana, che allora equivaleva a  lire circa; per i parametri del tempo, venti onze era una somma considerevole. . di non fare … sorcio: cioè di non morire intrappolato sotto terra. . Nunziata: la sorella di Rosso Malpelo. . cottimante: chi, come mastro Misciu, prende un lavoro a cottimo (che equivale a un appalto). . arcolaio: strumento per dipanare la lana, dal movimento vorticoso. . come fa … in una volta: nell’edizione del  Verga corregge cosí questa frase: «come fa la rena

traditora allorché fa pancia e si sventra tutta in una volta». . perch’era … bellissimo teatro: l’edizione  sostituisce queste parole con le seguenti: «quando vennero a cercarlo per il babbo di Malpelo, che aveva fatto la morte del sorcio», inserendo cosí una ripresa della metafora della morte del sorcio (già alla nota ) ed eliminando il richiamo all’Amleto e al celebre attore Ernesto Rossi (-), grande interprete shakespeariano. . comare Santa: la madre di Malpelo. . L’ingegnere … quaranta carra di rena: questa la lezione dell’edizione : «L’ingegnere, quando gli ebbero detto il come e il quando, che la disgrazia era accaduta da circa tre ore, e Misciu Bestia

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di calce. Ce n’era da riempire delle carra per delle settimane. Il bell’affare di mastro Bestia! L’ingegnere se ne tornò a veder seppellire Ofelia; e gli altri minatori si strinsero nelle spalle, e se ne tornarono a casa ad uno ad uno. Nella ressa e nel gran chiacchierío non badarono a una voce di fanciullo, la quale non aveva piú nulla di umano, e strillava: «Scavate! scavate qui! presto!» «To’!» disse lo sciancato, «è Malpelo!» Da dove è venuto fuori Malpelo? «Se tu non fossi stato Malpelo, non te la saresti scappata, no!» Gli altri si misero a ridere, e chi diceva che Malpelo avea il diavolo dalla sua, un altro che avea il cuoio duro a mo’ dei gatti. Malpelo non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà nella rena, dentro la buca, sicché nessuno s’era accorto di lui; e quando si accostarono col lume gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati, e tale schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo piú graffiare, mordeva come un cane arrabbiato e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza. Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre piagnuccolando ve lo condusse per mano; giacché, alle volte il pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua e di là. Anzi non volle piú allontanarsi da quella galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo padre. Alle volte, mentre zappava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli susurrava negli orecchi, dall’altra parte della montagna di rena caduta. In quei giorni era piú tristo e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi, e il pane lo buttava al cane, come se non fosse grazia di Dio. Il cane gli voleva bene, perché i cani non guardano altro che la mano la quale dà loro il pane. Ma l’asino grigio, povera bestia, sbilenca e macilenta, sopportava tutto lo sfogo della cattiveria di Malpelo; ei lo picchiava senza pietà, col manico della zappa, e borbottava: «Cosí creperai piú presto!» Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll’anello di ferro al naso. Sapendo che era malpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, o che crollava un pezzo di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s’immaginava gli avessero fatto, a lui e al suo babbo. Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in cui l’avevano lasciato crepare. E quando era solo borbottava: «Anche con me fanno cosí! e a mio padre gli dicevano Bestia, perché ei non faceva cosí!» E una volta che passava il padrone, accompagnandolo con un’occhiata torva: «È stato lui, per trentacinque tarí!» E un’altra volta, dietro allo sciancato: «E anche lui! e si metteva a ridere! Io l’ho udito, quella sera!» doveva già essere bell’e arrivato in paradiso, andò proprio per scarico di coscienza, con scale e corde, a fare il buco nella rena. Altro che quaranta carra! Lo sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo ci voleva almeno una settimana». . doveva … di calce: «era capace di assorbire molta calce, tanto era fine» (e quindi ben adatta alla muratura). . L’ingegnere … scavate qui! presto!»: nell’edizione  queste frasi sono sostituite solo dalla seguente: «Nessuno badava al ragazzo che si graffiava la faccia e urlava, come una bestia davvero»: viene cosí attenuata l’indifferenza dell’ingegnere

che torna ad assistere al resto dell’Amleto («se ne tornò a veder seppellire Ofelia»), non si riportano direttamente le grida di Malpelo e si inserisce un parallelismo tra il ragazzo e il padre morto, attraverso la ripresa della parola bestia. . Gli altri … dei gatti: frase eliminata dall’edizione . . invetrati: vitrei. . come se … di Dio: secondo un diffuso motto popolare, il pane non va sciupato perché è grazia di Dio. . si acconciava: si disponeva. . trentacinque tarí: la somma pattuita per il cot-

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Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta da un ponte s’era lussato il femore, e non poteva far piú il manovale. Il poveretto, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che sembrava ballasse la tarantella, e aveva fatto ridere tutti quelli della cava, cosí che gli avevano messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra, cosí ranocchio com’era, il suo pane se lo buscava; e Malpelo gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano. Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava piú forte, con maggiore accanimento, e gli diceva: «To’! Bestia! Bestia sei! Se non ti senti l’animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da quello!» O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca o dalle narici: «Cosí, come ti cuocerà il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu!» Quando cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare gli zoccoli, rifinito, curvo sotto il peso, ansante e coll’occhio spento, ei lo batteva senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli stinchi e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture, ma stremo di forze non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n’era uno il quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe; e Malpelo allora confidava a Ranocchio: «L’asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e s’ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi». Oppure: «Se ti accade di dar delle busse, procura di darle piú forte che puoi: cosí coloro su cui cadranno ti terranno per da piú di loro, e ne avrai tanti di meno addosso». Lavorando di piccone o di zappa poi menava le mani con accanimento, a mo’ di uno che l’avesse con la rena, e batteva e ribatteva coi denti stretti, e con quegli ah! ah! che aveva suo padre. «La rena è traditora,» diceva a Ranocchio sottovoce; «somiglia a tutti gli altri, che se sei piú debole ti pestano la faccia, e se sei piú forte, o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere. Mio padre la batteva sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano Bestia, e la rena se lo mangiò a tradimento, perché era piú forte di lui». Ogni volta che a Ranocchio toccava un lavoro troppo pesante, e Ranocchio piagnucolava a guisa di una femminuccia, Malpelo lo picchiava sul dorso e lo sgridava: «Taci, pulcino!» e se Ranocchio non la finiva piú, ei gli dava una mano, dicendo con un certo orgoglio: «Lasciami fare; io sono piú forte di te». Oppure gli dava la sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto, e si stringeva nelle spalle, aggiungendo: «Io ci sono avvezzo». Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi, colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva che la razione di busse non gliela aveva levata mai il padrone; ma le busse non costavano nulla. Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto, a tradimento, con qualche tiro di quelli che sembrava ci avesse messo la coda il diavolo: perciò ei si pigliava sempre i castighi anche quando il colpevole non era stato lui; già se non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustificava mai: per altro sarebbe stato inutile. E qualche volta come Ranocchio spaventato lo scongiurava piangendo di dire la verità e di scolparsi, ei ripeteva: «A che giova? Sono malpelo!» e nessuno avrebbe potuto dire se quel curvare il capo e le spalle sempre fosse effetto di bieco orgoglio o di disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua fosse salvatichezza o timidità. Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta mai una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai. timo di mastro Misciu (il tarí era una antica moneta siciliana, equivalente alla trentesima parte di un’onza: cfr. nota , p. ).

. rifinito: sfinito. . stremo: privo, sprovvisto. . cinghia da basto: la cintura per legare il basto

T. GIOVANNI VERGA E IL VERISMO. GIOVANNI VERGA. VITA DEI CAMPI

Il sabato sera, appena arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato di lentiggini e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano addosso da ogni parte, la sorella afferrava il manico della scopa se si metteva sull’uscio in quell’arnese, ché avrebbe fatto scappare il suo damo se avesse visto che razza di cognato gli toccava sorbirsi; la madre era sempre da questa o da quella vicina, e quindi egli andava a rannicchiarsi sul suo saccone come un cane malato. Adunque, la domenica, in cui tutti gli altri ragazzi del vicinato si mettevano la camicia pulita per andare a messa o per ruzzare nel cortile, ei sembrava non avesse altro spasso che di andar randagio per le vie degli orti, a dar la caccia a sassate alle povere lucertole, le quali non gli avevano fatto nulla, oppure a sforacchiare le siepi dei fichidindia. Per altro le beffe e le sassate degli altri fanciulli non gli piacevano. La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio quel malarnese, come dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati e selvatici come lupi. Almeno sottoterra, nella cava della rena, brutto e cencioso e sbracato com’era, non lo beffavano piú, e sembrava fatto apposta per quel mestiere persin nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci di gatto che ammiccavano se vedevano il sole. Cosí ci sono degli asini che lavorano nelle cave per anni ed anni senza uscirne mai piú, ed in quei sotterranei, dove il pozzo di ingresso è verticale, ci si calan colle funi, e ci restano finché vivono. Sono asini vecchi, è vero, comprati dodici o tredici lire, quando stanno per portarli alla Plaja, a strangolarli; ma pel lavoro che hanno da fare laggiú sono ancora buoni; e Malpelo, certo, non valeva di piú, e se veniva fuori dalla cava il sabato sera, era perché aveva anche le mani per aiutarsi colla fune, e doveva andare a portare a sua madre la paga della settimana. Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come Ranocchio, e lavorare cantando sui ponti, in alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla schiena – o il carrettiere, come compare Gaspare che veniva a prendersi la rena della cava, dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in bocca, e andava tutto il giorno per le belle strade di campagna – o meglio ancora avrebbe voluto fare il contadino che passa la vita fra i campi, in mezzo al verde, sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa. Ma quello era stato il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui. E pensando a tutto ciò, indicava a Ranocchio il pilastro che era caduto addosso al genitore, e dava ancora della rena fina e bruciata che il carrettiere veniva a caricare colla pipa in bocca, e dondolandosi sulle stanghe, e gli diceva che quando avrebbero finito di sterrare si sarebbe trovato il cadavere di suo padre, il quale doveva avere dei calzoni di fustagno quasi nuovi. Ranocchio aveva paura, ma egli no. Ei narrava che era stato sempre là, da bambino, e aveva sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sotterra, dove il padre soleva condurlo per mano. Allora stendeva le braccia a destra e a sinistra, e descriveva come l’intricato laberinto delle gallerie si stendesse sotto i loro piedi dappertutto di qua e di là, sin dove potevano vedere la sciara nera e desolata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n’erano rimasti tanti, o schiacciati, o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano ancora, senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e senza poter udire le strida disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente.

sotto la pancia dell’asino. . in quell’arnese: abbigliato a quel modo. . damo: fidanzato. . saccone: pagliericcio, letto fatto di sacco pieno di fogliame. . Plaja: la spiaggia a sud di Catania, alla foce del Simeto. . come Ranocchio: prima che si lussasse il femore.

. carrubbi: carrubi, alberi sempreverdi, che danno frutti usati come foraggio, molto diffusi in Sicilia. . colla pipa … sulle stanghe: ripresa, in chiasmo, dell’immagine data sopra di compare Gaspare («dondolandosi… sulle stanghe, colla pipa in bocca»). . sciara: terreno vulcanico, di lava indurita.

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Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle scarpe di mastro Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo all’aria aperta colle funi, proprio come un asino che stesse per dar dei calci al vento. Però non si poterono trovare né i calzoni quasi nuovi, né il rimanente di mastro Misciu; sebbene i pratici asserissero che quello dovea essere il luogo preciso dove il pilastro gli si era rovesciato addosso; e qualche operaio, nuovo del mestiere, osservava curiosamente come fosse capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato il Bestia di qua e di là, le scarpe da una parte e i piedi dall’altra. Dacché poi fu trovata quella scarpa, Malpelo fu colto da tal paura di veder comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai piú darvi un colpo di zappa; gliela dessero a lui sul capo, la zappa. Egli andò a lavorare in un altro punto della galleria e non volle piú tornare da quelle parti. Due o tre giorni dopo scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso, e steso bocconi che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommu osservò che aveva dovuto stentar molto a morire, perché il pilastro gli si era piegato in arco addosso, e l’aveva seppellito vivo; si poteva persino vedere tuttora che mastro Bestia avea tentato istintivamente di liberarsi scavando nella rena, e avea la mani lacerate e le unghie rotte. «Proprio come suo figlio Malpelo!» ripeteva lo sciancato, «ei scavava di qua, mentre suo figlio scavava di là». Però non dissero nulla al ragazzo per la ragione che lo sapevano maligno e vendicativo. Il carrettiere sbarazzò il sotterraneo dal cadavere al modo istesso che lo sbarazzava dalla rena caduta e dagli asini morti, ché stavolta oltre al lezzo del carcame, c’era che il carcame era di carne battezzata; e la vedova rimpiccolí i calzoni e la camicia, e li adattò a Malpelo, il quale cosí fu vestito quasi a nuovo per la prima volta, e le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacché rimpiccolirsi le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella non ne aveva volute di scarpe del morto. Malpelo se li lisciava sulle gambe quei calzoni di fustagno quasi nuovo, gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo che solevano accarezzargli i capelli, cosí ruvidi e rossi com’erano. Quelle scarpe le teneva appese ad un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l’una accanto all’altra, e stava a contemplarsele coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme per delle ore intere, rimugginando chi sa quali idee in quel cervellaccio. Ei possedeva delle idee strane, Malpelo! Siccome aveva ereditato anche il piccone e la zappa del padre, se ne serviva, quantunque fossero troppo pesanti per l’età sua; e quando gli aveano chiesto se voleva venderli, che glieli avrebbero pagati come nuovi, egli aveva risposto di no; suo padre li ha resi cosí lisci e lucenti nel manico colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri piú lisci e lucenti di quelli, se ci avesse lavorato cento e poi cento anni. In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l’asino grigio; e il carrettiere era andato a buttarlo lontano nella sciara. «Cosí si fa,» brontolava Malpelo; «gli arnesi che non servono piú si buttano lontano». Ei andava a visitare il carcame del grigio in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche Ranocchio, il quale non avrebbe voluto andarci; e Malpelo gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa bella o brutta; e stava a considerare con l’avida curiosità di un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del grigio. I cani scappavano guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando sui greppi dirimpetto, ma il Rosso non lasciava che Ranocchio li scacciasse a sassate. «Vedi quella cagna nera,» gli diceva, «che non ha paura delle tue sassate; non ha paura perché ha piú fame degli altri. Gliele vedi quelle costole!» Adesso non soffriva piú, l’asino grigio, e se ne stava tranquillo colle quattro zam. stesse … al vento: «stesse per morire» (espressione derivata dall’immagine della morte degli impiccati).

. carcame: carcassa, cadavere in decomposizione. . ustolando: mugolando.

T. GIOVANNI VERGA E IL VERISMO. GIOVANNI VERGA. VITA DEI CAMPI

pe distese, e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde e a spolpargli le ossa bianche e i denti che gli laceravano le viscere non gli avrebbero fatto piegar la schiena come il piú semplice colpo di badile che solevano dargli onde mettergli in corpo un po’ di vigore quando saliva la ripida viuzza. Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche, e anch’esso quando piegava sotto il peso e gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: Non piú! non piú! Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche con quella bocca spolpata e tutta denti. E se non fosse mai nato sarebbe stato meglio. La sciara si stendeva malinconica e deserta fin dove giungeva la vista, e saliva e scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, o un uccello che vi volasse su. Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di piccone di coloro che lavoravano sotterra. E ogni volta Malpelo ripeteva che al di sotto era tutta scavata dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso la valle; tanto che una volta un minatore c’era entrato coi capelli neri, e n’era uscito coi capelli bianchi, e un altro cui s’era spenta la torcia aveva invano gridato aiuto ma nessuno poteva udirlo. Egli solo ode le sue stesse grida! diceva, e a quell’idea, sebbene avesse il cuore piú duro della sciara, trasaliva. «Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura d’andare. Ma io sono Malpelo, e se io non torno piú, nessuno mi cercherà». Pure, durante le belle notti d’estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla sciara, e la campagna circostante era nera anch’essa, come la sciara, ma Malpelo, stanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il cielo, a godersi quella quiete e quella luminaria dell’alto; perciò odiava le notti di luna, in cui il mare formicola di scintille, e la campagna si disegna qua e là vagamente – allora la sciara sembra piú brulla e desolata. «Per noi che siamo fatti per vivere sotterra,» pensava Malpelo, «ci dovrebbe essere buio sempre e dappertutto». La civetta strideva sulla sciara, e ramingava di qua e di là; ei pensava: «Anche la civetta sente i morti che son qua sotterra e si dispera perché non può andare a trovarli». Ranocchio aveva paura delle civette e dei pipistrelli; ma il Rosso lo sgridava perché chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno l’asino grigio aveva paura dei cani che se lo spolpavano, ora che le sue carni non sentivano piú il dolore di esser mangiate. «Tu eri avvezzo a lavorar sui tetti come i gatti,» gli diceva, «e allora era tutt’altra cosa. Ma adesso che ti tocca a viver sotterra, come i topi, non bisogna piú aver paura dei topi, né dei pipistrelli, che son topi vecchi con le ali, e i topi ci stanno volentieri in compagnia dei morti». Ranocchio invece provava una tale compiacenza a spiegargli quel che ci stessero a far le stelle lassú in alto; e gli raccontava che lassú c’era il paradiso, dove vanno a stare i morti che sono stati buoni e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori. «Chi te l’ha detto?» domandava Malpelo, e Ranocchio rispondeva che glielo aveva detto la mamma. Allora Malpelo si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da monellaccio malizioso che la sa lunga. «Tua madre ti dice cosí perché, invece dei calzoni, tu dovresti portar la gonnella». E dopo averci pensato su un po’: «Mio padre era buono e non faceva male a nessuno, tanto che gli dicevano Bestia. Invece è là sotto, ed hanno persino trovato i ferri e le scarpe e questi calzoni qui che ho indosso io». Da lí a poco, Ranocchio, il quale deperiva da qualche tempo, si ammalò in modo che la sera dovevano portarlo fuori dalla cava sull’asino, disteso fra le corbe, tremante di febbre come un pulcin bagnato. Un operaio disse che quel ragazzo non ne avrebbe fatto osso duro a . guidalesche: piaghe procurate dai finimenti di cuoio sul corpo delle bestie da soma (piú corrente la forma maschile guidaleschi).

. ramingava: svolazzava. . corbe: le grandi ceste per trasportare la rena. . non ne avrebbe … duro: «non ci si sarebbe abi-

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quel mestiere, e che per lavorare in una miniera senza lasciarvi la pelle bisognava nascervi. Malpelo allora si sentiva orgoglioso di esserci nato e di mantenersi cosí sano e vigoroso in quell’aria malsana, e con tutti quegli stenti. Ei si caricava Ranocchio sulle spalle, e gli faceva animo alla sua maniera, sgridandolo e picchiandolo. Ma una volta nel picchiarlo sul dorso Ranocchio fu colto da uno sbocco di sangue, allora Malpelo spaventato si affannò a cercargli nel naso e dentro la bocca cosa gli avesse fatto, e giurava che non avea potuto fargli quel gran male, cosí come l’aveva battuto, e a dimostrarglielo, si dava dei gran pugni sul petto e sulla schiena con un sasso; anzi un operaio, lí presente, gli sferrò un gran calcio sulle spalle, un calcio che risuonò come su di un tamburo, eppure Malpelo non si mosse, e soltanto dopo che l’operaio se ne fu andato, aggiunse: «Lo vedi? Non mi ha fatto nulla! E ha picchiato piú forte di me, ti giuro!» Intanto Ranocchio non guariva e seguitava a sputar sangue, e ad aver la febbre tutti i giorni. Allora Malpelo rubò dei soldi della paga della settimana, per comperargli del vino e della minestra calda, e gli diede i suoi calzoni quasi nuovi che lo coprivano meglio. Ma Ranocchio tossiva sempre e alcune volte sembrava soffocasse, e la sera non c’era modo di vincere il ribrezzo della febbre, né con sacchi, né coprendolo di paglia, né mettendolo dinanzi alla fiammata. Malpelo se ne stava zitto ed immobile chino su di lui, colle mani sui ginocchi, fissandolo con quei suoi occhiacci spalancati come se volesse fargli il ritratto, e allorché lo udiva gemere sottovoce, e gli vedeva il viso trafelato e l’occhio spento, preciso come quello dell’asino grigio allorché ansava rifinito sotto il carico nel salire la viottola, ei gli borbottava: «È meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire in tal modo, è meglio che tu crepi!» E il padrone diceva che Malpelo era capace di schiacciargli il capo a quel ragazzo, e bisognava sorvegliarlo. Finalmente un lunedí Ranocchio non venne piú alla cava, e il padrone se ne lavò le mani, perché allo stato in cui era ridotto oramai era piú di impiccio che d’altro. Malpelo si informò dove stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo. Il povero Ranocchio era piú di là che di qua, e sua madre piangeva e si disperava come se il suo figliolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana. Cotesto non arrivava a comprendere Malpelo, e domandò a Ranocchio perché sua madre strillasse a quel modo, mentre che da due mesi ei non guadagnava nemmeno quel che si mangiava. Ma il povero Ranocchio non gli dava retta e sembrava che badasse a contare quanti travicelli c’erano sul tetto. Allora il Rosso si diede ad almanaccare che la madre di Ranocchio strillasse a quel modo perché il suo figliuolo era sempre stato debole e malaticcio, e l’aveva tenuto come quei marmocchi che non si slattano mai. Egli invece era stato sano e robusto, ed era malpelo, e sua madre non aveva mai pianto per lui perché non aveva mai avuto timore di perderlo. Poco dopo, alla cava dissero che Ranocchio era morto, ed ei pensò che la civetta adesso strideva anche per lui nella notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del grigio, nel burrone dove solevano andare insieme con Ranocchio. Ora del grigio non rimanevano piú che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sarebbe stato cosí, e sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poiché anche la madre di Malpelo s’era asciugati i suoi dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era maritata un’altra volta, ed era andata a stare a Cifali, anche la sorella si era maritata e avevano chiusa la casa. D’ora in poi, se lo battevano, a loro non importava piú nulla, e a lui nemmeno, e quando sarebbe divenuto come il grigio o come Ranocchio, non avrebbe sentito piú nulla.

tuato, ma sarebbe morto prima» (modo di dire proverbiale). . ribrezzo: brivido. . sacchi: i soli tessuti presenti nella cava. . come se … settimana: è uno dei piú crudeli, fra i tanti commenti crudeli fatti dalla voce «popolare»

che narra la novella, ed è ispirato a un impietoso realismo economico, totalmente condiviso dallo stesso Malpelo, come mostrano i periodi successivi. . slattano: svezzano. . Cifali: Cibali, località a nord-est di Catania (oggi quartiere della città).

T. GIOVANNI VERGA E IL VERISMO. GIOVANNI VERGA. VITA DEI CAMPI

Verso quell’epoca venne a lavorare nella cava uno che non s’era mai visto, e si teneva nascosto il piú che poteva; gli altri operai dicevano fra di loro che era scappato dalla prigione, e se lo pigliavano ce lo tornavano a chiudere per degli anni e degli anni. Malpelo seppe in quell’occasione che la prigione era un luogo dove si mettevano i ladri, e i malarnesi come lui, e si tenevano sempre chiusi là dentro e guardati a vista. Da quel momento provò una malsana curiosità per quell’uomo che aveva provata la prigione e n’era scappato. Dopo poche settimane però il fuggitivo dichiarò chiaro e tondo che era stanco di quella vitaccia da talpa e piuttosto si contentava di stare in galera tutta la vita, ché la prigione, in confronto, era un paradiso e preferiva tornarci coi suoi piedi. «Allora perché tutti quelli che lavorano nella cava non si fanno mettere in prigione?» domandò Malpelo. «Perché non sono malpelo come te!» rispose lo sciancato. «Ma non temere, che tu ci andrai e ci lascerai le ossa». Invece le ossa le lasciò nella cava, Malpelo, come suo padre, ma in modo diverso. Una volta si doveva esplorare un passaggio che si riteneva comunicasse col pozzo grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa era vera, si sarebbe risparmiata una buona metà di mano d’opera nel cavar fuori la rena. Ma se non era vero, c’era il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai piú. Sicché nessun padre di famiglia voleva avventurarvisi, né avrebbe permesso che ci si arrischiasse il sangue suo per tutto l’oro del mondo. Ma Malpelo non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l’oro del mondo per la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tutto l’oro del mondo; sua madre si era rimaritata e se n’era andata a stare a Cifali, e sua sorella s’era maritata anch’essa. La porta della casa era chiusa, ed ei non aveva altro che le scarpe di suo padre appese al chiodo; perciò gli commettevano sempre i lavori piú pericolosi, e le imprese piú arrischiate, e s’ei non si aveva riguardo alcuno, gli altri non ne avevano certamente per lui. Quando lo mandarono per quella esplorazione si risovvenne del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e cammina ancora al buio gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo; ma non disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, e il fiasco del vino, e se ne andò: né piú si seppe nulla di lui. Cosí si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi. . commettevano: affidavano.

La Lupa

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uesta novella fu pubblicata nella «Rivista nuova di scienze, lettere e arti», di Napoli (15 febbraio 1880), prima di essere inclusa, pochi mesi dopo, nella prima edizione di Vita dei campi: molto piú tardi Verga ne diede una versione teatrale, messa in scena al teatro Gerbino di Torino il 26 gennaio 1896. La figura della protagonista del racconto è modellata su di un personaggio reale: una donna che abitava una capanna nei pressi della casa di Luigi Capuana, a Santa Margherita presso Mineo. Lo testimonia lo stesso Capuana, in una recensione a Vita dei campi uscita sul «Corriere della Sera» del 20-21 settembre 1880: «Quella Lupa io l’ho conosciuta. Tre mesi fa, tra le colline di Santa Margherita, su quel di Mineo, passavo pel luogo dov’era una volta il pagliaio di lei, fra gli ulivi, presso una fila di pioppi che si rizzano gracili e stentati sul terreno umidiccio. […] Ora il pa-

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Sensualità distruttiva in un mondo di primitiva rozzezza

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gliaio è distrutto, e quell’angolo di collina deserto. Io provavo un gran senso di tristezza nel guardar quella rovina». E la cosa è ricordata ancora da Verga in un ricordo dell’amico scomparso, uscito sul «Giornale dell’Isola» del 30 novembre 1915: «Egli [Capuana] mi fece vedere la capanna di gnà Pina, la sciagurata madre adultera; e assistendo al ballo dei contadini, la sera, dinanzi a quella candela fumosa appesa al torchio delle olive mi parve di vedere anch’io viventi, le fosche figure di quel dramma fosco». La figura fosca di questa protagonista, con la sua sensualità incontenibile, cieca e distruttiva, domina tutto lo spazio della novella, che precipita veloce verso l’esito tragico: il personaggio è come un’emanazione perversa della violenza e della densità del paesaggio, di quella campagna bruciata dal sole, tra i sassi infuocati e le stoppie riarse. I gesti e i movimenti degli esseri umani, nelle diverse fasi della vicenda, si svolgono in una concentrata essenzialità, come svuotati di ogni possibile risonanza sentimentale: tutto è spietato, implacabile, come in una maledizione determinata da sempre, in un mondo di «primitiva» rozzezza. Nella brevità della costruzione narrativa dominano dei «fatti» ridotti all’osso, la cui essenza «viene condensata in parole o frasi-tema, che si ripetono di continuo, con variazioni semantiche che segnano il progredire o il mutare dell’azione, mentre contemporaneamente la scorciano» (Bigazzi): cosí si insiste sul continuo andare della Lupa (si veda quante volte è ripetuto il verbo andare), cosí tre volte si ripete il proverbio «In quell’ora tra vespero e nona, in cui non ne va in volta femmina buona» (cfr. nota 11, p. 203). Si tratta di procedimenti narrativi molto vicini a quelli piú ampiamente dispiegati ne I Malavoglia.

Era alta, magra; aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna e pure non era piú giovane; era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi cosí, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano. Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era sazia giammai – di nulla. Le donne si facevano la croce quando la vedevano passare, sola come una cagnaccia, con quell’andare randagio e sospettoso della lupa affamata; ella si spolpava i loro figliuoli e i loro mariti in un batter d’occhio, con le sue labbra rosse, e se li tirava dietro alla gonnella solamente a guardarli con quegli occhi da satanasso, fossero stati davanti all’altare di Santa Agrippina. Per fortuna la Lupa non veniva mai in chiesa né a Pasqua, né a Natale, né per ascoltar messa, né per confessarsi. – Padre Angiolino di Santa Maria di Gesú, un vero servo di Dio, aveva persa l’anima per lei. Maricchia, poveretta, buona e brava ragazza, piangeva di nascosto, perché era figlia della Lupa, e nessuno l’avrebbe tolta in moglie, sebbene ci avesse la sua bella roba nel cassettone, e la sua buona terra al sole, come ogni altra ragazza del villaggio. Una volta la Lupa si innamorò di un bel ragazzo che era tornato da soldato, e mieteva il fieno con lei nelle chiuse del notaro, ma proprio quello che si dice innamorarsi, sentirsene ardere le carni sotto al fustagno del corpetto, e provare, fissandolo negli occhi, la sete che si ha nelle ore calde di giugno, in fondo alla pianura. Ma colui seguitava a mietere tranquillamente col naso sui manipoli, e le diceva: – O che avete, gnà Pina? Nei campi immensi, dove scoppiettava soltanto il volo dei grilli, quando il sole batteva a piombo, la Lupa, affastellava manipoli su manipoli, e covoni su covoni, senza stancarsi mai, senza rizzarsi un momento sulla vita, senza accostare le labbra al fiasco, pur di stare sempre alle calcagna di Nanni, che mieteva e mieteva, e le domandava di quando in quando: – Che volete, gnà Pina? Una sera ella glielo disse, mentre gli uomini sonnecchiavano nell’aia, stanchi dalla lunga

. altare di Santa Agrippina: è la chiesa patronale di Mineo (il paese di Capuana); Santa Maria di Gesú è un’altra chiesa nella stessa località. . chiuse: terreni dai confini delimitati. . manipoli: fasci (di spighe).

. gnà Pina: il nome della donna è preceduto da gnà, forma dialettale da gnura per signora, signora, donna, titolo che in Sicilia e in Calabria si dava alle donne di bassa condizione.

T. GIOVANNI VERGA E IL VERISMO. GIOVANNI VERGA. VITA DEI CAMPI

giornata, ed i cani uggiolavano per la vasta campagna nera: – Te voglio! Te che sei bello come il sole, e dolce come il miele. Voglio te! – Ed io invece voglio vostra figlia, che è vitella, rispose Nanni ridendo. La Lupa si cacciò le mani nei capelli, grattandosi le tempie senza dir parola, e se ne andò, né piú comparve nell’aia. Ma in ottobre rivide Nanni, al tempo che cavavano l’olio, perché egli lavorava accanto alla sua casa, e lo scricchiolio del torchio non la faceva dormire tutta notte. – Prendi il sacco delle ulive, disse alla figliuola, e vieni con me. Nanni spingeva colla pala le ulive sotto la macina, e gridava Ohi! alla mula perché non si arrestasse. – La vuoi mia figlia Maricchia? gli domandò la gnà Pina. – Cosa gli date a vostra figlia Maricchia? rispose Nanni. – Essa ha la roba di suo padre, e dippiú io le dò la mia casa; a me mi basterà che mi lasciate un cantuccio nella cucina, per stendervi un po’ di pagliericcio. – Se è cosí se ne può parlare a Natale, disse Nanni. – Nanni era tutto unto e sudicio dell’olio e delle ulive messe a fermentare, e Maricchia non lo voleva a nessun patto; ma sua madre l’afferrò pe’ capelli, davanti al focolare, e le disse co’ denti stretti: – Se non lo pigli ti ammazzo! La Lupa era quasi malata, e la gente andava dicendo che il diavolo quando invecchia si fa eremita. Non andava piú in qua e in là; non si metteva piú sull’uscio, con quegli occhi da spiritata. Suo genero, quando ella glieli piantava in faccia quegli occhi, si metteva a ridere, e cavava fuori l’abitino della Madonna per segnarsi. Maricchia stava in casa ad allattare i figliuoli, e sua madre andava nei campi, a lavorare cogli uomini, proprio come un uomo, a sarchiare, a zappare, a governare le bestie, a potare le viti, fosse stato greco e levante di gennaio, oppure scirocco di agosto, allorquando i muli lasciavano cader la testa penzoloni, e gli uomini dormivano bocconi a ridosso del muro a tramontana. In quell’ora fra vespero e nona, in cui non ne va in volta femmina buona, la gnà Pina era la sola anima viva che si vedesse errare per la campagna, sui sassi infuocati delle viottole, fra le stoppie riarse dei campi immensi, che si perdevano nell’afa, lontan lontano, verso l’Etna nebbioso, dove il cielo si aggravava sull’orizzonte. – Svegliati! disse la Lupa a Nanni che dormiva nel fosso, accanto alla siepe polverosa, col capo fra le braccia. Svegliati, ché ti ho portato il vino per rinfrescarti la gola. Nanni spalancò gli occhi imbambolati, fra veglia e sonno, trovandosela dinanzi ritta, pallida, col petto prepotente, e gli occhi neri come il carbone, e stese brancolando le mani. – No! non ne va in volta femmina buona nell’ora fra vespero e nona! singhiozzava Nanni, ricacciando la faccia contro l’erba secca del fossato, in fondo in fondo, colle unghie nei capelli. – Andatevene! Andatevene! non ci venite piú nell’aia! Ella se ne andava infatti, la Lupa, riannodando le trecce superbe, guardando fisso dinanzi ai suoi passi nelle stoppie calde, cogli occhi neri come il carbone. . uggiolavano: si lamentavano, mugolando. . campagna nera: per via dell’ora serale. . vitella: giovane e ancora nubile. . il diavolo … eremita: ossia, si ritira, non si fa piú vedere in giro. Verga riprende qui un proverbio popolare, che nella raccolta dei Proverbi siciliani di Giuseppe Pitrè suona: «Quannu lu diavulu fu vecchiu, si fici rimito». . l’abitino della Madonna: «è una specie di scapolare o di talismano religioso, formato da due pezzetti di panno lano con l’immagine o il nome della Madonna attaccato a due nastri, che le devote portano da un lato sul petto, e dall’altro sulle spalle» (Verga): Nanni lo prende per farsi il segno della croce. . sarchiare: operazione che consiste nello smuo-

vere il terreno per liberarlo dalle erbacce, e per dargli aria. . In quell’ora … femmina buona: si tratta ancora di un proverbio, qui leggermente alterato e toscanizzato (andare in volta: «andare in giro»; nel Pitrè: «A ura de vespiru e nona nun cammina omu né fimmina bona»): esso viene ripreso poco piú avanti nelle parole di Nanni e in quelle del narratore. Per l’ora fra vespero e nona si intende genericamente il pomeriggio (nona l’ora canonica tra le dodici e le quindici, il vespero quella del tramonto: ma sono messe insieme per indicare un momento di sosta nei lavori della campagna). . si aggravava: «sembrava appesantirsi» (con la sua caligine).

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Ma nell’aia ci tornò delle altre volte, e Nanni non le disse nulla; e quando tardava a venire, nell’ora fra vespero e nona, egli andava ad aspettarla in cima alla viottola bianca e deserta, col sudore sulla fronte; – e dopo si cacciava le mani nei capelli, e le ripeteva ogni volta: – Andatevene! andatevene! Non ci tornate piú nell’aia! – Maricchia piangeva notte e giorno, e alla madre le piantava in faccia gli occhi ardenti di lagrime e di gelosia, come una lupacchiotta anch’essa, quando la vedeva tornare da’ campi pallida e muta ogni volta. – Scellerata! le diceva. Mamma scellerata! – Taci! – Ladra! ladra! – Taci! – Andrò dal brigadiere, andrò! – Vacci! E ci andò davvero, coi figli in collo, senza temere di nulla, e senza versare una lagrima, come una pazza, perché adesso l’amava anche lei quel marito che le avevano dato per forza, unto e sudicio dalle ulive messe a fermentare. Il brigadiere fece chiamare Nanni, e lo minacciò della galera, e della forca. Nanni si diede a singhiozzare ed a strapparsi i capelli; non negò nulla, non tentò scolparsi. – È la tentazione! diceva; è la tentazione dell’inferno! si buttò ai piedi del brigadiere supplicandolo di mandarlo in galera. – Per carità, signor brigadiere, levatemi da questo inferno! fatemi ammazzare, mandatemi in prigione; non me la lasciate veder piú, mai! mai! – No! rispose però la Lupa al brigadiere. Io mi son riserbato un cantuccio della cucina per dormirvi, quando gli ho data la mia casa in dote. La casa è mia. Non voglio andarmene! Poco dopo, Nanni s’ebbe nel petto un calcio dal mulo e fu per morire; ma il parroco ricusò di portargli il Signore se la Lupa non usciva di casa. La Lupa se ne andò, e suo genero allora si poté preparare ad andarsene anche lui da buon cristiano; si confessò e comunicò con tali segni di pentimento e di contrizione che tutti i vicini e i curiosi piangevano davanti al letto del moribondo. E meglio sarebbe stato per lui che fosse morto in quel tempo, prima che il diavolo tornasse a tentarlo e a ficcarglisi nell’anima e nel corpo quando fu guarito. – Lasciatemi stare! diceva alla Lupa; per carità, lasciatemi in pace! Io ho visto la morte cogli occhi! La povera Maricchia non fa che disperarsi. Ora tutto il paese lo sa! Quando non vi vedo è meglio per voi e per me… Ed avrebbe voluto strapparsi gli occhi per non vedere quelli della Lupa, che quando gli si ficcavano ne’ suoi gli facevano perdere l’anima ed il corpo. Non sapeva piú che fare per svincolarsi dall’incantesimo. Pagò delle messe alle anime del Purgatorio e andò a chiedere aiuto al parroco e al brigadiere. A Pasqua andò a confessarsi, e fece pubblicamente sei palmi di lingua strasciconi sui ciottoli del sacrato innanzi alla chiesa, in penitenza, e poi, come la Lupa tornava a tentarlo: – Sentite! le disse, non ci venite piú nell’aia, perché se tornate a cercarmi, com’è vero Iddio, vi ammazzo! – Ammazzami, rispose la Lupa, ché non me ne importa; ma senza di te non voglio starci. Ei come la scorse da lontano, in mezzo a’ seminati verdi, lasciò di zappare la vigna, e andò a staccare la scure dall’olmo. La Lupa lo vide venire, pallido e stralunato, colla scure che luccicava al sole, e non si arretrò di un sol passo, non chinò gli occhi, seguitò ad andargli incontro, con le mani piene di manipoli di papaveri rossi, e mangiandoselo con gli occhi neri. – Ah! malanno all’anima vostra! balbettò Nanni. . il Signore: «il viatico» (l’ultima comunione amministrata a chi sta per morire). . sei palmi di lingua: secondo l’uso di certi penitenti, leccò il pavimento (sul sagrato della chiesa) per sei palmi. Il palmo corrisponde all’incirca a un

quarto di metro. . luccicava: la connotazione del «luccicare» ha spesso, in Verga, la funzione di annunciare un evento tragico, quasi fosse un segnale del fato.

T. GIOVANNI VERGA E IL VERISMO. GIOVANNI VERGA. I MALAVOGLIA



I Malavoglia

SCHEMA RIASSUNTIVO DEI CAPITOLI DE I MALAVOGLIA I

II III IV V VI

VII

VIII

IX

X

XI XII XIII

XIV

I Malavoglia ad Aci Trezza e la casa del nespolo. Partenza di ’Ntoni per il servizio di leva. Negozio dei lupini tra padron ’Ntoni e lo zio Crocifisso. Partenza della Provvidenza con i lupini il sabato  settembre . La sera del sabato e le chiacchiere del paese, presentate in modo corale e distribuite in gruppi diversi; ansia dei Malavoglia e sguardo di padron ’Ntoni al «mare amaro». La domenica fredda e ventosa, con i discorsi dei paesani presso la chiesa e all’osteria. Dopo la vana attesa, c’è ormai la certezza dell’avvenuto naufragio della Provvidenza. Ufficio funebre per Bastianazzo e visita dei paesani a casa dei Malavoglia per il cordoglio. Colloqui della Mena con il carrettiere Alfio, mentre si parla di un matrimonio della Mena con Brasi Cipolla. Viene ripescata la Provvidenza. Ritorno di ’Ntoni dalla leva. I Malavoglia vanno a giornata nella paranza di compare Cipolla. Spavalderia di ’Ntoni. Mentre la Provvidenza è a riparare presso mastro Turi Zuppiddu, lo zio Crocifisso si accorda con Piedipapera fingendo di vendergli il debito dei Malavoglia. La vigilia di Natale, l’usciere porta l’intimazione di pagamento ai Malavoglia, che consultano un avvocato, il quale li invita a non pagare (la casa del nespolo è vincolata dalla dote della Longa). Per mantenere fede alle tradizioni dei Malavoglia, la Longa rinuncia all’ipoteca sulla dote, al fine di poter pagare il debito. Partenza di Luca per la leva. La Provvidenza viene rimessa in mare. Agitazione e minaccia di rivolta ad Aci Trezza (specie per azione delle donne) per l’istituzione di un dazio sulla pece: seduta del consiglio comunale. ’Ntoni viene alle mani con Piedipapera. ’Ntoni corteggia Barbara Zuppidda e aspira alla sua mano. Trame del segretario comunale (che desidera anche lui Barbara) contro ’Ntoni e contro altri pretendenti della donna. Altre trame di zio Crocifisso e di Piedipapera contro i Malavoglia. Miglioramento della condizione dei Malavoglia e prima visita per il progettato matrimonio tra la Mena e Brasi Cipolla. Alfio Mosca parte per la Bicocca e saluta la Mena, in preda al dolore. Si giunge all’estate , con la cerimonia per la promessa di matrimonio tra Mena e Brasi Cipolla; in paese si parla della battaglia di Lissa, ma solo dopo quaranta giorni i Malavoglia apprendono la notizia della morte di Luca nella corazzata Re d’Italia. Verso la fine dell’anno Piedipapera esige il pagamento del debito e i Malavoglia devono lasciare la casa del nespolo (di cui si impadronisce lo zio Crocifisso, fingendo che Piedipapera gli abbia rivenduto il debito) e si trasferiscono in affitto nella casa del beccaio. Caduti in povertà, vengono evitati da quasi tutto il paese; sono rotti i progetti matrimoniali tra Mena e Brasi e tra ’Ntoni e Barbara. Buoni risultati della pesca della Provvidenza, con grande impegno di ’Ntoni. Tempesta in mare e nuovo naufragio, con fortunoso salvataggio, ma con grave incidente a padron ’Ntoni. Sua guarigione. Varie chiacchiere tra i pretendenti di Barbara Zuppidda e altre trame matrimoniali e amorose nel paese, che riguardano anche il brigadiere delle guardie doganali don Michele, già amante dell’ostessa Santuzza. Ritorno della Provvidenza in mare e miglioramento della situazione dei Malavoglia. Discussioni nella bottega dello speziale. Malcontento di ’Ntoni, che aspira a «cambiar stato». Nell’epidemia di colera dell’estate  muore la Longa. ’Ntoni lascia la famiglia e parte in cerca di fortuna. I Malavoglia sono costretti a vendere la Provvidenza e a lavorare a giornata. Trame amorose tra Brasi Cipolla e la Mangiacarrubbe. Ritorno di ’Ntoni, che ora passa il tempo all’osteria. Vita scioperata di ’Ntoni e inutili rimostranze del nonno. Ora ’Ntoni è mantenuto dall’ostessa Santuzza; intanto lo zio Crocifisso ha sposato la Vespa e Brasi Cipolla la Mangiacarrubbe. Il brigadiere don Michele corteggia la Lia, che ormai è una bella ragazza. La Santuzza si riavvicina a don Michele e mette alla porta ’Ntoni, che comincia a darsi ad azioni di contrabbando insieme a Rocco Spatu e Cinghialenta. Violenta zuffa all’osteria tra ’Ntoni e don Michele. In una notte di pioggia ’Ntoni partecipa a un’azione di contrabbando: scoperto dalle guardie, messe sull’avviso da Piedipapera, ferisce don Michele e viene arrestato. Al processo, che si svolge a Catania, l’avvocato imposta la difesa sul motivo d’onore, chiamando in causa il rapporto

DATI

tav. 207

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tra don Michele e Lia. Nell’aula del tribunale, a sentir questo, padron ’Ntoni sente colpito l’onore della famiglia e si sente mancare. ’Ntoni viene condannato a cinque anni di carcere; quando padron ’Ntoni viene portato a casa su di un carro, Lia abbandona la casa e il paese, «e nessuno la vide piú» (da vari accenni del capitolo successivo si comprende che finirà prostituta). Il capitolo attraversa un piú ampio passaggio di tempo, seguendo il destino dei vari personaggi: il decadimento del nonno, il suo ricovero e la sua morte in ospedale; il ritorno del carrettiere compare Alfio, che vorrebbe ora sposare la Mena, che però rinuncia al matrimonio, per il disonore della sorella Lia; l’impegno di Alessi per ricostituire la famiglia, con il suo matrimonio con la Nunziata e il recupero della casa del nespolo; il matrimonio di Barbara Zuppidda con il vecchio padron Cipolla ecc. C’è infine la visita di ’Ntoni alla casa del nespolo e la sua definitiva partenza.

I Malavoglia e il negozio dei lupini (I)

Apertura nel mezzo dell’azione

I personaggi ci vengono incontro man mano

Il narratore regredisce nel coro popolare

La lingua

i

l capitolo iniziale de I Malavoglia (che possiamo scandire nelle quattro sequenze indicate sopra nello schema riassuntivo del romanzo, tav. 207) ci porta direttamente dentro il mondo e la situazione narrativa, senza presentazioni e descrizioni preliminari dell’ambiente e dei personaggi da parte dell’autore: secondo i modi della narrativa popolare l’identità della famiglia dei Malavoglia viene subito proiettata in un mondo lontano e quasi favoloso, con la locuzione iniziale Un tempo, poi seguita piú avanti da «da che il mondo era mondo». Da quel mondo lontano e favoloso (che ha visto anche il diffondersi della famiglia in luoghi diversi) si passa poi rapidamente al tempo piú vicino del racconto, attraverso l’avverbio Adesso, e al luogo in cui il racconto si svolge, attraverso il complemento di luogo a Trezza. I personaggi con le loro vicende (prima i diversi membri della famiglia di padron ’Ntoni, poi la maggior parte degli altri) si affacciano dall’interno, nell’atto di muoversi e di vivere, venendoci incontro man mano: e i caratteri di molti di essi si riconosceranno solo piú tardi, nel loro agire in relazione con gli altri. L’accumularsi di tanti personaggi (ben ventuno) in queste prime pagine non consente al lettore di individuarli chiaramente fin dall’inizio, lo costringe a un progressivo avvicinamento, come Verga stesso sottolinea in una lettera a Capuana del 25 febbraio 1881: «L’interesse doveva apparire dall’insieme, a libro chiuso, quando tutti quei personaggi si fossero affermati sí schiettamente da riapparirvi come persone conosciute, ciascuno nella sua azione. Che la confusione che dovevano produrvi in mente alle prime pagine tutti quei personaggi messivi faccia a faccia senza nessuna presentazione, come li aveste conosciuti sempre, e foste nato e vissuto in mezzo a loro, doveva scomparire man mano col progredire nella lettura, a misura che essi vi tornavano davanti, e vi si affermavano con nuove azioni, ma senza messa in scena, semplicemente, naturalmente, era artificio voluto e cercato anch’esso, per evitare, perdonami il bisticcio, ogni artificio letterario, per darvi l’illusione completa della realtà». Siamo quindi agli antipodi delle narrazioni basate sul narratore onnisciente (secondo il grande modello de I Promessi Sposi); Verga, come afferma in una lettera del 12 maggio 1881 al critico Francesco Torraca (1853-1938) che aveva recensito molto favorevolmente il romanzo, aspira a «scomparire» nell’opera d’arte: «Vorrei quasi che un romanzo arrivasse a non portare il nome del suo autore, si affermasse da sé, come vivente per un organismo proprio e necessario, producesse quell’illusione potente dell’essere stato, che hanno le epopee dei rapsodi e tutte le figure schiette della poesia popolare». La voce che narra è quindi una voce popolare, immersa nel mondo stesso dei personaggi, una voce corale, che riporta il punto di vista di tutta la comunità: si veda per esempio come a p. 208, quando si dice che padron ’Ntoni, per evitare la chiamata alla leva del nipote, «era corso dai pezzi grossi del paese», si affacci direttamente il punto di vista del coro popolare, attraverso la relativa «che son quelli che possono aiutarci». Non potendo usare il suo linguaggio vero e proprio, il dialetto, Verga usa una forma linguistica e narrativa in cui si può riconoscere, come ebbe a notare Luigi Russo, una sor-

T. GIOVANNI VERGA E IL VERISMO. GIOVANNI VERGA. I MALAVOGLIA

ta di «siciliano trascendentale», per cosí dire tradotto nelle forme linguistiche italiane. Caratteristica essenziale di questo linguaggio è lo stile indiretto libero, che comporta passaggi e scambi continui tra la parola del narratore e la parola dei personaggi, che permette di inserire entro la narrazione spezzoni e frammenti delle voci dei personaggi, detti e forme del linguaggio popolare. Al discorso indiretto libero si accompagna l’uso dominante della paratassi o di modi sintatticamente irregolari (con frequenti incisi e anacoluti) e l’insistenza sulla deissi (luoghi e personaggi sono continuamente indicati, messi in circostanza, stanno insomma lí, davanti al narratore e al lettore). Oltre ai fenomeni sintattici, hanno una presenza non indifferente espressioni idiomatiche o termini di lessico siciliano, mentre fittissime sono le metafore e le similitudini di tipo popolare (cosí già quella iniziale «come i sassi della strada vecchia di Trezza»). Con questo cosí riconoscibile fondo siciliano stridono parzialmente i toscanismi (abbastanza frequenti nel tessuto linguistico de I Malavoglia: cfr. per esempio la battuta di padron ’Ntoni a p. 210: volete che vel dica?). Un rilievo del tutto eccezionale assumono poi i proverbi, messi in bocca ai personaggi (e non solo al vecchio padron ’Ntoni, il cui rapporto con la realtà si appoggia tutto sulla saggezza dei proverbi: al punto che al capitolo X si giungerà a ironizzare su «quei benedetti proverbi»): tutti i proverbi del romanzo sono stati da Verga ricavati e tradotti direttamente dalla raccolta dei Proverbi siciliani del grande etnologo siciliano Giuseppe Pitrè (1841-1916). [EDIZIONE: Giovanni Verga, Tutti i romanzi, a cura di E. Ghidetti, Sansoni, Firenze 1983]

Un tempo I Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza, ce n’erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di mare, proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev’essere! Veramente nel libro della parrocchia si chiamavano Toscano, ma questo non voleva dir nulla, poiché da che il mondo era mondo, all’Ognina, a Trezza e ad Aci Castello, li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio, che avevano sempre avuto delle barche sull’acqua, e delle tegole al sole. Adesso a Trezza non rimanevano che i Malavoglia di padron ’Ntoni, quelli della casa del nespolo, e della Provvidenza ch’era ammarrata sul greto, sotto il lavatoio, accanto alla Concetta dello zio Cola, e alla paranza di padron Fortunato Cipolla. Le burrasche che avevano disperso di qua e di là gli altri Malavoglia, erano passate senza far gran danno sulla casa del nespolo e sulla barca ammarrata sotto il lavatoio; e padron ’Ntoni, per spiegare il miracolo, soleva dire, mostrando il pugno chiuso – un pugno che sembrava fatto di legno di noce – Per menare il remo bisogna che le cinque dita s’aiutino l’un l’altro. Diceva pure, – Gli uomini son fatti come le dita della mano: il dito grosso deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo. E la famigliuola di padron ’Ntoni era realmente disposta come le dita della mano. Prima veniva lui, il dito grosso, che comandava le feste e le quarant’ore, poi suo figlio Bastiano, . I Malavoglia: il corsivo, qui come altrove nel romanzo, indica che ci troviamo in presenza di un nomignolo (il vero cognome della famiglia, si dirà subito dopo, è infatti Toscano): nomignolo attribuito, come viene detto piú avanti, per antifrasi, indicando un vizio opposto alla virtú posseduta, come era consuetudine (come dev’essere). . Trezza … Aci Castello: località marine nei pressi di Catania (Ognina è ormai un sobborgo della città). Ad Aci Trezza è ambientata Fantasticheria, vero prologo di questo romanzo (cfr. pp. -). . delle tegole al sole: «come un tetto sotto il sole, una casa dove abitare»: sottolineando quanto sia

connaturata, alla famiglia, la vita di mare. . Adesso … rimanevano: il contrasto tra l’avverbio e il tempo verbale utilizzato mette subito in luce il sovrapporsi di piú livelli temporali, nell’ambito di una narrazione in cui la «voce» del narrante si confonde in quella dei parlanti, interni all’azione. . ammarrata sul greto: «ormeggiata sulla ghiaia della spiaggia» (subito dopo precisa sotto il lavatoio) . paranza: barca per la pesca costiera. . pugno chiuso: questa immagine indica l’unione del nucleo familiare, retta (come si vedrà dai proverbi seguenti) da rigide gerarchie. . comandava le feste e le quarant’ore: quest’espres-

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Bastianazzo, perché era grande e grosso quanto il San Cristoforo che c’era dipinto sotto l’arco della pescheria della città; e cosí grande e grosso com’era filava diritto alla manovra comandata, e non si sarebbe soffiato il naso se suo padre non gli avesse detto «sòffiati il naso» tanto che s’era tolta in moglie la Longa quando gli avevano detto «pígliatela». Poi veniva la Longa, una piccina che badava a tessere, salare le acciughe, e far figliuoli, da buona massaia; infine i nipoti, in ordine di anzianità: ’Ntoni, il maggiore, un bighellone di vent’anni, che si buscava tutt’ora qualche scappellotto dal nonno, e qualche pedata piú giú per rimettere l’equilibrio, quando lo scappellotto era stato troppo forte; Luca, «che aveva piú giudizio del grande» ripeteva il nonno; Mena (Filomena) soprannominata «Sant’Agata» perché stava sempre al telaio, e si suol dire «donna di telaio, gallina di pollaio, e triglia di gennaio»; Alessi (Alessio) un moccioso tutto suo nonno colui!; e Lia (Rosalia) ancora né carne né pesce. – Alla domenica, quando entravano in chiesa, l’uno dietro l’altro, pareva una processione. Padron ’Ntoni sapeva anche certi motti e proverbi che aveva sentito dagli antichi: «Perché il motto degli antichi mai mentí»: – «Senza pilota barca non cammina» – «Per far da papa bisogna saper far da sagrestano» – oppure – «Fa il mestiere che sai, che se non arricchisci camperai» – «Contentati di quel che t’ha fatto tuo padre; se non altro non sarai un birbante» ed altre sentenze giudiziose. Ecco perché la casa del nespolo prosperava, e padron ’Ntoni passava per testa quadra, al punto che a Trezza l’avrebbero fatto consigliere comunale, se don Silvestro, il segretario, il quale la sapeva lunga, non avesse predicato che era un codino marcio, un reazionario di quelli che proteggono i Borboni, e che cospirava pel ritorno di Franceschello, onde poter spadroneggiare nel villaggio, come spadroneggiava in casa propria. Padron ’Ntoni invece non lo conosceva neanche di vista Franceschello, e badava agli affari suoi, e soleva dire: «Chi ha carico di casa non può dormire quando vuole» perché «chi comanda ha da dar conto». Nel dicembre del , ’Ntoni, il maggiore dei nipoti, era stato chiamato per la leva di mare. Padron ’Ntoni allora era corso dai pezzi grossi del paese, che son quelli che possono aiutarci. Ma don Giammaria, il vicario, gli aveva risposto che gli stava bene, e questo era il frutto di quella rivoluzione di satanasso che avevano fatto collo sciorinare il fazzoletto tricolore dal campanile. Invece don Franco lo speziale si metteva a ridere fra i peli della barbona, e gli giurava fregandosi le mani che se arrivavano a mettere assieme un po’ di repubsione idiomatica (in siciliano: cumannari li festi) allude all’autorità indiscussa di padron ’Ntoni sulla famiglia; le quarant’ore (rafforzando l’immagine delle feste) si riferiscono, in senso proprio, alla festa dell’adorazione del SS. Sacramento (esposto appunto per quel periodo di tempo). . della città: ossia di Catania. . filava … comandata: rigava dritto; obbediva sempre agli ordini del padre. . Sant’Agata: martire, patrona di Catania, indicata come esempio di virtú femminile. . «donna … gennaio»: il proverbio originale, nella raccolta di Proverbi siciliani del Pitrè, suona: «Fimmina di tilaru, jaddina di puddaru, e trigghia di jinnaru». . né carne né pesce: non ancora sviluppata del tutto. . sentenze: per il Pitrè la sentenza è un «detto memorabile che racchiude un gran senso oppure una grande moralità» (distinto dal proverbio che può valere anche come una massima, «acconcia o

creduta tale per la condotta pratica della vita»). . codino: «reazionario e retrogrado» (dalla forma della parrucca portata dai nobili prima della rivoluzione francese, e dai reazionari durante la Restaurazione). . Franceschello: Francesco II di Borbone, che fu re delle Due Sicilie fra il  e il ; esule a Roma dopo l’impresa dei Mille, sperava di riconquistare il Regno con l’ausilio del brigantaggio meridionale. . dicembre del : è l’unica data citata nel romanzo. . vicario: il sacerdote, che fa le veci del parroco, rappresenta l’autorità religiosa del luogo ed è naturalmente contrario all’Unità d’Italia, attribuendo tutti i mali alla rivoluzione garibaldina. . sciorinare: «stendere all’aria, esponendo»: è la stessa situazione della novella Libertà, in Novelle rusticane («Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori» ecc.). . speziale: farmacista.

T. GIOVANNI VERGA E IL VERISMO. GIOVANNI VERGA. I MALAVOGLIA

blica, tutti quelli della leva e delle tasse li avrebbero presi a calci nel sedere, ché soldati non ce ne sarebbero stati piú, e invece tutti sarebbero andati alla guerra, se bisognava. Allora padron ’Ntoni lo pregava e lo strapregava per l’amor di Dio di fargliela presto la repubblica, prima che suo nipote ’Ntoni andasse soldato, come se don Franco ce l’avesse in tasca; tanto che lo speziale finí coll’andare in collera. Allora don Silvestro il segretario si smascellava dalle risa a quei discorsi, e finalmente disse lui che con certo gruzzoletto fatto scivolare in tasca a tale e tal altra persona che sapeva lui, avrebbero saputo trovare a suo nipote un difetto da riformarlo. Per disgrazia il ragazzo era fatto con coscienza, come se ne fabbricano ancora ad Aci Trezza, e il dottore della leva, quando si vide dinanzi quel pezzo di giovanotto, gli disse che aveva il difetto di esser piantato come un pilastro su quei piedacci che sembravano pale di ficodindia, ma i piedi fatti a pala di ficodindia ci stanno meglio degli stivalini stretti sul ponte di una corazzata, in certe giornataccie; e perciò si presero ’Ntoni senza dire «permettete». La Longa, mentre i coscritti erano condotti in quartiere, trottando trafelata accanto al passo lungo del figliuolo, gli andava raccomandando di tenersi sempre sul petto l’abitino della Madonna, e di mandare le notizie ogni volta che tornava qualche conoscente dalla città, che poi gli avrebbero mandati i soldi per la carta. Il nonno, da uomo, non diceva nulla; ma si sentiva un gruppo nella gola anch’esso, ed evitava di guardare in faccia la nuora, quasi ce l’avesse con lei. Cosí se ne tornarono ad Aci Trezza zitti zitti e a capo chino. Bastianazzo, che si era sbrigato in fretta dal disarmare la Provvidenza, per andare ad aspettarli in capo alla via, come li vide comparire a quel modo, mogi mogi e colle scarpe in mano, non ebbe animo di aprir bocca, e se ne tornò a casa con loro. La Longa corse subito a cacciarsi in cucina, quasi avesse furia di trovarsi a quattr’occhi colle vecchie stoviglie, e padron ’Ntoni disse al figliuolo: – Va’ a dirle qualche cosa, a quella poveretta; non ne può piú. Il giorno dopo tornarono tutti alla stazione di Aci Castello per veder passare il convoglio dei coscritti che andavano a Messina, e aspettarono piú di un’ora, pigiati dalla folla, dietro lo stecconato. Finalmente giunse il treno, e si videro tutti quei ragazzi che annaspavano, col capo fuori dagli sportelli, come fanno i buoi quando sono condotti alla fiera. I canti, le risate e il baccano erano tali che sembrava la festa di Trecastagni, e nella ressa e nel frastuono ci si dimenticava perfino quello stringimento di cuore che si aveva prima. – Addio ’Ntoni! – Addio mamma! – Addio! ricordati! ricordati! – Lí presso, sull’argine della via, c’era la Sara di comare Tudda, a mietere l’erba pel vitello; ma comare Venera la Zuppidda . quelli della leva e delle tasse: «i funzionari dello stato», addetti alle novità imposte dallo Stato unitario, che piú suscitavano il malcontento della popolazione meridionale, la leva obbligatoria e le tasse che colpivano soprattutto la piccola proprietà e i contadini: lo speziale, che è repubblicano, sostiene in modo demagogico che la repubblica abolirebbe queste vessazioni. . riformarlo: esentarlo dal servizio militare. . come un pilastro … di ficodindia: ’Ntoni è fatto con coscienza (è come si deve, sano come un pesce) ed è ben piantato su due piedi che vengono paragonati ai rami, larghi e piatti, del fico d’India: e aggiunge che per questo il loro posto è sul ponte di una corazzata (dove dovrà prestare servizio militare). Ancora sulle bozze di stampa i piedi erano «larghi … come il David di Michelangiolo» (una similitudine con un David di rame era già stata utilizzata nella novella Fantasticheria: cfr. nota , p. ). . quartiere: caserma. . abitino della Madonna: lo scapolare (due pezzi

di stoffa con nastri per tenerli appoggiati sulle spalle) con l’immagine di Maria: cfr. anche ne La Lupa, nota , p. . . che: è un «che» polivalente (derivato dal siciliano ca, qui nel senso di «dato che»), utilizzato da Verga per cercare di rendere «l’impronta del colore locale anche nello stile» (come egli scrisse in una lettera al suo traduttore francese Edouard Rod). . gruppo: «groppo, nodo» (ma in siciliano, «gruppu» vuol dire anche «voglia», commozione). . disarmare: togliere gli equipaggiamenti (dell’imbarcazione), dopo averla ormeggiata. . Trecastagni: paese del catanese, posto sulle pendici dell’Etna; la festa è quella del patrono, sant’Alfio, il  maggio. . la Sara … la Zuppidda: la Sara è figlia della comare Tudda, cioè Agatuzza, diminutivo di Agata. Alla lettera, Zuppidda vuol dire «zoppetta», ma la comare Venera viene chiamata cosí non perché sia zoppa, bensí perché a tutta la sua famiglia viene attribuito il nomignolo del nonno del marito che,

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andava soffiando che c’era venuta per salutare ’Ntoni di padron ’Ntoni, col quale si parlavano dal muro dell’orto, li aveva visti lei, con quegli occhi che dovevano mangiarseli i vermi. Certo è che ’Ntoni salutò la Sara colla mano, ed ella rimase colla falce in pugno a guardare finché il treno non si mosse. Alla Longa, l’era parso rubato a lei quel saluto; e molto tempo dopo, ogni volta che incontrava la Sara di comare Tudda, nella piazza o al lavatoio, le voltava le spalle. Poi il treno era partito fischiando e strepitando in modo da mangiarsi i canti e gli addii. E dopo che i curiosi si furono dileguati, non rimasero che alcune donnicciuole, e qualche povero diavolo, che si tenevano ancora stretti ai pali dello stecconato, senza saper perché. Quindi a poco a poco si sbrancarono anch’essi, e padron ’Ntoni, indovinando che la nuora dovesse avere la bocca amara, le pagò due centesimi di acqua col limone. Comare Venera la Zuppidda, per confortare comare la Longa, le andava dicendo: – Ora mettetevi il cuore in pace, che per cinque anni bisogna fare come se vostro figlio fosse morto, e non pensarci piú. Ma pure ci pensavano sempre, nella casa del nespolo, o per certa scodella che le veniva tutti i giorni sotto mano alla Longa nell’apparecchiare il deschetto, o a proposito di certa ganza che ’Ntoni sapeva fare meglio di ogni altro alla funicella della vela, e quando si trattava di serrare una scotta tesa come una corda di violino, o di alare una parommella che ci avrebbe voluto l’argano. Il nonno anzimando cogli ohi! ooohi! intercalava – Qui ci vorrebbe ’Ntoni – oppure – Vi pare che io abbia il polso di quel ragazzo? La madre, mentre ribatteva il pettine sul telaio – uno! due! tre! – pensava a quel bum bum della macchina che le aveva portato via il figliuolo, e le era rimasto sul cuore, in quel gran sbalordimento, e le picchiava ancora dentro il petto, – uno! due! tre! Il nonno poi aveva certi singolari argomenti per confortarsi, e per confortare gli altri: – Del resto volete che vel dica? Un po’ di soldato gli farà bene a quel ragazzo; ché il suo paio di braccia gli piaceva meglio di portarsele a spasso la domenica, anziché servirsene a buscarsi il pane. Oppure: – Quando avrà provato il pane salato che si mangia altrove, non si lagnerà piú della minestra di casa sua. come si spiega nel IX capitolo, si era rotto una gamba alla festa di Trecastagni (per quanto riguarda comare Venera, il nome, nella tradizione popolare siciliana, indica un demone carnevalesco; e «Vènnari Zuppiddu» indicava, infatti, l’ultimo venerdí di Carnevale). . andava soffiando: andava insinuando. . dovevano mangiarseli i vermi: scongiuro in uso nella forma siciliana: «L’occhi si l’avessimu a manciari i vermi!» (sottinteso: se non era vero, se non era cosí). . stecconato: barriera fatta con lunghe stecche, che chiude l’area ferroviaria. . si sbrancarono: «si dispersero, si divisero». Ma il riferimento è a un «branco» animalesco (riprendendo la precedente metafora dei buoi condotti alla fiera). . deschetto: il piccolo tavolo da pranzo. . ganza: è un tipo di nodo posto sulla cima di una corda, capace di tenere senza stringersi. . scotta: è il cavo posto nella parte inferiore di una vela, in modo da farla distendere al vento. . alare una parommella: «tirare con forza una paròma» (il canapo che serve a ormeggiare l’im-

barcazione). . ci avrebbe voluto: regionalismo, per «ci sarebbe voluto»; l’argano è un apparecchio per tirare o sollevare pesi (costituito da un cilindro di legno, e da una manovella). . anzimando: regionalismo per «ansimando». . il polso: la forza. . il pettine: arnese per la tessitura. Spiega Verga: «è il battere e ribattere contro il tessuto nel telaio quell’arnese formato di stecchine metalliche, o di canna, fra ciascuna delle quali passa uno dei fili dell’ordito, affine di serrare i fili che formano la stoffa». . bum bum della macchina: del treno. Anche qui, una correzione decisiva (con l’introduzione dell’onomatopea) apportata da Verga solo sulle bozze; precedentemente, era solo «a colpi di stantuffo». . buscarsi: «guadagnarsi»: forma italiana, che ricorda il siciliano abbuscarsi. . salato: ancora un proverbialismo con riferimento al detto «Lu pani d’autru è salatu»: remotissima l’allusione dantesca a Paradiso, XVII, : «Tu proverai sí come sa di sale / lo pane altrui» (cfr. T.).

T. GIOVANNI VERGA E IL VERISMO. GIOVANNI VERGA. I MALAVOGLIA

Finalmente arrivò da Napoli la prima lettera di ’Ntoni, che mise in rivoluzione tutto il vicinato. Diceva che le donne, in quelle parti là, scopavano le strade colle gonnelle di seta, e che sul molo c’era il teatro di Pulcinella, e si vendevano delle pizze, a due centesimi, di quelle che mangiano i signori, e senza soldi non ci si poteva stare, e non era come a Trezza, dove se non si andava all’osteria della Santuzza non si sapeva come spendere un baiocco. – Mandiamogli dei soldi per comperarsi le pizze, al goloso! brontolava padron ’Ntoni; già lui non ci ha colpa, è fatto cosí; è fatto come i merluzzi, che abboccherebbero un chiodo arrugginito. Se non l’avessi tenuto a battesimo su queste braccia, direi che don Giammaria gli ha messo in bocca dello zucchero invece di sale. La Mangiacarrubbe, quando al lavatoio c’era anche Sara di comare Tudda, tornava a dire: – Sicuro! le donne vestite di seta aspettavano apposta ’Ntoni di padron ’Ntoni per rubarselo; che non ne avevano visti mai dei cetriuoli laggiú. Le altre si tenevano i fianchi dal ridere, e d’allora in poi le ragazze inacidite lo chiamarono «cetriuolo». ’Ntoni aveva mandato anche il suo ritratto, l’avevano visto tutte le ragazze del lavatoio, come la Sara di comare Tudda lo faceva passare di mano in mano, sotto il grembiule, e la Mangiacarrubbe schiattava dalla gelosia. Pareva San Michele Arcangelo in carne ed ossa, con quei piedi posati sul tappeto, e quella cortina sul capo, come quella della Madonna dell’Ognina, cosí bello, lisciato e ripulito che non l’avrebbe riconosciuto piú la mamma che l’aveva fatto; e la povera Longa non si saziava di guardare il tappeto e la cortina e quella colonna contro cui il suo ragazzo stava ritto impalato, grattando colla mano la spalliera di una bella poltrona; e ringraziava Dio e i santi che avevano messo il suo figliuolo in mezzo a tutte quelle galanterie. Ella teneva il ritratto sul canterano, sotto la campana del Buon Pastore – che gli diceva le avemarie – andava dicendo la Zuppidda, e si credeva di averci un tesoro sul canterano, mentre suor Mariangela la Santuzza ce ne aveva un altro, tal quale chi voleva vederlo, che glielo aveva regalato compare Mariano Cinghialenta, e lo teneva inchiodato sul banco dell’osteria, dietro i bicchieri. Ma dopo un po’ di tempo ’Ntoni aveva pescato un camerata che sapeva di lettere, e si sfogava a lagnarsi della vitaccia di bordo, della disciplina, dei superiori, del riso lungo e delle scarpe strette. – Una lettera che non valeva i venti centesimi della posta! borbottava padron ’Ntoni. La Longa se la prendeva con quegli sgorbi, che sembravano ami di pesceluna, e non potevano dir nulla di buono. Bastianazzo dimenava il capo e faceva segno di no, che cosí non andava bene, e se fosse stato in lui ci avrebbe messo sempre delle cose allegre, da fare ridere il cuore agli altri, lí sulla carta, – e vi appuntava un dito grosso come un regolo

. gonnelle di seta: è un’allusione alle lunghe gonne, con strascico, che indossavano le donne eleganti di città. . Santuzza: nomignolo ironico dell’ostessa (che ostenta una santità contraddetta dai fatti); il suo vero nome è Mariangela. . un baiocco: per antonomasia, un soldo di poco valore (era una moneta di rame in uso fino al ). . Mangiacarrubbe: un nomignolo che allude alla condizione di una ragazza senza dote, che si nutre, metaforicamente, di povero cibo (le carrube vengono usate per alimento degli animali). . cetriuoli: indica nel lessico popolare siciliano gli uomini ingenui e privi di senno. . galanterie: il siciliano «galantaria» indica, secondo i dizionari, «mercanziuole di lusso e di lavoro gentile» (ma qui si tratta dell’arredo posticcio di uno studio fotografico, con tutte le sue tappez-

zerie pesanti che la Longa non si sazia di guardare nella fotografia). . canterano: «cassettone» (generalmente, per la camera da letto): la foto viene messa sotto la campana di vetro che copre, secondo l’uso della devozione popolare, la statuina del Buon Pastore. . Cinghialenta: nomignolo che fa allusione, forse, all’abitudine di questo personaggio (si tratta del carrettiere del villaggio) di battere la moglie con la cinghia; si noti che il nome della Santuzza è preceduto dal titolo suor perché essa è priora della Confraternita laica delle Figlie di Maria: ma, dato il carattere del personaggio, ha anche natura ironica. . sgorbi … pesceluna: i caratteri della lettera vengono popolarmente chiamati sgorbi e paragonati agli ami ricurvi usati per pescare un pesce a corpo compresso, dai colori sgargianti, comune nei mari caldi.

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da forcola – se non altro per compassione della Longa, la quale, poveretta, non si dava pace, e sembrava una gatta che avesse perso i gattini. Padron ’Ntoni andava di nascosto a farsi leggere la lettera dallo speziale, e poi da don Giammaria, che era del partito contrario, affine di sentire le due campane, e quando si persuadeva che era scritto proprio cosí, ripeteva con Bastianazzo, e con la moglie di lui: – Non ve lo dico io che quel ragazzo avrebbe dovuto nascer ricco, come il figlio di padron Cipolla, per stare a grattarsi la pancia senza far nulla! Intanto l’annata era scarsa e il pesce bisognava darlo per l’anima dei morti, ora che i cristiani avevano imparato a mangiar carne anche il venerdí come tanti turchi. Per giunta le braccia rimaste a casa non bastavano piú al governo della barca, e alle volte bisognava prendere a giornata Menico della Locca, o qualchedun’altro. Il re faceva cosí, che i ragazzi se li pigliava per la leva quando erano atti a buscarsi il pane; ma sinché erano di peso alla famiglia, avevano a tirarli su per soldati; e bisognava pensare ancora che la Mena entrava nei diciassett’anni, e cominciava a far voltare i giovanotti quando andava a messa. «L’uomo è il fuoco, e la donna è la stoppa: viene il diavolo e soffia». Perciò si doveva aiutarsi colle mani e coi piedi per mandare avanti quella barca della casa del nespolo. Padron ’Ntoni adunque, per menare avanti la barca, aveva combinato con lo zio Crocifisso Campana di legno un negozio di certi lupini da comprare a credenza per venderli a Riposto, dove compare Cinghialenta aveva detto che c’era un bastimento di Trieste a pigliar carico. Veramente i lupini erano un po’ avariati; ma non ce n’erano altri a Trezza, e quel furbaccio di Campana di legno sapea pure che la Provvidenza se la mangiava inutilmente il sole e l’acqua, dov’era ammarrata sotto il lavatoio, senza far nulla; perciò si ostinava a fare il minchione. – Eh? non vi conviene? lasciateli! Ma un centesimo di meno non posso, in coscienza! che l’anima ho da darla a Dio! – e dimenava il capo che pareva una campana senza batacchio davvero. Questo discorso avveniva sulla porta della chiesa dell’Ognina, la prima domenica di settembre, che era stata la festa della Madonna, con gran concorso di tutti i paesi vicini; e c’era anche compare Agostino Piedipapera, il quale colle sue barzellette riuscí a farli mettere d’accordo sulle due onze e dieci a salma, da pagarsi «col violino» a tanto il mese. Allo zio Crocifisso gli finiva sempre cosí, che gli facevano chinare il capo per forza, come Peppinino, perché aveva il maledetto vizio di non sapere dir di no. – Già! voi non sapete dir di no, quando vi conviene, sghignazzava Piedipapera. Voi siete come le… e disse come. . regolo da forcola: la forcola è lo scalmo, su cui poggia il remo; il regolo è il piolo che s’infila alla base dello scalmo, e ne regola l’altezza. . l’annata … dei morti: l’annata economicamente difficile costringe a vendere il pesce a poco prezzo, come se fosse in offerta ai defunti. . turchi: infedeli. . della Locca: figlio di una donna detta Locca (da locco, sciocco, pazzo), perché inferma di mente. . tirarli su per soldati: «allevarli solo per farli diventare soldati» (e dunque per vederseli sottratti dall’autorità statale). . «L’uomo … soffia»: è il proverbio siciliano «L’omu è lu focu, e la donna è la stuppa; lu diavulu veni e ciúscia». . zio … Campana di legno: mentre zio è titolo che si dà alle persone anziane, il nomignolo Crocifisso indica il carattere del personaggio, che si presenta sempre come vittima degli altri, mentre Campana di legno indica, secondo un modo di dire del linguaggio familiare, la sua abitudine a simulare la

sordità. . negozio: affare. . lupini: tipo di legume. . a credenza: a credito. . Riposto: paese della costa, a nord di Aci Trezza. . se la mangiava: con il singolare utilizzato qui al posto del plurale, i due soggetti («il sole e l’acqua») si unificano, costituendo un solo elemento. . Piedipapera: in quanto sciancato. . due onze e dieci: l’onza è un’antica moneta siciliana, suddivisa in trenta tarí (dieci sono appunto i tarí). . salma: misura di capacità, che equivaleva a circa  litri. . «col violino»: un’espressione in uso (spiegherà Verga al traduttore) presso il «basso popolo siciliano» che vuol dire «pagare una certa somma di denaro a piccole rate». . Peppinino: maschera siciliana (in origine, «Peppi-e-Ninu»), che rappresenta uno sciocco che dimena continuamente il capo.

T. GIOVANNI VERGA E IL VERISMO. GIOVANNI VERGA. I MALAVOGLIA

Allorché la Longa seppe del negozio dei lupini, dopo cena, mentre si chiacchierava coi gomiti sulla tovaglia, rimase a bocca aperta; come se quella grossa somma di quarant’onze se la sentisse sullo stomaco. Ma le donne hanno il cuore piccino, e padron ’Ntoni dovette spiegarle che se il negozio andava bene c’era del pane per l’inverno, e gli orecchini per Mena, e Bastiano avrebbe potuto andare e venire in una settimana da Riposto, con Menico della Locca. Bastiano intanto smoccolava la candela senza dir nulla. Cosí fu risoluto il negozio dei lupini, e il viaggio della Provvidenza, che era la piú vecchia delle barche del villaggio, ma aveva il nome di buon augurio. Maruzza se ne sentiva sempre il cuore nero, ma non apriva bocca, perché non era affar suo, e si affaccendava zitta zitta a mettere in ordine la barca e ogni cosa pel viaggio, il pane fresco, l’orciolino coll’olio, le cipolle, il cappotto foderato di pelle, sotto la pedagna e nella scaffetta. Gli uomini avevano avuto un gran da fare tutto il giorno, con quell’usuraio dello zio Crocifisso, il quale aveva venduto la gatta nel sacco, e i lupini erano avariati. Campana di legno diceva che lui non ne sapeva nulla, come è vero Iddio! «Quel ch’è di patto non è d’inganno»; che l’anima lui non doveva darla ai porci! e Piedipapera schiamazzava e bestemmiava come un ossesso per metterli d’accordo, giurando e spergiurando che un caso simile non gli era capitato da che era vivo; e cacciava le mani nel mucchio dei lupini e li mostrava a Dio e alla Madonna, chiamandoli a testimoni. Infine, rosso, scalmanato, fuori di sé, fece una proposta disperata, e la piantò in faccia allo zio Crocifisso rimminchionito, e ai Malavoglia coi sacchi in mano: – Là! pagateli a Natale, invece di pagarli a tanto al mese, e ci avrete un risparmio di un tarí a salma! La finite ora, santo diavolone? – E cominciò ad insaccare – In nome di Dio, e uno! La Provvidenza partí il sabato verso sera, e doveva esser suonata l’avemaria, sebbene la campana non si fosse udita, perché mastro Cirino il sagrestano era andato a portare un paio di stivaletti nuovi a don Silvestro il segretario; in quell’ora le ragazze facevano come uno stormo di passere attorno alla fontana, e la stella della sera era già bella e lucente, che pareva una lanterna appesa all’antenna della Provvidenza. Maruzza colla bambina in collo se ne stava sulla riva, senza dir nulla, intanto che suo marito sbrogliava la vela, e la Provvidenza si dondolava sulle onde rotte dai fariglioni come un’anitroccola. – «Scirocco chiaro e tramontana scura, mettiti in mare senza paura», diceva padron ’Ntoni dalla riva, guardando verso la montagna tutta nera di nubi. Menico della Locca, il quale era nella Provvidenza con Bastianazzo, gridava qualche cosa che il mare si mangiò. – Dice che i denari potete mandarli a sua madre, la Locca, perché suo fratello è senza lavoro; aggiunse Bastianazzo, e questa fu l’ultima sua parola che si udí.

. smoccolava: toglieva il moccolo (il residuo già arso), a una candela. . pedagna … scaffetta: come indica lo stesso Verga, la pedagna è «quell’asse o pezzo di tavola, fissata nel fondo della barca, alla quale il marinaio appoggia i piedi nel remare», mentre la scaffetta è «quella cassetta o ripostiglio che è nelle barche dei pescatori sotto il sedile o banco» (Verga). . venduto … nel sacco: «a scatola chiusa, e senza informare padron ’Ntoni del fatto che i lupini erano avariati»; l’espressione prende spunto dal proverbio siciliano che dice «Nun cunprari la gatta ’ntra lu saccu». . che l’anima … ai porci: riprende la battuta di Crocifisso durante la contrattazione: «che l’anima ho da darla a Dio!» . la stella … lucente: qui la stella Venere dietro l’aspetto luminoso e benigno ha qualcosa di sini-

stro e minaccioso. . antenna: asta, trasversale all’albero dell’imbarcazione. . fariglioni: gli scogli altissimi e isolati nel mare di Aci Trezza, già incontrati in Fantasticheria, cfr. nota , p. . . «Scirocco … nera di nubi: con il proverbio padron ’Ntoni cerca di interpretare benevolmente i primi segni di quella che sarà, invece, tempesta fatale per la Provvidenza. Infatti ci sono minacciose nuvole nere dalla parte dell’Etna (la montagna). . l’ultima sua parola: una chiusura colma di oscuri presagi, dove le voci, cosí fitte nel resto del capitolo, sfumano e si cancellano; le parole di Menico, ripetute da Bastianazzo, saranno allora «ultime» anche in altro e ben piú grave senso, acquisendo un valore quasi testamentario.



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



LA NUOVA ITALIA

-

Novelle rusticane La roba

La figura di Mazzarò

In Mazzarò il corpo identificato con la terra stessa

Un materialismo primitivo ed eroico

Il sogno di potenza minacciato dalla morte

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critta successivamente alla pubblicazione di Vita dei campi e pubblicata, prima che si delineasse il progetto del nuovo volume delle Novelle rusticane, su «La rassegna settimanale» del 26 dicembre 1880, questa novella offre una sorta di immagine assoluta di una ricchezza basata sulla proprietà terriera, che si identifica fino in fondo con la figura del proprietario Mazzarò: un’immensa distesa di campagna, con tutte le viti che vi si muovono, tutti i prodotti che vi germogliano e crescono, con tutte le attività che vi si svolgono, costituisce la roba che Mazzarò ha accumulato partendo dal nulla e che continua ad accumulare e ad accrescere, in un’instancabile ed eroica attività, in cui tutto il senso della vita si risolve in quel possedere, in quel dominare gli spazi, in quel ricavare tutti i frutti possibili dal lavoro della terra. È una voce «popolare» a parlare nella novella, ripetendo ossessivamente il nome di Mazzarò (a un certo punto anche con una rima: «il campanaccio che risuonava ora sí ed ora no, e il canto solitario perduto nella valle. – Tutta roba di Mazzarò»): una voce che ha una sorta di cadenza epica, che dilata fino all’eccesso l’immagine di potenza del personaggio. La prima parte della novella è costituita dall’indicazione di una serie di luoghi campestri, ricondotti tutti al possesso di Mazzarò. Al termine di questa presentazione dei suoi sterminati possedimenti, Mazzarò sembra aver conquistato perfino quelle forme della natura che sfuggono al controllo dell’uomo (il sole, le cicale, gli uccelli): e ciò conduce fino all’immagine fantastica dell’identificazione del suo corpo con la terra stessa che egli possiede («Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia»). Ma l’effetto di questa gigantesca figura mitica è come rafforzato dal contrasto con il corpo reale di Mazzarò, che invece era un omiciattolo, grasso solo nella pancia (proprio quella identificata fantasticamente con la terra su cui si cammina). Dalla descrizione dell’omiciattolo emerge e si distingue la sua testa come un brillante: ciò introduce il rapido accenno alle sue povere origini e all’impegno metodico con cui è passato dalla povertà alla ricchezza: tutta la parte successiva della novella è dedicata alle sue abitudini di vita e ai rapporti che egli intrattiene con coloro che lavorano per lui, con l’esercito di persone a cui deve dare da mangiare (e si noti il contrasto tra le cinquemila bocche che mangiano sulla sua terra e la sua bocca la quale mangiava meno di tutte). Di forte effetto è il contrasto tra le immagini della sua vita di prima (al suo lavoro «nella terra che adesso era sua», sotto la minaccia delle nerbate del soprastante a cavallo) e quelle della vita di adesso (ora è lui a controllare col nerbo i mietitori). Mazzarò non ha rapporti umani che non siano determinati dalla sua ricerca e dalla sua amministrazione della roba: e, oltre al rapporto con quelli che lavorano per lui, qui si ricordano quello con il barone che era stato suo padrone, a cui ha lentamente sottratto tutta la roba, e con quelli che hanno legami economici con lui, dai proprietari a cui riesce a sottrarre vantaggiosamente i terreni, ai mezzadri e ai debitori e a tutti coloro che invano cercano di ottener qualcosa da Mazzarò. La passione di Mazzarò per l’accumulo non coincide comunque con la nuova mentalità borghese e capitalistica: la sua ricchezza è del tutto radicata nella terra, nel rapporto fisico con i luoghi concreti; la roba è per lui qualcosa di solido e di stabile, con cui ha un contatto corporeo e materiale. La sua dedizione alla roba esclude dalla sua vita ogni altro aspetto, ogni altra ragione, ogni altro sentimento, proprio per questa sua assoluta fisicità, per il suo materialismo arcaico, primitivo, eroico. Per questo Mazzarò si dichiara indifferente al denaro, turbato dalla sua liquidità e dal suo flusso: non ama tenere in mano i soldi che gli servono, che gli serve solo per conquistare altra roba, per estendere il suo dominio sui territori campestri, fino a sfidare addirittura, in un vero e proprio delirio di onnipotenza, il potere reale («perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re»). È solo il limite della vita umana a minacciare e a far crollare il sogno di potenza di Mazzarò, che, avvicinandosi alla morte, si sente spinto ad aggredire i suoi animali, nella vana pretesa di portare via con sé tutta la sua roba: conclusione insieme tra-

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gica e grottesca, immagine della inevitabile sconfitta di questo singolare eroe di un’epica della terra e del possesso. La figura di Mazzarò sembra anticipare, ma solo per alcuni tratti, quella di mastro-don Gesualdo del romanzo omonimo, a cui Verga attribuirà però piú complesse sfumature, in una piú vasta rete di rapporti umani, in un meno schematico rapporto con il mondo circostante e con la stessa roba, che Gesualdo accumula con il suo lavoro infaticabile e con la sua astuzia economica. Nel penultimo capitolo del romanzo (Parte quarta, IV) Verga inserirà una diretta ripresa dal finale di questa novella: quando Gesualdo viene a sapere della gravità della sua malattia, contempla amaramente la sua roba e si mette a «bastonare anatre e tacchini, a strappar gemme e sementi. Avrebbe voluto distruggere d’un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco. Voleva che la sua roba se ne andasse con lui, disperata come lui». [EDIZIONE: Giovanni Verga, Tutte le novelle, ed. cit.]

Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristemente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: «Qui di chi è?» sentiva rispondersi: «Di Mazzarò». E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi accoccolate all’ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: «E qui?» «Di Mazzarò». E cammina e cammina, mentre la malaria vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva all’improvviso l’abbaiare di un cane, passando per una vigna che non finiva piú, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli pesasse addosso la polvere, e il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo, accanto al vallone, levava il capo sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: «Di Mazzarò». Poi veniva un uliveto folto come un bosco, dove l’erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontava rosso come il fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si incontravano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che tornavano adagio adagio dal maggese, e i buoi che passavano il guado lentamente, col muso nell’acqua scura; e si vedevano nei pascoli lontani della Canziria, sulla pendice brulla, le immense macchie biancastre delle mandre di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle gole, e il campanaccio che risuonava ora sí ed ora no, e il canto solitario perduto nella valle. «Tutta roba di Mazzarò». Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell’assiolo nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si cam. Biviere di Lentini: si tratta del lago di Lentini (ormai prosciugato), citato in altre novelle della raccolta (Malaria, e Di là del mare): anche le altre località citate appaiono nella novellistica verghiana. Notare come la lunga serie di nomi di luogo e il fitto succedersi di subordinate nell’ampio periodo iniziale preparino la scarna essenzialità della domanda e della risposta che si affacciano alla fine («Qui di chi è?»… «Di Mazzarò»). . fosco: reso brumoso, caliginoso, dalla calura. . lettiga: portantina coperta, poggiata sul dorso di un mulo. . gli: riferito alla vigna.

. fino a marzo: generalmente, la raccolta delle olive avviene nell’autunno inoltrato; il protrarsi fino a marzo parrebbe dovuto alla fittezza quasi «boscosa» dell’uliveto (che ritarda la maturazione dei frutti). . maggese: campo lasciato per un’annata a riposo, senza seminarlo. . Canziria: campagna posta a nord di Vizzini (ossia nelle zone che saranno poi del Mastro-don Gesualdo), in una vallata circondata da collinette e da fichidindia. . assiolo: piccolo rapace notturno (altrimenti detto «chiú»).

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minasse sulla pancia. «Invece egli era un omiciattolo», diceva il lettighiere, «che non gli avreste dato un baiocco, a vederlo»; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva come facesse a riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sí ch’era ricco come un maiale; ma aveva la testa ch’era un brillante, quell’uomo. Infatti, colla testa come un brillante, aveva accumulato tutta quella roba, dove prima veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mietere; col sole, coll’acqua, col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto; che tutti si rammentavano di avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano dell’eccellenza, e gli parlavano col berretto in mano. Né per questo egli era montato in superbia, adesso che tutte le eccellenze del paese erano suoi debitori; e diceva che eccellenza vuol dire povero diavolo e cattivo pagatore; ma egli portava ancora il berretto, soltanto lo portava di seta nera, era la sua sola grandezza, e da ultimo era anche arrivato a mettere il cappello di feltro, perché costava meno del berretto di seta. Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli aveva la vista lunga – dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro nel monte e nella pianura. Piú di cinquemila bocche, senza contare gli uccelli del cielo e gli animali della terra, che mangiavano sulla sua terra, e senza contare la sua bocca la quale mangiava meno di tutte, e si contentava di due soldi di pane e un pezzo di formaggio, ingozzato in fretta e in furia, all’impiedi, in un cantuccio del magazzino grande come una chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento spazzava la campagna gelata, al tempo del seminare, o colla testa dentro un corbello, nelle calde giornate della messe. Egli non beveva vino, non fumava, non usava tabacco, e sí che del tabacco ne producevano i suoi orti lungo il fiume, colle foglie larghe ed alte come un fanciullo, di quelle che si vendevano a  lire. Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche  tarí, quando aveva dovuto farla portare al camposanto. Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel che ci vuole a fare i tre tarí della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena curva  ore, col soprastante a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate se fate di rizzarvi un momento. Per questo non aveva lasciato passare un minuto della sua vita che non fosse stato impiegato a fare della roba; e adesso i suoi aratri erano numerosi come le lunghe file dei corvi che arrivano in novembre; e altre file di muli, che non finivano piú, portavano le sementi; le donne che stavano accoccolate nel fango, da ottobre a marzo, per raccogliere le sue olive, non si potevano contare, come non si possono contare le gazze che vengono a rubarle, e al tempo della vendemmia accorrevano dei villaggi interi alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare, nella campagna, era per la vendemmia di Mazzarò. Alla messe poi i mietitori di Mazzarò sembravano un esercito di soldati, che per mantenere tutta quella gente, col biscotto alla mattina e il pane e l’arancia amara a colazione, e la merenda, e le lasagne alla sera, ci volevano dei denari a manate, e le lasagne si scodellavano nelle madie larghe come tinozze. Perciò adesso, quando andava a cavallo dietro la fila dei suoi mietitori, col nerbo in mano, non ne perdeva d’occhio uno solo, e badava a ripetere: «Curviamoci, ragazzi!» Egli era tutto l’anno colle mani in tasca a spendere, e per la sola fondiaria il re si pigliava tanto che a Mazzarò gli veniva la febbre, ogni volta. . baiocco: cfr. nota , p. . . berretto: legato a una condizione popolare, a differenza del cappello, che verrà citato piú avanti. . bocche: di persone direttamente o no alle sue dipendenze. . corbello: cesta. . tarí: cfr. nota , p. . . soprastante: sorvegliante, addetto al controllo del lavoro dei braccianti.

. accoccolate: come, piú su, le galline nell’aia. . rubarle: riferito alle olive. . biscotto: galletta. . madie: casse dall’imboccatura piú larga del fondo, che venivano utilizzate per far lievitare il pane e conservare la pasta. . nerbo: frusta. . fondiaria: tassa sui terreni.

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Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riempivano di grano che bisognava scoperchiare il tetto per farcelo capire tutto; e ogni volta che Mazzarò vendeva il vino, ci voleva piú di un giorno per contare il denaro, tutto di  tarí d’argento, ché lui non ne voleva di carta sudicia per la sua roba, e andava a comprare la carta sudicia soltanto quando aveva da pagare il re, o gli altri; e alle fiere gli armenti di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade, che ci voleva mezza giornata per lasciarli sfilare, e il santo, colla banda, alle volte dovevano mutar strada, e cedere il passo. Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba a sera e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule – egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch’era tutto quello ch’ei avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che la sua roba. Quando uno è fatto cosí, vuol dire che è fatto per la roba. Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la roba vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa come quel barone che prima era stato il padrone di Mazzarò, e l’aveva raccolto per carità nudo e crudo ne’ suoi campi, ed era stato il padrone di tutti quei prati, e di tutti quei boschi, e di tutte quelle vigne e tutti quegli armenti, che quando veniva nelle sue terre a cavallo coi campieri dietro, pareva il re, e gli preparavano anche l’alloggio e il pranzo, al minchione, sicché ognuno sapeva l’ora e il momento in cui doveva arrivare, e non si faceva sorprendere colle mani nel sacco. «Costui vuol essere rubato per forza!» diceva Mazzarò, e schiattava dalle risa quando il barone gli dava dei calci nel di dietro, e si fregava la schiena colle mani, borbottando: «Chi è minchione se ne stia a casa», – «la roba non è di chi l’ha, ma di chi la sa fare». Invece egli, dopo che ebbe fatta la sua roba, non mandava certo a dire se veniva a sorvegliare la messe, o la vendemmia, e quando, e come; ma capitava all’improvviso, a piedi o a cavallo alla mula, senza campieri, con un pezzo di pane in tasca; e dormiva accanto ai suoi covoni, cogli occhi aperti, e lo schioppo fra le gambe. In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne il padrone di tutta la roba del barone; e costui uscí prima dall’uliveto, e poi dalle vigne, e poi dai pascoli, e poi dalle fattorie e infine dal suo palazzo istesso, che non passava giorno che non firmasse delle carte bollate, e Mazzarò ci metteva sotto la sua brava croce. Al barone non rimase altro che lo scudo di pietra ch’era prima sul portone, ed era la sola cosa che non avesse voluto vendere, dicendo a Mazzarò: «Questo solo, di tutta la mia roba, non fa per te». Ed era vero; Mazzarò non sapeva che farsene, e non l’avrebbe pagato due baiocchi. Il barone gli dava ancora del tu, ma non gli dava piú calci nel di dietro. «Questa è una bella cosa, d’avere la fortuna che ha Mazzarò!» diceva la gente; e non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella testa che era un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina del mulino, per fare la roba; e se il proprietario di una chiusa limitrofa si ostinava a non cedergliela, e voleva prendere pel collo Mazzarò, dover trovare uno stratagemma per costringerlo a vendere, e farcelo cascare, malgrado la diffidenza contadinesca. Ei gli andava a vantare, per esempio, la fertilità di . comprare: «cambiare»; quando deve incassare denaro, Mazzarò esige sempre monete d’argento, non vuole biglietti di banca (carta sudicia), che usa solo per pagare le tasse. . armenti: mandrie. . santo: «la statua del santo», portata in processione in occasione della fiera (le fiere erano sempre legate a feste religiose); da notare il dovevano, riferito al santo e insieme alla banda. . campieri: guardie campestri.

. minchione: scioccone. . uscí: uscire da viene usato nel senso di «perdere»: la locuzione risale a una nozione della proprietà agricola come cosa in cui si sta dentro, che si possiede abitandoci. . scudo di pietra: con lo stemma della sua casata. . chiusa: terreno delimitato, e anche, piú genericamente, appezzamento. . malannate: annate di cattivo raccolto.

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una tenuta la quale non produceva nemmeno lupini, e arrivava a fargliela credere una terra promessa, sinché il povero diavolo si lasciava indurre a prenderla in affitto, per specularci sopra, e ci perdeva poi il fitto, la casa e la chiusa, che Mazzarò se l’acchiappava – per un pezzo di pane. – E quante seccature Mazzarò doveva sopportare! – I mezzadri che venivano a lagnarsi delle malannate, i debitori che mandavano in processione le loro donne a strapparsi i capelli e picchiarsi il petto per scongiurare di non metterli in mezzo alla strada, col pigliarsi il mulo o l’asinello, che non avevano da mangiare. «Lo vedete quel che mangio io?» rispondeva lui, «pane e cipolla! e sí che ho i magazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba». E se gli domandavano un pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva: «Che, vi pare che l’abbia rubata? Non sapete quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle?» E se gli domandavano un soldo rispondeva che non l’aveva. E non l’aveva davvero. Ché in tasca non teneva mai  tarí, tanti ce ne volevano per far fruttare tutta quella roba, e il denaro entrava ed usciva come un fiume dalla sua casa. Del resto a lui non gliene importava del denaro; diceva che non era roba, e appena metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, ché il re non può né venderla, né dire ch’è sua. Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov’era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, col mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: «Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha niente!» Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscí nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: «Roba mia, vientene con me!».

Libertà

L’evento storico

La furia cieca e disperata della rivolta

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ra tutti i testi di Verga, questa novella, apparsa su «La domenica letteraria» il 12 marzo 1882 e messa poi al penultimo posto delle Novelle rusticane, è quello che fa il piú esplicito riferimento a un evento storico reale: si tratta della rivolta dei contadini di Bronte, svoltasi nell’agosto 1860, poco dopo la cacciata dei Borboni dalla Sicilia. Non vedendo realizzarsi le promesse di una distribuzione delle terre demaniali, i contadini di Bronte si erano dati a saccheggi e massacri con le classi abbienti, ma la rivolta si era già esaurita, quando le truppe guidate dal generale Nino Bixio, luogotenente di Garibaldi, inviate su richiesta del console inglese di Catania (dato che a Bronte c’era un feudo di proprietà inglese), intrapresero una violenta repressione, fucilando con processo sommario cinque responsabili della rivolta, tra cui l’avvocato Nicolò Lombardo, mentre altri numerosi cittadini di Bronte furono poi condannati a lunghi periodi di carcere. Senza nominare direttamente Bronte e senza far riferimento all’organizzazione della rivolta e alla partecipazione a essa di un personaggio di notevole statura umana e civile come l’avvocato Lombardo (particolare notato da Leonardo Sciascia in un suo saggio raccolto nel volume La corda pazza), Verga mette in luce l’aspetto corale della rivolta, ne fa un’immagine di furia cieca e disperata: vendetta e ribellione spontanea dei contadini oppressi, fuori di ogni obiettivo e

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motivazione politica, contro i soprusi dei galantuomini, ma anche esplosione di un’irrazionale sete di sangue, che aggredisce senza discrimine chi appartiene alla classe dei signori, che si scatena non solo su personaggi odiosi e prepotenti, ma anche su esseri indifesi e dalla povera vita. Tutta la prima parte della novella è dominata da una violenza espressionistica, che rende con grande evidenza la furia aggressiva della folla, accompagnata da urla e rapide battute che denunciano le prepotenze e le violenze subite, che sanguinosamente rovesciano la gerarchia sociale; la carneficina si svolge in un crescendo in cui si affacciano sempre piú dei motivi di pietà per le vittime (dalla figura di quel don Paolo, atteso dalla moglie e dai cinque figli, a quella del figlio del notaio, alla baronessa con il bambino in braccio inseguita nella sua vasta casa), nel sinistro bagliore delle scuri: e il racconto della strage si ferma nell’immagine delle scuri che «non potevano colpire nel mucchio e luccicavano in aria». Alla strage segue poi il vuoto e lo sconcerto, con la notte, con la luce altrettanto sinistra della luna e la domenica che segue, in cui i rivoltosi vedono il mondo come svuotato, prigionieri dell’assurdità di quanto è accaduto, tra vani auspici e sospetti per il futuro (e l’eco della strage recente resta nel gesto del taglialegna che «brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la scure»). Segue poi rapida la scena dell’arrivo di Bixio, di cui si presentano i gesti rapidi ed essenziali, con l’immediata fucilazione dei primi che capitarono: e a questo proposito Leonardo Sciascia ha notato che Verga, oltre a non far menzione dell’avvocato Lombardo, sostituisce la figura immaginaria del nano a quella del povero pazzo del paese, Nunzio Ciraldo Fraiunco, che non aveva altra colpa che quella di «aver vagato per le strade del paese con la testa cinta da un fazzoletto tricolore profetizzando, prima della rivolta, sciagura ai galantuomini». Queste «mistificazioni» del narratore rivelano certamente il suo imbarazzo e il suo disagio verso l’episodio: come del resto la rapidità essenziale di questa fase del racconto, rispetto a quella iniziale, mostra la sua intenzione di non mettere in cattiva luce Bixio. Piú diffusa è la parte finale, relativa al trasporto degli altri responsabili a Catania, al processo e alla loro condanna: qui alla posizione degli imputati fa da specchio quella delle loro donne e dei parenti, con la difficoltà del loro rapporto con la città e con il ritorno del paese alla vita di prima, con il legame che si ristabilisce tra i contadini e i galantuomini: «i galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini»; la dipendenza reciproca fra le due classi viene cosí individuata «nell’ambito specifico di un ciclo produttivo (i campi, l’economia agraria) che le coinvolge entrambe, le avvince sul filo della sopravvivenza, dell’auto-difesa» (Mazzacurati). Da questo ciclo restano esclusi i cenci, quelli che finiscono per essere i «vinti» della situazione, che si trovano davanti a una giustizia che ha il volto dei loro padroni e che si trovano condannati senza riuscire a comprendere il senso di quanto è avvenuto. Davvero angosciosa è allora, alla fine, la battuta del carbonaio che attribuisce la responsabilità di tutto a quella parola, libertà, a cui l’autore guarda con amara e pungente ironia. È certo innegabile che, dalla sua posizione conservatrice, Verga non possa in nessun modo guardare con simpatia alla rivolta popolare, né condividerne le istanze, ed eviti di mettere in cattiva luce Bixio e la sua indiscriminata repressione. Ma è anche vero che il racconto dà una vigorosa rappresentazione del conflitto sociale, dominata da un duro pessimismo che coinvolge tutte le parole d’ordine (come libertà) e tutte le aspirazioni al riscatto, ma con un atteggiamento di profonda pietà delle vittime, di una parte e dell’altra, che ne vengono schiacciate.

Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: «Viva la libertà!» . Sciorinarono: «Esposero al vento»; la narrazione inizia nel mezzo dell’azione, con questo verbo senza soggetto, mettendo subito in evidenza la sua cieca insensatezza. . fazzoletto a tre colori: bianco, rosso e verde, con

i colori dell’Italia unita. Nell’edizione del , suggestionato dalla situazione di quegli anni (dopo la rivoluzione bolscevica in Russia), Verga sostituí a quello tricolore un «fazzoletto rosso».

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La rivolta descritta con violento espressionismo

L’incapacità degli insorti di gestire gli avvenimenti La repressione di Bixio descritta con rapidità essenziale

Il paese ritorna alla vita di prima

Pessimismo dell’autore rispetto ai conflitti sociali

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Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini , davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche, le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola. «A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri!» Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. «A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l’anima!» «A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero!» «A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente!» «A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarí al giorno!» E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! «Ai galantuomini! Ai cappelli ! Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli!» Don Antonio sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare colla faccia insanguinata contro il marciapiede. «Perché? perché mi ammazzate?» «Anche tu! al diavolo!» Un monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò dentro. «Abbasso i cappelli! Viva la libertà!» «Te’! tu pure!» Al reverendo che predicava l’inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa, coll’ostia consacrata nel pancione. «Non mi ammazzate, ché sono in peccato mortale!» La gnà Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a  anni, l’inverno della fame, e riempiva la Ruota e le strade di monelli affamati. Se quella carne di cane fosse valsa a qualche cosa, ora avrebbero potuto satollarsi, mentre la sbrandellavano sugli usci delle case e sui ciottoli della strada a colpi di scure. Anche il lupo allorché capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia. – Il figliuolo della Signora, che era accorso per vedere cosa fosse – lo speziale, nel mentre chiudeva in fretta e in furia – don Paolo, il quale tornava dalla vigna a cavallo del somarello, colle bisacce magre in groppa. Pure teneva in capo un berrettino vecchio che la sua ragazza gli aveva ricamato tempo fa, quando il male non aveva ancora colpito la vigna. Sua moglie lo vide cadere dinanzi al portone, mentre aspettava coi cinque figliuoli la scarsa minestra che era nelle bisacce del marito. «Paolo! Paolo!» Il primo lo colse nella spalla con un colpo di scure. Un altro gli fu addosso colla falce, e lo sventrò mentre si attaccava col braccio sanguinante al martello. Ma il peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l’oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: «Neddu! Neddu!» Neddu fug. casino dei galantuomini: luogo di ritrovo, circolo, dei borghesi del paese (chiamati appunto galantuomini). . berrette bianche: portate dai contadini, mentre i galantuomini portavano i cappelli. . nerbare: frustare, bastonare. . campieri: i sorveglianti delle tenute campestri. . ricco epulone: il ricco abituato ai lauti banchetti è preso di mira con il termine epulone, ben noto al popolo, perché usato nella parabola evangelica di Lazzaro che riceve le briciole della mensa del ricco. . hai venduto … al giorno: il guardaboschi viene accusato di aver venduto se stesso e i suoi simili, mettendosi al servizio dei galantuomini (e guardando con durezza i loro possedimenti) per una cifra irrisoria: il tarí è antica moneta siciliana di scarso valore (cfr. per esempio la nota , p. ). . cappelli: indicano appunto i galantuomini, nobili e borghesi. . Te’!: interiezione dialettale, ripetuta piú volte nel

grido omicida della folla: «Tieni!, prendi questo!» . La gnà Lucia … affamati: il peccato mortale del prete è costituito dalla gnà Lucia (per l’appellativo gnà cfr. nota , p. ), povera donna che egli tiene come serva e amante, che ha addirittura comprato, approfittando della miseria della famiglia, e a cui fa fare figli che poi vengono esposti alla Ruota dei monasteri (ruota girevole con cui i monasteri di clausura comunicavano con l’esterno e su cui si solevano abbandonare i figli illegittimi) e vivono poi miseramente per le strade del paese. . la sbrandellavano: la facevano a brandelli, a pezzi. . al martello: «al battente posto sul portone»; nella rappresentazione della morte di don Paolo, che conduce una vita misera e ha il solo torto di far parte di una classe di cui non condivide la ricchezza, Verga intende far risaltare tutta la crudeltà e l’ingiustizia dell’assalto della folla. . Neddu: da Bastianeddu, diminutivo di Sebastiano.

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giva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anch’esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie l’aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. – Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; – strappava il cuore! – Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant’anni – e tremava come una foglia – Un altro gridò: «Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui». Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto. Tutti! tutti i cappelli! – Non era piú la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente. Le donne piú feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando d’ira in falsetto, colle carni tenere sotto i brindelli delle vesti. «Tu che venivi a pregare il buon Dio colla veste di seta!» «Tu che avevi a schifo d’inginocchiarti accanto alla povera gente!» «Te’! Te’!» Nelle case, su per le scale, dentro le alcove, lacerando la seta e la tela fine. Quanti orecchini su delle facce insanguinate! e quanti anelli d’oro nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure! La baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, carri di campagna, botti piene, dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La folla chinava il capo alle schioppettate, perché non aveva armi da rispondere. Prima c’era la pena di morte chi tenesse armi da fuoco. «Viva la libertà!» E sfondarono il portone. Poi nella corte, sulle gradinate, scavalcando i feriti. Lasciarono stare i campieri. «I campieri dopo!» Prima volevano le carni della baronessa, le carni fatte di pernici e di vin buono. Ella correva di stanza in stanza col lattante al seno, scarmigliata – e le stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni, avvicinandosi come la piena di un fiume. Il figlio maggiore, di  anni, ancora colle carni bianche anch’esso, puntellava l’uscio colle sue mani tremanti, gridando: «Mamà! mamà!» Al primo urto gli rovesciarono l’uscio addosso. Egli si afferrava alle gambe che lo calpestavano. Non gridava piú. Sua madre s’era rifugiata nel balcone, tenendo avvinghiato il bambino, chiudendogli la bocca colla mano perché non gridasse, pazza. L’altro figliolo voleva difenderla col suo corpo, stralunato, quasi avesse avute cento mani, afferrando pel taglio tutte quelle scuri. Li separarono in un lampo. Uno abbrancò lei pei capelli, un altro per i fianchi, un altro per le vesti, sollevandola al di sopra della ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia il bambino lattante. L’altro fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso. Lo calpestavano, gli macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato una mano che lo stringeva alla gola e non la lasciava piú. Le scuri non potevano colpire nel mucchio e luccicavano in aria. E in quel carnevale furibondo del mese di luglio, in mezzo agli urli briachi della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio, fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi. Cominciavano a sbandarsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le stradicciuole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti, con un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle case deserte. Aggiornava, una domenica senza gente in piazza né messa che suonasse. Il sagrestano s’era rintanato; di preti non se ne trovavano piú. I primi che cominciarono a far capannello sul sagrato si guardavano in faccia sospettosi; ciascuno ripensando a quel che doveva ave-

. nonostante: tuttavia. . in falsetto: con voce mutata, anormale. . brindelli: «brandelli»; le vesti delle popolane sono come stracci. . Prima: sotto il regime borbonico. . chi: per chi. . fatte … buono: «alimentate con cibo di lusso»:

di fronte alla baronessa la violenza della folla assume ora qualcosa di trucemente sensuale. . mese di luglio: in realtà la rivolta ebbe luogo all’inizio di agosto. . briachi: ebbri di violenza. . lavava: faceva apparire limpida, illuminava. . Aggiornava: Si faceva giorno.

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re sulla coscienza il vicino. Poi quando furono in molti, si diedero a mormorare. «Senza messa non potevano starci, un giorno di domenica, come i cani!» Il casino dei galantuomini era sbarrato, e non si sapeva dove andare a prendere gli ordini dei padroni per la settimana. Dal campanile penzolava sempre il fazzoletto tricolore, floscio, nella caldura gialla di luglio. E come l’ombra s’impiccioliva lentamente sul sagrato, la folla si ammassava tutta in un canto. Fra due casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che scendeva a precipizio, si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui fianchi dell’Etna. Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi. Ciascuno fra di sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava in cagnesco il vicino. – Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti! – Quel Nino Bestia, e quel Ramurazzo, avrebbero preteso di continuare le prepotenze dei cappelli! – Se non c’era piú il perito per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e a raffa! – E se tu ti mangi la tua parte all’osteria, dopo bisogna tornare a spartire da capo? – Ladro tu e ladro io. – Ora che c’era la libertà, chi voleva mangiare per due avrebbe avuto la sua festa come quella dei galantuomini! – Il taglialegna brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la scure. Il giorno dopo si udí che veniva a far giustizia il generale, quello che faceva tremare la gente. Si vedevano le camice rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano e si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo. Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La mattina, prima dell’alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l’uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano inginocchiare addosso al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe parole che gli aveva dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato quando glie lo strapparono dalle braccia. Da lontano, nelle viuzze piú remote del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schioppettate in fila come mortaletti della festa. Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna, e dicendo ahi! ogni volta che mutavano lato. Un processo lungo che non finiva piú. I colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a coppia, fra due file di soldati col moschetto pronto. Le loro donne li seguivano correndo per le lunghe strade di campagna, in mezzo ai solchi, in mezzo ai fichidindia, in mezzo alle vigne, in mezzo alle biade color d’oro, trafelate, zoppicando, chiamandoli a nome ogni volta che la strada faceva gomito, e si potevano vedere in faccia i prigionieri. Alla città li chiusero nel gran carcere alto e vasto come un convento, tutto buche. E come … sul sagrato: «E man mano che sul sagrato della chiesa l’ombra si riduceva», cioè si avvicinava mezzogiorno. . Nino Bestia … Ramurazzo: nomi attribuiti a due caporioni della rivolta, il primo con l’appellativo di Bestia (lo stesso dato al padre di Rosso Malpelo: cfr. p. -), il secondo con un soprannome che in siciliano significa «ravanello». . il generale: Nino Bixio, mandato da Garibaldi: si noti come la sua persona venga messa in evidenza, prima nel suo apparire piccino da lontano alla guida delle camicie rosse, poi nel modo in cui co-

me un padre regola il sonno dei suoi soldati. . sacramentando: bestemmiando. . Pippo, il nano: come ha notato Leonardo Sciascia, Verga ha sostituito la figura del nano a quella del povero pazzo Nunzio Ciraldo Fraiunco, crudelmente fatto fucilare da Bixio senza che avesse nessuna vera colpa. . i giudici per davvero: «i giudici veri e propri» (mentre Bixio aveva praticato una giustizia sommaria). . scranna: sedia. . in città: a Catania.

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rellato da finestre colle inferriate; e se le donne volevano vedere i loro uomini, soltanto il lunedí, in presenza dei guardiani, dietro il cancello di ferro. E i poveretti divenivano sempre piú gialli in quell’ombra perenne, senza scorgere mai il sole. Ogni lunedí erano piú taciturni, rispondevano appena, si lagnavano meno. Gli altri giorni, se le donne ronzavano per la piazza attorno alla prigione, le sentinelle minacciavano col fucile. Poi non sapere che fare, dove trovare lavoro nella città, né come buscarsi il pane. Il letto nello stallazzo costava due soldi; il pane bianco si mangiava in un boccone e non riempiva lo stomaco; se si accoccolavano a passare una notte sull’uscio di una chiesa, le guardie le arrestavano. A poco a poco rimpatriarono, prima le mogli, poi le mamme. Un bel pezzo di giovinetta si perdette nella città e non se ne seppe piú nulla. Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace. L’orfano dello speziale rubò la moglie a Neli Pirru, e gli parve una bella cosa, per vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre. Alla donna che aveva di tanto in tanto certe ubbie, e temeva che suo marito le tagliasse la faccia, all’uscire dal carcere, egli ripeteva: «Sta’ tranquilla che non ne esce piú». Ormai nessuno ci pensava; solamente qualche madre, qualche vecchiarello, se gli correvano gli occhi verso la pianura, dove era la città, o la domenica, al vedere gli altri che parlavano tranquillamente dei loro affari coi galantuomini, dinanzi al casino di conversazione, col berretto in mano, e si persuadevano che all’aria ci vanno i cenci. Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicché quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al tribunale. Tutti quelli che potevano erano accorsi dal villaggio: testimoni, parenti, curiosi, come a una festa, per vedere i compaesani, dopo tanto tempo, stipati nella capponaia – ché capponi davvero si diventava là dentro! e Neli Pirru doveva vedersi sul mostaccio quello dello speziale, che s’era imparentato a tradimento con lui! Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. «Voi come vi chiamate?» E ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini , stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano fra di loro. Certo si dicevano che l’avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassú, quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi fissi su quell’uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: «Sul mio onore e sulla mia coscienza!…» Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: «Dove mi conducete? – In galera? – O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!…» . stallazzo: «stallaggio», la stalla annessa agli alberghi, dove le povere donne potevano trovare alloggio. . ubbie: scrupoli, paure. . all’aria … i cenci: frase proverbiale, che sottolinea il fatto che alla fine ci rimettono sempre i poveri (usata già da Manzoni ne I Promessi Sposi,

cap. XXIV). . capponaia: la gabbia degli imputati è equiparata a quella dei capponi. . sul mostaccio: sul muso, davanti a sé. . dodici galantuomini: sono i giurati. . ciangottavano: parlavano sottovoce.

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Mastro-don Gesualdo L’incendio del palazzo Trao (I, I)

L’

Grande scena corale in un frenetico agitarsi di personaggi

Entra in scena mastro-don Gesualdo

Rovina di casa Trao: parte il tentativo di scalata sociale di mastro-don Gesualdo

Il vecchio mondo crolla su se stesso

inizio di Mastro-don Gesualdo ci porta in mezzo all’azione (che, secondo gli appunti di Verga, dovrebbe situarsi nel 1819 o nel 1820), nell’agitarsi di un intero paese alle prime luci dell’alba per un incendio che sta distruggendo il vecchio e cadente palazzo dei Trao: e lo fa in modo molto piú diretto e immediato di quanto accada ne I Malavoglia, dove la voce narrante, immersa totalmente nell’ambiente e nel mondo rappresentato, prendeva le mosse da una presentazione della famiglia protagonista della vicenda. Al suono della «messa dell’alba a San Giovanni», che rompe provvisoriamente il silenzio del paesetto che dorme, succede l’eco violenta della «campanella squillante di Sant’Agata», che fa svegliare gli abitanti, e il correre agitato di tutti verso la casa Trao in fiamme. Da questa scena corale si distinguono man mano le presenze e i nomi dei singoli personaggi, che si identificheranno via via nel corso del romanzo, e che qui si confondono e si sovrappongono in quel frenetico agitarsi, in un correre, arrampicarsi, apparire e sparire. Da una parte c’è questa folla di persone che accorrono, di nomi e di presenze che si accumulano l’uno dietro l’altro, di gesti e atti disordinati e confusi, dall’altra ci sono gli abitanti della casa in fiamme, come fantasmi che emergono dal fuoco e dalla notte: don Diego e don Ferdinando, che gridano al ladro, presenze spettrali e grottesche, specialmente il secondo, che appare subito con la sua faccia stralunata e poi viene descritto in cima alla scala, con il suo aspetto di pazzo, in cui tra l’altro risaltano gli occhi grigiastri e stralunati (e si noti la ripetizione dell’attributo); e la sorella Bianca, che appare improvvisamente fissando sul fratello gli occhi «pazzi di terrore e d’angoscia», con un grido disperato, e poi viene sospinta dentro la stanza dal fratello (che poi esce fuori, dall’aspetto sfigurato, anch’egli stralunato). E, anche se per il malessere di Bianca viene chiamato il medico (il dottor Tavuso), la donna resta sempre al di là della porta, non piú vista dai sempre piú numerosi vicini e compaesani, anche da coloro che accorrono piú tardi, quando l’incendio sta ormai per essere domato. E naturalmente il fatto che Bianca rimanga dentro la camera fa balenare nel lettore il sospetto di una diversa presenza, quella dell’uomo intravisto da Nanni l’Orbo, il possibile ladro, che è invece il barone Rubiera, amante segreto di Bianca. Tra coloro che intervengono da fuori una presenza particolare è proprio quella di mastro-don Gesualdo, la cui apparizione nella redazione del 1888 di questa scena iniziale «era assai piú sbiadita, mentre una funzione da protagonista aveva invece Bianca, mostrata nella sua sensualità e anche nella sua aggressività e capacità di decisione» (Luperini): qui invece è lui a sollecitare e a dirigere l’intervento, soprattutto perché l’incendio danneggia la sua casa, che è a ridosso di quella dei Trao; è lui a lanciarsi per primo «urlando su per la scala». Con la sua vivacissima scena corale, il capitolo costituisce peraltro una premessa essenziale degli svolgimenti futuri del romanzo: da questa rovina della casa dei Trao partirà il tentativo di Gesualdo di uscire dalla sua classe, proprio attraverso il matrimonio con Bianca; ed è significativo il fatto che qui, all’energico darsi da fare di Gesualdo, corrisponda proprio il rimanere chiusa dentro la camera di Bianca, con la presenza segreta del suo amante. La battuta allusiva del dottore Tavuso che, alla fine, viene ripresa dal canonico Lupi, «A certa età le ragazze bisogna maritarle!», sembra costituire quasi un’anticipazione narrativa del matrimonio che poi Gesualdo contrarrà con Bianca, e dell’ombra che su di esso lascia il rapporto di lei con l’amante che qui resta nascosto. Nella fortissima evidenza e nel rilievo narrativo di questa grande scena inaugurale del romanzo entrano elementi drammatici ed elementi grotteschi, sia nel diverso atteggiarsi del dialogo, sia nella descrizione dei personaggi, «identificati per scorcio e per segni periferici», secondo il presupposto naturalistico di una corrispondenza «tra immagine somatica e vita morale, tra forma materiale e storia sociale, tra diagnostica e clinica» (Mazzacurati). L’incendio del palazzo dei Trao è anche l’immagine sinistra di tutto un vecchio mondo che crolla su se stesso, logoro e decrepito, in cui l’antica nobiltà è ridotta a slabbrata rovina (si veda la biblioteca che cascava in pez-

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zi, e la curiosità di quelli che girano per il palazzo, addirittura «strappando i brandelli di stoffa che pendevano ancora dalle pareti»). Traccia distorta di quella nobiltà crollata è la follia di don Ferdinando, con la sua ossessione delle carte della lite. E i discorsi maligni dei personaggi che si affacciano nella parte finale del capitolo sottolineano come quel mondo crollato non trovi intorno a sé nessuna solidarietà. [EDIZIONE: Giovanni Verga, Mastro-don Gesualdo (-), a cura di G. Mazzacurati, Einaudi, Torino 1992]

Suonava la messa dell’alba a San Giovanni; ma il paesetto dormiva ancora della grossa, perché era piovuto da tre giorni, e nei seminati ci si affondava fino a mezza gamba. Tutt’a un tratto, nel silenzio, s’udí un rovinio, la campanella squillante di Sant’Agata che chiamava aiuto, usci e finestre che sbattevano, la gente che scappava fuori in camicia, gridando: – Terremoto! San Gregorio Magno! Era ancora buio. Lontano, nell’ampia distesa nera dell’Àlia, ammiccava soltanto un lume di carbonai, e piú a sinistra la stella del mattino, sopra un nuvolone basso che tagliava l’alba nel lungo altipiano del Paradiso. Per tutta la campagna diffondevasi un uggiolare lugubre di cani. E subito, dal quartiere basso, giunse il suono grave del campanone di San Giovanni che dava l’allarme anch’esso; poi la campana fessa di San Vito; l’altra della chiesa madre, piú lontano; quella di Sant’Agata che parve addirittura cascar sul capo agli abitanti della piazzetta. Una dopo l’altra s’erano svegliate pure le campanelle dei monasteri, il Collegio, Santa Maria, San Sebastiano, Santa Teresa: uno scampanío generale che correva sui tetti spaventato, nelle tenebre. – No! no! È il fuoco!… Fuoco in casa Trao!… San Giovanni Battista! Gli uomini accorrevano vociando, colle brache in mano. Le donne mettevano il lume alla finestra: tutto il paese, sulla collina, che formicolava di lumi, come fosse il giovedí sera, quando suonano le due ore di notte: una cosa da far rizzare i capelli in testa, chi avesse visto da lontano. – Don Diego! Don Ferdinando! – si udiva chiamare in fondo alla piazzetta; e uno che bussava al portone con un sasso. Dalla salita verso la Piazza Grande, e dagli altri vicoletti, arrivava sempre gente: un calpestio continuo di scarponi grossi sull’acciottolato; di tanto in tanto un nome gridato da lontano; e insieme quel bussare insistente al portone in fondo alla piazzetta di Sant’Agata, e quella voce che chiamava: – Don Diego! Don Ferdinando! Che siete tutti morti? Dal palazzo dei Trao, al di sopra del cornicione sdentato, si vedevano salire infatti, nell’alba che cominciava a schiarire, globi di fumo denso, a ondate, sparsi di faville. E pioveva dall’alto un riverbero rossastro, che accendeva le facce ansiose dei vicini raccolti dinanzi al portone sconquassato, col naso in aria. Tutt’a un tratto si udí sbatacchiare una finestra, e una vocetta stridula che gridava di lassú: – Aiuto!… ladri!… Cristiani, aiuto! . il paesetto: Vizzini, tra Catania e Ragusa, posto sulle pendici dei monti Iblei (l’Alía, citata in seguito, è luogo boschivo nella campagna intorno al paese). Ma il suo nome non è mai fatto nella redazione finale del romanzo (mentre in quella del  viene indicato nel cap. IV). In questa località, la famiglia Verga aveva diversi possedimenti; ed è qui che lo scrittore lavorò alla revisione del romanzo (fra il  e ). . seminati: campi seminati. . San Gregorio Magno: viene invocato il patrono

di Vizzini (a cui era consacrata la chiesa madre nominata piú avanti). . come fosse il giovedí sera: riferimento alla consuetudine del paese, per cui il giorno del giovedí santo, due ore dopo il tramonto («le due ore di notte»), venivano posti dei lumi sui davanzali delle case, in memoria dell’episodio della cattura di Gesú al Getsemani, da parte dei miliziani provvisti di fiaccola. . sdentato: sgretolato.

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– Il fuoco! Avete il fuoco in casa! Aprite, don Ferdinando! – Diego! Diego! Dietro alla faccia stralunata di don Ferdinando Trao apparve allora alla finestra il berretto da notte sudicio e i capelli grigi svolazzanti di don Diego. Si udí la voce rauca del tisico che strillava anch’esso: – Aiuto!… Abbiamo i ladri in casa! Aiuto! – Ma che ladri!… Cosa verrebbero a fare lassú? – sghignazzò uno nella folla. – Bianca! Bianca! Aiuto! aiuto! Giunse in quel punto trafelato Nanni l’Orbo, giurando d’averli visti lui i ladri, in casa Trao. – Con questi occhi!… Uno che voleva scappare dalla finestra di donna Bianca, e s’è cacciato dentro un’altra volta, al vedere accorrer gente!… – Brucia il palazzo, capite? Se ne va in fiamme tutto il quartiere! Ci ho accanto la mia casa, perdio! – Si mise a vociare mastro-don Gesualdo Motta. Gli altri intanto, spingendo, facendo leva al portone, riuscirono a penetrare nel cortile, ad uno ad uno, coll’erba sino a mezza gamba, vociando, schiamazzando, armati di secchie, di brocche piene d’acqua; compare Cosimo colla scure da far legna; don Luca il sagrestano che voleva dar di mano alle campane un’altra volta, per chiamare all’armi; Pelagatti cosí com’era corso, al primo allarme, col pistolone arrugginito ch’era andato a scavar di sotto allo strame. Dal cortile non si vedeva ancora il fuoco. Soltanto, di tratto in tratto, come spirava il maestrale, passavano al di sopra delle gronde ondate di fumo, che si sperdevano dietro il muro a secco del giardinetto, fra i rami dei mandorli in fiore. Sotto la tettoia cadente erano accatastate delle fascine; e in fondo, ritta contro la casa del vicino Motta, dell’altra legna grossa; assi d’impalcati, correntoni fradici, una trave di palmento che non si era mai potuta vendere. – Peggio dell’esca, vedete! – sbraitava mastro-don Gesualdo. – Roba da fare andare in aria tutto il quartiere!… santo e santissimo!… E me la mettono poi contro il mio muro; perché loro non hanno nulla da perdere, santo e santissimo!… In cima alla scala, don Ferdinando, infagottato in una vecchia palandrana, con un fazzolettaccio legato in testa, la barba lunga di otto giorni, gli occhi grigiastri e stralunati, che sembravano quelli di un pazzo in quella faccia incartapecorita di asmatico, ripeteva come un’anatra: – Di qua! di qua! Ma nessuno osava avventurarsi su per la scala che traballava. Una vera bicocca quella casa: i muri rotti, scalcinati, corrosi; delle fenditure che scendevano dal cornicione sino a terra; le finestre sgangherate e senza vetri; lo stemma logoro, scantonato, appeso ad un uncino arrugginito, al di sopra della porta. Mastro-don Gesualdo voleva prima buttar fuori sulla piazza tutta quella legna accatastata nel cortile. . sbatacchiare: «sbattere» (in senso proprio, sarebbe del batacchio di una campana). . mastro-don: da «mastro» (appellativo attribuito tuttora, nell’Italia centro-meridionale, a un artigiano) e «don» (che viene da «dominus» e indica per lo piú una figura di possidente, specialmente borghese) deriva il «nomignolo sarcastico affibbiato dalla maldicenza pubblica all’operaio arricchito» (come scrive Verga al traduttore francese Edouard Rod). Fin da questo primo ingresso in scena, ci viene data l’informazione determinante di un’attività tutta votata alla salvaguardia della propria roba (qui, della casa minacciata dall’incendio). . strame: fieno. . gronde: gli orli sporgenti del tetto.

. muro a secco: di pietre sovrapposte senza calce. . mandorli in fiore: è un’informazione soprattutto cronologica (indica un periodo tra gennaio e marzo, quando in Sicilia fioriscono i mandorli: nella redazione del  l’episodio veniva collocato esplicitamente «verso gli ultimi di marzo»). . assi … palmento: le assi sono quelle per le impalcature; i correntoni sono i travicelli per sostenere il tetto; palmento può indicare la mola del mulino, o del frantoio (la trave serve a farla girare), ma anche una stanza in cui si pigia l’uva e si conserva il vino. . esca: la materia per appiccare il fuoco. . bicocca: catapecchia. . scantonato: smussato, senza orli.

T. GIOVANNI VERGA E IL VERISMO. GIOVANNI VERGA. MASTRO-DON GESUALDO

– Ci vorrà un mese! – rispose Pelagatti il quale stava a guardare sbadigliando, col pistolone in mano. – Santo e santissimo! Contro il mio muro è accatastata!… Volete sentirla, sí o no? Giacalone diceva piuttosto di abbattere la tettoia; don Luca il sagrestano assicurò che pel momento non c’era pericolo: una torre di Babele! Erano accorsi anche altri vicini. Santo Motta colle mani in tasca, il faccione gioviale e la barzelletta sempre pronta. Speranza, sua sorella, verde dalla bile, strizzando il seno vizzo in bocca al lattante, sputando veleno contro i Trao: – Signori miei… guardate un po’!… Ci abbiamo i magazzini qui accanto! – E se la prendeva anche con suo marito Burgio, ch’era lí in maniche di camicia: – Voi non dite nulla! State lí come un allocco. Cosa siete venuto a fare dunque? Mastro-don Gesualdo si slanciò il primo urlando su per la scala. Gli altri dietro come tanti leoni per gli stanzoni scuri e vuoti. A ogni passo un esercito di topi che spaventavano la gente. – Badate! badate! Ora sta per rovinare il solaio! – Nanni l’Orbo che ce l’aveva sempre con quello della finestra, vociando ogni volta: – Eccolo! eccolo! – E nella biblioteca, la quale cascava a pezzi, fu a un pelo d’ammazzare il sagrestano col pistolone di Pelagatti. Si udiva sempre nel buio la voce chioccia di don Ferdinando il quale chiamava: – Bianca! Bianca! – E don Diego che bussava e tempestava dietro un uscio, fermando pel vestito ognuno che passava, strillando anche lui: – Bianca! mia sorella!… – Che scherzate? – rispose mastro-don Gesualdo rosso come un pomodoro, liberandosi con una strappata. Ci ho la mia casa accanto, capite? Se ne va in fiamme tutto il quartiere! Era un correre a precipizio nel palazzo smantellato; donne che portavano acqua; ragazzi che si rincorrevano schiamazzando in mezzo a quella confusione, come fosse una festa; curiosi che girandolavano a bocca aperta, strappando i brandelli di stoffa che pendevano ancora dalle pareti, toccando gli intagli degli stipiti, vociando per udir l’eco degli stanzoni vuoti, levando il naso in aria ad osservare le dorature degli stucchi, e i ritratti di famiglia: tutti quei Trao affumicati che sembravano sgranare gli occhi al vedere tanta marmaglia in casa loro. Un va e vieni che faceva ballare il pavimento. – Ecco! ecco! Or ora rovina il tetto! – sghignazzava Santo Motta, sgambettando in mezzo all’acqua: delle pozze d’acqua ad ogni passo, fra i mattoni smossi o mancanti. Don Diego e don Ferdinando, spinti, sbalorditi, travolti in mezzo alla folla che rovistava in ogni cantuccio la miseria della loro casa, continuando a strillare: – Bianca!… Mia sorella!… – Avete il fuoco in casa, capite? – gridò loro nell’orecchio Santo Motta. – Sarà una bella luminaria con tutta questa roba vecchia! – Per di qua, per di qua! – si udí una voce dal vicoletto. – Il fuoco è lassú, in cucina… Mastro Nunzio, il padre di Gesualdo, arrampicatosi su di una scala a piuoli, faceva dei gesti in aria, dal tetto della sua casa, lí dirimpetto. Giacalone aveva attaccata una carrucola alla ringhiera del balcone per attinger acqua dalla cisterna dei Motta. Mastro Cosimo, il legnaiuolo, salito sulla gronda, dava furiosi colpi di scure sull’abbaino. – No! no! – gridarono di sotto. – Se date aria al fuoco, in un momento se ne va tutto il palazzo! Don Diego allora si picchiò un colpo in fronte, balbettando: – Le carte di famiglia! Le carte della lite! – E don Ferdinando scappò via correndo, colle mani nei capelli, vociando anche lui.

. una torre di Babele: perché ognuno dice la sua, come nella confusione delle lingue della biblica torre di Babele. . Santo … Speranza: rispettivamente fratello e sorella di mastro-don Gesualdo. . allocco: «sciocco» (propriamente l’allocco è un rapace notturno, simile al gufo).

. quello della finestra: l’uomo che aveva visto alla finestra di Bianca. . con una strappata: con un gesto rapido e brusco. . marmaglia: il termine spregiativo esprime il punto di vista dei Trao. . luminaria: falò. . carte della lite: relative a certe antiche rivendica-

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Dalle finestre, dal balcone, come spirava il vento, entravano a ondate vortici di fumo denso, che facevano tossire don Diego, mentre continuava a chiamare dietro l’uscio: – Bianca! Bianca! il fuoco!… Mastro-don Gesualdo il quale si era slanciato furibondo su per la scaletta della cucina, tornò indietro accecato dal fumo, pallido come un morto, cogli occhi fuori dell’orbita, mezzo soffocato: – Santo e santissimo!… Non si può da questa parte!… Sono rovinato! Gli altri vociavano tutti in una volta, ciascuno dicendo la sua; una baraonda da sbalordire: – Buttate giú le tegole! – Appoggiate la scala al fumaiuolo! – Mastro Nunzio, in piedi sul tetto della sua casa, si dimenava al pari di un ossesso. Don Luca, il sagrestano, era corso davvero ad attaccarsi alle campane. La gente in piazza, fitta come le mosche. Dal corridoio riuscí a farsi udire comare Speranza, che era rauca dal gridare, strappando i vestiti di dosso alla gente per farsi largo, colle unghie sfoderate come una gatta e la schiuma alla bocca: – Dalla scala ch’è laggiú, in fondo al corridoio! – Tutti corsero da quella parte, lasciando don Diego che seguitava a chiamare dietro l’uscio della sorella: – Bianca! Bianca!… – Udivasi un tramestío dietro quell’uscio; un correre all’impazzata, quasi di gente che ha persa la testa. Poi il rumore di una seggiola rovesciata. Nanni l’Orbo, tornò a gridare in fondo al corridoio: – Eccolo! eccolo! – E si udí lo scoppio del pistolone di Pelagatti, come una cannonata. – La Giustizia! Ecco qua gli sbirri! – vociò dal cortile Santo Motta. Allora si apri l’uscio all’improvviso, e apparve donna Bianca, discinta, pallida come una morta, annaspando colle mani convulse, senza profferire parola, fissando sul fratello gli occhi pazzi di terrore e d’angoscia. Ad un tratto si piegò sulle ginocchia, aggrappandosi allo stipite, balbettando: – Ammazzatemi, don Diego!… Ammazzatemi pure!… ma non lasciate entrare nessuno qui!… Quello che accadde poi, dietro quell’uscio che don Diego aveva chiuso di nuovo spingendo nella cameretta la sorella, nessuno lo seppe mai. Si udí soltanto la voce di lui, una voce d’angoscia disperata, che balbettava: – Voi?… Voi qui?… Accorrevano il signor Capitano, l’Avvocato fiscale, tutta la Giustizia. Don Liccio Papa, il caposbirro, gridando da lontano, brandendo la sciaboletta sguainata: – Aspetta! aspetta! Ferma! ferma! – E il signor Capitano dietro di lui, trafelato come don Liccio, cacciando avanti il bastone: – Largo! largo! Date passo alla Giustizia! – L’Avvocato fiscale ordinò di buttare a terra l’uscio. – Don Diego! Donna Bianca! Aprite! Cosa vi è successo? S’affacciò don Diego, invecchiato di dieci anni in un minuto, allibito, stralunato, con una visione spaventosa in fondo alle pupille grige, con un sudore freddo sulla fronte, la voce strozzata da un dolore immenso: – Nulla!… Mia sorella!… Lo spavento!… Non entrate nessuno!… Pelagatti inferocito contro Nanni l’Orbo: – Bel lavoro mi faceva fare!… Un altro po’ ammazzavo compare Santo!… – Il Capitano gli fece lui pure una bella lavata di capo: – Con le armi da fuoco!… Che scherzate?… Siete una bestia! – Signor Capitano, credevo che fosse il ladro, laggiú al buio… L’ho visto con questi occhi! – Zitto! zitto, ubbriacone! – gli diede sulla voce l’Avvocato fiscale. – Piuttosto andiamo a vedere il fuoco. zioni della famiglia Trao nei confronti della corona di Spagna (già dominatrice in Sicilia), con cui i due fratelli pensavano di poter ricavare ricchezze. . fumaiuolo: la parte sporgente del camino. . tramestío: movimento disordinato (di persone, o cose): nella stanza Bianca è con don Niní Rubiera, a cui si rivolgerà la successiva battuta di don Diego: Voi?…Voi qui?… . il signor … caposbirro: è l’insieme dei rappresentanti della Giustizia (citati ora in dettaglio). Il

Capitano, sorta di commissario della polizia locale; l’Avvocato fiscale, con competenza specifica sui problemi relativi al regio erario; e infine, il comandante delle guardie (caposbirro), Don Liccio Papa, che con il nome in forma dialettale (Don Licciu Papa), era stato protagonista di una delle Novelle rusticane (a testimonianza della funzione di snodo, fra le prime due fasi del ciclo de I vinti, che occupa quella raccolta).

T. GIOVANNI VERGA E IL VERISMO. GIOVANNI VERGA. MASTRO-DON GESUALDO

– Adesso dal corridoio, dalla scala dell’orto, tutti portavano acqua. Compare Cosimo era salito sul tetto, e dava con la scure sui travicelli. Da ogni parte facevano piovere sul soffitto che fumava, tegole, sassi, cocci di stoviglie. Burgio, sulla scala a piuoli, sparandovi schioppettate sopra, e dall’altro lato Pelagatti, appostato accanto al fumaiuolo, caricava e scaricava il pistolone senza misericordia. Don Luca che suonava a tutto andare le campane; la folla dalla piazza vociando e gesticolando; tutti i vicini alla finestra. I Margarone stavano a vedere dalla terrazza al di sopra dei tetti, dirimpetto, le figliuole ancora coi riccioli incartati, don Filippo che dava consigli da lontano, dirigendo le operazioni di quelli che lavoravano a spegnere l’incendio colla canna d’India. Don Ferdinando, il quale tornava in quel momento carico di scartafacci, batté il naso nel corridoio buio contro Giacalone che andava correndo. – Scusate, don Ferdinando. Vado a chiamare il medico per la sorella di vossignoria. – Il dottor Tavuso! – gli gridò dietro la zia Macrí, una parente povera come loro, ch’era accorsa per la prima. – Qui vicino, alla farmacia di Bomma. Bianca era stata presa dalle convulsioni: un attacco terribile; non bastavano in quattro a trattenerla sul lettuccio. Don Diego sconvolto anche lui, pallido come un cadavere, colle mani scarne e tremanti, cercava di ricacciare indietro tutta quella gente. – No!… non è nulla!… Lasciatela sola!… – Il Capitano si mise infine a far piovere legnate a diritta e a manca, come veniva, sui vicini che s’affollavano all’uscio curiosi. – Che guardate? Che volete? Via di qua! fannulloni! vagabondi! Voi, don Liccio Papa, mettetevi a guardia del portone. Venne piú tardi un momento il barone Mendola, per convenienza, e donna Sarina Cirmena che ficcava il naso da per tutto; il canonico Lupi da parte della baronessa Rubiera. La zia Sganci e gli altri parenti mandarono il servitore a prender notizie della nipote. Don Diego, reggendosi appena sulle gambe, sporgeva il capo dall’uscio, e rispondeva a ciascheduno: – Sta un po’ meglio… È piú calma!… Vuol esser lasciata sola… – Eh! eh! – mormorò il canonico scuotendo il capo e guardando in giro le pareti squallide della sala: – Mi rammento qui!… Dove è andata la ricchezza di casa Trao?… Il barone scosse il capo anche lui, lisciandosi il mento ispido di barba dura colla mano pelosa. La zia Cirmena scappò a dire: – Sono pazzi! Pazzi da legare tutti e due! Don Ferdinando già è stato sempre uno stupido… e don Diego… vi rammentate? Quando la cugina Sganci gli aveva procurato quell’impiego nei mulini?… Nossignore!… un Trao non poteva vivere di salario!… Di limosina sí, possono vivere!… – Oh! oh! – interruppe il canonico, colla malizia che gli rideva negli occhietti di topo, ma stringendo le labbra sottili. – Sissignore!… Come volete chiamarla? Tutti i parenti si danno la voce per quello che devono mandare a Pasqua e a Natale… Vino, olio, formaggio… anche del grano… La ragazza già è tutta vestita dei regali della zia Rubiera. – Eh! eh!… – Il canonico, con un sorrisetto incredulo, andava stuzzicando ora donna Sarina ed ora il barone, il quale chinava il capo, seguitava a grattarsi il mento discretamente, fingeva di guardare anch’esso di qua e di là, come a dire: – Eh! eh! pare anche a me!… Giunse in quel mentre il dottor Tavuso in fretta, col cappello in capo, senza salutar nessuno, ed entrò nella camera dell’inferma. Poco dopo tornò ad uscire, stringendosi nelle spalle, gonfiando le gote, accompagnato da don Ferdinando allampanato che pareva un cucco. La zia Macrí e il canonico Lupi cor-

. incartati: coperti e avvolti in modo tale da non perdere la piega. . colla canna d’India: con il bastone di bambú, da personaggio fatuo quale è questo don Filippo Margarone.

. scartafacci: le carte della lite di cui alla nota . . un cucco: «un cuculo» (per indicare uno buffo e allampanato, con significato simile al precedente come un allocco, secondo il detto siciliano «stari comu un cuccu»).

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sero dietro al medico. La zia Cirmena che voleva sapere ogni cosa e vi piantava in faccia quei suoi occhialoni rotondi peggio dell’Avvocato fiscale. – Eh? Cos’è stato?… Lo sapete voi? Adesso si chiamano nervi… malattia di moda… Vi mandano a chiamare per un nulla… quasi potessero pagare le visite del medico! – rispose Tavuso burbero. Quindi, piantando anche lui gli occhiali in faccia a donna Sarina: – Volete che ve la dica? Le ragazze a certa età bisogna maritarle! E voltò le spalle soffiando gravemente, tossendo, spurgandosi. I parenti si guardarono in faccia. Il canonico, per discrezione, prese a tenere a bada il barone Mendola, dandogli chiacchiera e tabacco, sputacchiando di qua e di là, onde cercare di sbirciar quello che succedeva dietro l’uscio socchiuso di donna Bianca, stringendo le labbra riarse come inghiottisse ogni momento: – Si capisce!… La paura avuta!… Le avevano fatto credere d’avere i ladri in casa!… povera donna Bianca!… È cosí giovine!… cosí delicata!… – Sentite, cugina! – disse donna Sarina tirando in disparte la Macrí. Don Ferdinando sciocco, voleva accostarsi per udire lui pure: – Un momento! Che maniera! – lo sgridò la zia Cirmena. – Ho da dire una parola a vostra zia!… Piuttosto andate a pigliare un bicchiere d’acqua per Bianca, che le farà bene… Tornò a scendere Santo Motta di lassú, fregandosi le mani, coll’aria sorridente: – È tutta rovinata la cucina! Non c’è piú dove cuocere un uovo!… Bisognerà fabbricarla di nuovo! – Come nessuno gli dava retta, fissava in volto or questo ed ora quello col suo sorriso sciocco. Il canonico Lupi, per levarselo dai piedi, gli disse infine: – Va bene, va bene. Poi ci si penserà… Il barone Mèndola, appena Santo Motta volse le spalle, si sfogò infine: – Ci si penserà?… Se ci saranno i denari per pensarci! Io gliel’ho sempre detto… Vendete metà di casa, cugini cari… anche una o due camere… tanto da tirare innanzi!… Ma nossignore!… Vendere la casa dei Trao?… Piuttosto, ogni stanza che rovina chiudono l’uscio e si riducono in quelle che restano in piedi… Cosí faranno per la cucina… Faranno cuocere le uova qui in sala, quando le avranno… Vendere una o due camere?… Nossignore… non si può, anche volendo… La camera dell’archivio? e ci son le carte di famiglia!… Quella della processione? e non ci sarà poi dove affacciarsi quando passa il Corpus Domini ! Quella del cucú?… Ci hanno anche la camera pel cucú, capite! E il barone, con quella sfuriata, li piantò tutti lí, che si sganasciavano dalle risa. Donna Sarina, prima d’andarsene, picchiò di nuovo all’uscio della nipote, per sapere come stava. Fece capolino don Diego, sempre con quella faccia di cartapesta, e ripeté: – Meglio… È piú calma!… Vuol essere lasciata sola… – Povero Diego! – sospirò la zia Macrí. – La Cirmena fece ancora alcuni passi nell’anticamera, perché non udisse don Ferdinando il quale veniva a chiuder l’uscio, e soggiunse sottovoce: – Lo sapevo da un pezzo… Vi rammentate la sera dell’Immacolata, che cadde tanta neve?… Vidi passare il baronello Rubiera dal vicoletto qui a due passi… intabarrato come un ladro… Il canonico Lupi attraversò il cortile, rialzando la sottana sugli stivaloni grossi in mezzo alle erbacce; si voltò indietro verso la casa smantellata, per veder se potessero udirlo, e poi, dinanzi al portone, guardando inquieto di qua e di là, conchiuse: – Avete udito il dottore Tavuso? Possiamo parlare perché siamo tutti amici intimi e parenti… A certa età le ragazze bisogna maritarle!

. dandogli … tabacco: «offrendogli discorsi e tabacco» (espressione evidentemente ironica). . il Corpus Domini: la processione che attraversava le strade del paese il giorno del Corpus Domini (secondo giovedí dopo Pentecoste, cioè sessan-

ta giorni dopo Pasqua). . Quella del cucú: la stanza dell’orologio a cucú, oggetto al quale i Trao tengono come segno di distinzione. . l’Immacolata: l’ dicembre.

T. GIOVANNI VERGA E IL VERISMO. GIOVANNI VERGA. MASTRO-DON GESUALDO

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La morte di Gesualdo nelle due redazioni (: IV, V; : XVI)

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iportiamo qui la parte finale dell’ultimo capitolo del Mastro-don Gesualdo, confrontando le due diverse redazioni del 1888 e del 1889, che danno due rappresentazioni molto diverse della fine dell’eroe. Molto piú ampio e disteso l’ultimo capitolo della redazione finale, che porta Gesualdo alla morte per gradi, a partire dal suo arrivo a Palermo in casa della figlia Isabella, duchessa di Leyra: dal disagio del vivere nel palazzo nobiliare, al suo ritirarsi nel quartierino dove viene alloggiato, alle visite mattutine della figlia, al suo sentirsi «consumato lentamente dalla febbre», alle visite dei medici, al suo leggere in fondo agli occhi di Isabella «un altro segreto, un’altra ansietà mortale», al rifiuto di firmare una carta di procura per l’amministrazione dei suoi beni, al consulto dei medici, dopo il quale chiede invano un notaio per far testamento. All’incirca a questo punto ha inizio il brano della redazione finale qui riportato, con l’ultimo colloquio con Isabella, la volontà di confidenza e di comunicazione, in cui il ruvido personaggio si scioglie nella passione per la sua roba, nella richiesta accorata di conservarla gelosamente: ma il tutto frustrato dalla distanza e dall’estraneità della donna, che lascia in sospeso anche la sua richiesta di lasciare qualche legato a coloro per cui ha degli obblighi. E qui affiora il richiamo a quei sospetti odiosi sulla vera paternità di Isabella (è l’unica volta nel testo che tale sospetto viene evocato da Gesualdo) e l’immagine della «ruga ostinata dei Trao fra le ciglia» di lei, del suo essere Trao, «diffidente, ostile, di un’altra pasta». La tremenda rinuncia all’abbraccio della figlia («Allentò le braccia, e non aggiunse altro») segna il definitivo ingresso del personaggio nella solitudine della morte: e in questa redazione finale la morte viene raccontata dal punto di vista del servitore che assiste il malato, e giunge nella rabbiosa indifferenza di quello, che ode il suo smaniare prima dell’alba, ignora la sua richiesta di chiamare la figlia, si addormenta e viene svegliato dai suoi rumori di moribondo. Quando si alza, il servitore illumina il volto del morente con un paralume; e nella morte, cosí osservata e descritta attraverso quello sguardo ostile, sono in primo piano gli occhi di Gesualdo morente (su cui piú volte Verga aveva insistito nel corso del capitolo). Ma mentre comincia a sorgere il giorno, il servitore, di fronte al morto, svolge indifferentemente i suoi movimenti consueti, affacciandosi alla finestra e fumando: e mentre i vari domestici del palazzo signorile riprendono le loro attività, la notizia dell’evento riecheggia prima di tutto nella loro chiacchiera maligna, che sottolinea il contrasto tra l’origine di Gesualdo e il luogo in cui è morto, la sua assoluta estraneità al luogo in cui si è data la sua fine: «– Si vede com’era nato… – osservò gravemente il cocchiere maggiore. – Guardate che mani! | – Già, son le mani che hanno fatto la pappa!… Vedete cos’è nascer fortunati… Intanto vi muore nella battista come un principe!…». La sconfitta dell’eroe, la sua finale condizione di vinto, è resa piú lacerante e disperata proprio dalla volgarità del risentimento servile verso l’uomo fatto da sé, verso chi ha vanamente tentato di uscire dalla sua condizione sociale. E per colmo di crudeltà, la necessità di seguire l’uso di tener chiuso il portone per il defunto viene giustificata dal fatto che si tratta di roba di famiglia (proprio lui, l’eroe della roba, ridotto a roba!). Solo dopo queste varie chiacchiere, il servitore si fa scrupolo di avvertire non direttamente la duchessa, ma la sua cameriera. Il testo che riportiamo della redazione del 1888 (parte finale del capitolo XVI) segue la descrizione della vita di Gesualdo nel palazzo della figlia (che conteneva tra l’altro accenni piú espliciti ai turbamenti di Isabella, facendo balenare la presenza di un amante «alto e biondo, che veniva spesso in un carrozzino elegante»), che si chiudeva con le urla del malato di fronte alla folla ammutinata che percorre le strade accanto al palazzo: si presentano rapidamente alcune situazioni che sono narrate in modo piú diffuso nella parte del capitolo della seconda redazione che non abbiamo riportato (i medici a consulto, la notazione dell’altro segreto, dell’altra ansietà morale di Isabella, la visita dell’amministratore del genero, il rifiuto e poi la richiesta di richiamarlo ecc.). Qui il duca è in piú diretto contatto con il moribondo, mentre manca la scena angosciosa dell’ultimo colloquio con Isabella. Peraltro si tratta di un finale «sospeso», senza una vera e propria narrazione della morte del protagonista: il peggioramento del malato chiama al suo capezzale il duca e la stessa Isabella, turbata piú che altro dal suo senso di colpa verso il marito. Ma sullo sfondo

Ultimo capitolo della redazione finale

Ultimo colloquio con Isabella La volontà di comunicazione frustrata dall’estraneità della donna

La solitudine nella morte

L’eroe vinto e la volgarità del risentimento dei servi

Redazione del 1888

Un finale sospeso senza la narrazione della morte

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c’è il fragore della rivolta, con un dato del tutto eliminato dalla redazione finale: qui siamo a Palermo nel 1860, quando sta per entrarvi Garibaldi, e si sentono le grida di una folla ammutinata; Gesualdo morente grida difendendo la sua roba, temendo che quella folla gliela voglia portare via. In questa prima redazione il romanzo si chiudeva cosí con uno schema molto simile a quello della novella La roba; mentre nella redazione finale il modello de La roba viene ripreso in termini ancora piú espliciti verso la fine del capitolo IV della Parte quarta, quando Gesualdo malato dà l’addio alla sua campagna e alla sua roba per trasferirsi a Palermo in casa della figlia. E in ogni modo, il finale definitivo allontana dalla figura di Gesualdo ogni elemento di deformazione e di follia (presente invece in quel grido sullo sfondo della città in tumulto) e sottolinea in termini piú crudelmente tragici la sua solitudine e la sua sconfitta, la sua condizione di vinto.

IV, V () Finalmente si persuase ch’era giunta l’ora, e s’apparecchiò a morire da buon cristiano. Isabella era venuta subito a tenergli compagnia. Egli fece forza coi gomiti, e si rizzò a sedere sul letto. – Senti, – le disse, – ascolta… Era turbato in viso, ma parlava calmo. Teneva gli occhi fissi sulla figliuola, e accennava col capo. Essa gli prese la mano e scoppiò a singhiozzare. – Taci, – riprese, – finiscila. Se cominciamo cosí non si fa nulla. Ansimava perché aveva il fiato corto, ed anche per l’emozione. Guardava intorno, sospettoso, e seguitava ad accennare del capo, in silenzio, col respiro affannato. Ella pure volse verso l’uscio gli occhi pieni di lagrime. Don Gesualdo alzò la mano scarna, e trinciò una croce in aria, per significare ch’era finita, e perdonava a tutti, prima d’andarsene. – Senti… Ho da parlarti… intanto che siamo soli… Ella gli si buttò addosso, disperata, piangendo, singhiozzando di no, di no, colle mani erranti che l’accarezzavano. L’accarezzò anche lui sui capelli, lentamente, senza dire una parola. Di lí a un po’ riprese: – Ti dico di sí. Non sono un ragazzo… Non perdiamo tempo inutilmente –. Poi gli venne una tenerezza. – Ti dispiace, eh?… ti dispiace a te pure?… La voce gli si era intenerita anch’essa, gli occhi, tristi, s’erano fatti piú dolci, e qualcosa gli tremava sulle labbra. – Ti ho voluto bene… anch’io… quanto ho potuto… come ho potuto… Quando uno fa quello che può… Allora l’attirò a sé lentamente, quasi esitando, guardandola fissa per vedere se voleva lei pure, e l’abbracciò stretta stretta, posando la guancia ispida su quei bei capelli fini. – Non ti fo male, di’?… come quand’eri bambina?… Gli vennero insieme delle altre cose sulle labbra, delle ondate di amarezza e di passione, quei sospetti odiosi che dei bricconi, nelle questioni d’interessi, avevano cercato di mettergli in capo. Si passò la mano sulla fronte, per ricacciarli indietro, e cambiò discorso. – Parliamo dei nostri affari. Non ci perdiamo in chiacchiere, adesso… Essa non voleva, smaniava per la stanza, si cacciava le mani nei capelli, diceva che gli lacerava il cuore, che gli pareva un malaugurio, quasi suo padre stesse per chiudere gli occhi. – Ma no, parliamone! – insisteva lui. – Sono discorsi serii. Non ho tempo da perdere adesso –. Il viso gli si andava oscurando, il rancore antico gli corruscava negli occhi. – Allora vuol dire che non te ne importa nulla… come a tuo marito… Vedendola poi rassegnata ad ascoltare, seduta a capo chino accanto al letto, cominciò a sfogarsi dei tanti crepacuori che gli avevano dati, lei e suo marito, con tutti quei debiti… Le . trinciò: «tracciò», ma il verbo dà un effetto di violenza, come se Gesualdo tagliasse l’aria con la sua mano. . quei sospetti … in capo: è l’unico accenno che

nel romanzo si fa a voci maligne sulla reale paternità di Isabella (il cui padre naturale è il barone Rubiera) giunte a Gesualdo, in rapporto a questioni patrimoniali, e da lui evidentemente respinte.

T. GIOVANNI VERGA E IL VERISMO. GIOVANNI VERGA. MASTRO-DON GESUALDO

raccomandava la sua roba, di proteggerla, di difenderla: – Piuttosto farti tagliare la mano, vedi!… quando tuo marito torna a proporti di firmare delle carte!… Lui non sa cosa vuol dire! – Spiegava quel che gli erano costati, quei poderi, l’Alía, la Canziria, li passava tutti in rassegna amorosamente; rammentava come erano venuti a lui, uno dopo l’altro, a poco a poco, le terre seminative, i pascoli, le vigne; li descriveva minutamente, zolla per zolla, colle qualità buone o cattive. Gli tremava la voce, gli tremavano le mani, gli si accendeva tuttora il sangue in viso, gli spuntavano le lagrime agli occhi: – Mangalavite, sai… la conosci anche tu… ci sei stata con tua madre… Quaranta salme di terreni, tutti alberati!… ti rammenti… i belli aranci?… anche tua madre, poveretta, ci si rinfrescava la bocca, negli ultimi giorni!…  migliaia l’anno, ne davano! Circa  onze! E la Salonia… dei seminati d’oro… della terra che fa miracoli… benedetto sia tuo nonno che vi lasciò le ossa!… Infine, per la tenerezza, si mise a piangere come un bambino. – Basta, – disse poi. – Ho da dirti un’altra cosa… Senti… La guardò fissamente negli occhi pieni di lagrime per vedere l’effetto che avrebbe fatto la sua volontà. Le fece segno di accostarsi ancora, di chinarsi su lui supino che esitava e cercava le parole. – Senti!… Ho degli scrupoli di coscienza… Vorrei lasciare qualche legato a delle persone verso cui ho degli obblighi… Poca cosa… Non sarà molto per te che sei ricca… Farai conto di essere una regalía che tuo padre ti domanda… in punto di morte… se ho fatto qualcosa anch’io per te… – Ah, babbo, babbo!… che parole! – singhiozzò Isabella. – Lo farai, eh? lo farai?… anche se tuo marito non volesse… Le prese le tempie fra le mani, e le sollevò il viso per leggerle negli occhi se l’avrebbe ubbidito, per farle intendere che gli premeva proprio, e che ci aveva quel segreto in cuore. E mentre la guardava, a quel modo, gli parve di scorgere anche lui quell’altro segreto, quell’altro cruccio nascosto, in fondo agli occhi della figliuola. E voleva dirle delle altre cose, voleva farle altre domande, in quel punto, aprirle il cuore come al confessore, e leggere nel suo. Ma ella chinava il capo, quasi avesse indovinato, colla ruga ostinata dei Trao fra le ciglia, tirandosi indietro, chiudendosi in sé, superba, coi suoi guai e il suo segreto. E lui allora sentí di tornare Motta, com’essa era Trao, diffidente, ostile, di un’altra pasta. Allentò le braccia, e non aggiunse altro. – Ora fammi chiamare un prete, – terminò con un altro tono di voce. – Voglio fare i miei conti con Domeneddio.

. l’Alía, la Canziria: luoghi campestri nella zona di Vizzini (cfr. nota , p.  e nota , p. ), proprietà di Gesualdo, come Mangalavite e la Salonia, nominate piú avanti. . salme: unità di misura per superfici agrarie usata in Sicilia, equivalente a . m; per la salma come unità di capacità, cfr. nota , p. . . legato: lascito. . regalía: regalo. . quell’altro segreto: è il segreto della vita sentimentale di Isabella, a cui si era già accennato solo indirettamente (a differenza di ciò che accadeva nella redazione del ) nella parte precedente del capitolo: «Leggeva in fondo agli occhi di lei un altro segreto, un’altra ansietà mortale, che non la lasciava neppure quand’era vicino a lui, che le dava dei sussulti, allorché udiva un passo all’improvviso, o suonava a ora insolita la campana che annunziava il duca; e dei pallori mortali, certi

sguardi rapidi in cui gli pareva di scorgere un rimprovero. Alcune volte l’aveva vista giungere correndo, pallida, tremante come una foglia, balbettando delle scuse. Una notte, tardi, mentre era in letto coi suoi guai, aveva udito un’agitazione insolita nel piano di sotto, degli usci che sbattevano, la voce della cameriera che strillava, quasi chiamasse aiuto, una voce che lo fece rizzare spaventato sul letto. Ma sua figlia il giorno dopo non gli volle dir nulla…» (cfr. il passo corrispondente della redazione  a p. ). . colla ruga ostinata: in questo dato fisiologico l’estraneità di Isabella e la solitudine di Gesualdo si fissano in un dato ineluttabile, inscritto da sempre nel carattere delle famiglie diverse dei Trao e dei Motta, la ruga «conferma insomma la fatalità naturale dello scacco, e fa dell’incomunicabilità dei sentimenti qualcosa che somiglia a una legge biologica» (Mazzacurati).

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LA NUOVA ITALIA

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Durò ancora qualche altro giorno cosí, fra alternative di meglio e di peggio. Sembrava anzi che cominciasse a riaversi un poco, quando a un tratto, una notte, peggiorò rapidamente. Il servitore che gli avevano messo a dormire nella stanza accanto l’udí agitarsi e smaniare prima dell’alba. Ma siccome era avvezzo a quei capricci, si voltò dall’altra parte, fingendo di non udire. Infine, seccato da quella canzone che non finiva piú, andò sonnacchioso a vedere che c’era. – Mia figlia! – borbottò don Gesualdo con una voce che non sembrava piú la sua. – Chiamatemi mia figlia! – Ah, sissignore. Ora vado a chiamarla, – rispose il domestico, e tornò a coricarsi. Ma non lo lasciava dormire quell’accidente! Un po’ erano sibili, e un po’ faceva peggio di un contrabbasso, nel russare. Appena il domestico chiudeva gli occhi udiva un rumore strano che lo faceva destare di soprassalto, dei guaiti rauchi, come uno che sbuffasse ed ansimasse, una specie di rantolo che dava noia e vi accapponava la pelle. Tanto che infine dovette tornare ad alzarsi, furibondo, masticando delle bestemmie e delle parolacce. – Cos’è? Gli è venuto l’uzzolo adesso? Vuol passar mattana! Che cerca? Don Gesualdo non rispondeva; continuava a sbuffare supino. Il servitore tolse il paralume, per vederlo in faccia. Allora si fregò bene gli occhi, e la voglia di tornare a dormire gli andò via a un tratto. – Ohi! ohi! Che facciamo adesso? – balbettò grattandosi il capo. Stette un momento a guardarlo cosí, col lume in mano, pensando se era meglio aspettare un po’, o scendere subito a svegliare la padrona e mettere la casa sottosopra. Don Gesualdo intanto andavasi calmando, col respiro piú corto, preso da un tremito, facendo solo di tanto in tanto qualche boccaccia, cogli occhi sempre fissi e spalancati. A un tratto s’irrigidí e si chetò del tutto. La finestra cominciava a imbiancare. Suonavano le prime campane. Nella corte udivasi scalpitare dei cavalli, e picchiare di striglie sul selciato. Il domestico andò a vestirsi, e poi tornò a rassettare la camera. Tirò le cortine del letto, spalancò le vetrate, e s’affacciò a prendere una boccata d’aria, fumando. Lo stalliere, che faceva passeggiare un cavallo malato, alzò il capo verso la finestra. – Mattinata, eh, don Leopoldo? – E nottata pure! – rispose il cameriere sbadigliando. – M’è toccato a me questo regalo! L’altro scosse il capo, come a chiedere che c’era di nuovo, e don Leopoldo fece segno che il vecchio se n’era andato, grazie a Dio. – Ah… cosí… alla chetichella?… – osservò il portinaio che strascicava la scopa e le ciabatte per l’androne. Degli altri domestici s’erano affacciati intanto, e vollero andare a vedere. Di lí a un po’ la camera del morto si riempí di gente in manica di camicia e colla pipa in bocca. La guardarobiera vedendo tutti quegli uomini alla finestra dirimpetto venne anche lei a far capolino nella stanza accanto. – Quanto onore, donna Carmelina! Entrate pure; non vi mangiamo mica… E neanche lui… non vi mette piú le mani addosso di sicuro… – Zitto, scomunicato!… No, ho paura, poveretto… Ha cessato di penare. – Ed io pure, – soggiunse don Leopoldo.

. capricci … canzone: dal punto di vista ostile del servitore i lamenti dell’agonizzante diventano dei capricci, il suo affanno una interminabile e fastidiosa canzone (e piú avanti si usano termini come accidente, contrabbasso); ai suoi guaiti e al suo rantolo rispondono bestemmie e parolacce. . uzzolo … passar mattana: due toscanismi, nel senso di «capriccio» e di «fare il bizzarro, mettersi a far lo scalmanato» (la seconda espressione era

stata usata già da Manzoni nel cap. VII de I Promessi Sposi). . a imbiancare: per la luce dell’alba. . striglie: spazzole per strigliare i cavalli. . Mattinata: per dire: «Ti tocca fare servizio di prima mattinata!». . scomunicato!: battuta scherzosa per dire «scostumato, irriverente».

T. GIOVANNI VERGA E IL VERISMO. GIOVANNI VERGA. MASTRO-DON GESUALDO

Cosí, nel crocchio, narrava le noie che gli aveva date quel cristiano – uno che faceva della notte giorno, e non si sapeva come pigliarlo, e non era contento mai. – Pazienza servire quelli che realmente son nati meglio di noi… Basta, dei morti non si parla. – Si vede com’era nato… – osservò gravemente il cocchiere maggiore. – Guardate che mani! Già, son le mani che hanno fatto la pappa!… Vedete cos’è nascer fortunati… Intanto vi muore nella battista come un principe!… – Allora – disse il portinaio, – devo andare a chiudere il portone? – Sicuro, eh! È roba di famiglia. Adesso bisogna avvertire la cameriera della signora duchessa. . mani … la pappa: il solo dato positivo che i servi scorgono nelle mani di Gesualdo è il fatto che esse hanno fatto la ricchezza degli eredi, quella roba che essi si «pappano»; ma si può anche intendere: «le mani da muratore, che hanno fatto gli impasti della calcina». . battista: tessuto di lusso: cotone o lino di trama molto fine. . chiudere il portone: segno di lutto ancora molto diffuso nel Meridione è la chiusura di mezzo

XVI

battente del portone che dà sulla strada pubblica. . Adesso … duchessa: «Si noterà che l’itinerario della notizia segue il placido corso previsto dall’etichetta del palazzo signorile per ogni anche piccolo evento domestico. Anche attraverso questa rituale trafila, la morte diviene un freddo evento di routine, ogni tensione tragica si stempera in commedia, come un noioso incidente» (Mazzacurati): ma cosí risulta piú disperato l’esito della lunga lotta condotta da Gesualdo per farsi strada nel mondo.

()

Il genero era venuto un paio di volte, per accompagnare dei pezzi grossi chiamati a consulto. Parlavano sottovoce fra di loro, voltandogli le spalle, senza curarsi del poveretto che spalancava gli occhi e tendeva l’orecchio inquieto a quelle frasi tronche ed oscure. Indovinava però con un vago senso di terrore, che doveva essere qualche cosa di grave, al viso stesso che facevano i medici, alle alzate di spalle scoraggianti, alle lunghe fermate col genero, e al borbottío che durava un pezzo fra di loro nell’anticamera. – Che vi sembra, vossignoria? Ci vorrà molto a passare? Alcuni davano delle risposte vaghe; altri lo rassicuravano con un sorriso inquietante; c’erano quelli che voltavano le spalle com’egli li avesse offesi. Allora il poveraccio insisteva, si riscaldava, voleva dire le sue ragioni: – È che ho tanto da fare laggiú, al mio paese! Degli interessi seri, capite!… Non posso mica darmi bel tempo io!… Bisogna che pensi a tutto, se no c’è la rovina! – Poi spiegava di dove gli era venuto quel male: – Sono stati i dispiaceri!… Bocconi amari!… Ne ho avuti tanti… Vedete, come un lievito qui dentro… – Infine si confidò con la figliuola: – Cosa hanno detto i medici? Dimmi la verità!… È una malattia grave, di’?… E come le vedeva gonfiare gli occhi di lagrime, malgrado che tentasse di mandarle giú, dava in ismanie. Non voleva morire. Si sentiva un’energia disperata d’alzarsi e andarsene via da quella casa maledetta… – Non dico per te!… Hai fatto di tutto… Non mi manca nulla… Ma io non ci sono avvezzo, vedi!… Mi par di soffocare qui dentro… – Leggeva in fondo agli occhi di lei un altro segreto, un’altra ansietà mortale, che non la lasciava neppure quand’era vicino a lui, che le . dei pezzi … a consulto: i medici autorevoli chiamati a visitare il malato e scambiarsi il parere sulle

sue condizioni.

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LA NUOVA ITALIA

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dava dei sussulti allorché udiva un passo all’improvviso o suonava ad ora insolita la campana che annunziava suo marito, e dei pallori mortali; certi lampi degli occhi in cui gli pareva di scorgere un rimprovero. Senza trovar posa fra le lenzuola finissime, sui guanciali di piume, borbottava: – Povera figliuola!… Anche tu!… Non ci stai bene in questa casa!… Piú tardi erano de’ capricci e delle ripugnanze da bambino; su quel letto soffice aveva paura di voltarsi; tutte quelle tende e quei cortinaggi gli toglievano il respiro; quel tappeto temeva sempre d’insudiciarlo; quel servitore aveva continuamente un sorriso ironico in bocca, e non voleva piú vederlo… Perfino il cuoco… gli preparava certa broda che non poteva mandar giú… che non poteva digerire… – Mi fanno morir di fame, capisci! – Singhiozzando cogli occhi lustri e agitando la mano. – Mandatemi a casa mia… Voglio morire dove sono nato!… L’idea della morte ora non lo lasciava piú, si tradiva nelle domande insidiose, nella preoccupazione affannosa di dissimularla in cento modi, cogli sguardi sospettosi. – Voglio sapere la verità, signor dottore!… Per regolare le mie cose… i miei interessi… – E come il medico lo rassicurava dicendogli che il caso non era cosí grave, sino allora… – Ah!… Non guardate a spesa… Posso pagare… Mio genero lo sa… Tutto quello che occorre… Non saranno denari persi… se campo ne guadagno ancora tanti dei denari… – Cogli occhi lucidi di speranza ripeteva alla figliuola: – Qui cosa mi manca? Ho tutto per guarire… Tutto quello che ci vorrà spenderemo, non è vero? Infine nei momenti di scoraggiamento, quando il male la vinceva e gli toglieva ogni illusione: – A che mi serve?… A che giova tutto ciò?… Neppure per tua madre è giovato!… Un giorno venne a fargli visita l’uomo d’affari di suo genero. Parlava di regolare certi interessi e gli chiedeva delle firme. Allora don Gesualdo si rizzò a sedere sul letto, strillando, chiamando aiuto, sentendo che era vicino l’ultimo giorno. Accorsero i servitori; accorse la sua figliuola, smarrita e tremante come una foglia, e riuscirono a calmarlo. Il duca finse di non saperne nulla, o almeno non gliene parlò mai. – Povera figliuola mia! Povera figliuola mia! – esclamava ogni tanto don Gesualdo. Due o tre volte essa era venuta a chiedergli del denaro, arrossendo, confondendosi, chinando il capo vergognosa. Il povero padre che si sentiva mancare ogni giorno di piú le aveva dato tutto quello che aveva. Parlava anche di scrivere a casa che gliene mandassero dell’altro. Ripeteva sempre, con un’astuzia grossolana e triste di bambino e d’infermo: – Rimandatemi a casa… Tutto quello che vorrete poi… Sembravagli che gli mancassero le forze d’alzarsi dal letto e andarsene via perché gli toglievano il denaro, il sangue delle vene, per tenerlo sottomano prigioniero, il duca, suo genero… Smaniava, sbuffava, urlava di dolore e di collera, per ricadere in un abbattimento mentale. In uno di quegli istanti di scoraggiamento e di abbandono di ogni energia, di ogni desiderio, di ogni volontà, balbettò sfinito: – Chiamatemi quell’uomo dell’altra volta… Tutto quello che volete… Le carte da firmare… Non voglio aver piú nulla. Il duca si strinse nelle spalle. Un terrore piú grande, piú vicino della morte lo colse a quell’atto d’indifferenza. Insisteva, voleva disporre della sua roba, come per attaccarsi alla vita, per far atto d’energia e di volontà, con un senso vago e pauroso dell’altro dramma domestico, che celavasi sotto le maniere fredde e cortesi del genero e i pallori, i tremiti, i sussulti improvvisi della figliuola.

. Leggeva … un rimprovero: è il passo che nella redazione successiva si trova prima del brano che abbiamo riportato (lo si veda nella nota  a p. ). Ma qui, in questa redazione, si faceva precedente-

mente piú ampio riferimento agli amori di Isabella (cfr. la nostra introduzione). . altro dramma domestico: ancora le vicende sentimentali di Isabella.

T. GIOVANNI VERGA E IL VERISMO. GIOVANNI VERGA. MASTRO-DON GESUALDO

Un giorno Isabella tardava a rincasare. Il medico, venuto all’ora solita, trovò un peggioramento rapidissimo nel malato, dopo qualche giorno di calma relativa, e ordinò il viatico. Il duca accorse in fretta dal Casino, e non si mosse piú dalla stanza del moribondo. Con la sera era venuta una pioggierella che scrosciava a grado a grado sulle invetriate. Passava per la strada un sussurro di folla ammutinata, e dei bagliori d’incendio attraverso il portone spalancato. Il Duca passeggiava nell’anticamera e andava ogni momento a sollevare la tendina della finestra che dava nel cortile. Tutt’a un tratto si udí un legno che fermavasi dinanzi allo scalone. – Avvertite la duchessa di salire qui subito! – ordinò il Duca. Essa arrivò, ansante, stralunata, col velo imperlato dal suo anelito dinanzi al viso, degli schizzi di fango sul mantello foderato di pelliccia. La prima sua occhiata, in quel gran sbalordimento, in quel batticuore, in quel tumulto, fu pel marito che l’attendeva senza dire una parola. Di là dell’uscio, udivasi una voce che non riconobbe alla prima, che le fece drizzare i capelli sul capo, che barbottava ansando, smaniando: – Sentite quegli urli?… Vogliono la mia roba!… Tutti quanti!… colle unghie!… coi denti!… Qui! Qui dentro!… Lasciatemi stare!… Tutto! Pigliatevi tutto!… Lasciatemi stare!… L’Alía!… La Canziria!… Lasciatemi stare!…

. Casino: il casino dei nobili, una sorta di club dove si riunivano gli esponenti della nobiltà. . Passava … spalancato: sono i moti che ebbero luogo a Palermo alla fine di maggio , in attesa dell’arrivo di Garibaldi. . un legno: la carrozza, con cui Isabella si è probabilmente recata a un incontro con l’amante.

. col velo … al viso: sul velo trasparente con cui, come usavano le signore nell’abbigliamento per uscire fuori di casa, Isabella copre il suo viso, ci sono tracce di umidità lasciate dal suo respiro affannoso, piú per l’ansietà per il tumulto e per il tacito rimprovero del marito che per la fine del padre.

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LA NUOVA ITALIA

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Federico De Roberto Il rosario (da Processi verbali)

La scrittura teatrale come l’ideale di una rappresentazione oggettiva

Un mondo familiare crudele e grottesco

Un mondo chiuso, egoista e ipocrita

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pparso nel 1890 nella raccolta Processi verbali, questo racconto costituisce un vero e proprio quadro scenico, dove tutti i movimenti narrativi si danno nel dialogo, rispondendo cosí al canone dell’impersonalità affermato dall’autore nella stessa prefazione alla raccolta: «L’impersonalità assoluta, non può conseguirsi che nel puro dialogo, e l’ideale della rappresentazione obiettiva, consiste nella scena come si scrive pel teatro». E proprio tenendo conto di questa dimensione scenica, De Roberto ricavò dalla novella un atto unico dallo stesso titolo, pubblicato sulla «Nuova Antologia» nell’aprile del 1899, rielaborato e rappresentato molto piú tardi (29 novembre 1912) al Teatro Manzoni di Milano, insieme alla commedia Il cane della favola. Il testo teatrale tende a deformare piú in profondità i contorni della scena, lo stesso modo d’essere dei personaggi, permettendo di inserire l’opera «nella temperie del primo espressionismo degli anni Novanta» (Tedesco): rispetto a esso piú concentrato è il ritmo dialogico della novella, il rapido squarcio che essa apre su di un mondo familiare crudele e grottesco, dove una vecchia madre autoritaria, donn’Antonia Sommatino, vive chiusa nella sua stanza, venerata e assistita da tre figlie zitelle, piegate totalmente alla sua volontà, mentre non vuole nemmeno sentire parlare di un’altra figlia che ha sposato un uomo «che non era del suo stato» e che è caduta in miseria. La notizia dell’agonia e della morte del cognato turba parzialmente le tre sorelle, che non osano nemmeno comunicarla alla madre e aspettano l’ora del rosario, l’unico spazio concesso dalla megera al dialogo con loro. Il rosario è per sua natura una sorta di dialogo recitato, dato che è fatto di un ripetersi di parti di preghiere, distribuite tra una voce guida e le voci corali degli altri recitanti: e nella devozione allora molto diffusa della recita del rosario era frequente l’inserzione di commenti e di riferimenti alla vita quotidiana tra le pause delle diverse preghiere. Sfruttando questa consuetudine, donn’Antonia dialoga con le figlie parlando di fatti piú o meno insignificanti: e le figlie riescono a inserire nel dialogo la notizia della morte del cognato solo quando si sente il suono della campana a morto e la madre chiede chi sia morto; ma ogni tentativo di suscitare la sua pietà e un eventuale aiuto per la sorella viene rintuzzato dalla vecchia, che, negando la stessa esistenza della figlia, continua imperterrita nella recita del rosario. Senza nessun commento, senza nessun intervento personale, affidandosi totalmente a un dialogo velocissimo, fatto di battute brevi, di pause, di esitazioni, di vuoti improvvisi, De Roberto ci dà cosí l’immagine di un mondo chiuso e asfissiante, dominato da un cieco egoismo e da una ottusa ipocrisia, per cui questa recita del rosario acquista l’aspetto di una sinistra mascherata. [EDIZIONE: Federico De Roberto, Il Rosario, a cura di D. Perrone, Pungitopo, Marina di Patti 1989]

Un leggiero colpo di martello all’uscio del giardino: tanto leggiero, da non poter essere udito se non dalle donne che stavano ad aspettare lí dietro. «Chi è?» «Io, Angela…» Aprirono. «Che notizie?» chiesero tutte, a bassa voce. La comare Angela, trafelata, con la fronte in sudore sotto il fazzoletto rosso, rispose, piano: «Niente!… È morto!… Potete far conto che gli recitino il de Profundis… A stasera non ci arriva!…» . martello: il battente metallico posto sul portone, per bussare.

. de Profundis: salmo penitenziale che si recita per i defunti (Salmi, ).

T. GIOVANNI VERGA E IL VERISMO. FEDERICO DE ROBERTO

Le sorelle Sommatino fecero tutt’e tre lo stesso gesto di stupore doloroso, guardando il cielo dell’alba. «Ma che non ci ha da essere un rimedio?» «Se vi dico che puzza già di cadavere!» Restavano un poco in silenzio, le une in giardino, l’altra nella via; l’uscio era aperto a metà e Caterina, la maggiore delle vecchie zitelle, ci teneva sopra una mano, per poterlo subito richiudere, come in tempo di peste. «Adesso, che cosa volete fare?» riprese la donna. Le sorelle si guardarono, tutte imbarazzate, senza rispondere. «Quella creatura non potete lasciarla cosí! È vostra sorella, finalmente. Può restar sola, stanotte, col morto dentro?» Agatina Sommatino alzò di nuovo gli occhi al cielo, e le altre fecero come lei. «Noi non possiamo nulla, senza mammà!…» «E perché non glie lo dite, a vostra madre? È sua figlia, sí o no? Non sarà mai piú perdonata, fin che campa?… Io vorrei veder voi, se sapeste che alla vostra figliuola muore il marito, e che resta sola come Maria Addolorata!…» La comare Angela alzava un poco la voce, dall’indignazione; allora le tre zitellone cominciarono a fare: «Sst!… sst!…» Filippina guardava inquieta verso la casa, in fondo agli alberi; Agatina faceva segno alla donna di andarsene, ma Caterina la tratteneva: «Aspettate! tornate a portar notizie… ma venite al cancello, è piú sicuro… Vedremo che cosa si potrà fare…» Come la comare Angela se ne fu andata via, stringendosi il fazzoletto in capo, Caterina, Agatina e Filippina restarono dietro all’uscio, senza dir nulla. La maggiore, strettesi le mani con una rassegnazione angosciata, osservò: «Qui, intanto, non possiamo rimanere tutte e tre… Faremo a turno. Voialtre per ora andate; aspetterò io…» «No, resto io: tu ripòsati…» «Io, piuttosto…» Piene di emulazione, si contendevano adesso il sacrifizio di restare in sentinella dietro al cancello; ma la maggiore, con un tono autoritario, insisté: «Andate, v’ho detto… se mammà sente che non siamo in casa, sapete!…» Alla minaccia, le altre rientrarono, in silenzio, e si misero a rassettar la casa, sbattendo usci, rimovendo seggiole, schiudendo imposte, perché la madre, chiusa in fondo alle stanze, non entrasse in sospetto. Erano in cucina, a prendere consiglio dalla donna di servizio, quando Caterina rientrò, turbata. A voce bassa, in un angolo, come se anche le casseruole potessero sentire, disse: «Peggio… sta peggio!… Dice che entra in agonia…» Sospirando, si diedero il cambio al cancello, e la comare Angela, venendo e tornando dalla casa dell’agonizzante, poteva credere di trovar sempre la stessa persona, tanto le tre zitellone, l’età delle quali era compresa tra i quarantanove e i cinquantacinque anni, si rassomigliavano: con la stessa corporatura grassa, le stesse guancie rosse, le stesse fronti strette sotto gli stessi capelli grigi. Le notizie si succedevano di mezz’ora in mezz’ora, e le due rimaste in casa spiavano la venuta dell’altra attraverso i viali. «Sempre peggio… non riconosce piú… ràntola…» Come diede quest’ultimo annunzio a Filippina, che era il suo turno, la comare Angela ripeté: «Volete andare a confortar quella poveretta, sí o no?…» «Ma come si può fare? Mammà!…» «Sapete che s’è?» dichiarò allora l’altra. «Io non torno piú!» «E chi verrà ad informarci? Come faremo per sapere?…»

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La donna, finalmente, mise fuori quel che aveva in corpo. «E che v’importa, a voialtre, di vostra sorella? Si vede la gran pena che ve ne date!… I vicini, sí, poveretti, cercano di confortarla, di strapparla da quella vista… e l’afflitta creatura che non vuole andarsene e che vi chiama come gli angeli del cielo!…» «Sst!… sst!…» ingiungeva ancora la Sommatino, guardando in fondo al giardino. «Sst, per carità…» «E che carità, se non sapete neppure dove sta di casa!… Vostra madre, almeno, è una pazza che la conoscono tutti, ma voialtre il giudizio non dovete piú metterlo, eh?… Bella Madre, queste son cose che io non posso sopportare…» E se ne andò, piantando lí la zitellona, che adesso, arrischiato un poco il capo fuori nella via, chiamava inutilmente: «Pst!… pst!…» Come non ottenne risposta, richiuse il cancello e rientrò, soprappensieri. «Ràntola…» riferí alle sorelle, che spiavano la sua venuta. «Dice che quella povera sorella ci chiama… che i vicini vogliono portarla via…» Tutte e tre guardarono per terra, quasi cercando qualche cosa. «Se non fosse per mammà» disse Caterina «a quest’ora io sarei andata…» «Si capisce!» confermò Agatina. «Ma come si fa?» aggiunse Filippina. Dopo aver pensato un poco, la maggiore riprese: «Potremmo chiamarla, per farle sapere come stanno le cose…» «E risponderà?» «Questo è il dubbio!… Del resto, prova…» «Io? Io non mi ci metto, sorella mia. Provate voialtre!» «Fossi pazza!… Niente!» «Stasera, si può vedere, pel rosario…» Allora, nell’imbarazzo in cui il cognato le metteva con la sua malattia, cominciarono a sfogare: «Ma vedete che seccatura!… Non poteva morire al suo paese, questo santo cristiano?» «Veramente!… Io, sentite, se mi affliggo, non è per lui; è per la povera sorella nostra…» «Naturale!… Lui anzi è stato causa della sua rovina! Se non le faceva girar la testa, Rosalia non sarebbe fuggita di casa, si sarebbe maritata con chi diceva mammà…» «E non avrebbe fatta una vita cosí angustiata». «Ma poi, io dico, quando uno vuol prendere moglie, la prima cosa è che la possa mantenere… e non obbligarla a mangiar pane e acqua!» «Come poteva mantener la moglie, se ha fatto sempre la vita di uno scioperato?» «Scioperato? rompicollo!» «Già, noi parliamo come se fosse morto, poverello; e il Signore può sempre fare un miracolo!…» A un tratto, cessarono insieme di parlare, porgendo ascolto. Lontanamente, dal fondo del giardino, veniva come un rumore di colpi picchiati sui ferri del cancello, e una voce che chiamava, indistinta. «O Vergine del cielo!…» «Che c’è ancora?» «Correte, non fate gridare… se sentisse mammà!…» «Vieni tu pure… ho paura» «No, andate!… io resto…» Confuse, con la testa perduta, Agatina e Filippina correvano pel giardino, intanto che al cancello raddoppiavano i colpi. «Ohé, di casa!… Non c’è nessuno?…» . Bella Madre: interiezione rivolta alla Madonna, molto usata nel dialetto siciliano (Bedda Matri).

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«Silenzio!… Zitto!…» ingiungevano, coi segni, le Sommatino a don Vincenzo Condursi, accorrendo. «È morto!…» diceva don Vincenzo, gesticolando. «Vostro cognato è morto!…» «E non gridate cosí!…» Don Vincenzo, turbato, agitatissimo, ripeteva a voce piú bassa, dietro il cancello: «È morto… or ora… Vostra sorella sembra una pazza… lo chiama, lo bacia, non c’è verso di levarla di lí… Adesso, come si fa?» «Come si può fare?» si chiesero a vicenda le due zitellone, con un imbarazzo costernato. «Non lo volete dire neanche adesso a donn’Antonia?» «Caro don Vincenzo», rispose Filippina «voi lo sapete meglio di noi com’è mammà… e che non le si può nemmeno nominare questa figliuola…» «Ma ora? anche ora che le restano i soli occhi per piangere? Scusate, questa è una cosa che non si è letta mai!… Neanche se avesse ammazzato qualcuno!… Finalmente, il male l’ha fatto a sé e non a voi…» «Che possiamo farci?… Lo sa Dio se la disgrazia di nostra sorella ci affligge…» «Davvero, lo sa Dio!…» confermò l’altra. «Con mammà, lo sapete, non si può parlare. Tutto il giorno chiusa nelle sue stanze: mangia sola, non vuol veder nessuno. La sua conversazione è la sera, quando diciamo il rosario… Stasera, vedremo…» «E intanto la gente vi legge la vita, che siete dei senza cuore, che è una porcheria tutta nuova, dopo che li avete lasciati morir di fame!… Lo sapete che non c’è di che pagare il becchino, da vostra sorella?» Come don Vincenzo parlava con una grande concitazione, le Sommatino si consultarono con lo sguardo. «Chiamiamo Caterina?» disse Filippina. «No; meglio è che don Vincenzo entri un momento… Don Vincenzo, entrate! Adesso sentiremo che cosa dice Caterina… Entrate… Oh, che disgrazia!…» «Che disgrazia!…» Caterina era alla finestra, e come vide avanzarsi la comitiva, scese anche lei. «È morto?» «Morto…» Adesso confabulavano tutt’e quattro sul da fare; don Vincenzo ripeteva che la vedova non poteva esser lasciata sola e le sorelle Sommatino si disperavano, dall’imbarazzo. «Sentite a me, chiamate vostra madre» insisteva l’altro. «Chiamatela; finalmente, non vi mangerà!…» Caterina disse: «Aspettatemi qui». Tornò dopo un poco, col muso lungo. «Mammà non la conoscete!… Ho bussato tre volte; non risponde… Per lei, è tempo perduto; non le potremo parlare prima del rosario. Piuttosto… piuttosto, vengo io». Agatina e Filippina la guardarono, stupite. «Vengo io… Mammà non se ne accorgerà; speriamo che non se ne accorga!… Quella creatura non può restar sola, cosí…» «Molto bene… ma portate qualche cosa di denari: l’affezione è bella e buona, ma la gente bisogna pagarla!» «Denari non ne abbiamo, don Vincenzo, lo sapete… tiene tutto mammà… Però, debbo avere qualche lira da parte…» Andò a prendere i quattrini, a mettersi lo scialle, e nell’andarsene raccomandava alle sorelle, ingelosite della sua iniziativa: «State attente, per carità… fatele portare il desinare all’ora solita, che non s’accorga di niente… io torno subito…» E dal giardino ripeteva ancora: «State attente… aspettatemi pel desinare…». Rimaste sole, Agatina e Filippina non dissero piú nulla, dandosi da fare per la casa, come

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se fossero imbronciate. Alle due, mandarono con la serva il cibo alla madre. Poi, nell’ora afosa del pomeriggio, si buttarono un poco sul letto. «Non viene piú, Caterina?» Suonavano le tre, le tre e mezzo, e la sorella maggiore non si vedeva. Quando tornò, alle quattro meno un quarto, era tutta sossopra, e non prese che un po’ di brodo, a tavola. «Povera sorella nostra!… Non si riconosce piú, lei cosí graziosa quand’era con noi… Che miseria, in quella casa!… Non voleva lasciarmi andare… si è afferrata al mio collo, stretta stretta…» E posò il cucchiaio, dal turbamento. «Il morto l’hai visto?» «No, ci mancava proprio questo!… Stasera lo porteranno via…» All’ave, infatti, s’intesero i primi rintocchi del mortorio. Le tre sorelle Sommatino si erano già raccolte nello stanzone del presepe, al lume di una lampada a olio, quando l’uscio di mezzo si schiuse e comparve donn’Antonia, col bastone in mano. Malgrado l’età, si manteneva sempre dritta e ferma; era vestita tutta a nero, con un fazzoletto nero in capo che le chiudeva il viso magro, ossuto, dal naso ricurvo e dagli occhi scintillanti. Con un mazzo di chiavi, le pendeva dalla cintura la corona del rosario. «Buona sera, mammà!» augurarono le tre sorelle, ad una voce. «Buona sera». Donn’Antonia sedette nell’ampio seggiolone antico, abbandonò le mani sui bracciali, trasse un sospiro di sodisfazione, guardò un poco in giro, poi disse: «Caterina, smoccola un po’ quel lume; non ci si vede». «Eccellenza sí». Come il lucignolo gettò una luce piú viva, ella esclamò: «Cosí va bene!…» Si mise il bastone a fianco, tossí un poco, prese tabacco e disse: «Adesso recitiamo il santo rosario». Le tre sorelle s’inginocchiarono, ciascuna dinanzi ad una seggiola, su cui appoggiarono le braccia. La madre cominciò: «In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Le altre si segnarono insieme: «Padre, Figlio e Spirito Santo». «Domine, labia mea aperies, et os meum annuntiabit laudem tuam. Deus meus, in adiutorium meum intende. Domine, ad adjuvandum me festina. Gloria al Padre…» «Gloria al Padre, al Figliuolo ed allo Spirito Santo, cosí è stato, cosí è, cosí sarà per tutta l’eternità». Donn’Antonia fece scorrere la prima pallottolina rossa, e cominciò: «Padre nostro che state in cielo, santificato il vostro nome, venga a noi il vostro regno, sia fatta la vostra santa divina volontà cosí in cielo come in terra… La figlia di massaro Nunzio oggi che non è venuta?» «Eccellenza, sí; le uova erano le sue» disse Caterina; poi, a coro con le sorelle, riprese la preghiera: «Dateci oggi il nostro pane quotidiano, perdonate i nostri peccati, come noi perdoniamo i nostri nemici: non ci fate cadere in tentazione, liberateci da ogni male, cosí sia». «Un’altra volta dovete dirle di non dare da mangiar cipolla alle galline. Ave Maria piena di

. All’ave: «Alla sera», all’ora dell’Ave Maria, quando donn’Antonia usa uscire dalle sue stanze per recitare il Rosario. . smoccola: «smoccolare» è togliere dalla candela la cera addensatasi attorno allo stoppino (il lucignolo). . Domine … me festina: formule latine in uso all’i-

nizio del Rosario, derivate in parte dal Salmo ,  (“Signore, aprirai le mie labbra e la mia bocca annuncerà la tua lode”) e dal Salmo ,  (“Dio, vieni in mio aiuto. Signore, affrettati in mio soccorso”). . la prima … rossa: la pallina che sulla corona indica la prima stazione del Rosario (il primo dei «Misteri» in cui esso si articola).

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grazie, il Signore è con voi, voi siete benedetta fra tutte le donne e benedetto è il frutto del vostro ventre, Gesú». «Santa Maria, madre di Dio, pregate per noi peccatori ora e nell’ora della nostra morte, cosí sia. Sissignora, glielo dirò…» «Adesso che fa caldo, bisogna togliere le robe d’inverno dalle casse, le vesti, le coperte. Ave Maria piena di grazie, il Signore è con voi, voi siete benedetta fra tutte le donne e benedetto è il frutto del vostro ventre, Gesú…» «Eccellenza sí…» rispose Caterina «Santa Maria, madre di Dio, pregate per noi peccatori ora e nell’ora della nostra morte, cosí sia… Domani faremo stendere le corde nella terrazza» aggiunse Agatina, e Filippina chiese: «Le coperte che le diamo a lavare?» «Le laverà la donna…» «È che ha molto da fare…» «Davvero?…» esclamò sardonicamente donn’Antonia. «Poveretta! Voglio prendere un’altra serva che serva per lei!… Ave Maria piena di grazie, il Signore è con voi, voi siete benedetta fra tutte le donne e benedetto è il frutto del vostro ventre Gesú… A quest’ora, il pomodoro della Noce dev’essere maturato?» «Con questo caldo, credo di sí… Domenica domanderemo a massaro Di Crispo. Santa Maria madre di Dio, pregate per noi peccatori ora e nell’ora della nostra morte, cosí sia». Caterina non aveva detto piú nulla, coi gomiti sulla seggiola e le mani congiunte. Come donn’Antonia, facendo scorrere la pallottolina, tacque un momento, la zitellona tentò di parlare. «Ave Maria piena di grazia…» riprese subito la madre, e quando ebbe finita la mezza preghiera, domandò: «Quella che era in chiesa, domenica, non era la moglie di Corrado Ballanti?» «Eccellenza sí». «È graziosa. Ma don Filippo Ballanti ha fatto una sciocchezza a maritare quel ragazzo senz’arte né parte». «Dice che studierà, per un concorso a Palermo». Donn’Antonia rispose, cantilenando, dopo aver mostrato di nuovo i denti: «Chi a vent’anni non sa, a trenta non fa; a quaranta non ha fatto e non farà! Ave Maria piena di grazie, il Signore è con voi, voi siete benedetta fra tutte le donne e benedetto è il frutto del vostro ventre, Gesú…» «Santa Maria, madre di Dio, pregate per noi peccatori, ora e nell’ora della nostra morte, cosí sia». Agatina e Filippina guardavano adesso con insistenza la sorella maggiore. Di nuovo questa fece per dire qualche cosa, ma donn’Antonia attaccò il secondo Gloria patri. «Padre nostro che state in cielo, santificato il vostro nome, venga a noi il vostro regno… Se non piove, l’uva intanto è perduta. Ci mancherebbe proprio un altro raccolto scarso, come l’anno passato!… Sia fatta la vostra santa divina volontà, cosí in cielo come in terra…» «Date a noi il nostro pane quotidiano, perdonate i nostri peccati come noi perdoniamo i nostri nemici, non ci fate cadere in tentazione, liberateci da ogni male, cosí sia… Eccellenza» aggiunse timidamente Caterina. Ma donn’Antonia, come se non l’avesse udita, riprese la preghiera sopra un tono piú alto: «Ave Maria piena di grazie… Dice che il negozio del vino non è riuscito a quell’imbroglione di Rava…» «È fallito, anzi… Santa Maria madre di Dio…» «Sacco vuoto non può star in piedi!… Ave Maria piena di grazie…» Cosí, fra un ave e un pater, sfilavano uno dopo l’altro tutti gli argomenti della cronaca paesana e domestica. Ogni volta che Caterina faceva per aprir bocca, la madre riprendeva a pregare, scandendo piú nettamente le frasi. Adesso, mentre recitava il terzo pater, Agatina, chinando il capo verso la sorella maggiore e spingendola col gomito, sussurrava: . della Noce: sarà il nome di un appezzamento campestre con coltivazione di pomodori.

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«Diglielo!…» «Diglielo tu!… Dateci oggi il nostro pane quotidiano, perdonate i nostri peccati come noi perdoniamo i nostri nemici, non ci fate cadere in tentazione…» A un tratto, nel silenzio della sera, da Santa Maria del Rosario venne il suono del mortorio: due tocchi vicini e uno staccato, grave, funebre: ’Ndin, ’ndin – ’ndon… ’ndin, ’ndin – ’ndon… «Ave Maria piena di grazie…» Le Sommatino guardavano la madre. Donna Antonia, alzato un poco il capo e socchiuse le palpebre, chiese: «Chi è che è morto?» «Mammà…» rispose Caterina, facendosi animo. «È morto nostro cognato…» Le sorelle intuonarono subito l’altra mezza preghiera: «Santa Maria madre di Dio, pregate per noi peccatori ora e nell’ora della nostra morte, cosí sia…» «Come hai detto?» ridomandò la madre sempre col capo ritto e le palpebre socchiuse, quasi guardasse lontano. «È morto Salvatore… Salvatore Pirrone…» «Ave Maria piena di grazie, il Signore è con voi, voi siete benedetta fra tutte le donne e benedetto è il frutto del vostro ventre, Gesú. Ah, è morto?…» «Eccellenza sí… stamattina, alle undici… Quella povera Rosalia!… Santa Maria madre di dio, pregate per noi peccatori, ora e nell’ora della nostra morte, cosí sia…» «E di che è morto?» «Non lo so… era malato da tanto tempo… Senza medici, senza rimedii… Bisognava far venire un medico da Palermo…» «Ave Maria, piena di grazie… E perché non lo ha fatto venire?» «E come, se non avevano di che mangiare? Santa Madre di Dio…» «Lo ha pagato, quello che ci ha fatto vedere!…» aggiunse Agatina. «La pena nostra non è tanto per lui, quanto per quella povera sorella…» finí per dire Filippina. Donn’Antonia riprese, piú rapidamente: «Ave Maria piena di grazie, il Signore è con voi, voi siete benedetta fra tutte le donne e benedetto è il frutto del vostro ventre, Gesú». «La pena è per Rosalia, che la colpa non fu tutta sua… Che cosa sapeva, lei, a sedici anni?… E adesso la sconta amaramente, sola e senza un aiuto…» Come lei insisteva, donn’Antonia suggerí la ripresa della preghiera, brevemente: «Santa Maria madre di Dio…» «Santa Maria madre di Dio, pregate per noi peccatori, ora e nell’ora della nostra morte, cosí sia…» «Ave Maria, piena di grazie…» All’altra ripresa, Caterina ricominciò: «Vi ha disobbedito, è vero, mammà… si è preso uno che non era del suo stato… vi ha dato tanti dispiaceri… ma adesso! se la vedeste, non si riconosce piú… Vuole buttarsi ai vostri piedi… per chiedervi perdono… Sapete; non ha come fare, non ha piú nulla!… Volete che venga a domandarvi perdono?…» «Padre nostro che state in cielo, santificato il vostro nome…» Interrompendosi un poco, cogli occhi sempre socchiusi, donn’Antonia disse: «Di chi stai parlando?». «Di Rosalia, mammà… di vostra figlia…» «Venga a noi il vostro regno, sia fatta la vostra santa divina volontà… Io non ho figlie di nome Rosalia. Mia figlia è morta… Cosí in cielo come in terra…» E suggerendo la ripresa alle figliuole, che restavano mute, con le schiene sulle seggiole, continuò sola sino in fondo: «Dateci oggi il nostro pane quotidiano… perdonate i nostri peccati, come noi perdoniamo i nostri nemici…». . il suono del mortorio: il rintocco delle campane per l’ufficio funebre.

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Il duca deputato e i suoi nemici (da I Viceré, II, VIII)

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al grande disegno de I viceré, in cui in ogni momento si muove tutto un ambiente, in cui ogni vicenda è inestricabilmente legata a tutte le altre, è piú che mai assurdo estrarre pezzi antologici: è un romanzo che va letto nella sua integralità, seguendo il flusso continuo delle sue vicende, quell’ininterrotto precipitare di una storia pubblica e privata che si svolge come una progressiva degenerazione, dove ciò che appare nuovo viene sempre piú riassorbito dal peso oppressivo di un passato che tutto divora e distrugge. Il passo qui riportato è quello che contiene la battuta esemplare di cui ci siamo serviti per il titolo del paragrafo 9.4.15 della storia letteraria: «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri». La battuta del duca d’Oragua, il membro «liberale» della famiglia Uzeda eletto subito deputato nel primo parlamento del Regno d’Italia, non viene riportata direttamente nella fase della narrazione dedicata al tempo in cui è stata proferita (cioè «i primi tempi del nuovo governo»), ma viene riferita entro le critiche che gli oppositori rivolgono alla sua attività parlamentare una decina d’anni dopo (siamo verisimilmente all’inizio del 1870). Il comportamento dello scapestrato nipote Consalvo fa andare sulle furie il duca, che teme che i suoi oppositori possano approfittarne per aggredire la sua reputazione: il narratore riporta il punto di vista degli oppositori, che riprovano il fatto che da circa due anni il deputato non si sia mai recato nella capitale Firenze e che prima, comunque, non abbia mai preso la parola in Parlamento; sottolineano come egli si serva della sua carica solo per affari di tutti i tipi, appoggiato dal sindaco di Catania Benedetto Giulente, e ricordano tra l’altro quella sua frase programmatica. Per quanto la frase sia attribuita al deputato dai suoi oppositori, tutta la carriera politica e il comportamento di Gesualdo la rendono piú che verisimile: e il modo indiretto con cui viene riportata finisce per metterla in maggiore evidenza, nel quadro di una situazione in cui gli effetti negativi di quell’atteggiamento del deputato risultano piú manifesti. Ma i membri della sua famiglia riusciranno comunque ad approfittare anche del malcontento: Consalvo, rimessa la testa a posto, provvederà ad assorbire il punto di vista dell’opposizione, fino a proporsi come candidato «democratico». [EDIZIONE: Federico De Roberto, Romanzi, novelle e saggi, a cura di C.A. Madrignani, Mondadori, Milano 1984]

Nessuno lo aveva mai visto cosí rabbuffato; un altro poco e pareva suo fratello don Blasco. La questione era che i suoi avversarii tentavano con accanimento un nuovo assalto alla sua riputazione e che l’imbroglio di Consalvo dava loro buono in mano. Il deputato non andava da due anni alla capitale, dimenticava interamente gli affari pubblici per badare ai proprii. Che gran patriotta, eh? di quanto disinteresse, di quanto amor patrio non dava prova? Quando aveva avuto da imbrogliare a Torino e a Firenze, se n’era stato sempre lontano, col pretesto degli affari pubblici, anche se la Camera era chiusa a catenaccio e il ministero disperso di qua e di là; pei fatti del Sessantadue nessuno lo aveva strappato da Torino; in patria era venuto solo per essere rieletto; l’ultima volta neppur s’era data questa pena, considerando il collegio come un feudo elettorale la cui proprietà nessuno poteva contrastargli; adesso che gli conveniva accomodare le sue faccende, avevano un bel discutere delle piú gravi quistioni, in Parlamento: egli non si moveva. Ma quando pure ci fosse andato? Che cosa avrebbe fatto, lí dentro? Che cosa aveva fatto in otto anni di deputazione? . cosí rabbuffato: il duca d’Oragua è infuriato per un episodio che ha avuto come protagonista il nipote Consalvo, ferito in un agguato dai fratelli di una ragazza che aveva rapito e tenuta con sé per tre giorni. . don Blasco: il benedettino, fratello della defunta principessa Teresa, irascibile e violento in ogni suo gesto.

. capitale: in questo momento della narrazione (siamo probabilmente all’inizio del ), la capitale è a Firenze; a partire da questo punto, il discorso indiretto libero riferisce il punto di vista degli oppositori del duca d’Oragua. . fatti del Sessantadue: le vicende del ferimento di Garibaldi in Aspromonte, che avevano avuto grande eco in Sicilia.

L’orizzonte storicopolitico del romanzo

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Come un burattino, aveva alzato ed abbassato il capo, per dire sí o no, secondo gl’imbeccavano! E avesse una volta, una sola volta aperto la bocca! Si scusava col dire che il pubblico lo sgominava; ma la verità era che non aveva neppur l’ombra di un’idea in fondo alla zucca, che non sapeva scrivere un rigo senza fare sette spropositi; e credeva di poter nascondere la sua assoluta ignoranza con l’aria di presunzione e di sufficienza! E ad una bestia di quella cubatura affidavano tutti gli affari della città e della provincia, lasciavano dettar sentenze intorno a ogni sorta di quistioni: d’istruzione pubblica, di ingegneria, di musica, di marina!… Non contento di esercitare personalmente tanto potere, ficcava i suoi aderenti da per tutto perché facessero il suo giuoco: cosí Giulente zio aveva avuto la direzione della Banca, cosí Giulente nipote era stato fatto sindaco!… Tutte quelle accuse dei suoi nemici giravano per il paese, trovavano credito, erano una minaccia. Giulente prendeva le sue difese, ma adesso non lo ascoltavano piú come un tempo; il discredito del deputato si estendeva un poco su lui. Gli davano dell’ipocrita perché pretendeva conservare le antiche amicizie mentre era diventato settario, l’esecutore delle partigianerie, delle ingiustizie del duca. Ipocrita soltanto? I piú accaniti assicuravano che teneva anzi il sacco all’Onorevole, perché qualcosa doveva entrargliene, perché spartivano gli illeciti profitti, il frutto dei loschi affari!… E piú di ogni altro argomento, questo dei guadagni del deputato aveva la virtú d’infiammare i suoi nemici. Delle cariche pubbliche s’era servito per accomodar le sue cose; i denari impiegati nella rivoluzione gli fruttavano il mille per cento! Cosí spiegavasi il suo patriottismo, la commedia della sua conversione alla libertà, mentre Casa Uzeda era stata sempre covo di borbonici e di reazionarii, mentre egli stesso, al Quarantotto, aveva goduto col cannocchiale, come al teatro, lo spettacolo della città agonizzante! Spiegavasi un poco con la paura, col bisogno di dar prova di liberalismo e di democrazia per non essere fucilato – e i gonzi s’eran lasciati prendere dalla famosa abolizione del pane di lusso, durata quindici giorni! – ma la cupidigia era stata piú grande della paura; e certuni bene informati assicuravano che una volta, nei primi tempi del nuovo governo, egli aveva pronunziato una frase molto significativa, rivelatrice dell’ereditaria cupidigia viceregale, della rapacità degli antichi Uzeda: «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri…». Se non aveva pronunziato le parole, aveva certo messo in atto l’idea: per ciò vantava l’eccellenza del nuovo regime, i benefici effetti del nuovo ordine di cose! Le leggi eran provvide quando gli giovavano; per esempio, la famosa soppressione delle comunità religiose! A dargli retta, i beni tolti alla Chiesa dovevano permettere di alleggerir le tasse, e far divenire tutti proprietarii. Invece, le gravezze pubbliche crescevano sempre piú, e chi aveva ottenuto quei beni? Il duca d’Oragua, la gente piú ricca, i capitalisti, tutti coloro che erano dalla parte del mestolo!… L’opposizione al deputato si confondeva cosí, a poco a poco, nel generale malcontento, nel disinganno succeduto alle speranze riposte nella mutazione politica. Prima, se le cose andavano male, se il commercio languiva, se i quattrini scarseggiavano, la colpa era tutta di Ferdinando II: bisognava mandar via i Borboni, far l’Italia una, perché di botto tutti nuotassero nell’oro. Adesso, dopo dieci anni di libertà, la gente non sapeva piú come tirare avanti. Avevano promesso il regno della giustizia e della moralità; e le parzialità, le birbonate, le ladrerie continuavano come prima: i potenti e i prepotenti d’un tempo erano tuttavia al loro posto! Chi batteva la solfa, sotto l’antico governo? Gli Uzeda, i ricchi e i nobili loro pari, con tutte le relative clientele: quelli stessi che la battevano adesso! . lo sgominava: lo sgomentava, lo metteva in difficoltà. . Giulente zio … nipote: personaggi di borghesi affaristi, in rapporto con gli Uzeda: don Lorenzo Giulente, tirapiedi del duca d’Oragua, il nipote Benedetto, sposo di Lucrezia Uzeda e sindaco di Catania. . teneva anzi il sacco: era complice in sporchi affari. . al Quarantotto: quando i moti liberali erano stati duramente repressi.

. abolizione … lusso: nel , in attesa dell’arrivo dei garibaldini, il duca d’Oragua aveva acquistato grande popolarità proponendo e facendo decretare l’abolizione della produzione di pane «sopraffino», misura considerata segno di uguaglianza e di negazione dei privilegi. . gravezze: imposte. . Ferdinando II: di Borbone, re delle Due Sicilie dal  al .

˜ TESTI

9.5 NELL’ORBITA DEL NATURALISMO Carlo Collodi Un cavaliere del secolo XIX (da Occhi e nasi)

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ell’autore di Pinocchio (opera cosí intensa e compatta che sarebbe davvero assurdo presentarne qualche brano antologico) riportiamo qui uno dei diciassette raccontini compresi in Occhi e nasi, raccolta pubblicata nel 1881: si tratta di una divertente satira del desiderio, molto diffuso presso la borghesia del nuovo Regno d’Italia, di ottenere l’onorificenza di cavaliere. Alle radici di questo racconto c’è un episodio che faceva parte di una commedia dello stesso Collodi, I ragazzi grandi, due atti che egli stesso aveva trasposto in forma romanzesca: la versione narrativa venne pubblicata sul «Fanfulla» dal 4 marzo al 5 aprile 1873, con il titolo I ragazzi grandi. Bozzetti e studi dal vero, mentre la commedia vera e propria fu rappresentata a Firenze dalla Compagnia Sadowski all’inizio di agosto dello stesso 1873. Il racconto mostra con evidenza la capacità di Collodi di disegnare ambienti umani di ridotta misura, piccoli mondi pieni di grettezza e di ipocrisia, che egli aggredisce senza una vera cattiveria, ma guardandone il lato buffo, macchiettistico: e si tratta comunque di un’immagine pungente, tutt’altro che idilliaca, di una piccola Italia chiusa nella sua vanità, dagli orizzonti ridotti e limitati. I nomi stessi attribuiti a luoghi e personaggi mostrano la volontà di deformare la realtà, riducendola a una misura «minima»: il nome dell’immaginario paese Borgunto fa pensare a una grassa e «unta» arretratezza campestre; il nome classico del protagonista, Bruto, è come in antifrasi rispetto alla grettezza del personaggio, che finge di disprezzare il cavalierato, mentre in realtà lo desidera, esaltandosi quando lo riceve e passando da una recitazione di indifferenza alla delizia di sentirsi chiamare cavaliere dal parrucchiere, dove va a farsi tagliare i capelli ben cinque volte nello stesso giorno. Le giocose similitudini, la gustosa ripetizione del ritornello «aveva sempre pregato Dio perché, in mezzo a tante miserie umane, gli avesse almeno risparmiata l’umiliazione di vedersi fatto cavaliere», la strategia che Bruto usa per farsi scrivere la lettera di ringraziamento piena di formule untuose e poi per farsi chiamare da tutti con il titolo che finge di disprezzare: tanti sono gli elementi che mostrano le doti del narratore che nello stesso 1881 di Occhi e nasi cominciava a pubblicare Le avventure di Pinocchio. [EDIZIONE: Carlo Collodi, Opere, a cura di D. Marcheschi, Mondadori, Milano 1995]

Aspettò con rassegnazione fino al : ma poi gli scappò la pazienza, e cominciò a dire a tutti che lui di gingilli cavallereschi non voleva saperne, e che aveva sempre pregato Dio perché, in mezzo a tante miserie umane, gli avesse almeno risparmiata l’umiliazione di vedersi fatto cavaliere. E Dio parve disposto a contentarlo. Passarono, difatti, dal  in poi, centrotrenta o centoquaranta ministeri (è difficile contarli tutti per bene), e fra questi ministeri non ve ne fu uno solo, che si ricordasse di Bruno Tanaglia, fabbricante di tessuti di canapa a Borgunto, Sotto-Prefettura rurale e capoluogo di circondario. Intanto le croci piovevano a Borgunto, e, sbatacchiate dal vento di qua e di là, andavano a posarsi ora addosso al Sindaco, ora addosso agli assessori, ora sul berretto del farmacista, ora sul capo del medico-condotto, ora sulla giacchetta del caffettiere.

. le croci: naturalmente quelle di cavaliere (i gingilli cavallereschi di cui sopra).

. caffettiere: il padrone della bottega del caffè.

Una «piccola» Italia

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E in mezzo a questo acquazzone di croci, l’unico che disgraziatamente rimanesse sempre asciutto, era il povero Bruto. Il quale, in segreto, si mangiava l’anima dalla passione; ma in pubblico sorrideva olimpicamente, sfogandosi a dire e a ripetere a tutti che lui di gingilli cavallereschi non voleva saperne, e che aveva sempre pregato Dio perché, in mezzo a tante miserie umane, gli avesse almeno risparmiata l’umiliazione di vedersi fatto cavaliere. Intanto la moglie di Bruto, che era una donnetta simpatica, svelta e ammaestrata alla scuola del vivere in questo mondo, impensieritasi di vedere che il marito si struggeva a occhiate per una pena di cuore, fece, come suol dirsi, un animo risoluto: e cogliendo un bel giorno l’occasione che il deputato di Borgunto era venuto in paese a far le vacanze di Pasqua, si vestí su per giú come la biblica Giuditta, quando partí per il campo di Oloferne, e con un velo fittissimo calato sugli occhi se ne andò diritta diritta a casa del Deputato. Quel che gli dicesse, nessuno lo sa: ma deve avergli detto per largo e per lungo tutto quello che voleva dirgli; perché i maligni e gli sfaccendati, che la videro entrare in casa, stettero apposta coll’orologio in mano, per poi cavarsi il gusto di concludere che si era trattenuta almeno una mezz’ora buona piú del bisogno. Fatto sta che, nel ritornarsene via, ella disse dentro di sé: – Io l’ho fatto a fin di bene e per la felicità di mio marito! Iddio mi vede il cuore!…, e sono sicura che mi perdonerà. – E detto cosí si sentí subito piú consolata. Venti giorni dopo io capitai in casa Tanaglia. Mentre si stava lí facendo l’ora per andare a tavola (a Borgunto pranzano tutti a mezzogiorno), il mio buon amico Bruto mi ripeteva, senza avvedersene, per la quindicesima volta, che lui di gingilli cavallereschi non voleva saperne e che aveva sempre pregato Dio, perché in mezzo a tante miserie umane, gli avesse almeno risparmiata l’umiliazione di vedersi fatto cavaliere. Quand’ecco che la serva di casa entrò nella stanza e gli presentò un plico sigillato. Appena aperto il plico, il viso di Bruto s’illuminò di un sorriso subitaneo e nervoso, e dalla sua bocca scoppiò un finalmente!… che parve proprio una pistolettata. Ma poi, rammentandosi che non era solo, si ricompose in un attimo; e pigliando l’atteggiamento accademico del Gladiatore morente, mugolò con voce cupa e tentennando il capo: – Questa qui non me l’ero meritata! – Che cosa t’è accaduto? – gli domandai. – Mi hanno fatto cavaliere! – Ci vuol pazienza, caro mio! È una disgrazia che può toccare a tutti. Non siamo sicuri neanche a letto. – Che cosa mi consigli? debbo rimandarlo questo gingillo? – Fa’ tu: ma ti avverto che quando le decorazioni sono diventate epidemiche, c’è piú modestia a ritenerle che a mandarle indietro. – Dimmi una cosa: come si costuma in queste disgraziatissime circostanze? Usa scrivere qualche parola di ringraziamento? – Per il solito, sí. – Ma io non rispondo nulla. – Padronissimo!

. a occhiate: a vista d’occhio. . Giuditta … Oloferne: la visita (con evidente risvolto erotico) della moglie di Tanaglia al deputato viene comicamente paragonata a quella della biblica Giuditta al campo di Oloferne: tema variamente presente nella tradizione artistica e letteraria (e molto nota nell’Ottocento era la versione che

ne aveva dato Metastasio nell’azione sacra Betulia liberata: cfr. ..). . Gladiatore morente: statua antica di grande efficacia plastica conservata a Roma al Museo Capitolino, di cui Collodi stesso parla nella parte seconda de Il viaggio in Italia di Giannettino, . . Usa: si usa.

T. NELL’ORBITA DEL NATURALISMO. CARLO COLLODI

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– Tutt’al piú, posso rispondere due versi, tanto per dire che ho ricevuto il plico. – Basta e ne avanza. – Bruto andò al tavolino, e preso un foglio di carta levigatissima e postosi in atto di scrivere, mi disse: – Dettameli tu questi due versi: non ho mai avuto gamba a scrivere simili cortigianerie! – Allora, senza farmi pregare, io cominciai a dettargli cosí: – «Signor Ministro!» – Signor Ministro?… – fece Bruto alzando il capo e guardandomi in viso. – Invece di signor Ministro non sarebbe meglio di dargli un po’ di Eccellenza? – A me mi piace piú «signor Ministro». Ci si sente meglio il fare dell’uomo che se ne infischia. – Verissimo: ma i ministri, credilo, ci tengono all’Eccellenza. Fa’ a modo mio: diamogli dell’Eccellenza! – Dunque scrivi Eccellenza! Posso andare avanti? – Va’ pure. – «Sono sensibile all’onore…» – Quel sensibile – disse Bruto, infilandosi la penna dietro l’orecchio – mi pare un po’ troppo corto: se si mettesse, invece, sensibilissimo? – Allora scrivi «sono sensibilissimo all’onore…» – Mi piacerebbe piú «all’alto onore» – osservò l’amico. – Perché alto? quell’alto è un vocabolo esagerato. – Tutt’altro: te lo provi che nelle lettere a qualche pezzo grosso si dice sempre alta stima e alta considerazione, anche quando s’ha l’intenzione di non dir nulla. – Ebbene, – risposi io annoiato – scrivi un po’ come ti pare, e non se ne parli piú. – Scritta la lettera e sigillata, Bruto s’alzò, e presomi per tutte e due le mani, mi disse con accento basso, ma concitato: – Ora ho bisogno da te di una prova di vera amicizia. – Quale? – Non devi raccontare a nessuno questa ragazzata della croce! A nessuno! Voglio che resti un segreto per tutti. Che vuoi che ti dica? Saranno sofisticherie; ma non mi so rassegnare a sentirmi dare del cavaliere. – E io non lo racconterò a nessuno! Ma nemmeno a tua moglie? – Dio te ne liberi! Sarebbe lo stesso che dirlo a tutto il paese. – In quel momento apparve nella stanza la moglie: la quale, visto il marito in uno stato di profonda costernazione, gli domandò premurosamente: – Che cos’hai? ti senti male? – Una delle mie solite fortune! – replicò Bruto con accento d’infinita amarezza. – Cioè? – Leggi!… – E consegnò alla moglie il diploma del cavalierato. – Oh! finalmente!… – gridò la signora Bianchina tutta contenta. – Sia ringraziato Dio! – Ringrazialo tu. Quanto a me, l’unica cosa che mi fa piacere, in questo tristissimo quarto d’ora, gli è di sapere che la croce non l’ho chiesta, come fanno tanti…, anzi come fanno tutti! Dunque, se l’ho avuta, l’ho avuta per merito tutto mio, per quel po’ di merito personale, che nessuno mi nega. – A queste parole la signora Bianchina, sebbene fosse una donna di molto spirito, abbassò gli occhi e fu lí lí per arrossire; ma si riprese in tempo e disse dentro di sé: – Io lo feci a fin di bene, e per la felicità di mio marito! Iddio mi vede il cuore! e sono sicura che mi perdonerà. – E dopo si sentí subito piú consolata. Intanto Bruto sonò il campanello. . due versi: due righe.

. sofisticherie: scrupoli eccessivi.

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– Ha chiamato lei, signor Bruto? – disse la Rosa affacciandosi in sala. – Brava Rosa! – gridò il mio amico. – Chiamami sempre il signor Bruto. Io mi chiamo cosí. Guai a te se una volta, una volta sola, ti scappasse detto, «signor Cavaliere». – Come, come? È stato fatto Cavaliere? – Non ne so niente! Ti ripeto che io mi chiamo Bruto, e che in casa mia non conosco cavalieri! Hai capito, Rosa? – Ho capito, signor Cavaliere. – Da’ una corsa qui da Marcello e senti se potesse arrivare un mezzo minuto da me. – Il signor Marcello sale in questo momento le scale. – Marcello era il proprietario del biliardo pubblico di Borgunto. La sera segnava i punti ai giocatori di carambola, e nel giorno, non avendo da far nulla, compilava le notizie per il Foglio ufficiale della Sotto-Prefettura, giornale che si pubblicava regolarmente due volte l’anno, e tre volte negli anni bisestili. – Mi rallegro, ma proprio di cuore! – disse Marcello, stringendo la mano a Bruto. – Quando l’hai saputo? – domandò l’altro, lisciandosi i baffi con tutte e due le mani, per nascondere un risolino d’infinita consolazione, che gli balenava sulle labbra. – L’ho saputo mezz’ora fa dal Sotto-Prefetto. Domani mando fuori apposta un supplemento per annunziare la tua nomina. – Per carità, non lo fare. Mi daresti un vero dolore. – Perché? – Tu conosci i miei principii! Io non amo di dar pubblicità a queste ragazzate. – Come c’entri tu? – Ti ripeto, che mi daresti un vero dolore… e mortificheresti un amico!… – Quand’è cosí, ci rimedieremo. – Come? – Vado subito alla stamperia e faccio sospendere ogni cosa. – Oramai lascia correre. Mi dispiacerebbe che, per causa mia, quei poveri stampatori dovessero perdere una giornata di lavoro. Pazienza! Bisogna rassegnarsi a bevere l’amaro calice fino in fondo! – Intanto la Rosa venne a dire che la zuppa era in tavola. – Andate e pranzate senza di me, – gridò Bruto pigliando il cappello e la mazza. – Io voglio arrivare qui dal parrucchiere per farmi tagliare i capelli. – Quando Bruto entrò nella bottega del parrucchiere, il padrone e i suoi due garzoni cominciarono a strillare: – Buon giorno, signor Cavaliere! – Si accomodi, signor Cavaliere! – Vuol farsi la barba, signor Cavaliere? – Vuol tagliarsi i capelli, signor Cavaliere? – In quel medesimo giorno, il mio amico Bruto tornò a farsi tagliare i capelli cinque volte. Il parrucchiere, sebbene invecchiato nella professione, non aveva mai veduto il caso di una capigliatura, che avesse bisogno di esser tagliata ogni tre quarti d’ora: per cui non sapendosi spiegare questo fenomeno, finí col credere che la croce di cavaliere, fra le altre belle cose, fosse anche un cosmetico prodigioso per far crescere i capelli. Che cosa sono i parrucchieri per certe ingenuità maligne! . bevere: forma toscana per «bere».

. la mazza: il bastone da passeggio.

T. NELL’ORBITA DEL NATURALISMO. CARLO COLLODI

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 CAPITOLI DE LE AVVENTURE DI PINOCCHIO

I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII

XIII XIV XV XVI XVII XVIII XIX XX XXI XXII XXIII

XXIV XXV XXVI XXVII XXVIII XXIX

XXX

Come andò che maestro Ciliegia, falegname, trovò un pezzo di legno che piangeva e rideva come un bambino. Maestro Ciliegia regala il pezzo di legno al suo amico Geppetto il quale lo prende per fabbricarsi un burattino meraviglioso che sappia ballare, tirar di scherma e fare i salti mortali. Geppetto, tornato a casa, comincia subito a fabbricarsi il burattino e gli mette il nome di Pinocchio. Prime monellerie del burattino. La storia di Pinocchio con il Grillo parlante, dove si vede come i ragazzi cattivi hanno a noia di sentirsi correggere da chi ne sa piú di loro. Pinocchio ha fame e cerca un uovo per farsi una frittata, ma sul piú bello la frittata gli vola via dalla finestra. Pinocchio si addormenta coi piedi sul caldano e la mattina dopo si sveglia coi piedi tutti bruciati. Geppetto torna a casa, rifà i piedi al burattino e gli dà la colazione che il pover’uomo aveva portata per sé. Geppetto rifà i piedi a Pinocchio e vende la propria casacca per comprargli l’abbecedario. Pinocchio vende l’abbecedario per andare a vedere il teatrino dei burattini. I burattini riconoscono il loro fratello Pinocchio e gli fanno una grandissima festa; ma sul piú bello esce fuori il burattinaio Mangiafoco, e Pinocchio corre il pericolo di fare una brutta fine. Mangiafoco starnutisce e perdona Pinocchio, il quale poi difende dalla morte il suo amico Arlecchino. Il burattinaio Mangiafoco regala cinque monete d’oro a Pinocchio, perché le porti al suo babbo Geppetto, e Pinocchio invece si lascia abbindolare dalla Volpe e dal Gatto e se ne va con loro. L’osteria del Gambero rosso. Pinocchio, per non aver dato retta ai buoni consigli del Grillo parlante, s’imbatte negli assassini. Gli assassini inseguono Pinocchio e, dopo averlo raggiunto, lo impiccano a un ramo della Quercia grande. La bella Bambina dai capelli turchini fa raccogliere il burattino, lo mette a letto e chiama tre medici per sapere se sia vivo o morto. Pinocchio mangia lo zucchero, ma non vuol purgarsi; però, quando vede i becchini che vengono a portarlo via, allora si purga. Poi dice una bugia e per castigo gli cresce il naso. Pinocchio ritrova la Volpe e il Gatto e va con loro a seminare le quattro monete nel Campo dei miracoli. Pinocchio è derubato delle sue monete d’oro e per castigo si busca quattro mesi di prigione. Liberato dalla prigione, si avvia per tornare a casa della Fata; ma lungo la strada trova un Serpente orribile, e poi rimane preso alla tagliola. Pinocchio è preso da un contadino il quale lo costringe a far da can di guardia a un pollaio. Pinocchio scopre i ladri e, in ricompensa di esser stato fedele, vien posto in libertà. Pinocchio piange la morte della bella Bambina dai capelli turchini, poi trova un Colombo che lo porta su la riva del mare, e lí si getta nell’acqua per andare in aiuto del suo babbo Geppetto. Pinocchio arriva all’isola delle Api industriose e ritrova la Fata. Pinocchio promette alla Fata di esser buono e di studiare, perché è stufo di fare il burattino e vuol diventare un bravo ragazzo. Pinocchio va co’ suoi compagni di scuola in riva al mare per vedere il terribile pescecane. Gran combattimento fra Pinocchio e i suoi compagni, uno de’ quali essendo rimasto ferito, Pinocchio viene arrestato dai carabinieri. Pinocchio corre pericolo di esser fritto in padella come un pesce. Ritorna a casa della Fata, la quale gli promette che il giorno dopo non sarà piú un burattino, ma diventerà un ragazzo. Gran colazione di caffè e latte per festeggiare questo grande avvenimento. Pinocchio, invece di diventare un ragazzo, parte di nascosto con il suo amico Lucignolo per il paese dei balocchi.

DATI

tav. 208

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XXXI XXXII XXXIII

XXXIV XXXV XXXVI



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Dopo cinque mesi di cuccagna Pinocchio con sua gran maraviglia sente spuntarsi un bel paio d’orecchie asinine, e diventa un ciuchino, con la coda e tutto. A Pinocchio gli vengono gli orecchi di ciuco e poi diventa un ciuchino vero e comincia a ragliare. Diventato un ciuchino vero, è portato a vendere e lo compra il direttore di una compagnia di pagliacci per insegnargli a ballare e a saltare i cerchi; ma una sera azzoppisce, e allora lo ricompra un altro per far con la sua pelle un tamburo. Pinocchio, gettato in mare, è mangiato dai pesci e ritorna a essere un burattino come prima; ma mentre nuota per salvarsi, è ingoiato dal terribile Pescecane. Pinocchio ritrova in corpo al Pescecane… Chi ritrova? Leggete questo capitolo e lo saprete. Finalmente Pinocchio cessa d’essere un burattino e diventa un ragazzo.

T. NELL’ORBITA DEL NATURALISMO. LA LETTERATURA NAPOLETANA. MATILDE SERAO



La letteratura napoletana Matilde Serao Bisogna sventrare Napoli (da Il ventre di Napoli)

i

n occasione del terribile colera che infierí su Napoli nel 1884, e in seguito alla visita ai miseri quartieri popolari che fece il re Umberto I insieme al primo ministro Agostino Depretis, la Serao scrisse una serie di nove articoli sul giornale romano «Capitan Fracassa», sotto il titolo Il ventre di Napoli (che riecheggiava quello del romanzo del 1873 di Emile Zola, Le ventre de Paris), che raccolse nel dicembre in un piccolo libro dallo stesso titolo. Dopo aver usato il titolo Il ventre di Napoli anche per una rubrica del «Corriere di Roma» tenuta nel 1886, la Serao ripubblicò nel 1906 i testi del 1884 in una nuova edizione contenente altri testi giornalistici dedicati a Napoli, scritti tra il 1903 e il 1905. Si tratta di pagine in cui la Serao mostra tutta la propria maestria di giornalista e la propria passione civile, con esiti anche piú intensi di quelli raggiunti nelle sue opere narrative: come ebbe a dire Benedetto Croce, «pagine tirate d’un fiato, descrizioni rapide, aneddoti narrati con semplicità, calorosa eloquentissima perorazione a pro del popolo napoletano, piena di quell’affetto materno del quale ella possiede il segreto». Qui riportiamo il primo dei pezzi raccolti nel libro, pubblicato sul «Capitan Fracassa» il 17 settembre 1884, Bisogna sventrare Napoli, che prende avvio dalla frase detta da Depretis in occasione della visita a quei miseri quartieri: con atteggiamento di misurata ma ferma polemica, di fronte alle immagini convenzionali di Napoli e alla disinformazione dello stesso governo sul quel mondo misero e oscuro, si danno accurate informazioni su di esso, nell’intenzione di mostrare ciò che solitamente non si guarda, di far risaltare tutta la vita sofferente e disperata che si svolge entro quel mondo chiuso e ignorato; e si muove con passione verso l’aspirazione al riscatto di coloro che vivono in esso, che culmina nella efficace battuta finale, svolgimento e correzione della frase dell’uomo politico: «non basta sventrare Napoli: bisogna quasi tutta rifarla». Si tenga presente che, proprio in seguito al colera e alla visita reale del 1884, si diede avvio a un parziale sventramento dei quartieri a ridosso del porto, con la creazione del cosiddetto Rettifilo (il lungo corso Umberto I). [EDIZIONE: Matilde Serao, Il ventre di Napoli, a cura di P. Bianchi, Avagliano, Cava dei Tirreni 2002]

Efficace la frase. Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto, perché voi siete il Governo e il Governo deve saper tutto. Non sono fatte pel Governo, certamente, le descrizioncelle colorite di cronisti con intenzioni letterarie, che parlano della via Caracciolo, del mare glauco, del cielo di cobalto, delle signore incantevoli e dei vapori violetti del tramonto; tutta questa retorichetta a base di golfo e colline fiorite, di cui noi abbiamo già fatto e oggi continuiamo a fare ammenda onorevole, inginocchiati umilmente innanzi alla patria che soffre; tutta questa minuta e facile letteratura frammentaria, serve per quella parte di pubblico che non vuole essere seccata con racconti di miserie. Ma il governo doveva sapere l’altra parte; il governo a cui arriva la statistica della mortalità e quella dei delitti; il governo a cui arrivano i rapporti dei prefetti, dei questori, degli ispettori di polizia, dei delegati; il governo a cui arrivano i rapporti dei direttori delle carceri; il governo che sa tutto: quanta carne si consuma in un giorno e quanto vino si beve in un anno, in un paese; quante femmine disgraziate, diciamo cosí, vi esistano, e quanti . via Caracciolo: la strada panoramica sul lungomare di Napoli.

. glauco: azzurro chiaro, tra l’azzurro e il verde.

Testi giornalistici dedicati a Napoli

Maestria di giornalista e passione civile

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ammoniti siano i loro amanti di cuore; quanti mendichi non possano entrare nelle opere pie e quanti vagabondi dormano in istrada, la notte; quanti nullatenenti e quanti commercianti vi sieno; quanto renda il dazio consumo, quanto la fondiaria, per quanto s’impegni al Monte di Pietà e quanto renda il lotto. Quest’altra parte, questo ventre di Napoli, se non lo conosce il Governo, chi lo deve conoscere? E se non servono a dirvi tutto, a che sono buoni tutti questi impiegati alti e bassi, a che questo immenso ingranaggio burocratico che ci costa tanto? E, se voi non siete la intelligenza suprema del paese che tutto conosce e a tutto provvede, perché siete ministro? Vi avranno fatto vedere una, due, tre strade dei quartieri bassi e ne avrete avuto orrore. Ma non avete visto tutto; i napoletani istessi che vi conducevano, non conoscono tutti i quartieri bassi. La via dei Mercanti, l’avete percorsa tutta? Sarà larga quattro metri, tanto che le carrozze non vi possono passare, ed è sinuosa, si torce come un budello: le case altissime la immergono, durante le piú belle giornate, in una luce scialba e morta: nel mezzo della via il ruscello è nero, fetido, non si muove, impantanato, è fatto di liscivia e di saponata lurida, di acqua di maccheroni e di acqua di minestra, una miscela fetente che imputridisce. In questa strada dei Mercanti, che è una delle principali del quartiere Porto, v’è di tutto: botteghe oscure, dove si agitano delle ombre, a vendere di tutto, agenzie di pegni, banchi lotto; e ogni tanto un portoncino nero, ogni tanto un angiporto fangoso, ogni tanto un friggitore, da cui esce il fetore dell’olio cattivo, ogni tanto un salumaio, dalla cui bottega esce un puzzo di formaggio che fermenta e di lardo fradicio. Da questa via partono tante altre viottole, che portano i nomi delle arti: la Zabatteria, i Coltellai, gli Spadari, i Taffettanari, i Materassari, e via di seguito. Sono, queste viottole – questa è la sola differenza – molto piú strette dei Mercanti, ma egualmente sporche e oscure; e ognuna puzza in un modo diverso: di cuoio vecchio, di piombo fuso, di acido nitrico, di acido solforico. Varie strade conducono dall’alto al quartiere di Porto: sono ripidissime, strette, mal selciate. La via di Mezzocannone è popolata tutta di tintori: in fondo a ogni bottega bruna, arde un fuoco vivo sotto una grossa caldaia nera, dove degli uomini seminudi agitano una miscela fumante; sulla porta si asciugano dei cenci rossi e violetti; sulle selci disgiunte, cola sempre una feccia di tintura multicolore. Un’altra strada, le cosí dette Gradelle di S. Barbara, ha anche la sua originalità: da una parte e dall’altra abitano femmine disgraziate, che ne hanno fatto un loro dominio, e, per ozio di infelici disoccupate, nel giorno, e per cupo odio contro l’uomo, buttano dalla finestra, su chi passa, buccie di fichi, di cocomero, spazzatura, torsoli di spighe: e tutto resta, su questi gradini, cosí che la gente pulita non osa passarvi piú. Vi è un’altra strada, che dietro l’educandato di San Marcellino conduce a Portanova, dove i Mercanti finiscono e cominciano i Lanzieri: veramente non è una strada, è un angiporto, una specie di canale nero, che passa sotto due archi e dove pare raccolta tutta la immondizia di un villaggio africano. Ivi, a un certo punto, non si può procedere oltre: il terreno è lubrico e lo stomaco spasima. In sezione Vicaria, vi siete stato?

. ammoniti: vigilati speciali, colpiti dall’ammonizione di polizia. . quanto … il lotto: al gioco del lotto sono dedicati altri due articoli de Il ventre di Napoli. . via dei Mercanti: antica strada del quartiere Porto. . liscivia: soluzione per lavare o imbiancare tessuti. . La via … tintori: questa antica strada (dove oggi è la sede centrale dell’Università Federico II), allora riservata alle malsane botteghe dei tintori, scende dalla piazza di San Domenico Maggiore

verso il porto. . Gradelle di S. Barbara: strada con gradinata, allora abitata da donne di malaffare: scende dalla piazzetta Ponticelli, sotto il monastero di Santa Chiara. . un’altra strada … Lanzieri: vicolo a ridosso dell’attuale Rettifilo, che sbuca sulla piazza di Portanuova. . sezione Vicaria: la zona cosí chiamata dalla vicinanza del tribunale a Castel Capuano (detto ap-

T. NELL’ORBITA DEL NATURALISMO. LA LETTERATURA NAPOLETANA. MATILDE SERAO

Sopra tutte le strade che la traversano, una sola è pulita, la via del Duomo: tutte le altre sono rappresentazione della vecchia Napoli, affogate, brune, con le case puntellate, che cadono per vecchiaia. Vi è un vicolo del Sole, detto cosí perché il sole non vi entra mai; vi è un vicolo del Settimo Cielo, appunto per l’altitudine di una strisciolina di cielo, che apparisce fra le altissime e antiche case. Attorno alla piazzetta dei SS. Apostoli vi sono tre o quattro stradette: Grotta della Marra, Santa Maria a Vertecoeli, vicolo della Campana, dove vive una popolazione magra e pallida, appestata dalla fabbrica del tabacco che è lí, appestata dalla propria sudiceria; e tutti i dintorni di Castelcapuano, di questa grande e storica Vicaria, sembrano proprio il suo ambiente, vale a dire putridume materiale e morale, su cui sorge l’estremo portato di questa società povera e necessariamente corrotta: la galera. La sezione Mercato? Ah, già: quella storica, dove Masaniello ha fatto la rivoluzione, dove hanno tagliato il capo a Corradino di Svevia; sí, sí, ne hanno parlato drammaturghi e poeti. Se ne traversa un lembo, venendo in carrozza dalla ferrovia, ma si esce subito alla Marina. Al diavolo la poesia e il dramma! In sezione Mercato, niuna strada è pulita; pare che da anni non ci passi mai lo spazzino; ed è forse la sporcizia di un giorno. Ivi è il Lavinaio, la grande fonte, dove si lavano tutti i cenci luridi della vecchia e povera Napoli: il Lavinaio, che è il grande ruscello, dove il luridume viene a detergersi superficialmente; tanto che per insultare bonariamente un napoletano, sul proprio napoletanismo, gli si dice: «Sei proprio del Lavinaio». Nella sezione Mercato, vi sono i sette vicoli della Duchesca, in uno dei quali, ho letto in un dispaccio, vi sono stati in un’ora trenta casi; vi è il vicolo del Cavalcatoio; vi è il vicolo di Sant’Arcangelo a Baiano. Io sono una donna e non posso dirvi che sieno queste strade, poiché ivi l’abbiezione diventa cosí profonda, cosí miseranda, la natura umana si degrada talmente, che vengono alla faccia le fiamme della vergogna. Sventrare Napoli? Credete che basterà? Vi lusingate che basteranno tre, quattro strade, attraverso i quartieri popolari, per salvarli? Vedrete, vedrete, quando gli studi, per questa santa opera di redenzione, saranno compiuti, quale verità fulgidissima risulterà: bisogna rifare. Voi non potrete sicuramente lasciare in piedi le case che sono lesionate dalla umidità, dove al pianterreno vi è il fango e all’ultimo piano si brucia nell’estate e si gela nell’inverno; dove le scale sono ricettacoli d’immondizie; nei cui pozzi, da cui si attinge l’acqua cosí penosamente, vanno a cadere tutti i rifiuti umani e tutti gli animali morti; e che hanno tutte un pot-bouille, una cosidetta vinella, una corticina interna in cui le serve buttano tutto; il cui sistema di latrine, quando ci sono, resiste a qualunque disinfezione. Voi non potrete lasciare in piedi le case, nelle cui piccole stanze sono agglomerate mai meno di quattro persone, dove vi sono galline e piccioni, gatti sfiancati e cani lebbrosi; case in cui si cucina in uno stambugio, si mangia nella stanza da letto e si muore nella medesima stanza, dove altri dormono e mangiano; case, i cui sottoscala, pure abitati da gente umana, rassomigliano agli antichi, ora aboliti, carceri criminali della Vicaria, sotto il livello del suolo. Voi non potrete sicuramente lasciare in piedi i cavalcavia che congiungono le case; né quelle ignobili costruzioni di legno che si sospendono a certe muraglie di case, né quei portoncini angusti, né quei vicoli ciechi, né quegli angiporti, né quei supportici; voi non potrete lasciare in piedi i fondaci .

punto la Vicaria). . sezione Mercato: intorno alla piazza del Mercato, verso il porto. . il Lavinaio: grande fontana nei pressi della piazza del Mercato. . trenta casi: di colera. . pot-bouille … tutto: il termine francese potbouille indica un luogo familiare dove si mette di

tutto, cucina o minestra fatta raccogliendo un po’ di tutto; il termine viene usato qui per indicare un cortiletto interno dove si butta di tutto (vinella in dialetto napoletano). Pot-bouille si intitolava un romanzo di Emile Zola pubblicato nel . . fondaci: la parola, che in genere indica botteghe o magazzini per merci, a Napoli indicava miseri seminterrati adibiti ad abitazione.

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Voi non potrete lasciare in piedi certe case dove al primo piano è un’agenzia di pegni, al secondo si affittano camere a studenti, al terzo si fabbricano fuochi artificiali: certe altre dove al pianterreno vi è un bigliardo, al primo piano un albergo dove si pagano tre soldi per notte, al secondo una raccolta di poverette, al terzo un deposito di cenci. Per distruggere la corruzione materiale e quella morale, per rifare la salute e la coscienza a quella povera gente, per insegnare loro come si vive – essi sanno morire, come avete visto! – per dir loro che essi sono fratelli nostri, che noi li amiamo efficacemente, che vogliamo salvarli, non basta sventrare Napoli: bisogna quasi tutta rifarla.

Salvatore Di Giacomo A Marechiare (da Canzone)

Lo splendore del mare e la passione amorosa

La bellezza della donna, «la voce» e «na chitarra»

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e`

questa una delle piú celebri canzoni napoletane, musicata nel 1885 da Francesco Paolo Tosti (1846-1916) e dedicata alla località marina di Marechiaro, che si trova oltre il capo di Posillipo. Il testo collega allo splendore del luogo marino, visto verso sera, quando spunta la luna, la passione amorosa della voce cantante, che guarda alla finestra dove c’è la sua amata; le prime due strofe descrivono i due dati essenziali del luogo (a Marechiare: nella prima strofa nominato alla fine dei versi iniziale e finale, nella seconda all’inizio degli stessi versi), cioè la gioia amorosa che domina il mare (dove anche i pesci fanno all’amore e le onde si rivoltano su se stesse, cambiando colore per l’empito di gioia), e la finestra odorosa dove bussa la passione di chi canta. Le due strofe successive si rivolgono invece direttamente alla donna: la terza esalta la sua bellezza, con l’antico paragone tra le stelle e gli occhi (che qui sembra acquistare una nuova appassionata intensità); la quarta invita la donna stessa, ora chiamata per nome (Carulí, Carolina) a svegliarsi e mette in evidenza gli strumenti stessi del canto (la voce e la chitarra), rivelandoci che quella che si conclude è una serenata, destinata a far affacciare la bella alla finestra, di fronte a quell’esaltante paesaggio marino. [EDIZIONE: Salvatore di Giacomo, Poesie e prose, a cura di E. Croce e L. Orsini, Mondadori, Milano 1977] quattro strofette di cinque endecasillabi, con schema ABABA, ma in ognuna delle quali l’ultimo verso ripete perfettamente il primo. METRO:



Quanno sponta la luna a Marechiare pure li pisce ce fanno all’ammore, se revoteno ll’ onne de lu mare, pe la priezza cagneno culore, quanno sponta la luna a Marechiare… A Marechiare ce sta na fenesta, la passiona mia ce tuzzulea, nu carofano addora ’int’ a na testa,

v. . sponta: spunta. v. . li pisce: i pesci. vv. -. le onde del mare si rivoltano su se stesse, per la gioia (priezza) cambiano colore.

v. . «la mia passione ci bussa» (alla finestra); tuzzulià è verbo di forte effetto onomatopeico. v. . «un garofano odora dentro un vaso» (testa è equivalente a testo, vaso di fiori).

T. NELL’ORBITA DEL NATURALISMO. LA LETTERATURA NAPOLETANA. SALVATORE DI GIACOMO

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passa ll’ acqua pe sotto e murmulea… a Marechiare ce sta na fenesta…

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Chi dice ca li stelle so’ lucente nun sape st’ uocchie ca tu tiene nfronte, sti doie stelle li ssaccio io sulamente, dint’ a lu core ne tengo li ppónte, chi dice ca li stelle so’ lucente?…

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Scétete, Carulí, ca ll’aria è doce, quanno maie tanto tiempo aggio aspettato? P’ accumpagnà li suone cu la voce, stasera na chitarra aggio purtata… Scétete, Carulí, ca ll’aria è doce!…

v. . murmulea: «mormora» (da murmulià). v. . non conosce questi occhi che tu tieni in fronte. vv. -. «queste due stelle le conosco solo io, ne tengo le punte»: le punte delle stelle (nella stilizza-

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zione con cui si disegnano) feriscono il cuore. v. . Scétete: svegliati; doce: dolce. v. . quando mai ho aspettato tanto tempo? v. . per accompagnare i suoni con la voce.

Salvatore Di Giacomo Palomma ’e notte (da Canzone)

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uesta delicatissima canzone (musicata nel 1907 da Francesco Buongiovanni, 1872-1940), attraverso l’immagine della falena, la farfalla notturna (la farfalla in dialetto napoletano è detta appunto palomma; e palomma ’e notte è la falena), mette in scena una situazione frequente nella canzone popolare, quella di un uomo maturo che respinge l’amore di una giovane ragazza che, accostandosi a lui, rischia di bruciarsi. È l’uomo che si rivolge alla ragazza presentandole l’immagine della palomma ’e notte che si avvicina continuamente alla candela: e siccome, nella sua leggerezza, è la ragazza stessa a essere una farfalla (palomma, palummella), egli la invita a tenersi lontana dalla candela, che non è uno di quei fiori che è piacevole succhiare, e a tornare alla sua aria mbarzamata. Nel ritornello l’uomo esorta la donna a volare via lontano, a tornare all’aria fresca, anche perché sente che, a forza di scacciarla dalla candela, finirà per bruciarsi la mano anche lui; e nell’ultima strofa egli mostra che la candela brucia comunque anche per lui (evidentemente innamorato della palomma), ma di non poter accettare che si brucino tutti e due, che tra loro si realizzi davvero l’amore. Dalle metafore consunte come quelle del fuoco d’amore e della volubilità della farfalla, Di Giacomo ha ricavato cosí, con la figura della farfalla notturna e della candela, una situazione originalissima, di fortissima suggestione musicale (anche per l’opposizione tra la luce della candela e l’aria profumata, la luce della luna ianca, l’ombra suggestiva che stanno fuori). METRO: tre strofe di ottonari (disposti come ottonari doppi), alla fine di ciascuna delle quali si ripete il ritornello. Gli ottonari sono rimati secondo lo schema abbxcddx in cui la rima x è sempre tronca à (tentà, vulà, libbertà, sta, cunzulà, tullerà). Il ritornello è dato da una successione di versi quinari e settenari, conclusa da un endecasillabo, con alcune rime: abbcdeexexX.

Il fuoco e la farfalla, metafore risolte in modo originalissimo

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LA NUOVA ITALIA

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Tiene mente sta palomma – comme gira, comm’ avota, comme torna n’ ata vota – sta ceroggena a tentà! Palummè, chisto è nu lume – nun è rosa o è giesummino, e tu a fforza ccà vicino – te vuo’ mettere a vulà!… 

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Vattenne ’a lloco! Vattenne, pazzarella! Va, palummella! E torna a ll’ aria fresca… ’O bbi’ ca i’ pure mm’ abbaglio chiano chiano, e, pe te ne caccià, mm’ abbruscio ’a mano?!… Ma… te n’ aggia caccià! Vola, vola, palomma! E vola! Va’!… Vola a ll’ aria. T’ aggio aperta – tutta quanta ’a fenestella: vola, vola palummella – volatenne a libbertà! Ncopp’ ’e frasche d’ ’o ciardino – ncopp’ ’e sciure mo schiuppate, ncopp’ ’e rose ncappucciate – ianca ianca ’a luna sta… Vattenne ’a lloco! Vattenne, pazzarella! Va, palummella! E torna a ll’ aria fresca… ’O bbi’ ca i’ pure mm’ abbaglio chiano chiano, e, pe te ne caccià, mm’ abbruscio ’a mano? Ma… te n’ aggia caccià! Vola, vola, palomma! E vola! Va’!… Torna, va, palomma ’e notte – dint’ a ll’ombra addó si’ nata, torna a st’ aria mbarzamata – ca te sape cunzulà!… Dint’ ascuro e pe mme sulo – sta cannela arde e se struie: ma c’ ardesse a tutte e dduie – no, nn’ ’o pozzo tullerà!

v. . Tiene mente sta palomma: osserva, fa’ attenzione a questa farfalla; avota: voltola. v. . sta ceroggena a tentà!: a tentare questa candela, ad accostarsi a essa. v. . farfallina, questo è un lume, non è rosa o gelsomino. v. . vattene da lí. vv. -. Lo vedi (’O bbi’) che io pure lentamente mi abbaglio. v. . ma te ne devo cacciare. v. . volatenne: forma dialettale (con accento sulla penultima, volaténne), per «volatene, vola via da qua». v. . sopra le fronde del giardino, sopra i fiori ap-

pena sbocciati. v. . ncappucciate: le rose sono dette «incappucciate» per la forma delle loro corolle, che, quando sono chiuse, fanno pensare a un cappuccio; ianca: bianca. v. . dint’a ll’ombra … nata: dentro l’ombra dove sei nata. v. . mbarzamata: «imbalsamata», perché piena di profumi; ca te … cunzulà!: che ti sa consolare, accogliere. vv. -. dentro l’oscurità e solo per me questa candela arde e si strugge: ma che debba ardere tutti e due, no, non lo posso sopportare.

T. NELL’ORBITA DEL NATURALISMO. LA LETTERATURA NAPOLETANA. SALVATORE DI GIACOMO

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Vattenne ’a lloco! Vattenne, pazzarella! Va, palummella! E torna a ll’ aria fresca… ’O bbi’ ca i’ pure mm’abbaglio chiano chiano, e, pe te ne caccià, mm’ abbruscio ’a mano?… Ma… te n’ aggia caccià!… Vola, vola, palomma! E vola! Va’!…

Salvatore Di Giacomo Dint ’o ciardino (da Ariette e sunette)

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on un ritmo di canzonetta settecentesca e nell’ambiente di una Napoli «borghese», si presenta una figura di donna assorta nella lettura all’aperto, nell’aria fresca d’aprile, su un sedile sotto un mandarino: il poeta/amante le si accosta lentamente e solo tardi la donna si accorge della sua presenza; poi il libro cade a terra e si immaginano baci e abbracci tra i due, mentre fugge via una lucertola, forse scandalizzata dalle loro effusioni. Alla descrizione della donna immersa nella lettura succede l’immagine del poeta che si accosta cautamente a lei, e poi le semplici battute di dialogo che accompagnano il loro incontro. L’immagine della lettura interrotta può far pensare a tutta una tradizione che risale fino al ben diversamente tragico episodio dantesco di Francesca da Rimini. Qui tutto è sospeso in un’atmosfera di idillio, nella dolce leggerezza di una comunicazione amorosa che rasserena e consola. METRO: quartine di ottonari rimate in modo variabile (solo la prima, la terza e l’ultima seguono una regolare alternanza abab).

’A vi’ llà; vestuta rosa e assettata a nu sedile, risciatanno st’ addurosa e liggiera aria d’ abbrile, 

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cu nu libbro apierto nzino, cu nu vraccio abbandunato, sott’ ’o pede ’e mandarino, sola sola Emilia sta. C’ aggia fa’? M’ accosto? (E quase arrivato lle so’ ncuollo…)

vv. -. la vedi là; vestita di color rosa e seduta su di un sedile, respirando questa odorosa e leggera aria d’aprile. v. . nzino: in grembo.

v. . con un braccio abbandonato. v. . al piede di un albero di mandarino. vv. -. C’ aggia fa’?: Che devo fare?; quase … ’ncuollo: le sono quasi arrivato in braccio.

Un dolce idillio amoroso

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LA NUOVA ITALIA

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Core mio! Cu quanta vase te vulesse salutà!

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Nun me vede, nun me sente, legge, legge, e nun se move: e io ncantato ’a tengo mente cammenanno ncopp’ a ll’ ove… Ah!… s’ avota!… – Emí… che liegge? – Tu ccà stive?… E ’a dó si’ asciuto? – M’ accustavo liegge liegge… – Pe fa’ che?… – Pe t’ abbraccià! – Statte!… – Siente… – (E ’o libbro nterra cade apierto…) Essa se scanza, se vo’ sósere, mm’ afferra, rire e strilla: – Uh! no! no! no!… –

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Na lacerta s’ è fermata ce guarda a tutte e dduie… Se sarrà scandalizzata, sbatte ’a coda e se ne fuie…

vv. -. Cu quanta … salutà!: con quanti baci vorrei salutarti. vv. -. «e io incantato la osservo camminando sopra le uova» (espressione dialettale per indicare un muoversi silenzioso e lento, senza farsi notare). v. . s’avota: si rivolta. v. . tu stavi qua? E da dove sei uscito? v. . «mi avvicinavo lieve lieve, piano piano»: no-

tare la rima equivoca con liegge del v.  (dove liegge è la seconda persona singolare del presente di leggere). vv. -. se scanza … sósere: si sposta, si vuole alzare. v. . rire: ride. v. . Na lacerta: una lucertola. v. . fuie: fugge.

T. NELL’ORBITA DEL NATURALISMO. EMILIO DE MARCHI



Emilio De Marchi DEMETRIO PIANELLI

Alla modestia di un impiego come vice-cassiere presso le poste di Milano, Cesarino Pianelli non fa corrispondere una vita di privazioni e di severe abitudini: anzi, spronato dalla bella e fatua moglie Beatrice, il giovane si dà ai dispendiosi piaceri della vita mondana. Messo in crisi da un grosso debito di gioco, falsifica un documento della contabilità senza valutarne il rischio, dopo aver sottratto una grossa somma alle casse del suo ufficio. A nulla valgono le richieste di aiuto al suocero e al marito di un’amica della moglie, l’industriale Pardi. In breve, l’onore è perduto e non resta che il suicidio: dopo aver affidato al fratello Demetrio la sua famiglia, Cesarino si uccide, appendendosi a una trave della soffitta. Per il grigio e dimesso protagonista del romanzo tale fatto, a discapito della tragedia, segna l’inizio di una nuova epoca, poiché le nuove responsabilità nei confronti della cognata e dei nipoti lo costringono a combattere contro l’apparente mediocrità della sua esistenza, vissuta fra il grigiore di una stanzetta da scapolo e la monotonia di un impiego che gli consente di vivere poco al di sopra della soglia della povertà. Demetrio Pianelli è il simbolo di un eroismo tutto domestico, fatto di fedeltà al proprio dovere, di pazienza e di umiltà: dopo aver mantenuto il padre, vecchio e malato, ora gli tocca l’incombenza di sostentare quella «nuova famiglia» che gli ha lasciato in eredità il fratello suicida. La vita si fa piú dura, i sacrifici piú frequenti, tuttavia il modesto impiegato ritrova una forza che non avrebbe sperato di avere e s’innamora di Beatrice, la quale, però, non riesce ad apprezzare fino in fondo l’affetto e la dedizione del cognato. L’ardente zelo di quest’ultimo si rende manifesto soltanto nel momento in cui accade un fatto increscioso proprio alla donna da lui amata. Dopo essersi rivolta al cavalier Balzalotti, capoufficio di Demetrio, per ottenere un cospicuo prestito, Beatrice ne riceve, invece, soltanto una deplorevole umiliazione. A questo punto, Pianelli interviene a difendere dalle calunnie la giovane vedova, sostenendo una discussione che gli varrà una terribile punizione: l’uomo, non solo sarà privato di un mese di stipendio, ma sarà anche trasferito a Grosseto, lontano da quei pochi affetti a cui pure non si sarebbe sentito di rinunciare. Nel frattempo, la cognata, che ha cambiato atteggiamento e ha abbandonato le sue frivole abitudini proprio grazie all’abnegazione dimostrata da Demetrio, accetta di sposare Paolino, un cugino benestante che vive in campagna. Cosí il protagonista del romanzo, mentre si consuma il dramma dell’industriale Pardi, che uccide per gelosia la moglie, si ritrova, ancora una volta, in uno stato di completa solitudine, alla quale poco vale la coscienza di essersi comportato con onestà e dignità. Il poveruomo torna nuovamente ai margini della vita da cui era in parte riuscito ad affrancarsi: tuttavia, questa ennesima sconfitta avviene sotto una luce diversa, che fa del personaggio un esempio straordinario di lucida e cosciente rassegnazione.

DATI

tav. 209

La partenza di Demetrio (da Demetrio Pianelli, V, III)

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iproduciamo qui la parte finale dell’ultimo capitolo della Parte quinta (intitolata Alle cascine), una delle ultime scene del romanzo, cui seguono solo le poche pagine della breve Parte sesta (intitolata Gli altri), con rapide notizie sul matrimonio di Beatrice e Paolino. In questa rappresentazione della partenza di Demetrio è agevole riconoscere il segno dello stile e della vocazione narrativa di De Marchi. La partenza avviene senza tante cerimonie, accompagnata dal saluto commosso della nipote di lui, Arabella. Al realismo domestico, che costituisce una delle cifre essenziali del libro, si somma, qui, un’intonazione lirica che corrisponde al momento del congedo del protagonista dall’ambiente a cui ha sempre appartenuto. Lentamente, mentre il treno attraversa la campagna che circonda Milano, Demetrio si ritira dal mondo e si avvia verso una nuova quanto grama realtà. Il bilancio della sua esperienza sembra negativo, tuttavia qualcosa di insolito è penetrato nella sua vita e l’ha resa meno amara di sempre: cosí, sotto le malinconiche luci della stazione, si compone l’immagine di un uomo ormai stanco, ma in fondo pago di quanto ha saputo conquistare e pronto a sanare le piaghe del rimpianto con le serene lusinghe della rassegnazione. Il protagonista accetta il suo destino; eppure il finale del ro-

Realismo domestico e intonazione lirica

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LA NUOVA ITALIA

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manzo rimane volutamente ambiguo, come sospeso nel vuoto di un’esistenza senza valore che si allontana con discrezione e compostezza. [EDIZIONE: Emilio De Marchi, Demetrio Pianelli, a cura di A. Modena, Fondazione Bembo-Guanda, Parma 2000]

La stazione era andata di mano in mano popolandosi di gente che si aggirava frettolosa nella luce scialba e biancastra che pioveva dai globi, in mezzo al sordo rotolío delle carriole che menavano i bauli e alle voci sonore e imperiose che annunciavano le partenze. I treni in arrivo fischianti e rumoreggianti sotto la tettoia, il picchiar dei ferri, il suono delle catene, il bisbiglio, lo scalpiccío di tante persone mosse e sospinte anch’esse da pensieri, da voglie, da inquietudini proprie, o dalla forza delle cose, tutto ciò non bastò a distrarre Arabella dai pensieri indeterminati, misti di presentimenti e di risentimenti, coi quali essa cominciava troppo presto la storia della sua giovinezza. Guai se gli occhi avessero la vista del futuro! A distrarla tornò indietro lo zio Demetrio, che colla piccola ombrella sotto il braccio e il biglietto in mano le fece capire ch’era giunta l’ora d’andarsene. Giovann dell’Orghen prese la valigia e si avviò verso la scala d’ingresso. Arabella si attaccò al braccio dello zio e lo accompagnò fin sulla soglia. Era pallidissima, ma non piangeva, per non conturbare con lagrime inutili la malinconia del viaggiatore. Questi, col corpo in preda a piccole scosse, colle rughe del volto tese a uno sforzo supremo, disse ancora qualche cosa colla mano, mosse le labbra a un discorso che non volle uscire, e lí, sulla soglia, sotto gli occhi del controllore baciò sulla fronte Arabella, mettendole la mano sulla testa, come aveva fatto la sua mamma con lui. E si divisero senza piangere. Demetrio, quando si trovò solo nel suo scompartimento di terza classe, immerso nella poca luce d’un torbido lampadario giallognolo, poté abbandonarsi interamente, con minor soggezione di se stesso, alla piena dei vari pensieri, che in quell’epilogo della sua oscura tragedia uscivano da cento parti a invadere l’anima. Sentendosi la testa calda come un fornello, quando il treno cominciò a muoversi nella crescente oscurità della sera, appoggiò la faccia al finestrino e stette a bevere l’aria con le labbra aperte, cogli occhi fissi a un cielo non ancora chiuso del tutto agli ultimi respiri del crepuscolo. Passando sul cavalcavia del vecchio Lazzaretto, da dove la città si apre ancora alla vista del viaggiatore in tutta l’ampiezza del corso, coi suoi bianchi edifici, – e già splendevano di lu. popolandosi di gente: alla stazione di Milano, Demetrio aspetta di partire per la sua nuova destinazione. Il luogo va riempiendosi progressivamente di figure anonime che sanciscono l’avvenuto reinserimento del personaggio all’interno di una folla sconosciuta e silenziosa, pronta a scomparire rapidamente. . nella luce scialba e biancastra: la presenza di una luce fredda e alienante come quella della stazione accresce l’atmosfera di mesto e rassegnato grigiore che caratterizza la scena della partenza, ovvero l’ultimo atto della storia di Demetrio. . Arabella: è la nipote del protagonista, figlia di Cesarino e di Beatrice. De Marchi indugia sui pensieri e sui turbamenti di quello che sarà il personaggio principale del suo successivo romanzo (intitolato, per l’appunto, Arabella): non a caso, proprio sullo sguardo malinconico della ragazza si chiuderà il libro, come per siglare una vicenda di morte e di solitudine e aprirne un’altra, altrettanto dolorosa.

. Giovann dell’Orghen: è un sordomuto che vive facendo piccole commissioni e servizi di scarso conto per la famiglia di Demetrio. . E si divisero senza piangere: ai sentimenti che agitano l’animo della fanciulla e quello di Demetrio non è concesso di manifestarsi; alle parole e alle lacrime si sostituisce un decoroso silenzio, saturo di mille significati. . immerso … giallognolo: ancora un’indicazione sulla luminosità della scena. Predomina una forte sensazione di squallore che farà risaltare, per contrasto, il rapido e struggente succedersi dei ricordi del protagonista. . oscura tragedia: la vicenda di Demetrio è una piccola tragedia del quotidiano, oscura perché relativa a un personaggio anonimo, quasi indegno di essere ricordato. . a bevere: «a bere», cioè «a respirare». Ma l’immagine rende tutto il dramma interiore dell’uomo che si affretta a immagazzinare quell’aria familiare prima di non poterne piú godere.

T. NELL’ORBITA DEL NATURALISMO. EMILIO DE MARCHI

mi case e botteghe – la salutò con un sospiro. Poi il treno, affrettando la corsa, cominciò a battere la bassa campagna nelle umide e fitte tenebre della notte, assecondando colle sorde scosse il correre tumultuoso dei pensieri. Non era una campagna ignota, anzi erano gli stessi prati suoi, dov’era nato, dov’era cresciuto ragazzo. Oltre il quarto o il quinto casello cominciò a riconoscere anche al buio i vecchi fondi di casa Pianelli, e piú in là San Donato, e tra una macchia bruna di pioppi il fabbricato chiatto e lungo del cascinale, da dove una volta un Demetrio bifolco usciva coi piedi negli zoccoli e coi calzoni rimboccati fino al ginocchio. In una bassura, nascosta da un muro sormontato da un tettuccio a triangolo, riposava da venticinque anni una donna, una povera donna, che inutilmente anch’essa aveva lavorato per il bene de’ suoi. «Ciao, mamma…», disse una voce, che un Demetrio irritato e sordo non volle ascoltare. Un tratto ancora e il treno avrebbe rasentato uno stagno, all’orlo del quale appare la stupenda abbazia di Chiaravalle: ed eccola infatti uscire quasi dall’acqua livida, a venir addosso nella sua nera e solenne costruzione, colla stupenda macchina del campanile impressa come un’ombra sull’aria oscura; e piú in qua, segnato da alcuni lumi rossicci, il solido edificio delle Cascine, la reggia del signor Paolino. A quella chiesa quante volte aveva accompagnato la sua mamma nei tempi che meno si pensava alle miserie del mondo! C’erano, in quell’antico convento, degli angoli cosí tiepidi e santi, con certe figure lunghe e patetiche su per i muri: c’erano dei corridoi cosí lunghi con cento cellette che davano sul verde luminoso delle praterie: c’era, insomma, in quella vecchia badia del Medio Evo, un tal senso di riposo, che solo a pensarci il cuore se ne immalinconiva. Peccato non esserci vissuto trecent’anni prima! Peccato non esserci due braccia sotto terra. In quella chiesa Beatrice avrebbe detto il suo sí un’altra volta. Ributtato da questi pensieri, Demetrio si ritrasse dal finestrino, appoggiò la testa nell’angolo delle due pareti di legno, chiuse gli occhi come si atteggiasse a dormire; e mentre il treno lo portava via sbatacchiandolo, una canzone ancora in fondo al cuore sussurrò in tono quasi di canzonatura «T-oto… finito». . cominciò a battere: cominciò ad attraversare. . Non era una campagna ignota: il tono si fa elegiaco, a questo punto, e all’amarezza del presente si sovrappongono le memorie dell’infanzia, della campagna natia e della madre. Precedentemente, Demetrio s’era congedato da Milano con la stessa moderata tristezza, con gli stessi accenti mesti e colloquiali: «Dunque, addio tegole, addio abbaini, addio campanile delle Ore, addio vecchio duomo di Milano, che piú si guarda e piú diventa bello, piú diventa grande, come se ognuno vi aggiungesse per frangia i suoi pensieri migliori…». . i vecchi fondi: i vecchi terreni, i vecchi poderi. . San Donato: è un borgo della campagna appena fuori Milano, dove Demetrio ha trascorso l’infanzia che, tramite queste immagini, improvvisamente gli ritorna alla memoria. . il fabbricato chiatto: il fabbricato piatto. . una povera donna: è la madre di Demetrio, cui il figlio rivolge un saluto pieno d’amore e di riconoscenza. Nel momento della separazione da tutto ciò che gli è familiare, il protagonista sembra quasi voler ripercorrere il senso della sua esistenza, attraverso il recupero degli affetti piú cari. . la stupenda abbazia di Chiaravalle: si tratta della famosa abbazia cistercense costruita intorno al  e dominata da una torre altissima. In quella chie-

sa, come si dirà piú avanti, Beatrice sposerà il ricco cugino Paolino. . la reggia del signor Paolino: per Demetrio, la cascina del cugino è una reggia: in essa, è racchiusa una promessa di benessere e di felicità a cui il povero scribacchino sente di non poter neppure aspirare. . Peccato non esserci due braccia sotto terra: per i mali e per le miserie del mondo non c’è che una soluzione: la morte, che Demetrio vede come un porto di pace, come una soluzione definitiva e tuttavia serena, vissuta con un’intensa sensibilità cristiana. . In quella chiesa … un’altra volta: si noti che all’immagine della morte invocata dal protagonista succede immediatamente un’altra immagine, inevitabilmente connessa con la precedente, ovvero le nozze di Beatrice con un altro uomo. . «T-o-to… finito»: termina cosí la storia di Demetrio, con una nota che suona quasi di canzonatura. Il personaggio principale della storia scompare nel nulla: «Milano non si accorse menomamente della partenza del signor Demetrio Pianelli e, passato tanto tempo, nessuno pensava nemmeno ch’egli fosse al mondo» (cosí De Marchi all’inizio del capitolo successivo). C’è un che di amaro e anche di vagamente ironico in queste parole, atte a sancire la definitiva scomparsa dal mondo dell’«eroe» eponimo del romanzo.



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LA NUOVA ITALIA

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Edmondo De Amicis Il mio amico Garrone (da Cuore)

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La scuola e la vita: una serie d’esami

Dicotomia tra bene e male

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iorgio Manganelli sosteneva che Cuore è uno dei testi piú sadici della nostra letteratura, intriso di necrofilia e di gusto perverso per la rappresentazione delle difficoltà e delle umiliazioni che ci riserva l’esistenza. Il libro ritrae infatti le vicende di un gruppo di ragazzini sottoposti a prove di ogni genere: simile alla vita, la scuola è un susseguirsi di esami da superare, cui corrispondono, a seconda dei risultati, premi e punizioni. Questo mondo tutto infantile si presenta inoltre rigidamente diviso in classi, a immagine e somiglianza di quella società italiana di fine Ottocento in cui ogni tentativo fatto per abbattere le barriere sociali è affidato allo spirito di iniziativa dei singoli. Fra i ragazzi, oltre al narratore Enrico spiccano, per la differenza profonda che li colloca su posizioni opposte, i due personaggi piú famosi del diario: Garrone e Franti, ovvero l’incarnazione, da una parte, della bontà assoluta, dall’altra, della cattiveria, altrettanto assoluta. Sono perfettamente complementari l’uno all’altro ed è per questo che ci è parso utile presentarli insieme (Garrone è il protagonista del primo brano, Franti del secondo), come significativi «emblemi» dell’ideologia sottesa a Cuore. De Amicis mette in scena una realtà in cui è facilmente individuabile il confine fra il bene e il male, dal momento che poche ambiguità lascia trasparire l’universo in cui si muovono queste figurine a dir la verità poco concrete, spesso frutto di una programmatica volontà d’autore tesa a dare vita a una realtà improntata a solidi valori morali. All’interno di questo contesto, una figura come quella di Garrone colpisce per le sue doti straordinarie, che risaltano sulla media generale del gruppo degli scolari: il suo è un personaggio a tutto tondo e sembra imprimersi nella memoria proprio per l’eccezionalità che lo caratterizza. In fondo, è un adulto prestato a un mondo di ragazzini, della cui ingenuità e fragilità si erge a inesausto e incorruttibile difensore. [EDIZIONE: Edmondo De Amicis, Opere scelte, a cura di F. Portinari e G. Baldissone, Mondadori, Milano 1996]

, venerdí Non furono che due giorni di vacanza e mi parve di star tanto tempo senza rivedere Garrone. Quanto piú lo conosco, tanto piú gli voglio bene, e cosí segue a tutti gli altri, fuorché ai prepotenti, che con lui non se la dicono, perché egli non lascia far prepotenze. Ogni volta che uno grande alza la mano su di uno piccolo, il piccolo grida: – Garrone! – e il grande non picchia piú. Suo padre è macchinista della strada ferrata; egli cominciò tardi le scuole perché fu malato due anni. È il piú alto e il piú forte della classe, alza un banco con una mano, mangia sempre, è buono. Qualunque cosa gli domandino, matita, gomma, carta, temperino, impresta o dà tutto; e non parla e non ride in iscuola: se ne sta sempre immobile nel banco troppo stretto per lui, con la schiena arrotondata e il testone dentro le spalle; e quando lo guardo, mi fa un sorriso con gli occhi socchiusi come per dirmi: – Ebbene, Enrico, sia. cosí segue a tutti gli altri: «cosí succede anche a tutti gli altri». La bontà e l’affetto che ispira Garrone coinvolge sia il narratore, Enrico, che gli altri compagni di scuola. . che con lui non se la dicono: «che con lui non vogliono, e non possono, aver niente a che fare». Viene ribadita la consueta dicotomia fra bene e male, ovvero fra ragazzi buoni e ragazzi cattivi, rigida-

mente opposti gli uni agli altri. . alza un banco con una mano: a ribadire il ruolo di «gigante buono» che Garrone interpreta all’interno della sua classe. . impresta: da imprestare, voce popolare per «dare in prestito». . in iscuola: a scuola.

T. NELL’ORBITA DEL NATURALISMO. EDMONDO DE AMICIS

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mo amici? – Ma fa ridere, grande e grosso com’è, che ha giacchetta, calzoni, maniche, tutto troppo stretto e troppo corto, un cappello che non gli sta in capo, il capo rapato, le scarpe grosse, e una cravatta sempre attorcigliata come una corda. Caro Garrone, basta guardarlo in viso una volta per prendergli affetto. Tutti i piú piccoli gli vorrebbero essere vicini di banco. Sa bene l’aritmetica. Porta i libri a castellina, legati con una cigna di cuoio rosso. Ha un coltello col manico di madreperla che trovò l’anno passato in piazza d’armi, e un giorno si tagliò un dito fino all’osso, ma nessuno in iscuola se n’avvide, e a casa non rifiatò per non spaventare i parenti. Qualunque cosa si lascia dire per celia e mai non se n’ha per male; ma guai se gli dicono: – Non è vero, – quando afferma una cosa: getta fuoco dagli occhi allora, e martella pugni da spaccare il banco. Sabato mattina diede un soldo a uno della prima superiore, che piangeva in mezzo alla strada, perché gli avevan preso il suo, e non poteva piú comprare il quaderno. Ora sono tre giorni che sta lavorando attorno a una lettera di otto pagine con ornati a penna nei margini per l’onomastico di sua madre, che spesso viene a prenderlo, ed è alta e grossa come lui, e simpatica. Il maestro lo guarda sempre, e ogni volta che gli passa accanto gli batte la mano sul collo come a un buon torello tranquillo. Io gli voglio bene. Son contento quando stringo nella mia la sua grossa mano, che par la mano d’un uomo. Sono cosí certo che rischierebbe la vita per salvare un compagno, che si farebbe anche ammazzare per difenderlo, si vede cosí chiaro nei suoi occhi; e benché paia sempre che brontoli con quel vocione, è una voce che viene da un cor gentile, si sente. . per prendergli affetto: per volergli bene, per dimostrargli affetto. . a castellina: castellina è un diminutivo di castello. Perciò l’espressione vuol dire «porta i libri collocati uno sopra l’altro, come se formassero un castello». . non rifiatò: «non disse nulla». Questo episodio riportato da Enrico contribuisce a completare il ritratto di Garrone, la cui bontà non conosce cedimenti o debolezze.

. ma guai … vero: le stesse «furie» del personaggio sono giustificate, perché la sua ira (che si manifesta attraverso il fuoco dagli occhi o i «pugni da spaccare il banco») si scaglia soltanto contro chi osa mettere in dubbio la sua buona fede, la sua verità. . da un cor gentile: non è certo il caso di scomodare la tradizione poetica del «cor gentile», tuttavia anche solo la suggestione che l’espressione esercita sul lettore rinvia alla stretta corrispondenza esistente fra gentilezza e solidità morale.

La madre di Franti (da Cuore)

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el brano di Cuore qui di seguito riportato, Enrico riferisce di un patetico episodio avvenuto in classe, attraverso il quale De Amicis vuole sottolineare, con tutta l’evidenza drammatica di cui è capace, l’irrecuperabile negatività del personaggio di Franti. L’ingresso in aula della madre del terribile ragazzino non fa che aumentare il senso di distanza e di disapprovazione da parte dell’intera comunità dei buoni e dei meno buoni nei confronti di lui: le parole e i gesti della donna recano impressi i segni della disperazione e dello sconforto provocati da quel figlio degenere, che non perde occasione per dare prova della sua congenita cattiveria. Cosí, proprio la figura della madre, capace di umiliarsi di fronte a uno scalmanato gruppo di fanciulli pur di far riammettere il ragazzo a scuola, diventa il simbolo di tutti i sacri valori programmaticamente derisi da Franti. La famiglia, la scuola, la patria sono, infatti, i punti di riferimento ideali dell’intera storia, significativamente basata sulla benefica presenza di queste istituzioni nella società. Chi le disprezza, ribellandosi velleitariamente a tutto ciò che di positivo c’è nella pur banale realtà di ogni giorno, è un reietto, un emarginato, un clandestino destinato a essere cancellato dal consorzio civile degli uomini.

L’emarginazione del «cattivo»

Famiglia, scuola, patria: i valori

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, sabato Ma Votini è incorreggibile. Ieri, alla lezione di religione, in presenza del Direttore, il maestro domandò a Derossi se sapeva a mente quelle due strofette del libro di lettura: dovunque il guardo io giro, Immenso Iddio ti vedo. – Derossi rispose di no, e Votini subito: – Io le so! – con un sorriso come per fare una picca a Derossi. Ma fu piccato lui, invece, che non poté recitare la poesia, perché entrò tutt’a un tratto nella scuola la madre di Franti, affannata, coi capelli grigi arruffati, tutta fradicia di neve, spingendo avanti il figliuolo che è stato sospeso dalla scuola per otto giorni. Che triste scena ci toccò di vedere! La povera donna si gettò quasi in ginocchio davanti al Direttore, giungendo le mani, e supplicando: – Oh signor Direttore, mi faccia la grazia, riammetta il ragazzo alla scuola! Son tre giorni che è a casa, l’ho tenuto nascosto, ma Dio ne guardi se suo padre scopre la cosa, lo ammazza; abbia pietà, che non so piú come fare! mi raccomando con tutta l’anima mia! – Il direttore cercò di condurla fuori; ma essa resistette, sempre pregando e piangendo. – Oh! se sapesse le pene che m’ha dato questo figliuolo, avrebbe compassione! Mi faccia la grazia! Io spero che cambierà. Io già non vivrò piú un pezzo, signor Direttore, ho la morte qui; ma vorrei vederlo cambiato prima di morire perché… – e diede in uno scoppio di pianto, – è il mio figliuolo, gli voglio bene, morirei disperata; me lo riprenda ancora una volta, signor Direttore, perché non segua una disgrazia in famiglia, lo faccia per pietà d’una povera donna! – E si coperse il viso con le mani, singhiozzando. Franti teneva il viso basso, impassibile. Il Direttore lo guardò, stette un po’ pensando, poi disse: – Franti, va’ al tuo posto. – Allora la donna levò le mani dal viso, tutta racconsolata, e cominciò a dir grazie, grazie, senza lasciar parlare il Direttore, e s’avviò verso l’uscio, asciugandosi gli occhi, e dicendo affollatamente: – Figliuol mio, mi raccomando. Abbiano pazienza tutti. Grazie, signor Direttore, che ha fatto un’opera di carità. Buono, sai figliuolo. Buon giorno, ragazzi. Grazie, a rivederlo, signor maestro. E scusino tanto, una povera mamma. – E data ancora di sull’uscio un’occhiata supplichevole a suo figlio, se n’andò, raccogliendo lo scialle che strascicava, pallida, incurvata, con la testa tremante, e la sentimmo ancor tossire giú per le scale. Il Direttore guardò fisso Franti, in mezzo al silenzio della classe, e gli disse con un accento da far tremare: – Franti, tu uccidi tua madre! – Tutti si voltarono a guardar Franti. E quell’infame sorrise. . Votini: fra i compagni di Enrico, è quello che meglio rappresenta i privilegi delle classi alte, con il suo atteggiamento fatto di superbia e di presunzione. È invidioso dei successi di Derossi, il primo della classe. . dovunque … ti vedo: i due versi sono tratti dall’oratorio intitolato La passione di Gesú Cristo () di Pietro Metastasio. . come per fare una picca: come per fare un dispetto. . riammetta il ragazzo alla scuola: Franti era stato punito con una sospensione di otto giorni dalla scuola, poiché aveva fatto scoppiare un petardo in aula. . Franti … impassibile: la freddezza del ragazzo di fronte alla disperazione della madre colpisce Enrico che, del personaggio in questione, mette in evidenza soprattutto la profonda e inguaribile disumanità, ovvero una totale mancanza di sentimenti e di affetti positivi. . tutta racconsolata: del tutto consolata. . affollatamente: in maniera disordinata, ingarbugliando le parole.

. a rivederlo: leggi «arrivederla». . pallida … tremante: il ritratto della madre, a cui si aggiungono i singhiozzi disperati e le suppliche rivolte al direttore della scuola, suscita, nel lettore, un forte sentimento di pietà e aumenta il disprezzo nei confronti di Franti. A questa figura pallida e tremante possiamo contrapporre l’ottimistica baldanza di un’altra madre, quella di Garrone, cui Enrico accenna appena nel brano precedente e che tuttavia resta nei nostri ricordi, come una donna «alta e grossa … e simpatica», in tutto simile al figlio. . E quell’infame sorrise: la frase sigla l’intero passo e lo illumina di una luce cupa quanto cupo risulta il protagonista di queste pagine. Un riso di scherno compare sul suo volto, incapace di altre espressioni: nelle occasioni solenni o durante un momento come questo, quando cioè l’umiliazione della madre dovrebbe invitarlo alla contrizione e al pentimento, Franti sorride con sfrontatezza, irridendo ai valori piú sacri. Nell’aggettivo infame cogliamo tutto il disgusto di Enrico nei confronti della malvagità gratuita del compagno.

T. NELL’ORBITA DEL NATURALISMO. EDMONDO DE AMICIS

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I RACCONTI DI CUORE

Ogni mese, il maestro Perboni detta ai suoi allievi un racconto. L’espediente narrativo consente a De Amicis di mettersi alla prova, di volta in volta, con una novella edificante in cui vengono esaltati l’amor di patria, l’affetto nei confronti dei propri familiari, lo spirito di sacrificio di piccoli grandi eroi del quotidiano. Protagonisti dei racconti sono infatti ragazzi dall’animo coraggioso, capaci di offrire ai lettori variegati esempi di valore, di lealtà e di buoni sentimenti. In perfetta consonanza con l’operazione sottesa alla scrittura di Cuore – che vuole essere un perfetto manuale di comportamento per un’Italia unita alla ricerca di identità e di coesione – l’autore ambienta ciascuna storia in una regione diversa, quasi a voler offrire una mappa delle virtú italiche, incarnate da ragazzini pieni di buona volontà e, non a caso, di «cuore». Cosí, Il piccolo patriotta padovano, La piccola vedetta lombarda, Il piccolo scrivano fiorentino, Il tamburino sardo, L’infermiere di Tata, Sangue romagnolo, Valor civile, Dagli Appennini alle Ande e Naufragio offrono un significativo campionario di saggezza e di eroismo all’interno di un quadro che si fa efficace specchio della nazione di allora, alle prese con i gravissimi problemi dell’emigrazione meridionale, del lavoro minorile, della povertà e della fame. La realtà sociale che viene evocata è quella stessa che traspare dal diario di Enrico; tuttavia le novelle costituiscono un esercizio narrativo piú persuasivo, grazie al loro procedere asciutto e lineare, senza troppe facili concessioni al melodramma pur sotteso a ogni pagina. Le storie raccontate sono ricche di pathos, sapientemente distribuito all’interno di una struttura ben congegnata, dove meglio si esprime il talento dello scrittore De Amicis. Ogni racconto segue uno schema preciso, perfettamente organizzato in sequenze che procedono secondo un ritmo serrato per giungere a un epilogo generalmente tragico. Fa eccezione Dagli Appennini alle Ande che, peraltro, costituisce l’esempio piú riuscito fra le novelle dettate dal maestro. Si tratta della storia piú lunga: il protagonista, Marco, è un ragazzino genovese di tredici anni che, dall’Italia, s’imbarca per il Sud America alla disperata ricerca della madre. La donna, partita qualche anno prima alla volta di Buenos Aires per impiegarsi al servizio di una ricca famiglia della città, aveva da qualche tempo smesso di inviare sue notizie, generando preoccupazione e sconcerto all’interno della piccola famigliola rimasta in Italia. Cosí Marco decide di partire con i pochi denari che il padre può concedergli: tuttavia, duro si rivelerà quel viaggio, durante il quale il ragazzo si troverà costretto ad attraversare mari e terre sconosciute per arrivare a riabbracciare una madre ammalata e sofferente. Le avventure del «povero» Marco diventano cosí una vicenda paradigmatica capace di rappresentare, nel quadro di una triste realtà fatta di rinunce, di privazioni e di disagi, un’esperienza di formazione per un ragazzo già fortemente segnato dalle difficoltà dell’esistenza. La sequela di situazioni in cui si alternano, a dir la verità piuttosto schematicamente, personaggi negativi e positivi, scandisce il percorso a ostacoli che Marco deve compiere prima di rivedere la madre. Quando giungerà, infine, a destinazione, i suoi sacrifici saranno ricompensati, poiché quel viaggio senza meta e apparentemente senza speranza troverà il suo significato piú vero nell’affetto restituito a una donna in fin di vita.

DATI

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Antonio Fogazzaro MALOMBRA DATI

tav. 211

Pubblicato nel , lo stesso anno de I Malavoglia, Malombra è, tra quelli di Fogazzaro, il romanzo d’impianto meno legato al realismo, e piú incline piuttosto alle tradizioni del melodramma e dei romanzi «gotici» inglesi. Il fascino delle sue pagine, non a caso, risiede assai piú nel senso di mistero che l’autore seppe imprimere alle ossessioni e ai destini dei suoi personaggi, che non nella coerenza delle loro azioni e delle loro psicologie. Marina Crusnelli di Malombra vive in una villa sul lago di Como, ospite dello zio, il conte Cesare d’Ormengo. Il padre del conte, settant’anni prima, aveva segregato nella stessa stanza in cui ora dorme Marina la moglie Cecilia Varrega, colpevole di essersi innamorata di un ufficiale, Renato; e la donna, morta demente, aveva lasciato un manoscritto nel quale affidava a una futura incarnazione di se stessa di vendicarla contro i conti d’Ormengo: una missione di cui, venuta in possesso dell’autografo della nonna, Marina si convince di essere investita. Per informarsi meglio intorno alla reincarnazione, sotto il nome di Cecilia scrive all’autore di un racconto arcano, un certo Lorenzo, che le risponde di condividerne le idee. Lorenzo è in realtà lo pseudonimo di Corrado Silla, giovane ridotto in povertà, orfano di una cara amica del conte Cesare: il quale, con il pretesto di chiamarlo a collaborare a un lavoro «mezzo scientifico e mezzo letterario» cui sta attendendo, ma in realtà per offrirgli un sostegno, lo invita al suo castello, dove Silla diventa presto amico del capitano Steinegge, segretario del conte, e dove soprattutto incontra Marina, nella quale presto riconosce la sua corrispondente Cecilia. I due giovani si sentono subito attratti, ma non osano confessarlo; e anzi Marina, sospettando che Silla sia figlio illegittimo dello zio e voglia sposarla per impadronirsi dei suoi beni, inizia a trattarlo con freddezza e odio. Insultato in pubblico dalla fanciulla, Corrado decide di abbandonare durante la notte il castello. Sulla spiaggia s’imbatte però proprio in Marina, solita avventurarsi nottetempo sul lago con una sua imbarcazione; mentre ella lo accusa di essere venuto a spiarla, si alza una tempesta, ed è proprio Silla a riportare in salvo la barca. Qui, accomiatandosi da Marina con un abbraccio appassionato, la chiama con il nome del loro primo contatto, Cecilia; Marina ne resta fortemente turbata: mentre l’uomo si allontana, ella si accorge di amarlo. Nel frattempo, accompagnato dalla madre, giunge al castello Nepo Salvador, pretendente alla mano di Marina in quanto attirato dalle ricchezze del conte. Anche Edith, gentile e delicata figlia di Steinegge, arriva al palazzo: il suo primo pensiero è ricondurre il padre alla fede, con l’aiuto del parroco, don Innocenzo. Pur provando ribrezzo per Nepo, Marina ne accetta la proposta di fidanzamento, anche come mezzo per ritrovare Corrado, verso il quale si accende sempre piú di desiderio; Edith al contrario rifiuta la proposta di matrimonio dell’anziano ingegner Ferrieri, e con il padre decide di trasferirsi a Milano, dove l’uomo si guadagna da vivere dando lezioni di tedesco. Fra gli allievi di Steinegge ritroviamo Silla, per il quale Edith prova una viva simpatia, ostacolata dalla timidezza; il giovane da parte sua avverte che nell’amore di Edith riuscirebbe forse a dimenticare la sua torbida passione per Marina. Intanto però quest’ultima, prima di sposare il detestato Nepo, in uno stato di esaltazione sempre piú accentuato entra di notte nella camera dello zio, gli urla in pieno viso il nome di Cecilia e gli rinfaccia il delitto del padre nei confronti della nonna: il conte Cesare viene colpito da collasso, sta morendo. Chiamato da un telegramma di Marina giunge anche Silla, al quale, mentre è fra le sue braccia, la giovane mostra l’autografo della nonna, cercando di convincerlo di essere a sua volta la reincarnazione di Renato. Poi entra con lui nella camera dello zio moribondo dove, fra lo scandalo dei presenti grida: «Ecco Cecilia con il suo amante!». Il conte muore, Nepo si allontana. Silla è ormai deciso a sposare Marina, pur accorgendosi della sua follia; Marina però, sospettando che il giovane non la ami piú, lo uccide a tradimento con un colpo di pistola, poi scompare con la sua imbarcazione sul lago. Quando Edith, su consiglio di don Innocenzo, manda finalmente a Silla una lettera di risposta (e d’incoraggiamento) alle attenzioni ricevute, è ormai troppo tardi: alla fanciulla non rimane che piangere la morte del giovane e difenderne la memoria.

T. NELL’ORBITA DEL NATURALISMO. ANTONIO FOGAZZARO

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Marina allo specchio (da Malombra, II, )

m

arina ha appena informato lo zio Cesare di aver accettato la proposta di fidanzamento di Nepo Salvador; e sebbene dispiaciuto sia della scelta sia di non essere stato consultato preventivamente, il conte benignamente le ha risposto che non le sarebbe mancato da parte sua il sostegno economico necessario a farla ben figurare nella nuova famiglia. Alla distorta sensibilità della ragazza questo nobile comportamento, tenuto dal bersaglio del suo odio vendicativo, risulta insopportabile e necessariamente oggetto di una rapida elaborazione in negativo: non si tratta di un beneficio, ma di un volgare «pugno d’oro sul viso»; e il denaro immondo non l’avrebbe corrotta, né distolta dalla sua missione. A distrarla peraltro da queste riflessioni giunge la sua cameriera personale, per la toeletta della sera: l’eccitazione della ragazza per il matrimonio della padrona, e la sua speranza di poterla seguire nella nuova vita a Venezia, contrastano in modo stridente con le meditazioni di Marina, che ne viene fortemente irritata e al tempo stesso riportata ad altre tormentose emozioni. Come interpretare, ora, il fatto che appena dopo essersi promessa a Nepo le erano giunte finalmente notizie su Corrado Silla e sulla sua vita e residenza attuale? Il tentativo razionale di sminuire il valore dell’informazione fallisce, un gran vuoto piomba su Marina; e mentre il pensiero delle ingorde braccia di Nepo protese su di lei la riempe di disgusto, la visione della propria immagine seminuda allo specchio, in una della pagine piú sensuali scritte da Fogazzaro, le suscita soffocante il desiderio dell’uomo che amava, e che pure aveva indotto a fuggirla. In realtà, neppure ora la sua passione appare libera dalle sue ossessioni: Silla le appare l’uomo da amare, innanzitutto, perché l’aveva chiamata Cecilia; perché non slanciarsi subito al suo fianco? «Non si compiva cosí la predizione del manoscritto ch’ella sarebbe amata con quel nome?» (in realtà, per Corrado quello era solo il nome con cui Marina l’aveva inizialmente interpellato, per posta, come esperto di reincarnazione). E dal manoscritto, ancora una volta, giunge un’irrazionale via d’uscita: «Lasciar fare a Dio… La vendetta sarà buona su tutti. Qui, aspettarla qui». Si tratta di un episodio magistralmente gestito da Fogazzaro, il quale esercita qui al meglio le piú peculiari risorse della sua narrativa. L’atmosfera notturna, innanzitutto, si anima di presenze arcane attraverso suggestioni direttamente provenienti dal romanzo nero inglese sette-ottocentesco: basti pensare all’uso dei paragoni, alle «finestre… lucenti come occhi giallastri d’un gufo mostruoso», alle parole del conte penetranti come «una stilla d’inchiostro… sulla carta umida», ai «fiochi bagliori accesi come occhi di spiriti nelle arcane profondità del lago lucido», allo stipo «nero a tarsie bianche, come un sarcofago dove fossero incisi caratteri arcani»; immagini qui mai gratuite, perché evocate a rappresentare una sensibilità allucinata, le cui contorsioni mentali seguono percorsi tanto irrazionali quanto coerenti e affascinanti, lungo gli agili periodi del monologo interiore di Marina. Né l’autore trascura, in questo capitale snodo narrativo, l’erompere nel suo personaggio di laceranti pulsioni erotiche, suscitate dalla visione della propria bellezza in un palpitante gioco di specchi e penombre. Un motivo caratteristico della sua narrativa, ma qui condotto su un piano diverso da quello poi consueto del contrasto tra sensualità e idealità religiose: il desiderio, l’amore rappresentano infatti per Marina un richiamo della vita e del corpo contro l’autodistruttiva missione che si è attribuita, contro l’etica distorta della vendetta cui si è assoggettata; in questo caso, la vittoria della psiche comporta la definitiva caduta del personaggio. Nel brano, pur marginalmente, non va trascurato il breve dialogo tra Marina e la cameriera. Come spesso gli accade, Fogazzaro non sa resistere alla tentazione di dare a questi episodi un impianto bozzettistico, presentando su piani inconciliabili sensibilità distantissime: da un lato la profondità (per quanto qui patologica) dei suoi protagonisti, dall’altro la superficialità delle figure di contorno, spesso come qui di estrazione popolare. Ne risulta un’incomunicabilità irritante per la protagonista, ma narrativamente utile a distinguere i due diversi momenti psicologici da lei qui attraversati. [EDIZIONE: Antonio Fogazzaro, Tutte le opere, a cura di P. Nardi, vol. I, Mondadori, Milano 1931]

Passione, ossessioni

Atmosfera notturna da romanzo nero inglese

Pulsioni erotiche, momento di vita contro la missione di morte

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LA NUOVA ITALIA

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Tacevano i bisbigli nei corridoi, le persiane rigate di luce si oscuravano di botto, una dopo l’altra; ma la vecchia casa non dormiva ancora quieta. Nell’ala di ponente le finestre della camera d’angolo verso il lago erano aperte e tuttavia lucenti come occhi giallastri d’un gufo mostruoso. Marina vegliava. Era uscita dalla presenza del conte con il cruccio d’un pensiero molesto, con l’ombra sul cuore delle ultime parole pronunciate da lui. Il cruccio si sprofondava, l’ombra si allargava sempre piú, a misura che quelle parole velate pigliavano nella sua mente il loro significato certo, suonavano e risuonavano nella sua memoria, chiare, irrevocabili; come quando una stilla d’inchiostro cade quasi inavvertita sulla carta umida, che si allarga presto per ogni verso e si profonda. Mentr’ella attraversava lentamente la loggia col lume in mano, il pavimento che la reggeva, il tetto sopra il suo capo, le colonne, gli archi eran pieni di una voce sola, ed era la voce stessa di quel molesto pensiero fermo in fondo alla sua coscienza: beneficio. Beneficio dell’uomo che odiava e doveva odiare. No, non avrebbe riconosciuto questo debito mai. Non sarebbe mai giunta, questa bugiarda voce, a toccare i suoi odii, i suoi amori. Mai. Passò nel corridoio, e le parole dello zio le rimorsero il cuore tormentosamente; davanti, sull’altra scala, le appariva la smilza figura di lui, la gran testa severa illuminata di dolcezza. Solo quando entrò nella propria camera, fra le pareti pregne de’ suoi pensieri piú occulti, della essenza di lei stessa, custodi di tante cose sue e delle segrete voci de’ suoi libri prediletti, delle sue lettere, solo allora si sentí forte, e la sorda irritazione del suo cuore trovò un concetto, una via. Un pugno d’oro nel viso; ecco le parole del conte; ecco il beneficio. Gratitudine per questo? Le pareva di levarsi da terra in un impeto d’alterezza, di scuotere da sé il denaro immondo, di scuoterlo addosso a Nepo Salvador. Li disprezzava egualmente l’uno e l’altro; li odiava; piú dell’uomo, il denaro. Non ne aveva mai sentito come ora il tocco ributtante; era vissuta lungo tempo nel suo splendore senza vederlo, senza voler pensare che la luce intorno a sé fosse luce di una rapida corrente d’oro, versata da mille mani sucide e volgari, portata via da mille altre; e non luce della sua nobiltà, della sua bellezza, del suo genio elegante. V’era bene stata un’eclissi momentanea dopo la morte di suo padre ma piú sul volto delle persone che su quello delle cose intorno a lei. Sapeva che nel mondo il denaro è un dio; è voluttuoso sprezzare un dio. Era voluttuoso per lei irritare con le sue freddezze di gran dama la borghesia opulenta, bene aristocratizzata nelle donne, male negli uomini. Pretendeva che a questa gente si vedesse negli occhi e sulla fronte il bagliore dell’oro, che la loro voce avesse un suono metallico, che lo strascico d’ogni signora borghese ripetesse una fila di cifre. Schizzar su lei un getto d’oro non era beneficarla: altra gente si benefica cosí. Era piuttosto ferirla perché il denaro del conte Cesare doveva essere avvelenato d’inimicizia. Peggio ancora; intendeva egli forse saldare a quel modo la partita di tante prepotenze, di tante offese oblique e dirette? Certo lo intendeva. Come mai non l’aveva ella pensato prima? Suonò il campanello, per Fanny. Fanny faceva dei risolini in quella sera, apriva ogni tanto la bocca come se volesse parlare e non osasse, attendesse un invito. «Spero» diss’ella finalmente sciogliendo una treccia della sua padrona «che se Lei avesse ad andar via di qua, non mi abbandonerebbe mica, non è vero?» «Fa’ presto» rispose Marina. «Faccio presto, faccio presto. Come la mi piace mai quella signora contessa! Come la mi è cara!» E pigliò a sciogliere un’altra treccia. . Beneficio … odiare: Marina sta ripensando alla generosa offerta dello zio: «Per il Vostro decoro in questa circostanza penso io». «Per il mio decoro?» «Sicuramente. Voi entrate in una famiglia molto

ricca. Dovete entrarvi a fronte alta». . Come … contessa: la contessa Fosca Salvador, madre di Nepo.

T. NELL’ORBITA DEL NATURALISMO. ANTONIO FOGAZZARO

«È vero che a Venezia non ci sono carrozze? Sarà però sempre meglio di qua, dico io. Non è vero?» Marina non rispondeva. «Com’era contenta la signora contessa stasera! Mi ha fatto quasi un bacio. Povera donna! Mi vuol proprio bene. Mi ha detto che sono un tesoro. Povera signora! A me non sta bene di ripeterlo, ma mi ha proprio detto cosí. Lo dice anche la signora Catte, povera signora Catte, che di cameriere come me ce ne son poche dalle sue parti. È brava anche lei però. Bisogna vedere come cuce bene. Cuce quasi tanto bene come me. La mi ha detto adesso…» «Fa’ presto». «Faccio presto, faccio presto. La mi ha detto adesso che il signor conte ha voluto mangiarla, perché…» «Hai finito?» «Sí, signora» «Bene, vattene» «Non vuole che La spogli?» «No, non voglio niente. Vattene». Fanny esitò un poco. «È in collera con me?» «Sí» disse Marina per sbrigarsene «sí, sono in collera. Vattene». E si alzò scuotendo il fiume dei capelli biondo bruni che le cascava alle spalle sull’accappatoio. «Perché è in collera?» disse Fanny. «Per niente, per niente, vattene». «Che La senta» ripigliò Fanny rossa rossa «se fosse per certi bugiardoni qui di casa che Le avessero contate delle storie, non stia a crederci, perché dei signori giovani e belli ne ho conosciuti tanti e nessuno mi ha mai toccato un dito…» «Basta, basta, basta!» la interruppe Marina «non so che cosa tu voglia dire, non voglio saperlo. Non sono in collera. Ho sonno. Va’, va’». Fanny se ne andò. «Oh, carino» mormorò Marina, poi che rimase sola, «Benissimo, questo». Ella rilesse il biglietto della signora De Bella. Non ritrovò le impressioni di prima. Tutt’altro. Giulia aveva scoperto la traccia di Corrado Silla, aveva scritto subito, la lettera era giunta poco dopo che lei, Marina, aveva promesso a Nepo di sposarlo. E che perciò? Era un caso straordinario da vederci quello che ci aveva visto lei sulle prime, un passo del destino? Ella sapeva ora che Silla era a Milano, conosceva la sua abitazione. Gran cosa! Lo avrebbe saputo egualmente pochi giorni dopo, da Edith. Ma c’era solo un’ombra di lontano indizio che Silla dovesse tornare presto o tardi al Palazzo? Non v’era. Dunque? A che poteva riuscire questo aspettare inerte un dubbio destino? Su tale domanda il suo pensiero si fermò e poi si annientò ad un tratto, lasciandole la impressione di un gran vuoto e tutti i sensi tesi nell’aspettazione istintiva di qualche segno, di qualche voce delle cose in risposta. Udí il colpo sordo di un uscio chiuso da lontano; poi piú nulla. Neppure un atomo si moveva nel silenzio grave della notte. Le scure pareti, le suppellettili sparse nella penombra della stanza, chiuse nella loro immobilità pesante, non parlavano piú a Marina. I fiochi bagliori accesi come occhi di spiriti nelle arcane profon-

. Il biglietto … De Bella: Giulia De Bella era una corrispondente di Marina, e colei che prima l’aveva messa in contatto con lo scrittore Lorenzo, al secolo Corrado Silla. Proprio mentre conduceva la sua recita con i Salvador, Marina aveva ricevuto un nuovo messaggio dalla De Bella, che improvvisa-

mente l’informava di aver recuperato le tracce di Corrado, non piú fattosi vivo con Marina dopo il loro addio. . Edith: personaggio tra i piú importanti, per il quale rimandiamo alla scheda riassuntiva del romanzo.

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dità del lago lucido, la guardavano senza espressione alcuna. Subitamente le si ridestò il pensiero e insieme le cadde il cuore. Ella si vide salire in un carrozzone da viaggio con Nepo Salvador, sentí una frustata che sperdeva tutte le sue illusioni stupide, sentí la scossa della partenza, le ingorde braccia di Nepo; a questo punto si rialzò nello sdegno, confortata; non era possibile, nelle braccia di Nepo non sarebbe caduta mai, sposa o no. Ma questa idea ne trasse un’altra con sé. Ella aveva chiuso la lettera nello scannello ed era venuta a deporre l’accappatoio sulla sua bassa poltroncina di toeletta, di fronte allo specchio. Vi cadde a sedere, si guardò per istinto nello specchio illuminato da due candele che gli ardevano a lato sui loro bracci dorati. Si contemplò in quella tersa trasparenza sotto l’alto lume delle candele che le batteva sui capelli, sulle spalle, sul seno, e pareva rivelare una voluttuosa ondina sospesa in acque pure e profonde. Sotto i capelli lucenti il viso velato di ombra trasparente pendeva avanti, sorretto al mento da una squisita mano chiusa, piú bianca del braccio rotondo che si disegnava appena sul candore dorato del seno, sulla spuma sottile di trine che cingeva le carni ignude. Le spalle non somigliavano punto a quelle opulente della gentildonna del Palma. Non vi appariva però alcun segno di magrezza, e avevano nella loro grazia delicata, nel contorno alcun poco cadente, una espressione di alterezza e d’intelligenza, quali splendevano nei grandi occhi azzurri chiari, nel viso leggermente chinato al seno. E mai, mai, labbro di amante vi si era posato! Allora Marina, palpitando, lo immaginò. Immaginò che qualcuno, il cui viso ell’aveva veduto l’ultima volta al chiarore dei lampi, venisse da lontano, per la notte oscura e calda, ebbro di speranza e delle voci amorose della terra; che avanzasse sempre, sempre, senza posa; che varcasse, piú muto d’un’ombra, le porte obbedienti del palazzo, ascendesse brancolando le scale, spingesse l’uscio… Ella si levò in piedi soffocata da un’oppressione senza nome, emise un lungo respiro, cercando sollievo; ma l’aria tepida, profumata, era fuoco. Ah lo amava, lo amava, lo invocava, lo stringeva nelle sue braccia! Spense in furia i lumi dello specchio, ricadde di fianco sulla poltrona e, abbracciatane la spalliera, vi fisse il viso, la morse. Giacque lí un lungo quarto d’ora, tutta immobile fuor che le spalle sollevate da un palpitar forte e frequente. Si rialzò, alfine, cupa; e pensò. Perché non aver trattenuto Silla dopo udito il nome terribile? Perché, s’ella aveva perduto in sulle prime e moto e senso e volontà, non s’era slanciata poi quella notte stessa dietro a lui, a caso ma con l’istinto della passione, dietro a lui ch’ella aveva amato, come dubitarne? al primo vederlo, malgrado se stessa, con dispetto e rabbia, dietro a lui che l’aveva stretta nelle braccia chiamandola Cecilia? Non si compiva cosí la predizione del manoscritto ch’ella sarebbe amata con questo nome? Perché non fuggire, non cercare di lui subito? Perché questa commedia con Nepo Salvador? C’era bene il perché, e Marina non poteva dimenticarlo a lungo. Quelle ultime parole del manoscritto! «Lasciar fare a Dio. Sieno figli, sieno nipoti, sieno parenti, la vendetta sarà buona su tutti. Qui, aspettarla qui». E i fatti non accennavano già confusamente da lontano com’ella potrebbe raggiungere insieme la vendetta e l’amore? Le tornò la fede. Si alzò, prese la candela, venne sulla soglia dell’altra stanza e porse il capo a guardare lo stipo del secreto, alzando il lume con la sinistra. Era là, appena visibile nell’ombra della parete, nero a tarsie bianche, come un sarcofago dove fossero incisi caratteri arcani. Marina lo contemplò, dorata i capelli e le spalle ignude dal vivo chiaror tremulo che si spandeva intorno a lei per breve spazio di pareti e di pavimento. Ai suoi piedi oscillava l’ombra rotonda del candeliere. Fu assalita, pietrificata da una delle sue reminiscenze misteriose. Le pareva esser venuta su quella soglia un’altra volta, anni ed anni addietro di notte, discinta, con i capelli sciolti, aver visto ai suoi piedi l’ombra oscillante del candeliere, il lume intorno a sé per breve spazio di pareti e di pavimento, e, là davanti, lo stipo nero, i caratteri arcani.

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PICCOLO MONDO ANTICO

Fogazzaro definí il proprio romanzo piú fortunato un «libro buono… il piú gradito a mia madre»: ciò apparirà tanto più significativo se si confronterà il suo equilibrio narrativo non solo con le morbose suggestioni di Malombra o con le controverse implicazioni religiose dei romanzi successivi, ma ancor piú con il contesto letterario italiano che proprio nel  accanto a Piccolo mondo antico assisteva alla pubblicazione delle dannunziane Vergini delle rocce (cfr. ..). Agli antipodi dai furori dell’estetismo Fogazzaro costruisce qui un corale ritratto di un già perduto mondo regionale lombardo preunitario, un mondo manzonianamente dominato dall’arroganza del potere (qui incarnato dal regime austriaco e dalla marchesa Orsola, e contro il quale, invano, s’impegna la ricerca di giustizia di Luisa), ma al tempo stesso popolato da una folla di personaggi positivi, tutti ritratti con finezza. In una giornata nebbiosa e piovosa dell’ottobre del , la marchesa Orsola Maironi offre ad amici e autorità un grande pranzo nella sua villa di Cressogno in Valsolda, sul lago di Lugano, un territorio italiano soggetto all’Austria. Intenzione della marchesa è far conoscere al proprio nipote Franco Maironi una giovane di suo gradimento, per distoglierlo dal proposito, a lei noto, di sposare Luisa Rigey, una signorina «civile, ma non ricca né nobile», orfana di padre, e sostenuta soltanto dal generoso soccorso dello zio, l’ingegnere Piero Ribera. Franco, infastidito, evita però l’incontro; e dopo essersi scontrato con la nonna giudicando un bestione il Ricevitore di Dogana (dai presenti, tutti filoaustriaci, considerato un ottimo funzionario), si ritira nella sua camera sbattendo la porta. Franco, del resto, ha altro per la mente: la sera stessa intende sposare segretamente Luisa, dopo aver ricevuto l’approvazione per il matrimonio anche dalla madre della ragazza, la signora Teresa, che di Franco apprezzava soprattutto la profonda fede religiosa (che ella spera possa trasmettere alla figlia) e i seri propositi di mantenere personalmente la sua nuova famiglia. Si trattava, però, essenzialmente di propositi: poco incline agli studi giuridici, Franco si dedicava più spesso alle proprie improduttive inclinazioni poetiche e musicali; e anche la sua fede aveva più il carattere di una tranquilla e passiva devozione che non quello dell’attivo impegno del cristiano nel mondo. Da questo punto di vista, Luisa era ai suoi antipodi: razionalista e tiepida credente, era soprattutto animata da un forte senso della giustizia, e dunque destinata a essere delusa dalla debolezza di Franco nella volontà e nell’azione. Ma il primo ostacolo al loro rapporto era l’opposizione della marchesa, rigidamente aggrappata alle regole sociali e ai formalismi di un mondo già antico, sino a minacciare a Franco il castigo proprio e quello di Dio, qualora egli avesse attuato progetti matrimoniali da lei, sua tutrice, non approvati. Il matrimonio viene comunque celebrato a casa Rigey, e dopo la cerimonia la signora Teresa, gravemente inferma, invita Franco a parlare con il professor Gilardoni, un amico di famiglia informato su un importante segreto. Gilardoni, in effetti, è in possesso di un testamento del nonno di Franco nel quale il vecchio marchese, rivolgendo disonorevoli accuse alla marchesa Orsola, nominava erede universale il nipote. Informato, ma spinto dalla sua compiaciuta generosità naturale, Franco rifiuta di servirsi del documento, che chiede al Gilardoni di bruciare. A sostenere la nuova famiglia, anche dopo la morte della signora Teresa, pensa del resto sempre lo zio Piero, che accoglie i due sposi nella sua casa di Oria, felice di condividere la loro gioia e l’allegra vivacità della loro figlioletta Maria, da lui ribattezzata «Ombretta sdegnosa del Missipipí». Problemi ai coniugi Maironi, tuttavia, era destinato a suscitarli il loro impegno patriottico, alla vigilia della seconda guerra d’indipendenza: funzionari di polizia perquisiscono la loro casa e giungono ad arrestare Franco (pur per brevissimo tempo); al tempo stesso la vendetta della marchesa Orsola si concretizza nella destituzione, da lei sollecitata, dell’ingegnere Piero Ribera dal suo incarico governativo. Di fronte a tali prevaricazioni, le aspirazioni di giustizia di Luisa risultano sempre piú insoddisfatte dall’inerte atteggiamento di Franco, da cui la dividono anche le idee sull’educazione di Maria; quando ella giunge ad approvare il tentativo di Gilardoni di far valere presso la marchesa il testamento che Franco credeva ormai in cenere, il rapporto tra i due entra ancora piú in crisi. Franco parte esule per Torino, dove cerca di attenuare i tormenti familiari nell’ardore patriottico, mentre tra i due sposi si susseguono scambi epistolari a difesa delle proprie posizioni, ma mai privi di affetto. In occasione dell’ennesimo tentativo di Luisa di far valere i propri diritti di fronte alla vecchia marchesa, si verifica la svolta drammatica: la piccola Maria, mentre gioca sulla riva del lago, muore annegata. Per Luisa è un colpo insostenibile, che le suscita laceranti sensi di colpa e al tempo stesso la sensazione di essere vittima di un destino cieco e ingiusto; per Franco invece, sorretto da una fede in crescita, la prova del dolore ha l’effetto di una sferzata positiva: mentre si getta sempre piú decisamente

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nell’impegno politico comincia a comprendere meglio le ragioni di Luisa, e tutti i limiti del proprio comportamento passato. Nel febbraio del , alla vigilia dell’arruolamento di Franco come volontario, i due sposi si ritrovano all’Isola Bella, sul lago Maggiore. Luisa, renitente, ancora morbosamente legata alla memoria di Ombretta, vi è stata condotta dallo zio Piero; ma nelle tredici ore trascorse con lo sposo, lentamente, il suo cuore ritrova calore, e la notte segnerà il concepimento in lei di una nuova vita (quella di Piero Maironi, futuro protagonista di Piccolo mondo moderno e del Santo), proprio nel giorno in cui lo zio Piero, serenamente, si spegne.

La fine di un mondo, l’avvento di un altro (da Piccolo mondo antico, III, )

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Dalla disperazione al risveglio degli affetti

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elle pagine che presentiamo, quelle che chiudono il romanzo, incontriamo in una delle sue prove migliori un Fogazzaro ben distante dall’inquietante e sensuale narratore di Malombra. Il fascino di questo finale, pur inserito su uno sfondo lacustre delicatamente disegnato su plumbee tonalità, risiede essenzialmente nella fine rappresentazione psicologica dei protagonisti, e soprattutto nel percorso emozionale compiuto da Luisa: dal gelo iniziale al ritrovato affetto per Franco, dalla disperazione alla nuova apertura alla vita. Un’evoluzione, si badi, compiuta sul piano del piú puro realismo, senza alcun effetto a sorpresa, senza alcun intervento dall’esterno, anche se può apparire forzata l’insistenza finale sulla voce interiore che avverte la donna della nuova pagina che si apre nel Libro del suo Destino; semplicemente, di fronte all’amore e alla fede del marito, finalmente resi vivi dalla passione per un ideale, l’onda dei ricordi, le attenzioni concrete di lui, i rimproveri espliciti alla sua inattesa debolezza di fronte al dolore risultano richiami irresistibili al risveglio di affetti che Luisa credeva perduti. A far risaltare questo sottile percorso psicologico contribuisce, per contrasto, il carattere familiare dell’ambientazione, in cui essenziale risulta la cordialità di cui si connota la positiva figura dello zio Piero, il benefattore di sempre. La tensione latente nel dialogo tra i due sposi si stempera ogni volta che la parola passa allo zio, una parola cordiale non solo nei contenuti, ma anche nei frequenti regionalismi che la caratterizzano. Non va infatti trascurata l’abilità stilistica di queste pagine, generalmente improntata a un tono linguistico medio, di grande equilibrio: basti pensare all’«inaspettata potenza espressiva» (Devoto) data al racconto dai nomi latini di piante (gli Strobus) nel suo punto forse piú alto, la conclusiva morte dello zio Piero. [EDIZIONE: Antonio Fogazzaro, Tutte le opere, a cura di P. Nardi, vol. V, Mondadori, Milano 1931]

Luisa si pose alla finestra. Il battello di Arona doveva esser vicino, l’uomo di prima s’incamminava lentamente verso lo sbarco e poco dopo si udí un rumor lontano di ruote. Lo zio disse a Luisa che si sentiva stanco e rimaneva in camera. Ella discese verso il ponte dello sbarco e si fermò presso una casupola che toglieva di vedere il battello di cui udiva il fragore. A un tratto la prora del San Gottardo le uscí davanti lentamente e si fermò. Luisa riconobbe suo marito fra un gruppo di persone che gli facevano un grande chiasso intorno. Franco la vide, saltò sul ponte, corse a lei che fece due passi avanti. Si abbracciarono, egli muto, cieco d’emozione, ridente e lagrimoso, pieno di gratitudine e anche trepido, incerto circa l’animo di lei, circa il modo di regolarsi; ella piú composta, pallidissima e seria. «Addio», ripeteva, «addio», e s’incamminò verso l’albergo. Venne allora da Franco una furia di domande sul suo viaggio, sul passaggio del confine, pri. la prora del San Gottardo: il battello su cui era imbarcato Franco.

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ma; poi sullo zio. Quando nominò lo zio, Luisa alzò il viso e disse: «Guarda!». Lo zio era lassú alla finestra e gittò abbasso un addio sonoro agitando il fazzoletto. «Oh!», fece Franco, stupefatto; e prese la corsa. Lo zio aspettò sul pianerottolo della scala con una espressione di contentezza persino nel ventre pacifico. «Ciao, neh», diss’egli e gli prese le mani, gliele scosse tenendolo a distanza. Non avrebbe voluto baci, come se in quel momento significassero ringraziamenti, ma non poté difendersi dall’impeto di Franco. «Figurati», diss’egli appena svincolatosi dalle braccia del giovane, «se una Maironi può viaggiare senza maggiordomo! Son poi anche venuto ad arruolarmi nei bersaglieri!» E l’uomo stanco discese le scale dicendo che andava a ordinare il pranzo. Non v’era canapè nella stanza degli sposi. Franco trasse Luisa a sedere sul letto, le sedette accanto, le cinse con un braccio le spalle, incapace di un discorso qualsiasi, non sapendo dire che «ti ringrazio, ti ringrazio», non trovando che impetuose carezze, impetuosi baci, nomi di tenerezza. Luisa tremava a capo chino, non gli rispondeva in alcun modo ed egli si frenò, le prese il capo come una cosa santa, le andò sfiorando con le labbra, qua, là, i capelli bianchi che vedeva. Ella capí che cercava i capelli bianchi, intese quei timidi baci, si commosse, le parve sentirsi sgelare il cuore, fu presa da sgomento, volle difendersi piú contro se stessa che contro Franco. «Sai», disse, «ho il cuore tanto freddo, non volevo neanche venire, non volevo lasciar Maria né che tu avessi l’amarezza di trovarmi cosí. È stato causa lo zio che venissi. Voleva venir solo e allora mi sono decisa». Dette le parole crudeli, sentí levarsi dai suoi capelli le labbra di Franco, levarsi il braccio dalle sue spalle. Tacquero ambedue; poi Franco mormorò con dolcezza: «Sono tredici ore. Forse dopo non ti darò noia mai piú». In quel punto entrò lo zio Piero e annunciò che il pranzo era pronto. Luisa prese la mano di suo marito, gliela strinse in silenzio, non con la stretta d’un’amante, ma pure abbastanza forte per significargli ch’era una commossa risposta. A pranzo né Luisa né Franco mangiarono. Invece lo zio mangiò con appetito e parlò molto. Egli non approvava che Franco prendesse le armi. «Che soldato vuoi riuscire tu?», gli diceva. «Cosa farai senza la canfora, l’acqua sedativa e il cossa soja mi?» Franco dichiarò che aveva buttato via tutti i rimedi, che si sentiva di ferro, che sarebbe stato il piú robusto soldato del °. «Sarà!», brontolò lo zio. «Sarà! E tu, Luisa, non dici niente?» Luisa rispose ch’era persuasa di quanto aveva detto suo marito. «N’occor alter!», fece lo zio. «Evviva!» Egli aveva poi anche un gran concetto della potenza austriaca e non vedeva roseo come Franco. Secondo Franco, non c’era da dubitare della vittoria. Egli aveva veduto un aiutante di Niel venuto segretamente a Torino, gli aveva udito dire ad alcuni ufficiale piemontesi di Stato Maggiore: «Nous allons supprimer l’Autriche». Certo, bisognava lasciare almeno cinquantamila cadaveri italiani e francesi tra il Ticino e l’Isonzo. «Scusi, signore», disse il cameriere che serviva. «Mi pare che il signore parlasse di entrare nel ° reggimento!» «Sí!» «Brigata Regina. Brava brigata. Io ho servito nel °. Ci siamo fatti onore nel , ehi! Goito, Santa Lucia, Governolo, Volta! Adesso tocca a loro». «Faremo il possibile». Luisa ebbe un lieve brivido. Gl’inglesi che pranzavano alla tavola vicina intesero il dialogo, guardarono Franco. Per qualche momento nessuno parlò nella sala; vi passò la visione di una colonna di fanteria lanciata alla baionetta, fra la mitraglia. Dopo pranzo lo zio rimase all’albergo per il suo solito chilo e Franco uscí con Luisa. Presero a destra, verso il Palazzo. Faceva piuttosto scuro, cadeva qualche rara gocciolina, gli scalini che mettevano dalla riva al cortile della villa erano umidi, si sdrucciolava. Franco of. non volevo lasciar Maria: Luisa non avrebbe voluto staccarsi neppure un istante dalla tomba e

dalla memoria della figlioletta scomparsa. . cossa soja mi: che so io.

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ferse il braccio a sua moglie che lo prese in silenzio. Si fermarono tra il cortile deserto e la scala dello sbarco a contar le ore che suonavano all’orologio del Palazzo. Sei. Erano passate due ore, ne restavano altre undici; poi veniva la separazione, l’ignoto. Si incamminarono lentamente, sempre senza parlare, per il viale diritto fra il lago e il fianco del Palazzo, a quell’angolo che guarda l’isola dei Pescatori, dove si vedeva già qualche lume. Due donne venivano loro incontro a braccetto, chiacchierando. Franco le lasciò passare e poi domandò a sua moglie se si ricordava dei Rancò. Due anni prima del loro matrimonio avevano fatto con altri amici una passeggiata a Drano e ai Rancò, alti pascoli di Valsolda, che si attraversano per salire al Passo Stretto. Avevano avuto una disputa vivace, un’ora di broncio e di tormento. «Sí», rispose Luisa. «Mi ricordo». Sentirono ambedue nello stesso momento quanto l’ora presente fosse diversa da quella e quanto ciò fosse doloroso a dire. Non parlarono piú fino all’angolo. Un suono di campane veniva dall’isola dei Pescatori. Franco lasciò il braccio di sua moglie, si appoggiò al parapetto. Il lago nebbioso taceva, nulla si vedeva oltre i lumi dell’altra isola. Il lago, la nebbia, quei lumi, quelle campane che parevano di una nave perduta in mare, il silenzio delle cose, le stesse rade minute goccioline di piova, tutto era cosí triste! «E ti ricordi poi?», mormorò Franco senza voltar il viso. Anche Luisa s’era appoggiata al parapetto. Tacque un poco, indi rispose sottovoce: «Sí, caro». Ah, vi era nel suo caro un lieve recondito principio di calore, di emozione affettuosa. Franco lo sentí, n’ebbe una scossa di gioia ma si contenne. «Penso», riprese, «alla lettera che t’ho scritto subito, appena ritornato a casa e alle tre parole che mi hai detto il giorno dopo, a Muzzaglio, quando gli altri ballavano sotto i castagni e tu mi sei passata vicina per andar a prendere il tuo scialletto che avevi posato sull’erba. Te le ricordi?» «Sí». Egli le prese una mano, se la recò alle labbra. «Ti ringrazio ancora», diss’egli, «per quelle tre parole. Allora sono state la vita per me. Ti ricordi che nella discesa t’ho dato il braccio e che c’era chiaro di luna?» «Sí». «E ti ricordi che ho fatto uno sdrucciolone prima di arrivare al ponte e che tu mi hai detto: “Caro signore, tocca a Lei di sostenere me”?» Luisa non rispose, gli strinse la mano. «Non sono stato buono a nulla», diss’egli tristemente. «Non ti ho saputo sostenere». «Hai fatto tutto quello che potevi». La voce di Luisa, dicendo cosí, era fioca, ma ben diversa da quando ell’aveva detto: il mio cuore è freddo. Suo marito le riprese il braccio, ritornò con lei, a passi lenti, verso lo sbarco. Il caro braccio non era inerte quanto prima, tradiva un’agitazione, una lotta. Franco si fermò e disse piano: «E se vado dalla Maria? Cosa le devo dire di te?» Ella fu presa da un tremito, gli posò il capo sulla spalla e sussurrò: «No, resta». Franco non intese, domandò: «Cosa?». Non udí rispondere, piegò adagio adagio il viso, vide le labbra di lei porgersi, vi posò le sue. Il cuore gli batté, gli batté forte, piú forte ancora di quando aveva baciato Luisa la prima volta come amante. Rialzò il viso, non poteva neppur parlare. Finalmente gli riuscí di metter fuori queste parole: «Le dirò che hai promesso…». «No», mormorò Luisa, accorata, «quello non lo posso, non domandarmelo, non è piú possibile». «Cosa, non è possibile?» . Non sono … sostenere: non solo un episodio, ma in realtà una prefigurazione della successiva vita coniugale; e un profondo riconoscimento da parte di Franco delle proprie responsabilità.

. E se … di te?: alla convinta fede di Franco, la morte appare in primo luogo come ricongiungimento con la figlia, già salita in cielo.

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«Oh, intendi bene! Anch’io ho inteso bene cosa volevi dir tu». Ella riprese a camminare, volendo staccarsi da quel discorso. Tenne però il braccio del marito, che la fermò. «Luisa!», diss’egli, severo, quasi impetuoso. «Mi lascerai partire cosí? Sai cosa vuol dire per me partire cosí?» Ella ritirò allora lentamente il braccio di sotto quello di lui e si voltò a destra verso il parapetto, vi si appoggiò guardando l’acqua come a Oria, quella sera. Franco le restò diritto accanto, attese un poco e poi le domandò di rispondergli. «Per me sarebbe meglio finirla nel lago», diss’ella, amaramente. Suo marito le cinse la vita con un braccio, la strappò dal parapetto e la lasciò libera, levò il braccio in aria. «Tu?», esclamò con sdegno. «Parlar cosí, tu che dicevi sempre di prender la vita come una guerra? E il tuo modo di combattere sarebbe questo? Io credevo una volta che la piú forte fossi tu. Adesso intendo che sono io il piú forte. Molto piú! Sai neanche immaginare cosa ho sofferto io in questi anni? Sai neanche immaginare…» Sentí la voce sfuggirsi un momento ma si padroneggiò e proseguí: «Sai neanche immaginare cosa tu sei per me e cosa farei per non darti senza necessità un piccolo dolore, mentre pare che a te non importi nulla di lacerarmi l’anima?». Ella gli si gettò fra le braccia. Nel silenzio che seguí, rotto solo da uno spasimo di singhiozzi repressi, Franco udí venir gente e durò fatica a staccarsi sua moglie dal petto, a riprender con essa il cammino dell’albergo. «Tu! tu!», sussurrò. «E non vuoi che desideri di morire io, quando posso morir bene, per il mio paese?» Luisa gli stringeva il braccio senza parlare. Incontrarono due giovani amanti, che passando loro accanto li guardarono curiosamente. La ragazza sorrise. Giunti agli scalini che scendono sul piazzaletto davanti a S. Vittore, udiron voci di ragazzi e di donne. Luisa si fermò un momento sul primo scalino e disse piano le tre parole di Muzzaglio: «Ti amo tanto». Franco non rispose che con una stretta del braccio. Discesero gli scalini adagio adagio, rientrarono all’Albergo del Delfino. Alcuni giovinotti che bevevano, fumavano e schiamazzavano si alzarono all’apparir di Franco e di Luisa, si fecero loro incontro tutti, tranne uno che approfittò del momento buono per vuotare l’ultima bottiglia. «Signora», disse il primo che si presentò a Luisa. «Suo marito Le avrà già annunciato i Sette Sapienti». Successe subito un gran baccano perché Franco aveva dimenticato di dire a Luisa che i suoi amici eran venuti con lui da Torino e s’erano spinti, per discrezione, fino a Pallanza, promettendo una visitina d’omaggio alla signora. «El piú sapiente son mi», disse alzandosi il Padovano, che aveva vuotata la bottiglia. «Vualtri fe’ bordelo e non beví; mi bevo e no fazzo bordelo». «Quello, signora», disse un bel giovane, «è, com’Ella ben intende, l’asino sapiente della compagnia». «Tasi, Fante!» «Signora!», fece il Padovano avanzandosi e salutando. «Ah, Lei è il signor Fante di bastoni?», disse Luisa, sorridendo, al bel giovane. Ella fu affabile con tutti, ebbe un gran successo dicendo a un uomo alto, magro, dai baffi arricciati: «Lei dev’essere il signor Caval di spade. «No xe vero, signora», esclamò il Padovano mentre gli altri applaudivano, «che se vede la bestia?» Erano venuti da Pallanza in barca e volevano ripartire subito, ma Franco fece portare altre due bottiglie e il chiasso divenne cosí enorme, malgrado la presenza di Luisa, che l’albergatore venne a pregare, per amore de’ suoi inglesi, di non far tanto «rabello». Il Padovano gli snocciolò dolcemente una litania placida di vituperi padovani. Colui non capí, fece un risolino stupido e se n’andò. I Sapienti eran venuti sul lago per godere anche loro una giornata di libertà prima di arruolarsi. Entravano tutti, meno il Caval di spade, nello stesso reggimento. Bevvero al ° fan. I Sette Sapienti: i Sette sapienti era il nome goliardico di sette amici di Franco, che lo avevano

accompagnato da Torino e si erano voluti intrattenere per una visita d’omaggio a Luisa.

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teria, alla brigata Regina, a tutti i «pistapauta» nazionali nel presente e nell’avvenire e discussero sul luogo e il nome della prima battaglia che si darebbe agli austriaci. Tutti i voti meno quello del Padovano furono per una «battaglia del Ticino». Il Padovano voleva una battaglia di Gorgonzola. «No sentí che nome militar? Battaglia di Gorgonzola erborinato. Asèo!» Era scritto nel Libro del Destino ch’egli sarebbe caduto appunto nella prima battaglia, a Palestro, con una scheggia di granata nella coscia, combattendo da buon soldato a due passi dal colonnello Brignone. Quei giovani parlavano di battaglie con entusiasmo ma senza spacconate, parlavano della futura Italia dicendo alquante corbellerie, ma si sentiva che non importava loro un fico secco della vita pur di farla libera, questa vecchia patria, e grande. «Ghe pàrele teste da far l’Italia?», disse il Padovano a Luisa. «Gnanca So marío, sala. Un bon toso, ma par far l’Italia, gnente. La vedarà che razza de Italia che vien fora! I nostri fioi ne farà un monumento, ma dopo vegnarà, capisela, con licenza, quelle figure porche de quei nevodi, che me par de sentirli: “Che da can”, i dirà, “che i la ga fata, quei veci insensai, sta Italia!”» I Sapienti partirono dopo essersi accordati con Franco di trovarsi l’indomani mattina sul primo battello. Franco li accompagnò alla barca e intanto sua moglie salí a vedere lo zio Piero. Egli aveva dato l’incarico all’albergatore di avvertire i suoi nipoti che, sentendosi molto sonno, era andato a letto. Infatti Luisa lo udí dormire rumorosamente. Posò il lume e attese Franco. Egli venne subito e fu sorpreso di udire che lo zio dormiva già. Avrebbe voluto pigliar congedo da lui prima d’andar a letto, perché il battello partiva di gran mattino, alle cinque e mezzo. L’uscio della camera era chiuso, tuttavia Luisa pregò suo marito di camminare in punta di piedi e di parlar sottovoce. Gli raccontò ciò che le aveva detto la Cia. Lo zio aveva bisogno di riposo. Ella sperava che sarebbe rimasto a letto fino alle nove o alle dieci e contava partire al tocco, andar a dormire a Magadino per non affaticarlo troppo. Insistette molto su queste apprensioni per la salute dello zio; parlava, parlava, nervosamente, volendo tener lontani altri discorsi, tener lontane con quest’ombra carezze troppo tenere. In pari tempo andava e veniva per la camera, pigliando e posando le stesse cose, un po’ per nervosità, un po’ con la intenzione che suo marito si coricasse prima di lei. Egli pareva dal canto suo molto occupato di una borsa a tracolla che non riusciva ad aprire. Finalmente l’aperse, chiamò sua moglie a sé, le diede un rotolo d’oro, cinquanta pezzi da venti lire. «Capisci», le disse, «che almeno per qualche mese non potrò mandar nulla. Questi non sono miei, li ho avuti a prestito». Poi trasse di tasca una lettera suggellata. «E questo è il mio testamento», soggiunse. «Ho poco ma devo pur disporre anche di quel poco. Vi è un legato solo, la spilla di mio padre che hai tu, per lo zio Piero; e vi è il nome della persona cui devo le mille lire. A parte del testamento ci sono due righe particolari per te. Ecco». Egli parlava con dolcezza grave, senza commozione. A lei, nel prendere la lettera, le mani tremavano. Gli disse «grazie», cominciò a sciogliersi le trecce, poi se le riannodò, non sapeva bene che si facesse, combattuta dal fantasma della sua morta e da un’altra visione di guerra e di morte. Disse con voce rotta che dovendo alzarsi presto per accompagnarlo al vapore pensava di non sciogliersi le trecce e di coricarsi vestita. Franco non fece parola, pregò brevemente e si cominciò a spogliare, si levò dal collo una catenella e una crocettina d’oro ch’erano state di sua madre. «Tienle tu», diss’egli porgendole a Luisa. «È meglio. Non si sa mai, potrebbero cadere in mano ai croati». Ella inorridí, tremò, esitò un istante, gli si gettò al collo, glielo strinse da soffocarlo. Il cameriere bussò all’uscio degli sposi verso le quattro e mezzo. Alle cinque Franco entrò col lume nella camera dello zio ch’era svegliato. Prese congedo da lui e propose quindi a Luisa che anche il loro congedo seguisse lí. Ell’aveva nel viso e anche nella voce una espressione di stupore grave, dolente. Non si commosse, non pianse, abbracciò e baciò suo marito come trasognata e come trasognata discese le scale insieme a lui. Passò forse in esso un lampo del pensiero che occupava l’animo di lei? Se ciò avvenne fu nel salotto dell’albergo

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mentre prendeva il caffè e sua moglie gli sedeva in faccia. Parve che scoprisse qualche cosa in quello sguardo, in quella fisionomia, perché si fermò a contemplarla con la tazza di caffè in mano e poi gli si diffuse sul volto una tenerezza, un’ansia, una commozione inesprimibile. Ella, manifestamente, non desiderava di parlare ma egli sí. Una parola occulta gli fremeva in tutti i muscoli del viso, gli luceva negli occhi; la bocca non osò dire niente. Discesero al ponte di sbarco tenendosi per mano, si appoggiarono al muro cui s’era appoggiata Luisa il giorno prima. Quando udirono il fragore delle ruote si abbracciarono per l’ultima volta, si dissero addio senza lagrime, piuttosto sconvolti dal loro comune pensiero occulto che afflitti dalla separazione. Il battello arrivò con fracasso, furon gittate e legate le corde. Una voce gridò: «Avanti chi parte!». Un bacio ancora: «Dio ti benedica!», disse Franco e saltò sul battello. Ella rimase fino a che fu possibile udire il rumor delle ruote che si allontanavano verso Stresa. Poi ritornò all’albergo, sedette sul letto, stette lí come petrificata in quest’idea, in questa istintiva certezza ch’era madre una seconda volta. Benché fosse appunto la cosa tanto temuta, non si può dire che ne provasse afflizione. Lo stupore di sentirsi dentro una voce cosí forte, chiara e inesplicabile, vinse in lei ogni altro sentimento. Era sbalordita. Aveva sempre pensato, dopo la morte di Maria, che il Libro del Destino nulla potesse piú avere di nuovo per lei, che certe intime fibre del suo cuore fossero morte. E adesso una Voce arcana parlava proprio là dentro, diceva: «Sappi che nel Libro del tuo Destino una pagina si chiude, un’altra si apre. Vi è ancora per te un avvenire di vita intensa; il dramma, che tu credevi finito al secondo atto, continua e dev’essere straordinario se Io te lo annuncio». Per tre ore, sino a che lo zio Piero non la chiamò, Luisa restò assorta in questa Voce. Lo zio si alzò alle nove e mezzo. Stava bene. Il tempo era umido ancora, quasi piovigginoso, ma egli non volle saperne di restar in casa, come Luisa avrebbe desiderato, sino all’ora di partire per Magadino. Sapeva, per averne chiesto all’albergatore, che dalle nove in poi si poteva visitare il giardino, e alle dieci, preso il suo latte, vi si avviò con Luisa. Passando da San Vittore desiderò entrarvi, veder le pitture. Vi si stava dicendo messa, il celebrante si voltava a dire: «Benedicat vos omnipotens Deus». Lo zio si fece un gran crocione, ascoltò l’ultimo vangelo, rinunciò a veder le pitture perché c’era poca luce e uscí di chiesa dicendo con la sua giovialità solita: «Eccomi felice e contento d’essere andato a farmi benedire». Non era possibile aver fretta, con lui. Si fermava ad ogni passo, guardando tutto che avesse forma d’arte, tutto che fosse disposto per venir guardato. Contemplò la facciata della chiesa, la triplice gradinata dello sbarco Borromeo, ciascuno dei tre lati del cortile e la gran palma nel mezzo, che Luisa, con grave scandalo di lui, non aveva neppur veduta passando di là insieme a Franco, la sera prima. Quando il custode li introdusse nel Palazzo ci vollero almeno dieci minuti per salire, ammirando, lo scalone. Come ne fu a capo uscí un raggio di sole e il custode propose di approfittarne per vedere il giardino. Prese a sinistra e per una fila di sale vuote accompagnò i visitatori al cancello di ferro, suonò il campanello. Venne un giardiniere, un giovinetto educato che piacque molto allo zio perché gli spiegava tutto con buon garbo, e lo zio non domandava poco. Ci vollero cinque minuti per l’albero della canfora, presso l’entrata. Luisa ci soffriva, temeva che lo zio si stancasse troppo e si stancava moltissimo ella stessa di dover guardare tante piante, udire tanti nomi latini e volgari, fare attenzione allo zio, mentre i suoi pensieri avrebbero voluto silenzio e solitudine. Il giardiniere propose di salire al Castello di Nettuno. Lo zio avrebbe desiderato veder da vicino il liocorno dei Borromei che s’impenna lassú, ma c’erano parecchi scalini a fare, l’aria era pesante ed egli esitava. Luisa approfittò di quell’esitazione per chiedere al giardiniere dove avrebbero trovato un sedile. «Qui sotto», rispose colui, «a sinistra, sulla piazza degli Strobus». Lo zio si lasciò persuadere a discendere su questa piazza degli Strobus.

. Strobus: specie botanica.

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Era stanco ma non tralasciava di guardar tutto e d’interrogar su tutto. Avviandosi verso gli Strobus udí venir da lontano, dalla parte dell’Isola Madre, un rullo di tamburi e ne domandò al giardiniere. Erano i tamburi della Guardia Nazionale di Pallanza, che faceva gli esercizi sulla riva. «Adesso si fa per giuoco», disse il giovinetto. «Mica per giuoco, ma insomma…! Il mese venturo faremo sul serio. Dobbiamo dare una lezione a una bestia grossa. Eccolo là, quel mostro». Il mostro era il vapore austriaco da guerra Radetzki, detto dai riverani piemontesi Radescòn. «Entra adesso nel porto di Laveno», disse il giovinetto. «Viene da Luino. Vengano qui se vogliono vederlo bene». Lo zio sapeva di non avere occhi bastantemente buoni e sedette sul primo sedile che trovò sotto gli Strobus, posto a ridosso di una macchia di bambú e fiancheggiato da due altre macchie di grandi azalee. Dietro ai bambú, fra i grossi tronchi distorti degli Strobus, si vedeva tremolare lo specchio delle acque bianche fino alla lista nera delle colline d’Ispra. Il cielo, fosco a settentrione, era chiaro laggiú. Luisa e il giardiniere andarono fino al cancello stemmato che guarda la verde Isola Madre, Pallanza e il lago superiore. Luisa si affacciò alla gran distesa delle acque plumbee, incoronate di colossi nebbiosi dal gruppo del Sasso di Ferro sopra Laveno ai monti di Maccagno, alle nevi lontane dello Spluga. Del Radetzki si vedeva piú il fumo che il corpo. I tamburi di Pallanza rullavano sempre. Lo zio Piero chiamò il giardiniere e Luisa andò ad appoggiarsi al parapetto di fianco al cancello, presso il tasso che sale dal ripiano inferiore. L’albero le toglieva la vista del chiaro levante; ella era contenta di esser finalmente sola, di riposar i suoi sguardi e i suoi pensieri nel grigio delle montagne lontane e delle acque immense. Il giardiniere tornò dopo un momento per mostrarle le gialle acacie fiorite e le eriche bianche del ripiano inferiore, pure fiorite. «Le bruyères blanches portano fortuna», diss’egli. Vedendo che Luisa, distratta, non gli badava, si allontanò verso la serra delle begonie. «Vecchio Strobus», diss’egli parlando forte per farsi udire dai forestieri, ma senza voltarsi. «Vecchio Strobus colpito dal fulmine. Se vogliono veder il giardino privato…» Luisa si alzò e andò a prender lo zio per dargli il braccio se ne avesse bisogno. Il giardiniere che stava aspettando presso l’entrata del boschetto di lauri, vide la signora muovere verso il signore seduto, affrettare il passo, precipitarsi con un grido sopra di lui. Come la vecchia innocente pianta, anche lo zio Piero era stato colpito dal fulmine. Il suo corpo era appoggiato alla spalliera del sedile, la testa gli toccava il petto col mento, gli occhi erano aperti, fissi, senza sguardo. Era proprio stato uno spettacolo di addio quello che la sua Valsolda gli aveva offerto. Lo zio Piero, il caro venerato vecchio, l’uomo savio, l’uomo giusto, il benefattore de’ suoi, lo zio Piero era partito per sempre. Egli era venuto, sí, ad arruolarsi, Iddio lo voleva in una milizia superiore, ed ecco era suonato l’appello, egli aveva risposto. I tamburi di Pallanza rullavano, rullavano la fine di un mondo, l’avvento di un altro. Nel grembo di Luisa spuntava un germe vitale preparato alle future battaglie dell’era nascente, ad altre gioie, ad altri dolori da quelli onde l’uomo del mondo antico usciva in pace, benedetto all’ultimo momento, senza saperlo, da quell’ignoto prete dell’Isola Bella, che mai, forse, non aveva detto le sante parole a un piú degno.

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IL SANTO

Composto tra l’estate del  e l’estate del , anche con soggiorni a Roma e a Subiaco, Il Santo apparve a Milano, presso Baldini e Castoldi, il  novembre , preceduto da una fitta campagna pubblicitaria (con quelle anticipazioni sui giornali che si usano tanto ai nostri giorni). Suscitò subito polemiche di vario tipo: e mentre stavano uscendo a puntate le traduzioni tedesca e francese e si preparava una traduzione inglese, fu messo all’Indice dei libri proibiti con decreto del  aprile  (decreto al quale Fogazzaro si piegò, rinunciando alla diffusione e alla divulgazione del libro). Articolato in nove ampi capitoli, il romanzo dà espressione all’anima inquieta del cattolicesimo modernista (cfr. PAROLE, tav. ), riallacciandosi al precedente romanzo Piccolo mondo moderno e continuando a seguire le vicende del suo protagonista Piero Maironi (figlio dei protagonisti di Piccolo mondo antico), nel quale già si erano in parte incarnate le inquietudini religiose di Fogazzaro: dopo la visione avuta alla fine del precedente romanzo (sulla propria missione per il bene della Chiesa e sulla propria morte in abito benedettino), Piero si è recato in penitenza e meditazione, assumendo il nome di Benedetto, presso l’Abbazia benedettina di Subiaco, ed è in stretto contatto con uno studioso cattolico, Giovanni Selva, di cui condivide le idee «moderniste» (questo personaggio rappresenta, in modo piú diretto del mistico Benedetto, le idee e il punto di vista dell’autore). Avuta notizia della sua presenza a Subiaco, lo raggiunge la belga Jeanne Dessalle, già sua amante in Piccolo mondo moderno, che deve constatare però come egli abbia rinunciato all’amore terreno e sia ora tutto preso dalla forza superiore dell’amore divino. Dopo un soggiorno nel paese montano di Jenne, sopra Subiaco, dove viene venerato come santo e il popolo gli attribuisce la facoltà di fare miracoli, Benedetto decide di recarsi a Roma per ottenere udienza dal papa: questi ascolta le idee del religioso, ma non si oppone agli ostacoli che gli frappongono gli ambienti retrivi e della Chiesa e dello Stato italiano (e in un incontro con il ministro dell’Interno Benedetto deve rendersi conto anche dell’opposizione delle autorità laiche al suo progetto). Gravemente ammalato, il «santo» finisce per morire, in preda a simbolica febbre, tra le braccia di Jeanne Dessalle, che aveva continuato a seguire da lontano la sua vicenda religiosa: la sua morte è come un delirio estatico nel quale si confondono il turbamento erotico della donna e l’ascesi mistica del religioso. Tutto tenuto su di un tono alto, animato da una continua spinta all’elevazione spirituale, che sembra tendere continuamente al di là dei limiti del mondo rappresentato, il romanzo offre una immagine assai vivace di certi ambienti del laicato cattolico di inizio secolo: e in qualche modo si può vedere nella figura del «santo», che nella sua tensione spirituale sublima una inquieta e ambigua sensualità, una nobile risposta all’aggressività del «superuomo» dannunziano. Suggestive e inquiete sono le figure femminili, in cui la tensione spirituale è percorsa da piú sottili segni di dubbio e di incertezza.

DATI

tav. 213

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Grazia Deledda CANNE AL VENTO DATI

tav. 214

Il significato del titolo di questo, che è il piú celebre romanzo di Deledda, è indicato già in una frase del primo romanzo da lei pubblicato, Elias Portolu: «Uomini siamo, Elias, uomini fragili come canne; pensaci bene. Al di sopra di noi c’è una forza che non possiamo vincere». Pubblicato nel , Canne al vento è costituito da  capitoli, che seguono le vicende di una famiglia baronale ridotta in povertà, i Pintor (di Galtelli, nel Nuorese), dal punto di vista del vecchio servitore Efix, alla famiglia legato da un tremendo senso di colpa (egli ha ucciso involontariamente il barone Pintor, tirannico padre di quattro sorelle). Le tre sorelle superstiti vivono una vita povera e quieta, che viene turbata dall’arrivo dello scapestrato nipote Giacinto, figlio di Lia, la sorella fuggita sul continente e ormai morta; Giacinto crea uno scompiglio nella vita di Galtelli, causa la definitiva rovina economica delle zie, suscita l’amore di Grixenda, una giovane povera e sola di Galtelli, e anche una morbosa attrazione nella zia Noemi (la piú giovane delle tre sorelle). Efix vive tutti questi fatti, cerca invano di arginarli e di porvi rimedio, sentendone la responsabilità, vedendovi l’effetto della propria colpa: e a un certo punto intraprende un cammino di espiazione, come un «viaggio misterioso e terribile verso il castigo divino», che lo porta a mescolarsi ai mendicanti che accorrono alle diverse feste religiose. Il romanzo si conclude con il ritorno di Efix a Galtelli nella casa delle sue padrone e con la sua morte, che è come una liberazione dalla colpa inconfessata, un «andare lontano, nelle altre terre, dove ci sono cose piú grandi delle nostre»: morte che avviene proprio al momento del matrimonio tra l’attempata Noemi e il ricco cugino don Predu, che salverà la famiglia dalla rovina. La vicenda si svolge su di uno sfondo e con degli schemi tipici del romanzo naturalistico (dove sono assai diffusi i temi della rovina economica della famiglia, della infelice vita delle sorelle zitelle, del nipote scapestrato ecc.): ma il suo motivo di maggior interesse è dato dal ricco uso che la Deledda vi fa del materiale folclorico (ella del resto negli anni giovanili aveva raccolto e studiato testimonianze del folclore sardo, scrivendo anche articoli per la «Rivista delle tradizioni popolari» di Angelo De Gubernatis) e dal modo in cui da quel materiale si ricavano suggestioni simboliche, segni di una psicologia elementare come quella di Efix, che vive sotto il peso del delitto commesso, sentendolo come una maledizione mitica e ineluttabile (non mancano d’altra parte echi della grande narrativa russa del secondo Ottocento, e in primo luogo di Dostoevskij).

L’inizio del romanzo (da Canne al vento, I)

L’

Tensione tra linguaggio lirico e parlato Fatalismo, pensiero mitico e folclorico

˜

apertura del romanzo presenta il servo Efix nel piccolo poderetto rimasto alle sue padrone, alla fine di una giornata di faticoso lavoro, quando nella campagna scende la sera, mentre tutta la natura campestre appare abitata da presenze misteriose, da spiriti mitici e leggendari che le danno un carattere affascinante e sinistro, che costringono l’uomo a ritirarsi, a lasciar loro libero il campo. In questo avvio di romanzo si riconoscono già alcuni dei motivi essenziali della narrativa della Deledda: l’attenzione al paesaggio e ai colori della natura, legata a una diretta e minuziosa conoscenza dei luoghi sardi; la singolare tensione tra un linguaggio di tipo lirico – usato specialmente nella descrizione dei paesaggi – e l’immissione di modi dell’oralità (qui si affacciano ogni tanto degli incisi, che si presentano come frammenti diretti del pensiero del servo Efix); la concezione fatalistica della vita, ispirata a un senso antico, biblico piú che evangelico, della religiosità; il pensiero mitico e folclorico, nutrito di paure ancestrali, che affolla la natura di magiche presenze (i materiali folclorici vengono indicati con una precisa cura per il particolare). Questi vari elementi si combinano nella suggestione della notte lunare, che sembra dilatare il silenzio misterioso del paesaggio, delle presenze fantastiche e superstiziose che lo abitano. [EDIZIONE: Grazia Deledda, a cura di N. Tanda, Mondadori Scuola, Milano 1993]

T. NELL’ORBITA DEL NATURALISMO. GRAZIA DELEDDA



Tutto il giorno Efix, il servo delle dame Pintor, aveva lavorato a rinforzare l’argine primitivo da lui stesso costrutto un po’ per volta a furia d’anni e di fatica, giú in fondo al poderetto lungo il fiume: e al cader della sera contemplava la sua opera dall’alto, seduto davanti alla capanna sotto il ciglione glauco di canne a mezza costa sulla bianca Collina dei Colombi. Eccolo tutto ai suoi piedi, silenzioso e qua e là scintillante d’acque nel crepuscolo, il poderetto che Efix considera piú suo che delle sue padrone: trent’anni di possesso e di lavoro lo han fatto ben suo, e le sue siepi di fichi d’India che lo chiudono dall’alto in basso come due muri grigi serpeggianti di scaglione in scaglione dalla collina al fiume, gli sembrano i confini del mondo. Il servo non guardava al di là del poderetto anche perché i terreni da una parte e dall’altra erano un tempo appartenuti alle sue padrone: perché ricordare il passato? Rimpianto inutile. Meglio pensare all’avvenire e sperare nell’aiuto di Dio. E Dio prometteva una buona annata, o per lo meno faceva ricoprir di fiori tutti i mandorli e i peschi della valle; e questa, fra due file di colline bianche, con lontananze cerule di monti ad occidente e di mare ad oriente, coperta di vegetazione primaverile, d’acque, di macchie, di fiori, dava l’idea di una culla gonfia di veli verdi, di nastri azzurri, col mormorio del fiume monotono come quello di un bambino che s’addormenta. Ma le giornate erano già troppo calde ed Efix pensava anche alle piogge torrenziali che gonfiano il fiume senz’argini e lo fanno balzare come un mostro e distruggere ogni cosa: sperare, sí, ma non fidarsi anche; star vigili come le canne sopra il ciglione che ad ogni soffio di vento si battono l’una contro l’altra le foglie come per avvertirsi del pericolo. Per questo aveva lavorato tutto il giorno e adesso, in attesa della notte, mentre per non perder tempo intesseva una stuoia di giunchi, pregava perché Dio rendesse valido il suo lavoro. Che cosa è un piccolo argine se Dio non lo rende, col suo volere, formidabile come una montagna? Sette giunchi attraverso un vimine, dunque, e sette preghiere al Signore ed a Nostra Signora del Rimedio, benedetta ella sia, ecco laggiú nell’estremo azzurro del crepuscolo la chiesetta e il recinto di capanne quieto come un villaggio preistorico abbandonato da secoli. A quell’ora, mentre la luna sbocciava come una grande rosa fra i cespugli della collina e le euforbie odoravano lungo il fiume, anche le padrone di Efix pregavano: donna

. il servo delle dame Pintor: dichiarando subito il rapporto di subordinazione del protagonista, Efix, nei confronti delle sorelle Pintor, Deledda mette l’accento sulla natura ambigua di questo rapporto, che si regge essenzialmente sul senso di colpa provato da Efix. . l’argine primitivo: l’attività di Efix nel podere delle sorelle Pintor, consistente per gran parte nella cura di questo argine, nella quale ha speso anni, è chiaramente metaforica: «l’impegno e la fatica dell’uomo nel porre argini all’assalto della sorte e delle passioni costituisce il motivo centrale di questo romanzo» (Tanda). . costrutto: costruito. . glauco: grecismo molto usato nella tradizione letteraria italiana: «azzurro chiarissimo, tra il verde e il celeste» (il cielo è reso ancora piú chiaro dalla massa di colore delle canne all’orizzonte). . piú suo che delle sue padrone: a tutti gli effetti è Efix, che lo cura, che gode a pieno del poderetto, trascorrendovi tutto il suo tempo.

. scaglione: sorta di gradino naturale che corre lungo i fianchi di un monte o di una collina. . cerule: azzurre, del colore del cielo. . col mormorio … che s’addormenta: la similitudine un po’ leziosa (anticipata dalla culla vegetale di qualche rigo prima) chiude un capoverso in cui si trova un esempio molto chiaro dell’arte del paesaggio di Deledda, tradizionale e quasi aulica. . sperare, sí, ma non fidarsi anche: l’inserzione rapida e a effetto del pensiero di Efix, che si adagia in una cadenza da proverbio, immette fin dall’inizio nel «punto di vista» scelto dalla Deledda per narrare la storia, che è appunto quello di Efix. . Che cosa è … come una montagna?: si fa qui esplicita la filosofia di fondo di Deledda, di tipo fatalistico e provvidenzialistico. . Sette giunchi … sette preghiere: il numero sette ha tradizionalmente un valore rituale e propiziatorio. Il pensiero di Efix appare subito ispirato a una religiosità ancestrale, quasi animistica. . euforbie: piante grasse.

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Ester la piú vecchia, benedetta ella sia, si ricordava certo di lui peccatore: bastava questo perché egli si sentisse contento, compensato delle sue fatiche. Un passo in lontananza gli fece sollevar gli occhi. Gli sembrò di riconoscerlo, era un passo rapido e lieve di fanciullo, passo d’angelo che corre ad annunziare le cose liete e le tristi. Sia fatto il volere di Dio: è lui che manda le buone e le cattive notizie; ma il cuore cominciò a tremargli, ed anche le dita nere screpolate tremarono coi giunchi argentei lucenti alla luna come fili d’acqua. Il passo non s’udiva piú: Efix tuttavia rimase ancora là, immobile, ad aspettare. La luna saliva davanti a lui, e le voci della sera avvertivano l’uomo che la sua giornata era finita. Era il grido cadenzato del cuculo, il zirlio dei grilli precoci, qualche gemito d’uccello: era il sospiro delle canne e la voce sempre piú chiara del fiume: ma era soprattutto un soffio, un ansito misterioso che pareva uscire dalla terra stessa: sí, la giornata dell’uomo lavoratore era finita, ma cominciava la vita fantastica dei folletti, delle fate, degli spiriti erranti. I fantasmi degli antichi Baroni scendevano dalle rovine del castello sopra il paese di Galte, su, all’orizzonte a sinistra di Efix, e percorrevano le sponde del fiume alla caccia dei cinghiali e delle volpi: le loro armi scintillavano in mezzo ai bassi ontani della riva, e l’abbaiar fioco dei cani in lontananza indicava il loro passaggio. Efix sentiva il rumore che le panas facevano nel lavar i loro panni giú al fiume, battendoli con uno stinco di morto, e credeva di intraveder l’ammattadore, folletto con sette berretti entro i quali conserva un tesoro, balzar di qua e di là sotto il bosco di mandorli, inseguito dai vampiri con la coda di acciaio. Era il suo passaggio che destava lo scintillio dei rami e delle pietre sotto la luna: e agli spiriti maligni si univano quelli dei bambini non battezzati, spiriti bianchi che volavano per aria tramutandosi nelle nuvolette argentee dietro la luna: e i nani e le janas, piccole fate che durante la giornata stanno nelle loro case di roccia a tesser stoffe d’oro in telai d’oro, ballavano all’ombra delle grandi macchie di fillirèa, mentre i giganti s’affacciavano fra le rocce dei monti battuti dalla luna, tenendo per la briglia gli enormi cavalli verdi che essi soltanto sanno montare, spiando se laggiú fra le distese d’euforbia malefica si nascondeva qualche drago o se il leggendario serpente cananèa, vivente fin dai tempi di Cristo, strisciava sulle sabbie intorno alla palude. Specialmente nelle notti di luna tutto questo popolo misterioso anima le colline e le valli: l’uomo non ha diritto a turbarlo con la sua presenza, come gli spiriti han rispettato lui durante il corso del sole; è dunque tempo di ritirarsi e chiuder gli occhi sotto la protezione degli angeli custodi. Efix si fece il segno della croce e si alzò: ma aspettava ancora che qualcuno arrivasse. Tuttavia spinse l’asse che serviva da porticina e vi appoggiò contro una gran croce di canne che doveva impedire ai folletti e alle Tentazioni di penetrare nella capanna.

. benedetta ella sia: per la seconda volta nel capoverso torna questa formula tradizionale e rituale. . zirlio: «verso breve e acuto» (propriamente zirlo: il frequentativo zirlío è letterario). . ansito: respiro affannoso e ansante. . I fantasmi degli antichi Baroni: l’inserzione del materiale folclorico, con storie e leggende locali (Galte è forma abbreviata di Galtelli), riproduce il tessuto mitico del pensiero di Efix. . stinco di morto: «osso della gamba umana». La leggenda voleva che le donne morte di parto, ap-

punto le panas, usassero questo macabro strumento per lavare i panni. . fillirèa: pianta mediterranea, presente tanto nella vegetazione boschiva che in quella dei campi. . è dunque tempo di ritirarsi: Efix, che è pienamente partecipe dell’antropologia folclorica, accetta tranquillamente questa divisione mitica del giorno tra tempo diurno, fatto per gli uomini e per il loro lavoro, e tempo notturno, abitato da antiche presenze spettrali.

˜ TESTI

9.6 GABRIELE D’ANNUNZIO Il piacere L’attesa di Andrea Sperelli (I, I)

N

elle pagine iniziali si afferma subito la qualità descrittiva della prosa del primo romanzo di D’Annunzio, la cura per gli oggetti preziosi, la sensualità che si avvolge attorno alle cose. C’è un effetto di sospensione, come se lo scorrere del tempo fosse bloccato nell’attesa del protagonista Andrea Sperelli che, immerso tra gli oggetti sontuosi accumulati nella sua casa, attende la visita dell’amante Elena Muti, che non vede da un paio d’anni. Già la battuta iniziale (L’anno moriva, assai dolcemente) dà a questo tempo sospeso un carattere di dolce disfacimento: siamo nell’ultimo giorno dell’anno (San Silvestro). Un movimento carico di attesa caratterizza l’immagine, che subito segue, nel sensuale tepore quasi primaverile delle affollate strade di Roma, nella zona alla moda intorno a Trinità dei Monti: e il suo effetto viene come a prolungarsi, ma attenuato, dentro le stanze del palazzo Zuccari dove vive il protagonista. La descrizione di queste stanze e delle ricche cose che le popolano prende avvio significativamente dal profumo dei fiori, e in particolare delle rose, che subito suscitano l’immagine delle coppe di cristallo, paragonate subito a quelle presenti in un quadro di Botticelli. Dopo l’accurata descrizione della tavola pronta per il tè, il tempo dell’attesa viene scandito dal suono dell’orologio della vicina Trinità dei Monti: e l’ansia di Andrea si espande in una serie di movimenti che culminano nel gesto di attizzare il fuoco, il quale evoca direttamente un ricordo della donna che alla fine degli incontri d’amore si accostava anch’essa al caminetto. Qui la descrizione del corpo della donna e dei suoi gesti si avvale subito di una serie di immagini artistiche e mitologiche, sostenute e rafforzate da un gioco di luci, di colori e di profumi. Nel caldo tepore della casa preziosa, all’attesa si sovrappone cosí il ricordo, in un’immagine carica di erotismo (segnata dal calore della vampa del focolare), di eleganza e di grazia manierata e artificiale, che culmina nell’atto con cui la donna lasciava che l’amante «legasse i nastri della scarpa ancóra disciolti». È facile notare il rilievo che in questo passo iniziale (come in tutto il romanzo) assumono i richiami alle piú preziose opere d’arte: il lusso, l’eleganza, la mondanità, la sensualità dannunziana si servono dell’arte come segno di distinzione; di oggetti d’arte è piena la casa di Andrea Sperelli (che del resto si trova in un palazzo cinquecentesco di notevole interesse architettonico); e le piú varie opere d’arte forniscono i termini per le piú varie similitudini, sono usate come filtri per vedere e rappresentare la bellezza. [EDIZIONE: Gabriele D’Annunzio, Prose di romanzi, edizione diretta da E. Raimondi, a cura di A. Andreoli, vol. I, Mondadori, Milano 1988]

L’anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che tepor velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma. Tutte le vie erano popolose come nelle domeniche di maggio. Su la piazza Barberini, su la piazza di Spagna una moltitudine di vetture passava in corsa traversando; e dalle due piazze il romorio confuso e continuo, salendo alla Trinità de’ Monti, alla via Sistina, giungeva fin nelle stanze del palazzo Zuccari, attenuato. Le stanze andavansi empiendo a poco a poco del profumo ch’esalavan ne’ vasi i fiori freschi. Le rose folte e larghe stavano immerse in certe coppe di cristallo che si levavan sottili

. tepor … ciel: notare come attraverso il frequente uso di forme tronche (come piú avanti esalavan, levavan, sorgon, paion ecc.) D’Annunzio tenda a dare alla sua prosa una sorta di ritmo poetico.

. palazzo Zuccari: palazzo cinquecentesco, tra la via Sistina e la via Gregoriana, con originalissima porta sulla via Gregoriana, costruito da Federico Zuccari (-) come sede di un’accademia di pittura.

Una prosa con un ritmo poetico

Una descrizione antirealista

L’arte come segno di distinzione

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da una specie di stelo dorato slargandosi in guisa d’un giglio adamantino, a similitudine di quelle che sorgon dietro la Vergine nel tondo di Sandro Botticelli alla Galleria Borghese. Nessuna altra forma di coppa eguaglia in eleganza tal forma: i fiori entro quella prigione diafana paion quasi spiritualizzarsi e meglio dare imagine di una religiosa o amorosa offerta. Andrea Sperelli aspettava nelle sue stanze un’amante. Tutte le cose a torno rivelavano infatti una special cura d’amore. Il legno di ginepro ardeva nel caminetto e la piccola tavola del tè era pronta, con tazze e sottocoppe in maiolica di Castel Durante ornate d’istoriette mitologiche da Luzio Dolci, antiche forme d’inimitabile grazia, ove sotto le figure erano scritti in carattere corsivo a zàffara nera esametri d’Ovidio. La luce entrava temperata dalle tende di broccatello rosso a melagrane d’argento riccio, a foglie e a motti. Come il sole pomeridiano feriva i vetri, la trama fiorita delle tendine di pizzo si disegnava sul tappeto. L’orologio della Trinità de’ Monti suonò le tre e mezzo. Mancava mezz’ora. Andrea Sperelli si levò dal divano dov’era disteso e andò ad aprire una delle finestre; poi diede alcuni passi nell’appartamento; poi aprí un libro, ne lesse qualche riga, lo richiuse; poi cercò intorno qualche cosa, con lo sguardo dubitante. L’ansia dell’aspettazione lo pungeva cosí acutamente ch’egli aveva bisogno di muoversi, di operare, di distrarre la pena interna con un atto materiale. Si chinò verso il caminetto, prese le molle per ravvivare il fuoco, mise sul mucchio ardente un nuovo pezzo di ginepro. Il mucchio crollò; i carboni sfavillando rotolarono fin su la lamina di metallo che proteggeva il tappeto; la fiamma si divise in tante piccole lingue azzurrognole che sparivano e riapparivano; i tizzi fumigarono. Allora sorse nello spirito dell’aspettante un ricordo. Proprio innanzi a quel caminetto Elena un tempo amava indugiare, prima di rivestirsi, dopo un’ora d’intimità. Ella aveva molt’arte nell’accumular gran pezzi di legno su gli alari. Prendeva le molle pesanti con ambo le mani e rovesciava un po’ indietro il capo ad evitar le faville. Il suo corpo sul tappeto, nell’atto un po’ faticoso, per i movimenti de’ muscoli e per l’ondeggiar delle ombre pareva sorridere da tutte le giunture, da tutte le pieghe, da tutti i cavi, soffuso d’un pallor d’ambra che richiamava al pensiero la Danae del Correggio. Ed ella aveva appunto le estremità un po’ correggesche, le mani e i piedi piccoli e pieghevoli, quasi direi arborei come nelle statue di Dafne in sul principio primissimo della metamorfosi favoleggiata. . la Vergine … Botticelli: la pittura di Botticelli (-), ricordata piú volte nel romanzo, era prediletta dai preraffaelliti (cfr. PAROLE, tav. ), di cui D’Annunzio risente la suggestione; di questo tondo, lo scrittore aveva già parlato in un articolo dedicato alla Galleria Borghese della serie L’estate a Roma, apparso su «La Tribuna» del  luglio . . Castel Durante: località delle Marche (presso Urbania), dove nel Cinquecento venivano prodotte preziose maioliche: Luzio Dolci, con il fratello Ottaviano, ne fu uno dei maggiori illustratori, con scene tratte dalle piú diverse opere letterarie (quelle delle tazze di Sperelli sono tratte dalle Metamorfosi di Ovidio). . zàffara: mistura scura a base di cobalto, usata per tingere vetro e maioliche. . argento riccio: filo di seta laminato d’argento, usato per ricami e decorazioni di tessuti. . Il suo corpo … i cavi: A. Andreoli ha individuato la diretta fonte di questa descrizione in un romanzo del francese Joseph Péladan (-), l’Initiation sentimentale (“Iniziazione sentimentale”, ): «tout le corps souriait à toutes ses jointures,

à tous ses plis, à tous ses méplats» (“tutto il corpo sorrideva da tutte le giunture, da tutte le pieghe, da tutte le cavità”). . Danae del Correggio: dipinto cinquecentesco (che rappresenta la donna amata da Zeus in forma di pioggia d’oro) di Correggio (-), anch’esso alla Galleria Borghese. . estremità … Dafne: al modello della Danae di Correggio (al quale vengono paragonate le estremità, cioè le gambe e le braccia della donna) si sovrappone qui quello della ninfa Dafne trasformata in alloro (la metamorfosi favoleggiata), rappresentata nel celebre gruppo marmoreo di Bernini (anch’esso alla Galleria Borghese), in cui proprio si vedono mani e piedi divenire arborei, trasformarsi in fronde. La sovrapposizione della Danae alla Dafne è determinata anche dalla somiglianza fonica tra i due nomi: e a ciò si intreccia il richiamo a un’espressione dei fratelli Goncourt, scrittori francesi a cui spesso si rifà D’Annunzio nella descrizione di figure femminili, che nello scritto Idées et sensations (“Idee e sensazioni”) avevano parlato di «extrémités arborescentes à la Daphné» (“estremità arborescenti alla Dafne”).

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Appena ella aveva compiuta l’opera, le legna conflagravano e rendevano un súbito bagliore. Nella stanza quel caldo lume rossastro e il gelato crepuscolo entrante pe’ vetri lottavano qualche tempo. L’odore del ginepro arso dava al capo uno stordimento leggero. Elena pareva presa da una specie di follia infantile, alla vista della vampa. Aveva l’abitudine, un po’ crudele, di sfogliar sul tappeto tutti i fiori ch’eran ne’ vasi, alla fine d’ogni convegno d’amore. Quando tornava nella stanza, dopo essersi vestita, mettendosi i guanti o chiudendo un fermaglio sorrideva in mezzo a quella devastazione; e nulla eguagliava la grazia dell’atto che ogni volta ella faceva sollevando un poco la gonna ed avanzando prima un piede e poi l’altro perché l’amante chino legasse i nastri della scarpa ancóra disciolti. Il luogo non era quasi in nulla mutato. Da tutte le cose che Elena aveva guardate o toccate sorgevano i ricordi in folla e le imagini del tempo lontano rivivevano tumultuariamente. Dopo circa due anni, Elena stava per rivarcar quella soglia. Tra mezz’ora, certo, ella sarebbe venuta, ella si sarebbe seduta in quella poltrona, togliendosi il velo di su la faccia, un poco ansante, come una volta; ed avrebbe parlato. Tutte le cose avrebbero riudito la voce di lei, forse anche il riso di lei, dopo due anni.

Roma sotto la neve (III, III)

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l capitolo di cui qui si riporta la parte finale vede sovrapporsi direttamente la presenza delle due figure femminili dalle quali ne Il piacere è diversamente attirato il protagonista Andrea Sperelli, che sente mescolarsi dentro di sé il desiderio di tutte e due («vagheggiò la duplicità del godimento; travide la terza Amante ideale») e afferma la propria natura di essere «camaleontico, chimerico, incoerente, inconsistente». Siamo nel febbraio del 1887: il capitolo inizia con un appassionato colloquio con Maria Ferres, che dichiara il suo amore per Andrea e, nel momento in cui sembra promettergli una felicità pura e assoluta, salvandolo con la propria dolcezza e la propria pietà dalla sua sensibilità malata, sente tutta la difficoltà e il pericolo di un rapporto con lui. Andrea assiste con Maria a un concerto e nella sala incontra Elena Muti, con cui fa il viaggio di ritorno in carrozza, durante il quale riceve un voluttuoso bacio che gli dà desiderio e speranza di tornare con lei. Successivamente, dopo un incontro con Maria in piazza di Spagna, Andrea si reca a una colazione dove è presente Elena con il corrotto marito, Lord Heathfield, marchese di Mount Edgcumbe; e infine incontra Maria, che vede per la prima volta in abito da sera, nel salone della contessa Starnina, dove ella si esibisce al pianoforte e gli lascia un guanto come pegno d’amore. A questo punto, tre giorni dopo quell’incontro nel salotto, ha inizio il brano riportato, con l’arrivo, subito dopo una visita a Maria, di un biglietto di Elena che sembra invitare a un incontro d’amore. Seguendo le indicazioni del biglietto, Andrea si reca a questo incontro, entro lo sfondo di una Roma notturna sommersa dalla neve. La descrizione della città innevata e illuminata dalla luna piena, del suo aspetto inconsueto, che D’Annunzio disegna con una sensualità leggera ed evanescente, diffonde un senso di trepidazione e di attesa che sembra come scandire e misurare l’attesa di Andrea, davanti al palazzo Barberini (e questo senso di aspettativa è sottolineato anche dal rispondersi dei suoni dei diversi orologi). Ma nell’esitazione e nell’incertezza dell’attesa di Elena la suggestione del bianco paesaggio fa sorgere il desiderio dell’altra donna, la candida Maria: desiderio che culmina in un «sogno poetico, quasi mistico», una fantasia-monologo che sembra emergere dal silenzio, in cui la dolcezza e il candore dell’offrirsi di Maria vengono proiettati in un linguaggio religioso, come in un rito sacrificale, e si esaltano sullo sfondo del paesaggio innevato. Questa immaginazione e il ritardo di Elena, il sospetto di una sua beffa, conduce Andrea verso la casa di Maria: e ciò dà occasione a una nuova, accurata descrizione della Roma innevata, prima con gli edifici e i monumenti della piazza del Quirinale, e poi con un allargarsi dello sguar-

Il sovrapporsi del desiderio delle due donne

Roma sotto la neve, desiderio della candida Maria

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do verso l’intero panorama della città (e si noti come D’Annunzio, prima di iniziare questa nuova descrizione, sottolinei che si trattava di «uno di quegli spettacoli che opprimono d’una immensa tristezza lo spirito umano perché soverchiano ogni potenza ammirativa e sfuggono alla piena comprensione dell’intelletto»). La visione della città sprofondata nel bianco silenzio (sotto il cui fascino freme una sensazione di disfacimento, di morte) culmina nel gesto manierato e galante di Andrea, che getta sulla neve, davanti alla porta di Maria, il «fascio delle rose bianche» destinate a Elena (e nel capitolo successivo Maria dirà di aver visto lui e le sue rose dai vetri di una finestra).

Tre giorni dopo, essendo Roma attonita sotto la neve, Andrea trovò a casa questo biglietto: «Martedí, ore  pom. – Stasera, dalle undici a mezzanotte, mi aspetterete in una carrozza, d’innanzi al palazzo Barberini, fuori del cancello. Se a mezzanotte non sarò ancóra apparsa, potrete andarvene. – A stranger ». Il biglietto aveva un tono romanzesco e misterioso. In verità, la marchesa di Mount Edgcumbe faceva troppo abuso di carrozza nell’esercizio dell’amore. Era forse del  marzo ? Voleva ella forse riprender l’avventura nel modo medesimo con cui l’aveva interrotta? E perché quello stranger? Andrea ne sorrise. Egli tornava allora allora da una visita a Donna Maria, da un’assai dolce visita; e il suo spirito inchinava piú verso la senese che verso l’altra. Gli indugiavan nell’orecchio le vaghe e gentili parole che la senese aveva dette guardando insieme con lui a traverso i vetri cader la neve mite come il fior del pesco o il fior del melo in su gli alberi della Villa Aldobrandini già illusi da un presentimento di stagion novella. Ma, prima d’uscir pel pranzo, diede ordini molto accurati a Stephen. Alle undici egli era d’innanzi al palazzo; e l’ansia e l’impazienza lo divoravano. La bizzarria del caso, lo spettacolo della notte nivale, il mistero, l’incertezza gli accendevano l’imaginazione, lo sollevavano dalla realità. Splendeva su Roma, in quella memorabile notte di febbraio, un plenilunio favoloso, di non mai veduto lume. L’aria pareva impregnata come d’un latte immateriale; tutte le cose parevano esistere d’una esistenza di sogno, parevano imagini impalpabili come quelle d’una meteora, parevan esser visibili di lungi per un irradiamento chimerico delle loro forme. La neve copriva tutte le verghe dei cancelli, nascondeva il ferro, componeva un’opera di ricamo piú leggera e piú gracile d’una filigrana, che i colossi ammantati di bianco sostenevano come le querci sostengono le tele dei ragni. Il giardino fioriva a similitudine d’una selva immobile di gigli enormi e difformi, congelato; era un orto posseduto da una incantazione lunatica, un esanime paradiso di Selene. Muta, solenne, profonda, la casa dei Bar-

. A stranger : «una straniera»: Elena si firma cosí in inglese, in quanto moglie del marchese di Mount Edgcumbe. .  marzo : il giorno in cui Elena aveva interrotto il suo rapporto con Andrea, nel «gran commiato», avvenuto in una carrozza, nella campagna fuori di Porta Pia. . la senese: Maria Ferres y Capdevilla, moglie del ministro plenipotenziario del Guatemala, è italiana, senese, della famiglia Bandinelli (e viene paragonata alle Madonne dei pittori senesi). . il fior … del melo: qui D’Annunzio rovescia i termini di una similitudine per lui abituale (e molto presente nella letteratura decadente) tra il cadere dei fiori e quello della neve. . Villa Aldobrandini: villa del secolo XVI, sulla via Nazionale. . già illusi … novella: gli alberi su cui cade la neve

sentivano già l’avvicinarsi della primavera (trattandosi del mese di febbraio): il cadere della neve mostra che questo presentimento era solo un’illusione. . Stephen: il maggiordomo inglese di Sperelli. . realità: forma rara per realtà. . latte immateriale: la metafora del latte per la luce della luna era già in Lai, una poesia de La Chimera: «La luna diffonde / pe’ cieli suo latte»; e si noti piú avanti l’aggettivo chimerico, riferito al carattere fantastico e inquietante delle forme che qui assumono le cose. . le verghe: le inferriate. . i colossi: i pilastri che sorreggono le inferriate dei cancelli che chiudono il giardino antistante il palazzo (notare l’originalità della similitudine, che paragona le inferriate sospese tra i pilastri alle ragnatele che si sostengono tra due querce). . Selene: nome greco della dea della luna (e della

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beríni occupava l’aria: tutti i rilievi grandeggiavano candidissimi gittando un’ombra cerulea, diafana come una luce; e quei candori e quelle ombre sovrapponevano alla vera architettura dell’edifizio il fantasma d’una prodigiosa architettura ariostèa. Chino a riguardare, l’aspettante sentiva sotto il fascino di quel miracolo che i fantasmi vagheggiati dell’amore si risollevavano e le sommità liriche del sentimento riscintillavano come le lance ghiacce dei cancelli alla luna. Ma egli non sapeva quale delle due donne avrebbe preferita in quello scenario fantastico: se Elena Heathfield vestita di porpora o Maria Ferres vestita d’ermellino. E, come il suo spirito piacevasi d’indugiare nell’incertezza della preferenza, accadeva che nell’ansia dell’attesa si mescessero e confondessero stranamente due ansie, la reale per Elena, l’imaginaria per Maria. Un orologio suonò da presso, nel silenzio, con un suono chiaro e vibrante; e pareva come se qualche cosa di vitreo nell’aria s’incrinasse a ognun de’ tocchi. L’orologio della Trinità de’ Monti rispose all’appello; rispose l’orologio del Quirinale; altri orologi di lungi risposero, fiochi. Erano le undici e un quarto. Andrea guardò, aguzzando la vista, verso il portico. – Avrebbe ella osato attraversare a piedi il giardino? – Pensò la figura di Elena tra il gran candore. Quella della senese risorse spontanea, oscurò l’altra, vinse il candore, candida super nivem. La notte di luna e di neve era dunque sotto il dominio di Maria Ferres, come sotto una invincibile influenza astrale. Dalla sovrana purità delle cose nasceva l’imagine dell’amante pura, simbolicamente. La forza del Simbolo soggiogava lo spirito del poeta. Allora, sempre guardando se l’altra venisse, egli si abbandonò al sogno che gli suggerivano le apparenze delle cose. Era un sogno poetico, quasi mistico. Egli aspettava Maria. Maria aveva eletta quella notte di soprannaturale bianchezza per immolar la sua propria bianchezza al desiderio di lui. Tutte le cose bianche intorno, consapevoli della grande immolazione, aspettavano per dire ave ed amen al passaggio della sorella. Il silenzio viveva. «Ecco, ella viene: incedit per lilia et super nivem . È avvolta nell’ermellino; porta i capelli constretti e nascosti in una fascia; il suo passo è piú leggero della sua ombra; la luna e la neve sono men pallide di lei. Ave. «Un’ombra, cerulea come una luce che si tinga in uno zaffiro, l’accompagna. I gigli enormi e difformi non s’inchinano, poiché il gelo li ha irrigiditi, poiché il gelo li ha fatti simili agli asfodilli che illuminavano i sentieri dell’Ade. Ben però, come quelli de’ paradisi cristiani, hanno una voce; dicono: – Amen.

luna stessa). . ariostèa: cioè fantastica, come gli edifici magici descritti dall’Ariosto nell’Orlando furioso. . Elena … ermellino: l’immagine delle due donne nel paesaggio nevoso viene legata a due colori opposti, di evidente rilievo simbolico: a Elena (chiamata qui Heathfield con il nome del marito) tocca il rosso della porpora, per la sua accesa sensualità, a Maria il bianco dell’ermellino, per la sua dolce purezza. . candida super nivem: “candida piú della neve”: la formula latina dà qui, come piú avanti, un effetto di ritualità religiosa, anche perché ricorda in parte un celebre versetto del Salmo ,  («Lavabis me, et super nivem dealbabor», “Mi laverai e sarò fatto bianco piú della neve”). . ave ed amen: due termini ricorrenti nelle preghiere cristiane, con cui le cose bianche attendono di salutare Maria, la loro bianca sorella; esse mo-

strano lo sfondo di cultura religiosa su cui D’Annunzio proietta la sua tematica erotica (Ave è, in primo luogo la parola con cui l’angelo Gabriele si rivolge a Maria nell’Annunciazione: e non si dimentichi che nelle immagini pittoriche piú diffuse Maria reca in mano un giglio, simbolo di purezza). . Il silenzio viveva: nelle parole che seguono il sogno di Andrea si presenta come qualcosa che emerge dal silenzio, manifestazione di vita del silenzio stesso. . incedit … nivem: «procede tra i gigli e sopra la neve» (formula latina: cfr. nota ): abbiamo visto sopra che gli arbusti del giardino coperti di neve sono stati paragonati a una «selva immobile di gigli enormi»; ora è l’immagine della pura Maria a incedere tra questi gigli fantastici, da essi annunciata (cfr. nota ). . I gigli … una voce: quei gigli fantastici, irrigiditi dal gelo, hanno qualcosa di funebre, sono simili

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«Cosí sia. L’adorata va ad immolarsi. Cosí sia. Ella è già presso l’aspettante; fredda e muta, ma con occhi ardenti ed eloquenti. Ed egli prima le mani, le care mani che chiudono le piaghe e schiudono i sogni, bacia. Cosí sia. «Di qua, di là, si dileguano le Chiese alte su colonne a cui la neve illustra di volute e d’acanti magici il fastigio. Si dileguano i Fòri profondi, sepolti sotto la neve, immersi in un chiarore azzurro, onde sorgono gli avanzi dei portici e degli archi verso la luna piú inconsistenti delle lor medesime ombre. Si dileguano le fontane, scolpite in rocce di cristallo, che versano non acqua ma luce. «Ed egli poi le labbra, le care labbra che non sanno le false parole, bacia. Cosí sia. Fuor della fascia discinta si effondono i capelli come un gran flutto oscuro, ove tutte sembran raccolte le tenebre notturne fugate dalla neve e dalla luna. Comis suis obumbrabit tibi et sub comis peccabit . Amen». E l’altra non veniva! Nel silenzio e nella poesia cadevano di nuovo le ore degli uomini scoccate dalle torri e dai campanili di Roma. Qualche vettura, senza alcuno strepito, discendeva per le Quattro Fontane verso la piazza o saliva a Santa Maria Maggiore faticosamente; e i fanali erano gialli come topazii nella chiarità. Pareva che, salendo la notte al colmo, la chiarità crescesse e diventasse piú limpida. Le filigrane dei cancelli riscintillavano come se i ricami d’argento vi s’ingemmassero. Nel palazzo, grandi cerchi di luce abbagliante splendevano su le vetrate, a simiglianza di scudi adamantini. Andrea pensò: – Se ella non venisse? Quella strana onda di lirismo passàtagli su lo spirito, nel nome di Maria, aveva coperta l’ansietà dell’attesa, aveva placata l’impazienza, aveva ingannato il desiderio. Per un attimo il pensiero ch’ella non venisse gli sorrise. Poi di nuovo, piú forte, lo punse il tormento dell’incertezza e lo turbò l’imagine della voluttà ch’egli avrebbe forse goduta là dentro, in quella specie di piccola alcova tiepida dove le rose esalavano un profumo tanto molle. E, come nel giorno di San Silvestro, il suo sofferire era acuito da una vanità; poiché, sopra tutto, egli si rammaricava che uno squisito apparato d’amore andasse perduto senza effetto alcuno. Là dentro, il freddo era temperato dal calore continuo che esalavano i tubi di metallo pieni d’acqua bollente. Un fascio di rose bianche, nivee, lunari, posava su la tavoletta d’innanzi al sedile. Una pelle d’orso bianco teneva calde le ginocchia. La ricerca d’una specie di Symphonie en blanc majeur  era manifesta in molte altre particolarità. Come il re Franagli asfodeli (asfodilli è forma letteraria), pianta delle gigliacee che popolava le strade dell’oltretomba degli antichi (l’Ade): ma viene poi ricordata la loro presenza nelle immagini cristiane del Paradiso, e viene allora attribuita loro la voce della parola conclusiva delle preghiere cristiane e di quella stessa dell’Annunciazione (Amen). . le mani: l’immagine erotico-mistica delle mani ritorna piú volte nella poesia di D’Annunzio (in particolare un componimento del Poema paradisiaco si intitola proprio Le mani). . su colonne … il fastigio: la neve orna il culmine (fastigio) delle colonne con volute e acanti magici, cioè trasforma i capitelli in qualcosa di magico. . gli avanzi: le rovine, che qui acquistano un carattere inquietante, diventano piú evanescenti delle loro stesse ombre. . Cosí sia: ancora formula religiosa, consueta traduzione di Amen. . Fuor della fascia discinta: fuori della fascia disciolta (in cui, come detto sopra, legava e nascondeva i capelli di questa apparizione di Maria).

. Comis … peccabit: «ti coprirà con i suoi capelli e sotto i capelli farà peccato»; I. Ciani ha mostrato che si tratta di uno stravolgimento in senso erotico delle parole del Salmo , : «Scapulis suis obumbrabit tibi, / et sub pennis eius sperabis» (“Ti coprirà sotto le sue ali, / e sotto le sue penne avrai speranza”). . Le filigrane … vi s’ingemmassero: per le inferriate dei cancelli del giardino di palazzo Barberini torna l’immagine della filigrana, che viene vista scintillare come se i ricami d’argento prodotti dalla neve vi si trasformassero in gemme preziose. . piccola alcova … molle: l’interno della carrozza è come un’alcova predisposta per l’amore, dominata dal profumo delle rose, che poi Andrea getterà davanti alla porta di Maria Ferres. . nel giorno di San Silvestro: l’ultimo dell’anno, in cui Andrea aveva predisposto la sua stanza per ricevere Elena nell’incontro con cui si apre il romanzo. . i tubi … bollente: sistema di riscaldamento per l’interno della carrozza. . Symphonie en blanc majeur: “sinfonia in bianco

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cesco I sul vetro della finestra, il conte d’Ugenta aveva inciso di sua mano sul vetro dello sportello un galante motto che, nell’appannatura fatta dall’alito, pareva brillare su una lastra di opale: Pro amore curriculum Pro amore cubiculum. E per la terza volta le ore sonarono. Mancavano a mezzanotte quindici minuti. L’aspettazione durava da troppo tempo: Andrea si stancava e s’irritava. Nell’appartamento abitato da Elena, nelle finestre dell’ala sinistra non vedevasi altro lume che quello esterno della luna. – Sarebbe dunque venuta? E in che modo? Di nascosto? O con qual pretesto? Lord Heathfield era, certo, a Roma. Come avrebbe ella giustificata la sua assenza notturna? – Di nuovo, insorsero nell’animo dell’antico amante le acri curiosità intorno le relazioni che correvano tra Elena e il marito, intorno i loro legami coniugali, intorno il loro modo di vivere in comune, nella medesima casa. Di nuovo, la gelosia lo morse e la bramosia lo accese. Egli si ricordava delle allegre parole dette da Giulio Musèllaro, una sera, a proposito del marito; e si proponeva di prendere Elena ad ogni costo, per il diletto e per il dispetto. – Oh, s’ella fosse venuta! Una carrozza sopraggiunse ed entrò nel giardino. Egli si chinò a guardare; riconobbe i cavalli d’Elena; intravide nell’interno una figura di dama. La carrozza disparve sotto il portico. Egli restò dubitoso. – Tornava dunque di fuori? Sola? – Acuí lo sguardo verso il portico, intensamente. La carrozza usciva, per il giardino, nella strada, imboccando la via Rasella: era vuota. Mancavano due o tre minuti all’ora estrema; ed ella non veniva! L’ora sonò. Una terribile angoscia strinse il deluso. Ella non veniva! Non comprendendo egli le cause della impuntualità di lei, le si rivolse contro; ebbe un moto di collera subitaneo; e gli balenò anche il pensiero ch’ella avesse voluto infliggergli una umiliazione, un castigo, o ch’ella avesse voluto togliersi un capriccio, esasperare un desiderio. Ordinò al cocchiere, pel portavoce: – Piazza del Quirinale. Egli si lasciava attrarre da Maria Ferres; si abbandonava di nuovo al vago sentimento di tenerezza che, dopo la visita pomeridiana, gli aveva lasciato nell’anima un profumo e gli aveva suggerito pensieri e imagini di poesia. La delusione recente, ch’era per lui una prova del disamore e della malvagità di Elena, lo spingeva forte verso l’amore e la bontà della senese. Il rammarico per la bellissima notte perduta gli aumentava, ma sotto il riflesso del sogno dianzi sognato. Ed era, in verità, una delle notti piú belle che sien trascorse nel cielo di Roma; era uno di quegli spettacoli che opprimono d’una immensa tristezza lo spirito umano perché soverchiano ogni potenza ammirativa e sfuggono alla piena comprension dell’intelletto. maggiore”: l’intenzione di Andrea di costruire nell’abitacolo della carrozza uno scenario dominato dal bianco, viene sottolineata da un titolo francese che unisce in sé musica e colore e che è tratto dal titolo di una poesia di Théophile Gautier (), dalla raccolta Émaux e camées (“Smalti e cammei”), che lo stesso D’Annunzio aveva già usato in un articolo su «La Tribuna» del  gennaio , a proposito di una donna vestita di bianco («La principessa Elena Rospigliosi era una beethoveniana Symphonie en blanc majeur»). . Francesco I: il grande re di Francia (-), i cui motti furono inseriti in vari luoghi della reggia di Fontainebleau.

. il conte d’Ugenta: è il titolo nobiliare di Andrea Sperelli. . Pro amore … cubiculum: “carrozza per l’amore, giaciglio per l’amore”: il motto latino è appropriato all’uso che il libertino Sperelli fa della carrozza. . parole … del marito: Musèllaro, uno degli amici di Andrea, gli aveva raccontato che il matrimonio con il ricchissimo Lord Heathfield era servito a Elena per uscire da «gravissimi imbarazzi pecuniari causati dalla sua eccessiva prodigalità». . via Rasella: strada che sbocca sulla via Quattro Fontane, presso all’ingresso di palazzo Barberini. . soverchiano … ammirativa: superano i limiti di ogni capacità di provare meraviglia.

EPOCA





LA NUOVA ITALIA

-

La piazza del Quirinale appariva tutta candida, ampliata dal candore, solitaria, raggiante come un’acropoli olimpica su l’Urbe silenziosa. Gli edifizii, intorno, grandeggiavano nel cielo aperto: l’alta porta papale del Bernini, nel palazzo del Re, sormontata dalla loggia, illudeva la vista distaccandosi dalle mura, avanzandosi, isolandosi nella sua magnificenza difforme, dando imagine d’un mausoleo scolpito in una pietra siderea; i ricchi architravi del Fuga, nel palazzo della Consulta, sporgevano di su gli stipiti e di su le colonne transfigurati dalle strane adunazioni della neve. Divini, a mezzo dell’egual campo bianco, i colossi parevano sovrastare a tutte le cose. Le attitudini dei Dioscuri e dei cavalli s’allargavano nella luce; le groppe ampie brillavano come ornate di gualdrappe gemmanti; brillavano gli omeri e l’un braccio levato di ciascun semidio. E, sopra, di tra i cavalli, slanciavasi l’obelisco; e, sotto, aprivasi la tazza della fontana; e lo zampillo e l’aguglia salivano alla luna come uno stelo di diamante e uno stelo di granito. Una solennità augusta scendeva dal monumento. Roma, d’innanzi, si profondava in un silenzio quasi di morte, immobile, vacua, simile a una città addormentata da un potere fatale. Tutte le case, le chiese, le torri, tutte le selve confuse e miste dell’architettura pagana e cristiana biancheggiavano come una sola unica selva informe, tra i colli del Gianicolo e il Monte Mario perduti in un vapore argentino, lontanissimi, d’una immaterialità inesprimibile, simili forse ad orizzonti d’un paesaggio selenico, che suscitavano nello spirito la visione d’un qualche astro semispento abitato dai Mani. La cupola di San Pietro, luminosa d’un singolare azzurro metallico nell’azzurro dell’aria, giganteggiava prossima alla vista cosí che quasi pareva tangibile. E i due giovini Eroi cignígeni, bellissimi in quell’immenso candore come in un’apoteosi della loro origine, parevano gli immortali Genii di Roma vigilanti sul sonno della città sacra. La carrozza rimase ferma d’innanzi alla reggia, lungo tempo. Di nuovo, il poeta seguiva il suo sogno inarrivabile. E Maria Ferres era vicina; forse anche vegliava, sognando; forse anche sentiva gravare sul cuore tutta la grandezza della notte e ne moriva d’angoscia; inutilmente. La carrozza passò, piano, d’innanzi alla porta di Maria Ferres, ch’era chiusa, mentre in alto i vetri delle finestre rispecchiavano il plenilunio guardando gli orti pènsili aldobrandini ove gli alberi sorgevano, aerei prodigi. E il poeta gittò il fascio delle rose bianche su la neve, come un omaggio, d’innanzi alla porta di Maria Ferres. . come un’acropoli olimpica: la piazza sul colle del Quirinale viene paragonata a una rocca sull’alto di un’antica città greca (olimpica perché dedicata agli dei dell’Olimpo). . l’alta porta … del Re: la porta principale del palazzo del Quirinale è opera di Gianlorenzo Bernini; è detta papale, perché il palazzo fu costruito nel secolo XVI come residenza papale: dal  era diventato palazzo Reale (e attualmente è residenza del Presidente della Repubblica). . pietra siderea: pietra caduta dalle stelle. . architravi … Consulta: il palazzo della Consulta, a fianco del palazzo del Quirinale, eretto nel , è opera di Ferdinando Fuga (-); ai tempi del romanzo era sede del Ministero degli Esteri (attualmente è sede della Corte Costituzionale). . dalle strane … neve: dagli strani accumuli creati dalla neve. . i colossi: il grande gruppo marmoreo al centro

della piazza (che sotto la neve appare un egual campo bianco, cioè un campo bianco uniforme), con le statue antiche dei due Dioscuri, Castore e Polluce, con i loro grandi cavalli, al di sopra di una fontana e sormontati da un obelisco. . l’aguglia: la punta dell’obelisco. . selenico: lunare. . Mani: anime dei defunti, dei trapassati (i Manes dei latini). . i due … cignígeni: i due Dioscuri, che i Romani veneravano come Genii della città, chiamati cignígeni, cioè nati dal cigno, in quanto figli di Leda e di Giove, che si uní con la donna in sembianza di cigno. . orti … aldobrandini: i giardini pensili della villa Aldobrandini, non lontana dal Quirinale (cfr. nota ). La casa di Maria Ferres si trova per l’appunto in via Nazionale, davanti alla villa Aldobrandini.

T. GABRIELE D’ANNUNZIO. POEMA PARADISIACO



Poema paradisiaco Hortus Conclusus

i

testi del Poema paradisiaco sono distribuiti in cinque parti, Prologo, Hortus Conclusus, Hortus Larvarum, Hortulus Animae, Epilogo: le tre parti centrali hanno tutte al centro la figura dell’Hortus, cioè del giardino, che domina tutto il poema come immagine di una natura chiusa entro cui si espande e si nasconde la sensibilità dell’uomo (Hortus Conclusus è il giardino chiuso per eccellenza, quasi riavvolto nella sua assoluta perfezione, che non ha bisogno di nessun contatto con quanto è fuori di esso; Hortus Larvarum è il giardino delle larve, dei fantasmi, delle apparizioni inquietanti, di sogni passati e di figure del tempo lontano; Hortulus Animae è il piccolo giardino dell’anima, che nella freschezza della natura cerca di allontanare da sé tutte le «cose orrende» che la turbano). Per la voce poetica che parla nel Poema paradisiaco, il giardino appare come luogo del rifugio in uno spazio allo stesso tempo naturale e artificiale, dove può svolgersi la piú ostinata ricerca di sottili sfumature, l’attesa di una consolazione. Nella natura protetta del giardino l’immaginazione morbosa, i deliri della malattia decadente, di cui D’Annunzio aveva offerto un vero e proprio repertorio nelle due precedenti raccolte, L’Isottèo e La Chimera, possono essere contemplati come da lontano: il giardino è come un sontuoso ospedale, una sorta di luogo di convalescenza, costruito attraverso l’eredità di una lunga tradizione artistica, letteraria, attraverso l’eco delle immagini e delle associazioni mentali che la sua figura ha assunto nei diversi secoli. La poesia iniziale di ognuna delle tre parti dedicate ai giardini ripete il titolo dell’intera parte che inaugura: quella dal titolo Hortus Conclusus ha quindi una posizione essenziale nella struttura dell’intero Poema paradisiaco ed è una delle ultime a essere stata composta (contemporaneamente all’edizione nella raccolta, fu pubblicata su «Il Mattino» di Napoli del 21-22 maggio 1893). Attraverso l’immagine del giardino chiuso in se stesso, questa poesia tende a indicare la natura stessa della poesia, della bellezza, di tutte le cose che promettono gioie «paradisiache» proprio perché sono inaccessibili, si lasciano intravvedere e sfiorare da lontano. Nel giardino chiuso vive una natura rigogliosa e disfatta, vivono statue e fontane solitarie, si espandono presenze e profumi misteriosi, qualche cosa che promette una morbosa felicità, il cui richiamo è tanto piú forte quanto piú tutto è destinato a non essere visto, a non essere raggiunto. La poesia sottolinea con insistenza, riprendendo motivi e figure assai diffusi nella cultura decadente, la fascinazione della bellezza non vista o vista da lontano, chiusa in una perfezione splendida e allo stesso tempo sinistra, quasi mortale: e mette variamente in luce (attraverso le figure del viandante, v. 4, e dello straniero, vv. 45 e seguenti) la ricerca di una conoscenza del mistero, di una iniziazione alla confusa verità che si nasconde nel giardino irraggiungibile. Questa conoscenza del mistero appare tanto piú fascinosa quanto piú si rivolge a una realtà che ha una sua esistenza fisica e sensuale, ma che è appunto preclusa, sottratta alla vista e al contatto dell’uomo che a essa è straniero: ma queste varie suggestioni dell’inaccessibile sono ricondotte alla fine a una motivazione erotica, con il complimento finale alla donna, identificata essa stessa con un giardino chiuso. Lo stesso titolo Hortus Conclusus e l’identificazione della donna con il giardino chiuso derivano da un testo biblico che ha costituito sempre un essenziale punto di riferimento per la poesia amorosa, il Cantico dei cantici, in cui è la sposa a essere indicata come hortus conclusus («Hortus conclusus soror mea, sponsa, hortus conclusus», “giardino chiuso, sorella mia, sposa, giardino chiuso”, IV, 12). Il poeta cerca qui un effetto di musica lenta e sospesa, data dal ritmo quasi smorzato e spento che assumono gli endecasillabi. Il verso sembra voler tendere alla misura dimessa della prosa (anche con una certa irregolarità nell’uso degli accenti), ma questo effetto viene complicato dalla fitta presenza degli enjambements tra verso e verso, dalle frequenti dieresi interne alle parole (per esempio al v. 9, inquïeta, al v. 14, feminëi, al v. 23, statüa ecc.), dall’uso di vocaboli (soprattutto aggettivi) che contengono suggestioni vaghe e indeterminate, che, piú che indicare i

Le sezioni del Poema paradisiaco

Il giardino, luogo del rifugio

Il giardino chiuso, immagine della poesia stessa

La poesia è ricerca del mistero

Nel Cantico dei cantici la sposa è «hortus conclusus»

EPOCA





LA NUOVA ITALIA

-

caratteri fisici delle cose, sembrano alludere al loro inafferrabile mistero. La sintassi si svolge in maniera sinuosa, facendo sí che le immagini sembrino sgorgare l’una dall’altra, in un viluppo quasi ininterrotto che consente pochissime pause e costringe il lettore a qualche sforzo di comprensione.

˜

[EDIZIONE: Gabriele D’Annunzio, Versi d’Amore e di Gloria, ed. cit., vol. I] 8 strofe di 7 endecasillabi, ciascuna delle quali si basa su tre rime, il cui ordine varia sempre dall’una all’altra: nella prima strofa è ABCABCA (a queste 8 strofe segue un terzetto di congedo, che riprende 2 rime della strofa precedente). METRO:

Amor con lui parlava del vostro grande orgoglio… Cino da Pistoia L’alta bellezza tua è tanto nova! Sennuccio del Bene Alma real, dignissima d’impero… Francesco Petrarca





Giardini chiusi, appena intraveduti, o contemplati a lungo pe’ cancelli che mai nessuna mano al viandante smarrito aprí come in un sogno! Muti giardini, cimiteri senza avelli, ove erra forse qualche spirto amante dietro l’ombre de’ suoi ben perduti! Splendon ne la memoria i paradisi inaccessi a cui l’anima inquïeta aspirò con un’ansia che fu viva oltre l’ora, oltre l’ora fuggitiva, oltre la luce de la sera estiva

. Le epigrafi sono tratte da due poeti stilnovisti, Cino da Pistoia ( ca.-) e Sennuccio del Bene ( ca.-), e da Petrarca. vv. -. che mai nessuna mano aprí al viandante (come invece accade nel sogno): l’inaccessibilità del luogo chiuso (conclusus) delude l’aspirazione fantastica; il «sogno» si presenta subito come «illusione». v. . avelli: i «giardini chiusi» vengono rassomigliati, per la loro silenziosa severità, a dei cimiteri, anche se privi di tombe; «avello» (tomba) è una voce letteraria, assai in uso nel linguaggio poetico dell’Ottocento. vv. -. il fantasma di qualche misterioso amante continua a cercare l’ombra di coloro che ha amato o dei beni che ha avuto nel proprio passato. Con un gioco di raddoppiamento temporale si introducono due ordini concentrici di passato, espressi con la figura del fantasma: c’è un tempo che ap-

partiene allo «spirto amante», che vaga ancora per il giardino, e un altro tempo che appartiene alle ombre delle persone e dei beni da esso amati e ormai perduti. v. . memoria: memoria, insieme a sogno (v. ), mistero (v.  e v. ) e a visioni (v. ) sono presenze che caratterizzano il «fantastico habitat paradisiaco» (Andreoli-Lorenzini). v. . inaccessi: i giardini sono visti come dei paradisi dove nessuno è mai riuscito a penetrare: l’enjambement (paradisi / inaccessi») cade qui sul sostantivo-chiave dell’intero libro, che s’intitola appunto Poema paradisiaco. vv. -. l’ansia dell’«anima inquieta» di colui che ha scrutato i giardini inaccessibili è particolarmente duratura: è durata oltre l’ora fuggente, oltre lo spegnersi della luce della sera estiva. Si noti il sottile gioco fonico iterativo di questi versi, tutti in rima (la strofa è costruita secondo uno schema

T. GABRIELE D’ANNUNZIO. POEMA PARADISIACO



dove i fiori effondean qualche segreta virtú da’ loro feminëi sorrisi, 









e i bei penduli pomi tra la fronda puri come la carne verginale parean serbare ne la polpa bionda sapori non terrestri a non mortale bocca, e piú bianche nel silenzio intente le statue guardavan la profonda pace e sognavano indicibilmente. Qual mistero dal gesto d’una grande statüa solitaria in un giardino silenzioso al vespero si spande! Su i culmini dei rigidi cipressi, a cui le rose cingono ghirlande, inargentasi il cielo vespertino; i fonti occulti parlano sommessi; biancheggiano ne l’ombra i curvi cori di marmo, ora deserti, ove s’aduna il concilio degli ultimi poeti; tenue su la messe alta dei fiori passa la falce de la nova luna; ne l’ombra i fonti parlano segreti; rare sgorgan le stelle, ad una ad una;

ABCCCBA, di grande suggestione sonora), culminante, proprio al centro della strofa, nel raddoppiamento di «oltre l’ora» (riecheggiato, al verso successivo, da «oltre la luce»). vv. -. i fiori esalano profumi misteriosi e indeterminati (qualche segreta virtú) dalle loro corolle, che assomigliano al sorriso di labbra femminili. vv. -. continua la descrizione del giardino nel momento passato in cui l’anima ha continuato a desiderarli: si fa riferimento alle mele che pendono dai rami (penduli pomi), che nella loro polpa bionda sembrano conservare sapori non terrestri, destinati a qualche bocca non mortale. Come indica anche la similitudine del v.  (che paragona la purezza delle mele a quella di carne verginale), la condizione paradisiaca è quella di un paradiso terrestre compreso in una dimensione verginale e non mortale, quasi colto in quell’istante di sospensione che precede il peccato originale. Il quadro di quell’ora fuggitiva è concluso poi dalla figura (ripresa poi nella strofa successiva), molto diffusa nella poesia decadente, delle statue del giardino, del loro sognare, qualificato dall’avverbio indicibilmente, che conclude la strofa, dandogli un ulteriore alone di indeterminatezza. v. . l’ora del tramonto è indicata dall’inghirlan-

darsi delle cime dei cipressi, con il colore delle «rose». v. . inargentasi: si illumina ma il colore dell’argento (accostato a quello delle rose del verso precedente), appare come indeterminato e sfuggente. v. . i fonti occulti: le fontane nascoste nella folta vegetazione. v. . i curvi cori: sedili di marmo disposti in circolo, come in un coro. Immagine che, come indica Praz, D’Annunzio aveva probabilmente visto raffigurati in quadri di artisti della sua epoca, come Frederick Leighton (-) e Lawrence Alma Tadema (-): qui si immagina che si raduni «il concilio degli ultimi poeti», strano consesso dei rappresentanti di una poesia che si offre alla fine, che vuol essere ultima ed estrema. v. . la falce de la nova luna: l’indicazione della luna come falce (in relazione alla sua forma) compare già in Canto novo, nella sezione VII del Canto dell’Ospite, come «falce di luna calante» (mentre qui, essendo nova, è evidentemente crescente). v. . parlano segreti: confidano i propri segreti. v. . rare sgorgan le stelle: immagine molto ricorrente in D’Annunzio (del cielo equoreo, o delle stelle come lacrime del cielo), derivata da vari modelli (Swinburne, Shelley, Hugo).

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

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



LA NUOVA ITALIA

-

un cigno con remeggio lento fende il lago pura imagine del cielo (desío d’amori umani ancor l’accende? memoria è in lui del nuzial suo lito?) e fluttua nel lene solco il velo de l’antica Tindaride, risplende su l’acque il lume de l’antico mito. Di sovrumani amori visioni sorgono su da’ vasti orti recinti che mai una divina a lo straniero aprirà coronata di giacinti per lui condurre in alti labirinti di fiori verso il triplice mistero cantando inaudite sue canzoni. Ma quegli, folle del profumo effuso dal cor degli invisibili rosai, chino a la soglia come quando adora, pieni d’un sogno non sognato mai gli occhi mortali, giú per l’ombre esplora nel profondo crepuscolo in confuso il dominio silente ch’egli ignora.

vv. -. il cigno lentamente nuota sul lago che rispecchia il cielo, fendendo l’acqua; nel nuoto dei palmipedi, le zampe fungono da remi (da cui il termine remeggio: notare la proprietà e precisione di questo vocabolo, che i letterati fra Sette e Ottocento, sino al Carducci, avevano utilizzato per lo piú in senso figurato, come battito d’ali). Le due interrogative tra parentesi chiedono se il cigno ha ancora desiderio di amori umani (v. ) e se si ricorda del lido dove ha avuto il letto nuziale (v. , con la parola lito che evoca fonicamente letto): si tratta di un’allusione a un noto mito classico, secondo cui, sotto le sembianze d’un cigno, Giove amò Leda (amori umani sono gli accoppiamenti degli dèi con esseri non divini), sulle sponde del fiume Eurota (appunto nuzial suo lito). vv. -. nella scia sottile (lene indica qualcosa che va da regolato e misurato a tenue e leggero) lasciata dal nuoto del cigno pare riaffiorare il velo della bellissima Elena, figlia appunto di Giove e di Leda, chiamata Tindaride dal nome del padre ufficiale, Tindaro, sposo legittimo di sua madre Leda. v. . notare l’anticipazione del complemento di specificazione rispetto al soggetto visioni (da leggere con la dieresi visïoni), che ne fa quasi qualcosa che misteriosamente dipende dagli amori. v. . orti recinti: «giardini chiusi» (anche questa è una traduzione di Hortus Conclusus); come nel verso precedente, si produce un senso sottile di spaesamento sintattico, per la presenza di questa forma participiale (recinti) che ha tutta l’apparen-

za d’un sostantivo, posto a diretto contatto con il sostantivo vero e proprio (orti). vv. -. che mai … giacinti: la relativa è riferita agli orti recinti, che mai una divina (cioè una donna divina, vera e propria sacerdotessa dell’hortus), coronata di giacinti, aprirà all’estraneo, a chi attende di esse iniziato. Il mai esclude preventivamente la realizzazione di un sogno che (come verrà detto al v. ) è appunto un «sogno non sognato mai». v. . per lui condurre: per condurlo in mezzo a labirinti di fiori (dove l’estraneo non sarà mai condotto da quella divina). v. . il triplice mistero: i tre gradi dell’iniziazione mistica, a cui lo straniero dovrebbe sottoporsi per essere introdotto ai misteri del giardino (ma ricordiamo che tutta la situazione viene presentata al negativo, come cosa che non si realizzerà mai). v. . quegli: è ancora lo straniero, inebriato sino alla «follia» piú sensuosa, dal profumo che si effonde dal cuore delle rose che non può vedere. v. . chino a la soglia: si insiste sugli attributi di chiusura, o di recinzione, che rendono il luogo non accessibile, se non attraverso un tragitto iniziatico: lo straniero resta come in adorazione sulla soglia. vv. -. pieni … mortali: con gli occhi mortali pieni di un sogno mai sognato: complemento di modo senza la preposizione (pieni gli occhi…, invece di con gli occhi pieni…). vv. -. giú per l’ombre … ignora: lo straniero esplora nella luce indistinta del crepuscolo quel

T. GABRIELE D’ANNUNZIO. POEMA PARADISIACO



Cosí la prima volta io vi guardai con questi occhi mortali. Voi, signora, siete per me come un giardino chiuso. regno silenzioso che egli ignora, che non può vedere e raggiungere: seguendo i modelli della contemporanea poesia europea, allo straniero-poeta viene attribuito un carattere «orfico»: come il mitico fondatore della poesia, Orfeo, deve esplorare il regno del mistero e dell’ombra, muovere alla ricerca dell’invisibile e dell’impossibile. v. . è l’unico verso di tutto il componimento che rompe la successione delle immagini del giardino e mette in primo piano l’io del poeta.

v. . occhi mortali: gli occhi mortali che non possono sognare il sogno di cui pure sono pregni (dei vv. -), finalmente riescono a guardare ciò che all’inizio (v. ) non riuscivano che a intravedere: una «signora» che riassume in sé tutti gli attributi della chiusura. Dietro la prospettiva «orfica», si allude in realtà a una delle donne amate da D’Annunzio (probabilmente proprio la Maria Gravina che allora era la sua amante).

EPOCA





LA NUOVA ITALIA

-

Le Laudi Laus Vitae (da Maia)

Una vitalità in espansione che vuole abbracciare tutto l’universo

Il «furore» per la vita

Il mito della «vita»

Lode della Diversità

˜

s

i riporta qui l’inizio di Laus Vitae, con la diretta invocazione della Vita e della sua forza rovinosa: la prima strofa «doppia» e la successiva strofa normale. Queste lunghe strofe cercano di dare l’effetto di una voce inarrestabile, di una vitalità in perpetua espansione, che si piega e si prolunga sulle cose, che vuole voracemente abbracciare tutto l’universo, che vuole appropriarsi di ogni esperienza possibile, di ogni aspetto della realtà fenomenica. Le prime battute del poema si pongono come una sorta di preghiera laica e selvaggia, in cui tre volte si ripete la diretta invocazione (O Vita, o Vita, vv. 1, 7, 15), seguita da una diversa qualificazione del dono che essa rappresenta (vv. 2, 8, 16) e nei primi due casi da una serie di similitudini (con l’insistente ripetizione del come) che paragonano quel dono della vita a immagini di violenza mitica o di energia naturale. Al v. 16 quella successione di immagini arriva direttamente a concentrarsi sulla vitalità materiale dell’io, facendo emergere il possessivo mia (ripetuto 4 volte ai vv. 17-19) e poi direttamente il pronome io (messo in evidenza al v. 20, dalla sua stessa posizione in fine di verso). Seguono sei brevi interrogative, che hanno tutte per soggetto un Chi: si tratta in realtà di interrogative retoriche, perché il Chi a cui esse si riferiscono è la persona dello stesso poeta che, attraverso queste domande, mette in evidenza la propria passione totale per la vita, il furore con cui a essa si rivolge, la forza prorompente del proprio desiderio. Il poeta giunge cosí a presentare se stesso come una specie di sacerdote supremo del dionisiaco (cfr. TERMINI BASE 11 e 21), indicando il proprio desiderio come una forza che ha scosso tutti i suoi tirsi, attributi di Dioniso e simboli dell’energia che trae alimento dal fondo cieco della natura (e si noti la ripetizione di tutti i suoi tirsi ai vv. 35 e 42, con l’insistente gioco fonico sulle i, sulle t (anche con altre parole che evocano l’universo dionisiaco, Tíaso e Tíadi). Ci troviamo insomma dinanzi a uno dei testi piú esemplari e prorompenti di quel mito della «vita» che percorrerà gran parte della cultura del Novecento: mito che qui si appoggia a un uso del tutto esteriore e sensuale dei piú noti motivi della filosofia di Nietzsche (e tra l’altro D’Annunzio riprende qui alcune immagini e metafore che aveva già usato in una poesia scritta per la morte dello stesso Nietzsche, Per la morte di un distruttore, comparsa sul «Il giorno» del 9 settembre 1900 e raccolta poi in Elettra). Motivi nietzschiani dominano anche la seconda strofa qui riportata, che si pone come una lode della Diversità, della varietà infinita e multiforme del reale, considerata come un bene offerto anch’esso alla brama inarrestabile dell’io, alla sua disponibilità a catturare dentro di sé tutte le cose possibili, ad amare e a riflettere in sé anche gli aspetti tra loro piú contraddittori della realtà: la Diversità gli appare come la sirena del mondo, come la forma di una fascinazione infinita e inesauribile, verso la quale occorre essere completamente disponibili, sfuggendo a ogni scelta tra gli oggetti del desiderio. Per la tematica della diversità e del rifiuto della scelta, D’Annunzio seguiva piú da vicino, come ha indicato la Noferi, un’opera che in quegli anni aveva contribuito fortemente alla diffusione di temi nietzschiani in chiave «decadente», e cioè Les Nourritures terrestres (“I Nutrimenti terrestri”, 1897) di André Gide (1869-1951). [EDIZIONE: Gabriele D’Annunzio, Versi d’Amore e di Gloria, ed. cit., vol. II, Mondadori, Milano 1984] strofe di 21 versi (tre volte sette, a indicare il numero delle canne della siringa dell’antico dio Pan), costruite su una libera successione di versi di diversa misura: prevalgono i settenari, ma si affacciano novenari e numerosi quinari. La prima strofa è però doppia (di versi 21 + 21). METRO:

T. GABRIELE D’ANNUNZIO. LE LAUDI



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O Vita, o Vita, dono terribile del dio, come una spada fedele, come una ruggente face, come la gorgóna, come la centàurea veste; o Vita, o Vita, dono d’oblío, offerta agreste, come un’acqua chiara, come una corona, come un fiale, come il miele che la bocca separa dalla cera tenace; o Vita, o Vita, dono dell’Immortale, alla mia sete crudele, alla mia fame verace, alla mia sete e alla mia fame d’un giorno, non dirò io tutta la tua bellezza? Chi t’amò su la terra con questo furore? Chi ti attese in ogni attimo con ansie mai paghe? Chi riconobbe le tue ore sorelle de’ suoi sogni? Chi piú larghe piaghe s’ebbe nella tua guerra? E chi ferí con daghe di piú sottili tempre? Chi di te gioí sempre come s’ei fosse per dipartirsi? Ah, tutti i suoi tirsi

v. . ruggente face: la fiamma (face) acquisisce un carattere quasi di ferinità (è ruggente come le belve feroci). v. . gorgóna: si riferisce alla Medusa mitologica (la Gòrgone, molto presente nell’immaginario decadente e tra le figure mitiche predilette da D’Annunzio), che pietrifica chiunque a lei osi volgere lo sguardo: spesso essa si pone come immagine della forza distruttiva della materia, dello sguardo rivolto al fondo violento e «terribile» della realtà. v. . centàurea veste: il manto avvelenato donato per vendetta (fingendo che avesse la virtú di far rinascere l’amore) alla moglie di Ercole, Deianira, dal centauro Nesso, e poi causa della morte dello stesso Ercole. v. . offerta agreste: dono offerto dalla terra. v. . fiale: forma arcaica e letteraria, per favo di

miele. vv. -. come … tenace: notare l’efficacia vitalistica di questa immagine, in cui si raffigura l’atto di suggere il miele dallo stesso favo (la bocca dell’uomo divide il miele dalla cera resistente). v. . con ansie mai paghe?: con ansie mai soddisfatte: la natura di un io che vuole essere eccezionale è dominata dall’inappagabilità, dal desiderio d’una espansione sfrenata e senza limiti. vv. -. Chi … sogni?: chi sentí lo svolgimento effettivo della vita (il passaggio delle sue ore) come adeguato ai propri sogni, alle proprie aspirazioni? v. . daghe: voce letteraria per spade. v. . di piú sottili tempre?: di leghe piú sottili, piú forti e affilate. v. . tirsi: il tirso era un’asta su cui s’attorcigliavano pampini o fronde d’edera, simbolo di Dioniso-

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il mio desiderio scosse verso di te, o Vita dai mille e mille vólti, a ogni tua apparita, come un Tíaso di rosse Tíadi in boschi folti, tutti i suoi tirsi! Nessuna cosa mi fu aliena; nessuna mi sarà mai, mentre comprendo. Laudata sii, Diversità delle creature, sirena del mondo! Talor non elessi perché parvemi che eleggendo io t’escludessi, o Diversità, o meraviglia sempiterna, e che la rosa bianca e la vermiglia fosser dovute entrambe alla mia brama, e tutte le pasture co’ lor sapori, tutte le cose pure e impure ai miei amori; però ch’io son colui che t’ama, o Diversità, sirena del mondo, io son colui che t’ama.

Bacco e dei suoi seguaci. Con la metafora del desiderio che scuote i suoi tirsi verso la Vita, il poeta vuole qui indicare la sua natura sfrenata e dionisiaca, il suo stato di perpetua agitazione come quello dei seguaci di Dioniso. v. . apparita: apparizione, manifestazione. vv. -. Tíaso di rosse / Tíadi: corteo notturno (Tíaso) di Baccanti (Tíadi), illuminate dalle fiaccole (per questo rosse, ma anche perché in preda all’agitazione dionisiaca), il quale avanzava appunto scuotendo i tirsi. v. . comprendo: nel duplice senso di capire e accogliere la pluralità delle forme. vv. -. cfr. Les Nourritures terrestres di André Gide: «Forme diverse della vita; voi tutte mi pareste belle».

vv. -. Cfr. ancora Gide: «La necessità dell’opzione mi fu sempre intollerabile; scegliere m’appariva non tanto eleggere, quanto respingere ciò che non avevo eletto» (elessi: scelsi). v. . e che la rosa: dipende da parvemi (v. ): che sia la rosa bianca che quella vermiglia (cioè gli aspetti piú diversi della realtà) fossero entrambe destinate alla mia brama, al mio desiderio impetuoso. v. . pasture: «nutrimenti» (anche questo soggetto ha per predicato il precedente fosser dovute, v. ): ma «pastura» porta con sé una connotazione tra il pastorale e il ferino. v. . ripresa d’un verso da un salmo di Cosí parlò Zarathustra di Nietzsche («I sette sigilli»): «Poiché io t’amo, o Eternità!».

T. GABRIELE D’ANNUNZIO. LE LAUDI

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Lungo l’Affrico nella sera di giugno dopo la pioggia (da Alcyone)

Q

uesta lirica fu scritta a Settignano, sulla collina di Fiesole, vicino a Firenze, dove D’Annunzio allora risiedeva, verso la fine del giugno 1902: essa si ricollegava al tema della lirica che subito la segue nella disposizione della raccolta di Alcyone, La sera fiesolana, scritta anch’essa a Settignano nel giugno di tre anni prima (cfr. p. 304). Si tratta, come ne La sera fiesolana, di una contemplazione del paesaggio nei pressi di Fiesole, della terra e del cielo, dei colori, delle luci, dei profumi, delle presenze animali e vegetali, dopo la pioggia in una sera di giugno, in un gioco di effetti e sensazioni che fanno sentire il prossimo sorgere dell’estate. Si tratta di una situazione che D’Annunzio aveva registrato nei suoi Taccuini, e in particolare in un appunto della primavera 1898 (Taccuino XVII) in cui si segue l’immagine della luna sottile nel cielo, dei campi pregni di acqua e di umidità, del fiume Affrico (che scende appunto da Fiesole verso l’Arno), del volo basso delle rondini ecc.: situazione e paesaggio che egli utilizza piú volte in diversi scritti. Partendo da questo sfondo naturale, Lungo l’Affrico tesse una rete di analogie tra l’acqua, la terra e il cielo, segue soprattutto gli effetti che l’umidità della pioggia recente e la presenza del fiume lasciano sulla terra (che è appunto «abbeverata» dalla pioggia), mentre la notte si effonde sull’universo (La sera fiesolana, invece, aveva insistito piú esplicitamente sull’analogia tra l’acqua e il cielo, sull’umida luce che impregna l’aria). Il testo è costituito da 4 strofe di 10 versi ciascuna (ma la seconda e la terza sono unite in una sola pseudo-«strofa lunga»): le strofe hanno una struttura regolare, con una successione di endecasillabi, salvo il settimo verso, che è un settenario, e il decimo, che è un quinario. Le rime sono però variate da una strofa all’altra, ma ci sono varie riprese ed echi interni; sempre in rapporto tra loro sono i versi sesto e settimo e ottavo e nono di ciascuna strofa, sempre legati da rime o da assonanze (la rima tra l’ottavo e il nono si presenta in forma imperfetta solo alla terza strofa, sempre/tempie). La prima strofa prende avvio dal motivo della lode, caratteristico di tutte le Laudi, esaltando la grazia del cielo, nata dalla pioggia, che ora si rispecchia nella terra e si confonde con la musica del canto del poeta (che sottolinea cosí la funzione essenziale della propria presenza, del proprio saper trasfigurare tanta bellezza davanti a un pubblico, a chi l’ascolti, v. 10). La strofa «doppia» al centro del componimento ha la prima parte dedicata alla luna, la cui immagine suscita analogie che ancora chiamano in causa il punto di vista, l’occhio del poeta; la seconda parte (metricamente la terza strofa) è dedicata invece alle rondini, la cui immagine ricorre frequentemente nella poesia di D’Annunzio, dove vale come «simbolo di una durata ritmica, di un movimento che deve scendere nel profondo della pagina per articolarne e alleggerirne le cesure» (Raimondi). Le rondini, negli stessi anni, sono presenze fondamentali anche nella poesia di Pascoli, dove offrono la suggestione della lontananza, della leggerezza del volo, dell’annuncio di messaggi di mondi lontani e perduti, della migrazione e dell’evasione. Qui D’Annunzio insiste sul rapporto che le rondini, con il loro volo basso che le porta a sfiorare con il petto l’erba bagnata, istituiscono tra l’umidità del cielo e quella della terra. Nella quarta strofa sono ancora le rondini a offrire la suggestione di una vita sospesa, di trasalimenti che si avvertono nell’aria dopo il loro passaggio: e raccogliendo tutti gli effetti visivi, tattili e sonori seguiti nel corso della lirica, la terra umida sembra offrirsi come un corpo amoroso, sembra coricarsi nella sera come nell’annunzio di una vita che sta nascendo, di un’alba certa di trionfante solarità. [EDIZIONE: Gabriele D’Annunzio, Versi d’Amore e di Gloria, ed. cit., vol. II, Mondadori, Milano 1984]

Il paesaggio rassomigliato all’anima

Rete di analogie

La «grazia» del cielo

La «nascente luna» Le rondini

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Grazia del ciel, come soavemente ti miri ne la terra abbeverata, anima fatta bella dal suo pianto! O in mille e mille specchi sorridente grazia, che da la nuvola sei nata come la voluttà nasce dal pianto, musica nel mio canto ora t’effondi, che non è fugace, per me trasfigurata in alta pace a chi l’ascolti. Nascente Luna, in cielo esigua come il sopracciglio de la giovinetta e la midolla de la nova canna, sí che il piú lieve ramo ti nasconde e l’occhio mio, se ti smarrisce, a pena ti ritrova, pel sogno che l’appanna. Luna, il rio che s’avvalla senza parola erboso anche ti vide; e per ogni fil d’erba ti sorride, solo a te sola. O nere e bianche rondini, tra notte e alba, tra vespro e notte, o bianche e nere ospiti lungo l’Affrico notturno!

v. . Grazia del ciel: la grazia è quella del cielo ormai sereno dopo la pioggia, che si specchia nella terra imbevuta d’acqua (proprio l’espressione terra abbeverata D’Annunzio aveva già usato nel Taccuino XVII). v. . anima: il cielo, che si rasserena dopo aver scaricato la pioggia, viene rassomigliato all’anima, che si rasserena con il pianto: è una metafora in cui all’elemento non-umano (cielo) viene sostituita un’entità umana (anima). vv. -. la grazia sorride in mille specchi per il vario riflettersi delle cose nell’umidità dell’aria, come conseguenza della pioggia, essa è nata dalla nuvola, come la voluttà che nasce dal pianto. Qui si può pensare a un’eco del «piacer figlio d’affanno», de La quiete dopo la tempesta di Leopardi (Baldini): ma in D’Annunzio c’è una tonalità tra il consolatorio e l’effusivo, un atteggiamento di estenuata sensualità, lontanissimo dai caratteri del piacere leopardiano. v. . ora t’effondi: qui si dichiara uno dei caratteri essenziali della lirica e di tutta la poesia di Alcyone: si tratta dell’effusione, sensuale e soprattutto musicale; che non è fugace: il canto non fugace, non effimero, fa pensare all’eco di famosi testi di primo Ottocento, come i Sepolcri foscoliani (il canto e l’armonia delle Muse che «vince di mille secoli il silenzio») e Il Cinque maggio manzoniano (il «cantico che forse non morrà»).

v. . per me: da me, a opera mia, attraverso il mio canto. v. . a chi: «per chi» (per il pubblico del poeta). vv. -. il filo tenue della luna al primo quarto viene paragonato al segno del sopracciglio di una giovane donna e a quello del midollo (lo strato piú interno e piú fino) di una giovane canna. v. . pel … l’appanna: l’occhio ritrova a fatica l’immagine della luna, anche perché è appannato dal sogno: la nitidezza del paesaggio naturale è cosí come velata dall’atmosfera di sogno che domina su di esso, dalla disposizione del poeta a vedere tutto come un sogno. v. . il rio che s’avvalla: l’Affrico, il fiume che discende a valle (s’avvalla) da Fiesole verso Firenze. v. . erboso: perché scorre fra rive piene d’erba (si confronti con l’erbal fiume silente de I pastori, piú avanti v. , p. ) v. . nel paesaggio si dà una specie di identità, una comunicazione diretta, da solo a sola, tra il fiume e la luna. La formula tornerà, latinizzata, nel titolo del diario scritto nel  (Solus ad solam). vv. -. Notare il notevolissimo doppio chiasmo incatenato: «o nere e bianche […] o bianche e nere», e «tra notte e alba, tra vespro e notte» (alba e vespro d’altra parte coincidono tra loro, quasi sovrappongono la loro identità, come sarà confermato dal finale della poesia.

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Volan elle sí basso che la molle erba sfioran coi petti, e dal piacere il loro volo sembra fatto azzurro. Sopra non ha susurro l’arbore grande, se ben trema sempre. Non tesse il volo intorno a le mie tempie fresche ghirlande? E non promette ogni lor breve grido un ben che forse il cuore ignora e forse indovina se udendo ne trasale? S’attardan quasi immemori del nido, e sul margine dove son trascorse par si prolunghi il fremito dell’ale. Tutta la terra pare argilla offerta all’opera d’amore, un nunzio il grido, e il vespero che muore un’alba certa.

v. . il volo basso delle rondini si confonde con l’azzurro del cielo, in un ampio senso di piacere. Cfr. nel Taccuino XVII: «Innumerevoli rondini volano basse, radendo l’erba, su gli argini verdi, con voli brevi e tardi…». vv. -. l’albero grande (la cui immagine resta volutamente indeterminata) non ha nessun sussurro sopra, sulla sua cima, anche se trema continuamente, per un vento leggero e anche per il vicino volo delle rondini. vv. -. lo stesso volo delle rondini inghirlanda il poeta: la sua effusione si affida al canto, al suo prestigio di poeta «coronato». vv. -. l’interrogativa suggerisce che il bene «promesso» dai gridi delle rondini viene «ignorato» o meglio viene solo indovinato, misteriosamente intuito da chi li ascolta e trasale nell’udirli. v. . le rondini s’attardano nel loro volo serale, come se avessero dimenticato che c’è un nido che le attende. vv. -. sugli argini del rio, che le rondini hanno sfiorato, pare che ancora si conservi la sensazione

del loro volo, addirittura del fremito delle loro ali (D’Annunzio avverte qui la suggestione del permanere dell’eco di una vita frusciante e inafferrabile, anche quando è venuta meno la sua immediata presenza fisica). vv. -. resa molle dalla pioggia, la terra quasi attende l’artista che possa plasmarla e fecondarla come l’argilla nelle mani di uno scultore: ma il lavoro artistico è identificato con l’opera d’amore, l’argilla con un corpo erotico che si offre all’amante. v. . un nunzio il grido: il grido delle rondini pare un annunzio; espressione che rimanda ai vv. -: è l’annunzio, la promessa, d’un bene ignoto e insieme del sorgere di una nuova vita segreta. vv. -. le ultime e tenue luci della sera si identificano con la luce certa dell’alba. Il motivo della coincidenza fra tramonto e aurora è particolarmente ricorrente in D’Annunzio: un suo possibile precedente è in Maupassant, Des vers. Au bord de l’eau (“Versi. In riva all’acqua”): «Et la nuit qui tombait me semblait une aurore!» (“E la notte che scendeva mi pareva un’aurora!”).

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La sera fiesolana (da Alcyone)

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Il paesaggio scaturisce dalla volontà di dire

La natura sotto il segno della metamorfosi

Si rivolge a una presenza femminile Vuole condurre l’interlocutrice a immergersi nella natura

critta nel giugno 1899 (una copia manoscritta reca la data: «La Capponcina, Settignano di Desiderio, ai dí 17 di giugno 1899, verso sera, dopo la pioggia»), La sera fiesolana fu la prima a essere composta delle liriche di Alcyone e fu pubblicata nella «Nuova Antologia» del 16 novembre 1899: in quella prima pubblicazione le tre strofe recavano ciascuna un sottotitolo a lato, La natività della luna, La pioggia di giugno, Le colline. Il componimento è costituito in realtà di 3 strofe di 14 versi di varia lunghezza (in prevalenza endecasillabi, intrecciati con sottile disposizione musicale con novenari, settenari, quinari): c’è un sistema di rime molto libero, denso e variato da una strofa all’altra. A ciascuna delle 3 strofe segue un terzetto che fa da antifona (ritornello variato, contenente ogni volta una diversa «laude» della «Sera», che riecheggia una formula del Cantico delle creature di san Francesco, «Laudata sii per…»); questo terzetto è formato da un endecasillabo, da un verso lungo composto (il primo, per esempio, è: settenario + ottonario), e da un quinario. Ciascuna strofa e ciascun terzetto si apre con un endecasillabo e si chiude con un quinario; il primo verso di ogni terzetto rima sempre con l’ultimo verso della strofa che lo precede, e anche gli altri due versi rimano con altri versi della stessa strofa. La situazione è la stessa che si è vista nella poesia Lungo l’Affrico, che nella disposizione di Alcyone precede La sera fiesolana, ma che fu invece composta successivamente (cfr. sopra): si tratta di una contemplazione del paesaggio intorno a Fiesole in una sera di giugno, dopo la pioggia. Ma qui lo sguardo al paesaggio prende avvio da una esplicita «volontà di dire» (in cui i critici hanno visto un diretto riferimento a Dante e alla Vita nova, dove il sorgere della poesia della «lode» di Beatrice viene legato proprio alla manifestazione di una volontà di dire da parte del poeta): ciascuna delle tre strofe mette in evidenza nel primo verso le parole del poeta e la sua intenzione di rivolgerle alla donna interlocutrice (Fresche e Dolci le parole nelle prime due strofe, con un’allusione al celebre inizio della canzone CXXVI di Petrarca, Chiare, fresche e dolci acque; Io ti dirò nella terza strofa). Le suggestioni sensuali del paesaggio, le sottili sensazioni musicali, tattili e visive che da esso si ricavano, si legano tutte a una sospensione, a un’attesa e a un passaggio: e sembrano scaturire comunque dalla parola, si svolgono come sua conseguenza (nelle prime due strofe esse si affacciano come secondo termine di due lunghe similitudini, introdotte dal come del v. 2 e del v. 19, che hanno come primo termine le parole; nella terza strofa esse si presentano direttamente come materia del discorso del poeta, Io ti dirò…). Tutta questa natura che scaturisce dalla magía della parola si presenta d’altra parte sotto il segno della metamorfosi, del trascorrere tra stati e apparenze diverse: nel passaggio tra la pioggia e il sereno, tra il giorno e la notte, tra la primavera e l’estate, in quel compenetrarsi tra l’acqua, la terra, l’aria, che abbiamo già individuato nella poesia precedente. E questo trascorrere delle apparenze è esplicitamente affidato alla parola, alla sua forza incantatrice, sostenuta dal suo rivolgersi a un tu, a una presenza femminile chiamata a partecipare all’incanto della sera, al suo sensuale dispiegarsi di colori e di effetti, di una vita fisica che è tanto piú suggestiva quanto piú appare inafferrabile, quanto piú vive nell’attimo, in uno spettacolo che subito si spegne e svanisce. Come indicano i sottotitoli delle tre strofe nella prima edizione a cui si è sopra accennato, ciascuna strofa, con le sue parole fresche, dolci e fascinose, intende condurre l’interlocutrice a immergersi in un diverso aspetto del paesaggio serale. Nella prima, come suggerisce appunto il sottotitolo, è in evidenza La natività della luna, il sorgere della luna nell’umida sera, il suo manifestarsi come velata dal sogno: ma l’immagine della luna è preceduta, come preparata, dagli effetti sonori e visivi suscitati dal silenzioso contadino che coglie le foglie del gelso, la cui presenza, che s’attarda nella sera, assume quasi un carattere vegetale, dà luogo a sottili effetti di luce e di colore. Nella seconda strofa è in evidenza La pioggia di giugno, seguita nel suo recente cadere su tutta la vegetazione circostante (con un vero e proprio elenco di piante che si svolge a partire dal v. 22, con una serie di termini preceduti dalla preposizione su). Nella terza strofa sono in evidenza Le colline del paesaggio fiesolano, con il fiume che attraversa la campagna intorno a Firenze e

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che invita a raggiungere lontani reami / d’amor, mentre l’intero orizzonte si presenta sotto le sembianze di un corpo femminile. Le prime due strofe si concludono sotto il segno della pace, mentre la terza si rivolge verso un annuncio di consolazione amorosa che chiama in causa l’anima e fa pensare alla possibilità di un amor piú forte rivolto a tutta la natura. Ed è proprio dai finali delle strofe che sorge l’impulso alla lode della Sera stessa come immagine della trascolorante natura: sulla lode della sera si basano i tre terzetti, che direttamente mettono la lirica in collegamento con l’antica tradizione della lauda religiosa, anche con la diretta citazione del Cantico delle creature di san Francesco d’Assisi, usata naturalmente in una chiave di sensualità pagana. Con questo diretto richiamo al Cantico delle creature la lirica si collega al primo sorgere dell’intero programma delle Laudi dannunziane, alle cui origini c’è anche la curiosità di D’Annunzio per i paesaggi e i luoghi francescani, manifestata tra l’altro in un appunto del Taccuino XIV a proposito di una visita a Santa Maria degli Angeli, presso Assisi, del 13 settembre 1897 (e nel paesaggio e nella situazione de La sera fiesolana sono presenti echi da questo appunto). Piú diretta ed esplicita la citazione francescana è nell’ultimo terzetto (il cui primo verso ricorda quello di san Francesco, «Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale»); ma la poesia di D’Annunzio si chiude, in modo molto poco «francescano», sotto il segno di un’attesa palpitante, di una morte che è intrecciata all’amore sensuale, che è immersione entro il trascorrere delle apparenze naturali: con la gioia vitalistica di vedere sempre nascere da ogni forma che muore una nuova forma e una nuova bellezza che palpita e si espande sul mondo.



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Fresche le mie parole ne la sera ti sien come il fruscío che fan le foglie del gelso ne la man di chi le coglie silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta su l’alta scala che s’annera contro il fusto che s’inargenta con le sue rame spoglie mentre la Luna è prossima a le soglie cerule e par che innanzi a sé distenda un velo ove il nostro sogno si giace e par che la campagna già si senta da lei sommersa nel notturno gelo e da lei beva la sperata pace senza vederla.

vv. -. il ti si riferisce alla donna che accompagna il poeta, che vuole offrirle parole il cui sussurro somigli al fruscío delle foglie del gelso, smosse dalla mano del contadino che le coglie, indugiando meticolosamente alla propria opera (lenta: paziente). Notare le profonde pause iniziali di questa poesia, che si sviluppano attraverso gli enjambements ai vv. - (foglie / del gelso) e - (le coglie / silenzioso). vv. -. il contadino compie la sua opera su di una scala che si scurisce (per lo scendere della sera), appoggiata sul fusto del gelso, che, spogliati i rami delle foglie, acquista un colore d’argento, e quasi si rischiara (l’inargentarsi, per cui cfr. qui Hortus Conclusus, v. , è effetto che spesso la poesia attribuisce al chiarore della luna: si può ricordare anche Il tramonto della luna di Leopardi,

v. , «inargentava della notte il velo», che certo D’Annunzio aveva presente, anche per l’uso di velo al v. ). vv. -. soglie/cerule: l’orizzonte (le soglie cerule, cioè dello spazio celeste, del cielo); velo: allude al chiarore della luna. v. . notturno gelo: l’espressione è ripresa da Dante (Inferno, II, , «Quali i fioretti, dal notturno gelo») passando attraverso il Carducci di Virgilio, in Rime nuove: «quando su’ campi arsi la pia / luna imminente il gelo estivo infonde» (Gibellini). vv. -. e da lei … vederla: la campagna sembra bere dalla luna la pace attesa e desiderata, pur senza vedere la luna stessa (essa è ancora bassa sull’orizzonte e non può essere visibile dal fondo delle campagne).

La lode della Sera L’eco del Cantico francescano

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Laudata sii pel tuo viso di perla, o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace l’acqua del cielo! Dolci le mie parole ne la sera ti sien come la pioggia che bruiva tepida e fuggitiva, commiato lacrimoso de la primavera, su i gelsi e su gli olmi e su le viti e su i pini dai novelli rosei diti che giocano con l’aura che si perde e su ’l grano che non è biondo ancóra e non è verde, e su ’l fieno che già patí la falce e trascolora, e su gli ulivi, su i fratelli olivi che fan di santità pallidi i clivi e sorridenti. Laudata sii per le tue vesti aulenti, o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce il fien che odora!

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Io ti dirò verso quali reami d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti eterne a l’ombra de gli antichi rami parlano nel mistero sacro dei monti; e ti dirò per qual segreto

vv. -. la reminiscenza francescana, dal Cantico delle creature («Laudato si’, mi’ Signore…») si ripeterà all’inizio di ognuno dei tre terzetti-antifona. Qui e nel terzetto successivo (vv. -) la sera viene presentata con connotati umani e femminili: la lode si rivolge al suo viso di perla e ai suoi grandi umidi occhi, metafore che sorgono dall’effetto della recente pioggia depositata sulla terra (l’acqua «si tace» negli occhi della sera in quanto è stata appunto accolta dal corpo della terra). v. . bruiva: francesismo, da bruit, rumore, brusio, presente anche in Pascoli (ne Lo stornello, v. , in Myricae, riferito ai bossi), e che in questo caso risente anche del Verlaine di Romances sans paroles (Ariettes oubliées): «O bruit doux de la pluie» (“O dolce rumore della pioggia”) (Gibellini): si tratta d’un rumoreggiare leggero, riferito al recente cadere della pioggia sul fogliame (indicato con l’imperfetto bruiva). v. . questa pioggia leggera, come un pianto, è un languido saluto alla primavera che cede il posto all’estate. vv. -. degli elementi vegetali D’Annunzio indica la condizione incerta e trascolorante, suggerita dal muoversi delle fronde (come nel caso dei pini

con le dita di rosa, cioè con i nuovi germogli rosati, che giocano con il vento), da uno stato del tutto transitorio (come nel caso del grano né biondo né verde, non ancora maturo e del fieno appena falciato) o da un indefinito pallore (come nel caso degli ulivi). vv. . fratelli olivi: nuova reminiscenza francescana (nel Cantico delle creature san Francesco chiamava fratelli e sorelle i diversi elementi naturali e non umani). Il colore pallido delle foglie degli ulivi rende ai clivi (i pendíi) una santità, che vuol essere contemporaneamente cristiana e pagana (presso gli antichi l’ulivo era pianta consacrata alla dea Pallade, come D’Annunzio ricorderà ne L’ulivo, componimento che in Alcyone segue La sera fiesolana). v. . aulenti: profumate. vv. -. la cintura (cinto) che recinge la Sera antropomorfizzata (che probabilmente sta a indicare metaforicamente l’orizzonte) è paragonata al salice che lega i fasci di fieno fresco e odoroso. vv. -. la parola del poeta («Io ti dirò… e ti dirò…») esprime la propria onnipotenza, la propria capacità di sciogliere segreti imponderabili, accessibili solo a iniziati. La seconda persona (ti) è

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le colline su i limpidi orizzonti s’incúrvino come labbra che un divieto chiuda, e perché la volontà di dire le faccia belle oltre ogni uman desire e nel silenzio lor sempre novelle consolatrici, sí che pare che ogni sera l’anima le possa amare d’amor piú forte. Laudata sii per la tua pura morte, o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare le prime stelle!

quella della donna, che quasi ingloba in sé la figura dei lettori a cui il dire del poeta si rivolge. I reami / d’amor sono regni favolosi e immaginati a cui conduce il corso del fiume, forse al di là della sua stessa foce; ma a questo richiamo a qualcosa di immensamente lontano si congiunge quello alle fonti, ai misteri sacri e originari dei luoghi montani da cui il fiume stesso prende vita. Si noti il particolare ritmo di sospensione che a questi versi è attribuito dai due enjambements reami / d’amor e fonti / eterne. Il fiume a cui si allude (anche se rimane volutamente indeterminato) è l’Arno, che attraversa tutta la piana di Firenze, visibile da Fiesole. L’immagine dei fonti che parlano l’avevamo già incontrata in Hortus Conclusus, v. , p. . vv. -. il poeta dirà alla donna quale segreto faccia curvare le colline come labbra chiuse da qualche impedimento (divieto); il paragone tra la curva delle colline e le labbra chiuse che sembrano trattenere qualche misterioso segreto può attribuire alle colline stesse una volontà di dire, un impul-

so a rompere il segreto che resta però sempre trattenuto, ma in cui si riconosce la loro bellezza e il loro carattere di consolatrici. Volontà di dire è espressione usata piú volte nella Vita nuova di Dante: qui essa è riferita alle «colline» antropomorfizzate, espressione della voce del poeta (che naturalmente si identifica con quella stessa volontà), ma anche piene di un segreto fascino femminile; è proprio il legame tra la volontà di dire e il silenzio che attribuisce a quelle labbra-colline una bellezza che va al di là di ogni umano desiderio, e una sempre nuova capacità di consolare chi le contempla, che suscita una disposizione ad amarle ogni sera d’amor piú forte. v. . l’attesa: è l’attesa della notte, collegata alla trepida «volontà di dire», che comporta il darsi di una fine e di una morte (quella della sera, con altre suggestioni date dal balenare del legame, sottolineato dalla rima, tra l’amor piú forte del v.  e la pura morte del v. ) e l’imminenza d’un inizio (il prossimo apparire delle stelle).

La pioggia nel pineto (da Alcyone)

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critta probabilmente nell’estate del 1902, direttamente per la raccolta di Alcyone, questa lirica costituisce la manifestazione piú celebre e perfetta della poesia dannunziana. La parola vi lascia addensare e intrecciare virtuosismo musicale, abbandono sensuale, immersione entro una natura verdeggiante e animata, dando luogo alla prova suprema del D’Annunzio «pànico», che si fa catturare dalla fascinazione dell’antico dio Pan, dalla vitalità di un mondo boschereccio, dove si perde ogni distinzione tra gli esseri umani e una vegetazione rigogliosa e procace.

D’Annunzio «pànico»

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Un avvolgente movimento musicale

Grande metamorfosi pànica

La pioggia estiva rivelatrice della vita misteriosa della natura

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LA NUOVA ITALIA

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Il movimento musicale è sinuoso e avvolgente, sostenuto dalle piú varie rispondenze, dai piú sottili giochi fonici, dalla scelta di parole preziose, da pause e ripetizioni studiatissime, dallo stesso snodarsi della libera struttura metrica: questa è data da 4 strofe lunghe di 32 versi ciascuna, tutti versi brevi, ma di varia misura, dal trisillabo al novenario, con rime variamente disposte (spesso con l’affacciarsi di rime baciate che, per la brevità dei versi stessi, danno particolari effetti di eco interna). Le prime tre strofe sono introdotte da voci verbali alla seconda persona (Taci… Ascolta… Odi?… ) che istituiscono un diretto contatto con una figura femminile. Questo rivolgersi a un interlocutore per istituire il contatto era tipico degli antichi inni greci attribuiti a Omero e a Orfeo: attraverso di esso l’io del poeta si pone come quello di un «eletto scriba in grado di rendere percepibile una nascosta armonia» (Lorenzini). L’invito alla donna è cosí invito ad ascoltare una voce non umana, quella di una natura resa piú animata e misteriosa dal cadere della pioggia estiva. La prima strofa definisce, in un presente assoluto, tutto sospeso nella propria sensuale immediatezza, i corpi vegetali e quelli umani (del poeta e della donna), su cui appunto la pioggia sta cadendo (con qualche eco della seconda strofa de La sera fiesolana, cfr. p. 306). La seconda e la terza strofa, introdotte dall’invito alla donna ad ascoltare, seguono il gioco variato dei suoni suscitati dallo stesso cadere della pioggia e la suggestione data dall’ascoltarli partecipandovi, sentendosene parte e quasi cercando di decifrarli a distanza. Alla presenza della donna e del poeta sotto la pioggia, al loro lasciarsi bagnare e al loro confondersi con la vegetazione è dedicata in particolare l’ultima strofa, che, a differenza delle precedenti, inizia non rivolgendosi direttamente alla donna, ma ripetendo dal finale della strofa precedente il presente Piove (che del resto torna piú volte in tutto il componimento). Ognuna delle strofe (e quindi anche tutto il componimento) si conclude con il nome della donna, Ermione, che si sostituisce a quello reale di Eleonora Duse: Ermione è nome mitologico, della figlia di Elena e Menelao, nonché d’una antica città dell’Argolide (a cui è dedicata un’altra poesia dell’Alcyone, intitolata appunto Il nome). Tutto il sapiente e sensualissimo ascolto degli effetti musicali della pioggia conduce a identificare i corpi umani con i vegetali, a superare ogni distinzione tra la condizione sensuale degli esseri umani e la vita segreta della natura. Ma questo orizzonte metamorfico e pànico (che trova il suo culmine nell’immagine della donna quasi fatta virente, che sembra uscire da scorza (vv. 100101) si proietta su di un leggero sfondo galante e libertino, indicato dal richiamo alla favola bella (che comporta la ripresa di una celebre espressione di Petrarca, Canzoniere, CCLIV, v. 13, «La mia favola breve») che illude gli amanti, su cui si chiudono sia la prima che l’ultima strofa. I finali di queste due strofe si ripetono in realtà quasi identici: i vv. 20-32 sono ripetuti di nuovo nei vv. 116128, solo con una inversione nella posizione dei pronomi ai vv. 31 e 127, che fanno come ruotare i punti di vista convergenti dei due amanti: t’illuse… m’illude; m’illuse… t’illude). Il «pineto» a cui il testo fa riferimento è, come in altre poesie di Alcyone, ancora quello della Marina di Pisa: e lo spunto piú diretto per la poesia è quello della vacanza lí passata nell’estate del 1899 (che, secondo appunti dello stesso autore, fu particolarmente piovosa). Ma si è visto già varie volte (in Lungo l’Affrico e ne La sera fiesolana) quali suggestioni la pioggia estiva lasciasse in D’Annunzio, che in essa riconosceva una rivelatrice della vita segreta, palpitante, misteriosa di una natura in perpetua «attesa»: e in tutto Alcyone l’acqua e il suo rapporto con la terra estiva hanno una presenza essenziale e determinante. D’altra parte alcuni motivi, situazioni, immagini di questa poesia sono in parte già contenuti nel Taccuino XIII in un appunto precedente allo stesso soggiorno pisano, relativo a una visita alla pineta di Astura (nel comune di Nettuno, presso Roma), del 1897. Citiamo solo un passo essenziale per lo sviluppo dei vv. 10-17 e 33-39 della poesia: «La pineta è selvaggia, tutta chiusa da cespugli fitti, da mirti, da tamerici. Qua e là le ginestre fiorite risplendono con i loro gialli fiori. La pioggia discende su la verdura con un crepitío che varia secondo la densità del fogliame».

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Taci. Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane; ma odo parole piú nuove che parlano gocciole e foglie lontane. Ascolta. Piove dalle nuvole sparse. Piove su le tamerici salmastre ed arse, piove su i pini scagliosi ed irti, piove su i mirti divini, su le ginestre fulgenti di fiori accolti, su i ginepri folti di coccole aulenti, piove su i nostri vólti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l’anima schiude novella, su la favola bella che ieri t’illuse, che oggi m’illude, o Ermione. Odi? La pioggia cade su la solitaria verdura con un crepitío che dura e varia nell’aria

vv. -. i suoni che giungono alle soglie del bosco non appartengono piú al mondo umano, ma sono parte d’una piú ampia armonia naturale, in grado di esprimere un linguaggio «piú nuovo». v. . parlano: il verbo parlare viene qui forzato e reso transitivo (parlar parole). v. . tamerici: sono le piante che già Pascoli aveva scelto per intitolare la sua prima raccolta, per l’appunto le Myricae (cfr. p. ). vv. -. mirti / divini: altri arbusti mediterranei, che nella tradizione antica erano sacri a Venere e indicavano la poesia, specie quella amorosa, e l’amore stesso. v. . accolti: raccolti.

v. . coccole aulenti: frutti, o bacche del ginepro, indicati come particolarmente odorosi (aulenti). vv. -. sull’onda delle parole piú nuove i pensieri si affacciano come qualcosa di fresco e di nuovo, come qualcosa che viene dischiuso. Lo schiudere porta in sé un connotato evidentemente naturale (come lo schiudersi dei fiori), e quasi immette l’anima in una dimensione non piú umana, ma vegetale e pànica. v. . favola bella: l’illusione d’amore, l’innamoramento. v. . verdura: la vegetazione del pineto. vv. -. la sensibilità accesa del poeta presta attenzione a ogni durata e variazione del suono cre-

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secondo le fronde piú rade, men rade. Ascolta. Risponde al pianto il canto delle cicale che il pianto australe non impaura, né il ciel cinerino. E il pino ha un suono, e il mirto altro suono, e il ginepro altro ancóra, stromenti diversi sotto innumerevoli dita. E immersi noi siam nello spirto silvestre, d’arborea vita viventi; e il tuo vólto ebro è molle di pioggia come una foglia, e le tue chiome auliscono come le chiare ginestre, o creatura terrestre che hai nome Ermione. Ascolta, ascolta. L’accordo delle aeree cicale a poco a poco piú sordo si fa sotto il pianto che cresce; ma un canto vi si mesce piú roco che di laggiú sale, dall’umida ombra remota.

pitante della pioggia, durata e variazione che sono causate dalla maggiore o minore intensità della vegetazione, su cui cadono le gocce. vv. -. il pianto australe è il suono del vento australe, estivo e proveniente dal meridione: le cicale non sono spaventate né da questo suono (esso non le impaura), né dal cielo nuvoloso (cinerino = grigio, color cenere). vv. -. la natura nelle sue forme diviene sinfonia, in cui tutte le piante sono strumenti, suonati dalle innumerevoli dita della pioggia. vv. -. il poeta e la donna sono come assimilati allo spirto silvestre, allo spirito del bosco, sino a vivere la stessa vita degli alberi (la coppia si trasfor-

ma mitologicamente in sostanza addirittura arborea, quasi seguendo il modello delle mitiche metamorfosi dall’umano al vegetale). v. . auliscono: profumano (aulire è voce arcaizzante). Da notare, anche qui, la similitudine fra le chiome e le ginestre, sempre nella logica della metamorfosi. v. . una volta compiuta la metamorfosi, la figura femminile non potrà assumere se non i tratti d’una creatura non umana. vv. -. il raddoppiamento di ascolta dà l’avvío a un crescendo della sinfonia della natura, che la poesia tende a riprodurre in forme sottilmente iterative, sino all’acme rappresentato dal canto della

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Piú sordo e piú fioco s’allenta, si spegne. Sola una nota ancor trema, si spegne, risorge, trema, si spegne. Non s’ode voce del mare. Or s’ode su tutta la fronda crosciare l’argentea pioggia che monda, il croscio che varia secondo la fronda piú folta, men folta. Ascolta. La figlia dell’aria è muta; ma la figlia del limo lontana, la rana, canta nell’ombra piú fonda, chi sa dove, chi sa dove! E piove su le tue ciglia, Ermione. Piove su le tue ciglia nere sí che par tu pianga ma di piacere; non bianca ma quasi fatta virente, par da scorza tu esca. E tutta la vita è in noi fresca aulente, il cuor nel petto è come pèsca intatta, tra le pàlpebre gli occhi son come polle tra l’erbe, i denti negli alvèoli son come mandorle acerbe.

rana, nei vv. -. Mentre la strofa precedente ha insistito sul mondo vegetale, in grado di animarsi sotto le innumerevoli dita della pioggia, ora si insiste sulla sonorità del mondo animale, con una vera e propria gara canora tra la cicala e la rana. Le cicale erano già presenti nella strofa precedente (v. ): ma ora la rana (il cui nome sarà fatto esplicitamente solo al v. ) mischia al loro il suo canto piú roco. I vv. - insistono su di un sottile sovrapporsi e sospendersi di note (amplificato dal richiamo al silenzio del mare, v. ): poi è la cicala (chiamata figlia dell’aria) a tacere, lasciando il canto alla sola rana (qualificata come figlia del limo, del fango, vv. -). v. . crosciare: forma piú ricercata, per «scrosciare» (piú avanti, al v. , si avrà croscio per «scroscio»).

vv. -. situazione identica e speculare a quella presentata, a proposito delle fronde, nei vv. -, con l’inversione da «piú rade, men rade» a «piú folta, men folta». Ripetizioni e inversioni sono del resto costanti in tutto il componimento (cfr. anche v.  e v. ). Da notare altresí il riverberarsi sonoro di folta in ascolta, al verso successivo; questo insistere sul procedimento iterativo produce un effetto di forte suggestione sonora, che da un lato imita quasi il cadere della pioggia, dall’altro offre una serie di contrappunti musicali. vv. -. l’ultima strofa inizia ripetendo in modo quasi identico il finale della strofa precedente (al modo che nelle canzoni antiche le parole dell’ultimo verso d’una strofa tornavano nel primo della strofa successiva). Al suo centro è la figura femmi-

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E andiam di fratta in fratta, or congiunti or disciolti (e il verde vigor rude ci allaccia i mallèoli c’intrica i ginocchi) chi sa dove, chi sa dove! E piove su i nostri vólti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l’anima schiude novella, su la favola bella, che ieri m’illuse, che oggi t’illude, o Ermione.

nile, presentata al punto finale di una metamorfosi vegetale tutta svolta nel segno della freschezza (v. ): Ermione è fatta virente (verdeggiante), il suo colorito ha perso ogni connotato umano distinto dalla totalità naturale; essa, addirittura, sembra uscire da una corteccia d’albero. Ma questa metamorfosi si impadronisce anche dell’io del poeta e i due amanti si muovono insieme entro la natura vegetale: il loro cuore è una pèsca non ancora toccata, gli occhi che si scoprono tra le palpebre vengono equiparati a sorgenti che sorgono dal basso, polle tra l’erbe, i loro denti sono mandorle acerbe

(per giungere poi ai volti / silvani, vv. -). vv. -. Ora la coppia si muove verso un dove indeterminato, un «non-luogo» dell’effusione sensuale e pànica (con la ripetizione di chi sa dove al v. , che ripete il v. , che era riferito al luogo imprecisato del canto della rana). Il congiungersi e disciogliersi degli amanti si identifica con l’azione del vigor rude della vegetazione che si allaccia e si intrica alle gambe dei due. Notevole la precisione terminologica, sino al riferimento a particolari anatomici, come i mallèoli (forma assai raramente usata nella tradizione poetica).

Stabat nuda Aestas (da Alcyone)

Tentativo di afferrare la sfuggente figura dell’estate

Figura mitologica

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critta probabilmente nel 1902, costituita da tre lasse di otto endecasillabi sciolti ciascuna, questa poesia vuol essere come un tentativo di afferrare l’immagine di una sfuggente figura femminile che rappresenta l’estate: sotto forma di una narrazione al passato remoto, il poeta ricorda l’improvviso apparire e svelarsi di questa figura. In un primo momento (prima lassa) egli ha intravisto il suo piede fuggente tra la vegetazione di una pineta; poi (seconda lassa) l’ha raggiunta in un bosco di ulivi, chiamandola per nome; infine (terza lassa), l’ha vista voltarsi per un attimo e dirigersi verso il lido, dove, messo un piede in fallo, è caduta a terra, «tra le sabbie e l’acque», svelando la sua immensa nudità. La figura si presenta sotto vesti mitologiche: è una dea che, come quelle dell’antichità, può manifestarsi solo all’improvviso: presenza solare e umida, inquietante nella sua femminilità fascinosa ma distante dall’umano (magicamente intrecciata con una vegetazione piena di vibrante energia). Nel tracciare questa figura, D’Annunzio si ricollega alla suggestione che in tanta let-

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teratura «decadente» assumevano le immagini delle divinità femminili classiche, gli aspetti corporei e fisici di tante antiche personificazioni simboliche (e i critici hanno potuto fare riferimento a vari precedenti, tra l’altro in Nerval e in Rimbaud). Nella definizione dell’immagine i modelli classici sono direttamente determinanti: e lo stesso titolo è ricavato da Ovidio, Metamorfosi, II, 28, «Stabat nuda Aestas et spicea serta gerebat» (“L’Estate stava nuda e portava ghirlande di spighe”: il poeta latino presenta cosí la figura dell’Estate, immobile presso il trono di Apollo). Ma la preziosità dell’immagine (sostenuta dall’accurata scelta del lessico) e l’intenzione di caricarla di valori mitici e simbolici sembrano sfumare nel gioco di un inseguimento libertino, in un dilettevole erotismo da vacanza marina (che ha il suo apice nell’improvvisa caduta della donna che, una volta giunta sulla riva, torce il piede in fallo).



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Primamente intravidi il suo piè stretto scorrere su per gli aghi arsi dei pini ove estuava l’aere con grande tremito, quasi bianca vampa effusa. Le cicale si tacquero. Piú rochi si fecero i ruscelli. Copiosa la résina gemette giú pe’ fusti. Riconobbi il colúbro dal sentore. Nel bosco degli ulivi la raggiunsi. Scorsi l’ombre cerulee dei rami su la schiena falcata, e i capei fulvi nell’argento pallàdio trasvolare senza suono. Piú lungi, nella stoppia, l’allodola balzò dal solco raso, la chiamò, la chiamò per nome in cielo. Allora anch’io per nome la chiamai. Tra i leandri la vidi che si volse. Come in bronzea mèsse nel falasco entrò, che richiudeasi strepitoso.

vv. -. in un primo momento vidi il suo piede stretto (l’aggettivo ne indica l’agilità e l’eleganza) scorrere sul terreno della pineta, coperto dagli aghi riarsi dei pini, dove l’aria estuava (ardeva, ribolliva: latinismo, dalla stessa radice di aestas), con un grande / tremito (si noti l’enjambement), simile a una bianca vampa, a un’ondata di calore effusa tutto intorno. v. . Copiosa: occorre leggere copïosa, una dieresi che scompone il dittongo -io e inserisce un effetto di musica rallentata (rafforzato dall’enjambement) nell’immagine sensuale dello stillare della resina abbondante (che sembra gemere, come in un lamento) lungo i fusti degli alberi. v. . colúbro: il serpente («colúbro», latinismo usato anche da Carducci), che la sensibilità sovreccitata del poeta è in grado di riconoscere addirittura dall’odore. v. . cerulee: azzurrine.

v. . schiena falcata: curva, quasi in forma di falce. v. . argento pallàdio: argento della dèa Pàllade (dèa delle arti e delle scienze), con cui si indica il fogliame dell’olivo, pianta per l’appunto sacra alla dea. v. . solco raso: il solco rasato, mietuto (del campo di grano). vv. -. C’è una fulminea corrispondenza tra il verso dell’allodola che, volando verso il cielo, sembra chiamare per nome l’Estate, e il poeta che la chiama a sua volta. v. . leandri: oleandri (l’elisione della prima vocale, o afèresi, rende il termine piú ricercato). vv. -. entrò nel falasco (la folta e alta erba palustre: vocabolo letterario utilizzato anche da Pascoli), come se entrasse in mezzo alla messe matura (dal colore del bronzo) del grano: all’entrare della donna, quel falasco si richiudeva strepitoso, cioè facendo un vero e proprio rumore.

Dilettevole erotismo

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LA NUOVA ITALIA

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Piú lungi, verso il lido, tra la paglia marina il piede le si torse in fallo. Distesa cadde tra le sabbie e l’acque. Il ponente schiumò ne’ suoi capegli. Immensa apparve, immensa nudità.

vv. -. paglia / marina: si tratta delle alghe seccate dal sole sulla spiaggia (notare ancora l’enjambement). v. . Il sole all’occidente lasciò come dei riflessi nella schiuma marina che bagnò i suoi capelli (il verbo schiumare indica gli effetti del moto con cui

la spuma si avvolge entro i capelli della donna). v. . Immensa: è possibile risalire a una suggestione del Carducci delle Rime nuove (Davanti a una cattedrale): «ignea ne l’aria immota / l’estate immensa sta» (Praz).

Sogni di terre lontane. I pastori (da Alcyone)

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Partenza verso altri universi

Distanza fra il poeta e il percorso mitico dei pastori Il tema dell’acqua

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uesto è il primo dei cinque componimenti dedicati al mese di settembre che costituiscono la sezione finale di Alcyone, intitolata Sogni di terre lontane (alla quale seguono solo due altri componimenti, Il novilunio e Il commiato): tutti e cinque i componimenti si collegano a impressioni dell’autunno del 1903 e furono certamente compiuti entro il mese di ottobre. Al venir meno dell’estate, esaltata in tutto il libro di Alcyone, si lega qui il richiamo di mondi lontani, che sono «altrove», e la suggestione della partenza, del movimento verso altri universi: la migrazione dei pastori abruzzesi (sui cui aspetti suggestivi D’Annunzio aveva piú volte insistito in scritti precedenti), che con il cambio di stagione lasciano i pascoli della montagna e scendono a valle, verso il mare, offre l’immagine di un mondo naturale che nel proprio spostarsi riflette il movimento ciclico della natura, si identifica con il corpo stesso della natura, con i suoi mutevoli paesaggi, ripete nei propri atti usi e tradizioni millenarie. Nel movimento dei pastori e delle loro greggi dalla montagna al mare si dà come una diretta, immediata, primitiva partecipazione alla fisicità della natura, alla sua umida freschezza (che si sente per esempio nel persistere entro i loro corpi dell’acqua fresca bevuta in montagna). Si succedono 4 strofe di 5 versi endecasillabi, seguite da un endecasillabo conclusivo (una coda); le strofe (e anche la coda) sono incatenate fra loro, ossia vi è rima fra l’ultimo verso d’una strofa e il primo della strofa successiva; all’interno di ogni strofa ci sono poi sempre due versi che rimano tra loro (nella prima il primo e il secondo, in tutte le altre il secondo e il quarto). Ogni strofa presenta una tappa diversa nell’avvicinamento dei pastori verso il mare, in un succedersi di situazioni che appaiono sempre tutte presenti, quasi simultanee l’una con l’altra: ma il loro insieme mira a dare un senso di nostalgia e di distanza, come di fronte a un percorso mitico che la voce del poeta moderno può contemplare solo da lontano, senza veramente parteciparvi (tutto ciò è sottolineato dall’interrogazione dell’ultimo verso, dal suo carattere vibrante e appassionato). Si noti poi che in tutte le strofe è in evidenza la suggestione dell’elemento acquatico: nella prima il movimento verso il mare (con la similitudine tra il verde del mare e quello dei pascoli montani); nella seconda il richiamo all’acqua natía che i pastori hanno bevuto ai fonti / alpestri; nella terza l’identificazione tra la strada del gregge (il tratturo) e un fiume che scorre, seguita dal rivelarsi del tremolar della marina; nella quarta l’immagine del gregge che avanza sulla riva del mare, accompagnato dai rumori dell’acqua.

T. GABRIELE D’ANNUNZIO. LE LAUDI

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Settembre, andiamo. È tempo di migrare. Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare: scendono all’Adriatico selvaggio che verde è come i pascoli dei monti.

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Han bevuto profondamente ai fonti alpestri, che sapor d’acqua natía rimanga ne’ cuori esuli a conforto, che lungo illuda la lor sete in via. Rinnovato hanno verga d’avellano.

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E vanno pel tratturo antico al piano, quasi per un erbal fiume silente, su le vestigia degli antichi padri. O voce di colui che primamente conosce il tremolar della marina!

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Ora lungh’esso il litoral cammina la greggia. Senza mutamento è l’aria. Il sole imbionda sí la viva lana che quasi dalla sabbia non divaria. Isciacquío, calpestío, dolci romori. Ah perché non son io co’ miei pastori?

v. . stazzi: i recinti (o addiacci) sui monti. vv. -. che … in via: affinché il sapore dell’acqua del luogo dove sono nati resti a conforto nei loro cuori in esilio (che sverneranno lontano dai monti), in modo da placare la loro sete (la nostalgia) lungo la strada. v. . avellano: «nocciuolo»; prima di partire i pastori si sono procurati una nuova verga di nocciuolo per governare il gregge. v. . tratturo: la via naturale formata dal passaggio dei greggi che per il pascolo scendono dall’Abruzzo verso il Tavoliere delle Puglie. Nel Trionfo della Morte, IV, VI, D’Annunzio aveva parlato in questi termini di un tratturo abruzzese: «quell’ampia via d’erbe e di pietre, deserta, ineguale, come stampata d’orme gigantesche, tacita, la cui origine si perdeva nel mistero delle montagne lontane e

sacre. Un sentimento di santità primitiva eravi ancor diffuso, quasi che di recente l’erbe e le pietre fossero state premute da una lunga migrazione di greggi patriarcali cercanti l’orizzonte marino». v. . erbal fiume silente: un fiume d’erba silenzioso. v. . sulle orme dei loro antenati. v. . primamente: per primo, prima di ogni altro. v. . citazione dantesca (Purgatorio, I, : «Conobbi il tremolar della marina»). v. . lungh’esso: «lungo» (proposizione di tipo arcaico). v. . L’aria è ferma e senza vento. Anche questa è una reminiscenza dantesca (Purgatorio, XXVIII, ): «un’aura dolce, senza mutamento». v. . viva: perché non ancora tagliata. v. . non divaria: voce antica e letteraria: non differisce, non si distingue.

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Il teatro LA FIGLIA DI IORIO DATI

tav. 215

La tragedia fu scritta nell’estate del , durante un soggiorno con Eleonora Duse nella villa Borghese di Nettuno (presso Roma); fu questa l’ultima volta in cui la grande attrice svolse il ruolo di ispiratrice: l’intenzione era quella di affidarle la parte di protagonista femminile nelle prime rappresentazioni, ma infine dovette rinunciare. L’opera andò in scena il  marzo  al Teatro Lirico di Milano, con la compagnia di Virgilio Talli, protagonisti Irma Gramatica e Ruggero Ruggeri: fu un grande successo di pubblico, e i critici vi videro il coronamento dell’idea di D’Annunzio di rifondazione del teatro classico (Valentini), l’affermazione di un vero «teatro di poesia», capace di ritrovare antiche radici popolari e nazionali e di riassumere in sé il meglio della tradizione poetica italiana. La tragedia viene da D’Annunzio stesso definita come un «canto dell’antico sangue» e la sua vicenda viene collocata «Nella terra d’Abruzzi, or è molt’anni»: in un passato indefinito, entro un mondo popolare arcaico e selvaggio, vi si danno atti di violenza, di superstizione, di fascinazione, con quella visione del tutto estetizzante del folclore popolare che D’Annunzio aveva già mostrato nelle sue novelle ambientate in Abruzzo e in una descrizione di riti contadini data nel romanzo Trionfo della Morte. L’opera si svolge in tre atti, in cui si snoda un linguaggio poetico esuberante, pieno di cadenze popolari, di vocaboli rari e preziosi, di richiami a usi, costumi, oggetti della piú arcaica civiltà contadina (la lingua non tende però verso il dialetto, bensí verso un gioco di echi letterari, che parte dalla riproduzione di certe forme di toscano «primitivo», soprattutto trecentesco). I discorsi dei personaggi si svolgono con grande varietà di metri, con vari echi e rispondenze interne: per ogni tipo di discorso e di dialogo l’autore sembra voler adattare il verso in cui ritrova le cadenze che gli sembrano piú appropriate. Molto curate le didascalie, con cui si vuole rendere la fascinazione di un ambiente pittoresco, ricco di colori, pieno di oggetti primitivi e desueti. Il primo atto si svolge in «una stanza di terreno in una casa rustica», quella del contadino Lazaro di Ri, dove si sta per svolgere il rito nuziale tra il pastore Aligi, figlio di Lazaro, e la giovane Vienda, alla presenza delle sorelle e della madre di Aligi, Candia della Leonessa: la santità e la festosità del rito viene però turbata da presagi superstiziosi (il senso del malefizio, l’effetto di allucinazione, la superstiziosa paura di gesti irreparabili dominano su tutta la tragedia). Il rito viene interrotto dall’arrivo della figlia di Iorio, Mila di Codra, che ha fama di strega e donna sensuale: chiede asilo, inseguita da mietitori che vogliono sottoporla a un vero e proprio stupro collettivo; dopo varie incertezze, Aligi decide di proteggerla, spinto dalla visione di un «Angelo muto» alle spalle della donna; ma l’atto si conclude con l’arrivo di Lazaro di Roio, rimasto ferito proprio in una lite originata dal violento desiderio per la stessa Mila. Il secondo atto si svolge in montagna, nella caverna in cui Aligi vive la sua vita di pastore: egli è intento a scolpire nel legno quell’angelo che ha «visto» alle spalle di Mila, che ora vive con lui nella caverna (ma senza avere rapporti con lui); giunge una sorella di Aligi, Ornella, che chiede a Mila di abbandonare Aligi e farlo tornare alla sua famiglia; ma mentre Mila si appresta alla partenza giunge il padre di Aligi, Lazaro, che, accecato dal desiderio, cerca di fare violenza a Mila ma finisce ucciso dal figlio. Il terzo atto si svolge nell’aia davanti alla casa di Lazaro, il cui cadavere è steso al suolo: al rito funebre si accompagna la preparazione del supplizio per Aligi; ma giunge Mila che, per salvare la vita di Aligi, si accusa di stregoneria e convince tutti i presenti e lo stesso Aligi che tutta la vicenda è stata frutto del proprio inganno malefico, offrendosi al supplizio del rogo (la tragedia si conclude con questo suo verso: «La fiamma è bella. La fiamma è bella»).

Tutta di verde mi voglio vestire (da La figlia di Jorio, I, I)

Originaria purezza di vita

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resentiamo qui la prima scena della tragedia, in cui D’Annunzio vuol dare l’immagine di una primitiva freschezza, di una originaria purezza di vita che si esprime in un linguaggio pieno di cadenze popolari, pieno di riferimenti a oggetti particolari, a usi, a situazioni, a nomi arcaici (dove al riferimento al mondo contadino abruzzese si sovrappone il gusto del

T. GABRIELE D’ANNUNZIO. IL TEATRO



disegno pittoresco, della favola ingenua, della fresca parlatura, della musica piú elementare). La scena presenta le tre sorelle di Aligi che scelgono le vesti per la sposa, scherzando sul ritardo degli sposi, che ancora non sono pronti, e cantilenando arcaiche canzoni: esse intrecciano una specie di dialogo magico, che si svolge dentro un mondo circoscritto e minuto che si presenta con caratteri «freschi» e ingenuamente sensuali, ma ha nello stesso tempo qualcosa di severo e inaccessibile. Già qui si può osservare la grande varietà dei metri usati nella tragedia (anche con qualche verso irregolare e con rapidi passaggi da un tipo di verso all’altro). E si può notare, tra l’altro, il ritmo fortemente ripetitivo (che vuole rendere la cadenza di una festosità popolare) e la scelta delle parole rare e preziose, che acquistano un valore del tutto particolare per il fatto che sono destinate a essere «dette» sulla scena, creando un singolare concerto nello scambio di voci tra le tre sorelle (che vuol essere come una gara di canto). [EDIZIONE: Gabriele D’Anunzio, Tragedie, sogni e misteri, Mondadori, Milano 1939]

ATTO PRIMO SCENA PRIMA

Splendore, Favetta e Ornella, le tre sorelle, saranno in ginocchio davanti alle tre arche del corredo nuziale, chine a scegliere le vestimenta per la sposa. La loro fresca parlatura sarà quasi gara di canzoni a mattutino. SPLENDORE:

Che vuoi tu, Vienda nostra?

FAVETTA:



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Che vuoi tu, cognata cara? SPLENDORE: Vuoi la veste tua di lana? o vuoi tu quella di seta a fioretti rossi e gialli? ORNELLA: (cantando) Tutta di verde mi voglio vestire, tutta di verde per Santo Giovanni, ché in mezzo al verde mi venne a fedire… Oilí, oilí, oilà! SPLENDORE: Ecco il busto dei belli ricami con la sua pettorina d’argento,

v. . Vienda nostra: la promessa sposa di Aligi, il cui matrimonio non avrà poi luogo, per l’intervento di Mila di Codra. Nella didascalia che apre la scena, si noti tra l’altro la presenza di una parola antica e letteraria come arche, bauli, e l’insistenza sulla fresca parlatura. v. . Santo Giovanni: il giorno, la festa di San Giovanni Battista, che coincide quasi con il solstizio d’estate (è infatti il  giugno), e si pone in un orizzonte mitico, piú che religioso, come festa della

mietitura e della solarità (e vedi, piú oltre, la metafora del capo mozzo come sole dell’aurora). v. . fedire: ferire, colpire (riferito alla ferita d’amore: nella sua canzone, che riprende lo schema di qualche antica canzone popolare, Ornella assume il punto di vista della sposa). v. . pettorina: pezzo di stoffa ricamato, spesso di vari colori, che veniva indossato dalle donne sotto il busto, e di cui alcuni lembi erano visibili dalle allacciature o dalla scollatura.

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LA NUOVA ITALIA

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la gonnella di dodici téli, la collana di cento coralli che ti diede la madre tua nova. ORNELLA: (cantando) Tutta di verde la camera e i panni. Oilí, oilí, oilà! FAVETTA: Che vuoi tu, Vienda nostra? SPLENDORE: Che vuoi tu, cognata cara? ORNELLA: I pendenti e la collana e il nastrino chermisí. Ora suona la campana, la campana di mezzodí. SPLENDORE: Ora viene il parentado a portarti le canestre, le canestre di grano trimestre; e tu, ecco, non sei pronta! ORNELLA: Tonta e pitonta, la pecora pel monte il lupo per la piana va cercando l’avellana, l’avellana pistacchina: questa sposa è mattutina, mattutina come la talpa che si leva all’alba all’alba, come il ghiro e il tasso cane. Senti senti la campana! (Ella dirà la cantilena rapidamente; poi romperà in un gran riso; e le altre rideranno con lei.) LE TRE SORELLE: Oh Aligi, Aligi, e tu? SPLENDORE: Di velluto ti vestirai? FAVETTA: Vuoi dormir settecent’anni con la bella sonnacchiosa?

v. . la madre tua nova: la futura suocera di Vienda, madre delle tre sorelle. v. . chermisí: cremisi (rosso acceso). v. . canestri intessuti di spighe di un grano che ha un ciclo vegetativo di tre mesi. v. . pitonta: grulla, goffa (voce regionale abruzzese); l’iterazione tonta e pitonta riprende qualche filastrocca popolare, con un effetto di favola e di incantesimo infantile, per alludere alla lentezza della sposa, ancora non pronta. v. . avellana: nocciola (l’avellana pistacchina ne è

una varietà). L’immagine del lupo in cerca di nocciole è ovviamente giocosa (il lupo non cerca certo la nocciola ma la pecora, che per lui è dolce e fresca come una nocciola). vv. -. talpa … tasso cane: la talpa, il ghiro, il tasso (popolarmente detto tasso cane) sono animali «notturni», che cadono in letargo o vivono sotto terra: nuova allusione ironica alla lentezza della sposa, che ancora non è pronta. vv. -. Questo motivo del sonno di Aligi (a cui si accompagna quello della futura sposa, giocosa-

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SPLENDORE:

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Il tuo padre è a mietitura, fratel caro; e la stella diana s’è mirata nella falce, nella falce che non riposa. FAVETTA: E la tua madre ha messo la sapa nel vino, e l’ànace nell’acqua, e il garofalo nella carne, e nel cacio il timo trito. SPLENDORE: E una pecora abbiamo uccisa, una pecora grassa d’un anno che avea capo pezzato di nero, per la moglie e pel marito. FAVETTA: E la scapola mancina per Ustorgio l’abbiamo serbata, per il vecchio della Fara che ci fa la profezia. ORNELLA: E domani è San Giovanni, fratel caro; è San Giovanni. Su la Plaia me ne vo’ gire, per vedere il capo mozzo dentro il sole, nell’apparire, per veder nel piatto d’oro tutto il sangue ribollire.

mente chiamata sonnacchiosa, forse con allusione alla fiaba della bella addormentata) è qui presentato in una chiave festosa e scherzosa: ma poi, nel corso della tragedia, sarà ripreso come motivo drammatico, dato che Aligi stesso dichiarerà di aver dormito settecent’anni, di sentirsi catturato da una mitica maledizione, che lo rende come immerso nel sonno, assente da se stesso. v. . Il tuo padre: Lazaro di Roio. vv. -. stella diana … riposa: il pianeta Venere (che si presenta nel primo mattino appunto come stella, diana perché porta il dí) si è specchiato nella falce, cioè nella falce della luna calante, che è ancora nel cielo al mattino: ma la falce della luna si identifica anche con la falce dei mietitori, con il loro lavoro infaticabile (alludendo cosí al fatto che Lazaro ha intrapreso il suo lavoro di buon mattino). vv. -. Si accenna a vari aromi usati per il cibo nuziale: la sapa è il mosto ristretto (usato anche come mostarda); ànace è forma ricercata per anice, come garofalo per garofano (per chiodi di garofano); il timo trito (cioè tritato) veniva usato per insaporire il formaggio.

vv. -. la scapola sinistra della pecora (per qualche oscura simbologia tribale) è stata conservata per un vecchio indovino e profeta, indicato con il suo nome Ustorgio e poi come vecchio della Fara (Fara è termine usato in area abruzzese per molti nomi di località: per esempio Fara San Martino nei pressi di Pescara). v. . Voglio andarmene sulla spiaggia (la Plaia è generico nome di località marina, modellato sullo spagnolo playa, spiaggia). vv. -. Nello spettacolo del sorgere del sole sul mare, in occasione della festa di San Giovanni Battista, la mente primitiva e superstiziosa scorge l’immagine del capo mozzo del santo, la cui testa fu fatta tagliare da Erode su invito di Salomè (istigata dalla madre Erodiade) e offerta a essa su di un piatto d’oro: il capo mozzo viene scorto dentro il sole, e nel rosso fulgore del suo sorgere dal mare si riconosce sia l’oro del piatto che il ribollire del sangue della testa del santo. La vicenda di san Giovanni e del suo martirio, insieme al fascino delle figure di Salomè e di Erodiade, aveva avuto una grande fortuna presso scrittori e artisti del decadentismo.

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LA NUOVA ITALIA

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FAVETTA: Su, Vienda! Su, capo d’oro! Guardatura di vinca pervinca! Or si falcia alla campagna quella spiga che ti somiglia. SPLENDORE: La madre ci disse: Andate. Tre olive avevo con meco. Or m’ho anche una susina. Ho tre figlie ed una figlia. ORNELLA: Su, Vienda, chiara susina! Che t’indugi? Scrivi al sole una lettera turchina perché oggi non si colchi? (Riderà, e le sue sorelle con lei rideranno.)

v. . notare il nesso tra il capo d’oro di Vienda, il capo pezzato di nero (v. ) della pecora uccisa e il capo mozzo (v. ) di san Giovanni: il tutto si riferisce alla visione arcaica e popolaresca del rito matrimoniale come sacrifizio. v. . la guardatura (modo di guardare, espressione degli occhi) della sposa viene identificata con il fiore della pervinca, indicato con un termine raddoppiato (vinca pervinca), che mette in evidenza il suo colore azzurro-violaceo.

vv. -. in questo parlare popolaresco reinventato, le figlie vengono definite olive, la nuora susina (il riferimento è forse al colore degli occhi, scuro quello delle figlie, pervinca quello della futura nuora). vv. -. in quest’ultima domanda, Ornella chiede alla sposa se il suo indugio non sia dovuto al fatto che essa sta scrivendo una lettera turchina (del colore dei suoi occhi) al sole, invitandolo a non tramontare (perché non si colchi, non si corichi), in modo che questa giornata non finisca mai.

T. GABRIELE D’ANNUNZIO. NOTTURNO

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Notturno Prima offerta

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i riportano qui quattro frammenti del Notturno: i tre iniziali (ma del terzo solo la prima parte) e un altro tra quelli dedicati al ricordo dell’amico e compagno di volo Giuseppe Miraglia, pilota tenente di vascello, che con D’Annunzio aveva volato su Trieste, Grado e Trento, lanciando messaggi stampati su manifestini per la popolazione, e che era morto in un incidente mentre provava l’aereo per un ulteriore volo su Zara, il 21 dicembre 1915. I tre frammenti iniziali presentano la singolare situazione in cui prende avvio e si svolge la nuova avventura letteraria dell’autore bendato che, immerso nel buio, sente comunque un nuovo «bisogno di esprimere, di significare»: nell’uso delle liste di carta preparate per lui dalla Sirenetta (la figlia Renata che lo assiste) egli intravvede un nuovo inizio, la nascita di un nuovo tipo di espressione che sembra venire dal «buio», dal profondo. In questa situazione lo scrittore si sente simile a un antico scriba egiziano, o meglio a quanto nel mondo contemporaneo può restare di un antico scriba egiziano, fissato in una immobile statua (come indica il primo frammento) o imbalsamato come mummia in una sua cassa dipinta (come indica il terzo frammento). La nuova scrittura dal buio sembra cosí risalire quasi all’origine della scrittura, a un tipo di comunicazione misteriosa e profetica (come mostra anche il richiamo alle sentenze delle Sibille scritte sulle foglie). È subito evidente, fin dalla battuta iniziale, la novità di un linguaggio che sembra voler seguire le tracce del mondo e della realtà con un procedere lento e spezzato, adattandosi al movimento del cieco che cerca di misurare lo spazio circostante: domina la paratassi, con frasi brevi e spezzate, che solo a tratti danno luogo a qualche frase piú ampia ed elaborata. In questo modo la scrittura finge di adattarsi direttamente alla frammentarietà e alla ridotta misura dei cartigli su cui si muove la mano dell’autore bendato: e si apre verso l’osservazione dei movimenti piú sottili e impercettibili, evoca immagini visive, colori e luci di altri momenti di vita ben diversa, minutissimi movimenti e sensazioni, visioni di terrore e di morte. Come hanno dimostrato peraltro gli studi filologici di Carla Riccardi, in realtà solo una minore parte del testo venne effettivamente elaborata durante la momentanea cecità del poeta; in parte è a essa precedente, e per una parte piú corposa è a essa ben successiva. Emerge comunque, con queste particolarissime soluzioni stilistiche, qualche cosa di segreto, di impercettibile: i segni di una realtà che non è piú terreno di conquista dionisiaca, ma è come sommessamente ripiegata su se stessa, avvolta nella propria oscurità, con sottili analogie tra i diversi domini sensoriali (cosí il fruscío della carta evoca quello della risacca marina e il bruciare della ferita evoca il fiammeggiare dell’estate sulla Bocca d’Arno). L’immersione nel buio suscita il richiamo alla morte e alla condizione di chi è morto: immagini di morte ed evocazioni di situazioni di guerra si succedono in tutto il Notturno. E alla minaccia della morte si collega l’ossessione dello sdoppiamento: si noti nel terzo frammento la distinzione tra l’interno e l’esterno della cassa in cui è racchiuso l’autore-scriba, tra il suo capo fasciato nel buio e la sua imagine di prima dipinta sul coperchio della cassa; e si veda come nell’ultimo dei frammenti qui riportati la rievocazione del compagno di battaglia defunto si risolva in uno sdoppiamento dell’autore stesso, addirittura in una sua identificazione con il morto («Sono talvolta il cadavere e colui che lo contempla»). [EDIZIONE: Gabriele D’Annunzio, Notturno, a cura di G. Turchetta, Mondadori, Milano 1995]

Una nuova scrittura dal «buio»

Una comunicazione profetica Novità del linguaggio

Buio, morte, guerra, sdoppiamento

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LA NUOVA ITALIA

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Aegri somnia 

Ho gli occhi bendati. Sto supino nel letto, col torso immobile, col capo riverso, un poco piú basso dei piedi. Sollevo leggermente le ginocchia per dare inclinazione alla tavoletta che v’è posata. Scrivo sopra una stretta lista di carta che contiene una riga. Ho tra le dita un lapis scorrevole. Il pollice e il medio della mano destra, poggiati su gli orli della lista, la fanno scorrere via via che la parola è scritta. Sento con l’ultima falange del mignolo destro l’orlo di sotto e me ne servo come d’una guida per conservare la dirittura. I gomiti sono fermi contro i miei fianchi. Cerco di dare al movimento delle mani una estrema leggerezza in modo che il loro giuoco non oltrepassi l’articolazione del polso, che nessun tremito si trasmetta al capo fasciato. Sento in tutta la mia attitudine la rigidità di uno scriba egizio scolpito nel basalto. La stanza è muta d’ogni luce. Scrivo nell’oscurità. Traccio i miei segni nella notte che è solida contro l’una e l’altra coscia come un’asse inchiodata. Imparo un’arte nuova. Quando la dura sentenza del medico mi rovesciò nel buio, m’assegnò nel buio lo stretto spazio che il mio corpo occuperà nel sepolcro, quando il vento dell’azione si freddò sul mio volto quasi cancellandolo e i fantasmi della battaglia furono d’un tratto esclusi dalla soglia nera, quando il silenzio fu fatto in me e intorno a me, quando ebbi abbandonata la mia carne e ritrovato il mio spirito, dalla prima ansia confusa risorse il bisogno di esprimere, di significare. E quasi súbito mi misi a cercare un modo ingegnoso di eludere il rigore della cura e d’ingannare il medico severo senza trasgredire i suoi comandamenti. M’era vietato il discorrere e in ispecie il discorrere scolpito; né m’era possibile vincere l’antica ripugnanza alla dettatura e il pudore segreto dell’arte che non vuole intermediarii o testimonii fra la materia e colui che la tratta. L’esperienza non è nella prima riga, ma nella seconda e nelle seguenti. Allora mi venne nella memoria la maniera delle Sibille che scrivevano la sentenza breve su le foglie disperse al vento del fato. Sorrisi d’un sorriso che nessuno vide nell’ombra quando udii il suono della carta che la Sirenetta tagliava in liste per me, stesa sul tappeto della stanza attigua, al lume d’una lampada bassa. Ella deve avere il mento rischiarato come dal riverbero della sabbia cocente quando eravamo distesi l’uno accanto all’altra su la spiaggia pisana, nel tempo lieto.

. Aegri somnia: sogni del malato (in latino). . lapis: matita. . dirittura: la linea retta (difficile da tenere, data la cecità temporanea del poeta). . scriba … basalto: l’immagine dello scriba percorrerà l’intero brano: qui sotto la forma di una statua di basalto (pietra scura, usato spesso nella scultura egiziana), piú avanti con quella della mummia, bendata e rinchiusa in una «cassa di legno dipinto». . La stanza … luce: buia; muta d’ogni luce è una sinestesia (che associa sensi diversi) direttamente ripresa da Dante, Inferno, V,  «Io venni in loco d’ogne luce muto». . nella notte … inchiodata: il buio notturno acquista la materialità di un’asse inchiodata (sulle cosce dell’infermo).

. discorrere scolpito: con discorrere si indica lo scrivere; discorrere scolpito, che richiama ancora l’immagine della statua dello scriba egizio, indica uno scrivere con i connotati letterari di discorso elaborato, ornato, veementemente retorico. . l’esperienza … seguenti: lo scrittore ha bisogno di controllare, di avere sempre contemporaneamente presente tutto ciò ch’egli scrive; in questo, egli ha un suo pudore segreto. . Sibille … fato: questa scrittura su brevi liste viene paragonata ai responsi scritti dalle antiche Sibille (in particolare dalla Sibilla cumana) su foglie sparse: si tratta di una citazione da Dante, Paradiso, XXXIII, -, «cosí al vento ne le foglie levi / si perdea la sentenza di Sibilla». . la Sirenetta: Renata, figlia del poeta, che lo assiste. . spiaggia pisana: riferimento alle vacanze marine

T. GABRIELE D’ANNUNZIO. NOTTURNO



La carta fa un fruscío regolare che nella mia imaginazione evoca quello della risacca a piè delle tamerici e dei ginepri riarsi dal libeccio. Sotto la benda il fondo del mio occhio ferito fiammeggia come il meriggio estivo di Bocca d’Arno. Vedo la sabbia corrugata dal vento, rigata dall’onda. Posso noverare i granelli, affondarvi la mano, riempirmene la palma, lasciarli scorrere fra le dita. La fiamma cresce, la canicola infuria. La sabbia brilla nella mia visione come mica e quarzo. Mi abbarbaglia, mi dà la vertigine e il terrore, come il deserto libico quando quella mattina cavalcavo solo verso le tombe di Sakkarah. Non ho difesa di palpebre né altro schermo. Il tremendo ardore è sotto la mia fronte, inevitabile. Il giallo s’arrossa, il piano si travaglia. Tutto diventa irto e tagliente. Poi, come una mano creatrice foggia le figure nella creta cedevole, un soffio misterioso alza dalla distesa abbagliante rilievi di forme umane e bestiali. Ora il fuoco solido è trattato come la pietra a scarpello. Ho davanti a me una parete rigida di roccia rovente scolpita d’uomini e di mostri. A quando a quando sbatte come una immensa vela, e le apparizioni si agitano. Poi tutto fugge, portato via dal turbine rosso, come un mucchio di tende nel deserto. L’orlo della retina strappata brucia accartocciandosi come il papiro dantesco; e il bruno cancella via via le parole che vi sono scritte. Leggo: «perché due volte m’hai tu deluso?». Il sudore salso mi cola fin nella bocca misto alle lacrime delle ciglia compresse. Ho sete. Domando un sorso d’acqua. L’infermiera me lo nega, perché m’è vietato di bevere. «Tu ti disseterai nel tuo sudore e nel tuo pianto». Il lenzuolo aderisce al mio corpo come quello che involge l’annegato stilante di sale, tratto alla riva e deposto sulla sabbia sinché non venga qualcuno a riconoscerlo, a chiudergli le palpebre schiumose e a ululare sul suo silenzio. presso Pisa e alla stagione di Alcyone, che si prolunga piú avanti, per trasformarsi in una visione ossessiva della solarità, in una identificazione tra il fiammeggiare dell’estate marina e l’attuale bruciare dell’occhio ferito. . Bocca d’Arno: la foce dell’Arno, in Versilia, luogo deputato della villeggiatura dannunziana, e si ricordi che una lirica, composta il giorno dopo La tenzone, ossia il  luglio , è intitolata appunto Bocca d’Arno). . Mi abbarbaglia: Mi abbaglia. . Sakkarah: D’Annunzio fu in Egitto con la Duse nel - e visitò il deserto libico, fermandosi anche a Sakkarah; alcuni dati in proposito, assai scarni, sono raccolti nel Taccuino XXVI, del , e nelle Canzoni della gesta d’oltremare, del . . Il giallo … si travaglia: nel ricordo, il sole s’infuoca (il suo giallo diventa rosso), la sua luce abbagliante accende l’aria bassa della pianura rendendola quasi mobile (essa è come in preda a un travaglio), e plasmando (come la mano di uno scultore fa con la creta) nel fuoco solido le visioni del poeta. . papiro dantesco: richiamo a Dante, Inferno,

XXV, -: «Né l’un né l’altro già parea quel ch’era, / come procede innanzi da l’ardore, / per lo papiro, suso, un color bruno / che non è nero ancora e ’l bianco more» (notare come la similitudine accosti l’occhio ferito alla materia della carta per scrivere e alle stesse parole che vi sono scritte, riprendendo direttamente il richiamo di Dante al colore bruno che assume la carta che sta bruciando). . «Perché … deluso?»: la domanda, che D’Annunzio legge nel buio, è da lui rivolta alla morte, che nelle sue imprese belliche l’ha «deluso» due volte, risparmiandolo e prendendo con sé due compagni, come Giuseppe Miraglia e Luigi Bailo: la domanda, come una sorta di motto, sarà ripetuta più volte nel corso del Notturno. . salso: salato. . «Tu … pianto»: riferimento molto libero alle parole che Dio dice ad Adamo cacciandolo dal Paradiso terrestre (Genesi, , : «In sudore vultus tui vesceris pane, donec revertaris in terram, de qua sumptus es», “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché tornerai alla terra, dalla quale sei stato tratto”).

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LA NUOVA ITALIA

-

Quando la Sirenetta s’accosta al mio capezzale col suo passo cauto e mi porta il primo fascio di liste eguali, tolgo pianamente le mie mani che da tempo riposavano lungo le mie anche. Sento che sono divenute piú sensibili, con nelle ultime falangi qualcosa d’insolito, che somiglia a un chiarore affluito. Tutto è buio. Sono in fondo a un ipogeo. Sono nella mia cassa di legno dipinto, stretta e adatta al mio corpo come una guaina. Agli altri morti i familiari hanno portato frutti e focacce. A me scriba la pietosa reca gli strumenti dell’officio mio. Se mi levassi, il mio capo non urterebbe il coperchio dov’è dipinta all’esterno la mia imagine di prima coi grandi e limpidi occhi aperti verso la bellezza e l’orrore della vita? Il mio capo resta immobile, stretto nelle sue bende. Dalle anche alla nuca una volontà d’inerzia mi rende fisso come se veramente l’imbalsamato avesse compiuta su me la sua opera. Súbito le mie mani trovano i gesti, con quell’istinto infallibile che è nelle membrane delle nottole quando sfiorano le asperità delle caverne tenebrose. Prendo una lista, la palpo, la misuro. Riconosco la qualità della carta dal lieve suono. […] I giorni d’angoscia, le notti di veglia ritornano. Il passato è presente, con tutti i suoi aspetti, con tutte le sue vicende. Risoffro il mio dolore, rimpiango il mio pianto. L’amico mio è dissepolto e poi riseppellito. Un gesto, una parola, un odore, una luce, il rombo di un’elica, il guizzo d’una baionetta, la piega d’una bandiera, il gocciolio d’un torchio, il lividore crescente d’una mano intorno alle unghie quasi bianche, la macchia indistinta sul pavimento, il rugghio della fiamma dardeggiata contro la commessura del piombo, il rimbombo della prima palata di terra sopra la cassa ripercosso dall’eternità: tutto l’orrore funebre con tutti i suoi aspetti si rispecchia nella mia lucidità implacabile. E talvolta vedo me stesso com’egli avrebbe potuto vedermi dalla sua bara. Sono talvolta il cadavere e colui che lo contempla.

. chiarore affluito: quello della scrittura, che «affluisce» sulle dita del poeta, un istante prima di cominciare a scrivere, e sembra rompere il buio in cui egli è confinato. . ipogeo: sepolcro sotterraneo. . cassa … guaina: si riprende qui la metafora dello scriba egizio, non piú scolpito nel basalto, ma ridotto a mummia e inguainato nella propria cassa (che corrisponde al letto d’ospedale su cui è steso il poeta). . Agli altri … dell’officio mio: il poeta si riferisce alle offerte di cibo ai morti, consuete presso gli egiziani: seguendo la metafora dello scriba e della tomba, nota che, mentre agli altri morti (fuor di metafora, gli altri ricoverati) sono state portate quelle tradizionali offerte, a lui, che è scriba, la visitatrice pietosa (la Sirenetta) ha portato gli strumenti della sua arte. . il coperchio … della vita: tenendo presente il fatto che le casse egiziane portavano dipinta esternamente l’immagine del defunto, lo scrittore si do-

manda se non urterebbe il coperchio di quella cassa immaginaria, che all’esterno ha dipinta la sua immagine precedente, di prima che egli entrasse in quel buio. . nottole: volatili notturni, pipistrelli. . l’amico mio: Giuseppe Miraglia, che il ricordo e il dolore dell’amico fa come uscire dalla tomba, per rivedere poi la scena della sua sepoltura. . Un gesto … dall’eternità: serie nominale, con cui il poeta rivive la sequenza della morte dell’amico nelle varie fasi, dagli ultimi gesti da lui mossi in vita, sino al seppellimento. La baionetta «guizza» in segno di estremo saluto; il torchio è un cero funebre, di cui si ricorda il gocciolare; il lividore è quello cadaverico; il rugghio (alla lettera, il lungo ruggito) è il cupo rumore della fiamma ossidrica dardeggiata (cioè puntata, diretta) «contro la commessura del piombo» (ossia contro la giuntura, la linea in cui le due metà della bara combaciano fra loro).

˜ TESTI

9.7 GIOVANNI PASCOLI Myricae Arano

e`

il primo di una serie di sedici madrigali (di cui fanno parte anche i due testi seguenti, Galline e Lavandare) il cui titolo globale, L’ultima passeggiata, allude all’abitudine della passeggiata serale nella campagna toscana alla fine dell’estate. Il primo nucleo de L’ultima passeggiata era costituito da una serie di otto madrigali senza titolo, pubblicati in un opuscolo per le nozze dell’amico Severino Ferrari con Ida Gini, nel settembre 1886, e poi in varie altre riviste. Con l’aggiunta di altri quattro madrigali e dei titoli per tutti, L’ultima passaggiata fu compresa nell’edizione 1892 di Myricae: e assunse la forma definitiva nell’edizione del 1894. La destinazione dei madrigali fa sí che le piú varie immagini campestri siano come turbate da un implicito confronto tra l’affermarsi del desiderio amoroso dell’amico (che giunge alle nozze) e la rinuncia allo stesso da parte del poeta: questi sembra come contemplare «lo spettacolo di bellezza che offre il mondo nel momento in cui il desiderio è censurato. Le cose piú semplici, le voci e i lavori del giorno, il crescere delle ombre, il fumo dei comignoli, il cadere delle foglie, il silenzio improvviso delle rondini, acquistano tanta piú limpidezza, tanto piú nitore e splendore, quanto piú una parete di castità irrevocabile divide il desiderio delle cose, senza ucciderlo, dalle cose stesse» (Garboli). La suggestione di questo primo madrigale è data in primo luogo dal titolo, con quel presente al plurale senza soggetto, che poi nel testo è messo in evidenza dal suo collocarsi come isolato, alla fine del periodo e all’inizio della seconda terzina (v. 4). La prima terzina è dominata da una quasi violenta nota di colore (il roggio, in contrasto con il fumo della nebbia), in un mondo che sembra come immobile e fermo. La seconda terzina, inaugurata proprio da quel verbo arano, introduce invece improvvisamente il lavoro umano e il suo vario agitarsi, con quattro verbi di azione (arano, spinge, semina, ribatte) come attenuati dagli aggettivi lente (due volte nel v. 4) e pazïente (v. 6). La quartina conclusiva fa emergere le immagini dei due uccelli, il passero e il pettirosso, che sembrano come spiare maliziosamente il lavoro umano (la scena è ora come guardata dal punto di vista di questi volatili): e si chiude con una preziosa e squillante associazione tra suono, luce e colore, in quel «tintinno come d’oro» del pettirosso. [EDIZIONE: Giovanni Pascoli, Myricae, edizione critica per cura di G. Nava, vol. II, Sansoni, Firenze 1974] METRO: madrigale di dieci endecasillabi, scanditi in due terzine e una quartina, con struttura ABA CBC DEDE.

Al campo, dove roggio nel filare qualche pampano brilla, e dalle fratte sembra la nebbia mattinal fumare, 

arano: a lente grida, uno le lente vacche spinge; altri semina; un ribatte le porche con sua marra pazïente;

v. . Al campo: la prima redazione recava Nel campo; roggio: «rossastro» (in latino rubeus), aggettivo molto usato da Carducci e D’Annunzio; nel filare: «entro una delle file in cui sono disposte le viti»; la prima redazione recava pel filare. v. . pampano: la foglia della vite; dalle fratte: dai cespugli.

vv. -. notare come l’effetto di attenuazione dato dalla ripetizione dell’aggettivo lente è ulteriormente rafforzato dall’enjambement; come all’assenza del soggetto di arano succedano per i tre verbi seguenti (tutti distribuiti nel v. ) tre soggetti indefiniti (uno, altri, un). v. . porche: strisce di terra ribaltate dall’aratro,

Il roggio della vita tra la nebbia Il lavoro umano Gli uccelli spiano il lavoro umano

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





LA NUOVA ITALIA

-

ché il passero saputo in cor già gode, e il tutto spia dai rami irti del moro; e il pettirosso: nelle siepi s’ode il suo sottil tintinno come d’oro.

che il contadino spiana dopo la semina; marra: sorta di zappa, per lavorare il terreno in superficie. v. . saputo: perché la sa lunga, pronto a beccare i chicchi seminati dai contadini. v. . moro: gelso. v. . la redazione iniziale suonava già il suo tenue

tintinno come d’oro; notare l’allitterazione che si muove dalla s alla t (suo sottil tintinno) e il vocabolo onomatopeico tintinno, spesso associato da Pascoli all’arpa, alla cetra, ai sistri e alla voce degli uccelli (come l’aggettivo tinnulo).

Galline

Il quadro di un autunno incombente

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e`

il terzo madrigale de L’ultima passeggiata, presente già nell’opuscolo per le nozze FerrariGini. Qui l’immagine dell’autunno incombente, fissata subito all’inizio (Al cader delle foglie), si espande nell’osservazione dell’abbondanza di cui gode la vecchia massaia, compiaciuta per le risorse della sua proprietà agricola. Questa abbondanza è come ritmata dalla serie di note sonore che percorrono tutto il madrigale: se arguti sono i galletti, le galline fanno sentire i loro richiami; anche il vino canta nel tino, mentre cantano a sera le ragazze intente a sfogliare il granturco, i cui cartocci, in mezzo a cui giocano i monelli, sono addirittura strepitosi. METRO:

come il precedente (madrigale con struttura ABA CBC DEDE).

Al cader delle foglie, alla massaia non piange il vecchio cor, come a noi grami: ché d’arguti galletti ha piena l’aia; 



e spessi nella pace del mattino delle utili galline ode i richiami: zeppo, il granaio; il vin canta nel tino. Cantano a sera intorno a lei stornelli le fiorenti ragazze occhi pensosi, mentre il granturco sfogliano, e i monelli ruzzano nei cartocci strepitosi.

v. . Al cader: la prima redazione recava Pel cader. v. . noi grami: «noi miseri», detto con ironia, riferito al dispiacere che per l’arrivo dell’autunno prova chi in campagna va solo in vacanza. v. . arguti: dalla voce acuta e squillante. v. . spessi: «frequenti»; si noti la distanza dal sostantivo richiami. v. . il vin … tino: si ricordi il ribollir dei tini in San Martino del Carducci (cfr. v. , p. ). Si noti poi

la ripresa da questo canta al successivo Cantano. v. . occhi pensosi: «Nella poesia popolare lo stornello è cantato dalle giovani sfogliatrici, e la sfogliatura è legata a pensieri d’amore» (Garboli). v. . sfogliano: tolgono le foglie alle pannocchie di granturco. v. . «fanno chiasso lottando in mezzo alle foglie secche di granturco che fanno strepito» (ma strepitosi è riferito sia ai monelli che al vicino cartocci).

T. GIOVANNI PASCOLI. MYRICAE



Lavandare

Q

uesto madrigale fu inserito, come quarto de L’ultima passeggiata, nell’edizione di Myricae del 1894. Le tre strofette si distinguono qui l’una dall’altra in modo molto netto, molto piú di quanto non accada in altri madrigali della serie. La prima terzina è dominata da quell’effetto di oscurità del «campo mezzo grigio e mezzo nero» in cui si distingue «un aratro senza buoi», come abbandonato e soffuso dal vapor leggiero della nebbia: quadro livido e quasi inquietante per l’assenza di ogni presenza animale, che ha fatto pensare alla pittura dei macchiaioli toscani o a una rappresentazione di tipo espressionistico. Nella seconda terzina si affaccia improvvisamente, con suggestivi effetti onomatopeici, il rumore dei panni sbattuti dalle lavandare nell’acqua della vicina gora, accompagnato da lunghe cantilene. Ma la quartina riporta direttamente uno di questi canti, con un improvviso mutamento di tono che inserisce sul quadretto cosí pieno di sottili sfumature visive e sonore un ritmo popolaresco. METRO: come il precedente (madrigale con struttura ABA CBC DEDE: ma la D frasca / rimasta è rima imperfetta, assonanza con parziale consonanza).

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero resta un aratro senza buoi, che pare dimenticato, tra il vapor leggiero. 



E cadenzato dalla gora viene lo sciabordare delle lavandare con tonfi spessi e lunghe cantilene: Il vento soffia e nevica la frasca, e tu non torni ancora al tuo paese! quando partisti, come son rimasta! come l’aratro in mezzo alla maggese.

vv. -. tutta la terzina è ricca di effetti onomatopeici, che rendono la cadenza del rumore, sia con la misura dei vocaboli (i quadrisillabi piani cadenzato, sciabordare, lavandare, cantilene), sia con la loro sostanza fonica (gora, sciabordare, lavandare, tonfi). vv. -. attribuendoli al canto delle lavandare, Pascoli qui traduce e trasforma leggermente due stornelli presenti nella raccolta dei Canti popolari marchigiani, pubblicata da A. Gianandrea nel

: «Tira lu viente e nevega li frunna» (la frasca è soggetto del verbo nevicare usato intransitivamente: si intende che le frasche perdono le fronde, che cadono come neve); «Quando ch’io mi partii dal mio paese, / povera bella mia, come rimase! / Come l’aratro in mezzo alla maggese» (maggese è campo arato a maggio e non seminato, lasciato per un anno a riposo: si noti come questa similitudine finale dello stornello ripeta l’immagine dell’aratro dimenticato della prima terzina).

Uno spoglio paesaggio autunnale… e il canto triste delle lavandare

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EPOCA





LA NUOVA ITALIA

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Il passero solitario

Il passero solitario e la monaca prigioniera

Solitudine e silenzio

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Q

uesto componimento è il nono della sezione In campagna di Myricae (che consta di 18 componimenti), inserita nell’edizione del 1897 e apparsa già sul settimanale «Fiammetta» il 18 ottobre 1896. Dall’immagine iniziale del passero solitario e del suo canto (evidente il riferimento al canto omonimo di Leopardi) il testo si proietta subito nella similitudine che mette in primo piano la solitudine della monaca prigioniera intenta a suonare l’organo. Mentre in Leopardi alla vita solitaria del passero veniva direttamente paragonata quella del poeta, Pascoli presenta come specchio della propria condizione la figura della monaca chiusa per forza nel convento, molto diffusa nella letteratura romantica; e insiste sulla misteriosa suggestione di quella musica solitaria che sembra come fissarsi in tre note già chiuse dentro lo strumento, nelle quali in un istante sembra effondersi un segreto nascosto dentro l’anima della monaca, mentre la strofa finale si concentra sull’effetto di solitudine e di silenzio dato da quelle tre note cosí cariche di mistero e di malinconia. Guido Capovilla ha mostrato come alla suggestione di Leopardi si associ quella di un frammento de Le Grazie di Foscolo, aperto da una similitudine («Come nel chiostro vergine romita») con l’immagine di una monaca che i ricordi d’amore spingono a cercare una «soave melodia che posa / secreta ne’ vocali alvei del legno». METRO: tre strofe di sei settenari ciascuna con schema abcbca; la rima a della terza strofa ripete, con le stesse parole solitario e santuario, la rima b della prima.



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

Tu nella torre avita, passero solitario, tenti la tua tastiera, come nel santuario monaca prigioniera l’organo, a fior di dita; che pallida, fugace, stupí tre note, chiuse nell’organo, tre sole, in un istante effuse, tre come tre parole ch’ella ha sepolte, in pace. Da un ermo santuario che sa di morto incenso nelle grandi arche vuote, di tra un silenzio immenso mandi le tue tre note, spirito solitario.

vv. -. chiara la ripresa dell’incipit del canto leopardiano: «D’in su la vetta de la torre antica, / passero solitario, alla campagna / cantando vai finché non more il giorno» (si ricordi che il passero solitario è un tipo particolare di passero, il cui nome latino è monticala solitarius). v. . «provi il tuo canto»; la metafora della tastiera per indicare la vocalità del passero anticipa già la similitudine che inizia nel verso seguente. v. . fugace: l’aggettivo sottolinea il carattere sfug-

gente e quasi inafferrabile della figura della monaca. v. . stupí: latinismo, con uso transitivo del verbo stupire: «sentí con stupore uscire le note». vv. -. le tre note evocano tre parole misteriose, sepolte nel cuore della donna, che richiamano memorie della sua vita precedente, ormai chiuse per sempre in pace dentro di lei. v. . ermo: «solitario», aggettivo caro a Leopardi, molto usato anche da Pascoli. v. . arche: sepolcri, tombe monumentali.

T. GIOVANNI PASCOLI. MYRICAE



L’assiuolo

L’

assiuolo è il risultato di una lunga elaborazione, testimoniata da una prima traccia in prosa e poi da redazioni manoscritte; fu pubblicato la prima volta nella rivista «Il Marzocco» del 3 gennaio 1897 e inserito nella quarta edizione di Myricae (dello stesso 1897), come undicesimo pezzo della sezione In campagna. Il ripetersi del verso dell’assiuolo (piccolo rapace notturno, simile al gufo) alla fine di ciascuna delle tre strofe dispone l’intero componimento sotto il segno di una sonorità sinistra e minacciosa: la domanda iniziale sulla presenza della luna porta a evocare un paesaggio sospeso a distanza (descritto tutto con il tempo imperfetto), in cui le diverse forme naturali sembrano animarsi in movimenti segreti, non riconducibili a nessuna misura umana. In questo inquieto vibrare della natura, il verso dell’assiuolo sembra acquistare, nella sua stessa distanza dall’umano, i connotati di una presenza umana (voce dai campi, v. 7), si pone come un singulto (v. 15), che si lega all’eco di un grido e di un passato doloroso, e si fissa nel finale come un pianto di morte. Nel carattere angoscioso che assumono tutti i segni della natura, il sottilissimo suono prodotto dalle cavallette fa balenare l’immagine di un aldilà, di un passaggio verso porte che immettono in una nuova vita, ma che «forse non s’aprono piú», che sono per sempre negate a un’esperienza umana che di fronte alla morte non può trovare nessuna consolazione.

Il grido dell’assiuolo simbolo di vita e di morte

METRO: tre strofe di sette novenari, seguite ciascuna dalla voce chiú, che riproduce per onomatopea il verso dell’assiuolo. I sette novenari sono disposti secondo lo schema ababcxc, in cui il sesto verso fa sempre rima con la voce chiú ripetuta alla fine della strofa (laggiú, fu, piú).

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

Dov’era la luna? Ché il cielo notava in un’alba di perla, ed ergersi il mandorlo e il melo parevano a meglio vederla. Venivano soffi di lampi da un nero di nubi laggiú; veniva una voce dai campi: chiú… Le stelle lucevano rare tra mezzo alla nebbia di latte: sentivo il cullare del mare, sentivo un fru fru tra le fratte; sentivo nel cuore un sussulto, com’eco d’un grido che fu. Sonava lontano il singulto: chiú…

vv. -. il cielo sembrava nuotare (notava) nel chiarore madreperlaceo emanato dalla luna al suo sorgere (alba di perla). vv. -. l’animarsi del mondo vegetale è rappresentato, qui, da un mandorlo e da un melo, che sembrano elevarsi come per guardare meglio la luna. v. . soffi di lampi: si riproduce con grande efficacia, in questa formula, l’aspetto visivo e insieme sonoro (il tuono) del lampo; al tempo stesso, si dà una sorta di animalizzazione dell’elemento natura-

le inanimato, ripetuta poi al v.  (tremava un sospiro di vento). v. . lucevano: luccicavano. v. . nebbia di latte: il cielo, già descritto nei versi iniziali, nell’alone biancastro della luna. v. . fru fru: un frusciare (indicato qui con l’onomatopea) in mezzo ai cespugli (fratte). v. . il ritorno dell’elemento doloroso è suscitato dal sussulto provocato nel cuore dal ricordo (eco) d’un trauma subíto nel passato (grido che fu).

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

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LA NUOVA ITALIA

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Su tutte le lucide vette tremava un sospiro di vento; squassavano le cavallette finissimi sistri d’argento (tintinni a invisibili porte che forse non s’aprono piú?…); e c’era quel pianto di morte… chiú…

v. . lucide vette: le cime degli alberi, rese lucide dal chiarore della luna. vv. -. inversione fra soggetto (le cavallette) e predicato verbale (squassavano): «le cavallette facevano scuotere le loro ali», indicate con la metafora dei sistri, dato il loro suono sottile, simile appunto a quello dei sistri (strumenti musicali in uso nell’antico Egitto, composti da sottili lamine

di metallo percosse contro una verga piegata a U). vv. -. l’inciso tra parentesi si chiede se i suoni delle ali delle cavallette non si identifichino con tintinni suonati alle porte della morte, rivolte a una vita dopo la morte (presso gli Egiziani i sistri erano uno strumento proprio del culto di Iside, che confidava nella resurrezione). v. . pianto di morte: è ancora il canto dell’assiuolo.

T. GIOVANNI PASCOLI. IL FANCIULLINO



Il fanciullino È dentro noi un fanciullino (I; III)

s

i riporta qui un breve brano iniziale della prosa Il fanciullino e una parte del capitoletto III (il testo, nella sua redazione definitiva, è articolato in 20 capitoletti, tra i quali il VII e il XIX presentano due diverse poesie intitolate entrambe Il fanciullo). I passi qui riportati mostrano come, nello svolgersi della sua argomentazione, Pascoli metta insieme riferimenti culturali e motivi consueti della sua poesia e della sua sensibilità: piú che a seguire una problematica di tipo teorico, egli è interessato qui a indicare situazioni poetiche. Egli cerca in ogni uomo, in tutto l’orizzonte della società, quelle qualità originarie che attribuisce all’infanzia: esse trovano la loro base principale nella disponibilità a comunicare con lo spirito piú semplice e «buono» della natura che si dà in ogni uomo, nascosta sotto le forme della vita sociale, e che il poeta ha il compito di rivelare e di trarre alla luce. Nell’ultimo paragrafo di p. 332 (E ciarla intanto…) si mettono in evidenza alcuni dei procedimenti essenziali con cui per Pascoli opera quel fanciullino che è dentro ciascuno di noi: condensazione tra aspetti diversi della realtà, che ha come strumento poetico l’uso dell’analogia («egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni piú ingegnose»), rovesciamento tra cose di opposta natura o grandezza («egli adatta il nome della cosa piú grande alla piú piccola, e al contrario»), riduzione e amplificazione («impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare»), concentrazione nella parola («il suo linguaggio è […] prodigo, come di chi due pensieri dia per una parola»), uso delle diverse sfere sensoriali («a ogni modo dà un segno, un suono, un colore, a cui riconoscere sempre ciò che vide una volta»). [EDIZIONE: Giovanni Pascoli, Il fanciullino, a cura di G. Agamben, Feltrinelli, Milano 1982]

I

È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi, come credeva Cebes Tebano che primo in sé lo scoperse, ma lagrime ancora e tripudi suoi. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello. Il quale tintinnio segreto noi non udiamo distinto nell’età giovanile forse cosí come nella piú matura, perché in quella occupati a litigare e perorare la . È dentro … Tebano: Pascoli si riferisce a un passo del Fedone di Platone, che egli stesso indica e traduce in una nota: «E Cebes con un sorriso, “Come fossimo spauriti”, disse “o Socrate, prova di persuaderci; o meglio non come spauriti noi, ma forse c’è dentro anche in noi un fanciullino che ha timore di siffatte cose: costui dunque proviamoci di persuadere a non aver paura della morte come di visacci d’orchi”». Occorre però notare che in Platone il fanciullino rappresenta la parte irrazionale dell’animo umano, che va regolata con l’educazione.

. tuttavia: ancora. . ruzzano: corrono e saltano. Dei due fanciulli, l’uno è quello reale (l’uomo nella età tenera della sua infanzia), l’altro è il fanciullino che resterà dentro l’animo anche quando il fanciullo reale sarà diventato un uomo. . quindi: in seguito. . un nuovo desiderare: con la crescita e la maturità (intellettuale e sessuale) altri ordini di desiderio, diversi da quelli propri dell’età infantile, determinano la vita degli uomini.

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LA NUOVA ITALIA

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causa della nostra vita, meno badiamo a quell’angolo d’anima d’onde esso risuona. E anche, egli, l’invisibile fanciullo, si perita vicino al giovane piú che accanto all’uomo fatto e al vecchio, ché piú dissimile a sé vede quello che questi. Il giovane invero di rado e fuggevolmente si trattiene col fanciullo; ché ne sdegna la conversazione, come chi si vergogni d’un passato ancor troppo recente. Ma l’uomo riposato ama parlare con lui e udirne il chiacchiericcio e rispondergli a tono e grave; e l’armonia di quelle voci è assai dolce ad ascoltare, come d’un usignuolo che gorgheggi presso un ruscello che mormora. III

Forse gli uomini aspettano da lui chi sa quali mirabili dimostrazioni e operazioni; e perché con le vedono, o in altri o in sé, giudicano che egli non ci sia. Ma i segni della sua presenza e gli atti della sua vita sono semplici e umili. Egli è quello, dunque, che ha paura al buio, perché al buio vede o crede di vedere; quello che alla luce sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai; quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle: che popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dei. Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione. Egli è quello che nella morte degli esseri amati esce a dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime, e ci salva. Egli è quello che nella gioia pazza pronunzia, senza pensarci, la parola grave che ci frena. Egli rende tollerabile la felicità e la sventura, temperandole d’amaro e di dolce, e facendone due cose ugualmente soavi al ricordo. Egli fa umano l’amore, perché accarezza esso come sorella (oh! Il bisbiglio dei due fanciulli tra un bramire di belve), accarezza e consola la bambina che è nella donna. Egli nell’interno dell’uomo serio sta ad ascoltare, ammirando, le fiabe e le leggende, e in quello dell’uomo pacifico fa echeggiare stridule fanfare di trombette e di pive, e in un cantuccio dell’anima di chi piú non crede, vapora d’incenso l’altarino che il bimbo ha ancora conservato da allora. Egli ci fa perdere il tempo, quando noi andiamo per i fatti nostri, ché ora vuol vedere la cinciallegra che canta, ora vuol cogliere il fiore che odora, ora vuol toccare la selce che riluce. E ciarla intanto, senza chetarsi mai; e, senza lui, non solo non vedremmo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente. Egli scopre nelle cose le somiglian-

. quello che… di dei: Pascoli annota: «Augusto Conti narra di una sua bambina: “Quando mirava la luna o le stelle, metteva voci di gioia, e me le additava, e chiamavale come cose viventi; offrendo loro quel che avesse in mano, anche le vesti”. Rivado col pensiero a tutte le poesie che ho lette: non ne trovo una piú poesia di questa!». Il toscano Augusto Conti (-), fautore di papa Leone XIII, fu autore di opere filosofiche che ebbero una certa fortuna nella seconda metà dell’Ottocento. . Egli è quello … ci salva: Pascoli, in nota, cita come esempio le parole di Andromaca piangente sul corpo di Ettore (Iliade, XXII, ): «Nudo, e sí che di vesti ce n’hai nella casa riposte, / morbide e graziose, lavoro di mani di donne!». . accarezza esso … donna: il «fanciullino» accarezza l’amore, ne vive l’esperienza come se fosse rivolto a una sorella, e stimola il lato infantile che è presente nella donna. Si esprime, qui, la predilezione per un amore sororale, puro e desessualizza-

to, reso «umano» e redento dall’affetto (nell’inciso tra parentesi il bisbiglio infantile rappresenta questo aspetto «puro» dell’amore, mentre il bramire di belve ne rappresenta sia l’aspetto sessuale, che il legame con la crudeltà della vita). . fanfare … pive: annunciatrici di guerra (pive, cornamuse). . vapora: «fa inondare d’incenso (l’uso transitivo è arcaico) l’altare rimasto nel cuore dell’uomo dal tempo della sua infanzia», ritrova cioè il valore della religione seguita nell’infanzia e abbandonata nella maturità. Il fanciullino, con le sue fiabe, le sue fanfarette, e i suoi incensi, è in grado di rompere i disincanti dell’età matura. . E ciarla … mai: parla di continuo, instancabilmente. . l’Adamo … sente: secondo la tradizione biblica, Adamo, il primo uomo, è colui che nomina le cose per la prima volta.

T. GIOVANNI PASCOLI. IL FANCIULLINO



ze e relazioni piú ingegnose. Egli adatta il nome della cosa piú grande alla piú piccola, e al contrario. E a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza, e curiosità meglio che loquacità: impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare. Né il suo linguaggio è imperfetto come di chi non dica la cosa se non a mezzo, ma prodigo anzi, come di chi due pensieri dia per una parola. E a ogni modo dà un segno, un suono, un colore, a cui riconoscere sempre ciò che vide una volta. C’è dunque chi non ha sentito mai nulla di tutto questo? Forse il fanciullo tace in voi, professore, perché voi avete troppo cipiglio, e voi non lo udite, o banchiere, tra il vostro invisibile e assiduo conteggio. Fa il broncio in te, o contadino, che zappi e vanghi, e non ti puoi fermare a guardare un poco; dorme coi pugni chiusi in te, operaio, che devi stare chiuso tutto il giorno nell’officina piena di fracasso e senza sole. Ma in tutti è, voglio credere. Siano gli operai, i contadini, i banchieri, i professori in una chiesa a una funzione di festa; si trovino poveri e ricchi, gli esasperati e gli annoiati, in un teatro a una bella musica: ecco tutti i loro fanciullini alla finestra dell’anima, illuminati da un sorriso o aspersi d’una lagrima che brillano negli occhi de’ loro ospiti inconsapevoli; eccoli i fanciullini che si riconoscono, dall’impannata al balcone dei loro tuguri e palazzi, contemplando un ricordo e un sogno comune.

. prodigo … una parola: il suo linguaggio è prodigo, generoso, come quello di chi si impegna a dare due pensieri per una parola, a concentrare in

una sola parola due concetti o significati diversi. . a ogni modo: a ogni aspetto della realtà. . impannata: imposta, finestra.

EPOCA

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LA NUOVA ITALIA

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Poemetti Digitale purpurea (da Primi poemetti)

Q

Il rapporto simbolico fiore-eros

Maria e Rachele

Maria e il nido familiare

uesto poemetto fa parte della sezione Il bordone – L’aquilone nella raccolta dei Primi poemetti: ma era già apparso su «Il Marzocco» del 20 marzo 1898 ed era stato compreso poi nella seconda edizione dei Poemetti (1900). La sorella di Pascoli Mariú, nel suo libro Lungo la vita di Giovanni Pascoli, indica che il tema e la situazione di questa poesia nascono da un ricordo della sua vita di collegio (nel convento delle monache di Sogliano). Durante una passeggiata con le compagne, le era capitato di vedere in un giardino un fiore che non aveva mai visto prima: «Era una pianta dal lungo stelo rivestito di foglie, con in cima una bella spiga di fiori rossi a campanelle, punteggiate di macchioline color rosso cupo: la digitale purpurea. La curiosità di poterla guardare bene da vicino e di sentire se odorava ci spinse a entrare nel giardino: ma appena ci fummo fermate presso la pianta, la Madre Maestra ci intimò di allontanarci subito di lí, di non appressarci a quel fiore che emanava un profumo venefico e cosí penetrante che faceva morire. Indietreggiammo impaurite e ci portammo leste leste sul nostro cammino. Io rimasi per un pezzo con la paura di quel fiore velenoso, e quando si doveva passare nelle sue vicinanze me ne stavo piú lontana che fosse possibile senza nemmeno guardarlo. Questo puerile e insignificante mio racconto ispirò a Giovannino il poemetto. Il dialogo fra le due ex compagne di convento, Maria e Rachele (in cui è la sostanza del lavoro), è di sua immaginazione. In Maria ha voluto raffigurare me, ma Rachele l’ha creata lui». Nonostante questa dichiarazione di Mariú, è però facile vedere trasposta, nella figura di Rachele, quella dell’altra sorella Ida, che si era sposata nel 1895, suscitando l’amarezza del fratello. L’aspetto e il carattere diverso delle amiche Maria e Rachele alludono al carattere e alle scelte diverse delle due sorelle; alla modesta semplicità della bionda Maria, che si è sempre tenuta lontana dal fiore morboso e misterioso, si oppone l’audace curiosità della bruna Rachele, che ha toccato il fiore e ha scoperto una dolcezza segreta e distruttiva che contiene in sé il brivido della morte. Nel malsano e dolce mistero che la digitale purpurea cela dentro di sé è facile riconoscere una immagine del sesso (arricchita e complicata da suggestioni indeterminate: al di là del sesso c’è il richiamo di una realtà segreta e inafferrabile, di un’irrazionalità distruttiva che sorge dal seno stesso della natura). E nel pericoloso avvicinarsi di Rachele al fiore si può vedere trasposta la vicenda di Ida, il suo abbandono del «nido» familiare e la sua scelta dell’esperienza del matrimonio, dell’amore e del sesso (da Giovanni sempre allontanata, ma guardata nello stesso tempo con morbosa attrazione). Il poemetto si svolge con un ritmo narrativo, articolandosi in tre parti uguali. Ogni parte è concentrata su un situazione diversa, e tutte e tre si aprono con un presente alla terza persona plurale, sempre con il soggetto sottinteso (che ovviamente è costituito dalle due donne): Siedono la prima, Vedono la seconda, si premono, la terza, ma qui al secondo verso, mentre il primo è aperto dai nomi che le due donne si scambiano tra loro. La prima parte presenta le figure diverse delle due donne che, sedute insieme, intrecciano un dialogo sugli anni passati nel collegio; dalle parole di Maria emerge il ricordo del giardino che conteneva il fiore da cui ella si è tenuta sempre lontana e il cui potere misterioso e mortale ella esita perfino a nominare (con la suggestiva interruzione al v. 15). Alle parole di Maria si instaura tra le due donne un contatto affettuoso, con le mani dell’una che si posano su quelle dell’altra e con il volgersi del loro sguardo lontano, nello spazio e nel tempo. La seconda parte è dedicata al ricordo piú diretto del convento, che si affaccia davanti alle due donne, con un insieme di immagini visive e sonore, di profumi, di suoni, di trasalimenti, di gioie e abbandoni infantili. La vita del collegio è come quella di un mondo «altro», di uno spazio in cui si danno sensazioni originarie, di una salute squillante, chiusa in se stessa, non contaminata dal contatto con il mondo esterno. Ma in disparte rispetto a questo spazio cosí fresco

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

e sano, lo strano fiore rivela la presenza del mistero, di una vita ignota, di morbosi turbamenti. Nella terza parte le donne si apprestano a lasciarsi. Ma il saluto di Rachele è accompagnato dal pianto e dall’improvviso emergere di un ricordo-confessione: a differenza di Maria, ella ha osato una volta accostarsi a quel fiore; seguendo la suggestione di un sogno notturno, si è inoltrata nel giardino, ha avvertito un fascinoso richiamo, ha sentito da vicino il profumo del fiore lasciandosi andare a una dolcezza che sa di morte, che sembra avere segnato di morte la sua vita e la sua bellezza (e nel racconto essa comunica questo lungo brivido di morte all’ignara amica). Nel trascorrere di sensazioni e nei misteriosi richiami suscitati dal rapporto tra le due donne, nella stessa figura del giardino e del fiore malsano, si possono sentire le suggestioni del vicino D’Annunzio del Poema paradisiaco, e insieme quelle di tante figure di giardini e di fiori della tradizione letteraria. D’Annunzio è presente anche per certe forme linguistiche, come l’espressione un suo ai vv. 20, 46 e 75. Su queste suggestioni si sovrappone la sensibilità di Pascoli, in un miscuglio inestricabile tra ingenuità infantile, ricerca di una purezza elementare, di una «bontà» manierata e addirittura leziosa, e richiamo dell’ignoto, fascinazione di ciò che è impuro, che non si può toccare (e tra l’altro l’impurità del fiore ha connotati umani, come mostra, ai vv. 48-49, la metafora delle dita «spruzzolate di sangue, dita umane», determinata del resto dallo stesso nome del fiore, digitale purpurea). La morte è come un esito necessario di questa impurità, indica l’orizzonte peccaminoso dell’esperienza del sesso e del mistero. [EDIZIONE: Giovanni Pascoli, Primi poemetti, a cura di G. Leonelli, Mondadori, Milano 1982] METRO: tre gruppi di terzine, di 25 versi ciascuno (si tratta ogni volta di otto terzine, piú il verso di chiusura con cui si sogliono concludere i componimenti in terza rima).

I

Siedono. L’una guarda l’altra. L’una esile e bionda, semplice di vesti e di sguardi; ma l’altra, esile e bruna, 

l’altra… I due occhi semplici e modesti fissano gli altri due ch’ardono. «E mai non ci tornasti?» «Mai!» «Non le vedesti piú?» «Non piú, cara». «Io sí: ci ritornai; e le rividi le mie bianche suore, e li rivissi i dolci anni che sai;



quei piccoli anni cosí dolci al cuore…» L’altra sorrise. «E di’: non lo ricordi quell’orto chiuso? i rovi con le more?

vv. -. il componimento inizia senza indicare i nomi delle due protagoniste, che verranno fatti solo ai vv.  e : Maria è quella esile e bionda, Rachele quella esile e bruna: alla semplicità della prima, che si manifesta sia nelle vesti che negli occhi semplici e modesti, si oppone l’ardore sensuale dell’altra (rivelato dagli occhi ch’ardono). Si noti l’insistenza sulle corrispondenze di termini a coppia (L’una … l’altra. L’una / esile e bionda … / ma l’altra, esile e bruna, // l’altra … I due occhi … / gli al-

tri due). Si osservi anche il ritmo ripetitivo, costante in tutto il componimento: qui nel racconto di Rachele sul suo ritorno al convento, con i tre verbi distribuiti nei vv. -, (ci ritornai, le rividi, li rivissi), e con la ripetizione e precisazione del v.  a proposito dei dolci anni, chiamati anche piccoli, perché vissuti quando esse erano piccole. v. . orto chiuso: per il tema del giardino chiuso si veda la poesia di D’Annunzio Hortus Conclusus, pp. -.

Rachele e la curiosità del mistero

La morte esito dell’esperienza impura

˜

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





LA NUOVA ITALIA

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i ginepri tra cui zirlano i tordi? i bussi amari? quel segreto canto misterioso, con quel fiore, fior di…?» «morte: sí, cara». «Ed era vero? Tanto io ci credeva che non mai, Rachele, sarei passata al triste fiore accanto.



Ché si diceva: il fiore ha come un miele che inebria l’aria; un suo vapor che bagna l’anima d’un oblío dolce e crudele. Oh, quel convento in mezzo alla montagna cerulea!» Maria parla: una mano posa su quella della sua compagna;



e l’una e l’altra guardano lontano. II

Vedono. Sorge nell’azzurro intenso del ciel di maggio il loro monastero, pieno di litanie, pieno d’incenso. 

Vedono; e si profuma il lor pensiero d’odor di rose e di viole a ciocche, di sentor d’innocenza e di mistero.

v. . zirlano: vocabolo onomatopeico, che indica il verso dei tordi. v. . bussi: «bossi» (piante sempreverdi, generalmente da siepe). La forma bussi è piú vicina al termine latino (buxus); canto: angolo, luogo appartato (la cui suggestione è rafforzata dall’enjambement, canto / misterioso). vv. -. l’interruzione della frase fior di… è reminiscenza di una celebre spezzatura del discorso usata dall’Ariosto nell’Orlando furioso, XLII, , quando Brandimarte, sul punto di morire, non riesce a pronunciare per intero il nome di Fiordiligi: «Né men ti raccomando la mia Fiordi… – / Ma dir non poté “ligi”; e qui finío». Il fior di morte è naturalmente la digitale purpurea stessa. L’aggiunta di Rachele, sí, cara, pone subito al centro del ricordo delle due amiche il fiore velenoso, come un segreto ossessionante. v. . al … accanto: accanto al triste fiore (cosí per inversione o anastrofe), triste perché apportatore di morte, legato alla morte. v. . miele: essenza, profumo, che satura l’aria rendendola inebriante. vv. -. «da questo fiore si ricava un narcotico velenoso (che appunto produce oblío)»: ma, attra-

verso il riferimento al vapore e alla sua proprietà di bagnare l’anima di un oblío, di un totale abbandono (designato con due termini opposti dolce e crudele, tradizionalmente accoppiati nella poesia amorosa), si esprime il carattere sessuale del fiore. v. . cerulea: azzurrina. vv. -. allo scambio tra gli occhi (indicato nei vv. -) si aggiunge ora quello tra le mani, che si svolgerà poi, alla fine della seconda parte, nella figura stessa del fiore, fatto di dita umane (vv. -). Il guardano con cui si conclude questa prima parte è direttamente ripreso dal Vedono all’inizio della successiva. v. . Vedono: nel ricordo (cosí anche per Sorge nell’azzurro intenso): la forma verbale si ripeterà poi al v. . v. . la classica coppia di rose e viole, già nel Petrarca e usata da Leopardi all’inizio de Il sabato del villaggio («un mazzolin di rose e di viole»), si complica con la specificazione di viole a ciocche, e sarà ripetuta in enjambement ai vv. - («odor di rose e di viole a / ciocche»): in un saggio su Leopardi del , Il Sabato, Pascoli aveva criticato l’«indeterminatezza» del tradizionale accoppiamento tra rose e viole, notando l’impossibilità di vedere

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

E negli orecchi ronzano, alle bocche salgono melodie, dimenticate, là, da tastiere appena appena tocche… 



Oh! quale vi sorrise oggi, alle grate, ospite caro? onde piú rosse e liete tornaste alle sonanti camerate oggi: ed oggi, piú alto, Ave, ripete, Ave Maria, la vostra voce in coro; e poi d’un tratto (perché mai?) piangete… Piangono, un poco, nel tramonto d’oro, senza perché. Quante fanciulle sono nell’orto, bianco qua e là di loro!



Bianco e ciarliero. Ad or ad or, col suono di vele al vento, vengono. Rimane qualcuna, e legge in un suo libro buono. In disparte da loro agili e sane, una spiga di fiori, anzi di dita spruzzolate di sangue, dita umane,



l’alito ignoto spande di sua vita.

contemporaneamente nello stesso mazzo viole e rose, specificando che le viole si hanno a marzo e le rose a maggio; proprio per il suo bisogno di determinatezza, egli, pur mantenendo il riferimento alla coppia letteraria, trasforma le viole in un altro tipo di fiori, le viole a ciocche o violacciocche. v. . sentor: «profumo», qui in senso figurato. v. . tocche: «toccate per suonarle»: le melodie sembrano come emanare dall’interno delle tastiere, dove sono state dimenticate. vv. -. quale è riferito a ospite caro (v. ): «quale caro visitatore vi sorrise oggi alle grate del convento (dove le visite avvenivano nel parlatorio, accanto alle grate che separavano le suore dal mondo esterno), per cui (onde) oggi siete tornate alle camerate sonanti (piene delle voci delle fanciulle) piú rosse e liete del solito?» L’interrogativa rafforza la diretta immersione nel tempo del collegio, facendolo rivivere come presente, ritrovando un oggi (v. ) in quel passato lontano. v. . senza perché: «senza una ragione»: quasi in risposta alla domanda posta al v. : perché mai? I due perché possono riferirsi a due differenti situazioni temporali: il primo al passato del collegio (indicato da piangete, riferito alla scena del collegio, a un pianto immotivato delle fanciulle), il secondo al presente della rievocazione da parte delle due

(indicato da Piangono). In questa alternanza, si dà uno scambio continuo fra il passato del ricordo e il presente dell’incontro fra le due amiche; la confusione fra i due piani è continua e persistente, preparando il finale (vedi vv. -), in cui passato e presente verranno a combaciare. vv. -. il giardino è reso bianco dalle figure delle fanciulle che si muovono sullo sfondo, e ciarliero dalle loro chiacchiere gioiose. v. . vele al vento: con la metafora del suono dello sbattere delle vele si allude al muoversi delle vesti delle fanciulle: la similitudine è probabilmente tratta dal sesto capitolo de I Promessi Sposi, in cui si parla della «tonaca sbattuta [di frate Cristoforo], somigliante a quello che fanno in una vela allentata i soffi ripetuti del vento». vv. -. di dita … sangue: «nel giardino, separato dalle agili e sane fanciulle (ma alla loro portata), un mazzetto di fiori, simili a dita umane macchiate di sangue, esala tutt’intorno nell’aria la propria essenza velenosa, inavvertibile e sconosciuta». I fiori della digitale purpurea (raccolti a spiga) assomigliano infatti alle dita d’una mano, spruzzolate (spruzzate, macchiate, cosparse) di sangue. v. . cfr. i vv. -: si ribadisce qui di nuovo la impercettibile azione tossica del fiore.

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



LA NUOVA ITALIA

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III

«Maria!» «Rachele!» Un poco piú le mani si premono. In quell’ora hanno veduto la fanciullezza, i cari anni lontani. 

Memorie (l’una sa dell’altra al muto premere) dolci, come è tristo e pio il lontanar d’un ultimo saluto! «Maria!» «Rachele!» Questa piange, «Addio!» dice tra sé, poi volta la parola grave a Maria, ma i neri occhi no: «Io,»





mormora, «sí: sentii quel fiore. Sola ero con le cetonie verdi. Il vento portava odor di rose e di viole a ciocche. Nel cuore, il languido fermento d’un sogno che notturno arse e che s’era all’alba, nell’ignara anima, spento. Maria, ricordo quella grave sera. L’aria soffiava luce di baleni silenzïosi. M’inoltrai leggiera,



cauta, su per i molli terrapieni erbosi. I piedi mi tenea la folta erba. Sorridi? E dirmi sentia: Vieni!

v. . si premono: la terza persona plurale del presente, con cui si aprono le tre parti del poemetto, subisce qui una variazione: è spostata dal primo verso al secondo, messa in fine di periodo. v. -. l’una … premere: l’una comprende al silenzioso premere della mano dell’altra. v. . tristo e pio: si tratta di una formula dantesca (Inferno, V, : «Francesca, i tuoi martiri / a lacrimar mi fanno tristo e pio»), usata di frequente nella poesia del Pascoli. v. . lontanar: «allontanarsi»: la confidenza di Rachele si svolgerà proprio da questa situazione di estremo saluto dall’amica. v. . Questa: Rachele. v. . ma i neri occhi no: rivolge a Maria la parola, ma non gli occhi: non ha il coraggio di guardarla, per la scabrosità della confidenza. v. . sentii: «odorai»: ma il verbo si riferisce qui a una partecipazione di tutti i sensi al rapporto con il fiore. v. . cetonie verdi: coleotteri verde-oro, che si trovano, nei giardini, sulle piante di rosa. vv. -. Nel cuore … spento: l’impressione, quasi

il fermentare, d’un sogno (forse sensuale, se non peccaminoso) che si era bruciato nella notte e di cui nell’anima ignara della fanciulla si era subito persa la memoria. vv. -. il termine baleni «allude alla sventura fulminea che si abbatte sull’anima e sul nido familiare» (Perugi); è termine frequente in Pascoli, insieme a sinonimi come lampi o schianti (vedi, fra le poesie qui antologizzate, Nebbia, vv. -, p. , e soprattutto L’assiuolo, vv. -, p. ). Si noti l’incastro di sinestesie, presenti in questi versi, fra il soffiare della luce e i baleni / silenzïosi (complicato dall’enjambement e dallo iato). vv. -. su … erba: la folta erba sorregge i piedi della fanciulla (che su di essa si appoggia). L’immagine, giocata fra il molle della terra erbosa (con un’eco sottile tra erbosi e il precedente silenzïosi, in enjambement con due parole in rima tra loro) e il folto dell’erba, ha in sé i connotati del sensualepeccaminoso e insieme del mortuario (in Pascoli, l’idea del «folto» è spesso associata a quella del mortuario).

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

Vieni! E fu molta la dolcezza! molta! tanta, che, vedi… (l’altra lo stupore alza degli occhi, e vede ora, ed ascolta 

con un suo lungo brivido…) si muore!»

v. . tanta, che: tanto grande che. vv. -. lo stupore … e vede: alza gli occhi pieni di stupore (da notare la funzione visiva del-

l’enjambement, combinato all’inversione fra oggetto e predicato), e finalmente comprende.

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Canti di Castelvecchio Nebbia

Q

La nebbia come separazione dal mondo

Poesia del limite Il piacere di una visione limitata

Il desiderio della fine di ogni desiderio

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uesta poesia apparve la prima volta sulla rivista napoletana «Flegrea» del 20 settembre 1899: il tema della nebbia e la fascinazione del suo nascondere cose e presenze, del mistero che entro di essa può segretamente annunciarsi, ha una notevole presenza nella poesia del Pascoli. Su di esso era già basato il poemetto Nella nebbia, del novembre 1897, inserito poi nei Primi poemetti, dove si seguiva la suggestione di echi segreti, di richiami insondabili, di rumori e di passi celati dalla nebbia. Questa poesia insiste invece piú direttamente sul senso di chiusura, di limite, di immobilità, di separazione dal mondo che viene dato dal paesaggio nebbioso. E si svolge insieme come constatazione e invocazione del potere della nebbia, che nasconda ogni cosa lontana, nello spazio e nel tempo, che permetta al poeta solo la visione delle cose piú vicine e consuete, del ristretto spazio del suo orto, di una vita quieta e senza movimento, sottratta a ogni desiderio, a ogni nostalgia, a ogni irrequietezza sentimentale. A questa realtà limitata e consueta appartengono anche i segni della morte: il bianco della strada che condurrà il poeta al cimitero e il cipresso che è là, forse fuori dai limiti della visibilità. Tutto è chiuso tra un vicinissimo altrove, il là, dove c’è un cipresso, e il qui dell’orto, dove il sonnecchiare del cane introduce un carattere di familiarità dimessa, allontana ogni orizzonte sublime. Questa è una poesia del limite, che si pone in realtà in stretto rapporto con L’infinito di Leopardi. Ma nel testo leopardiano era lo stesso limite (segnato tra l’altro da una siepe) a far rivolgere il pensiero verso spazi e tempi vastissimi e indeterminati, erano gli stessi ostacoli della visione a portare la mente verso l’infinito. Qui invece Pascoli fa della nebbia lo strumento per portare fino in fondo la propria separazione dallo spazio e dal tempo esterno, per affermare il piacere di una visione ridotta, limitata proprio da una siepe (v. 9) che cerca di escludere ogni realtà al di là di se stessa. All’esperienza leopardiana, che dall’ambito limitato della sensazione individuale tende ad aprirsi verso orizzonti illimitati (negli spazi geografici e nelle profondità della storia), qui si oppone il desiderio di immersione in una realtà senza orizzonte, in un non essere che nega l’estensione nello spazio e la distanza nel tempo, che può identificarsi con la vita prima della nascita. Per questa prospettiva Pascoli risente probabilmente della conoscenza di testi della mistica indiana, di cui possedeva traduzioni nella sua biblioteca. Ma non è la diretta trascrizione di un’esperienza mistica a interessargli. Egli non sente la chiusura dentro il proprio ridotto orizzonte come qualcosa di sicuramente realizzato: piuttosto affida alla voce poetica il compito di invocarla appassionatamente, chiedendo alla nebbia stessa di realizzare fino in fondo la sua opera di occultamento della realtà, del desiderio e del dolore. Si tratta insomma del canto del desiderio della fine di ogni desiderio, che riveste le cose nominate di una suggestiva indeterminatezza, con i sottili effetti di una visione neutralizzata e attutita, che prendono avvío dalle bellissime immagini della prima strofa: effetto solo sonoro è quello delle campane che in futuro porteranno il poeta al cimitero. [EDIZIONE: Giovanni Pascoli, Canti di Castelvecchio, a cura di N. Ebani, La Nuova Italia, Firenze 2001] METRO: cinque strofe di sei versi: quattro novenari alternati con un trisillabo (quarto verso della strofa) e un senario (sesto e ultimo verso), secondo lo schema ABCbCa: ma il primo verso, uguale in tutte le strofe («Nascondi le cose lontane»), fa sí che nell’ultimo verso (il senario) sia costante la rima -ane. Moltissime le ripetizioni e gli echi interni: oltre al primo verso di ogni strofa (in cui tra l’altro riecheggiano suoni consonantici da Nascondi a lontane), si veda l’ulteriore ripetizione nascondimi (v. 8) e nascondile (v. 26), e quella di Ch’io veda… all’inizio del terzo verso delle tre strofe centrali.

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Nascondi le cose lontane, tu nebbia impalpabile e scialba, tu fumo che ancora rampolli, su l’alba, da’ lampi notturni e da’ crolli d’aeree frane! Nascondi le cose lontane, nascondimi quello ch’è morto! Ch’io veda soltanto la siepe dell’orto, la mura ch’ha piene le crepe di valerïane. Nascondi le cose lontane: le cose son ebbre di pianto! Ch’io veda i due peschi, i due meli, soltanto, che dànno i soavi lor mieli pel nero mio pane. Nascondi le cose lontane che vogliono ch’ami e che vada! Ch’io veda là solo quel bianco di strada che un giorno ho da fare tra stanco don don di campane… Nascondi le cose lontane, nascondile, involale al volo

vv. -. quella fra scialba e alba, è una rima dantesca, da Purgatorio, XIX, -; da Purgatorio, V,  è ricavato il verbo rampollare («sgorgare», detto di solito di sorgenti, qui riferito al fumo della nebbia, che sul sorgere dell’alba pare scaturire dai temporali notturni); ma nello stesso passo del Purgatorio c’è la rima crolla/rampolla, che qui, trasformata in rampolli/crolli, dà luogo alla bellissima immagine della nebbia che scaturisce dai crolli delle frane dell’aria, cioè dal fragore dei tuoni. v. . le cose lontane: qui, come nella strofa successiva, la lontananza delle cose si dà soprattutto nel tempo, nonostante le immagini fortemente spaziali e concrete che delimitano il campo della vicinanza (la siepe, la mura, i due peschi, i due meli). v. . la mura: forma femminile arcaica, usata al posto del maschile. L’immagine del muro dalle cui crepe sorgono le valerïane (fiori usati in erboristeria, che hanno un effetto sedativo, ma sono anche tossici), resa fonicamente piú suggestiva dallo iato, è probabilmente ricavata da una poesia di Victor Hugo (Les chansons des rues et des bois, I, Pour Jeanne seule, vv. -): «J’aime les murs pleins de

fentes / d’oú sortent les liserons» (“Amo i muri pieni di crepe / da cui escono i convolvoli”). v. . ebbre di pianto: l’espressione, frequente in Pascoli, attribuisce una condizione di per sé soggettiva (il pianto, che è degli uomini) alla realtà oggettiva, seguendo una famosa espressione di Virgilio, Eneide, I,  («sunt lacrimae rerum»). v. . mieli: quella del miele è metafora della poesia (o, secondo le parole del Pascoli, delle «gioie del poeta»), di origine oraziana (Carmina, IV, , -), piuttosto diffusa nella poesia italiana. Tale immagine viene subito irruvidita, e resa piú concreta, dal contrasto con il nero pane, che è metafora della stessa esistenza del poeta. vv. -. alla visione dei richiami della vita attiva (che vogliono ch’ami e che vada), il poeta contrappone quella di un bianco, che fa da contrappunto a quello della nebbia, il bianco della strada, che un giorno il suo cadavere dovrà percorrere per recarsi al cimitero, accompagnato dal suono delle campane a morto. vv. -. involale al volo / del cuore: «sottraile al palpito del cuore», all’irruzione del dolore che la

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LA NUOVA ITALIA

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del cuore! Ch’io veda il cipresso là, solo, qui, solo quest’orto, cui presso sonnecchia il mio cane.

memoria arreca (con la figura etimologica, che riporta l’atto dell’«involare», letteralmente, all’immagine del volo). Una stesura manoscritta recita invece: «nascondimi ciò che si spera, oh! ciò che non è!». vv. -. il cipresso (simbolo di morte) e l’orto

(spazio chiuso, qui domestico, per eccellenza) definiscono infine i limiti estremi (là… qui) che lo sguardo non vuole oltrepassare; cui presso è un’anastrofe (o inversione), con la preposizione spostata dopo il pronome: «accanto al quale».

La bicicletta

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Il viaggiare in bicicletta allegoria della vita

Una corsa dentro la realtà

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er il tema di questo componimento (pubblicato la prima volta nella raccolta dei Canti di Castelvecchio del 1903), dedicato al nuovo mezzo meccanico che cominciava ad avere grande diffusione negli ultimi anni del secolo XIX, il Pascoli tenne probabilmente presenti due componimenti in latino, Bicycula e In re cyclistica, di Luigi Graziani (1838-1916), concorrente al concorso di Amsterdam nel 1900 e nel 1902, e la novella di Alfredo Panzini La bicicletta di Niní, inclusa da Pascoli stesso nella seconda edizione dell’antologia Nel limitare (ma cfr. DATI, tav. 169 Bicicletta e letteratura, pag. 4). Il viaggiare in bicicletta si pone qui come allegoria della vita dell’uomo, del trascorrere rapido ed effimero entro la varietà della natura, delle situazioni e delle esperienze umane, tra presenze e incontri partecipi o indifferenti: viaggiare e rimanere immobili equivalgono comunque a un addio, a un rapido perdersi; ma in questa vanità c’è comunque una gioia, data dal piacere di immergersi nel mondo, che si smorza nel lento affacciarsi della notte che la bicicletta attraversa con il suo fanalino e con il suo campanello (e nel finale la bicicletta può apparire anche come un simbolo della poesia, luce che brilla nel buio della vita). Al di là di questi caratteri allegorici e simbolici, questa poesia offre una suggestiva serie di immagini della realtà, in mezzo a cui velocemente trascorre il poeta alla guida della bicicletta: c’è una originalissima visione in corsa delle cose, ci sono rapidi e fuggevoli scambi con gli esseri umani incontrati, c’è un rivolgersi e confondersi della parola scambiata in movimento con persone diverse (che finisce per raggiungere sempre, proprio per effetto del movimento, persone diverse da quelle a cui era diretta). Il procedere della bicicletta fa sí che l’occhio e l’orecchio del poeta possano sentire, da dentro, il fremito interno della realtà, l’affacciarsi di mosse e di sensazioni fuggevoli e inafferrabili, il manifestarsi di suoni che si perdono rapidamente nell’aria (e che sono come accompagnati e raccolti insieme dal suono del campanello della bicicletta, dlin… dlin…). Nel finale questi fruscíi e queste voci della natura e degli uomini si smorzano, mentre scende la sera, nel lento rientro della bicicletta «per mezzo all’oscura città». Il componimento è articolato in tre sezioni, che si concludono tutte e tre con il ritornello onomatopeico che indica il suono del campanello (dlin… dlin…). Tutte le strofe delle prime due sezioni sono costruite su serie di immagini in opposizione. METRO: Ciascuna delle tre sezioni è composta da tre strofe di quattro versi, tre novenari piú un senario, a rima alternata (schema ABAb). Il v. 4 costituisce un’eccezione, dato che è costituito da un quinario, che però va calcolato come senario, dal momento che attrae su di sé, come prima sillaba, l’ultima del verso precedente (come se fosse «… lo strepe / re cupo del fiume»), che solo cosí rima con il v. 1 (siepe / strepe).

T. GIOVANNI PASCOLI. CANTI DI CASTELVECCHIO

 I

Mi parve d’udir nella siepe la sveglia d’un querulo implume. Un attimo… Intesi lo strepere cupo del fiume. 



Mi parve di scorgere un mare dorato di tremule mèssi. Un battito… Vidi un filare di neri cipressi. Mi parve di fendere il pianto d’un lungo corteo di dolore. Un palpito… M’erano accanto le nozze e l’amore. dlin… dlin… II



Ancora echeggiavano i gridi dell’innominabile folla; che udivo stridire gli acrídi su l’umida zolla. Mi disse parole sue brevi qualcuno che arava nel piano:

v. . Mi parve: questa forma è ripetuta all’inizio di ciascuna delle tre strofe della sezione iniziale della poesia. All’interno della sezione si hanno simmetrie molto precise: forme sdrucciole cadono nella medesima posizione, all’interno del secondo verso della prima e della seconda strofa (quèrulo, trèmule), e soprattutto, all’inizio del terzo verso di ciascuna strofa, sempre con sostantivi singolari preceduti da articolo indeterminativo (Un attimo…, Un battito…, Un palpito…), seguiti da puntini di sospensione e da una forma verbale, o direttamente in prima persona (Intesi, Vidi), o con riferimento alla prima persona (M’erano accanto). Ogni strofa è costruita su un’opposizione, fra i primi due versi e gli altri due: uccello/fiume (tempo come istante/tempo come ciclo), grano/cipressi (vita/morte), funerali/nozze. Sono opposizioni che tendono in realtà a mostrare l’identità dei due termini e che in modi diversi si riproporranno nelle sezioni successive. v. . il verso querulo (lamentoso) che emette un uccellino appena nato, senza piume (implume), al suo risveglio. v. . Un attimo: indica il mutare veloce del paesaggio al passare in bicicletta; strepere: «rumoreggia-

re» (latinismo); per il valore metrico che la parola acquista in questo verso, si veda l’introduzione. v. . fiume: la figura del fiume nel Pascoli ha spesso valore di simbolo dello scorrere del tempo e della vita; il Nava rimanda, tra i Canti di Castelvecchio, a Il ciocco, II, -: «Tempo sarà (ma è! poi ch’ il veloce / immobilmente fiume della vita / è nella fonte, sempre, e nella foce)». vv. -. mare … mèssi: biondi campi di grano ondeggianti come il mare. vv. -. la corsa in bicicletta sembra passare attraverso un corteo funebre (quasi fendendo il pianto, perforando il dolore del lutto). vv. -. la bicicletta si è appena allontanata dalla folla, dal confuso mondo cittadino (innominabile, perché non si riesce a riconoscervi gli individui, e dunque a nominarli), di cui echeggiano ancora i gridi; liberato dal rapporto con la folla, il poeta è entrato subito in contatto con la natura campestre. Gli stridi degli acrídi (grecismo per «cavallette») si oppongono ai gridi della folla cittadina. Notare nel v.  la serie allitterativo-onomatopeica in -d-i-), che porta il poeta a utilizzare, al posto del piú consueto stridere, la forma arcaica stridire.

EPOCA









LA NUOVA ITALIA

-

tu, quando risposi, tenevi la falce alla mano. Io dissi un’alata parola, fuggevole vergine, a te; la intese una vecchia che sola parlava con sé. dlin… dlin… III



Mia terra, mia labile strada, sei tu che trascorri o son io? Che importa? Ch’io venga o tu vada, non è che un addio! Ma bello è quest’impeto d’ala, ma grata è l’ebbrezza del giorno. Pur dolce è il riposo… Già cala la notte: io ritorno.



La piccola lampada brilla per mezzo all’oscura città. Piú lenta la piccola squilla dà un palpito, e va… dlin… dlin…

v. . il passaggio dalla terza persona (qualcuno) alla seconda (tu) rende l’effetto del rapido passaggio dall’incontro con l’aratore (che ha rivolto qualche parola al poeta ciclista) a quello con il falciatore (a cui va la risposta riferita invece alla domanda precedente): qui insomma c’è opposizione tra autore della domanda e destinatario della risposta. v. . alata. nel senso di «sublime» e di «fugace»: perché rivolta alla fuggevole vergine (fuggevole perché apparsa fugacemente), e dunque spiritualizzata, ma anche perché detta al volo, passando in bicicletta; evidente l’opposizione tra la vergine a cui la parola si rivolge e la vecchia che la ascolta. v. . con sé: fra sé e sé.

v. . labile: che scorre, fuggevole (aggettivo frequente in Pascoli). v. . trascorri: «passi velocemente, scorri via». Come può capitare a chi si trova su di un mezzo di trasporto in movimento, il poeta si domanda se è lui stesso a muoversi o se è la strada a scorrere. v. . impeto d’ala: immagine della velocità. v. . grata: «gradita, gradevole». L’ebbrezza del giorno indica qui un aspetto positivo della vita, sentita in un puro stato d’inebriamento, nella scoperta della velocità. v. . lampada: il fanalino della bicicletta. v. . piccola squilla: il campanello.

Il gelsomino notturno

Q

uesta poesia fu pubblicata per la prima volta in un opuscolo per le nozze di Gabriele Briganti, bibliotecario di Lucca e amico del Pascoli (21 luglio 1901): ma la sua ideazione risale ad abbozzi composti alla fine del 1897 o all’inizio del 1898. All’edizione nella raccolta dei Canti di Castelvecchio Pascoli aggiunse al testo una nota in cui si indicava un legame tra il tema della poe-

T. GIOVANNI PASCOLI. CANTI DI CASTELVECCHIO

sia e il concepimento del primo figlioletto nato dal matrimonio, Dante Gabriele Giovanni: «E a me pensi Gabriele Briganti risentendo l’odor del fiore che olezza nell’ombra e nel silenzio: l’odore del gelsomino notturno. In quelle ore sbocciò un fiorellino che unisce (secondo l’intenzione sua), al nome d’un dio e d’un angelo, quello d’un povero uomo: voglio dire, gli nacque Dante Gabriele Giovanni». Risulta cosí evidente il valore simbolico (in collegamento con le nozze e con il concepimento) che viene attribuito al fiore che dà il titolo alla poesia (si tratta del gelsomino di Spagna, detto anche «bella di notte», che fiorisce d’estate, e ha grandi fiori a imbuto, bianchi all’interno e rossi all’esterno, che si aprono sul tramontare del sole): lo schiudersi dei petali del fiore, nell’umidità della sera, si pone come immagine del contatto tra gli sposi, dello svelarsi di una segreta intimità, dello stesso rapporto sessuale. Ma questa tematica sessuale si svolge con un passaggio continuo di sensazioni e di figure, con un uso particolarmente suggestivo dell’analogia, che in ogni figura fa balenare piú significati e piú possibilità: nell’insieme della poesia sembra rivelarsi e nascondersi qualcosa di misterioso, di segreto, di inafferrabile e non definibile fino in fondo. Nella figura del fiore si sovrappongono suggestioni di vario genere, ricavate dalla tradizione letteraria e dalla poesia contemporanea (anche con qualche richiamo a D’Annunzio). Di un «gelsomino rampicante al muro» Pascoli stesso aveva parlato in una delle Myricae (Nel giardino); e un «gelsomino notturno» era stato collegato alla situazione coniugale in una poesia di Guido Mazzoni (1859-1943), A mia moglie, che Pascoli aveva compreso nell’antologia Fior da fiore. Il movimento delle analogie si svolge dall’iniziale aprirsi dei fiori notturni al loro richiudersi all’alba, ma con una modificazione, con il covarsi dentro di essi di una felicità nuova. Questo percorso dall’aprirsi al chiudersi dei fiori si dà attraverso due serie parallele di immagini: quella relativa al mondo vegetale e naturale, con tutto un succedersi di vibrazioni, di fremiti, di indefiniti movimenti, di silenzi e di stasi, che si svolgono nella notte, e quella relativa al mondo umano, a ciò che avviene in una casa abitata da movimenti segreti (in cui non si riescono a scorgere le figure umane: l’unica immagine umana si affaccia in una similitudine, al v. 8). Le immagini prevalenti sono quelle della prima serie: mentre quelle della casa balenano rapidamente solo nella seconda, nella terza e nella quinta quartina. Le immagini vegetali e naturali si raccolgono intorno a quella del fiore, il cui nome non compare dentro la poesia, ma la cui immagine si presenta, oltre che all’inizio (accompagnata da quella di fiori diversi, i viburni), nella terza e nell’ultima quartina (ma l’odore che dai suoi «calici aperti si esala», si prolunga e si espande con il vento nella quinta strofa): intorno al corpo fisico e agli odori del fiore (i cui petali appaiono alla fine un poco gualciti, come dopo aver subito un contatto che li ha arricchiti di vita ma li ha anche un po’ sciupati) si affacciano presenze animali caratterizzate da una dolce e sfuggente leggerezza (le farfalle nella prima quartina, gli uccelli che dormono nella seconda, l’ape tardiva, accompagnata in cielo dalle Pleiadi, presentate con una metafora tratta dal mondo animale, nella quarta). In tutto questo succedersi di immagini vibra sempre qualcosa che si scopre e si nasconde; si annuncia l’affacciarsi di un segreto che si sfiora e si perde, il raccogliersi di qualcosa di intimo e felice, ma anche inquietante, che la voce poetica guarda come da lontano, come se si trovasse a spiare quella vibrante realtà, rimanendo nascosta in un suo spazio appartato, dominato dalla presenza del ricordo e della morte. L’io del poeta si affaccia solo al v. 2, collegando le immagini che cominciano a svolgersi al momento della sera, in cui egli pensa ai suoi cari: e segni di morte appena accennati balenano al v. 12 (le fosse) e al v. 23 (l’urna è il luogo intimo in cui si raccoglie la nuova vita che sorge, ma nel linguaggio classico è anche urna funebre). In realtà in tutta la poesia non c’è immagine in cui non si condensino insieme il richiamo inquietante del sesso, il suo legame con la morte, l’angoscia per la vita che fugge e si perde, la gioia dell’intimità piú tenera e raccolta, l’immersione dei sensi nella realtà fisica della natura, la suggestione della notte e dei segreti che nasconde, il bisogno di quiete, di protezione e di chiusura (quest’ultimo indicato dall’immagine dei nidi al v. 7, delle celle al v. 14, ancora dell’urna al v. 23). METRO: sei quartine di novenari a rima alternata, con diverso ritmo (i primi due accentati sulla seconda, quinta e ottava sillaba, «E s’àprono i fiòri nottúrni»; gli altri due sulla terza, quinta e ottava sillaba, «Sono appàrse in mèzzo ai vibúrni»).



Il gelsomino immagine del rapporto sessuale

Movimento analogico

Succedersi di immagini della natura

Morte e vita

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EPOCA





LA NUOVA ITALIA

-

E s’aprono i fiori notturni, nell’ora che penso a’ miei cari. Sono apparse in mezzo ai viburni le farfalle crepuscolari. 







Da un pezzo si tacquero i gridi: là sola una casa bisbiglia. Sotto l’ali dormono i nidi, come gli occhi sotto le ciglia. Dai calici aperti si esala l’odore di fragole rosse. Splende un lume là nella sala. Nasce l’erba sopra le fosse. Un’ape tardiva sussurra trovando già prese le celle. La Chioccetta per l’aia azzurra va col suo pigolío di stelle. Per tutta la notte s’esala l’odore che passa col vento. Passa il lume su per la scala; brilla al primo piano: s’è spento. È l’alba: si chiudono i petali

v. . la congiunzione iniziale dà il senso della continuità con qualcosa di non detto, che precede la poesia. v. . il crepuscolo viene indicato come l’ora della memoria e del desiderio (cfr. il celebre inizio del canto VIII del Purgatorio: «Era già l’ora che volge il disio / ai navicanti e ’ntenerisce il core»), che per Pascoli è soprattutto quello dei cari perduti. v. . viburni: piante con grandi fiori bianchi, volgarmente dette palle di neve. v. . farfalle crepuscolari: le farfalle notturne ricorrono spesso nel Pascoli, e indicano per lo piú l’indissolubile nesso di Amore e Morte: «da un lato esse esibiscono emblemi di morte, dall’altro cooperano al processo di fecondazione dei fiori» (Nava). v. . gridi: quelli degli uccelli. v. . una casa bisbiglia: per metonimia: a bisbigliare (amorosamente) sono persone indefinite (la coppia degli sposi), non la casa dentro cui esse si trovano. v. . come al verso precedente, i nidi (che corrispondono alla casa) indicano gli uccelli che dormono dentro di essi. vv. -. il profumo dei gelsomini notturni, che si diffonde dai loro calici aperti, richiama al poeta quello delle fragole, rosse come il gelsomino. Esa-

lare è verbo molto caro a Pascoli, per esprimere sottili suggestioni sensuali (esso si trova, nella stessa forma riflessiva, s’esala, anche nella poesia Nel giardino, dove è presente il gelsomino); il riferimento all’odore, che qui attira gli insetti, ricorre in Pascoli per lo piú «in situazioni di celato turbamento erotico» (Nava). La suggestione di queste parole («si esala / l’odore»), rafforzata dall’enjambement, si ripropone con la loro ripetizione ai vv. -, nella stessa posizione. vv. -. intreccio di vita (colta nell’intimità della casa illuminata, e nello stesso crescere continuo dell’erba) e di morte (l’erba cresce sulle fosse, che indicano le tombe). v. . tardiva: ritardataria, al punto da trovare occupate tutte le celle dell’alveare. vv. -. la «Chioccia» (diminutivo Chioccetta) è nome popolare dato alla costellazione delle Plèiadi; l’aia azzurra è dunque quella del cielo, mentre il luccicare delle stelle si trasforma, per uno stretto processo di sinestesia, e soprattutto, per l’influenza della metafora popolare della Chioccetta, nel suono intermittente (il pigolío) emesso dai pulcini. vv. -. lo sguardo si rivolge di nuovo all’interno della casa nuziale, con il muoversi e poi lo spegnersi della luce (affacciatasi al v. ), che allude alla situazione amorosa.

T. GIOVANNI PASCOLI. CANTI DI CASTELVECCHIO



un poco gualciti; si cova, dentro l’urna molle e segreta, non so che felicità nuova. v. . urna: è l’ovario del fiore, qui felice perché fecondato (ma la parola fa pensare anche all’urna funebre).

La tessitrice

l

a raccolta dei Canti di Castelvecchio si chiude con nove componimenti, inseriti in una sezione apposita dal titolo Il ritorno a San Mauro (legato a un progetto mai realizzato di un libro di Canti di San Mauro): tutti sono dedicati a una «poesia del ritorno e della memoria», suscitata da un ritorno al paese natale, a luoghi legati all’infanzia del poeta, che fanno affiorare apparizioni e ricordi di persone care. La tessitrice, la terza tra queste nove poesie, apparve la prima volta su «Il Marzocco» del 18 aprile 1897 (insieme a quella che la precede nell’edizione dei Canti, La messa). Qui l’atto di sedersi sulla panchetta di un telaio fa emergere l’immagine di una fanciulla morta, che soleva tessere la tela e che forse il poeta ha amato nel lontano passato. È immediato il richiamo alla poesia di Leopardi, al motivo in essa essenziale del ritorno e del ricordo di persone morte: La tessitrice è prima di tutto una riscrittura di A Silvia, evocazione di una fanciulla amata intenta al lavoro del telaio (in cui l’immagine del rapporto amoroso è del tutto vaga e indeterminata). In Leopardi la figura della fanciulla si definisce nella memoria con assoluta nitidezza, in una misura di classica musicalità, entro l’evocazione di un momento di vita passata e nel compianto per ciò che essa non ha avuto, nella protesta per l’inganno della natura; qui invece si ha l’apparizione di una figura che ripete i gesti del passato in un vuoto inquietante, in un’assenza di colore e di luce, in un succedersi di gesti muti e senza suono. Alle domande angosciate del poeta, accompagnate dal pianto, la fanciulla risponde piangendo, ricordando di essere un fantasma, di essere viva solo nel cuore del poeta, di star tessendo solo per lui, in attesa che egli si riunisca a lei nella morte. Il dialogo amoroso (con formule del linguaggio sentimentale e melodrammatico) si svolge nell’angoscia di una situazione funebre e spettrale, si riconosce possibile solo nell’assenza di vita. È facile notare come all’essenzialità della parola e della situazione del canto leopardiano si oppongano qui un sentimentalismo ridondante e un ritmo addirittura da cantilena, con frequentissime ripetizioni di vocaboli, con l’uso di modi melodrammatici (come per esempio il v. 9 e l’ultimo verso). Al carattere da melodramma e da ballata popolare contribuisce anche il metro. METRO: tre strofette doppie (quartina + terzina di quinari doppi, tranne l’ultimo verso della quartina, che è un quinario semplice, secondo lo schema ABAa CBC: ma il quinario semplice a ripete in rima la parola in rima del primo verso A): a queste tre strofette doppie succede una sola quartina finale, sempre di quinari doppi, ma con rima alternata.

Mi son seduto su la panchetta come una volta… quanti anni fa? v. . panchetta: quella del telaio. vv. -. notare l’indeterminatezza del dato tempo-

rale (quanti anni fa?), accompagnata dall’evocazione altrettanto indeterminata di Ella (la tessitri-

Poesia del ritorno e della memoria

Riscrittura di A Silvia

Il dialogo amoroso nell’angoscia della morte

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EPOCA





LA NUOVA ITALIA

-

Ella, come una volta, s’è stretta su la panchetta. 



E non il suono d’una parola; solo un sorriso tutto pietà. La bianca mano lascia la spola. Piango, e le dico: Come ho potuto, dolce mio bene, partir da te? Piange, e mi dice d’un cenno muto: Come hai potuto? Con un sospiro quindi la cassa tira del muto pettine a sé. Muta la spola passa e ripassa.







Piango, e le chiedo: Perché non suona dunque l’arguto pettine piú? Ella mi fissa timida e buona: Perché non suona? E piange, e piange – Mio dolce amore, non t’hanno detto? non lo sai tu? Io non son viva che nel tuo cuore. Morta! Sí, morta! Se tesso, tesso per te soltanto; come, non so; in questa tela, sotto il cipresso, accanto alfine ti dormirò –

ce, che solo alla fine si scoprirà poi essere un fantasma), colta però in un gesto concreto (lo stringersi per far posto all’amico). v. . spola: la canna di legno, su cui si avvolge il filo da tessere. v. . Piango, e le dico: cfr. Dante, Inferno, V, : «dirò come colui che piange e dice», e XXXIII, : «parlare e lagrimar vedrai insieme» (Perugi). v. . «fa pensare a un’arietta d’opera» (Nava). v. . cassa: parte del telaio, che contiene il pettine,

attraverso cui passano i fili dell’ordito. vv. -. la scena si svolge in un silenzio funereo, in cui gli strumenti da lavoro della tessitura (il pettine e la spola) si muovono muti, proprio per l’immaterialità dell’apparizione. v. . arguto: sonoro (dal latino argutus, per cui si può rinviare all’Eneide, VII, , «arguto… percurrens pectine telas», “percorrendo le tele col pettine sonoro”).

T. GIOVANNI PASCOLI. POEMI CONVIVIALI



Poemi Conviviali Alexandros

Q

uesto poemetto apparve la prima volta sul secondo numero della rivista di Adolfo De Bosis, «Il Convito», nel febbraio 1895. Pascoli vi fa uso dello schema per lui consueto della terzina dantesca: le terzine vengono però distribuite in 6 brevi sezioni di 10 versi ciascuna (3 terzine, piú il verso che si aggiunge come clausola ai capitoli in terza rima). Il tema è attinto dalla storia antica, secondo quel gusto di rappresentazione dell’antico in chiave estetizzante che domina i Poemi Conviviali: si immaginano le impressioni del grande conquistatore Alessandro Magno (indicato nel titolo con la trascrizione della forma greca, Alexandros) nel momento in cui giunge all’oceano Indiano, a quelli che per l’antichità sono i limiti della terra. Agli elementi ricavati dalla cultura classica si aggiunge l’eco delle leggende medievali, che Pascoli conosceva bene, nelle quali le gesta e i comportamenti dell’antico eroe venivano assimilate a quelle dei cavalieri del romanzo medievale. E in realtà l’Alessandro del Pascoli esprime, in un linguaggio classicheggiante, in cui si inseriscono vocaboli preziosi ed eruditi, spesso direttamente modellati sul greco, una sensibilità del tutto moderna. Questa si manifesta nella delusione per i limiti dell’umano, per l’impossibilità di placare un desiderio di gloria e d’avventura, che, al di là della meta raggiunta, cerca sempre mete ulteriori e irraggiungibili: la ragione essenziale di questa ansia insuperabile, che pesa su tutta la vicenda di Alessandro e che rende insoddisfacenti i suoi stessi prodigiosi successi, si riconosce nell’illimitatezza del sogno, nel suo aprire orizzonti misteriosi che vanno al di là dei limiti della realtà fisica. E per questo, alla gloria della conquista, del potere e del dominio, ai rumori della guerra e dell’avventura, si oppone la vita appartata e chiusa delle sorelle e della madre di Alessandro, fuori dai clamori del mondo, intente al lavoro domestico, a seguire sogni interiori che non hanno bisogno di realizzarsi in nessuna conquista, ad ascoltare il respiro segreto della natura (sotto il cui segno il poemetto si chiude). Le sei parti di Alexandros si susseguono seguendo un ben definito ordine tematico: il poemetto inizia dando direttamente la parola ad Alessandro, che, giunto ai limiti estremi della terra, medita sulla propria vicenda e sulla impossibilità di portare fino in fondo il suo illimitato desiderio di avventura e di gloria. Nelle prime quattro parti la parola resta ad Alessandro: la prima insiste sul raggiungimento del limite, indicato fin dal primo verso; nella seconda lo sguardo del conquistatore si rivolge ai luoghi e agli spazi fisici attraversati, constatando la superiorità del sogno sulla realtà; la terza è dedicata al ricordo della vitalità e degli ardori della sua prima giovinezza; la quarta al ricordo del canto che aveva accompagnato la sua partenza per le imprese e che sembrava spingerlo a un procedere senza fine. Nella quinta parte, la parola passa all’autore, che descrive il pianto di Alessandro e il suo ascolto dei suoni misteriosi e delle forze segrete della natura; la sesta parte ci porta lontano da Alessandro, nelle montagne dell’Epiro, dove le sorelle e la madre vivono una vita separata dal mondo, chiusa in spazi intimi e limitati, affidata al sogno e a un intimo ascolto delle voci della natura (alla ripetizione egli ode dei vv. 47-48, a proposito dei violenti fragori che Alessandro sente echeggiare dentro di sé, si raccorda quella di ascolta, vv. 58-59, a proposito dei piú tenui mormorii e bisbigli a cui si rivolge l’orecchio della madre Olympiàs). METRO: sei sezioni di dieci versi ciascuna a rime incatenate (ogni volta tre terzine piú il verso che suole chiudere i componimenti in terza rima).

Alessandro Magno tra cultura classica e leggende medievali

L’illimitatezza del sogno Le altre vie di vita: l’operare pacifico e il sogno

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EPOCA





LA NUOVA ITALIA

-

I

– Giungemmo: è il Fine. O sacro Araldo, squilla! Non altra terra se non là, nell’aria, quella che in mezzo del brocchier vi brilla, 

o Pezetèri: errante e solitaria terra, inaccessa. Dall’ultima sponda vedete là, mistofori di Caria, l’ultimo fiume Oceano senz’onda. O venuti dall’Haemo e dal Carmelo, ecco, la terra sfuma e si profonda



dentro la notte fulgida del cielo. II

Fiumane che passai! voi la foresta immota nella chiara acqua portate, portate il cupo mormorío, che resta. 

Montagne che varcai! dopo varcate, sí grande spazio di su voi non pare, che maggior prima non lo invidïate. Azzurri, come il cielo, come il mare, o monti! o fiumi! era miglior pensiero ristare, non guardare oltre, sognare:

v. . il Fine: il confine dei confini, il limite estremo della terra. Alessandro invita l’Araldo (sacro perché tali gli araldi venivano considerati nell’antica Grecia) a suonare la tromba per dare l’annuncio di questo arrivo. vv. -. non rimane altra terra da conquistare se non la luna, la cui immagine brilla in mezzo allo scudo (brocchier) dei soldati della fanteria pesante macedone (Pezetèri): la luna viene designata come errante rovesciando una ben nota situazione lirica leopardiana, quella del Canto notturno d’un pastore errante nell’Asia (dove errante era il pastore dell’Asia, non già la luna a cui egli si rivolgeva), solitaria perché unico corpo in forma di terra visibile nel cielo, e inaccessa, inaccessibile agli esseri umani. Si noti l’allitterazione in -r, che si prolunga fino al v. . v. . mistofori di Caria: mercenari (parola greca), provenienti dalla Caria, una regione dell’Asia Minore. v. . tutto l’Oceano era considerato dagli antichi come un fiume che circonda la terra (qui senz’onda, non agitato dalle onde) e ne costituisce appunto il limite estremo: notare la ripetizione dell’aggettivo ultimo, al v.  e al v. . v. . Alessandro si rivolge ai suoi soldati, venuti dai

punti piú disparati del suo impero: Haemo è una catena montuosa della Macedonia; Carmelo è un monte della Palestina. vv. -. nel suo confine estremo, la terra non può che dileguarsi, confondendosi con il buio del cielo, con la notte fulgida, risplendente della luce delle stelle. vv. -. le fiumane (fiumi ampi) portano, rispecchiata dentro di sé, l’immagine degli alberi della foresta, immota in contrasto con lo scorrere dell’acqua. Questa coincidenza tra il flusso e l’immobilità viene ribadita dal richiamo al cupo mormorío provocato dallo scorrere dell’acqua, che permane senza mai smettere (che resta). vv. -. una volta varcate, dalla vostra cima (di su voi) non appare uno spazio cosí ampio, che appaia maggiore di quello che, prima di varcarvi, sembravate negare (invidiare, negare), nascondere alla vista; insomma, dal basso le montagne paiono delimitare spazi e orizzonti piú ampi di quelli che possono vedersi una volta saliti su di esse. Il poeta sottolinea in questo modo la sfasatura fra la realtà effettiva e il desiderio che la investe (e vedi piú oltre, v. ). vv. -. meglio sarebbe stato star fermi (ristare) e sognare, senza spingere lo sguardo sempre oltre,

T. GIOVANNI PASCOLI. POEMI CONVIVIALI





il sogno è l’infinita ombra del Vero. III

Oh! piú felice, quanto piú cammino m’era d’innanzi; quanto piú cimenti, quanto piú dubbi, quanto piú destino! 

Ad Isso, quando divampava ai vènti notturno il campo, con le mille schiere, e i carri oscuri e gl’infiniti armenti. A Pella! quando nelle lunghe sere inseguivamo, o mio Capo di toro, il sole; il sole che tra selve nere,



sempre piú lungi, ardea come un tesoro. IV

Figlio d’Amynta! io non sapea di meta allor che mossi. Un nomo di tra le are intonava Timotheo, l’auleta: 

soffio possente d’un fatale andare, oltre la morte; e m’è nel cuor, presente come in conchiglia murmure di mare. O squillo acuto, o spirito possente, che passi in alto e gridi, che ti segua! ma questo è il Fine, è l’Oceano, il Niente…

in cerca di nuovi limiti. v. . il sogno, virtualmente infinito, viene opposto alla realtà limitata: esso è ombra di un Vero, di cui moltiplica all’infinito le parvenze. vv. -. Alessandro, dopo aver «varcato» tutti i limiti, dichiara la felicità della condizione precedente alla realizzazione dell’esperienza, delle sue avventure e delle sue conquiste, opponendola al suo stato attuale di appagamento forzato (in cui non vi sono piú cimenti da superare, dubbi da risolvere, destino da compiere). v. . Isso: località dell’Asia Minore, dove Alessandro sconfisse Dario III, nel  a.C. La terzina offre una visione dell’accampamento nemico in preda al fuoco nella notte, con il vento che soffia sulle fiamme, facendole divampare. vv. -. Pella è la capitale della Macedonia, che diede i natali ad Alessandro, che qui si riferisce agli anni giovanili e alle corse sfrenate effettuate sul cavallo Bucefalo, il cui nome Pascoli traduce letteralmente (Capo di toro).

vv. -. il sole penetrava a stento nel fitto della foresta, e ardeva sempre piú lontano, come un tesoro agognato. v. . Figlio d’Amynta!: vocativo, si riferisce a Filippo II, padre di Alessandro e figlio di Aminta III. Al momento di partire per le sue imprese, il condottiero non poteva conoscerne la meta (la parola riprende il tema del Fine e del limite). vv. -. Timoteo, cantore e suonatore di flauto (auleta), intonava un canto liturgico (nomo) fra gli altari, al momento della partenza di Alessandro (si tratta di un personaggio che accompagnò con la sua musica le nozze di Alessandro e Rossane). vv. -. soffio: il nomo è come un soffio, che pare spingere fatalmente Alessandro sempre piú avanti, al di là dei limiti della morte. v. . murmure di mare: il canto dell’auleta resta nel cuore di Alessandro, come il suono del mare sembra rimanere nelle conchiglie (quelle conchiglie spiraliformi in cui si dice si possa sentire il rumore del mare accostandovi l’orecchio).

EPOCA







LA NUOVA ITALIA

-

e il canto passa ed oltre noi dilegua. – V

E cosí piange, poi che giunse anelo: piange dall’occhio nero come morte; piange dall’occhio azzurro come cielo. 

Ché si fa sempre (tale è la sua sorte) nell’occhio nero lo sperar, piú vano; nell’occhio azzurro il desiar, piú forte. Egli ode belve fremere lontano, egli ode forze incognite, incessanti, passargli a fronte nell’immenso piano,



come trotto di mandre d’elefanti. VI

In tanto nell’Epiro aspra e montana filano le sue vergini sorelle pel dolce Assente la milesia lana. 

A tarda notte, tra le industri ancelle, torcono il fuso con le ceree dita; e il vento passa e passano le stelle. Olympiàs in un sogno smarrita ascolta il lungo favellío d’un fonte, ascolta nella cava ombra infinita.



le grandi quercie bisbigliar sul monte.

v. . il canto (il nomo di Timoteo) oltrepassa i confini stessi, di fronte ai quali Alessandro ha dovuto finalmente arrestarsi: può perdersi nel Niente, nell’ignoto posto oltre noi. v. . dopo il lungo monologo di Alessandro si passa qui alla terza persona narrativa; anelo, anelante, affannato, per l’incessante desiderio di conoscenza. vv. -. secondo la leggenda, gli occhi di Alessandro avevano colori diversi l’uno dall’altro. A essi Pascoli attribuisce il potere di riflettere due opposti sentimenti: in quello nero c’è la speranza di poter andare sempre piú avanti, che si dimostra però sempre piú vana; in quello azzurro, il desiar, il desiderio di travalicare i limiti, sempre piú forte e inappagabile. v. . forze … incessanti: quelle della natura, che mostrano ad Alessandro i suoi limiti. v. . Epiro: regione montuosa della Grecia.

v. . milesia: di Mileto, città dell’Asia Minore, dove si producevano lane pregiate, che le sorelle filano per Alessandro, che è l’Assente. v. . industri: laboriose. v. . ceree: del colore della cera. v. . indica il trascorrere della notte, quando cala il vento e poi si spengono le stelle per il sopravvenire del chiarore dell’alba: in questo passare che segue il ritmo della natura si riflette il passare del tutto diverso, segnato dal desiderio della gloria e dell’avventura, dei vv.  e . v. . Olympiàs: la madre di Alessandro, che secondo lo storico Plutarco aveva un carattere incline alla fantasticheria. v. . favellío: il mormorío della sorgente assume caratteri quasi umani (favellío è come il rumore della favella, cioè della parola). v. . cava ombra infinita: la notte, che tutto raccoglie nella sua immensa e scura «cavità».

˜ TESTI

9.8 L’ALBA DEL NUOVO SECOLO Gian Pietro Lucini Nuova Ballata in onore degli Imbecilli di tutti i Paesi (da Revolverate)

s

i riporta qui la parte iniziale di una sarcastica ballata (che fa parte dell’ampia sezione Scherzi della raccolta Revolverate), costituita in tutto da 175 versi liberi, in cui Lucini esprime tutto il suo violento disprezzo per il perbenismo e il conformismo borghese, per coloro che vivono seguendo comportamenti convenzionali, adeguandosi ai luoghi comuni e ai modelli di vita dominanti. Gli imbecilli sono coloro che frequentano in buona coscienza le grandi istituzioni in cui si celebrano i riti del vivere borghese (il Bordello, la Chiesa e il Palazzo del v. 10), completamente privi di spirito critico, ostinati a perseguire fino in fondo il proprio conformismo (e nel prosieguo di questo testo Lucini metterà in luce il carattere dannoso e rovinoso dell’imbecillità, la crudeltà e l’ottusa sicurezza che l’imbecille nasconde sotto certa sua apparente e puerile dolcezza). Particolare è l’insistenza con cui Lucini rivolge la propria aggressività contro i letterati che usano la poesia come strumento di seduzione e contro il pubblico femminile che li applaude: suo obiettivo principale è il dannunzianesimo in tutte le sue forme, insieme a tutta la letteratura che offre sensazioni a fior di pelle, deliri esteriori, eleganze artificiali e posticce. Il tema dell’imbecillità e della stupidità era stato, d’altra parte, già variamente presente nella letteratura dell’Ottocento (in primo luogo in Flaubert e nel suo celebre Bouvard et Pécuchet): e si porrà piú volte all’attenzione della letteratura del Novecento (da Robert Musil, cfr. CANONE EUROPEO, tav. 237, al nostro Vitaliano Brancati). Il linguaggio di questa poesia anarchica e dissacrante si identifica con quello dell’invettiva: si appoggia sulla ripetizione ossessiva e su una violenza verbale ottenuta anche attraverso l’uso di parole rare e di vere e proprie invenzioni verbali. [EDIZIONE: Gian Pietro Lucini, Revolverate e Nuove Revolverate, a cura di E. Sanguineti, Einaudi, Torino 1975] versi liberi, distribuiti in diverse unità strofiche.

METRO:

Un médecin célèbre du dernier siècle, appelé chez un grand seigneur son ami, après avoir examiné les symptômes du mal pendant longtemps et en silence, s’écria, tout à coup transporté de joie: «Ah! monsieur le Marquis, c’est une maladie perdue depuis les anciens! La pituite vitrée! Maladie superbe, mortelle au premier chef. Ah, je l’ai retrouvée». Telle était la joie de Madame; c’était en quelque sorte une joie d’artiste. Stendhal, Armance, VI Sequitur et praecurritur. Symboli loco, Dianae stellam, sibi praeferri voluit, cum lemnate; ut supra. Quels gredins que les honnêtes gens! Zola, Le Ventre de Paris

. Un médecin célèbre…: la citazione da Stendhal suona come segue, nella traduzione di Mario Bonfantini (Einaudi, Torino ): «Un celebre medico del secolo scorso, chiamato presso un gran signore suo amico, dopo aver esaminato i sintomi

del male, a lungo e in silenzio, esclamò d’un tratto, fuor di sé dalla gioia: – Ma signor marchese, è una malattia perduta fin dal tempo degli antichi! La pituita vitrificata! Una malattia superba, mortale in primo grado! E io l’ho ritrovata: l’ho ritro-

Disprezzo per il perbenismo

Aggressività contro il dannunzianesimo

Poesia anarchica e dissacrante

˜

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



LA NUOVA ITALIA

-

Gente, chi voglia udire il mirabile ardire delli Imbecilli, ritorni in Piazza, vi si congreghi e stia in molta compagnia. 

Codesta mia Ballata sincera e spassionata è al tempo grave e onesta: vi dice e vi protesta le grandi e disgraziate amenità della Gente-per-Bene.



Gente! Venite qua! La parata incomincia. Va dal Bordello, alla Chiesa, al Palazzo: vi è, ciurmatore, un Pazzo che squassa il suo berretto insonagliato, e vi ride vicino un buon Curato gonfio di cibo e di lussuria. Gente! chi voglia udire ha pur dimenticato l’abitudine antica d’arrossire.



L’Imbecilli regnano! Vi sono l’Imbecilli miti e belli, come li agnelli del mese d’Ottobre: vi son degl’Imbecilli inzimarrati, gravi e posati.



Vi sono l’Imbecilli che dipingono Galatea con un ceffo di Mammana, e i galanti Imbecilli alle sottane delle Trecche sdrajati.

vata! – Tale era appunto la gioia della Signora di Bonivet: era in certo modo una gioia d’ordine artistico». L’aneddoto era stato narrato già da Diderot nella sua Prima Satira. La citazione latina successiva, Sequitur et praecurritur…, è di difficile identificazione e potrebbe anche essere un’invenzione di Lucini (che ama giocare con le citazioni e mettere intorno ai suoi scritti riferimenti di tutti i tipi, veri e falsi, non sempre direttamente legati al tema presente); possiamo cosí tradurla: «Segue e viene preceduto: Al posto del simbolo, volle che a lui si mettesse davanti la stella Diana, con il lemma; come sopra». L’altra citazione francese, Quels gredins…, «Che canaglia la gente per bene!», è la frase finale del romanzo di Zola. v. . ardire: sostantivato: audacia. v. . vi si congreghi: vi si raduni. v. . vi protesta: vi denuncia. v. . Sanguineti cita diciassette presenze in Lucini dell’espressione Gente-per-Bene, delle quali tre in forma legata come in quest’occasione: si tratta dell’obiettivo polemico dell’intera opera luciniana, come dice a sufficienza anche l’epigrafe ricavata da Zola. vv. -. in poche battute aspramente espressionistiche Lucini dipinge una grottesca parata animata da rappresentanti della Gente-per-Bene: per il

momento, da un pazzo ciurmatore (ingannatore, impostore), che scuote un berretto a sonagli (richiamo all’usanza – di remota origine medievale – di ornare il capo dei pazzi di un berretto a sonagli) e da un osceno prete di campagna (il Curato). v. . L’articolo determinativo plurale è usato in forma antiquata (non Gli, ma Li), forse per indicare in senso a un tempo becero e arcaico il popolo immane degli Imbecilli; Lucini usa comunque spesso questa forma (cfr. subito li agnelli al v. ). v. . inzimarrati: parola coniata da Lucini: avvolti in zimarre, lunghi soprabiti dall’aspetto antiquato e logoro (Vecchia zimarra è una celebre aria della Bohème di Puccini). vv. -. inizia qui una prima strofa (ce ne saranno altre, piú brevi, in seguito) contro gli Imbecilli del mondo delle arti e delle lettere. Si comincia con gli imbecilli che dipingono Galatea (cioè una ninfa classica) in forma di Mammana (cioè di ambigua mezzana e levatrice dedita a pratiche abortive), cioè i pittori – o gli scrittori – epigoni di un naturalismo convenzionale (diverso da quello di Zola), desiderosi di adattare elementi tradizionali al proprio gusto del sordido. Anche la Mammana è una figura ricorrente nel mondo grottesco di Lucini. v. . vi sono poi gli Imbecilli galanti che soggiac-

T. L’ALBA DEL NUOVO SECOLO. GIAN PIETRO LUCINI











Vi sono dei Poeti d’annunziani di ritmi vari e zoppi ch’aman le Trecche e pagan le sottane delle Mammane, e dei cari Imbecilli di Poesia, che accoppan d’etisia Trecche e Mammane e piangono ai mortori, nei dormitori dell’impotenza. Molti Imbecilli son che veston bene, ed ingannano li occhi al luccicare: tutti i sordi Imbecilli s’inchinano allo sfoggio di questo abbigliamento, senza lamento, si lascian sopra fare. Vi sono molte specie d’Imbecilli che imberciano la Dama Putiffarre; pochi assai che si lasciano imberciare. E le Femine in coro, per il sonoro componimento, decentemente vengono meno alla grande dolcezza, applauso muto, eccezionale, redibitorio alloro, d’anime inzuccherate e dispensiere al bel lavoro dell’Efebo Poeta. L’Imbecilli preziosi sono molto ringhiosi: hanno il fegato verde d’invidia, verde come la vipera, verde come un veleno d’arsenico.

ciono al fascino fatuo delle Trecche, femminucce volgari (il sostantivo era molto caro a Carlo Dossi). vv. -. tra gli Imbecilli piú insopportabili, ovviamente, i seguaci di D’Annunzio che, tentando tutte le strade metriche, tradizionali e «barbare» («ritmi vari e zoppi»), senza voler aderire all’uso del verso libero propugnato da Lucini, non disdegnano di valersi dei servigi delle feroci Mammane per i loro futili amori con le Trecche. vv. -. ma i piú cari a Lucini sono gli Imbecilli di Poesia, i poeti lacrimevoli che mettono in scena figure femminili svenevoli, Trecche o Mammane che siano, e le fanno morire di etisia, cioè di tubercolosi, per poter meglio piangere nei mortori (funerali), giocando la carta del patetico e producendo quindi testi adatti solo a teatri che altro non sono che dormitori dell’impotenza (allude alla diffusione, nel teatro e nella letteratura del tempo, della figura della donna malata di tisi, il cui piú celebre esemplare era la Mimí della Bohème di Giacomo Puccini). vv. -. a essere bersagliati sono ora gli Imbecilli piú esteriori, solo dediti alle delizie della moda, e desiderosi di essere solo da esse abbagliati: ma attraverso di essi si allude anche ai letterati piú in voga all’epoca di Lucini, i raffinatissimi estetizzanti, dediti al «collezionismo» di immagini preziose e fini a se stesse; sopra fare è tmesi del verbo composto sopraffare, secondo l’uso, abbastanza

frequente in Lucini, di scomporre le parole composte. vv. -. Questi Imbecilli sono molto pericolosi, perché contagiano di malattie veneree (questo il senso del raro toscanismo imberciare, che deriva a sua volta da un francesismo, lett. «colpire nel segno») la Dama Putiffarre, indicata come donna lussuriosa per antonomasia (la moglie di Putifarre tenta di sedurre Giuseppe in Genesi, ). v. . pochi sono gli Imbecilli che si lasciano a loro volta imberciare. vv. -. l’immagine delle Femine che tributano l’alloro poetico all’Efebo Poeta (un vero e proprio «imberciatore» del gusto) in virtú del suo sonoro ma vacuo componimento, sentendosi venir meno dalla dolcezza, ma decentemente, rispettando le convenzioni sociali, è piena di acre rancore e violento sarcasmo contro il gusto femminile e contro la poesia di tipo decadente. L’alloro tributato all’Efebo Poeta è redibitorio, cioè dovuto a termini di legge (la voce è dotta e deriva dal gergo giuridico, indicando letteralmente l’atto del venditore che si riprende un oggetto venduto perché difettoso; Lucini la usa spesso, in modo improprio), da parte delle anime inzuccherate e dispensiere, cioè dolciastre e portate per natura all’omaggio, delle Femine. vv. -. gli Imbecilli preziosi sono probabilmente ancora i poeti estetizzanti, arrivisti e malevoli.

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

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LA NUOVA ITALIA

-

Conosco l’Imbecilli delle Antologie, colle malinconie di castrare le statue e le liriche, e di sciupare, nella melma, i fiori. Ho visto l’Imbecille a discutere Iddio senza averlo cercato ne’ fornelli chimici.





Ho visto molti Imbecilli canori come sciacalli che giuocavan, sui dadi, la prima nota e l’ultima di certe canzoni peregrine non composte ancora. Ho visto l’Imbecilli letterati, spudorati per le loro sciocchezze, menarne vanto, come un incanto d’errori di sintassi e di gramatica. Ho visto l’Imbecille al Finimondo, l’Imbecilli politici, statisti e arringa-popoli, sfacciati ed imprudenti, stolidi e paralitici.

vv. -. Lucini odia i compilatori di Antologie, i censori, gli epuratori dei classici, con le loro malinconie (desideri inesausti) di castrare le statue, di infingere e depurare la forza della poesia, e in definitiva sciuparne i fiori.

vv. -. qui allude a coloro che parlano dei grandi problemi metafisici senza avere nessuna pratica delle scienze della natura (indicate dai fornelli chimici).

T. L’ALBA DEL NUOVO SECOLO. SERGIO CORAZZINI



Sergio Corazzini Desolazione del povero poeta sentimentale (da Piccolo libro inutile)

p

ubblicata nel 1906 nel Piccolo libro inutile (che conteneva, insieme a otto componimenti di Corazzini, anche alcune poesie dell’amico Alberto Tarchiani), questa poesia è articolata in otto strofe di varia misura, in versi liberi, che sembrano svolgersi come una dichiarazione semplice e dimessa, a un livello quasi prosastico, pur lasciando affacciare di tanto in tanto dei versi regolari. In un tono desolato e sommesso, il poeta sembra qui rispondere alle richieste che vengono dal mondo esterno, a ogni pretesa di attribuire alla poesia un valore di esperienza eccezionale, assoluta: rifiutando il nome stesso di poeta, rifiuta in realtà ogni partecipazione della poesia a grandi programmi culturali, ideologici, morali. Al modello del poeta-vate, all’identificazione dannunziana della poesia con il «vivere inimitabile», Corazzini oppone la propria condizione di «piccolo fanciullo che piange»; ai clamori spettacolari della poesia che si vuole imporre al pubblico, oppone la propria stanchezza, la propria attesa e il proprio desiderio di morte, dopo una vita fatta di tristezze comuni e di semplici gioie. Questo motivo della morte era legato alla figura del fanciullo anche in una poesia dal titolo Il fanciullo, nella raccolta Le Aureole, 1905: «Tu vuoi morire, ecco, tu vuoi dormire, / solo; per sempre, con le tue corone, / sfiorite». Siamo comunque molto lontani anche dalla poetica del fanciullino del Pascoli (a cui comunque Corazzini in parte si richiama): mentre Pascoli, attraverso il fanciullino, tendeva a ritrovare un valore umano primigenio e originario, a scoprire il mistero profondo delle cose, a ricavarne alla fine un modello ideologico, il fanciullo di Corazzini vuol ridurre la poesia a voce semplice e desolata, pianto fragile e «debole», sommesso silenzio. Il poeta non ha messaggi da trasmettere, ma solo parole vane, che coincidono con le lagrime; all’energia, al vitalismo, alle tragiche esaltazioni del «nulla», egli oppone una condizione di gracilità, di fragilità, di umiltà, che raggiunge il culmine nel brano VI (con il richiamo al desiderio di essere venduto, battuto, costretto a digiunare, ridotto a piangere «in un angolo oscuro»). Si tratta di una riduzione «al minimo» della voce e della funzione del poeta, che sembra destinata solo a contemplare delicatamente lo svuotarsi delle cose e l’esaurirsi della persona. In questo c’è anche un desiderio di sacrificio, che nella parte centrale della poesia (i brani IV, V e VI) si esprime anche attraverso immagini di tipo religioso, come quella del rosario, quella della comunione, quella della croce. Questa condizione della voce poetica è certo determinata dalla malattia di Corazzini e dal senso di morte che egli sentiva incombere su di sé: ma l’esperienza personale si intreccia a varie suggestioni letterarie (da quelle dei poeti fiamminghi a quelle del D’Annunzio del Poema paradisiaco), da cui sorge una poesia che sa far parlare le cose fragili e silenziose, la vita piú povera e priva di giustificazioni. Una poesia che nega se stessa risolvendosi non nel «saper vivere» dei poeti ufficiali, ma in un inquieto «saper morire». [EDIZIONE: Sergio Corazzini, Poesie edite e inedite, a cura di S. Jacomuzzi, Einaudi, Torino 1968] METRO: versi liberi.

I

Perché tu mi dici: poeta? Io non sono un poeta. vv. -. si riprendono qui alcuni versi del poeta fiammingo Francis Jammes (-), citati da

Corazzini in una sua lettera non datata a Palazzeschi: «Penser cela est-ce être poète? / Je ne suis

Manifesto poetico

Contro il poeta vate, un «piccolo fanciullo che piange»

Contro il fanciullino pascoliano, parole vane e lagrime

Il senso della morte

˜

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





LA NUOVA ITALIA

-

Io non sono che un piccolo fanciullo che piange. Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio. Perché tu mi dici: poeta? II

Le mie tristezze sono povere tristezze comuni. Le mie gioie furono semplici, semplici cosí, che se io dovessi confessarle a te arrossirei. Oggi io penso a morire. III





Io voglio morire, solamente, perché sono stanco; solamente perché i grandi angioli su le vetrate delle cattedrali mi fanno tremare d’amore e di angoscia; solamente perché, io sono, oramai, rassegnato come uno specchio, come un povero specchio melanconico. Vedi che io non sono un poeta: sono un fanciullo triste che ha voglia di morire. IV





Oh, non maravigliarti della mia tristezza! E non domandarmi; io non saprei dirti che parole cosí vane, Dio mio, cosí vane, che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire. Le mie lagrime avrebbero l’aria di sgranare un rosario di tristezza davanti alla mia anima sette volte dolente

pas. Qu’est-ce que je suis? / Est-ce que je vis? Estce que je rêve?» (“Pensarlo è essere poeta? / Io non lo sono. Che cosa sono io? / Forse io vivo? Forse io sogno?”), dalla Prière pour que le jour de ma mort soit beau et pur (“Preghiera perché il giorno della mia morte sia bello e puro”), da Les Dimanches (“Le Domeniche”). v. . cfr. questo passo dalla lirica Nuovo messaggio, dal Poema paradisiaco di D’Annunzio: «Oh, perdonami. Io mi sento / morire. È questa, è questa oggi la sola / verità. Non so dirti altra parola / che questa. Cade ogni proponimento, / mi lascia ogni speranza. Tutto è vano» (di questo passo si sentono altri echi nella strofa IV e nell’VIII). Vari critici ricordano anche questa battuta di un personaggio della tragedia di D’Annunzio La fiaccola sotto il moggio (fine dell’atto III): «oh oh oh! sono un povero malato / oh oh! Altro non posso che

morire». vv. -. angioli … cattedrali: gli angeli raffigurati nelle grandi vetrate delle chiese soprattutto gotiche, spesso presenti nella poesia fiamminga, come in Le sanglot de la terre (“Il singhiozzo della terra”), di Jules Laforgue (-), ricordata da F. Donini: «Devant le grand rosace / En vitrail de Nôtre Dame… / Les Anges que l’Eternel embrase, / Vêtus d’inneffable et d’extase, / Vont, m’emportent dans leurs torrents!» (“Davanti al grande rosone / In vetrata di Nôtre Dame… / Gli Angeli che l’Eterno brucia, / Vestiti d’ineffabile e d’estasi, / Vanno, mi trascinano nei loro torrenti!”). vv. -. rassegnato … melanconico: l’immagine dello specchio è molto presente nella poesia simbolista. vv. -. le mie lagrime sembrerebbero sgranare un triste rosario davanti alla mia anima colpita da

T. L’ALBA DEL NUOVO SECOLO. SERGIO CORAZZINI



ma io non sarei un poeta; sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo cui avvenisse di pregare, cosí, come canta e come dorme. V



Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesú. E i sacerdoti del silenzio sono i romori, poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio. VI





Questa notte ho dormito con le mani in croce. Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo dimenticato da tutti gli umani, povera tenera preda del primo venuto; e desiderai di essere venduto, di essere battuto di essere costretto a digiunare per potermi mettere a piangere tutto solo, disperatamente triste, in un angolo oscuro. VII



Io amo la vita semplice delle cose. Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco, per ogni cosa che se ne andava! Ma tu non mi comprendi e sorridi. E pensi che io sia malato. VIII

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

Oh, io sono, veramente malato! E muoio, un poco, ogni giorno. Vedi: come le cose. Non sono, dunque, un poeta: io so che per esser detto: poeta, conviene viver ben altra vita! Io non so, Dio mio, che morire. Amen.

sette dolori: la figura del rosario (preghiera rivolta alla Madonna) suscita una analogia tra l’anima dolente del poeta e l’immagine devota della Madonna dei sette dolori (rappresentata di solito da sette spade che le trafiggono il petto). . -. ogni giorno il poeta si comunica del silenzio (come ci si comunica del corpo di Gesú): i sacerdoti del silenzio, quelli che lo invitano al si-

lenzio, sono i rumori, senza l’invadenza dei quali egli non avrebbe cercato Dio (nel silenzio si riconosce un modo di essere in contatto con Dio). vv. -. quante passioni ho visto sfogliarsi, perdere vitalità, inaridirsi, di fronte al consumarsi e allo sparire delle cose, degli oggetti a cui erano rivolte.

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



LA NUOVA ITALIA

-

Guido Gozzano La signorina Felicita ovvero La felicità (da I colloqui)

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Poeta malato

La Signorina Felicita: un mondo mediocre Desiderio di fuga dal suo mondo e dalla letteratura

Franco distacco da se stesso e dal mondo di Felicita

u pubblicata nella «Nuova Antologia» del 16 marzo 1909 con il sottotitolo Idillio, e poi nella seconda parte de I colloqui (Alle soglie): con ampia struttura narrativa, si segue un motivo letterario abbastanza diffuso nel tardo Ottocento, quello dell’amore per una ragazza di provincia, di mediocre aspetto e dai ristretti orizzonti mentali (motivo vicino a quello dell’amore per una donna brutta e malata, presente per esempio in Fosca di Tarchetti). La poesia ebbe una lunga gestazione, come mostrano alcune lettere ad Amalia Guglielminetti del 3 agosto 1907 e del 12 novembre 1907, e al De Frenzi del 23 ottobre 1908 («Volevo farne una prosa, abbondante come un romanzo; ma non un romanzo, bensí tanti brevi capitoli lirici, legati da una trama sentimentale deliziosa»). Una lettera alla Guglielminetti del 5 giugno 1907 sottolinea le associazioni legate alla stessa parola Signorina: «Signorina – che brutta parola! Degno prodotto del nostro tempo di evoluzione che anche della vergine ha fatto una creatura oppressa, non definita, come quel nome brutto: Signorina… Signorina: figura triste; o che inconsapevole della sua miseria viva beata, intellettualmente impoverita dalla secolare mediocrità borghese, o che, cosciente rivoltandosi alla “saggezza d’antiche norme”, cerchi per sé e per le sorelle un sentiero di salute, o che, piú ribelle ancora, voglia rivendicarsi in libertà e contendere la sorte agli uomini derisori, o che si strugga nel sogno di un’attesa vana». Un vero e proprio antefatto della Signorina Felicita è costituito da un poemetto scritto tra il 1907 e il 1908 e pubblicato sulla rivista «Il Viandante» (6 febbraio 1910), dal titolo L’ipotesi: in esso l’autore immagina se stesso in un futuro lontano, in una vecchiaia placida e tranquilla, raggiunta dopo aver sposato non una raffinata lettrice di romanzi, ma «quella che vive tranquilla, serena col padre borghese / in un’antichissima villa remota del Canavese…» (e che ha nome Felicita), e disegna una possibile scena della vita borghese e familiare che si troverà a vivere accanto a lei nel lontano 1940. In questo piú ampio poema la figura della Signorina, che vive nella remota villa del Canavese, viene seguita in una serie di situazioni, attraverso lo sguardo del poeta malato e disilluso, che sente tutto il vuoto delle grandi passioni e dei grandi modelli intellettuali, e si lascia attrarre dalla mediocre vita della ragazza, dal suo mondo di valori semplici e schematici, di sicurezze convenzionali e prevedibili, dal suo limitato orizzonte (a cui il dimesso aspetto fisico della donna, quasi brutta, aggiunge qualcosa di patetico). La Signorina Felicita è in fondo una donna «da non amare», la cui persona e la cui esistenza non presentano nessuno degli attributi tipici della bellezza e della fascinazione femminile: il suo mondo semplice e solido, carico di oggetti mediocri, è al di là di tutte le esaltazioni intellettuali e sentimentali, di tutti i miti sofisticati ed eleganti delle mode culturali. Ma proprio per questo Felicita (come indica il suo stesso nome) rappresenta la Felicità impossibile, e attira il poeta con una ambigua fascinazione: egli è attratto da qualcosa che è completamente al di là della propria vita e dei propri orizzonti intellettuali. Rifugiandosi in quel mondo cosí schematico e convenzionale sembra poter trovare la possibilità di fuggire da se stesso, di negare il proprio io, di smentire concretamente tutte le forme di vita che è abituato a sentirsi intorno e che non riesce piú a riconoscere davvero come proprie. Ma nello stesso tempo egli sa di non potersi in nessun modo identificare con il mondo della Signorina: da esso egli resta assolutamente distante, lo può contemplare solo da lontano; può esservi partecipe solo recitando la parte dell’intellettuale disilluso, solo rivestendosi di un abito di finzione, solo costruendo un nuovo inganno davanti all’ignara Signorina. Questo atteggiamento si appoggia necessariamente sull’ironia: ironia verso se stesso, verso la propria figura di «avvocato» e poeta, e ironia verso il piccolo mondo della ragazza, verso le cose che compongono la sua esistenza, verso i suoi modi e le sue abitudini quotidiane. Il tono sentimentale di questo poemetto, anche nei momenti in cui traspare un’affettuosa disponibilità verso il mondo di Felicita, è sempre intrecciato con l’ironia, con la recitazione, con l’abbassamento: Goz-

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zano fa vivere in tutta evidenza il mondo concreto e quotidiano della vita di provincia (anche con una eccezionale ricchezza di particolari minuti), può incantarsi a tratti di fronte al piú convenzionale sentimentalismo romantico, può dar voce al dimesso e mediocre personaggio della Signorina, proprio perché mantiene in ogni momento un ironico distacco da quel mondo e da se stesso. E il linguaggio della poesia si accorda a questo orizzonte «mediocre», all’ironica e affettuosa distanza con cui esso viene guardato: i versi tendono a succedersi con un ritmo di falsetto, hanno una cadenza che è nello stesso tempo patetica e ironica, come realizzando in concreto la situazione di cui si parla nella parte terza del poemetto, a proposito del soggiorno del poeta nella cucina della villa («accordavo le sillabe dei versi / sul ritmo eguale dell’acciottolio», vv. 119-120). Nelle otto parti in cui è articolato il poemetto si possono seguire momenti tematici diversi, che possiamo schematizzare cosí: I. ricordo della Signorina Felicita e dell’arredo di Vill’Amarena (fatto di oggetti e figure malinconiche e desuete); II. le conversazioni con il padre della Signorina; III. l’aspetto della Signorina, le visite alla sua casa e il piacere di stare in cucina con lei; IV. le visite nel solaio, tra vecchi oggetti, la visione del Canavese dall’abbaino e la conversazione sentimentale; V. nel parco della villa, la richiesta di matrimonio e il pianto della Signorina; VI. riflessione del poeta sulla propria distanza dalla Signorina, sulla propria vita sterile, sul proprio desiderio di non essere piú se stesso; VII. conversazione con il farmacista, pettegolezzi sul rapporto tra il poeta e la Signorina, decisione di partire e visita al cimitero; VIII. l’addio e l’annuncio del proprio viaggio verso l’Oriente. Riportiamo qui le prime tre parti del componimento. [EDIZIONE: Guido Gozzano, Tutte le poesie, a cura di A. Rocca, introduzione di M. Guglielminetti, Mondadori, Milano 1980] METRO: strofe di sei endecasillabi ciascuna, ognuna basata su due sole rime, ma con tre diverse disposizioni (con gli schemi ABBAAB, ABABAB, ABABBA).

 luglio: Santa Felicita I



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Signorina Felicita, a quest’ora scende la sera nel giardino antico della tua casa. Nel mio cuore amico scende il ricordo. E ti rivedo ancora, e Ivrea rivedo e la cerulea Dora e quel dolce paese che non dico. Signorina Felicita, è il tuo giorno! A quest’ora che fai? Tosti il caffè: e il buon aroma si diffonde intorno? O cuci i lini e canti e pensi a me, all’avvocato che non fa ritorno? E l’avvocato è qui: che pensa a te.

.  luglio: Santa Felicita: questo tipo di epigrafe (con una data e il nome del santo del calendario), era stato usato da Francis Jammes (-), per la lirica Paul et Virginie: « Juillet  – Dimanche, Sainte Virginie. LE CALENDRIER» (“ luglio  – Domenica, Santa Virginia. IL CALENDARIO”). v. . citazione da Piemonte di Carducci (in Rime e ritmi), vv. - («Ivrea la bella che le rosse torri / specchia sognando a la cerulea Dora»): la Dora è

la Dora Baltea, affluente del Po, che intorno a Ivrea percorre la zona del Canavese; cerulea, di colore azzurro chiaro. v. . il nome del paese del Canavese in cui vive la signorina non viene detto, come per sospenderne l’immagine nella vaghezza del ricordo (forse si tratta di Agliè, il paese natale di Gozzano). v. . il giorno del tuo onomastico (cfr. l’epigrafe). v. . come ne Le due strade, v. , anche qui Gozzano si presenta sotto il personaggio dell’avvocato.

Struttura del poemetto

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Pensa i bei giorni d’un autunno addietro, Vill’Amarena a sommo dell’ascesa coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa dannata, e l’orto dal profumo tetro di busso e i cocci innumeri di vetro sulla cinta vetusta, alla difesa… Vill’Amarena! Dolce la tua casa in quella grande pace settembrina! La tua casa che veste una cortina di granoturco fino alla cimasa: come una dama secentista, invasa dal Tempo, che vestí da contadina. Bell’edificio triste inabitato! Grate panciute, logore, contorte! Silenzio! Fuga delle stanze morte! Odore d’ombra! Odore di passato! Odore d’abbandono desolato! Fiabe defunte delle sovrapporte! Ercole furibondo ed il Centauro, la gesta dell’eroe navigatore, Fetonte e il Po, lo sventurato amore d’Arianna, Minosse, il Minotauro, Dafne rincorsa, trasmutata in lauro tra le braccia del Nume ghermitore…

v. . a sommo dell’ascesa: in cima alla salita (cfr. anche Le due strade, vv.  e ). vv. -. Marchesa / dannata: la storia di questa antica proprietaria e abitatrice della villa sarà narrata distesamente nella quarta parte del poemetto (e anticipata dall’accenno del padre di Felicita al v. ). vv. -. orto: nel senso, prezioso, di «giardino», ornato da una siepe di busso (bosso), pianta usata spesso nei cimiteri (da cui il suo profumo tetro). Nella figura del giardino non mancano reminiscenze dal D’Annunzio del Poema paradisiaco (il «busso» vi appare, in particolare, nella poesia Climene): ma qui il fascino della inaccessibilità e del misterioso (cfr. Hortus Conclusus, pp. -) viene abbassato, ridotto quasi in tono minore. Quanto ai cocci innumerevoli di bottiglia, piantati sul muro di cinta antico e cadente del giardino, per impedire l’accesso ai ladri (alla difesa), essi offriranno lo spunto a Montale per la sua celeberrima Meriggiare pallido e assorto, di pochi anni successiva (cfr. T.). vv. -. la casa di Felicita è tutta ricoperta di pannocchie di granoturco, messe lí a seccare, sino all’orlo del tetto (cimasa), che formano una sorta di tenda (cortina). vv. -. Vill’Amarena, descritta ancora nella strofa successiva, è una costruzione barocca (secenti-

sta), ormai decrepita; ricoperta com’è di pannocchie, viene paragonata a una gran dama, ormai invecchiata e decaduta, che si è vestita da contadina. v. . Fuga delle stanze morte!: fuga è nel senso di «successione»: Gozzano riecheggia, qui, un luogo (II, ) del Trionfo della morte di D’Annunzio (Sanguineti). v. . espressioni tratte dalle poesie di Francis Jammes, ma con una forte impronta dal Pascoli dei Primi poemetti, e precisamente da La calandra, v. : «senti un odore d’ombra e d’umidore» (Sanguineti). v. . «decorazioni, di argomento solitamente mitologico (dunque “fiabesco”), poste sull’architrave delle porte»: esse sono ormai defunte, sia per il loro stato di deterioramento, che per i loro antiquati soggetti (che vengono elencati nella strofa che segue). Si tratta della lotta tra Ercole e il centauro Nesso, delle gesta di Ulisse (la denominazione eroe navigatore è tratta dalla poesia L’ultimo viaggio, dai Poemi conviviali di Pascoli), della storia di Fetonte (figlio del Sole, che ne guidò il carro di fuoco, ma fu fulminato e precipitò sul Po), dell’amore sventurato di Arianna, figlia di Minosse, che aiutò Teseo a uccidere il Minotauro (e poi fu da lui abbandonata), della storia della ninfa

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Penso l’arredo – che malinconia! – penso l’arredo squallido e severo, antico e nuovo: la pirografia sui divani corinzi dell’Impero, la cartolina della Bella Otero alle specchiere… Che malinconia! Antica suppellettile forbita! Armadi immensi pieni di lenzuola che tu rammendi pazïente… Avita semplicità che l’anima consola, semplicità dove tu vivi sola con tuo padre la tua semplice vita! II

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Quel tuo buon padre – in fama d’usuraio – quasi bifolco, m’accoglieva senza inquietarsi della mia frequenza, mi parlava dell’uve e del massaio, mi confidava certo antico guaio notarile, con somma deferenza. «Senta, avvocato…» E mi traeva inqueto nel salone, talvolta, con un atto che leggeva lentissimo, in segreto. Io l’ascoltavo docile, distratto da quell’odor d’inchiostro putrefatto, da quel disegno strano del tappeto,

Dafne, trasformata in alloro (lauro), per sfuggire ad Apollo, denominato nume ghermitore, che voleva «ghermirla» (a proposito del gesto di Apollo, questo verbo «ghermire» era stato usato da D’Annunzio ne L’oleandro, in Alcyone). v. . pirografia: opera grafica ottenuta con una tecnica di incisione, mediante una punta metallica incandescente su pelle, o cuoio, o velluto, o legno, in uso alla fine secolo XIX. v. . caratteristica dello «stile Impero» (diffusosi al tempo di Napoleone) è l’ornamento dei mobili (qui i divani) mediante motivi architettonici classici (in questo caso, le colonnine corinzie). v. . Bella Otero: Carolina Otero (-), ballerina franco-spagnola, celebre stella del varietà di fine Ottocento. La cartolina che la ritrae è infilata lungo la cornice di qualcuno degli specchi di questa casa, che ha le caratteristiche, allo stesso tempo, della «severità» e del kitsch (cfr. PAROLE, tav. ). v. . forbita: lustrata, lucidata. vv. -. Sanguineti rimanda di nuovo a Francis Jammes (Voici le grand azur, “Ecco il grande azzurro”, in De l’Angelus de l’aube à l’Angelus du

soir, “Dall’Angelus dell’alba all’Angelus della sera”): «C’est la maîtresse d’une grande maison paysanne. / Elle range le linge au fond frais d’une armoire / immense» (“È la padrona d’una gran casa contadina. / Dispone la biancheria nel fondo fresco d’un armadio / immenso”); Avita: Antica. v. . che l’anima consola: che consola l’anima (inversione). v. . quasi bifolco: non è infatti un contadino, ma fa coltivare le sue terre a un massaio (fattore, colono). Notare che la seconda parte del poemetto inizia riprendendo il riferimento al padre del finale della parte precedente (secondo il procedimento delle coblas capfinidas). v. . atto: notarile (come annunciato dai vv. -). v. . l’atto notarile è molto vecchio (la datazione è specificata al v. ); l’inchiostro è presentato come elemento organico, già morto, in grado di «putrefarsi» al pari del sangue. Notare l’anafora del da (che si prolunga fino al v. ): la preposizione cosí ripetuta introduce oggetti desueti da cui il poeta è distratto, e la cui considerazione gli impedisce di seguire i discorsi del padre di Felicita.

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da quel salone buio e troppo vasto… «… la Marchesa fuggí… Le spese cieche…» da quel parato a ghirlandette, a greche… «dell’ottocento e dieci, ma il catasto…» da quel tic-tac dell’orologio guasto… «… l’ipotecario è morto, e l’ipoteche…» Capiva poi che non capivo niente e sbigottiva: «Ma l’ipotecario è morto, è morto!!…» – «E se l’ipotecario è morto, allora…» Fortunatamente tu comparivi tutta sorridente: «Ecco il nostro malato immaginario!» III

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Sei quasi brutta, priva di lusinga nelle tue vesti quasi campagnole, ma la tua faccia buona e casalinga, ma i bei capelli di color di sole, attorti in minutissime trecciuole, ti fanno un tipo di beltà fiamminga… E rivedo la tua bocca vermiglia cosí larga nel ridere e nel bere, e il volto quadro, senza sopracciglia, tutto sparso d’efelidi leggiere e gli occhi fermi, l’iridi sincere azzurre d’un azzurro di stoviglia… Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi rideva una blandizie femminina. Tu civettavi con sottili schermi, tu volevi piacermi, Signorina: e piú d’ogni conquista cittadina mi lusingò quel tuo voler piacermi!

v. . parato … greche: tappezzeria con motivi ornamentali floreali (le ghirlandette) o di tipo geometrico (le greche). v. . la signorina Felicita cita qui il titolo d’una famosa commedia di Molière, sdrammatizzando il tono della conversazione, che ha messo in difficoltà l’amico, e alludendo alla sua malattia (a cui egli si riferirà piú direttamente al v. ). v. . anche la villa somigliava a una «dama secentista… che vestí da campagnola» (vv. -). v. . attorti: attorcigliati, annodati. v. . la percezione, filtrata attraverso l’arte della quasi bruttezza della signorina, la riscatta e la innalza a modello (e le attribuisce i tratti di una bellezza nordica). La pittura fiamminga cinque-sei-

centesca prediligeva ritrarre figure di borghesi nel loro «interno» domestico, descritto con minuzia di particolari. v. . efelidi: lentiggini. v. . l’azzurro degli occhi di Felicita viene paragonato a quello di oggetti domestici come stoviglie (con un evidente abbassamento rispetto ai modi tradizionali di presentazione della figura femminile). v. . blandizie femminina: si tratta del civettare (verso seguente), atto a «blandire» suasivamente il poeta. v. . con sottili schermi: con finzioni facili a scoprirsi. v. . quel tuo voler piacermi: citazione dantesca (Paradiso, IX, -: «e ’l suo voler piacermi / si-

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Ogni giorno salivo alla tua volta pel soleggiato ripido sentiero. Il farmacista non pensò davvero un’amicizia cosí bene accolta, quando ti presentò la prima volta l’ignoto villeggiante forestiero. Talora – già la mensa era imbandita – mi trattenevi a cena. Era una cena d’altri tempi, col gatto e la falena e la stoviglia semplice e fiorita e il commento dei cibi e Maddalena decrepita, e la siesta e la partita… Per la partita, verso ventun’ore giungeva tutto l’inclito collegio politico locale: il molto Regio Notaio, il signor Sindaco, il Dottore; ma – poiché trasognato giocatore – quei signori m’avevano in dispregio… M’era piú dolce starmene in cucina tra le stoviglie a vividi colori: tu tacevi, tacevo, Signorina: godevo quel silenzio e quegli odori tanto tanto per me consolatori, di basilico d’aglio di cedrina… Maddalena con sordo brontolio disponeva gli arredi ben detersi, rigovernava lentamente ed io, già smarrito nei sogni piú diversi, accordavo le sillabe dei versi sul ritmo eguale dell’acciottolio.

gnificava nel chiarir di fuori»), prosaicizzata nella mediocrità dello scenario borghese messo in scena da Gozzano. v. . il farmacista: personaggio in vista del paese, che ha presentato il protagonista alla signorina Felicita. v. . falena: farfalla notturna. v. . Maddalena: la vecchia domestica (cfr. poi vv.  e sgg.). v. . la partita: a carte. vv. -. l’inclito … locale: l’illustre insieme delle persone importanti del paese. v. . sottinteso: «ero». Anche di fronte al gioco con i notabili, il poeta continua nel suo atteggiamento distratto, perduto nelle sue fantasticherie. v. . citazione dantesca (Inferno, XXIII, -), di cui si ripete la rima collegio/dispregio: «O tosco,

ch’al collegio / de gl’ipocriti tristi se’ venuto, / dir chi tu se’ non avere in dispregio» (Sanguineti). v. . cedrina: erba aromatica, dal profumo di cedro. v. . arredi…detersi: le stoviglie (piatti, bicchieri, posate) ben lavate. vv. -. l’acciottolio è il rumore degli arredi rigovernati: essenziale questa dichiarazione di poetica da parte di Gozzano, tutta nel senso dell’abbassamento ironico, del confronto con la piú banale quotidianità, ma appoggiato alla rivendicazione di una intelligenza metrica e mimetica (con l’accordo tra il ritmo dei versi e il suono delle cose, che fa pensare alla figura dell’onomatopea, cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ) del proprio modo di far poesia, equiparato al v.  all’arte d’un cuoco.

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LA NUOVA ITALIA

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Sotto l’immensa cappa del camino (in me rivive l’anima d’un cuoco forse…) godevo il sibilo del fuoco; la canzone d’un grillo canterino mi diceva parole, a poco a poco, e vedevo Pinocchio, e il mio destino… Vedevo questa vita che m’avanza: chiudevo gli occhi nei presagi grevi; aprivo gli occhi: tu mi sorridevi, ed ecco rifioriva la speranza! Giungevano le risa, i motti brevi dei giocatori, da quell’altra stanza.

vv. -. dalla figura tradizionale del grillo del focolare, Gozzano si riporta a quella del Grillo parlante di Pinocchio, la cui morale richiama a modelli di «maturità», suggerisce l’uscita dalle «malattie immaginarie» e dai «trasognamenti», co-

stringe a pensare al proprio destino personale. v. . Citazione da Petrarca, Canzoniere, CCCLXV, , (di cui si riprende anche la rima avanza/stanza/speranza): «A quel poco di viver che m’avanza».

L’amica di nonna Speranza (da La via del rifugio)

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Una vecchia fotografia rivissuta come realtà Il salotto pieno di «buone cose di pessimo gusto» Rifugio nel passato perché mediocre

nsieme a Le due strade, questa celebre poesia fu compresa nel 1907 nella raccolta La via del rifugio, per poi passare, con alcune varianti, ne I colloqui (nella sezione Alle soglie, subito dopo La signorina Felicita): ma, prima che ne La via del rifugio, era apparsa sulla rivista torinese «La Donna» del 20 maggio 1907. L’immagine di un amore capace di far uscire il poeta dalla sua aridità, di offrirgli una felicità semplice e fresca, in mezzo alle piú convenzionali abitudini borghesi, viene qui proiettata nel passato, arretrata nel lontano 1850: da una vecchia fotografia sorge il ricordo dell’adolescenza della nonna Speranza e di Carlotta, sua compagna di collegio in visita nella sua villa di vacanza. Le figure delle due giovani d’un tempo che non è piú (e soprattutto la figura dell’amica della nonna) si affacciano sullo sfondo di un ambiente concreto, ricostruito con simpatia insieme affettuosa e ironica: come in una scena teatrale, ci si trova davanti a un salotto borghese pieno di «buone cose di pessimo gusto», tra abitudini banali, conversazioni fatte di formule precostituite, in cui si manifesta tutto il repertorio della piú generica cultura romantica e risorgimentale, non senza momenti di moralismo un po’ ipocrita. Il poeta si lascia dominare dal piacere di «rinascere» dentro quel mondo che non è piú: sembra voler ritrovare la freschezza e l’autenticità di una piccola realtà provinciale sicura di se stessa, delle sue abitudini e delle cose convenzionali di cui soleva circondarsi. Gli oggetti desueti di cui è piena questa poesia, descritti con cura minuziosa, con tutto il loro colore storico, sembrano come offrire una possibilità di fuga dall’aridità del presente, dalla deludente modernità. Ma Gozzano non attribuisce nessun valore mitico a quel passato: può cercare di rifugiarsi in esso solo perché vi riconosce una realtà in tono minore, che si può guardare solo con ironia, solo compiacendosi per la sua mediocrità, per i suoi ridotti orizzonti. Se fosse davvero presente, quel mondo perderebbe per lui il suo fascino, non potrebbe piú attirare il poeta. Tutto l’ambiente di nonna Speranza nel lontano 1850, e in esso la figura della giovane Carlotta, verso cui si rivolge la sua fantasia amorosa, attirano il poeta proprio perché rappresentano irrealizzabili possibilità di essere: egli può provare la gioia di identificarsi con quei mondi proprio perché ogni vera identificazione

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con essi è assolutamente impossibile. D’altra parte, in una successiva poesia scritta nel 1908, L’esperimento, pubblicata su «Il Viandante» del 7 novembre 1909, Gozzano costruirà una vera e propria parodia di L’amica di nonna Speranza: proverà a realizzare la sua fantasia di rapporto amoroso con Carlotta, invitando la sua amante a vestire i desueti panni della fanciulla del 1850 e amoreggiando con lei nel vecchio salotto. Nella presentazione dell’ambiente e delle conversazioni che in esso hanno luogo, L’amica di nonna Speranza presenta una cadenza ironica, sostenuta anche dal metro, che con le sue rime interne, le sue irregolarità, la presenza di numerose dieresi e dialefi (cfr. sotto, nota 9) dà spesso un effetto di falsetto, di convenzionale ripetitività (che si sente in modo particolarmente forte nelle descrizioni e nei dialoghi, in cui soprattutto le battute dello zio, fatte di continue ripetizioni, sembrano parodiare se stesse, come in un frantumato balbettío). Il componimento è diviso in cinque sezioni, in cui si possono distinguere questi nuclei tematici: I. descrizione degli oggetti del salotto («le buone cose di pessimo gusto»); II. Speranza e Carlotta, giunte in vacanza, provano la musica, sognando il loro futuro; III. l’arrivo degli zii «di molto rispetto» e la conversazione borghese; IV. conversazione romantica tra le due ragazze; V. l’immagine di Carlotta vista dal poeta, che forse avrebbe potuto amarla (il finale richiama a vari precedenti letterari, tra cui A une passante (“A una passante”) di Baudelaire, che si concludeva rivolgendosi cosí a una figura di donna vista per la strada e poi sparita tra la folla: «O toi que j’eusse aimée, ô toi qui le savais!» (“Tu, che avrei amato, tu, che lo sapevi!”). METRO: distici di doppi novenari, con rime al mezzo, secondo lo schema ab-ba, ma con molte irregolarità, sia nelle rime che nella misura dei versi.

 giugno  «… alla sua Speranza la sua Carlotta…» (dall’album: dedica d’una fotografia) I

Loreto impagliato ed il busto d’Alfieri, di Napoleone i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto), il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti, i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro, 

un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve, gli oggetti col monito salve, ricordo, le noci di cocco, Venezia ritratta a musaici, gli acquerelli un po’ scialbi, le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici,

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le tele di Massimo d’Azeglio, le miniature, i dagherottipi: figure sognanti in perplessità,

v. . Loreto: nome comunemente dato ai pappagalli. v. . valve: conchiglie. v. . albi … arcaici: gli album dipinti con anemoni in stile desueto, non piú di moda. v. . Massimo d’Azeglio (-) fu anche pittore, oltre che autore di romanzi storici. Questo verso presenta una notevole infrazione sul piano me-

trico: «d’Azeglio» si spezza infatti dopo la prima sillaba (per far rima con «perplessità»), mentre il secondo novenario presenta addirittura due dieresi assai ardue (d’Azeglïo e minïature). v. . dagherottipi: sono i primi esperimenti di fotografia, impressi su grandi lastre, cosí chiamati dall’inventore Daguerre. La perplessità, qui attri-

Struttura del componimento

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il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto, il cúcu dell’ore che canta, le sedie parate a damasco chèrmisi… rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta! II

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I fratellini alla sala quest’oggi non possono accedere che cauti (hanno tolte le federe ai mobili. È giorno di gala). Ma quelli v’irrompono in frotta. È giunta, è giunta in vacanza la grande sorella Speranza con la compagna Carlotta!

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Ha diciassett’anni la Nonna! Carlotta quasi lo stesso: da poco hanno avuto il permesso d’aggiungere un cerchio alla gonna, il cerchio ampissimo increspa la gonna a rose turchine. Piú snella da la crinoline emerge la vita di vespa. Entrambe hanno un scialle ad arancie a fiori a uccelli a ghirlande; divisi i capelli in due bande scendenti a mezzo le guancie.

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Han fatto l’esame piú egregio di tutta la classe. Che affanno passato terribile! Hanno lasciato per sempre il collegio. Silenzio, bambini! Le amiche – bambini, fate pian piano! le amiche provano al piano un fascio di musiche antiche.



Motivi un poco artefatti nel secentismo fronzuto di Arcangelo del Leúto e d’Alessandro Scarlatti.

buita alle immagini delle vecchie fotografie, è, come ne La signorina Felicita, carattere essenziale per la poesia di Gozzano. vv. -. il lampadario, fra l’antico e il vecchio (vetusto), moltiplica all’infinito (immilla, termine di origina dantesca: «piú che ’l doppiar de li scacchi s’immilla», Paradiso, XXVIII, ), nei suoi grossi cristalli di quarzo, gli oggetti del salone descritti in questi versi. v. . chèrmisi: «cremisi» (rosso vivo), colore assai consueto nelle tappezzerie damascate dell’Ottocento. v. . cerchio alla gonna: di stecche di balena, utilizzato per gonfiare la gonna, che aveva al suo interno una sottana chiamata crinolina (v. ; e vedi La signorina Felicita v. ), con i cerchi, che si accrescevano secondo la lunghezza della gonna (le fanciulle sono cresciute, e perciò alle loro gonne, che si allungano, viene aggiunto un nuovo cerchio). v. . cfr. La signorina Felicita, v. . Dopo questo verso, nella versione de La via del rifugio, segue

questo distico: «Son giunte da Mantova senza stanchezza al Lago Maggiore / sebbene quattordici ore viaggiassero in diligenza»; all’attuale v.  seguiva inoltre questo altro distico: «O Belgirate tranquilla! la sala dà sul giardino: / fra i tronchi diritti scintilla lo specchio del Lago turchino». Ne La via del rifugio la villa di nonna Speranza viene collocata, quindi, sul lago Maggiore, a Belgirate, mentre nella versione definitiva l’ambientazione resta indeterminata e non viene fatto il nome del lago (indicato al v. ). v. . un fascio di musiche antiche: un gruppo di vecchi spartiti musicali. v. . ritorna quel gusto del secentismo, già seguito nella descrizione della Vill’Amarena, ne La signorina Felicita; artefatto è qui nel senso di artificioso (in linea con il canone barocco dell’arte); fronzuto è ampolloso, ridondante, ma anche ornato all’eccesso. v. . vengono ricordati i musicisti Arcangelo Corelli (-) e Alessandro Scarlatti padre (), fra i maggiori compositori del tardo Seicen-

T. L’ALBA DEL NUOVO SECOLO. GUIDO GOZZANO



Innamorati dispersi, gementi il core e l’augello, languori del Giordanello in dolci bruttissimi versi: 



……imi almen! senza di te languisce il cor! Il tuo fedel sospira ognor, cessa crudel tanto rigor! ……… Carlotta canta. Speranza suona. Dolce e fiorita si schiude alla breve romanza di mille promesse la vita. O musica! Lieve sussurro! E già nell’animo ascoso d’ognuna sorride lo sposo promesso: il Principe Azzurro,



lo sposo dei sogni sognati… O margherite in collegio sfogliate per sortilegio sui teneri versi del Prati! III

Giungeva lo Zio, signore virtuoso, di molto riguardo, ligio al passato, al Lombardo-Veneto, all’Imperatore; 

giungeva la Zia, ben degna consorte, molto dabbene, ligia al passato, sebbene amante del Re di Sardegna… «Baciate la mano alli Zii!» dicevano il Babbo e la Mamma, e alzavano il volto di fiamma ai piccolini restii. «E questa è l’amica in vacanza: madamigella Carlotta Capenna: l’alunna piú dotta, l’amica piú cara a Speranza».



«Ma bene… ma bene… ma bene…» diceva gesuitico e tardo lo Zio di molto riguardo «… ma bene… ma bene… ma bene…

to italiano. vv. -. innamorati separati l’un dall’altro, che cantano con gemiti e sospiri melense arie di melodramma (languori), con parole convenzionali come core e augello: di questo linguaggio è offerto un esempio subito dopo, con il frammento di un’aria in quinari tronchi del napoletano Giuseppe Giordani, detto il Giordanello (-). vv. -. Dolce … vita: al suono della breve romanza, la vita si schiude dolce e fiorita di mille promesse. v. . nell’animo ascoso: nel profondo dell’animo. vv. -. le margherite vengono sfogliate interrogando la sorte (per sortilegio), nel rito adolescen-

ziale del «m’ama… non m’ama…», seguendo la suggestione della poesia sentimentale di Giovanni Prati (cfr. La signorina Felicita, vv. -). v. . ligio al passato: a quello politico; dunque, conservatore. L’Imperatore è quello d’Austria, naturalmente. v. . Re di Sardegna: nel  era già Vittorio Emanuele II, celebre anche per i suoi numerosi amori. v. . di fiamma: imbarazzato e adirato (per la resistenza) dei bambini. v. . gesuitico: con fare formalistico e ipocrita (con quella sottigliezza formalistica che era caratteristica dei Gesuiti, i membri della Compagnia di Gesú).

EPOCA





LA NUOVA ITALIA

-

Capenna? Conobbi un Arturo Capenna… Capenna… Capenna… Sicuro! alla Corte di Vienna! Sicuro… sicuro… sicuro…» 

«Gradiscono un po’ di moscato?» – «Signora sorella magari…» E con un sorriso pacato sedevano in bei conversari. «… ma la Brambilla non seppe…» – «È pingue già per l’Ernani…» «La Scala non ha piú soprani…» – «Che vena quel Verdi… [Giuseppe…» «… nel Marzo avremo un lavoro alla Fenice, m’han detto, nuovissimo: il Rigoletto. Si parla d’un capolavoro».



«… Azzurri si portano o grigi?» – «E questi orecchini? Che bei rubini! E questi cammei…» – «la gran novità di Parigi…» «… Radetzky? Ma che? L’armistizio… la pace, la pace che regna…» «… quel giovine Re di Sardegna è uomo di molto giudizio!»



È certo uno spirito insonne, e forte e vigile e scaltro…» «È bello?» – «Non bello: tutt’altro». – «Gli piacciono molto le donne…» «Speranza!» (chinavansi piano, in tono un po’ sibillino) «Carlotta! Scendete in giardino: andate a giocare al volano». Allora le amiche serene lasciavano con un perfetto inchino di molto rispetto gli Zii molto dabbene. IV



Oimè! che giocando un volano, troppo respinto all’assalto, non piú ridiscese dall’alto dei rami d’un ippocastano! S’inchinano sui balaustri le amiche e guardano il lago, sognando l’amore presago nei loro bei sogni trilustri.



«Ah! se tu vedessi che bei denti!» – «Quant’anni?…» «Ventotto». «Poeta?» – «Frequenta il salotto della contessa Maffei!»

v. . la Brambilla: il soprano Teresa Brambilla (-), che proprio in quel  aveva abbandonato la scena. L’Ernani è un’opera di Giuseppe Verdi, rappresentata la prima volta alla Fenice di Venezia nel . v. . il Rigoletto: la prima di questa celebre opera di Verdi ebbe luogo alla Fenice l’ marzo . v. . ci si riferisce qui all’armistizio di Vignale e alla pace di Milano, con cui, nel , s’era conclusa la guerra tra l’Austria (le cui truppe erano comandate dal generale Johann-Joseph-Franz-Karl Radetzky, -) e il regno di Sardegna, al cui trono era appena salito Vittorio Emanuele II.

v. , volano: gioco dell’epoca, simile al tennis (il volano è la mezza palla di sughero che i due contendenti debbono rilanciarsi con l’uso di racchette). v. . troppo respinto all’assalto: respinto con troppa forza da una racchetta. v. . balaustri: le colonnine disposte a intervalli regolari, che, collegate insieme da un basamento, formano il parapetto (qui prospiciente un lago). v. . presago … trilustri: presagito nei loro sogni di tre lustri, dunque: di quindicenni, all’incirca (vedi v. ). v. . salotto … Maffei: il piú famoso salotto politico-culturale della Milano di metà Ottocento, te-

T. L’ALBA DEL NUOVO SECOLO. GUIDO GOZZANO



Non vuole morire, non langue il giorno. S’accende piú ancora di porpora: come un’aurora stigmatizzata di sangue; si spegne infine, ma lento. I monti s’abbrunano in coro: il Sole si sveste dell’oro, la Luna si veste d’argento. 

Romantica Luna fra un nimbo leggiero, che baci le chiome dei pioppi, arcata siccome un sopracciglio di bimbo, il sogno di tutto un passato nella tua curva s’accampa: non sorta sei da una stampa del Novelliere Illustrato?



Vedesti le case deserte di Parisina la bella non forse? non forse sei quella amata dal giovine Werther? «… mah! Sogni di là da venire!» – «Il Lago s’è fatto piú denso di stelle». – «… che pensi?» – «… Non penso». – «… Ti piacerebbe [ morire?» «Sí!» – «Pare che il cielo riveli piú stelle nell’acqua e piú lustri. Inchínati sui balaustri: sognamo cosí, tra due cieli…»



Son come sospesa! Mi libro nell’alto…» – «Conosce Mazzini…» «E l’ami?…» – «Che versi divini!» – «Fu lui a donarmi quel libro, ricordi? che narra siccome, amando senza fortuna, un tale si uccida per una, per una che aveva il mio nome». V



Carlotta! nome non fine, ma dolce che come l’essenze resusciti le diligenze, lo scialle, la crinoline… Amica di Nonna, conosco le aiole per ove leggesti i casi di Jacopo mesti nel tenero libro del Foscolo.

nuto da Clara Carrara Spinelli (-), moglie del poeta Andrea Maffei (-). v. . stigmatizzata: piagata (con le «stimmate», cioè le piaghe di Cristo); è un aggettivo che deriva probabilmente da Baudelaire. v. . in coro: tutti insieme. v. . nimbo: alone, leggera foschia. v. . cfr., in questa antologia, G. D’Annunzio, Lungo l’Affrico, vv. -, p. . v. . Novelliere Illustrato: rivista di narrativa popolare del tempo. Il riferimento alla convenzionalità di questa luna introduce una leggera ironia su tutto il paesaggio romantico prima evocato. vv. -. Gozzano fa riferimento ad altre lune letterarie: quella del poema di Byron del , Parisina, e quella de I dolori del giovane Werther di

Goethe (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ). vv. -. denso / di stelle: per lo specchiarsi in esso delle stelle. v. . lustri: luccichíi. v. . Conosce Mazzini: Carlotta torna a parlare ora del giovane poeta di cui è innamorata (che si occupa di politica e conosce Mazzini), di cui ha già parlato ai vv. -. v. . il giovane poeta ha donato a Carlotta una copia de I dolori del giovane Werther (opera già ricordata al v. ), il cui protagonista si uccideva proprio per una donna che recava il suo stesso nome, Carlotta (che essa non ripete, ma che viene subito ripreso dall’autore al v. ). v. . l’essenze: i profumi. v. . Le ultime lettere di Jacopo Ortis, che nella

EPOCA





LA NUOVA ITALIA

-

Ti fisso nell’albo con tanta tristezza, ov’è di tuo pugno la data: ventotto di giugno del mille ottocentocinquanta. 

Stai come rapita in un cantico: lo sguardo al cielo profondo e l’indice al labbro, secondo l’atteggiamento romantico. Quel giorno – malinconia – vestivi un abito rosa, per farti – novissima cosa! – ritrarre in fotografia…



Ma te non rivedo nel fiore, amica di Nonna! Ove sei o sola che, forse, potrei amare, amare d’amore?

cultura da educanda romantica di Carlotta si intreccia e quasi si confonde con il romanzo di Goethe prima ricordato. v. . l’albo: l’album dove è la foto da cui ha preso spunto la poesia. v. . rapita in un cantico: sospesa e librata in un

canto religioso (nell’effetto di distanza dato dalla fotografia). v. . in fotografia: il corsivo sottolinea la novità della parola all’altezza del  (Sanguineti). v. . nel fiore: della giovinezza.

Totò Merúmeni (da I colloqui)

Poesia autobiografica

La villa triste di Totò simbolo di antiestetismo

Una poesia che non cerca l’assoluto ma consolazione

Q

uesta poesia, scritta nel 1910, fu stampata nel 1911, in febbraio su «La Tribuna Romana» e poi in aprile su «Riviera ligure», e inserita all’inizio della terza sezione (Il reduce) de La via del rifugio. Si tratta di una poesia autobiografica, in cui l’autore si rappresenta attraverso un personaggio di reduce, di esule, di sopravvissuto, tornato a una vita arida e indifferente dopo la perdita di tutte le illusioni e l’annullamento di tutti i desideri (nella stessa sezione de I colloqui si trova una poesia intitolata In casa del sopravvissuto). Il cognome del personaggio autobiografico, Totò Merúmeni, costituisce una deformazione di un celebre titolo di una commedia del latino Terenzio, Heautontimoroumenos, parola greca che significa “punitore di se stesso”, usata anche nel titolo di una poesia de Les fleurs du mal di Baudelaire, L’Héautontimorouménos. Totò è punitore di se stesso proprio in quanto si è segregato dal mondo, si è ritirato in una villa triste (che è la stessa della famiglia di Gozzano), che conserva solo poche tracce di un antico splendore, rifiutando di partecipare ai grandi eventi, alla grande poesia, ai grandi sentimenti, alla scena culturale e mondana: dotato di grande cultura e di gusto letterario, sa partecipare al mondo solo da lontano, rifiutando l’aggressività di chi pretende di farsi strada a tutti i costi, consapevole fino in fondo dei propri limiti, di un’aridità che gli impedisce di sentire, che in lui ha distrutto «le fonti prime del sentimento». Egli vive con vecchi parenti menomati e si diletta giocando con dolci compagni che non sono altro che buffi animaletti. Al sogno degli amori sconvolgenti e assoluti egli ha sostituito un tranquillo rapporto con la giovane cuoca (nella prima parte de I colloqui si trova, del resto, un Elogio degli amori ancillari). Nemico di tutte le illusioni intellettuali dominanti negli anni iniziali del secolo, Totò non sente la cultura come immersione nell’azione e nel flusso della «vita», ma come analisi sottile e inquieta del suo significato; nella poesia egli non cerca nessuna espressione dell’assoluto, ma solo «una fiorita d’esili versi consolatori» (v. 52). Il suo è esercizio ironico e disilluso di non partecipazione al mondo: è un volontario essere in disparte, sospensione di tutti i desideri, accettazione del flusso inesorabile del tempo, di una vita che (come sottolinea l’ultimo verso) ha il suo solo senso nel percorso immobile dalla nascita alla morte.

T. L’ALBA DEL NUOVO SECOLO. GUIDO GOZZANO



METRO:

il componimento è costituito da quartine di settenari doppi (come Le due strade), rimati con lo schema ABAB (o, piú di rado, ABBA), divise in cinque sezioni, piú ampie le prime due (rispettivamente di 4 e 5 quartine), di due sole quartine ciascuna le altre.

I

Col suo giardino incolto, le sale vaste, i bei balconi secentisti guarniti di verzura, la villa sembra tolta da certi versi miei, sembra la villa-tipo, del Libro di Lettura… 





Pensa migliori giorni la villa triste, pensa gaie brigate sotto gli alberi centenari, banchetti illustri nella sala da pranzo immensa e danze nel salone spoglio da gli antiquari. Ma dove in altri tempi giungeva Casa Ansaldo, Casa Rattazzi, Casa d’Azeglio, Casa Oddone, s’arresta un’automobile fremendo e sobbalzando, villosi forestieri picchiano la gorgòne. S’ode un latrato e un passo, si schiude cautamente la porta… In quel silenzio di chiostro e di caserma vive Totò Merúmeni con una madre inferma, una prozia canuta ed uno zio demente. II



Totò ha venticinque anni, tempra sdegnosa, molta cultura e gusto in opere d’inchiostro, scarso cervello, scarsa morale, spaventosa chiaroveggenza: è il vero figlio del tempo nostro. Non ricco, giunta l’ora di «vender parolette» (il suo Petrarca!…) e farsi baratto o gazzettiere,

vv. -. particolari «secentisti» abbondano infatti nei poemetti gozzaniani; cfr. soprattutto la descrizione di Vill’Amarena, ne La signorina Felicita (ove però il giardino, piú che incolto, è ridotto a orto vero e proprio) v. , p . Tutta la villa in cui abita Totò Merúmeni si presenta del resto come l’immagine convenzionale della villa piemontese, descritta piú volte nei versi di Gozzano; l’espressione la villa-tipo presenta «il primo uso letterario di questa forma appositiva, tipica dei cataloghi pubblicitari» (Bàrberi Squarotti). Si noti l’enjambement molto forte proprio all’inizio della poesia (bei / balconi). v. . spoglio da gli antiquari: «spogliato, svuotato, dagli antiquari». L’aspetto della villa sembra evocare tempi di antico splendore.

vv. -. nomi di famiglie illustri, che frequentavano la villa su descritta, quella del nonno di Gozzano (amico personale, fra l’altro, di Massimo d’Azeglio). v. . gorgòne: il battaglio di metallo posto sul portone d’ingresso della casa, raffigurante un volto di Medusa (immagine molto usata nell’arredamento di gusto liberty): dove si recavano i membri di quelle illustri famiglie, giungono ora automobilisti in pelliccia (villosi), che bussano battendo sulla porta quella Medusa di metallo. v. . opere d’inchiostro: «opere letterarie»: formula ariostesca, da Orlando furioso, I, , v. , con analoga rima con «del secol nostro» (Sanguineti). vv. -. «vender parolette» / (il suo Petrarca!): Gozzano dichiara, qui, diversamente che altrove,

˜

EPOCA





LA NUOVA ITALIA

-

Totò scelse l’esilio. E in libertà riflette ai suoi trascorsi che sarà bello tacere. 





Non è cattivo. Manda soccorso di danaro al povero, all’amico un cesto di primizie; non è cattivo. A lui ricorre lo scolaro pel tema, l’emigrante per le commendatizie. Gelido, consapevole di sé e dei suoi torti, non è cattivo. È il buono che derideva il Nietzsche: «… in verità derido l’inetto che si dice buono, perché non ha l’ugne abbastanza forti…» Dopo lo studio grave, scende in giardino, gioca coi suoi dolci compagni sull’erba che l’invita; i suoi compagni sono: una ghiandaia rôca, un micio, una bertuccia che ha nome Makakita… III



La Vita si ritolse tutte le sue promesse. Egli sognò per anni l’Amore che non venne, sognò pel suo martirio attrici e principesse, ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne. Quando la casa dorme, la giovinetta scalza, fresca come una prugna al gelo mattutino, giunge nella sua stanza, lo bacia in bocca, balza su lui che la possiede, beato e resupino… IV



Totò non può sentire. Un lento male indomo inaridí le fonti prime del sentimento;

una delle numerose citazioni di cui sono costellate le sue poesie. Qui, la citazione è tratta da Canzoniere, CCCLX, -: «Questi in sua prima età fu dato a l’arte / da vender parolette, anzi menzogne». Con l’arte da vender parolette Petrarca si riferiva all’avvocatura; Gozzano allude invece a un uso puramente mercantile della parola, al momento in cui Totò avrebbe potuto servirsi della propria capacità letteraria in modo fraudolento (facendo il barattiere) o come giornalista (gazzettiere). v. . che sarà bello tacere: citazione da un passo proverbiale di Dante, Inferno, IV, : «parlando cose che ’l tacere è bello». v. . commendatizie: lettere di raccomandazione. Totò aiuta gli esseri umani in piccole e banali incombenze.

v. . Gelido: ne La signorina Felicita, il protagonista si era presentato come «esteta gelido» (v. ). vv. -. adattamento di un passo di Cosí parlò Zarathustra di Nietzsche: «Davvero spesso ho riso dei rammolliti che si credono buoni perché non hanno artigli». v. . grave: serio e faticoso. v. . ghiandaia: uccello molto comune con ciuffo sul capo e ali neroazzurre. v. . si ritolse: si riprese tutte le sue promesse, non ne esaudí nessuna. v. . pel suo martirio: per il suo tormento e la sua esaltazione. v. . sentire: avere sentimenti. indomo: indomabile, incurabile.

T. L’ALBA DEL NUOVO SECOLO. GUIDO GOZZANO



l’analisi e il sofisma fecero di quest’uomo ciò che le fiamme fanno d’un edificio al vento. 

Ma come le ruine che già seppero il fuoco esprimono i giaggioli dai bei vividi fiori, quell’anima riarsa esprime a poco a poco una fiorita d’esili versi consolatori… V





Cosí Totò Merúmeni, dopo tristi vicende, quasi è felice. Alterna l’indagine e la rima. Chiuso in sé stesso, medita, s’accresce, esplora, intende la vita dello Spirito che non intese prima. Perché la voce è poca, e l’arte prediletta immensa, perché il Tempo – mentre ch’io parlo! – va, Totò opra in disparte, sorride, e meglio aspetta. E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà.

v. . il sofisma: il ragionamento sottile e capzioso (che, insieme all’analisi, ha inaridito e distrutto Totò, come il fuoco fa con un edificio): sofista era, ne La signorina Felicita (v. ), una delle attribuzioni del poeta protagonista. vv. -. come le rovine che già conobbero il fuoco fanno sorgere, uscire fuori (esprimono) i giaggioli, cosí l’anima arida fa sorgere lentamente una fioritura (fiorita) di versi che consolano (questo motivo della poesia che sboccia dall’aridità attraversa tutta la poesia moderna, da Leopardi a Montale). v. . l’indagine e la rima: la speculazione filosofica e la poesia.

vv. -. Perché … immensa: citazione in parte ironica del motto di origine ippocratica «Ars longa, vita brevis», “L’arte è lunga, la vita è breve” (Sanguineti). Segue una citazione da Petrarca, Canzoniere, LVI, : «ora, mentre ch’io parlo, il tempo fugge». v. . citazione letterale di un verso di Francis Jammes, da De l’Angélus de l’aube à l’Angélus du soir, “Dall’Angelus dell’alba all’Angelus della sera” (nella poesia Il s’occupe, “Egli si dà da fare”, in cui si parlava come qui d’una serva-amante): «Il est né un jour. Un autre jour il mourra» (“È nato un giorno. Un altro giorno morirà”).

EPOCA





LA NUOVA ITALIA

-

Marino Moretti Io non ho nulla da dire (da Il giardino dei frutti)

Q

Il poeta non sa e non può

La poesia non ha nessun pensiero profondo

˜

uesta poesia, da cui abbiamo ricavato il titolo per il paragrafo su Marino Moretti, è apparsa nel 1916 nel volume Il giardino dei frutti, ed è stata poi ripubblicata, con varianti di scarso rilievo, in raccolte successive delle poesie «crepuscolari» dell’autore. Essa si presenta come constatazione quasi indifferente di un vuoto del linguaggio, della parola e della mente, di una inerzia assoluta che si impadronisce di tutto l’essere del poeta e che lo conduce a una totale nullità. La poesia e la persona del poeta scoprono cosí la condizione di un totale non sapere e non potere: ma questa condizione rifiuta ogni carattere tragico, ogni desolazione esistenziale, si accontenta di una dimessa e grigia tristezza; si tratta di un grado zero assoluto che esclude ogni rivolta e ogni disperazione, ma con il suo candore arriva a smentire tutti gli atteggiamenti consueti degli uomini, tutto il loro accapigliarsi per raggiungere dei risultati, per affermare la propria personalità, per mostrare di avere pensieri, idee, opinioni pronte su tutto quello che accade nel mondo. Sono motivi molto diffusi nella poesia crepuscolare (dalla negazione dell’essere poeta di Corazzini all’aridità di Gozzano): ma Moretti sembra voler ridurre tutto il loro spessore letterario, dando espressione a un nulla quasi ingenuo e infantile, al di là di ogni orizzonte intellettuale. Un po’ egli si fa beffe di tutti coloro che, vedendolo immerso tra i libri, credono che egli nasconda pensieri profondi e impegnati, che si arrovelli in chissà quali abissi dell’anima. Una certa ambiguità contengono i richiami alla madre, alle illusioni che essa può essersi fatta sul figlio, sul suo essere venuto al mondo «per dire una grande parola»: il destino del poeta appare proprio quello di rivelare che una grande parola non può esistere, che non è credibile la ricerca di nessun pensiero profondo. Insomma nel mondo moderno la poesia non può aver piú nemmeno la gloria di essere sconfitta, non può valere nemmeno come sfida a un mondo ostile: appare destinata a una non vita povera e vuota. Non le resta che un canto esile e leggero, il canto smorzato di un evanescente nulla, seguito qui attraverso la cadenza lenta delle quartine. [EDIZIONE: Marino Moretti, In verso e in prosa, a cura di G. Pampaloni, Mondadori, Milano 1979] quartine di novenari, rimati abba.

METRO:

Aver qualche cosa da dire nel mondo a se stessi, alla gente. Che cosa? Non so veramente perché io non ho nulla da dire. 



Che cosa? Io non so veramente. Ma ci son quelli che sanno. Io no – lo confesso a mio danno – non ho da dir nulla ossia niente. Perché continuare a mentire, cercare d’illudersi? Adesso

v. . inflessione di lingua parlata, dimessa e prosastica.

T. L’ALBA DEL NUOVO SECOLO. MARINO MORETTI



ch’io parlo a me mi confesso: io non ho niente da dire.





Eppure fra tante persone, fra tanti culti colleghi io sfido a trovar chi mi neghi d’aver questa o quella opinione, e forse mia madre, la sola che veda ora in me fino in fondo, è certa che anch’io venni al mondo per dire una grande parola. Gli amici discutono d’arte, di Dio, di politica, d’altro: e c’è chi mi crede il piú scaltro perché mi fo un poco in disparte;









qualcuno vorrebbe sentire da me qualche cosa di piú. «Hai nulla da aggiungere tu?» «Io, no, non ho niente da dire». È triste. Credetelo, in fondo, è triste. Non essere niente. Sfuggire cosí facilmente a tutte le noie del mondo. Sentirsi nell’anima il vuoto quando altri piú parla e ragiona. Veder quella brava persona imporsi un gran compito ignoto. E quelli che chiedono a un tratto: «Che avresti tu detto al mio posto?» «Io… non avrei forse risposto… Io… mi sarei finto distratto…» Non aver nulla, né mire né bei sopraccapi, né vizi; osar fino in mezzo ai comizi: «No, sa? Non ho niente da dire».



Ed esser creduto un insonne, un uomo che veglia sui libri, un’anima ardita che vibri da tutto uno stuolo di donne.

v. . a me è retto da parlo; ma l’accostamento dei due dativi (a me mi) suona volutamente come una sgrammaticatura, a sottolineare il carattere «mediocre» e parlato di questa poesia. v. . sopraccapi: grattacapi, preoccupazioni.

v. . osar: sottinteso: dire. vv. -. un’anima … donne: essere creduto un’anima ardita e vibrante da uno stuolo di donne, pronte a entusiasmarsi di fronte allo scrittore (secondo il modello dannunziano).

EPOCA







LA NUOVA ITALIA

-

«Mi dica, sua madre che dice? Io so dai suoi libri che adora sua madre. Nevvero, signora? nevvero che è tanto felice? Un figlio! Vederlo salire, seguirne il pensiero profondo…»



Ed io son l’unico al mondo che non ha niente da dire.

L’altro me stesso (da Diario senza le date)

D

˜

all’ultima raccolta di Moretti (1974, che contiene poesie scritte tra il 1966 e il 1974) riportiamo questo breve componimento in cui il vecchio poeta sembra come sdoppiarsi e considerare un altro se stesso, che guarda le cose intorno (e in particolare il proprio giardino) con l’occhio immobile del tempo dell’infanzia: questo sguardo sembra come fissare il tempo stesso fuori del suo corso inesorabile; nell’immagine del giardino sembra come bloccarsi ogni realtà. Ma negli ultimi due versi la fissità di quell’altro io bambino fuori del tempo si identifica di nuovo con l’immobilità del vecchio: la sfida alla vita fatta dal bambino si svolge entro la prigione della vecchiaia in cui è chiuso il poeta; il passato e il presente, l’infanzia e la vecchiaia si sovrappongono e si confondono in modo inquietante, come accade spesso nelle poesie dell’ultimo Moretti. METRO:





endecasillabi e settenari, con lo schema AbBACcDdEA aE.

L’altro me stesso guarda il suo giardino, guarda le cose intorno, sorride a queste cose, al verde, al giorno, a tutto come quando era bambino. E qui sente che il tempo s’è fermato, che s’è come staccato da tutto il resto e la morte è lontana, e che ogni attesa è vana, se non esiste piú ora e stagione, ma soltanto quel bosso e quel giardino. Perch’io son quel bambino con la sua sfida nella mia prigione.

v. . il suo giardino: questo giardino è quello della propria poesia, quello della natura presente e, insieme, quello del proprio passato. Nella stessa raccolta (Diario senza le date), in una lirica intitolata Felice-infelice, Moretti dichiara: «Il passato è il presente / e chi sa farlo presente è poeta».

v. . perché, appunto, nella poesia «il passato è il presente». vv. -. Perch’io … prigione: Il conflitto fra i due «me stesso» (quello infantile della sfida, e quello senile della prigione) si compie nel giro sintattico di questa frase, con il bisticcio fra sua e mia.

E

P

O

C

A

  Guerre e fascismo -

SOMMARIO

.. All’affermazione della modernità si accompagnano la distruzione delle guerre mondiali e la diffusione dei regimi totalitari (come il fascismo italiano). Nuove forme e nuove tecniche rompono la continuità della tradizione culturale. .. Nella cultura italiana, dominata dall’idealismo di Croce, si sviluppa un’ampia riflessione ideologico-politica, che trova in Gramsci la sua manifestazione piú avanzata. .. Negli anni Dieci si svolgono le esperienze espressionistiche de «La Voce» e la battaglia dell’avanguardia futurista; singolare e appartata la narrativa di Tozzi. .. Pirandello vive la realtà e la letteratura come tortura e lacerazione: il suo teatro, soprattutto con i Sei personaggi, sconvolge le forme del dramma borghese. .. Svevo scompone gli equilibri e le sicurezze del personaggio borghese, la sua stessa nozione del tempo e della memoria. .. La prosa degli anni Venti e Trenta vede affermarsi nuove esperienze, tra cui quelle di Savinio, Landolfi, Delfini e quelle di un nuovo realismo. .. I nuovi caratteri della lirica del Novecento si definiscono con la poesia di Campana, Rèbora, Sbarbaro, Saba, Ungaretti, e trovano un’espressione significativa nell’ermetismo (mentre appartata si consolida una nuova poesia dialettale). .. Come un vero «classico» del Novecento, Montale dà voce con la sua poesia alla condizione dell’uomo in un mondo desolato e senza significato. .. Il plurilinguismo di Gadda offre un’immagine dolente del disgregarsi dell’io e della realtà dell’Italia moderna.

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10.1 MODERNITÀ E DISTRUZIONE ... Da una guerra all’altra.

Per i caratteri particolari della storia politica e culturale italiana possiamo convenzionalmente fissare al  il punto di partenza della nuova epoca caratterizzata da un tumultuoso sviluppo dell’industria e della tecnica, da conflitti politici e sociali di enorme portata, e segnata dalle due guerre mondiali del - (la cosiddetta «Grande Guerra») e del -. Le due guerre coinvolsero per la prima volta l’intero pianeta e videro la partecipazione diretta o indiretta di quasi tutti gli Stati importanti, con effetti e conseguenze in ogni luogo della terra, anche nei Paesi che non parteciparono ai conflitti. La trasformazione dell’organizzazione sociale, ora tesa verso la modernità e verso una società di massa, lo sviluppo del capitalismo, l’espansione imperialistica degli Stati piú potenti, fenomeni che già nell’epoca precedente avevano assunto un movimento impetuoso e irresistibile, trovarono cosí un esito irrazionale e rovinoso. Motivate in primo luogo da una spietata concorrenza tra gli Stati industrialmente piú avanzati per il controllo dei mercati mondiali, le due guerre produssero distruzioni senza precedenti e modificarono radicalmente l’assetto geografico e politico dell’Europa e del mondo intero: al loro scatenarsi e alla loro inaudita violenza contribuirono d’altra parte in modo determinante le ideologie nazionalistiche, imperialistiche e autoritarie che dominarono in molti Stati europei e imposero nuovi regimi totalitari di massa. Negli anni della prima guerra mondiale, la rivoluzione russa del  portò per la prima volta al potere la classe operaia e fece aleggiare su tutto il mondo lo spettro del comunismo, la minaccia di un rivolgimento radicale dei rapporti sociali: mentre il nuovo regime comunista si costruiva su di una rigida struttura dittatoriale e le democrazie occidentali subivano varie crisi e conflitti interni, in altri Paesi si affermarono, negli anni Venti e Trenta, regimi totalitari di destra, le cui massime espressioni furono costituite dal fascismo italiano e dal nazismo tedesco. Quest’ultimo trovò la sua piú orribile manifestazione nel razzismo antisemitico e in una organizzazione scientifica della persecuzione e dello sterminio degli Ebrei. La seconda guerra mondiale, scatenata dal nazismo, si concluse con la sconfitta dei regimi totalitari di destra e con la diffusione di nuove speranze «democratiche». La sua conclusione vide anche l’impiego di un nuovo terribile mezzo di distruzione, la bomba nucleare, lanciata dagli Stati Uniti d’America sul Giappone nell’agosto del : gli anni successivi saranno dominati dalla paura dell’atomica, in un nuovo assetto mondiale basato sull’opposizione tra due «blocchi», quello occidentale delle democrazie capitalistiche, guidato dagli Stati Uniti d’America, e quello orientale dei regimi comunisti, guidato dall’Unione Sovietica. Questi sviluppi storici furono accompagnati da progressi della tecnica, che avviarono una modificazione irreversibile della vita quotidiana: basta ricordare la diffusione di nuovi mezzi di trasporto (in primo luogo l’automobile e l’aeroplano) e di nuovi mezzi di comunicazione (in primo luogo la radio), o le nuove importanti scoperte nel campo della medicina (come quella della penicillina, ). Nei Paesi piú avanzati fu possibile una relativa diffusione di nuovi consumi, l’affacciarsi, per grandi masse di uomini, della possibilità di un’esistenza libera dalle antiche costrizioni e difficoltà. Il nostro Paese fu partecipe degli eventi e delle tendenze essenziali di quest’epoca, pur dovendo fare i conti con l’arretratezza e le contraddizioni ereditate dalla sua storia. Dopo l’impresa coloniale di Libia (-) e la vittoria riportata nella prima guerra mondiale, che determinò l’annessione delle regioni nord-orientali rimaste in precedenza staccate dallo Stato unitario, il dopoguerra fu caratterizzato da violenti conflitti sociali, che si risolsero nel  con la presa del potere da parte del fascismo e la nascita di un regime totalitario, che tentò varie avventure imperialistiche (come la conquista dell’Etiopia, ). Alleato con il nazismo tedesco, il fascismo portò l’Italia alla catastrofe della seconda guerra mondiale, ma la sconfitta militare si risolse in un crollo del regime e, anche grazie alla Resistenza contro l’invasione tedesca, nella caduta della monarchia e nella creazione di una nuova repubblica democratica.

Uno sviluppo tumultuoso

Le due guerre mondiali

La rivoluzione russa del 

La fine della seconda guerra mondiale

I progressi della tecnica

Il fascismo

EPOCA





GUERRE E FASCISMO

-

... La rivoluzione scientifica e filosofica. Oggettività e conoscenza scientifica

La relatività e la teoria quantistica

Scienza, conoscenza e metodo

Il problema del punto di vista e del linguaggio

Nuove prospettive per le scienze umane La psicoanalisi

Il crollo delle sicurezze dell’Europa borghese e liberale coinvolge gli stessi fondamenti della cultura positivistica, già in crisi all’inizio del secolo. Lo sviluppo delle scienze della natura mette in discussione l’oggettività della conoscenza scientifica, la possibilità di derivare da essa modelli di sistemazione globale della realtà: nuove teorie e nuove scoperte modificano i caratteri dell’attività degli scienziati e penetrano nella coscienza culturale, mettendo in crisi gli opposti modelli meccanicistici e organicistici dominanti nella scienza ottocentesca (cfr. ..). Un ruolo-guida assume in questo senso la fisica, che, con la teoria della relatività di Albert Einstein (-), rovescia le piú antiche categorie dello spazio e del tempo e, con l’elaborazione della meccanica quantistica e gli studi sulla struttura dell’atomo, muta la stessa nozione tradizionale di oggetto fisico, respingendo radicalmente ogni concezione deterministica della natura. In una diversa prospettiva la biologia, specialmente con gli sviluppi della genetica, si avvia a mettere in dubbio le tradizionali concezioni organicistiche della vita. La difficoltà di una conoscenza scientifica «oggettiva» comporta una specializzazione della ricerca e un progressivo sganciarsi da visioni totalizzanti. Le nuove possibilità offerte dalla sperimentazione e dall’applicazione delle scoperte approfondiscono e complicano il rapporto con la tecnica e con l’industria. Da questo punto di vista la scienza si trova a dominare l’intero orizzonte della vita sociale, senza però poter diffondere quei modelli univoci e quelle certezze sul destino dell’uomo che avevano caratterizzato la scienza positivistica. La stessa filosofia tende a porsi come riflessione sui limiti e le condizioni del discorso scientifico, sui modi in cui esso entra in rapporto con la realtà. Nella cultura italiana (soprattutto per opera di Croce) questa riflessione sui fondamenti della conoscenza si risolve in una negazione del valore teoretico delle scienze della natura e in una loro opposizione a quelle dello spirito. Ma nella cultura europea la convinzione del carattere non oggettivo del sapere scientifico porta a una affermazione del suo valore teorico e promuove una piú ampia indagine sui limiti della conoscenza: l’attenzione al punto di vista dell’osservatore-interprete conduce ad affermarne il carattere strumentale, si indagano i suoi legami con la tecnica e si sottolinea il peso determinante che in ogni conoscenza assumono i linguaggi. Quello del linguaggio, della sua struttura e delle sue condizioni, si pone cosí come il problema centrale della riflessione filosofica contemporanea. Discipline quali la psicologia, l’antropologia e la sociologia si sganciano dalle loro premesse positivistiche, riflettono sui loro stessi fondamenti e studiano anche gli aspetti piú irrazionali della vita collettiva. Di fronte alla nevrosi e alla follia che minacciano non solo gli individui, ma l’intera società, si approfondisce il lavoro della psicoanalisi (cfr. PAROLE, tav. ), che comincia a diffondersi e a dar luogo a scuole e orientamenti diversi: le ipotesi, le teorie, le analisi di Sigmund Freud (cfr. ..) investono in maniera radicale il senso stesso della civiltà occidentale.

... Arte e letteratura di fronte alla modernità. I linguaggi della modernità

Nella fase iniziale del secolo XX (in modo piú intenso negli anni Dieci e Venti) ha luogo una frattura radicale delle forme della comunicazione estetica e dei linguaggi artistici, che porta all’estremo l’opposizione tra esperienza artistica e società borghese (cfr. ..) già presentatasi nel corso dell’Ottocento. La ricerca di linguaggi che superino i codici tradizionali e rompano con le convenzioni borghesi riceve ulteriore impulso dall’imporsi di nuove tecniche di comunicazione basate sull’uso di macchine, dalle sempre nuove possibilità di riproduzione in serie delle esperienze estetiche, dalla velocità che sembra essersi impossessata di ogni momento della vita. Si mira a porre i codici artistici all’altezza delle modificazioni intervenute nei rapporti dell’uomo con quanto lo circonda, nello svolgersi stesso della «vita» e della storia.

.

MODERNITÀ E DISTRUZIONE



Protagoniste di questi processi sono le avanguardie (cfr. DATI, tav. ): esse intervengono in modo «militante» nella dialettica della comunicazione artistica, in forme spesso aggressive e violente al fine di infrangere le barriere che pesano sulla società presente e di anticipare i segni di un futuro libero e vitale. Queste esperienze nascono dalla collaborazione di artisti e scrittori diversi che elaborano programmi e si organizzano per imporli sulla scena culturale, con interventi che mirano a creare effetti di sorpresa e di turbamento. Si arriva a mettere in questione lo stesso valore dell’arte, il suo tradizionale carattere di oggetto assoluto da godere nel distacco della contemplazione estetica. Violentissima è cosí la battaglia contro gli usi contemplativi dell’arte e contro gli atteggiamenti passivi, ottusi e subalterni del pubblico: l’arte deve, secondo le avanguardie, scuotere, spingere all’azione, scatenare energie, agire come una forza liberatrice, che, superando ogni mediazione tra i linguaggi e le cose, si identifichi con la vita stessa.

Le avanguardie e la comunicazione borghese

Collegandosi con tutte le filosofie della «vita» che si impongono nella cultura europea tra Ottocento e Novecento, le avanguardie si affidano all’irrazionale, allo sconvolgimento della lo-

La ricerca sperimentale

Fruizione e pubblico

LE AVANGUARDIE STORICHE

Si forniscono qui alcuni dati informativi sulle avanguardie storiche che hanno avuto maggiore influenza sulla letteratura. Bisogna però tenere presente che determinanti per l’attività dei gruppi d’avanguardia furono anche la musica, il cinema, il teatro, varie forme di spettacolo e generi artistici minori; molti tra i loro maggiori rappresentanti operarono in campi artistici diversi, mirando in tal modo proprio a rompere le barriere esistenti tra le varie arti e tra i vari codici. ESPRESSIONISMO

Non costituisce un gruppo specifico, ma un orizzonte generale, dagli aspetti molteplici: si tratta di varie forme di rottura dei canoni tradizionali della rappresentazione, alla ricerca di una espressione di realtà profonde, in una fortissima tensione spirituale (cfr. PAROLE, tav. ). Si sviluppa in primo luogo in Germania tra il  e il  ca., ma i precedenti si possono trovare in pittori già operanti nel tardo Ottocento (come Van Gogh e Cézanne). FUTURISMO

Movimento che rifiuta le forme artistiche tradizionali, cercando un nuovo linguaggio adeguato agli sviluppi della civiltà delle macchine, proiettato verso un «futuro» segnato dai ritmi della produzione industriale. Si svolge in Italia, soprattutto nel periodo - ca., anche se Marinetti e altri continuarono variamente la loro attività (cfr. ..). In Russia il futurismo inizia a svilupparsi, in una accesa chiave rivoluzionaria, fin dal . DADAISMO

Movimento che aspira a una rottura radicale della tradizione borghese, affermando la libertà di un gioco irresponsabile, capace di vanificare ogni artificio e ogni istituzione sociale. Il suo nome è dato dalla parola dada, con cui si intende esaltare la giocosa libertà del nulla, l’indifferenza e l’anarchica gratuità di ogni forma artistica. Esso si svolge in Svizzera e poi in Francia per opera di Tristan Tzara (-) e in Germania nel periodo -: vari dadaisti confluiranno poi nel surrealismo. SURREALISMO

Movimento che propone di costruire nuove forme di esperienza opposte alla logica borghese, scoprendo nuovi territori dell’umano, in cui dominano il sogno, il lapsus, la magia, l’erotismo, l’umorismo, il fantastico: si tratta della ricerca di una «soprarealtà» che mira a «cambiare la vita», in una prospettiva rivoluzionaria che aspira a un comunismo di tipo libertario (cfr. ..). Nato in Francia per iniziativa di André Breton nel , il surrealismo, pure tra fratture e scissioni, ha diffuso nel mondo una nuova dimensione dell’immaginario. Come movimento collettivo, la sua fase piú vitale si è svolta fino alla seconda guerra mondiale; la chiusura ufficiale è avvenuta nel .

DATI

tav. 216

EPOCA



Avanguardia, tradizione e cultura di massa

Al di là dell’avanguardia

La letteratura della «crisi» borghese



GUERRE E FASCISMO

-

gica corrente, ricavandone un impulso alla sperimentazione, alla ricerca di rapporti e situazioni inedite. La tensione verso il nuovo permette cosí di rivolgere un’attenzione particolare ai problemi tecnici e pratici che ogni atto estetico comporta; dal lavoro delle avanguardie scaturiscono, infatti, studi innovativi sui caratteri linguistici e sui procedimenti costruttivi dei testi letterari, che raggiungono notevoli risultati negli anni Venti con l’attività dei formalisti russi (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ). La rivoluzione operata dalle avanguardie del primo Novecento ha prodotto opere ed esperienze il cui valore non coincide sempre con gli obiettivi prefissati, ma che hanno dato un senso radicalmente nuovo ai diversi linguaggi artistici, rivitalizzati dal confronto con la tecnica. Occorre notare come gli stessi propositi rivoluzionari dell’avanguardia corressero il pericolo di venire riassorbiti all’interno dei meccanismi del mercato, rischiando subito di trasformarsi in tradizione, di essere inglobati nelle istituzioni. La cultura di massa si è appropriata, infatti, di molti dei codici linguistici elaborati dalle avanguardie, degradandoli e riducendoli a mera funzione di mercato e di consumo. E in definitiva la rivoluzione dell’avanguardia sembra aver finito per collaborare a quegli stessi meccanismi contro i quali aveva indirizzato le sue critiche. I gruppi e gli artisti d’avanguardia ebbero orientamenti molto diversi, accompagnati da scelte politiche contrastanti. Il comune spirito antiborghese condusse in genere a un rifiuto della società costituita; molti si trovarono schierati su posizioni di tipo anarchico e rivoluzionario, ma non mancarono, come nel caso del futurismo italiano, atteggiamenti vicini alle tendenze piú oscure e distruttive della borghesia.

Dal lavoro delle avanguardie occorre distinguere alcune grandi esperienze artistiche, svolte da autori relativamente isolati, che rompono gli schemi tradizionali della rappresentazione e sconvolgono la nozione stessa di personaggio, pur senza inventare nuovi linguaggi risolutivi. Molti grandi capolavori nascono non da intenti programmatici, ma dalla ricerca di un’arte capace di indagare nel fondo piú segreto dell’esperienza borghese, di metterne in luce tutti gli aspetti e le contraddizioni. Sorge cosí una grande letteratura, che turba ogni sicurezza, e in cui trova espressione una bruciante coscienza dello squilibrio che corrode gli individui, le società, l’intera civiltà. Questa letteratura (che nel mondo anglosassone viene designata con il termine di modernism, modernismo: cfr. PAROLE, tav. ) rompe dall’interno i modi di comunicazione e gli schemi narrativi tradizionali, scava fino in fondo nei risvolti piú segreti dell’uomo, svuota la consistenza dell’io e della realtà, scompone e rovescia i limiti dell’esperienza, si accanisce a definire i vizi, le follie e i tragici esiti della vita sociale contemporanea. Ne sorgono grandi opere come quelle dei francesi Marcel Proust (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ), Paul Valéry (-) e Louis-Ferdinand Céline (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ); dell’irlandese di lingua inglese James Joyce (cfr. CA-

FORMALISTI RUSSI GENERI E TECNICHE

tav. 217

Con questo termine (usato originariamente in senso denigratorio) si definisce un gruppo di critici, scrittori, artisti, studiosi di linguistica e di estetica, che in Russia, nel secondo decennio del Novecento, svilupparono una nuova teoria letteraria e nuovi modi di analisi dei testi, prestando particolarmente attenzione agli elementi linguistici, alle tecniche e alle forme della comunicazione. Il Circolo linguistico di Mosca, fondato nel  e la Società dell’Opojaz di Pietroburgo, fondata nel , costituirono i piú attivi centri di lavoro di questa tendenza, che fu particolarmente brillante nei primi anni della rivoluzione sovietica e si incontrò con la nuova attenzione alle forme prestata dai movimenti d’avanguardia e in particolare dal futurismo russo. I formalisti russi, con un senso rigoroso della costruzione materiale dei testi, misero in luce i «procedimenti» della scrittura letteraria, individuarono e definirono le strutture caratterizzanti delle opere letterarie, fissarono schemi essenziali per lo studio del linguaggio poetico, delle forme metriche e ritmiche, dei meccanismi narrativi, dei generi letterari, considerando anche il legame tra la comunicazione letteraria e le forme antropologiche (cfr. anche TERMINI BASE ).

.

MODERNITÀ E DISTRUZIONE

NONE EUROPEO, tav. ); del tedesco Thomas Mann (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ); dell’austriaco Robert Musil (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ); del boemo di lingua tedesca Franz Kafka (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ); dell’americano Thomas Stearns Eliot (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ); dell’inglese Virginia Woolf (-), del portoghese Fernando Pessoa (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ). In tempi e modi diversi, in Europa e in America, anche in risposta ai regimi e alle ideologie totalitarie, gruppi consistenti di intellettuali si schierano dalla parte delle classi popolari e dei partiti democratici, socialisti e comunisti, che lottano contro l’involuzione autoritaria. Lo schieramento del movimento surrealista dalla parte del partito comunista francese inaugurò, negli anni Venti, un nuovo modo di rapportarsi alla politica, che diventerà caratteristico di vasti strati di intellettuali dell’Europa occidentale: la cultura e l’arte, concepite come pratiche di liberazione integrale dell’uomo, portano a vedere nel comunismo, o in un piú generale orientamento «di sinistra», la via per un cambiamento radicale della società. Una vera e propria «cultura di sinistra» attira molti intellettuali, specie in Francia e nei Paesi anglosassoni, soprattutto negli anni Trenta, di fronte all’ascesa del fascismo e del nazismo: essa si svolge tra contraddizioni e fratture, dovute in gran parte alla chiusura totalitaria del regime sovietico e al trionfo dello stalinismo.

Il momento di piú forte schieramento a sinistra degli intellettuali europei e americani fu rappresentato dalla guerra civile spagnola (-), alla quale molti scrittori parteciparono direttamente a fianco delle forze antifasciste. La cultura italiana si mantiene invece chiusa nella sua sostanziale adesione o condiscendenza al fascismo: le poche esperienze di una cultura di sinistra sviluppatasi nel primo dopoguerra (cfr. .) vengono ridotte al silenzio dalla repressione fascista. La cultura antifascista si svolge soprattutto in esilio, nei termini di un impegno politico-ideologico, e scarsi ne sono gli esiti letterari.



Una cultura per la liberazione dell’uomo Gli intellettuali e il regime sovietico

L’Italia durante il fascismo

... La cultura di massa e i nuovi mezzi di comunicazione. La civiltà cittadina e industriale, basandosi sull’impiego di grandi masse di uomini, sulla loro integrazione nei processi produttivi e di consumo, necessita della diffusione di un livello di cultura minimo e omogeneo che renda possibile il contatto e la collaborazione tra i singoli individui. Nelle aree industriali e urbane l’alfabetizzazione tende ormai a raggiungere un livello di massa, anche in Paesi come l’Italia che piú avevano faticato a liberarsi dall’eredità di un secolare abbandono. Lo stesso fascismo cercò in vari modi di favorire un’educazione popolare di livello minimo, ma abbandonò a se stesse molte aree contadine e gran parte delle popolazioni povere del Sud. Uno strumento essenziale per la diffusione di una cultura di massa furono i nuovi mezzi di comunicazione, già sperimentati tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo, ora in grado di raggiungere vasti strati di pubblico. La capacità dei nuovi mezzi tecnici di riprodurre in serie l’immagine e il suono, il forte impatto sul consumatore di nuovi prodotti che non richiedono la pagina scritta o la riflessione, facilitano una circolazione uniforme della cultura. Compaiono nuove forme culturali dall’effetto immediato e spettacolare, che si sganciano dalla sacralità tradizionale dell’arte e del sapere. Si impone infatti una produzione di consumo che si riallaccia agli schemi della letteratura d’appendice e popolare ottocentesca (cfr. GENERI E TECNICHE, tav.  ed epoca ); il cinema e la fotografia producono capolavori eccezionali raggiungendo il valore e il prestigio delle tecniche artistiche tradizionali. L’integrazione di massa, a cui tendono, in modi diversi, sia i regimi totalitari sia i regimi di tipo democratico, è caratterizzata da occasioni collettive: le adunate, le grandi manifestazioni politiche, le feste e i divertimenti cittadini, gli spettacoli sportivi assumono un peso rilevante nella vita sociale.

La partecipazione delle masse

La cultura e i mezzi di comunicazione

Le nuove tecniche e la tradizione

EPOCA



Controllo e manipolazione dell’informazione

La radio Il cinema

I modelli americani

Cinema, teatro e letteratura



GUERRE E FASCISMO

-

Diventano essenziali la gestione e il controllo della stampa quotidiana, la cui organizzazione all’inizio del secolo assume, anche in Italia, dimensioni industriali e acquista un compito di direzione dell’opinione pubblica. Le campagne per la guerra di Libia e per l’intervento nella prima guerra mondiale sono un esempio di strumentalizzazione delle masse attraverso il giornalismo. Il controllo fascista della stampa quindi perfezionò un metodo già sperimentato negli anni Dieci. Un ruolo importante assunsero nella manipolazione della cultura di massa i rotocalchi popolari, che in Italia cominciarono a diffondersi negli anni Trenta. Nell’ambito della stampa periodica rientra anche il fumetto (narrazione per immagini accompagnata da parole, in parte legata alla suggestione cinematografica), che con la sua vivace produzione abbraccia i generi piú disparati, creando eroi e miti che vanno ad arricchire lo sterminato serbatoio dell’immaginario moderno. Al di là della stampa, tramite essenziale per la diffusione dell’informazione diviene in questa fase la radio, che in Italia inaugura le proprie trasmissioni su scala nazionale nel . I risultati piú rilevanti sul piano della comunicazione artistica furono raggiunti dal cinema, che si sviluppò in un contesto di libero mercato e di vivace sperimentazione, e suscitò la collaborazione di numerosi artisti e scrittori. Nel cinema riuscirono a convivere le forme piú degradate di comunicazione di massa e le piú raffinate ricerche creative. Esso rese possibile, piú di qualsiasi altra forma artistica, la diffusione di immagini di vita sociale e quotidiana ambientate in contesti molto diversi da quelli dello spettatore: cosí in Italia, dove, nonostante una vivace industria cinematografica, non si raggiunse ancora una produzione al livello del grande cinema internazionale, il successo del cinema americano fece circolare modelli di vita spesso in forte contrasto con quelli propugnati dal regime fascista. Il cinema ha esercitato un’influenza fondamentale su tutta la letteratura e il teatro contemporaneo, dando luogo a rapporti di collaborazione, a interferenze molteplici, suscitando nuovi modi linguistici e nuove forme di rappresentazione; esso raccoglie dalla letteratura schemi, storie, situazioni. Le riprese cinematografiche si appoggiano su testi scritti appositamente, le sceneggiature (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ), la cui stesura esige particolari competenze tecniche, teatrali e drammatiche, e la cui diffusione influisce notevolmente sui modi stessi della scrittura letteraria.

... Istituzioni culturali in Italia. Dopo lo sforzo iniziale di costruzione dello Stato unitario, l’Italia liberale aveva evitato una politica di intervento sistematico nel campo della cultura, lasciando notevole spazio alSCENEGGIATURA CINEMATOGRAFICA GENERI E TECNICHE

tav. 218

Per sceneggiatura si intende ogni scrittura che «mette in scena» una vicenda, con indicazioni riguardanti ambienti di ripresa, movimenti e dialoghi degli attori. Si tratta di una scrittura drammatica specializzata, che non rinvia a una possibile rappresentazione sulla scena (come accade al tradizionale testo drammatico, cfr. TERMINI BASE  e ), ma alla concreta costruzione di un organismo (come quello del film) che deve necessariamente mettere in opera una serie di linguaggi diversi. L’elaborazione di un film si svolge con metodi di sceneggiatura assai vari: di solito si parte dalla definizione e dalla stesura di un soggetto, in cui si fissa il tema del film e lo svolgimento generale dell’azione (può trattarsi di un soggetto originale o di un soggetto ricavato da un’opera letteraria). Un momento successivo è quello rappresentato dal trattamento, con il quale si indicano tutti gli elementi visivi e i movimenti in cui il soggetto deve essere organizzato nel film, ripartiti in ampie scene definite secondo l’ambiente nel quale saranno girate. Segue la vera e propria sceneggiatura, che può avere anche redazioni diverse, e che espone piú in particolare tutti i movimenti degli attori e della macchina e tutti i particolari visivi e sonori. Una volta girato il film, la realizzazione del montaggio comporta molteplici tagli e modificazioni rispetto alle sceneggiature originarie: l’ultima sceneggiatura è di solito quella per il doppiaggio, detta con termine inglese continuity, in cui si collegano parte visiva e parte

.

MODERNITÀ E DISTRUZIONE

la libera dialettica e all’azione del mercato: la battaglia intellettuale, che intorno al  raggiunge un momento di eccezionale tensione (ma cfr. .. e sgg.), si appoggia soprattutto su riviste nate dalla libera iniziativa e fuori dai canali delle tradizionali istituzioni culturali. Ma le tensioni di quel periodo si risolvono in una serie di progetti di organizzazione della cultura, essenziali per un regime come quello fascista che tende a una totalitaria integrazione di massa. Essi procedono in due direzioni diverse e complementari: da una parte mirano a legare gli intellettuali alle strutture del partito unico e dello Stato totalitario, lasciando loro degli spazi di relativa autonomia; dall’altra mirano a diffondere una cultura «fascista», che sia espressione di valori nazionali e popolari e agisca in profondità sugli strati piú vari della popolazione. Il fascismo riuscí a garantirsi un consenso di fondo presso gran parte delle classi intellettuali, coinvolgendo anche molti di coloro che all’inizio avevano mostrato diffidenza. Cruciale fu, in questo senso, la riforma dell’intero sistema scolastico. La filosofia di Giovanni Gentile, affermando il valore essenziale dell’educazione (cfr. ..), metteva gli insegnanti al centro dello sviluppo della coscienza nazionale e ne rivendicava il ruolo di protagonisti. Nominato ministro della Pubblica Istruzione, Gentile realizzò nel  la riforma che porta il suo nome, basata su una netta selezione di classe, su una rigida distinzione tra istruzione tecnica e istruzione classica. Costruita come un ferreo meccanismo, la nuova scuola permise un’organica saldatura tra la cultura idealistica, diffusa presso la maggior parte degli insegnanti, e le reali strutture dell’insegnamento. Subito dopo la riforma della scuola, Gentile diede vita a una grande iniziativa di sistemazione della cultura, l’Enciclopedia italiana, per la quale fu creato nel febbraio  l’Istituto Giovanni Treccani: essa uscí tra il  e il , contando sulla collaborazione di diversi intellettuali, tra i quali anche molti di coloro che mantenevano una posizione critica verso il fascismo (ma cfr. DATI, tav. ). Alla fine del  fu creata la Reale Accademia d’Italia, che raccolse alcune delle piú prestigiose personalità legate al regime (entrarono a farne parte, tra gli altri, Di Giacomo, Pirandello, Marinetti, Cecchi, Bontempelli, Ojetti). Nel  fu istituita la Confederazione nazionale dei sindacati fascisti, all’interno della quale fu formato un sindacato degli scrittori. Tra le altre numerose istituzioni pubbliche ricordiamo l’Istituto Luce per il cinema (), il Carro di Tespi per il teatro (), la Biennale di Venezia per il cinema (), il Centro Sperimentale di Cinematografia (). Furono promosse iniziative editoriali appoggiate dallo Stato, con tutta una produzione di testi ufficiali di «dottrina» fascista, di libri destinati alle scuole, di opere di edificazione «popolare» (sull’editoria, cfr. ... e DATI, epoca ). Nacquero, a scopo promozionale, i primi grandi premi letterari.

sonora, con i dialoghi presentati direttamente in forma drammatica. Dei film di maggior valore artistico si usa pubblicare (con necessari supporti fotografici) anche la sceneggiatura finale, che ha una forma piú simile a un testo teatrale, con la riproduzione drammatica di tutti i dialoghi e con ampie didascalie che offrono le indicazioni essenziali sull’ambiente, i gesti, i movimenti delle persone e della macchina da presa. I metodi di sceneggiatura sono vari, legati alle diverse tecniche di regia e ai diversi modi di organizzazione della produzione cinematografica: possono inoltre soddisfare esigenze particolari per sceneggiature televisive. Spesso il lavoro di sceneggiatura è collettivo, risulta cioè dal contributo di piú persone (e si avvale della collaborazione tra scrittori e registi). Oltre a molti scrittori che hanno lavorato come sceneggiatori (Zavattini, cfr. ..; Flaiano, cfr. ..; Parise, cfr. ..; e alcuni scrittori-registi come Soldati, cfr. .., e Pasolini, cfr. ..), si sono avuti casi di sceneggiatori professionisti che hanno rilievo anche nella storia delle forme narrative e linguistiche, come AGE (pseudonimo di AGENORE INCROCI, -) e SUSO CECCHI D’AMICO (figlia di Emilio Cecchi, nata nel ). Cfr. L. AIMERI, Manuale di sceneggiatura cinematografica. Teoria e pratica, UTET, Torino .



La libera iniziativa intellettuale La politica culturale fascista

La riforma Gentile

L’Enciclopedia italiana

Altre istituzioni culturali

EPOCA



Le università



GUERRE E FASCISMO

-

Varie iniziative furono prese per la ristrutturazione, la gestione e il controllo politico delle università, in cui molti professori avevano mantenuto un atteggiamento di riserva e di opposizione verso il regime: tra l’altro nel  fu imposto a tutti i docenti il giuramento di fedeltà allo «Stato fascista» (i pochissimi che rifiutarono dovettero abbandonare l’insegnamento). Il fascismo cercò di promuovere, con cadenza periodica, attività sociali e collettive che svolgevano prima di tutto un compito di educazione ideologica e di organizzazione militare, ma che intanto davano spazio a forme culturali di vario genere (soprattutto nel campo dello spettacolo). Le organizzazioni giovanili furono un terreno particolarmente fertile per manifestazioni e attività sportive e culturali.

... Il lavoro e la condizione sociale degli scrittori. Il rapporto con le istituzioni pubbliche

Il mondo dello spettacolo e del giornalismo

L’attività editoriale

L’infittirsi delle occasioni istituzionali, l’estendersi del mercato, lo stesso diffondersi dei nuovi mezzi di comunicazione creano nuove condizioni e nuove possibilità per il lavoro degli scrittori. Stretto appare il rapporto della loro attività con le istituzioni pubbliche: gli organismi ufficiali controllati o creati ex novo dal fascismo offrono importanti occasioni di lavoro e un posto fondamentale continuano ad avere la scuola e l’università. Non trascurabili sono i casi di scrittori che conducono una appartata vita di impiegati o passano fortunosamente tra mestieri piú diversi. Coloro che si impegnano maggiormente nella produzione letteraria possono comunque contare su commissioni e collaborazioni offerte soprattutto da riviste o enti finanziati dallo Stato. Possibilità di vario genere (spesso sostenute da interventi e da finanziamenti statali) vengono offerte dal teatro e dalle nuove produzioni cinematografiche e radiofoniche. Molti vivono come redattori di giornali, collaboratori di pagine culturali, corrispondenti o giornalisti professionisti. Ma, all’interno del regime, i giornali rivestono una chiara funzione di manipolazione dell’informazione che riduce la possibilità di una riflessione libera sul presente; la letteratura tende quindi sempre piú a presentarsi come un campo in cui si compiono raffinati e compiaciuti esercizi di stile destinati a un pubblico borghese, e si sfoggia una sapienza critica equilibrata e risolutiva (si impone, nelle terze pagine, il genere dell’elzeviro, cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ). Naturalmente il mondo dell’editoria e il mercato librario restano il punto di riferimento principale per gli scrittori. L’editoria subisce ora un processo di ristrutturazione generale dovuto alla crisi di quelle case editrici che avevano operato tra Ottocento e primo Novecento, sospese tra metodi artigianali ed espansione verso dimensioni industriali, e alla nascita di nuove che intervengono su settori diversi quali quelli dei rotocalchi popolari e dei fumetti. Numerosi sono gli editori «di cultura», che si propongono di promuovere orientamenti essenziali della cultura contemporanea (ma cfr. DATI, epoche  e ). Le dimensioni industriali che alcune di queste strutture assumono richiedono la costituzione di redazioni che offrono lavoro a scrittori e intellettuali.

ELZEVIRO GENERI E TECNICHE

tav. 219

La parola deriva dal nome di una famiglia di stampatori olandesi (attivi tra la fine del secolo XVI e l’inizio del XVIII) e designa in origine un carattere tipografico da essi usato, o edizioni accurate di piccolo formato, composte in genere con quel tipo di carattere. Nei giornali italiani all’inizio del Novecento vennero chiamati elzeviri gli articoli di fondo della terza pagina (dedicata alla cultura), distribuiti su due o piú colonne a sinistra della pagina stessa. In questi articoli venne usato per la prima volta il carattere elzeviro il  dicembre , in un articolo del «Giornale d’Italia» sulla prima romana della Francesca da Rimini di D’Annunzio (cfr. ..). Molto presto si diffuse l’uso di chiamare elzeviri tutti gli articoli di fondo della terza pagina, dedicati a recensioni, riflessioni e divagazioni letterarie, brevi racconti, bozzetti e descrizioni, affidati spesso a scrittori e giornalisti di prestigio.

.

MODERNITÀ E DISTRUZIONE

Accanto a intellettuali di origine borghese, se ne affiancano altri provenienti da famiglie borghesi impoverite o da ceti piccolo-borghesi, la cui ascesa sociale e la cui promozione culturale è favorita dai processi di urbanizzazione, di migrazione interna e di espansione delle diverse classi sociali. Questo mondo intellettuale appare animato da un’insoddisfazione di fondo per la realtà dell’Italia giolittiana, da un’aspirazione a porsi come protagonista di una modificazione della realtà e della storia: tra gli anni Dieci e Venti si rafforzano e si definiscono piú violentemente posizioni di tipo «reazionario». L’ampio consenso che il fascismo riuscí a ottenere presso questi strati di intellettuali è legato alla sua politica di rispetto esteriore dell’autonomia della cultura, pur entro un orizzonte repressivo e totalitario, e di creazione di entità istituzionali capaci di offrire riconoscimenti e soddisfazioni materiali. A parte l’antifascismo, tollerato dal regime, di Croce e dei gruppi liberali a lui legati, e quello dei pochi veri oppositori, per lo piú costretti all’esilio o al carcere, a parte il distacco di pochi intellettuali che riuscirono a vivere appartati dalla vita ufficiale, tutta la cultura italiana trovò in vari modi forme di convivenza e collaborazione con il regime. Veri atteggiamenti di riserva e di opposizione nascosta emersero solo dopo la metà degli anni Trenta, di fronte alle avventure imperialistiche e al funesto avvio della politica di discriminazione razziale.



Gli intellettuali contro l’Italia liberale

L’adesione al fascismo

Collaborazione e dissenso

... Tra centro e provincia: una nuova geografia culturale. Nelle grandi città si impone il progresso tecnico, si svolgono i piú determinanti fenomeni sociali e politici, ci si trova a contatto con grandi masse di uomini. In un mondo sempre piú integrato e organizzato appare essenziale che gli intellettuali, per partecipare al presente nei suoi aspetti piú significativi, si confrontino con la vita delle grandi capitali, dove l’intreccio tra cultura e società moderna offre occasioni e incontri. In Italia questa tendenza si scontra con una serie ridotta di relazioni internazionali, con la tradizionale presenza di piú centri culturali (cfr. CARTE, tav. ), con la mancanza di un nucleo capace di raccogliere l’intera vita politica, economica, intellettuale del Paese. Notevoli sono le differenze tra le città piú legate a un clima industriale, borghese e operaio, e quelle dalla prevalente natura amministrativa e impiegatizia, ancora caratterizzate da forme di produzione agricola e artigiana, e popolate da strati di piccola borghesia. Sono frequenti i casi di scrittori che si sentono attratti dai veri centri internazionali della modernità, in primo luogo Parigi. Ma gli intellettuali italiani sentono anche fortemente il legame con le rispettive realtà locali. All’integrazione in un orizzonte nazionale si oppone un accentuato senso della «provincia», del radicamento in luoghi che si trovano ai margini dello sviluppo. La provincia vive solo parzialmente le contraddizioni delle metropoli; qui mantengono una loro vitalità vecchie forme culturali, in cui meno visibili e minacciose appaiono le trasformazioni politiche, sociali, ambientali altrove in atto. Il ruolo di Roma resta essenziale per la sua posizione di capitale, in cui si assommano le contraddizioni della cultura nazionale. Roma assume una posizione di guida negli anni Venti, grazie all’attività della rivista «La Ronda» e allo sviluppo di forme di classicismo moderno, sia nel campo della letteratura sia nelle arti. L’imperialismo fascista tende a esaltare la «romanità» in tutte le sue forme, e il regime si impegna a dare a Roma un’immagine di moderna capitale imperiale: in essa, sede di gran parte delle istituzioni culturali ufficiali, operano numerosi intellettuali. Ma il luogo in cui converge la piú ricca produzione letteraria di questo periodo è sorprendentemente Firenze, ridestatasi dal torpore del tardo Ottocento; in un arco di esperienze che vanno da «La Voce» a «Solaria» e alle numerose riviste degli anni Trenta, la città vede svolgersi la vivace battaglia intellettuale degli anni Dieci, da cui si sviluppano poi una cultura attenta

L’attrazione della metropoli

Cultura nazionale e cultura regionale

La provincia: rappresentazioni e significati

Roma

Firenze

EPOCA



I CENTRI CULTURALI CARTE

tav. 220



GUERRE E FASCISMO

-

(-)

Si dà qui (con criterio analogo a quello usato in CARTE tavv.  e ) un elenco schematico della maggior parte degli autori menzionati nel testo: ci si riferisce ai luoghi principali di attività di ciascuno soltanto per il periodo -. Non si forniscono indicazioni piú particolareggiate sugli spostamenti e sui precisi tempi di permanenza di molti autori. TORINO

Gozzano (..). Einaudi (..). Gobetti, la casa editrice e le riviste (..). Gramsci e la cultura operaia: «L’Ordine Nuovo» (.. e sgg.). Fratelli Rosselli (..). Malaparte (..). Debenedetti (..). Solmi (..). Casa editrice Einaudi. Pavese (..).

GENOVA

Sbarbaro (..). Montale (.).

PORTO MAURIZIO

Boine (..).

MILANO

Moretti (..). Martinetti e Banfi (..). Futurismo: Marinetti, Buzzi e altri (.. e sgg.); teatro futurista (..). Govoni (..). Borgese (..). Bacchelli (..). «L’Italia letteraria» (DATI, tav. ). Bontempelli (..). Savinio (..). Buzzati (..). Rèbora (..). Ungaretti (..), Solmi, Sinisgalli (..). Quasimodo (..). Gatto (..). Tessa (..). Sereni (..).

GARDONE

D’Annunzio (..).

TREVISO

Comisso (..).

VICENZA

Piovene (..).

PADOVA

Valeri (..).

TRIESTE

Curiel (..). Slataper (..). Stuparich (..). Svevo (.). Quarantotti Gambini (..). Saba (..). Giotti, Marin (..).

FIUME

Morovich (..).

FERRARA

Govoni (..). Savinio, De Chirico, Carrà, De Pisis (..).

PARMA

Zavattini (..). Bertolucci (..).

MODENA

Delfini (..).

BOLOGNA

Panzini (..). Longanesi (..). Longhi, Flora (..).

CESENA

Serra (..).

FIRENZE

Papini, Prezzolini (..). Gentile e casa editrice Sansoni (..). «La Voce», «Lacerba» (.., .. e sgg.). Salvemini e «L’Unità» (..). De Robertis (..). Slataper (..). Jahier (..). Aleramo (..). Soffici (..). Palazzeschi (..). Cicognani (..). Ojetti, «Pegaso» e «Pan» (cfr. DATI, tav. ). Ricci e «L’Universale», «Il Bargello» (..). Carocci e «Solaria», «Il Frontespizio», «Campo di Marte» (..). Bonsanti, Loria (..). Landolfi (.. e sgg.). Delfini (..). Momigliano, Russo, Pancrazi (..). Bilenchi (..). Campana (..). Quasimodo (..). Bo, Macrí (..). Gatto (..). Giotti, Marin (..). Noventa (..). Montale (.). Gadda (.). Vittorini (..). Pratolini (..). Betocchi (..). Manzini, Banti (..).

VERSILIA

Viani, Pea (..).

.

MODERNITÀ E DISTRUZIONE

SIENA

Tozzi, Giuliotti (..).

COLLE VAL D’ELSA

Maccari e «Il Selvaggio» (..). Bilenchi (..).

ROMA

Deledda (..). Cultura ufficiale fascista, Gentile, Bottai e «Primato» (.., ..). Gramsci (..). Pintor (..). Aleramo (..). Futuristi: Marinetti (..). Folgore (..). Govoni (..). Borgese (..). Tozzi (..). Pirandello (.) e Teatro d’Arte di Roma. Rosso di San Secondo, Petrolini, Bragaglia e Teatro degli Indipendenti (..). «La Ronda», «Valori Plastici» (..). Cardarelli (..). Cecchi (..). Baldini, Barilli (..). Maccari, Malaparte (..). Bontempelli e «» (..). Alvaro (..). Tecchi (..). Savinio (..). Campanile, Zavattini (..). Gargiulo, Debenedetti, Praz (..), Longhi. Onofri, Vígolo (..). Ungaretti (..). Sinisgalli, De Libero (..). Trilussa (..). Gadda (.). Moravia (..). Brancati (..). Penna (..). Manzini, Banti (..).

NAPOLI

Serao (..). Di Giacomo (..). Croce (..). Bernari (..). Gatto (..). Viviani (DATI, tav. ). De Filippo (..).

BARI

Casa editrice Laterza (..).

CARCERE DI TURI

Gramsci (..).

CATANIA

De Roberto (..). Brancati (..).



EPOCA



Milano

Torino

Napoli

Trieste

I centri della cultura provinciale



GUERRE E FASCISMO

-

alla specificità delle forme letterarie e linguistiche, nuove ricerche narrative e poetiche aperte a un orizzonte internazionale. Qui nasce anche una prima letteratura di opposizione (Firenze è il punto di riferimento per autori come Gadda e Montale, Vittorini e Landolfi, la città che vede nascere l’ermetismo e un nuovo realismo, ma cfr. ..). A Milano, capitale della grande industria e maggiore centro editoriale del Paese, mostra la sua piú forte carica propulsiva il movimento futurista, ma riceve nuovo impulso anche una letteratura collegata alla ormai secolare tradizione lombarda, che trova in Gadda la sua espressione piú alta. La modernità di Torino è caratterizzata da un vigoroso pragmatismo, da un marcato impegno morale e politico, su cui incide la presenza di una forte classe operaia, ma che risale anche alle radici di una cultura liberale di respiro europeo. Di grande importanza sono la breve e intensa attività di Gobetti (cfr. ..) e lo svolgersi di una libera politica editoriale, dalle edizioni dello stesso Gobetti a quelle della nuova casa editrice Einaudi, sorta nel . Cardine della cultura idealistica e storicistica è Napoli, dove domina incontrastato il magistero di Croce, dietro il quale resiste una tumultuosa cultura cittadina, in un disordinato intreccio di elementi piccolo-borghesi. Originalissima è la posizione di Trieste, che fino all’annessione all’Italia del  è città di inquieto cosmopolitismo e che successivamente, in contrasto con le chiusure della situazione italiana, continua a dar vita a una cultura problematica, rivelando la sua modernità proprio nel mantenersi ai margini. Se queste città assumono le funzioni di veri e propri centri culturali, altre, con i vari contesti regionali che le contraddistinguono, restano caratterizzate in senso «provinciale» e conservano in questi anni un’originale vivacità. Genova si segnala come centro minore, punto di riferimento per una cultura regionale frantumata e dispersa, che produce però opere e risultati notevolissimi. Una vitalità eccezionale, sullo sfondo di un diffuso malessere sociale, mostra in primo luogo la Versilia, ma anche Siena. Vera quintessenza della «provincia» italiana, dei suoi valori autentici e dei suoi limiti, sono le città dell’Emilia e della Romagna. Ma occorre ricordare le esperienze che si svolgono nelle province venete, l’Abruzzo di Silone e la Calabria di Alvaro, il cosmopolitismo degli scrittori siciliani, e il peso che nella definizione di un nuovo valore delle realtà locali assumono alcuni poeti dialettali.

˜

10.2 IDEOLOGIA, FILOSOFIA, POLITICA: DA CROCE A GRAMSCI ... La battaglia intellettuale.

All’inizio del Novecento acquistano un peso notevole la ricerca di intervento nel presente e una cultura che vuole accelerare il movimento del mondo e sovrapporre a esso le esigenze della «vitalità» degli individui, l’aspirazione a intensi valori ideali e spirituali, spesso in fortissima contraddizione con gli equilibri dell’Italia giolittiana. In un intreccio di tendenze, già verso la fine del primo decennio del secolo, la cultura delle nuove generazioni appare dominata da una forte tensione critica che mira a trasformare e rovesciare i caratteri della realtà contemporanea. Balzano in primo piano la critica e la saggistica, che cercano di misurarsi con la situazione, le occasioni, le tendenze del presente. Ideologia, critica e politica si intrecciano strettamente e la stessa riflessione sulla letteratura si integra in una battaglia intellettuale che trova il suo momento piú vivace poco prima del , con l’avvio della rivista «La Voce» e con l’esplosione del movimento futurista. Negli anni che precedono lo scoppio della prima guerra mondiale si ha un fervore eccezionale di esperienze, che sembrano tendere a una modificazione radicale del quadro culturale e sociale dell’Italia giolittiana; ma la guerra di Libia e l’intervento nella guerra mondiale riaggregano anche le forze piú «sovversive» entro un orizzonte nazionalistico e finiscono per stroncare sul nascere gran parte delle potenziali spinte critiche. Al clima di chiusura che si respira durante il conflitto succede, nell’immediato dopoguerra, una nuova effervescenza politico-intellettuale, collegata a una grave crisi economica e al radicalizzarsi degli scontri sociali. In questa situazione alcuni intellettuali sembrano interpretare la propria esperienza culturale come una forma di partecipazione politica, altri, che trovano il maggior luogo di aggregazione nella rivista «La Ronda», avvertono un’esigenza opposta di «ritorno all’ordine», di valori piú stabili e indiscutibili. Le piú varie tendenze della cultura dei decenni precedenti finiscono comunque per farsi riassorbire nella prospettiva nazionalistica e autoritaria del fascismo. Il regime opera una sorta di violenta pacificazione, offre un nuovo quadro d’ordine alla maggior parte degli intellettuali italiani, tenta di garantirsi il consenso accentuando quello stesso intreccio tra ideologia, critica e politica che si era già manifestato nella cultura del primo ventennio del secolo. Anche all’interno del fascismo persiste una dialettica culturale, mentre la cultura d’opposizione piú pericolosa viene ridotta al silenzio; gran parte della cultura che si sente estranea al regime si rinchiude in un puro impegno letterario. L’unica esplicita voce di opposizione parzialmente tollerata è quella di Benedetto Croce, che riesce a mantenere un ruolo egemonico sulla nostra cultura. L’ultimo momento di scontro culturale aperto tra fascismo e antifascismo è costituito dalla risposta redatta da Croce al Manifesto degli intellettuali fascisti, apparsa il ° maggio  sul quotidiano «Il Mondo». Negli anni Trenta, mentre in carcere si svolge, ignorata, la grande riflessione di Gramsci, una cultura d’opposizione comincia a organizzarsi, soprattutto in esilio. La battaglia intellettuale trova nelle riviste il luogo in cui si confrontano tendenze, prospettive, schieramenti; le vicende letterarie e culturali del primo Novecento possono essere direttamente ricostruite sulla base del succedersi di linee e progetti rappresentati da queste pubblicazioni (cfr. DATI, tav. ). Le fasi stesse della storia culturale possono riconoscersi attraverso il rilievo che vi assumono alcune riviste piú influenti e prestigiose. La rivista di Croce, «La Critica», iniziata nel  e proseguita per gran parte della vita del filosofo, strumento di irradiazione della sua vera e propria «dittatura» intellettuale, diede un contributo alla rinascita dell’idealismo e costituí un riferimento per la cultura antifascista; «La Voce», iniziata alla fine del , si mosse invece tra posizioni diverse e rappresentò il polo di tutta l’inquieta cultura precedente la prima guerra mondiale. Nell’immediato dopoguerra, «La Ronda» fu espressione di una aspirazione all’«ordine» letterario e ideologico, mentre le riviste di Gobetti mirarono ad acuire, in senso rivoluzio-

Critica del presente

La battaglia intellettuale degli anni Dieci

Il primo dopoguerra

La violenta pacificazione fascista

L’opposizione crociana

Il confronto delle idee

Le principali riviste

EPOCA



LE RIVISTE CULTURALI DA DATI

tav. 221

TESTATA E SEDE



GUERRE E FASCISMO

-

«LA VOCE» A «PRIMATO» PRINCIPALI ANIMATORI

CRONOLOGIA

«La Voce» Firenze (cfr. .., .. e sgg.)

Giuseppe Prezzolini direttore fino al nov.  (salvo il periodo apr.-ott. , con direttore Giovanni Papini); Giuseppe De Robertis direttore dal dic.  fino alla chiusura

 dic. - dic. 

«La Riviera ligure» Genova

Diretta dai fratelli Novaro, Angiolo Silvio (-) e Mario (-)

-

«La Critica» Napoli

Benedetto Croce

-

«L’Unità» Firenze

Gaetano Salvemini (cfr. ..) e Antonio De Viti De Marco (-)

-

«Lacerba» Firenze (cfr. ..)

Giovanni Papini e Ardengo Soffici

° gen. -mag. 

«Energie Nove» Torino

Piero Gobetti (cfr. ..)

nov. -feb. 

«La Ronda» Roma

Vincenzo Cardarelli, Emilio Cecchi, vari «rondisti» (cfr. ..)

apr. -nov. , piú un supplemento nel dic. 

«Valori Plastici» Roma (cfr. ..)

Carlo Carrà, Giorgio De Chirico, Alberto Savinio (cfr. .. e sgg.)

-

«L’Ordine Nuovo» Torino (cfr. ..)

Antonio Gramsci, Angelo Tasca, Palmiro Togliatti

-, settimanale , poi quotidiano, fino al dic. ; riprende come rivista -

«La Rivoluzione Liberale» Torino

Piero Gobetti

feb. -nov. 

«Primo Tempo» Torino

Giacomo Debenedetti (cfr. ..), Sergio Solmi (cfr. ..), Mario Gromo (-)

-

«Critica fascista» Roma (cfr. ..)

Giuseppe Bottai

-

«Il Selvaggio» Colle Val d’Elsa, poi Firenze, Siena, Torino, Roma (cfr. ..)

Mino Maccari

lug. -giu. 

.

IDEOLOGIA, FILOSOFIA, POLITICA: DA CROCE A GRAMSCI

TESTATA E SEDE



PRINCIPALI ANIMATORI

CRONOLOGIA

«Il Baretti» Torino (cfr. ..)

Piero Gobetti, Augusto Monti (-), Leone Ginzburg (-), Giacomo Debenedetti (cfr. ..)

-

«Solaria» Firenze (cfr. ..)

Alberto Carocci, poi con Giansiro Ferrata (-) e Alessandro Bonsanti

-, gli ultimi numeri uscirono nel  con data 

«» Roma, i primi  numeri uscirono in francese con il sottotitolo Cahiers d’Italie et d’Europe (cfr. ..)

Massimo Bontempelli

autunno -giu. 

«L’italiano» Bologna, poi dal  Roma

Leo Longanesi (cfr. ..)

-

«L’Italia letteraria» Roma, continuava la milanese «Fiera letteraria», fondata nel  da Umberto Fracchia (-)

Giovan Battista Angioletti (-), Curzio Malaparte e vari ex «rondisti»

-

«Pègaso» Firenze

Ugo Ojetti (-)

-

«Il Frontespizio» Firenze (cfr. .. e ..)

Piero Bargellini (-), Carlo Betocchi (cfr. ..) e cattolici fiorentini

-

«Il Bargello» Firenze

Fascismo «di sinistra»

-

«Pan» Firenze

Ugo Ojetti

-

«L’Universale» Firenze

Berto Ricci (cfr. ..)

-

«La Riforma letteraria» Firenze

Alberto Carocci e Giacomo Noventa (cfr. ..)

nov. -set. 

«Letteratura» Firenze (cfr. ..)

Alessandro Bonsanti

-

«Campo di Marte» Firenze (cfr. ..)

Alfonso Gatto (cfr. ..) e Vasco Pratolini

ago. -ago. 

«Primato» Roma

Giuseppe Bottai e Giorgio Vecchietti

mar. -ago. 

EPOCA





GUERRE E FASCISMO

-

nario, l’effervescenza di quegli anni, e poi a difendere una razionalità liberale. Negli anni del fascismo trionfante, una prospettiva fondamentalmente estranea al regime, problematica, civile e moderna, concentrata sulla ricerca di una letteratura europea, trovò la sua maggiore espressione nella rivista «Solaria», uscita tra il  e il ; i sussulti interni alle giovani generazioni educate nel fascismo e il difficile svolgersi di un nuovo antifascismo, peraltro ancora nascosto, trovarono invece la maggiore espressione, già negli anni della seconda guerra mondiale, nella rivista «Primato».

... La «dittatura» intellettuale di Benedetto Croce. Il primato crociano

La formazione

Collaborazione con Gentile

Cambiamenti

Nel primo decennio del Novecento l’opera filosofica e critica di Benedetto Croce si impone come nuovo grande modello culturale, in cui la critica al positivismo e l’aspirazione a valori «ideali» e spirituali si svolgono con grande misura ed equilibrio, sfuggendo all’estremismo irrazionalistico proprio della cultura di quegli anni. A partire dal , la rivista «La Critica» diffonde i nuovi orientamenti idealistici, che vengono propugnati in forme piú estreme dalla filosofia di Gentile, a lungo vicino alle posizioni crociane. Nel corso degli anni Dieci e degli anni Venti l’idealismo crociano e gentiliano domina su tutti gli orientamenti della cultura italiana: ma Croce agisce piú profondamente sul piano dell’estetica e della critica letteraria, diffondendo presso coloro che si occupano di letteratura, soprattutto nella scuola, formule e modi di interpretazione della poesia. Dopo la rottura con Gentile, che si consuma definitivamente tra il  e il , l’attività di Croce mantiene un assoluto rilievo sulla cultura italiana, grazie alla suggestione esercitata dal suo liberalismo antifascista. Fino agli anni Cinquanta si può parlare di «dittatura» intellettuale di Croce, la cui opera agisce in profondo anche sulle tendenze piú diverse e contrastanti. BENEDETTO CROCE, nato a Pescasseroli in Abruzzo da famiglia di proprietari terrieri il  febbraio , visse con la famiglia a Napoli. Perse i genitori e una sorella durante il terremoto del  a Casamicciola. Fu poi a Roma, in casa di Silvio Spaventa (-), cugino del padre ed esponente della Destra storica, fratello del filosofo Bertrando (cfr. ..). Si iscrisse alla Facoltà di giurisprudenza, ma si appassionò alla ricerca storica, letteraria e filosofica, frequentando le biblioteche e seguendo le lezioni di Antonio Labriola (cfr. ..), a cui lo legò un’intensa amicizia. Tornato a Napoli nel , si diede a vari studi storici ed eruditi, ma già nel  portò a termine uno scritto teorico, presentato all’Accademia pontaniana, su La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte. L’interesse per la storia e la letteratura lo portò ad affrontare problemi di metodo, indirizzandolo verso il terreno della filosofia; stimolato da Labriola, studiò a fondo il marxismo, staccandosene però dopo un breve periodo di adesione. Iniziò a corrispondere e a collaborare con il piú giovane Giovanni Gentile (cfr. ..); rifletteva intanto a fondo sull’opera di De Sanctis, di cui curò l’edizione di varie opere. All’inizio del nuovo secolo elaborò l’opera che doveva imporlo alla contemporanea cultura italiana, l’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, apparsa nel , anno in cui ideò, insieme a Gentile, «La Critica», il cui primo fascicolo apparve il  gennaio . Seguí una infaticabile attività, una vita interamente dedicata allo studio e alla ricerca, svincolata da impegni e da incarichi accademici. In questo clima maturò lo sforzo sistematico della Filosofia dello spirito, costituita, oltre che dall’Estetica, dalla Logica come scienza del concetto puro (), dalla Filosofia della pratica () e dalla Teoria e storia della storiografia (-), mentre si sviluppava l’indagine sulla letteratura italiana postunitaria (i saggi furono poi raccolti nella Letteratura della nuova Italia); numerosissimi erano i suoi interventi sui piú vari temi culturali (pubblicati anche su giornali di ampia diffusione); notevoli, infine, le sue edizioni di testi e piú in generale le sue iniziative culturali (Croce guidò tra l’altro le scelte della nuova casa editrice Laterza di Bari, che pubblicò tutte le sue opere). Il compimento del suo sistema filosofico segnò un momento di cesura accompagnato anche da importanti cambiamenti nella sua vita: la morte nel settembre  di Angelina

.

IDEOLOGIA, FILOSOFIA, POLITICA: DA CROCE A GRAMSCI

Zampanelli, la donna con cui conviveva, e il matrimonio, nel marzo del , con la giovane piemontese Adele Rossi (da cui ebbe un figlio morto in fasce e quattro figlie); la prima polemica filosofica con Gentile svoltasi tra il  e il ; le prime concrete esperienze politiche (fin dal  era stato nominato senatore); la nuova situazione creata dalla guerra, che egli sentí come un momento di frattura per tutta la cultura europea. Un importante scritto autobiografico dell’inizio del , Contributo alla critica di me stesso, riassume il senso della sua già lunga attività e si rivolge verso una operosità futura. Alcune opere teoriche, vivificate da uno spiccato senso della storicità, apportarono maggiore concretezza alle categorie della filosofia dello spirito: nel campo dell’estetica il punto d’approdo fu rappresentato dal volume del  La poesia, mentre le varie distinzioni alla base della sua filosofia trovarono una sintesi nel volume La storia come pensiero e come azione (). Nel primo dopoguerra, dalla sua posizione di liberale conservatore vide nel periodo giolittiano un modello di vita politica «aperta», aliena da pericolosi estremismi. Tra il  e il  fu ministro della Pubblica Istruzione nell’ultimo governo Giolitti: condividendo la paura della borghesia per il pericolo «rosso», guardò con una certa cautela al fascismo, ma si oppose poi nettamente alla sua ideologia e alla sua azione repressiva, votando contro le leggi del gennaio  (che sospendevano le libertà civili e sopprimevano ogni opposizione legale) e redigendo in quello stesso anno il manifesto degli intellettuali antifascisti, in opposizione a quello fascista di Gentile, con il quale egli ruppe definitivamente. Negli anni piú bui del fascismo fu un punto di riferimento per tutta la cultura liberale antifascista: e il regime preferí tollerare la sua attività, che rimaneva tutta sul piano ideologico e non comportava pericoli concreti. Alla caduta del regime, il vecchio filosofo partecipò ad alcuni governi, contribuendo alla definizione del nuovo Stato italiano. Sostenne il nuovo partito liberale e partecipò attivamente all’Assemblea costituente della Repubblica. Intervenne in polemica soprattutto con le nuove tendenze culturali e con i suoi allievi che si stavano aprendo verso nuovi orizzonti (spesso in una prospettiva marxista); nel Palazzo Filomarino, sua abitazione, inaugurò, con il sostegno del banchiere Raffaele Mattioli, l’Istituto Italiano per gli Studi Storici. Venerato come il maggior rappresentante della moderna cultura italiana, morí a Napoli il  novembre . Nella vita e nell’opera di Croce il lavoro culturale si definisce come un rigoroso cammino in cui non si dà soluzione di continuità tra la coscienza individuale e il corso della storia: lo studio, la ricerca, la riflessione, il giudizio testimoniano in Croce un’adesione totale a una civiltà umana concepita come organismo globale, in cui tutte le cose trovano un loro posto e una loro giustificazione. Croce vive la sua attività con un impegno quotidiano in cui si nega ogni abbandono alla casualità e all’irrazionalità: in lui ogni momento del lavoro intellettuale si ricompone nella convinzione di partecipare al movimento piú integrale dello spirito umano. Per Croce è l’intero sistema della cultura e della storia umana a garantire una via d’uscita dalle forze distruttive che possono minare la coscienza e la stabilità dell’individuo. Contro le forze irrazionali che minacciano la civiltà europea e che sviano in vario modo le esistenze degli individui, Croce afferma una resistente esigenza di classicità, di partecipazione serena e sicura alla complessità della vita: ma questa sicurezza viene raggiunta solo riducendo e mettendo da parte ambiti essenziali dell’esperienza del mondo moderno.



L’impegno politico

La rottura con Gentile

Gli ultimi anni

La forza dell’intelligenza

Nel flusso della storia

... L’estetica e la filosofia crociana. Dopo la giovanile formazione erudita e le prime ricerche storiche, Croce definí nel corso dell’ultimo decennio dell’Ottocento le basi della sua filosofia. Egli sentiva una profonda insoddisfazione verso il pensiero e la scienza positivistici, accompagnata dal bisogno di rendere conto della complessa articolazione della vita della cultura, che gli appariva animata da una tensione spirituale che sfuggiva a ogni meccanico determinismo. Dopo una iniziale

Prime basi della filosofia crociana

EPOCA



L’interesse per De Sanctis L’estetica: intuizione ed espressione



GUERRE E FASCISMO

-

adesione al marxismo mise in primo piano lo studio di alcune esperienze costitutive dello spirito umano, mirando a una «classificazione delle scienze» vicina a orientamenti molto diffusi nella migliore filosofia europea a cavallo tra i due secoli. Da questa esigenza nacque il suo sistema filosofico, basato sulla distinzione di quattro momenti «eterni» della vita spirituale, quello estetico, quello logico, quello morale e quello economico (cioè le sfere del bello, del vero, del bene e dell’utile). L’interesse per De Sanctis spinse Croce ad affrontare in primo luogo il problema dell’arte e della poesia, del loro posto entro le strutture dell’esperienza. I risultati della sua riflessione estetica furono anticipati in uno scritto del  e ampiamente svolti nel volume apparso nel , Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. L’esperienza estetica viene qui indicata come la prima forma del rapporto dello spirito umano con il mondo, il livello piú originario della conoscenza. L’arte è «intuizione» fantastica che si dà immediatamente come «espressione»: è modo tutto individuale e circostanziato, in cui il linguaggio si manifesta in una purezza estranea a ogni funzione comunicativa. Nell’arte vengono a identificarsi individualità, espressione, intuizione, linguaggio, rappresentazione. Nel definire questa forza primigenia, Croce riduce e nega il valore di tutti gli aspetti concreti, tecnici, storici, pratici dell’arte.

Liricità e cosmicità dell’arte

In numerosi scritti teorici successivi, l’estetica crociana si arricchí con nuove aperture che la liberarono in parte dall’iniziale estremismo teorico, mettendo in evidenza i rapporti dell’arte con altri momenti della vita spirituale e tenendo in maggiore considerazione gli elementi pratici, storici e tecnici a essa legati. Nuove essenziali nozioni dell’estetica crociana furono quella della liricità dell’arte e quella della sua cosmicità; con queste nozioni si sottolineava insieme la purezza sentimentale dell’arte e il suo carattere di sintesi della totalità dell’esperienza umana. Il problema della storicità dell’arte continuò a scontrarsi con i presupposti della prima Estetica, dando luogo a una serie di correzioni e di ripensamenti, il cui culmine va individuato nel volume La poesia. Introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura (), in cui si ribadisce il carattere non storico della pura intuizione poetica, e si attribuisce valore pratico a tutto quel sistema di tecniche, forme, testi, che non si risolvono in espressione poetica ma formano il campo della letteratura.

Il «sistema» della cultura

Procedendo nel suo proposito di «classificazione» delle scienze dello spirito, Croce costruí, a partire dall’Estetica, un «sistema» che si offriva come spiegazione globale delle forme sempre ricorrenti della cultura umana.

La Filosofia dello spirito

Mentre alcuni studi fondamentali approfondivano l’indagine su Hegel e Vico, l’esposizione del sistema diede luogo a tre opere che, con l’Estetica, costituirono la Filosofia dello spirito, e cioè La logica come scienza del concetto puro (, anticipata nel  da una memoria accademica), la Filosofia della pratica. Economia ed etica (, anticipata da una memoria dell’anno precedente), la Teoria e storia della storiografia (apparsa in gran parte in rivista tra il  e il , e in volume nel ). Mentre l’estetica e la logica rappresentano le due forme «teoretiche» dello spirito, l’economia e la politica (che si identificano tra loro e riguardano l’ambito dell’«utile») e l’etica (che riguarda il «bene») rappresentano le due forme «pratiche», i modi d’azione dello spirito nel reale, di cui si occupa la Filosofia della pratica.

Economia, politica, etica

Circolarità e storicità dello spirito

Un sistema aperto

La Teoria e storia della storiografia esprime infine il senso storico che per Croce assume l’intera Filosofia dello spirito: il rapporto tra le diverse forme della conoscenza è un rapporto storico, un continuo circolare di esperienze nel procedere ininterrotto e interminabile dello spirito; la filosofia si risolve nello studio delle forme assunte dallo spirito umano nel suo movimento storico, e ogni storia è sempre storia contemporanea, coscienza che nel presente lo spirito ha della propria storicità. Croce considerò il sistema come un punto di partenza per una serie di ricerche storiche, per indagini sulle forme piú particolari, per ap-

.

IDEOLOGIA, FILOSOFIA, POLITICA: DA CROCE A GRAMSCI

profondimenti in cui la teoria filosofica si proietta e si modifica in rapporto con il modificarsi del mondo contemporaneo. Tra le numerose opere filosofiche vanno ricordate Etica e politica (), che contiene suggestive riflessioni su temi morali, e La storia come pensiero e come azione (), suprema sintesi dello storicismo crociano, in cui si afferma l’accettazione integrale della storia, nel suo fluire «vitale» che sintetizza in sé tutto il senso delle varie forme dello spirito e risolve in sé ogni razionalità.



Altre opere filosofiche

... Croce storico, politico e critico. L’interesse di Croce per la storia assume, sin dagli studi giovanili, le forme della ricerca erudita: egli si impegna su casi particolari di storiografia letteraria e sulla storia napoletana, ma manifesta ben presto una insoddisfazione per la scarsa problematicità di quella «scuola storica» (cfr. ..) a cui il suo lavoro si ricollegava. E nello sviluppo del suo pensiero filosofico la storiografia, intesa come riflessione globale sul movimento dello spirito umano nelle sue diverse forme, viene a occupare un posto centrale. Il primo vero lavoro storico che mostra un certo legame con problemi di ordine generale è dedicato a La rivoluzione napoletana del , la cui edizione del  mostra l’emergere di questioni di ordine politico legate alla contemporanea riflessione dell’autore sul marxismo. La storiografia crociana culmina in quattro opere, che costituiscono una vera e propria «tetralogia»: la Storia del regno di Napoli (), che narra le vicende dello Stato napoletano dal secolo XV al  ed esalta la funzione educatrice che in esso avrebbe assunto l’istituzione monarchica; la Storia d’Italia dal  al  (), rivalutazione appassionata dell’Italia liberale e della funzione di equilibrio e di mediazione che vi hanno svolto anche fenomeni solitamente spregiati come il trasformismo e il giolittismo; la Storia dell’età barocca in Italia (), affresco della cultura del Seicento, visto come il secolo della «decadenza» della civiltà italiana; la Storia d’Europa nel secolo decimonono (), dove l’Ottocento borghese e liberale viene esaltato come secolo dell’affermazione della «religione della libertà» (e per questo l’opera si presentò come nobile bandiera del liberalismo antifascista). In queste opere storiche si rivela nel modo piú chiaro la prospettiva che il liberalismo di Croce assume durante gli anni del fascismo: si tratta di laica «religione della libertà» che si identifica con il movimento stesso dello spirito, diventa principio ideale, regola morale superiore ai contenuti politici specifici. In questo senso va considerata la celebre polemica con Luigi Einaudi (cfr. ..), iniziata con un saggio del  su Liberalismo e liberismo, in cui Croce distinse il liberalismo, come ideale etico, dal liberismo, come dottrina economica e utilitaria. Nello stesso tempo sviluppò una lunga polemica contro il socialismo e il comunismo. Fu proprio la prospettiva «etica» del suo liberalismo a raccogliere intorno a lui la migliore cultura di opposizione al fascismo.

I lavori eruditi del giovane Croce rivelano già un grande interesse per la letteratura e la poesia, secondo un gusto che si potrebbe definire «classico-romantico», dominato da un’esigenza di serietà morale e di equilibrio tra intensità sentimentale e chiarezza razionale: a ciò si collega una fortissima diffidenza verso le forme della sensibilità decadente e verso gli abbandoni all’irrazionale. Ma nello stesso tempo egli sente una notevole attrazione per le zone poco frequentate della nostra tradizione, come la letteratura del Seicento, avvicinata fin dalle sue prime ricerche. Il poeta che Croce sente piú congeniale dal punto di vista morale, ideologico, stilistico è comunque Carducci, anche se maggiore apertura verso forme piú ricche e complesse gli è suggerita dalla critica di De Sanctis. Sul suo gusto letterario agiscono però anche i presupposti della sua Estetica, il suo bisogno di distinzione della poesia, colta nella sua «purezza», al di là di ogni confusione e sovrapposizione con altre forme della vita spirituale.

Erudizione e filosofia della storia

La rivoluzione napoletana del  La storiografia ideale

Liberalismo e sistema economico

Un gusto classicoromantico

EPOCA



La letteratura postunitaria

I saggi letterari

Una prospettiva giustificativa



GUERRE E FASCISMO

-

Il piú originale impegno di Croce nella critica letteraria partí con una serie di saggi sulla letteratura italiana dei primi cinquant’anni dopo l’unità, pubblicati su «La Critica» tra il  e il  e poi raccolti tra il  e il  nei quattro volumi della Letteratura della nuova Italia (a cui se ne sarebbero aggiunti altri due nel  e nel ). In seguito, Croce si impegnò in un piú vasto confronto con la letteratura di tutti i tempi, non solo italiana, coniugando la curiosità e la passione verso le opere e gli autori piú disparati con il proposito di separare ciò che, in base ai presupposti del suo pensiero estetico, «è poesia» da ciò che «non è poesia». Tra i numerosi volumi che raccolgono i saggi critici di Croce, ricordiamo quelli apparsi nel , Ariosto, Shakespeare e Corneille e La poesia di Dante. All’ambito degli studi letterari appartengono anche le numerosissime edizioni di testi curate da Croce, spesso vere e proprie «scoperte» di autori dimenticati, e il suo lavoro nell’ideazione e nell’organizzazione della grande collana di classici italiani dell’editore Laterza, «Scrittori d’Italia», inaugurata nel .

Il sicuro procedere della critica di Croce e la classicità della sua prosa sono lontane dall’inquieta problematicità, dalla passione prorompente che caratterizzavano la prosa critica desanctisiana: non mancano in Croce momenti polemici, spunti aggressivi, interpretazioni addirittura estremistiche, ma verso tutte le esperienze culturali egli si pone sempre con l’animo di chi tutto sa riassorbire e giustificare nel movimento circolare di uno spirito sicuro di sé e di una storia sempre carica di senso e di razionalità.

... Il modello intellettuale de «La Voce». La suggestione crociana

«La Voce» di Prezzolini

Vitalismo, religiosità e irrazionalismo

Giovanni Amendola

Sulle nuove generazioni intellettuali che davano prova di sé nelle riviste di cui si è parlato in .., la filosofia e il metodo crociano esercitarono una suggestione paradossale: l’opera di Croce si poneva infatti come una sintesi ideale di una lunga tradizione culturale e tendeva a riassorbire ogni contraddizione in un nuovo equilibrio razionale; ma di essa fu recepita soprattutto la prima versione dell’Estetica, con la sua esaltazione dell’intuizione e dell’immediatezza vitale e spirituale. L’idealismo di Croce fu cosí legato interamente a quello piú vitalistico e irrazionalistico di Gentile, e nello stesso tempo, nonostante le sue radici «classiche» e ottocentesche, fu decisamente proiettato nell’orizzonte della modernità. L’idealismo fu come una nuova «religione» laica con cui i «giovani» potevano affermare il senso della loro partecipazione al movimento del mondo: per iniziativa di Prezzolini, la rivista «La Voce» (il cui primo numero uscí il  dicembre ) divenne strumento attraverso cui diffondere la prima filosofia crociana tra le giovani generazioni. La rivista diede spazio alle collaborazioni piú diverse con il proposito di dare «voce» a una nuova cultura capace di agire sul mondo e di venire incontro alle aspirazioni dei giovani intellettuali, desiderosi di collaborare allo sviluppo della modernità. I vari temi venivano affrontati dalla rivista in un’ottica morale e ideale, spesso con una vibrante partecipazione religiosa, che rompeva con i modi pacati ed equilibrati del modello crociano e si svolgeva in orientamenti legati a un moralismo piú inquieto, a un senso piú drammatico dell’irrazionale, a una curiosità per i «fatti» piú empirici e circostanziati, a forme spirituali e religiose piú tradizionali. Tra i collaboratori de «La Voce» operanti in campo piú direttamente filosofico e ideologico merita una menzione particolare, per il suo inquieto moralismo, teso verso una coerenza assoluta del comportamento individuale e percorso da un energico afflato religioso, GIOVANNI AMENDOLA, nato a Salerno nel : importante e oggi troppo poco nota la sua opera Etica e biografia (), in parte anticipata su «La Voce»; notevole la sua attività di organizzatore culturale (tra l’altro fondò nel , insieme a Papini, la rivista «L’anima»). Al sorgere del fascismo egli guidò coraggiosamente l’opposizione liberale, e in particolare, nel , una Unione nazionale delle forze liberali e democratiche, diventando cosí il bersaglio delle aggressioni squadriste, in seguito alle quali morí, in una clinica di Cannes, il  aprile .

.

IDEOLOGIA, FILOSOFIA, POLITICA: DA CROCE A GRAMSCI

Tuttavia, eventi come la guerra di Libia e l’intervento nella grande guerra acuirono, sino a renderli insanabili, i contrasti interni a «La Voce». I dissensi tra le varie posizioni diedero luogo a vere e proprie scissioni, come quelle de «L’Unità» di Salvemini nel  (cfr. ..) e di «Lacerba» di Papini e Soffici nel . La campagna interventista portò poi a una separazione tra gli interessi politici e quelli letterari, e alla conseguente modificazione della linea editoriale: a partire dal dicembre  e fino al dicembre del , la rivista restrinse i suoi interessi in una direzione tutta letteraria (cfr. ..).



I dissensi interni

... La difficile resistenza dei «fatti». In questo clima culturale, dominato dall’idealismo e da tendenze religiose e irrazionalistiche, si trovano a operare due intellettuali come Einaudi e Salvemini, accomunati, come ha suggerito Norberto Bobbio, dalla fedeltà alla «lezione dei fatti». L’economista piemontese LUIGI EINAUDI (-), professore dal  nell’Università di Torino e presidente della Repubblica tra il  e il , rappresentò a lungo, non solo con i suoi saggi scientifici, ma anche con i suoi numerosi interventi su giornali e riviste (e con la sua rivista «La riforma sociale»), l’esigenza di una libera dialettica economico-sociale: in lui la dottrina economica liberista diventa il modello di riferimento per una «concezione» aperta della società, che si rifà tra l’altro all’insegnamento di Cattaneo e vede nel conflitto delle forze del lavoro e nella riduzione al minimo degli interventi dello Stato lo strumento essenziale del benessere e dello sviluppo; di fronte ai conflitti che portarono al trionfo del fascismo egli consigliò alle classi imprenditoriali una piena accettazione della conflittualità sociale piuttosto che soluzioni autoritarie e repressive. Lo storico pugliese GAETANO SALVEMINI (-) si formò a Firenze alla scuola di Pasquale Villari (cfr. ..) e si impose già alla fine dell’Ottocento con studi di storia medievale; aderí al partito socialista (che abbandonò nel ) e denunciò le spaventose condizioni di arretratezza del Sud, la corruzione e il clientelismo favoriti dalle classi dirigenti giolittiane, l’inadeguatezza del sistema scolastico. Collaboratore de «La Voce», se ne staccò nel  fondando a Firenze il settimanale «L’Unità»: si impegnò per l’intervento dell’Italia nella prima guerra mondiale, convinto del suo carattere «democratico»; dopo la guerra raccolse intorno a sé i combattenti di estrazione democratica e si batté contro il fascismo. Esule nel , fu tra i fondatori di «Giustizia e Libertà» e fece conoscere in numerosi scritti la reale natura del fascismo; visse e insegnò in America dal  al . Nell’esperienza di Salvemini si addensano le tensioni di un radicalismo appassionato, che guarda con avanzato rigore critico alle storture della realtà, che si impegna a smascherare fino in fondo le mistificazioni, gli equivoci e i compromessi che pesano sulla politica, sull’ideologia, sulla vita sociale, nella convinzione che solo la fermezza dell’intelligenza e la lucidità della conoscenza possano rappresentare un’alternativa alla corruzione e al vaniloquio ideologico.

Luigi Einaudi

Gaetano Salvemini

Una battaglia democratica

... La cultura e la «grande guerra». Tutta la volontà di intervento e di azione della cultura dell’inizio del secolo trovò un suo punto d’arrivo nella guerra mondiale, in cui quasi tutti gli intellettuali italiani videro una sorta di fuoco sacrificale e vivificatore, che avrebbe temprato una nuova umanità. Quella tragedia insensata apparve come una grande scena in cui il vecchio mondo, con i suoi equivoci e i suoi falsi equilibri, sarebbe stato definitivamente liquidato e ci si sarebbe proiettati in un futuro libero e aperto. Gran parte degli intellettuali sostennero l’intervento dell’Italia in guerra, confidando nel ruolo-guida che la cultura avrebbe potuto svolgere: ma la gigantesca macchina bellica e la lunga durata del conflitto smentirono con i fatti queste velleità, ridussero gli intellettuali a marginali collaboratori di un ingranaggio il cui senso e la cui destinazione andavano molto piú in là della loro stessa capacità di comprensione.

Interventismo e subalternità degli intellettuali

EPOCA

 Il pacifismo conservatore di Croce

La letteratura e la guerra

Le testimonianze migliori



GUERRE E FASCISMO

-

Pochi furono coloro che cercarono di opporsi al clima di eccitazione che pervase la cultura italiana già nel . La propaganda interventista e patriottica respinse nell’ombra posizioni umanitarie e pacifiste come quelle della vecchia guardia socialista; l’unico grande intellettuale che si sottrasse al coro interventista fu Croce, non per una scelta umanitaria, ma per la consapevolezza che il conflitto avrebbe provocato una lacerazione all’interno della cultura liberale europea (cfr. ..). Per ciò che riguarda piú direttamente la letteratura, va ricordato che la guerra mise tragicamente fine alla vita di alcuni scrittori combattenti come Slataper e Serra; che nel suo orizzonte si formarono e si espressero nuove esperienze letterarie come quelle di Ungaretti, di Gadda, di Comisso; che il suo segno minaccioso si fa sentire nell’opera di molti scrittori importanti, da Palazzeschi a Svevo; e che un drammatico sguardo all’evento bellico traspare da alcuni scritti di Pirandello (cfr. ..). Molto vasta è la produzione letteraria sul conflitto, assai numerosi i libri di memorie apparsi soprattutto nel ventennio successivo: ma anche a uno sguardo sommario appare evidente che il predominio dell’ideologia interventistica e patriottica e l’immersione nel fuoco dell’azione impedirono (a differenza di quello che accadde in altri Paesi) lo svilupparsi di una letteratura capace di fornire della guerra un’immagine critica e storica diretta. Molti scrittori di valore cercarono di elaborare una letteratura che non recasse traccia di quell’orrore. Tra le poche autentiche esperienze letterarie che analizzano dall’interno l’atteggiamento degli intellettuali di fronte al conflitto si distinguono L’esame di coscienza di un letterato di Serra, compiuto già prima dell’ingresso dell’Italia in guerra (cfr. ..), il romanzo di Borgese Rubè (cfr. ..) e il vigoroso libro di memorie dell’interventista democratico sardo EMILIO LUSSU (-), che poi sarà coraggioso combattente antifascista, Un anno sull’altipiano (pubblicato in esilio nel  a Parigi).

... L’attualismo di Giovanni Gentile. La tensione speculativa

Un filosofo professionista

Unità di teoria e prassi

I principî dell’attualismo

Educazione e pedagogia

Stretto fu il legame tra Croce e Gentile all’inizio del Novecento: la collaborazione tra i due intellettuali impresse una spinta vigorosa alla nuova filosofia idealistica, e si attuò quasi secondo una ripartizione dei compiti e dei campi d’intervento. Tale collaborazione entrò parzialmente in crisi nel corso degli anni Dieci, quando si rivelò tra i due un dissidio filosofico, a cui seguí piú tardi una rottura totale, con l’adesione di Gentile al fascismo. Ma fin dall’inizio il modello intellettuale di GIOVANNI GENTILE (-) si caratterizzò per una cura rivolta non alle distinzioni, ma alle grandi sintesi. Anche Gentile ebbe una formazione erudita e rivolse il suo interesse ai piú vari aspetti della cultura umanistica; ma la sua vocazione fu quella del filosofo professionista; a differenza di Croce, intraprese la carriera universitaria, raggiungendo posizioni di grande potere accademico e promuovendo iniziative culturali di vario tipo, che ne fecero il maggior esponente della cultura ufficiale del fascismo. La filosofia di Gentile mirò sempre a riassumere ogni manifestazione della cultura umana nell’unità assoluta del pensiero, a risolvere qualsiasi aspetto dell’esistenza nel manifestarsi dello spirito a se stesso. Riconoscendo come essenziale il problema del rapporto tra teoria e prassi, egli affermò la loro unità, la coincidenza tra fare e pensare: ogni concreta espressione dell’agire umano è riassorbita nella sintesi del pensiero, che è una forza spirituale e vitale in perpetuo movimento, atto puro. Il suo idealismo si definisce con il termine di attualismo: la filosofia dell’atto puro tende ad assorbire qualsiasi espressione vitale nella pura soggettività dello spirito, ad abolire ogni distinzione tra pensiero e realtà, tra soggetto e oggetto, a concepire la cultura e la storia, il passato e il presente, come un continuo atto in cui lo spirito esplica la propria forza. L’educazione e il rapporto con la tradizione costituiscono un momento essenziale per la rivelazione dello spirito a se stesso, nella sua attualità: e un posto centrale nel pensiero gentiliano occupa la pedagogia anche se egli in ultima analisi considerava ogni educazione come autoeducazione, movimento di accrescimento dello spirito su se stesso.

.

IDEOLOGIA, FILOSOFIA, POLITICA: DA CROCE A GRAMSCI

Nato a Castelvetrano (Trapani) nel  da famiglia borghese, Gentile si laureò alla Scuola normale superiore di Pisa e si formò sui testi della tradizione idealistica e hegeliana meridionale; dall’amicizia con Croce nacque la sua collaborazione a «La Critica», fin dalla sua fondazione, con una serie di saggi sulla filosofia ottocentesca, che si accompagnavano a quelli di Croce sulla letteratura della «nuova Italia». Ottenne un incarico di insegnamento all’Università di Napoli, dove nel  pronunciò una prolusione, divenuta poi celebre, in cui affermava La rinascita dell’idealismo. Professore di filosofia all’Università di Palermo nel , insegnò poi dal  all’Università di Pisa e dal  all’Università di Roma (assumendo nel  anche la direzione della Scuola normale superiore di Pisa). I fondamenti del suo attualismo ricevevano una limpida trattazione nel testo letto a Palermo nel , L’atto del pensare come atto puro, e venivano sistemati in modo piú ampio nella Teoria generale dello spirito come atto puro (); il suo pensiero pedagogico veniva definito nel Sommario di pedagogia (-). L’energica spinta verso l’unità, il vitalismo spiritualistico, la tensione profetica della sua filosofia affascinavano le giovani leve intellettuali, che in esse trovavano un modello di «idealismo militante», senza le cautele e le preoccupazioni di razionalità che sembravano frenare l’idealismo di Croce: e il dissidio teoretico con quest’ultimo si manifestò nel  con una polemica ospitata da «La Voce». Un ulteriore allontanamento tra i due filosofi si verificò in seguito allo scoppio della prima guerra mondiale: Gentile si trovò su posizioni opposte a quelle caute dell’amico. Vicino al fascismo, fu nel governo Mussolini del  ministro della Pubblica Istruzione e come tale realizzò la riforma della scuola che va sotto il suo nome (cfr. ..); nel  aderí ufficialmente al partito fascista, e divenne l’ideologo ufficiale e il massimo organizzatore di cultura del regime. Il Manifesto degli intellettuali fascisti da lui redatto nel  portò alla definitiva rottura con Croce. Sempre nel  Gentile assunse la direzione dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e dell’Istituto fascista di cultura (cfr. ..); nel  divenne proprietario della casa editrice Sansoni di Firenze. Nella veste di organizzatore di cultura, mantenne un atteggiamento relativamente aperto, dando parzialmente spazio anche a intellettuali che erano su posizioni critiche rispetto al regime. Ponendosi come teorico ufficiale del fascismo (tra l’altro negli scritti raccolti nel volume Che cos’è il fascismo. Discorsi e polemiche, ), lo esaltò come suprema sintesi della tradizione italiana. Negli anni Trenta la sua posizione di ideologo ufficiale entrò in crisi, per l’affacciarsi di tendenze e prospettive diverse in seno allo stesso regime. Dalla sua scuola uscirono filosofi e storici di vari orientamenti (alcuni dei quali si schierarono ben presto su posizioni antifasciste). Fedele fino in fondo alla scelta politica che gli aveva dato tanto prestigio e potere, si schierò nel  per la neofascista Repubblica di Salò. Un commando di partigiani lo uccise a Firenze il  aprile . L’opera e l’attività di Gentile sono la piú esplicita manifestazione, in questo secolo, di un sistema teoretico che parte dall’astrazione assoluta, dall’idealismo piú estremo e totalizzante, per sottoscrivere e giustificare la realtà di un sistema di dominio e di repressione come quello attuato dal fascismo. Gentile crede di identificare il flusso della storia con le evoluzioni dello «spirito» e attribuisce a se stesso il compito di interprete massimo di questo spirito: ogni aspetto della cultura e della storia viene da lui precipitato nella sintetica unità dell’«atto puro», di cui il regime fascista finisce per diventare l’espressione suprema. A un’analisi piú attenta, il sistema di Gentile appare come un’operazione retorica: ciò che lo caratterizza è una esuberante passione per l’identificazione di tutto con tutto, un movimento avvolgente, in perpetua ascesa, che crea un vero e proprio gergo dell’unità, dell’assolutezza.



La formazione

L’attività accademica

Contrasti con Croce Adesione al fascismo

Ideologo del regime

Una filosofia al servizio del potere

Un’operazione retorica

... La cultura fascista. Il fascismo raccolse e fece propri tutti gli umori irrazionali che fermentavano nella società e nel mondo intellettuale italiano fin dall’inizio del secolo: riuscí a mettere insieme le piú svariate forme di uso strumentale della cultura, a interpretare a suo modo quella esi-

Irrazionalismo e bisogno di ordine



Il consenso intellettuale

Dal classicismo al culto della modernità

Subordinazione al sistema statale

Movimento verso la modernità Anticonformismo popolare

Intellettuali e sistema corporativo

Nuove aperture delle giovani generazioni

EPOCA



GUERRE E FASCISMO

-

genza di azione aggressiva e vitalistica che la guerra mondiale aveva reso piú frenetica e incomposta, e nello stesso tempo a soddisfare il piú esasperato bisogno di ordine e di controllo sociale. Ci furono anche, specialmente nella prima fase di sviluppo del movimento fascista e durante l’assestamento del regime (e poi di nuovo alla fine, nel legame con il nazismo), atteggiamenti «anticulturali», squadristici, ciecamente distruttivi. Nonostante ciò, il fascismo riuscí a ottenere un sostanziale consenso presso gran parte degli intellettuali (cfr. ..), coagulando tendenze culturali contraddistinte da una tendenza al mascheramento delle contraddizioni della realtà: l’accettazione della violenza fisica nella sua forma piú cieca poteva cosí appoggiarsi alle elaborazioni ideologiche piú astratte e illusorie. Il fascismo riuscí a inscrivere nel suo orizzonte totalitario sia il perbenismo piú tradizionalista e il patriottismo piú cupamente conservatore, sia il vitalismo piú rissoso e scatenato: sembrava poter dare spazio al piú vieto classicismo e al piú accanito futurismo, alla retorica della romanità e dell’eroismo antico e alla ricerca di modernità, alla piú cupa serietà professorale e al mito di una scomposta ed esaltata «giovinezza», al moralismo piú arcigno e severo e allo «scandaloso» estetismo dannunziano, al nazionalismo dei borghesi e degli industriali e al culto dei piú «sani» e originari valori popolari ecc. Schematizzando e semplificando, e lasciando da parte fenomeni come il dannunzianesimo e il fascismo clericale, si possono distinguere almeno cinque diversi orientamenti della cultura fascista: . conservatorismo laico e borghese, che insiste su una totale subordinazione degli individui al sistema statale, concepito come suprema espressione di eticità, e afferma la continuità del fascismo con la tradizione nazionale italiana: l’opera e l’attività di Gentile costituiscono la maggiore espressione di questa tendenza. Ma non vanno trascurati il rigorismo giuridico di ALFREDO ROCCO (-) e l’opera dello storico GIOACCHINO VOLPE (-); . novecentismo, che concepisce il fascismo come partecipazione alla spinta piú vigorosa e internazionale della società industriale di massa: questa tendenza, che inizialmente si ricollega agli atteggiamenti nazionalistici del futurismo (cfr. ..), trova una notevole espressione letteraria nella rivista «» (cfr. ..); . populismo antiborghese, che vede nel fascismo la rottura del conformismo borghese, la rinascita di uno spirito popolare «selvaggio» e aggressivo, di tradizioni italiane radicate nella terra e nel lavoro agricolo; espressione di questo orientamento è la rivista artistico-letteraria «Il Selvaggio»; . corporativismo, che si lega al programma fascista di controllo della dialettica sociale: esso riconosce un ruolo autonomo agli intellettuali, proprio all’interno di una concezione omogenea della società, in cui ogni «corporazione» partecipa con le sue qualità originali e con relativa libertà alla costruzione del fascismo. Il corporativismo trova il suo maggiore organizzatore nel gerarca GIUSEPPE BOTTAI (-) e nella rivista da lui fondata nel , «Critica fascista»; ancora all’inizio della seconda guerra mondiale Bottai lancia, con la rivista «Primato», un tentativo organico di raccogliere, sotto il segno corporativo e in un orizzonte di relativa autonomia, le tendenze piú varie della cultura italiana, al fine di riaffermarne nazionalisticamente la superiorità. Le tendenze corporative, nel loro insieme, comportano anche una notevole attenzione al mondo della tecnica, alle nuove forme della cultura europea (un singolare teorico del corporativismo, che arrivò ad accostarlo ad alcuni aspetti del comunismo, fu il filosofo gentiliano UGO SPIRITO, -); . fascismo di sinistra, espressione di atteggiamenti antiborghesi e anticonformistici propri di giovani cresciuti all’interno delle istituzioni culturali fasciste, in rapporto con gli ambienti operai cittadini e aperti alla cultura europea e americana: queste esperienze trovarono spazio in molte riviste degli anni Trenta (come «Il Bargello»), e spesso approdarono a una nuova coscienza antifascista (è il caso di scrittori come Bilenchi e Vittorini, cfr. .. e ..).

.

IDEOLOGIA, FILOSOFIA, POLITICA: DA CROCE A GRAMSCI



... Il liberalismo rivoluzionario di Piero Gobetti. L’opera di PIERO GOBETTI interpreta in maniera lucida e appassionata l’aspirazione a intervenire nel presente che caratterizzava l’idealismo di inizio secolo, tendendo a riagganciare quest’ultimo alla tradizione liberale e illuministica europea: associando passione e spirito critico, Gobetti cerca la difficile strada di una razionalità capace di costruire un’Italia autenticamente laica e moderna, guidata da una rigorosa e severa moralità. Nato a Torino nel , Gobetti ebbe una formazione culturale aperta alle piú varie tendenze della cultura filosofica e politica (da Cattaneo a Marx, ai piú vicini Croce, Gentile, «La Voce», Salvemini), accompagnata da una grande passione per la letteratura e per il teatro. Dotato di notevoli capacità di organizzatore di cultura, diede vita, appena entrato all’università come studente di giurisprudenza, dal ° novembre , alla rivista «Energie Nove», vicina alle posizioni di Salvemini, ma piú attenta a grandi disegni ideali. Interrotta nel  questa esperienza, egli mise a confronto le sue idee liberaldemocratiche e il suo idealismo filosofico con le lotte operaie di quegli anni, guardando con attenzione alla rivoluzione russa e alle avanguardie operaie torinesi. Collaborò, come critico teatrale, al giornale «L’Ordine Nuovo» e fu impressionato dal rigore e dalla lucidità del gruppo comunista di cui esso era espressione, e in particolare da Gramsci. All’inizio del  creò una nuova rivista politica, «La Rivoluzione Liberale» (affiancandovi nel  una casa editrice), che intervenne nella lotta politica di quegli anni, nella prospettiva della creazione di una nuova classe insieme intellettuale e politica, impegnandosi contro il fascismo. Resistendo a persecuzioni, aggressioni e interventi repressivi provenienti da parte squadrista e poliziesca, la rivista continuò le sue pubblicazioni fino al novembre . Nel  appariva il volume in cui Gobetti riorganizzava la maggior parte degli interventi pubblicati nella rivista, La Rivoluzione Liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia; alla fine dello stesso  egli fondava un nuovo periodico di tipo letterario, «Il Baretti», che raccoglieva alcune delle piú originali espressioni della letteratura di quegli anni. Affiancato dal lavoro della casa editrice, «Il Baretti» proseguí le pubblicazioni fino al ; ma il suo fondatore, minato nel fisico dalle percosse ricevute dai fascisti, morí il  febbraio  in una clinica di Parigi, dove era giunto in esilio da pochissimi giorni. Gobetti, pur rimanendo estraneo a ogni logica di partiti o gruppi politici costituiti, si batte per un liberalismo che sia concreta e razionale espressione degli individui e della società, al di fuori del controllo di istituzioni corrotte e repressive, di interessi e privilegi di gruppi sociali particolari: una simile affermazione integrale di libertà può darsi solo nella prospettiva di una rivoluzione, che per Gobetti avrà come protagonista la classe operaia. Il senso della sua battaglia va individuato nel tentativo di realizzare i migliori valori della tradizione illuministica e liberale appoggiandosi alla spinta rivoluzionaria del nuovo soggetto sociale operaio: e nell’affacciarsi del fascismo egli denunciò l’effetto della mancanza di una società civile autentica e vitale. In tutta la prosa di Gobetti si coglie un bisogno assoluto, quasi religioso, di idealità, di razionalità, di moralità: nelle sue pagine si avverte per intero l’energia profusa nelle lotte del presente, nella ricerca di una realtà sociale e di una cultura liberamente critica.

Idealismo e tradizione liberale

La formazione

«Energie Nove»

«La Rivoluzione Liberale»

«Il Baretti»

Il bisogno di razionalità

... Antonio Gramsci e la lotta comunista. Negli anni intorno alla grande guerra si ebbe in Italia un rilancio della cultura marxista, sulla spinta di un confronto con le varie ideologie idealistiche e irrazionalistiche e dei nuovi conflitti sociali. Gli svolgimenti piú originali del nuovo marxismo italiano si ebbero nell’ambiente torinese, dove un gruppo di intellettuali, formatisi a contatto con la realtà operaia piú vivace del Paese e con i vari indirizzi dell’idealismo militante e della battaglia intellettuale vociana, elaborò le prospettive rivoluzionarie che portarono alla rottura degli equilibri del partito socialista e alla nascita, nel gennaio , del partito comunista d’Italia.

La cultura marxista

EPOCA



Gli studi

L’attività giornalistica

«L’Ordine Nuovo»

Viaggi a Mosca e Vienna

L’arresto e il carcere

La scrittura come strumento di lotta

Cultura e classe operaia



GUERRE E FASCISMO

-

Tra essi il primo posto tocca ad ANTONIO GRAMSCI, per i suoi Quaderni scritti nelle carceri fasciste e divenuti, dopo la loro diffusione nel secondo dopoguerra, una delle opere cardinali del pensiero marxista. Nato da famiglia della piccola borghesia impiegatizia ad Ales, presso Cagliari, il  gennaio , Antonio Gramsci si iscrisse nel , grazie a una borsa di studio, alla Facoltà di lettere di Torino, orientandosi soprattutto verso gli studi di glottologia; fino al  frequentò i corsi e superò un certo numero di esami, ma fu ostacolato da difficili condizioni di salute e da frequenti crisi nervose. Iniziò un’attività giornalistica nel giornale torinese «Il Grido del popolo» e si impegnò nella battaglia contro l’intervento condotta dai socialisti: e alla fine del  entrò nella redazione torinese dell’«Avanti!», occupandosi della critica teatrale. La sua cultura si approfondiva intanto nelle direzioni piú diverse, ma riservando una attenzione particolare al pensiero idealistico (Croce in primo luogo, ma anche Gentile) e allo studio di Marx e della storia del movimento operaio. Seguí con viva partecipazione gli eventi della rivoluzione russa, schierandosi con i settori socialisti favorevoli ai bolscevichi. Nel dicembre del  entrava a far parte della redazione della nuova edizione torinese dell’«Avanti!», e fondava poi il settimanale «L’Ordine Nuovo» che scese in campo nel corso delle lotte operaie del -, battendosi in difesa dei consigli di fabbrica e partecipando all’occupazione delle fabbriche del settembre-ottobre . Nel gennaio  «L’Ordine Nuovo» si trasformava in quotidiano, aprendosi alla collaborazione di intellettuali di diverso orientamento ideologico, come Gobetti. Gramsci partecipò poi al congresso di Livorno appoggiando la scissione del gruppo comunista dal partito socialista e la costituzione del nuovo partito. Nel maggio  Gramsci parte per Mosca, dove la salute lo costringe anche a un lungo soggiorno in una casa di cura, per poter seguire da vicino la costruzione della nuova realtà sovietica. In Russia conosce e sposa Julija Schucht (Giulia nelle lettere), da cui nascerà nel  il figlio Delio. Mentre il nuovo governo Mussolini ha dato avvio a una prima violenta repressione anticomunista, Gramsci passa alla fine del  a Vienna, sempre con l’incarico di seguire i contatti internazionali del partito. Eletto deputato nelle elezioni dell’aprile del , rientra in Italia nel maggio, e partecipa, vivendo soprattutto a Roma, agli ultimi sussulti dell’opposizione legale al fascismo. In seguito alle leggi speciali fasciste viene arrestato, nonostante l’immunità parlamentare, il  novembre , condotto al carcere di Regina Coeli e poi al confino, all’isola di Ustica, da dove nel  passa in varie carceri sul continente, ricevendo frequenti visite dalla cognata Tatiana Schucht; nel , mentre la sua salute peggiora gravemente, viene assegnato alla casa penale di Turi, in Puglia, dove giunge il  luglio. Ottenuta una cella individuale e il permesso di scrivere e usare libri, inizia nel febbraio del  a compilare le note dei Quaderni del carcere: alle sofferenze della detenzione si aggiungono malattie e crisi fisiche e psichiche; e difficili e pieni di amarezze sono anche i rapporti con il partito comunista clandestino, con la moglie lontana e con gli stessi compagni di prigionia. Dopo varie istanze e campagne in suo favore condotte all’estero dagli antifascisti, viene trasferito nel novembre del  da Turi all’infermeria del carcere di Civitavecchia e nel dicembre, sempre in stato di detenzione, in una clinica di Formia. Nell’ottobre  ottiene la libertà condizionale. Trasferito nella clinica Quisisana di Roma, muore il  aprile . Nei circa dieci anni dell’attività politica svolta prima dell’arresto, Gramsci scrisse moltissimo, tenendo sempre presenti le necessità e le occasioni della lotta, senza preoccuparsi dell’aspetto letterario dei propri scritti, spesso apparsi senza nome d’autore in varie riviste e giornali. La scrittura è per Gramsci strumento di lotta, sostenuto da un linguaggio netto e lucido e sempre connesso a un rigoroso svolgimento razionale; nello stesso tempo essa è strumento di conoscenza, di approfondimento del valore e degli obiettivi della lotta stessa e di apertura verso la comunità operaia, di cui l’autore si sente pienamente e totalmente partecipe: tutto il lavoro di Gramsci tende ad affermare la capacità della classe operaia di assumere su di sé la coscienza e la guida del processo storico, rovesciando i rapporti di classe esistenti. Da questo punto di vista appare molto stretto il legame della sua

.

IDEOLOGIA, FILOSOFIA, POLITICA: DA CROCE A GRAMSCI

concezione della lotta politica con gli orizzonti dell’idealismo e della filosofia della «vita» dominanti nella cultura italiana dell’inizio del secolo e con alcuni dei caratteri della battaglia intellettuale degli anni de «La Voce». Molto importanti anche i suoi interessi letterari che mostrano un’attenzione all’attività delle avanguardie, una parziale simpatia per il futurismo, una acuta comprensione del valore di rottura rappresentato dalla fase «grottesca» del teatro di Pirandello (cfr. ..); e una grande lucidità critica e polemica egli rivela anche nelle recensioni agli spettacoli teatrali che pubblica sull’«Avanti!» torinese dal  al .



Interessi letterari

... Composizione e struttura dei Quaderni del carcere. Piú di due anni dopo l’arresto, Gramsci iniziò nel carcere di Turi, l’ febbraio , la stesura di appunti e riflessioni: egli veniva cosí a impostare un lavoro di ampio respiro, che avrebbe dovuto sviluppare «una ricerca sulla formazione dello spirito pubblico in Italia nel secolo scorso» e in primo luogo sugli «intellettuali italiani».

Lo «spirito pubblico» in Italia nel secolo XIX

Nonostante le varie sofferenze della reclusione, egli riempí, nel corso degli anni, ventinove quaderni scolastici a righe, ritornando a piú riprese su temi e motivi diversi. Solo alcuni di questi quaderni presentano dei titoli specifici (come il n. , La filosofia di Benedetto Croce; il n. , Appunti e note sparse per un gruppo di saggi sulla storia degli intellettuali; il n. , Noterelle sulla politica di Machiavelli; il n. , Problemi della cultura nazionale italiana. ° Letteratura popolare; il n. , Critica letteraria ecc.). Solo alla fine della guerra, custoditi presso l’Istituto Gramsci di Roma, essi furono pubblicati, tra il  e il , sotto il titolo generale di Quaderni del carcere, con una distribuzione e un’organizzazione della materia in sei volumi, raccolti per nuclei tematici: Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce; Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura; Il Risorgimento; Note su Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno; Letteratura e vita nazionale; Passato e presente. Solo a partire dal  l’edizione critica curata da Valentino Gerratana rese conto della reale natura dei Quaderni e del pensiero gramsciano, che segue il metodo di «tornare di continuo su un tema, su una formulazione, per riprenderne il motivo, e scavare, integrare, correggere» (Garin).

I Quaderni del carcere

La struttura dei Quaderni mostra come il senso piú autentico del lavoro gramsciano sia legato ai modi stessi della scrittura, alla sua apertura, al suo svilupparsi da singoli particolari, attraverso ritorni, precisazioni, modificazioni, al suo sforzo di raggiungere risultati, che spesso restano sospesi, e di suggerire prospettive, che risultano però di difficile realizzabilità. La scrittura di Gramsci è una perpetua «ricerca» in cui il pensiero si pone sia come strumento di difesa del soggetto di fronte alla situazione presente, sia come continuazione (la sola possibile nel tempo buio della sconfitta) della lotta proletaria, dell’impegno per la costruzione del partito comunista. Il grande valore letterario di questa scrittura sta proprio nel senso fortissimo di resistenza che da essa sprigiona, nella tensione con cui vi si cerca una programmaticità e un impegno risolutivo nel momento stesso in cui essi appaiono impossibili. La passione con la quale Gramsci difende l’inflessibile rigore dell’intelligenza si carica di tutta la sofferenza e il coraggio di un io che sa di non poter «attendersi niente da nessuno». Questo sforzo di resistenza, questa sofferenza e questo coraggio sono anche al centro delle Lettere dal carcere (la cui edizione apparve nel ), che costituiscono uno dei piú vibranti epistolari del Novecento, dominato da un eroismo umile, concreto, da un senso tragico del proprio valore e della propria disgrazia, del proprio impegno totale per gli oppressi e della propria irrimediabile fragilità umana.

Un progetto senza fine

Resistenze, tensione ideale e razionalità

Lettere dal carcere



EPOCA



GUERRE E FASCISMO

-

... Motivi essenziali del pensiero di Gramsci. Interpretazioni contrastanti

Gramsci e il marxismo

L’intellettuale «organico»

Separazione dalla realtà

Cultura e divulgazione

Per un nuovo umanesimo

Letteratura e cultura nazionalpopolare

Il pensiero di Gramsci rappresenta una delle espressioni fondamentali del marxismo occidentale e come tale ha avuto grande risonanza a partire dagli anni Cinquanta, suscitando interpretazioni che si sono orientate in direzioni diverse: da quelle «ufficiali» legate alla linea politica del partito comunista italiano, a quelle che vi hanno messo in evidenza un forte soggettivismo rivoluzionario, a quelle che vi hanno invece scorto aspetti di tipo «riformistico». Gramsci si appoggia su una visione globale del marxismo, inteso, sulla scia dell’insegnamento di Labriola, come filosofia della praxis: ma ne svolge gli orizzonti in un continuo confronto con i temi della tradizione italiana, con gli sviluppi della filosofia e del dibattito intellettuale del primo Novecento, con gli stessi materiali proposti dalla cultura ufficiale degli anni del fascismo, con la precedente esperienza politica e con l’elaborazione teorica a essa collegata. Il nodo centrale di tutta la riflessione di Gramsci sulla storia d’Italia è costituito dal problema degli intellettuali: il senso della battaglia intellettuale, che si era svolta fin dall’inizio del secolo, viene da lui ripensato nella prospettiva del marxismo e della lotta comunista. Egli vede negli intellettuali degli essenziali mediatori di cultura e di consenso sociale: la storia degli intellettuali mostra come la loro funzione sia tanto piú incisiva quanto piú essi sono «organici» a una classe sociale, radicati nelle sue esigenze e nei suoi valori. Le forze che mirano a una reale trasformazione della società devono sapersi valere in modo articolato della funzione degli intellettuali come mediatori del consenso ed elaboratori di forme di coscienza diffusa. La classe operaia (attraverso il partito che si batte per portarla al potere) deve quindi creare al proprio interno una leva di intellettuali, che sappiano portare al livello piú alto la sua cultura e imporla sull’intero orizzonte della società come il punto piú avanzato della coscienza umana. Attraverso il lavoro degli intellettuali organici si costruirà cosí l’egemonia della classe di cui sono espressione. In questa prospettiva politica è importante ricostruire una storia degli intellettuali che metta in luce le loro diverse forme di coscienza in rapporto alle varie classi sociali (e naturalmente alle istituzioni culturali). Per tradizione storica l’intellettuale italiano non si vuole «organico», non riconosce il suo legame con la realtà sociale del Paese: ciò spiega la separazione tra intellettuali e popolo, tra alta cultura e divulgazione, e i limiti del processo unitario italiano. Gramsci presta particolare attenzione alle diverse forme e tecniche della divulgazione e della circolazione sociale della cultura, dal folclore al mito (quest’ultimo ritenuto importantissimo, perché agisce sui comportamenti di massa, attuando una sintesi tra coscienza e azione), alla letteratura popolare, al giornalismo e ai modi piú moderni della cultura di massa. L’attenzione di Gramsci per la letteratura procede di pari passo con la riflessione sul ruolo degli intellettuali; egli giunge a elaborare una critica alla figura dominante in Italia dell’intellettuale-letterato, ma considera d’altra parte la letteratura come strumento essenziale di mediazione culturale, manifestazione integrale di coscienza sociale e di conoscenza della realtà. Formatosi sul grande modello crociano, ma arricchito dalle esperienze de «La Voce» e delle avanguardie degli anni Dieci, Gramsci mira a una critica letteraria di tipo «militante», che sappia cogliere il valore «organico» della letteratura, fondendo insieme «la lotta per una nuova cultura, cioè per un nuovo umanesimo, la critica del costume, dei sentimenti e delle concezioni del mondo con la critica estetica o puramente artistica nel fervore appassionato» (e indica in De Sanctis un modello essenziale per questo tipo di critica). Vari tentativi di questa critica militante e «integrale» si svolgono a piú riprese nei diversi Quaderni e spunti molto importanti vi vengono offerti per l’interpretazione di Dante, di Machiavelli, di Pirandello. Ma l’impegno maggiore di Gramsci è rivolto alla ricostruzione delle forme di uso sociale della letteratura, nell’orizzonte della tradizione italiana. Tra le molte intuizioni determinanti ricordiamo quella sul legame tra la questione della lingua e

.

IDEOLOGIA, FILOSOFIA, POLITICA: DA CROCE A GRAMSCI



la definizione dell’identità degli intellettuali-letterati, e gli spunti per una ricerca sulla diffusione pubblica della letteratura, sui complessi rapporti che le forme letterarie instaurano con il pubblico, sulla letteratura popolare e d’appendice.

... Una cultura antifascista. Dopo l’affermazione del fascismo e la sconfitta di ogni opposizione organizzata, l’opera di Croce rimase il maggiore punto di riferimento per tutta la cultura che rifiutava l’autoritarismo del regime. Questo antifascismo tutto culturale si nascose spesso sotto un formale ossequio al regime e poté cosí contribuire parzialmente ad arginare i tentativi di fascistizzazione della cultura. Rigorosa e coerente posizione antifascista fu quella del filosofo PIERO MARTINETTI (). Ma una cultura che tentava di definire le peculiari caratteristiche del regime per opporvi l’ipotesi di una società libera e aperta poté svolgersi soprattutto in esilio, sia con l’attività di uomini di cultura, come Salvemini e Borgese, già noti e operanti nell’Italia prefascista, sia con il lavoro dei militanti comunisti e socialisti, sia con lo svolgersi di nuovi orientamenti legati al grande modello del liberalismo rivoluzionario di Gobetti. Dal modello gobettiano nasce nel  nell’esilio francese il gruppo «Giustizia e Libertà», che pone in primo piano l’azione degli intellettuali per la lotta al fascismo, in vista di un radicale rinnovamento del Paese: importante a tale proposito l’elaborazione di CARLO ROSSELLI (nato nel , fu assassinato dai fascisti a Bagnoles-de-l’Orne, in Normandia, nel  insieme al fratello NELLO, nato nel , allievo di Salvemini e storico). L’esigenza di costruire una società integralmente libera e regolata da principî di giustizia sociale portò alla formulazione, sullo scorcio degli anni Trenta, di una vera e propria teoria del liberalsocialismo, in cui si impegnò il filosofo GUIDO CALOGERO (-) e a cui aderí anche un intellettuale atipico nella nostra cultura, ALDO CAPITINI, di Perugia (-), testimone appassionato di una religiosità laica, fondata su un’«apertura» verso tutti gli uomini e tutte le forme naturali, verso l’aspirazione a una piena «coralità» democratica, basata sui principî della non violenza.

Si è già visto come, nel corso degli anni Trenta, nuovi orientamenti antifascisti si affacciassero nelle giovani generazioni, dal seno stesso dell’ideologia e delle istituzioni culturali del regime. Negli ultimi anni del fascismo e durante la guerra, intorno a riviste come «Primato», si diffusero sempre piú atteggiamenti e posizioni che postulavano la nascita di una nuova cultura, in cui dall’antifascismo prendesse corpo la costruzione di una nuova umanità: numerosi furono i giovani intellettuali di educazione fascista che in questa prospettiva aderirono al comunismo. Qui ricordiamo soltanto due figure esemplari: il sardo GIAIME PINTOR (-), la cui riflessione è testimoniata dagli scritti postumi raccolti nel  nel volume Il sangue d’Europa (-), e il triestino EUGENIO CURIEL (-).

L’opposizione interna alle istituzioni

Gli antifascisti in esilio

«Giustizia e Libertà» Carlo e Nello Rosselli Liberalsocialismo

Il dissenso delle giovani generazioni

... Fuori dell’orizzonte italiano. Molto brevemente ricordiamo infine la presenza quasi sotterranea che, nella cultura filosofica e ideologica dominata dall’idealismo, occuparono le varie scienze umane e le filosofie estranee all’orizzonte crociano. Ai margini della cultura ufficiale rimasero il pensiero negativo europeo piú radicale (la cui sola voce autentica, in Italia, fu quella di Michelstaedter, cfr. ..) e la psicoanalisi (che pure lasciò segni determinanti nella letteratura, in primo luogo con l’opera di Svevo e di Saba). Un importante ruolo di mediazione per la circolazione sotterranea della psicoanalisi e di altre esperienze della cultura mitteleuropea nella nostra letteratura fu svolto dal

Una cultura sotterranea

Bobi Bazlen



Antonio Banfi

EPOCA



GUERRE E FASCISMO

-

triestino ROBERTO (detto BOBI) BAZLEN (-), traduttore e consigliere «occulto» di scrittori ed editori. Nel campo della filosofia professionale, va ricordata almeno l’esperienza ricchissima, aperta su un orizzonte europeo, di ANTONIO BANFI (-), il quale, partendo dalle suggestioni della «filosofia della vita» di Georg Simmel (-), prestò una originale attenzione alle filosofie neokantiane e alla fenomenologia di Edmund Husserl (-), rivendicando la validità conoscitiva delle scienze e confrontandosi, nel dopoguerra, con la lezione del marxismo.

˜

10.3 AVANGUARDIA ED ESPRESSIONISMO ... La letteratura de «La Voce»: espressionismo e modernità.

La rivista fiorentina «La Voce», protagonista del dibattito intellettuale dalla fine del , si aprí verso un orizzonte problematico che chiamava in causa solo parzialmente la letteratura; ma all’interno della sua impostazione politico-ideologica trovarono spazio anche intellettuali che cercavano forme di espressione piú direttamente letteraria, e con il tempo la rivista andò mostrando un’attenzione sempre piú vasta ai problemi della produzione di testi creativi. Questa letteratura sperimentava inediti modi espressivi, spesso si poneva in un’ottica d’avanguardia parallela a quella del futurismo rifiutandone però il culto ossessivo della modernità. La letteratura piú specificamente definibile come «vociana» si avvolge in un’inquieta e sofferta indagine nelle pieghe dell’io e dei suoi difficili rapporti con il mondo. Nello stesso tempo essa rifiuta gli organismi letterari chiusi e distesi, intende scavare e far esplodere il linguaggio nella sua sostanza piú particolare, ricavandone valori ed effetti espressi in forme brevi e intense. Questi caratteri della letteratura vociana possono essere riassunti con i termini di moralismo, autobiografismo e frammentismo. Il frammento viene considerato dai vociani il modo piú autentico di espressione, sia in poesia sia in prosa: questi autori tendono infatti all’immediatezza, alla forza sorgiva e concentrata in sé dell’espressione, chiamando in causa forze negative e istintuali in una prospettiva polemica e autocritica; caratteristiche, d’altra parte, che permettono di avvicinare l’esperienza degli scrittori vociani all’espressionismo (cfr. PAROLE, tav. ).

Un’esperienza fondamentale

A questo orizzonte espressionistico possono essere accostate altre esperienze degli anni Dieci, alcune anche estranee a «La Voce», come quelle di Tozzi (cfr. ..) e di Rosso di San

Altre tendenze espressioniste

La letteratura vociana

Il frammentismo

ESPRESSIONISMO

Il termine è emerso nell’ambito delle arti figurative all’inizio del Novecento, ma ha acquistato un significato piú specifico intorno al , quando si è cominciato a usarlo in Germania (nella forma Expressionismus), per definire alcune esperienze artistiche contemporanee, sia francesi che tedesche, caratterizzate dalla rottura di un rapporto diretto con la natura (rapporto ancora essenziale per l’impressionismo), da una ricerca di astrazione, da una carica di deformazione delle figure. In un volume di Paul Fechter del , Der Expressionismus, il termine fu assunto per caratterizzare vari artisti tedeschi contemporanei, a partire da quelli che nel  avevano fondato a Dresda il gruppo «Die Brücke» (“Il ponte”): da allora fu assunto in proprio da molti artisti, scrittori, musicisti e passò a caratterizzare una serie molto ampia di esperienze dell’avanguardia europea, all’incirca tra il  e il  (cfr. DATI, tav. ). In senso molto generale l’espressionismo è caratterizzato da un rifiuto dei valori e delle forme di comunicazione borghese, da una tensione aggressiva e violenta, dalla rottura di ogni convenzione naturalistica, da una ricerca di «espressione» di desideri, aspirazioni, malesseri. In questa ricerca si rompono gran parte degli equilibri tradizionali, si creano nuove possibilità della visione (che nell’arte giunge fino alla negazione della figura e alla creazione di un linguaggio astratto, fatto di segni, di linee, di colori e di luci), si guarda in modo nuovo al brutto e al deforme, si subisce l’ossessione del dolore, della distruzione, della morte, si aspira a ritrovare valori originari e incontaminati, anche nel senso di un esasperato misticismo. Essenziali sono l’attenzione alla corporeità e alla visceralità, la ricerca di immagini astratte, di modelli sublimi e spirituali, la curiosità per la cultura popolare e di massa: da tutto ciò prende forma l’immagine di un’umanità oppressa e stravolta, che trova la sua espressione piú esemplare nell’«urlo». In letteratura l’espressionismo si collega alla rottura di ogni equilibrio comunicativo, a uno sconvolgimento del linguaggio che agisce sulla sintassi, sul lessico, sulle strutture metriche e su quelle narrative. In anni piú recenti si è diffusa ampiamente, in particolare in Italia, un’accezione piú ampia del termine, per indicare le piú diverse manifestazioni di rottura degli equilibri classicistici e in genere delle forme e dei linguaggi convenzionali e l’apertura verso i dialetti, l’intreccio tra lingue e dialetti diversi (tanto che si parla in questo caso particolare di espressionismo linguistico).

PAROLE

tav. 222

EPOCA



La direzione di De Robertis

Sibilla Aleramo



GUERRE E FASCISMO

-

Secondo (cfr. ..). Autori esplicitamente «espressionisti» come Slataper e Boine arrivarono in un secondo momento a staccarsi polemicamente da «La Voce»; altri invece, come Papini e Soffici, in disaccordo con le prospettive di «idealismo militante» che Prezzolini sempre piú imprimeva alla rivista, diedero vita nel , con la rivista «Lacerba», aggressiva fiancheggiatrice del futurismo, a una vera scissione. A «La Voce» si stavano nel frattempo accostando dei letterati «puri», piú fedeli a una matrice classicistica, che trovavano un singolare maestro in Renato Serra (cfr. ..). Nell’acceso clima politico che doveva portare alla guerra mondiale si rivelò un contrasto netto tra coloro che volevano che la rivista partecipasse direttamente alla lotta, e coloro che preferivano un impegno nella letteratura come terreno costruttivo comune. Ciò portò nel dicembre del  a un cambiamento nella struttura della rivista, che passò sotto la direzione di GIUSEPPE DE ROBERTIS (-), critico sottile che associava un’educazione classicistica a un’esigenza di modernità. La nuova «Voce», continuata fino al dicembre , abbandonò il piano del dibattito intellettuale e cercò di porsi come laboratorio per le nuove esperienze letterarie. Tra gli autori legati all’orizzonte de «La Voce» e che hanno a lungo operato tra autobiografia, moralismo e frammentismo, vanno ricordati il triestino GIANI STUPARICH (-), autore di notevoli racconti, e SIBILLA ALERAMO (pseudonimo di RINA FACCIO, -), poetessa e narratrice, che visse con intensità il carattere specifico della condizione femminile (fu impegnata, all’inizio del secolo, in un’attività femminista), ebbe amori e amicizie con molti scrittori del tempo e approdò infine all’antifascismo e al comunismo. In lei ogni problematica intellettuale e culturale si sottopone al fuoco di un’appassionata indagine autobiografica: le sue opere piú interessanti restano il romanzo autobiografico Una donna () e Amo dunque sono ().

... I «moralisti» vociani: Slataper, Boine, Jahier. Un intellettuale triestino: Scipio Slataper

Il mio Carso

Dalle origini alla civiltà

Giovanni Boine

Il peccato

Nato a Trieste nel , SCIPIO SLATAPER si trasferí a Firenze nel  e fu tra i primi e piú attivi collaboratori de «La Voce» fino al , quando se ne staccò. Dotato di una cultura mitteleuropea, lettore di autori tedeschi e nordici, scrisse anche un notevole saggio su Ibsen apparso postumo nel ; visse con grande passione e acume critico la specificità della sua condizione triestina (che presentò nelle Lettere triestine, pubblicate su «La Voce» nel ), come sospesa tra passato e futuro, tra un orizzonte internazionale e l’esigenza di inserirsi nella vita italiana. Arruolatosi volontario, morí combattendo nel . Tutto il nesso di esperienze intellettuali e sentimentali legate alle radici etniche e all’orizzonte problematico de «La Voce», dà luogo a una singolare opera, Il mio Carso (), in cui si svolge una narrazione di tipo autobiografico continuamente aperta e frantumata, che presenta vibranti momenti lirici, riflessioni di tipo morale, continui slittamenti del discorso da un tempo all’altro, da un destinatario all’altro. Il testo si snoda tra un richiamo di forza originaria, barbarica, assoluta e distruttiva (rappresentata in primo luogo dal paesaggio carsico, in cui affondano le radici dell’autore e le tracce della sua infanzia) e un opposto richiamo della civiltà, della vita urbana, del lavoro e dell’impegno costruttivo. GIOVANNI BOINE, nato a Finalmarina (Savona) nel , morto a Porto Maurizio nel , fu inquieto spirito religioso, vicino al modernismo cattolico (cfr. .. e PAROLE, tav. ); i suoi articoli esprimono l’esigenza di interpretare in chiave moderna, attiva e militante, l’eredità della tradizione cattolica. Ebbe una originalissima capacità di riflettere sui problemi piú concreti, sulle forme della vita sociale, partendo da un punto di vista autobiografico, da una acuta consapevolezza del carattere irripetibile di ogni esperienza personale; e oscillò con lacerante tensione tra un anarchismo individualistico e un’esigenza di ordine, di valori stabili e saldi. Acutissime furono le sue doti di critico e di saggista, di cui restano testimonianza le recensioni della rubrica Plausi e botte (-) per «La Riviera Ligure». Con Il peccato () egli provò la forma del romanzo, narrando una vicenda intellettuale, sentimentale, religiosa, in terza persona, ma con l’evidente proposito di costruire una sorta di

.

AVANGUARDIA ED ESPRESSIONISMO

autobiografia indiretta. I risultati migliori della sua scrittura sono costituiti da una raccolta di prose liriche, pubblicate postume nel  sotto il titolo di Frantumi. Qui, nello spazio breve e concentrato del frammento, si manifesta tutto il furore espressionistico di Boine, che attinge al magma pullulante di una sotterranea realtà psichica. PIERO JAHIER, nato a Genova nel  e morto a Firenze nel , concentra la sua attività creativa nei primi anni vociani e in quelli della prima guerra mondiale, alla quale partecipò volontario come ufficiale degli alpini, vivendola con atteggiamenti di tipo democratico. In alcuni scritti egli traspose la propria autobiografia in personaggi e comportamenti di un mondo piccolo-borghese pieno di stenti e di malessere; nelle Resultanze in merito alla vita e al carattere di Gino Bianchi () egli descrive tutto lo squallore della vita impiegatizia, con momenti di violenta satira della burocrazia, mentre in Ragazzo () presenta il difficile percorso di un adolescente tra disagi, sofferenze e confronti con modelli morali. Con me e con gli alpini () è invece un libro di memorie sulla guerra. Una realtà quotidiana piccolo-borghese e contadina, fatta di materiali semplici e diretti, di circostanze umili e «vere», è al centro delle sue Poesie, pubblicate su varie riviste tra il  il , poi risistemate e corrette in una raccolta apparsa nel . In esse si abolisce la distanza tra verso e prosa, ricorrendo a una serie di partiture ritmiche, in un confronto continuo con la vita comune, con gli oggetti e con le cose: ci vengono incontro le forme linguistiche del mondo moderno con pezzi ricavati dalla conversazione quotidiana, da giornali e da manifesti pubblici (e per far ciò si ricorre anche ad audaci soluzioni grafiche).



Le prose liriche: Frantumi Piero Jahier

Le prose autobiografiche

Le partiture ritmiche delle Poesie

... Il rifiuto di Carlo Michelstaedter. Del tutto solitaria è la posizione di CARLO MICHELSTAEDTER, imbevuto di cultura mitteleuropea, attento alle forme piú radicali delle filosofie «negative» e pessimistiche (Schopenhauer e Nietzsche, ma in primo piano anche Leopardi), esperto di filosofia, di letteratura greca e di matematica, estraneo alle mitologie intellettuali dominanti nell’ambiente de «La Voce». Di ricca e colta famiglia ebraica, egli nacque nel  a Gorizia (città allora appartenente all’Impero austriaco); iscrittosi nel  alla Facoltà di matematica di Vienna, si trasferí poi a Firenze, dove compí studi filosofici. Si suicidò con un colpo di pistola a Gorizia il  ottobre : aveva appena terminato e spedito a Firenze la sua tesi di laurea, La persuasione e la rettorica, che resta la sua sola opera compiuta, pubblicata postuma nel  (ma di notevole valore sono anche altri suoi frammenti in versi e in prosa).

Tramite illuminazioni problematiche e riflessioni folgoranti, l’opera cerca di svelare alle radici l’intreccio tra il pensiero, la comunicazione sociale, le forme di organizzazione dell’esistenza. La normale vita umana si presenta a Michelstaedter come cieca convinzione di sé: essa si appoggia su illusioni che tendono in primo luogo ad allontanare il dolore e l’ossessione della morte, a creare apparenti sicurezze, a proiettare ogni momento dell’esistenza verso il futuro, in un mero «continuare». A queste forme di persuasione illusoria si oppone la persuasione autentica, che è invece presenza immediata della vita a se stessa, accettazione della radicale finitudine umana, della inevitabile esposizione dell’esistente al dolore, alla morte, alla privazione di sé: il persuaso è colui che sa «impossessarsi del presente», che sa «prendere su di sé la responsabilità della propria vita», che in ogni momento si confronta con il fatto di «non sapere», assorbendo in sé la negatività dell’esistere. Ma la difficoltà di reggere sul terreno della persuasione, di vivere fissando lo sguardo sul non vivere, sapendo «venire a ferri corti con la vita», dà origine alla rettorica, che è organizzazione dei valori apparenti e artificiali: è il sistema con cui gli uomini costruiscono ed economizzano il «sapere», creano correlazioni regolari tra le cose, inventano meccanismi sociali e arrivano a «violentare la natura a maggior comodità dell’uomo che vuol pur conti-

Una formazione mitteleuropea

La vita

La persuasione e la rettorica

«Impossessarsi del presente»

Una critica alle istituzioni del sapere

EPOCA



Per un’umanità cosciente di sé



GUERRE E FASCISMO

-

nuare». La lotta contro la «rettorica» (a cui è dedicata la parte finale dell’opera) assume il valore di una battaglia contro i fondamenti della stessa organizzazione sociale, contro l’artificio e l’ipocrisia che dominano costantemente la comunicazione, contro la funzione di dominio che assumono le ideologie e le istituzioni del sapere. Michelstaedter approda cosí a un rifiuto totale dell’orizzonte intellettuale del suo tempo, sviluppando una critica non solo della metafisica e delle forme del sapere tradizionale, ma anche del nuovo idealismo, del nuovo spiritualismo, delle ideologie vitalistiche e irrazionalistiche che pretendevano di tradursi in azione sociale, di intervenire nella trasformazione del mondo. Il suo pensiero si svolge in uno sforzo tragico, che tenta di catturare l’«impossibile», di andare al di là delle forme istituzionali in cui si sono sempre costruite la società e la cultura, per cercare un’umanità «persuasa», cosciente di sé, del proprio inevitabile rapporto con il dolore e con la morte, capace di vivere al di là delle illusioni dei sistemi sociali. Questo sforzo doveva rivelarsi insopportabile: e finí per portare Michelstaedter alla lacerazione finale del suicidio.

... Renato Serra: classicismo e nichilismo. Una prospettiva «provinciale»

RENATO SERRA nacque a Cesena il  dicembre  da famiglia borghese di tradizioni risorgimentali: la sua formazione, tutta radicata nella «provincia» romagnola, fu improntata a un gusto della misura e dell’equilibrio, a un’attenzione alle forme e ai particolari, a piaceri intellettuali coltivati nell’ombra e nel silenzio.

La formazione

Nutrito di una grande passione per i classici, sviluppata e approfondita alla scuola del Carducci, fu dal novembre  a Firenze, dove seguí i corsi di perfezionamento dell’Istituto di studi superiori; tornato a Cesena nell’ottobre del , dopo un breve periodo di insegnamento, fu nominato nell’ottobre  direttore della Biblioteca Malatestiana di Cesena, città in cui rimase per quasi tutto il resto della sua vita. Il suo rapporto con il gruppo de «La Voce» (su cui pubblicò pochi articoli) si svolse tra simpatia e diffidenza. Nel  apparve l’opera sua piú ampia e organica, Le lettere, consuntivo sulla situazione della letteratura italiana nel . Su «La Voce» del  aprile  apparve l’Esame di coscienza di un letterato, testamento spirituale scritto al momento di partire per la guerra: interventista acceso, combatté come tenente di fanteria e morí sul Podgora il  luglio .

Contatti e amicizie

Tra classicismo e vitalismo

Fedeltà irrazionale Lettore di provincia

Il classicismo, sentito come valore di un passato che si sta esaurendo, come attenzione al contenuto umano delle forme, si confronta, in Serra, con il vitalismo e l’irrazionalismo della cultura dell’inizio del secolo, senza pretendere però, come accadeva in D’Annunzio, di trasformarsi in strumento estetico e spettacolare della modernità. Dal suo orizzonte «provinciale», Serra avverte tutta la distanza che si dà tra una cultura «classica» di tipo tutto letterario e i ritmi accelerati della modernità. Nel classicismo di Carducci egli rintraccia un’ideale misura umana, in cui la continuità con la tradizione e il gusto per le forme si collega a un vigore passionale, a un fondo umano vibrante e autentico. Nel tumultuoso inizio del secolo quell’equilibrio gli appare rotto per sempre, irrecuperabile; ma egli vuole restarvi fedele, scegliendo di sottrarsi al turbinio del presente per appartarsi in uno spazio sicuro e ombroso. Il classicismo resta ormai come un ricamo sul nulla: la fede nella razionalità e nella precisione della parola assume un aspetto irrazionale, non coincide piú con la realtà del presente. Impossibile è allora la strada di una scrittura «creativa»: Serra si limita a riflettere sulla letteratura che ha intorno a sé, mostrandosi raffinato e distaccato «lettore di provincia», diffidente verso i metodi e gli schemi filosofici (e verso la stessa estetica crociana). Egli sceglie di «ascoltare» il fondo umano che la parola letteraria conserva e nasconde, di «dialogare» con i testi, andando anche al di là del loro aspetto formale. Gli scritti piú affascinanti di Serra, redatti in una prosa nitida e tesa, sono quelli in cui piú esplicitamente emerge il contrasto tra la passione letteraria e il richiamo oscuro del mondo ester-

.

AVANGUARDIA ED ESPRESSIONISMO

no: negli eventi politici e militari, che suscitano la partecipazione di grandi masse umane, egli sente l’affacciarsi e l’attrazione di una realtà «altra», tutta diversa da quella raffinata e autosufficiente della letteratura. Come risulta esemplarmente nell’Esame di coscienza di un letterato, è il suo stesso abito di letterato a mostrargli quanto la guerra sia priva di senso; nel suo bisogno di totalità, egli critica come illusorio l’atteggiamento di coloro che interpretano la distruzione come un fatto positivo. Ma in un secondo momento, con un salto passionale e irrazionale, Serra rinuncia al proprio distacco critico, considerandolo una malattia di letterato, e scopre che il cammino collettivo della guerra, con «gente legata alla stessa sorte, che s’incontra e si riconosce», conduce all’abbandono di ogni solitudine e di ogni separazione dal mondo. La solidarietà umana si riconosce in quell’«andare insieme», nello scatto di «un’ora di passione», verso qualcosa di oscuro il cui senso si ritrova ormai solo nella morte.



Esame di coscienza di un letterato

La guerra come un «andare insieme»

... L’avanguardia futurista. Il futurismo, fondato ufficialmente con il Manifesto del futurismo redatto da Marinetti e apparso in francese (Fondation et manifeste du futurisme) su «Le Figaro» di Parigi il  febbraio , costituisce l’esito estremo, sul piano del linguaggio e dell’azione, delle forme e dei contenuti di diverse pratiche artistiche, di quella ricerca di protagonismo che caratterizza le classi intellettuali italiane all’inizio del Novecento. La lotta condotta dal futurismo contro i modi di comunicazione tradizionali mira a un’identificazione dei processi artistici con l’immediata materialità di una vita continuamente trasformata e potenziata dai mezzi industriali. Con estremismo programmatico, i futuristi rifiutano tutta la tradizione: sperimentano e propugnano una larghissima serie di nuove possibilità tecniche, di modi di comunicazione capaci di aderire immediatamente alla velocità del reale; le forme artistiche riflettono l’accelerazione e il dinamismo, vengono stravolte dal movimento, mentre si rompono i confini tradizionali tra le diverse arti e le diverse tecniche, e acquista nuova importanza il gesto, l’evento effimero. Ai processi pacati dell’intelligenza e della comprensione razionale, si sostituiscono lo choc, il lampo dell’intuizione, il gesto e lo schiaffo, la forza e l’energia giovanile, nella loro distruttiva irrazionalità. Questo nuovo modo di concepire la comunicazione artistica si collega a una volontà di dominio: per il futurismo l’arte deve porsi come guida dell’ininterrotto potenziamento delle capacità dell’uomo, espressione dell’energia dei forti contro l’inerzia dei deboli; ne viene un’esaltazione della guerra, in chiave nazionalistica, come strumento di potenza e di energia, ma anche come occasione di rinnovamento radicale del mondo. Specialmente nelle fasi iniziali, il futurismo si scaglia contro il perbenismo borghese, a cui oppone la sua sete di eroismo, di ideali distruttivi. La carica antiborghese agisce particolarmente nei riguardi del pubblico, contro il quale i futuristi scaricano la loro aggressività, il loro spirito paradossale. È chiaro che cosí si compie una radicale rivoluzione nel modo di concepire l’arte: il futurismo mette a punto una serie di novità tecniche che sono alla radice di gran parte delle avanguardie europee di questo secolo, tentando uno scambio integrale e assoluto tra arte e vita. Nel contesto italiano il futurismo rappresenta un tentativo di modernizzazione a tutti i costi. Sul piano letterario questo movimento svolge un ruolo essenziale nella disintegrazione dei linguaggi tradizionali, nella diffusione del verso libero (ma cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ), nella rottura di ogni separazione tra poesia e prosa. Piú consistenti appaiono comunque i risultati ottenuti nel campo delle arti figurative. Il primo Manifesto del futurismo () ha un carattere prevalentemente ideologico: esso esalta «l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità», e investe con violenti scatti

La parola nel flusso della realtà

Energia e irrazionalità

Il rapporto con il pubblico Essenziali novità tecniche I caratteri distruttivi della modernità

Il Manifesto del 

EPOCA



Obiettivi e programmi

Parole in libertà

Filippo Tommaso Marinetti

L’attività programmatica



GUERRE E FASCISMO

-

polemici tutte le forme artistiche immobili e contemplative, esibendo una volontà di adeguamento dell’arte alla «velocità» delle macchine; si afferma la validità estetica dei cambiamenti che la tecnica ha introdotto nelle città moderne, si esalta la guerra «sola igiene del mondo», moltiplicatrice di energia, si augura la distruzione dei musei, delle biblioteche, delle accademie. Questo programma di distruzione si svolge variamente nell’azione di Marinetti e degli scrittori e artisti a lui vicini, soprattutto tra il  e l’inizio della prima guerra mondiale. Una fitta serie di manifesti, in maggior parte opera di Marinetti, che venivano letti e diffusi in occasione di quelle «serate» futuriste che finivano, quasi sempre, per degenerare in risse, precisa gli obiettivi e i programmi del movimento: si ricordi Uccidiamo il Chiaro di Luna!, aprile ; Contro Venezia passatista, aprile ; Contro l’amore e il parlamentarismo, compreso in Guerra sola igiene del mondo, ; Manifesto tecnico della letteratura futurista, . Quest’ultimo manifesto delinea gli schemi portanti della rivoluzione formale futurista: distruzione di tutte le forme cristallizzate della sintassi, abolizione dell’aggettivo e della punteggiatura, svolgimento di un’immaginazione senza fili, fondata su un uso fulminante dell’analogia, su un disordine programmatico legato alla logica interna della materia; uscendo da se stessa, la letteratura deve dare voce al «brutto» e all’«intuizione» piú sfrenata, facendo muovere parole in libertà. Tutta la vicenda del futurismo si riassume in quella del suo capo e fondatore, FILIPPO TOMMASO MARINETTI, nato nel  ad Alessandria d’Egitto. Poeta in francese, egli in seguito elaborò le scelte che lo avrebbero condotto al futurismo, dividendo la sua attività tra Parigi e Milano, dove nel  fondò la rivista internazionale «Poesia». Dopo il Manifesto del , fu attivissimo organizzatore di serate e iniziative futuriste, elaboratore di programmi e manifesti, autore di molteplici illeggibili opere «creative». Acceso interventista partecipò al conflitto mondiale, dove fu ferito e decorato; attivo fiancheggiatore del nascente fascismo, divenne presto uno dei personaggi piú autorevoli del regime. Seguí i fascisti perfino nell’ultima avventura della Repubblica Sociale e morí a Bellagio, presso Como, nel .

La parte piú significativa della produzione marinettiana va individuata nella sua opera di organizzatore, nei manifesti e in altri vari testi programmatici, nei quali mostra tutta la sicurezza del suo piglio distruttivo, la sua passione militaresca per l’energia e per la lotta; egli ricorre a una continua accelerazione linguistica, che cade però facilmente nelle formule di una vieta retorica. La sua vasta produzione «creativa», di valore piuttosto scarso, presenta invece varie sfasature e contraddizioni rispetto agli stessi programmi futuristi.

... Poeti e prosatori futuristi. L’avanguardia di Govoni e Palazzeschi

Al di là delle veementi enunciazioni teoriche e programmatiche, i testi dei futuristi raggiungono risultati eterogenei: spesso la loro carica distruttiva resta ferma sul piano dei contenuti, mentre la sperimentazione delle tecniche resta del tutto esteriore. Il futurismo lascia le sue tracce maggiori in autori come Govoni e Palazzeschi, che ne condividono l’esperienza solo per un breve arco di anni: nelle loro opere essi tentano, spesso con successo, di liberarsi dei codici tradizionali, creando un linguaggio legato al flusso della materia e totalmente aderente alle sollecitazioni che provengono dalla realtà contemporanea. Si tratta di un’azione d’«avanguardia» rispetto alla quale le piú programmatiche soluzioni tecniche restano astratte, interessanti per il loro significato teorico o quale documento storico di quegli anni, ma incapaci di produrre testi veramente leggibili o dotati comunque di autentica forza conoscitiva.

Alcuni poeti

Nel campo della poesia ci fu uno sforzo collettivo piú coordinato, che si concretizza in due antologie curate dallo stesso Marinetti, I poeti futuristi () e I nuovi poeti futuristi (). Tra i piú significativi poeti futuristi, vanno ricordati il siciliano ENRICO CAVACCHIOLI (-), il milanese PAOLO BUZZI (-), il romano LUCIANO FOLGORE (pseudonimo di OMERO VECCHI, -).

.

AVANGUARDIA ED ESPRESSIONISMO

L’esperienza futurista costituí solo uno dei momenti dell’attività del toscano ARDENGO SOFnato a Rignano sull’Arno nel  e morto a Forte dei Marmi nel , pittore e scrittore, caso esemplare di passaggio dai fermenti d’avanguardia all’ordine piú tradizionalista, da un’apertura internazionale a un ottuso nazionalismo. Il suo ingegno parte da un fondo toscano municipale e campestre, che, dopo un’immersione giovanile nell’avanguardia parigina, si traduce in un sovversivismo reazionario che lo porta sulle posizioni del fascismo. A Parigi scoprí la pittura impressionistica; ebbe inoltre il merito di diffondere in Italia la conoscenza di Rimbaud. Partecipe delle varie vicende delle riviste fiorentine dell’inizio del secolo, propose su «La Voce» la linea dell’autobiografismo lirico, che rese esplicita in vari scritti procedenti per illuminazioni frammentarie. L’opera piú significativa resta il romanzo Lemmonio Boreo (): la vicenda, tra epica e picaresca, di un «eroe popolare giustiziere», che attraversa la campagna toscana compiendo atti teppistici che prefigurano, al di là delle intenzioni dell’autore, lo squadrismo fascista. FICI,



Ardengo Soffici

Lemmonio Boreo

... La poesia inarrestabile di Corrado Govoni. Poeta di forza spontanea e autentica, in cui la parola sembra conservare un rapporto diretto con la molteplicità delle cose, CORRADO GOVONI nacque a Tamara (Ferrara) nel  e morí al Lido dei Pini, presso Roma, nel . Ha lasciato numerose raccolte (di cui egli diede un’ampia scelta nel volume del , Poesie -), dove un eccezionale e smisurato repertorio di immagini e situazioni si appoggia a una singolare capacità di «vedere» e di tradurre la visione in parola inarrestabile. C’è in Govoni come un’«ingenuità» costitutiva che lo porta ad attraversare con la poesia tutto ciò che pullula nel mondo esterno, immergendosi nella piú informe oggettività. Questo suo dono fa sí che già le raccolte del primo decennio del secolo contengano nuove configurazioni di immagini e di suoni: esse ci appaiono oggi quasi come una «inaugurazione» del linguaggio poetico novecentesco. Il poeta ha attraversato esperienze tra loro diverse, avvicinandosi in primo luogo al crepuscolarismo e al futurismo fino ad attingere, nella vecchiaia, al neorealismo. In ogni sua scelta, in ogni suo contatto con le tendenze contemporanee, egli ha d’altra parte sempre mantenuto una capacità di accendersi, di seguire sensazioni del tipo piú diverso: nella sua poesia è tenuta sempre desta una meraviglia per l’emergere di una realtà non codificata dai canoni tradizionali, di un mondo in cui si mescolano il basso e il sublime, il quotidiano e l’eccezionale, il residuo di antichi mondi e l’invenzione di mondi del tutto nuovi.

La visione e la parola Oggettività senza norma

Una curiosità al di là dei codici

... Aldo Palazzeschi: la giocosa libertà del nulla. Nato a Firenze il  febbraio , ALDO GIURLANI si diede alla letteratura dopo aver frequentato una scuola di recitazione insieme a Moretti, di cui divenne grande amico (cfr. ..); assunse lo pseudonimo PALAZZESCHI desumendolo dal cognome della nonna. Dopo i primi libri di poesie, legati al crepuscolarismo, aderí al futurismo, elaborando alcuni dei testi piú liberi e originali dell’intero movimento: fece da raccordo tra Marinetti e il gruppo di «Lacerba», ma si allontanò dal futurismo già nel , quando questo scatenò la sua violenta battaglia interventista. Rimase estraneo al fascismo, impegnandosi soprattutto in un’attività di narratore, che gli guadagnò i favori del pubblico; collaborò dal  al «Corriere della Sera» e da Firenze partí per lunghi soggiorni a Parigi. Si trasferí nel  a Roma e nella vecchiaia visse un nuovo momento di felice creatività. Morí a Roma il  agosto .

Palazzeschi attraversa l’esperienza dell’avanguardia di inizio secolo, quella del «ritorno all’ordine» degli anni Venti e ancora la ripresa sperimentale delle avanguardie degli anni Sessanta, con una sua inconfondibile e quasi cinica giocondità, con un nichilismo generoso ma non privo di un che di enigmatico e di inafferrabile. Nelle piú diverse situazioni egli

Dal teatro alla letteratura

La vita

Un cordiale estremismo

EPOCA



La produzione poetica Crepuscolarismo e futurismo

Palazzeschi e i futuristi Il codice di Perelà

Le novelle

Le opere della vecchiaia



GUERRE E FASCISMO

-

si diverte a trarre alla luce sproporzioni e incongruità, in un’irridente distruzione dei rapporti normali tra le cose: ma la sua distruzione è paga di potersi concentrare sugli oggetti, e conserva sempre un’estrema riserva su di sé, sul proprio valore e sui propri limiti. La sua prima fase creativa è concentrata sulla poesia, da lui quasi completamente abbandonata negli anni Venti, quando si dedicò all’ordinamento delle liriche già apparse nel volume Poesie (); ma una prima sistemazione della sua produzione poetica si era avuta nella raccolta L’Incendiario (). I testi legati al crepuscolarismo mostrano un gusto per la ripetizione e per la cantilena, che tende già a svelare la gratuita nullità della parola e della posizione stessa del poeta, presentato nella celebre poesia Chi sono? come «saltimbanco», secondo un motivo del resto molto diffuso nell’arte e nella cultura tardo-ottocentesca. Lo spontaneo avvicinamento di Palazzeschi al futurismo fa esplodere all’estremo la sua aspirazione a trasformare la parola in puro divertimento. Le cose piú minute, i paesaggi piú semplici e convenzionali, le situazioni umane piú banali, tutto si risolve in elementare insensatezza, in un meraviglioso che vuole essere privo di ogni valore e di ogni aura. Palazzeschi trasforma la poesia in cantilena e filastrocca, sciorinamento di «corbellerie»: in tal modo ridicolizza tutte le etichette sociali, le presupposizioni di valori, le esaltazioni programmatiche della poesia e della cultura del tempo. Palazzeschi non si lascia, però, catturare dall’invasamento energetico dei futuristi, dalla loro esaltazione della modernità: lo scrittore fiorentino rifiuta ogni proposizione di nuovi valori, non mira a una poesia che collabori al percorso della storia, ma solo a un’esperienza poetica liberata in una assoluta evanescenza. Per questa strada giunge al risultato migliore della narrativa futurista, Il codice di Perelà (), romanzo carico di elementi allusivi e allegorici, basato sulla vicenda di un uomo di fumo, una specie di nuovo Cristo-messia, figura parodistica di salvatore e di poeta, che dovrebbe elaborare un codice per la liberazione dell’umanità dalla falsa razionalità e dalle costrizioni sociali, ma che esala verso il cielo risolvendosi nel nulla. Dopo la rottura con il futurismo, Palazzeschi si mosse verso una narrativa piú tradizionale, piú legata a elementi realistici. Nelle novelle (che furono raccolte nei volumi Il Re bello, , Il palio dei buffi, , Bestie del , , confluiti poi in Tutte le novelle, , a cui seguí ancora nel  Il Buffo integrale) ha libero sfogo una comicità fatta di favole leggere e piene di sorprese, di incastri e di scambi interni, o di situazioni quotidiane in cui la vita borghese e piccolo-borghese si illumina e viene sconvolta dall’emergere di stranezze e marginali irregolarità. L’opera piú fortunata di Palazzeschi fu il romanzo Sorelle Materassi (), la cui struttura realistica, molto tradizionale, è appesantita da un tono di conversazione «toscana» che vuol essere troppo misurato e cordiale; la vicenda è giocosamente disinvolta ed è basata sullo sconvolgimento che un giovane nipote scapestrato introduce nella vita di due anziane sorelle «cucitrici di bianco». Elementi patetici e di dolce moralismo si affacciano invece nei romanzi I fratelli Cuccoli () e Roma (). Un nuovo sorprendente equilibrio tra il furore sperimentale della giovinezza e il tono di dolce conversazione che talvolta assumono i romanzi della maturità si ritrova invece nei romanzi della vecchiaia, Il doge (), Stefanino (), Storia di un’amicizia (); notevoli anche le raccolte poetiche Cuor mio () e Via delle Cento Stelle, - ().

... Trasformazioni e serietà di Borgese.

La scelta antifascista

Il siciliano GIUSEPPE ANTONIO BORGESE (-) rappresentò per tutta la prima fase del Novecento una coscienza critica di notevole acume e prestigio, capace di imporsi al pubblico con grandi prospettive intellettuali, con uno spirito sempre disposto a mettere in discussione le proprie stesse conquiste. Le sue scelte lo portarono però a un relativo isolamento culturale, a un progressivo distacco dai gruppi e dalle tendenze intellettuali dominanti, forte già negli anni Dieci e accentuatosi negli anni Venti, fino a una coraggiosa scelta antifascista che lo costrinse a trasferirsi in America, dove visse in esilio, insegnando in varie università, dal  al .

.

AVANGUARDIA ED ESPRESSIONISMO

Oltre alla sua fittissima attività di critica «militante», ha un essenziale rilievo il romanzo Rubè (), sorta di riflessione critica e autocritica sulla cultura «sovversiva» e interventista, in cui si narrano le vicende di un intellettuale piccolo-borghese siciliano, Filippo Rubè, e le modificazioni della sua coscienza nel passaggio dalla battaglia interventista ai conflitti sociali del primo dopoguerra. Il libro segue da vicino le contraddizioni di un vitalismo irrazionalistico che nel protagonista si presenta come un modo di trasferire la propria inconsistenza personale sul piano di una illusoria partecipazione ai destini collettivi. Nel contatto con l’esperienza concreta della guerra, che non permette l’individuazione di alcun senso e impedisce ogni scelta, l’attesa di eventi assoluti e definitivi si prolunga in un’esistenza grigia e cupa, dove si danno solo gesti automatici, incontri deludenti o meschini. Il narratore scava a fondo nell’io del personaggio: il protagonismo intellettuale, la tensione a immergere la forza vitale dell’io nel flusso di un presente in movimento riceve in Rubè una essenziale smentita, rivela tutto il suo carattere velleitario e piccolo-borghese. Questa specie di radiografia della condizione intellettuale alla vigilia del fascismo si avvale di una prosa rapida e scorrevole, che non si preoccupa del proprio spessore stilistico, ma insegue una trama di rapporti simbolici, di analogie tra luoghi, oggetti, figure, situazioni, in cui il personaggio sembra riconoscere i segni del proprio destino. Accanto alla scrittura narrativa, su cui continuò a lavorare successivamente a Rubè, senza piú raggiungere un risultato cosí essenziale (ma vanno ricordati almeno i racconti Le belle, ), Borgese tentò anche la strada della poesia, senza però pervenire a adeguate soluzioni stilistiche.



Critica della cultura interventista: Rubè

Un intellettuale attraverso la guerra

Naturalismo simbolico

... L’espressionismo «provinciale» di Federigo Tozzi. L’opera di FEDERIGO TOZZI, che si svolge, con scarsissima eco (salvo l’interesse di Borgese, di Pirandello e di pochi altri), nel breve spazio del secondo decennio del secolo, oppone all’orizzonte della modernità la sofferta esperienza di un mondo provinciale e municipale in cui la persistenza di un’antica società contadina si intreccia con i frammenti di un ambiente artigianale, impiegatizio, piccolo-borghese, tra sordi rancori, esasperanti inerzie, ossessivi residui psicologici.

Un sofferto provincialismo

Nato a Siena il ° gennaio , egli visse la fanciullezza e l’adolescenza in difficile rapporto con il padre; scarsi i suoi risultati negli studi, a cui del resto il padre guardava con diffidenza. Dopo la morte della madre (), Tozzi proseguí gli studi tecnici in modo irregolare, senza portarli a termine; seguí letture e interessi personali rari, frequentando assiduamente la Biblioteca comunale di Siena. Nella vita quotidiana si formò un carattere aggressivo e rissoso, complicato dai continui scontri con il padre. Fu assunto nel marzo  dalle Ferrovie dello Stato. La morte del padre, nel maggio, lo rese erede di una notevole fortuna, permettendo il suo matrimonio con Emma Palagi (da cui nacque nel  il figlio Glauco), l’abbandono dell’impiego e l’avvio di un intenso lavoro letterario. Si era spostato intanto verso posizioni di acceso spiritualismo e di cattolicesimo reazionario, propugnate violentemente nella rivista «La Torre», da lui fondata nel  insieme all’amico DOMENICO GIULIOTTI (-). Mentre la sua situazione economica si faceva difficile per la trascuratezza nella gestione dell’eredità paterna, si trasferí a Roma con la famiglia nel , alla ricerca di collaborazioni nei giornali e di una maggiore notorietà letteraria. Dopo il suo primo libro importante, Bestie, pubblicato nel , si impegnò, vivendo tra Roma e Siena, nella sistemazione, revisione e stesura delle sue opere narrative, mentre era assillato dai problemi economici e da un nuovo, ossessivo bisogno di religiosità: ma riuscí a vedere solo la pubblicazione di Con gli occhi chiusi () e di Tre croci (). Morí a Roma, per una polmonite, il  marzo .

La formazione

La scrittura di Tozzi nasce da un fondo autobiografico e da un modo di rappresentazione e di visione di tipo naturalistico (per cui è essenziale il richiamo a Verga): tuttavia

Il lavoro letterario

Gli ultimi anni

EPOCA



Un naturalismo che non spiega

Ricordi di un impiegato

Con gli occhi chiusi

Un inetto in una realtà disumana

Le novelle Il frammentismo di Bestie

Gli ultimi romanzi

Il podere



GUERRE E FASCISMO

-

mentre «il naturalismo rappresenta in quanto spiega, e viceversa; Tozzi rappresenta in quanto non sa spiegare» (Debenedetti). La realtà esterna invade il suo spazio visivo come una presenza misteriosa, carica di veleni dei quali non si rintraccia l’origine e che spesso coincidono con la sua sofferente psicologia. D’altra parte la rappresentazione di Tozzi evita di distendersi in percorsi narrativi continui, svolgendosi tutta per illuminazioni discontinue, che mostrano un rapporto con il frammentismo de «La Voce»: solo nell’ultima fase della sua attività egli sembra cercare costruzioni narrative piú organiche e coerenti. Il fondo originario della scrittura di Tozzi e le complicazioni psicologiche da cui essa nasce, possono rintracciarsi già nelle lettere scambiate con la moglie (pubblicate nel  con il titolo Novale); essenziali sono però i Ricordi di un impiegato, legati alla sua esperienza di impiegato delle ferrovie, composti nel  sotto forma di diario e pubblicati a cura di Borgese su «La Rivista letteraria» nel . Nel racconto dei momenti frammentari di una grigia esistenza, di fronte alla presenza sempre estranea e nemica degli altri, il narratore frantuma una realtà che è tanto piú priva di senso e sordamente ostile quanto piú appare normale. Come il mondo è fatto di apparizioni slabbrate, di gesti ottusi e dimessi, cosí, anche per il modo in cui è strutturato il diario, l’io vi appare del tutto frantumato e addirittura inesistente.

Con gli occhi chiusi, il romanzo pubblicato nel , ma scritto nel , può essere considerato il capolavoro di Tozzi. Con una narrazione in terza persona, in un succedersi di brani disposti come frammenti, vi si segue la vicenda, carica di elementi autobiografici, di Pietro Rosi, e del suo innamoramento per la contadina Ghísola, sospeso tra illusorie immagini, fin quando il protagonista non la scopre incinta in una casa di tolleranza. Pietro si presenta come un «inetto», il cui non voler vedere è anche un modo di sfuggire alla stranezza dell’esistenza, ai colori sordidi che intorno a lui assumono le cose, gli oggetti artificiali e naturali, le persone di cui subisce la minacciosa estraneità. Il suo è come un romanzo di formazione alla rovescia, la storia di un’esperienza di delusione che è inscritta da sempre nel mondo che gli sta attorno: ma, insieme al personaggio, è tutta la realtà a cedere e a sfaldarsi, nonostante la sua apparente corposità. Non ci sono segni, per quanto irraggiungibili, di felicità: il mondo appare ossessivo, irrespirabile, impastato di fetore, di ottusità, di rissosità, di egoismo, chiuso a qualsiasi possibilità di amore. Meno intense appaiono le novelle, scritte a partire dal : pubblicate su varie riviste a partire dal , esse approdarono poi a due raccolte apparse postume nel , Giovani e L’amore. Prova eccezionale di scrittura frammentaria è quella di Bestie, brevi testi scritti tra il  e il , che si riferiscono alle situazioni piú diverse (dalla descrizione di luoghi e oggetti, alla presentazione di figure umane, a riflessioni morali e personali), da cui sempre si svolgono analogie con figure animali: un singolare bestiario moderno, che non mira, come quelli antichi (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ), a una sistemazione della realtà, ma condensa in sé tutto il peso inquietante e misterioso che il mondo esterno assume per un’anima «senza amicizie, ingannata tutte le volte che ha chiesto d’esser conosciuta». Rispetto a questa dimensione frammentaria, un nuovo impegno costruttivo è testimoniato dai due romanzi che Tozzi scrisse con un’estrema concentrazione: Il podere, scritto tra il  e il  luglio  e pubblicato postumo nel , e Tre croci, scritto tra il novembre e il dicembre del  e pubblicato all’inizio del , con dedica a Pirandello (incompiuto rimase invece il romanzo Gli egoisti).

Il podere presenta la vicenda di Remigio Selmi che, alla morte del padre, si occupa del podere della Casuccia, presso Siena: anch’egli è un «inetto», che, quanto piú cerca di comportarsi in modo equanime e benigno, tanto piú gli altri si accaniscono contro di lui, attribuendogli la responsabilità di ogni stortura e di ogni ingiustizia. In un crescendo velocissimo e iperbolico, gli si scaricano addosso le disgrazie piú disparate, ed è costretto a muoversi come un automa in mezzo a rapporti in cui non riesce a riconoscersi, ad attività pra-

.

AVANGUARDIA ED ESPRESSIONISMO

tiche a cui il suo carattere non riesce mai ad adeguarsi, fino al momento in cui un suo contadino, in un lampo di rabbia, lo uccide con un colpo d’accetta. La narrazione si versa tutta nei fatti e può far pensare a un ritorno di Tozzi a un’ottica piú tradizionalmente naturalistica: ma il linguaggio, retto da periodi brevissimi, da frequenti frammenti di dialogo, da un dominio quasi totale della paratassi, non si riduce affatto a una registrazione «oggettiva» della realtà. L’incapacità di vivere di Remigio è anche una specie di resistenza passiva alle leggi economiche e naturali, un bisogno di essere «altrove», di contemplare da lontano il mistero che si annida nella segreta insensatezza delle cose: in lui è possibile scorgere addirittura una immagine distorta e umiliata, involgarita dalla banale realtà provinciale e piccolo-borghese, dello stesso Cristo. Il cattolicesimo di Tozzi approda cosí al senso di una radicale negatività della condizione naturale e sociale, a cui il personaggio «inetto» si piega con un’ansia di sacrificio e di martirio: in Tre croci la figura dell’inetto-vittima sacrificale si rispecchia nella vicenda dei tre fratelli Gambi, proprietari di una libreria d’antiquariato in Siena, i quali, in seguito a difficoltà economiche, precipitano in una spirale di errori che li conduce tutti e tre alla rovina e alla morte: ma l’assurdità della loro storia finisce per trasformarli in figure simboliche, in vittime di un’espiazione per il male stesso di vivere. Con soluzioni tanto intense e originali, Tozzi fa cosí del suo mondo psicologico e del mondo provinciale senese una lacerante metafora della condizione umana, improntata alla crudele fisicità di un orizzonte insieme contadino e municipale, che va disgregandosi al contatto con la modernità. La realtà scopre la sua faccia piú distruttiva e il personaggio tozziano, chiudendosi nella sua inettitudine, vive l’estraneità radicale dell’io ai processi sociali: intorno a lui pullula tutta una piccola umanità feroce e bestiale, che non conosce l’amore, che sa vivere solo nell’aggressione o nell’accettazione incondizionata della sorda violenza dei rapporti quotidiani. La natura, gli oggetti, gli stessi luoghi cittadini si animano come qualcosa di resistente e di estraneo all’occhio: c’è in Tozzi una carica visiva fortissima, una capacità di rappresentare contorni e volumi che si giustappongono, si aggrediscono e si elidono a vicenda. La forza della sua rappresentazione ci conserva, in modo ineguagliato, il colore concreto di un’Italia agricola e municipale vicina alla fine.



Tra naturalismo e simbolismo

Martirio piccoloborghese Tre croci

L’Italia municipale e la modernità

˜

10.4 LUIGI PIRANDELLO E IL TEATRO DEL PRIMO NOVECENTO ... Dalla Sicilia al mondo: vita di Pirandello.

LUIGI PIRANDELLO nacque il  giugno  nella villa Caos, nei pressi di Girgenti (ribattezzata con il nome classico di Agrigento nel ), nelle cui vicinanze il padre Stefano gestiva delle miniere di zolfo; la madre, Caterina Ricci Gramitto, apparteneva a una famiglia borghese che si era eroicamente distinta nella lotta antiborbonica e unitaria. Compiuti gli studi liceali a Palermo, si iscrisse all’università della stessa città, quindi alla Facoltà di lettere dell’Università di Roma. Nel  si trasferí in Germania, all’Università di Bonn, dove, nella primavera del , si laureò in filologia romanza con una tesi sul dialetto di Girgenti. Deciso a dedicarsi alla letteratura (aveva già pubblicato due raccolte di versi, Mal giocondo e Pasqua di Gea: ne sarebbero seguite altre, tra cui Fuori di chiave, ), ottenne dal padre un assegno mensile e nel  si stabilí a Roma, dove conobbe Capuana (cfr. ..). Cominciò a impegnarsi nella narrazione in prosa e nell’estate , nel silenzioso soggiorno di Monte Cavo, presso Roma, scrisse il suo primo romanzo, apparso solo nel , con il titolo L’esclusa (cfr. ..); intanto collaborava variamente a riviste e scriveva novelle. Nel gennaio del  aveva sposato a Girgenti, con matrimonio combinato tra le famiglie, la benestante Maria Antonietta Portulano: i giovani sposi si stabilirono a Roma, dove nacquero tre figli. Il primo periodo della vita familiare fu abbastanza sereno, anche se il rapporto con Antonietta fu vissuto con una distanza carica di disagio psicologico. Sempre piú fitta diventava intanto la collaborazione dello scrittore a riviste, sia con saggi, sia con novelle. In quegli anni si ebbero anche i suoi primi tentativi di scrittura teatrale. Nel  Pirandello intraprese la carriera di professore universitario, insegnando all’Istituto superiore di magistero di Roma. Nel  la famiglia Pirandello subí un grave dissesto economico, per l’allagamento di una miniera che fece perdere tutto il capitale investito dal padre Stefano, tra cui la stessa dote di Antonietta: la notizia causò nella donna una gravissima crisi, che compromise definitivamente il suo equilibrio psichico. Venute meno le rendite familiari, Luigi intensificò la collaborazione a giornali e riviste. Oltre a numerosissime novelle, vennero composti i romanzi Il fu Mattia Pascal, I vecchi e i giovani, Suo marito. Il successo del primo indusse uno dei maggiori editori del tempo, Treves di Milano, a occuparsi della pubblicazione delle sue opere. Nel  vennero rappresentati, da parte della compagnia di Nino Martoglio, i suoi primi due atti unici; ma il lavoro letterario resta ancora concentrato sulla narrativa, con una ricca produzione di novelle che, dal , cominciano ad apparire soprattutto sul «Corriere della Sera». Egli lavora anche per la nuova industria del cinema, scrivendo soggetti; di questa attività è frutto il romanzo Si gira…, pubblicato nel  sulla «Nuova Antologia». Il  peraltro è un anno risolutivo per il destino umano e intellettuale di Pirandello: il  aprile al teatro Manzoni di Milano va in scena la sua prima commedia in tre atti, già scritta molti anni prima, Se non cosí… Da questa esperienza prende avvio un suo nuovo impegno nella scrittura teatrale, sia in lingua che in dialetto siciliano; proprio negli anni della grande guerra scrive alcune opere celebri. Pirandello considera la guerra un necessario compimento storico del Risorgimento, ma ne individua anche gli aspetti negativi e distruttivi: vive drammaticamente il fatto di appartenere a una generazione a cui è negato un autentico impegno patriottico, che non ha partecipato al Risorgimento e ora vede combattere le generazioni piú giovani. Anche il figlio Stefano è al fronte, dove cade prigioniero nel  (anno in cui muore la madre di Pirandello), per tornare solo a guerra finita. In questa situazione si aggrava la malattia mentale di Antonietta; nel  è ricoverata in una casa di cura a Roma, dove resterà fino alla morte. Il  è l’anno della piena affermazione del teatro pirandelliano: il fervore creativo culmina nel capolavoro dei Sei personaggi in cerca d’autore, che, dopo il fiasco della prima rap-

La famiglia

La formazione

L’attività letteraria romana

Il matrimonio

Le difficoltà economiche

Il vero esordio teatrale

La guerra e i miti risorgimentali

Gli anni del successo

EPOCA



Un’intensa attività

Fuga da se stesso

Adesione al fascismo Il Teatro d’Arte

Il Nobel



GUERRE E FASCISMO

-

presentazione tenuta a Roma il  maggio , trionfa a Milano il  settembre dello stesso anno e inaugura il grande successo internazionale che, a partire dal , porta Pirandello sulle scene di tutto il mondo. Da una vita sostanzialmente sedentaria, lo scrittore passa a un’inquieta condizione di viaggiatore, scrivendo soprattutto negli alberghi, raggiungendo i maggiori centri teatrali d’Europa e d’America; arricchisce il suo repertorio di nuove commedie e segue direttamente la vita delle compagnie teatrali, impegnandosi anche in una attività di regista (cfr. PAROLE, tav. ). Egli mostra una viva curiosità per le tecniche dello spettacolo, in primo luogo il cinema, che in quegli anni ricava soggetti da molte sue opere; scrive ancora novelle e cura varie edizioni delle sue opere, mirando a una loro sistemazione globale che raccoglie i testi teatrali sotto la denominazione di Maschere nude (il primo volume esce già nel ) e le novelle sotto quella di Novelle per un anno (il primo volume esce nel ). Nella attività frenetica che lo porta in ogni parte del mondo, Pirandello pare attuare una fuga da se stesso, dalle proprie radici e dalle proprie angosce, nel momento stesso in cui continua a esprimerle sul piano artistico. È una paradossale affermazione di sé, che si lega a una ossessione di presenza pubblica, ma non contraddice il pessimismo con cui egli ha sempre guardato alla falsità della vita sociale. I suoi comportamenti pubblici sono caratterizzati cosí da una ambiguità di fondo, che giustifica anche la sua adesione al fascismo, esplicita già nel  e poi giunta, nel settembre , a una iscrizione formale al partito. I buoni rapporti con lo stesso Mussolini del resto gli consentono di trovare finanziamenti per un nuovo organismo teatrale, il Teatro d’Arte a Roma, inaugurato il  aprile ; esso costituí una vera e propria compagnia, diretta dallo stesso Pirandello, che fin dal  vi scritturò la giovane attrice Marta Abba (-), a cui si legò sentimentalmente e che lasciò erede dei diritti delle sue ultime opere. Ma il Teatro d’Arte dovette cessare l’attività nel . Nonostante i suoi sempre piú numerosi viaggi all’estero, Pirandello mantenne stretti rapporti con la cultura ufficiale: nel  fu chiamato a far parte dell’Accademia d’Italia; nel  gli venne assegnato il premio Nobel per la letteratura. Negli ultimi anni pensò al completamento della raccolta delle Novelle per un anno e guardò ormai con silenzioso distacco alla retorica del regime fascista. Il suo pessimismo lo fece essere sempre inspiegabilmente «altrove», diverso da come era costretto ad apparire. Mentre seguiva negli stabilimenti di Cinecittà le riprese di un film tratto da Il fu Mattia Pascal, si ammalò di polmonite e morí nella sua casa romana il  dicembre .

... La scrittura come tortura. Frammenti di sofferenza

Indagine sull’inautenticità

Sicilianità

Le numerose opere di Pirandello si susseguono e si dispongono come in un sistema globale, in cui circola ininterrottamente una folla di situazioni, personaggi, motivi mitici e simbolici, intrecci e schemi narrativi. Questi materiali, variamente combinati, non intendono peraltro presentarsi come materiali letterari, ma come frammenti di esistenza, segni di sofferenze reali, residui di un mondo psichico carico di tensioni, immagini della crudeltà e dell’aggressività che regolano i rapporti tra gli uomini. Siamo agli antipodi della scrittura di D’Annunzio (cfr. ..), con il suo estetismo esasperato. Pirandello non intende ricavare dalla letteratura l’esaltazione di una «vita» esuberante e trionfante, ma partire dalle condizioni della vita reale degli uomini, per scoprirne le contraddizioni, il fondo segreto di sofferenza e di pena, il peso minaccioso che vi hanno l’artificio e la finzione. Scrivere per lui è come ruotare attorno a un groviglio di oggetti in cui si coagula una vita che non riesce a essere se stessa, che lotta continuamente con una forma che la insidia. In questo continuo ruotare la scrittura si richiama ad alcuni modelli, anche tra loro lontani, che permettono di individuare elementi diversi: . quelli provenienti da un antico fondo siciliano, dalla durissima vita popolare del territorio di Girgenti, dalla crudeltà delle relazioni sociali in essa vigenti, dalle leggende e dalle credenze di un folclore che talora risale alle origini greche;

.

LUIGI PIRANDELLO E IL TEATRO DEL PRIMO NOVECENTO

. quelli ricavati da una sottile attenzione alla vita della piccola borghesia impiegatizia della Roma umbertina e giolittiana, fatta di esistenze chiuse, dagli orizzonti limitatissimi, ma dagli intrecci umani spesso strani e paradossali; . quelli legati a una coscienza fortissima dei turbamenti, delle nuove sofferenze e perversioni che il mondo moderno introduce in altri universi in origine immobili e chiusi in se stessi; . quelli che risalgono a un’ossessione per tutte le forme di sofferenza e di malessere psichico che possono sorgere all’interno della famiglia (problematica che forse affonda nella stessa infanzia di Pirandello e che poi si è complicata per le esperienze successive); . quelli ricavati da una tradizione di letteratura umoristica italiana ed europea, che tende a sconvolgere i rapporti consueti, a dar voce ad aspetti sotterranei e inquietanti dell’esperienza (fondamentale a tale proposito la conoscenza di alcuni scrittori tedeschi). Con questi vari materiali, la scrittura pirandelliana tende a costruire un’opera globale, in cui non contano soltanto i singoli risultati, ma soprattutto l’impegno continuo, l’ostinazione con cui l’autore si rapporta alla sua materia, ne ricombina alcuni aspetti essenziali, spesso passando da un genere all’altro (e ciò è evidente nel caso di molte opere teatrali, che riprendono direttamente i temi di singole novelle). In ciò agisce una violenta ossessione originaria: scrivere è un modo per tener lontana questa ossessione e insieme per ruotarvi intorno senza fine. L’intero lavoro dello scrittore si svolge sotto il segno della ripetizione, nello sviluppo di una scrittura che agisce come un coltello che affonda continuamente nella negatività dell’esistenza, in una pena immedicabile che si identifica con lo stesso essere dell’uomo (e da cui sprigiona spesso anche il riso, in una vitalità paradossale, quasi diabolica). Gran parte dell’opera pirandelliana può essere vista come una sosta in una «stanza della tortura» (Macchia), impietosa messa in scena di un vivere che in quanto tale è male, aggressività, impossibilità, e in cui non può mai realizzarsi un’esistenza autentica e pura.



Roma e il ceto impiegatizio Perversioni della modernità Ossessioni familiari Umorismo e quotidianità

Ripetizione e negatività dell’esistenza

... Maschere, fantasmi e personaggi. Per Pirandello la finzione e l’inganno della vita sociale trovano il loro maggiore strumento nella maschera: ognuno di noi si presenta allo sguardo degli altri attraverso un’apparenza esterna che non corrisponde alla reale natura e da cui è molto difficile, o impossibile, liberarsi. Sciascia ha mostrato come Pirandello ricavasse quest’idea della maschera dal fondo stesso della realtà sociale siciliana; a questo fondo arcaico egli intrecciava poi una avanzatissima coscienza del carattere artificiale della vita sociale moderna. Dalle «filosofie della vita» che dominavano nell’Europa del tempo (cfr. ..) gli veniva una concezione della realtà come perpetuo e insolubile conflitto tra vita e forma: la «vita» è flusso continuo, movimento profondo e autentico che, nella comunicazione tra gli uomini, viene sempre bloccato, fissato, artificializzato da una «forma» che ne spegne la forza originale e porta con sé la morte (la «maschera» non è che una delle manifestazioni essenziali della «forma»). L’essere stesso dell’uomo nella società si fonda proprio su una continua lotta contro la «forma», in un tentativo di districarsi dalle maschere artificiali che dominano i rapporti interpersonali. In tutta la sua opera lo scrittore cerca di esprimere tale contrasto, riconoscendo allo stesso tempo l’insuperabilità del dissidio tra vita e forma. Maschere e finzioni si impongono in tutte le opere pirandelliane, sia nel modo di presentarsi degli oggetti, sia nell’intreccio dei rapporti sociali, sia nella consistenza fisica e psichica delle persone. Sopraffatte dalle maschere, le persone diventano inafferrabili: il loro posto è preso da esseri astratti, quasi dei fantasmi che condensano in sé tutta una serie di realtà psichiche, di sensazioni, di desideri, di ossessioni altrimenti impronunciabili. Lo scrittore tende a vedere il proprio lavoro come frutto di un rapporto con queste emanazioni della sua fantasia, testimoni di un doloroso bisogno di «vita», «compagni segreti» del suo io. Sono fantasmi che recano su di sé il segno della «forma» che uccide, che

L’identità e la maschera

La vita contro la forma

L’autenticità inafferrabile

EPOCA



Il mito del personaggio senza autore

Strutture in movimento



GUERRE E FASCISMO

-

vengono spesso dal regno dei morti. Da quest’ossessione nasce la concezione pirandelliana del personaggio, come entità distinta dall’autore, come essere che cerca di realizzarsi in modo assoluto e vivere una sua vita autentica nella letteratura e poi soprattutto sulla scena. Questa concezione ha radici fin nella prima attività di Pirandello e trova un’essenziale manifestazione nel romanzo Il fu Mattia Pascal, portando in seguito alla creazione di un vero e proprio mito, quello del personaggio senza autore: esso viene impostato in alcune novelle (come La tragedia di un personaggio, , e Colloqui con i personaggi, ), in cui si parla di personaggi sospesi, non ancora realizzati (o addirittura rifiutati da altri autori), che si rivolgono a Pirandello presentando se stessi, chiedendo di divenire personaggi definitivi. Questo mito permette all’autore di sentire le proprie opere come organismi in movimento, in cui i personaggi stessi costruiscono e impongono il proprio essere. L’esperienza teatrale, che a partire dal  è al centro del lavoro di Pirandello, imponendo un confronto con la presenza fisica degli attori-personaggi in scena, approfondisce ulteriormente questo senso dell’autonomia del personaggio, della sua ricerca di vita, delle strutture in movimento, fino al capolavoro dei Sei personaggi in cerca d’autore e a tutta l’esperienza del teatro nel teatro.

... I primi romanzi e Il fu Mattia Pascal.

L’esclusa

II turno

Fin dall’inizio del soggiorno romano, il giovane Pirandello provò la narrativa in prosa, trovando sostegno nel corregionale Capuana, che a Roma conobbe e frequentò: nell’estate del  scrisse il suo primo romanzo, intitolato originariamente Marta Ajala e pubblicato solo nel  su «La Tribuna» con il titolo definitivo L’esclusa. Il romanzo è incentrato su un personaggio femminile, come molti romanzi recenti dedicati alle contraddizioni tra la società e le aspirazioni di una donna moderna e libera (in primo luogo la Giacinta di Capuana, cfr. DATI, tav. ). In un mondo siciliano stralunato e percorso da lampi di follia, la protagonista Marta sperimenta la tirannia dell’apparenza dei «fatti»: su di essa pesa, come tragico esito della sua condizione femminile, un’impossibilità di affermare la propria autenticità personale, che conduce a una resa rassegnata alla mediocrità dell’esistenza quotidiana. Il breve romanzo successivo, Il turno, fu scritto nel  e pubblicato a Catania nel : si tratta di uno scatenato divertimento comico, ambientato in una Girgenti dagli aspetti grotteschi e sinistri, tra personaggi che si muovono come marionette.

Un’esperienza solitaria

Il primo grande romanzo di Pirandello, Il fu Mattia Pascal, scritto in un momento di difficoltà estrema, mentre l’autore assisteva la moglie malata, fu pubblicato a puntate sulla «Nuova Antologia» nel  e poi subito in volume come estratto dalla rivista. Nell’orizzonte della letteratura italiana dell’inizio del secolo questo romanzo apparve come il frutto di un’esperienza appartata e solitaria: e, nonostante la sua originalità, ricevette scarsa attenzione e poco benevole valutazioni da parte della critica.

Scomparsa e reincarnazione di Mattia Pascal

Ricollegandosi a vari aspetti e situazioni della narrativa europea ottocentesca, che aveva rappresentato casi strani e paradossali, Pirandello fa qui narrare al protagonista Mattia una singolare vicenda di morte e di reincarnazione. In seguito a varie disgrazie familiari Mattia fugge da casa e approda a Montecarlo, dove vince una fortuna alla roulette. Durante il viaggio di ritorno legge in un giornale del ritrovamento del cadavere di un suicida presso il suo paese, che la moglie Romilda ha identificato in lui stesso: decide allora di accettare questa morte e di vivere senza piú legami sociali, sotto il falso nome di Adriano Meis, facendo affidamento sull’ingente somma guadagnata al gioco. Va a vivere a Roma in una pensione frequentata da strani personaggi, curiosi di scienze occulte e di spiritismo. Qui nasce un sentimento amoroso tra lui e la figlia del padrone di casa, la dolce Adriana, che egli sente quasi come un’anima gemella; potrebbe iniziare con lei una vita diversa e autentica, ma non può farlo perché il nome che ha

.

LUIGI PIRANDELLO E IL TEATRO DEL PRIMO NOVECENTO



assunto non esiste per lo stato civile. Decide allora di abbandonare Roma e Adriana, lasciando i segni di un altro suicidio per annegamento, e di «risorgere» come Mattia Pascal: tornato al suo paese, scopre che la moglie si è formata una nuova famiglia; rinuncia cosí alla vecchia identità e si accontenta di vivere in una biblioteca, scrivendo la propria storia e aspettando una terza, definitiva morte.

La vicenda rompe quei criteri di verosimiglianza e di oggettività su cui si fondava la rappresentazione naturalistica; l’unità del personaggio che parla in prima persona è frantumata dal suo riferirsi a tre diverse incarnazioni, ciascuna delle quali impone sul racconto un diverso punto di vista. I casi della vita mettono questo personaggio frantumato in rapporto con una serie di figure che raddoppiano la sua immagine, in un viluppo di scambi e di intrecci con altri personaggi. Le diverse voci del protagonista e l’intreccio con gli altri personaggi, quasi tutti carichi di elementi grotteschi, deformi o caricaturali, si esprimono su un suggestivo sfondo di lucida disillusione: il narratore pare allo stesso tempo partecipare e non partecipare agli eventi, cercare una identificazione appassionata e sfuggire poi a ogni identificazione. Il passaggio del protagonista dalla situazione iniziale a quella finale segue una perfetta struttura circolare: Mattia è divenuto narratore di se stesso nel momento in cui ha rinunciato a cercare una realizzazione di sé nella vita, accettando di rimanere sospeso, in attesa della morte. Il senso delle vicende del romanzo si identifica cosí con il fatto stesso di narrarle. La scrittura del «fu» Mattia si dà tutta in rapporto con la morte: la sua condizione rappresenta la condizione dello scrittore nel mondo contemporaneo, estraniato e sospeso, in comunicazione con i morti, fuori da ogni riconoscimento di valori e di ruoli sociali. Il personaggio pirandelliano oppone cosí al vitalismo e al protagonismo esasperato della cultura dell’inizio del secolo la coscienza della finzione e del fallimento, l’aspirazione a un’impossibile estraneità alla società, la scomparsa di ogni sicurezza e di ogni valore definitivo.

Un personaggio frantumato

Lucida disillusione

La scrittura e la morte

Negazione di ogni sicurezza

... Da L’umorismo a Si gira… I meccanismi di scomposizione facevano de Il fu Mattia Pascal un romanzo «umoristico», impastato di gioia e di sofferenza, di distacco e di partecipazione: al fondo della sua scrittura c’era in effetti una precisa concezione che Pirandello svolse dettagliatamente nel saggio L’umorismo, pubblicato nel  (la seconda edizione, del , fu dedicata proprio «Alla buon’anima di Mattia Pascal bibliotecario»). In questo saggio si ripercorre la tradizione della letteratura umoristica e se ne rivendica il valore, in opposizione alla letteratura «sublime» basata sull’equilibrio e sull’armonia. Il metodo essenziale dell’umorismo viene individuato nella scomposizione e nell’intervento della riflessione sul processo creativo: l’autore umorista scompone i caratteri apparenti ed esteriori della realtà, individua dietro ogni gesto o espressione il suo «contrario». Il comico piú in generale viene definito come avvertimento del contrario: esso è percezione e messa in evidenza delle incongruità e delle contraddizioni che riguardano ogni aspetto della vita. L’umorismo si distingue come sentimento del contrario, che, nel rilevare quelle sfasature, scopre la sofferenza che vi è nascosta, si volge a guardare quanto si cela dietro le maschere, con viva partecipazione e comprensione; l’umorista si sente segretamente solidale con le sproporzioni e le deformazioni che mette in evidenza, è lacerato dalla contraddizione, dal contrasto tra «vita» e «forma», in un impasto di riso e pianto. L’ampio romanzo I vecchi e i giovani, scritto tra il  e il , apparso sulla «Rassegna contemporanea» nel  e poi in volume nel , presenta una singolare applicazione della poetica dell’umorismo, ricollegandosi d’altro canto a I viceré di De Roberto (cfr. ..), con la narrazione delle vicende politiche della Sicilia e dell’Italia negli anni -, attraverso il punto di vista di vari personaggi legati a una nobile famiglia di Girgenti, i Laurentano.

«Scomposizione» e «riflessione» nella creatività

Il comico L’umorismo

I vecchi e i giovani

EPOCA



Un confronto generazionale

Intersezioni di punti di vista

La storia e la politica come illusione

Suo marito

Si gira…

Il personaggio e la macchina

Mercificazione dell’esperienza

Il mondo dell’apparenza

La natura e lo spettacolo

Un linguaggio cinematografico



GUERRE E FASCISMO

-

Le vicende narrate (che sono quelle – drammatiche – della rivolta e della repressione dei Fasci siciliani e dello scandalo della Banca Romana) mostrano la crisi degli ideali risorgimentali, riflessa nei diversi comportamenti della vecchia e della nuova generazione: la delusione politica vi si manifesta come una sorta di rivelazione della natura illusoria della realtà, dell’inevitabile contraddizione tra le spinte ideali e la realtà dei comportamenti. E il romanzo pare tendere a bruciare la storia, le lotte e i contrasti tra gli uomini, in una minacciosa, beffarda evanescenza. Come ne I viceré, anche qui manca un vero eroe centrale. La grande varietà di personaggi dà luogo a una molteplicità di posizioni e di punti di vista, nessuno dei quali detiene uno spazio privilegiato, mentre un ampio uso dello stile indiretto libero (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ) consente di mettere a fuoco la posizione dei vari membri della famiglia Laurentano e di coloro che interferiscono con il loro destino. Ma ogni posizione si risolve in scacco e delusione: e ciò offre un vasto campo al metodo di «scomposizione» umoristica, che segue l’esplosione di atteggiamenti eccessivi e paradossali, fino al grottesco e alla follia. Romanzo della storia e della politica come illusione, I vecchi e i giovani presenta un mondo complesso e articolato, secondo le tradizioni del romanzo ottocentesco (e di notevole interesse vi è la rappresentazione circostanziata delle forme della vita collettiva), e allo stesso tempo sottopone questo mondo a un effetto di disgregazione, di non conclusione, che sembra proiettarlo come in lontananza, in una dolorosa insensatezza. Il romanzo Suo marito, scritto intorno al  e pubblicato nel , svolge un’indagine critica e umoristica nei riguardi del mondo letterario e intellettuale; presenta la storia di Silvia Roncella, una scrittrice che viene a Roma dalla provincia e giunge al successo sostenuta dal marito, e i contrasti tra la sua vita creativa e la sua vita sentimentale.

Al tema dell’artificio e della finzione prodotti nell’epoca moderna dall’uso delle macchine è dedicato il romanzo Si gira…, pubblicato nel  sulla «Nuova Antologia», poi in volume l’anno seguente e nel  in edizione riveduta con il nuovo titolo di Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Proprio all’inizio della guerra mondiale, in cui i futuristi vedevano l’affermazione distruttiva e vittoriosa delle macchine, Pirandello costruisce un romanzo in forma di diario, affidato alla voce di un operatore cinematografico, Serafino Gubbio, costretto dal lavoro a identificarsi con la macchina che usa. Il personaggio subisce cosí un processo di meccanizzazione che ne fa uno strumento neutro e «impassibile» di riproduzione automatica di una realtà privata del suo spessore vitale. Serafino diventa una cosa sola con la manovella che è costretto a girare, sente la realtà dominata dal «ronzio» della macchina, che si è impadronita di tutto e ha sostituito ogni altra esperienza; il dominio della macchina è nello stesso tempo dominio del mercato, riduzione di ogni ambito dell’esperienza a merce, a materiale riproducibile e consumabile, privato di spessore e di «aura» (cfr. ..). L’operatore-narratore segue, attraverso il punto di vista del suo lavoro, tutti i comportamenti artificiali e distruttivi, pieni di lacerazioni sentimentali, che costituiscono la vita di relazione. Invano alla sostanza malefica di un mondo dominato dall’apparenza si oppone il richiamo di un mondo diverso, quello delle origini provinciali, della natura selvaggia e incontaminata. Invano Serafino avverte il segno di qualcosa che è al di là di questa realtà cosí degradata. Una tigre, che rappresenta l’ultima traccia del mondo naturale, si ribella a essere usata durante le riprese e sbrana l’attore che avrebbe dovuto ucciderla. Ma anche questa violenta liberazione della natura diverrà merce di consumo, spettacolo, dato che Serafino è riuscito a riprendere con la sua macchina tutta la scena, perdendo però nel contempo la parola, chiudendosi in un muto «silenzio» che fa di lui un operatore «perfetto». Nel suo affascinante confronto con gli strumenti della modernità e con le nuove forme dello spettacolo, questo romanzo-diario si avvale di una tecnica di lunghe sequenze tra loro separate, che sembrano cucite proprio secondo gli schemi del montaggio cinematografico: i fatti si svolgono come dati visivi che raggiungono il campo dell’occhio di Serafino, che a tratti sospende la sua visione con accorate indagini sul buio indecifrabile che si nasconde dietro tutte quelle vane apparenze.

.

LUIGI PIRANDELLO E IL TEATRO DEL PRIMO NOVECENTO



... Le Novelle per un anno e i caratteri della novellistica di Pirandello. La produzione di novelle accompagna Pirandello per tutta la vita, costituendo il filo piú continuo della sua scrittura: proprio nelle novelle si rivela il vastissimo intreccio di temi, materiali, prospettive, che è alla base di tutta l’opera pirandelliana. I casi delle novelle presentano allo stato puro eventi e personaggi che poi l’autore può combinare e ricombinare variamente in altri suoi scritti, negli stessi romanzi e soprattutto nel teatro; talvolta casi già provati in romanzi o testi teatrali rifluiscono nelle novelle, con un movimento circolare; testi originari delle singole novelle vengono corretti e perfezionati piú volte in successive edizioni, quasi a farne «una paradossale garanzia di continuità e di apertura» (Macchia). Nata frammentariamente, e nei modi piú occasionali, come pezzi per riviste e giornali di vario genere, la produzione di novelle fu particolarmente fitta per tutto il primo quindicennio del Novecento, mentre si diradò successivamente (anche se assai significativo fu l’ultimo periodo, negli anni Venti e soprattutto negli anni Trenta, di cui si parlerà piú diffusamente in ..). Esse cominciarono ben presto a essere variamente raccolte in diversi volumi a partire da Amori senza amore () a Berecche e la guerra (). Nel  Pirandello iniziò a sistemare le sue novelle secondo un piano globale, sotto il titolo di Novelle per un anno, che prevedeva una serie di ben ventiquattro volumi, ciascuno con il titolo tratto dalla prima novella. Negli anni che seguirono egli riuscí a portare a termine la pubblicazione di soli quattordici volumi (Scialle nero, ; La vita nuda, ; La rallegrata, ; L’uomo solo, ; La mosca, ; In silenzio, ; Tutt’e tre, ; Dal naso al cielo, ; Donna Mimma, ; Il vecchio Dio, ; La giara, ; Il viaggio, ; Candelora, ; Berecche e la guerra, ) ai quali si aggiunse il postumo Una giornata, . Lo stesso titolo generale, Novelle per un anno, intende riferirsi a una struttura del tutto aperta, una novella al giorno per un anno intero (nei propositi,  novelle), senza nessun ordine predeterminato e con un’assoluta intercambiabilità. Si trattava di un repertorio narrativo sterminato e volutamente caotico, rispetto al quale il lettore poteva muoversi liberamente. Ci si allontana cosí dalla tradizione delle raccolte di novelle: le singole narrazioni diventano scaglie di un’esperienza frantumata, in cui le piú sotterranee ossessioni emergono volta per volta in uno spazio che non permette nessuna conciliazione e nessuna «conclusione». La forma narrativa piú immediata e tradizionale, nel momento stesso in cui viene inserita in un meccanismo globale, viene confrontata con la frammentarietà dell’esperienza moderna, con l’impossibilità di ricavare dal narrare un modello di comportamento e una rassicurante prospettiva ideologica. In quasi tutto il suo sviluppo, questa produzione ha al centro l’ambiente siciliano e girgentino e quello piccolo-borghese romano. Nelle novelle siciliane, si vedono spesso in azione, in personaggi di tutte le classi sociali, segni di allucinazione e di follia, di una violenza folclorica che sconvolge ogni equilibrio psichico, che crea gesti, comportamenti, situazioni stravolte, che si fissa in maschere grottesche (si ricordino La patente, Ciàula scopre la luna, Male di luna, Il vitalizio, La giara). Un analogo stravolgimento, anche se su un fondo meno colorito, piú grigio e senza spessore mitico, tocca ai personaggi del mondo romano, dalle esistenze arroccate in una monotona ripetitività: professori, impiegati, poveri diavoli che si ostinano a difendere un’immagine di sé di fronte a una società dominata da regole ferree (rappresentate da personaggi della grande borghesia, pieni di supponenza e di autoritarismo). Il caso o l’aggressività degli altri giocano a molti di questi personaggi, sia nell’ambiente siciliano che nel piú vasto orizzonte nazionale, beffe atroci e crudeli; le loro vite strozzate, percorse da una «pena» squallida e come in tono minore, sembrano ridurre la follia a qualcosa di normale e di quotidiano. Nei loro legami familiari e nei loro rapporti personali si danno combinazioni paradossali e artificiose, strani scambi e raddoppiamenti; si creano coppie allucinanti, simmetrie e incastri, con una bizzarra insistenza sul tema del doppio (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ), con gemelli, sosia, ripetizioni di gesti e di situazioni (si ricordino Pari, Nené e Niní, Tanino e Tanotto, La disdetta di Pitagora, Due letti a due). Dietro tanti casi e comportamenti si affacciano i segni di fatti traumatici avve-

Continuità e apertura

La redazione

La struttura della raccolta

Una narrazione senza centro

Violenza mitica del mondo siciliano

I personaggi romani

Il caso e l’aggressività

Il tema del doppio

EPOCA



Il tema della morte

Svuotamento del linguaggio comune

Ritratto della società italiana



GUERRE E FASCISMO

-

nuti in qualche momento originario, angosciosi richiami a un male iniziale da cui non è possibile liberarsi, fantasie di distruzione e di lacerazione (si ricordino I nostri ricordi, Ritorno, Nel gorgo). La morte è in agguato, e le stesse situazioni funebri, le stesse figure dei morti svelano una minacciosa vitalità, scatenando situazioni ed esplosioni paradossali (si ricordino Notizie dal mondo, La berretta di Padova, La morte addosso, L’illustre estinto). Spesso i personaggi sono irresistibilmente attratti da un senso di assoluto, trovano nella loro realtà mediocre qualche segno marginale che li porta «altrove», che li immerge nel flusso della vita che sfugge al loro essere normale (si ricordino La vita nuda, Il treno ha fischiato…, Il viaggio, La realtà del sogno).

Nelle novelle, la prosa di Pirandello mostra nel modo piú netto il suo sviluppo a partire dal fondo di un linguaggio comune, di un «medio» italiano borghese e piccolo-borghese, legato a tutti gli svolgimenti della vita cittadina e della comunicazione giornalistica: evitando sia ricerche di preziosità letteraria sia formule di tipo espressionistico, essa sembra mirare piuttosto a un singolare svuotamento di quel linguaggio «comune» e quotidiano. Essenziale si rivela il lavoro che Pirandello compie sulla sintassi; ma molto interessante è anche il lessico, ricco di termini ibridi, in cui si mescolano caratteri colti e dialettali, aperture verso il linguaggio tecnico e burocratico. Repertorio delle ossessioni, delle angosce, delle immaginazioni, delle risorse inventive di Pirandello, affascinante, magmatica e sterminata sperimentazione della moderna frantumazione del narrare, le novelle, nel loro insieme, costituiscono anche l’immagine piú completa che la letteratura abbia dato della società italiana tra Otto e Novecento: esse mostrano che tra il mondo di miti, di passioni, di violenze della Sicilia arcaica e il mondo sociale e ufficiale costruito dal nuovo Stato unitario c’è un’allucinante solidarietà e continuità.

... La nascita del teatro pirandelliano. Il debutto teatrale

L’interesse di Pirandello per il teatro fu molto precoce: si trattava di una vera passione, che diede luogo a progetti ed esperimenti fin dalla prima giovinezza. Nel  egli pubblicò l’atto unico Perché e lavorò a L’epilogo; alla fine del  compose il dramma Il nibbio. Ma solo alla fine del primo decennio del Novecento, nel dicembre del , Pirandello debuttò sulla scena con la rappresentazione, tenuta a Roma nel teatro di Nino Martoglio (cfr. DATI, tav. ), degli atti unici La morsa (nuovo titolo del precedente L’epilogo) e Lumíe di Sicilia. Al  risale la stesura di un nuovo atto unico, Il dovere del medico, rappresentato nel . Ma l’esordio nel grande giro del teatro nazionale, anche se senza successo, si ebbe a Milano il  aprile , con il dramma Se non cosí…, nuova versione del precedente Il nibbio. Piú soddisfacenti risultati produsse in quegli anni il rapporto con Martoglio e con il teatro dialettale siciliano, nel quale in IL DOPPIO

GENERI E TECNICHE

tav. 223

Presente nell’immaginario di tutti i tempi, il doppio consiste nella presentazione di figure e situazioni raddoppiate, che possono sovrapporsi e intrecciarsi in vari modi. Esso prende spunto dal carattere inquietante che nella stessa vita quotidiana si attribuisce all’apparizione di cose, persone, situazioni troppo simili tra loro, dalla sorpresa e dallo sgomento che suscitano le somiglianze troppo perfette o le circostanze che si ripetono tali e quali. La manifestazione piú semplice e piú antica del doppio è costituita dalle figure dei gemelli, di cui ha fatto grande uso il teatro comico, a partire dai Menaechmi di Plauto, che nella tradizione europea ha conosciuto un’infinità di imitazioni e variazioni. Altre manifestazioni del doppio possono basarsi su finzioni di vario tipo, inganni, travestimenti, elementi casuali o di tipo magico: si può andare dalle apparizioni di un sosia, alla trasformazione di un personaggio in un altro, a forme di legame tra personaggi diversi, che non si somigliano direttamente, ma svolgono ruoli identici o complementari, non potendo esistere l’uno senza l’altro (può rientrare cosí nelle categorie del doppio anche il legame, spesso inestricabile, tra servo e padrone), a veri e propri raddoppiamenti e scissioni della stessa persona.

.

LUIGI PIRANDELLO E IL TEATRO DEL PRIMO NOVECENTO

quel periodo otteneva grandi successi l’attore Angelo Musco (cfr. DATI, tav. ): ne derivò un diretto impegno di Pirandello nella vita teatrale, che intorno al  assunse quasi l’aspetto di una «conversione» dalla narrativa al teatro. In una prima fase, egli lavorò contemporaneamente al teatro in lingua e a quello in dialetto, preparando, per molte commedie, versioni diverse, dialettali e italiane.

Il diretto impegno di Pirandello nel teatro (e nella concreta vita della scena) costituí l’atto di nascita di un nuovo tipo di dramma, che sconvolgeva gli schemi del dramma borghese e si presentava con caratteri dissacranti e aggressivi, che rispondevano a un sotterraneo disagio, lo stesso che si esprimeva nella sua narrativa umoristica. Il teatro in lingua prodotto dal  circa al  appare guidato da un’attenzione esasperata ai meccanismi scenici, agli incastri tra finzioni e recitazioni diverse, tra apparenza e realtà: un’attenzione che si lega a una coscienza delle complicazioni poste dal passaggio tra testo scritto e recitazione e a quel gusto della «scomposizione» umoristica di cui era pervasa la narrativa di Pirandello. In questo teatro, i caratteri dei personaggi non si presentano secondo regole di organicità, di unità psicologica e personale, ma si scompongono in uno scontro tra le forme paradossali e distorte che ciascuno di essi è costretto ad assumere: la rappresentazione teatrale rivela come la vita stessa non sia che una costrizione al teatro, come ogni essere umano sia insidiato dalla duplicità, dalle maschere, da ciò che lo sguardo degli altri proietta su di lui. C’è una continua lotta, senza soluzione, tra le maschere, spesso grottesche, ridicole o insensate, e la vita sofferente e disperata che esse nascondono: in questa lotta tutti si impegnano con un’esasperata ansia di giustificarsi, di spiegare le proprie ragioni; i personaggi si scontrano con una dialettica puntigliosa, scavano nelle complicazioni e nelle pieghe dei loro rapporti con una sottigliezza ossessiva, con un cerebralismo incontenibile che spesso ha attirato su di loro l’accusa di «disumanità». I loro movimenti portano all’estremo alcuni degli schemi essenziali della tradizione teatrale (come quello del «triangolo» marito-moglieamante). Tutto sembra subire un’impetuosa meccanizzazione: in un impasto tra tragico e comico si mettono in scena i rapporti di forza in cui si svolge la vita piccolo-borghese contemporanea, con una notevole presenza di elementi realistici, che nel processo teatrale acquistano però una sorta di spettrale peso simbolico. Cosí, sghembe e aggressive marionette, i personaggi si corrodono a vicenda, si ripartiscono i ruoli teatrali solo per affermare una finale, distruttiva insensatezza. A questo teatro si adatta la definizione di grottesco usata per tutto un gruppo di esperienze drammatiche che esprimono i loro risultati piú significativi proprio negli anni della prima guerra mondiale (cfr. ..). Il drammi migliori sono ordigni di perfezione allucinante, fatti di pezzi incastrati con implacabile orologeria, animati da una spietata crudeltà strutturale e ideologica, con un dialogo incalzante e sinuoso che realizza sulla scena quel clima di «tortura» e di insopportabilità costante nei rapporti di Pirandello con il mondo e con la scrittura. Al centro dei drammi e delle commedie in tre atti (a cui si affianca un certo numero di atti unici) vi sono quasi sempre complicazioni familiari, rapporti deviati e raddoppiati entro lo schema di partenza del «triangolo»: i personaggi si muovono all’interno della contraddizione tra i loro sentimenti e la posizione richiesta dai rispettivi ruoli vissuti nel rapporto matrimoniale; ne sorgono situazioni artificiose e paradossali. Tra le opere essenziali occorre ricordare Pensaci Giacomino! (), Cosí è (se vi pare) (), Il piacere dell’onestà (), Ma non è una cosa seria (), L’uomo, la bestia e la virtú (), e quello che è il capolavoro di questa prima fase del teatro pirandelliano, Il giuoco delle parti (), dominato da Leone Gala, personaggio che vive il distacco dalla vita e la rinuncia ai sentimenti in una geometrica e astratta crudeltà. Questo dramma dà un effetto di vertiginosa astrazione, nell’assoluta e mortale estraneità tra la cerebralità di Leone e la corporeità irrazionale di Silia, la moglie da cui è separato pur continuando formalmente a sostenere la parte del marito. Queste prospettive «grottesche» tendono a stemperarsi in un orizzonte sentimentale e in una nuova ricerca nei drammi del : Tutto per bene; Come prima, meglio di prima; La signora Morli, una e due.



In lingua e in dialetto

La prima fase

Esasperazione dei meccanismi scenici

Maschere e ruoli

Sottigliezza dialettica

Meccanizzazione e rapporti di forza

Nell’ambito del grottesco

Le vicende familiari

Il giuoco delle parti

EPOCA

 Rappresentare l’assurdo

La follia delle cose

Liolà



GUERRE E FASCISMO

-

Pirandello si dedicò intensamente anche al teatro dialettale, mostrando un eccezionale interesse per le forme linguistiche e per le possibilità comiche e grottesche che ne scaturiscono, e attingendo direttamente a un fondo folclorico che fa emergere personaggi dotati di singolari manie, che tendono a monopolizzare l’attenzione scenica. L’assurdo appare qui l’unico modo possibile di comunicazione tra i personaggi. Splendide e quasi automatiche immagini di una follia che risiede nelle cose stesse, nei rapporti tra gli uomini e le cose, nei sentimenti e nell’ambito sociale, sono alcune commedie, divenute poi celebri nella versione in lingua, soprattutto ’A birritta cu’i ciancianeddi (poi Il berretto a sonagli), centrata sulla figura del «cornuto» Ciampa, La patente, centrata sulla figura dello «iettatore» Chiàrchiaro, ’A giarra (poi La giara). Ma il testo piú strano, quasi enigmatico, resta Liolà, redatto inizialmente nel  in dialetto agrigentino, con una vicenda modellata su uno dei capitoli iniziali de Il fu Mattia Pascal: qui tutto un gioco di scambi e raddoppiamenti emana dalla potenza di un protagonista dotato di una trionfante vitalità fecondatrice, che si afferma in modo cinico e disinvolto sulla passività e sull’ottusità degli altri personaggi, sullo sfondo di un mondo rurale esuberante, insieme gioioso e crudele.

... I Sei personaggi e il «teatro nel teatro». Un capolavoro del Novecento

Il teatro e i suoi meccanismi

Ripetizione di scene traumatiche

Disintegrazione dello spazio teatrale

Dopo avere lavorato sulle strutture del dramma borghese con parodie, alterazioni dei rapporti e dei ruoli, scomposizioni dell’unità dei personaggi, Pirandello arrivò, con il capolavoro dei Sei personaggi in cerca d’autore, a una vera e propria frattura dell’organismo drammatico e scenico, che fa di quest’opera, scritta tra la fine del  e l’inizio del  (rappresentata la prima volta a Roma il  maggio ), uno dei cardini di tutto il teatro del Novecento. Essa nacque da un’insofferenza per le convenzioni della vita teatrale, in cui l’autore era penetrato a fondo, e da un confronto tra le strutture del teatro e quel senso della vita autonoma del personaggio di cui si è precedentemente parlato. Il teatro e i suoi meccanismi vengono qui messi violentemente a confronto con qualcosa che piove su di essi dall’esterno, dal mondo della fantasia (che è anche un mondo di traumi e di angosce non risolte): mentre una compagnia di attori sta provando Il giuoco delle parti, irrompono sulla scena sei spettrali figure, i membri di una famiglia (il Padre, la Madre, la Figliastra, il Figlio, il Giovinetto, la Bambina), personaggi rifiutati dall’autore che li ha concepiti, i quali chiedono con insistenza al capocomico di mettere in scena il dramma che hanno vissuto, la loro vita autentica che nessun autore ha trasposto sul piano della forma artistica. Dopo molte resistenze, guidati dal Padre e dalla Figliastra, essi convincono la compagnia a prendere in considerazione la loro richiesta, provando a rappresentare la loro storia: ma ne derivano scontri tra i personaggi stessi, che raccontano e ripetono scene della loro vita, e gli attori, che cercano di rappresentarle con i loro mezzi teatrali. Vincolati da una loro vicenda triste e squallida, i personaggi cercano di riviverne alcune scene traumatiche: quella, al limite dell’incesto, dell’incontro tra il Padre e la Figliastra presso la mezzana madama Pace, interrotta dal grido disperato della Madre; e quella dell’annegamento della Bambina seguito dal suicidio del Giovinetto. Angosciose e insopportabili, queste scene sono vissute dai personaggi come qualcosa di «fissato» nell’eternità, che si ripete all’infinito nel loro essere, ma nei modi piú diversi, dallo «strazio» assoluto della Madre, all’intreccio di vergogna e aggressività, al gusto violento di mettersi alla gogna del Padre e della Figliastra. Alla finzione del teatro e dei suoi meccanismi, alle sue «forme» vuote, i personaggi oppongono cosí la volontà di vivere la loro «vita» autentica e disperata, in cui si ripete – sempre come nuova – l’angoscia per colpe da cui è impossibile sottrarsi. Ma questa «vita» autentica non può essere rappresentata in un flusso continuo, nel circolo illusorio della tradizionale comunicazione con il pubblico; il dramma si può esprimere solo come frantumato, in un conflitto tra «forma epica» e «forma drammatica» (Szondi): alla fine l’irruzione lacerante della «vita» (con la rappresentazione della morte della Bambina e del Giovinetto) finisce per disintegrare il testo drammatico e lo spazio tea-

.

LUIGI PIRANDELLO E IL TEATRO DEL PRIMO NOVECENTO



trale, facendo sparire i personaggi con una sospensione che non è una «conclusione» e lasciando l’opera aperta, lo spazio teatrale squarciato, gli attori estraniati. Aperta e insuperabile resta anche la contraddizione tra il desiderio di sincerità dei personaggi e l’ossessione con cui quella sincerità cerca di esibirsi sulla scena, di ripetersi e rappresentarsi: ne deriva un’inevitabile deformazione, la minaccia continua che quell’autenticità si trasformi in recitazione, in finzione. Il conflitto tra la «vita» autentica e i meccanismi teatrali dà luogo qui a un’espansione del teatro nel teatro, che comporta una scomposizione critica e razionale delle strutture drammatiche tradizionali, aprendo la via al teatro d’avanguardia contemporaneo. In tale prospettiva Pirandello operò direttamente in altri due testi che, insieme ai Sei personaggi, vennero a costituire una vera e propria «trilogia del teatro nel teatro», caratterizzata da diversi conflitti «tra gli elementi del teatro». Al tema del conflitto tra i personaggi stessi e la compagnia teatrale, Ciascuno a suo modo () fece succedere quello del conflitto tra spettatori, autore e attori. Questa sera si recita a soggetto () invece delinea il contrasto venutosi a creare «tra gli Attori divenuti Personaggi e il lor Regista»: il capocomico dottor Hinkfuss, abilissimo sperimentatore di forme teatrali, guida la compagnia dei suoi attori a una rappresentazione «a soggetto», con un’improvvisazione basata su una novella di Pirandello, Leonora addio!.

Scomposizione delle strutture drammatiche

Ciascuno a suo modo Questa sera si recita a soggetto

... Dalla tragedia al mito. Con i Sei personaggi Pirandello aveva portato al punto estremo quella passione della «scomposizione» che caratterizzava la sua narrativa e il suo precedente teatro; ma nello stesso tempo egli si sentiva spinto a costruire, partendo dal suo tormentato universo psicologico, forme estetiche stabili e assolute, capaci di contenere una «vita» autentica ed «eterna». Ai personaggi umoristici e «grotteschi» egli tendeva ora a sostituire dei personaggi drammatici e «tragici», le cui angosce risalivano a personalità difficili e problematiche, ma cariche di un loro valore, di una loro autenticità, in cui il pubblico avrebbe dovuto riconoscersi e riconoscere dei modelli, per quanto negativi essi fossero, di sofferta coscienza umana. Ai caratteri dissacranti e irriverenti del primo teatro pirandelliano, si sostituiva una nuova ricerca di intensità sentimentale e drammatica; all’analisi della contraddizione tra realtà e maschera, una sempre piú ossessiva ricerca del profondo senso vitale nascosto dietro le maschere. Venivano inoltre abbandonati quasi del tutto gli ambienti piccolo-borghesi, ai quali si preferiva ora il mondo della grande borghesia; alla scomposizione meccanica delle strutture e delle situazioni del dramma borghese si sostituiva una sorta di sublimazione tragica. Il nuovo Pirandello, autore di successo, cercava la strada della tragedia borghese. Due opere del , Enrico IV e Vestire gli ignudi, esprimono nel modo piú intenso la ricerca di un destino tragico che viene smentita e contraddetta dalla meschina realtà dei rapporti sociali, dalla volgarità dello sguardo degli altri. Enrico IV si presenta, nel titolo e nei costumi scenici, come una tragedia storica, ma ben presto si scopre che si tratta solo di una tragedia della follia; il protagonista è un ricco che, in seguito a una caduta avvenuta durante una cavalcata storica in cui era mascherato da Enrico IV, è divenuto pazzo e crede di essere veramente l’imperatore medievale. Dodici anni dopo rinsavisce, ma i conflitti che vengono a crearsi con gli amici e i rivali di un tempo, la sua difficoltà a ritornare nella realtà lo condanneranno a un tragico gesto finale che lo costringerà per sempre nel suo universo di follia. Personaggio di serietà assoluta, il falso Enrico IV può vivere la sua serietà tragica solo nel ridicolo della finzione della storia e nella follia. In questa tragedia lo scontro tra il mondo sublime della storia e quello volgare della quotidianità borghese si svolge con una moltiplicazione di piani scenici, con una sottile divaricazione tra tempi, immagini, livelli stilistici diversi; in ogni momento del dialogo vengono a intrecciarsi prospettive opposte: realtà e finzione, passato e presente, giovinezza e vecchiaia, dolore reale e illusioni della scienza, serietà e ridicolo.

La seconda fase del teatro pirandelliano

Una nuova intensità sentimentale Verso la tragedia borghese

Enrico IV

Moltiplicazione dei piani scenici

EPOCA



Vestire gli ignudi

L’ultima produzione

Una profondità illusoria Teatro di valori universali

I giganti della montagna

Il fascino dell’improbabile



GUERRE E FASCISMO

-

Al centro di Vestire gli ignudi è invece un personaggio femminile, la giovane Ersilia Drei, la cui vicenda si consuma nello studio dello scrittore Ludovico Nota che l’ha accolta, appassionandosi alla sua storia, dopo che è stata sottratta a un tentativo di suicidio. Costretta a subire l’aggressività di personaggi che tentano di trarre alla luce le ragioni del suo gesto, Ersilia deve rinunciare all’«abito» rispettabile che si era costruita con il suo mancato suicidio, ma sfugge al confronto avvelenandosi, e morendo, ora per davvero, «nuda» e sola. Quasi tutti i drammi dell’ultima produzione pirandelliana (come La vita che ti diedi, ; Diana e la Tuda, ; L’amica delle mogli, ; Trovarsi, ) presentano conflitti e rapporti carichi di tensione problematica, vissuti da personaggi dell’alta borghesia impegnati a interrogarsi con ostinata passione sul senso dell’esistere, sull’aspirazione ad affermare una vita autentica nonostante la prigionia delle convenzioni sociali. In quasi tutti questi drammi di ambiente borghese si ricorre a situazioni macchinose, a effetti troppo artificiosi ed esteriori; vi si respira una rarefatta aria intellettuale, sostenuta da alcuni temi ricorrenti, come quello del rapporto tra vita e forma e dei suoi diversi risvolti ideologici. La problematica piú autentica e sofferta di Pirandello si approfondisce in un’insistente indagine sul contrasto tra la lucidità della coscienza e l’inesplicabilità dell’inconscio, ma finisce per adattarsi meccanicamente a ogni tema e a ogni circostanza. Si scade cosí molto spesso in un deteriore pirandellismo, fatto di ragionamenti contorti, di interpretazioni manierate e sofferenti di comportamenti umani, in cui la dialettica dei personaggi offre al pubblico una superficiale illusione di profondità intellettuale. Contemporaneamente a questi drammi, Pirandello cerca la via di un grande spettacolo capace di riproporre valori universali, di imporsi come immagine della coscienza umana contemporanea. Costruisce nuovi organismi mitici, sulla base di situazioni che alterano i consueti rapporti con la realtà, che chiamano in causa il sorprendente, il meraviglioso, il leggendario: ne deriva un teatro pieno di amplificazioni e di complicazioni, dietro cui si manifesta un proposito di edificazione ideologica, di trasmissione di valori ufficiali che pretendono di riassumere in sé la coscienza piú piena del presente. L’intenzione ideologica appare insopportabile e ridondante nei due testi esplicitamente designati come «miti», La nuova colonia () e Lazzaro ().

Di notevole interesse è I giganti della montagna, opera su cui l’autore lavorò a lungo almeno fin dal , e che non riuscí a portare a termine. Qui, attraverso una complicata costruzione mitica, si mette a confronto un repertorio di immagini arcaiche, che affondano nell’infanzia dell’autore, con un’inquieta interrogazione sulla condizione dell’arte nella società moderna. Il fascino dell’opera è nel suo continuo trascolorare di piani, nel suo proporre continuamente significati simbolici e allegorici, che sfumano in un’atmosfera indistinta, senza che sia possibile afferrarli in una prospettiva chiara e definitiva.

... Pirandello, la politica, il fascismo. Estraneità all’età giolittiana

Patriottismo conservatore Pirandello e il futurismo

Per tutto il lungo periodo che precede il successo teatrale, fino al  circa, Pirandello guardò con radicale distacco al sistema di potere giolittiano e agli stessi intellettuali che vi si opponevano; estraneo alle tendenze prevalenti nella cultura di inizio secolo, nutrí una forte diffidenza verso l’idealismo, l’irrazionalismo, l’estetismo. Anche per lui risultò essenziale il contatto con le ideologie della «vita» allora circolanti; ma, come si è visto, la sua ricerca della vita autentica si fondò su un pessimismo che svalutava il mondo sociale. Egli non abbandonò mai una posizione di patriottismo conservatore, che lo portò a una piena adesione all’intervento dell’Italia nella prima guerra mondiale; ma anche in questa occasione egli mantenne uno spirito critico e un senso di distanza. In questo stesso periodo Pirandello acquisisce d’altra parte un nuovo senso della modernità, della vitalità e dell’energia, avvicinandosi (specie nel suo lavoro teatrale) anche alle tendenze delle avanguardie. Pur nel suo bruciante distacco dalle cose, egli giunge a credere in un movimento vitale che si impone nel caos e nella contraddizione; il suo naziona-

.

LUIGI PIRANDELLO E IL TEATRO DEL PRIMO NOVECENTO

lismo e il suo spirito di conservazione sociale si intrecciano ambiguamente con questa aspirazione al movimento e all’energia, e lo portano a vedere nel fascismo una specie di compimento degli ideali risorgimentali, una sintesi tra modernità e tradizione, che parrebbe promettere la realizzazione di quei valori vitali che il grigio mondo dell’Italia postunitaria aveva umiliato e cancellato. L’adesione ufficiale di Pirandello al fascismo nel , in un momento di brutale spinta repressiva, volle essere una specie di definitivo rifiuto del mondo dell’Italia liberale giolittiana: nel fascismo egli credette di vedere il movimento della «vita» che distruggeva le «forme» consunte di una realtà di maschere e menzogna. Egli si lasciò in parte coinvolgere dall’ambizione di porsi come letterato ufficiale, rappresentante di una moderna cultura italiana del tutto diversa da quella che aveva dominato all’inizio del secolo, e sicuramente si avvalse di questa posizione per ottenere appoggi istituzionali per i suoi progetti teatrali. Certi aspetti piú schematici delle sue opere e alcuni testi «ufficiali» degli anni Venti furono pienamente assorbiti dalla cultura del fascismo. Ma l’adesione di Pirandello al fascismo comportava una vera e propria contraddizione con il senso della sua opera precedente, con la sua negazione delle illusioni, delle maschere, delle finzioni sociali, e il suo pessimismo radicale manteneva una forza distruttiva che non poteva conciliarsi troppo facilmente con l’ordine repressivo del regime. Egli stesso dovette rendersi conto ben presto di quanto il fascismo si risolvesse in vuota ufficialità, in volgare parata e messa in scena. Nel corso degli anni Trenta il suo giudizio si modificò certamente in maniera notevole, ma egli preferí evitare qualsiasi rottura, si piegò con sotterraneo nichilismo alle forme e ai rapporti ufficiali, pur disprezzandoli profondamente.



Autore ufficiale

Parziale distacco dal fascismo

Accettazione della finzione

... L’ultima narrativa pirandelliana. Mentre si confronta con il teatro, Pirandello riduce notevolmente la sua produzione narrativa, facendone lo strumento per un’indagine piú interna e segreta, ricca di sottili sfumature, nelle pieghe piú nascoste e ombrose della realtà: egli cerca ora piú ostinatamente di avvicinarsi a quella «vita nuda», a quella verità intima e autentica, di cui nelle altre opere aveva spesso affermato l’inafferrabilità.

Ricerca di una verità piú segreta

Tensioni verso le prospettive piú diverse, che ne rendono particolarmente varia e difficile l’interpretazione, si incontrano nell’ultimo romanzo pirandelliano, Uno, nessuno e centomila; la lunga elaborazione, che aveva preso avvio già intorno al , continuò variamente fino alla prima edizione sulla rivista «La Fiera letteraria», tra il dicembre  e il giugno . Il tessuto narrativo raggiunge qui un’estrema disintegrazione, frantumandosi nelle riflessioni, divagazioni, fratture, digressioni di un ininterrotto monologo. Vitangelo Moscarda, personaggio che riassume in sé i tratti di molte altre figure pirandelliane, dissolve ogni consistenza della realtà narrativa e della propria stessa persona parlante, oscillando tra una corrosiva comicità e un malinconico furore intellettuale: come suggerisce lo stesso titolo, l’unità del soggetto parlante svanisce nel nulla e nello stesso tempo si moltiplica in infinite varianti, regolate dallo sguardo degli altri. Le ultime novelle, scritte negli anni Trenta e raccolte nei due ultimi volumi delle Novelle per un anno, Berecche e la guerra () e Una giornata (apparso postumo nel ), sembrano, a loro volta, quasi scavate nel vuoto, come laceranti squarci che balenano dall’esistenza pubblica dell’autore, dalla sua immersione nella vita dello spettacolo e nei rapporti sociali: qui la realtà, privata di ogni traccia di consistenza, è sottoposta all’assalto di forze segrete e distruttive, che paiono emergere dal silenzio. Gli stessi personaggi perdono spessore, assediati da una realtà che sorge dal nulla e che nel nulla inevitabilmente rientra. Nella novella finale Una giornata, che significativamente suggella tutta l’opera di Pirandello, l’autore, come «prosciolto dai personaggi, e perfino dalla tentazione dei personaggi» (Debenedetti), riassume tutta la sua vita e la sua opera vastissima, non conclusa, in un punto di nulla, nel percorso breve e immotivato di

Uno, nessuno e centomila

Le ultime novelle

Una giornata

EPOCA





GUERRE E FASCISMO

-

un’esistenza di «uomo solo», compiuta come nello spazio di una giornata, in cui non gli è data nemmeno la possibilità di capire quanto gli accade, in cui tutto è attuato da una forza inesplicabile che lo muove per portarlo a una finale immobilità. Qui l’avventura della letteratura si risolve in un non sapere, e tutte le scomposizioni, le contraddizioni, le maschere si dileguano in una solitudine angosciosa e definitiva.

... Tendenze del teatro del primo Novecento.

Sperimentazione futurista

Rosso di San Secondo

Tendenze generali

Non ci sono nel teatro italiano del primo Novecento esperienze drammaturgiche che possano accostarsi a quella di Pirandello. Piú ricca e intensa (ed essenziale per lo stesso Pirandello) fu senza dubbio l’attività scenografica e registica (cfr. PAROLE, tav. ). Da questo punto di vista lasciò importanti risultati l’azione esercitata dal futurismo nel campo della drammaturgia: il teatro fu veicolo essenziale per la concezione futurista dell’arte come evento in movimento, come diretta esperienza vitale; e le «serate» futuriste furono fenomeni spettacolari che sconvolsero le tradizionali strutture della rappresentazione, turbando i rapporti tra realtà e artificio, tra scena e pubblico, tra serio e comico, tra parola, gesto, musica, danza, rumore (cfr. ..). Senza il teatro futurista sarebbero comunque inconcepibili le soluzioni piú estreme della drammaturgia pirandelliana: esso lasciò un patrimonio di invenzioni, di nuovi schemi ed effetti spettacolari, raccolti da un intelligente uomo di teatro come ANTON GIULIO BRAGAGLIA (). Gli sviluppi del teatro di varietà videro notevoli figure di comici, tra cui il grande ETTORE PETROLINI (-). Tra i drammaturghi di diverso orientamento ricordiamo il siciliano PIER MARIA ROSSO DI SAN SECONDO (-), che si impegnò con particolare vigore, soprattutto a partire dal , con testi che intendono fornire una sorta di immagine «media» delle piú varie tendenze del teatro europeo contemporaneo, con una forte tensione lirica e simbolica. La sua opera piú strana e inquietante può essere considerata La bella addormentata ().

Se si dà uno sguardo alla fitta produzione di medio livello (a parte il teatro dialettale, a cui si ritornerà, cfr. ..), rappresentata da altri numerosissimi autori, si possono comunque distinguere alcune tendenze e linee generali, che non corrispondono a «scuole», ma

REGIA PAROLE

tav. 224

/ REGISTA

Modellate sui termini francesi régie (derivato da régir, “reggere, amministrare”) e régisseur, queste parole entrano in uso tra gli anni Venti e Trenta per indicare tutte le attività rivolte alla rappresentazione di un testo drammatico, coordinate tra loro per fornire uno spettacolo organico e coerente. Regista sostituisce cosí il vecchio termine capocomico e viene usato anche per il cinema, dove indica il responsabile del film nella sua globalità, colui che ne regola e sistema tutti gli aspetti (affidati alla collaborazione di arti e tecniche diverse) e che in primo luogo dirige le riprese e i movimenti delle macchine. Il concetto di regia si lega a una concezione dello spettacolo come organismo dotato di una significazione autonoma, opera d’arte globale. Per ciò che riguarda il teatro, il suo valore non viene identificato semplicemente nella traduzione scenica di un testo drammatico, ma nell’uso globale che il regista riesce a fare dei diversi linguaggi, costruendo una realtà in cui si manifesta prima di tutto il suo personale intento espressivo. In Europa il teatro di regia si sviluppa in modo molto intenso già all’inizio del Novecento, con l’attività di alcuni grandi registi come André Antoine (-), Konstantin Stanislavskij (-), Adolphe Appia (-), Edward Gordon Craig (-), Jacques Copeau (-). Uno svolgimento estremo se ne avrà nella ricerca di un teatro assoluto, capace di dare tutto se stesso nell’immediatezza della sua presenza scenica, da parte di Antonin Artaud (-) e del suo Théatre de la cruauté (“Teatro della crudeltà”), fondato nel . In Italia, dopo l’esperienza di Pirandello, la tradizione del teatro di regia sarà riscoperta a partire dagli anni Sessanta.

.

LUIGI PIRANDELLO E IL TEATRO DEL PRIMO NOVECENTO

piuttosto a «generi» (tanto che uno stesso autore scrive spesso opere riconducibili a tendenze diverse). Schematicamente si possono ricordare: . un teatro di poesia, che si confronta dapprima con i modelli dannunziani, ma si svolge in chiavi molto varie, sempre con una forte ambizione lirica; . un teatro storico, con radici dannunziane, ma con molte varianti, che fanno emergere soprattutto un Medioevo di maniera o un Rinascimento estetizzante, oppure mettono in scena ambigue mascherate come quella dell’Enrico IV di Pirandello; . un teatro grottesco che tende a rompere gli schemi lineari del dramma borghese, a scomporne le situazioni, a schematizzarne i movimenti e le figure; esso si impose sulle scene nazionali proprio mentre imperversava la guerra: e si è visto che la prima fase del teatro di Pirandello offre i risultati piú validi di questo genere di produzione; tra gli altri autori del grottesco, possiamo ricordare LUIGI CHIARELLI (-), LUIGI ANTONELLI (), ENRICO CAVACCHIOLI (cfr. ..); . un teatro intimista, rivolto all’indagine di sentimenti privati, di complicazioni e sfumature sentimentali; . un teatro problematico, che ripropone le forme del dramma borghese toccando problemi di attualità, spesso con consumata perizia scenica; . un teatro pirandelliano, che segue i temi e gli schemi piú esteriori di Pirandello.



Ambizione lirica Storicità di maniera Il grottesco

Indagine dei sentimenti Il dramma borghese Pirandellismo

˜

10.5 ITALO SVEVO ... Una singolare condizione intellettuale.

Negli ultimi anni dell’Ottocento erano apparsi i primi due romanzi di un autore che, sotto lo pseudonimo di ITALO SVEVO, nascondeva la persona dell’ebreo triestino ETTORE SCHMITZ: due romanzi che allora erano stati quasi ignorati e che dovevano essere riscoperti successivamente, dopo il successo de La coscienza di Zeno. Quelle esperienze erano nate in un ambiente del tutto particolare, come quello di Trieste, appartenente ancora all’Impero austriaco, priva di una sua tradizione di centro culturale, ma vivacizzata da una attivissima borghesia imprenditoriale e dall’intreccio di popoli, di lingue e di culture diverse. Trieste partecipava a pieno titolo a quella cultura che suole definirsi mitteleuropea, una cultura cosmopolita e problematica, che ebbe una straordinaria fioritura proprio nell’ultimo periodo di vita dell’Impero asburgico. Oltre che dalla situazione triestina, la peculiarità della posizione di Svevo è data dalla sua origine ebraica e dalla sua condizione di intellettuale non professionista, diviso tra la passione per la letteratura e una vita borghese «normale», che, dopo incertezze e turbamenti giovanili, lo portò a una posizione di industriale e di uomo d’affari. Per questa sua condizione egli rimane del tutto estraneo alle mitologie e alle presunzioni di protagonismo politico che dominano gli intellettuali italiani all’inizio del Novecento: la sua letteratura si pone come indagine sulle contraddizioni e le complicazioni dell’esistenza individuale e per questo raggiunge una eccezionale forza conoscitiva, che sa andare molto al di là dei limiti della sua persona biografica. Vita borghese e letteratura sono in lui intrecciate e nello stesso tempo separate, la letteratura è la faccia dell’apparente equilibrio borghese: e nella scelta di firmarsi con lo pseudonimo di Italo Svevo (che allude proprio alla sua posizione intermedia tra mondo italiano, Italo, e mondo germanico, Svevo) possiamo leggere tutta la contraddittoria distanza che separa lo scrittore dalla persona reale, Ettore Schmitz.

Ettore Schmitz Trieste mitteleuropea

L’origine ebraica

Un intellettuale non professionista Vita borghese e letteratura

... La vita di Ettore Schmitz. Egli nacque a Trieste il  dicembre  da famiglia ebrea, di origine tedesca da parte del padre Francesco Schmitz (il nonno si era infatti stabilito a Trieste come impiegato dello Stato austriaco) e italiana da parte della madre, Allegra Moravia: in casa si parlava soprattutto nel dialetto triestino. Il padre, che era impegnato in proficue attività commerciali (anche se la sua impresa fallirà nel ), gli fece svolgere degli studi legati alla prospettiva di una carriera commerciale; e dal  al  lo fece educare, insieme ai fratelli Adolfo ed Elio, in un collegio tedesco, a Segnitz, in Baviera: lí egli compí le prime importanti letture, soprattutto di classici tedeschi, che fecero nascere il suo interesse per la letteratura. Tornato a Trieste, si iscrisse all’Istituto superiore commerciale Revoltella, e molto presto cominciò a interessarsi di problemi culturali e letterari. Nel  iniziò una collaborazione, che durò fino al , al giornale triestino «L’Indipendente», con numerosi articoli, soprattutto letterari e teatrali (usando in questi anni le sole iniziali E. S. o lo pseudonimo E. Samigli). Dopo varie ricerche di impiego, era intanto stato assunto, nel settembre del , presso la filiale triestina della banca Union di Vienna, come corrispondente per il tedesco e per il francese; ma, nelle sue giornate, trovava modo di frequentare quasi regolarmente la Biblioteca Civica di Trieste. Tra le sue numerose letture, una posizione di primo piano occupavano i grandi narratori francesi dell’Ottocento; fortissimo era il suo interesse per la filosofia di Schopenhauer (cfr. ..). Si accostava intanto anche alla narrativa, scrivendo le prime novelle e il romanzo Una vita, iniziato nel  e apparso, sotto il nome di Italo Svevo, nel , l’anno della morte del padre (la madre sarebbe morta nel ). Agli anni intorno al  risale anche il rapporto con Giuseppina Zergol (che poi doveva divenire cavallerizza in un circo), di cui rimane una traccia nel personaggio di Angiolina nel successivo romanzo Senilità, pubblicato nel . Ettore Schmitz continuava intanto la sua vita di impiegato di banca; nel , presso l’Istituto Revoltella, iniziava l’insegna-

La famiglia

Gli studi commerciali

Gli interessi culturali

Impiegato di banca

EPOCA



Livia Veneziani

Uomo d’affari

L’incontro con Joyce

La grande guerra

Ritorno alla letteratura

L’attenzione della critica



GUERRE E FASCISMO

-

mento (che avrebbe lasciato solo nel ) della corrispondenza tedesca. Nel dicembre  si fidanzò con Livia Veneziani, figlia di un industriale cattolico: il Diario per la fidanzata, redatto nel , mostra una passione amorosa che si intreccia a una «distanza» della donna, legata a sani principî borghesi, familiari, religiosi, dal mondo intellettuale dello scrittore, e a un tentativo di colmare questa distanza attraverso una specie di «educazione» della fidanzata al dubbio e all’inquietudine intellettuale. Ma il fallimento di questo tentativo è già evidente in una successiva lettera del , intitolata Cronaca della famiglia. Il matrimonio avvenne nel luglio del  con rito civile, e solo nell’agosto  con rito religioso (per l’occasione Ettore dovette farsi battezzare e abiurare formalmente la religione ebraica); nel settembre  nacque l’unica figlia, Letizia. La nuova famiglia abitava in un appartamento della grande villa Veneziani e il mondo intellettuale dello scrittore doveva confrontarsi con la solida vita patriarcale e borghese della famiglia della moglie, che chiedeva al genero una piú concreta produttività economica. Nel  lasciò la banca ed entrò nella ditta del suocero, impegnandovisi attivamente e sospendendo quasi totalmente la sua attività letteraria; continuò tuttavia a elaborare sparsi progetti, a lavorare saltuariamente a testi narrativi e teatrali, e soprattutto a scrivere note e appunti di vario tipo. Nella nuova veste di uomo d’affari, Ettore Schmitz compie lunghi viaggi e soggiorni in Francia e in Inghilterra; ha successo negli affari, ma non rinuncia alle sue curiosità culturali, e sviluppa anzi interessi di tipo scientifico. Nel  avviene l’incontro con James Joyce (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ) che, come insegnante della Berlitz School di Trieste, gli dà lezioni di inglese; l’amicizia con lo scrittore irlandese e la curiosità da questi manifestata per le sue opere mantengono viva la sua passione letteraria. Tra il  e il  egli viene a conoscenza delle teorie di Freud e della psicoanalisi (cfr. .. e PAROLE, tav. ). Nell’estate del , lo scoppio della guerra mondiale riduce l’attività della fabbrica Veneziani, requisita dalle autorità austriache. Dopo la forzata inattività di quegli anni (che gli permette, tra l’altro, di approfondire ulteriormente lo studio della psicoanalisi e di sperimentare su di sé una forma di analisi solitaria), nella Trieste ormai italiana del dopoguerra, Svevo collabora con vari articoli, anche di costume, al nuovo quotidiano triestino «La Nazione»; e riprende, anche se in modo attenuato, la sua attività di industriale. Ma a partire dal  torna con grande impegno alla letteratura, lavorando al nuovo romanzo La coscienza di Zeno, pubblicato nel . Dopo il disinteresse iniziale manifestatosi in Italia per questo lavoro, fu l’amico Joyce (nel frattempo trasferitosi a Parigi, dove nel  aveva pubblicato l’Ulysses) ad aprire la strada a un riconoscimento del suo valore da parte dei critici francesi, mentre in Italia la sua grandezza veniva affermata dal giovane Eugenio Montale, con cui strinse una grande amicizia (cfr. ..). La valutazione positiva del nuovo romanzo riaccendeva intanto l’attenzione della critica nei confronti dei due precedenti, mentre Svevo scriveva racconti e frammenti di vario tipo, nuovi testi teatrali, e scritti di preparazione a un quarto romanzo, rimasto incompiuto. Numerosi furono ancora i suoi viaggi, non piú legati soltanto agli affari, ma alla letteratura e alla promozione della sua opera. L’ marzo del  egli tenne una conferenza su James Joyce al circolo «Il Convegno» di Milano; il  marzo  veniva festeggiato a Parigi da piú di cinquanta scrittori europei. Ormai in condizioni di salute malferma, morí in seguito a un incidente d’auto, il  settembre , nell’ospedale di Motta di Livenza.

... La vocazione letteraria di Svevo nella Trieste del tardo Ottocento. Una letteratura antiformalistica

La natura dell’ambiente triestino e il carattere stesso dell’educazione ricevuta portarono il giovane Ettore Schmitz lontano da ogni nozione classicistica, retorica o estetizzante della letteratura: egli vide sempre la scrittura come strumento di coscienza e di conoscenza della realtà; fu lontano e indifferente a ogni formalismo, a ogni degustazione esteriore della bella pagina e della perfezione linguistica. Autori veramente formativi per lui furono i grandi narratori del realismo francese – Balzac, Stendhal, Flaubert – per la loro capacità di indagare nei risvolti piú con-

.

ITALO SVEVO

traddittori dei comportamenti umani, andando al di là della superficie piú esteriore della realtà. E proprio questa curiosità suscitò la sua attenzione nei confronti di una cultura «negativa», interpretata tuttavia senza nessun compiacimento di tipo decadente: si interessò agli umoristi romantici tedeschi, alla musica e al teatro di Wagner (cfr. ..), e soprattutto alla filosofia di Schopenhauer, che, fin dalle sue prime esperienze narrative, lo spinse a verificare come ideali e programmi siano determinati non da motivazioni razionali, ma da diversi orientamenti della «volontà» (che spingono gli uomini fino a ingannare se stessi e a rimanere prigionieri delle proprie illusioni). Ma, su questo fondo culturale, si sovrappose un inconfondibile atteggiamento di riservatezza ironica, di distacco e di attenuazione, con cui il giovane triestino minimizzava il peso dei propri discorsi e della propria posizione, pronto a presentare le proprie scelte e le proprie convinzioni come un segno di «inferiorità», di una incapacità di essere come gli altri. Nell’accostarsi alla letteratura egli cercò sin da subito di rappresentare vicende umane sullo sfondo di una concreta e specifica società, quasi sempre quella triestina. Oltre ai due romanzi di cui si parlerà nel paragrafo seguente, prima della fine del secolo compose pochi racconti di tipo naturalistico, ma aperti verso l’analisi di stati d’animo e verso orizzonti mitici e simbolici. Dopo aver esordito con la breve novella Una lotta, apparsa sull’«Indipendente» all’inizio del , vi pubblicò nell’ottobre  il piú ampio racconto L’assassinio di via Belpoggio. Notevole anche il racconto politico-allegorico La tribú, pubblicato nel  sulla rivista di Turati «Critica sociale» (cfr. ..), nel quale Svevo manifesta il proprio pessimismo circa la reale possibilità di trasformazione della società.



La cultura negativa

La componente ironica Rappresentare la società I primi racconti

... Una vita e Senilità. Iniziato nel , il primo romanzo di Svevo, il cui titolo originario era Un inetto, venne pubblicato nel  (ma con data ), a spese dell’autore, dall’editore triestino Vram, con il titolo Una vita. Al centro della narrazione in terza persona c’è il fallimento intellettuale di Alfonso Nitti che, venuto dalla campagna nella città di Trieste, giunge al suicidio dopo inutili tentativi di superare i limiti della sua condizione. Nelle sue vicende il confronto con la solida concretezza del mondo borghese svuota di ogni valore il personaggio intellettuale, che aveva avuto molteplici incarnazioni nella narrativa ottocentesca e trovava ancora recenti esempi nella narrativa italiana, dal Corrado Silla di Fogazzaro (cfr. ..) ai contemporanei personaggi dannunziani. Ma, a differenza di questi, Alfonso non può rappresentare alcun modello assoluto, o proclamare alcun valore ideale o alternativo: tutto ciò che egli oppone al mondo del lavoro, del consumo, della concretezza borghese, non è che subalternità, passività, estraneità, autoinganno. I suoi propositi non vengono mai perseguiti fino in fondo; si sottrae a ogni comunicazione reale con gli altri, pur avendone sempre bisogno per ogni suo movimento e decisione. Tra il personaggio e la realtà si distende tutta una rete di mediazioni che falsano e deformano la realtà stessa: e tra queste un peso essenziale rivestono le lettere, da cui si sviluppano quasi tutti i nodi risolutivi della vicenda. Eroe «senza qualità», il personaggio sveviano è lontano da ogni compiacimento estetico, e immerso in una grigia realtà quotidiana. La prosa rifugge da ogni preziosismo e da ogni ricerca linguistica, si adegua ai caratteri della realtà che vuole rappresentare, fino ad apparire in alcuni momenti addirittura aspra e scorretta.

Alle asprezze di Una vita, determinate dal legame con schemi e strutture di tipo naturalistico, si sottrae il secondo romanzo, Senilità, dotato di una piú forte tensione narrativa e di una eccezionale densità simbolica; il romanzo, che in un primo momento doveva intitolarsi Il carnevale di Emilio, venne elaborato a partire dal , nei mesi del rapporto con Giuseppina Zergol, e concluso dopo il matrimonio, nel ; apparve a puntate sull’«Indipendente» tra il giugno e il settembre del  e subito dopo in volume, e fu del tutto igno-

Un inetto

L’intellettuale e il mondo borghese

Astrattezza e passività

La prosa

La redazione e la critica

EPOCA

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JAMES JOYCE. ULISSE IL CANONE EUROPEO

tav. 225

IL MODDELLO SUPREMO DI MODERNITÀ Tra tutte le opere che nel Novecento hanno rovesciato e dissolto gli schemi della narrativa naturalistica, l’Ulisse dello scrittore irlandese in lingua inglese James Joyce si impone come quella piú ambiziosa e radicale: mira a racchiudere in sé l’immagine globale di un mondo senza piú centro, a toccare i piú vari territori dell’esperienza individuale e collettiva, a intrecciare tutta una rete di simboli e di figure, nel quadro di una registrazione di una sola giornata di vita borghese in una città contemporanea. Vi si riconosce il modello supremo della modernità letteraria, di ogni letteratura «sperimentale», insofferente delle forme tradizionali della narrazione. L’autore, nato a Dublino nel  ed educato in un collegio gesuitico, dopo le prime prove letterarie, lasciata l’Irlanda, visse una vita instabile e piena di preoccupazioni economiche, tra la Svizzera, la Francia, l’Italia: tra il  e il  fu a Trieste come insegnante di inglese alla Berlitz School, e lí strinse amicizia con Italo Svevo (cfr. ..); morí a Zurigo nel . Restano ancora nel solco della narrazione tradizionale, i racconti dei Dubliners, Gente di Dublino,  (in alcuni nei quali la realtà della Dublino contemporanea si presenta sotto il segno dell’epifania, improvvisa rivelazione di un significato nascosto e inafferrabile), e il romanzo autobiografico Portrait of the artist as a young man, Ritratto dell’artista da giovane, . Ma nel  era iniziata la stesura dell’Ulysses, che fu pubblicato nel : in esso ritornano molti elementi tematici delle opere precedenti, in un organismo vastissimo e pletorico, rivolto in direzioni molteplici, che si presenta, come indica lo stesso titolo, come una versione contemporanea dell’Odissea, il cui movimento di viaggio, di esperienza, di ritorno, e il cui tempo vario e dilatato vengono trasposti nel percorso di una sola giornata (il  giugno , quello del primo appuntamento dell’autore con Nora Barnacle, poi divenuta sua moglie), con l’attraversamento della città di Dublino da parte di due personaggi, l’ebreo non praticante Leopold Bloom, ossessionato dall’infedeltà della moglie e dallo struggente ricordo del figlio morto, e Stephen Dedalus, giovane idealista pieno di inquietudine alla ricerca di una figura paterna; a questi si aggiunge una terza protagonista, la moglie di Bloom, Molly, immagine del mondo femminile in tutti i suoi vari aspetti, a cui è affidato il celebre monologo che conclude l’opera. Alla concentrazione del tempo narrato corrisponde la dilatazione del tempo della narrazione, con la descrizione di molteplici particolari quotidiani, con la trascrizione dei pensieri piú reconditi e dei gesti piú minuti dei personaggi, con divagazioni del genere piú diverso, con un’attenzione insistente ai dati corporei, ai piú confusi ricordi e alle associazioni dell’inconscio (in cui è evidente la suggestione della psicoanalisi), con svariati e spesso inarrestabili giochi linguistici, con l’inserzione di lingue e gerghi diversi. Il linguaggio si svolge secondo punti di vista e tecniche diverse, dalla descrizione, al dialogo, al pastiche, al monologo interiore e al «flusso di coscienza» (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ), che Joyce conduce alle sfumature piú varie e sottili, con un virtuosismo invadente e indiavolato. Secondo la definizione dello stesso Joyce, l’Ulisse vuol essere «un’Odissea moderna» e tracciare «l’epica del corpo umano»; e finisce per proporsi «come summa di tutta l’esperienza fisica dell’uomo e negazione di quella metafisica» (Melchiori), attraversando una fitta rete di elementi simbolici e mitici, che ritornano nei gesti e negli atti della vita quotidiana, nell’economia di se stessi e del proprio corpo che i vari personaggi si trovano a fare, nel proliferare degli oggetti e delle apparenze che li circondano. LA STRUTURA DELL’OPERA La struttura complessa e difficile del libro viene delucidata da alcune indicazioni dell’autore, che suggerisce un’articolazione in diciotto episodi, ciascuno dei quali rispecchia episodi e situazioni del poema omerico, distribuiti in tre grandi parti, che offrono un’immagine rovesciata della Trinità cristiana: Telemachia, con tre episodi che riguardano il giovane Stephen, il «Figlio» alla ricerca di un padre, come Telemaco alla ricerca di Ulisse; Odissea, con le avventure in Dublino di quell’Ulisse che è Leopold Bloom, il «Padre» che ha perduto un figlio; Nostos (in greco, “ritorno”),

.

ITALO SVEVO



con tre episodi in cui al ricongiungimento tra il padre e il figlio (Leopold e Stephen, corrispondenti a Ulisse e Telemaco) segue il monologo di Molly, la donna moglie-madre, corrispondente a Penelope, che nella sua corporeità sostituisce la figura trinitaria dello «Spirito Santo». Ritrovando e rovesciando, nel flusso quotidiano della vita privata borghese e cittadina, le varie figure del mito antico, dell’immaginario medievale, della teologia cattolica, l’Ulisse sembra voler confrontare tutta la cultura della tradizione con la disintegrazione della modernità, con la frantumazione e insieme con l’allargamento dell’esperienza che ne è derivata: si pone insieme come un libro di crisi e come un libro di affermazione, che esalta il valore del corpo, dell’oscurità, dei fondi segreti dell’io, degli incontri e delle sorprese della città moderna, del gioco irresponsabile e indifferente con il linguaggio. Un romanzo che distrugge ogni leggibilità del romanzo e che sembra mirare a un’accettazione piena del mondo nella sua anarchica disgregazione (e non a caso l’ultima parola del libro è Yes). Questo furore sperimentale fu poi da Joyce portato all’estremo nell’incompiuto Finnegan’s wake (“La veglia di Finnegan”), in cui un complicato fondo simbolico si manifesta entro una deformazione radicale del linguaggio, in una sua riduzione a magma fonetico, con un audace e impenetrabile stravolgimento di ogni sua forma. Il testo Si riportano le battute iniziali del monologo di Molly Bloom (che inizia e termina con Yes): a letto tra la veglia e il sonno questa Penelope sensuale e poco fedele «pensa alla richiesta che le ha fatto Bloom prima di addormentarsi: ha domandato che gli venga portata la colazione a letto il giorno dopo. La donna rievoca i giorni passati all’albergo City Arms, quando il marito si fingeva malato per convincere Mrs. Riordan a nominarlo suo erede. La vecchia, invece, lasciò tutto alla Chiesa per delle messe in suffragio della sua anima» (De Angelis). Si notino, oltre al linguaggio spregiudicato e disinvolto, l’assenza di qualsiasi punteggiatura e il rapido passaggio da un dato all’altro, che segue il libero flusso del pensiero interiore. [EDIZIONE: James Joyce, Ulysses, ed. by Jeri Johnson, Oxford University Press, ]

Yes because he never did a thing like that before as ask to get his breakfast in bed with a couple of eggs since the City arms hotel when he used to be pretending to be laid up with a sick voice doing his highness to make himself interesting to that old faggot Mrs Riordan that he thought he had a great leg of and she never left us a farthing all for masses for herself and her soul greatest miser ever was actually afraid to lay out d for her methylated spirit telling me all her ailments she had too much old chat in her about politics and earthquakes and the end of the world let us have a bit of fun first God help the world if all the women were her sort down on bathing-suits and lownecks of course nobody wanted her to wear I suppose she was pious because no man would look at her twice I hope I’ll never be like her

Sí perché prima non ha mai fatto una cosa del genere chiedere la colazione a letto con due uova da quando eravamo all’albergo City Arms quando faceva finta di star male con la voce da sofferente e faceva il pascià per rendersi interessante con Mrs Riordan vecchia befana e lui credeva di essere nelle sue grazie e lei non ci lasciò un baiocco tutte messe per sé e per l’anima sua spilorcia maledetta aveva paura di tirar fuori quattro soldi per lo spirito da ardere mi raccontava di tutti i suoi mali aveva la mania di far sempre i soliti discorsi di politica e i terremoti e la fine del mondo divertiamoci prima che Dio ci scampi e liberi tutti se tutte le donne fossero come lei a sputar fuoco contro i costumi da bagno e le scollature che nessuno avrebbe voluto vedere addosso a lei si capisce che era pia perché nessun uomo s’è mai voltato a guardarla spero di non diventar come lei



Inettitudine e senilità

Spirale di autoinganni

Il ritardo sul presente

L’io e la realtà

Rapporti simmetrici

Oggetto del desiderio

La «metamorfosi strana» di Angiolina

Gli ambienti e gli oggetti

Il narratore e il lettore

EPOCA

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GUERRE E FASCISMO

-

rato dalla critica; venne scoperto solo dopo l’uscita de La coscienza di Zeno e ritenuto da taluni addirittura superiore al nuovo romanzo (la seconda edizione, con alcune correzioni, apparve a Milano nel ). Anche qui una narrazione in terza persona si concentra tutta sulle vicende e sul punto di vista di un personaggio «inetto», i cui atteggiamenti sono complicati da un senso precoce di «senilità». Emilio Brentani, intellettuale fallito di trentacinque anni, che conduce una inerte vita di impiegato, vive un rapporto con l’esuberante e inafferrabile popolana Angiolina, ma in ogni suo gesto sembra mancare di energia vitale: è tutto rivolto a costruire se stesso, i propri rapporti umani, la propria vita sentimentale con un distacco che lo separa dalle cose e dalle persone, con una sopravvalutazione dei propri propositi, che non gli permette nessuna vera conoscenza della realtà, ma lo chiude soltanto in una spirale di autoinganni. La sua esistenza pare essere sempre in attesa di occasioni che non si realizzano, in continuo ritardo rispetto a un presente che gli sfugge: nel suo comportamento egli si appoggia sempre su modelli ideali, su miti e falsificazioni di tipo romantico, su pregiudizi e convenzioni alle quali, del resto, egli si sente estraneo. Anche nella sua passione per Angiolina egli deve fare affidamento su dei mediatori, crearsi degli ostacoli, dei modelli esterni; non sa vivere il presente, perché si guarda vivere, si sente continuamente minacciato dall’errore, teme di cadere nel ridicolo. Svolgendo una impietosa critica della coscienza intellettuale, Svevo fa di Emilio una figura dell’incapacità di vedere le contraddizioni della realtà e dell’io, tipica di tanti modelli intellettuali di tipo decadente. Ma la sua è, anche, la condizione piú generale dell’uomo moderno, perduto dietro desideri illusori, fantasmi artificiali, modelli astratti, mentre gli sfugge il vero volto della natura, che si sposta sempre piú in là. Questi caratteri del protagonista vivono entro un intreccio che lo lega ad altri tre personaggi, con i quali esso forma un quartetto perfetto, costruito secondo sottili raccordi e simmetrie: da una parte c’è l’amico scultore Stefano Balli, personaggio generoso, sicuro e spregiudicato, che per Emilio rappresenta una figura paterna, un modello di «salute» e di coscienza di sé; dall’altra le due opposte figure femminili, destinate a non incontrarsi mai, della sorella Amalia e di Angiolina. Triste e «grigia» figura di ragazza condannata all’inerzia sentimentale e alla moralità casalinga, riservata e votata alla rinunzia, Amalia è sconvolta fino alla follia e alla morte da un impossibile e silenzioso amore per il Balli. La bionda Angiolina, «donna del popolo», rappresenta invece la vitalità piú libera e aperta, la salute e l’energia fisica, il piacere di guardare e di essere guardata, di esistere sotto il segno della luce: incontrata Angiolina, Emilio vorrebbe godere della sua vitalità, facendone un prezioso oggetto che risponda ai suoi desideri piú fumosi, ad astratti modelli letterari e passionali, ai suoi vaghi ideali. Ma egli riesce a vivere questo rapporto solo attraverso intermediari (come lo stesso amico Balli, che interviene piú volte nel suo rapporto con la donna): Emilio si lascia prendere tanto piú fortemente dalla passione per lei, quanto piú avverte la sua estraneità, la sua distanza, la sua inafferrabilità. A ogni inganno della donna, egli sostituisce nuove illusioni e nuovi accecamenti. La situazione giunge al suo punto estremo quando Emilio incontra per l’ultima volta Angiolina, quasi contemporaneamente alla morte della sorella Amalia: poi, quando il dolore piú lacerante si è allontanato, l’immagine di Angiolina sembra trasfigurarsi in una lontananza simbolica, in una «metamorfosi strana» che ne fa un segno segreto e luminoso a cui, nonostante tutto, la vita di Emilio resta legata, come l’immagine della giovinezza vista da un vecchio. Questi motivi tematici si svolgono entro un fascio di rapporti concreti, sul filo di una vita quotidiana che ha tutto il colore della Trieste contemporanea, e del mondo frequentato dal giovane Svevo: tutti i particolari, i luoghi, gli oggetti, gli ambienti si caricano di significati, vivono nella risonanza della passione e delle illusioni di Emilio. La narrazione è sostenuta da una prosa incalzante, che sa accendersi in scorci vigorosi, che trova intensi accenti sentimentali e insieme momenti di contenuta ironia. Il lettore è come chiamato a partecipare a una storia d’amore che si prolunga ostinatamente, nonostante tutto, senza conoscere una reale concretezza: questa storia contraddittoria e illusoria è come uno sprazzo di lu-

.

ITALO SVEVO



ce in una vita malsana e rappresa, che non riesce a esprimere se stessa ma cerca, nonostante tutto, di affermarsi in un valore assoluto, ottenendo però unicamente di falsificare ogni valore possibile.

... Il «silenzio» di Svevo e gli scritti saggistici. Dopo l’ingresso negli affari, la letteratura rimase per Svevo soprattutto una sorta di sfogo sotterraneo, una specie di cura della propria coscienza, affidata a frammenti, note di diario, appunti di vario tipo, progetti quasi sempre rimasti in sospeso: nel ventennio che precede la nascita de La coscienza di Zeno questo impegno analitico non viene mai meno e trova nuova forza nella piú vasta esperienza della modernità che, nel suo lavoro di industriale e nei suoi viaggi europei, l’autore viene ad acquisire. La diretta conoscenza, legata a una pratica effettiva, dei meccanismi economici e produttivi, si intreccia a un approfondirsi di curiosità di tipo scientifico, a contatti internazionali che allontanano ancora di piú Svevo dall’orizzonte della contemporanea cultura italiana.

Una scrittura frammentaria

In numerosi saggi di difficile datazione Svevo approfondisce una problematica che gli era stata sempre a cuore, con una visione estremamente negativa dello sviluppo della civiltà. I nuovi stimoli culturali derivati dall’incontro con Joyce lo spingono poi a confrontarsi con una letteratura assai lontana dai modelli del naturalismo, in procinto di porsi sulla strada del flusso di coscienza e del monologo interiore (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ); nello stesso tempo egli volge la sua attenzione alla letteratura umoristica e paradossale, soprattutto a quella di tradizione inglese. Un posto tutto particolare assume inoltre la conoscenza della psicoanalisi freudiana, con una attenzione ossessiva al rapporto tra salute e malattia, alla medicina in genere e ai difficili legami tra medico e paziente. La condizione di inattività a cui Svevo fu costretto dalla guerra non si tradusse subito in una piú diretta ripresa dell’impegno letterario, ma lo vide fermo (come mostrano vari appunti e scritti sparsi), in una situazione di attesa, di sospesa preoccupazione, nella coscienza che quei tragici eventi rappresentavano anche la fine di una civiltà sovranazionale a cui egli aveva partecipato, un rinchiudersi dei popoli in forme di nazionalismo a cui egli era stato sempre estraneo, un precipitare verso una distruzione forse inevitabile, ma priva di significato.

Scritti teorici

MONOLOGO INTERIORE

Il turbamento della guerra

/ FLUSSO DI COSCIENZA

Si parla di monologo interiore quando, in un testo narrativo, viene riprodotto direttamente il flusso dei pensieri che si svolgono nella mente di un personaggio; in racconti e romanzi scritti in prima persona può accadere spesso che il soggetto narrante si abbandoni al diretto movimento dei suoi pensieri; ma anche in narrazioni in terza persona il narratore può passare la parola a un personaggio, riproducendo il discorso interno della sua mente in una determinata situazione, sia con l’uso di virgolette, sia attraverso lo stile indiretto libero (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ). Il monologo interiore si diffonde ampiamente nella narrativa del secondo Ottocento, ma tra i tanti testi che ne contengono esempi, particolare fortuna avrà piú tardi il romanzo del francese Edouard Dujardin (-), Les lauriers sont coupées (“I lauri sono sfrondati”, ). Alcuni scrittori, specialmente di area anglosassone, riprendendo la terminologia elaborata dallo psicologo William James (-), usarono la formula dello stream of consciousness, “flusso di coscienza”, per riprodurre il carattere contraddittorio, variabile, tumultuoso, incontrollabile, fatto di infiniti residui e particolari marginali, non sempre organizzato in forme comunicative, dei pensieri molteplici che passano nella mente umana. La sperimentazione piú avanzata e ambiziosa del flusso di coscienza, mirante a una riproduzione ossessivamente mimetica dell’irrazionalità del movimento della vita interiore e delle sue infinite complicazioni, fu quella dell’Ulysses di Joyce (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ), apparso un anno prima della Coscienza di Zeno di Svevo.

GENERI E TECNICHE

tav. 226

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Una nuova stagione

La conferenza su Joyce

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Con l’inizio, nel , della stesura de La coscienza di Zeno, prende avvio una nuova vitalissima fase di esperienze narrative e teatrali, accompagnata anche da scritti e interventi di tipo saggistico o diaristico e dagli articoli per «La Nazione». Una sorta di sintesi della propria vicenda intellettuale è contenuta nel Profilo autobiografico, inviato nel settembre  ai critici Benjamin Crémieux ed Enrico Rocca. Un eccezionale segno di intelligenza critica è la conferenza dell’ marzo  su James Joyce, omaggio a colui che aveva prima di ogni altro contribuito alla sua scoperta.

... La coscienza di Zeno. Redazione e pubblicazione

L’intervento di Joyce

Il riconoscimento francese I saggi di Montale

Un’autobiografia aperta

La scrittura come terapia

Una struttura innovativa

Pochi mesi dopo la fine della guerra (intorno al febbraio ), Svevo cominciò a lavorare al nuovo romanzo La coscienza di Zeno, che terminò, tra varie interruzioni, prima della fine del , quando entrò in contatto con l’editore Cappelli di Rocca San Casciano, presso Bologna, per un’edizione a proprie spese: la stampa del volume fu terminata alla fine dell’aprile . Svevo era stato convinto a operare alcuni tagli e correzioni di cui non è oggi possibile valutare l’entità (il dattiloscritto originale è infatti andato perduto). Anche questo nuovo romanzo fu accolto all’inizio da una quasi totale indifferenza; fu essenziale l’intervento di James Joyce, che invitò Svevo a inviarne una copia ad alcuni critici e scrittori come Valéry Larbaud (-), Benjamin Crémieux (-), Thomas S. Eliot (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ), Ford Madox Ford (-); nel gennaio  Svevo riceveva una lettera di elogio di Larbaud, che si impegnava per la diffusione francese del romanzo. Attraverso vari incontri e progetti, si arrivò cosí al fascicolo della rivista «Le Navire d’argent» del febbraio , che ospitava un saggio di Crémieux su Svevo e traduzioni del primo capitolo de La coscienza di Zeno e di passi di Senilità, e all’uscita, nel , di una traduzione francese di Zeno, presso l’editore Gallimard. Ma intanto la «scoperta» di Svevo si era svolta per strada autonoma anche in Italia, grazie alla curiosità e all’intelligenza del giovane Eugenio Montale, che pubblicò sull’ultimo fascicolo del  della rivista «L’esame» un Omaggio a Italo Svevo. Sulla spinta dell’articolo montaliano, la conoscenza di Svevo si diffuse presso la piú intelligente e moderna cultura italiana del tempo: quelli che meglio riconobbero e sentirono vicino l’orizzonte della narrativa dell’autore triestino furono gli scrittori legati alla rivista «Solaria» (cfr. ..), che, alla sua morte, gli dedicò un intero fascicolo.

La coscienza di Zeno, a differenza dei due romanzi precedenti, è scritto in prima persona: esso non si presenta come narrazione di una vicenda particolare, ma come un’autobiografia aperta, in cui non si segue un disegno organico, ma si aprono squarci su diverse situazioni e occasioni della vita del protagonista. Si tratta di un personaggio fittizio, Zeno Cosini, che non coincide direttamente con l’autore (anche se ne riproduce qualche carattere): è un ricco triestino che, per liberarsi da una nevrosi che si manifesta nei rapporti con se stesso e con gli altri, e che si riconosce innanzi tutto nell’impossibilità di liberarsi dal vizio del fumo e nel continuo fallimento dei propositi di fumare l’«ultima sigaretta», si è sottoposto, ormai in età abbastanza avanzata, a una cura psicoanalitica e ha ricevuto dal dottor S. l’incarico di ripercorrere per iscritto il proprio passato, in funzione della cura. Ma questa ricostruzione del passato si compie per salti, senza un punto di vista risolutivo che riesca a spiegarlo e a interpretarlo; si interrompe a un certo punto, come interrotta risulta la cura psicoanalitica, per l’insofferenza del paziente nei confronti del medico e del suo metodo. Il testo si compone di otto capitoli di diversa misura: due brevissimi all’inizio, cioè una Prefazione, in cui il dottore presenta la sua decisione di pubblicare quelle memorie, e un Preambolo, in cui lo stesso Zeno ritorna al periodo della sua infanzia e afferma l’impossibilità di recuperarla; seguono poi due capitoli, Il fumo, dedicato agli infiniti artifici e sotterfugi che il personaggio mette in atto per evitare di abbandonare le sigarette, e La morte di mio padre, che ri-

.

ITALO SVEVO

sale indietro alla sua giovinezza, alla difficoltà dei rapporti con il padre e a un gesto di questi, in punto di morte, che viene visto come una «punizione» nei suoi confronti. Vengono poi capitoli molto ampi, La storia del mio matrimonio, incentrato sulle vicende che hanno portato Zeno a frequentare la famiglia Malfenti e le quattro sorelle Ada, Augusta, Alberta, Anna, con il suo amore per la bellissima Ada, dalla quale ripiega verso Alberta, finendo dirottato, quasi automaticamente e senza nemmeno rendersene conto, verso la meno affascinante Augusta, che però si rivela come la moglie ideale, dotata di quella concretezza borghese e di quella «salute» di cui egli soffre la mancanza; La moglie e l’amante, in cui Zeno, marito felice, ripercorre le tappe del rapporto clandestino, segreto e tortuoso, che lo lega a Carla, una giovane donna di origine popolare, che aspira a divenire cantante, rapporto che egli vive con senso di colpa e nel continuo desiderio di troncarlo; Storia di un’associazione commerciale, che segue le difficoltà di Zeno nel mondo degli affari, e illumina il complicato rapporto che egli intrattiene con il marito di Ada, Guido Speier, la cui abilità e la cui apparente fortuna è come ribaltata da un fallimento che lo porta al suicidio. Piú breve è l’ultimo capitolo, Psico-analisi, in cui si abbandona la narrazione del passato (che riguardava grosso modo il mondo triestino degli anni Novanta del secolo precedente), dando spazio a una forma di scrittura diaristica, con tre brani datati tra il maggio  e il : qui il protagonista annuncia la sua decisione di abbandonare la cura, svolge varie critiche alla psicoanalisi, parla della sua improvvisa scoperta della realtà della guerra, sostiene di essere guarito dalla malattia grazie a una serie di successi commerciali, ottenuti proprio per effetto della situazione bellica.

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Ada e Augusta

Carla

Il suicidio di Guido Scrittura diaristica

... Il personaggio di Zeno. Tutto il discorso di Zeno si sviluppa in un’oscillazione continua tra malattia e salute, tra narrazione e riflessione, tra coscienza e inganno, tra bisogno degli altri e difficoltà di instaurare con loro un rapporto. Zeno è alla ricerca di un equilibrio che gli sfugge continuamente e che egli stesso sa di non poter conquistare. Eternamente irresoluto, ha bisogno, per ogni azione e per ogni decisione, di riferimenti e di stimoli esterni: e in ciò somiglia ai due protagonisti dei precedenti romanzi di Svevo, da cui però lo allontana un distacco umoristico da se stesso, dalle proprie vicende, dallo stesso mondo che gli sta attorno; invischiato nella sua psicologia quanto mai varia, eterogenea, confusa e frantumata, Zeno ne segue tutte le pieghe, con una volontà di scavarla fino in fondo, ma nello stesso tempo impegnato a sfuggirvi, ad affermarne la futilità, a trasformarla in gesti e scatti di amabile e disinvolta leggerezza. Egli è immerso in un mondo borghese, di cui il suo racconto ci presenta concretissime forme e figure, personaggi chiusi in valori sicuri, in certezze quotidiane, in abitudini e regole di vita: ma in quel mondo egli si sente a disagio, in uno stato di inferiorità che gli impedisce di comportarsi come si dovrebbe. Questa inferiorità sembra derivare da due opposte motivazioni: da una parte la sua disponibilità ai richiami del desiderio, a immagini e promesse inafferrabili di felicità, ai profumi e alle seduzioni della bellezza (in primo luogo quella femminile), dall’altra il suo eccesso di «coscienza», l’ostinazione con cui egli ama smascherare gli inganni che ciascuno costruisce per proteggere i propri desideri. Nell’ottica di Zeno, i valori su cui si regge la vita borghese non sono altro che inganni e schermi che danno una vernice di rispettabilità e un’apparenza di equilibrio alle pulsioni e ai desideri piú vari, allo squilibrio che è al fondo stesso dell’esistere dell’uomo, alla sua incorreggibile animalità. Egli si ostina a elaborare molteplici strategie per sottrarsi a quei valori, pur continuando a rispettarli: la sua stessa coscienza è invischiata nei piú sottili autoinganni, che paradossalmente riconfermano i suoi limiti (cosí prima il desiderio di Ada lo conduce ad Augusta, poi il rapporto con l’amante Carla lo riconduce alla moglie e ai valori familiari). A ogni passo egli scopre l’imprevedibilità della vita, la sfasatura tra i programmi, l’idea che ciascuno ha di sé e ciò che effettivamente accade. Ma, a differenza di Alfonso Nitti e di Emilio Brentani, Zeno non è uno sconfitto: egli sa di non poter essere un personaggio serio, anzi scopre che ogni serietà nasconde inganni e

L’equilibrio irraggiungibile Il distacco umoristico

L’inadeguatezza di Zeno Desideri e coscienza

L’apparenza borghese

Dimensione comica del personaggio

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illusioni, inciampa sulle cose e sulle persone come un personaggio comico, si abbandona all’imprevedibile, si immerge fino in fondo nelle sproporzioni dei comportamenti individuali e sociali, conserva un impassibile sorriso perfino nella sofferenza e nelle situazioni piú drammatiche; ma curiosamente cade sempre in piedi, vede, con sua stessa sorpresa, la sua inferiorità, la sua difficoltà di vivere risolversi in una serie di successi, che culminano nei successi commerciali che gli toccano in coincidenza con i tragici eventi della guerra.

... L’io, la nevrosi, il tempo. La malattia di Zeno

La prospettiva psicoanalitica

Nevrosi dell’uomo contemporaneo

Malattia e scrittura

Il presente e il passato

La frattura della guerra

La guarigione di Zeno

Zeno si nasconde e si sottrae continuamente a se stesso e al lettore, non vuole né può essere un eroe modello, un’immagine assoluta, ma solo il protagonista di un’esperienza singolare, come singolare è l’esperienza di ogni uomo. In lui la malattia si configura come la sola autentica possibilità di essere: il personaggio moderno si impone come «malato», rinunciando a tutte le pretese eroiche dei personaggi tradizionali. La psicoanalisi si rivela strumento essenziale per la costruzione di questo personaggio; a essa si può ricollegare l’ottica con cui vengono rappresentati i comportamenti irregolari di Zeno e gli stessi modi in cui egli scopre sintomi di irregolarità sotto l’apparente normalità degli altri personaggi. E la suggestione di Freud si sente particolarmente nella rappresentazione dei sogni del protagonista, nella sua abitudine ai motti di spirito, nel suo continuo incorrere in lapsus ed equivoci. Nei termini della psicoanalisi, è la nevrosi, con le sue molteplici manifestazioni, la malattia che domina il mondo di Zeno. Ma sarebbe sbagliato definire in modo clinico piú preciso la natura di questa nevrosi: accumulando «verità e bugie», avviluppandosi nella sua malattia e continuando comunque a ricercare la guarigione, Zeno non ci presenta un «caso» specifico, ma una immagine piú ampia della condizione nevrotica dell’uomo contemporaneo. La nevrosi dell’individuo è anche la nevrosi della civiltà e della cultura; la guarigione non esiste, esistono solo equilibri provvisori che nascono dalla coscienza dell’inevitabilità della malattia. La malattia diventa insomma strumento fondamentale di conoscenza; e in questo essa si intreccia, fino a identificarvisi, con la scrittura e la letteratura: scrivere è anche cercare le ragioni segrete della malattia, usarla come forza critica, che rivela le contraddizioni della realtà; ma nello stesso tempo la scrittura è invenzione, artificio, sistema di inganni che allontanano da una conoscenza autentica. La coscienza di Zeno è anche un’opera sul tempo, una sottile indagine sul rapporto tra tempo della scrittura (e della cura) e tempo della vita, tra il flusso del presente (in cui la coscienza interroga se stessa e i propri ricordi) e il flusso dell’esistenza trascorsa e perduta. È la stessa cura psicoanalitica a imporre un ritorno all’infanzia, a situazioni e a traumi originari, un riassorbimento di tutto il vissuto nella coscienza del presente, una continua attenzione ai ricordi e ai sogni. Ma Zeno si accorge che non è possibile nessun rapporto sicuro e lineare con il tempo: da una parte esso si ripete e si riavvolge su di sé («il tempo, per me, non è quella cosa impensabile che non s’arresta mai. Da me, solo da me, ritorna»); dall’altra il suo ritornare lo trasforma, ne lascia solo frantumi eterogenei, lo muove e lo deforma. I ricordi diventano sempre un’altra cosa, creano nuove realtà che non è possibile identificare con quelle originarie. Nell’ultimo capitolo, l’abbandono della cura si collega all’esibizione della distanza che separa il protagonista, ormai vecchio, dalle sue «avventure» precedentemente narrate: la scrittura si accanisce a mostrare come la cura fosse basata sull’insincerità, arriva a mettere in dubbio la verità della narrazione. È certo comunque che la conduzione del romanzo è segnata fortemente dall’incombenza della guerra: questa si pone anche come segno simbolico dell’uscita da un’epoca, della rottura di un mondo compatto quale era stato, al di là dei suoi precari equilibri, quello del giovane Zeno, della nuova minaccia di distruzione che incombe sul mondo borghese. Ma, grazie a un imprevedibile e ambiguo rivolgimento, Zeno sembra ottenere la guarigione proprio dai fortunati affari che la guerra gli permette di fare. Questa guarigione lo riconduce però ad allargare lo sguardo alla malattia che ha colpito l’intera ci-

.

ITALO SVEVO

viltà umana: le ultime battute del romanzo mostrano come sia lo stesso accumulo di oggetti e di «ordigni» ad accrescere la sua malattia, a comunicarla all’intero pianeta («La vita attuale è inquinata alle radici»). Come ha rivelato la guerra, lo sviluppo dei mezzi industriali e il dominio sulla natura si rovesciano in distruzione e morte: e il romanzo si chiude proiettando il suo movimento nel tempo verso un futuro minaccioso, dilatando la malattia di Zeno verso l’ipotesi di una distruzione della terra: «Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie». La forza conoscitiva di questo grande romanzo si appoggia su un inconfondibile intreccio di leggerezza e profondità, su una struttura che riesce fino in fondo a essere inafferrabile, su un ininterrotto sottrarsi alle attese, alle sicurezze e alle verità definite che il lettore potrebbe credere di identificarvi. Lo stile della sua prosa sta nella sua disinvoltura, negli scatti e nelle fratture giocose della sua sintassi, nel modo con cui essa interroga e mette in questione se stessa, in cui scompone e ricompone i propri piani (significativi a questo proposito gli echi interni, le corrispondenze e le ripetizioni). Si direbbe che Svevo sappia costruire un linguaggio dotato di spontanea carica comica e ironica, lavorando sui toni e sulle misure sintattiche, e rifuggendo da ogni elemento espressionistico, da ogni ipotesi di deformazione stilistica.



Una civiltà malata

Una struttura inafferrabile

Lo «scrivere male» sveviano

... Il «raccoglimento» del vecchio e il progetto di un nuovo romanzo. Gran parte dei racconti ripresi, progettati, portati a termine o lasciati interrotti nel nuovo fervore creativo seguito a La coscienza di Zeno ruotano attorno al tema della vecchiaia, indagando il suo difficile rapporto con la giovinezza, con i ricordi e con il presente, l’incidenza che su di essa continuano ad avere i desideri, il valore che possono assumere la pratica della scrittura e l’indagine su di sé. Per chi aveva intitolato Senilità il romanzo dell’avventura amorosa di un trentacinquenne, la vecchiaia e la propria personale esperienza di vecchio arrivano a riassumere in sé i piú contraddittori aspetti della vita, rivelano il senso piú vero della condizione dell’uomo. Questi racconti propongono cosí un’indagine disincantata sulle sfasature che si presentano nel corso della vita, sullo scontro tra energia e inerzia, tra forza inestinguibile del desiderio e realtà della decadenza fisica, sui vari modi in cui le illusioni e gli autoinganni agiscono sui vecchi e sui giovani: il punto di vista del narratore è quello di chi considera il mondo «con il senno di poi», eppure continua a parteciparvi. La scrittura senile è come un’operazione di «igiene», di «raccoglimento», di controllo dei propri limiti, di ostinata difesa del proprio vivere.

Gli ultimi racconti

Una burla riuscita, scritto nel , segue la beffa giocata a un vecchio letterato, Mario Samigli, povero impiegato che ha pubblicato senza successo un romanzo in giovinezza, a cui un conoscente fa credere che un editore austriaco sia interessato a comprare, in cambio di una cifra esorbitante, i diritti per la traduzione. L’incompiuto Corto viaggio sentimentale, la cui prima traccia risale forse già agli anni del «silenzio» di Svevo, si snoda con fratture e pause, seguendo il percorso di un viaggio in treno di un vecchio signore, da Milano a Trieste. Vanno poi ancora ricordati Vino generoso, La novella del buon vecchio e della bella fanciulla, il frammento L’avvenire dei ricordi, scritto nel , e l’altro frammento, La morte. Il tema della vecchiaia è al centro anche di altri materiali frammentari, in prima persona, sullo svolgersi della vita di Zeno Cosini: materiali che avrebbero dovuto condurre a un quarto romanzo, non portato a termine, che forse avrebbe presentato una struttura piú aperta, frammentaria, disponibile di quella della stessa Coscienza di Zeno. Si tratta dei frammenti che sono stati intitolati Un contratto, Le confessioni del vegliardo (che recano all’inizio la data del  aprile ), Umbertino, Il mio ozio, Il vecchione. La scrittura del vecchio Zeno procede ora attraverso nuovi ostacoli, nuove, imprevedibili sfasature, frutto della sua condizione attuale, dei suoi rapporti con i figli e con un nipotino. Egli mira a una letteratura «minima», che ha una funzione di sopravvivenza e di controllo del proprio organismo.

Una burla riuscita

Il tema della vecchiaia Le sfasature della vita

Corto viaggio sentimentale

I frammenti

Il trionfo della letteratura «minima»

EPOCA





GUERRE E FASCISMO

-

... Il teatro di Svevo. Disinteresse dei contemporanei

I materiali

La rigenerazione

Nonostante l’interesse per il teatro sia stato essenziale lungo tutto l’arco della vita di Svevo, i numerosi testi drammatici da lui scritti hanno avuto una sfortuna ancora maggiore di quelli narrativi: durante la sua vita fu pubblicato soltanto il breve monologo Prima del ballo, che apparve sull’«Indipendente»; e soltanto l’atto unico Terzetto spezzato venne rappresentato, nel , dal Teatro degli Indipendenti di Bragaglia (cfr. ..). Una certa curiosità per il teatro di Svevo cominciò a manifestarsi solo dopo la prima edizione completa dei suoi testi teatrali pubblicata nel ; e solo nel corso degli anni Sessanta esso cominciò a interessare gli uomini di teatro e ad avere finalmente delle realizzazioni sceniche. Si tratta di ben tredici opere, alcune compiute, altre ancora in fase di elaborazione, accompagnate da progetti, abbozzi, stesure varie, materiali collaterali ecc. di cui in molti casi è assai incerta anche la datazione. Lo sfondo scenico di questo teatro è sempre quello del salotto borghese, animato da contrasti e discussioni, da curiosi incidenti e cospicue sorprese: senza rompere la struttura del dramma borghese, Svevo ne insegue gli squilibri interni, vi fa scattare segni di imprevedibilità e di irregolarità. La parola della normale conversazione quotidiana si carica di tensioni e malesseri, rivela come l’apparente civiltà dei rapporti e l’accurato sistema di regole quotidiane della vita familiare borghese siano gravati da una rete velenosa di prepotenze e violenze: e da ciò nascono e si scatenano dissidi e scontri che spesso assumono un irresistibile carattere comico. Tra i vari testi (ricordiamo Le ire di Giuliano, Un marito, Inferiorità, Con la penna d’oro), merita particolare attenzione l’ultima commedia, a cui Svevo lavorò negli ultimi anni della sua vita, che è stata intitolata La rigenerazione, dominata dalla tematica della vecchiaia e dal motivo comico dell’operazione per ringiovanire che avrebbe dovuto essere al centro anche del nuovo romanzo di Zeno. Sempre sulla difensiva, pronto ad aggredire, patetico e ridicolo, dolce e animalesco, il vecchio, protagonista della vicenda, scatena attorno a sé un movimento indiavolato pieno di irresistibili scatti comici: comicamente e tragicamente egli vive il contrasto tra la propria inerzia carica di passato e il vorticoso consumo di energia della modernità («Perché è vero che in questa epoca non è permesso di essere vecchi»).

... La scomposizione di Svevo. Perdita del centro

Razionalità laica

Svevo e Pirandello

Svevo opera una sua originalissima scomposizione del personaggio e dei modelli narrativi, esprimendo la condizione moderna dell’«uomo senza qualità», di una vita borghese che ha perduto ogni centro e appare inviluppata in un fascio eterogeneo di errori, di intoppi, di deviazioni. La sua prospettiva radicalmente critica verso le illusioni della vita sociale, verso la falsa totalità del mondo moderno non lo porta però a nessuna rivendicazione della sacralità dell’arte, né del ruolo autonomo degli intellettuali: a differenza di gran parte delle avanguardie contemporanee, egli rifiuta ogni assolutizzazione del negativo, ogni traduzione della scomposizione e della perdita di centro in un nuovo valore assoluto. Egli resta ancorato a una posizione laica, sperimentale, lucidamente razionale: la letteratura non indica per lui valori e modelli assoluti, ma è uno strumento essenziale di conoscenza, capace di insinuarsi razionalmente nelle pieghe piú sottili dell’irrazionalità dei comportamenti e dei rapporti, di trarre alla luce l’oscurità della malattia e dell’errore. Da un nesso di contraddizioni personali, egli ricava la capacità di rappresentare la «malattia» come carattere costitutivo della modernità; si oppone spontaneamente alle mitologie e alle ideologie che in modi diversi esaltano il progresso e lo sviluppo storico, mostrandone proprio l’imprevedibilità, corrodendo con ironia la consistenza dell’io e quella stessa della società e della civiltà. La scomposizione messa in atto da Svevo permette di avvicinare la sua esperienza a quella di Pirandello. Ma occorre precisare che le radici triestine di Svevo e il suo orizzonte mitteleuropeo proiettano la sua opera verso una dimensione assai piú moderna, interna-

.

ITALO SVEVO

zionale, spregiudicata, di quella dello scrittore siciliano: la grandezza di questo è tutta radicata nelle sue origini siciliane, nasce da un conflitto tra mondo arcaico e mondo moderno, con una sofferente esasperazione che cede in alcuni momenti alla tentazione di riaffermare miti e valori assoluti. L’opera di Svevo, anche per il fatto che egli non fu mai uno scrittore e un intellettuale professionista, è singolarmente aperta e disponibile: dopo aver inseguito in Angiolina l’immagine evanescente del desiderio e della speranza, la sua scrittura rifugge con Zeno da ogni possibile mito, risolve ogni sofferenza e angoscia nel gesto leggero del clown. Negli anni tumultuosi del dopoguerra, tra la fine dell’Impero austriaco e della sua cultura sovranazionale e l’ingresso di Trieste nell’Italia del nazionalismo e del fascismo, il triestino Zeno, apparentemente ai margini della storia, insinua un singolare dubbio sulla consistenza della borghesia e della cultura italiana: ancora una volta fuori posto, si rivela in verità in anticipo sul presente, portatore di una «coscienza» piú moderna e disillusa.



Un dubbio moderno

˜

10.6 LE FORME DELLA PROSA TRA LE DUE GUERRE ... La tradizione narrativa.

Le tendenze dominanti nella letteratura del primo ventennio del secolo avevano fatto perdere alla narrativa la posizione centrale che aveva avuto ancora nel ventennio precedente: le opere narrative di maggior rilievo erano venute per lo piú da autori che continuavano precedenti esperienze (come Fogazzaro, D’Annunzio, la Deledda) o che restavano ai margini rispetto alle tendenze dominanti (come Pirandello e Tozzi); forme del tutto particolari, e comunque assai lontane dalla tradizione narrativa, erano invece quelle della narrazione autobiografica dei vociani e quelle della sperimentazione futurista. Ma non va trascurata una produzione rivolta a un pubblico borghese, senza particolare problematicità; il piú autorevole rappresentante ne fu ALFREDO PANZINI (-), di Senigallia, allievo del Carducci, che elaborò delicati ritratti, eleganti divagazioni, con una prosa cordiale e urbana. Intorno al  si ha una sorta di rilancio della narrativa, legato a una «riscoperta» di Verga e al diffondersi di un nuovo impegno di costruzione romanzesca, propugnato tra gli altri da Borgese (cfr. ..). Ci fu cosí una parziale ripresa di modelli veristici, adattati alle situazioni e alle contraddizioni sociali contemporanee (è il caso del fiorentino BRUNO CICOGNANI, -). Esperienze di tipo espressionistico, basate su un denso fondo linguistico vernacolare, si svolsero con particolare vigore in Toscana, soprattutto in Versilia: significativi sono i racconti del pittore viareggino LORENZO VIANI (-), Gli ubriachi () e I Vàgeri (; il titolo, con parola dialettale, indica vagabondi pronti a tutte le esperienze). Piú a fondo va l’espressionismo di ENRICO PEA (-), di cui va ricordato il ciclo di brevi romanzi, raccolti nel  sotto il titolo Il romanzo di Moscardino: si tratta in particolare di Moscardino (); Il volto santo (); Il servitore del diavolo (); Magoometto (). In essi si intrecciano frammento lirico e costruzione narrativa, con un’alterazione continua dei piani temporali, dei confini tra le età della vita, tra ragione e follia, tra i vari luoghi del mondo.

Un momento di transizione

Alfredo Panzini

Rilancio della narrativa

Lorenzo Viani e Enrico Pea

Il romanzo di Moscardino

... Ancora il classicismo: l’ordine de «La Ronda». Con la rivista romana «La Ronda», pubblicata tra il  e il  (ma cfr. DATI, tav. ), la letteratura del dopoguerra si inaugura all’insegna del «ritorno all’ordine». Un gruppo di scrittori, che avevano attraversato le esperienze della «Voce» e il clima effervescente degli anni Dieci (da Cardarelli, che vi ebbe un ruolo direttivo, a Baldini, Bacchelli, Cecchi, Barilli), esprimono qui insoddisfazione per l’orizzonte tumultuoso e sperimentale del decennio trascorso, per il generale turbamento degli equilibri formali e dei modelli di comportamento intellettuale: lo stesso titolo della rivista, che si riferisce alla «ronda» militare, indica un proposito quasi poliziesco di mettere ordine nel disordine della cultura contemporanea. Alla contestazione e alla ridiscussione continua, all’esaltazione della giovinezza e dell’energia, i rondisti oppongono un’esigenza di maturità: riaffermano l’aspetto istituzionale della letteratura e il rilievo della tradizione. Specialmente per opera di Cardarelli, che redasse il Prologo nel primo numero della rivista e poi vi svolse vari interventi programmatici e polemici, «La Ronda» suggerí un modello di classicismo «moderno», che voleva essere tutto «italiano», ma saltando il passato piú recente e rifacendosi a Leopardi e a Manzoni. Il campo d’azione del classicismo de «La Ronda» fu soprattutto quello della prosa: con l’occhio rivolto in primo luogo al Leopardi delle Operette, la prosa rondista cercò un supremo equilibrio formale, mirò a concentrare in una sapiente eleganza, con una ricchezza di toni e di sfumature, il senso della coscienza intellettuale. Ma questo programma classicistico restò in-

Ritorno all’ordine

Tradizione e istituzione letteraria

Una nuova poetica del frammento

EPOCA



Dignità e marginalità della letteratura

«Valori plastici»



GUERRE E FASCISMO

-

determinato, non riuscí a riempirsi di contenuti, approdò a una nuova poetica del frammento, lontana dall’irruenza espressionistica e dall’intensità lirica del frammentismo vociano. Il frammentismo de «La Ronda» si appoggia su osservazioni e divagazioni intorno a temi spesso marginali, su sguardi verso particolari minuti dell’esistenza, della letteratura, del costume intellettuale (e spesso si risolve in forme giornalistiche, nel tono urbano, distaccato, fatuo e nello stesso tempo pretenzioso dell’elzeviro, cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ). L’ordine vagheggiato dai rondisti resta cosí limitato e asfittico: la loro rivendicazione di valori stabili finisce per accettare la marginalità e l’irrilevanza della letteratura, che pure essi pretendono di difendere e di rilanciare. Le pagine della rivista furono comunque aperte a esperienze di alto livello, non sempre chiuse nello stretto orizzonte classicistico, e notevole fu l’incontro con i propositi di costruzione e di rigore, di ordine moderno, manifestati negli stessi anni nelle arti figurative dalla rivista «Valori plastici», pubblicata dal  al : i suoi animatori, come i pittori CARLO CARRÀ (-), Giorgio De Chirico e Alberto Savinio (cfr. ..) furono anche fra i collaboratori de «La Ronda».

... Gli scrittori de «La Ronda». Vincenzo Cardarelli

Un classicismo «metaforico»

La poesia

Le prose

Nell’opera di VINCENZO CARDARELLI (-) si riassumono i limiti e le contraddizioni de «La Ronda», di cui egli fu l’interprete piú battagliero: figura di intellettuale interamente dedito a una vita di occasioni letterarie, tra conversazioni e polemiche, tra incontri e lunghe soste nelle sale dei caffè, tra collaborazioni ai giornali, al di fuori di un lavoro istituzionale ben definito. Nel solco della «Voce» egli sviluppò una ricerca di analisi morale, attenta a ricavare da situazioni personali, da notazioni frammentarie ed eterogenee significati di piú ampio orizzonte culturale e intellettuale. Un personale bisogno di costruzione e di ordine lo condusse a farsi portabandiera del programma de «La Ronda»: ma il suo è un classicismo tutto voluto e «metaforico», una specie di istanza psicologica, risultato di un’aspirazione astratta all’equilibrio che non corrisponde ai reali fondamenti della sua cultura e non trova appiglio nella sua condizione intellettuale. Dopo l’intreccio tra prosa e poesia dei Prologhi () e di altri volumi, egli separò e raccolse i componimenti poetici in Giorni in piena () e poi nelle Poesie (). Ma la lirica di Cardarelli mantiene i suoi migliori caratteri proprio nell’intreccio con i frammenti in prosa; questa poesia si svolge come una esasperata affermazione di «maturità» (simbolo elementare ne è l’estate), che si esprime in paesaggi naturali e figure umane di levigata immobilità, in un linguaggio scandito e preciso, dietro cui si affaccia qualcosa di inappagato. Un gusto volontaristico e astratto della parola perfetta vi si scontra con rivelazioni di velenosa malinconia. Il meglio di Cardarelli va cercato tra le pieghe delle sue prose (che ebbero un’ultima sistemazione in Solitario in Arcadia, ), in una trama di frammenti autobiografici, descrittivi, aneddotici, saggistici: qui si mescolano l’ambizione di fare di sé un modello culturale, il piacere di ripercorrere paesaggi carichi di segni storici, la tortura di una memoria personale che non riesce mai a ritrovare le proprie radici.

Emilio Cecchi

Come critico e uomo di grande cultura, il fiorentino EMILIO CECCHI (-) sapeva seguire e fissare sulla pagina con eleganza e sensibilità le avventure intellettuali piú diverse; ma arrivando sempre a filtrarle con un disincantato equilibrio, a ridurne i caratteri piú radicali e sconvolgenti, a tradurle in gesti di cultura smaliziata e sapiente.

Civile moderazione

Pieno di sensibilità decadente e di inquietudini romantiche, egli si impegnò a controllarle entro misure di comunicazione cordiale, di civile moderazione, che guardavano al modello tanto lontano del classicismo fiorentino. Dalla conoscenza della cultura inglese egli ricavò poi una

.

LE FORME DELLA PROSA TRA LE DUE GUERRE

buona dose di empirismo, che lo allontanò da generalizzazioni e da schemi ideologici risolutivi, e una disponibilità umoristica, un acuto senso del limite. La sua critica letteraria è essenzialmente descrittiva, presta attenzione alle movenze e alle pieghe nascoste, esplorando lo spessore umano dei testi, cercandovi segni di civiltà, riassumendone i diversi aspetti con intrecci di immagini e di metafore. I suoi frammenti di prosa «creativa», pubblicati sui giornali, furono elaborati con grande cura e raccolti nei volumi Pesci rossi (), L’osteria del cattivo tempo (), Qualche cosa (), Corse al trotto () ecc. Le cose piú marginali e minute vengono qui descritte con cura, con un gusto prezioso della misura stilistica, lasciano emergere segni segreti, risvolti inquietanti, simboli minacciosi, ricoperti però di mille cautele, ammorbiditi nel segno di una paziente naturalezza fiorentina. Dal gruppo degli autori legati a «La Ronda» si svilupparono altre esperienze, anche contrastanti, ma sempre orientate verso una rivendicazione della dignità della letteratura e un rifiuto delle avanguardie. In direzione addirittura opposta al frammentismo della prosa d’arte degli altri rondisti si mosse il bolognese RICCARDO BACCHELLI (-), che si mise sulla via del romanzo storico, seguendo il modello manzoniano, a partire da Il diavolo al Pontelungo (), a cui seguí una serie vastissima di romanzi di considerevole successo, culminata nell’ampio ciclo in tre parti Il mulino del Po (-). Scrittore pletorico e torrenziale, Bacchelli dà prova di un corposo realismo linguistico, costruisce trame complesse con strutture narrative spesso acute e sottili, che mostrano una notevole attenzione alle forme del contemporaneo romanzo europeo. ANTONIO BALDINI (-), romano, è invece uno degli esempi piú rappresentativi di scrittore-giornalista, elaboratore di prose eleganti e leggere. Una vita disordinata fu quella di BRUNO BARILLI (-), marchigiano, il piú «irregolare» tra i rondisti: musicista, critico musicale, giornalista, mosse dal gusto del frammento per creare una prosa in cui la passione per la musica e per il colore si intreccia con una sensualità corposa e delirante, con un senso del vagabondaggio e della dissipazione (si ricordino Delirama, ; Il sorcio nel violino, ; Il paese del melodramma, , e i frammenti dei Capricci di vegliardo, ).



Una critica descrittiva Le opere creative

Riccardo Bacchelli

Antonio Baldini L’«irregolare» Bruno Barilli

... La letteratura del fascismo tra polemiche, schieramenti, programmi. Solo alcune delle tendenze della cultura fascista (cfr. ..) ebbero qualche esito interessante sul piano letterario e artistico. Il regime finí per sostenere orientamenti letterari vari e diversi, purché si ponessero sotto il segno dell’ufficialità e offrissero l’immagine di una vigorosa letteratura nazionale.

Orientamenti ufficiali

Una battaglia per scelte letterarie piú precise, in rapporto alle tendenze del fascismo, si svolse negli anni Venti sui due opposti schieramenti del «populismo antiborghese» e del «novecentismo»: espressione del primo fu la rivista «Il Selvaggio», nata a Colle Val d’Elsa, presso Siena, nel , per iniziativa dell’incisore e disegnatore MINO MACCARI (-), che con violenta aggressività tendeva a dar voce agli spiriti ribellistici e «teppistici» del fascismo, suggerendo la ripresa dei piú antichi modelli della cultura patriarcale e contadina, attinta nel fondo della campagna toscana: la rivista (che cambiò spesso luogo di edizione e negli anni Trenta ebbe sede a Roma) fu strumento per la diffusione di un costume di deformazione caricaturale, per l’esplosione di gesti eccessivi e plateali. Dalle sue pagine il Maccari, sotto il nome di Orco Bisorco, lanciò nel  il movimento di Strapaese, che si proponeva appunto di esaltare i valori rivoluzionari dello spirito paesano e nazionale, in opposizione allo spirito industriale, moderno e cittadino, a cui fu attribuita l’etichetta di Stracittà. La proposta di un’attenzione alla modernità, di un’apertura internazionale della cultura e dell’arte italiane, legata a una visione del fascismo proiettata verso il futuro industriale, ma senza gli orizzonti distruttivi del futurismo, venne elaborata nella rivista «» di Bontempelli, na-

«Il Selvaggio» di Maccari

«Strapaese» e «Stracittà»

«» di Bontempelli

EPOCA



Curzio Malaparte

Leo Longanesi

Le riviste fiorentine

«Primato»



GUERRE E FASCISMO

-

ta nel , che vide anche la collaborazione di CURZIO MALAPARTE (pseudonimo di KURT ERISUCKERT, di origine tedesca, nato a Prato, -). In lui si esprime una degenerazione estrema del protagonismo intellettuale e del vitalismo dell’inizio del secolo. Dopo la militanza in «», s’impegnò polemicamente dalla parte degli «strapaesani»; negli anni Trenta entrò in sospetto allo stesso regime fascista, prendendo poi, anche nel dopoguerra, posizioni politiche sempre clamorose e paradossali. Fiancheggiatore di Strapaese fu anche, con la rivista «L’Italiano», nata nel , il romagnolo LEO LONGANESI (-), giornalista abile e curioso, spirito caustico e polemico, fascista capace di criticare certi aspetti del regime. Nel corso degli anni Trenta, tentativi di definire una letteratura legata al fascismo si ebbero in alcune riviste fiorentine, costrette a fare i conti con la piú vivace attività intellettuale del capoluogo toscano: in particolare «L’Universale» di BERTO RICCI (-) e il settimanale della Federazione fascista fiorentina, «Il Bargello». Queste riviste mostrano ancora l’esplicita volontà di appoggiarsi su un’ideologia che si qualifica come «fascista»: ciò non si può piú dire per le prospettive letterarie dell’ultima rivista ufficiale del fascismo, «Primato», per cui il fascismo fu solo un punto di riferimento istituzionale. In essa, che il direttore Bottai (cfr. ..) cercava di inscrivere sotto la formula di «coraggio della concordia», suscitando la collaborazione di molti intellettuali defilati dal regime, si espresse una giovane cultura insoddisfatta e sempre piú critica verso il fascismo, aperta a esperienze nuove ed eterogenee. CH

... La «modernità» di Massimo Bontempelli. Avanguardia e pubblico di massa

L’impegno teatrale

«»: il pubblico e il moderno

Nell’esperienza di MASSIMO BONTEMPELLI, nato a Como nel  e morto a Roma nel , il rapporto con la modernità comporta un proposito di costruzione, con la ricerca di un’arte destinata a una società e a un pubblico di massa: con il programma di «» (cfr. DATI, tav. ) e poi con tutta la sua opera mira a introdurre e a far circolare l’insegnamento delle avanguardie nella comunicazione sociale. Egli cerca «un’avanguardia con altissimo indice di socialità» (L. Baldacci), una vera «arte applicata»: assai stretto è del resto il suo rapporto con l’attività degli artisti degli anni Venti, con i vari tentativi delle arti del tempo di imporre una razionalità moderna che da un confronto con l’esperienza delle avanguardie ricavasse l’affermazione di nuove forme della visione e della comunicazione. Vicini alla matrice futurista sono i due «romanzi» La vita intensa. Romanzo dei romanzi (), che risulta dalla giocosa giustapposizione di dieci brevissimi romanzi «d’avventura», e La vita operosa (), serie di vicende comiche sullo sfondo della Milano del dopoguerra dominata da un affarismo senza misura. La comicità di questi romanzi si appoggia su una serie continua di sorprese, di incongruità e di paradossi, di usi impropri delle cose e delle persone, si basa su scomposizioni che rivelano l’assoluta imprevedibilità della vita cittadina, in una prosa semplice, quasi levigata, che pare il risultato di un gioco abilissimo, ma un po’ fatuo, indifferente ai significati che pure potrebbero emergere dalla realtà rappresentata. Lasciano un segno piú intenso i successivi romanzi La scacchiera davanti allo specchio (), con la vicenda di un viaggio attraverso le immagini di uno specchio, ed Eva ultima (), in cui una marionetta si rivela piú autentica di tanti personaggi reali, fissati nella condizione di «maschere» pirandelliane. Notevole fu l’impegno di Bontempelli nel teatro, anche per il suo rapporto con Pirandello, che lo portò a tradurre le composizioni e le invenzioni del maestro nella chiave di una comicità esile e bislacca. Il risultato migliore fu raggiunto da Nostra Dea, rappresentata a Roma il  aprile , che ha al centro una figura femminile che cambia aspetto e carattere secondo il vestito che indossa. Con «», la rivista da lui fondata nel  e durata fino al  (cfr. DATI, tav. ), Bontempelli cercò di tradurre su un piano programmatico il suo gusto spontaneo, privo di una vera carica critica: la ricerca di un rapporto con il mondo moderno non si risolveva né in una scelta di temi né in una sperimentazione stilistica (come accadeva nel futurismo), ma metteva al

.

LE FORME DELLA PROSA TRA LE DUE GUERRE

centro il rapporto con il pubblico. Ciò si riassumeva nella formula del realismo magico, che mirava a una narrativa tesa a ricavare prospettive mitiche e magiche dalla realtà moderna. Bontempelli collegava questo programma a una concezione della storia che vedeva sorgere nella società moderna una «terza età» che mutava i connotati tradizionali del tempo e dello spazio, e in cui nuovo compito dell’uomo doveva essere quello di «creare oggetti, da collocare fuori di noi, bene staccati da noi, e con essi modificare il mondo». Egli però non riusciva a riempire di veri contenuti questo ambizioso disegno: ma varie furono le riflessioni critiche e programmatiche, raccolte piú tardi nel volume L’avventura novecentista (). Nel suo lavoro di scrittore Bontempelli continuò a cercare congegni narrativi artificiosi, intrecci esasperati: in questo senso interessano i romanzi in cui egli manipolò abilmente (cercando di raggiungere un pubblico di massa) i motivi piú consunti della narrativa popolare e d’appendice, Il figlio di due madri (), Vita e morte di Adria e dei suoi figli (), Gente nel tempo ().

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Realismo magico

Bontempelli scrittore

... Problematicità di Corrado Alvaro. La produzione letteraria di CORRADO ALVARO, nato a San Luca d’Aspromonte nel  e morto a Roma nel , costituí una delle prime manifestazioni di un nuovo realismo che per lui, meridionale, ebbe un essenziale modello in Verga, ma che, per la vicinanza con Pirandello e con le prospettive di «», si allargò verso suggestioni liriche e fantastiche, trasponendo le vicende narrate in significati assoluti, in un orizzonte mitico carico di risonanze personali e autobiografiche e complicato da un’ostinata problematicità. Lo scrittore, che aveva scelto di vivere la realtà moderna e si era allontanato dalla sua terra, prendeva avvio dalla distanza irriducibile e dagli scontri inevitabili tra la realtà calabrese, ancora chiusa nei suoi valori e nella sua miseria senza tempo, e la realtà del mondo industriale e cittadino; risalendo alle proprie radici nell’infanzia e nell’adolescenza, ritrovava una memoria che non offriva dolcezza e consolazione, ma era segnata dallo scontro tra la nostalgia per quel mondo primitivo e incontaminato e lo sforzo di uscire dalla sua secolare arretratezza e violenza. In una varia produzione di racconti (si ricordi il volume L’amata alla finestra, ) Alvaro rappresentò sia la vita contadina sia quella cittadina, soprattutto nel viluppo di malesseri e di desideri che costituisce l’esperienza di giovani e di adolescenti. Il romanzo breve Gente in Aspromonte () può considerarsi l’opera migliore di Alvaro, con la narrazione incalzante di una vicenda di oppressione, di impegno per il riscatto sociale, di rivolta vendicatrice, legata alla scoperta della violenza della realtà da parte di un adolescente calabrese (sullo sfondo di paesaggi e rapporti umani visti con una suggestiva carica lirica e mitica). Un orizzonte completamente diverso è quello del romanzo L’uomo è forte (), scritto dopo un viaggio nella Russia sovietica e rivolto a rappresentare il carattere allucinato di una società totalitaria. Carattere direttamente autobiografico hanno i tre romanzi del ciclo Memorie del mondo sommerso, che seguono la vita di Rinaldo Diacono, dall’infanzia e dall’adolescenza trascorse in un paese del meridione e in un collegio nelle vicinanze di Roma (il primo romanzo del ciclo, L’età breve, , fu il solo compiuto e pubblicato dall’autore).

Un nuovo realismo

Gente in Aspromonte

Memorie del mondo sommerso

... «Solaria» e le riviste fiorentine. Dalla seconda metà degli anni Venti, Firenze tornò a essere, come ai tempi della «Voce», il centro di richiamo per molti scrittori delle nuove generazioni: tale animazione trovò espressione in numerose riviste, nell’attività della casa editrice Vallecchi, in quella di una libera istituzione culturale come il Gabinetto Vieusseux (diretto da Montale dal  al , cfr. ..), in luoghi d’incontro animatissimi come il celebre caffè delle Giubbe Rosse.

Il nuovo primato fiorentino

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THOMAS MANN. LA MONTAGNA INCANTATA IL CANONE EUROPEO

tav. 227

UN ROMANZO CHE INTERROGA I NODI DELLA CULTURA CONTEMPORANEA Tra tutti i grandi narratori del Novecento, il tedesco Thomas Mann (Lubecca -Zurigo ) è forse quello che comunica un piú vasto senso di totalità e di pienezza: che crede ancora fino in fondo nel romanzo come forma aperta e problematica, rivolta a interrogare i nodi piú complessi e laceranti della cultura contemporanea, con uno sguardo pronto a riconoscere sia le contraddizioni e le complicazioni della psicologia individuale che i volti molteplici e cangianti della realtà esterna, con una passione inesauribile per l’atto stesso del raccontare, che sa toccare le corde piú diverse, dalla tensione tragica al divertimento umoristico, al puro piacere di inventare e giocare con i personaggi. Nei suoi romanzi e racconti egli associa un impegno artigianale che non viene mai meno, una cura assoluta per la costruzione, a un’attenzione ai grandi problemi intellettuali, alle prospettive della cultura e della civiltà europea: analizza le piú varie forme della crisi e della decadenza, la minaccia della malattia e del disfacimento che gravano su di esse, ma dal punto di vista di una coscienza che vuol essere ancora «sana», una coscienza di «grande borghese» legato ai valori ottocenteschi, che mira a controllare la complessità del mondo, senza farsene sfuggire gli aspetti piú inquietanti. Il primo grande romanzo, Buddenbrooks, , è quello piú denso di eventi narrativi, con la storia della decadenza di una famiglia borghese di Lubecca; tra i numerosi racconti e romanzi brevi successivi, un rilievo particolare hanno Tonio Kröger, , sul tema della «diversità» dell’artista nei confronti della morale borghese, e Der Tod in Venedig (“La morte a Venezia”, ), con la vicenda del serio professore che cede al richiamo degli istinti piú distruttivi. LA TRAMA Alla tematica della malattia è dedicato il grande romanzo Der Zauberberg (“La montagna incantata”), elaborato a partire dal  e pubblicato nel , che si svolge interamente nel Berghof, un lussuoso albergo-sanatorio a Davos, tra le montagne della Svizzera, di cui il narratore fa una sorta di luogo «separato» in cui si agitano i problemi e le grandi lacerazioni dell’Europa e della sua cultura negli anni che precedono la prima guerra mondiale, mentre il tempo scorre in modi inconsueti (e molto sottile è l’uso che del tempo viene fatto nel corso del romanzo, che si può considerare anche un romanzo sul tempo). Il protagonista Hans Castorp è un giovane ingegnere che giunge al sanatorio solo per un breve soggiorno, in visita al cugino Joachim Ziemssen, militare malato di tisi lí ospitato; sperimentando le usanze dell’ambiente, il ritmo di vita regolato e metodico, tanto diverso da quello della «pianura», Castorp si sente come catturato dalla malattia, che si insinua subito in lui e viene identificata da una visita del direttore della casa di cura, il vulcanico Behrens: resta cosí anche lui ospite del Berghof. Il romanzo si svolge sulla base di pochissimi eventi, con la descrizione della vita dell’albergo e dei suoi ospiti, delle sensazioni e degli incontri di Castorp, con tutta una serie di discussioni sulle piú varie tematiche culturali: si tratta di un fluviale romanzo-saggio, che fa scaturire gli eventi dagli stessi dibattiti intellettuali. Castorp entra in contatto con problemi e punti di vista che nella sua normale vita borghese non aveva mai considerato, si apre alla conoscenza di ambiti dell’esperienza che gli erano completamente ignoti. Riceve una vera iniziazione politico-culturale dai colloqui con l’italiano Settembrini, letterato «umanista», ammiratore di Carducci, erede della tradizione laica, democratica e razionalista; in un secondo momento si aggiunge un personaggio dalle posizioni del tutto diverse, che si impegna in accanite discussioni con Settembrini, il gesuita di origine ebraica Naphta, che a un irrazionalismo che esalta il Medioevo e il cattolicesimo associa l’ipotesi di un futuro dominato dalle masse proletarie, pronte a distruggere l’umanesimo e la democrazia borghese. L’ingenuo Castorp, «pupillo della vita», sembra cercare una sua strada tra questi due modelli opposti: ma su di lui agisce con forza il richiamo dell’eros, con l’amore per un’ospite del sanatorio, la russa Clavdia Chauchat, dal fascino singolare e carico di mistero, in cui egli rivede l’immagine di un compagno di scuola da lui morbosamente ammirato: ha un primo colloquio con lei durante una festa di carnevale, dopo la quale ella resta a lungo assente, tornando poi accompagnata dall’olandese Peeperkorn, la cui personalità sensuale e invadente affascina Castorp. Negli anni che passano Castorp assiste a cambiamenti e a perdite di personaggi vicini (dopo esser tornato alla vita militare, il cugino Joachim torna nel sanatorio e vi muore; Peeperkorn e Naphta arriveranno in modi diversi al suicidio; la Chauchat sparisce dalla scena senza lasciar tracce di sé): ma, giunto a conquistare una sua coscienza, a riconoscersi proprio grazie alla distanza da cui, nell’incanto ambiguo di quel luogo montano, ha potuto guardare alla vita «laggiú», dopo sette anni, nel  Castorp viene travolto, con tutta l’Europa, nella ca-

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tastrofe della guerra, a cui parteciperà, senza che l’autore voglia dirci quale sarà il suo destino. Al destino dell’Europa e della sua cultura, come al disastro della Germania caduta sotto il nazismo (che Mann combatté dall’esilio americano) sono dedicati i grandi romanzi successivi, dal ciclo Joseph und seine Brüder (“Giuseppe e i suoi fratelli”, costituito da quattro romanzi usciti tra il  e il ), al Doktor Faustus, , storia del musicista Adrian Leverkühn, inquieto confronto con il nichilismo dell’arte moderna, segnato da un rapporto «con il diavolo» in cui si può riconoscere un segno della tragica follia della Germania contemporanea. Il testo Il romanzo inizia con l’arrivo di Hans Castorp a Davos, preceduto dall’indicazione dell’ultima fase del viaggio, in cui si sottolinea l’ascesa che esso comporta e l’allontanamento dalla vita normale, misurato del resto dalla stessa durata del viaggio: nel movimento e nella lunghezza del viaggio si dà già un relativo oblio della vita normale da parte del protagonista. Fin da ora sentiamo aleggiare il fascino della distanza, dell’affidarsi a un luogo da cui il mondo si può guardare e capire in prospettiva, proprio perché dall’alto, dal confine di un’esistenza che si svolgerà sotto il segno della malattia e della cura. [EDIZIONE: Thomas Mann, La montagna incantata, trad. italiana di E. Pocar, Corbaccio, Milano ]

Un semplice giovanotto era partito nel colmo dell’estate da Amburgo, sua città natale, per Davos-Platz nel Canton Grigioni. Andava in visita per tre settimane. Da Amburgo fin lassú però il viaggio è lungo, troppo lungo, a dir il vero, per un soggiorno cosí breve. Si passa attraverso parecchi paesi, in salita e in discesa, dall’altipiano della Germania meridionale sin giú alle rive del «Mare svevo» e con il battello sulle sue onde tremolanti, sopra abissi che un tempo erano considerati inesplorabili. Di lí il viaggio si fraziona dopo esser progredito comodamente per linee dirette. Si hanno interruzioni e intoppi. Nei pressi di Roschach, località in territorio svizzero, ci si affida di nuovo alla ferrovia, ma si arriva soltanto fino a Landquart, una piccola stazione alpina dove si è costretti a cambiare treno. Dopo una sosta piuttosto lunga in quella zona ventosa e poco attraente, si prende una linea a scartamento ridotto, e nel momento in cui la locomotiva, piccola ma, come si vede, dotata d’insolita potenza di trazione, si mette in moto, comincia la parte propriamente avventurosa del viaggio, una salita ripida e costante che pare non debba finire mai. Infatti la stazione di Landquart si trova a un’altezza relativamente modesta; ora invece, per una via scoscesa tra rocce selvagge, si monta davvero verso l’alta montagna. Hans Castorp (cosí si chiamava il giovane), con una valigetta di coccodrillo, dono del suo tutore e zio, il console Tienappel (per dire subito anche questo nome), con il suo cappotto invernale, che

oscillava appeso a un gancio, e la coperta da viaggio arrotolata, si trovava solo sui cuscini grigi di un piccolo compartimento; teneva il finestrino aperto e, siccome il pomeriggio si faceva sempre piú fresco, il figlio di papà, delicatuzzo com’era, aveva alzato il bavero del soprabito estivo, ampio secondo la moda e foderato di seta. Sul sedile, accanto a lui c’era un libro in brossura, intitolato Ocean steamships che al principio del viaggio egli aveva ogni tanto compulsato: ora invece stava là trascurato, mentre l’invadente respiro della locomotiva ansimante ne insudiciava la custodia con bruscoli di carbone. Due giornate di viaggio allontanano l’uomo (specie l’uomo giovane le cui radici sono ancora poco abbarbicate alla vita) dal mondo di tutti i giorni, da quelli che egli considerava doveri, interessi, affanni, previsioni, assai piú di quanto non abbia immaginato mentre la carrozza lo portava alla stazione. Lo spazio che rotando e fuggendo si dipana fra lui e la sua residenza sviluppa forze che di solito si credono riservate al tempo; di ora in ora provoca mutamenti interiori molto simili a quelli attuati dal tempo, che però in certo modo li superano. Come quest’ultimo, esso genera oblio, ma lo fa staccando la persona dai suoi rapporti e trasportando l’uomo in uno stato di libertà originaria… anzi, trasforma in un baleno persino il pedante borghese in una specie di vagabondo. Il tempo, si dice, è oblio; ma anche l’aria delle lontananze è un filtro dello stesso genere, e se anche dovesse agire meno a fondo, in compenso lo fa con maggiore rapidità.

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FRANZ KAFKA. IL PROCESSO IL CANONE EUROPEO

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UNA DELLE IMMAGINI PIÚ INQUIETANTI DEL NOVECENTO Nelle opere dell’ebreo praghese di lingua tedesca Franz Kafka (nato nel , morto nel sanatorio di Kirling, presso Vienna, nel ), in gran parte da lui lasciate inedite, con la disposizione che andassero distrutte, ma pubblicate poi dall’amico Max Brod (-), si concentra una delle immagini piú inquietanti della condizione della cultura e della società del Novecento, con situazioni misteriose e prive di motivazioni comprensibili, con leggi di cui non si conoscono le regole, con ricerche che non conoscono la loro destinazione, con annunci di catastrofi e di esiti micidiali di cui non si rintracciano le cause. In questi scritti il mondo piú normale e quotidiano e la stessa vita della borghesia dell’impero austro-ungarico di cui Praga faceva parte (e lo stesso Kafka fu per vari anni impiegato in una compagnia di assicurazioni) vede sorgere dal proprio seno gli eventi piú abnormi e fantastici, in termini che sempre aggrediscono l’individuo, lo privano della sua consistenza e della sua dignità, lo sottopongono a vessazioni e violenze inaudite, sullo sfondo di atmosfere che sono diventate proverbiali (e l’aggettivo kafkiano, da tempo di uso comune, serve per designare le situazioni inquietanti e indecifrabili, minacciose nella loro irrealtà e nella loro inspiegabilità). È facile riconoscere in queste situazioni, rappresentate con una tensione assoluta, con un senso di sospensione, di attesa, di catastrofe incombente, essenziali immagini della crisi della cultura europea, visioni quasi profetiche della lacerazione dell’Europa nella prima metà del Novecento, dell’annullamento dell’individuo da parte dei regimi totalitari, della burocratizzazione dell’intera vita civile, della stessa persecuzione che poco dopo avrebbe colpito il popolo ebreo. Ma se pure è facile riconoscere in quest’opera questa prefigurazione angosciosa di una crisi radicale, è anche vero che essa sembra mantenere qualcosa di misterioso e di insondabile, che suscita una molteplicità di interpretazioni, spesso contrastanti e opposte. Essa ha i suoi momenti fondamentali in numerosi racconti di varia estensione, tra cui il celeberrimo Die Verwandlung (“La metamorfosi”), pubblicato nel , storia di un impiegato che, al risveglio mattutino, si trova trasformato in uno scarafaggio, e i tre romanzi inediti pubblicati poi da Brod, Amerika (iniziato nel , edito nel ), Der Prozess (“Il processo”, scritto nel -, edito nel ), Das Schloss (“Il castello”, , edito nel ). L’ESEMPLARITÀ DE «IL PROCESSO» Tra i romanzi, Il processo, il primo a essere pubblicato da Brod, è quello piú esemplare, con la vicenda, narrata come in una cronaca agghiacciante, segnata dall’attesa dell’orrore, del funzionario di banca Josef K., che, svegliandosi una mattina, viene dichiarato in arresto da due emissari di un misterioso tribunale, che istituisce un processo contro di lui, senza che egli riesca a intuirne le motivazioni e senza che si possa conoscere la colpa di cui è accusato. Egli non viene veramente arrestato, ma è costretto a subire le piú varie disposizioni del tribunale, che si trova in luoghi sordidi, dove appaiono giudici e funzionari viscidi e corrotti, e, dopo una iniziale sicurezza della propria innocenza, finisce per essere catturato da questo meccanismo perverso e indecifrabile, trascura il suo lavoro e cade in una angosciosa solitudine, in attesa di una condanna a cui non riesce a sottrarsi. Alla vigilia del suo trentunesimo compleanno gli si presentano due signori vestiti di nero, che sembrano «vecchi attori di terz’ordine», che lo conducono alle porte della città e lo uccidono «come un cane», senza che sia stata pronunziata nessuna sentenza. La tematica della colpa e della legge, qui e in tutta la narrativa di Kafka, ha radici molteplici: c’è il difficile rapporto che l’autore ha con l’autorità e con la vita sociale, il senso di esclusione e di solitudine che egli sente nella sua vita privata e nei suoi rapporti personali, la particolarità della sua posizione nei confronti delle diverse tendenze dell’ebraismo, l’importanza che nella religione ebraica assume la tematica della legge ecc. Interpretazioni diverse sorgono dalla scelta di privilegiare l’una o l’altra di queste radici: interpretazioni in chiave sociologica, che vedono nel romanzo una critica all’oppressione burocratica, alla violenza cieca della società amministrata; in chiave psicoanalitica, che vi vedono un senso di colpa verso l’autorità paterna, o i fantasmi della propria insufficienza rispetto ai valori dominanti, o verso la sfera ero-

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tica e sessuale; in chiave religiosa, che vi vedono una parabola dell’insondabilità della legge divina, in termini che avvicinano alla sapienza segreta della cabala ecc. In ogni modo, è evidente che la colpa del personaggio Josef K. «è quella di non avere alcuna colpa. La sua angoscia quella di non poter confessare»: e mentre i rappresentanti del tribunale hanno qualcosa di immondo e di sordido, rappresentano l’impurità del mondo sociale, l’eroe «si presenta superbo della propria innocenza e della propria purezza», ma in ciò consiste la sua colpa: «egli è colpevole proprio perché… egli è effettivamente innocente» (Baioni). È insomma l’individuo solo, che il mondo sociale condanna proprio per il suo rimanere ai margini, per il suo non volersi compromettere con la volgarità e la meschinità della vita collettiva. Il testo Si riportano le battute iniziali del romanzo, che, senza presentare in nessun nodo il personaggio, fa subito riferimento al suo arresto determinato da una calunnia. Il racconto dell’evento (che si rivelerà non essere un vero e proprio arresto, ma la visita di due personaggi che gli comunicano che è iniziato un procedimento a suo carico) si svolge tutto dal punto di vista del protagonista e prende avvio dalla rottura di una consuetudine mattutina, quella del ricevimento della colazione da parte della cuoca. A questa frattura del ritmo consueto si collega lo sguardo curioso della vecchia dirimpettaia (affacciata alla finestra della casa di fronte). Poi, dopo che K. ha suonato il campanello per chiamare la cuoca che non è venuta, appare il primo dei due emissari del tribunale, con un atteggiamento di padronanza su di lui e con totale indifferenza alle sue esigenze, manifestata poi dall’atto con cui chiama in causa il suo collega, aprendo la porta, e dalle risatine successive. Perfino un atto quotidiano come la colazione diventa impossibile, e questa impossibilità viene comunicata con aria burocratica, in Tone einer Meldung, «con il tono di una notificazione». [EDIZIONE: Franz Kafka, Il processo, traduzione a cura di A. Raja, Feltrinelli, Milano ]

Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato. La cuoca della signora Grubach, sua affittacamere, che ogni giorno verso le otto gli portava la colazione, questa volta non venne. Non era mai accaduto. K. aspettò ancora un poco, dal suo guanciale vide la vecchia dirimpettaia che lo osservava con una curiosità in lei del tutto inusuale, quindi, contrariato e affamato nello stesso tempo, suonò il campanello. Subito bussarono ed entrò un uomo che non aveva mai visto in quella casa. Era snello e tuttavia ben piantato, indossava un vestito nero aderente che, al pari degli abiti da viaggio, era provvisto di varie pieghe, tasche, fibbie, bottoni e una cintura, sicché appariva particolarmente pratico pur non essendo chiaro a cosa potesse servire. «Chi è lei?» chiese K. e

subito si mise a sedere mezzo dritto nel letto. Ma l’uomo sorvolò sulla domanda, come se tollerare la sua apparizione fosse necessario, e dal canto suo disse soltanto: «Ha suonato?» «Anna dovrebbe portarmi la colazione», disse K. e cercò, in un primo tempo tacendo, di stabilire con l’attenzione e la riflessione chi fosse quell’uomo. Questi però non si espose troppo a lungo ai suoi sguardi, ma si volse verso la porta e l’aprí appena per dire a qualcuno, che evidentemente se ne stava proprio là dietro: «Vuole che Anna gli porti la colazione». Seguirono certe risatine nella stanza accanto, dal suono non si capiva con sicurezza se di una o piú persone. Benché l’estraneo non potesse aver appreso nulla che non sapesse già, tuttavia disse a K. con il tono di una notificazione: «È impossibile».

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MARCEL PROUST. ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO IL CANONE EUROPEO

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Il grande capolavoro di Marcel Proust (Parigi, -), A la recherche du temps perdu (“Alla ricerca del tempo perduto”) sembra come riassumere entro di sé la storia del romanzo europeo: ne riavvolge le forme, intrecciando nel modo piú stretto la rappresentazione della realtà, la piú sottile indagine interiore, la tensione lirica e descrittiva, l’abbandono sentimentale, la riflessione sulle contraddizioni dei comportamenti. Appartenente alla ricca borghesia parigina (con madre di famiglia ebrea), Proust frequentò gli ambienti letterari di fine Ottocento e visse la vita mondana dei salotti eleganti; di salute malferma, scrisse opere critiche e iniziò nel  un romanzo rimasto incompiuto (Jean Santeuil) che in parte confluí nell’opera maggiore; dopo essersi installato nel  in un appartamento del boulevard Haussmann tappezzato di sughero, dal  si dedicò alla scrittura della prima parte di quella che doveva diventare un’opera ciclica, un insieme di sette romanzi a cui lavorò, con una vicenda compositiva molto complessa, fino alla morte, senza poter sistemare definitivamente le ultime parti, pubblicate postume. Questo l’ordine e le date di pubblicazione dei sette romanzi: Du côté de chez Swann (“La strada di Swann”, ), A l’ombre des jeunes filles en fleur (“All’ombra delle fanciulle in fiore”, ), Le côté des Guermantes (“I Guermantes”, -), Sodome et Gomorrhe (“Sodoma e Gomorra”, ), La prisonnière (“La prigioniera”, ), La fugitive (“La fuggitiva”, , ma apparso allora con il titolo Albertine disparue, “Albertine scomparsa”), Le temps retrouvé (“Il tempo ritrovato”, ). In questo insieme di romanzi sottilmente intrecciati tra loro la voce di un narratore immerso negli eventi, che ha nome Marcel e che coincide con l’autore (che però riveste i propri dati biografici di tutta una serie di schermi e di invenzioni), comincia con il rievocare il mondo della propria infanzia, risalendo poi alle vicende di due diverse famiglie di cui raggiungeva le strade durante le passeggiate di allora: quella di Swann, messo al bando dalla grande società per aver sposato Odette de Crécy (la seconda parte del primo romanzo, che narra la storia del loro amore, costituisce come un romanzo nel romanzo, dal titolo Un amour de Swann, “Un amore di Swann”), e quella dei grandi aristocratici Guermantes. Le vicende del ciclo si snodano con un soggiorno nella lussuosa spiaggia di Balbec in Normandia e la frequentazione del salotto dei Guermantes a Parigi, con varie vicende amorose che riguardano sia il narratore che vari personaggi (si distinguono vari amori omosessuali, tra cui quelli del barone di Charlus): in questi amori agiscono in modo lacerante la gelosia, un senso di consunzione, un’aspirazione al possesso accompagnato dalla verifica della sua impossibilità, un degradarsi della passione e un suo riavvolgersi su se stessa (e un rilievo piú ampio assume la vicenda dell’amore del narratore per Albertine, che egli tiene come prigioniera e di cui poi soffre la fuga e la morte). Nel flusso del tempo e della sua durata (e nell’ultimo romanzo si inseriscono gli eventi della prima guerra mondiale), emerge con affascinante evidenza il richiamo dell’arte, capace di dare un senso alla vita che si frantuma nelle sue molteplici vicende, nella frivolezza delle occasioni mondane, nella vanità delle passioni, in tutto ciò che vanamente si perde: e le immagini centrali dell’esperienza artistica sono date dalle figure dello scrittore Bergotte e del musicista Vinteuil. Tra gli amori e le persone che si perdono e svaniscono, alla fine della guerra il narratore trova improvvisi momenti di gioia nel riconoscere in piccole emergenze della realtà (come l’irregolarità di un pavimento o il tintinnio di un cucchiaino) tracce e segni del passato: e decide di scrivere l’opera rivolta a ritrovare quel passato, opera che in realtà è stata da lui già scritta e che cosí si conclude come ritornando al suo inizio, riavvolgendosi su di sé come in un cerchio. Secondo la logica data da questa immagine del cerchio, la narrazione della Recherche non si svolge in modo lineare, ma attraverso una serie di presentazioni parziali e sfumate, di movimenti in piú direzioni nello spazio e nel tempo, seguendo punti di vista di diversi personaggi, indagando sulle loro possibili ragioni, senza che mai si presenti un’immagine assoluta e oggettiva della realtà rappresentata; sono le «intermittenze del cuore» a far procedere il racconto, a creare diversioni e ritorni. La verità dell’esperienza sorge da atti, gesti, incontri, sensazioni involontarie; ed è la memoria stessa a costruire la realtà, a voler riafferrare e trasmettere la sua sostanza concreta (in termini che in parte riconducono alla filosofia di Bergson: cfr. ..), i profumi e i colori delle cose e dei gesti, che il narratore segue con un linguaggio sinuoso e avvolgente, con una sintassi che si piega e si distende, ricca di incisi, di prolungamenti, di affascinanti esitazioni (è la famosa «frase lunga» proustiana). E pur concentrandosi quasi esclusivamente sul mondo dell’alta società, questo immenso capolavoro (con cui nel Novecento è venuta a confrontarsi tanta letteratura della «memoria») arriva a darci un’immagine assoluta della vita sociale, dei sottili meccanismi che

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regolano i rapporti tra gli esseri umani, degli inganni e delle menzogne della passione: con un senso tutto particolare del valore della vita e della bellezza, con una sfida ai limiti effimeri della condizione umana, tra le piú grandi che siano state fatte dalla letteratura di tutti i tempi. Il testo Il primo capitolo de La strada di Swann è dedicato al ricordo della vita nell’infanzia nel villaggio di Combray (che adombra quella effettivamente vissuta dall’autore a Illiers, nella Beauce, non lontano da Chartres), con la presenza affettuosa e calda di figure femminili, dalla madre amata in modo struggente alla nonna, alla zia Léonie, alla domestica Françoise: ma vi si affaccia anche Swann, con i discorsi su di lui e le suggestioni che la sua persona lascia nella fantasia del bambino. Il narratore aggiunge poi che per lungo tempo non era riuscito ad avere un’autentica immagine di questo passato di Combray, quando a un certo punto, un giorno d’inverno, al rientro a casa la madre gli ha offerto del tè con dei piccoli dolcetti a forma di conchiglie, le piccole madeleines, che hanno suscitato in lui un «piacere delizioso» di cui si è domandato le ragioni, fino al punto in cui è sorto in lui il ricordo di cui si parla nel celeberrimo brano che qui riportiamo (con la traduzione di Natalia Ginzburg). La madeleine, con il suo sapore e con il suo profumo, gli ha portato, con la memoria, le tracce di vite e di mondi perduti: torna il sapore della madeleine inzuppata nel tiglio che al bambino offriva la zia Léonie, e con esso torna il mondo intero di cui tratta il romanzo. Questo piccolo biscotto, attraverso questa pagina, è diventato un vero e proprio luogo dello spirito: e ora anche nel linguaggio corrente la madeleine evoca la fascinazione della memoria, il ritorno di immagini del passato attraverso sensazioni suscitate da piccoli segni, da cose in apparenza marginali e trascurabili. [EDIZIONE: Marcel Proust, A la recherche du temps perdu, a cura di J.-Y Tadié, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris,  voll. - (vol. I, )]

Et tout d’un coup le souvenir m’est apparu. Ce goût, c’était celui du petit morceau de madeleine que le dimanche matin à Combray (parce que ce jour-là je ne sortais pas avant l’heure de la messe), quand j’allais lui dire bonjour dans sa chambre, ma tante Léonie m’offrait après l’avoir trempé dans son infusion de thé ou de tilleul. La vue de la petite madeleine ne m’avait rien rappelé avant que je n’y eusse goûté; peut-être parce que, en ayant souvent aperçu depuis, sans en manger, sur les tablettes des pâtissiers, leur image avait quitté ces jours de Combray pour se lier à d’autres plus récents; peut-être parce que de ces souvenirs abandonnés si longtemps hors de la mémoire, rien ne survivait, tout s’était désagrégé; les formes, – et celle aussi du petit coquillage de pâtisserie, si grassement sensuel, sous son plissage sévère et dévot – s’étaient abolies, ou, ensommeillées, avaient perdu la force d’expansion qui leur eût permis de rejoindre la conscience. Mais, quand d’un passé ancien rien ne subsiste, après la mort des êtres, après la destruction des choses, seules, plus frêles mais plus vivaces, plus immatérielles, plus persistantes, plus fidèles, l’odeur et la saveur restent encore longtemps, comme des âmes, à se rappeler, à attendre, à espérer, sur la ruine de tout le reste, à porter sans fléchir, sur leur gouttelette presque impalpable, l’édifice immense du souvenir.

E a un tratto il ricordo m’è apparso. Quel sapore era quello del pezzetto di maddalena che la domenica mattina a Combray (giacché quel giorno non uscivo prima della messa), quando andavo a salutarla nella sua camera, la zia Léonie mi offriva dopo averlo bagnato nel suo infuso di tè o di tiglio. La vista della focaccia, prima d’assaggiarla, non m’aveva ricordato niente; forse perché, avendone viste spesso in seguito, senza mangiarle, sui vassoi dei pasticceri, la loro immagine aveva lasciato quei giorni di Combray per unirsi ad altri giorni piú recenti; forse perché di quei ricordi cosí a lungo abbandonati fuori della memoria, niente sopravviveva, tutto s’era disgregato; le forme – e anche quella della conchiglietta di pasta, cosí grassamente sensuale sotto la sua veste a pieghe severa e devota – erano abolite, o, sonnacchiose, avevano perduto la forza di espansione che avrebbe loro permesso di raggiungere la coscienza. Ma quando niente sussiste di un passato antico, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, piú tenui ma piú vividi, piú immateriali, piú persistenti, piú fedeli, l’odore e il sapore, lungo tempo ancora perdurano, come delle anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l’immenso edificio del ricordo.

EPOCA



Et dès que j’eus reconnu le goût du morceau de madeleine trempé dans le tilleul que me donnait ma tante (quoique je ne susse pas encore et dusse remettre à bien plus tard de découvrir pourquoi ce souvenir me rendait si heureux), aussitôt la vieille maison grise sur la rue, oú était sa chambre, vint comme un décor de théâtre s’appliquer au petit pavillon, donnant sur le jardin, qu’on avait construit pour mes parents sur ses derrières (ce pan tronqué que seul j’avais revu jusque-là); et avec la maison, la ville, la Place oú on m’envoyait avant déjeuner, les rues oú j’allais faire des courses depuis le matin jusqu’au soir et par tous les temps, les chemins qu’on prenait si le temps était beau. Et comme dans ce jeu oú les Japonais s’amusent à tremper dans un bol de porcelaine rempli d’eau, de petits morceaux de papier jusque-là indistincts qui, à peine y sontils plongés, s’étirent, se contournent, se colorent, se différencient, deviennent des fleurs, des maisons, des personnages consistants et reconnaissables, de même maintenant toutes les fleurs de notre jardin et celles du parc de M. Swann, et les nymphéas de la Vivonne, et les bonnes gens du village et leurs petits logis et l’église et tout Combray et ses environs, tout cela que prend forme et solidité, est sorti, ville et jardins, de ma tasse de thé.

L’utopia di «Solaria»

La narrativa

«Letteratura» e «La Riforma letteraria» «Il Frontespizio» e l’ermetismo



GUERRE E FASCISMO

-

E, appena ebbi riconosciuto il sapore del pezzetto di maddalena inzuppato nel tiglio che mi dava la zia (pur ignorando sempre e dovendo rimandare a molto piú tardi la scoperta della ragione per cui questo ricordo mi rendesse cosí felice), subito la vecchia casa grigia sulla strada, nella quale era la sua stanza, si adattò come uno scenario di teatro al piccolo padiglione sul giardino, dietro di essa, costruito per i miei genitori (il lato tronco che solo avevo riveduto fin allora); e con la casa la città, la piazza dove mi mandavano prima di colazione, le vie dove andavo in escursione dalla mattina alla sera e con tutti i tempi, le passeggiate che si facevano se il tempo era bello. E come in quel gioco in cui i Giapponesi si divertono a immergere in una scodella di porcellana piena d’acqua dei pezzetti di carta fin allora indistinti che, appena immersi, si distendono, prendendo contorno, si colorano, si differenziano, diventano fiori, case, figure umane consistenti e riconoscibili, cosí ora tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di Swann, e le ninfee della Vivonne e la buona gente del villaggio e le loro casette e la chiesa e tutto Combray e i suoi dintorni, tutto questo che vien prendendo forma e solidità, è sorto, città e giardini, dalla mia tazza di tè.

A Firenze, per iniziativa di ALBERTO CAROCCI (-), nacque nel  la rivista «Solaria», che nel titolo alludeva alla utopica «città del sole» (cfr. ..) e mirava al progetto di una moderna civiltà letteraria, aperta ai piú ampi orizzonti della letteratura europea e mondiale, impegnata in una conoscenza problematica e critica del presente. La prospettiva «solariana» si opponeva a ogni imbrigliamento dell’esperienza letteraria entro la politica e l’ideologia del fascismo, rifiutava anche i limiti troppo «nazionali» della cultura idealistica e crociana. Mettendo in primo piano la narrativa, essa prestava attenzione a esperienze contemporanee, come quelle di Tozzi e Svevo, di cui contribuiva a scoprire la grandezza (cfr. ..), e quelle europee di Mann, Kafka, Proust (cfr. CANONE EUROPEO, tavv. ,  e ), Joyce, Eliot, risaliva indietro ai grandi modelli del romanzo russo (soprattutto Dostoevskij) e mostrava quanto fosse essenziale per la letteratura moderna l’indagine sulle pieghe dell’io (anche attraverso l’apporto della psicoanalisi), sulla memoria, sul tempo. La rivista fu guardata con sospetto dalle autorità fasciste e, dopo varie difficoltà, dovette chiudere nel  (ma per tutte le riviste di cui si parla in questo paragrafo, cfr. ancora DATI, tav. ). La sua attività fu continuata da «Letteratura», fondata nel  da Bonsanti; il proposito di analisi «civile», di attenzione alla realtà storica e sociale fu continuato invece, tra grandi difficoltà, tra il  e il , da un’altra rivista fiorentina, «La Riforma letteraria», fondata dallo stesso Carocci e da Giacomo Noventa (cfr. ..). Nella vita culturale fiorentina ebbero un peso notevole anche le riviste fasciste (a cui si è accennato in ..) e una rivista cattolica tradizionalista e popolare, convergente con il fascismo, «Il Frontespizio» (cfr. anche ..): ma questa rivista, tra i cui collaboratori ebbe un ruolo essenziale il poeta Carlo Betocchi (di cui si parlerà in ..), diede voce anche a un cattolicesimo

.

LE FORME DELLA PROSA TRA LE DUE GUERRE

piú inquieto e problematico, rappresentato dai giovani poeti e critici dell’ermetismo (cfr. ..); tale gruppo si staccò dal «Frontespizio» nel  e venne accolto nella rivista «Campo di Marte», fondata da Alfonso Gatto (cfr. ..) e Vasco Pratolini (cfr. ..), che si pose come lo strumento essenziale della riflessione dell’ermetismo.

Intorno a «Solaria» e alla sua apertura europea si svilupparono alcune delle piú essenziali esperienze della nuova letteratura tra gli anni Venti e Trenta. L’espressione piú caratteristica fu costituita da una narrativa della memoria (attenta in primo luogo al grande modello di Proust): una ricerca di «aura», di luci, di ombre e di profumi tendeva ad addensare sugli oggetti l’intensità del vissuto, a far emergere dalle cose le piú diverse motivazioni psicologiche e sentimentali. Al centro dell’interesse narrativo si ponevano spesso personaggi di adolescenti, visti come figure del passaggio, della sospensione tra i tempi, del difficile confronto dei caratteri originari dell’io con l’esperienza del mondo. Un incontro tra un vitalismo sensuale di origine dannunziana e una nuova attenzione alla memoria e allo spessore vitale delle cose, si può scorgere nell’opera di GIOVANNI COMISSO (-), trevisano, combattente nella prima guerra mondiale e legionario di Fiume, che poté svolgere la sua passione per i viaggi con una lunga attività di giornalista e corrispondente. Collaboratore di «Solaria», egli mantenne sempre una sua autonomia di «irregolare», legata anche alla sua condizione «veneta», a un senso di marginalità rispetto alle linee dominanti della letteratura italiana. Pubblicò moltissimi libri, in cui si inseguono, con una partecipazione tutta sensuale, fatti, incontri, presenze, figure, paesaggi, sorprese: un senso immediato del reale, una disponibilità a toccare tutto ciò che si fa avanti nel mondo conferiscono alla memoria di Comisso una libertà scatenata, un’assoluta irresponsabilità, una sorprendente estraneità a ogni giudizio o intervento morale (ricordiamo Il porto dell’amore, , e Gente di mare, ). Tra gli altri autori legati all’orizzonte di «Solaria» vanno ricordati ALESSANDRO BONSANTI (-), ARTURO LORIA (-), BONAVENTURA TECCHI (-), PIER ANTONIO QUARANTOTTI GAMBINI (-).



«Campo di Marte»

La narrativa della memoria

Giovanni Comisso

... Esiste un surrealismo italiano? Il surrealismo (cfr. DATI, tav. ), sviluppatosi in Francia negli anni Venti per azione di un gruppo guidato da André Breton (-), organizzò in modo nuovo e coerente la carica antiborghese delle avanguardie, mirò a liberare integralmente l’uomo, e in primo luogo le sue facoltà piú sotterranee e segrete. Nel suo rifiuto dell’arte borghese, il surrealismo si poneva agli antipodi del militarismo futurista, lottava per un’umanità che sapesse reggersi sull’amore, sulla libertà, sulla poesia. Il rifiuto della logica tradizionale si legava cosí a una lotta per creare una nuova vita sociale, per distruggere ogni forma di oppressione, fisica e psichica, materiale e culturale: si doveva cercare una nuova comunicazione collettiva che traesse alla luce gli strati psichici profondi, solitamente esclusi dal pensiero razionale e dall’ambito stesso della comunicazione. Attraverso una sua interpretazione della psicoanalisi freudiana (cfr. .. e PAROLE, tav. ), il surrealismo mirava a liberare ogni aspetto della vita dell’uomo, dando libero campo a quanto per secoli era rimasto sepolto nell’inconscio. Emergevano cosí in primo piano il sogno e il desiderio, l’erotismo e la follia, il lapsus e il gioco di parole; si guardava in modo nuovo al mondo dell’infanzia, ai regni della fantasia e del meraviglioso. Quello surrealista era un programma di costruzione di una realtà superiore a quella grigia e convenzionale del mondo borghese e industriale: un programma che poteva ricollegarsi anche alle forme fantastiche dell’arte del passato e alle piú sotterranee tradizioni dell’alchimia, dell’ermetismo, della magia, proponendone una versione laica e moderna; esso nello stesso tempo cercava di far emergere nuove figure, nuovi linguaggi, in un flusso continuo tra gli ambiti piú diversi, da quello del mito antico a quello degli oggetti della mo-

Il surrealismo francese

Liberare l’inconscio

Per una realtà superiore

Nuovi linguaggi

EPOCA





GUERRE E FASCISMO

-

Tecniche surrealiste

derna vita cittadina. Per raggiungere questi obiettivi venivano messe in opera tecniche molteplici, tra cui si imponevano quelle della scrittura automatica (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ) e dell’umorismo (cfr. TERMINI BASE ).

Presenza nella narrativa italiana

In Italia, anche per la situazione politica e per il peso che mantenevano forme culturali tradizionali, il surrealismo penetrò in modo indiretto e limitato. Alcuni artisti figurativi furono però in stretto contatto con esponenti di questa tendenza e il nuovo immaginario surrealista, con l’attenzione al fantastico, alle forme sotterranee e oscure della realtà, agli aspetti dell’esperienza umana estranei alla razionalità, circolò ampiamente nella letteratura italiana negli anni Venti e Trenta. In modo indiretto se ne sentí l’eco nella nozione di realismo magico di Bontempelli, nel teatro e nella narrativa dell’ultimo Pirandello, nella novellistica di Palazzeschi. Piú direttamente il surrealismo agí su una narrativa in cui il fantastico si collegò ad audaci scomposizioni, a scatenate associazioni, a sottili giochi intellettuali. Nei paragrafi successivi si seguono le espressioni essenziali e originalissime di questo surrealismo narrativo italiano nell’opera di tre autori che percorrono vie assolutamente individuali: Savinio (che ebbe rapporti diretti, anche per la sua attività di artista, con il surrealismo francese e con Breton) e i piú giovani Landolfi (che piú a lungo di tutti continuò a svolgere la sua attività nel dopoguerra) e Delfini. Ma a un surrealismo «diffuso», a un livello meno penetrante ed essenziale, possono collegarsi anche autori come Buzzati e i vari «umoristi» (per i quali cfr. ..).

... Alberto Savinio: la saggezza del «dilettantismo». La formazione

A Parigi A Ferrara

Letteratura, arte e teatro

ANDREA DE CHIRICO (che a Parigi, quasi all’inizio della sua attività, assunse il nome di ALBERTO SAVINIO), nacque ad Atene il  agosto ; il fratello maggiore, il celebre pittore GIORGIO DE CHIRICO, era nato a Volos nel . Alla morte del padre () Andrea si trasferí a Monaco di Baviera con la madre e il fratello; fu poi a Milano e a Firenze e nel  passò a Parigi, partecipando all’animatissimo mondo dell’avanguardia artistica e letteraria, occupandosi in primo luogo di musica. Rientrato in Italia allo scoppio della guerra, si arruolò insieme a Giorgio e con lui prestò servizio militare a Ferrara: qui dall’incontro dei due fratelli con Govoni (cfr. ..), Carrà e l’artista ferrarese FILIPPO DE PISIS (-), autore anche lui di interessanti testi letterari, ebbero origine il programma e le forme della pittura metafisica. Nel  apparve il primo volume di Savinio, Hermaphrodito, che raccoglieva testi in versi e in prosa scritti negli anni precedenti. Nel dopoguerra soggiornò a Roma e a Milano, interessandosi piú direttamente di teatro e partecipando all’esperienza del Teatro d’Arte di Roma (cfr. ..). Nel  sposò l’attrice Maria Morino (da cui ebbe due figli) e iniziò l’attività di pittore, trasferendosi a Parigi, dove rimase fino al , e dove infittí i suoi contatti con le avanguardie e in particolare con Breton e i surrealisti. Al ritorno in Italia, dopo brevi soggiorni a Tori-

SCRITTURA AUTOMATICA GENERI E TECNICHE

tav. 230

È il metodo di scrittura (écriture automatique) teorizzato da Breton e dai surrealisti (cfr. DATI, tav. ), consistente nel rifiuto di ogni logica e nel totale abbandono alle associazioni automatiche tra le cose. Lo scrittore surrealista deve registrare il libero movimento della sua immaginazione, abbandonarsi al flusso indifferenziato con cui le immagini si producono nella mente: in questo modo egli può dar libero spazio all’inconscio, ai contenuti repressi e nascosti nel fondo della psiche, far parlare il desiderio e scatenare il meraviglioso che deriva dagli accostamenti piú imprevedibili e insoliti tra le cose. In alcuni casi si creano artificialmente condizioni particolari per superare le soglie della coscienza, per immergere lo scrittore in uno stato simile a quello del sogno e far emergere la scrittura come una sorta di magico automatismo psichico.

.

LE FORME DELLA PROSA TRA LE DUE GUERRE

no e Milano (dove diresse tra la fine del  e il  la rivista «Colonna»), dal  si stabilí definitivamente a Roma. All’attività pittorica accompagnò un piú intenso impegno letterario e critico. Evitò di prendere posizione nei confronti del regime fascista, ma restò sempre al margine della cultura ufficiale e mantenne una lucidissima indipendenza di giudizio, che lo portò, al momento del crollo del fascismo, a denunciare acutamente le radici ideologiche e culturali del totalitarismo. Nel dopoguerra investí gran parte delle sue energie nel mondo del teatro e dello spettacolo. Dopo il successo dell’allestimento dell’Armida di Rossini per il Maggio Musicale fiorentino, morí per un attacco cardiaco, a Roma, la notte del  maggio . Savinio occupa una posizione particolarissima nella letteratura italiana: cittadino del mondo, egli partecipa a pieno titolo ai piú vitali orizzonti dell’avanguardia europea, senza nessuna preclusione provinciale, e resta ai margini delle problematiche e degli atteggiamenti dominanti nel limitato mondo intellettuale italiano del tempo. Con una sicura disponibilità verso le esperienze piú diverse, egli rifiuta di chiudersi nella professione dell’intellettuale o del letterato, si sottrae a tutti i modelli istituzionali della tradizione italiana: la sua letteratura è inconcepibile senza lo scambio con le altre arti, senza la sua cultura musicale e figurativa, senza i suoi interessi storici, teorici, filosofici. Savinio amò presentare l’insieme della sua attività, il senso stesso della sua ricchissima cultura, sotto il segno del dilettantismo, di una «superficialità» leggerissima che rifiuta la tradizionale identificazione della saggezza con la profondità, l’assoluto, i valori metafisici. Questo atteggiamento si appoggia su caratteri mediterranei, solari, marini: dalla sua origine greca questo autore ricava in primo luogo una predilezione per il mondo classico, sentito come un universo aperto, senza valori arcigni e nascosti. Non si tratta però di una visione di tipo classicistico: siamo lontani da ogni serena immobilità, da ogni modello stabile e sicuro. Per Savinio il campo della realtà e della cultura è aperto, prima di tutto, a una serie di incontri casuali tra le cose e le parole: vi domina una libera immaginazione che aggredisce ogni serenità, ogni fissità, ogni convenzione culturale e sociale. Egli si ricollega direttamente alla critica della metafisica di Nietzsche, uno dei suoi autori prediletti (insieme ai grandi scrittori paradossali come, prima di tutti, il greco Luciano). Seguendo questo modello di saggezza che nasce dal rifiuto della serietà e dell’assoluto, la scrittura di Savinio segue percorsi vari e insoliti, si presenta come priva di scopo, immersa in un liberissimo gioco di associazioni sorprendenti, in un continuo aprirsi al sogno, alle battute spiritose e ai giochi di parole fino al limite della freddura, agli incidenti corporei, ai lapsus, ai tortuosi richiami del desiderio. In essa i materiali culturali, le riflessioni critiche, gli svolgimenti saggistici si intrecciano con spunti autobiografici, con descrizioni di realtà in cui sempre si inserisce qualche segno irregolare, con figurazioni fantastiche e divagazioni paradossali. Nella sua ricca produzione letteraria non sempre è facile la distinzione tra testi piú esplicitamente narrativi e testi di tipo saggistico, che definiscono le linee di un pensiero antisistematico, pronto sempre a sospendersi, a limitarsi, a rovesciare le proprie asserzioni. Il mito – quello classico in primo luogo – propone in quasi tutti gli scritti di Savinio una serie di curiosi e spesso comici intrecci con le occasioni piú quotidiane e banali della realtà moderna e borghese: il mondo mitico vi appare come un immenso serbatoio di archetipi e di figure senza spessore, di forme del vivere e dell’apparire che sembrano enigmatiche, ma non hanno nessun significato profondo e segreto. Forte è la suggestione del mondo dell’infanzia, con il tema degli ostacoli insormontabili che la vita familiare e sociale pone alla sua libertà e felicità; insistente la riflessione sul tempo e sul movimento della mente verso il passato, che si risolve non in un recupero della memoria (come in Proust e in molta narrativa italiana degli anni Trenta), ma in un inquietante annullamento del tempo stesso, nella scoperta del suo eterno ritornare e della coincidenza tra la nascita e la morte. Un peso essenziale ha infine la tematica della sessualità, del contrasto tra maschile e femminile, che si risolve nel rifiuto di una cultura che si identifica con la rigidità virile e nell’aspirazione a integrare maschile e femminile nell’equilibrio indifferente e giocoso dell’ermafrodito.



Cittadino del mondo

Dilettantismo mediterraneo

Le cose e le parole

Il gioco della scrittura

Pensiero e autobiografia

Il mito e il quotidiano

Maschile e femminile

EPOCA





GUERRE E FASCISMO

-

... Le opere letterarie di Savinio. Riprese, ritorni e combinazioni

I vari e molteplici scritti di Savinio si susseguono nel tempo con una serie di riprese, ritorni, combinazioni, passaggi da pubblicazioni in riviste e giornali a raccolte diversamente organizzate: sul loro succedersi non è facile fare luce, anche per una situazione editoriale che resta piuttosto confusa, nonostante la nuova fortuna che l’autore ha conosciuto a partire dagli anni Settanta.

Hermaphrodito

Hermaphrodito () contiene racconti, divagazioni, deformazioni comiche che ricordano la recente narrativa giocosa e fantastica del poeta Guillaume Apollinaire (-): vi si intrecciano motivi mitici e autobiografici, accumulando una serie di enigmi «vuoti», che valgono per la stranezza del loro stesso esibirsi e negano ogni senso profondo. Sulla via di un gioco dissacrante, di una realtà rappresentata attraverso curiose scomposizioni, si ponevano La casa ispirata, del  (già in rivista nel ), e Angelica o la notte di maggio (), piccolo antiromanzo dallo stile rapido e frantumato. Questi sono i testi dove piú forte appare l’impronta surrealista, come anche nei racconti raccolti in Achille innamorato (). Fin dal  Savinio aveva iniziato la stesura del romanzo Tragedia dell’infanzia, pubblicato solo nel : cercando di fissare un’immagine dell’infanzia, egli ne metteva in luce il carattere elementare, fatto di associazioni tra oggetti e presenze, di immagini e parvenze, in un gioco di costrizioni, di impossibilità, di vuoti. Contro la società adulta, contro le sicurezze e la falsa serietà dell’organizzazione sociale, l’infanzia si rivelava come uno spazio «altro», indecifrabile allo sguardo adulto. Questa indagine prosegue, in termini piú esplicitamente autobiografici, con delicata affettuosità, nell’Infanzia di Nivasio Dolcemare (), in cui le avventure del bambino, nell’universo marino e solare della Grecia, si aprono verso aeree sproporzioni comiche, leggerissimi equivoci e distorsioni. Lo sguardo verso l’infanzia si incontra con la coscienza sempre piú acuta, sullo scorcio finale degli anni Trenta, del fatto che tutto l’impegno del vivere tende alla soluzione del problema della morte. I racconti del volume Casa «la Vita» () si dispongono in un crescendo che, dal ricordo della solare infanzia ellenica, si rivolge sempre di piú verso figure della morte, nella convinzione che essa è il problema centrale, proprio perché tronca tutti i possibili problemi, mostra la loro inanità, ritrova il segno originario della nascita e del nulla. Tra i racconti vanno ricordati Il signor Münster, il cui protagonista assiste alla propria morte e decomposizione, che culmina in un gioco surreale di scambi e di evanescenze, e il racconto che dà il titolo al volume, con la visita che il protagonista compie in una casa in cui rapidamente si sintetizza tutta la sua vita (secondo uno schema che ricorda Una giornata di Pirandello, cfr. ..). Nella successiva raccolta Tutta la vita () continuano a imporsi immagini della minacciosa stranezza che può assumere ciò che piú è consueto, con vari ritorni alle tracce della vita familiare. In altri racconti e testi brevi, Savinio continua un’indagine delicata e sottile (attraverso lo schermo di personaggi autobiografici) sullo stesso costituirsi dell’io, fino ai testi raccolti nel volume postumo Il signor Dido ().

Tragedia dell’infanzia

Infanzia di Nivasio Dolcemare

Tutta la vita

Saggistica antiaccademica

Frammenti, arguzie e aforismi

Anche nei testi piú esplicitamente «saggistici» di Savinio si intrecciano i temi piú diversi, con notazioni di costume, curiosità culturali, spunti autobiografici, giochi comici e fantastici: sfuggendo alle regole accademiche e alle convenzioni della scrittura critica, egli aderisce in modo sempre problematico alle tematiche che affronta, sentendo la cultura e la storia come parti di un’esperienza globale, che va al di là dei libri e delle stesse forme estetiche. Talvolta il gusto del particolare lo porta a modi esteriori, che si avvicinano agli schemi dell’elzeviro disimpegnato e della prosa d’arte rondista; ma spesso egli riesce a toccare da vicino i piú sottili nessi tra le forme culturali e le ambiguità del vivere individuale e sociale. A un’esposizione organica egli preferisce la divagazione, con osservazioni frammentarie e non conclusive, che oscillano tra l’arguzia, l’aforisma, l’appunto di lettura, la descrizione leggera.

.

LE FORME DELLA PROSA TRA LE DUE GUERRE

L’incarnazione piú esemplare di questa scrittura saggistica si ha nella Nuova enciclopedia (pubblicata postuma nel ), che in gran parte raccoglie i diversi contributi apparsi sull’omonima rubrica della rivista di architettura «Domus» a partire dal . Tra gli altri volumi saggistici ricordiamo Dico a te, Clio (, riflessioni sulla storia), Ascolto il tuo cuore, città (, immagini e divagazioni su Milano): Sorte dell’Europa (, sulle prospettive della civiltà europea all’uscita dalla guerra), Souvenirs (, su Parigi). Occorre ricordare anche gli interventi di critica artistica, letteraria, musicale e teatrale, riuniti poi in raccolte postume. Solo un cenno, infine, alla produzione teatrale di Savinio, sorretta da una grande esperienza della scena: al centro dei suoi testi drammatici è il mito classico, scomposto e privato di peso, sottilmente confrontato con la realtà moderna (ricordiamo La morte di Niobe, ; Capitano Ulisse, ; Alcesti di Samuele, ).



Nuova enciclopedia

La produzione teatrale

... Tommaso Landolfi: la letteratura di fronte all’«impossibile». Mentre il surrealismo di Savinio si svolge da un fondo mediterraneo e «solare» e da un continuo confronto tra l’avanguardia e il mito classico (fino a un paradossale uso del classicismo), TOMMASO LANDOLFI si accosta al fantastico e al surreale partendo da un fondo romantico e quasi «nordico», dalla suggestione della grande letteratura ottocentesca e della tradizione dell’umorismo e del fantastico, senza avvicinarsi in modo diretto alle esperienze dell’avanguardia. Scrittore solitario, dotato di cultura ricchissima e singolare, Landolfi si è sottratto a un ruolo pubblico di intellettuale. Nella sua vita la passione della letteratura si è accompagnata a quella del gioco: la letteratura e il gioco appaiono due modi per scommettere con se stesso, per consumarsi in una ricerca di assoluto e di avventura, in una continua dissipazione dell’io, nel rifiuto di ogni stabilità. Come scrittore e giocatore, Landolfi si offre a esperienze «totali», in cui, su un fondo romantico ed esistenziale, l’io si confronta con l’imprevedibilità del caso, che sempre si frantuma nel pullulare di infiniti particolari e circostanze, nel rincorrersi di situazioni sempre uguali e sempre diverse. Dietro questa scelta si nasconde un umore «malinconico», un intricato e difficile viluppo psicologico, di cui il lettore sente l’urgenza, ma i cui contenuti alla fine risultano enigmatici. Nato a Pico Farnese (in provincia di Frosinone) nel , Landolfi visse a lungo a Firenze, dove si laureò in letteratura russa; lavorò variamente come traduttore dal russo e dal tedesco. Ebbe importanti rapporti intellettuali con l’ambiente fiorentino e con i gruppi legati alle riviste degli anni Trenta, in primo luogo con i poeti e i critici dell’ermetismo, e per un breve periodo fu anche incarcerato per antifascismo. Nel dopoguerra rimase molto appartato rispetto al mondo letterario ufficiale e continuò a coltivare la sua passione per il gioco; compí vari soggiorni all’estero, dividendo il resto del suo tempo tra Firenze, Roma, la nativa Pico e una casa ad Arma di Taggia, sulla riviera di Ponente. Morí a Ronciglione presso Roma nel .

La sua passione per la grande narrativa dell’Ottocento si accompagnò sempre a un’attrazione per mondi misteriosi e fantastici, per analisi tortuose e complicate. Sentí la suggestione del Romanticismo «nero», da Hoffmann a Poe, del grande romanzo francese e russo (in primo luogo di Dostoevskij), di Kafka e del surrealismo. Sviluppò la sua ricerca sulla base di un linguaggio di grande equilibrio letterario, costruito su eleganti misure stilistiche, sigillato in giri verbali lucenti e sorvegliatissimi: un linguaggio che potrebbe perfino far pensare alla vicina esperienza della prosa d’arte, se non sapesse spezzarsi in scatti improvvisi, in aperture laceranti, che agiscono in profondità, trasformando quel perfetto equilibrio in qualcosa di allucinante e di ossessivo. Nella singolarità dell’esperienza di Landolfi, il meraviglioso e il fantastico prendono avvio da una lacerazione segreta, da quella che l’autore stesso indica come un’«insufficienza» esistenziale, legata al fatto stesso di vivere e di scrivere. Lo scrittore si sente fuori da ogni

Un surrealismo romantico

La letteratura e il gioco

Una vita appartata

Una prosa elegante e velenosa

Insufficienza esistenziale

EPOCA



L’impossibile e la menzogna

Immaginario lunare

La tematica amorosa

Sogno, follia e animalità



GUERRE E FASCISMO

-

ruolo sociale privilegiato, ai margini dei grandi processi della società e della storia; ma nello stesso tempo cerca nella letteratura un’esperienza assoluta, autentica e definitiva. Egli vorrebbe trovare una lingua personale e unica, capace di far balenare immagini di felicità splendente, di toccare figure femminili dalla fascinazione sconvolgente e misteriosa. Ma questa ricerca è ostacolata e stravolta dall’insidia onnipresente dell’artificio e della menzogna: essa può esprimersi solo nella letteratura, che nasce e muore dentro di sé, che si allontana irrimediabilmente dalla vita, che ne falsifica ogni aspetto. Insidiate dalla menzogna, sia la vita sia la letteratura conducono cosí ogni richiamo dell’assoluto a un velenoso esito: l’intero orizzonte landolfiano si imprigiona in una nozione della «letteratura come morte» (E. Sanguineti). Una serie di temi costanti conferisce una singolare sostanza figurativa a questo mondo cosí estremo: in continuità con tutta la tradizione del Romanticismo «nero», vi hanno un ruolo centrale la luna e l’immaginario notturno, che risale fino alle piú allucinate superstizioni e si proietta in avanti verso originalissime invenzioni di tipo fantascientifico. Al malinconico e sinistro orizzonte lunare si collega la forte presenza della tematica amorosa con figure di donne inafferrabili e splendenti, sensuali e metalliche allo stesso tempo, con personaggi maschili che cercano in esse un abbandono totale, subendo il richiamo impossibile di una forza che affonda nelle radici oscure e nelle cavità terrestri e insieme si proietta negli spazi piú sconfinati del cielo. A queste immagini di erotismo, che sempre sfuggono e si cancellano, si accompagna però un’attenzione ai caratteri piú viscidi e animaleschi della sensualità, al richiamo assassino che può a essa accompagnarsi (l’esaltazione amorosa e qui spesso assai vicina al delitto). Il mondo del sogno e quello della follia suscitano occasioni di invenzione, molteplici ed eterogenee combinazioni fantastiche; e gran parte dei personaggi landolfiani appaiono sospesi in una condizione tra il sogno e la follia, chiusi in una loro solitudine lunatica e animalesca. L’attenzione all’animalità si allarga fino alla creazione di un vero e proprio «bestiario», in cui dominano insetti repellenti e figure composite, mostruose e affascinanti, animali romanzeschi e immaginari, anche inventati dallo stesso autore (come il «porrovio» e le «labrene»; e forte è il gusto di Landolfi per l’invenzione di nomi artificiali, di realtà false e ipotetiche).

... Le opere di Landolfi. Dialogo dei massimi sistemi

Il mar delle Blatte e altre storie La pietra lunare

Altre opere

Il primo libro di Landolfi, Dialogo dei massimi sistemi, apparve nel : si trattava di sette racconti (il primo dei quali, Maria Giuseppa, risaliva al ) in cui un gioco di allucinate invenzioni si appoggiava a una scomposizione continua del narrare, a una serie di scatti umorali, di esplosioni fantastiche e di ghigni beffardi. Gli ordigni narrativi rivelavano molteplici sfasature interne, richiami segreti tra temi e figure, sospensioni e ipotesi diverse di sviluppo. Il racconto che dava il titolo alla raccolta successiva, Il mar delle Blatte e altre storie (), offriva una fantasia surreale, sovraccarica di figurazioni accecanti, violente, viscide, assurde, con la rappresentazione di una navigazione verso il mar delle Blatte, in un groviglio di pulsioni erotiche e aggressive che si rivela alla fine frutto di un sogno. Al  risaliva anche l’edizione del romanzo La pietra lunare, in cui la rappresentazione di un piccolo mondo provinciale (quello del paese natale di Landolfi), evidenziata dal sottotitolo ironico Scene della vita di Provincia, si deformava progressivamente nella rivelazione di un mondo stregonesco e misterioso, ammaliante e conturbante, attraverso il personaggio di Gurú, la donna-capra. Dopo nuovi racconti contenuti nel volume La spada (), l’immaginazione di Landolfi si rivolse a momenti di deformazione piú comico-grottesca, nel romanzo breve Le due zittelle () e in altri racconti come La moglie di Gogol, raccolto poi nel volume Ombre (). Affascinante trasposizione in chiave moderna di un motivo tipico della narrativa romantica, quello della casa misteriosa e della donna prigioniera e inaccessibile, è il Racconto d’autunno (), che si svolge sullo sfondo della guerra partigiana. La tematica della follia e della solitudine si apre verso un orizzonte fantascientifico in Cancroregina ().

.

LE FORME DELLA PROSA TRA LE DUE GUERRE

Negli anni successivi Landolfi crea una nuova forma di diario artificiale, che ruota attorno all’esperienza personale mischiando dati reali e fittizi, intrecciando all’analisi dell’io il riferimento a personaggi, situazioni, rapporti che sono il frutto di invenzione, legando la piú sofferta riflessione esistenziale e culturale a giochi impertinenti e a mistificazioni. Il primo e piú affascinante volume di questo tipo, apparso nel , svela la propria ambiguità già nel titolo, LA BIERE DU PECHEUR (nome di un’insegna vista in Francia, che può tradursi sia “La birra del pescatore” che “La bara del peccatore”): qui la voce dell’autore esibisce fino in fondo la sua mania dell’impossibile, il suo desiderio appassionato e «romantico» di felicità, in un gioco senza fine di domande e risposte. È la stessa analisi dell’io, la sua stessa scrittura, a darsi qui come un teatro della falsità, dove non è piú possibile districare ciò che è vero da ciò che è inventato. Questa stessa violenza nullificante viene prolungata in piú modi, in un pessimismo senza remissione, nei successivi volumi, Rien va (“Nulla va”), del , e Des mois (“Dei mesi”), del . Ma egli continuò a lungo anche la produzione narrativa, con risultati diseguali, da Ottavio di Saint Vincent () a Tre racconti (), a Un amore del nostro tempo (), a Racconti impossibili (), fino ai racconti A caso (). Ma l’ultimo Landolfi provò anche vie diverse, pubblicando libri di saggistica, scrivendo testi teatrali in versi e poesie.



LA BIERE DU PECHEUR

L’ultima produzione narrativa

... Antonio Delfini. Un profilo umano e intellettuale del tutto irregolare è quello di ANTONIO DELFINI, nato a Modena nel  e morto nella stessa città nel , che visse l’intera esistenza e il rapporto con la letteratura in modo appassionato e timido, dissipato e pieno di tensione, con un miscuglio di candore, ingenuità, aggressività, risentimenti, fuori da ogni posizione istituzionale. Scarso fu il successo delle opere da lui pubblicate, tra cui sono in primo piano i racconti de Il ricordo della Basca (, che nella nuova edizione del  contiene una importante Introduzione) e de La Rosina perduta (, che contiene anche il breve romanzo, costruito su modelli della scrittura automatica surrealista, Il fanalino della Battimonda, già stampato nel ), e altri testi raccolti con i precedenti nel volume I racconti (). Di minor rilievo, ma tutt’altro che trascurabili, estranee comunque alle forme dominanti nel linguaggio poetico contemporaneo, sono le Poesie della fine del mondo ().

Nel  sono stati pubblicati, con il titolo Diari, vari testi, appunti, notazioni autobiografiche raccolte tra le carte di Delfini, che mostrano tutto il fondo biologico della sua scrittura, l’intreccio che in lui si dà tra letteratura e vita: egli muta continuamente i propri rapporti con il mondo circostante, guardandosi tragicamente come «un altro», sottoponendo a derisione se stesso e le cose, manifestando una volontà di vita totale e insieme la coscienza di una insuperabile dissipazione del suo io e della realtà. La sua passione per la letteratura si appoggia sempre su un intollerante atteggiamento antiletterario, sul rifiuto di piegarsi a modelli e a forme istituzionali, a poetiche e a progetti di gruppo. La sua scrittura muove da quel suo impossibile desiderio di totalità, da un bisogno candido e ingenuo di affermazione dell’io: egli vi cerca qualcosa di spontaneamente magico che arrivi a svelare il suo valore e la sua autenticità. I suoi testi si presentano come destinati a qualche donna bellissima e irraggiungibile, con cui non è possibile comunicare, ma che si troverà a leggerli e potrà finalmente sentire il richiamo della forza del suo sentimento, o al contrario come rivolti ai numerosi nemici che egli sente intorno a sé, i quali, vedendo i suoi libri, saranno finalmente schiacciati dal suo valore e dalla sua capacità umana. In ogni modo la letteratura è per lui rivalsa, riscatto da un’esistenza compressa, senza amore, tragica e risibile. I racconti di Delfini accumulano coloratissime immagini della vita della provincia padana prima dell’irruzione del tumultuoso sviluppo del dopoguerra, dei suoi ritmi lenti e ug-

Un irregolare

Le opere

I Diari

Affermazione dell’io La letteratura come rivalsa

La provincia di Delfini

EPOCA



Infinite «trasposizioni»

Ricordi, desideri e risentimenti



GUERRE E FASCISMO

-

giosi, della sua ostinata dissipazione: immagini aggressive e dissolventi, sottoposte continuamente alla deformazione comica e fantastica. È un mondo popolato da personaggi strambi, sordidi e bislacchi, solitari e inconcludenti, frequentatori di teatri e di caffè, che consumano la loro esistenza inseguendo fantasmi e desideri improbabili e velleitari, o addirittura ridicoli e balordi. Rivelando il suo piú autentico legame con il surrealismo, Delfini rompe con movimenti originalissimi i rapporti normali tra il suo io e i suoi personaggi, tra il vissuto e l’inventato, tra il presente e il passato, tra il normale e l’anormale. La sua vita e la sua opera vengono a costruirsi insieme in una serie infinita di «trasposizioni», che rendono impossibile distinguerne i diversi piani: qualunque rapporto può sorgere da improvvise, episodiche fantasie personali, essere il frutto della ripetizione e deformazione di qualche cosa che non è stato, il risultato di un racconto fatto in passato. Queste trasposizioni si accumulano soprattutto quando sono chiamati in causa personaggi femminili e passioni amorose: le donne realmente conosciute possono apparire ancora non conosciute, le esperienze smentirsi continuamente e nello stesso tempo ripetersi di nuovo, il ricordo amoroso piú lacerante nascere proprio da figure nemmeno sfiorate o nemmeno esistite. Momenti di eccezionale intensità nel narrare di Delfini sono dati dalla ripresa di situazioni, ricordi, figure che si proiettano da un racconto all’altro, ripetendosi e modificandosi, sprigionando senza fine desideri e risentimenti: ogni suo testo resta come sospeso e pare offrirsi a essere riscritto, commentato e riprodotto dal punto di vista di un tempo diverso.

... Dino Buzzati.

Il deserto dei Tartari

Nelle migliori opere di DINO BUZZATI, nato a Belluno nel  e morto a Milano nel , il richiamo dello strano e del fantastico non risulta da un’alterazione dei connotati della realtà, né da particolari ricerche linguistiche e stilistiche: l’autore si tiene sul piano di una lingua «media», normalmente comunicativa, e di una rappresentazione che non altera i rapporti consueti tra le cose. Su questa base «normale», il mondo si carica di mistero e di assurdo, si sospende a una angoscia che rinvia a qualcosa di lontano, come a un segreto impenetrabile, a un’assenza di motivazioni e di obiettivi, in cui si esprime il senso stesso del vivere. Dopo il romanzo Bàrnabo delle montagne () e vari racconti, egli ottenne un successo eccezionale (che in seguito si è propagato a livello internazionale) con il romanzo Il deserto dei Tartari (), in cui si narra la vicenda dell’ufficiale Giovanni Drogo, che consuma la sua vita senza senso nella fortezza Bastiani, al limite di un deserto inesplorato, nell’attesa di misteriosi Tartari invasori che non compariranno mai. È facile riconoscere nel tema e nell’atmosfera sospesa di questo romanzo un’immagine della tensione e dell’attesa di eventi distruttivi che percorreva l’Italia del fascismo all’inizio della guerra mondiale; ma Buzzati traspone questa tensione in una specie di tempo fuori della storia, in un orizzonte metafisico che resta in parte astratto e convenzionale.

... Achille Campanile e la scrittura umoristica. La professione dell’umorista

L’umorismo ha un peso essenziale in alcuni dei piú importanti autori studiati in questo capitolo (Bontempelli, Savinio, Landolfi, Delfini) e in altre esperienze contemporanee, come nella narrativa di Palazzeschi (cfr. ..). Ma la letteratura degli anni tra le due guerre vide anche svilupparsi il lavoro di autori che si presentano al pubblico in primo luogo come «umoristi», intrattenendo e divertendo lettori affezionati, con diversi modi di deformazione della realtà e del linguaggio.

Achille Campanile

L’umorista piú scatenato e fecondo, che ha diffuso nella media cultura italiana i modelli di una sua comicità surreale (le cui radici sono in primo luogo nelle scomposizioni comiche dei

.

LE FORME DELLA PROSA TRA LE DUE GUERRE

futuristi, cfr. ..), è il romano ACHILLE CAMPANILE (-), infaticabile artigiano della scrittura, che in una vastissima produzione narrativa, teatrale, giornalistica, si diverte a ridurre le figure umane a esili marionette, ricavando da ogni gesto e da ogni frammento linguistico della piú comune vita borghese deformazioni giocose, invenzioni esilaranti. La scrittura umoristica dell’emiliano CESARE ZAVATTINI, nato a Luzzara nel , morto a Roma nel , raggiunse, tra gli anni Trenta e Quaranta, notevoli risultati: ricordiamo I poveri sono matti (), e Totò il buono (); qui la realtà quotidiana popolare, il mondo semplice e grigio della provincia e della periferia si caricano di luci surreali, moltiplicando all’infinito le figure e gli oggetti. Nel dopoguerra Zavattini offrirà come sceneggiatore un contributo essenziale al nuovo cinema neorealista (cfr. ..) e in vecchiaia rivelerà doti di memorialista immaginoso e polemico. Da ricordare ancora l’umorismo fiabesco dell’istriano ENRICO MOROVICH (-).



Cesare Zavattini

... La critica letteraria. Nel Novecento la critica è diventata sempre piú un processo interno allo stesso farsi della letteratura, e non c’è quasi nessuno dei grandi scrittori che non si sia occupato anche di critica letteraria. Si è soliti distinguere una critica accademica (rivolta soprattutto allo studio della letteratura del passato) da una critica militante (rivolta in primo luogo all’intervento sulla letteratura contemporanea e alla indicazione di problemi e di prospettive nell’orizzonte del presente). Ma la distinzione non è sempre chiara e agevole e si possono trovare molti casi di impegno «militante» da parte della critica accademica, mentre a volte la critica militante si chiude in una visione tutta formalistica e autosufficiente della letteratura. Nella critica accademica domina incontrastato, specialmente negli anni Venti e Trenta, l’insegnamento crociano, ma senza escludere esperienze originali, indipendenti o capaci di svolgerne in senso diverso i suggerimenti. Ricordiamo ATTILIO MOMIGLIANO (-), LUIGI RUSSO (-), FRANCESCO FLORA (-). Per ciò che riguarda la critica militante, oltre i nomi già fatti di De Robertis, Borgese, Cecchi, vanno ricordati critici tra loro diversissimi come ALFREDO GARGIULO (-), ADRIANO TILGHER (-), PIETRO PANCRAZI (-). Ma il critico che ha intrattenuto il rapporto piú intenso e problematico con la letteratura contemporanea, lasciandovi una traccia essenziale, e che con la sua cultura e la sua sensibilità europea ha saputo aderire alle esperienze piú autentiche tra gli anni Venti e Trenta, è stato il piemontese GIACOMO DEBENEDETTI (-): appassionato lettore di Proust, come critico militante (ricordiamo le tre serie dei suoi Saggi critici, , , ) egli ha saputo mettere in luce esperienze non assimilabili in programmi e poetiche precostituite (come quella di Saba). Attento alle scienze umane (in primo luogo alla psicoanalisi) e alle scienze della natura, egli se ne è avvalso per costruire eleganti e sottili interpretazioni sempre attente alla singolarità dell’esperienza letteraria, tenute sul filo di un linguaggio di alta misura stilistica, ricco di spunti narrativi e di scatti ironici: in lui la critica si fa voce della lettura e dialoga con il valore dei testi a cui si riferisce. Grande organizzatore di cultura e docente universitario nel dopoguerra, Debenedetti ha lasciato una fitta serie di testi di lezioni universitarie, pubblicate postume (le piú celebri, considerate il suo capolavoro, quelle su Il romanzo del Novecento, apparse nel ). Negli anni tra le due guerre, sottraendosi al dominio dell’estetica crociana, si è sviluppata anche una varia saggistica capace di muoversi tra le piú diverse forme letterarie e artistiche, intrecciando erudizione e buongusto, sorretta da una scrittura sensibilissima, carica di figure e di oggetti, disponibile alle curiosità piú eterogenee, e da un estremo rigore storico e filologico. Maestro supremo di questa saggistica è stato il romano MARIO PRAZ (-), studioso di letteratura inglese, pronto a muoversi tra tutte le arti. Nell’ambito della storia dell’arte, ha un rilievo essenziale la prosa sontuosa e raffinata di ROBERTO LONGHI (-).

Critica e letteratura Accademici e militanti

Il confronto con Croce

Critici militanti Giacomo Debenedetti

Saggistica letteraria e artistica

EPOCA





GUERRE E FASCISMO

-

... Verso un nuovo realismo.

Moravia e Alvaro

Gli autori di «Solaria»

Dal rilancio della narrativa prodottosi negli anni Venti e da un intreccio tra alcune delle esperienze fin qui seguite si impone, intorno al , un nuovo realismo moderno, lontano sia dai piú diretti schemi naturalistici sia da modi di deformazione espressionistica: esso tende a proporre una immagine critica della realtà, volgendosi sia al mondo dei grandi centri urbani sia a quello della provincia, ma sempre cercando una piú ampia risonanza (e, anche quando rappresenta realtà locali molto circostanziate, si allontana da ogni schema di tipo dialettale, le riferisce sempre a un orizzonte di comunicazione che vuol essere quello dell’intero Paese e che spesso si allarga in senso internazionale). Per questo realismo sono essenziali la prospettiva della memoria e l’analisi dei rapporti e dei conflitti tra le individualità dei personaggi e lo spazio: la realtà si pone come un processo che rivela in modo analitico, pur senza alterare lo sviluppo di fatti concreti, tendenze profonde, risvolti inquietanti, movimenti lirici, tensioni sociali. L’opera piú esemplare e rivelatrice di questo realismo moderno, rivolta all’analisi del mondo borghese cittadino, fu il romanzo Gli indifferenti del giovanissimo Alberto Moravia, apparso nel  (cfr. ..). Ma sullo scorcio finale degli anni Venti ne diede un’espressione significativa anche l’opera di Alvaro (cfr. ..), rivolta alla rappresentazione di una realtà meridionale e provinciale. Per arricchire la coscienza culturale di questo nuovo realismo e per svolgerlo in una direzione europea fu essenziale il contributo di «Solaria» e degli scrittori a essa vicini. L’attenzione alla realtà, la volontà di rappresentare realisticamente e criticamente le molteplici e inquietanti trasformazioni in atto era d’altra parte al centro di molta cultura europea e americana degli anni Venti e Trenta, da cui il nuovo realismo italiano fu vivacemente stimolato. Fu essenziale a tal proposito il diffondersi di un mito dell’America e di un interesse fortissimo per il cinema e la letteratura degli Stati Uniti (cfr. LETTERATURE DEL MONDO, tav. ).

LA LETTERATURA AMERICANA LETTERATURE DEL MONDO

tav. 231

Negli anni Trenta si diffuse in Italia una viva attenzione, specialmente presso le giovani generazioni intellettuali, per la letteratura degli Stati Uniti d’America, sia per quella del secolo XIX che per quella contemporanea, la cui eccezionale vitalità stava suscitando un ampio interesse nella cultura europea. Si svolse allora un ricco lavoro di traduzione di opere narrative del secolo precedente (tra cui i grandi «classici» di Nathaniel Hawthorne -, Herman Melville, cfr. LETTERATURE DEL MONDO, tav. , e Walt Whitman -) e di scrittori contemporanei (Sherwood Anderson, -; Francis Scott Fitzgerald, -; William Saroyan, -; Erskine Caldwell, -; William Faulkner, -; John Steinbeck, -; John Dos Passos, -; Gertrude Stein, -; Ernest Hemingway, -). Di fronte al chiuso orizzonte nazionale, dominato dal fascismo e dall’idealismo, gli scrittori americani offrivano immagini di sfrenata vitalità, un senso di realtà concreta e avventurosa, di partecipazione a una vita libera e moderna: come disse piú tardi Cesare Pavese (cfr. ..), i libri che venivano dall’America permettevano la scoperta di una civiltà «greve di tutto il passato del mondo, e insieme giovane, innocente», «una sorta di laboratorio» dove si cercava un modo di essere moderno, che non era possibile esplorare fino in fondo nella situazione italiana. E alla suggestione della letteratura si accompagnava, con una diffusione sociale molto piú ampia, anche quella del cinema (cfr. ..). Un’opera di mediazione e di scambio con la cultura americana svolsero critici come Giuseppe Prezzolini (cfr. ..), che dal  fu responsabile della Casa Italiana della Columbia University di New York, e soprattutto Emilio Cecchi (cfr. ..), che soggiornò e viaggiò in America nel  e nel , ricavandone articoli per il «Corriere della Sera» e il volume America amara (), che dava però un’immagine piuttosto negativa, consona con il punto di vista del fascismo, della vita sociale americana: un notevole rilievo ebbe comunque la sua raccolta di saggi Scrittori inglesi e americani (). Intanto il giovane Mario Soldati (cfr. ..), dopo un lungo soggiorno in America dal  al , dava nel libro

.

LE FORME DELLA PROSA TRA LE DUE GUERRE



... Romano Bilenchi. Personaggio di grande rigore intellettuale, spirito ribelle e nello stesso tempo disposto a riconoscere il valore di esperienze assai lontane dalla sua, dotato di un senso vivissimo dell’amicizia e della comunità intellettuale, ROMANO BILENCHI, nato a Colle Val d’Elsa nel  e morto a Firenze nel , si formò nell’orizzonte della provincia toscana e fu sulle posizioni del fascismo di sinistra (cfr. ..). La sua formazione si definí in un vivace contatto con le varie tendenze dell’ambiente fiorentino degli anni Trenta, dal gruppo di «Solaria» a quello dei giovani poeti ermetici; particolarmente stretto il suo rapporto con Vittorini (cfr. ..). Entrò poi in contatto con gruppi antifascisti clandestini, e in particolare con i comunisti. Durante la Resistenza, sospesa la sua attività di scrittore, svolse un intenso lavoro giornalistico e con la Liberazione fu tra gli intellettuali piú direttamente impegnati nel partito comunista, partecipando alla fondazione e alla redazione delle riviste «Società» e «Il Contemporaneo» (cfr. ..) e dirigendo dal  a Firenze il quotidiano «Il Nuovo Corriere», che cessò di esistere nel  proprio per il suo distacco dalla linea stalinista dominante nel partito e per la difesa dei moti di protesta polacchi. Vissuto a Firenze, Bilenchi mantenne sempre la sua posizione di comunista aperto e «liberale». La sua prima opera notevole è costituita dai racconti de Il capofabbrica, scritti tra il  e il , uniti dalla medesima prospettiva, quella di un bambino, poi adolescente, e dall’analisi delle difficoltà e dei turbamenti che si danno nel suo rapporto con la famiglia e con il mondo esterno. Nella rappresentazione dell’ambiente provinciale si impone a Bilenchi il modello di Tozzi, unito a varie suggestioni della moderna letteratura europea. Il suo mondo narrativo ruota intorno alla memoria dell’infanzia e dell’adolescenza, sullo sfondo della vita familiare e dei rapporti quotidiani della borghesia e piccola borghesia della provincia toscana.

America primo amore () un’immagine vivace e appassionata, sospesa tra nostalgia e rancore, tra partecipazione e distacco, della realtà americana. Ma l’attività di maggior rilievo per la nuova letteratura fu quella svolta da altri due giovani scrittori, Pavese e Vittorini (cfr. .. e sgg.), che nel corso degli anni Trenta tradussero alcune importanti opere e identificarono nell’America e nella sua letteratura una specie di luogo alternativo, di serbatoio di possibilità vitali, di caratteri umani mitici e originari in movimento verso un mondo moderno libero e autentico. Laureatosi con una tesi su Whitman, Pavese pubblicò tra il  e il  numerosi saggi su scrittori americani, poi raccolti nel  nel volume postumo La letteratura americana e altri saggi; compí numerose traduzioni, tra cui quelle di Moby Dick e di Benito Cereno di Melville (), di Riso amaro di Anderson (), di Quarantaduesimo parallelo di Dos Passos (), dell’Autobiografia di Alice Toklas della Stein (). Vittorini, avvalendosi di vari aiuti, tradusse tra l’altro Luce d’agosto di Faulkner (), Pian della Tortilla di Steinbeck (), Che ve ne sembra dell’America? di Saroyan (). La sua attenzione per la letteratura americana culminò nell’allestimento dell’ampia antologia Americana, corredata di varie note di commento: ma appena stampata dall’editore Bompiani nell’aprile del , essa fu sequestrata dalla censura fascista, che non accettava l’immagine positiva che vi si dava della realtà e della cultura americana; l’editore fece allora uscire l’antologia nel marzo 1942, in una veste diversa, con l’eliminazione di quasi tutte le note critiche di Vittorini e con una prefazione di Emilio Cecchi. Ma anche in questa versione il volume (poi ristampato nella sua veste originaria nel ) suscitò notevole interesse e permise di volgere lo sguardo a un mondo «diverso» da quello dell’Italia che entrava in guerra con gli Stati Uniti d’America (come tra l’altro mostra un saggio, apparso postumo nel , di Giaime Pintor, cfr. ..). Il mito dell’America e della letteratura americana trovò nuove suggestioni negli ultimi anni della guerra, con la presenza delle truppe americane in Italia: e fu ancora alla base delle esperienze del neorealismo, in un mutato clima sociale, mentre si trasformava l’immagine dell’America nella cultura italiana e mondiale.

La formazione

Adesione all’antifascismo

«Il Nuovo Corriere»

Il capofabbrica

EPOCA



Normalità e sofferenza dell’esistere

Infanzia e adolescenza

Anna e Bruno

Conservatorio di Santa Teresa

Gli anni impossibili



GUERRE E FASCISMO

-

Il narrare di Bilenchi tende a una misura linguistica semplice ed essenziale: lontano in questo dal furore espressionistico di Tozzi, esso intende seguire piuttosto la naturalezza dell’esistere, sottolineandone il ritmo monotono e ripetitivo. Da questa apparente normalità sorgono suggestioni evocative, risonanze interiori, momenti di tensione lirica (specialmente nella rappresentazione dell’infanzia), e nello stesso tempo un senso di minacciosa sospensione, di insuperabile sofferenza, legato (in particolare nella rappresentazione dell’adolescenza) alle difficoltà dei rapporti familiari, agli ostacoli e al vuoto affettivo prodotto dall’incontro con la realtà esterna. Solo la scoperta della natura, le fresche immagini della campagna, delle colline, delle ville, dei giardini, offrono una promessa di felicità, di piacere primigenio, di assoluta identificazione con la figura della madre, che invece poi gli eventi quotidiani, i rapporti con i vari membri della famiglia e con gli altri ragazzi si affrettano a smentire, producendo un senso di impotenza e la perdita di ogni protezione affettiva. L’infanzia e l’adolescenza ci vengono incontro come realtà insieme banali, comuni, dimesse e allucinanti, meravigliose, inquietanti: l’esperienza formativa dell’individuo nel mondo della provincia borghese e piccolo-borghese è come in balia di un segreto nonsenso, di una ragione negativa indecifrabile, che in parte avvicina il mondo di Bilenchi a quello piú minaccioso di Kafka. La misura piú perfetta di questa rappresentazione dell’infanzia e dell’adolescenza, con passaggi continui tra ambienti campestri, esistenze vissute all’interno di ville appartate e ambienti di periferia cittadina, è data da alcuni racconti, tra cui si impone Anna e Bruno (). Altri racconti scritti tra il  e il  e raccolti in Mio cugino Andrea () mettono piú direttamente in evidenza il dramma interiore, il senso di privazione e di sconfitta che l’adolescente prova nel rapporto con gli altri. Nel  apparve il romanzo Conservatorio di Santa Teresa, in cui l’evocazione dell’infanzia riconduce Bilenchi alla scoperta della natura e all’intrecciarsi di un nesso contraddittorio di intimità e di estraneità con la propria madre, in un clima di mistero e di sospensione. Una tensione drammatica estrema è presente in tre racconti che forse costituiscono i capolavori di questo autore: i primi due, La siccità e La miseria, del , il terzo, Il gelo, del , riuniti insieme nel trittico Gli anni impossibili (). I tre titoli sono metafore, costruite in tempi tanto diversi, di una minaccia distruttiva che grava sul mondo dell’adolescenza, ma che da essa si allarga a tutta la società, con una forza a cui sembra impossibile resistere. Piú discontinuo è il romanzo Il bottone di Stalingrado (). L’ultimo Bilenchi ha dato uno dei maggiori esempi di scrittura memorialistica contemporanea, con le prose, piene di vivacissime presenze, dedicate in primo luogo al mondo fiorentino degli anni Trenta, raccolte nel volume Amici. Vittorini, Rosai e altri incontri (), poi riprese e arricchite con altre nuove nell’edizione del  e nel volume Due ucraini e altri amici ().

... Un realismo dal punto di vista dei proletari. La realtà delle classi subalterne

Grande novità nel realismo narrativo degli anni Trenta è l’affacciarsi, ancora molto limitato, ma in modo comunque molto piú organico di quanto avvenisse nella letteratura democratica tardo-ottocentesca (cfr. ..), della rappresentazione della realtà delle classi subalterne, operaie e contadine, che tende ad assumere il loro stesso punto di vista, senza vederlo come termine di confronto per l’esperienza dello scrittore borghese.

Ignazio Silone

Quasi sconosciuta restò allora in Italia l’opera dell’abruzzese IGNAZIO SILONE, pseudonimo di SECONDO TRANQUILLI, nato a Pescina nel , militante comunista fin dalla fondazione del partito, esule in Svizzera nel ; nel  abbandonò il partito, dissentendo dall’adesione dei suoi dirigenti allo stalinismo, e negli anni successivi denunciò con particolare asprezza tutti gli orientamenti stalinisti, aderendo nel  al partito socialdemocratico; morí a Ginevra nel .

.

LE FORME DELLA PROSA TRA LE DUE GUERRE

Nel  Silone, gravemente malato, scrisse a Davos, in Svizzera, il romanzo Fontamara, ivi pubblicato in traduzione tedesca nel  (mentre l’originale italiano appariva nello stesso anno a Parigi) e tradotto poi in moltissime lingue. Con uno stile semplice, immediato e concreto, e una capacità di rappresentazione diretta che si avvicina a quella della grande letteratura di réportage (che diede grandi prove nella cultura progressista europea negli anni Trenta), il romanzo rappresentava la vita disperata dei «cafoni» di un poverissimo borgo montano della Marsica. Nelle opere successive Silone oscillò tra l’ambizione a costruire romanzi «di idee», atteggiamenti di troppo esplicito moralismo e modi di troppo consunto naturalismo (ricordiamo Pane e vino, ; Il segreto di Luca, ; L’avventura di un povero cristiano, ); di interesse piú determinante e assoluto la riflessione sulla propria vicenda politica nel volume Uscita di sicurezza (), uno dei maggiori testi saggistici del Novecento. Nello stesso anno in cui appariva in Svizzera Fontamara, in Italia veniva pubblicato il romanzo Tre operai, scritto tra il  e il  da CARLO BERNARI (pseudonimo di CARLO BERNARD, nato a Napoli nel , morto a Roma nel ), che rappresentava il mondo proletario napoletano attraverso le esperienze di tre personaggi, tutti animati dalla speranza in una vita diversa, ostacolata dalla grigia realtà del lavoro. Il romanzo, per la sua tematica e il suo linguaggio, costituí uno dei punti di riferimento essenziali del neorealismo; ma la successiva produzione dell’autore suscitò minore interesse (ricordiamo Speranzella, ; Vesuvio e pane, ; Domani e poidomani, ; Amore amaro, ).



Fontamara

Carlo Bernari

˜

10.7 LA NUOVA POESIA ... La lirica del Novecento.

In questo capitolo si seguirà il definitivo affermarsi di una nuova dimensione della poesia, che svincolerà la lirica da ogni residua continuità con le forme della tradizione, dai legami funzionali con la comunicazione sociale, dai rapporti e dalle interferenze con gli altri generi letterari. Si tratta di esperienze che in modi diversi devono confrontarsi con la caduta dell’immagine del poeta-vate propugnata ancora da D’Annunzio e dallo stesso Pascoli, con la crisi del linguaggio e del rapporto con il mondo materiale vissuta dai crepuscolari, con la distruzione degli schemi tradizionali messa in atto dai futuristi, con la spinta verso il frammento morale e autobiografico operata dai vociani. Da questa serie di confronti sorge, già intorno agli anni Dieci, una poesia nella quale successivamente si sono potuti identificare i caratteri dominanti della lirica del Novecento. Questa lirica tende a porsi come voce di un soggetto solitario e assoluto, che assume entro di sé un’esperienza carica di significati e non sente la realtà circostante come qualcosa da riprodurre direttamente, ma come l’orizzonte su cui si proietta la sua interiorità. Il soggetto poetico abbandona i modi della tradizione classica e romantica, il repertorio consueto delle immagini e dei temi culturali e storici. Esso non ha piú di fronte una realtà organica e compatta; libera la sua voce da contenuti già organizzati e codificati, crea rapporti liberi tra le immagini, si svincola da una troppo rigida organizzazione sintattica, cerca nuove possibilità metriche e ritmiche, preferisce concentrarsi in misure brevi e intense evitando organismi ampi e strutture di lungo respiro. La lirica sembra insomma allontanare da sé le scorie e tende a raggiungere il massimo di «purezza»: il soggetto scava dentro se stesso e nel fondo dell’esistere, puntando sull’intensità della voce, sulla sua capacità di scendere in profondità, addensando intorno a sé svariati richiami ed effetti. La parola abbraccia lo spazio di un’esperienza assoluta, trasforma le tracce dell’esistenza individuale, i frammenti della realtà personale e autobiografica, in una specie di forma astratta dell’io, che spesso si rivela in modi oscuri e difficili: la lirica è la voce del viaggio di questo io nella natura e nella realtà, è l’immagine dell’uomo nel suo solitario vagare nella civiltà moderna, in un difficile e spesso impossibile tentativo di riconoscere se stesso, di riconoscere le cose, di riconoscersi in esse.

Al di là della tradizione

Il soggetto poetico e la realtà

Astrazione dell’io

... L’ultimo «maledetto»: Dino Campana. Del tutto atipica e solitaria fu l’esperienza di DINO CAMPANA, inauguratore della nuova lirica del Novecento e insieme ultima, disperata incarnazione della figura ottocentesca del «poeta maledetto». Intorno alla sua biografia e alla sua poesia è nato del resto un vero e proprio mito, che ha avuto particolare risonanza in anni a noi piú vicini: un mito che ripropone, anche se in modi diversi e originali, quello di Rimbaud, il «poeta maledetto» per eccellenza (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ).

Disperata figura mitica

Nato a Marradi (Firenze), nel , Dino Campana fu preda già dall’adolescenza di violenti turbamenti psichici; compí vari viaggi e vagabondaggi in Italia e all’estero senza terminare gli studi, entrò in contatto con «La Voce» e con gli ambienti culturali fiorentini e si dedicò anche alla pittura. Nel  consegnò ai direttori di «Lacerba», Soffici e Papini, il manoscritto di un libro di poesie dal titolo Il piú lungo giorno: ma esso fu perduto da Soffici (fu ritrovato solo nel ), e Campana dovette ricostruire a memoria il testo, facendolo stampare a Marradi nel  con il nuovo titolo di Canti Orfici, vendendone poi le copie per le strade e i caffè d’Italia. Cercò di arruolarsi volontario nella prima guerra mondiale, ma fu riformato; continuò la sua vita errabonda, e nel  ebbe una drammatica relazione amorosa con Sibilla Aleramo (cfr. ..). Nel gennaio del  fu internato nel manicomio di Castel Pulci, presso Firenze, dove rimase fino alla morte, avvenuta il ° marzo .

Un’esistenza dolorosa

Il piú lungo giorno

EPOCA



Una poesia istruttiva

Furore espressionistico Simboli di una realtà aggressiva

Canti Orfici



GUERRE E FASCISMO

-

Collegandosi alle posizioni piú radicalmente «negative» della cultura dell’Ottocento europeo (da Baudelaire a Rimbaud, a Poe, a Nietzsche), Campana cerca di scatenare nella poesia (accompagnando ai componimenti in versi anche vari «poemetti in prosa») una volontà anarchica e distruttiva: mira a sconvolgere gli equilibri della comunicazione borghese e a creare folgorazioni, lampi improvvisi, immersioni nel fondo oscuro di una realtà «notturna». Questa aspirazione si sente con forza particolare nei testi estranei ai Canti Orfici, soprattutto quelli apparsi su riviste, raccolti sotto il titolo di Versi sparsi, quelli del Quaderno, che raccoglie materiale scritto tra il  e il , quelli contenuti in taccuini e carte varie. La poesia di Campana raggiunge qui un singolare furore espressionistico, appoggiandosi a immagini violente e accese, a bagliori sinistri, a improvvise alterazioni dei movimenti sintattici, a un uso ossessivo della ripetizione, con effetti stravolti di circolarità. Legandosi alla tradizione simbolista (cfr. PAROLE, tav. ), Campana insegue le corrispondenze e le analogie nascoste tra le cose, ma nel loro disordinato fluire avverte un senso di oppressione, «confitto nel masso» di una realtà che gli viene incontro in vertiginosi movimenti, in prospettive visive che fanno smarrire ogni controllo. I Canti Orfici (testi in versi e in prosa) tendono invece a organizzarsi su di una misura tragica e sublime, che, come suggerisce il titolo (che allude agli antichi misteri orfici, cfr. PAROLE, tav. ), ambisce a offrire una conoscenza dei caratteri piú profondi e segreti della realtà. Ciò riduce la carica aggressiva dell’immaginazione di Campana, la fa tendere verso un piú tradizionale equilibrio lirico, che si allarga verso una varia tematica storica, religiosa, moraleggiante; squarci e lampi improvvisi sconvolgono però la misura della parola poetica. Emergono figure mitiche, sinistre guardiane del precario equilibrio dell’universo, come la Chimera (figura, questa, particolarmente amata da Campana); si afferma la fascinazione della notte nelle sue pieghe piú minacciose; le cose stesse, i sentimenti, i gesti, sembrano negarsi nell’atto stesso in cui vengono nominati. Per Campana il mondo è un metallico e limaccioso teatro dell’alienazione, della perdita di sé, che può essere detto solo da una scrittura allucinata e senza coscienza, scritta con «il sangue alle dita».

... La tensione morale di Clemente Rèbora. Una morale dell’umiltà

Una poetica espressionistica

Tensione morale e ricerca di verità caratterizzano tutta la vita e l’opera di CLEMENTE RÈBORA, legato all’inquieto moralismo e all’esigenza di rapportarsi alla realtà propri della tradi-

zione lombarda. Nella sua poesia l’io si impegna in un confronto acceso con la totalità, in una ricerca ostinata e sofferta che approda alla verità «totale» della religione. Vicino inizialmente al «La Voce», Rèbora era però assai lontano dalle ambizioni di protagonismo intellettuale, dall’esaltazione della forza della soggettività, dalle ideologie del «negativo» presenti nella rivista: il suo moralismo aspirava a una riduzione del valore dell’io, a una dedizione a umili compiti quotidiani. La sua poesia ha una forte capacità di creare azioni e reazioni tra cose, immagini, parole, entità astratte; sottopone ogni senso e ogni segno a una martellante e ostinata spoliazione, scava intorno alle cose e alle parole con evidenti modi espressionistici.

ORFISMO PAROLE

tav. 232

/ ORFICO

Con riferimento al mitico cantore e poeta Orfeo e a una religione misterica dell’antica Grecia (di cui Orfeo era ritenuto fondatore), si usano questi termini per designare una poesia e una musica che intendono presentarsi come rivelazione assoluta, fondazione di civiltà, sintesi del valore profondo e originario della vita, in contatto con il mistero e con la magia; in Italia un modello essenziale in tal senso è dato dai Canti Orfici di Campana. Col nome di orfismo o di cubismo orfico si definisce anche un movimento pittorico sviluppatosi in Francia nel secondo decennio del Novecento, che, staccandosi dal cubismo, svolge nuove ricerche sulla luce e sul colore e cerca un’analogia con la musica (il suo rappresentante piú noto è Robert Delaunay, -).

.

LA NUOVA POESIA

Nato a Milano nel , Clemente Rèbora ebbe un’educazione laica e compí studi letterari e filosofici; si prestò poi con dedizione all’insegnamento, in istituti tecnici e in scuole serali popolari. Collaborò al «La Voce», per le edizioni della quale apparve nel  il libro Frammenti lirici; partecipò alla grande guerra come ufficiale di fanteria, e riportò un grave trauma nervoso in seguito a un’esplosione. Il suo inquieto bisogno di fede e di verità lo portò a una conversione al cattolicesimo, maturata nel , con un conseguente abbandono della poesia e un ingresso nel Collegio Rosmini di Stresa: nella casa rosminiana di Domodossola fu ordinato sacerdote nel . Svolse intensamente il suo ministero religioso, fino alla morte, avvenuta a Stresa il ° novembre .

I Frammenti lirici sono costituiti da settantadue testi, legati tra loro da fitti rapporti interni. Rèbora vi si impegna nella ricerca di una parola che possa uscire di sé e ritrovare una coscienza collettiva, ostacolato da una realtà insidiosa e difficile, da un mondo cittadino «senza amore», in cui tutte le esistenze restano inviluppate e prigioniere: a questo mondo malsano e oppressivo si oppone la campagna, che suscita spesso visioni positive di natura salutare e serena. Ma piú in generale tutta la vita sembra spezzarsi e aggrovigliarsi in una condizione sospesa: l’esistenza è costretta a negare le proprie autentiche potenzialità, pur lasciando balenare possibilità diverse, pur vivendo nell’attesa di qualcosa di piú vero. La successiva breve raccolta dei Canti anonimi () vuole uscire, anche nel titolo, da ogni privilegio della voce individuale, e seguire il «bisbiglio», le labili ma sicure tracce di una verità che si annuncia nel rapporto con gli altri. Il ritorno di Rèbora alla poesia negli ultimi anni della sua vita ha originato alcune delle piú autentiche espressioni di religiosità della letteratura italiana del Novecento: il Curriculum vitae () e i Canti dell’infermità (-).

 La vita

La conversione

Esistenze sospese: i Frammenti lirici

Canti anonimi I componimenti religiosi

... Il mondo deserto e frantumato di Camillo Sbarbaro. Nell’opera di CAMILLO SBARBARO, nato a Santa Margherita Ligure nel  e morto a Savona nel , trova compimento la crisi del linguaggio poetico tradizionale e del poeta come custode di verità supreme e di modelli intellettuali. Sbarbaro visse con grande coerenza, sempre appartato rispetto al mondo letterario, in un semplice e solitario spazio privato e quotidiano. Vivissima fu la sua amicizia con ANGELO BARILE (-), poeta ligure di valore non trascurabile, cui si deve la scoperta di Sbarbaro, e con Eugenio Montale. La sua poesia, che si rivela appieno nel  con la raccolta Pianissimo, dà voce a una condizione di indifferenza e di «aridità», che in parte ricorda i crepuscolari e Gozzano; tuttavia Sbarbaro è lontano dal repertorio di immagini e dall’ironia dei crepuscolari, mirando a scarnificare la parola, a ridurre la rappresentazione della realtà all’essenziale. Questa ricerca conduce alla constatazione dello stato di vuoto che domina il mondo e il soggetto, costretto ad abitare il nulla. «Spaesato e stupefatto Sbarbaro passa tra gli uomini che non comprende, tra la vita che lo sopravanza e gli sfugge» (Montale); egli cammina in mezzo alle cose «come un sonnambulo». A tratti sembra venirgli incontro qualche possibilità di emozione, qualche improvviso barlume di vitalità, che subito ricade nel vuoto, in un esistere privo di eventi, poiché «il mondo è un grande / deserto», dove non si può far altro che contemplare la propria arida esistenza («Nel deserto / io guardo con asciutti occhi me stesso»). A Pianissimo seguirono pochi altri versi, dalla misura piú distesa, rivolti in primo luogo a fissare le immagini del paesaggio ligure e raccolti solo nel  in Rimanenze. Sbarbaro si rivolse poi alla prosa, con l’elaborazione di brevi testi che rivelavano la misura originale del suo linguaggio: la prima raccolta, con il titolo Trucioli (-), apparve nel  e a essa ne seguirono altre (Liquidazione, ; Fuochi fatui, ; Scampoli, , Gocce, ; Quisquilie, ),

Crisi del poeta-vate

Pianissimo

Abitare il nulla

Altre raccolte

EPOCA





GUERRE E FASCISMO

-

i cui titoli sempre sottolineavano il carattere marginale, residuale, provvisorio, frammentario di questa scrittura. Periodi brevi ed elementari definiscono la realtà nei suoi contorni piú secchi, liberandola da ogni significato superiore o segreto, in una levigata concretezza da cui sprigiona a tratti un’immobile e fulminante crudeltà.

... Tra ricerca e tradizione. Arturo Onofri

Giorgio Vígolo

Diego Valeri

Tra le esperienze che appaiono ai margini del percorso della nuova lirica del Novecento e mantengono piú stretti legami con la tradizione, è in primo piano, tra gli anni Dieci e Venti, quella del romano ARTURO ONOFRI (-); egli mirò a recuperare le forme del linguaggio della tradizione, usandole in una prospettiva simbolista, per ricavarne significati religiosi, profondi e positivi, per affermare la forza della voce poetica, la sua capacità di entrare in contatto con i valori piú autentici. A Onofri fu legato un altro romano, GIORGIO VÍGOLO (-), finissimo critico musicale, studioso di Belli, traduttore dal tedesco, nelle cui raccolte poetiche (a partire da Conclave dei sogni, ) si sente un forte legame con la grande tradizione romantica, da cui si svolgono intense evocazioni di simboli e di fantasmi. Ancora piú appartato, rispetto alle tendenze della lirica novecentesca, è il veneto DIEGO VALERI (-), che nelle sue numerose raccolte si pone come «un poeta dell’oggettivazione» (L. Baldacci) e disegna con classica nitidezza le immagini di una natura estranea alle tracce del presente.

... Umberto Saba: una vita fra tenerezza e angoscia. Lontano dalla poesia «pura»

Un ebreo triestino

Gli studi e la vocazione letteraria

L’esordio poetico

La vicenda personale di UMBERTO SABA, la sua figura intellettuale, la sua opera hanno caratteri del tutto particolari, che lo pongono assai lontano dalle tendenze dominanti nella cultura italiana di questo secolo: la sua poesia sembra piuttosto inaugurare una linea alternativa, rivolta a un piú diretto interesse alla vita e alla realtà, estranea a una ricerca di linguaggio «puro» e assoluto. La posizione appartata di Saba trova una delle prime motivazioni nelle sue radici triestine ed ebraiche (ai margini degli orizzonti culturali italiani e nello stesso tempo con un’apertura europea), che lo avvicinano a Svevo, di vent’anni piú vecchio. UMBERTO POLI (che solo nel  assunse lo pseudonimo di Saba, divenuto poi anche suo cognome anagrafico) nacque a Trieste il  marzo  da madre ebrea; il padre abbandonò la famiglia in coincidenza con la nascita del figlio che fino ai tre anni fu affidato a una balia slovena, di religione cattolica, la Peppa, nella cui casa il poeta riconobbe piú tardi una specie di «paradiso», perduto al ritorno nella casa materna. Qui, con la madre e due zie, visse gran parte dell’infanzia e dell’adolescenza. In questo difficile ambiente familiare il piccolo Umberto ebbe molteplici traumi e angosce, che produssero piú tardi una grave forma di nevrosi. Deciso a occuparsi di letteratura, cominciò a seguire gli studi universitari a Pisa nel . Tra il  e il  fu a Firenze, cercando un contatto con le forme piú vive della letteratura italiana, ma sentendo una fondamentale estraneità per gli ambienti letterari della città. Come cittadino italiano (nonostante l’appartenenza di Trieste all’Impero austriaco) compí il servizio militare in Italia, tra Firenze e Salerno, nel -. Rientrato a Trieste si costruí un nido familiare e un’esistenza «normale» sposando, all’inizio del , Carolina Wölfler (detta Lina), che conosceva già da alcuni anni e da cui ebbe una figlia. Alla fine del  faceva intanto uscire a Firenze, a proprie spese, usando per la prima volta il nome di Umberto Saba, il primo volume di versi, Poesie. Nelle edizioni del «La Voce» pubblicava nel  Coi miei occhi, divenuto poi Trieste e una donna. Per rimediare a una difficile crisi nei loro rapporti, Saba e la moglie si trasferirono nel  a Bologna e nel  a Milano. Con lo scoppio della guerra mondiale egli prestò servizio militare lontano dal

.

LA NUOVA POESIA

fronte; finita la guerra tornò a Trieste, ora italiana, acquistando una libreria antiquaria e occupandosi della sua gestione, guardando come da lontano al mondo intellettuale: in questa posizione appartata visse gli anni del fascismo, continuando però a pubblicare versi in varie riviste e raccolte (tra cui la prima edizione del Canzoniere, nel , anno in cui morí la madre). La malattia nervosa spingeva nel frattempo lo scrittore alla terapia psicoanalitica, da lui iniziata a Trieste nel . Nacque cosí il bisogno di approfondire la conoscenza dell’opera di Freud che, insieme a quella di Nietzsche, gli apparirà uno strumento essenziale per capire la realtà della condizione dell’uomo. Negli anni successivi, mentre la sua poesia trovava una nuova vitalità sotto la spinta dell’esperienza psicoanalitica, la sua esistenza diveniva sempre piú inquieta per il precipitare della situazione mondiale: colpito dalle leggi razziali, dovette affidare la libreria al fedele commesso Carlo Cerne, pur continuando a occuparsi della sua gestione. Dopo l’ settembre  dovette fuggire con la famiglia da Trieste, nascondendosi a Firenze, cambiando continuamente casa, confortato solo dalle visite di pochi amici, tra cui Montale. Nel gennaio del  si trasferí a Roma, vivendo una breve fase di entusiasmo per le prospettive di rinnovamento che sembravano aprirsi con l’uscita dalla guerra: si accostò al partito comunista, avanzando però molte riserve sul dogmatismo dei militanti e ricordando la necessità di tener conto, per una vera liberazione dell’uomo, delle condizioni esistenziali e affettive e dei rapporti concreti tra le persone. Alla fine del  (anno in cui apparve la nuova edizione del Canzoniere) si trasferí a Milano, cercando di vivere del lavoro editoriale. Tornato a Trieste nel maggio del , ebbe varie amarezze che aggravarono la sua malattia: nel  iniziò una lunga serie di ricoveri a Roma, Trieste e Gorizia. La sua sofferenza era illuminata da sempre piú rari barlumi di poesia e nel  dal romanzo, rimasto incompiuto, Ernesto, che egli considerava «scandaloso» e che apparirà postumo nel . Morí a Gorizia il  agosto . Le ultime raccolte di poesia entravano a far parte dell’edizione postuma del Canzoniere, apparsa nel .



La libreria antiquaria

L’esperienza psicoanalitica

Firenze e Roma

Milano

... Poesia e cultura di Saba. Nella poesia e nella cultura italiana del Novecento Saba incarna il rifiuto di ogni legame tra poesia e «modernità»: egli sente la parola poetica come voce della «vita» e del sentimento, segno di verità e di autenticità, abbandono totale alle forme del mondo e dell’esistenza. Saba è lontanissimo sia dall’aspirazione delle avanguardie a immergersi nel flusso della storia, sia dalla ricerca di una poesia «pura» e assoluta, sottratta allo scorrere del tempo: per lui, in ogni momento, la poesia è emozione che parte dalle occasioni dell’esistenza comune, dagli incontri della vita cittadina, dai rapporti familiari, dall’aspirazione ad amare e a capire le ragioni della gioia e del dolore. La sua lirica si riferisce sempre a esperienze concrete, sconfina nel racconto: le sue raccolte suggeriscono episodi, incontri, sorprese, accumulano le trame di un «romanzo» personale. Contrariamente a gran parte della poesia del suo tempo, quella di Saba si pone in un rapporto di continuità con la tradizione: le forme convenzionali del linguaggio poetico italiano costituiscono per lui la base necessaria di ogni espressione; usarle e ripeterle significa inserirsi entro una forma collettiva, parlare una lingua all’interno di una convenzione sociale. Molti sono i poeti italiani di cui si sentono gli echi nella poesia di Saba: ma la sua preferenza va ai grandi autori tra Settecento e Ottocento (in primo luogo a Leopardi) e in genere al linguaggio del melodramma, a cui egli riconosce la capacità di esprimere gli affetti piú autentici attraverso il massimo di convenzionalità e di popolarità. La sovrapposizione tra il linguaggio letterario e il linguaggio comune, quotidiano e familiare, può dare spesso luogo a stridori, a improvvise cadute di tono, percepibili con particolare evidenza nella fase iniziale della scrittura di Saba. Ma nei momenti piú «alti» il suo linguaggio si svolge in modo semplice e diretto, è leggerissimo e carico di sfumature, capa-

L’emozione della poesia

Un «romanzo» personale Convenzioni e comunicazione

Linguaggio letterario e linguaggio comune

EPOCA



La dimensione «infantile»

Un malessere sotterraneo

La cultura del «negativo»

Psicoanalisi e poesia



GUERRE E FASCISMO

-

ce di colpire nel profondo con un’assoluta naturalezza, che viene sempre sorretta da una musicalità elementare, quasi sospesa. Una delle ragioni della grandezza di Saba, della sua eccezionalità nel panorama del nostro secolo, sta proprio nella ricerca di una dimensione «infantile»: per il poeta triestino la poesia è come una voce che mette in scena desideri e tensioni che trovano nell’infanzia la loro radice. Ma siamo lontani dal «fanciullino» di Pascoli: il richiamo all’infanzia comporta qui l’aspirazione a una felicità «calda» e concreta, fatta di desideri e di istinti, affidata a una spontanea e libera sensualità. La sincerità e la spontaneità di Saba, il candore e l’immediatezza della sua poesia si complicano però in rapporto agli irrisolti nodi psicologici che gravano fortemente sul suo carattere e sulla sua esistenza: in tutta la sua opera si avverte quel fondo di sofferenza che risulta dalla sua nevrosi. Dietro la parola si affaccia un male sotterraneo; la poesia appare allora una forma di difesa da un «abisso», un’operazione paradossale che mira a estrarre bellezza e gioia dal dolore piú intollerabile: e finisce per oscillare tra un’affermazione positiva del valore del mondo e una negazione radicale e senza speranza. Saba è in contatto con il «negativo» con spontaneità e immediatezza, anche grazie a una coscienza culturale di respiro europeo, che risale alle forme piú avanzate dell’arte «negativa» della prima metà del secolo. Dalla grande cultura europea lo scrittore triestino ricava una tensione ad approfondire le contraddizioni che sono alla base del comportamento dell’uomo. Partendo da un’iniziale formazione tutta letteraria e dalle esigenze di «vita» autentica che sprigionavano dalla sua particolare condizione e dalla sua idea della poesia, Saba si accostò nel corso degli anni a due autori che, a partire dagli anni Trenta, considerò suoi numi tutelari, Nietzsche e Freud: in essi vide coloro che piú avevano saputo trarre alla luce gli istinti segreti che condizionano ogni comportamento dell’uomo e dell’intera società. La stessa esperienza della psicoanalisi lo portò ad approfondire il senso della poesia, del suo legame con i desideri e con la vita psichica profonda: e di forte interesse è un suo articolo su Poesia, filosofia e psicanalisi, scritto nel  in polemica con Croce, che aveva negato la rilevanza della psicoanalisi per la poesia e per la filosofia.

... Genesi, struttura e temi de Il Canzoniere. Un’opera unitaria

Dopo aver pubblicato le sue prime raccolte di versi nel  e nel , già intorno al  Saba pensò di raccogliere la sua poesia in un’opera unitaria, in cui fosse evidente l’intreccio tra vita e creazione artistica. Egli cominciò allora a lavorare sulla sua ricca produzione precedente, che in alcuni casi ricordava solo a memoria o aveva affidato a fogli sparsi. Scelse e riorganizzò i vari testi, modificandoli; nello scrivere molte delle nuove poesie (che intanto riuniva in raccolte parziali), pensò al posto che avrebbero preso in quell’opera globale che doveva riassumere il senso della sua vita. Attribuí a questo libro il titolo di Canzoniere, che lo poneva al punto estremo della tradizione italiana, rovesciando l’immagine del «canzoniere» tradizionale, sottraendosi allo splendore e alla «purezza» del modello del Petrarca.

I materiali e le edizioni

Il Canzoniere si formò cosí dalla successione delle diverse raccolte, disposte in ordine cronologico, legata ciascuna a un tempo e a una situazione della vita del poeta: vi confluirono man mano sia raccolte già pubblicate a parte, sia quelle ancora inedite. La prima edizione del  non fu che il risultato di un primo momento della vita del poeta; nelle edizioni successive si ebbero modificazioni dell’ordinamento e varianti spesso notevoli dei testi già compresi nella prima, e l’inserzione di nuovi gruppi di componimenti. Il libro si modificò attraverso un continuo travaglio, fino all’edizione postuma, l’unica in cui poterono apparire anche poesie scritte precedentemente per fungere da Epigrafe all’opera dopo la morte del poeta. Il valore che per Saba aveva quest’opera lo spinse a scrivere, tra il  e il , una Storia e cronistoria del Canzoniere, pubblicata nel , e giocosamente presentata come «tesi di lau-

Storia e cronistoria del Canzoniere

.

LA NUOVA POESIA



rea» di un certo Giuseppe Carimandrei. È un testo strano, affascinante e ambiguo, in cui il poeta afferma la piú spavalda e tranquilla coscienza del proprio valore, dà indicazioni che dischiudono in modo diretto e sconvolgente i significati delle sue poesie, ma spesso fornisce anche tortuose giustificazioni, modifica artificiosamente il percorso reale dei processi creativi della sua scrittura.

Secondo le intenzioni di Saba, Il Canzoniere andrebbe letto come un’opera unitaria, guardando ai rapporti tra le diverse parti, al ritornare di temi, figure, situazioni, ossessioni: solo una lettura cosí orientata potrebbe far capire come uno dei caratteri essenziali di questo libro vada ritrovato in un senso di angoscioso «ritorno», in un avvilupparsi di infanzia, giovinezza, maturità e vecchiaia, di luoghi, situazioni, volti, amori, apparizioni, sogni, in un cerchio che salda la nascita e la morte, in un impossibile desiderio di raggiungere uno spazio felice in cui immergersi. Nelle poesie giovanili è già evidente un fortissimo legame tra scrittura e situazioni del quotidiano, con un mondo cittadino e campestre guardato con occhio adolescenziale, nei suoi colori piú semplici, nella sua spontanea musicalità: totale appare l’aderenza alle forme piú tradizionali e convenzionali, con aspetti candidamente scolastici, come in un linguaggio formatosi sui classici studiati a scuola; ma insieme c’è una volontà di canto dispiegato, una ricerca di abbandono alla piena dell’affetto e del dolore. I primi grandi esiti della poesia di Saba sono dati però dalle raccolte Casa e campagna (-) e Trieste e una donna (-). Nella prima si celebra la vita familiare come un porto di salute e di dolcezza: in un sereno orizzonte campestre la figura della moglie riassume in sé i caratteri benigni di un mondo animale, visto con occhi infantili e primigeni. La raccolta Trieste e una donna è invece dominata da disagio e sofferenza, volontà di cantare un amore che accetta il tradimento e la menzogna, che rivendica la propria purezza proprio per le difficoltà del rapporto, le incomprensioni, la non comunicazione. Saba costruisce qui il «romanzo» di una crisi familiare, che porta a un’affermazione di amore piú profondo e difficile, che accetta totalmente la donna proprio perché appare fuggitiva, menzognera e irraggiungibile. Nelle raccolte successive questa tensione sembra attenuarsi: come sottrattosi a un baratro, il poeta cerca una voce piú «serena», che vuol trarre alla luce il «bene» presente nella realtà, inseguendone le forme piú leggere, come nascondendosi dalla violenza degli anni della prima guerra mondiale e del dopoguerra. Nella raccolta Cose leggere e vaganti () si affaccia l’immagine della figlia e di altre figure infantili e giovanili (a cui si collega quella stessa del poeta bambino). A queste figure è affidato il supremo valore della «leggerezza», che Saba sentiva ora con forza anche in seguito alla lettura di Nietzsche, e nel segno della leggerezza sono anche le poesie de L’amorosa spina (). Un diretto confronto con il linguaggio e gli schemi della tradizione melodrammatica (in primo luogo la forma della canzonetta, cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ) si ha in Preludio e canzonette (). Sul motivo della leggerezza, in forme forse troppo stilizzate, si appoggiano ancora i testi di Fanciulle (), galleria di figure di adolescenti.

Una svolta essenziale è rappresentata da Cuor morituro (-) in cui, per la prima volta, la poesia di Saba evoca il «paradiso» dei primi anni passati presso la nutrice Peppa. Preludio e fughe (-) tenta di costruire una poesia aperta in un gioco di intrecci, echi, sospensioni tra voci diverse, «care voci discordi», che vorrebbe tradurre in parole l’effetto delle «fughe» musicali. L’esperienza della psicoanalisi agisce in modo decisivo su Il piccolo Berto (-), in cui il richiamo all’infanzia perduta si dà attraverso una serie di drammatiche scissioni, sdoppiamenti, confronti tra l’io attuale del poeta, l’immagine di se stesso bambino, altre immagini di bambini del presente e del passato, altre immagini «doppie», come quella delle due madri da lui avute (la nutrice e la madre vera). Nell’affettuosa nitidezza del linguaggio, l’appassionato richiamo alla calda gioia dell’infanzia si stravolge e si carica di sensi minacciosi.

Odissea del «ritorno»

Casa e campagna

Trieste e una donna

Cose leggere e vaganti

L’amorosa spina Preludio e canzonette Cuor morituro Preludio e fughe L’esperienza psicoanalitica: Il piccolo Berto

EPOCA



Ultime cose

Mediterranee

Epigrafe



GUERRE E FASCISMO

-

Nelle due raccolte seguenti, Parole () e Ultime cose (), Saba sembra cercare una piú concisa essenzialità, che gli fa sfiorare quei caratteri della «lirica moderna» che si imponevano negli anni Trenta: si sente qui la suggestione di Ungaretti e soprattutto di Montale. Nell’avvicinarsi della vecchiaia Saba scopre un effetto di aridità e di solitudine, che in Ultime cose sembra avvolgere il discorso nell’ombra: le parole si rivolgono a un destinatario sfuggente, un fanciullo amico, un tu che è oggetto d’amore e insieme immagine della propria giovinezza perduta. Questa figura domina ancora in Mediterranee (), dove si proietta in nomi di personaggi mitici, che percorrono paesaggi marini incontaminati. Le amarezze che si accumulano negli anni del dopoguerra introducono una definitiva lacerazione, che agisce con forza distruttiva nella raccolta Epigrafe, che risale al -, ma che il poeta destinò alla pubblicazione postuma, come chiusura del Canzoniere: sentendosi precipitare in un «tempo triste», sia per la situazione personale che per quella storica, Saba affida al suo «triste italiano» la confessione di un difficile, e per lui inconfessabile, rapporto umano; offre se stesso «morto» a un «popolo di morti». Ma la sua ultima stagione, nell’aggravarsi della malattia, ha un ultimo delicato momento nelle poesie di Uccelli () e Quasi un racconto (), che alle delusioni del mondo e dei rapporti umani oppongono un colloquio con il piccolo e limitato mondo degli uccelli.

... Gli scritti in prosa. «Giungere al cuore delle cose»

RicordiRacconti Scorciatoie e raccontini

Ernesto

Negli scritti in prosa di Saba la parola si svolge con nitidezza, sostenendo un pensiero sempre sicuro dei propri obiettivi, del proprio legame con l’esperienza della vita: qui egli tocca i piú complicati nodi psicologici, i piú ardui problemi letterari e culturali con una chiarezza quasi elementare, con una leggerezza e una grazia talmente eccessive da apparire allucinate. Il suo stile mira senza esitazione a «giungere al cuore delle cose, al centro arroventato della vita»; gli basta «mostrare» se stesso per toccare come per incanto nodi essenziali, che altri riuscirebbero a raggiungere solo dopo lunghi sforzi. E per questo è lacerante la confessione personale nell’epistolario, che ancora non è stato ordinato e pubblicato. Negli anni Dieci il rivelarsi della nuova poesia di Saba fu accompagnato da alcuni testi narrativi, apparsi poi nel , con altre prose successive, nel libro Ricordi-Racconti. Nel volume del  Scorciatoie e raccontini, Saba mira a risolvere l’espressione in prosa in momenti di riflessione e in racconti in miniatura. Le «scorciatoie» sono circa duecento aforismi, sottesi da una leggerissima ironia, sulla letteratura, la cultura, la politica, il costume: in modo candido e sicuro, sotto il segno di Nietzsche e Freud, Saba rivendica qui una conoscenza radicata nel presente, attenta alle forze oscure che agiscono sugli uomini e al loro inestinguibile e sempre insoddisfatto bisogno di felicità. Il romanzo incompiuto, in cinque «episodi», a cui egli lavorò nel  in una pausa del suo male, Ernesto (pubblicato postumo nel ), appare come un ultimo confronto del vecchio poeta con la propria adolescenza, in una sincerità esasperante e «scandalosa», che guarda agli eventi del passato con il proposito di non nascondere nulla, prendendo avvio dal racconto di un incontro omosessuale. Con una narrazione in terza persona che sfiora delicatamente la realtà, con ampi momenti dialogici in cui si inserisce il vivace e nitido dialetto triestino, viene rappresentata una iniziazione, quella dell’adolescente Ernesto (evidente figura autobiografica), al sesso e alla vita.

... Giuseppe Ungaretti: la vita. Un simbolismo moderno

Alla fiducia di Saba nella capacità della parola, nel suo saper «cantare» direttamente la vita e i sentimenti, si oppone con GIUSEPPE UNGARETTI la ricerca di una forma poetica assoluta ed essenziale, a partire dal vuoto e dalla consunzione del linguaggio. La sua poesia prende origine dalla constatazione di come tutte le tradizionali possibilità del linguag-

.

LA NUOVA POESIA

gio si siano esaurite, si apre una strada a partire dal silenzio e dal «segreto»: per questa via giunge a una esaltazione quasi mistica della parola, che scopre un nuovo rapporto con gli aspetti piú preziosi e oscuri della tradizione. Ungaretti inserisce, per la prima volta in modo coerente e integrale, la poesia italiana entro le prospettive del simbolismo europeo (cfr. PAROLE, tav. ); trovando un punto d’incontro tra avanguardia e tradizione, la porta a un pieno possesso della modernità, che fa di lui il poeta «moderno» e novecentesco per eccellenza. Anche le origini di Ungaretti sono decentrate rispetto all’orizzonte della cultura nazionale. Nato ad Alessandria d’Egitto, come Marinetti (cfr. ..), il  febbraio , egli apparteneva a una famiglia emigrata dalla zona di Lucca. La sua passione per la poesia nacque negli anni della scuola e si sviluppò nella vivacissima città egiziana. In difficoltà economiche, visse esercitando differenti mestieri. Nel  si trasferí a Parigi, dove frequentò Apollinaire e vari artisti d’avanguardia: lí conobbe anche Papini, Soffici, Palazzeschi, che lo invitarono a collaborare a «Lacerba» (cfr. ..), dove nel  apparvero le sue prime poesie. Trasferitosi a Milano nel , fu acceso interventista e all’entrata in guerra partí come soldato semplice: combatté sul Carso e durante questa dura esperienza compose le poesie apparse ne Il Porto Sepolto, fatto stampare a Udine nel dicembre , a cura dell’amico Ettore Serra. Nella primavera  combatté in Francia, nella Champagne, e alla fine della guerra rimase a Parigi, come corrispondente del giornale fascista «Il Popolo d’Italia» e poi come addetto all’ufficio stampa dell’ambasciata italiana. Nel  sposava Jeanne Dupoix, da cui ebbe due figli. Nel  si trasferiva a Roma, per lavorare presso il Ministero degli Esteri. Dopo la vita giovanile irregolare e avventurosa, gli anni Venti rappresentarono per lui un ritorno all’ordine, sia dal punto di vista privato che da quello culturale: alla sua piena adesione al fascismo si accompagnò intorno al  una vera e propria conversione religiosa. Nel , durante un viaggio nel Sud America, chiamato a insegnare letteratura italiana all’università di San Paolo in Brasile, decise di trasferirsi con la famiglia, rimanendovi fino al : questi anni furono amareggiati dalla perdita del fratello () e da quella del figlio Antonietto (). Rientrato in Italia nel , fu nominato accademico d’Italia e professore di letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Roma. Con il crollo del fascismo, seppe adattarsi al nuovo clima del dopoguerra, ponendosi come grande vecchio della letteratura italiana, rispettato e stimato da tutti, poeta ufficiale, ma pronto a prestare attenzione e simpatia alla nuova letteratura e a ripercorrere con sapienza le forme piú diverse della tradizione poetica. Nel  fu pubblicata la raccolta completa dei suoi versi, Vita d’un uomo (con un fitto apparato di note e varianti). Ungaretti morí a Milano la notte tra il ° e il  giugno .



La formazione internazionale

In Italia

Ritorno all’ordine

... Poetica e cultura di Ungaretti. La poesia di Ungaretti nasce nello stesso tempo da un senso di «avventura», e da un senso opposto di spaesamento, da un’adesione all’esperienza distruttiva delle avanguardie di inizio secolo e da una nostalgia per valori resistenti e costanti. Alla base della sua formazione c’è l’esperienza del grande simbolismo europeo, soprattutto francese: ma i rapporti con la cultura espressionistica degli anni che precedono la prima guerra mondiale arricchiscono il suo simbolismo di una forte esigenza autobiografica. Egli cerca una poesia sottile e ricca di sfumature, che rechi le tracce di un’esistenza concreta, che sia anche immagine della «vita d’un uomo» (un uomo dotato, per giunta, di una vitalità aggressiva e invadente, in certi tratti addirittura «violento»). Per Ungaretti la poesia è testimonianza assoluta dell’uomo, ha in sé qualcosa di sacro che resiste a tutte le distruzioni e violenze della storia: in questa sacralità, l’individuo si fa voce di tutto un «popolo», cercando però di ridurre la parola all’essenziale, trovando, per sé e per quel popolo, un nuovo linguaggio concentrato e scarnificato.

Simbolismo e autobiografia

EPOCA



Una «poetica dell’analogia»: la prima stagione

La seconda stagione

La scoperta del Barocco

Una poesia delle varianti



GUERRE E FASCISMO

-

Tutta l’esperienza di Ungaretti è dominata da una poetica dell’analogia, che non subisce reali modificazioni, ma si definisce in due momenti e modi molto diversi. Un primo momento (che è quello dell’Allegria ed è limitato agli anni Dieci, anche se troverà echi e ritorni negli anni successivi) è caratterizzato da un’assoluta concentrazione linguistica, che riduce al minimo la parola e spezza il ritmo del verso fino a una insistente sillabazione: si hanno componimenti brevissimi (fino al celebre Mattina, di due soli versi «M’illumino / d’immenso»), versi essenziali che sconvolgono ogni continuità metrico-sintattica, con una singolare dizione sincopata. Un secondo momento (che si svolge negli anni Venti, approdando a Sentimento del tempo) è caratterizzato da un’espressione maggiormente ampia e distesa, che recupera le forme piú eleganti, preziose, oscure della tradizione, ritorna in parte alla metrica tradizionale, guarda a modelli di perfezione stilistica come Leopardi e soprattutto Petrarca. Il linguaggio non tende piú a ridursi al minimo, ma si avvolge in complessi intrecci, tra suggestioni inafferrabili e immagini analogiche che mirano a evocare qualcosa di «assente», a ruotare attorno a un valore sacro e misterioso, mai nominabile in modo diretto. Questo secondo momento porta Ungaretti alla scoperta del Barocco e a un uso in tal senso della tradizione e del linguaggio. Il lavoro del poeta è il risultato di una interminabile manipolazione, magica e sacrale, delle forme che pullulano in quel campo immenso e prestigioso: è un’inchiesta su nuovi possibili segreti da scovare nei rapporti che legano le parole, che alludono a una realtà profonda e inconoscibile. In questa poetica si inseriscono alcune prestigiose traduzioni, da Shakespeare, Góngora, Racine, Blake, Mallarmé, pubblicate in vari volumi nel corso degli anni. E molto vasta fu l’attività critica di Ungaretti, testimoniata da numerosi saggi, articoli, conferenze, e dagli stessi testi dei suoi corsi universitari. In stretta aderenza alla sua poetica, Ungaretti concepisce tutta la sua opera come un campo di rapporti analogici, un intreccio di riscritture, perfezionamenti, in cui senza fine viene evocato un valore profondo e segreto. In modo strenuo e paziente egli corresse e ricorresse i suoi testi, vedendo in quel lavoro una delle manifestazioni essenziali della sua stessa poesia: i significati profondi della parola poetica emergono per lui non solo nei risultati finali, ma nel percorso compiuto per cercarli.

... Il primo Ungaretti: L’Allegria. La raccolta

La guerra e la poesia

La raccolta L’Allegria costituisce il primo momento della poesia di Ungaretti (nella redazione finale segnata con le date -) e si articola in cinque parti (Ultime, Il Porto Sepolto, Naufragi, Girovago, Prime), formatesi in momenti diversi. Si passa dalle prime poesie apparse su «Lacerba» nel  alle successive, nate dall’esperienza della guerra nel Carso e pubblicate nella breve raccolta Il Porto Sepolto, apparsa a Udine in soli ottanta esemplari nel dicembre ; a queste si aggiungono le posteriori poesie di guerra, raccolte, insieme con le precedenti e con nuove poesie che annunciano già il secondo momento di Ungaretti (per questo indicate poi come Prime della nuova fase), nel volume Allegria di naufragi, pubblicato a Parigi nel . Tutti questi testi furono riuniti nel  con il titolo Il Porto Sepolto e nel  con quello definitivo L’Allegria. I primi componimenti, scritti tra il  e il , mostrano come Ungaretti cercasse fin dall’inizio una concentrazione assoluta della parola: poche immagini essenziali portano qui il soggetto lirico a identificarsi con le sfumature del paesaggio, con il trascolorare, il perdersi, lo svanire delle cose. Ma è la guerra mondiale a spingere il poeta a un confronto lacerante tra il proprio io di uomo e di combattente e una realtà esterna ostile, in cui la distruzione bellica sembra identificarsi con l’indifferenza della natura. La poesia è allora un modo per affermare comunque la dignità tragica di un destino umano e collettivo.

.

LA NUOVA POESIA

Il titolo L’Allegria (piú esplicito nella originaria forma Allegria di naufragi) allude a sua volta alla paradossale vitalità che si afferma in mezzo alla morte e alla distruzione, alla forza «allegra» della sopravvivenza: questo concetto tende a definire anche il senso della condizione «moderna», il residuo spazio vitale di un’umanità che ritrova se stessa e il proprio valore nel nulla, nella distruzione di ogni valore. Questa poesia raggiunge i momenti di maggiore intensità quando registra piú direttamente lo svuotamento dell’io, la sua riduzione a elemento del paesaggio bellico: in questi casi l’uso dell’analogia mette l’io sullo stesso piano di quel mondo in preda alla catastrofe («Ecco il mio cuore / che s’incaverna / e schianta e rintrona / come un proiettile…»). Qui si danno allora celebri componimenti come Sono una creatura e I fiumi. La scansione e la sillabazione sembrano connaturate allo stesso farsi della parola, che esiste solo in quanto frantumata, identificandosi con il grado zero che l’universo sembra aver raggiunto: ma da essa si svolgono anche improvvisi ripiegamenti sentimentali e nostalgici (specie quando affiora il ricordo dell’Egitto, del mondo solare dell’infanzia) e momenti di assorta meditazione morale. Sullo sfondo desolato della guerra, L’Allegria prende atto del silenzio a cui la modernità pare condannare la parola poetica, del bisogno di scrollarsi di dosso tanto linguaggio consunto, e insieme della radicale solitudine e impotenza della parola di fronte a un mondo in cui la distruzione è un fatto naturale, connaturato al vivere stesso.



Tragica vitalità

Il paesaggio bellico

Ripiegamenti sentimentali

La minaccia del silenzio

... Sentimento del tempo e l’ultimo Ungaretti. Nei componimenti successivi alla guerra (e già nell’ultima sezione dell’Allegria), un «nulla / d’inesauribile segreto» si offre a Ungaretti in forme piú distese e composte. Egli si riallaccia di proposito alle varie tendenze per un «ritorno all’ordine» che dominano la cultura europea all’uscita dalla guerra: abbandona le soluzioni piú audaci e appariscenti dell’Allegria (restaurando parzialmente versi tradizionali, come l’endecasillabo, e tornando anche alla punteggiatura); si immerge nell’immenso repertorio di forme e di immagini della poesia del passato. La sua nuova poesia si sviluppa nei testi che confluiscono poi nella raccolta Sentimento del tempo, apparsa nel  e in forma ampliata nel . La sua parola mira ora ad «approfondire lontananze», a muoversi verso verità e profondità assenti dalla percezione della vita comune. Due sono le esperienze di base a cui essa si riferisce: in un primo momento il fascino del Barocco e di Roma, città barocca per eccellenza, in cui il poeta sperimenta l’orrore del vuoto e il ricostituirsi vertiginoso dello spazio, in una violenta brama di creatività; in un secondo momento l’esperienza religiosa, legata alla «conversione», che lo mette piú direttamente in rapporto con la suggestione della poesia religiosa medievale e barocca, per compiere un percorso di iniziazione, come in una pratica cerimoniale e rituale. La successiva poesia di Ungaretti approfondisce alcuni caratteri del Sentimento del tempo in forme di perfezione assoluta, che hanno qualcosa di eccessivo e di sovraccarico, in una maniera splendida ma assolutamente chiusa in se stessa. La passione per l’analogia e per la metafora si allarga fino al tentativo di proiettare tutta la propria esperienza in un orizzonte mitico e simbolico, tentativo a cui il poeta lavora fin dagli anni Trenta elaborando il poema La Terra Promessa (), che procede per frammenti. La poesia di Ungaretti ritrova una vera forza quando affonda piú direttamente nell’esperienza personale: nasce la raccolta Il Dolore () con poesie composte a partire dal  per la morte del fratello e soprattutto per quella del figlio, e con altre composte a Roma nel  durante l’occupazione nazista. Qui il verso si modula in un discorso disteso, accorato ed essenziale. In altre raccolte successive (Un Grido e paesaggi, ; Il Taccuino del Vecchio, ) il vecchio Ungaretti mostra altri momenti di accesa vitalità: ma raggiunge i risultati piú alti quando si afferra al proprio dolore, risolvendo tutta la propria esperienza in un senso di perdita e vuoto.

Verso forme piú distese

«Approfondire lontananze»

La Terra Promessa Il Dolore

Le raccolte successive

EPOCA





GUERRE E FASCISMO

-

... Altre strade per una lirica moderna. Scavare nel linguaggio

L’ermetismo

Limiti dell’uso del termine

Altre esperienze Sergio Solmi

Leonardo Sinisgalli Antonia Pozzi

Attraverso i risultati raggiunti da Ungaretti (e, in modo diverso, da Montale, cfr. .) si diffonde, tra gli anni Venti e Trenta, il modello di una lirica che si impegna a scavare in profondità nel linguaggio, che si concentra sul proprio spazio interno in una ricerca che rifiuta rapporti troppo immediati con la realtà, che si allontana dalla tensione autobiografica e moralistica che caratterizzava i poeti legati all’esperienza de «La Voce». Questa condizione «moderna» comporta un nuovo rapporto con la lirica europea contemporanea, in cui la tradizione simbolista si era sviluppata verso una nozione di lirica pura e verso nuovi modi di accostarsi agli «oggetti». Già negli anni Venti, e in modo piú ampio negli anni Trenta, si rivela una nuova generazione di poeti impegnata in questa ricerca che rifiuta ogni comunicazione diretta, cercando invece la difficoltà e la concentrazione linguistica: si afferma una costellazione di esperienze, tra loro anche molto diverse, che si sogliono accomunare sotto l’etichetta generica di ermetismo. Questo termine sottolinea il carattere di chiusura e di difficoltà, quasi da iniziati (simile a quello dell’antico ermetismo, cfr. PAROLE, tav. ), di questa poesia: si diffuse in seguito all’uso fattone in un libro del , in un’accezione fortemente negativa, dal critico crociano Francesco Flora (cfr. ..). Nell’uso corrente esso passò a designare quasi tutta la nuova lirica italiana, con la sola eccezione di Saba; è stato variamente usato per Ungaretti, per Montale e per molti altri poeti delle generazioni successive ed è giustificato dall’esigenza, rivelata da gran parte di questa poesia, di parlare un linguaggio completamente «altro» rispetto a quello corrente, di porsi fuori dalla stessa realtà sociale dell’Italia fascista. Un uso troppo ampio del termine ermetismo rischia però di creare molti equivoci: sarà quindi preferibile limitarlo ai poeti che esplicitamente scelsero una comunicazione «chiusa», una ricerca di significati sottili e segreti, di mistero e di corrispondenze analogiche. Esso non andrà quindi usato in modo indiscriminato: sarà preferibile riferirlo soprattutto all’Ungaretti successivo a L’Allegria, a Quasimodo, a tutto il gruppo che accettò esplicitamente di definirsi come «ermetico» e che a Firenze costruí una poetica comune sullo scorcio finale degli anni Trenta. Altri poeti che operarono in quegli anni (e saranno ancora attivi nel dopoguerra) non possono essere assunti in modo troppo disinvolto sotto questa generica etichetta. Ricordiamo SERGIO SOLMI, nato a Rieti nel  e morto a Milano nel , attento sempre a sentire la letteratura come risposta a una condizione storica, a seguirne gli svolgimenti nella prospettiva di una razionalità aperta, che ha come maggiore punto di riferimento Leopardi. Quindi LEONARDO SINISGALLI, nato a Montemurro, in Basilicata, nel  e morto a Roma nel , che propone una poesia tesa a una lucida astrazione, a un disegno fermo e preciso, a un equilibrio chiuso e sicuro. Ebbe un contatto assai stretto con il gruppo surrealista romano in cui si distinse anche il poeta LIBERO DE LIBERO (-). Infine la milanese ANTONIA POZZI (-), poetessa isolata, morta in giovanissima età, la cui raccolta postuma Parole (), vicina in parte all’ermetismo, è animata da un’essenziale aspirazione a «ridurre al minimo il peso delle parole» (Montale).

... Salvatore Quasimodo. La poesia del siciliano SALVATORE QUASIMODO offre quella che a lungo è stata l’immagine piú corrente della lirica italiana novecentesca. Nato a Modica nel , Quasimodo visse in varie città d’Italia, svolgendo lavori diversi. A Firenze fu in contatto con l’ambiente di «Solaria» (per le cui edizioni pubblicò nel  la sua prima raccolta, Acque e terre). Dal  fu a Milano, dove insegnò nella scuola media e svolse una varia attività pubblicistica, particolarmente intensa nel dopoguerra, quando egli fu su posizioni democratiche e di sinistra e la sua fama di poeta si affermò in modo notevole, fino all’assegnazione, nel , del premio Nobel per la let-

.

LA NUOVA POESIA

teratura. Morí a Napoli nel . Fin dalla prima raccolta e da quelle che ne ripresero i caratteri in modo piú nitido (Oboe sommerso, , e Erato e Apollion, , riunite tutte nel  nel volume Ed è subito sera), la poesia di Quasimodo si riconosce per una assorta interrogazione del paesaggio, per una continua immersione nelle sfumature inafferrabili, segrete e misteriose della natura, nelle sue forme eterne e insieme sfuggenti, radicate in un indecifrabile passato arcaico. Nel dopoguerra, di fronte alla mutata situazione politica, il poeta si sentí chiamato ad arricchire la propria poesia con una attenzione alla realtà sociale, nell’ambizioso proposito di collaborare, con i valori eterni della parola, a «rifare l’uomo» (ricordiamo le raccolte Giorno dopo giorno, ; La vita non è sogno, ; La terra impareggiabile, ).

 Una liricità del paesaggio e del mito

... L’ermetismo fiorentino e Alfonso Gatto. Un vero e proprio gruppo «ermetico» si formò a Firenze nella seconda metà degli anni Trenta, con l’elaborazione di una poetica che si rifaceva direttamente alla grande tradizione simbolista europea. Per la maggior parte degli esponenti di questo gruppo furono fondamentali un’inquietudine religiosa e una tensione morale maturate nell’ambito del cattolicesimo militante, e in particolare intorno alla rivista «Il Frontespizio» (cfr. ..). Essi sentirono inoltre la suggestione della «modernità» di «Solaria», delle riviste che la seguirono e delle stesse tensioni contraddittorie del fascismo di sinistra. L’attenzione alle contemporanee culture straniere (specie per il contributo di due critici come CARLO BO, -, e ORESTE MACRÍ, -) permise inoltre di guardare ad alcune delle piú vitali esperienze europee, come il surrealismo e il nascente esistenzialismo (cfr. epoca ). La scelta di uno stile difficile, chiuso nella ricerca dell’analogia, nell’approfondimento di un’inquieta ma segreta esperienza interiore, costituí per gli ermetici fiorentini una risposta alle difficoltà e alle contraddizioni della situazione presente: si legò all’aspirazione di una religiosità non compromessa con l’universo politico, «pura» nelle sue motivazioni esistenziali. Il rifiuto dell’impegno diretto nella vita sociale, di cui gli ermetici furono accusati in seguito, in quel momento segnò un profondo distacco dalla cultura fascista: vari furono gli scambi tra gli ermetici e altri giovani intellettuali di estrazione non cattolica che allora operavano in Firenze e che maturarono posizioni antifasciste, come Bilenchi, Vittorini, Gatto, Pratolini. L’esperienza poetica del salernitano ALFONSO GATTO (-), inaugurata nel  con il volumetto Isola, seguito nel  da Morto ai paesi, è segnata da un’adesione all’ermetismo vissuta come un fatto spontaneo e naturale, motivato da una disponibilità a seguire libere analogie tra le immagini piú varie, con una musicalità tenera e sospesa, libera da ogni troppo stretto vincolo strutturale. Convinto del valore «sacro» della voce poetica, egli si muove con libera curiosità tra le svariate forme della vita: una vena di malinconia, sospesa a un «labile suono», in alcuni momenti sfiora leggeri toni melodrammatici, in altri dà luogo a giochi di associazioni verbali simili a quelli del surrealismo. In lui domina un senso della «bontà» della natura, una passione per le «cose povere» che lo riporta alla memoria dell’infanzia e a un antico passato contadino e meridionale: ciò farà convergere la sua poesia spontaneamente e senza sostanziali modificazioni nell’orizzonte del neorealismo.

Eticità e religiosità La lezione di «Frontespizio» e «Solaria»

Distacco dalla cultura fascista

Alfonso Gatto

... La via della poesia dialettale. Fenomeno essenziale nella letteratura del Novecento è la fioritura di una nuova poesia dialettale, che raggiunge risultati molto alti, andando assai lontano dai modelli del verismo e del naturalismo su cui si era appoggiata la letteratura dialettale della fine dell’Ottocen-

Resistenza alla modernità



Il «sublime» della naturalezza

Poeti fuori dagli ambienti letterari

Virgilio Giotti

Biagio Marin

Delio Tessa

Realismo e deformazione

EPOCA



GUERRE E FASCISMO

-

to (cfr. ..). Questa poesia (pur radicandosi in un orizzonte «provinciale», ma cfr. ..) non cerca soltanto una rappresentazione «realistica» della vita regionale e locale, ma mira anche a valori piú assoluti, opponendosi a quell’immersione nella modernità che domina gran parte delle esperienze letterarie novecentesche. Il dialetto permette di sfuggire alla consunzione della lingua della tradizione, offre la possibilità di porsi su tempi piú lunghi, di esprimere sentimenti autentici e naturali che la lingua letteraria e la lingua comune nazionale non sono piú in grado di comunicare. La scelta del dialetto è un modo per porsi fuori dal movimento distruttivo della storia e dalla stessa dialettica politica e intellettuale: può offrire una resistenza sia al totalitarismo accentratore del fascismo, sia alle prospettive del «novecentismo» e alle varie esigenze contemporanee di modernità e di cosmopolitismo. Nello stesso tempo essa rende possibile un recupero del «sublime», per una via assai diversa da quella percorsa dalla lirica «moderna», grazie proprio alla freschezza e all’originalità che il dialetto, non contaminato dalla modernità, sembra ancora garantire; non si dà in questa poesia lo svuotamento dell’io, lo scavo, la complicazione linguistica, ma la naturalezza, la designazione diretta delle cose, l’abbandono al canto, alle forme metriche piú tradizionali (in modi che si avvicinano a quelli raggiunti da Saba nella poesia in lingua). In genere questi poeti dialettali sono rimasti appartati, ingiustamente trascurati dalla cultura dominante: solo negli anni Cinquanta si è diffusa una nuova considerazione del loro valore (specie per opera di Pasolini, cfr. ..). È certo, comunque, che alcuni hanno dato una poesia di altissimo livello, da inserire tra la maggiore di questo secolo. Non è questo però il caso del romano TRILUSSA (pseudonimo di CARLO ALBERTO SALUSTRI, -), che ha dato una versione piccolo-borghese della tradizione dialettale romanesca. I risultati piú esemplari della poesia dialettale della prima metà del Novecento provengono da un’area marginale come quella della Venezia Giulia. Un grande e appartato poeta è il triestino VIRGILIO GIOTTI (VIRGILIO SCHÖNBECK, -), le cui poesie in dialetto e in lingua furono riunite nel  sotto il titolo Cori, già da lui usato per una raccolta del . Il dialetto triestino di Giotti si presenta come una lingua preziosa, che segue con dolce e spesso accorata partecipazione i colori e le forme, illumina il mischiarsi delle vite alle cose, il loro resistere, il loro dissolversi e il loro morire. A una poesia di purezza assoluta, riflessa nello spazio chiuso e perfetto dell’isola di Grado e del suo dialetto, il «favelâ graisan», che lo difende dal mondo e dalle sue lacerazioni, lavorò, con costanza e fedeltà ossessiva, BIAGIO MARIN (-). Un uso espressionistico del dialetto, che affonda le sue radici nella tradizione milanese e guarda in primo luogo al grande modello di Porta (cfr. ..), è quello di DELIO TESSA (), che a Milano visse una vita appartata, lavorando come avvocato. Con grande abilità e finezza di dicitore leggeva agli amici le sue poesie milanesi, di cui pubblicò solo «nove saggi» nel , con il titolo L’è el dí di mort, alegher! (“È il giorno dei morti, allegri!”); preparò un’altra raccolta, ricca di spunti antifascisti, De là del mur (“Di là dal muro”), che apparve postuma, insieme ad altri inediti, nel .

Al centro della poesia di Tessa c’è la realtà urbana milanese, con i suoi rumori, i suoi oggetti, il suo grigiore, il suo miscuglio di cose e di atmosfere: egli parte da una concreta base realistica, da personaggi nettamente caratterizzati, da una ferma attenzione alla vita collettiva. Tessa agisce sulle cose attraverso una scomposizione fonico-linguistica: i suoi versi si svolgono cosí in una continua frantumazione del linguaggio e del ritmo, in un accumulo di pezzi disgregati, con effetti che vanno al di là dell’ambito del significato. La sua lingua pare sfiorare, con il suono, i livelli sotterranei della realtà: ma questo fondo segreto reca in sé il segno della morte, che corrode ogni gesto, ogni atto della vita sociale. L’insieme dei vari aspetti e contatti del mondo cittadino costruisce cosí una sinfonia minacciosa, una vera e propria danza macabra.

.

LA NUOVA POESIA

In Noventa la scelta del dialetto si lega invece a una polemica contro la modernità, che rifiuta di chiudersi in paradisi perfetti, in immagini di felicità originaria, e tende al piú pieno impegno intellettuale, a un diretto intervento sulla realtà politica e sociale. GIACOMO CA’ ZORZI (-) dal paese natale ricavò il nome NOVENTA che usò nella sua attività letteraria. Dotato di una ricca cultura internazionale, egli appare una figura di intellettuale atipica nel panorama italiano, estraneo sia all’idealismo che all’ermetismo, cattolico vicino al protestantesimo e molto attento ai problemi della vita sociale. Fu attivo antifascista e subí varie persecuzioni; a Firenze fondò e diresse tra il  e il  la rivista «La Riforma letteraria» (cfr. ..). Nelle poesie di Noventa il dialetto veneziano si presenta in una forma nobile, come strumento di antica civiltà: non ha nulla di corposo e di realistico, ma è «appena un velo della pronuncia», la cui ragione «non è sentimentale ma ironica» (Fortini). Esso esprime una riserva contro ogni sopravvalutazione del pensiero, delle scelte umane, della stessa poesia.

 Giacomo Noventa

˜

10.8 EUGENIO MONTALE ... La vita.

Nell’esperienza di EUGENIO MONTALE l’urgenza dei motivi biografici appare meno diretta ed evidente di quanto non accada, in modi diversi, in Saba e in Ungaretti: la sua poesia e il suo impegno intellettuale piegano subito le motivazioni personali verso una definizione della condizione dell’uomo contemporaneo. Egli rifiuta di attribuire un valore assoluto e istituzionale alla scelta della poesia, aspira a scrivere «sempre da povero diavolo e non da uomo di lettere professionale»: l’arte non gli appare la via per attingere al valore originario della «vita», né per affermare valori profondi e segreti, ma «la forma di vita di chi veramente non vive», uno strumento di contatto con la realtà del presente che parte da un rifiuto della vita, da una volontà di non partecipazione al flusso della natura e della storia. Eugenio Montale nacque a Genova il  ottobre  da agiata famiglia borghese: il padre fece costruire nel  una villa a Monterosso, una delle Cinque Terre presso La Spezia, per le vacanze della famiglia, il cui ricordo lasciò poi tracce intense e suggestive nella poesia del figlio. Per la cattiva salute, questi compí studi irregolari: ebbe un’adolescenza difficile, dominata da un senso di distacco dalla normale vita borghese. Appassionato di musica, studiò canto. Chiamato alle armi nel , conobbe a Parma, in un corso per allievi ufficiali, Sergio Solmi (cfr. ..); fu poi al fronte in Vallarsa. La sua prima pubblicazione poetica, il gruppo di versi dal titolo Accordi, apparve nel  sulla rivista «Primo tempo» (cfr. DATI, tav. ), e il suo primo libro, Ossi di seppia, nel  per le edizioni di Gobetti; nello stesso anno firmò il manifesto antifascista di Croce. Aveva iniziato nel frattempo una ricca attività di critica, collaborando a varie riviste, in un orizzonte di ampi rapporti intellettuali: essenziale la sua scoperta di Svevo. Nel  conobbe il poeta americano Ezra Pound (-), e molto viva fu fin d’allora la sua attenzione alla letteratura anglosassone. Il suo desiderio di raggiungere l’indipendenza economica dalla famiglia fu realizzabile solo nel , quando ottenne un impiego a Firenze presso l’editore Bemporad; migliore e piú libera sistemazione ebbe poi nel , quando fu nominato direttore del Gabinetto Vieusseux (cfr. ..). In quegli anni egli fu uno degli animatori della vivace vita intellettuale fiorentina, nell’orizzonte di «Solaria» e delle riviste successive, in primo luogo «Letteratura» (cfr. ..). Mentre gli arrivavano i primi segni di una forte attenzione della critica per la sua poesia, andava pubblicando altre liriche, raccolte nel  nel volume Le occasioni. Nel  aveva conosciuto Drusilla Tanzi, moglie del critico d’arte Matteo Marangoni, che egli avrebbe designata con il nomignolo di «Mosca» e che sarebbe piú tardi divenuta sua compagna (si sposarono solo nel ). Manteneva intanto stretti contatti anche con gli ambienti della cultura antifascista: avendo sempre rifiutato di iscriversi al partito fascista, fu esonerato nel  dalla direzione del Vieusseux. Visse allora di collaborazioni a riviste e di una varia attività di traduttore, continuando a intrattenere una fitta serie di rapporti e contatti intellettuali. Richiamato per breve tempo nell’esercito e poi congedato, trascorse a Firenze gli anni della guerra e dell’occupazione nazista. Dopo la liberazione della città si iscrisse al partito d’azione ed ebbe un incarico culturale dal Comitato nazionale di liberazione. Ma di fronte alla situazione conflittuale del dopoguerra, allo scontro tra la sinistra filostalinista e il nuovo clericalismo, forte era la delusione per chi, come lui, aveva guardato alla possibilità di un liberalismo avanzato, di orizzonte «europeo», legato alla continuità della tradizione laica e illuministica. In quegli stessi anni, dopo una grave malattia di «Mosca», cominciò a dedicarsi alla pittura, con quadretti di grande raffinatezza. La sua vita mutò sensibilmente all’inizio del , quando fu assunto come giornalista dal «Corriere della Sera»: lí, e nel giornale collegato «Corriere d’informazione», pubblicò una serie molto ampia di interventi di attualità culturale e letteraria, numerosi brevi racconti (la maggior parte dei quali costituiranno il volume Farfalla di Dinard, ), vari réportages di viaggio, articoli di critica musicale ecc. Ma il lavoro al «Corriere», con la costrizione a un impegno di scrittura giornalistica e divulgativa, sembrò ridurre lo spazio per la scrittura

La poesia, «vita di chi veramente non vive»

L’adolescenza

La prima attività intellettuale

A Firenze

L’antifascismo

Il dopoguerra

Al «Corriere della Sera»

EPOCA





GUERRE E FASCISMO

-

THOMAS STEARNS ELIOT. LA TERRA DESOLATA IL CANONE EUROPEO

tav. 233

LA VITA E LA FORMAZIONE Nella poesia di Thomas Stearns Eliot la tradizione della poesia occidentale e l’eredità dei suoi grandi classici si confrontano nel modo piú intenso con le forme della modernità e con le laceranti contraddizioni della vita sociale del Novecento. Particolarmente significativo in tal senso è anche il suo percorso biografico: nato in America (a Saint Louis, nel Missouri, nel ), dopo studi alla Harvard University, si trasferí in Europa, approdando definitivamente a Londra nel , e assumendo una condizione integralmente «europea», fino ad acquisire la cittadinanza inglese e a convertirsi alla religione anglicana, ponendosi come uno dei piú autorevoli e ascoltati esponenti della cultura inglese (e a Londra morí nel ). Nella sua formazione poetica ebbero un ruolo essenziale i poeti «metafisici» inglesi (in primo luogo John Donne, -), alcuni poeti francesi di fine Ottocento (in primo luogo Jules Laforgue, -), i lirici provenzali e stilnovistici, e soprattutto Dante. La sua poesia fu accompagnata da una ricca attività critica e da acute riflessioni di poetica: essenziali la sua nozione di «correlativo oggettivo» (che agirà su molta poesia del Novecento, come nel caso del nostro Montale: cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ), la sua ricerca di una moderna classicità, impegnata a «salvare» la tradizione della cultura europea di fronte ai disastri della storia contemporanea e della società di massa. Nell’amore per la poesia medievale e per Dante ebbe come prima guida il poeta americano Ezra Pound (-), che lo aiutò a pubblicare la sua prima raccolta poetica, Prufrock and other observations (“Prufrock e altre osservazioni”), , e intervenne nella sistemazione finale del testo del poemetto The waste land (“La terra desolata”), ideato nel  e pubblicato nel . L’ARIDITÀ DEL MONDO CONTEMPORANEO Il titolo stesso dell’opera registra lo stato di desolazione e di aridità del mondo contemporaneo: essa offre tutta una serie di immagini della vita degradata del presente, non attraverso un discorso continuato e un diretto procedimento narrativo, ma attraverso una giustapposizione di immagini, di citazioni, di frammenti, di lampi e scorci improvvisi. Elementi del piú diretto realismo, squarci della vita quotidiana del mondo urbano e industriale, spunti ironici e parodici, scarti del linguaggio mercantile e giornalistico, si intrecciano a materiali mitici e simbolici, a tracce di antichi linguaggi e forme di rappresentazione, a richiami alle piú diverse figure della tradizione letteraria: il testo si costruisce su questo intreccio di testi molteplici, con transizioni che spesso sfuggono a una diretta identificazione logica, ma dal cui insieme risulta lo stato di un mondo in rovina, di una cultura minacciata, di un ambiente corroso nel suo equilibrio vitale, di esistenze umane senza motivazioni. La struttura del poemetto si basa su di un modello mitico-antropologico ricavato dal libro di Jessie L. Weston, From ritual to romance, (“Dal rituale al «romance»”, ), che ricollegava la leggenda medievale della ricerca del Graal agli antichi riti di fecondazione, ai miti della discesa nella terra, dell’immersione nell’acqua e della rinascita: ciò permette a Eliot di indicare una sorta di compresenza tra motivi mitici antichi e medievali, pagani e cristiani, e di confrontare questi miti con l’aridità del mondo moderno, con la difficoltà di ritrovare nel presente il loro carattere positivo; il passaggio attraverso le stagioni (i cui diversi momenti sono attraversati in diverse fasi del poema) non offre una rinascita e un recupero di vitalità, la ricerca non raggiunge una risolutiva verità; i frammenti del mito e del linguaggio si risolvono in una esibizione di rovine, come sottolinea uno degli ultimi versi del poema, «these fragments I have shored against my ruins» (“questi frammenti con cui ho puntellato le mie rovine”). Il poema, dedicato a Ezra Pound, definito con parole dantesche (Purgatorio, XXVI, ) «il miglior fabbro», è articolato in cinque sezioni: The burial of the dead (“La sepoltura dei morti”), A game of chess (“Una partita a scacchi”), The fire sermon (“Il sermone del fuoco”), Death by water (“Morte per acqua”), What the thunder said (“Ciò che disse il tuono”). Si succedono e si scontrano in esso simboli di aridità e di umidità, di acqua e di fuoco, immagini diverse della morte, figure umane e figure animali, in una compresenza tra il passato piú remoto e la quotidianità della vita borghese, che rivela tut-

.

EUGENIO MONTALE



ta l’aridità, il fallimento, la violenza, la mancanza di obiettivi di quest’ultima: come, nella prima sezione, la celebre immagine della folla spettrale (che evoca, con esplicita citazione dantesca, le ombre che si affollano per scendere nella barca di Caronte) che attraversa il London Bridge, in una città divenuta unreal, “irreale”; o nella terza sezione la visione che l’indovino mitico Tiresia (personaggio essenziale al centro del poema) ha della dattilografa che torna a casa e, dopo la modesta cena, riceve la visita di un impiegato pustoloso, per un incontro fuggevole e senza amore. Nell’ultima sezione sembrano infittirsi i segni di una difficile ricerca di verità, le immagini di una natura che resta comunque in attesa di una rigenerazione, che non giunge a compimento. Alla ricerca di un compimento, a una interrogazione del tempo, del rapporto tra il principio e la fine, del rapporto tra corporeità e piano cristiano della storia, Eliot dedicò poi la sua poesia successiva alla conversione, tra cui si impone il capolavoro dei Four Quartets (“Quattro quartetti”), , che possono essere ricondotti a una condizione «purgatoriale», in senso dantesco. Il testo Si riporta qui per intero la quarta sezione, Morte per acqua, che è la piú breve del poemetto. Sono versi celeberrimi, che restano parzialmente enigmatici e che sono stati interpretati in modi tra loro opposti. In essi si può riconoscere una stretta sovrapposizione tra un passato lontano, indicato dalla figura del marinaio fenicio annegato, che, come appartenente all’antico popolo mercantile, è anche figura del borghese contemporaneo, dedito ai traffici e ai commerci. Questo annegamento del Fenicio può essere inteso come immagine degli antichi riti della vegetazione (in cui l’immersione nell’acqua indicava un raggiungimento della pace, una liberazione dalla negatività), o al contrario (come sembra piú probabile) come immagine del vanificarsi dei desideri e delle illusioni della vita borghese (si noti il riferimento al fatto che Phlebas ha dimenticato the profit and loss, “il profitto e la perdita”, cardini di quell’assoluto dominio dell’economia che appunto caratterizza il mondo borghese), l’intera umanità (indicata con la distinzione biblica tra Gentile or Jew, e fissata nella figura del nocchiero che volge la ruota del timone, you who turn the wheel) viene chiamata a considerare la somiglianza tra la propria condizione e quella del Fenicio. [EDIZIONE: Thomas Stearns Eliot, La terra desolata, introduzione, traduzione e note di A. Serpieri, Rizzoli, Milano ]

Phlebas the Phoenician, a fortnight dead, Forgot the cry of gulls, and the deep sea swell And the profit and loss. A current under sea Picked his bones in whispers. As he rose and fell He passed the stages of his age and youth, Entering the whirlpool. Gentile or Jew O you who turn the wheel and look to windward, Consider Phlebas, who was once handsome and [tall as you.

Fleba il Fenicio, morto da due settimane, dimenticò il grido dei gabbiani, e la profonda [risacca del mare e il profitto e la perdita. Una corrente sottomarina Gli spolpò le ossa in bisbigli. Come affiorava e [affondava traversò gli stadi della maturità e della giovinezza Entrando nel vortice. Gentile o Giudeo o tu che volgi la ruota e guardi sopravvento, medita su Fleba che fu una volta bello e alto [come te.

EPOCA





GUERRE E FASCISMO

-

FERNANDO PESSOA. MOLTI AUTORI IL CANONE EUROPEO

tav. 234

LA DISPERSIONE DELL’IO La vicenda di Fernando Pessoa presenta il caso piú integrale e sorprendente di spersonalizzazione, di moltiplicazione e dispersione dell’io dato dalla letteratura del Novecento, vissuto entro un’area geografica e linguistica ai margini dell’Europa come il Portogallo: una sistematica evaporazione dell’essenza stessa della persona del poeta, tanto piú estrema in quanto lo stesso nome Pessoa in portoghese significa appunto persona. Nato a Lisbona nel , Pessoa perdette il padre a sette anni e seguí la nuova famiglia della madre in Sud Africa, dove acquisí una piena padronanza della lingua inglese, che usò in alcune raccolte poetiche giovanili. Tornato a Lisbona nel , visse una vita solitaria in modeste pensioni, lavorando come corrispondente per ditte di export-import, ma partecipando alla vita culturale della città, fondando riviste d’avanguardia, occupandosi di teosofia e di occultismo, scrivendo molteplici testi poetici, che rimasero quasi del tutto sconosciuti, e inventando diversi eteronimi, attribuendo cioè la maggior parte di quegli scritti a personaggi fittizi, maschere diverse e contrastanti di se stesso (e in vita ne fece conoscere quattro). Oltre i testi giovanili in inglese e quelli apparsi nelle riviste pubblicò solo un piccolo volume di versi in portoghese, Mensagem (“Messaggio”), , a proprie spese per partecipare a un premio di poesia, e a Lisbona morí, forse per abuso di alcool, nel . Qualche anno dopo la sua morte in un baule rimasto presso gli eredi fu ritrovata una quantità eccezionale di inediti, in gran parte attribuiti a eteronimi, di vario tipo e di vario spessore, la cui pubblicazione ebbe inizio nel  ed è andata variamente continuando nella seconda metà del Novecento. Ognuno di questi fittizi personaggi in cui si moltiplica la personalità e la scrittura di Pessoa ha una sua identità piú o meno definita (con date e vicende biografiche), un suo stile e un suo linguaggio, una scelta poetica e ideologica particolare: è come se l’individuo scrittore volesse far vivere dentro di sé e attraverso di sé un intero mondo, una articolata società letteraria. Egli porta cosí all’estremo, quasi nascondendola nell’esercizio di una vita quotidiana appartata, in quell’accumulo di testi lasciati perlopiú inediti, quell’ossessione della maschera, della finzione, della scissione e della lacerazione della persona che percorre tanta letteratura del Novecento (si pensi in primo luogo al nostro Pirandello, con cui Pessoa ha non trascurabili punti di contatto): schiacciato dall’anonimato della vita sociale, l’individuo non ha piú consistenza, sente sfuggire la propria identità, non è piú in grado di riconoscere se stesso, e viene cosí a creare una immaginaria moltiplicazione di sé, a disperdersi in vari personaggi, in diverse voci poetiche e scelte culturali. GLI ETERONIMI Nella società moderna si è dissolto il rapporto tra il pensiero, il linguaggio, la persona; sottoposta al dominio del caso, l’esperienza si è frantumata in mille occasioni indifferenti; la poesia stessa ha perduto la sua «aura» tradizionale, mentre la comunicazione si disperde nell’artificio e nella menzogna. Di fronte a questa situazione, la sola risposta possibile è la rinuncia (e Pessoa ne trae una vera e propria estetica dell’abdicazione: «Vince solo chi non riesce mai. È forte solo chi desiste sempre. La cosa migliore, la piú regale, è abdicare»). La tradizione ermetica e occultistica insegna peraltro la necessità di nascondersi, mostra che si può raggiungere «il massimo di potere nel minimo di esibizione»; questo potere Pessoa lo raggiunge creando dentro di sé la società immaginaria degli eteronimi, facendo parlare «vari amici e conoscenti che non sono mai esistiti», ascoltandone dentro di sé «le discussioni e le divergenze di opinioni». Con stili e linguaggio diversi, con retroterra e scelte contrastanti, le poesie di questi personaggi toccano spesso i temi del doppio, della consistenza della realtà, del segreto che si nasconde nel fondo delle cose, dell’evanescenza della vita e delle sue illusioni. Ma nel gioco di simulazioni si affaccia il dubbio sulla stessa esistenza di Fernando Pessoa, sui caratteri degli stessi testi che egli firma con il proprio nome reale (ortonimo), che si

.

EUGENIO MONTALE



presentano come proiezioni parziali, come espressione di una parte della persona che nella sua integralità può consistere solo moltiplicandosi negli altri. Tra questi vanno ricordati Alberto Caeiro, il «maestro», uomo di campagna e poeta bucolico, Álvaro de Campos, sperimentatore di tutte le avanguardie e inventore di poetiche e movimenti fittizi, Ricardo Reis, materialista e classicista, pieno di disillusa saggezza, Bernardo Soares, autore di uno straordinario diario-zibaldone, il Livro do desassosego (“Libro dell’inquietudine”), che è stato pubblicato solo nel . La singolarità di Pessoa e della sua moltiplicazione della personalità ha offerto peraltro varie suggestioni alla letteratura del secondo Novecento: ricordiamo un romanzo del grande narratore portoghese José Saramago (nato nel ), O ano da morte de Ricardo Reis (“L’anno della morte di Ricardo Reis”, ), e varie opere di Antonio Tabucchi (cfr. epoca ). Il testo Si riporta qui una delle poesie firmate dall’«ortonimo» Fernando Pessoa, datata  marzo : si tratta di un sonetto in cui si affaccia la suggestione e la minaccia di qualcosa di occulto, che, come un vero e proprio fantasma, viene a invadere l’io, lo trascina verso l’ignoto, gli fa avvertire la sua condizione di ombra invisibile del nulla. L’evanescenza del soggetto è come definita fisicamente da quella mano (mão) indefinita (vv.  e ) che lo scuote e che lo guida: la sua esistenza si dà nel nulla (em nada), come in una fredda tenebra (a treva fria). Si noti che la traduzione di Antonio Tabucchi e Maria José de Lancastre, qui riportata, traduce liberamente l’ultimo verso, che alla lettera suona: «e in nulla esisto come la tenebra fredda». [EDIZIONE: Fernando Pessoa, Una sola moltitudine, a cura di A. Tabucchi, con la collaborazione di M.J. de Lancastre, Adelphi, Milano , vol. I]

Súbita mão de algum fantasma oculto entre as dobras da noite e do meu sono sacode-me e eu acordo, e no abandono da noite não enxergo gesto ou vulto.

Furtiva mano di un fantasma occulto fra le pieghe del buio e del torpore mi scuote, e io mi sveglio, ma nel cuore notturno non trovo gesto o volto.

Mas um terror antigo, que insepulto trago no coração, como de um trono desce e se afirma meu senhor e dono sem ordem, sem meneio e sem insulto.

Un antico terrore, che insepolto porto nel petto, come da un trono scende sopra di me senza perdono, mi fa suo servo senza cenno o insulto.

E eu sinto a minha vida de repente presa por uma corda de Inconsciente a qualquer mão nocturna que me guia.

E sento la mia vita di repente legata con un filo di Incosciente a ignota mano diretta nell’ignoto.

Sinto que sou ninguém salvo uma sombra de um vulto que não vejo e que me assombra, e em nada existo como a treva fria.

Sento che niente sono, se non l’ombra di un volto imperscrutabile nell’ombra: e per assenza esisto, come il vuoto.

EPOCA





GUERRE E FASCISMO

-

ANTONIO MACHADO. POESIE IL CANONE EUROPEO

tav. 235

IL MODERNISMO Mentre nell’Ottocento la poesia spagnola aveva trovato la sua maggiore espressione nel dolente romanticismo di Gustavo Adolfo Bécquer (-), alla fine del secolo si diffusero varie esperienze di tipo «decadente» o rivolte verso nuove forme di modernità espressiva, indicate con il termine di modernismo: punto di riferimento essenziale per lo svolgersi di forme poetiche «moderne» fu il nicaraguense Ruben Darío (-). Le diverse lezioni di Bécquer e di Darío agirono in modo originale su due poeti andalusi, Jiménez e Machado, che, insieme all’altro andaluso Federigo García Lorca (-), sono i maggiori del primo novecento spagnolo. Piú vicino alle tendenze moderniste fu Juan Ramón Jiménez (-), che si concentrò su una poesia pura ed essenziale, alla ricerca di significati di preziosa assolutezza. LA POESIA DI MACHADO Nella poesia di Antonio Machado (nato a Siviglia nel , morto nel  a Collioure in Francia, dove si era rifugiato alla caduta di Barcellona in mano ai franchisti), che egli stesso raccolse nelle varie edizioni delle Poesías completas (“Poesie complete”, , , , ), scorre una voce di chiarezza cristallina, che sa raccogliere in sé il senso del presente, sa confrontarsi con l’orizzonte della modernità, ma rifiutando ogni frattura del linguaggio poetico, ogni audace sperimentazione linguistica, ogni forma di oscurità provocatoria, e cercando invece la trasparenza, la misura, la discrezione, l’abbandono al canto. La sua poesia vuol essere voce integrale dell’umano, che raccoglie in sé il senso della vita concreta, che interroga i sentimenti fondamentali dell’esistenza, ne scruta i significati, con una piena volontà di partecipare al fondo vivo delle cose. Machado guarda alla realtà delle persone e dei luoghi con un senso vivo della loro evidenza, con uno sguardo «amoroso», che ne sperimenta allo stesso tempo la vicinanza e la distanza: la sua poesia è continua ricerca di un rapporto con l’«altro», con altre presenze e altre vite; ma questa ricerca cosí intensa parte dalla coscienza filosofica e metafisica (che Machado ricava dalla sua conoscenza delle filosofie contemporanee, tra cui quella di Bergson, di cui a Parigi frequentò le lezioni) della solitudine del soggetto in se stesso. La comunicazione amorosa tanto cercata non raggiunge mai definitivamente i suoi oggetti, ma continua a cercarli in un stato di inquietudine che, nella stessa rappresentazione della realtà e nelle sensazioni che essa suscita, fa percepire il senso del nulla; ma nei confronti di questo nulla, del definitivo non essere del mondo, la poesia afferma appassionatamente e con umile delicatezza il valore dell’essere, della vita in tutte le sue espressioni. IL DOLORE E LA DOLCEZZA La grandezza di Machado (che in questo è vicino al nostro Saba, ma senza le sue laceranti ambiguità) sta nel fatto che egli fa parlare il dolore e la dolcezza, le forme vive dell’esistere, i segni che vi deposita il tempo, con una naturalezza spontanea e assoluta, con un respiro di semplicità quasi «popolare» (e del resto egli ha voluto assumere nel proprio linguaggio tante tracce e forme della poesia popolare spagnola), con una trasparenza assoluta della parola, con una poesia miracolosamente «aperta», nel tempo in cui la poesia europea sempre piú si chiudeva in se stessa, ricopriva la realtà di mistero, frantumava i rapporti logici, le strutture stesse della visione e della percezione. Pur condividendo la coscienza della scissione della realtà, della frattura data dalla modernità, la poesia di Machado vede ancora i colori e le forme di un mondo intimo e di una natura viva e palpitante, ricca di colori, di profumi, di presenze: insegue le immagini in movimento di una Spagna ancora rurale e arcaica, splendente e sofferente, solitaria e luminosa. Una delle figure piú presenti in questa poesia è quella del cammino, dell’andare fisico e corporeo attraverso il paesaggio naturale: il viandante sente dentro di sé le luci e le ombre, le immagini cangianti e vive dell’ambiente. All’andare è collegato il narrare: questa poesia ha spesso un andamento narrativo, riprende ritmi di canti narrati-

.

EUGENIO MONTALE



vi popolari, trasforma le sensazioni liriche in situazioni di racconto. Ma non si tratta di una poesia «ingenua»: Machado ha una forte coscienza critica e poetica. La prima raccolta poetica, Soledades (“Solitudini”, , poi ampliata in Soledades, galerías y otros poemas, “Solitudini, gallerie e altre poesie”, ) riprende un titolo di Góngora (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ), e fa risuonare nello specchio della solitudine le immagini della piú luminosa evidenza, tra dolcezza e malinconia. Con Campos de Castilla (“Campi di Castiglia”, , ampliata nel ) la poesia si allarga verso sfondi piú ampi, verso la vita profonda della Spagna popolare, verso piú distese forme narrative, con un vivissimo spirito «democratico». Un piú esplicito sfondo «filosofico» si trova in due raccolte successive, Nuevas canciones (“Nuove canzoni”, , con ampliamenti successivi) e El cancionero apocrifo (“Il canzoniere apocrifo”, ). In quest’ultimo Machado fa qualcosa di simile, ma in un orizzonte molto diverso, alle invenzioni di Pessoa (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ), inventando poeti fittizi, che sarebbero potuti esistere. A due eteronimi, poeti mai esistiti del secolo XIX, Abel Martín e Juan de Mairena, fittizi antenati poetici, proiezioni immaginarie del proprio passato, Machado dedica anche scritti in prosa, di notevole rilievo critico.

Il testo Dalla raccolta Campi di Castiglia si riporta qui un breve componimento in cui liberamente si alternano endecasillabi e settenari, che presenta l’immagine di una silenziosa notte d’estate, fissata sulla misura geometrica della piazza spaziosa di un vecchio villaggio: è un disegno nitidissimo, in cui ogni cosa (le case con i balconi aperti, i banchi di pietra, le piante con la loro ombra, la luna e la torre con l’orologio) si impone con una presenza magica e assoluta, semplice e misteriosa. Entro questo paesaggio cosí sospeso nei suoi precisi contorni la presenza del poeta solitario che passeggia è quella di un fantasma: vi si muove come un’identità estranea, venuta da un altro mondo. [EDIZIONE: Antonio Machado, Poesías completas, a cura di M. Alvar, Espasa Calpe, Madrid ]

NOCHE DE VERANO

Es una hermosa noche de verano. Tienen las altas casas abiertos los balcones del viejo pueblo a la anchurosa plaza. En el amplio rectángulo desierto, bancos de piedra, evónimos y acacias simétricos dibujan sus negras sombras en la arena blanca. En el cénit, la luna, y en la torre, la esfera del reloj iluminada. Yo en este viejo pueblo paseando solo, como un fantasma.

NOTTE D’ESTATE

È una bella notte d’estate. Le alte case hanno i balconi aperti sulla piazza spaziosa del vecchio villaggio. Nell’ampio rettangolo deserto, banchi di pietra, fusaggini e acacie disegnano simmetrici le nere ombre sulla bianca arena. Allo zenit, la luna, e nella torre, la sfera dell’orologio illuminata. Io in questo vecchio villaggio che passeggio solo, come un fantasma.

EPOCA



Gli ultimi anni



GUERRE E FASCISMO

-

poetica. La maggior parte dei componimenti della sua terza raccolta, uscita nel , La bufera e altro, risalivano agli anni della guerra e dell’immediato dopoguerra. Nei pochi versi successivi resisteva comunque una vena sotterranea, da cui si sarebbe svolta una poesia dai caratteri molto diversi da quella precedente: una poesia che, dopo la dolorosa perdita della moglie (), si rivelava pienamente nel volume Satura () e nelle sorprendenti raccolte successive. Gli anni Cinquanta e Sessanta vedevano intanto allargarsi notevolmente l’interesse per la sua opera: ebbe riconoscimenti di vario tipo, culminati nel  nella nomina a senatore a vita, e nel  nell’assegnazione del premio Nobel per la letteratura. Gran parte della lunga vecchiaia fu da lui vissuta a Milano, assistito dalla fedele governante Gina Tiossi, che era già con lui a Firenze. Morí il  settembre .

... Una cultura europea. Montale e la cultura degli anni Venti

Fin dagli anni Venti i legami di Montale con la Torino di Gobetti e poi con la Firenze di «Solaria» mostrano il suo collocarsi nella prospettiva di una cultura liberale moderna, aperta verso una dimensione internazionale, attenta anche agli aspetti della letteratura e del pensiero europei che sfuggivano alla cultura idealistica dominante in Italia. Montale non si pone in diretta opposizione all’idealismo crociano; rifiuta radicalmente i furori distruttivi delle avanguardie dell’inizio del secolo, ma anche il ritorno all’ordine classicista della «Ronda»; riconosce la funzione essenziale di equilibrio svolta da Croce nella cultura italiana, e accetta molti principi della stessa estetica crociana. Egli sfugge comunque ai limiti troppo «nazionali» e tradizionali del crocianesimo; il mondo con cui egli cerca di confrontarsi presenta caratteri molto piú complicati e problematici di quelli fissati dal tranquillo procedere della filosofia crociana.

Un liberalismo disilluso

In un suo articolo apparso sul «Baretti» nel gennaio , Stile e tradizione, Montale rivela già con chiarezza il suo interesse per le voci nuove del tempo presente, con una saggezza cauta e disincantata: ai furori delle battaglie intellettuali piú o meno recenti oppone la scelta paziente e umile del «lavoro inutile e inosservato». Il suo è un liberalismo disilluso, che aspira a un’Italia europea, estranea a chiusure nazionali e provinciali, capace di assumere in proprio la grande cultura letteraria e filosofica internazionale che permette di comprendere in modo critico i caratteri della modernità. Come dirà in un’importante riflessione su tutta la propria esperienza, lo scritto Intenzioni (Intervista immaginaria) del , fin dalla giovinezza egli sentiva di «vivere sotto a una campana di vetro»: fu proprio la volontà di capire questa situazione a spingerlo alla poesia e a portarlo a confrontarsi con la cultura europea del «negativo». Questo confronto si rivolse verso quella poesia che cercava drammaticamente di uscire dai limiti della realtà e del linguaggio già dati: la moderna poesia francese, a partire da Baudelaire, ma anche quella di altri poeti, soprattutto anglosassoni, da Robert Browning (-) ai contemporanei Eliot (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ) e Pound. In questo orizzonte moderno ed «europeo» si pone anche la disponibilità di Montale a capire e a «scoprire» autori italiani atipici, come Svevo e Saba. Sullo scorcio degli anni Trenta Montale lavorò anche a varie traduzioni, sia da poeti che da prosatori; le traduzioni poetiche furono raccolte nel  nel volume Quaderno di traduzioni.

«Vivere sotto a una campana di vetro»

Le traduzioni

Una voce laica e razionale

Ma l’apertura «europea» di Montale si rivela con forza, piú che nel suo interesse per singoli autori e testi, nella sua capacità di interrogarsi in ogni momento sulla situazione della contemporanea civiltà occidentale e sulle modificazioni che l’arte, la poesia, la parola, il patrimonio di valori razionali elaborati da una lunga tradizione europea hanno subíto con lo sviluppo di una cultura di massa che non è piú di tipo «nazionale», ma tende ormai a diventare planetaria. La sua poesia, in fasi e forme diverse, vuol essere la voce di una cultura e di una tradizione laica e razionale, italiana ed europea, disposta a conoscere il presente, ad attraversarne anche gli aspetti piú inquietanti: con una eccezionale capacità conoscitiva,

.

EUGENIO MONTALE



con una sempre vigile forza critica, essa riconosce insistentemente i propri limiti, la propria marginalità e impotenza, e nello stesso tempo si confronta con il baratro che in vari modi e forme sembra aprirsi davanti alla civiltà occidentale.

... Critica e poetica di Montale. Negli anni giovanili egli aspirava a operare contemporaneamente sui due piani della critica e della poesia. E la sua lunga attività critica raggiunse risultati assai alti, che si appoggiano su una grande capacità di comprendere e di definire gli autori e i testi, con un senso di «oggettività» che sa prescindere anche dalle scelte e dai gusti piú diretti del Montale poeta, a differenza di quanto accade negli interventi critici di tanti poeti contemporanei, per esempio in Ungaretti. D’altra parte egli non vuol essere un critico di mestiere, rifiuta ogni atteggiamento scientifico e ogni astratta scelta metodologica; egli vuol essere prima di tutto un lettore attento, che cerca razionalmente nei testi il senso di una condizione umana, che ne interroga la piú ampia forza conoscitiva. I suoi molteplici interventi furono raccolti nel  nel volume Sulla poesia; in essi, su un piano di equilibrata e civilissima conversazione, si affacciano anche molte indicazioni sulla sua posizione e sulle sue scelte: in tutta chiarezza e senza ambiguità vi si compongono le tracce della sua poetica personale. Questa prende avvio da una volontà di autocoscienza della poesia stessa e dal proposito di comprendere la sua condizione e i suoi limiti nel contesto contemporaneo. Montale avverte, nell’intreccio di lingue, parole, immagini che domina il mondo, una sorta di saturazione della parola e della tradizione poetica: la poesia (arte che egli vede «tecnicamente alla portata di tutti: basta un foglio di carta e una matita e il gioco è fatto») è minacciata non solo dalla consunzione del linguaggio, quanto dal suo moltiplicarsi, e molto forte è negli ultimi anni il suo sgomento per la «torrenziale produzione poetica dei nostri giorni». A questa saturazione, Montale non risponde cercando una parola «pura» e naturale, né estraendo dal linguaggio nuovi misteri e segreti: egli mira a una «poesia che trova in se stessa la propria materia» e che «non rinuncia alla ragione, ma nasce dal cozzo della ragione contro qualcosa che non è ragione», una poesia che in ogni momento si confronta con la propria possibile fine, che cerca di trarre alla luce un difficile valore umano e civile. Questa nozione di poesia si realizza con una serie di essenziali trasformazioni nei vari momenti dell’attività di Montale. Essa parte, con i primi Ossi di seppia, da un piú diretto confronto con il magma e il «travaglio» dell’esistenza e con il tentativo di romperne la «campana di vetro». Si assesta poi, tra Ossi e Le occasioni, in una piú specifica poetica dell’oggetto, che parte da un’occasione interna, da una «spinta» intellettuale o sentimentale, esprimendola non direttamente, ma attraverso la descrizione di oggetti intensi ed essenziali. A questa «poetica dell’oggetto» è affidata l’immagine piú diffusa della poesia di Monta-

Attento lettore

Saturazione della parola poetica

Verso la «poetica dell’oggetto»

CORRELATIVO OGGETTIVO

Si tratta di un particolare modo di presentare gli oggetti nella poesia, che mira a dare una nuova vitalità ai tradizionali usi della raffigurazione indiretta, del simbolo e dell’allegoria (cfr. TERMINI BASE ): la nozione venne elaborata intorno al  da Thomas Stearns Eliot (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ) che vede nel correlativo oggettivo (objective correlative) il «solo modo di esprimere emozioni in forma d’arte» e lo definisce come «una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi che saranno la formula di quella emozione particolare, in modo che, quando siano dati i fatti esterni, che devono condurre a un’esperienza sensibile, venga immediatamente evocata l’emozione»; gli oggetti rappresentati sono cioè tra loro legati e correlati a specifiche emozioni in cui si risolve il piú profondo significato della poesia: questo significato si dà attraverso la densità fisica degli oggetti, l’intensità con cui essi si impongono alla mente del lettore, e quindi in modo diverso sia dall’immediatezza del simbolo che dalle mediazioni intellettuali dell’allegoria.

GENERI E TECNICHE

tav. 236

EPOCA



Montale ed Eliot

Montale e la tradizione italiana

Leopardi e Foscolo

Petrarca e Dante Il sistema delle varianti



GUERRE E FASCISMO

-

le: ma essa subisce già notevoli modificazioni ne La bufera e altro, libro che si muove in direzioni contrastanti; poi, nelle ultime raccolte, a partire da Satura, essa dà posto alla scelta di un livello «basso», quasi a un grado zero del linguaggio, tra spunti ironici e toni dimessi e colloquiali. Al momento del suo definirsi, sullo scorcio tra gli anni Venti e Trenta, la poetica montaliana si pose comunque, e in modo risoluto (molto piú di quanto avvenne per la poetica dell’ermetismo), in un orizzonte europeo: fu subito evidente la sua convergenza con la poetica del correlativo oggettivo, formulata da Eliot (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ), e con le tendenze della contemporanea poesia anglosassone. Ma in essa ha un peso essenziale anche il rapporto con la tradizione italiana: Montale parte da un confronto con il piú vicino modello dannunziano, e ne abbassa subito i toni preziosi e le pretese sublimi, avvalendosi dell’insegnamento dei crepuscolari e soprattutto di Gozzano; ma arriva poi a un rapporto diretto con alcuni dei nostri grandi classici, di cui riscopre per conto suo tutta la forza e la vitalità. Forme, modi, temi di alcuni poeti del passato entrano nella sua poesia non come preziose citazioni, ma come strumenti per esprimere la condizione attuale. Tra i poeti italiani la cui traccia è piú evidente nell’opera di Montale va ricordato Leopardi, che egli interpreta guardando alla sua carica negativa e pessimistica, alla sua inquieta interrogazione del nulla, anche se al nulla leopardiano Montale aggiunge «una sorta di esattezza sontuosa» (G. Lonardi), che risale a Baudelaire e alla successiva poesia europea, e trova in Foscolo un altro essenziale modello. Piú indietro nel tempo, balza con forza la presenza di Petrarca e, in ogni momento, quella di Dante. Come tutti i poeti, anche Montale lavora variamente sui propri testi, ne corregge e modifica l’assetto: ma il suo metodo di correzione appare di tipo «classico», tende per lo piú a concentrare e a risolvere l’espressione nel modo piú intenso e preciso, eliminando i momenti piú opachi e incerti.

... Ossi di seppia. Le edizioni

Il primo libro di Montale, pubblicato nel  nelle edizioni di Gobetti, raccoglieva pochi testi già apparsi in rivista negli anni precedenti (ma ne restavano esclusi gli Accordi, usciti nel ) e assai piú numerosi testi inediti: il libro acquistò la sua forma quasi definitiva nella seconda edizione, del , con l’aggiunta di altre sei poesie, l’ultima delle quali, Arsenio, era apparsa su «Solaria» nel giugno .

Un linguaggio «scabro ed essenziale»

I testi sono distribuiti in cinque sezioni (Movimenti, Ossi di seppia, Mediterraneo, Meriggi e ombre, Riviere): la poesia di Montale vi si impone subito in tutta la sua novità, con una voce inconfondibile che si fa strada in un intreccio di rapporti con la poesia dell’inizio del secolo, partendo in primo luogo dalla ricerca di un linguaggio «scabro ed essenziale», il cui modello piú vicino è costituito dai liguri Sbarbaro (cfr. ..) e Roccatagliata Ceccardi (cfr. ..). Montale rifiuta le rotture radicali delle avanguardie: cerca forme libere e aperte, ma scava con forza anche entro elementi tradizionali (in primo luogo l’endecasillabo e la rima), senza rompere il regolare svolgersi della sintassi; si confronta con il linguaggio di D’Annunzio e di Pascoli, usando anche forme colte e preziose, ma avvicinandosi alla concretezza delle cose, con una nomenclatura assai puntuale, con parole dalla precisione quasi tecnica, specie per designare il paesaggio marino, vegetale e animale. Egli fugge d’altra parte da ogni tono eroico e celebrativo (ironizzando esplicitamente sui «poeti laureati»), da ogni vitalismo, da ogni fiducia nel valore superiore della parola poetica: e ricava dai crepuscolari (in primo luogo da Gozzano) un ritorno del linguaggio verso modi ironici e colloquiali. Ne risulta un originalissimo equilibrio tra meditazione esistenziale e definizione del paesaggio: una interrogazione del «male di vivere», appassionata ma non magniloquente, che si avvolge tra forme naturali fissate in termini netti e definiti.

Concretezza e colloquialità

.

EUGENIO MONTALE

Domina su tutto il paesaggio marino e solare della Liguria, in particolare delle Cinque Terre, dove il poeta trascorreva le vacanze: è un mondo arido, secco, scarnificato, battuto dal vento, in cui la vita intera si rivela nel suo sgretolarsi, come un coacervo di «monche esistenze», di forme slabbrate. Si impone l’immagine dell’estate e delle ore immobili del meriggio, quando tutto sembra senza tempo; ma il movimento incessante e ripetuto del mare, gli sparsi e balenanti segni di vita sulla costa aspra e rocciosa sembrano annunciare il rivelarsi di una necessità rovinosa e distruttiva, il manifestarsi di qualche «sterile segreto», di qualche «prodigio fallito», che può sconvolgere quell’immobilità, senza però mutarne l’assoluto dominio. La voce del poeta è quella di una persona concreta immersa nel paesaggio, che però non partecipa direttamente alla sua vita e si accanisce a interrogarne continuamente i segni, seguendo il groviglio delle forme minerali e vegetali, i guizzi improvvisi degli animali, il muoversi scomposto degli oggetti, il vibrare dei rumori e dei suoni, il distendersi del vento nello spazio, lo svolgersi del ritmo del tempo. In tutte queste forme trascolora il senso di una vita inafferrabile, si svela il vuoto in cui consiste il vivere personale e naturale. Il soggetto tenta di entrare in rapporto con le cose ridotte alla loro essenza piú nuda (e l’osso di seppia, sballottato e levigato dalle onde, è evidente figura rivelatrice di questa riduzione). In questo tentativo si distrugge l’«inganno» su cui si basa la vita normale, frana l’«illusione» su cui si reggono i falsi equilibri quotidiani, si rompe lo schermo di apparenza che nasconde la realtà. Siamo di fronte a una tematica che trova riscontro in molti scrittori dell’inizio del secolo (da Michelstaedter a Pirandello a Svevo), alla quale Montale si accosta anche attraverso l’appoggio di originali letture filosofiche. Ma originalissimo è il modo in cui il poeta ligure definisce questo continuo rompersi e sospendersi dell’equilibrio tra l’io e la realtà. Egli insegue tutti i possibili scatti attraverso i quali la realtà, priva di senso, improvvisamente si disgrega: sembra afferrare piú volte la possibilità di aprire un «varco», di trovare «una maglia rotta nella rete / che ci stringe»; ma nell’atto stesso di cercare questa possibilità, l’io ne resta irrimediabilmente escluso. Ogni squarcio verso una realtà piú profonda e autentica finisce per accrescere la solitudine dell’io, la sua distanza dalle cose e dallo stesso «tu» tanto cercato, il destinatario a cui trasmettere la propria triste saggezza, spesso una indefinita figura femminile. La rottura degli equilibri consueti assume quasi sempre un aspetto sinistro, fa balenare qualcosa che subito muore, «il male / che tarla il mondo». Il significato piú profondo del libro resta quello della piú radicale negatività, e si riassume nel celebre primo pezzo della sezione degli Ossi, Non chiederci la parola che squadri da ogni lato, che offre perentoriamente al lettore «qualche storta sillaba e secca come un ramo» e gli affida come solo messaggio «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».



Il paesaggio montaliano

Il franare dell’«illusione» quotidiana

Il «male di vivere»

... Le occasioni. Le occasioni (che recano l’indicazione cronologica -) apparvero nel  presso l’editore Einaudi: si trattava di una raccolta di cinquanta poesie (articolate in quattro parti), a cui se ne aggiunsero altre quattro nella seconda edizione del . La maggior parte erano state man mano pubblicate in varie riviste, e già nel  cinque testi avevano costituito un volumetto dal titolo La casa dei doganieri e altri versi. Nelle Occasioni la riflessione esistenziale degli Ossi appare come ridotta, resa meno esplicita: la parola poetica tende ad allontanarsi dal suo carattere meditativo e problematico, dalla sua diretta interrogazione del «male di vivere», e si concentra tutta sugli oggetti, creando successioni di immagini dai rilievi nettissimi e quasi allucinati, avvolgendosi intorno alle forme e ai gesti con una assoluta densità fonica, lessicale, sintattica (seguendo piú direttamente quella poetica degli oggetti che giustifica lo stesso uso del termine occasione). Nella sua assoluta concentrazione il discorso poetico si fa piú difficile, trova momenti assai ardui e impenetrabili: Le occasioni sembrano trasmettere un messaggio che non vuole farsi decifrare, che vuole resta-

Le edizioni e la raccolta

Poetica degli oggetti

Difficoltà e impenetrabilità

EPOCA



L’oscurità della storia

La ricerca dell’«altro»

La donna salvifica



GUERRE E FASCISMO

-

re comunque nascosto. In questo esse si avvicinano all’ermetismo, fino a presentarsi come l’esempio piú significativo della tendenza della poesia degli anni Trenta a chiudersi in se stessa, a rifiutare una diretta comunicazione con il fascismo e con la sua pretesa di asservire la cultura. Ma, a differenza dell’ermetismo vero e proprio, la poesia di Montale, anche nella sua piú impenetrabile difficoltà, resta lontana da ogni allusività, da ogni indeterminatezza, da ogni abbandono a giochi di sfumature e da ogni compiacimento per il segreto. Essa è estranea al metodo ungarettiano ed ermetico dell’analogia (cfr. TERMINI BASE  e ..), non cerca di ricavare una conoscenza «profonda» dal miscuglio magico di sensazioni diverse e lontane; mira invece a caricare gli oggetti e le figure, le loro forme piú nette e definite, di una vigorosa tensione mentale, insieme razionale e sentimentale. Essa non crede alla magia e all’indistinzione, ma vuole cercare ciò che è al di là della sfera della ragione, usando i mezzi della ragione stessa. La sua oscurità è tutta determinata dall’oscurità e dallo «squallore» della storia, risulta non da una passione per l’oscuro, ma da uno strenuo tentativo di trovare, comunque, la luce in un mondo buio e negativo. Tra i «barlumi» delle cose, tra i loro contorni immersi nel non senso e nell’inautenticità, la ricerca di una realtà piú profonda, che abbiamo visto variamente affacciarsi negli Ossi di seppia, produce qui alcune «rivelazioni precise, individuate», momenti di improvvisa «ebrezza» (G. Contini); uno scatto improvviso, un guizzare inspiegabile, un vibrare inafferrabile, un’apparizione di oggetti fuori dal loro contesto, un rivelarsi di volti e di gesti, una «luce di lampo» sembrano poter mutare le cose in «alcunché / di ricco e strano». Montale non isola però questi momenti di ebrezza, ma ne mostra piuttosto l’insufficienza. Le «rivelazioni» della sua poesia sono sempre inquietanti; le possibilità di combinazioni diverse dell’esistere sono sempre minacciose; un valore «altro», profondo e assoluto, è irraggiungibile, perché non ha nessun fondamento sicuro nella natura, nella vita individuale e sociale. Sarebbe erroneo interpretare questa poesia come qualche cosa di assolutamente «puro», come un astratto succedersi di «occasioni» mentali: i suoi scatti partono quasi sempre da dati reali ed esistenziali, si svolgono (come già gli Ossi) attraverso una inquieta interrogazione sulla distanza e sulla memoria. La ricerca dell’irraggiungibile «altro» è prima di tutto ricerca di un contatto con un «tu», con una figura femminile perduta o irraggiungibile: i «lampi» e i «barlumi» della vita evocano prima di tutto la possibilità, insieme cercata e temuta, del ritorno del tempo; gli oggetti, sospesi tra luce e oscurità, richiamano alla mente tempi, esistenze, contatti consumati o non realizzati. In modi appassionati, che raggiungono un’intensità eccezionale, la poesia cerca una comunicazione con altri esseri, che nasce nel ricordo e nella distanza. Nella parte finale delle Occasioni, la figura femminile tende spesso a presentarsi come misteriosa forza salvatrice, figura mitologica la cui presenza inafferrabile e divina riscatta il poeta non tanto dall’assurdità e dall’inautenticità del vivere, quanto dalla volgarità e dalla mediocrità del presente. Negli anni piú bui del fascismo, la poesia ritrova in se stessa un valore umano e civile, afferma la dignità del proprio distacco dal presente, invocando una donna angelo, emanazione di una divinità assente e sconosciuta, che raccoglie in sé l’eredità di una lunga tradizione letteraria, dai miti classici allo Stilnovo, al petrarchismo. Questa donna si identifica in parte con donne reali, può conservare i segni di persone diverse, appare insieme liberatrice e minacciosa: ma comunque introduce un «mutamento» nell’ordine delle cose, rappresenta un’ultima preziosa e fragile difesa contro la barbarie che sta scatenandosi nel mondo.

... La bufera e altro. La terza raccolta

La terza raccolta poetica di Montale, uscita nel , articolata in sette parti, contiene poesie scritte tra il  e il , quasi tutte già variamente pubblicate in riviste.

.

EUGENIO MONTALE



Il nucleo iniziale, costituito da testi scritti nei primi anni della seconda guerra mondiale, era stato affidato a Gianfranco Contini (cfr. ..) e fatto pubblicare in Svizzera nel  con il titolo Finisterre: questi costituiscono la prima parte della raccolta, a cui seguono altre sei sezioni (Dopo, Intermezzo, «Flashes» e dediche, Silvae, Madrigali privati, Conclusioni provvisorie). Per questo nuovo libro Montale aveva pensato intorno al  al titolo di Romanzo, che metteva in luce un percorso narrativo, lo svolgersi di una vicenda personale e sentimentale, sottolineandone nello stesso tempo il carattere composito, risultante dal miscuglio di livelli e di stili diversi. Il titolo definitivo La bufera e altro vuol dare l’impressione di una struttura piú aperta e indeterminata: ma un aspetto «romanzesco» resta essenziale nel libro, che si pone come una moderna Vita nova, in cui i segni della realtà contemporanea si intrecciano con la vicenda dell’amore per una donna salvatrice, che abbiamo visto già apparire nelle Occasioni.

Finisterre

La Beatrice moderna, minacciosa e benigna, reca segni preziosi che si oppongono al presente, all’impero della degradazione e della violenza, ma che sono anche emblemi di distruzione e di morte: essa permette al poeta sia di riconoscere la propria voce, di affermare la resistenza della poesia, sia di guardare in faccia il mondo, di confrontarsi con la sua tremenda estraneità. Il «romanzo» è dato anche dal carattere enigmatico che questa figura femminile assume: essa si muove tra qualità e nomi diversi, offre al poeta segni eterogenei e contrastanti. E con suprema eleganza la poesia gioca a nascondere e a svelare il nome e l’aspetto del «tu» con cui il poeta dialoga. Soprattutto nelle poesie degli anni della guerra questo «tu» si identifica prevalentemente con Clizia, figura mitologica dai connotati solari (antica amante del sole, trasformata in girasole): si tratta appunto della donna-angelo dal volo sublime, a cui si riferivano anche alcune poesie delle Occasioni (il nome Clizia nasconde in realtà quello della studiosa americana Irma Brandeis, incontrata nel ). Ma talvolta, al di là della figura di Clizia, sospesa in una lontananza che richiama quella della Laura petrarchesca, emerge quella concreta e vicina di «Mosca» (cfr. ..); e nell’ultima parte del libro si ha un passaggio dall’angelico al terrestre, dalla Beatrice a una Antibeatrice, che si affaccia con un diverso e meno inafferrabile personaggio femminile, designato come «Volpe». A questo percorso tra figure femminili diverse si intreccia un passaggio tra due diverse situazioni storiche: dall’orrore della guerra, in cui ancora potevano balenare i lampi della speranza di un mondo diverso, in cui la poesia poteva apparire segno di un’ultima resistenza umana, all’angoscia del dopoguerra e degli anni della guerra fredda, su cui incombe la fine di un’intera civiltà. È facile riconoscere i punti iniziale e finale di questo passaggio proprio nella prima e nell’ultima poesia della raccolta, La bufera e Piccolo testamento. Il carattere cruciale di questo percorso è mostrato anche dalla modificazione stilistica che si svolge nella successione delle liriche della Bufera: si va da un massimo di concentrazione, da una ricerca di assoluta perfezione metrica e sintattica, con un tasso notevolissimo di oscurità, in forme «sublimi» chiuse e squadrate (nelle quali la tematica amorosa richiama varie tracce della poesia dantesca e petrarchesca), a un’apertura verso materiali quasi realistici, verso toni bassi, verso un linguaggio piú minuto, quasi colloquiale, che sembra cercare un piú diretto contatto con il lettore, spezzando il ritmo metrico e sintattico, o al contrario espandendolo in movimenti sinuosi e avvolgenti (è il caso de L’anguilla, ).

La donnaangelo

Le Silvae, componimenti scritti tra il  e il  (tranne Iride, del ), si riallacciano a un’antica forma letteraria (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ) e danno voce alla situazione del dopoguerra e alla delusione che essa origina. I segni divini della figura femminile restano qui lontani o vedono contaminata la loro purezza in un mondo fangoso: la salvezza, che la chiusa disperazione della guerra sembrava ancora annunciare come possibile, ora è sul punto di perdersi e svanire; ogni speranza di congiunzione tra nature e destini diversi si rivela piú crudamente irrealizzabile. Le Conclusioni provvisorie chiudono il libro con un tentativo di offrire in un mondo immerso nel fango, nei rottami, nei liquami industriali, minacciato dalla distruzione finale, l’ultima difesa e «testimonianza» di un modello umano e civile.

Quasi un percorso narrativo

Clizia, Mosca e Volpe

Dalla speranza all’angoscia

La delusione del dopoguerra

EPOCA





GUERRE E FASCISMO

-

... Montale prosatore. La Farfalla di Dinard

La scrittura giornalistica

Auto da fé

Nel  Montale raccolse nel volume Farfalla di Dinard venticinque brevi racconti apparsi sul «Corriere della Sera» e sul «Corriere d’informazione» tra il  e il ; altri ne aggiunse (fino ad arrivare al numero di quarantanove) in una nuova edizione apparsa nel . Con una prosa leggera, che sfiora un tono da conversazione elegante, bonaria e ironica, abbiamo qui situazioni e combinazioni che riguardano personaggi legati a un mondo borghese internazionale, viaggiatori e frequentatori di alberghi, bar e ristoranti: figure di snob che partecipano alla vita contemporanea con un elegante e ironico distacco, si imbattono in piccoli equivoci, coincidenze paradossali, improvvise illuminazioni. E a tal proposito basta ricordare il brevissimo testo che dà il titolo a tutta la raccolta e la conclude: la farfalla, che il poeta crede di aver visto come «mattutina visitatrice» in un caffè di una cittadina di Bretagna, non è che una versione ironica e scherzosamente evanescente della figura della donna-angelo che abbiamo visto piú volte affacciarsi nelle liriche. A parte questa prosa di tipo «creativo», Montale ha prodotto una grande quantità di saggi e di interventi: e soprattutto per il suo lavoro di giornalista la scrittura in prosa è diventata per lui una pratica continua, che lo ha come abituato a una conversazione in tono «medio» e lo ha spinto a confrontarsi da vicino con il carattere effimero della parola giornalistica, a toccare piú direttamente i linguaggi della cultura di massa. A parte i suoi interventi di critica letteraria, vanno ricordati i suoi articoli di critica musicale, raccolti nel  nel volume Prime alla Scala, e le sue cronache di viaggio, piene di acute notazioni, raccolte nel  nel volume Fuori di casa. Ma tra questi scritti in prosa appaiono piú rilevanti quelli compresi nel volume Auto da fé () che, prendendo spunto da libri e situazioni diverse, aprono un’ampia riflessione sulla situazione della cultura e sul destino dell’uomo contemporaneo; vi domina un appassionato confronto critico con la nuova civiltà visiva, con il mondo editoriale, con la nuova produzione di oggetti culturali da usare e da gettare, con la moltiplicazione quantitativa dei messaggi e delle parole che invadono l’universo della civiltà industriale avanzata.

... Vuoto della parola e negatività del mondo: la miscela di Satura. Una nuova poesia

Semplicità apparente

La cupa allegria della memoria

Reversibilità del tempo

Dopo un periodo di quasi completo silenzio poetico, si svolge negli anni Sessanta una nuova poesia di Montale, che sembra andare in una direzione molto lontana da quella della poesia precedente. Alla tensione lirica vengono ora a sostituirsi la parodia e l’ironia, lo scambio e la miscela tra livelli diversi (di cui si avvertivano già i segni nella parte finale della Bufera), una comunicazione piú diretta che sfiora talvolta il tono di conversazione dimessa. Montale intraprende una rivisitazione della propria poesia, di tanti temi, figure, situazioni, che ora vengono come rovesciate e abbassate. La sua nuova parola è semplice e piana solo in apparenza: la sua conversazione è ricca di pieghe e di risvolti interni, di scatti polemici, di ambiguità; si intreccia e si sovrappone continuamente a frammenti della parola altrui (sia la parola letteraria, sia quella del linguaggio corrente, dei linguaggi culturali, giornalistici, quotidiani, prodotti dalla civiltà di massa). Questa poesia sembra reagire al vuoto della parola consumata e banalizzata, assumendolo su di sé, degradandosi e sfaldandosi in una cupa allegria, in una nuova vitalità disincantata e ironica. Resta però essenziale il riferimento alla memoria: nella dimensione della vecchiaia, i tempi e le immagini del passato si riavvolgono su se stessi, creano un continuo confronto tra la materia della precedente poesia e la condizione della parola nel presente. Si crea una specie di cerchio, uno scambio continuo tra gli echi perduti della giovinezza e la presente vecchiaia: nella propria immagine di vecchio il poeta scopre ora il senso dell’immagine di giovane già vecchio che animava la sua prima poesia, riconosce con disincanto tutta la propria distanza da un mondo in cui si affollano gesti insensati, che si riempie di oggetti inutili, che frana.

.

EUGENIO MONTALE

La prima grande manifestazione di questa nuova poesia di Montale è data dalla raccolta Satura, uscita nel : il suo primo nucleo era apparso in un opuscoletto del  dallo stesso titolo, comprendente però vecchie poesie e solo una nuova, Botta e risposta, che sarebbe confluita nella raccolta definitiva. Il titolo Satura addensa in sé molteplici significati, legati al senso originario della parola (cfr. tav. ), e sottolinea tra l’altro la natura aperta della raccolta, il suo carattere di miscuglio di temi, stili, linguaggi diversi, la sua natura insieme satirica, aggressiva, funebre e conviviale. Una sinistra e infernale immagine di divinità si affaccia sul mondo di Satura: Montale mostra che la «morte di Dio» di cui parla la cultura contemporanea non si risolve in una liberazione dell’uomo, ma nell’evanescenza e nello svuotamento di ogni valore, che attribuisce uno spaventoso potere a una divinità inesplicabile, minacciosa, a un essere infernale che senza aver coscienza di sé regola ciecamente la vita collettiva (è il fantasma della società tecnologica e amministrativa, che sfugge al controllo dell’uomo). Sotto il segno di questo dio-demonio non è piú possibile (come ancora lo era di fronte al fascismo) discernere il bene dal male: «ora non c’è neppure / il modo di evitare le trappole. Sono troppe». Questo mondo-trappola modifica i suoi connotati morali e fisici, facendo perdere senso allo stesso ritmo delle stagioni, riducendo ai margini la natura violentata e cancellata: ma se spariscono le cicale «è morto solo / chi pensa alle cicale». Il movimento della realtà è talmente cieco che non è piú pensabile nemmeno un’apocalissi; nessuno «scoppio» verrà a interromperlo, o sarà in grado di farlo cessare. Di fronte a un’esistenza che procede incontrollabile e distruttiva, l’unica scelta possibile, l’unica difesa, appare quella di non esistere, di affidarsi a una parola ostinata ad attraversare una realtà tutta negativa («La poesia e la fogna, due problemi / mai disgiunti»).



Satura

GENERI E TECNICHE,

Una società senza valori

L’apocalissi negata

... La poesia dell’ultimo Montale. La misura di Satura diventa nelle poesie successive la forma di comunicazione e di sopravvivenza del poeta nel mondo della civiltà di massa, in un’Italia che egli vede trasformarsi in una trappola in cui è sempre piú difficile muoversi. Siamo ora a un vero e proprio «diario», dai toni bassi, smorzati, ironici, parodistici, aggressivi. Il volume intitolato Diario del ’ e del ’ apparve nel  (ma quello del  era già uscito a parte nello stesso anno). In un sottile gioco tra pessimismo e ottimismo, si svolge qui un nuovo confronto con il linguaggio della cultura contemporanea. A chi lo accusa di sfuggire dal presente, il poeta risponde che il suo è solo «un rispettabile / prendere le distanze». Tutti coloro che vivono e parlano si trovano comunque presi in un ingranaggio perverso, manipolati da un burattinaio che non ha nemmeno coscienza di se stesso; il mondo ha subito «una decozione / di tutto in tutto» e vede il «trionfo della spazzatura». Immobile nella sua casa cittadina, il poeta osserva i movimenti insensati, i rumori disordinati che lo circondano, l’affaccendarsi di una vita artificiale che non si può sapere «se sia festa o macelleria». Nel Quaderno di quattro anni (apparso nel , con poesie composte tra il  e il ) si impone un intreccio tra un tema montaliano consueto, quello della reversibilità del tempo, del suo continuo tornare su di sé, e il nuovo tema della nullificazione del linguaggio, «questo dio dimidiato / che non porta a salvezza perché non sa / nulla di noi e ovviamente / nulla di sé». Su questo sfondo si affacciano nuove rivelazioni del non senso che domina le cose e il linguaggio, attraverso minimi scarti linguistici, semplici e banali giochi di parole. L’ultima parte, ancora ricchissima, di questo lungo diario del vecchio poeta, è costituita dalla raccolta Altri versi, che contiene poesie scritte lungo il corso degli anni Settanta, inserite entro l’edizione critica dell’Opera in versi del  (a cui va aggiunto il Diario postumo, ): vi si trovano componimenti pungenti, che hanno il carattere di veri e propri epigrammi, e altri che lasciano ancora affiorare brandelli di ricordi da un passato sempre piú lontano.

Diario del ’ e del ’

Un «rispettabile prendere le distanze»

Quaderno di quattro anni

Altri versi

EPOCA





GUERRE E FASCISMO

-

... Il «classico» del Novecento italiano. Classicità e modernità

Linguaggio poetico e realtà

Un equilibrio «borghese»

Una negatività laica

Pessimismo storico

La poesia e l’esperienza di Montale riassumono i caratteri piú essenziali della letteratura del Novecento, disegnano un profilo umano, intellettuale e linguistico in cui la dimensione «moderna» sembra organizzarsi in una misura di tipo «classico». Come ogni grande classico, Montale ha infatti operato una determinante sintesi linguistica, utilizzando la tradizione poetica senza mitizzarla, ma confrontandola con la condizione del linguaggio moderno, con il disgregarsi e il moltiplicarsi della parola. Egli ha dato una nuova intensità e una nuova concentrazione alla poesia italiana, isolando gli oggetti in una evidenza assoluta, cercando nelle cose e nelle parole il segno di una condizione umana e civile, trovando un linguaggio di forte densità intellettuale e sentimentale, pieno di dati ricavati dal presente. La sua parola poetica ha raggiunto un singolare equilibrio tra la dimensione letteraria e la partecipazione concreta alla realtà contemporanea: si è svolta senza immergersi nel vortice della vita, nel movimento veloce dei tempi (come invece hanno fatto le avanguardie), ma misurandosi in un distacco critico, cercando una conoscenza essenziale, una comprensione del significato piú globale (storico ed esistenziale, non religioso o metafisico) della realtà. Questa misura è arrivata a penetrare nella comune coscienza della poesia, ha inserito nel linguaggio poetico italiano un tono tutto particolare, un modo di sospendere oggetti e parole in una singolare china di tensione intellettuale e morale, una spinta di tipo «critico»; ne sono derivate imitazioni, riprese, consensi e dissensi. E i dissensi si sono rivolti in particolare verso l’equilibrio «borghese» di Montale, verso il suo rifiuto di immaginare nuovi mondi possibili, verso la stessa concentrazione del suo linguaggio e verso la sua visione troppo «distaccata» della realtà. Ma la poesia di Montale non ha mai rinunciato all’esigenza di conoscere le proprie stesse condizioni e a una piú generale volontà di tenere gli occhi ben aperti di fronte al mondo. Essa ha voluto essere una poesia razionale, che ha esplorato i limiti e le insufficienze della ragione. In questo si è incontrata con il sentimento della piú generale negatività della condizione umana, con la rivelazione (in cui si sente l’insegnamento laico di Leopardi) della mancanza di significato della natura e del suo rapporto distruttivo con l’uomo: e nello stesso tempo ha guardato alla negatività della condizione storica presente, offrendo un’ultima immagine della resistenza della ragione. Montale ha però rifiutato di trasformare il suo senso del negativo in un valore assoluto, in una verità definitiva e risolutiva: la sua poesia sa di essere essa stessa coinvolta nel processo di trasformazione del mondo e del linguaggio, e ha cercato di confrontarsi con la propria possibile fine, di «bruciare» se stessa nell’atto di continuare a guardare con occhio lucido il mondo. Questa grande poesia non manifesta soltanto la crisi di una coscienza e di una ragione borghese, come si è spesso affermato in interpretazioni di tipo sociologico, ma l’inquieto avvertimento della trasformazione da un mondo borghese, ancora legato a un diretto rapporto con la natura (almeno nell’universo delle vacanze adolescenziali, evocato da Ossi di seppia), a una civiltà di massa che conduce alla distruzione di ogni residua forma naturale. Come un «classico», il conservatore Montale ha offerto un ultimo argine a questo processo, ha difeso con la sua poesia la fragile resistenza di una razionalità civile, vedendo forse molto piú a fondo, nel nostro presente, di tanti programmi ideologici trionfalmente proiettati verso il futuro.

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10.9 CARLO EMILIO GADDA ... Vita dell’«ingegnere».

L’opera di CARLO EMILIO GADDA registra nel modo piú intenso, con uno scavo nel piú profondo spessore del linguaggio, la trasformazione del tessuto sociale italiano verso la modernità, il definirsi di nuovi caratteri dell’identità italiana, della vita privata e collettiva, negli anni tra le due guerre e poi ancora nel secondo dopoguerra. Il singolare acume di questo scrittore si appoggia su scatti laceranti, in un nesso inestricabile tra risentimenti personali, curiosità per la realtà piú concreta, attenzione al piú vario manifestarsi delle forme linguistiche. Alle radici della sua originalità c’è senza dubbio il carattere atipico, non professionale della sua figura intellettuale: Gadda non è in partenza uno scrittore professionista, ma un ingegnere elettrotecnico che si dedica alla letteratura e continua a lungo a svolgere la sua professione, che verrà abbandonata definitivamente solo verso la fine degli anni Trenta. La sua formazione tecnica e scientifica e il suo legame con la tradizione letteraria lombarda, da Parini a Porta, a Manzoni, agli scapigliati, gli danno un senso tutto particolare della concretezza, della razionalità, della costruzione, del carattere morale della letteratura: ma il confronto con la realtà personale e sociale lo porta a una prospettiva di assoluta negatività, di critica impietosa ai fondamenti umani e linguistici del mondo borghese, a cui egli si sente strettamente legato, ma verso cui manifesta un incontenibile risentimento. Carlo Emilio Gadda nacque a Milano, primo di tre figli, il  novembre , da famiglia della media borghesia lombarda, che passò da una sicura agiatezza a condizioni economiche difficili. Ciò gli fece trascorrere un’infanzia e un’adolescenza dure e stentate, allietate dai lunghi soggiorni in Brianza, nella villa di Longone. Le difficoltà si accrebbero alla morte del padre (), che lasciò la responsabilità del mantenimento della famiglia alla madre, che con quotidiani sacrifici riuscí a far studiare i figli. Rinunciando, per volontà della madre, agli studi letterari, si iscrisse nel  ai corsi di ingegneria al Politecnico di Milano. Ardente interventista, si arruolò volontario nella prima guerra mondiale come ufficiale degli alpini e registrò la sua esperienza in alcuni diari. In seguito alla rotta di Caporetto, fu fatto prigioniero e deportato a Rastatt e poi in Germania, a Celle (Hannover), dove ebbe compagni di prigionia Bonaventura Tecchi (cfr. ..) e il futuro drammaturgo UGO BETTI (-), con i quali si legò di grande amicizia. Al rientro a Milano nel  ebbe la notizia della morte in guerra del fratello Enrico: la delusione per l’esperienza vissuta, il dolore per la morte del fratello, la difficile situazione familiare lo gettarono in uno stato di sconforto, da cui uscí in parte terminando gli studi, con la laurea in ingegneria elettrotecnica (), e iniziando il lavoro di ingegnere, in Sardegna e in Lombardia e poi, tra il  e il , in Argentina. Al ritorno a Milano nel , si iscrisse alla Facoltà di filosofia e mise mano a progetti letterari; dopo aver insegnato matematica al liceo Parini, riprese l’attività di ingegnere. Aveva intanto continuato a scrivere e, grazie ai suoi rapporti con Tecchi, aveva iniziato nel  a collaborare a «Solaria», pubblicandovi frammenti narrativi e saggi. Per tutto il  e gran parte del  elaborò vari testi rimasti incompiuti (la Meditazione milanese, e il romanzo La meccanica) e altri racconti che costituirono il suo primo libro, La Madonna dei Filosofi, apparso nel  per le edizioni di «Solaria». Mentre, grazie alla rivista, intesseva nuovi rapporti con il mondo letterario, all’inizio del  tentava per la prima volta di vivere del lavoro letterario, con la collaborazione a riviste e al giornale milanese «L’Ambrosiano». Le difficoltà economiche gli imponevano però nel  di tornare all’ingegneria, con un impiego a Roma presso i servizi tecnici del Vaticano. Nel  usciva la sua seconda raccolta, Il castello di Udine, che l’anno successivo otteneva il premio Bagutta. Alle sue collaborazioni a giornali e riviste si aggiungeva nel  quella alla «Gazzetta del popolo» di Torino. Sdegnosamente appartato rispetto a ogni diretta partecipazione alla vita politica, ma legato alle prospettive di un patriottismo conservatore, egli aveva guardato con una certa simpatia al sorgere del fascismo, ma aveva presto avvertito un profondo fastidio per la retorica, le finzioni, la cialtroneria che il fascismo portava con sé: solo la sua situazione personale e le necessità della sopravvivenza lo piegarono a esaltare, in alcuni articoli e programmi, le iniziative del regime.

Un intellettuale atipico

Razionalità e risentimenti

La famiglia

In guerra

L’attività letteraria

Difficoltà economiche

Gadda e il fascismo

EPOCA





GUERRE E FASCISMO

-

ROBERT MUSIL. L’UOMO SENZA QUALITÀ IL CANONE EUROPEO

tav. 237

L’austriaco Robert Musil (nato nel  a Klagenfurt, morto nel  a Ginevra, dove era riparato in seguito all’occupazione nazista), dotato di grande cultura tecnico-scientifica (era ingegnere meccanico) e filosofica (per la sua formazione culturale fu tra l’altro essenziale Nietzsche), esordí nel  con il breve romanzo Die Verwirrungen des Zöglings Törless (“I turbamenti del giovane Törless”), che segue le difficoltà del passaggio dall’adolescenza a una maturità che comporta la coscienza della frattura insanabile tra il sentimento e l’intelletto. Un insieme di scritti successivi e un Diario tenuto fin dal  mostrano una disposizione critica e saggistica, che porta l’autore a interrogare i nodi piú sottili, complessi ed essenziali della cultura e della vita sociale contemporanea: tutto ciò converge verso la costruzione del grande romanzo Der Mann ohne Eigenschaften, “L’uomo senza qualità”, i cui primi nuclei si affacciano già all’inizio del secolo e la cui stesura prende avvio nel corso degli anni ’, conducendo all’edizione di due volumi, il primo nel  (in due parti, intitolate Una specie di introduzione e Niente di nuovo sotto il sole), il secondo, con la terza parte, dal titolo Verso il Regno Millenario (I criminali), nel . In seguito Musil lavorò a lungo alla continuazione dell’opera, che rimase incompiuta, ma di cui lasciò un vastissimo insieme di stesure e abbozzi, anche con alcuni capitoli già composti in bozze e poi ritirati. Questa incompiutezza sembra come determinata dai caratteri stessi dell’opera, dal suo orizzonte tematico e filosofico, dall’atteggiamento che lo scrittore assume nei confronti della materia narrativa e dello stesso narrare: rifiutando le forme della narrativa di tipo naturalistico, egli evita di aggredire e stravolgere le forme linguistiche (come invece fa Joyce: cfr. CANONE EUROPEO, tav. ) e preferisce seguire l’evanescenza dei fatti, interrogare la non corrispondenza tra la realtà e la ragione, il dissolversi continuo dei giudizi e delle sicurezze; ma lo fa continuando a cercare una strada di conoscenza, a voler misurare le parole e le cose, a ritrovare una possibile razionalità. Ma è proprio l’impegno conoscitivo a mostrargli l’insufficienza, la provvisorietà, il sospendersi continuo di ogni identificazione del mondo: egli verifica che si può conoscere e narrare proprio il vario disperdersi della realtà, il continuo proporsi di possibilità diverse, l’affacciarsi di diversi proiezioni dell’anima umana, la difficoltà di separare ragione e follia; e in questo si trova a dosare nel modo piú acuto l’esattezza dell’analisi e l’ironia piú sottile e dissolvente. La narrazione si svolge entro il quadro della città di Vienna e dell’impero austro-ungarico, nei momenti che precedono il crollo della prima guerra mondiale: un impero che tiene insieme popoli diversi e la cui solidissima amministrazione nasconde un’intrinseca debolezza, un impero che da una parte sembra prefigurare l’utopia di un’Europa interetnica e interculturale, dall’altra conserva le tracce del passato piú oppressivo e decrepito. Il protagonista, Ulrich Anders, è «uomo senza qualità» non in quanto individuo inetto e banale, ma in quanto aperto a tutte le possibilità, privo di determinazioni precostituite: la sua figura non coincide con la nozione tradizionale di personalità organica e compatta. Ex-ufficiale esperto di matematica, egli ha come motto «Anima ed esattezza», e guarda alla realtà e ai rapporti personali con una disposizione analitica e sperimentale; verificando continuamente quanto sfugge al controllo della ragione, e confrontando il suo spirito tecnico e scientifico con la suggestione dell’irrazionalità, con l’aspirazione a un’utopia superiore, a un’esperienza piú essenziale e assoluta; nella sua sfuggente identità vive l’esito del relativismo moderno, la coscienza dell’insufficienza della realtà e del linguaggio, dell’incongruenza del mondo. Nella Vienna del  Ulrich si trova a frequentare una fitta serie di personaggi dell’aristocrazia e viene eletto segretario di un’associazione che sta progettando una singolare «Azione parallela», rivolta a celebrare con qualche iniziativa eccezionale (che mai si individua e che mai si realizza) il giubileo dell’imperatore Francesco Giuseppe (che dovrebbe aver luogo nel ). Alle vicende in parte serie e in parte comiche di questa Azione Parallela se ne intrecciano molte altre, e in primo luogo quella del criminale Moosbrugger, che suscita inquietanti interrogativi sul senso del male, quella di una coppia di amici di Ulrich,Walter e Clarissa (che si risolve nella follia della donna); quella del rapporto di Ulrich con Agathe, sorella dimenticata che riappare nella terza parte e con cui egli si lega intensamente, sfiorando un incesto, che per lui rappresenta una possibile conciliazione, il ritrovamento della parte mancante di sé, dell’«anima gemella» (secondo il mito dell’amore platonico), la cui presenza dà un senso nuovo all’universo e offre nuove possibilità di conoscenza. Ma questo percorso resta incompiuto e del tutto incerto resta il suo esito: Ulrich si arruolerà nella guerra che porterà alla rovina l’impero, ma nulla sappiamo piú del suo destino e delle sue motivazioni. Il romanzo si svolge con un ritmo irrefrenabile, in un succedersi di dialoghi, di monologhi, di riflessioni e considerazioni analitiche, di scatti di pungente ironia, di stravolgimenti umoristici, di momenti di intensa liricità: nel suo procedere verso l’incompiutezza offre

.

CARLO EMILIO GADDA



con coerenza e rigore il quadro totale di un mondo «moderno» in cui la totalità non appare piú possibile, in cui sembra venuta meno ogni organicità della cultura e dell’esperienza. Il testo L’uomo senza qualità inizia con un’accuratissima descrizione della condizione climatica di una giornata dell’agosto , a cui segue l’altrettanto accurata descrizione di una scena di traffico cittadino nella città di Vienna. Ma è subito evidente che non siamo entro una letteratura di tipo naturalistico: l’esattezza e la precisione di queste descrizioni non mostrano l’intento di riprodurre la realtà, ma piuttosto quello di misurarla e analizzarla con il metodo tipico della scienza moderna, che sa di non poter penetrare e afferrare la realtà, ma solo misurarla, proiettarla entro i propri schemi e parametri analitici. E il fatto che il romanzo inizi con una sorta di bollettino meteorologico e con una presentazione dell’intersecarsi delle linee di velocità e dei suoni del traffico cittadino inserisce già una nota paradossale e ironica verso la possibilità di rappresentare la realtà. E piú esplicitamente l’ironia si espande nelle battute che seguono, sulla «questione del dove ci si trova»: qui si confronta la comune pretesa di identificare una città con il suo nome preciso con l’indifferenza che si prova verso l’identificazione del preciso colore di un naso definito genericamente rosso (il gioco ironico sul naso mette in gioco dati e termini ricavati dalla psicologia della percezione). [EDIZIONE: Robert Musil, L’uomo senza qualità, vol. I, a cura di A. Vigliani, pref. di G. Curatelli, Neridiani, Mondadori ]

Un capitolo dal quale significativamente non si ricava nulla Sull’Atlantico gravava un’area di bassa pressione che, muovendosi verso oriente incontro a quella di alta pressione dislocata sulla Russia, non manifestava ancora alcuna tendenza a spostarsi verso nord per scansarla. Le isotere e le isoterme facevano il loro dovere. La temperatura dell’aria era nella norma rispetto alla temperatura media annua, rispetto a quella del mese piú freddo come a quella del mese piú caldo e all’oscillazione mensile aperiodica della temperatura. Il sorgere e il tramontare del sole e della luna, le fasi lunari, quelle di Venere, dell’anello di Saturno e molti altri importanti fenomeni rispettavano le previsioni degli annuari di astronomia. Nell’aria il vapor acqueo possedeva la massima elasticità e l’umidità era scarsa. Ovvero, con un’espressione che quantunque un po’ fuori moda, caratterizza benissimo questo insieme di fatti; era una bella giornata d’agosto del . Le automobili sfrecciavano da viuzze strette e incassate nelle distese di piazze piene di luce. Le macchie scure dei pedoni formavano cordoni sfrangiati. Dove linee di velocità piú intensa ne intersecavano la corsa disordinata, quei cordoni si ispessivano, scorrevano piú rapidamente e infine, dopo poche oscillazioni, riacquistavano il loro ritmo regolare. Centinaia di suoni si intrec-

ciavano in un assordante groviglio di fili metallici, dal quale sporgevano ora qua ora là delle punte, si delineavano, per smussarsi subito dopo, degli spigoli piú taglienti e limpide note si staccavano come schegge volandosene via. Da quel frastuono, la cui particolarità è tuttavia indescrivibile, una persona che pur fosse stata assente per anni, avrebbe capito a occhi chiusi di trovarsi nella capitale dell’Impero e residenza della corte, a Vienna. Le città sono riconoscibili al passo, come gli uomini. Se avesse aperto gli occhi, quella persona sarebbe giunta alla stessa conclusione, ricavandola molto prima dal ritmo del traffico stradale che non da qualche dettaglio caratteristico. E quand’anche si fosse ingannata, poco male. Sopravvalutare la questione del dove ci si trova, è retaggio dell’epoca in cui l’individuo era membro di un’orda e doveva tenere a mente dov’erano i pascoli. Sarebbe interessante scoprire perché, nel caso di un naso rosso, ci si accontenta di sostenere molto approssimativamente che è rosso e non si indaga mai di quale particolare rosso sia, quantunque lo si possa esprimere esattamente, al micromillimetro, mediante la lunghezza d’onda; mentre per una questione molto piú complessa, come quella della città in cui si soggiorna, si vorrebbe sapere sempre con la massima esattezza di quale particolare città si tratta. È una consuetudine che distrae dall’essenziale.

EPOCA





GUERRE E FASCISMO

-

LOUIS-FERDINAND CÉLINE. VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE IL CANONE EUROPEO

tav. 238

Il primo romanzo di Louis-Ferdinand Céline (pseudonimo di Louis-Ferdinand Destouches, Courbevoie, nella banlieu parigina, -Meudon, ), Voyage au bout de la nuit (“Viaggio al termine della notte”), iniziato nel , mentre l’autore esercitava la professione di medico nella banlieu, e pubblicato nel , è animato da una vera e propria carica distruttiva, da un furore corrosivo rivolto contro l’insieme della vita sociale, nel quadro di un viscerale disgusto verso tutti gli infiniti residui materiali e fisici della civiltà moderna, verso la crudeltà e la rozzezza dei rapporti tra gli esseri umani, con un misto di violenta aggressività e di dolente pietà, che ne fanno una delle opere piú radicali ed «estreme» della letteratura del Novecento. Una rappresentazione di fortissima evidenza fisica, di un realismo corporeo che scende verso le forme piú inquietanti del grottesco, guarda in faccia alla «verità» del mondo, contro tutte le ipocrisie del mondo borghese, contro il patriottismo e il militarismo, contro tutte le proiezioni di tipo intellettuale, che Céline disprezza con tutta la sua rabbia, avendo conosciuto da vicino la vita delle classi piú povere, la miseria delle periferie industriali, gli orrori della guerra. Questo atteggiamento di rifiuto radicale si svolge in un cupo riconoscimento del dominio della morte sulla vita, espresso in un aforisma già presente in un suo primo scritto di materia medica: «Nella Storia dei tempi la vita non è che ebrezza, la Verità è la Morte». Il romanzo si svolge davvero come un percorso attraverso il nulla della vita, pullulante di scarti, di violente conflagrazioni, di aggressive lacerazioni, dove i corpi e le menti sono minati dal dolore, dalla rabbia, dalla follia, da un’aggressività cieca e da un bisogno di amore che non si soddisfa mai fino in fondo e che dà luogo solo a ulteriori residui, sofferenze, deformazioni. Il protagonista Ferdinand Bardamu, che narra in prima persona vicende, che prendono spunto in parte da quelle della vita reale dell’autore, si muove nel mondo come in una danza frenetica e distruttiva, in situazioni che toccano il tragico, il comico, il grottesco, la farsa: egli può essere avvicinato agli eroi del romanzo picaresco (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ), dall’incerto stato sociale, pronti ad attraversare il mondo in perpetua fuga, scontrandosi con i poteri piú diversi, tra incontri pericolosi e sorprendenti, tra debolezza, paura, viltà, improvvisi ed effimeri colpi di fortuna. Il suo viaggio nell’inferno del mondo contemporaneo comincia con la sua partecipazione alla prima guerra mondiale, in cui viene ferito (come accadde realmente all’autore); in convalescenza, conosce un’americana, Lola, che vorrebbe seguire in America, ma finisce in un primo momento in Africa, dove si scontra con l’ostilità della natura e con la violenza coloniale; bruciata la sua baracca africana, viene venduto come schiavo e si ritrova infine in America, dove sperimenta la violenza della frenetica società basata sul business; ospitato da una prostituta, ritrova poi Lola, da cui si fa prestare del denaro, che gli permette di tornare in Francia. Apre uno studio medico in provincia, e nell’esercizio della professione sente tutto il peso di un male oscuro che corrode l’ambiente della modernità, come un cancro che si espande e attacca il corpo intero della società, deforma e corrompe la vita stessa del popolo piú misero e disperato. Torna infine a Parigi, come medico in un ospedale di pazzi, e sembra trovare una relativa quiete nell’amore con una bella infermiera, Sophie. Alle vicende partecipa spesso un compagno e quasi alter ego di Ferdinand, Léon Robinson, che, come dice il suo stesso nome, è figura dell’uomo-naufrago, ai margini di ogni società, sempre sconfitto e perdente, a cui non sono concessi i provvisori momenti di quiete che toccano a Ferdinand, e che scende nei gradini piú bassi della società, fino a essere ucciso da una donna che non sopporta la sua indifferenza. Una singolare violenza linguistica e stilistica, tesa a investire il francese con termini popolari, con scatti colloquiali, con interruzioni e frantumazioni del discorso, caratterizza questo romanzo cosí radicalmente negativo, dialogo ininterrotto con la disgregazione e la follia, presa d’atto del male terribile che negli anni tra le due guerre grava sulla civiltà europea, immersione nel mondo dei reietti, degli esclusi, di coloro che percorrono il mondo senza obiettivi e senza destino. Nel successivo romanzo, Mort à crédit (“Morte a credito”, ), Céline risalí indietro alle vicende dello stesso Ferdinand Bardamu precedenti al Viaggio; la sua rabbia viscerale verso la società contemporanea, spinta da una sorta di ossessivo furore, lo condusse poi su posizioni di violento antisemitismo e a simpatizzare per il nazismo: dopo la liberazione, attraverso la Germania, riparò in Danimarca, dove fu in carcere per  mesi e rimase in esilio fino al , quando per amnistia poté tornare in Francia. Negli ultimi anni scrisse varie opere di singolare violenza linguistica, che rompono ormai quella relativa continuità con la tradizione narrativa, che in parte caratterizzava un’opera pur cosí estrema come il Viaggio al termine della notte. Il testo Il passo qui riportato segue la sensazione di impotenza che prova Ferdinand davanti all’amico Léon Robinson, che sta per morire per le ferite ricevute in un taxi dalla pistola di Madelon, donna di cui vo-

.

CARLO EMILIO GADDA



leva liberarsi. È un’impotenza in primo luogo affettiva, un’incapacità di offrire qualche segno d’amore al morente, che forse in quel momento supremo cerca qualcosa di piú grande, di piú autentico, qualcosa di umano che Ferdinand ha perduto per strada, nel suo terribile viaggio attraverso il mondo (e si noti la similitudine in cui egli paragona i suoi sentimenti a una casa di vacanza appena abitabile). Ma a queste constatazioni subentra poi una piú cupa e definitiva crudeltà, con quelle battute sulla gioia che si dovrebbe avere al momento di morire (gioia per la liberazione dai mali della vita) e sull’atteggiamento piagnucoloso dei morenti, sul loro vano protestare, in cui il narratore vede come un tentativo di portare dentro la morte (che è il nulla) un’immagine di quell’infelicità che percorre tutta la vita, che egli considera una volgare commedia. Si noti, in questo tremendo discorso di Ferdinand, l’uso della paratassi, con l’inseguirsi di frasi brevi e taglienti, caratteristico della scrittura di Céline. [EDIZIONE: Louis-Ferdinand Céline, Voyage au bout de la nuit. Mort à crédit, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris, ] Et je restais, devant Léon, pour compatir et jamais j’avais été aussi gêné. J’y arrivais pas… il ne me trouvait pas… Il en bavait… Il devait chercher un autre Ferdinand, bien plus grand que moi, bien sûr pour mourir, pour l’aider à mourir plutôt, plus doucement. Il faisait des efforts pour se rendre compte si des fois le monde aurait pas fait des progrès. Il faisait l’inventaire, le grand malheureux, dans sa conscience… S’ils avaient pas changé un peu les hommes, en mieux, pendant qu’il avait vécu lui, s’il avait pas été des fois injuste sans le vouloir envers eux… Mais il n’y avait que moi, bien moi, moi tout seul, à côté de lui, un Ferdinand bien véritable auquel il manquait ce qui ferait un homme plus grand que sa simple vie, l’amour de la vie des autres. De ça j’en avais pas, ou vraiment si peu que c’était pas la peine de le montrer. J’étais pas grand comme la mort moi? J’étais bien plus petit. J’avais pas la grande idée humaine moi. J’aurais même je crois senti plus facilement du chagrin pour un chien en train de crever que pour lui Robinson, parce qu’un chien c’est pas malin, tandis que lui était un peu malin malgré tout Léon. Moi aussi j’était malin, on était des malins… Tout le reste était parti au cours de la route et ces grimaces mêmes qui peuvent encore servir auprès des mourants, je les avais perdues, j’avais tout perdu décidément au cours de la route, je ne retrouvais rien de ce qu’on a besoin pour crever, rien que des malices. Mon sentiment c’etait comme une maison où on ne va qu’aux vacances. C’est à peine habitable. Et aussi c’est exigeant un agonique. Agoniser ne suffit. Il faut jouir en même temps qu’on crève, avec les dernièrs hoquets faut jouir encore, tout en bas de la vie avec l’urée plein les artères. Ils pleurnichent encore parce qu’ils ne jouissent plus assez les mourants… Ils réclament… Ils protestent. C’est la comédie du malheur qui cherche à passer de la vie dans la mort même.

E io restavo, davanti a Léon, per fargli coraggio, e mai ero stato tanto imbarazzato. Non ci arrivavo… Lui non mi trovava… Sudava sette camicie… Doveva cercare un altro Ferdinand, molto piú grande di me, di sicuro, per morire, per aiutarlo a morire piuttosto, piú dolcemente. Faceva degli sforzi per rendersi conto se alle volte il mondo avesse fatto progressi. Faceva l’inventario, povero disgraziato, nella sua coscienza… Se erano cambiati un po’ gli uomini, in meglio, mentre lui era vissuto, se alle volte non era stato ingiusto senza volerlo nei loro confronti… Ma non c’ero che io, proprio io, tutto solo, al suo fianco, un Ferdinand autentico al quale mancava quel che farebbe un uomo piú grande della sua povera vita, l’amore per la vita degli altri. Di quello non ce ne avevo, o almeno cosí poco che non era il caso di farlo vedere. Non ero grande come la morte io. Ero molto piú piccolo. Non avevo una grande idea dell’uomo io. Avrei perfino, credo, sentito piú facilmente pena per un cane che stava per morire che per Robinson, perché un cane non fa il furbo, mentre lui aveva fatto un po’ il furbo malgrado tutto Léon. Anch’io facevo il furbo, lo facevamo tutti… Tutto il resto se n’era andato lungo la strada e le stesse mimiche che possono ancora servire coi moribondi, io le avevo perdute, avevo perso assolutamente tutto per strada, non ritrovavo nulla di quel che ci vuole per schiattare, solo degli espedienti. I miei sentimenti erano come una casa in cui si va solo per le vacanze. È appena abitabile. Poi è anche esigente uno che agonizza. Agonizzare non basta. Bisogna godere mentre te ne vai, con gli ultimi rantoli devi godere ancora, giú in fondo alla vita, con le arterie piene d’urea. Piagnucolano perché non godono abbastanza i morenti… Reclamano, Protestano. È la commedia dell’infelicità che cerca di passare dalla vita nella stessa morte.

EPOCA



La morte della madre Firenze e Roma

Gadda e il successo



GUERRE E FASCISMO

-

La morte della madre nel , accompagnata da violenti sensi di colpa, provocò una lacerazione che lo accompagnò per tutta la vita e da cui nacque il nucleo centrale de La cognizione del dolore, romanzo pubblicato incompleto su «Letteratura» tra il  e il . Abbandonata l’ingegneria, dopo due anni trascorsi a Milano, Gadda si trasferí nel  a Firenze, in piú stretto contatto con scrittori e critici come Bonsanti, Montale, Longhi, Bo: passò gli anni tra il  e il  nei dintorni della città (dove nel  vedeva la luce L’Adalgisa) e poi molti mesi a Roma. Sul finire della guerra iniziò la stesura di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, di cui apparvero ampi «tratti» su «Letteratura» nel . Alle difficoltà economiche del dopoguerra cercava di rimediare con collaborazioni a giornali; nel  ebbe un incarico di redattore dei programmi culturali della Rai, per il Terzo programma. Mentre uscivano altri volumi e raccolte di suoi scritti, l’editore Livio Garzanti lo spinse, anche con un adeguato sostegno economico, a portare a termine il Pasticciaccio, che apparve in volume nel . L’opera ebbe notevoli consensi e allargò la fama di Gadda a un pubblico piú ampio; nel  usciva in volume La cognizione del dolore, che ottenne il Prix International de Littérature. Considerato caposcuola sia da Pasolini sia dagli scrittori della neoavanguardia, Gadda reagiva in modo scontroso alla sua fama, si aggrovigliava sempre piú nella sua solitudine e nella sua nevrosi. Morí a Roma il  maggio .

... La guerra e i diari. Un’esperienza essenziale

Come interventista, Gadda affrontò la prima guerra mondiale con fede e con impegno: quella fu l’esperienza essenziale della sua vita, un’occasione irripetibile di travaglio morale e di riflessione critica, le cui tracce si sentiranno a lungo nella sua ideologia e nel suo stesso lavoro di scrittore. Alla guerra è legato anche il suo primo rapporto impegnativo con la scrittura, documentato da una serie di diari, che vanno dal  al , pubblicati nel  (e in forma piú completa nel ) con il titolo di Giornale di guerra e di prigionia (ma alcuni quaderni sono andati smarriti).

La scrittura dei diari

La scrittura di Gadda non ha qui dirette intenzioni letterarie: mira a un confronto tra gli eventi della guerra e l’esperienza personale, sfuggendo a ogni prospettiva eroica e retorica, ricostruendo e analizzando non le grandi trame della storia, ma i fatti e le circostanze piú precise che alla storia di solito sfuggono. L’osservazione di questa realtà, dei suoi aspetti squallidi e mediocri, dell’insensatezza che dominava gesti e decisioni, del monotono e distruttivo prolungarsi della vita di trincea, della lunga e inattiva miseria della prigionia, scatena una cupa malinconia, un intreccio di ansie e di turbamenti, una rabbia distruttiva rivolta contro gli altri e contro se stesso, un amaro risentimento verso errori, facilonerie, incapacità, inutili sofferenze. Il linguaggio è secco e diretto, nomina le cose con semplicità e pudicizia: ma in esso c’è una tensione repressa, che in alcuni momenti lo avvicina all’autobiografismo vociano, a modi di tipo lirico ed espressionistico. L’esperienza della guerra è per Gadda rivelatrice di violentissime contraddizioni: mostra lo scarto tra i suoi ideali patriottici e quella che gli appare la mediocre volgarità, lo scarso spirito civile e sociale degli Italiani; rivela un nesso strettissimo tra la sofferenza individuale e i mali della vita collettiva. La fedeltà all’esperienza della guerra sarà per lui anche fedeltà a questa contraddizione, a questa scoperta di un «dolore» insieme personale e sociale.

Un dolore personale e sociale

... Letteratura, tecnica, scienza, filosofia. Naturalismo problematico

L’interesse di Gadda per la letteratura si appoggia fin dall’inizio a un’esigenza di concretezza, a un proposito di conoscenza della realtà nelle sue articolazioni piú particolari: egli sembra mirare subito a una narrativa che si ricolleghi alla tradizione naturalistica e ai grandi modelli ottocenteschi, ma con la convinzione dell’aspetto problematico della stessa

.

CARLO EMILIO GADDA



realtà, dell’inutilità di riprodurla esteriormente, delle deformazioni e delle difficoltà che si pongono a chi intenda rappresentarla non nella sua apparenza, ma nei suoi caratteri piú veri e profondi. Il primo grande impegno di Gadda nella scrittura letteraria si rivolse a un romanzo dedicato alla turbinosa realtà della Lombardia del dopoguerra, con un abbozzo di analisi dei conflitti tra le classi che avevano accompagnato il sorgere del fascismo. Il romanzo doveva avere per titolo Racconto di ignoto italiano del Novecento: a esso Gadda lavorò tra il marzo del  e il luglio del , con abbozzi, stesure parziali, varie riflessioni di metodo e di poetica, affidate a due quaderni, pubblicati solo nel . La passione per la realtà, per l’individuazione dei suoi caratteri piú precisi, trova cosí le motivazioni piú profonde nella tensione contraddittoria che agita lo sguardo dell’autore-osservatore, e si incontra con i suoi risentimenti, con la sua passione morale, con il suo abito di tecnico, con la sua attenzione ai problemi posti dalla scienza e dalla filosofia. Per la sua stessa formazione, Gadda sente un nesso strettissimo tra il metodo della conoscenza scientifica e quello della costruzione letteraria: proprio nella fase finale degli anni Venti svolge un’acuta riflessione sulla filosofia della conoscenza, che, fuori dall’orizzonte idealistico italiano, si collega ad alcune delle prospettive essenziali dell’epistemologia moderna. Vari scritti di questi anni mostrano come Gadda stia cercando una letteratura come conoscenza problematica del reale.

Prime prove letterarie

La «summa» della riflessione teorica di Gadda è costituita da un trattato filosofico incompiuto, la Meditazione milanese, di cui si hanno due stesure redatte nel  (pubblicate postume nel ): è un testo che non si occupa direttamente di letteratura, ma si serve spesso di esempi ricavati dalla letteratura e rivela come, in ogni momento dell’esperienza di Gadda, sia essenziale l’indagine sulla natura della conoscenza, sui modi in cui l’osservatore umano costruisce il suo rapporto con la realtà. Vi si sottolinea come ogni conoscenza scientifica debba organizzarsi in sistema, articolarsi in un processo di «costruzione» degli stessi suoi oggetti: la realtà non è un dato chiuso, ma qualcosa che viene costruito dal movimento della conoscenza, muta e si trasforma con esso. Il bisogno di una conoscenza sistematica e l’indicazione dei suoi limiti (per cui Gadda si appoggia su molteplici radici culturali, spaziando dalla filosofia di Leibniz a quella di Bergson) comportano un impegno ad approfondire la complessità del reale, le sue articolazioni piú minute, con un’attenzione esasperata verso i particolari e nello stesso tempo con un’ambizione enciclopedica. Questo impegno trova una rispondenza immediata, al di là del terreno della scienza e della filosofia, in quello della letteratura, intesa appunto come conoscenza della complessità del reale: la scrittura letteraria di Gadda tenderà proprio a dare una immagine della molteplicità e della varietà del mondo, inseguendo i particolari piú minuti, costruendo cataloghi dei singoli oggetti e facendo risultare, dalla loro combinazione, il senso della totalità, della globalità inesauribile del sapere e dell’essere.

La Meditazione milanese

Scienza e letteratura

La conoscenza come sistema

Una letteratura della molteplicità

... Da La Madonna dei Filosofi a Il castello di Udine. Tutto il lavoro letterario di Gadda si svolge in una tensione insuperabile tra una tendenza al frammento, alla concentrazione su singoli oggetti, circostanze, situazioni, e una tendenza opposta alla costruzione, alla definizione di organismi che mettano insieme le facce piú disparate della realtà. Questa tensione si sente nel modo stesso in cui Gadda progetta e stende le sue opere, negli stessi tortuosi percorsi che portano i suoi testi alla pubblicazione: questi crescono attorno a progetti che non giungono mai a compimento, si avvolgono ogni volta attorno ad aspetti parziali di organismi piú ampi, attraversano una serie limitata di punti di vista di realtà, che, con la scrittura, si rivelano sempre piú complesse, inesauribili, senza che sia mai possibile esplorarle fino in fondo.

La crescita della scrittura

EPOCA



Progetti, frammenti e raccolte

Il «non-finito»

La Madonna dei Filosofi

La meccanica

Borghesia e popolo

Il castello di Udine



GUERRE E FASCISMO

-

Molti libri dello scrittore milanese derivano dalla raccolta di brani di diversa origine e destinazione, spesso schegge di progetti non realizzati o sospesi. Da ogni progetto si dipartono frammenti e brani parziali, pubblicati su riviste e poi passati a far parte di raccolte diverse: variamente egli ritorna sulle cose già scritte, le dispone in modi differenti, le ricombina in nuove stesure e proiezioni. Assai complicata è quindi la storia testuale delle sue opere, e molto fitta la serie dei manoscritti, il gioco delle varianti e delle trasformazioni che nel tempo i suoi testi subiscono. Il non-finito è carattere essenziale di tutta la narrativa di Gadda: nessuna opera può essere veramente completata, perché l’immagine del tutto si dà solo attraverso l’amplificazione e la moltiplicazione di particolari frantumati, che non possono veramente saldarsi tra loro. Il primo volume pubblicato nel  dall’ingegnere milanese, per le edizioni di «Solaria», La Madonna dei Filosofi, è fatto di testi già apparsi in gran parte nella stessa rivista tra il  e il , che rivelano ancora un forte legame con la «prosa d’arte» e con il gusto del frammento lirico o descrittivo. Gadda attribuisce al mondo descritto e al linguaggio che lo descrive dei caratteri «barocchi»: si sente come uno scrittore «barocco», «soggetto strano» che, nel bel giardino di «Solaria», vale «come giraffa o canguro». Alla fine del  risale l’elaborazione del romanzo incompiuto La meccanica, di cui furono pubblicati tre brani su «Solaria» nel : il testo del manoscritto originario doveva apparire solo nel . Si trattava di un romanzo sulla vita milanese all’inizio della prima guerra mondiale, che intendeva «dipingere tutta la balorda vita delle parole e delle passioni inutili caratteristica del nostro popolo». Gadda cerca qui di ricostruire con i piú precisi particolari la vita popolare all’inizio della guerra e gli stessi ambienti socialisti e pacifisti, a cui, come interventista, aveva guardato con grande ostilità. Sulla realtà e sugli ambienti sociali rappresentati Gadda scarica il risentimento accumulato verso il modo in cui gli Italiani hanno affrontato la guerra: ma filtra a tratti una volontà di comprendere le ragioni piú autentiche delle classi popolari, la cui povera vita appare in definitiva piú vera di quella dei borghesi ottusi ed egoisti, privi di ogni ideale e di ogni moralità. Il comico e il tragico si alternano crudelmente, in uno stile carico di aggressività. Il secondo libro pubblicato da Gadda, ancora per le edizioni di «Solaria», Il castello di Udine (), rinuncia alla forma piú ampia del romanzo e raccoglie testi di vario tipo, già apparsi tra il  e il . Evidente ed esplicito è qui il nesso tra l’attenzione di Gadda alla piú concreta vita sociale, alle situazioni di rapporto tra gli uomini, ai luoghi fisici e geografici, e l’esperienza della guerra, i risentimenti e le angosce che il suo ricordo continuamente rinnova in lui. Rispetto alla Madonna dei Filosofi, qui è molto piú avanzata la ricerca espressiva: il passaggio tra livelli stilistici diversi e l’accumulo barocco si appoggiano su piú vari e sottili mezzi linguistici, su molteplici allusioni letterarie. A questo spiegamento di mezzi fa da rincalzo un curioso e bizzarro commento, di dimensioni assai ampie, che l’autore stesso aggiunge ai singoli pezzi, attribuendolo a un fantomatico dottor Feo Averrois. Nel pezzo che fa da introduzione al volume, Tendo al mio fine, l’autore, con una sintassi volutamente pedantesca, in cui si intrecciano il grottesco, il lirico, il tragico, presenta la propria figura e i propri propositi, la propria vita marginale e disperata, priva delle gioie della giovinezza. Contro ogni proposito eroico, contro ogni retorica positiva, contro ogni esaltazione della funzione della letteratura, lo scrittore afferma la vanità della propria impresa, legata a un’osservazione disperata e beffarda della vanità della vita sociale.

... Espressionismo e plurilinguismo. Estraneità all’avanguardia

Nel Castello di Udine si rivelano ormai chiaramente quei caratteri essenziali del linguaggio gaddiano che si dispiegheranno nelle opere successive, e che sono stati individuati da Contini nell’espressionismo e nel plurilinguismo. Piú che collegarsi all’espressionismo inteso come movimento d’avanguardia (cfr. .., .. e PAROLE, tav. ), Gadda sembra

.

CARLO EMILIO GADDA

portare a compimento, nel confronto con la modernità, tutta la tradizione espressionistica e plurilinguistica che percorre la nostra storia letteraria. Egli agisce violentemente sul linguaggio, ne forza gli equilibri normali, si sottrae a ogni misura «classica», mescolando molteplici livelli linguistici e stilistici, svariati dialetti italiani, eterogenee forme della lingua letteraria, frammenti di lingue straniere, gerghi e lingue speciali e tecniche dell’uso corrente: si tratta di una gamma vastissima che va dalla lingua piú popolare a quella piú colta e arcaicizzante, manieristica e barocca, giocosamente artificiale, erudita e pedantesca. Questa molteplicità di elementi linguistici sorge da un oscuro fondo personale, da una disposizione aggressiva e rancorosa verso le cose, ma mira nello stesso tempo a identificarsi con la loro molteplicità, con la varietà infinita degli elementi che costituiscono il reale: come lo stesso Contini ha precisato, «quello di Gadda è un mondo robustamente esterno», il suo è un espressionismo naturalistico. Il bisogno di attraversare il reale in tutte le sue facce si esplica spesso in lunghe elencazioni di parole, nel gusto dell’accumulo degli oggetti, nella disposizione di termini in serie ordinate o in una confusione senza centro: Gadda, legandosi anche in questo alla tradizione espressionistica, fa un uso assai largo dell’enumerazione, cerca di estrarre dai diversi linguaggi tutti i modi possibili per colorire gli oggetti, per seguirne i contorni, ma dà nello stesso tempo l’effetto angoscioso della loro incontrollabilità, del loro fuggire e sottrarsi a una presa risolutiva. Impegnandosi ininterrottamente ad afferrare la realtà esterna, la lingua registra anche la sua inafferrabilità, il suo carattere aggrovigliato e inestricabile: e rispetto a una realtà che è groviglio, intrico, pasticcio, l’intero orizzonte della scrittura e del linguaggio gaddiani si presenta anch’esso come pasticcio (rinviando alla forma del pastiche, cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ). Il miscuglio linguistico dà largo spazio all’aggressione comica, alla parodia delle forme serie, al grottesco, all’umorismo: si piega verso gli aspetti piú «bassi» della realtà, ma sa anche scattare verso i piú laceranti toni lirici o riflessivi, verso un «sublime» pieno di sofferenza e di forza contraddittoria. Queste scelte espressionistiche hanno radici di tipo etico e psicologico che partono dalla sofferenza dell’io, dalla nevrosi dell’autore, dall’eco insuperabile dei traumi subiti nell’infanzia, dal groviglio di colpe e di impossibilità in cui si avvolge la sua vita, dal senso di solitudine e di «debilità» che domina ogni suo movimento nel mondo. Nel linguaggio di Gadda c’è il peso minaccioso di una negatività, che egli si sente forzato a dire, pur sapendo che «non tutto il dolore è dicibile, non tutto il male e l’orrore»: ciò comporta una immediata denuncia delle illusioni e delle mistificazioni sociali, dei diversi procedimenti con cui gli uomini e le società pretendono di affermare il «bene», la «bontà», la «normalità». Per Gadda una vera normalità è in effetti inesistente: la nevrosi domina l’orizzonte umano; chi si crede «normale» è semplicemente chi non riconosce la propria nevrosi, vuole costringere gli altri a essere normali ed è perciò molto piú pericoloso degli «anormali» che sanno di esserlo. In questo intreccio è radicalmente ambigua la posizione dell’io: Gadda dà voce alla piú violenta sofferenza interiore, alle difficoltà del suo rapporto con il reale e con il sociale; ma



Il linguaggio gaddiano

Espressionismo naturalistico

Necessità del pastiche

«Non tutto il dolore è dicibile»

Nevrosi e normalità Espressione e negazione dell’io

PASTICHE

Modellato sulla parola italiana pasticcio, questo termine francese fu usato già alla fine del Settecento per indicare un’opera letteraria o artistica costruita attraverso l’imitazione dello stile e delle forme di un autore o di un’opera particolare, a scopo di contraffazione, di parodia o di esercizio stilistico. Nel linguaggio musicale serví anche a indicare opere messe insieme attraverso la combinazione di arie tratte da opere diverse. In senso piú generale, si parla di pastiche per testi dalle caratteristiche varie e indeterminate, che imitano, mischiano e deformano materiali, modelli, codici, linguaggi dalla provenienza piú varia: il pastiche è una combinazione di molteplici generi che, attraverso calchi e contraffazioni di stili e forme di diversa origine, fa esplodere i normali limiti dell’organismo letterario, nel segno della distorsione e dello stravolgimento.

GENERI E TECNICHE

tav. 239

EPOCA



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GUERRE E FASCISMO

-

nello stesso tempo scopre nell’«io», inteso come valore e sostanza, una delle cause piú perverse della sofferenza e della sopraffazione reciproca che gli uomini esercitano l’uno sull’altro. Nella sua scrittura, anche quando piú forti e laceranti sono le sue radici autobiografiche, egli mira perciò a una negazione dell’io, a una sospensione del ruolo del soggetto, che egli sottopone al dileggio, all’aggressione beffarda, facendolo però riaffiorare attraverso nomignoli, figure pedantesche e gaglioffe, parziali identificazioni con i personaggi.

... La Milano de L’Adalgisa. Gli anni Trenta

La tematica antiborghese

L’Adalgisa

La lingua

La morale dell’apparenza

Dopo l’uscita del Castello di Udine, Gadda continua a percorrere, con vari articoli e bozzetti apparsi su riviste e giornali, la strada del frammento, insistendo sulla descrizione di luoghi e paesaggi, sulla definizione di una geografia culturale, su squarci lirici e riflessivi: molti di questi testi saranno raccolti nel  nel volume Le meraviglie d’Italia (e su questa linea, con riprese parziali degli stessi testi e inserzioni di nuovi, si muoveranno ancora i volumi Gli Anni, , e Verso la Certosa, ). Ma piú essenziale, nel corso degli anni Trenta, è l’approfondirsi definitivo del suo espressionismo e plurilinguismo, in testi che si propongono di rappresentare momenti della vita milanese, con una piú forte caratterizzazione linguistica e con una nuova aggressività nei confronti del mondo borghese, delle sue abitudini e delle sue meschinità quotidiane. Numerosi frammenti e racconti di diversa estensione, pubblicati su varie riviste tra il  e il , furono poi in gran parte organizzati nel volume L’Adalgisa. Disegni milanesi (apparso nel , poi raccolto nel  da Einaudi, insieme a La Madonna dei Filosofi e al Castello di Udine, sotto il titolo comune I sogni e la folgore). Piena di colori concreti, la rappresentazione della vita milanese si appoggia qui sulla mistione tra un essenziale fondo linguistico toscano, che ha anche momenti di artificioso equilibrio, e frammenti di dialetto milanese, che appaiono non solo nei dialoghi tra i personaggi, ma nel percorso stesso della narrazione e della descrizione. In questo uso del dialetto, in cui si sente una forte presenza del modello di Porta, si dà un rapporto immediato tra umore satirico, risentimento morale e immagine viva della realtà. Si affolla davanti al lettore tutta un’umanità fatta di maschere borghesi, che si accapigliano tra loro, che vivono solo per affermare la propria esteriore rispettabilità, abbarbicate ai segni piú formali e banali del decoro quotidiano, alle regole consunte di una morale dell’apparenza: tra le pieghe di questa facciata, dietro il culto dell’onestà, del lavoro, della proprietà, si scopre il fondo di una realtà sordida e faticosa, un viluppo di stenti nascosti, di sacrifici ostinati, un residuo di stupidità, di volgarità, di animalità, di sporca fisicità. L’orizzonte prevalente è quello del comico e del grottesco: con una comicità che ha qualcosa di funebre, che trascina tutti i segni di questa vita sociale organizzata e minuziosa verso la morte, occasione a sua volta di un nuovo rito, di un nuovo spettacolo di vuota apparenza, quello del funerale.

... La cognizione del dolore. I traumi dell’infanzia

Nel romanzo La cognizione del dolore, a cui Gadda prese a lavorare all’inizio del , dopo la morte della madre (utilizzando in parte anche alcuni materiali elaborati precedentemente), balza in primo piano il motivo autobiografico del rapporto tra figlio e madre, sotto il segno lacerante di una nevrosi legata ai traumi dell’infanzia, ai risentimenti e ai sensi di colpa indotti dalle immagini familiari (quella della stessa madre, quella del padre e quella del fratello morto in guerra), alle oppressive abitudini e necessità della vita borghese. Gadda si riavvolge qui sulla propria dolorosa esperienza, senza volerla raccontare direttamente, ma trasponendone i caratteri essenziali in situazioni e personaggi di forte densità oggettiva, in un mondo che è insieme reale, fantastico, artificiale, grottesco, ma su cui pesa in modo violentissimo l’oscuro fondo psichico che travaglia l’autore. Nello svolgersi dell’ana-

.

CARLO EMILIO GADDA

lisi psicologica, che scende nelle pieghe piú segrete dell’io, si sente qui l’effetto di un’attenzione spontanea di Gadda alla psicoanalisi: proprio in quegli anni egli svolse letture di testi psicoanalitici e manifestò il suo interesse per la capacità della psicoanalisi di mettere in luce il peso che gli aspetti piú oscuri dell’infanzia hanno sull’esperienza di ogni uomo e il carattere nevrotico della vita sociale. La cognizione del dolore nacque come racconto o frammento narrativo che doveva confluire in altre raccolte, ma si trasformò, nel corso del lavoro, intrecciato alla pubblicazione di sette puntate (chiamate dall’autore «tratti») sulla rivista «Letteratura» tra il  e il , in un vero e proprio romanzo, la cui conclusione rimase però sospesa. Intanto fin dal  l’editore Einaudi premeva su Gadda per una pubblicazione autonoma del romanzo, che, dopo lunghe incertezze e ipotesi di diverso tipo e dopo un lavoro preparatorio compiuto da Giancarlo Roscioni, giungeva in porto nel , sulla base del testo già apparso su «Letteratura», preceduto da un Saggio introduttivo di Gianfranco Contini e da un finto dialogo dal titolo L’Editore chiede venia del recupero chiamando in causa l’Autore. Questo complicato percorso editoriale fu praticamente concluso nel  da una nuova edizione contenente due tratti inediti (scritti probabilmente già intorno al ), che facevano avvicinare il romanzo quasi alla sua conclusione (anche se restava incerto il suo epilogo vero e proprio, che doveva essere affidato ad altre pagine che Gadda non portò a termine). Nella sua veste finale il romanzo è diviso in due parti, per un totale di nove tratti, la cui successione presenta proiezioni diverse della realtà di un fittizio Paese sudamericano (che Gadda ha ideato per la suggestione del suo soggiorno in Argentina), il Maradagàl, appena uscito da una guerra vittoriosa ma rovinosa con il vicino Parapagàl. Il protagonista, Gonzalo Pirobutirro d’Eltino, ingegnere nevrastenico e malinconico, coltiva progetti letterari e vive in una villa con la vecchia madre, dopo aver perduto in guerra il fratello. Gli svolgimenti narrativi sono abbastanza scarni e risultano, piú che da un vero intreccio, da una serie di progressivi spostamenti, di sempre piú avanzate messe a fuoco dell’universo rappresentato. La vita di don Gonzalo si svolge in una rabbiosa solitudine, nell’odio verso il mondo circostante, verso i borghesi delle vicinanze, verso i contadini che circolano nella villa, verso una varia umanità a cui la madre manifesta una benigna disponibilità; aggressivo e rancoroso è il suo rapporto con la stessa madre, con la quale egli vive scene di singolare violenza, che vanno al di là delle sue stesse intenzioni. Egli rifiuta la protezione di un’associazione di guardie notturne, costituita da reduci e profittatori di guerra, il «Nistitúo de vigilancia para la noche» (Istituto di vigilanza per la notte): ma in una notte in cui egli è assente, per uno dei suoi viaggi di lavoro, la madre viene trovata moribonda nel suo letto, per alcuni colpi subiti al capo, in circostanze che restano misteriose. L’autore pensava comunque di far sí che la donna, vittima del «Nistitúo», credesse di essere oggetto di un’aggressione del figlio.

Nel titolo, come suggerí lo stesso Gadda in un’intervista, il termine cognizione indica un «procedimento di graduale avvicinamento a una nozione», un percorso di ricerca delle cause e dei sintomi di quel dolore lacerante. Il disperato fondo autobiografico (evidente fin nei particolari della figura del protagonista e dei suoi rapporti con la madre) erompe dal confronto con un ambiente esterno fitto di presenze, figure, oggetti: l’immaginario Maradagàl offre un’immagine piuttosto trasparente dell’Italia del primo dopoguerra e del fascismo, e piú in particolare della Brianza abitata dagli «umili» del Manzoni, popolata di ville della borghesia milanese, tra cui quella di Longone, il cui mantenimento aveva costituito la mania della famiglia Gadda e il cruccio dell’autore. La trasposizione dall’Italia al Maradagàl permette una rappresentazione mascherata e rovesciata della realtà italiana contemporanea, ne moltiplica le storture con inesauribili possibilità di deformazione. La caotica realtà del dopoguerra, i conflitti sociali, le iniziative dei reduci e degli imboscati, i vari tentativi di trarre profitto personale dalla confusa situazione, la generale meschinità della vita collettiva, la mancanza di ogni senso civile, le assurde complicazioni della burocrazia, le iniziative di gruppi organizzati, tutti i mali che Gadda vede nella società



Gadda e la psicoanalisi

Genesi del romanzo

L’edizione del  L’edizione del 

Struttura e contenuto

Un itinerario di conoscenza

L’Italia del dopoguerra

EPOCA



Miscugli linguistici

Un universo di valori inautentici

Il «male oscuro» Un’infanzia «strozzata»

Il dolore e la parola

Il rapporto con la madre

La «tragedia della madre»



GUERRE E FASCISMO

-

italiana (e che il fascismo ha raccolto e convogliato nella sua affermazione), si riproducono come in un cannocchiale rovesciato nell’emisfero australe, affollato di emigrati dall’Italia, pieno di paesaggi, di oggetti della vita quotidiana, di consuetudini che sono le stesse dell’Italia piccolo-borghese, impiegatizia, popolare, arruffona, vittimista, cialtronesca. In questo mondo insieme fantastico e pedestre, stralunato e meschino, sono possibili i piú svariati miscugli linguistici: dal lombardo borghese e popolare allo spagnolo, ai dialetti meridionali, tra napoletano e sannita, messi in bocca a figure di burocrati e questuanti, a molteplici mistioni di forme letterarie, erudite, tecniche, di frammenti del linguaggio pubblico contemporaneo. L’Italia fascista, deformata e trasposta in Sud America, si presenta cosí come un mondo barocco e grottesco, un baraccone di meschine apparenze spettacolari. I violenti risentimenti di Gonzalo si dirigono allo stesso modo verso la borghesia di cui egli fa parte (con i modelli e le regole che egli ha dovuto subire fin dall’infanzia, con l’intero sistema della sua vita familiare, con l’odiata villa in cui è costretto a vivere) e verso le classi popolari, i molteplici poveri diavoli che ruotano attorno alla villa, che prestano piccoli servizi e trovano una generosa benefattrice nella madre. In tutti egli odia l’attaccamento alle cose, che nei borghesi è senso della proprietà e del possesso, negli altri piccola abitudine al raggiro, alla lamentela, ricerca di condiscendenza e di complice pietà; in tutti egli sente l’assenza di qualsiasi dimensione civile, di qualsiasi senso autentico del valore e della ragione. I rapporti con questo mondo fanno esplodere la nevrosi di Gonzalo fino al limite della follia, in un impasto di tragico dolore e di gesti sproporzionati, che nel loro eccesso sfiorano addirittura il comico. Alla misantropia egli associa la diffidenza e l’odio per le donne, per la loro disposizione all’illusione e alla mistificazione. Sente una minaccia nelle cose stesse, nei piccoli e molteplici frammenti di cui è fatta la vita materiale. Travagliato da un «male oscuro» che rode tutto il suo essere, ne scopre i piú vari sintomi e segni sul proprio corpo. Alla radice di tutto c’è un’infanzia consumata nel dolore, senza gioia, in mezzo ai sacrifici imposti dagli ottusi ideali dei genitori. Nella villa in cui abita si affacciano a ogni momento i segni ossessivi dei sacrifici a cui il padre ha costretto la famiglia, per costruirla e per farne uno strumento di distinzione borghese. Costretto a confrontarsi con un’umanità che si attacca a valori illusori, che sopravvaluta ogni momento della propria vita meschina, Gonzalo è preso dal «lento pallore della negazione»: «le ragioni del dolore, la conoscenza e la verità del dolore» lo allontanano da ogni «possibilità» positiva, fino a portarlo a negare se stesso. Di fronte ai vari segni del «dolore», la parola di Gadda riesce a raggiungere momenti di straordinaria potenza arrivando a esprimere l’insopportabile: cosí quando insegue l’allargarsi del dolore sul paesaggio, sullo sfumarsi e sul perdersi delle immagini della natura e della vita quotidiana, o quando sente in immagini e situazioni del presente l’addensarsi di tutto il dolore concentratosi via via sulla storia delle cose e delle parole. Nei riferimenti a oggetti culturali, nei richiami a brandelli di letteratura, di storia, di erudizione, di cui il romanzo è pieno, si riconosce spesso il peso di una sofferenza che su essi si è accumulata nei secoli, la traccia disperata di vite che vi si sono consumate e perdute. Nel rapporto di Gonzalo con la madre il risentimento e l’aggressività si aggrovigliano con una tenerezza che non riesce a esprimersi se non in un sordo senso di colpa, in una ossessiva preoccupazione per la fragile e povera esistenza della vecchia signora. Il rancore di Gonzalo è in realtà quello di chi non ha mai avuto la madre tutta per sé, di chi vorrebbe offrirle un amore assoluto e invece si sente costretto a vedere in lei una nemica, in ogni suo gesto un oltraggio. Egli avverte una pena rovinosa per il suo invecchiare, per la maledizione del tempo che la consuma, ma non riesce in nessun modo a comunicarle segni di tenerezza. Vorrebbe offrirle affetto e averne il perdono, e si scatena invece contro di lei con truci minacce, che sfiorano la violenza fisica: e tremenda è l’aggressione al ritratto del padre che egli compie, in presenza della madre. Ma il narratore è attento anche a seguire dall’interno il «dolore» della madre, a interrogare il punto di vista della donna che sente perdersi nel nulla le tracce del proprio passato.

.

CARLO EMILIO GADDA

La sofferenza e solitudine della madre amplificano la colpa del figlio, aggravata anche dalla tremenda responsabilità per il truce assassinio finale, che avviene mentre è assente dalla casa. La scena della scoperta dell’aggressione, in una notte grottesca percorsa da equivoci, bagliori improvvisi, apparizioni distorte, moltiplica la piena del dolore in un oltraggio insopportabile, che rivela senza remissione l’orrore del vivere e del morire.



L’orrore del vivere e del morire

... Il Pasticciaccio. La rappresentazione di Gadda si sposta dall’ambiente milanese e lombardo a quello romano in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, ideato intorno al  e poi trasformatosi in un ampio romanzo, di cui apparvero subito cinque «tratti» nei fascicoli di «Letteratura» del . L’autore vi lavorò intensamente nel corso del  e all’inizio del , in vista di un’edizione in volume che allora non ebbe luogo. Tra il  e il  Gadda ricavò dallo schema del romanzo una sceneggiatura cinematografica, dal titolo Il palazzo degli ori; varie difficoltà ostacolarono comunque la sistemazione e l’edizione dell’opera, fino al momento in cui una proposta di Livio Garzanti, del luglio , spinse l’autore a tornare al lavoro. Nel luglio  uscí l’edizione in volume, in dieci capitoli: rispetto al testo pubblicato in «Letteratura» si aveva l’aggiunta di quattro nuovi capitoli e una diversa sistemazione della parte precedente. Dal romanzo fu poi ricavata una nuova sceneggiatura (a cui l’autore restò quasi del tutto estraneo) che serví per il film, diretto da Pietro Germi, Un maledetto imbroglio (). Il Pasticciaccio segue, con l’apparente struttura del «giallo», un delitto che avviene in un palazzo borghese e lo svolgersi delle indagini relative: ma si tratta di un «giallo impossibile», che mantiene una suspense continua e nello stesso tempo si perde in mille particolari, in una ricerca ossessiva delle molteplici facce della realtà e dei rapporti che quel delitto chiama in causa; i fatti e le persone a esso collegati, la stessa ricerca dell’assassino, tutto si configura nei termini di un inestricabile pasticcio: questa parola si riaffaccia in vari modi, nel corso dell’opera, con tutta la gamma dei suoi possibili significati, rinviando alla concezione di tutta l’opera come pastiche (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ), e di tutta la realtà come intreccio, intrigo. Tutto si svolge in pochi giorni del marzo : in un palazzo di via Merulana, non lontano dal Colosseo, abitato da soddisfatti benestanti (e che l’immaginazione popolare definisce «palazzo degli ori»), subito dopo una rapina ai danni della Menegazzi, una vecchia dama veneta, viene assassinata la ricca e bella Liliana Balducci. Le indagini sono affidate al commissario di origine molisana Ciccio Ingravallo, affiancato da vari esponenti della questura romana e dai carabinieri di Marino. Lo sviluppo del romanzo si dà tutto nel complicarsi delle indagini, nel loro sfiorare ipotesi diverse e nel loro disperdersi in mille rivoli, anche se si acquisiscono alcuni risultati sicuri (soprattutto il ritrovamento delle gioie della Menegazzi in una povera casupola della campagna romana).

La narrazione è priva di ogni centro: non ci sono punti di vista privilegiati, non c’è nessun vero protagonista che possa sicuramente identificarsi con la posizione dell’autore. Ai caratteri autobiografici della Cognizione del dolore si sostituisce una radicale immersione della scrittura in una realtà oggettiva dalle facce molteplici, in una scatenata polifonia, dove si aggrovigliano le combinazioni piú varie dei linguaggi collettivi dell’Italia contemporanea: un mondo sociale di estrema concretezza ci viene incontro con un «pasticcio» di voci diverse, nessuna delle quali può prevalere definitivamente sulle altre. La mescolanza dà luogo a una frizzante sinfonia carnevalesca, che mette in primo piano il romanesco cittadino: alle varie sfumature di questo si accompagnano il laziale della campagna romana, il napoletano parlato da burocrati e poliziotti (da cui si distingue la variante molisana del commissario Ingravallo), il veneto della Menegazzi, apparizioni varie di altri dialetti, di forme toscane, di lingue straniere, di linguaggi specializzati. Questi non si af-

Elaborazione e stesure

L’edizione del 

Un «giallo impossibile»

La vicenda

Una polifonia senza centro

Plurilinguismo e conflittualità sociale

EPOCA



L’Italia negli anni del fascismo

La natura e la storia

Un mondo incorreggibile



GUERRE E FASCISMO

-

facciano solo nei dialoghi e nella caratterizzazione dei singoli personaggi, ma investono tutto lo svolgersi della parola narrativa, entrano nelle pieghe delle descrizioni delle cose e degli sviluppi dei fatti. Nel miscuglio grottesco delle lingue e dei caratteri Gadda scopre con fulminante intuito il punto d’arrivo autenticamente «moderno» della storia italiana. Il romanzo si pone come una radiografia della vita sociale italiana negli anni del fascismo: e non a caso si svolge a Roma, il centro in cui il regime autoritario tende a far convergere, a intrecciare, a uniformare le molteplici anime dell’Italia, esaltandone gli aspetti piú negativi, la cialtroneria e la vanagloria, la vocazione all’esibizione e all’imbroglio. In questa Roma fascista tutte le lingue e le realtà d’Italia si intrecciano in un baraccone spettacolare, in una fantasmagoria barocca e grottesca, in una buffoneria degradata: la vita di quegli anni si rivela qui come una vera e propria «autobiografia della nazione» (nel senso in cui del fascismo aveva parlato Gobetti, cfr. ..), un insulso spettacolo le cui radici sono in un’antica abitudine alla «favola» e alla mistificazione. La società cosí determinata e concreta rappresentata nel Pasticciaccio non è che la forma piú marcia e putrescente del male, della stupidità, della cecità che dominano in genere il mondo e la storia: non c’è personaggio che non partecipi a questo orizzonte, che non sia immerso nella nebbia dell’essere sociale. La molteplicità delle cose e degli atti mescola e riavvolge il passato della natura e della storia con il presente piú frantumato, doloroso e grottesco: ogni presenza può deformarsi scambiandosi con altre realtà culturali e materiali. Ai comportamenti e agli oggetti degli uomini si sovrappongono aspetti animaleschi; su ogni artificio prevale la piú elementare fisicità, che si impone con una ossessiva attenzione per i cibi, per la digestione, per gli escrementi e l’evacuazione, per un erotismo basso e volgare, per le deformazioni e le protuberanze corporee, per i grassi, la sporcizia, i residui organici, per le vesti e i manufatti logorati dall’uso, dotati di una loro irrazionale vita autonoma, per i rumori corporei o meccanici, che invadono lo spazio come una persecuzione indecifrabile. Con la sua inventiva linguistica, pronta a corrodere i contorni stessi del linguaggio, sospesa tra un’ilarità sconfinata e una disperazione rappresa, tra momenti di distacco impietoso e di partecipazione pietosa alla vita delle cose (e di alcuni «poveri esseri»), il Pasticciaccio dà voce a tutte le facce di un mondo incorreggibile, al pasticcio di linguaggi e di comportamenti, di ridicolo e di orrore di cui è fatta non solo la Roma fascista, ma tutta l’Italia che non corrisponde a nessuno degli ideali razionali, morali, civili, in cui Gadda aveva creduto.

... Eros e Priapo: il fascismo e il «putrido lezzo» della storia. Giudizio sul fascismo

La saggistica gaddiana: pastiche e satira

Fascismo e irrazionalità

Contemporaneamente al Pasticciaccio, tra il  e il , Gadda mise mano a un singolare scritto di analisi del fascismo, Eros e Priapo, che definiva in termini piú espliciti il suo giudizio sul costume del ventennio e l’analisi sociale sottesa al romanzo. Alcuni brani uscirono nel  sulla rivista «Officina» e l’edizione in volume si ebbe nel  (con il significativo sottotitolo Da furore a cenere). Si tratta di un’opera «saggistica» che si sottrae alle forme istituzionali codificate del saggio e del trattato, rifiutando una esposizione organica e sistematica: si pone anch’essa come un pastiche, un miscuglio di temi e di materiali linguistici che trascorre continuamente dalla riflessione teorica all’autobiografia, all’invettiva, all’apologo. Questa mescolanza rimette in circolo i caratteri della satira (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. ) come discorso aggressivo che salda risentimento morale e gioco beffardo. L’orizzonte «politico» spinge Gadda ad assumere come base un toscano letterario arcaicizzante, sottoposto a deformazioni popolareggianti, a stravolgimenti esasperati. Nella violenza di questo scritto, che non esita a trarre alla luce i risvolti piú osceni dei comportamenti legati all’intreccio psicologico analizzato, Gadda sembra anche volersi liberare da

.

CARLO EMILIO GADDA

un senso di colpa legato alla sua simpatia iniziale per il fascismo e all’ossequio formale che nella vita quotidiana era stato costretto a mostrare: egli sputa un suo «rospaccio» personale, e nello stesso tempo mette in guardia da ogni rapporto politico basato sull’uso di elementi irrazionali, sulla manipolazione degli istinti delle masse, su forme mitiche e su sotterranee correnti psichiche. La sua storia «al rovescio», attenta agli stati d’animo, agli atti degli individui e dei gruppi, ricorda che un fenomeno come il fascismo si può capire solo interpretando anche l’impoverimento morale che ha segnato le vicende private di quegli anni; e ci mette in guardia contro i pericoli di ogni cultura dell’esibizione e dell’erotismo deviato, contro certi caratteri della stessa comunicazione di massa (che spesso innescano comportamenti molto simili a quelli da lui individuati nel fascismo). Abituato a lavorare a progetti aperti in molteplici direzioni, facendone uscire schegge e frammenti del tipo piú diverso, soluzioni parziali e provvisorie, organismi mai chiusi e definitivi, Gadda ha costruito negli anni del dopoguerra vari volumi che sembrano ruotare attorno ai testi maggiori, che ne presentano sparsi brandelli o residui, o che raccolgono il frutto di esperienze laterali, lasciate ai margini della sua maggiore produzione. Una sistemazione di frammenti e di residui dei suoi maggiori libri di narrativa è costituita dalla raccolta del  Novelle dal Ducato in fiamme (che nel titolo allude all’Italia distrutta dalla guerra fascista), rinnovata e ampliata nel  con il nuovo titolo di Accoppiamenti giudiziosi (in tutto diciannove pezzi). Strumento essenziale per seguire la coscienza che Gadda ha della propria scrittura e della tensione morale e psichica con cui egli si accosta all’universo della cultura è la raccolta di saggi apparsa nel , I viaggi-La morte (una raccolta di saggi postuma è invece Il tempo e le opere, ). Ma ancora va ricordato il curioso dialogo a tre voci Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo (), che costituisce un’irriverente aggressione al personaggio e alla retorica del Foscolo, agli usi fatti della sua poesia in chiave borghese e nazionalistica.



Contro ogni cultura dell’esibizione

La produzione marginale

Novelle del Ducato in fiamme Altre raccolte

... Gadda e l’Italia moderna. Nell’opera di Gadda il massimo di densità stilistica, linguistica, tematica, si associa al grado piú alto di conoscenza della realtà; la tensione interna, il risentimento personale, la carica nevrotica, si traducono in tensione verso l’esterno, verso l’orizzonte sociale. Ne esce una vigorosa e concreta immagine dei caratteri della società italiana in un ampio scorcio di questo secolo, al cui centro ci sono gli anni del fascismo, e insieme ne risulta un mondo narrativo originalissimo, dotato di una forza individuale assoluta e definitiva. Gadda raccoglie e porta a compimento la lunga storia della tradizione plurilinguistica italiana: mischia le molteplici direzioni delle letterature regionali e dialettali e le mette a confronto con la radicale trasformazione verso il moderno avviatasi nella prima metà del secolo e continuata nel periodo fascista, in anni nevralgici e contraddittori. Il suo plurilinguismo è insomma una grande verifica del processo che, attraverso un miscuglio confuso all’interno del nuovo calderone della società di massa, conduce i dialetti italiani verso il loro esaurimento, porta il Paese verso una dimensione «unitaria», basata non tanto su astratti valori «nazionali», quanto su una uniformazione di massa. Di questa trasformazione Gadda registra il carattere abnorme e distorto: l’Italia borghese e piccolo-borghese che egli rappresenta si trova in una condizione di confine, è un pazzesco baraccone spettacolare, provvisorio e fatiscente, in cui i segni del moderno si affacciano in mezzo alla piú incorreggibile arretratezza; essi non contribuiscono a creare un nuovo universo civile, ma solo a esasperare antichi mali sociali. Il baraccone dell’Italia moderna, la sua babele linguistica riproduce in forme nuove i mali antichi di una comunicazione di tipo «barocco», basata sull’imbroglio, sulla mistificazione, sui rapporti spettacolari. Il suo sviluppo contraddice radicalmente gli ideali di razionalità illuministica, di rigore tecnico e di serietà morale di cui si era nutrito il patriottismo del giovane Gadda, al quale

Interprete di una realtà che cambia

Uno sviluppo distorto

EPOCA



Babele linguistica e società di massa

Pessimismo radicale



GUERRE E FASCISMO

-

già l’esperienza della prima guerra mondiale aveva portato un senso di delusione e di scoraggiamento. Ma questi caratteri cosí negativi dell’Italia contemporanea non sono altro che un’esasperazione del male profondo che minaccia ogni vita sociale: Gadda sente che essi tendono a propagarsi sull’intera scala dell’universo. L’Italia fascista e babelica da lui rappresentata diventa allora immagine del mondo moderno, del confuso e distorto ronzio della società di massa. La sua rappresentazione della realtà contemporanea è perciò tutta segnata da un pessimismo radicale, dal rifiuto di ogni prospettiva positiva. La scrittura nega tutte le finzioni e i valori che nella vita sociale si aggregano attorno alla «persona» e scompone nello stesso tempo i propri equilibri, mette in luce (anche con la propria incompiutezza) le contraddizioni che si danno nel rapporto tra la parola e la realtà. Il senso moderno del disgregarsi di ogni forma e di ogni esperienza si esprime cosí con una forza assoluta, con uno spirito giocoso e insieme con una carica di sofferenza, in cui si identificano il buio della nevrosi personale e l’orrore per i caratteri assurdi e insieme concreti del mondo.

˜ TESTI

10.2 IDEOLOGIA, FILOSOFIA, POLITICA: DA CROCE A GRAMSCI Benedetto Croce La storia come storia della libertà (da La storia come pensiero e come azione, XII)

L’ultimo capitolo, che qui si riporta integralmente, del saggio La storia come pensiero e come azione (che inaugura il piú ampio volume dallo stesso titolo, apparso all’inizio del 1938) costituisce una vibrante affermazione di fiducia nel valore della libertà, nella sua attiva presenza nella storia, nei suoi futuri sviluppi: un’affermazione che si rivolge contro le tendenze apparentemente vincenti in quegli anni, in cui il regime fascista sembrava giunto all’apice della sua forza. Nel quadro della sua concezione della storia e del pensiero, secondo cui la libertà «è il principio esplicativo del corso storico e l’ideale morale dell’umanità», Croce nega le opinioni allora prevalenti che consideravano morti la libertà e il liberalismo, invita a non considerare inevitabile lo stato di cose presente. Partendo dal principio di una storicizzazione integrale della conoscenza (portata a intendere «la filosofia in quanto storia» e la «storia in quanto filosofia»), nel corso del saggio aveva strettamente collegato quella riflessione sul senso della storia alle condizioni del presente, a cui egli era costretto ad alludere solo implicitamente, ma invitando il lettore a renderle mentalmente esplicite: «le delucidazioni metodologiche che qui vengo dando, non sono veramente intelligibili se non con il rendere mentalmente esplicito il riferimento (di solito da me fatto in modo soltanto implicito) alle condizioni politiche, morali e intellettuali dei giorni nostri, delle quali concorrono a dare la descrizione e il giudizio» (cap. V). Si tratta davvero di un grande messaggio intellettuale e morale, che invita la filosofia a non accontentarsi di congiunture storiche che sono in realtà indotte da immaginazioni percosse e smarrite, da qualcosa di simile a un’ubriacatura collettiva; ma invece a interpretare la realtà, facendo di tutto per sgombrare quelle insane immaginazioni. Un autentico «ottimismo della ragione» che suona come uno straordinario appello a non darsi mai per sconfitti – anche quando tutto, nel nostro paese o nel mondo, sembrava congiurare contro la ragione e la giustizia –, a non rinunciare mai ai propri strumenti di analisi del reale, e a usarli perché una coscienza piú profonda si espanda e si affermi finalmente nelle menti e negli animi. Ma, proiettandosi in un’ampia visione dello sviluppo storico, Croce mette in guardia sia contro l’ottimismo dei tempi liberali in cui gli spiriti liberi possono godere l’illusione di una buona compagnia, sia contro il pessimismo di quelli illiberali, in cui essi vedono intorno a sé solitudine o quasi solitudine. Per lui la storia non è né un idillio né una tragedia di orrori: e del resto un mondo totalmente pacificato, «un mondo di libertà senza contrasti», non può che essere l’«immagine della noia infinita»: ma questa asserzione acquista qui un valore di speranza e di stimolo alla resistenza contro il totalitarismo, alla lotta per il recupero della libertà (e in tal senso queste pagine furono recepite da molti antifascisti). [EDIZIONE: Benedetto Croce, La storia come pensiero e come azione, a cura di M. Conforti, nota al testo di G. Sasso, Bibliopolis, Napoli 2002]

Che la storia sia storia della libertà è un famoso detto dello Hegel ripetuto un po’ a orec-

. Hegel: il grande filosofo fu, come si è visto nel brano precedente, essenziale punto di riferimento, sia pur dialettico, per l’intera opera di Croce, che qui si riferisce alla teoria della storia esposta nelle

Lezioni della filosofia della storia (uscite postume a cura degli allievi), in cui si teorizza che le organizzazioni statuali si distinguano in un’ideale scala da un minimo a un massimo di complessità e libertà.

Fiducia nella libertà e nel liberalismo

Invita la filosofia a interpretare la realtà

Resistenza contro il totalitarismo

˜

EPOCA





GUERRE E FASCISMO

-

chio e divulgato in tutta Europa dal Cousin, dal Michelet, e da altri scrittori francesi, ma che nello Hegel e nei suoi ripetitori ha il significato, che abbiamo criticato di sopra, di una storia del primo nascere della libertà, del suo crescere, del suo farsi adulta e stare salda in questa raggiunta età definitiva, incapace di ulteriori sviluppi (mondo orientale, mondo classico, mondo germanico = uno solo libero, alcuni liberi, tutti liberi). Con diversa intenzione e diverso contenuto quel detto è qui pronunziato, non per assegnare alla storia il tema del formarsi di una libertà che prima non era e un giorno sarà, ma per affermare la libertà come l’eterna formatrice della storia, soggetto stesso di ogni storia. Come tale, essa è, per un verso, il principio esplicativo del corso storico e, per l’altro, l’ideale morale dell’umanità. Niente di piú frequente che udire ai giorni nostri l’annunzio giubilante o l’ammissione rassegnata o la lamentazione disperata che la libertà abbia ormai disertato il mondo, che il suo ideale sia tramontato sull’orizzonte della storia, con un tramonto senza promessa di aurora. Coloro che cosí parlano scrivono e stampano, meritano il perdono motivato con le parole di Gesú: perché non sanno quel che si dicano. Se lo sapessero, se riflettessero, si accorgerebbero che asserire morta la libertà vale lo stesso che asserire morta la vita, spezzata la sua intima molla. E, per ciò che s’attiene all’ideale, proverebbero grande imbarazzo all’invito di enunciare l’ideale che si è sostituito, o potrebbe mai sostituirsi, a quello della libertà; e anche qui si avvedrebbero che non ve n’ha alcun altro che lo pareggi, nessun altro che faccia battere il cuore dell’uomo nella sua qualità di uomo, nessun altro che meglio risponda alla legge stessa della vita, che è storia e le deve perciò corrispondere un ideale nel quale la libertà sia accettata e rispettata e messa in condizione di produrre opere sempre piú alte. Certo, nell’opporre alle legioni dei diversamente pensanti o diversamente favellanti queste proposizioni apodittiche si è ben consapevoli che esse sono proprio di quelle che posso-

. Cousin: Victor Cousin (-), filosofo francese di stampo eclettico, costituí, come dice appunto Croce, uno dei principali espositori delle teorie hegeliane fuori della Germania. . Michelet: Jules Michelet (-) fu invece probabilmente il massimo «scrittore» storico dell’epoca romantica e, in parte, applicò le teorie hegeliane ai suoi grandi affreschi storici (celeberrima la Storia della rivoluzione francese, -). . ripetitori: epigoni, divulgatori delle sue idee. . che abbiamo … di sopra: come si vedrà e come ha in parte anticipato già nei capitoli precedenti della sua opera, Croce non condivide affatto la visione hegeliana della «morte della storia» intesa come avvenuto raggiungimento del migliore degli Stati possibili (che in Hegel coincideva con il Regno di Prussia). . mondo orientale … tutti liberi: ai tre diversi orizzonti storici corrisponderebbero tre stadi diversi della libertà nel mondo: con la solita maestria retorica, Croce semplifica all’eccesso la teoria hegeliana, facendola coincidere con l’andamento triadico della dialettica (tesi, antitesi, sintesi), il motore principale del sistema di pensiero di Hegel. . non per … di una libertà: cioè per Croce non è vero che è la storia necessariamente e fatalmente, con il suo sviluppo, a produrre la libertà, ma è piuttosto il concetto di libertà che guida il formularsi degli av-

venimenti storici (eterna formatrice della storia). . Come tale … corso storico: dunque la libertà, piú precisamente la storia delle trasformazioni del concetto di libertà, è un’efficace chiave di lettura di tutti gli avvenimenti storici, e al tempo stesso è l’obbiettivo finale del divenire storico dell’umanità (l’ideale morale dell’umanità). . ai giorni nostri: si fa chiaro l’intento «politico», in senso lato, del discorso di Croce, che confronta questi concetti astratti con il panorama storico e morale dei suoi tempi dominati dal totalitarismo. . non sanno … dicano: la celebre frase di Gesú condotto sul monte Golgota per la crocifissione: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Luca, , ). . asserire: dichiarare, assicurare. . proverebbero … della libertà: Croce qui con grande forza e rigore sottolinea l’insostituibilità del concetto di libertà in qualsiasi teoria dello Stato, sia pure nelle versioni assolutistiche (alle quali allude), come quella che forniva al fascismo Giovanni Gentile. . si avvedrebbero: si accorgerebbero. . alla legge … storia: l’ideale della libertà non può che stare in cima alle aspirazioni degli esseri umani per legge di natura: e quindi anche per ogni tipo di conseguenza se ne voglia trarre sul piano teorico. . nell’opporre … apodittiche: la nozione della sto-

T. IDEOLOGIA, FILOSOFIA, POLITICA: DA CROCE A GRAMSCI. BENEDETTO CROCE

no far sorridere o muovere a scherni verso il filosofo, il quale par che caschi sul mondo come un uomo dell’altro mondo, ignaro di ciò che la realtà è, cieco e sordo alle sue dure fattezze e alla sua voce e ai suoi gridi. Anche senza soffermarsi sugli avvenimenti e sulle condizioni contemporanee onde in molti paesi gli ordini liberali, che furono il grande acquisto del secolo decimonono e sembrarono acquisto in perpetuo, sono crollati e in molti altri s’allarga il desiderio di questo crollo, la storia tutta mostra, con brevi intervalli d’inquieta, malsicura e disordinata libertà, con rari lampeggiamenti di una felicità piuttosto intravista che mai posseduta, un accavallarsi di oppressioni, d’invasioni barbariche, di depredazioni, di tirannie profane ed ecclesiastiche, di guerre tra i popoli e nei popoli, di persecuzioni, di esilî e di patiboli. E, con questa vista innanzi agli occhi, il detto che la storia è storia della libertà suona come un’ironia o, asserito sul serio, come una balordaggine. Senonché la filosofia non sta al mondo per lasciarsi sopraffare dalla realtà quale si configura nelle immaginazioni percosse e smarrite, ma per interpretarla, sgombrando le immaginazioni. Cosí, indagando e interpretando, essa, la quale ben sa come l’uomo che rende schiavo l’altro uomo sveglia nell’altro la coscienza di sé e lo avvisa alla libertà, vede serenamente succedere a periodi di maggiore altri di minore libertà, perché quanto piú stabilito e indisputato è un ordinamento liberale, tanto piú decade ad abitudine, e, scemando nell’abitudine la vigile coscienza di sé stesso e la prontezza della difesa, si dà luogo ad un vichiano ricorso di ciò che si credeva che non sarebbe mai riapparso al mondo, e che a sua volta aprirà un nuovo corso. Vede, per esempio, le democrazie e le repubbliche, come quelle della Grecia nel IV secolo o di Roma nel I, in cui la libertà rimaneva nelle forme istituzionali ma non piú nell’anima e nel costume, perdere anche quelle forme come colui che non ha saputo aiutarsi e che invano si è cercato di raddrizzare con buoni consigli viene abbandonato all’aspra correzione che la vita farà di lui. Vede l’Italia, esausta e disfatta, dai barbari deposta nella tomba con la sua pomposa veste d’imperatrice, risorgere, co-

ria come storia della libertà si pone attraverso postulati indiscutibili e indimostrabili, che Croce oppone alla maggior parte di coloro (soprattutto la maggior parte dei favellanti, di coloro cioè che hanno il permesso di favellare, di parlare, esprimere liberamente le proprie opinioni) che sotto il regime fascista si sono schierati con l’ideologia illiberale dei dominatori. . di quelle … il filosofo: l’accusa piú tenera che veniva rivolta a Croce dal regime fascista era infatti quella di sostenere ragioni magari valide in teoria, ma inapplicabili sul piano pratico, frutto di un pensiero astratto, staccato dalla realtà. . dure fattezze: il suo aspetto sgradevole ma reale. . gli ordini liberali … in perpetuo: Croce ha già ricostruito in grandi affreschi storici (soprattutto la Storia d’Italia dal  al  del  e la Storia d’Europa nel secolo decimonono del ) la sua visione della storia recente d’Europa, tutta volta alla lenta e paziente costruzione (sino al punto che tali conquiste poterono apparire come un acquisto in perpetuo, qualcosa di immodificabile) di un ordine di diritti certi: nella Storia d’Europa ha descritto anche il sorgere irrazionale del desiderio di crollo. Ora, parlando del crollo nel totalitarismo, avvenuto pressoché in tutta Europa, Croce dice che si può avere di nuovo l’impressione che nella storia dell’uomo la libertà si affacci solo in brevi e

incerti intervalli e che parlare di essa come storia della libertà può suonare come un’ironia o come una sciocchezza. . l’uomo che rende … alla libertà: con un’eco di un famoso apologo di Hegel, sul rapporto tra servo e padrone, Croce sottolinea come ogni oppressione non faccia poi che «svegliare la coscienza di sé» nell’oppresso e avvivare (cioè rinvigorire, rinforzare) il suo desiderio di libertà. . quanto piú … ad abitudine: Croce implicitamente allude agli stessi limiti del regime liberale italiano, che aveva conosciuto la sua massima espressione, nel bene e nel male, con il «giolittismo»: apparendo stabilito e indisputato, incontrastato, aveva ingenerato, oltre all’abitudine, anche l’irrequietezza e la disinvoltura ideologica di molti scrittori dei primi anni del secolo. . scemando: venendo meno. . ad un vichiano ricorso: allude alla teoria dei corsi e ricorsi storici, formulata da Giambattista Vico (cfr. ..). . Vede: il soggetto è sempre la filosofia (a inizio capoverso). . in cui … quelle forme: nelle quali la libertà era ormai piú un concetto formale che una realtà vissuta dai cittadini. . Vede … barbari deposta nella tomba: al contrario, si dà il caso storico di momenti particolar-

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me dice il poeta, agile marinaia nelle sue repubbliche del Tirreno e dell’Adriatico. Vede i re assoluti, che abbatterono le libertà del baronaggio e del clero, diventate privilegi, e che sovrapposero a tutti il loro governo, esercitato per mezzo di una loro burocrazia e sostenuto da un loro proprio esercito, preparare un’assai piú larga e piú utile partecipazione dei popoli alla libertà politica; e un Napoleone, distruttore anch’esso di una libertà tale solo d’apparenza e di nome e alla quale egli tolse apparenza e nome, agguagliatore di popoli sotto il suo dominio, lasciar dopo di sé questi stessi popoli avidi di libertà e resi piú esperti di quel che veramente fosse ed alacri a impiantarne, come poco dopo fecero in tutta Europa, gl’istituti. La vede, anche nei tempi piú cupi e piú grevi, fremere nei versi dei poeti ed affermarsi nelle pagine dei pensatori ed ardere solitaria e superba in alcuni uomini, inassimilabili al mondo che li attornia, come in quell’amico che Vittorio Alfieri scoperse nella Siena settecentesca e granducale, «liberissimo spirto» nato «in prigion dura», dove stava «qual leon che dorme», e pel quale egli scrisse il dialogo della Virtú sconosciuta. La vede in tutti i tempi, e nei propizî non meno che negli avversi, schietta e robusta e consapevole solo negli animi dei pochi, sebbene essi soli siano poi quelli che storicamente contano, come solo ai pochi veramente parlano i grandi filosofi, i grandi poeti, gli uomini grandi, ogni qualità di opere grandi, anche quando le folle li acclamano e deificano, pronte sempre ad abbandonarli per altri idoli da farvi chiasso intorno e per esercitare, sotto qualsiasi motto e bandiera, la naturale disposizione alla cortigianeria e servilità; e per questo, per esperienza e per meditazione, egli pensa e dice a sé stesso che, se nei tempi liberali si ha la grata illusione di godere di una ricca compagnia, e se in quelli illiberali si ha l’opposta e ingrata illusione di trovarsi in solitudine o in quasi solitudine, illusoria era certamente la prima credenza ottimistica, ma, per ventura, illusoria è anche la seconda, pessimistica. Questa, e tante altre cose simili a queste, vede, e ne conclude che se la storia non è punto un idillio, non è neppure una «tragedia di orrori», ma è un dramma in cui tutte le azioni, tutti i personaggi, tutti i componenti del coro sono, nel senso aristotelico, «mediocri», colpevoli-incolpevoli, misti di bene e di male, e tuttavia il pensiero direttivo è in essa sempre il bene, a cui il male finisce per servire da stimolo, l’opera è della libertà che sempre si sforza di ristabilire, e sempre ristabilisce, le condizioni sociali e politiche di una piú intensa libertà. Chi desideri in breve persuadersi che la libertà non può vivere diversamente da mente oscuri della libertà civile e politica che vedono un improvviso rialzarsi di capo, come, dopo l’oscurità dell’Alto Medioevo, nell’Italia delle repubbliche marinare; il poeta a cui Croce qui allude, senza una citazione diretta, dovrebbe essere Carducci, che nella parte finale di Nicola Pisano, in Rime e ritmi, esalta lo «spirito novel» delle repubbliche marinare. . Vede i re … del clero: la formazione delle monarchie nazionali che nel secolo XVI riducono i privilegi della nobiltà e del clero viene da Croce vista come un fenomeno progressivo, che prepara l’affermazione della moderna libertà. . tale solo d’apparenza: per Croce, quella del regime rivoluzionario in Francia. . agguagliatore: equiparatore, pareggiatore. . alacri … gl’istituti: e pronti a lavorare duramente (alacri) per poter impiantare in tutti i paesi gli istituti, i diritti e le istituzioni, di quella libertà. . grevi: pesanti, opprimenti. . inassimilabili … attornia: isolati e orgogliosi della propria solitudine in una società che disprezzano.

. quell’amico … Virtú sconosciuta: Francesco Gori Gandellini è l’amico defunto, animato in vita da una sdegnosa passione della libertà, nella Siena sottoposta alla prigion dura del Granducato di Toscana, con il quale finge di dialogare l’Alfieri ne La virtú sconosciuta (cfr. ..). . solo negli animi dei pochi: anche in tempi favorevoli alla libertà, la filosofia può scorgere un autentico, profondo, caldo ideale della libertà solo in poche anime elette. . egli: improvviso cambio di soggetto; tutto il succedersi in anafora dei precedenti vede aveva in realtà come unico soggetto la filosofia (all’inizio del lungo capoverso); ora, inavvertitamente, Croce ha sostituito alla filosofia la figura implicita del filosofo o dell’uomo libero, di una persona che svolge dentro di sé i pensieri della filosofia. . mediocri: tutti i personaggi della storia sono equiparati non agli eroi, ma a coloro che, secondo la dottrina di Aristotele, sono moralmente mediocri, inevitabilmente sospesi tra bene e male. . Chi desideri … diversamente: insomma la libertà non può che scaturire dialetticamente dal

T. IDEOLOGIA, FILOSOFIA, POLITICA: DA CROCE A GRAMSCI. BENEDETTO CROCE

come è vissuta e vivrà sempre nella storia, di vita pericolosa e combattente, pensi per un istante a un mondo di libertà senza contrasti, senza minacce e senza oppressioni di nessuna sorta; e subito se ne ritrarrà inorridito come dall’immagine, peggio che della morte, della noia infinita. Ciò posto, che cosa sono le angosce per la perduta libertà, le invocazioni, le deserte speranze, le parole di amore e di furore che escono dal petto degli uomini in certi momenti e in certe età della storia? È stato già detto di sopra in un caso analogo: sono non verità filosofiche né verità storiche, ma neppure errori o sogni; sono moti della coscienza morale, storia che si fa.

suo contrario, conquistandosi sempre maggiori (ma mai assoluti) territori.

. deserte: deluse.

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Giovanni Papini Chiudiamo le scuole! (da «Lacerba»,  giugno )

Spirito rivoluzionario e anarcoide

Lontananza della scuola dalla realtà

Una «scolastica» provocazione

˜

Si riportano i paragrafi finali di un articolo pubblicato su «Lacerba», 1 giugno 1914: è un documento originale e bizzarro dello spirito rivoluzionario e anarcoide di Papini nella fase del suo avvicinamento al futurismo: con spirito paradossale lo scrittore toscano propone la chiusura delle scuole, riprendendo molti temi tradizionali della polemica antiscolastica e antipedantesca che ha avuto una lunga persistenza nella storia e che si è prolungata variamente nei tempi moderni, con la scolarizzazione su ampia scala delle società, e che ha trovato nuove manifestazioni intorno al 1968 e poi nelle varie e ripetute crisi della scuola, nell’alternarsi continuo di proteste, contestazioni, «occupazioni», fino ai nostri giorni. I motivi di questa polemica, che nel linguaggio e nell’atteggiamento di Papini è sostenuta dal clima di aggressivo vitalismo e di irrazionalismo di inizio secolo che doveva in parte confluire in alcuni settori del fascismo, sono piú o meno sempre gli stessi: si denuncia l’opposizione tra la cultura della scuola, schematica, banale, ripetitiva, e quella dei grandi libri, la lontananza della scuola dalla realtà, l’uniformità dei programmi, incapaci di dare spazio alla diversità e alla varietà delle possibilità umane. La scuola è la negazione della libertà e va condannata perché non insegna mai quello che occorrerà davvero fare nella vita. Su molti punti questi luoghi comuni elencati da Papini sono sacrosanti, veri e indiscutibili proprio in quanto luoghi comuni: chi vive nella scuola sa che tutti quei mali possono essere corretti solo volta per volta, nelle situazioni concrete, nelle scelte culturali e nell’esperienza di docenti e discenti, nella capacità di entrare in contatto vivo momento per momento con la cultura e la società contemporanea, nel clima politico e morale che si respira. Ma per Papini tutto è materia di paradosso e di aggressiva manifestazione di anarchico spirito giovanile: la sua non è altro che una giocosa provocazione, molto letteraria e, in fondo, a sua volta piuttosto «scolastica» e pedantesca. [EDIZIONE: Giovanni Papini, Chiudiamo le scuole!, Luni, Milano 1996]

IV

L’uomo, nelle tre mezze dozzine d’anni decisive nella sua vita (dai sei ai dodici, dai dodici ai diciotto, dai diciotto ai ventiquattro), ha bisogno, per vivere, di libertà. Libertà per rafforzare il suo corpo e conservarsi la salute, libertà all’aria aperta: nelle scuole si rovina gli occhi, i polmoni, i nervi (quanti miopi, anemici e nevrastenici possono maledire giustamente le scuole e chi le ha inventate!) Libertà per svolgere la sua personalità nella vita aperta dalle diecimila possibilità, invece che in quella artificiale e ristretta delle classi e dei collegi. Libertà per imparare veramente qualcosa perché non s’impara nulla d’importante dalle lezioni ma soltanto dai grandi libri e dal contatto personale colla realtà. Nella quale ognuno s’inserisce a modo suo e sceglie quel che gli è piú adatto invece di sottostare a quella manipolazione disseccatrice e uniforme che è l’insegnamento. Nelle scuole, invece, abbiamo la reclusione quotidiana in stanze polverose piene di fiati – l’immobilità fisica piú antinaturale – l’immobilità dello spirito obbligato a ripetere invece che a cercare lo sforzo disastroso per imparare con metodi imbecilli moltissime cose inutili – e l’annegamento sistematico di ogni personalità, originalità e iniziativa nel mar nero degli uniformi programmi. Fino a sei anni l’uomo è prigioniero di genitori, di bambinaie o di istitutrici; dai sei ai ventiquattro è sottoposto a genitori e professori; dai ventiquattro è schiavo dell’ufficio, del caposezione, del pubblico e della moglie; tra i quaranta e i cinquanta viene meccanizzato e

T. IDEOLOGIA, FILOSOFIA, POLITICA: DA CROCE A GRAMSCI. GIOVANNI PAPINI

ossificato dalle abitudini (terribili piú d’ogni padrone) e servo, schiavo, prigioniero, forzato e burattino rimane fino alla morte. Lasciateci almeno la fanciullezza e la gioventú per godere un po’ d’igienica anarchia! V

L’unica scusa (non mai bastante) di tale lunghissimo incarceramento scolastico sarebbe la sua riconosciuta utilità per i futuri uomini. Ma su questo punto c’è abbastanza concordia fra gli spiriti piú illuminati. La scuola fa molto piú male che bene ai cervelli in formazione. Insegna moltissime cose inutili, che poi bisogna disimparare per impararne molte altre da sé. Insegna moltissime cose false o discutibili e ci vuole poi una bella fatica a liberarsene – e non tutti ci arrivano. Abitua gli uomini a ritenere che tutta la sapienza del mondo consista nei libri stampati. Non insegna quasi mai ciò che un uomo dovrà fare effettivamente nella vita, per la quale occorre poi un faticoso e lungo noviziato autodidattico. Insegna (pretende d’insegnare) quel che nessuno, potrà mai insegnare: la pittura nelle accademie; il gusto nelle scuole di lettere; il pensiero nelle facoltà di filosofia; la pedagogia nei corsi normali; la musica nei conservatori. Insegna male perché insegna a tutti le stesse cose nello stesso modo e nella stessa quantità non tenendo conto delle infinite diversità d’ingegno, di razza, di provenienza sociale, di età, di bisogni ecc. Non si può insegnare a piú d’uno. Non s’impara qualcosa dagli altri che nelle conversazioni a due, dove colui che insegna si adatta alla natura dell’altro, rispiega, esemplifica, domanda, discute e non detta il suo verbo dall’alto. Quasi tutti gli uomini che hanno fatto qualcosa di nuovo nel mondo o non sono andati mai a scuola o ne sono scappati presto o sono stati «cattivi» scolari. (I mediocri che arrivano nella vita a fare onorata e regolare carriera e magari a raggiungere una certa fama sono stati spesso i «primi» della classe). La scuola non insegna precisamente quello di cui si ha piú bisogno: appena passati gli esami e ottenuti i diplomi bisogna rivomitare tutto quel che s’è ingozzato in quei forzati banchetti e ricominciare da capo. Vorrei che i nostri dottori della legge, per i quali la scuola è il tempio delle nuove generazioni e i manuali approvati sono i sacri testamenti della religione pedantesca, leggessero, almeno una volta, il saggio di Hazlitt sull’Ignoranza delle persone istruite, che comincia cosí: «La razza di gente che ha meno idee è formata da quelli che non son altro che autori o lettori. È meglio non sapere né leggere né scrivere che sapere leggere e scrivere, e non esser capaci d’altro». E piú giú: «Chiunque è passato per tutti i gradi regolari d’una educazione classica e non è diventato stupido, può vantarsi d’averla scampata bella». Credo che pochissimi potrebbero – se sapessero giudicarsi da sé – vantarsi di una tale resistenza. E basta guardarsi un momento attorno e vedere quale sia la media intelligenza dei nostri impiegati, dirigenti, maestri, professionisti e governanti per convincersi che Hazlitt ha centomila ragioni. Se c’è ancora un po’ d’intelligenza nel mondo bisogna cercarla fra gli autodidatti o fra gli analfabeti. . igienica: l’uso della metafora dell’igiene per indicare propositi distruttivi era particolarmente in uso presso i futuristi, il cui Manifesto del resto aveva esaltato la guerra come «sola igiene del mondo» (T.., p. ). . Hazlitt: il saggista inglese William Hazlitt (-

) in molti scritti sostenne la superiorità dell’esperienza sull’erudizione (ebbe come motto Nil penna, sed usus: “non la penna, ma l’uso”); il saggio qui citato, On the Ignorance of the Learned, risale all’agosto .

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VI

La scuola è cosí essenzialmente antigeniale che non ristupidisce solamente gli scolari ma anche i maestri. Ripeti e ripeti anni dopo anni le medesime cose, diventano assai piú imbecilli e immalleabili di quel che fossero al principio – e non è dir poco. Poveri aguzzini acidi annoiati, anchilosati, vuotati, seccati, angariati, scoraggiati che muovono le loro membra ufficiali e governative soltanto quando si tratta di avere qualche lira di piú tutti i mesi! VII

Si parla dell’educazione morale delle scuole. Gli unici risultati della convivenza tra maestri e scolari è questa: servilità apparente e ipocrisia dei secondi verso i primi e corruzione reciproca tra compagni e compagni. L’unico testo di sincerità nelle scuole è la parete delle latrine. VIII

Bisogna chiudere le scuole – tutte le scuole. Dalla prima all’ultima. Asili e giardini d’infanzia; collegi e convitti; scuole primarie e secondarie; ginnasi e licei; scuole tecniche e istituti tecnici; università e accademie; scuole di commercio e scuole di guerra; istituti superiori e scuole d’applicazione; politecnici e magisteri. Dappertutto dove un uomo pretende d’insegnare ad altri uomini bisogna chiudere bottega. Non bisogna dare retta ai genitori in imbarazzo né ai professori disoccupati né ai librai in fallimento. Tutto s’accomoderà e si quieterà col tempo. Si troverà il modo di sapere (e di sapere meglio e in meno tempo) senza bisogno di sacrificare i piú begli anni della vita sulle panche delle semiprigioni governative. Ci saranno piú uomini intelligenti e piú uomini geniali; la vita e la scienza andranno innanzi anche meglio; ognuno se la caverà da sé e la civiltà non rallenterà neppure un secondo. Ci sarà piú libertà, piú salute e piú gioia. L’anima umana innanzi tutto. È la cosa piú preziosa che ognuno di noi possegga. La vogliamo salvare almeno quando sta mettendo le ali. Daremo pensioni vitalizie a tutti i maestri, istitutori, prefetti, presidi, professori, liberi docenti e bidelli purché lascino andare i giovani fuori dalle loro fabbriche privilegiate di cretini di stato. Ne abbiamo abbastanza dopo tanti secoli. Chi è contro la libertà e la gioventú lavora per l’imbecillità e per la morte.

T. IDEOLOGIA, FILOSOFIA, POLITICA: DA CROCE A GRAMSCI. PIERO GOBETTI

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Piero Gobetti Il fascismo: autobiografia della nazione e repressione (da La Rivoluzione Liberale) L’articolo Elogio della ghigliottina, apparso su «La Rivoluzione Liberale» del 23 novembre 1922 (a meno di un mese dalla marcia su Roma e dall’insediamento di Mussolini a capo del governo), di cui riportiamo una parte secondo il testo ritoccato per la raccolta nel volume del 1924, contiene una delle piú celebri definizioni che siano state date del fascismo, non come un male abnorme e inspiegabile, come un’imprevista rottura nel tranquillo sviluppo democratico del nostro paese, ma come autobiografia della nazione. Per Gobetti il fascismo riassume in sé alcuni dei mali piú pervicaci della società italiana, che rendono difficile il suo approdo alla modernità: e questi mali si riassumono in un infantile ottimismo, nel rifiuto del conflitto, in una pigrizia che si risolve nel quieto vivere, nella rinuncia alla lotta, nel rifiuto di mettere in questione valori e abitudini costituite (nella parte non riportata aveva parlato di disposizione a «contemplare il mondo semplificato secondo le proprie misure» e alla faciloneria fascista aveva opposto il valore dell’intransigenza). Questo nesso perverso trova il suo sostegno nel dominio incontrastato delle classi medie: quasi del tutto assenti sono i soggetti capaci di autentico conflitto, come sono i proletari e i borghesi; solo un breve episodio è stata la conflittualità degli anni che hanno preceduto l’avvento del fascismo, conflittualità a cui Gobetti guarda con una certa nostalgia, come a un momento di scontro eroico, da cui poteva sorgere una vera e propria rigenerazione delle energie del paese. Il fascismo ha bloccato questa rigenerazione, mira a ridurre di nuovo il paese all’unanimità, tende a cancellare le minoranze eroiche e le eresie: e da questo punto di vista Mussolini non fa che continuare la politica di Giolitti; l’ebrezza e la facciata rivoluzionaria del fascismo sono solo segni esteriori che mascherano l’incapacità delle classi medie italiane di spendere se stesse, di votarsi al sacrificio per qualcosa in cui si crede. Insomma gli italiani vogliono solo la disciplina e la quiete di un presunto stato forte: a essi manca la serietà; e alla fine del libro Gobetti sottolineerà «le attitudini di Mussolini a conservare il potere tra un popolo entusiasta e desideroso di svaghi, che egli conosce benissimo e cui appresta quotidiane sorprese» (battuta, questa, che potrebbe essere tranquillamente adattata alla situazione italiana all’inizio del secolo XXI). Questa analisi lucidissima appare per tanti aspetti ancora valida, specie nel collegamento ad alcuni caratteri costanti della società italiana: i suoi limiti sono dati dalla concezione, tipica di Gobetti, della vita come scontro e conflitto, della lotta politica come contrasto eroico. E nella parte finale questa concezione sembra condurre a una singolare brama del sacrificio, fino a dichiarare la speranza che una repressione tanto piú dura, un fascismo capace di levare la ghigliottina, possa far rinascere la lotta e la ribellione. Si giunge cosí a chiedere il boia perché sia tutto chiaro, ci si liberi dal fantasma della collaborazione sociale, si rilanci la possibilità del conflitto. È un ragionamento paradossale e ironico, legato all’obiettivo polemico di mostrare il vero volto del fascismo, di sfidarlo sul suo stesso terreno: ma sembra anche pericolosamente insidiato da quello schema del «tanto peggio tanto meglio» che in altre situazioni ha gravemente danneggiato la politica delle forze democratiche. [EDIZIONE: Piero Gobetti, La Rivoluzione Liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, a cura di E. Alessandrone Perona, Einaudi, Torino 1983]

LE RAGIONI DELL’OPPOSIZIONE

Lo spirito della nostra indagine ci potrebbe esentare dal compito di discorrere del fascismo, che fu individuato, nelle pagine precedenti, come una parentesi storica, come un fe-

I mali della società italiana

La lotta politica come contrasto eroico

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nomeno di disoccupazione nell’economia e nelle idee connesso con tutti gli errori della nostra formazione nazionale. Il presupposto di questo libro è che l’Italia riesca a trovare in sé la forza per superare la sua crisi e riprendere quella volontà di vita europea che parve annunciarsi, almeno in certi episodi, col Risorgimento. Quindi accade che le nostre obbiezioni al fascismo siano tutte pregiudiziali e scorgano l’errore dove gli apologisti indicano i meriti, nella capacità che ebbe il movimento, in un’ora di sospensione e di incertezze, di porre termine alla tensione degli Italiani e di comprometterli in una banale palingenesi di patriarcalismo quando la solennità della crisi imponeva ai cittadini l’imperativo categorico della coerenza, della libera lotta politica, dell’autogoverno. Il ministero Facta apparirà allo storico come la piú curiosa delle ironie e quasi la caricatura di un volere provvidenziale che dava agli Italiani un governo debole e rinunciatario perché i cittadini sapessero affrontare le responsabilità inevitabili della lotta politica e dell’iniziativa statale. Finché la lotta dei partiti nati nel dopo-guerra rimaneva indecisa tutte le possibilità del futuro erano salve. Il fascismo ci ha tolto quest’incubo; e mentre gli Italiani fallivano al loro esame di serietà moderna il genio della stirpe ha ripreso tra i residui dell’avventuroso Rinascimento la leggendaria figura del condottiero di milizie che dà ai servi inquieti una paterna disciplina. ELOGIO DELLA GHIGLIOTTINA

Nella Rivoluzione Liberale del  novembre  questo nostro stato d’animo impopolare era cosí descritto: Il fascismo vuol guarire gli Italiani dalla lotta politica, giungere a un punto in cui, fatto l’appello nominale, tutti i cittadini abbiano dichiarato di credere nella patria, come se col professare delle convinzioni si esaurisse tutta la praxis sociale. Insegnare a costoro la superiorità dell’anarchia sulle dottrine democratiche sarebbe un troppo lungo discorso, e poi, per certi elogi, nessun miglior panegirista della pratica. L’attualismo, il garibaldinismo, il fascismo sono espedienti attraverso cui l’inguaribile fiducia ottimistica dell’infanzia ama contemplare il mondo semplificato secondo le proprie misure. La nostra polemica contro gli Italiani non muove da nessuna adesione a supposte maturità straniere; né da fiducia in atteggiamenti protestanti o liberisti. Il nostro antifascismo prima che un’ideologia, è un istinto. Se il nuovo si può riportare utilmente a schemi e ad approssimazioni antichi, il nostro vorrebbe essere un pessimismo sul serio, un pessimismo da vecchio Testamento senza palingenesi, non il pessimismo letterario dei cristiani delusione di ottimisti. La lotta tra serietà e dannunzianesimo è antica e senza rimedio. Bisogna diffidare delle conversioni, e credere piú alla storia che al progresso, concepire il nostro lavoro come un esercizio spirituale, che ha la sua necessità in sé, non nel suo divulgarsi. C’è un valore incrollabile al mondo: l’intransigenza e noi ne saremmo, per un certo senso, in questo momento, i disperati sacerdoti. Temiamo che pochi siano cosí coraggiosamente radicali da sospettare che con queste metafisiche ci si possa incontrare nel problema politico. Ma la nostra ingenuità è piú esperta di talune corruzioni e in certe teorie autobiografiche ha già sottinteso un insolente realismo politico obbiettivo. Noi vediamo diffondersi con preoccupazione una paura dell’imprevisto che seguiteremo a indicare come provinciale per non ricorrere a piú allarmanti definizioni. Ma di certi difetti sostanziali anche in un popolo «nipote» di Machiavelli non sapremmo capacitarci, se venisse l’ora dei conti. Il fascismo in Italia è un’indicazione di infanzia perché segna il trionfo della facilità, della fiducia, dell’entusiasmo. Si può ragionare del ministero Mussolini: come di un fatto d’ordinaria amministrazione. Ma il fascismo è stato qualcosa di piú; è stato l’autobiografia della nazione. Una nazione che crede alla collaborazione delle classi; che rinuncia per pigrizia alla lotta politica, dovrebbe essere guardata e guidata con qualche pre-

T. IDEOLOGIA, FILOSOFIA, POLITICA: DA CROCE A GRAMSCI. PIERO GOBETTI

cauzione. Confessiamo di aver sperato che la lotta tra fascisti e socialcomunisti dovesse continuare senza posa: e pensammo nel settembre del  e pubblicammo nel febbraio del  La Rivoluzione Liberale con fiducia verso la lotta politica che attraverso tante corruzioni, corrotta essa stessa, tuttavia sorgeva. In Italia, c’era della gente che si faceva ammazzare per un’idea per un interesse per una malattia di retorica! Ma già scorgevamo i segni della stanchezza, i sospiri alla pace. È difficile capire che la vita è tragica, che il suicidio è piú una pratica cotidiana che una misura di eccezione. In Italia non ci sono proletari e borghesi: ci sono soltanto classi medie. Lo sapevamo: e se non lo avessimo saputo ce lo avrebbe insegnato Giolitti. Mussolini non è dunque nulla di nuovo: ma con Mussolini ci si offre la prova sperimentale dell’unanimità, ci si attesta l’inesistenza di minoranze eroiche, la fine provvisoria delle eresie. Certe ore di ebbrezza valgono per confessioni e la palingenesi fascista ci ha attestato inesorabilmente l’impudenza della nostra impotenza. A un popolo di dannunziani non si può chiedere spirito di sacrificio. Noi pensiamo anche a ciò che non si vede: ma se ci si attenesse a quello che si vede bisognerebbe confessare che la guerra è stata invano. Privi di interessi reali, distinti, necessari gli Italiani chiedono una disciplina e uno Stato forte. Ma è difficile pensare Cesare senza Pompeo, Roma forte senza guerra civile. Si può credere all’utilità dei tutori e giustificare Giolitti e Nitti, ma i padroni servono soltanto per farci ripensare a La Congiura dei Pazzi  ossia ci riportano a costumi politici sorpassati. Né Mussolini né Vittorio Emanuele Savoia hanno virtú di padroni, ma gli Italiani hanno bene animo di schiavi. È doloroso dover pensare con nostalgia all’illuminismo libertario e alle congiure. Eppure, siamo sinceri sino in fondo, c’è chi ha atteso ansiosamente che venissero le persecuzioni personali perché dalle sofferenze rinascesse uno spirito, perché nel sacrificio dei suoi sacerdoti questo popolo riconoscesse se stesso. C’è stato in noi, nel nostro opporsi fermo, qualcosa di donchisciottesco. Ma ci si sentiva pure una disperata religiosità. Non possiamo illuderci di aver salvato la lotta politica: ne abbiamo custodito il simbolo e bisogna sperare (ahimè, con quanto scetticismo) che i tiranni siano tiranni, che la reazione sia reazione, che ci sia chi avrà il coraggio di levare la ghigliottina, che si mantengano le posizioni sino in fondo. Si può valorizzare il regime; si può cercare di ottenerne tutti i frutti: chiediamo le frustate perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia perché si possa veder chiaro. Mussolini può essere un eccellente Ignazio di Loyola; dove c’è un De Maistre che sappia dare una dottrina, un’intransigenza alla sua spada?

. un popolo di dannunziani: nella parte iniziale del capitolo Gobetti aveva segnato una netta distinzione tra serietà e dannunzianesimo, due poli di una lotta senza rimedio: nel dannunzianesimo, nelle sue forme di ebrezza esteriore (a cui è collegata la falsa pretesa di rinnovamento totale vantata dal fascismo, la sua pretesa di palingenesi) egli riconosce la mancanza di serietà delle classe medie italiane. . Ma è difficile … La Congiura dei Pazzi: Gobetti ritiene che uno stato veramente forte possa risultare solo dalla vitalità dello scontro: è impossibile pensare alla grandezza e all’autorità di Cesare senza la guerra civile e lo scontro con Pompeo, da cui essa è risultata. I nomi di Giolitti e di un altro politico «moderato» come Francesco Saverio Nitti sono esempi di politici mediatori, tutori che hanno cercato di attutire e di tenere sotto controllo i conflitti; invece i politici autoritari, che

mirano a creare uno stato forte, suscitano l’inevitabile ritorno ai metodi antichi della congiura e della cospirazione (per i quali viene ricordata la tragedia di Alfieri La congiura dei Pazzi, cfr. .., indicata con qualche forzatura come esempio di illuminismo libertario), che non hanno nulla a che fare con l’aperto conflitto, di cui Gobetti rivendica la necessità. . Ignazio di Loyola … De Maistre: Mussolini viene qui equiparato al fondatore della Compagnia di Gesú, che ha elaborato i metodi di persuasione di massa della Chiesa della Controriforma, per la sua funzione pratica di guardiano della reazione e suscitatore di consenso: ma, pur disponendo di questi strumenti, il fascismo manca di una vera dottrina, di un’adeguata elaborazione teorica e ideologica, gli manca qualcuno che possa essere paragonato al grande ideologo reazionario Joseph De Maistre (-).

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Antonio Gramsci Gli intellettuali (da Quaderni del carcere, , . Per la storia degli intellettuali)

L’intellettuale e la storia

L’intellettuale organico

L’intellettuale tradizionale

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La riflessione sugli intellettuali, che costituisce uno dei cardini del pensiero di Gramsci, si svolge in vari punti dei Quaderni, ma trova il suo centro nel quaderno 12, di cui si riportano qui la parte iniziale e alcuni passi ulteriori. Come per tutti i Quaderni si tratta di appunti di lavoro che rifuggono da un’argomentazione sistematica e registrano le domande, i dubbi, i tentativi di risposta, i propositi di ricerca del prigioniero, come mostra lo stesso inizio del quaderno, che pone una domanda e dà una prima risposta problematica: vi si descrivono due forme generali di formazione delle categorie intellettuali (distinguendo intellettuali organici e intellettuali tradizionali); e piú avanti Gramsci dichiarerà che «tutte queste note devono essere considerate semplicemente come spunti e motivi per la memoria, che devono essere controllati e approfonditi». È subito evidente, nello svolgimento di questo discorso, che la nozione di intellettuale si inserisce entro una organica concezione della storia, del lavoro e dei rapporti e conflitti tra le classi. Allontanandosi dall’ottica idealistica del suo marxismo giovanile, qui Gramsci mette in primo piano dei dati concreti e «tecnici», facendo attenzione a distinguere il livello della struttura economica (la base materiale del lavoro e della produzione) da quello della superstruttura (l’insieme dei dati e delle istituzioni culturali, che interagiscono con la struttura e possono anche influire su di essa, modificarne le direzioni). Secondo questa riflessione, ogni gruppo sociale crea dal proprio seno intellettuali organici, che sono tali in quanto gli danno consapevolezza di se stesso e rispondono a necessità di organizzazione delle forme del lavoro e della coscienza; e i modelli di intellettuali che ogni classe crea nella sua espansione corrispondono ad aspetti particolari dell’attività primitiva che qualifica il tipo sociale che la classe stessa fa sorgere nello sviluppo materiale dell’umanità (ma cfr. la nota 1). Ma la complessità dello sviluppo storico fa sí che ogni classe emergente trovi già sulla scena intellettuali che continuano la tradizione precedente e che, pur legati a origini sociali ben definite, testimoniano la continuità della cultura: si tratta degli intellettuali tradizionali, che tendono a considerarsi formalmente autonomi dallo stesso gruppo sociale dominante, anche se ne servono l’ideologia e i bisogni sociali. A partire da questa distinzione (nella quale non mancano difficoltà, con passaggi non totalmente perspicui), Gramsci offre acutissime distinzioni tra varie categorie di intellettuali tradizionali, che sono state variamente raccolte dalla storiografia del secondo Novecento (essenziale cosí la distinzione tra chierici e laici: e cfr. PAROLE, tav. 2), e si confronta con l’articolazione varia e complessa che le categorie intellettuali assumono nelle società moderne, dando un rilievo particolare alla scuola (e alle Osservazioni sulla scuola: per la ricerca del principio educativo è dedicata la seconda parte di questo quaderno 12). Tutta questa riflessione ha naturalmente un piú diretto risvolto politico: si tratta sia di definire la natura dell’intellettuale organico del proletariato (che, in ultima analisi, ma con varie eccezioni e correzioni, finisce per coincidere con il funzionario di partito), sia di mostrare la necessità di un’assimilazione e di una conquista ideologica degli intellettuali tradizionali (prospettiva, questa, che sarà seguita dal Partito Comunista Italiano nella prima fase del dopoguerra). [EDIZIONE: Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975].

Gli intellettuali sono un gruppo sociale autonomo e indipendente, oppure ogni gruppo sociale ha una sua propria categoria specializzata di intellettuali? Il problema è complesso per le varie forme che ha assunto finora il processo storico reale di formazione delle diverse categorie intellettuali. Le piú importanti di queste forme sono due: ) Ogni gruppo sociale, nascendo sul terreno originario di una funzione essenziale nel mondo della produzione economica, si crea insieme, organicamente, uno o piú ceti di intellet-

T. IDEOLOGIA, FILOSOFIA, POLITICA: DA CROCE A GRAMSCI. ANTONIO GRAMSCI

tuali che gli danno omogeneità e consapevolezza della propria funzione non solo nel campo economico, ma anche in quello sociale e politico: l’imprenditore capitalistico crea con sé il tecnico dell’industria, lo scienziato dell’economia politica, l’organizzatore di una nuova cultura, di un nuovo diritto ecc. ecc. Occorre notare il fatto che l’imprenditore rappresenta una elaborazione sociale superiore, già caratterizzata da una certa capacità dirigente e tecnica (cioè intellettuale): egli deve avere una certa capacità tecnica, oltre che nella sfera circoscritta della sua attività e della sua iniziativa, anche in altre sfere, almeno in quelle piú vicine alla produzione economica (deve essere un organizzatore di masse d’uomini, deve essere un organizzatore della «fiducia» dei risparmiatori nella sua azienda, dei compratori della sua merce ecc.). Se non tutti gli imprenditori, almeno una élite di essi deve avere una capacità di organizzatore della società in generale, in tutto il suo complesso organismo di servizi, fino all’organismo statale, per la necessità di creare le condizioni piú favorevoli all’espansione della propria classe; o deve possedere per lo meno la capacità di scegliere i «commessi» (impiegati specializzati) cui affidare questa attività organizzatrice dei rapporti generali esterni all’azienda. Si può osservare che gli intellettuali «organici» che ogni nuova classe crea con se stessa ed elabora nel suo sviluppo progressivo, sono per lo piú «specializzazioni» di aspetti parziali dell’attività primitiva del tipo sociale nuovo che la nuova classe ha messo in luce. (Anche i signori feudali erano detentori di una particolare capacità tecnica, quella militare, ed è appunto dal momento in cui l’aristocrazia perde il monopolio della capacità tecnico-militare che si inizia la crisi del feudalismo. Ma la formazione degli intellettuali nel mondo feudale e nel precedente mondo classico è una quistione da esaminare a parte: questa formazione ed elaborazione segue vie e modi che occorre studiare concretamente. Cosí è da notare che la massa dei contadini, quantunque svolga una funzione essenziale nel mondo della produzione, non elabora proprii intellettuali «organici» e non «assimila» nessun ceto di intellettuali «tradizionali», quantunque dalla massa dei contadini altri gruppi sociali tolgano molti dei loro intellettuali e gran parte degli intellettuali tradizionali siano di origine contadina). ) Ma ogni gruppo sociale «essenziale» emergendo alla storia dalla precedente struttura economica e come espressione di un suo sviluppo (di questa struttura), ha trovato, almeno nella storia finora svoltasi, categorie sociali preesistenti e che anzi apparivano come rappresentanti una continuità storica ininterrotta anche dai piú complicati e radicali mutamenti delle forme sociali e politiche. La piú tipica di queste categorie intellettuali è quella degli ecclesiastici, monopolizzatori per lungo tempo (per un’intera fase storica che anzi da questo monopolio è in parte caratterizzata) di alcuni servizi importanti: l’ideologia religiosa cioè la filosofia e la scienza dell’epoca, con la scuola, l’istruzione, la morale, la giustizia,

. gli intellettuali … messo in luce: secondo Gramsci ogni classe sociale, nel porsi come nuova, nel suo svilupparsi e nel prendere coscienza di sé, si manifesta in un tipo sociale caratterizzato da un’attività originaria, dalla sua primitiva capacità tecnica (come mostra l’esempio dei signori feudali, che subito segue): nella sua espansione essa fa sorgere dal suo seno e fa sviluppare degli intellettuali organici, le cui attività costituiscono specializzazioni di aspetti particolari di quell’attività originaria che caratterizza la classe. In altri termini, le forme, i modelli, le attività degli intellettuali organici approfondiscono, elaborano, rafforzano forme, modelli, attività radicate nelle capacità tecniche e nel concreto fare materiale della classe. . Ma ogni gruppo … struttura: i gruppi sociali che

svolgono attività «essenziali» per lo sviluppo storico non sorgono dal nulla, ma si sviluppano dal seno della struttura economica precedente, scaturiscono dal suo sviluppo; cosí il proletariato si sviluppa dal seno stesso della struttura capitalistica, in quando costituisce la forza lavoro necessaria per lo sviluppo dello stesso capitalismo. . categorie sociali … politiche: nello sviluppo storico del passato i gruppi sociali in sviluppo si sono trovati davanti categorie e figure di intellettuali già costituite, che non sono state messe in discussione, presentandosi come rappresentanti di una continuità storica della funzione intellettuale che non è stata interrotta nemmeno dai piú radicali cambiamenti sociali e politici.

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la beneficenza, l’assistenza ecc. La categoria degli ecclesiastici può essere considerata essere la categoria intellettuale organicamente legata all’aristocrazia fondiaria: era equiparata giuridicamente all’aristocrazia, con cui divideva l’esercizio della proprietà feudale della terra e l’uso dei privilegi statali legati alla proprietà. Ma il monopolio delle superstrutture da parte degli ecclesiastici (da esso è nata l’accezione generale di «intellettuale» – o di «specialista» – della parola «chierico», in molte lingue di origine neolatina o influenzate fortemente, attraverso il latino chiesastico, dalle lingue neolatine, col suo correlativo di «laico» nel senso di profano – non specialista) non è stato esercitato senza lotta e limitazioni, e quindi si è avuto il nascere, in varie forme (da ricercare e studiare concretamente) di altre categorie, favorite e ingrandite dal rafforzarsi del potere centrale del monarca, fino all’assolutismo. Cosí si viene formando l’aristocrazia della toga, con suoi propri privilegi; un ceto di amministratori ecc., scienziati, teorici, filosofi non ecclesiastici ecc. Siccome queste varie categorie di intellettuali tradizionali sentono con «spirito di corpo» la loro ininterrotta continuità storica e la loro «qualifica», cosí essi pongono se stessi come autonomi e indipendenti dal gruppo sociale dominante; questa auto-posizione non è senza conseguenze nel campo ideologico e politico, conseguenze di vasta portata. […] Tutti gli uomini sono intellettuali, si potrebbe dire perciò; ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione di intellettuali (cosí, perché può capitare che ognuno in qualche momento si frigga due uova o si cucisca uno strappo della giacca, non si dirà che tutti sono cuochi e sarti). Si formano cosí storicamente delle categorie specializzate per l’esercizio della funzione intellettuale, si formano in connessione con tutti i gruppi sociali ma specialmente in connessione coi gruppi sociali piú importanti e subiscono elaborazioni piú estese e complesse in connessione col gruppo sociale dominante. Una delle caratteristiche piú rilevanti di ogni gruppo che si sviluppa verso il dominio è la sua lotta per l’assimilazione e la conquista «ideologica» degli intellettuali tradizionali, assimilazione e conquista che è tanto piú rapida ed efficace quanto piú il gruppo dato elabora simultaneamente i propri intellettuali organici. L’enorme sviluppo preso dall’attività e dall’organizzazione scolastica (in senso largo) nelle società sorte dal mondo medioevale indica quale importanza abbiano assunto nel mondo moderno le categorie e le funzioni intellettuali: come si è cercato di approfondire e dilatare l’«intellettualità» di ogni individuo, cosí si è anche cercato di moltiplicare le specializzazioni e di affinarle. Ciò risulta dalle istituzioni scolastiche di diverso grado, fino agli organismi per promuovere la cosí detta «alta cultura», in ogni campo della scienza e della tecnica. (La scuola è lo strumento per elaborare gli intellettuali di vario grado. La complessità della funzione intellettuale nei diversi Stati si può misurare obbiettivamente dalla quantità delle scuole specializzate e dalla loro gerarchizzazione: quanto piú estesa è l’«area» scolastica e quanto piú numerosi i «gradi» «verticali» della scuola, tanto è piú complesso il mondo culturale, la civiltà, di un determinato Stato. Si può avere un termine di paragone nella sfera della tecnica industriale: l’industrializzazione di un paese si misura dalla sua attrezzatura nella costruzione di macchine per costruire macchine e nella fabbricazione di strumenti sempre piú precisi per costruire macchine e strumenti per costruire macchine ecc. Il paese che ha la migliore attrezzatura per costruire strumenti per i gabinetti sperimentali degli scienziati e per costruire strumenti per collaudare questi strumenti, si può dire il piú complesso nel campo tecnico-industriale, il piú civile ecc. Cosí e nella preparazione degli intellettuali e nelle scuole dedicate a questa preparazione: scuole e istituti di alta cultura sono assimilabili). […] Nel mondo moderno, la categoria degli intellettuali, cosí intesa, si è ampliata in modo inaudito. Sono state elaborate dal sistema sociale democratico-burocratico masse imponenti, non tutte giustificate dalle necessità sociali della produzione, anche se giustificate dalle ne. masse imponenti: d’intellettuali.

. la necessità … di difesa: la necessità di creare for-

T. IDEOLOGIA, FILOSOFIA, POLITICA: DA CROCE A GRAMSCI. ANTONIO GRAMSCI

cessità politiche del gruppo fondamentale dominante. […] La formazione di massa ha standardizzato gli individui e come qualifica individuale e come psicologia, determinando gli stessi fenomeni che in tutte le altre masse standardizzate: concorrenza che pone la necessità dell’organizzazione professionale di difesa, disoccupazione, superproduzione scolastica, emigrazione ecc. Diversa posizione degli intellettuali di tipo urbano e di tipo rurale. Gli intellettuali di tipo urbano sono concresciuti con l’industria e sono legati alle sue fortune. La loro funzione può essere paragonata a quella degli ufficiali subalterni nell’esercito: non hanno nessuna iniziativa autonoma nel costruire i piani di costruzione; mettono in rapporto, articolandola, la massa strumentale con l’imprenditore, elaborano l’esecuzione immediata del piano di produzione stabilito dallo stato maggiore dell’industria, controllandone le fasi lavorative elementari. Nella loro media generale gli intellettuali urbani sono molto standardizzati; gli alti intellettuali urbani si confondono sempre piú col vero e proprio stato maggiore industriale. Gli intellettuali di tipo rurale sono in gran parte «tradizionali», cioè legati alla massa sociale campagnola e piccolo borghese, di città (specialmente dei centri minori), non ancora elaborata e messa in movimento dal sistema capitalistico: questo tipo di intellettuale mette a contatto la massa contadina con l’amministrazione statale o locale (avvocati, notai ecc.) e per questa stessa funzione ha una grande funzione politico-sociale, perché la mediazione professionale è difficilmente scindibile dalla mediazione politica. Inoltre: nella campagna l’intellettuale (prete, avvocato, maestro, notaio, medico ecc.) ha un medio tenore di vita superiore o almeno diverso da quello del medio contadino e perciò rappresenta per questo un modello sociale nell’aspirazione a uscire dalla sua condizione e a migliorarla. Il contadino pensa sempre che almeno un suo figliolo potrebbe diventare intellettuale (specialmente prete), cioè diventare un signore, elevando il grado sociale della famiglia e facilitandone la vita economica con le aderenze che non potrà non avere tra gli altri signori. L’atteggiamento del contadino verso l’intellettuale è duplice e pare contradditorio: egli ammira la posizione sociale dell’intellettuale e in generale dell’impiegato statale, ma finge talvolta di disprezzarla, cioè la sua ammirazione è intrisa istintivamente da elementi di invidia e di rabbia appassionata.

me di associazione di tipo sindacale o corporativo. . Diversa … rurale: come accade spesso nei Quaderni, la frase indica l’argomento dei periodi che

seguono, come una sorta di titolo. . la massa strumentale: quelli che mettono in atto materialmente la produzione, i lavoratori.

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10.3 AVANGUARDIA ED ESPRESSIONISMO I moralisti vociani Scipio Slataper L’ordine, il lavoro, il nido disfatto (da Il mio Carso)

Insieme romanzo, diario, autobiografia lirica, Il mio Carso ripercorre le esperienze del giovane autore sfuggendo a ogni ordine precostituito, passando continuamente dai dati personali a quelli culturali, anche con passaggi dalla prima alla terza persona o a un tu rivolto a se stesso o ad altri personaggi, tra cui la figura della fidanzata Gioietta, morta suicida nel 1910 (Anna Pulitzer il suo vero nome). Il paesaggio del Carso costituisce lo sfondo simbolico del discorso, quasi il luogo da cui si dipartono i significati e le contraddizioni dell’esistenza. E il libro si chiude con il brano che segue, che prende avvio proprio da un’invocazione al Carso, duro e buono, terra del sogno e delle passioni elementari, che con il suo paesaggio cosí scabro e spoglio costituisce il retroterra dell’essere personale dell’autore e della fervida operosità che domina la sua città, Trieste. Dopo l’esaltata immagine del paesaggio carsico si passa cosí a quella della città, che è ordine e lavoro, dominata dalla ragione e dall’efficienza pratica: in essa balenano rapide immagini del mondo del lavoro, come quella, di fortissima evidenza, del capo ganga che al mattino arruola i facchini. Trieste ha instillato nel giovane il senso della lotta e soprattutto del dovere, di quell’«ideologia del lavoro» tipicamente vociana (piú volte teorizzata da Prezzolini) che finisce per essere il concetto chiave di questo brano e il punto d’approdo dell’intero libro: il quale si conclude, non senza retorica, con un vero e proprio appello all’impegno pratico, civile e morale, a una maturità sostanziata di amore e solidarietà con i fratelli. Dunque amare, cioè vivere con la globalità unitaria dei propri sentimenti e delle proprie emozioni; ma soprattutto lavorare, immergersi cioè nel tessuto vivo e sanguigno delle attività e dei commerci, della letteratura e della politica; in una parola, della vita associata. Chiuse in una loro acerba immaturità, queste pagine interessano come testimonianza del drammatico destino di una generazione capace di incontrarsi con il «negativo» della nuova coscienza europea e dominata da un impegno volontaristico, da una ossessione del «fare» presto approdata al massacro della guerra: questo impegno trova un corrispettivo nelle scelte linguistiche, nel tentativo di forzare il linguaggio in senso espressionistico, come mostrano la coniazione di nuove parole come disvegeta, canneggianti, incassi, l’uso di frasi nominali, le inversioni sintattiche ecc. [EDIZIONE: Scipio Slataper, Il mio Carso, introduzione di M. Isnenghi, Mondadori, Milano 1980]

Carso, che sei duro e buono! Non hai riposo, e stai nudo al ghiaccio e all’agosto, mio Carso, rotto e affannoso verso una linea di montagne per correre a una meta; ma le montagne si frantumano, la valle si rinchiude, il torrente sparisce nel suolo.

. che sei duro e buono!: il brano finale inizia con un’invocazione «alta» che si salva dall’enfasi – sempre in agguato nella prosa di Slataper – con la costruzione vagamente popolareggiante denotata dall’uso improprio del pronome relativo «che». . stai … all’agosto: ancora una costruzione bizzarra della frase, con la preposizione articolata «al» che oltre al normale complemento di luogo si torce pure, analogicamente, al complemento di tempo.

. rotto … a una meta: il Carso è antropomorfizzato: a esso lo scrittore attribuisce moti e sensi umani, e l’umana tensione di un impossibile moto verso la linea di montagne. . il torrente sparisce nel suolo: si tratta del ben noto fenomeno dell’idrografia appunto «carsica», con fiumi e torrenti (il caso piú noto è quello del Timavo) che si immergono nella terra per fuoriuscirne a tratti lungo il proprio corso.

Il Carso, duro e buono Trieste, ordine e lavoro

Appello all’impegno civile e morale

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Tutta l’acqua s’inabissa nelle tue spaccature; e il lichene secco ingrigia sulla roccia bianca, gli occhi vacillano nell’inferno d’agosto. Non c’è tregua. Il mio carso è duro e buono. Ogni suo filo d’erba ha spaccato la roccia per spuntare, ogni suo fiore ha bevuto l’arsura per aprirsi. Per questo il suo latte è sano e il suo miele odoroso. Egli è senza polpa. Ma ogni autunno un’altra foglia bruna si disvegeta nei suoi incassi, e la sua poca terra rossastra sa ancora di pietra e di ferro. Egli è nuovo ed eterno. E ogni tanto s’apre in lui una quieta dolina, ed egli riposa infantilmente fra i peschi rossi e le pannocchie canneggianti. Disteso sul tuo grembo io sento lontanar nel profondo l’acqua raccolta dai tuoi abissi, una sola acqua, e fresca, che porta la tua giovane salute al mare e alla città. L’acqua delle tue grotte io amo che s’incanala benefica per le strade dritte. Amo queste donne carsoline che stringendo fra i denti, contro la bora, la cocca del fazzolettone, scendono a gruppi in città, con in testa il grande vaso nichelato pieno di latte caldo. E la striscia bianca dell’alba, e il bruciar doloroso dell’aurora fra la caligine della città. Qui è ordine e lavoro. In Puntofranco alle sei di mattina l’infreddito pilota di turno, gli occhi opachi dalla veglia, saluta il custode delle chiavi che apre il magazzino attrezzi. I grandi bovi bruni e neri trainano lentamente vagoni vuoti vicino ai piroscafi arrivati iersera; e . il lichene: organismo vegetale originato dall’associazione simbiotica di un’alga con un fungo; abbonda nelle regioni desolate e disseccate come il Carso. Studioso e collezionista appassionato di licheni fu il poeta ligure Camillo Sbarbaro (cfr. ..). . ingrigia: diventa grigio. . gli occhi … d’agosto: con rapida sintesi analogica (con gli occhi al posto della contigua «vista», per metonimia), Slataper rende in una battuta il fenomeno della vista che vacilla sotto una forte luce solare e con un’alta temperatura. . ogni suo fiore … l’arsura: altra sintetica metonimia: il fiore per poter crescere ha dovuto «bere» quel poco d’acqua che resisteva all’arsura data dal grande calore. . Egli è senza polpa: il Carso, cioè, è tutto secco, ridotto alla nuda e scavata essenzialità. . si disvegeta: la foglia non «vegeta», ma si disvegeta, ossia cresce a forza, come uscendo a fatica da un guscio. . incassi: sostantivo deverbale, che indica le concavità della roccia causate dall’«incassarsi», cioè dal depositarsi nelle pieghe e nelle falle della roccia stessa delle acque piovane. . nuovo ed eterno: il Carso è sempre nuovo agli occhi dello scrittore inurbato che vi torna periodicamente, ma è eterno nel paesaggio mentale della sua memoria. . dolina: altro fenomeno carsico; è un avvallamento del terreno causato dai depositi d’acqua piovana; nelle doline si possono ottenere coltivazioni altrove, nel Carso, impossibili. . infantilmente: ancora antropomorfizzato, il Carso è messo in analogia con la freschezza e l’ingenuità di un bambino.

. canneggianti: ancora la fantasia sbrigliata di Slataper inventa questo verbo che dà il senso delle pannocchie che nel crescere si circondano di canne. . lontanar: risuonare in lontananza, parola aulica che si inserisce un po’ a sorpresa nel dettato sin qui fresco e originalissimo di Slataper. . la tua giovane salute: è il Carso, con le linfe vitali dell’acqua delle sue sorgenti che dà salute e vita alla città affaccendata a valle (Trieste, ovviamente). . L’acqua … io amo: caratteristica inversione sintattica, tipica dello stile di diversi vociani. . cocca: il nodo del fazzolettone, indispensabile alle donne di quella regione per la violenza del vento (la bora). . nichelato: rivestito di metallo, in particolare di nichel. . E la striscia bianca: i due termini di quest’ultima frase, interamente nominale, dipendono dall’io amo di inizio capoverso. L’alba è, sinteticamente, una striscia bianca all’orizzonte; l’aurora brucia dolorosamente per meglio rendere la vivezza cromatica della rappresentazione, e perché si apre un varco attraverso la nebbia (caligine) che grava di primo mattino su Trieste. . Qui: a Trieste. . ordine e lavoro: sono i termini rappresentativi la vita urbana, dominata dalla ragione e dall’efficienza pratica. . Puntofranco: è la zona del porto di Trieste dove si intrecciano i commerci e le lingue degli equipaggi in transito. . bovi bruni e neri: la dimensione industriale del porto è in singolare contatto, in questo momento di passaggio (siamo ai primi del Novecento, e Trie-

T. AVANGUARDIA ED ESPRESSIONISMO. I MORALISTI VOCIANI. SCIPIO SLATAPER

quando i vagoni sono al loro posto, alle sei e dieci i facchini si sparpagliano per gli hangars. Hanno in tasca la pipa e un pezzo di pane. Il capo d’una ganga monta su un terrazzo di carico, intorno a lui s’accalcano piú di duecento uomini con i libretti di lavoro levati in alto, e gridano d’essere ingaggiati. Il capo ganga strappa, scegliendo rapidamente, quanti libretti gli occorrono, poi va via seguito dagli ingaggiati. Gli altri stanno zitti, e si risparpagliano. Pochi minuti prima delle sei e mezzo il meccanico con la blusa turchina sale sulla scaletta della gru, e apre la pressione dell’acqua; e infine, ultimi, arrivano i carri, i lunghi scaloni sobbalzanti e fracassanti. Il sole strabocca aranciato sul rettifilo grigio dei magazzini. Il sole è chiaro nel mare e nella città. Sulle rive Trieste si sveglia piena di moto e colori. E levan l’ancora i grossi piroscafi nostri verso Salonicco e Bombay. E domani le locomotive rintroneranno il ponte di ferro sulla Moldava e si cacceranno con l’Elba dentro la Germania. E anche noi obbediremo alla nostra legge. Viaggeremo incerti e nostalgici, spinti da desiderosi ricordi che non troveremo nostri in nessun posto. Di dove venimmo? Lontana è la patria e il nido disfatto. Ma commossi d’amore torneremo alla patria nostra Trieste, e di qui cominceremo. Noi vogliamo bene a Trieste per l’anima in tormento che ci ha data. Essa ci strappa dai nostri piccoli dolori, e ci fa suoi, e ci fa fratelli di tutte le patrie combattute. Essa ci ha tirato su per la lotta e il dovere. E se da queste piante d’Africa e Asia che le sue merci seminano fra i magazzini, se dalla sua Borsa dove il telegrafo di Turchia e Portorico batte calmo la nuova base di ricchezza, se dal suo sforzo di vita, dalla sua anima crucciata e rotta s’afferma nel mondo una nuova volontà, Trieste è benedetta d’averci fatto vivere senza pace né gloria. Noi ti vogliamo bene e ti benediciamo, perché siamo contenti di magari morire nel tuo fuoco. Noi andremo nel mondo soffrendo con te. Perché noi amiamo la vita nuova che ci aspetta. Essa è forte e dolorosa. Dobbiamo patire e tacere. Dobbiamo essere nella solitudine in città straniera, quando s’invidia il carrettiere bestemmiante nella lingua compresa da tutti attorno, e andando sconsolati di sera fra visi sconosciuti che non si sognano della noste, come altre zone di recente industrializzazione, è ancora contigua al retroterra rurale), con un elemento della campagna: i bovi che collaborano al lavoro portuale. . ganga: in gergo, è la squadra di uomini addetti a una determinata operazione portuale, che viene giorno per giorno reclutata da un capo ganga. . strabocca aranciato: a mattino ormai pieno, il sole non ha piú freni nello splendere (strabocca), ma ha ancora con i colori dell’alba (aranciato). . E levan … alla nostra legge: notare la triplice anafora liricheggiante (E levan… E domani… E anche noi); nella prima proposizione sono indicati i luoghi a cui sono diretti i piroscafi in partenza da Trieste (Salonicco, che allora faceva ancora parte dell’impero ottomano, e il piú lontano oriente); poi si allude alle merci caricate sui treni diretti verso il Nord, che raggiungeranno la Boemia (facendo rintronare il ponte sulla Moldava, il fiume che bagna Praga) e la Germania (l’Elba è il fiume che, nato in Boemia, attraversa la Germania, bagnando Dresda e sfociando ad Amburgo); infine la legge a cui l’autore obbedirà è quella degli sradicati, spinti sempre a partire, a dirigersi altrove. . Lontana … disfatto: la frase era già stata pro-

nunciata identica in precedenza dall’io narrante quando aveva ricordato di come, ragazzo, si era liberato del suo primo, adolescenziale legame sentimentale. Lí aveva un valore liberatorio (il nido era quello dell’immaturità infantile e della dipendenza filiale); qui, dopo che nel frattempo l’io narrante ha vissuto l’esperienza disperante del suicidio dell’amata Gioietta (con la quale progettava di sposarsi), la frase assume un tono ben diverso, sia pure in un contesto di rinnovamento spirituale. . di qui cominceremo: è la piccola patria della città il punto di partenza per una palingenesi possibile. . per la lotta e il dovere: la città è stata palestra e scuola di vita dolorosa e ardua, ma essenziale. . la sua Borsa: nulla del panorama economico della città è escluso dallo sguardo dell’io narrante; anche la grande finanza, rappresentata dalla Borsa dove attraverso il telegrafo giungono i dati dai Paesi piú lontani, è «lavoro», produzione di ricchezza e di benessere. . siamo contenti … fuoco: a parlare qui è lo Slataper «irredentista», futuro volontario e vittima della prima guerra mondiale. . quando s’invidia … attorno: l’immagine dell’e-

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stra esistenza, s’alza lo sguardo oltre le case impenetrabili, tremando di pianto e di gloria. Noi dobbiamo spasimare sotto la nostra piccola possibilità umana, incapaci di chetare il singhiozzo d’una sorella e di rimettere in via il compagno che s’è buttato in disparte e chiede: «Perché?». Ah, fratelli come sarebbe bello poter esser sicuri e superbi, e godere della propria intelligenza, saccheggiare i grandi campi rigogliosi con la giovane forza, e sapere e comandare e possedere! Ma noi, tesi di orgoglio, con il cuore che ci scotta di vergogna, vi tendiamo la mano, e vi preghiamo d’esser giusti con noi come noi cerchiamo di esser giusti con voi. Perché noi vi amiamo, fratelli, e speriamo che ci amerete. Noi vogliamo amare e lavorare. straneità, dell’essere lontano dalla patria, è data dalla bestemmia incomprensibile, per lo straniero, di un qualsiasi carrettiere. . chetare: calmare, far tacere. . fratelli: sono i compagni d’avventura, letteraria e umana, di Slataper.

. e sapere e comandare e possedere: caratteristica sintesi dell’ideologia attivistica e tendenzialmente antidemocratica che aleggia anche in circoli democratici come quello degli irredentisti triestini del gruppo di Slataper.

Giovanni Boine Delirii (da Frantumi)

Il «frammentismo» vociano

Tensione espressionistica

La lezione di Baudelaire…

… e di Rimbaud

I Frantumi costituiscono forse l’esemplare piú perfetto e rappresentativo di quello che è stato chiamato il «frammentismo» degli scrittori vociani, ossia la tendenza a condensare i propri nuclei espressivi e lirici nello spazio breve del capitolo ad altissima concentrazione stilistica: la prosa (e quello di Boine è al riguardo un caso limite) si tende sino a fenomeni ritmici, quasi alla forma del prosimetro. Ma mentre alcuni scrittori (come Ardengo Soffici e Carlo Linati) tendono verso una scrittura «impressionistica», con rapide notazioni di paesaggio e di colore, con una sensualità abbastanza superficiale, strutturata secondo periodi di una certa consistenza e respiro «musicale», i vociani cosiddetti «moralisti», quali Rèbora e appunto Boine, cercano la tensione espressionistica, lo scavo introspettivo, prediligendo la frase fortemente ritmata e franta nella sintassi e nella stessa struttura grafica. In Boine si dà poi l’adesione da una parte al canone di immagini e di colori della poesia simbolista francese (a partire dal Baudelaire dello Spleen de Paris: cfr. CANONE EUROPEO, tav. 177), dall’altra alle conquiste tecniche e strutturali-compositive della poesia di Dino Campana, «scoperta» da Boine nel 1915 (un anno dopo la pubblicazione semiclandestina dei Canti Orfici). I brani qui presentati valgono, a questo riguardo, soprattutto a illuminare la radice simbolista del frammentismo di Boine; Baudelaire, del resto, era stato di questo gusto anche uno schietto precursore teorico, nella lettera dedicatoria dello Spleen de Paris: «Quel est celui de nous qui n’a pas, dans ses jours d’ambition, rêvé le miracle d’une prose poétique, musicale sans rhytme et sans rime, assez souple et assez heurtée pour s’adapter aux mouvements lyriques de l’âme, aux ondulations de la rêverie, aux sobresauts de la conscience?» (“Chi di noi non ha, nei suoi giorni ambiziosi, sognato il miracolo di una prosa poetica, musicale senza ritmo e senza rima, abbastanza leggera e abbastanza mossa per potersi adattare ai movimenti lirici dell’anima, alle ondulazioni della fantasticheria, ai soprassalti della coscienza?”). Altra fondamentale radice dello sperimentalismo di Boine è poi il Rimbaud delle Illuminations e di Une saison en enfer (cfr. CANONE EUROPEO, tav. 179), specie in riferimento alla «tecnica della visionarietà come rifiuto del tempo e dello spazio storici» (Valli).

T. AVANGUARDIA ED ESPRESSIONISMO. I MORALISTI VOCIANI. GIOVANNI BOINE

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Tra i tipici comportamenti stilistici di Boine si noterà qui la fusione degli aggettivi, pienamente in linea con la ricerca artistica d’avanguardia del periodo, tutta tesa all’inseguimento di tecniche «simultaneiste», in grado cioè di esprimere contemporaneamente diverse sensazioni e/o immagini. Con il primo dei brani qui riportati siamo nel pieno della sezione piú scopertamente sperimentale dei Frantumi, i Delirii. In obbedienza a un topos della poesia post-simbolista, Boine paragona il paesaggio circostante e se stesso a immagini ripugnanti di corruzione e putrefazione, chiaro specchio della condizione estraniata e angosciata del soggetto. Come altrove nei Delirii, a essere descritta in toni apocalittici e iperbolici è la condizione di dissociazione del soggetto, che fa l’esperienza della perdita di coscienza individuale, della calata in un universo orrendo, ridotto al puro meccanismo biologico del decadimento dei corpi.

La caduta dell’io

[EDIZIONE: Giovanni Boine, Il peccato. Plausi e botte. Frantumi. Altri scritti, a cura di D. Puccini, Garzanti, Milano 1983]

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– Oh dunque, oh dunque questa chioma che freme? Oh dunque questo brusio pullulante e questo brulichio grigio come l’incerta vita? Ma eh, oh! ma ih, ah! son zampilli di vermini, son divoratori grovigli di vermini, son vermini, vermini, sono putredini e vermini! – Alberi? arbusti? ciuffi e cespugli? Son tentacolari meduse di vermini in sguisciamenti tetanici; son fiotti liquefatti di purulenza carnosa queste roggie che colano; sono cianotiche anatomie di flaccidi muscoli questi mucchi e queste capanne; sono ossame, son scheletri, son curve gabbie di toraciche casse questi serpeggiamenti aridi di redole e muri, su per le ripe. – Ma perché gemebondo brancico per l’oleoso silenzio, perché disorbito spasmodicamente i gobbi degli occhi per la irreale luce?

. Oh dunque: dal punto di vista stilistico, c’è da notare come l’esordio del brano, con la doppia anafora di Oh dunque e son… vermini, già sia contrassegnato da un procedimento di «allargamento progressivo» dell’espressione: il periodo ritmico si costruisce cioè in addizione graduale di elementi; a ogni ripetizione del membro principale, un po’ come nella forma musicale del «rondò», si aggiunge del materiale nuovo. Si ha cosí una forte costruzione anaforica, che però si salva dalla monotonia e acquista anzi caratteri di estrema varietà stilistica (Oh dunque = A; oh dunque + questa chioma che freme = A+B; Oh dunque + questo brusio pullulante + e questo brulichio grigio come l’incerta vita = A+C+D). . vermini: vermi. . Alberi ? … cespugli?: dopo l’interrogativa (tutta nominale), il periodo successivo (che è un po’ la «risposta») si costruisce anch’esso, come il precedente, in anafora progressivamente allargata (Son… son… sono… sono… son… son…). . sguisciamenti: una tendenza tipica dello stile di Boine è quella alla costruzione di sostantivi «deverbali», ossia ricavati, artificialmente, da verbi, per lo piú intransitivi (Contini). In questo caso,

abbiamo un deverbale oltretutto proveniente da un verbo, come sguisciare, evidentemente onomatopeico (allude al rumore del serpente, o del verme, che striscia). . tetanici: malsani, infetti. . roggie: fossati d’acqua paludosa, stagnante. . cianotiche: livide, grigie, dal pallore malsano. . ossame: mucchio d’ossa sconnesse e frantumate. . redole: toscanismo: sentieri erbosi che attraversano un podere. . ripe: sponde, argini del fossato. . Ma perché: con passaggio analogico rapido e straniante, il soggetto passa ad analizzare il suo stesso sentimento di orrore e ripulsa per il paesaggio descritto in precedenza. . gemebondo: lamentoso. . brancico: vado a tentoni, annaspo. . l’oleoso silenzio: audace sinestesia, che collega una sensazione uditiva (il silenzio) a una tattile (l’oleosità, l’untuosità), sgradevole e angosciosa. . disorbito: strabuzzo gli occhi al punto di farli quasi fuoriuscire dalle orbite. . i gobbi degli occhi: i rigonfiamenti, le protuberanze degli occhi e quindi gli occhi rigonfi.

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– Non sono io stesso un gonfio cadavere, con ripugnevoli macchie pel viscidume del corpo? Oh oh oh, non sono io stesso dissoluto carname, con brandelli di penduli muscoli ai tendini nudi, e di putredine rivoli giú pel bianchiccio dell’ossa? – In questa apocalittica morgue, inerte sprofondo come in inghiottente pantano: son lavato, son corso, son permeato e imbevuto di liquefazioni tombali; come in reti, s’impigliano gli stecchi dell’ossa in grovigli di visceri; s’inforcano rigidi, metacarpi, e falangi in moribondi convulsi di macerati cuori; abbandonata, infine, la guancia s’affloscia sulle viscide-spalancate occhiaie di non so che proteso, io alto, viso …………………………… ……………………………………………………………………………………………… . Non sono io stesso: il soggetto si vede come dall’esterno, scarnificato e putrefatto, come un cadavere in avanzato stato di decomposizione. . ripugnevoli: ripugnanti. . dissoluto: termine ambiguo, carico di incertezza, tra il senso comune (licenzioso, lussurioso) e quello etimologico (dal latino dissolvere): la carne (il carname) del soggetto è dissoluta in quanto sciolta, frantumata, destrutturata rispetto allo schema dello scheletro sottostante. La parola ha un indubbio spessore analogico, perché richiama probabilmente quello che è la radice psicologica dell’intero brano, e della condizione di angoscia dello scrittore, ossessionato da sensi di colpa di carattere sessuale. . penduli: penzolanti, senza il sostegno del tono muscolare. . di putredine rivoli: l’inversione tra i membri logici della frase (= rivoli di putredine) è un’altra caratteristica costante dello stile di Boine. . In questa … morgue: è l’immagine conclusiva del processo di autodistruzione immaginato dal soggetto delirante. Disperso nell’orrore biologico del paesaggio, il corpo del soggetto è ormai completamente destrutturato (dissoluto), sino a confondersi con altre ossa, altre viscere, altro materiale di dubbia provenienza; morgue: francese (ma passato anche in inglese): obitorio.

. inghiottente pantano: il terreno, imbevuto di liquami biologici, è ormai ridotto a pantano, che inghiotte il soggetto (del resto inerte), lo trae a sé per confonderlo nel proprio magma indifferenziato. . son corso: il corpo del soggetto è intriso dai liquami, che addirittura penetrano al suo interno, lo percorrono. . liquefazioni tombali: sono i liquidi, gli umori espulsi dal corpo durante la putrefazione. . come in reti … di visceri: Boine immagina le proprie ossa che si immergono nel liquame biologico andando a infilzarsi, frante e scheggiate, nella materia molle delle viscere di chissà quale altro cadavere in putrefazione; sino a cadere nelle reti costituite dai grovigli di visceri piú resistenti alla putrefazione e dagli scheletri sommersi sotto la superficie. . convulsi: stavolta, il sostantivo è ricavato da un aggettivo, con fulminea torsione lessicale: la carne, anche se morta e putrefatta, continua a essere percorsa da orribili brividi, come se fosse in preda alle convulsioni. . viscide-spalancate: la fusione degli aggettivi (anche, come in questo caso, di campi semantici totalmente avulsi fra loro) è un’altra caratteristica distintiva, forse la piú importante, come si è detto, dello stile di Boine.

Piero Jahier Uomo-vestito (da Poesie in versi e in prosa) L’uomo-vestito di questa poesia, pubblicata su «La Voce» del 13 marzo 1914, offre un’immagine dell’uomo medio inconsciamente irreggimentato dalla massificazione coatta del lavoro borghese (dove, come sottolinea il trattino, la persona umana finisce per identificarsi e confondersi con il vestito che la ricopre, secondo un metodo di rappresentazione grottesca della vita borghese molto diffuso nell’arte e nella letteratura dell’espressionismo, specialmente tedesco). Il poeta,

T. AVANGUARDIA ED ESPRESSIONISMO. I MORALISTI VOCIANI. PIERO JAHIER

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che in questa dimensione si deve invece collocare a viva forza, guarda con orrore quasi affascinato la testa impeccabile, quasi geometricamente disegnata dalla maestria del parrucchiere, di questo implacabilmente perfetto uomo-vestito; persino le sue scarpe non si lordano mai al contatto con la bassa realtà materiale della strada all’esterno dell’ufficio. Il poeta cerca di immedesimarsi nell’inimmaginabile intimità domestica dell’uomo-vestito, il cui aspetto deve essere certamente frutto di un lavoro improbo e assurdo, sproporzionato; e una fatica assurda è anche quella dello stesso uomo-vestito, che in ogni minimo movimento deve porre mente al proprio impeccabile aspetto e fare il doppio della fatica per serbarlo intatto sino al termine della lunga giornata di lavoro. Il risultato degli sforzi quotidiani dell’uomo-vestito, peraltro del tutto ininfluente, è sproporzionato all’entità del suo impegno assurdo: sembra che tutti i suoi sforzi siano destinati a far sí che chi lo vede possa dire sarcasticamente, come fa il poeta, che egli è rimasto sempre impeccabilmente perfetto. Qui si riporta il testo apparso su «La Voce»; nella raccolta delle Poesie in versi e in prosa esso subí lievi modificazioni: dal titolo sparí il trattino, i versi furono allineati graficamente su di un asse centrale e si ebbero i piccoli spostamenti indicati qui in nota. [EDIZIONE: Piero Jahier, Poesie in versi e in prosa, a cura di P. Briganti, Einaudi, Torino 1981] verso libero.

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Non ti ho mai visto spettinato mai scarpe lordate mai giacca spiegazzata mai ginocchielli alle brache mai cravatta snodata; e penso: quanto lavoro nella tua casa per partorirti alla strada, corretto, ogni mattina! quanta piú fatica nella tua giornata, nella tua alzata e seduta, nella tua passeggiata, per serbarti cosí tale e quale per ch’io non possa dire di averti mai visto spettinato mai scarpe lordate mai giacca spiegazzata mai ginocchielli alle brache mai cravatta snodata.

v. . il contegno dell’uomo-vestito è tale che non si formano alle ginocchia dei suoi pantaloni, come invece a quasi tutti, pieghe e rigonfiamenti antiestetici (con voce colloquiale, i ginocchielli). v. . ogni volta che ti alzi e ti siedi. vv. -. l’edizione del  inverte la posizione

della negazione non, mantenendo immutato il senso: «perch’io di te possa dire / di non averti mai visto spettinato». vv. -. nell’edizione del  la posizione di questi due versi fu invertita.

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Carlo Michelstaedter Impossessarsi del presente (da La persuasione e la rettorica)

«Disprezzo» della vita normale

L’illusoria ricerca degli altri

L’illusorietà del piacere e il valore del dolore

Michelstaedter e Leopardi

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Il brano qui riportato è estratto dal capitolo Via alla persuasione, terzo della prima delle due parti in cui è divisa la tesi di Michelstaedter (Della persuasione e Della rettorica), e tocca il nodo centrale del suo pensiero, con il netto rifiuto di uno stare al mondo in maniera irriflessiva, solo per continuare, per non morire e con la pressante affermazione della necessità di impossessarsi del presente, riallacciandosi alla tradizione del pensiero «negativo» occidentale (almeno fin da Schopenhauer), ma utilizzando anche – con una non trascurabile forzatura (vedi la nota 2) – l’Apologia di Socrate di Platone. La critica a una forma di vita che si risolve nella paura della morte e in un rinvio continuo di ogni esperienza verso il futuro si svolge qui con un’argomentazione tesa ed ellittica, che si concentra in frasi assolute e spesso sentenziose, che si svolge con un tono di superiore «disprezzo» verso la vita «normale», verso la disponibilità degli uomini all’illusione. Michelstaedter sembra come voler parlare da un altro universo, cercare la voce di una sapienza arcaica e primigenia, che ritrova la verità dell’essere prima di ogni sua contaminazione con la volgarità della vita e con il flusso del tempo: la persuasione autentica che egli cerca aspira a essere quella di una vita non nata, data in se stessa nel suo folgorante rivelarsi, estranea alle occasioni, ai rapporti, agli equivoci inevitabili del mondo concreto. Ma questa ricerca di una concentrazione assoluta sull’istante si confronta qui con le difficoltà che comunque la insidiano, costituite dai dati della vita sociale: chi è capace di immergersi nel presente non deve allora rifiutare soltanto i bisogni esterni, le necessità della vita, ma anche i rapporti con ciò che è altro e in particolare con gli altri: la ricerca degli altri (della comunità) è qualcosa di illusorio, proietta un bisogno interno del soggetto verso un’aspirazione a permanere, verso un futuro che non si potrà mai avere (cfr. la nota 9). E altrettanto equivoca e illusoria è la soluzione di darsi ai piaceri, di afferrare edonisticamente l’ora che fugge, di impossessarsi di cose desiderate. Insomma ogni tensione verso l’esterno conduce a toccare soltanto delle ombre (e si noti il ripetersi della metafora dell’ombra, alle note 9 e 12). All’illusorietà del piacere si oppone allora il valore radicale del dolore, la necessità di assumersene il peso, strappandosi dalle stesse cose care, come sradicando se stessi da sé e rompendo ogni legame con il futuro, con un mondo costruito e da conservare. La conquista del presente è cosí creazione di se stesso: la persuasione sembra potersi realizzare solo nel vuoto, nel dolore della lacerazione di ogni dato empirico e fenomenico. Si tratta in realtà di un ragionamento senza via d’uscita, che si svolge nella contraddizione e crea inevitabili ulteriori contraddizioni, dato che, per la natura stessa dell’esperienza e del linguaggio, quel presente assoluto si sposta sempre piú in là: di fronte a questa radicale volontà di affermare una possibilità negata dalla stessa condizione naturale e sociale degli esseri umani, è chiaro come la soluzione del suicidio si sarà presentata perfettamente conseguente. Michelstaedter porta in realtà all’estremo quell’aspirazione a collocarsi nel fondo oscuro delle cose, di fermare il presente nella sua assolutezza, che costituisce una delle motivazioni piú essenziali (e piú pericolose) del pensiero «negativo» moderno. Nelle nozioni dell’illusorietà del piacere e dell’essenzialità del dolore si possono facilmente riconoscere, come in altri punti di questo pensiero, essenziali suggestioni leopardiane: e anche in Leopardi peraltro il dolore si pone come strumento di conoscenza. Ma per altri versi, nella sua ossessione di assolutezza, che tende a riassorbire in sé tutti i dati materiali e biologici della vita, Michelstaedter si muove su lunghezze d’onda molto lontane da quelle leopardiane. [EDIZIONE: Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, a cura di S. Campailla, Adelphi, Milano 1995]

T. AVANGUARDIA ED ESPRESSIONISMO. CARLO MICHELSTAEDTER

Il senso delle cose, il sapore del mondo è solo pel continuare, esser nati non è che voler continuare: gli uomini vivono per vivere: per non morire. La loro persuasione è la paura della morte, esser nati non è che temere la morte. Cosí che se si fa loro certa la morte in un certo futuro – si manifestano già morti nel presente. Tutto ciò che danno e che dicono con ferma persuasione, per un certo fine, con evidente ragione – non è che paura della morte – sof•n g°r ei|nai doke™n m£ ìnta – oõd¢n èllo óst§ â qÄnaton dediÅnai –. Ogni presente della loro vita ha in sé la morte. La loro vita non è che paura della morte. Essi vivono per salvar ciò che è dato loro col nascimento,come se essi stessi fossero nati con persuasione, e stesse in loro arbitrio la morte. Quello che è dato loro non è che la paura della morte, e questa vogliono salvare come vita sufficiente da ciò che nello stesso punto è dato loro: la sicurezza di morire. In questa stretta, e per la cura di un futuro che non può che ripetere (finché lo ripeta) il presente, essi contaminano questo, che ogni volta è in loro mano. E dove è la vita se non nel presente? se questo non ha valore niente ha valore. Chi teme la morte è già morto. Chi vuol aver un attimo solo sua la sua vita, esser un attimo solo persuaso di ciò che fa – deve impossessarsi del presente; vedere ogni presente come l’ultimo, come se fosse certa dopo la morte: e nell’oscurità crearsi da sé la vita. A chi ha la sua vita nel presente, la morte nulla toglie; poiché niente in lui chiede piú di continuare; niente è in lui per la paura della morte – niente è cosí perché cosí è dato a lui dalla nascita come necessario alla vita. E la morte non toglie che ciò che è nato. Non toglie che quello che ha già preso dal dí che non è nato, che perché nato vive della paura della morte; che vive per vivere, vive perché vive – perché è nato. – Ma chi vuol aver la sua vita non deve credersi nato, e vivo, soltanto perché è nato – né sufficiente la sua vita, da esser cosí continuata e difesa dalla morte. I bisogni, le necessità della vita, non sono per lui necessità, poiché non è necessario che sia continuata la vita che, bisognosa di tutto, si rivela non esser vita. Egli non può prender la persona di questi bisogni come sufficiente, se appunto essi non curano che il futuro: egli . già morti nel presente: coloro che vivono dominati dalla forma illusoria di persuasione sono già morti in vita, perché non sospettano nemmeno la possibilità di una vita effettiva, profonda e completamente accettata, quella dell’autentica persuasione. . sof•n … dediÅnai: “credere di essere saggio senza esserlo altro non è che temere la morte”. Michelstaedter ha qui operato uno spostamento tra i termini di un passo dell’Apologia di Socrate di Platone, a (dialogo tra i piú celebri dove, nel presentare Socrate in carcere che attende sereno la cicuta e rifiuta l’opportunità di fuga offertagli da amici e discepoli, discute anche il problema della paura della morte), che nella forma originale (come egli stesso precisa in una nota) suonava cosí: qÄnaton g°r dediÅnai oõd¢n èllo óst§ â sof•n ei|nai doke™n m£ ìnta, “temere la morte altro non è che

credere di essere saggio senza esserlo”. La commistione che Michelstaedter opera tra la serenità socratica, che informerà di sé lo stoicismo classico, e le correnti filosofiche «negative» costituisce comunque una evidente forzatura, che conduce molto al di là del reale spessore storico della filosofia di Socrate. . nascimento: nascita. . sufficiente: dipendente, logicamente subordinata.

. In questa … in loro mano: in queste difficili condizioni, in vista di un futuro mitico che in realtà non può che ripetersi uguale al presente, costoro (coloro che vivono per non morire) contaminano, cioè non vivono davvero, si rovinano, quel poco che possono effettivamente stringere in mano: il loro presente, la loro vita effettiva. . Chi vuol aver … la sua vita: chi voglia raggiungere l’autentica persuasione deve impossessarsi del presente, fare in modo cioè che quel presente che altrimenti vivrebbe distrattamente e superficialmente sia davvero suo, lo viva appieno e integralmente. . la vita … non esser vita : una vita ridotta alle sue esigenze meramente biologiche, alla sua dimensione per cosí dire vegetale, quale è quella di chi vive per non morire, o (che è lo stesso) perché è nato, non è vera «vita», ma – come si preciserà tra poco – contingenza, cioè casualità, serie di circostanze fortuite e senza senso. . la persona di questi bisogni: chi si impossessa del presente è contrapposto alla persona che vive in funzione dei bisogni; il necessario è contrapposto al contingente; il necessario, il veramente vivente, è peraltro – di conseguenza – solo nel deserto, cioè senza punti di riferimento esterni, senza dio e patria e famiglia: di qui la deriva totalmente negativa

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non può affermar sé stesso nell’affermazione di quelli, che sono dati in lui, come è data la correlatività, da una contingenza che è fuori e prima di lui: egli non può muoversi a differenza delle cose che sono perché egli ne abbia bisogno: non c’è pane per lui, non c’è acqua, non c’è letto, non c’è famiglia, non c’è patria, non c’è dio – egli è solo nel deserto; e deve crear tutto da sé: dio e patria e famiglia e l’acqua e il pane. Poiché quelli che il bisogno gli addita, quelli sono il suo stesso bisogno: quelli restano sempre lontani, quanto il suo bisogno di continuare li projetterà sempre avanti nel futuro: quelli non li potrà mai avere, ma quando vada a loro essi s’allontaneranno: poiché egli rincorrerebbe la propria ombra. No, egli deve permanere, non andar dietro a quelli fingendoseli fermi perché essi lo attraggano sempre nel futuro; egli deve permanere seppur vuole ch’essi gli siano nel presente, che siano suoi veramente. Egli deve resister senza posa alla corrente della sua propria illusione; s’egli cede in un punto e si concede a ciò che a lui si concede, nuovamente si dissolve la sua vita, ed ei vive la propria morte – in ciò che prendendo la sufficienza del suo bisogno, che la paura della morte ha determinato, egli ha affermato la sua propria insufficienza, ha chiesto ad altri appoggio alla sua vita, ha preso la persona della fame per aver fame ancora nel prossimo istante, mentre questo istante doveva esser l’ultimo per lui. Questo rimorso, questa morte di sé ch’egli sente, invano ei cerca allora ingannare in quel piacere – sotto resta l’ombra del dolore cieco e muto, che amaro e vuoto gli rende quel piacere – invano egli tenta per quella via d’impossessarsi della cosa che l’ha attratto: è finita e non in lui la correlatività, il resto scende sotto nell’ombra. Chi vuole fortemente la sua vita, non s’accontenta, temendo di soffrire, a quel vano piacere che gli faccia schermo al dolore, perché questo continui sotto cieco, muto, inafferrabile; ma anzi la persona di questo dolore prende e sopportando lÖph” ñntÉrropon ècqo” (Soph., Elettra) s’afferma là dove gli altri sono annientati dal mistero; poiché egli ha il coraggio di strappar da sé la trama delle dolci e care cose che conforta a esser ancora giuocati nel futuro, e chiede il possesso attuale; quello che per gli altri è mistero poiché trascende la loro potenza, per lui non è mistero, che l’ha voluto ed in ciò s’è affermato. Cosí egli deve crear sé stesso per avere il valore individuale, che non si muove a differenza delle cose che vanno e vengono, ma è in sé persuaso. del pensiero di Michelstaedter, la sua solitudine irriducibile, la sua impasse senza via di uscita. . quelli che il bisogno … la propria ombra: il bisogno di rapporti con tutto ciò che è altro da sé (e in primo luogo le altre persone) non è determinato dall’autentico valore di ciò che è «altro», ma è qualcosa che sorge dall’interno stesso del soggetto, costituisce il suo stesso bisogno, e come tale non approda mai a una reale comunicazione con gli altri, che restano sempre lontani e irraggiungibili. Rincorrere gli altri equivale insomma, per Michelstaedter, a rincorrere la propria ombra. . deve permanere: i falsi idoli di chi vive nel bisogno devono essere sdegnati da chi si sia impossessato del presente. Michelstaedter, dunque, vede nella resistenza individuale l’unico valore al quale aggrapparsi. Presto però si interrogherà anche sul senso di quella resistenza, e di quella permanenza, e sarà la sua fine. . ha preso … nel prossimo istante: l’appoggiarsi agli altri viene visto ancora come un assumere la persona della fame, cioè come una brama, una fame verso il futuro, un desiderio che si proietta ine-

vitabilmente verso il prolungamento di se stesso. . ei cerca allora ingannare … sotto nell’ombra: in questa visione viene annullata ogni precaria consolazione: anche la ricerca di oggetti di piacere è inganno. L’oggetto del piacere che cerca l’edonista, dice Michelstaedter, non è che una manifestazione transitoria (finita) della cosa che lo attrae: il vero oggetto di piacere resta fuori dell’edonista, non gli si concede realmente, e irrimediabilmente scende sotto nell’ombra. . vano piacere … inafferrabile: il dolore invece è permanente, un basso continuo dell’esistenza umana, e nessun piacere momentaneo può combatterlo seriamente. . lÖph” ñntÉrropon ècqo”: “il correlativo peso del dolore” (Sofocle, Elettra, ). Proprio a questo dolore paradossalmente ci si può aggrappare, suggerisce Michelstaedter: l’autentica persuasione spinge ad assumere la persona del dolore (contrapposta alla persona della fame di cui ha detto sopra), perché almeno il dolore impone all’individuo il possesso attuale delle proprie emozioni, e caccia ogni vana illusione (la trama delle dolci e care cose).

T. AVANGUARDIA ED ESPRESSIONISMO. RENATO SERRA

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Renato Serra Il letterato e la guerra (da Esame di coscienza di un letterato) L’Esame di coscienza di un letterato reca luogo e data della sua prima stesura, Cesena 20-25 marzo 1915, e prima di apparire su «La Voce» del 30 aprile 1915 fu rivisto e corretto nel trambusto del richiamo alle armi come tenente di fanteria. La guerra di cui parla l’Esame non è quindi ancora una guerra combattuta, ma una guerra attesa e ormai sicura, vista attraverso le notizie e le immagini che giungevano soprattutto dal fronte franco-tedesco (dove la guerra aveva avuto inizio già nel 1914, mentre l’ingresso in essa dell’Italia avverrà il 24 maggio del 1915): acceso interventista, Serra aveva ricevuto una forte impressione dall’impegno attivo nella guerra di molti intellettuali francesi, tra cui lo scrittore cattolico Charles Péguy, la cui morte al fronte, avvenuta il 5 settembre 1914, viene ricordata nella prima parte dell’Esame. Di questo si riportano qui tre squarci, nel primo dei quali sembra che Serra, di fronte alla guerra che sta ormai per iniziare, guardi ormai con una certa pietosa condiscendenza i pacifisti con cui aveva duramente polemizzato nel corso della campagna interventista, anche se non con i toni aggressivi e sanguinari di tanta parte dell’avanguardia letteraria italiana, dai vociani ai futuristi: l’evento incombente e tanto atteso non sembra motivato piú da nessuno dei grandi ideali per cui era stato invocato; sembra qualcosa di ineluttabile e di insensato, fa balenare solo il suo aspetto di assurdo massacro, di «gorgo che si consuma in se stesso», che procura ai singoli sofferenze irrazionali, prive di riscatto, ingiustificabili. Ma molto presto si affaccia l’annuncio della fuga irrazionalistica che caratterizzerà le ultime pagine dell’Esame, con la nozione della guerra come dovere, per quanto insensato, come «ufficio superiore», prova virile, «farmaco» di un’intera generazione (Isnenghi): motivo presente in molti dei testimoni intellettuali della Grande Guerra. Nel secondo squarcio la fatalità della guerra, l’incertezza e forse l’inutilità dei suoi risultati, viene piú esplicitamente confrontata con il punto di vista della letteratura: questa è un valore che forse dà un senso allo stesso combattere, e lo è tanto piú in quanto Serra è cosciente dei suoi limiti; egli la vive senza quella fiducia superba propria di tanti intellettuali della sua generazione che corrono alla conquista dell’assoluto. Ma è anche vero che questo accenno al ruolo della letteratura resta come reticente e ambiguo: si oscilla tra il trovare in essa una delle motivazioni morali della guerra e il mostrare al contrario una pura estraneità della letteratura, un suo essere in uno spazio separato, fuori del secolo. Ma nelle pagine conclusive dell’Esame l’incertezza sul senso della guerra e le stesse ambiguità sul ruolo della letteratura vengono come saltate, con l’adesione piena al destino collettivo della guerra, con una sorta di rinuncia a ogni orizzonte critico, per un totale abbandono all’andare insieme che la guerra stessa impone e che mette tutti gli uomini sullo stesso piano, al di là di ogni divisione e di ogni contraddizione. Serra è preso nel meccanismo inesorabile della coazione all’ordine e al dovere militare; e perde di vista anche quegli elementi tragici e orrendi che pure il suo occhio vigile aveva potuto, solo poche pagine prima, identificare e sottolineare. Giungiamo quasi all’estasi dell’obbedienza, al totale appiattimento delle capacità individuali nell’agglutinamento dell’«istinto gregario» («è cosí naturale fare quello che bisogna»): a una esaltazione davvero nichilistica della guerra come presente assoluto, passione del procedere verso la morte. Rimane però alla fine un dubbio, un barlume di coscienza, con la domanda se tutto ciò non sia altro che letteratura («Dirai che anche questa è letteratura?»): Serra avverte in fondo quanta parte di estetismo, di miti decadenti si nasconda dietro questo apparente bagno di elementarità, quanta parte di inganno vi sia anche in questo paradiso dell’incoscienza. Ed è lo stesso Serra che tra poco, tra il concretissimo fischio delle pallottole, scriverà le pagine lucide e amare di un Diario di trincea e alcune lettere dal campo di battaglia, segnate non solo dall’orrore della guerra moderna, ma anche dall’impossibilità, per chi vi partecipa, di sapere ciò che vi accade e ciò che egli stesso fa.

Acceso interventista

L’insensatezza della guerra

La guerra come dovere

Guerra e letteratura

Adesione piena al destino collettivo della guerra

Un finale barlume di coscienza

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[Renato Serra, Esame di coscienza di un letterato, a cura di M. Biondi e R. Greggi, con un saggio di E. Raimondi, Il ponte vecchio, Cesena 2001]

Ripugna a qualcuno di dover concludere che in fondo in fondo tutta questa brava gente che abbiamo d’intorno e che pare abbia in pugno le sorti del nostro paese, parlamento, stampa, professori, Giolitti eccellente uomo, e diplomatici, preti, socialisti ancora migliori – non avranno fatto molto male, come non erano capaci di far molto bene; e l’ira verso di loro è tanto esagerata quanto inutile il disprezzo. Il destino dell’Italia non era nelle loro mani. Non avremo niente da vendicare. Quel fremito di vergogna e di rabbia, che volevamo portare chiuso nel cuore, fino al momento dello sfogo, finisce quasi in un sorriso. E anche questa è una cosa malinconica. Una cosa sciupata. Ma ce n’è tante! E tutte insieme sono niente se penso a quello che va sciupato, a ogni minuto, intanto che io parlo, intanto che io penso, intanto che scrivo, sangue e dolore e travaglio di uomini presi in questo gorgo vasto della guerra. Gorgo che si consuma in se stesso. Che cosa diventano i resultati, le rivendicazioni di territori o di confini, le indennità e i patti e la liquidazione ultima, sia pur piena e compiuta, di fronte a ciò? Crediamo pure, per un momento, che gli oppressi saranno vendicati e gli oppressori saranno abbassati; l’esito finale sarà tutta la giustizia e tutto il maggior bene possibile su questa terra. Ma non c’è bene che paghi la lagrima pianta invano, il lamento del ferito che è rimasto solo, il dolore del tormentato di cui nessuno ha avuta notizia, il sangue e lo strazio umano che non ha servito a niente. Il bene degli altri, di quelli che restano, non compensa il male, abbandonato senza rimedio nell’eternità. E poi, di qual bene si tratta? Anche gli esuli che aspettano la fine come il compimento della profezia e l’avvento del cielo sulla terra, sanno che il sogno è vano. Forse il beneficio della guerra, come di tutte le cose, è in se stessa: un sacrificio che si fa, un dovere che si adempie. Si impara a soffrire, a resistere, a contentarsi di poco, a vivere piú degnamente, con piú seria fraternità, con piú religiosa semplicità, individui e nazioni: finché non disimparino… Ma del resto è una perdita cieca, un dolore, uno sperpero, una distruzione enorme e inutile. […] Facciano i Tedeschi e i loro amici tutto quello che vogliono e che possono. Noi abbiamo una cosa sola da offrire per compenso a tutte le ingiustizie dell’universo: ma questa ci ba. Ripugna a qualcuno: qui Serra a suo modo taglia alla radice il problema dell’interventismo: ottenuto l’ingresso in guerra si ridimensionano ormai le polemiche – ferocissime – dell’immediata vigilia, nelle quali l’esitazione del governo veniva letta dagli intellettuali nazionalisti come ennesima manifestazione dell’irresolutezza italica, e in particolare come inaccettabile pavidità del governo liberale. . eccellente uomo: definizione ambigua e parzialmente ironica di Giovanni Giolitti (cfr. ..), che in qualità di leader indiscusso dei neutralisti italiani, era stato scelto (benché nel periodo Presidente del Consiglio fosse Antonio Salandra) come capro espiatorio dai nazionalisti, e in generale dagli interventisti, che mordevano il freno nel periodo di neutralità, per la sua proverbiale cautela, e lo accusavano di spirito rinunciatario. . diplomatici … ancora migliori: gran parte della diplomazia, come per altri motivi i cattolici e i socialisti, si erano opposti all’intervento in guerra.

Quanto ai socialisti, si ricordi che Serra aveva attraversato in gioventú una fase di adesione al socialismo, ma era in seguito passato su posizioni nazionaliste; come sopra eccellente, qui migliori ha una connotazione pacatamente ironica. . Gorgo: l’immagine del «gorgo», del vortice della guerra che trascina con sé uomini, cose, sistemi di pensiero, è quasi espressionistica e colpisce nella prosa nitida e pacata di Serra. . l’esito … la giustizia: è l’ottimismo volontaristico e fideistico di tutti gli interventisti democratici; frutto di un vero e proprio accecamento, che Serra in parte condivide. . Il bene degli altri … il male: è una frase nettissima, che suona condanna di ogni filosofia utilitaristica, di ogni machiavellismo deteriore. . Facciano i Tedeschi: si fa strada a questo punto un doloroso fatalismo, che mette in subordine non solo il destino dell’individuo, ma quello dell’intero conflitto, di fronte a un’inquietudine profonda,

T. AVANGUARDIA ED ESPRESSIONISMO. RENATO SERRA

sta, e il nostro cristiano, che ha perduto tutto il Dio e tutta la speranza, non ha perduto la tristezza e il gusto dell’eternità. Del resto, viviamo, poiché non se ne può fare a meno, e la vita è cosí. E facciamo magari della letteratura. Perché no? Questa letteratura, che io ho sempre amato con tutta la trascuranza e l’ironia che è propria del mio amore, che mi son vergognato di prender sul serio fino al punto di aspettarne o cavarne qualche bene, è forse, fra tante altre, una delle cose piú degne. Non c’è mica bisogno per tutti del genio aspro e assoluto di quello che rideva a vedere i Prussiani sedere e trionfare nello squallore del suo vecchio paese; li osservava con un cinismo libero di ogni umanità, candido e ingenuo, e ne augurava degli altri. Aggiungerò che io non saprei neanche avere nel nostro lavoro la fiducia superba di alcuni miei vicini; vivo troppo fuori del secolo, per credere a una conquista dell’assoluto, che debba essere la parte esclusiva di questa generazione. A parte ciò, devo pur riconoscere che la nostra letteratura è una cosa non affatto futile né inutile. Non ce ne sono molte altre che valgano meglio, e che sian degne di piú rispetto, in Italia. È una realtà. C’è intorno a me una semplificazione, un istinto di riduzione all’essenziale, una moltiplicazione di esigenze, che sono un tormento e una forza viva innegabile. […] Fratelli? Sí, certo. Non importa se ce n’è di riluttanti; infidi, tardi, cocciuti, divisi; cosí devono essere i fratelli in questo mondo che non è perfetto. E accanto a quello che brontola o si ritrae diffidente, ci son tutti quelli che si aprono a un sorriso istintivo nell’incontrarmi – sorriso semplice e lieto che ha vent’anni un’altra volta sui volti cambiati, colle pieghe fisse e la barba aspra dell’uomo già logoro –; quelli che mi stendon la mano dura con una timidezza affettuosa; quelli che posano sopra di me i loro occhi un po’ turbati con un senso di improvvisa fiducia, come avendo ritrovata, nel momento dubbioso, la loro guida di ieri… Guida da poco: ma io andavo avanti, e loro dietro. Cosí si farebbe ancora. L’uomo non ha bisogno di molto per sentirsi sicuro. Purché si vada! Dietro di me son tutti fratelli, quelli che vengono, anche se non li vedo o non li conosco bene. Mi contento di quello che abbiamo di comune, piú forte di tutte le divisioni. Mi contento della strada che dovremo fare insieme, e che ci porterà tutti egualmente: e sarà un passo, un respiro, una cadenza, un destino solo, per tutti. Dopo i primi chilometri di marcia, le differenze saranno cadute come il sudore a goccia a goccia dai volti bassi giú sul terreno,

a un’insufficienza di sé. . E facciamo … letteratura: la letteratura, questo talismano, questa bussola che torna buona in tutte le tempeste, resta l’unica trave alla quale sembra in grado di aggrapparsi il naufrago Serra: valore che non si può che amare, d’altra parte, che con trascuranza e ironia. . trascuranza: noncuranza. . genio aspro e assoluto: allusione a un personaggio dal carattere cinico e candido che si disinteressa delle sorti della guerra e ride vedendo l’esercito prussiano (i Tedeschi, appunto) che occupa il suo paese: questo personaggio diviene un ambiguo specchio del soldato Serra, che di quest’avventura sembra aver perso di vista i fini sbandierati dalla propaganda e, ormai è chiaro, la interpreta a livello esistenziale. . vivo troppo … di questa generazione: l’umanista

Serra si sente, anche in questa radicale esperienza – come dirà tra poco – di riduzione all’essenziale, fuori del secolo (dove secolo sta, nel lessico religioso, per «vita terrena, mortale, quotidiana»), in un isolamento estetico, che lo allontana dal sogno vitalistico della sua generazione (cioè della generazione de «La Voce»), dalla sua aspirazione alla conquista dell’assoluto. . C’è intorno … all’essenziale: si tratta di quell’«istinto gregario» che condurrà l’intellettuale Serra a godere della propria massificazione, e che è proprio di ogni condizione costrittiva e di massa quale è, per antonomasia, quella militare. . Fratelli? Sí, certo: l’esperienza gregaria ma elementarmente affratellante della vita di trincea è un fenomeno avvertito da diversi scrittori di guerra. . che ha vent’anni … cambiati: che ringiovanisce addirittura i tratti fisici dei soldati.

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fra lo strascicare dei piedi pesanti e il crescere del respiro grosso; e poi ci sarà solo della gente stanca che si abbatte, e riprende lena, e prosegue; senza mormorare senza entusiasmarsi; è cosí naturale fare quello che bisogna. Non c’è tempo per ricordare il passato o per pensare molto, quando si è stretti gomito a gomito, e c’è tante cose da fare; anzi una sola, fra tutti. Andare insieme. Uno dopo l’altro per i sentieri fra i monti, che odorano di ginestre e di menta; si sfila come formiche per la parete, e si sporge la testa alla fine di là dal crinale, cauti, nel silenzio della mattina. O la sera per le grandi strade soffici, che la pesta dei piedi è innumerevole e sorda nel buio, e sopra c’è un filo di luna verdina lassú tra le piccole bianche vergini stelle d’aprile; e quando ci si ferma, si sente sul collo il soffio caldo della colonna che serra sotto. O le notti, di un sonno sepolto nella profondità del nero cielo agghiacciato; e poi si sente tra il sonno e il pianto fosco dell’alba, sottile come l’incrinatura di un cristallo; e su, che il giorno è già pallido. Cosí, marciare e fermarsi, riposare e sorgere, faticare e tacere, insieme; file e file di uomini, che seguono la stessa traccia, che calcano la stessa terra; cara terra, dura, solida, eterna; ferma sotto i nostri piedi, buona per i nostri corpi. E tutto il resto che non si dice, perché bisogna esserci e allora si sente; in un modo, che le frasi diventano inutili. Laggiú in città si parla forse ancora di partiti, di tendenze opposte; di gente che non va d’accordo; di gente che avrebbe paura, che si rifiuterebbe, che verrebbe a malincuore. Può esserci anche qualche cosa di vero, finché si resta per quelle strade, fra quelle case. Ma io vivo in un altro luogo. In quell’Italia che mi è sembrata sorda e vuota, quando la guardavo soltanto; ma adesso sento che può esser piena di uomini come son io, stretti dalla mia ansia e incamminati per la mia strada, capaci di appoggiarsi l’uno all’altro, di vivere e di morire insieme, anche senza saperne il perché: se venga l’ora. Può darsi che non venga mai. È tanto che l’aspettiamo e non è mai venuta! Che cosa ho io oggi di piú sicuro a cui fidarmi, all’infuori del desiderio che mi stringe sempre piú forte? Non so e non curo. Tutto il mio essere è un fremito di speranze a cui mi abbandono senza piú domandare; e so che non son solo. Tutte le inquietudini e le agitazioni e le risse e i rumori d’intorno nel loro sussurro confuso hanno la voce della mia speranza. Quando tutto sarà mancato, quando sarà il tempo dell’ironia e dell’umiliazione, allora ci umilieremo: oggi è il tempo dell’angoscia e della speranza. E questa è tutta la certezza che mi bisognava. Non mi occorrono altre assicurazioni sopra un avvenire che non mi riguarda. Il presente mi basta; non voglio né vedere né vivere al di là di questa ora di passione. Comunque debba finire, essa è la mia; e non rinunzierò neanche a un minuto dell’attesa, che mi appartiene. Dirai che anche questa è letteratura? E va bene. Non sarò io a negarlo. Perché dovrei darti un dispiacere? Io sono contento, oggi. Cesena, - marzo. . O la sera … soffici: inizia qui un piccolo quadretto idillico, che viene a sostenere l’insidiosa pacificazione intellettuale dell’individuo che ormai non si chiede piú le ragioni del suo marciare. . la pesta: il succedersi delle orme. . Laggiú in città: ormai, per la comunità del «popolo in armi», le polemiche di appena qualche settimana prima, le polemiche furiose che sembravano questioni di vita o di morte, appaiono rumori lontani, confusi nel rumore di fondo del grande spettacolo della guerra che si avvicina ai confini d’Italia.

. È tanto che … venuta: la morte è la piú netta di tutte le «semplificazioni» delle quali va in cerca il Serra, che sul Podgora, di lí a due mesi, parrà a molti «cercare» la pallottola della condanna – e della salvezza. . Il presente mi basta: tutto si cancella, il ricordo del «passato», della tradizione letteraria, le speranze e le utopie di un «futuro» piú giusto e piú sano: tutto si riduce al «presente», all’istante biologico del vivere vegetativo, quasi. . è la mia: riferito a questa ora di passione.

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Filippo Tommaso Marinetti Manifesto del futurismo (da Fondazione e manifesto del futurismo) Su «Le Figaro» del 20 febbraio 1909 apparve il testo francese del primo manifesto futurista, ripubblicato sul numero della rivista «Poesia» del febbraio-marzo 1909 insieme alla versione italiana, poi ripresa piú volte anche in opuscoli e volantini di vario genere. Il testo del Manifesto vero e proprio, che qui si riporta, è preceduto da un breve racconto, che ne traspone simbolicamente le circostanze in cui sarebbe stato «dettato»: si parla di una veglia notturna e di una corsa di Marinetti e dei suoi amici su tre automobili; a un certo punto l’autore, disgustato dall’avvicinarsi di due ciclisti, scaraventa la macchina in un fossato, da dove essa viene ripescata senza aver subito grandi danni e potendo subito rimettersi in corsa. Nella corsa, «col volto coperto della buona melma delle officine», contuso e con le braccia fasciate, l’autore ha dettato il Manifesto («dettammo le nostre prime volontà a tutti gli uomini vivi della terra»). Questo si articola in tre parti. La prima fissa 11 punti di base, quelli che dovrebbero essere i principi del movimento futurista: vi risulta in tutta evidenza come, al di là di ogni novità di tipo tecnico e linguistico, al centro del programma marinettiano ci sia l’esaltazione dell’energia, della velocità, dell’aggressività, un richiamo a una fisicità primordiale e barbarica, che sembra trovare nuovo spazio e nuove possibilità nel mondo industriale, nella moltiplicazione della potenza e della forza che esso garantisce all’uomo. La modernità viene concepita insomma come un’occasione per uscire da una cultura che conserva e protegge la vita e che indugia nel paziente lavoro della ragione, per proiettarsi verso la violenza, verso lo scatto energetico, verso l’ignoto e l’impossibile. La lotta, lo schiaffo, la guerra sono le forme precipue della bellezza; la libertà è libertà dei forti, è aggressione e distruzione a tutto quanto è già dato, e prima di tutto aggressione alla cultura morta, rappresentata da musei, biblioteche, accademie: e questo spirito aggressivo non può non far leva su uno sfrontato antifemminismo. L’ultimo punto elenca tutta una serie di oggetti e di meraviglie industriali, di invenzione e diffusione piú o meno recente, che dovrebbero essere materia della poesia futurista: e qui (come in altri punti del Manifesto) occorrerà notare come Marinetti riesca a parlare di macchine e luoghi della moderna civiltà industriale, e dell’entusiasmo che suscitano in lui, quasi soltanto con l’uso di metafore che rinviano al mondo organico, alle forme della vecchia natura, specialmente di tipo animale (le rivoluzioni sono cosí maree, le lampade sono lune, i treni serpi e le locomotive cavalli ecc.). All’elenco degli 11 punti succede una sorta di giustificazione dell’origine italiana del futurismo. Questo programma viene dall’Italia proprio perché è colma di una cultura morta, rappresentata in primo luogo dai musei, contro cui Marinetti si scaglia violentemente, perché essi rappresentano la morte dell’arte, di quella vitalità, di quella voglia di imporsi nel mondo e di primeggiare che è tipica di ogni vero artista. Per il futurismo (come poi per tantissima cultura novecentesca) la vera arte è azione, si proietta sempre «lontano, in violenti getti di creazione e di azione»: il museo in quanto tale (come le altre istituzioni culturali), fissandola in un valore immobile, uccide questo suo carattere, e allora si può proporre la distruzione, per fuoco o per acqua, di biblioteche e musei (proposte che ora vogliono essere solo provocatorie, ma che troveranno tante reali e truci applicazioni nel Novecento). L’ultima parte del Manifesto è dedicata allo scontro tra le generazioni, all’aggressione che gli attuali futuristi, che ora non hanno piú di trent’anni, potranno subire dai loro successori: questi saranno nello stesso tempo riconoscenti verso l’opera di distruzione fatta dai futuristi, ma pure si avventeranno contro di loro per ucciderli, e a buona ragione, perché l’arte è comunque violenza, crudeltà e ingiustizia, e ingiusto e aggressivo deve essere ogni autentico comportamento artistico. In questa esaltazione di valori primigeni e barbarici (rivestiti e sostenuti dai nuovi piú potenti mezzi della modernità industriale) i futuristi si sentono «ritti sulla cima del mondo», sono convinti di collocarsi nel punto piú alto del movimento del mondo e della storia, di tenere in pugno

I principî del movimento

La vera arte è azione

L’arte è violenza, crudeltà e ingiustizia

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il senso futuro della civiltà; e con un narcisismo sfrenato (condiviso poi da tanti intellettuali del Novecento) presumono di scagliare addirittura «una sfida alle stelle». Nei termini in cui si esprime questa sfida, come in tutto il Manifesto, si può verificare quanto la scrittura programmatica di Marinetti si appoggi su di una spavalda retorica, fatta di scatti aggressivi, con periodi dominati dalla paratassi e dalla elencazione seriale (anche con ampio uso dell’anafora): si succedono sentenze secche e determinate, sottolineate da esclamazioni e da una continua volontà di chiamare in causa gli interlocutori, di prendere di petto e quasi «schiaffeggiare» il lettore.

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[EDIZIONE: Filippo Tommaso Marinetti, Teoria e invenzione futurista, a cura di L. De Maria, Mondadori, Milano 1968]

. Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità. . Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia. . La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno. . Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è piú bello della Vittoria di Samotracia. . Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita. . Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali. . Non v’è piú bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo. . Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!… Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente. . Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertarî, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna. . Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria. . Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l’orizzonte, le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbri. Vittoria di Samotracia: celebre statua ellenistica della Vittoria con le ali spiegate (sec. II a.C.), che si trova a Parigi su uno degli scaloni del Museo del Louvre. . la cui asta … orbita: l’immagine dell’asta del volante che attraversa la Terra fa sí che il guidatore dell’automobile sembri guidare con quel volante l’intera Terra nel suo movimento nei cieli; in un

delirio di onnipotenza, la velocità della corsa dell’automobile viene equiparata a quella della Terra. Nel testo che precede il vero e proprio manifesto, il volante viene definito «lama di ghigliottina», che minaccia lo stomaco dell’autore. . lune elettriche: metafora per indicare le lampade elettriche. . serpi che fumano: i treni a vapore.

T. AVANGUARDIA ED ESPRESSIONISMO. FILIPPO TOMMASO MARINETTI

gliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta. È dall’Italia, che noi lanciamo pel mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria, col quale fondiamo oggi il «Futurismo», perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologhi, di ciceroni e d’antiquarii. Già per troppo tempo l’Italia è stata un mercato di rigattieri. Noi vogliamo liberarla dagl’innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri innumerevoli. Musei: cimiteri!… Identici, veramente, per la sinistra promiscuità di tanti corpi che non si conoscono. Musei: dormitorî pubblici in cui si riposa per sempre accanto ad esseri odiati o ignoti! Musei: assurdi macelli di pittori e scultori che vanno trucidandosi ferocemente a colpi di colori e di linee, lungo le pareti contese! Che ci si vada in pellegrinaggio, una volta all’anno, come si va al Camposanto nel giorno dei morti… ve lo concedo. Che una volta all’anno sia deposto un omaggio di fiori davanti alla Gioconda, ve lo concedo… Ma non ammetto che si conducano quotidianamente a passeggio per i musei le nostre tristezze, il nostro fragile coraggio, la nostra morbosa inquietudine. Perché volersi avvelenare? Perché volere imputridire? E che mai si può vedere, in un vecchio quadro, se non la faticosa contorsione dell’artista, che si sforzò di infrangere le insuperabili barriere opposte al desiderio di esprimere interamente il suo sogno?… Ammirare un quadro antico equivale a versare la nostra sensibilità in un’urna funeraria, invece di proiettarla lontano, in violenti getti di creazione e di azione. Volete dunque sprecare tutte le vostre forze migliori, in questa eterna ed inutile ammirazione del passato, da cui uscite fatalmente esausti, diminuiti e calpesti? In verità io vi dichiaro che la frequentazione quotidiana dei musei, delle biblioteche e delle accademie (cimiteri di sforzi vani, calvarii di sogni crocifissi, registri di slanci troncati!…) è, per gli artisti, altrettanto dannosa che la tutela prolungata dei parenti per certi giovani ebbri del loro ingegno e della loro volontà ambiziosa. Per i moribondi, per gl’infermi, pei prigionieri, sia pure: – l’ammirabile passato è forse un balsamo ai loro mali, poiché per essi l’avvenire è sbarrato… Ma noi non vogliamo piú saperne, del passato, noi, giovani e forti futuristi! E vengano dunque, gli allegri incendiarii dalle dita carbonizzate! Eccoli! Eccoli!… Suvvia! date fuoco agli scaffali delle biblioteche!… Sviate il corso dei canali, per inondare i musei!… Oh, la gioia di veder galleggiare alla deriva, lacere e stinte su quelle acque, le vecchie tele gloriose!… Impugnate i picconi, le scuri, i martelli e demolite, demolite senza pietà le città venerate! I piú anziani fra noi, hanno trent’anni: ci rimane dunque almeno un decennio, per compiere l’opera nostra. Quando avremo quarant’anni, altri uomini piú giovani e piú validi di noi, ci gettino pure nel cestino, come manoscritti inutili. – Noi lo desideriamo! Verranno contro di noi, i nostri successori; verranno di lontano, da ogni parte, danzando su la cadenza alata dei loro primi canti, protendendo dita adunche di predatori, e fiutando caninamente, alle porte delle accademie, il buon odore delle nostre menti in putrefazione, già promesse alle catacombe delle biblioteche. Ma noi non saremo là… Essi ci troveranno alfine – una notte d’inverno – in aperta campagna, sotto una triste tettoia tamburellata da una pioggia monotona, e ci vedranno accocco-

. vanno trucidandosi: le opere d’arte che sono messe le une accanto alle altre nei musei appaiono come impegnate in una lotta in cui si distruggono a vicenda. . alla Gioconda: il celebre quadro di Leonardo da Vinci, anch’esso esposto nel museo del Louvre,

immagine emblematica dell’arte tradizionale (al punto che piú tardi, in una prospettiva di contestazione avanguardistica, Marcel Duchamp ne farà una celebre copia con i baffi). . calvarii … crocifissi: luoghi dove vengono uccisi i sogni (come Cristo fu crocifisso sul monte Calvario).

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lati accanto ai nostri aeroplani trepidanti e nell’atto di scaldarci le mani al fuocherello meschino che daranno i nostri libri d’oggi fiammeggiando sotto il volo delle nostre immagini. Essi tumultueranno intorno a noi, ansando per angoscia e per dispetto, e tutti, esasperati dal nostro superbo, instancabile ardire, si avventeranno per ucciderci, spinti da un odio tanto piú implacabile inquantoché i loro cuori saranno ebbri di amore e di ammirazione per noi. La forte e sana Ingiustizia scoppierà radiosa nei loro occhi. – L’arte, infatti, non può essere che violenza, crudeltà ed ingiustizia. I piú anziani fra noi hanno trent’anni: eppure, noi abbiamo già sperperati tesori, mille tesori di forza, di amore, d’audacia, d’astuzia e di rude volontà; li abbiamo gettati via impazientemente, in furia, senza contare, senza mai esitare, senza riposarci mai, a perdifiato… Guardateci! Non siamo ancora spossati! I nostri cuori non sentono alcuna stanchezza, poiché sono nutriti di fuoco, di odio e di velocità!… Ve ne stupite?… È logico, poiché voi non vi ricordate nemmeno di aver vissuto! Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo, una volta ancora, la nostra sfida alle stelle! Ci opponete delle obiezioni?… Basta! Basta! Le conosciamo… Abbiamo capito!… La nostra bella e mendace intelligenza ci afferma che noi siamo il riassunto e il prolungamento degli avi nostri. – Forse!… Sia pure!… Ma che importa? Non vogliamo intendere!… Guai a chi ci ripeterà queste parole infami!… Alzate la testa!… Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo, una volta ancora, la nostra sfida alle stelle!… . La nostra … avi nostri: si insinua il dubbio, suggerito da chi muove obiezioni ai futuristi, e che essi vedono affiorare in se stessi, entro la propria intelligenza (che vanta la propria bellezza e il proprio essere mendace, cioè la propria indifferenza

alla verità), che essi siano comunque segnati dal passato che hanno alle spalle, che non facciano altro che portare a compimento l’attività dei loro predecessori.

T. AVANGUARDIA ED ESPRESSIONISMO. ARDENGO SOFFICI

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Ardengo Soffici Crocicchio (da BÏF§ZF+. Simultaneità. Chimismi lirici) I migliori risultati raggiunti da Soffici (oltre che nella sua attività di divulgatore di Rimbaud e della nuova poesia francese) sono costituiti dalle liriche e dai poemi in prosa, spesso disposti entro vari artifici grafici, del suo periodo futurista, pubblicati tra il 1913 e il 1915 su «La Voce» e su «Lacerba» e raccolti nel volume BÏF§ZF+18. Simultaneità. Chimismi lirici, pubblicato nel 1915. Lo strano titolo, dopo la giocosa falsa formula iniziale (che, come attesta Prezzolini, dagli amici veniva pronunciata bizzeffe: come a dire, scherzosamente, «una gran quantità + 18»), indica che il volume è basato su testi poetici definibili simultaneità (categoria che Marinetti aveva indicato come essenziale per la scrittura futurista, rivolta a rompere ogni confine spaziale e temporale, a far convivere sensazioni e orizzonti molteplici ed eterogenei) e su testi in prosa definibili come chimismi (artifici e combinazioni chimiche, mescolamenti e trasformazioni di sostanze, secondo il principio della scrittura come alchimia enunciato da Rimbaud). Il testo che qui si riporta (pubblicato la prima volta sul n. 14 di «Lacerba», con il titolo Sera fiorentina) accumula sotto il segno della simultaneità una serie di immagini di vita cittadina che appaiono in un Crocicchio, un incrocio di strade, probabilmente all’affacciarsi della sera (l’ordinotte), con l’accendersi delle luci e con il muoversi dei mezzi di trasporto (automobili, carrozze, tram): nel testo sono inseriti, con il procedimento del collage, un frammento in lingua francese e la scritta di un avviso; e l’esclamazione finale esalta il piacere dell’immersione nelle meraviglie e nelle fantasmagorie della città moderna, nella «rete di profumi e di bengala» che l’autore vi scorge. Ne risulta in tutta evidenza che lo stile di Soffici, in questa fase, «sembra fare tutt’uno con una sensuale e quasi infantile idolatria del moderno, con l’ammirazione tra feticistica e procurata per il mondo della metropoli (Parigi): aeroplani e stazioni, tram, alberghi, bar affollati e luminarie» (Mengaldo). [EDIZIONE: Ardengo Soffici, BÏF§ZF+18. Simultaneità. Chimismi lirici, Vallecchi, Firenze 2003] verso libero.

METRO:

Dissolversi nella cipria dell’ordinotte. Con l’improvviso clamore dell’elettricità, del gas, dell’acetilene e delle [altre luci



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Fiorite nelle vetrine, Alle finestre e nell’aeroplano del firmamento! Le scarpe che trascinano gocciole di diamanti e d’oro lungo [i marciapiedi primaverili, Come le bocche e gli occhi di tutte queste donne pazze d’isterie solitarie; Le automobili venute di per tutto; Le carrozze reali e i tramvai in uno squittio d’uccelli mitragliati. – Nous n’avons plus d’amour que pour nous-mêmes, enfin – “È proibito parlare al manovratore”. Oh, nuotare come un pesce innamorato che beve smeraldi Fra questa rete di profumi e di bengala!

v. . elettricità … acetilene: indica tre tipi di illuminazione, elettrica, a gas e con acetilene (idrocarburo gassoso).

v. . inserto in lingua francese: «non abbiamo piú amore che per noi stessi ormai». v. . avviso all’interno di tram.

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Corrado Govoni Le dolcezze (da Gli aborti)

Poesia crepuscolare

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La raccolta Gli aborti, 1907, appartiene alla fase crepuscolare della poesia di Govoni: e tipicamente crepuscolari sono le immagini elencate in questo testo, che accumula i segni di una realtà banale e casalinga, tutta in tono minore, con quel tranquillo piacere dell’osservazione e dell’enumerazione che costituisce una delle qualità essenziali di questo poeta. In questo cosí disteso e dimesso elenco di dolcezze un po’ consunte si affaccia solo a tratti qualche segno piú negativo e «malinconico», come i crepuscoli di sangue del v. 13 e le successive «rose sfogliate sul letto dei malati»: ma il quadro si chiude comunque con le festose apparizioni dei bambini che si pettinano al sole e delle «donne che cantano alla finestra». [EDIZIONE: Corrado Govoni, Poesie 1903-1958, a cura di G. Tellini, Mondadori, Milano 2000] verso libero.

METRO:



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Le domeniche azzurre della primavera. La neve sulle case come una parrucca bianca. Le passeggiate degli amanti lungo il canale. Fare il pane la mattina di domenica. La pioggia di Marzo che batte sui tegoli grigi. Il glicine fiorito su pel muro. Le tende bianche alle finestre del convento. Le campane del sabato. I ceri accesi davanti alle reliquie. Gli specchi illuminati nelle camere. I fiori rossi sopra la tovaglia bianca. Le lampade d’oro che s’accendono la sera. I crepuscoli di sangue che muoion sulle mura. Le rose sfogliate sul letto dei malati. Suonare il pianoforte un giorno di festa. Il canto del cuculo nella campagna. I gatti sopra i davanzali. Le candide colombe sui tetti. Le malve nelle pentole. I mendicanti che mangian sulle soglie delle chiese. I malati al sole. Le bambine che si pettinano l’oro al sole sulle porte. Le donne che cantano alla finestra.

v. . Le malve: le piante di malva, fatte bollire, erano molto usate per decotti curativi.

T. AVANGUARDIA ED ESPRESSIONISMO. CORRADO GOVONI

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Povertà (da L’inaugurazione della primavera) La raccolta L’inaugurazione della primavera, pubblicata nel 1915 dalle Edizioni de «La Voce», è tra quelle in cui Govoni piú strettamente si avvicina al futurismo (come in Poesie elettriche, 1911, e in Rarefazioni e parole in libertà, 1915). Ma nel componimento qui riportato poco si sente dell’orizzonte tecnico futurista: vi si legge piuttosto una volontà di spogliarsi della vita consueta, di inaugurare una vita nuova caratterizzata dall’avventura della povertà. Il poeta si pone una serie di domande, in un tono di divagante conversazione, su quello che potrà fare quando non avrà piú niente: l’ipotesi di diversi lavori diventa cosí un’occasione per attraversare il mondo vendendo qualcosa. Anche questo motivo della povertà diviene cosí occasione per quell’enumerazione infinita degli aspetti del mondo (filtrati magari entro moduli letterari ridotti sempre a un tono dimesso, quasi elementare) in cui si risolve la poesia avvolgente di Govoni, disposta secondo un ritmo di tipo «atonale» (Beccaria). METRO:



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verso libero.

Quando non avrò piú niente allora sarò povero povero, piú della chiocciola che gira con il suo castello come l’arrotino, piú del rospo che prende il sole come un lebbroso senza fame sul marciapiede, contro il muro. Ma che cosa ha la lucciola cerinaia? E non è povero anche l’usignuolo emigrante? Penso che cosa farò, che ci son tante cose che possono far quelli che non sanno far nulla che non hanno piú nulla. Se facessi il lustrascarpe? Potrei anche tenere una cassetta di candele… Se imparassi a suonare l’organino? Se facessi il pastore? Deve essere bello mungere le pecore portare in collo i belanti agnellini piantar lo stazzo nel chiaror di luna. Andrei col gregge per le vie maestre, mi lascerei crescere la barba, porterei il lunghissimo mantello

vv. -. mentre la chiocciola va in giro con il suo guscio circolare (che è come un castello), anche gli arrotini andavano in giro con una ruota girevole, per arrotare le lame.

v. . cerinaia: in quanto fa luce, come un cerino, la lucciola viene chiamata con una parola che serviva per designare i venditori ambulanti di cerini. v. . stazzo: recinto all’aperto per il gregge.

L’avventura della povertà

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di pesante bigello, farei la calza in mezzo ai prati, andrei a vender la ricotta ed il formaggio, avrei un cane che mi vorrebbe bene. Non potrei fare lo spazzino? Andare di paese in paese con la mia mercanzia; specchi tascabili, pettini, spilli, nastri, fazzoletti, saponette, poveri oggetti di chincaglieria; contrattare con le ragazze bramose intorno al sacco aperto, tirare il soldo, fare qualche regalo ai clienti fedeli. E gettar la mia voce triste per la campagna: – Lo spazzino! spazzino!… Esser fratello dell’arrotino dello spazzacamino del magnano dello zingaro del bottaio… Dormir la notte in un fienile mangiare sopra un paracarro riposare dietro una siepe in fiore… E salutare con la mano i mendicanti, come dei vecchi amici, che vanno sotto le finestre delle case a fare i loro auguri. Potrei fare lo strillone in qualche gran città, gridare le notizie di disgrazie alle signore ch’escon dal teatro con brividi di gemme, correre anch’io dietro una lucida carrozza agitando il foglio bianco come un fazzoletto per l’addio. E se facessi i burattini per i bambini? Qualche cosa farò venderò qualche cosa anch’io. Quando non avrò piú niente allora sarò povero povero…

v. . bigello: panno grossolano di pelo grigio. v. . lo spazzino: qui nel senso di persona che raccoglie cianfrusaglie e oggetti da poco e li va a vendere per le strade. v. . magnano: fabbro.

v. . strillone: venditore di giornali in strada, che gridava i titoli delle notizie piú importanti. v. . i brividi che le notizie di disgrazie gridate dallo strillone causano nelle eleganti signore vengono come trasmessi alle gemme che esse indossano.

T. AVANGUARDIA ED ESPRESSIONISMO. ALDO PALAZZESCHI

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Aldo Palazzeschi La fontana malata (da Poemi) Il volume delle Poesie pubblicato da Palazzeschi nel 1925 raccoglie, risistema, corregge, testi già pubblicati nelle seguenti raccolte: I cavalli bianchi, 1905; Lanterna, 1907; Poemi, 1909; L’Incendiario, 1910, che ebbe una nuova edizione modificata nel 1913, L’incendiario (scritto ora con la i minuscola). La raccolta Poemi, che si presenta come pubblicata dall’editore fiorentino Cesare Blanc (in realtà nome del gatto di Palazzeschi), è introdotta dalla poesia Chi sono?, e dispone i testi in due parti, Galleria Palazzeschi (25 componimenti, tra cui il celebre Rio Bo) e Le mie ore (13 componimenti: i diversi frammenti di questa parte saranno ricollocati e ricontestualizzati per formare un poemetto, intitolato appunto Le mie ore, messo in testa all’edizione del corpus poetico del 1958). A questa seconda sezione appartiene La fontana malata, giocosa successione di versetti brevissimi, segnata dall’evidente intento di far risaltare la pretenziosità della tradizione poetica passata e recente, rivolgendosi a un topos della lirica di tutti i tempi, quello della fontana e delle acque (da Orazio a Petrarca ai piú vicini D’Annunzio e Pascoli): in particolare viene bersagliato l’abuso dell’onomatopea in casi limite come La pioggia nel pineto di D’Annunzio o molti luoghi pascoliani. I fonemi iniziali – che faranno da motivo conduttore della lunga serie di versicoli – vorrebbero quindi rendere il suono di una fontana che stenta a estrarre dalle tubature il suo getto d’acqua, e quindi tossisce: la fontana moderna è malata e con il suo stupido lamento, angoscioso nella sua ripetitività, infastidisce, al punto che il poeta è disposto a tutto per farlo tacere, persino a far magari morire la fontana. Del resto è una questione di sopravvivenza, perché, come si dice alla fine, quel male della fontana minaccia di uccidere il poeta stesso: col male / che hai, / finisci / vedrai, / che uccidi / me pure. [EDIZIONE: Aldo Palazzeschi, Tutte le poesie, a cura di A. Dei, Mondadori, Milano 2002] METRO: versicoli brevissimi che creano un ritmo di incalzante cantilena.

la fontana malata,



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Clof, clop, cloch, cloffete, cloppete, clocchete, chchch… È giú, nel cortile, la povera fontana malata; che spasimo! sentirla tossire. Tossisce, tossisce, un poco si tace… di nuovo tossisce.

Parodia del topos della fontana

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Mia povera fontana, il male che hai il cuore mi preme. Si tace, non getta piú nulla. Si tace, non s’ode romore di sorta, che forse… che forse sia morta? Orrore! Ah! no. Rieccola, ancora tossisce. Clof, clop, cloch, cloffete, cloppete, clocchete, chchch… La tisi l’uccide. Dio santo, quel suo eterno tossire mi fa morire, un poco va bene, ma tanto… Che lagno! Ma Habel! Vittoria!

vv. -. la compassione del poeta per la fontana malata è grottesca: parodizza quella di altri poeti per cavalli, fiori, persino montagne. vv. -. perfettamente equiparata a un personaggio di melodramma, la fontana muore di tisi, nella migliore tradizione patetica di primo Novecento. vv. -. con uno scatto giocoso, l’autore finisce però per dichiararsi stufo dell’agonia teatrale della povera fontana tisica: Che lagno ! vv. -. Habel è Habel Nasshab, amico di Palaz-

zeschi (o, piú probabimente «un fantoccio […] una sorta di doppio, di proiezione di sé» nel «ricordo di un balocco infantile»: Dei), a cui cosí si rivolge un testo dei Poemi: «Habel Nassab, sei bello tu, / con quegli enormi calzoncini blu»; anche a Vittoria, vecchissima cameriera, «piccola centenaria», sola a difendere «la porta / della gente morta» nella casa del poeta, è dedicato un testo dei Poemi. Qui, l’io del poeta li chiama a raccolta per far tacere la fontana malata.

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Andate, correte, chiudete la fonte, mi uccide quel suo eterno tossire! Andate, mettete qualcosa per farla finire, magari… magari morire. Madonna! Gesú! Non piú! Non piú. Mia povera fontana, col male che hai, finisci vedrai, che uccidi me pure. Clof, clop, cloch, cloffete, cloppete, clocchete, chchch…

L’incendiario (da L’Incendiario) Di questa poesia programmatica del Palazzeschi futurista riportiamo la piú ampia versione apparsa nel 1910, in testa alla raccolta omonima, con la dedica a Marinetti, che proprio di «allegri incendiarii dalle dita carbonizzate» aveva parlato (cfr. p. 559) per indicare i futuristi e il loro proposito di distruggere la vecchia cultura dei musei, delle biblioteche, delle accademie. Per Palazzeschi la figura dell’incendiario diventa immagine di alterità assoluta rispetto all’ipocrita perbenismo borghese e ai valori sociali correnti: qui colui che ha osato mettere in gioco le sicurezze del modo di vita consueto è stato fatto prigioniero e messo alla gogna, esposto in una gabbia di ferro nella piazza centrale del paese; e vi dovrà rimanere tre giorni come Cristo sulla croce. Con una scatenata capacità mimetica il poeta registra i commenti del pubblico che assiste a questo spettacolo: e nella prima parte (fino al v. 83) gli spettatori di questa rappresentazione

L’incendiario contro il perbenismo borghese

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Il poeta e l’incendiario

La liberazione della fantasia distruttrice della poesia

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(centinaia di persone) ne sono i veri protagonisti, con i loro commenti strampalati, con l’intreccio grottesco delle loro voci disarticolate e pretenziose, secondo una tattica già sperimentata da Palazzeschi nei Poemi dell’anno precedente, ma che qui appare sfoderata anche con intenti virtuosistici. Dopo i commenti per lo piú malevoli di questo spietato pubblico, al v. 84 prende finalmente la parola il poeta, ma con un linguaggio retorico ed esaltato con cui l’autore non può identificarsi fino in fondo. Il poeta descrive ed esalta la figura dell’incendiario, sottolinea la natura divina del suo essere di fuoco, ne fa una sorta di santo, di Dio della libertà, afferma la propria solidarietà con l’incendiario, ma anche la propria differenza da lui: anche il poeta è a suo modo un incendiario, ma «un povero incendiario che non può bruciare» (v. 179); la sua scrittura è abitata dal fuoco, ma si sente ben vile e meschino di fronte al vero incendiario. In casa è vestito di rosso e si compiace del proprio rapporto con la fiamma, ma quando esce si veste di grigio, perché sa che gli uomini hanno orrore delle fiamme e che c’è una polizia anche per la poesia e per i vestiti. Ma questa sua nascosta solidarietà con l’incendiario ora tende a liberarsi e a esplodere; affrancandosi dal passato e dalle vecchie / reliquie tarlite (vv. 234-235), gli apre la gabbia e lo lascia fuggire. La poesia è giunta insomma a una svolta, ambisce ad affrontare le conseguenze estreme delle proprie azioni e a dare libero sfogo alla propria fantasia distruttrice, senza argini e senza sbarre: afferma la gioia della fiamma e della distruzione, aspira a ravvivare il mondo vecchio e stanco, la sua gelida carcassa. L’autore è in piena passione futurista: ma è evidente che del futurismo condivide soprattutto lo spirito distruttivo, il rifiuto dei modelli tradizionali, la ricerca di una nuova vitalità (affidata alla forza ravvivante di quel fuoco), lo spirito giocoso e beffardo. Manca qui del tutto quell’esaltazione dell’energia e della violenza pura, quel culto della macchina e della velocità proprio di Marinetti e di altri futuristi. E molto presto Palazzeschi correggerà il tiro di questa sua adesione al futurismo e di questa sua passione per il fuoco: già nell’edizione del 1913, ancora dedicata a Marinetti, ridimensionò il rilievo di questa poesia, riducendola a una trentina di versi e quasi nascondendola nella pagina interna che segue la dedica. Ne risulteranno eliminati i richiami che potevano apparire blasfemi alla figura di Cristo (richiami di questo tipo erano presenti, peraltro, anche ne Il Codice di Perelà, il «romanzo futurista» del 1911, con un parallelismo tra la figura di Cristo e quella del protagonista, l’«uomo di fumo» Perelà). Nel suo ritmo allegro e indiavolato, nella sua travolgente teatralità, la prima redazione di questa poesia offre comunque una delle manifestazioni piú autentiche ed entusiastiche, meno viziate da equivoci ideologici e programmatici, dello spirito distruttivo delle prime avanguardie, della loro aspirazione ad «andare al di là», rompendo vincoli e legami secolari del comportamento e del linguaggio. METRO:

verso libero.

A F. T. MARINETTI

anima della nostra fiamma



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In mezzo alla piazza centrale del paese, è stata posta la gabbia di ferro con l’incendiario. Vi rimarrà tre giorni perché tutti lo possano vedere. Tutti si aggirano torno torno all’enorme gabbione, durante tutto il giorno, centinaia di persone.

T. AVANGUARDIA ED ESPRESSIONISMO. ALDO PALAZZESCHI

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– Guarda un pochino dove l’ànno messo! – Sembra un pappagallo carbonaio. – Dove lo dovevano mettere? – In prigione addirittura. – Gli sta bene di far questa bella figura! – Perché non gli avete preparato un appartamento di lusso, cosí bruciava anche quello! – Ma nemmeno tenerlo in questa gabbia! – Lo faranno morire dalla rabbia! – Morire! È uno che se la piglia! – È piú tranquillo di noi! – Io dico che ci si diverte. – Ma la sua famiglia? – Chi sa da che parte di mondo è venuto! – Questa robaccia non à mica famiglia! – Sicuro, è roba allo sbaraglio! – Se venisse dall’inferno? – Povero diavolaccio! – Avreste anche compassione? Se v’avesse bruciata la casa non direste cosí: – La vostra l’à bruciata? – Se non l’à bruciata poco c’è corso. À bruciato mezzo mondo questo birbaccione! – Almeno, vigliacchi, non gli sputate addosso, infine è una creatura! – Ma come se ne sta tranquillo! – Non à mica paura! – Io morirei dalla vergogna! – Star lí in mezzo alla berlina! – Per tre giorni! – Che gogna! – Dio mio che faccia bieca! – Che guardatura da brigante! – Se non ci fosse la gabbia io non ci starei! – Se a un tratto si vedesse scappare? – Ma come deve fare? – Sarà forte quella gabbia? – Non avesse da fuggire!

v. . un pappagallo carbonaio: pappagallo perché dotato di voce sebbene si trovi in gabbia come un pennuto, carbonaio perché indossa una mantella nera come quella dei carbonai. v. . l’incendiario non ha un’origine ben definita, essendo partorito in realtà nel grembo stesso della società della quale è l’eversore. v. . berlina: antica pena inflitta ai condannati

esponendoli in luogo pubblico. v. . gogna: era appunto il collare di ferro che si stringeva intorno al collo dei condannati alla berlina. v. . guardatura: sguardo, cipiglio. v. . Non avesse da fuggire!: riuscisse mai a scappare.

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– Dai vani dei ferri non potrà passare? Questi birbanti si sanno ripiegare in tutte le maniere! – Che bel colpo oggi la polizia! – Se non facevan presto a accaparrarlo, ci mandava tutti in fumo! – Si meriterebbe altro che berlina! – Quando l’ànno interrogato, à risposto ridendo che brucia per divertimento. – Dio mio che sfacciato! – Ma che sorta di gente! – Io lo farei volentieri a pezzetti. – Buttatelo nel fosso! – Io gli voglio sputare un’altra volta addosso! – Se bruciassero un po’ lui come la fiamma: colore, e calore! – Sarebbe la fine che si merita! – Quando sarà in prigione scapperà, è talmente pieno di scaltrezza! – Peggio d’una faina! – Non vedete che occhi che à? – Perché non lo buttano in un pozzo? – Nel cisternone del comune! – E ci sono di quelli che avrebbero pietà! – Bisogna esser roba poco pulita per aver compassione di questa sorta di persone! Largo! Largo! Largo! Ciarpame! Piccoli esseri dall’esalazione di lezzo, fetido bestiame! Ringollatevi tutti il vostro sconcio pettegolezzo, e che vi strozzi nella gola! Largo! Sono il poeta! Io vengo di lontano,

v. . i vani dei ferri: le aperture tra le sbarre. Ne Il Codice di Perelà il protagonista fuggirà proprio in questo modo, essendo fatto di fumo, dalle sbarre della prigione nella quale era stato rinchiuso dai cittadini che in precedenza l’avevano osannato e invitato a redigere appunto il loro «Codice». v. . ci mandava tutti in fumo: il risultato dell’attività dell’incendiario sarà incarnato proprio in Perelà, «uomo di fumo». v. . faina: carnivoro, agile predatore specie di uccelli. In linguaggio figurato, persona avida e scaltra, furtiva.

v. . nel grande recipiente d’acqua che serve da riserva idrica dell’intera città: luogo piú indicato per spegnere gli ardenti spiriti dell’incendiario. vv. -. l’ingiunzione di fare largo, la definizione dei propri simili come ciarpame, roba vecchia e inutile, o ancor peggio come animali (fetido bestiame) puzzolenti (dall’esalazione di lezzo) indicano nella figura del poeta, che ora ha preso la parola, un atteggiamento superomistico, in senso nietzschiano, forse con una sfumatura lievemente parodica. v. . ringollatevi: reingoiate, ricacciatevi in gola.

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il mondo ò traversato, per venire a trovare la mia creatura da cantare! Inginocchiatevi marmaglia! Uomini che avete orrore del fuoco poveri esseri di paglia! Inginocchiatevi tutti! Io sono il sacerdote, questa gabbia è l’altare, quell’uomo è il Signore! Il Signore tu sei, al quale rivolgo, con tutta la devozione del mio cuore, la piú soave orazione. A te, soave creatura, giungo ansante, affannato, ò traversato rupi di spine, ò scavalcato alte mura! Io ti libererò! Fermi tutti, v’ò detto! Tenete la testa bassa, picchiatevi forte nel petto, è il confiteor questo, della mia messa! T’ànno coperto d’insulti e di sputacchi, quello sciame insidioso di piccoli vigliacchi. Ed è naturale che da loro tu ti sia fatto allacciare: quegl’insetti immondi e poltroni, sono lividi di malefica astuzia, circola per le loro vene il sangue verde velenoso. E tu grande anima non potevi pensare al piccolo pozzo che t’avevan preparato ci dovevi cascare. Io ti son venuto a liberare! Fermi tutti! Ti guardo dentro gli occhi per sentirmi riscaldare.

v. . è l’incendiario, il Signore di cui il Poeta si professa blasfemamente il sacerdote. vv. -. il discorso del Poeta si configura dunque come una vera e propria messa blasfema e profanatrice, di cui questi versi costituiscono il Confiteor (latino, “io confesso”), la confessione, quasi all’inizio della messa. Dunque il pubblico

deve tenere la testa bassa e picchiarsi forte nel petto. vv. -. l’incendiario è fatto oggetto del pubblico ludibrio e, come Cristo, deve tollerare insulti e sputacchi. v. . allacciare: ingannare, prendere al laccio.

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Rannicchiato sotto il tuo mantello tu sei senza parole, come la fiamma: colore, e calore! E quel mantello nero te l’àn gettato addosso gli stolidi uomini vero, perché non si veda che sei tutto rosso? Oppure te lo sei gettato da te, per ricuoprire un poco l’anima tua di fuoco? Che guardi all’orizzonte? Se s’alza una favilla? Dimmi, non sei riuscito a trafugare l’ultimo zolfino? Ti si legge negli occhi! Ma ti saltan dagli occhi le faville, a cento, a cento, a mille! Tu puoi cogli occhi bruciare tutto il mondo! T’à creato il sole, che bruci al sol guardarti? Quando tu bruci tu non sei piú l’uomo, il Dio tu sei! Mi sento correr per le vene un brivido. Ti vorrei vedere quando abbruci, quando guardi le tue fiamme; tutte quelle bocche, tutte quelle labbra, tutte quelle lingue non vengono a baciarti tutte? Non sono le tue spose voluttuose? Bello, bello, bello… e Santo! Santo! Santo! Santo quando pensi di bruciare, Santo quando abbruci, Santo quando le guardi le tue fiamme sante! E voi, rimasti pietrificati dall’orrore, pregate, pregate a bassa voce,

v. . l’incendiario è dunque in realtà un’astrazione, è la fiamma che il Poeta coltiva e adora; fiamma apportatrice dunque di colore, e calore. v. . zolfino: fiammifero, zolfanello. vv. -. gioco di parole tra il sole, del quale è enfaticamente e, secondo il modello di Nietzsche, è immaginato figlio l’incendiario, e sol, avverbio nel verso successivo. v. . abbruci: antiquato frequentativo di «bru-

ciare». vv. -. si recupera qui, a un tratto e per brevissimo tempo, il repertorio decadente e liberty delle prime raccolte poetiche di Palazzeschi, I cavalli bianchi () e Lanterna (). vv. -. dopo il Confiteor, è il tempo del Sanctus, momento essenziale della Messa, successivo alla consacrazione dell’ostia. È in atto una vera e propria parodia della liturgia cattolica tradizionale.

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orazioni segrete. Anch’io sai, sono un incendiario, un povero incendario che non può bruciare, e sono come te in prigione. Sono un poeta che ti rende omaggio, da povero incendiario mancato, incendario da poesia. Ogni verso che scrivo è un incendio. Oh! Tu vedessi quando scrivo! Mi par di vederle le fiamme, e sento le vampe, bollenti carezze al mio viso. Incendio non vero è quello ch’io scrivo, non vero seppure è per dolo. Àn tutte le cose la polizia, anche la poesia. Là sopra il mio banco ove nacque, il mio libro, come per benedizione io brucio il primo esemplare, e guardo avido quella fiamma, e godo, e mi ravvivo, e sento salirmi il calore alla testa come se bruciasse il mio cervello. Come mi sento vile innanzi a te! Come mi sento meschino! Vorrei scrivere soltanto per bruciare! Nel segreto delle mie stanze passeggio vestito di rosso e mi guardo in un vecchio specchio, pieno di ebbrezza, come fossi una fiamma, una povera fiamma che aspetta… il tuo riflesso! Fuori vado vestito di grigio, ovvero di nessun colore, c’è anche per le vesti una polizia, come per le parole.

vv. -. l’incendio del poeta, dell’artista, non è quello vero, la vera eversione della società, che può avvenire semmai a un livello pratico e politico; è invece un incendio per dolo, artificioso e fittizio, poiché anche la poesia è costretta a mantenersi entro certi limiti: ha la polizia, cioè è mantenuta sotto uno stretto controllo sociale. vv. -. il carattere artificiale e fittizio della rivolta letteraria appare cosí vano e deludente all’avanguardista che il suo furore iconoclasta si scatena anche nei confronti della sua stessa opera, cosí

come del resto era stato predicato da Marinetti già nel primo Manifesto del Futurismo. vv. -. la ribellione del Poeta si riduce, cosí, alla dimensione privata di un travestimento autocompiaciuto e ambiguo, puramente riferito a se stesso («mi guardo in un vecchio specchio»). vv. -. la dimensione pubblica, invece, resta chiusa nel grigio: «c’è anche per le vesti una polizia, / come per le parole»; in privato, invece, ci si può permettere l’ardire di un vestito rosso.

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E quella per il fuoco è tremenda, accanita, gli uomini ànno orrore delle fiamme, gli uomini seri, per questo ànno inventato i pompieri.

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Tu mi guardi, senza parlare, tu non parli, e i tuoi occhi mi dicono: uomo, poco farai tu che ciarli. Ma fido in te! T’apro la gabbia và! Guardali, guardali, come fuggono! Sono forsennati dall’orrore, la paura gli à tutti impazzati. Potete andare, fuggite, fuggite, egli vi raggiungerà! E una di queste mattine, uscendo dalla mia casa, fra le consuete catapecchie, non vedrò piú le vecchie reliquie tarlite, cosí gelosamente custodite da tanto tempo! Non le vedrò piú!

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Avrò un urlo di gioia! Ci sei passato tu! E dopo mi sentirò lambire le vesti, le fiamme arderanno sotto la mia casa… griderò, esulterò, m’avrai data la vita! Io sono una fiamma che aspetta! Và, passa fratello, corri, a riscaldare la gelida carcassa di questo vecchio mondo!

vv. -. il vero ribelle, il vero eversore, l’incendiario, guarda con sarcasmo le rivoluzioni di carta del Poeta. Il quale però, con gesto risolutivo, gli apre la gabbia e lo lascia libero. vv. -. la rivoluzione dell’incendiario cambierà anche il panorama fisico, sarà una totale

eversione del reale; e il Poeta la guarderà con entusiasmo; libero finalmente da convenzioni senza piú nessun significato (le vecchie reliquie tarlite, cioè consumate dai tarli). vv. -. il fuoco raggiungerà anche il soggetto, non risparmierà niente e nessuno.

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La passeggiata (da L’Incendiario) Questo formidabile componimento apparve nella seconda edizione de L’incendiario, insieme ad altri sei testi non compresi nella prima. Con il dialogo ridotto a ellittica introduzione e lapidaria conclusione del lungo elenco di ciò che appare alla vista durante una passeggiata, questa altro non è che una seduta di bricolage, giocosa raccolta di materiali eterogenei. Il poeta si riduce a registratore impassibile del film che si proietta a ogni momento davanti ai suoi occhi per le strade della città; e l’effetto che si viene a creare in certi casi di accostamento piú o meno fortuito di oggetti tra loro misteriosamente legati può far già pensare, pienamente, a tanti esiti del dadaismo e del surrealismo (cfr. DATI, tav. 216). Si ha l’impressione di una sorta di scrittura «automatica», come quella che i surrealisti teorizzeranno: anche se il procedimento di Palazzeschi non si può dire, in verità, del tutto automatico, perché egli cerca di ottenere al contempo anche effetti di grottesco piú tradizionali, con continue rime incongrue e altri giochi fonici ben studiati. Si tratta di un campionario inesauribile di immagini, scritte, numeri che sempre piú violentemente assedia l’abitante della città. L’assoluta prevalenza, allora come oggi, è della pubblicità commerciale, ma si fanno strada a tratti, con non minore invadenza, la politica strillata dalle prime pagine dei giornali, i numeri civici delle strade, i numeri delle linee dei mezzi pubblici, indicazioni, targhe, messaggi di ogni genere. Assolutamente unica, nel panorama della poesia italiana di quegli anni, è questa capacità di assumere con tanta allucinante disinvoltura gli spezzoni dei linguaggi della modernità, le schegge di una parola ridotta ormai a merce intercambiabile, a pubblicità: e di saper ricavare da questi materiali-spazzatura una sorta di meraviglioso beffardo, un’immagine in tutta evidenza della vita del presente. METRO:

verso libero, con assemblaggio di materiali a collage.

– Andiamo? – Andiamo pure.



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All’arte del ricamo, fabbrica di passamanterie, ordinazioni, forniture. Sorelle Purtarè Alla città di Parigi. Modes, nouveauté. Benedetto Paradiso successore di Michele Salvato, gabinetto fondato nell’anno . Avviso importante alle signore! La beltà del viso, seno d’avorio pelle di velluto. Grandi tumulti a Montecitorio. Il presidente pronunciò fiere parole, tumulto a sinistra, tumulto a destra. Il gran Sultano di Turchia aspetta.

v. . passamanterie: (per il piú comune passamanerie) negozi di forniture per sarti e tappezzieri, passamani sono pizzi, merletti, nastri, tendaggi e altri

articoli del genere. v. . mode, novità (francese).

Il poeta registratore impassibile Dadaismo e surrealismo

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La pasticca del Re Sole. Si getta dalla finestra per amore. Insuperabile sapone alla violetta. Orologeria di precisione.  Lotteria del milione. Antica trattoria «La pace», con giardino, fiaschetteria, mescita di vino. Loffredo e Rondinella primaria casa di stoffe, panni, lana e flanella. Oggetti d’arte, quadri, antichità,   A. Corso Napoleone Bonaparte. Cartoleria del progresso. Si cercano abili lavoranti sarte. Anemia! Fallimento! Grande liquidazione! Ribassi del % libero ingresso. Hotel Risorgimento e d’Ungheria. Lastrucci e Garfagnoni, impianti moderni di riscaldamento: caloriferi, termosifoni. Via Fratelli Bandiera già via del Crocifisso. Saldo fine stazione, prezzo fisso. Occasione! Occasione! Diodato Postiglione scatole per tutti gli usi di cartone. Inaudita crudeltà! Cioccolato Talmone. Il piú ricercato biscotto. Duretto e Tenerini via della Carità. . . . . . Cinematografo Splendor, il ventre di Berlino, viaggio nel Giappone, l’onomastico di Stefanino. Attrazione! Attrazione!

v. . uno Stefanino tornerà, all’altro, lontanissimo capo della parabola letteraria di Palazzeschi: cosí

si intitola infatti il romanzo del .

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Cerotto Manganello, infallibile contro i reumatismi, l’ultima scoperta della scienza! L’addolorata al Fiumicello, associazione di beneficenza. Luigi Cacace deposito di lampadine. Legna, carbone e brace, segatura, grandi e piccole fascine, fascinotti, forme, pine. Professor Nicola Frescura: state all’erta giovinotti! Camicie su misura. Fratelli Buffi, lubrificanti per macchine e stantuffi. Il mondo in miniatura. Lavanderia, Fumista, Tipografia, Parrucchiere, Fioraio, Libreria, Modista. Elettricità e cancelleria. L’amor patrio antico caffè. Affittasi quartiere, rivolgersi al portiere dalle  alle . Adamo Sensi studio d’avvocato, dottoressa in medicina primo piano. Antico forno, Rosticcere e friggitore. Utensili per cucina, Ferrarecce. Mesticatore. Teatro Comunale Manon di Massenet, gran serata in onore di Michelina Proches. Politeama Manzoni

v. . pine: pigne. v. . Fumista: operaio che si occupa della regolazione e della riparazione di impianti termici; ma, metaforicamente, specie nel francese fumiste: buontempone, confusionario, millantatore (si ricordi che Perelà, il protagonista del romanzo del-

l’anno successivo, è un «uomo di fumo»). v. . Ferrarecce: insieme di arnesi di ferro, specie per usi agricoli; ferramenta. v. . Mesticatore: venditore di tinte e vernici. v. . Manon di Massenet: Manon, celebre opera del compositore francese Jules Massenet ().

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il teatro dei cani, ultima matinée. Si fanno riparazioni in caloches. Cordonnier. Deposito di legnami. Teatro Goldoni i figli di nessuno, serata popolare. Tutti dai fratelli Bocconi! Non ve la lasciate scappare!   Bar la stella polare. Assunta Chiodaroli levatrice, Parisina Sudori rammendatrice. L’arte di non far figlioli. Gabriele Pagnotta strumenti musicali. Narciso Gonfalone tessuti di seta e di cotone. Ulderigo Bizzarro fabbricante di confetti per nozze. Giacinto Pupi, tinozze e semicupi. Pasquale Bottega fu Pietro, calzature… – Torniamo indietro? – Torniamo pure.

v. . matinée: recita mattutina, o genericamente diurna (francese). v. . caloches: (propr. galoches) calzatura impermeabile, soprascarpa (francese). v. . cordonnier: calzolaio (francese). vv. -. qui, uno degli esempi di cortocircuito che si viene a creare nell’ammasso apparentemente casuale dell’oggettistica palazzeschiana; se As-

sunta Chiodaroli fa la levatrice, ossia aiuta a partorire, Parisina Sudori fa la rammendatrice: apparentemente nessun nesso, ma il terzo lemma, la poco probabile, esplicita insegna L’arte di non far figlioli, getta una luce oscena e grottesca sul precedente. v. . semicupi: piccole vasche da bagno in cui si può fare il bagno stando seduti.

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tratto in tratto tuffi al cuore oppressivi come asfissie, e stordimenti con lunghi ronzii negli orecchi quasi vi sciamassero dentro le api, e ridicole incertezze nel misurare d’istinto l’altezza d’uno scalino. Un paio di volte ebbe in piena strada un titillío di vomito che fece appena in tempo a reprimere. «Ci risiamo» pensava, ricordando le torture di quattr’anni prima. «Se non sono incinto anch’io…» Invece si sentí proprio bene il pomeriggio del quindici aprile. Recandosi allo studio di Giacone che era in via Vittor Hugo, non poté traversare piazza del Duomo, e subito dopo vide sbucare da via Dante un corteo ov’erano certuni armati di randelli come clave di titani. Lo spettacolo lo divertí; e si mise in un portone ben situato per goderselo tutto. Ci fu poi un fuggi fuggi, e nello stesso tempo udí brandelli di discorsi e di canzoni e una sparacchieria che gli parve allegra come un applauso. Osservandosi bene si accorse che il polso gli batteva veloce e le narici gli palpitavano come a un cavallo quando annusa la fresca mattina su un argine. «Odore di vecchia guerra» disse, internamente ridendo. «Ancora un po’ e nitrisco davvero come un cavallo di battaglia». Poi visitò la piazza del combattimento fra i bolscevichi e i fascisti, e le strade contigue. V’indugiavano residui di folla disorientata; ma si aveva l’impressione che il parapiglia continuasse in altra parte della città. Fiutò invano la direzione, ed errò senza meta nelle vie del centro, ogni dieci minuti tornando in piazza del Duomo. L’acqua, con cui i pompieri avevano voluto freddare i bollori delle due fazioni, s’era coricata in gore ove il cielo folletto d’aprile si mirava con civetteria. Gli ombrelli si aprivano e si richiudevano al passaggio di acquazzoni cosí veloci da sonare ilari come quelli delle opere comiche. Ci fu anche una gragnola canterina di cui l’ultimo rovescio traversò il cielo della piazza rosolandosi in un perfido raggio di sole, e ci fu perfino l’arcobaleno, lanciato come un ponte di seta dalle guglie del Duomo ai tetti del Palazzo Reale. L’aria strana, mutevole, trascinando scie d’ozono e di polvere esplosa, pungeva il sangue, e Filippo si sentí torcere da un desiderio di violenza, acuto come la sete. Questa sí che era la bella battaglia, mai vista nella lugubre vita di trincea ove i pericoli e le morti si presentavano in serie burocratiche, e il nemico, quasi sempre invisibile, era il Nemico con l’enne maiuscolo, un’astrazione capace di suscitare cieco terrore ma non la letizia dell’odio che vede il suo oggetto e l’abbranca. Qui invece le bandiere, le canzoni, la breve corsa davanti a un pubblico di spettatori partitanti, i gridi e i richiami per nome, il corpo a corpo, e prima del calar della sera la vittoria, coi vinti e i vincitori che tornano a casa pel pranzo e tre o quattro morti sul lastrico intepidito dal sole. I

– sintomi manifestatisi per la prima volta, significativamente, durante la traumatizzante esperienza di guerra), che Rubè avverte in momenti di particolare angoscia o turbamento psicologico. Rubè, insomma, è un ipocondriaco. . titillío: deverbale da titillare, cioè stuzzicare con insistenza; conato di vomito. . le torture … prima: cioè le crisi di panico sofferte all’inizio della guerra. . Se non sono incinto anch’io…: la moglie di Rubè, Eugenia, sta soffrendo di terribili dolori dovuti alla gestazione. L’accenno, certo scarsamente affettuoso, all’esperienza vissuta da sua moglie, serve a rivelare i sentimenti di indifferenza, quasi di rancore con i quali Rubè pensa a Eugenia, che non ha mai amato e ha sposato per pura convenienza. . allo studio di Giacone: l’avvocato Giacone è un amico di famiglia dei Rubè.

. clave di titani: i bastoni dei manifestanti vengono assomigliati alle clave degli antichi giganti mitologici, figli di Urano e di Gea. . sparacchieria: rumore confuso di armi da fuoco. . opere comiche … canterina: il paragone tra la violenza e lo spettacolo è reso ancora piú esplicito da queste allusioni al mondo dell’Opera: anche il cadere della grandine (gragnola) viene percepito come un canto leggero. . trascinando … esplosa: l’atmosfera è elettrica (l’ozono è una forma particolare di ossigeno che si produce nell’atmosfera in seguito a scariche elettriche, e ha un odore caratteristico); la polvere è naturalmente quella da sparo. . partitanti: schierati da una parte o dall’altra, muro contro muro. . e tre … dal sole: lo scorrere del sangue non è solo tollerato, ma anzi auspicato da questa concezio-

T. AVANGUARDIA ED ESPRESSIONISMO. GIUSEPPE ANTONIO BORGESE

capi delle due parti avverse si conoscevano certo di nome e di saluto come gli eroi d’Omero e di Ariosto. Lo stesso nuovo grido alalà gli piaceva, cosí simile all’allalí della caccia. Anch’egli avrebbe voluto sparare; stringere, sentir vibrare una bella Browning, piatta come una mano e nerazzurra come la piuma del corvo. A un tratto uno stuolo, in parte grigioverde, traversò di corsa la piazza e s’incanalò in via Carlo Alberto emettendo grida incomprensibili: «È finito. Avanti. Non esce piú». Anch’egli prese la rincorsa per raggiungerli e sapere che cosa fosse accaduto. Riconobbe, ma questi non urlava, Massimo Ranieri, con un fermo viso d’arcangelo sotto l’elmetto, e con gli occhi larghi, lucenti della certezza del compiuto dovere, come quando gli aveva narrato senza vanagloria che gli era riuscito, a forza d’intrighi, di farsi mandare, cosí malconcio com’era a quei tempi, sul Piave. «Che è?» gli soffiò aggrappandoglisi alla manica «che avete fatto?» «Abbiamo affumicato il covo del serpente. Incendiato l’Avanti! Non esce piú». «Peccato!» «Peccato?» «Sí. Avrei voluto esserci anch’io». «Davvero?» «Sí, fa piacere di tanto in tanto menare le mani. Sfogarsi con qualcuno». ne della politica; tanto meglio se in una bella giornata riscaldata (intepidita) dal sole primaverile. . i capi … di Ariosto: la radice estetica, tutta letteraria, dell’ideologia – o meglio, della mancanza di ideologia – di Rubè è qui resa esplicita. A Rubè non interessano affatto le idee delle due parti in campo, ma le personalità, le figure fisiche dei leaders, spontaneamente paragonati agli eroi dell’epos classico: ma, oltre a presentare questo punto di vista di Rubè, Borgese offre qui anche un’immagine critica della lotta di strada e degli scontri di piazza, del suo carattere primitivo, che sembra far tornare la politica all’antica guerra per bande. . alalà: è un grido di guerra, onomatopeico, già usato da Pascoli (eia eia alalà fu il grido di battaglia degli squadristi fascisti, usato per la prima volta da D’Annunzio a Fiume, con unito l’eia di origine classica). . una bella Browning: una rivoltella (la marca americana Browning era usata da molti eserciti, tra

cui quello italiano, come arma d’ordinanza degli ufficiali). . nerazzurra: di un metallo azzurro scurissimo. . in parte grigioverde: la divisa militare italiana era grigioverde, e la parola era usata per indicare familiarmente i militari (Corrado Alvaro pubblicò nel  un volumetto di Poesie in grigioverde). Gran parte degli squadristi fascisti o prefascisti dell’immediato dopoguerra era infatti composta da reduci di guerra (in particolare dei corpi scelti degli Arditi) delusi al ritorno a casa dall’assetto sociale a loro sfavorevole. . È finito … Non esce piú: gli squadristi hanno appena preso d’assalto la sede milanese dell’«Avanti!», il quotidiano socialista, e l’hanno messa a ferro e fuoco . Massimo Ranieri: un commilitone di Rubè, che dopo essere stato ferito nella battaglia del Trentino, a differenza di lui, era ritornato a combattere.

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Federigo Tozzi CON GLI OCCHI CHIUSI DATI

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Concluso probabilmente alla fine del , con il titolo Ghísola, questo romanzo ebbe varie traversie editoriali, prima di giungere alla pubblicazione presso l’editore Treves (a cui il romanzo era stato raccomandato da Pirandello e da Borgese) nel marzo , con il nuovo titolo Con gli occhi chiusi (e Tozzi stesso spiega le ragioni del cambiamento in una lettera alla moglie Emma Palagi: «Il nome di una donna su la copertina mi sembra un poco da romanzo per “signorine”»). Nella sua costruzione a frammenti, con brani separati solo da spaziatura, senza distinzione di capitoli, e con rapidi passaggi da un tempo all’altro, da una situazione all’altra, il romanzo mostra «uno sbilanciamento narrativo, un andamento sghembo e asimmetrico, che ha un suo fascino acerbo e giovanile» (Luperini). Le prime scene, dedicate all’infanzia e all’adolescenza del protagonista Pietro e di Ghísola, si svolgono nel podere del padre di Pietro, Domenico, Poggio a’ Meli (in cui è adombrato Castagneto, fuori Porta Camollia, podere paterno in cui Tozzi passava le vacanze estive in compagnia della madre): come il padre di Tozzi (che in realtà si chiamava anch’egli Federigo), Domenico gestisce una trattoria e ha un temperamento esuberante, violento e aggressivo. Ben presto si mostra scontento degli atteggiamenti del figlio, della sua scarsa vitalità, del suo desiderio di darsi agli studi (nei quali peraltro ottiene scarsi risultati). Il rapporto tra Pietro e Ghísola, che è nipote di due vecchi contadini al servizio di Domenico, è fatto d’altra parte di reciproca aggressività, di dispetti e cattiverie che, anche quando mostrano timidi risvolti erotici, escludono ogni autentica comunicazione tra i due. Il padre Domenico ha anche modo di umiliare Pietro di fronte ai contadini e alla stessa Ghísola: e a un certo punto, per allontanarla dal figlio, caccia Ghísola dal podere e la rispedisce a Radda presso la famiglia. Dopo la morte della madre Anna, che debolmente tentava di difendere il figlio dall’ostilità del padre, Pietro vive in solitudine, continuamente rimproverato da Domenico per la sua debolezza, per la sua incapacità di essere «padrone». Piú tardi, ormai a vent’anni, dopo aver continuato stentatamente negli studi, Pietro frequenta l’Istituto Tecnico di Firenze e vive in un presente senza prospettive, fantasticando sul ricordo di Ghísola. La ragazza, intanto, ha lasciato Radda, ed è diventata amante di un commerciante separato dalla moglie, il signor Alberto, che l’ha collocata in una casa presso Firenze: qui Pietro va a trovarla e finisce per confessarle il suo amore. Ma Ghísola è incinta e, d’accordo con l’amante che ora è in difficoltà economiche e non può piú mantenerla, progetta di sposare Pietro, facendogli credere di essere incinta di lui. Nonostante l’opposizione del padre, Pietro intende sposare Ghísola ma, in ragione dei suoi ideali morali, non vuole rapporti con lei prima del matrimonio, e si sottrae ai suoi approcci, credendo cosí di rispettare la sua purezza. Di fronte all’atteggiamento di Pietro, che le impedisce di attuare il suo progetto, Ghísola si allontana di nuovo. Ma poi, abbandonata dall’amante, finisce in una casa di prostituzione a Firenze: qui incontra di nuovo Pietro, che l’ama ancora e non capisce nulla della vita della ragazza, fino a quando riceve una lettera anonima in cui si dice che Ghísola lo tradisce e lo si invita a recarsi in una casa di Firenze, dove può averne la prova. Senza capire di quale luogo si tratti, Pietro si trova cosí in una casa dove sono accolte le prostitute che stanno per partorire: di fronte all’uomo disposto ancora a ignorare la realtà e a perdonare, Ghísola sta seduta perché non si veda la sua gravidanza. Solo quando ella si leva in piedi, Pietro riesce a vedere e a capire. Queste le battute conclusive del romanzo: «Allora egli, voltandosi a lei con uno sguardo pieno di pietà e di affetto, vide il suo ventre. // Quando si riebbe dalla vertigine violenta che l’aveva abbattuto ai piedi di Ghísola, egli non l’amava piú».

Pensiero di Ghísola. Morte della madre (da Con gli occhi chiusi) Il padre di Pietro, Domenico, che non vede di buon occhio il rapporto del figlio con Ghísola, l’ha cacciata dal podere di Poggio a’ Meli. Pietro ripete atti e gesti legati alla presenza di Ghísola, quando viene a sapere della partenza della ragazza: ostilità, rabbia, nostalgia si intrecciano inestricabilmente dentro di lui, in una giornata di pioggia che sembra modificare radicalmente il

T. AVANGUARDIA ED ESPRESSIONISMO. FEDERIGO TOZZI

paesaggio. Nelle immagini che si susseguono, prima quelle dei fiori di campo e delle more, poi, con la pioggia, quelle dei muri e delle strade, la natura e gli ambienti esterni vengono presentati in una chiave fortemente espressionistica, con un senso di dismisura e appunto di obliquità. La tecnica descrittiva di Tozzi scompone la topografia, trasformandola in un assemblaggio di linee e pezzi disgregati («come se [le strade] non sapessero dove andare […] come se ogni strada tentasse di andare per conto proprio»), da un marcato punto di vista soggettivo. In queste scissioni e accelerazioni della visione (assai frequenti nell’opera di Tozzi) confluiscono varie suggestioni figurative, da quelle dei pittori del Trecento toscano e in particolare senese (come le Allegorie e effetti del buono e del cattivo governo di Ambrogio Lorenzetti, nel palazzo pubblico di Siena) a quelle della stessa pittura italiana ed europea di quel secondo decennio del Novecento in cui Tozzi scriveva (in particolare futurismo e cubismo). La violenza disgregata del paesaggio si risolve entro l’aggressiva immagine che sorge nella mente del personaggio, in una vera e propria fantasia di violenza su Ghísola, che dentro di sé Piero vede costretta a camminare per cattiveria sotto la pioggia (e questa fantasia, che sembra come calmarlo, lo conduce lentamente al sonno). Il racconto prosegue con il riferimento agli scarsi progressi di Piero negli studi e con il proposito della madre Anna di consultare il parroco, di nascosto dal marito, per chiedere consiglio. Ma proprio al momento di questa rapida e furtiva uscita, Anna muore in modo fulmineo: la sua morte (che una crudele similitudine paragona a quella degli animali uccisi con una calcagnata sul capo) è perfettamente conseguente alla sua natura, al suo carattere remissivo e rinunciatario, alla sua tendenza a mettersi sempre da parte, a subire tutta la violenza del mondo. E Tozzi indugia magistralmente a descrivere le reazioni dei diversi personaggi di fronte a quella morte, confrontando l’atteggiamento di Domenico, che con il suo carattere violento sembra come cercare un dolore propagato all’esterno, che si vuole piú forte di quello che è realmente, e quello di Piero, che invece resta senza nessun affetto e si costringe a «imitare i gesti di dolore che aveva veduti». Poi Piero, al momento del funerale, viene assalito da un ambiguo sgomento, dal desiderio di cancellare ogni presenza: e mentre segue il trasporto in carrozza chiusa è comunque costretto a subire l’estraneità degli sguardi di coloro che al passaggio si alzano in piedi e allungano il collo per veder meglio. È una narrazione frantumata da lampi continui di crudeltà, da un senso assoluto di sofferenza e di disperazione: sostenuta dalla secca brevità dei periodi, dalle nude immagini di una realtà quotidiana e consueta, dalle brevi battute di discorso diretto che si risolvono in ingiunzioni, esortazioni, segni di contatto senza nessuna possibile comunicazione. Tozzi sa davvero costruire la lingua narrativa della solitudine, seguire eventi, presenze, gesti, atti, parole nella risonanza dolorosa che lasciano nella coscienza. [EDIZIONE: Federigo Tozzi, Opere, a cura di M. Marchi, introduzione di G. Luti, Mondadori, Milano 1987].

Pietro prediligeva i fiori di campo, i fiori sbiaditi dagli odori incerti e quasi rassomiglianti. Non aveva mai pensato a quelli di giardino senza arrossire e sentirsi molto confuso. Per abitudine, se ne empiva le tasche: margherite bianche e rosse, pisciacani gialli, vecci sbiancate e rosee, rosolacci, ginestre, violette, rose di macchia, biancospini, fiori di pisello selvatico. Poi li biasciava. Ghísola gli aveva insegnato a far l’inchiostro con le more e come si succhiano, per il loro sapore di miele sciapo, certi fiori rossicci simili a gigli selvatici; che si trovano tra gli steli del grano, piú bassi delle spighe; e, quand’eran mature da mangiarsi, le bacche rosse delle

. quasi rassomiglianti: gli uni con gli altri. . pisciacani: nome generico di fiori di campo (propriamente tarassaco); la piú nota è il dente di leone. . vecci: pianta erbacea delle leguminacee; ma soli-

tamente è appellata al femminile (veccia, pl. vecce). . rosolacci: papaveri selvatici, di campo . li biasciava: li inumidiva rigirandoli nella bocca senza masticarli. . sciapo: poco saporito.

 Espressionismo

Narrazione sofferente e disperata

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siepi. Glielo aveva insegnato, perché smettesse di tirarle le zolle; quando s’era accorto ch’ella girava da una passata all’altra non certo per lavorare. Un giorno, mentre egli faceva colazione, seppe che Ghísola era tornata a Radda: Rebecca lo diceva ad Adamo. Alzò la testa per ascoltare meglio, e continuò a mangiare; ma stette quasi rincantucciato, fino alla sera, in fondo alla tavola, con la testa tra i pugni. La pioggia cominciò ad ammollare i vetri della finestra chiusa, quasi avesse voluto allagare tutta la stanza. Era una di quelle pioggie a vento che battono sopra un muro come per buttarlo giú; e, all’improvviso, cadono dritte, trasparenti e chiare; poi si vedono voltate alla parte opposta; e poi scompaiono; finché, di quando in quando, giunge al viso soltanto qualche gocciolina come la punta di un ago diaccio. E tutte le strade cambiano i loro colori; respirano; s’empiono di sole, che poi doventa ombra e ridoventa luce. Mentre dalla Montagnola, come da un riparo, le nuvole vengono dritte verso Siena, vanno sopra il Monte Amiata. Strade che si dirigono in tutti i sensi, si rasentano tra sé, s’allontanano, si ritrovano due o tre volte, si fermano; come se non sapessero dove andare; con le piazze piccole e sbilenche, ripide, affondate, senza spazio, perché tutti i palazzi antichi stanno addosso a loro. Cerchi e linee contorte di case, quasi mescolandosi come se ogni strada tentasse di andare per conto proprio; pezzi di campagne che appaiono dalla fessura di un vicolo visto in tralice, dalla scalinata d’una chiesa, da qualche loggia dimenticata e deserta. Allora Pietro s’immaginò che Ghísola, per cattiveria, l’obbligassero a camminar sola, tutta molle. E, pensando cosí, a lungo, gli venne sonno. * Aveva già perduto un anno di tempo, alle belle arti, senza che ancora fosse deciso sul suo conto; il che doveva dipendere dai diversi pareri dei piú vecchi avventori, e da suo padre che se ne ricordava soltanto molto di rado e con rabbia. Anna insisteva con pazienza, anche dopo l’infelice prova del disegno, persuasa ch’egli fosse intelligente. Ma era destino che non potesse in alcun modo fargli del bene. Una mattina decise di portarlo dal parroco, perché la consigliasse. Aveva già preparato il suo piú bel vestito, e voleva far lesta perché il marito non lo risapesse: ci andava quasi di nascosto. All’improvviso, sentí chiudersi il cuore sempre piú stretto; ma non poteva gridare. Non s’accorse né meno di cadere. Fu trovata con la testa sul pavimento, verso l’armadio che aveva aperto; tutta stesa in avanti; come quegli animali che hanno avuto una calcagnata sul capo; con gli occhi mezzo . le bacche rosse delle siepi: retto ancora da come si succhiano. . da una … all’altra: l’atto del camminare avanti e indietro, del girovagare astratto che è proprio del carattere di Ghísola. . Radda: Piccolo centro del Chianti, a nord di Siena, luogo d’origine di Ghísola. . Rebecca … Adamo: servitori della famiglia di Piero. . ammollare: rendere molli, quasi impregnando, i vetri della finestra. Si tratta, ovviamente, d’un senso figurato, che dà la misura della visionarietà del realismo tozziano. . diaccio: gelato, freddo come ghiaccio (voce toscana). . doventa: diventa (voce toscana arcaica, come poi ridoventa).

. Montagnola: La Montagnola senese, posta a occidente della città. Il monte Amiata si trova invece a sud di Siena. . in tralice: di sbieco. . tutta molle: per la pioggia (per analogia con i vetri ammollati dalla pioggia). . alle belle arti: all’Accademia di Belle Arti. Lo stesso Tozzi era stato iscritto dal padre all’Accademia, dietro suggerimento di qualcuno dei clienti della trattoria del padre, ma solo dopo la morte della madre Annunziata Automi (avvenuta il  ottobre del ). . senza … sul suo conto: senza che avesse ancora preso una decisione sulla propria esistenza. . avventori: dell’osteria del padre di Pietro, Domenico. . una calcagnata sul capo: colpo dato con il cal-

T. AVANGUARDIA ED ESPRESSIONISMO. FEDERIGO TOZZI

schiusi e pieni ancora di vita, con il viso un poco contratto, quasi che le rincrescesse della sua morte soltanto per gli altri, chiedendo di non esserne rimproverata; con una preoccupazione indescrivibile e dolorosa. Rebecca, ch’era andata a cercarla per ravviarle i capelli, fu la prima a vederla. Ella aprí subito le boccette che servivano quando si trattava delle convulsioni, ma Anna non respirava piú. – Signora padrona! Padrona! Spaventata e tremando tutta, corse in cucina e s’affacciò a gridare dalla finestra che rispondeva dinanzi all’uscio della trattoria. La intese un cameriere: – Il padrone! Che venga subito! Il cameriere, credendo che fosse un attacco di convulsioni piú forte del consueto, posò il cencio che aveva in mano e andò in cucina: – Dov’è il padrone? – Non è ancora tornato: è restato a pagare il conto dal droghiere. – Correte subito a cercarlo! La padrona si sente male! Lo sguattero, che aveva risposto, posò il coltello con il quale puliva il pesce ammonticchiato dentro l’acquaio e tolto allora allora dalla sporta, si asciugò le mani, ravvolse il grembiule su al legacciolo; ed uscí. Ma non poté trovare subito Domenico, che era andato a fare altre spese. Quando lo vide, tornarono ambedue quasi correndo. Per le scale, Domenico sbatté contro il medico, suo amico e avventore, che scendeva ad aspettarlo: – Caro Domenico… Ascoltate un momento! Il trattore lo prese per le spalle. Il medico gli allontanò le mani, fermandogli i polsi. – Domenico, questa volta… Quella povera donna! Egli gridò: – Mi lasci! È una convulsione. Ma si sentí gelare tutto, con un gelo che gli veniva a ondate, dalla cima delle dita e si fermava nel mezzo del capo. Credette, lí per lí, che si trattasse di un turbamento della sua intelligenza; ma il respiro affannoso, a lui che respirava cosí bene, gli ricordò che la cosa quasi presentita era ormai venuta. Come affrontarla? Come vedere Anna morta? Doveva proprio andarci lui? E quando entrò nella camera, i muri e le porte traballavano e si spalancavano da sé, credette di non vedere niente. Poi toccò il volto già freddo e un po’ rigido; e allora chiuse gli occhi, si buttò sopra la moglie e cominciò a piangere. I suoi gridi stessi lo facevano tremare. A poco a poco sentí il suo dolore. Tutta la sua enorme violenza, ora, gli pareva cambiata in paura; gli pareva che Poggio a’ Meli fosse trascinato via lontano ed egli non aveva il tempo di far qualche cosa; gli pareva che gli usci della sua trattoria si chiudessero da sé e non volessero esser riaperti; e che Anna avesse tanto sofferto per non poter parlare; e tutto crollava in lui. Il suo dolore era cosí pieno che tutti avrebbero dovuto consolarlo! Ora si pentiva di non averle voluto bene abbastanza! cagno, o con il tacco della scarpa. Il senso inquietante trasmesso da questo atto ferocissimo è testimoniato da un altro passaggio di Con gli occhi chiusi: «Pietro, per burlarla [Ghísola], affondò la bambola a calcagnate, nella melma; e poi ci si mise con furore, con il cuore palpitante, impaurito di vederla uscir fuori, pallido». . l’acquaio: bacino in pietra, usato per lavare le stoviglie (oggi viene detto lavello). . la sporta: grande borsa, usata di solito per tra-

sportare la spesa. . legacciolo: legaccio che cinge il grembiule. . Il trattore: cioè lo stesso Domenico, cosí chiamato in quanto padrone della trattoria. . Ma si sentí … ormai venuta: la reazione del padre è descritta nei suoi meri effetti fisiologici, oggettualizzata tramite un atteggiamento di crudo e ostile distacco da parte del narratore (e piú oltre, parlando di Pietro si dirà che «il dolore» del padre «gli era antipatico come le sue collere»).

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Anna s’era raffreddata a poco a poco; e, avendole qualcuno stese le palpebre, parve insolitamente estranea per la prima volta a tutta la gente che le era attorno. Qualcuno la prese sotto il mento, e la compianse: – Chi sa che avrebbe voluto dire! Che passione! Povera donna! Cosí buona! Pietro la vide già portata sul letto, senza saper quel che ne dovesse pensare. Domenico gli parlò soltanto quando qualcuno glielo rammentò. Ma senza nessun affetto; quasi con il bisogno di sfuggirlo. E proprio in quel momento, sperò ancora di piú di tenerlo con sé per la trattoria. Continuava intanto a gridare che l’udivano anche dalla strada. – Sembra che sia per scendere da letto! Disse Rebecca. A un tratto Domenico le si accostò un’altra volta, la toccò su i capelli, fece un gesto di disperazione; ed urlò piú forte. Pietro, senza provar niente, all’infuori di una vaga inquietudine, si appoggiò ai guanciali e cercò di piangere: dentro di sé chiedevasi se anche gli altri sentissero cosí poco e provò una consolazione indefinibile quando il padre fu allontanato in modo ch’egli non vide e non udí piú il suo dolore; che gli era antipatico come le sue collere. Rebecca gli disse: – Povera mamma, voleva tanto bene a te! A lui gliene importava poco, anzi s’ebbe a male di queste parole; e si allontanò per distrarsi, vergognandosi. La mattina dell’esequie s’era dimenticato di tutto, quando intravide dall’uscio mezzo aperto il padre che gli si avvicinava. Ebbe, senza spiegarsi il perché, paura d’esser percosso a sangue. Domenico gli disse: – Vestiti; tra poco porteranno via la tua povera mamma. Pietro si sforzò d’obbedire. Piuttosto, era ora spaventato di qualche sciagura che dovesse capitare a lui! Discese dal letto; e, fingendo a se stesso, si vestí cercando d’imitare i gesti di dolore che aveva veduti. In tal modo finí con il sentire una ilarità muta, mista a terrore. Ma, quando gli fecero baciare la mamma, prima che la mettessero dentro la cassa, pensò: «Perché non c’entro anch’io? Metteteci me». Poi l’assalí uno sgomento inaudito. «Credete che sia morta? Fingete tutti. Anche questa è una finzione. Lo sapevo che m’avreste dato qualche dispiacere violento; e non lo merito». Singhiozzò, invaso da una cupa disperazione. Perché non gli avevano detto prima ch’era morta? Restò tra le persone che mettevano il cadavere dentro la cassa; ma non avrebbe toccato né meno il lembo della veste. E si meravigliò che gli altri facessero tutto come se si trattasse di una faccenda qualsiasi, con le lacrime e con quei segni di affetto che non sembravano mai finiti; raddrizzare la testa sopra il cuscino scelto con le cifre ricamate, accostare i piedi insieme, accomodare sui capelli un fiore scivolato tra una spalla e la cassa. Egli avrebbe voluto che nessuno fosse stato lí; e gli facevano male tutte quelle mani, che si muovevano in fretta. Quelle mani, quelle mani! Voleva gridare: «Portatela via presto! Perché non l’avete portata via? Non ce la voglio piú in casa». E si meravigliò del padre, che non s’impazientiva, un poco calmato da tutte quelle attenzioni. Volle seguire il trasporto al cimitero in carrozza chiusa, tirando giú nervosamente le vecchie tendine di seta turchina per non esser visto da nessuno; mentre Domenico anche per risparmio avrebbe voluto andare a piedi. Ma Pietro si preoccupava della gente ferma a guardare nella strada e perfino dinanzi all’uscio di casa. Notò che si alzavano in piedi ed allungavano il collo per veder meglio. . Anna s’era raffreddata: o meglio, il suo cadavere.

. non s’impazientiva: non perdeva la pazienza.

T. AVANGUARDIA ED ESPRESSIONISMO. FEDERIGO TOZZI

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IL PODERE

Diviso in  capitoli, Il podere fu pubblicato postumo a puntate, ma licenziato dall’autore, sulla rivista romana «Noi e il mondo» dal ° aprile  al ° marzo , e poi dall’editore Treves nel , con dedica a Giuseppe Antonio Borgese. La vicenda (narrata in terza persona) si svolge tutta nel podere della Cosuccia, «tre miglia da Siena, fuori Porta Romana», dove nell’anno  il ventenne Remigio Selmi, che lavora come aiuto applicato alla stazione di Campiglia Marittima, torna per l’improvvisa morte del padre Giacomo. Lí è come costretto a immergersi in una realtà a lui estranea, senza che possegga i mezzi e le capacità per capirla e agire con successo su di essa. Alla sua ingenuità, alla sua bontà indifesa e alla sua inettitudine si presenta il problema dell’eredità, da spartire con la seconda moglie del padre, Luigia, che continua a vivere nel podere; ma l’eredità suscita anche le mire di Giulia, ex amante del padre, che viene allontanata dal podere e decide di vendicarsi, intentando una causa per una somma dovutagli dal defunto. In mezzo a questi contrasti e a queste vicende legali, l’inesperienza di Remigio fa sí che di lui approfittino sia gli avvocati sia gli amici del padre. Nella gestione dei lavori agricoli, l’incapacità di Remigio si associa a una certa scontrosità nei rapporti con i lavoranti e con i vicini: ne sorgono antipatie e ostilità di ogni tipo. Ne sorgono dispetti rovinosi (tra l’altro il sensale Chiocciolino dà fuoco al suo grano appena raccolto), a cui si aggiungono calamità naturali (un temporale estivo distrugge il fieno raccolto, una mucca partorisce un vitello morto), che mandano in rovina il podere. Per tamponare la situazione Remigio ottiene prestiti bancari, che però non riesce a restituire, mentre aumenta l’ostilità e il malcontento dei suoi contadini, uno dei quali, l’«assalariato» Berto, nutre un odio fisico verso di lui («quando vedeva Remigio nel campo, gli veniva voglia di avventarglisi»). Una mattina, Remigio invita Berto a recarsi con lui nel campo per abbattere un’acacia e farne un timone per il nuovo carro; Berto lo segue con l’accetta e, mentre Remigio cammina, lo abbatte con un colpo sulla nuca. Nel precipitare della vicenda, nell’implacabile procedere verso la catastrofe, il protagonista appare come «un agnello mistico, un’ostia votata a un sacrificio insensato», e «tutta la narrazione può essere intesa come una metafora della solitudine e dell’orfanezza umana» (Baldacci).

DATI

tav. 241

10.4 LUIGI PIRANDELLO

˜ TESTI

Il fu Mattia Pascal I

 CAPITOLI DE IL FU MATTIA PASCAL

I.

Premessa II. Premessa seconda (filosofica) a mo’ di scusa III. La casa e la talpa IV. Fu cosí V. Maturazione VI. Tac tac tac… VII. Cambio treno VIII. Adriano Meis IX. Un po’ di nebbia X. Acquasantiera e portacenere XI. Di sera, guardando il fiume XII. L’occhio e Papiano XIII. Il lanternino XIV. Le prodezze di Max XV. Io e l’ombra mia XVI. Il ritratto di Minerva XVII. Rincarnazione XVIII. Il fu Mattia Pascal Avvertenza sugli scrupoli della fantasia

DATI

tav. 242

Prima dell’inizio (I-II) Alla narrazione vera e propria la voce di Mattia Pascal fa precedere due premesse, che suonano anche come gioco ironico rispetto alle consuete prefazioni: e, come sottolinea Giancarlo Mazzacurati, la stessa «duplicazione della premessa è già di per sé segno di adesione alle tipologie piú diffuse nel romanzo umoristico internazionale», tra i cui maggiori esempi ci sono «i prologhi in corso d’opera di Sterne», «le premesse moltiplicate di Jean Paul» (scrittore tedesco autore di opere sottilmente umoristiche, 1763-1825) e un testo fondamentale per Pirandello, la Storia straordinaria di Peter Schlemihl (la celebre storia dell’uomo che perde l’ombra, del tedesco Adalbert von Chamisso, 1781-1838). Proprio in un orizzonte «umoristico», il romanzo prende avvio con una paradossale dichiarazione di incertezza sulla stessa identità del personaggio, che si riferisce a un tempo passato in cui era certo almeno del proprio nome, confrontandolo con un presente in cui esso è andato perduto: e questa perdita di sé viene subito sottratta a vicende convenzionali, a qualcuna delle consuete disgrazie familiari, e ricondotta a un caso particolarmente strano e diverso, che il personaggio imprende a narrare. Ma prima di iniziare la narrazione, Mattia Pascal presenta la propria condizione di bibliotecario: prima dell’inizio delle sue avventure ha prestato servizio in una biblioteca, dove si trova anche alla fine, quando ha ormai perduto la propria identità e inizia a scrivere la propria autobiografia. In quella biblioteca polverosa e trascurata da tutti, Mat-

L’umorismo nella «duplicazione della premessa» Crisi di identità del personaggio

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Superamento della narrazione naturalista

La scrittura giustificata da una «distrazione provvidenziale»

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tia ha appreso la vanità e l’inutilità dei libri: e il libro che comincia a scrivere sarà affidato proprio a quella biblioteca, sepolto tra quei libri vani e inutili, nell’attesa improbabile di qualche curioso lettore. La seconda premessa (scherzosamente chiamata filosofica) vuole mostrare come l’autobiografia di Mattia Pascal, pur essendo contigua ai libri polverosi di quella biblioteca (dove hanno luogo abnormi e paradossali alleanze tra materie sacre e materie licenziose), può svolgersi solo rifiutando i tradizionali modelli narrativi: mentre il bibliotecario Pellegrinotto lo esorta a costruire un testo «condotto sul modello di questi ch’egli va scovando nella biblioteca», dotato di un particolar sapore, egli avverte il totale esaurirsi non soltanto del metodo naturalistico, ma di ogni forma di «narrazione minuta e piena d’oziosi particolari», di ogni automatica raccontabilità del reale. Con l’umoristica esclamazione Maledetto sia Copernico! viene chiamata in causa la rivoluzione copernicana, che ha fatto perdere all’uomo il posto centrale nell’universo e ha ridotto all’inessenzialità tutte le sue vicende, ha fatto perdere ogni valore al minuto emergere delle forme e degli oggetti della vita umana (e degli esordi narrativi basati sui minuti particolari quotidiani Mattia sottolinea tutta la vacuità, presentandone un breve ironico elenco). Le stesse calamità naturali (che agli uomini contemporanei si presentano sotto l’aspetto di notizie) mostrano quanto sia marginale e inessenziale la presenza dell’uomo sulla terra; ma, come sottolinea il bibliotecario Pellegrinotto, gli uomini continuano comunque ad appoggiarsi sulle illusioni e sulla distrazione: la narrazione della propria vita sarà allora giustificata per Mattia proprio da una distrazione provvidenziale. Solo dimenticando provvisoriamente l’inessenzialità delle vicende e dei sentimenti umani Mattia potrà parlare della propria vita, farne romanzo: per Pirandello nel mondo moderno la letteratura può essere giustificata solo da questa «distrazione», questa sospensione della vanità: per se stessa come per ogni storia umana. [EDIZIONE: Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, a cura di G. Ferroni, Bompiani, Milano 1994]

PREMESSA

Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de’ miei amici o conoscenti dimostrava d’aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo: – Io mi chiamo Mattia Pascal. – Grazie, caro. Questo lo so. – E ti par poco? Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppur questo, il non poter piú rispondere, cioè, come prima, all’occorrenza: – Io mi chiamo Mattia Pascal. Qualcuno vorrà bene compiangermi (costa cosí poco), immaginando l’atroce cordoglio d’un disgraziato, al quale avvenga di scoprire tutt’a un tratto che… sí, niente, insomma: né . Mattia Pascal: la critica ha mostrato come la scelta del nome, come del resto quasi sempre in Pirandello, non sia affatto casuale: per ciò che riguarda Mattia è immediato il riferimento a matto, usato nel testo stesso del romanzo, nel capitolo XVII, per bocca del fratello Roberto, a cui si aggiunge un riferimento all’apostolo Mattia, di cui gli Atti degli Apostoli, , -, dicono che fu chiamato a sostituire Giuda e fu testimone della resurrezione di Cristo (Sedita). Cosí il nome del personaggio, che nel romanzo muore e «risorge» due

volte, si collega all’ambito della resurrezione, come mostra anche il cognome Pascal (che rinvia a Pasquale e alla Pasqua), che per altra via evoca il teosofo francese Théophile Pascal, due opere del quale sono citate da un personaggio del romanzo, e il grande scrittore francese Blaise Pascal (su cui cfr. CANONE EUROPEO, tav. ), che Pirandello cita due volte nel saggio su L’umorismo e con la cui filosofia egli mostra importanti consonanze. . scoprire … che…: la voce del narratore interrompe improvvisamente il suo discorso e intreccia

T. LUIGI PIRANDELLO. IL FU MATTIA PASCAL

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padre, né madre, né come fu o come non fu; e vorrà pur bene indignarsi (costa anche meno) della corruzione dei costumi e de’ vizii, e della tristezza dei tempi, che di tanto male possono esser cagione a un povero innocente. Ebbene, si accomodi. Ma è mio dovere avvertirlo che non si tratta propriamente di questo. Potrei qui esporre, di fatti, in un albero genealogico, l’origine e la discendenza della mia famiglia e dimostrare come qualmente non solo ho conosciuto mio padre e mia madre, ma e gli antenati miei e le loro azioni, in un lungo decorso di tempo, non tutte veramente lodevoli. E allora? Ecco: il mio caso è assai piú strano e diverso; tanto diverso e strano che mi faccio a narrarlo. Fui, per circa due anni, non so se piú cacciatore di topi che guardiano di libri nella biblioteca che un monsignor Boccamazza, nel , volle lasciar morendo al nostro Comune. È ben chiaro che questo Monsignore dovette conoscer poco l’indole e le abitudini de’ suoi concittadini; o forse sperò che il suo lascito dovesse col tempo e con la comodità accendere nel loro animo l’amore per lo studio. Finora, ne posso rendere testimonianza, non si è acceso: e questo dico in lode de’ miei concittadini. Del dono anzi il Comune si dimostrò cosí poco grato al Boccamazza, che non volle neppure erigergli un mezzo busto pur che fosse, e i libri lasciò per molti e molti anni accatastati in un vasto e umido magazzino, donde poi li trasse, pensate voi in quale stato, per allogarli nella chiesetta fuori mano di Santa Maria Liberale, non so per qual ragione sconsacrata. Qua li affidò, senz’alcun discernimento, a titolo di beneficio, e come sinecura, a qualche sfaccendato ben protetto il quale, per due lire al giorno, stando a guardarli, o anche senza guardarli affatto, ne avesse sopportato per alcune ore il tanfo della muffa e del vecchiume. Tal sorte toccò anche a me; e fin dal primo giorno io concepii cosí misera stima dei libri, sieno essi a stampa o manoscritti (come alcuni antichissimi della nostra biblioteca), che ora non mi sarei mai e poi mai messo a scrivere, se, come ho detto, non stimassi davvero strano il mio caso e tale da poter servire d’ammaestramento a qualche curioso lettore, che per avventura, riducendosi finalmente a effetto l’antica speranza della buon’anima di monsignor Boccamazza, capitasse in questa biblioteca, a cui io lascio questo mio manoscritto, con l’obbligo però che nessuno possa aprirlo se non cinquant’anni dopo la mia terza, ultima e definitiva morte. Giacché, per il momento (e Dio sa quanto me ne duole), io sono morto, sí, già due volte, ma la prima per errore, e la seconda… sentirete.

un dialogo con i lettori, invitandoli a non compiangerlo per l’eventuale mancanza di padre o di madre o di quant’altro, e a non considerarlo vittima della corruzione dei costumi. Questa prima interruzione mostra come la scrittura narrativa pirandelliana sia caratterizzata da «una tecnica di intersezione», che porta a uscire dalla rappresentazione «intrecciando col pubblico un dialogo spesso ironico, da giocoliere della sospensione e dell’ellissi» (Mazzacurati). . non solo … mio padre: il narratore si correggerà all’inizio del capitolo III: «Ho detto troppo presto, in principio, che ho conosciuto mio padre. Non l’ho conosciuto. Avevo quattr’anni e mezzo quand’egli morí». . mi faccio: mi accingo, incomincio. . Boccamazza: il cognome del fondatore della bi-

blioteca riprende quello di un personaggio del Decameron di Boccaccio, protagonista di una novella a lieto fine (V, ). . allogarli: collocarli. . Santa Maria Liberale: anche se la cittadina di Mattia Pascal è Mirano, immaginaria località della Liguria, Pirandello ricava molti dati che la caratterizzano dalla Sicilia e dalla natia Girgenti. Nell’immagine della chiesetta c’è la generica suggestione di qualche chiesa periferica di Girgenti, ma tutta la biblioteca Boccamazza costituisce una deformazione grottesca della Biblioteca Lucchesiana, fondata a Girgenti nel  dal vescovo Andrea Lucchesi Palli (il cui stato di abbandono è descritto da Pirandello in una lettera al suo maestro universitario, il filologo romanzo Ernesto Monaci, di metà settembre ).

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PREMESSA SECONDA (FILOSOFICA) A MO’ DI SCUSA

L’idea, o piuttosto, il consiglio di scrivere mi è venuto dal mio reverendo amico don Eligio Pellegrinotto, che al presente ha in custodia i libri della Boccamazza, e al quale io affido il manoscritto appena sarà terminato, se mai sarà. Lo scrivo qua, nella chiesetta sconsacrata, al lume che mi viene dalla lanterna lassú, della cupola; qua, nell’abside riservata al bibliotecario e chiusa da una bassa cancellata di legno a pilastrini, mentre don Eligio sbuffa sotto l’incarico che si è eroicamente assunto di mettere un po’ d’ordine in questa vera babilonia di libri. Temo che non ne verrà mai a capo. Nessuno prima di lui s’era curato di sapere, almeno all’ingrosso, dando di sfuggita un’occhiata ai dorsi, che razza di libri quel Monsignore avesse donato al Comune: si riteneva che tutti o quasi dovessero trattare di materie religiose. Ora il Pellegrinotto ha scoperto per maggior sua consolazione, una varietà grandissima di materie nella biblioteca di Monsignore; e siccome i libri furon presi di qua e di là nel magazzino e accozzati cosí come venivano sotto mano, la confusione è indescrivibile. Si sono strette per la vicinanza fra questi libri amicizie oltre ogni dire speciose: don Eligio Pellegrinotto mi ha detto, ad esempio, che ha stentato non poco a staccare da un trattato molto licenzioso Dell’arte di amar le donne, libri tre di Anton Muzio Porro, dell’anno , una Vita e morte di Faustino Materucci, Benedettino di Polirone, che taluni chiamano Beato, biografia edita a Mantova nel  . Per l’umidità, le legature de’ due volumi si erano fraternamente appiccicate. Notare che nel libro secondo di quel trattato licenzioso si discorre a lungo della vita e delle avventure monacali. Molti libri curiosi e piacevolissimi don Eligio Pellegrinotto, arrampicato tutto il giorno su una scala da lampionajo, ha pescato negli scaffali della biblioteca. Ogni qual volta ne trova uno, lo lancia dall’alto con garbo, sul tavolo ne che sta in mezzo; la chiesetta ne rintrona; un nugolo di polvere si leva, da cui due o tre ragni scappano via spaventati: io accorro dall’abside, scavalcando la cancellata; do prima col libro stesso la caccia ai ragni su pe’l tavolone polveroso; poi apro il libro e mi metto a leggiucchiarlo. Cosí, a poco a poco, ho fatto il gusto a siffatte letture. Ora don Eligio mi dice che il mio libro dovrebbe esser condotto sul modello di questi ch’egli va scovando nella biblioteca, aver cioè il loro particolar sapore. Io scrollo le spalle e gli rispondo che non è fatica per me. E poi altro mi trattiene. Tutto sudato e impolverato, don Eligio scende dalla scala e viene a prendere una boccata d’aria nell’orticello che ha trovato modo di far sorgere qui dietro l’abside, riparato giro giro da stecchi e spuntoni. – Eh, mio reverendo amico, – gli dico io, seduto sul murello, col mento appoggiato al pomo del bastone, mentr’egli attende alle sue lattughe. – Non mi par piú tempo, questo, di scriver libri, neppure per ischerzo. In considerazione anche della letteratura, come per tutto il resto, io debbo ripetere il mio solito ritornello: Maledetto sia Copernico! . Dell’arte di amar … nel : nel citare questi testi stravaganti e probabilmente inesistenti Pirandello mostra la sua curiosità per una cultura bibliografica ed erudita, stravolgendola in chiave grottesca e paradossale con il singolare connubio tra quei libri di carattere opposto, appiccicati tra loro dall’umidità. . scala da lampionajo: una di quelle scale che si usavano per accendere le lampade a olio o a gas dell’illuminazione pubblica. . Maledetto sia Copernico!: nella seconda parte del saggio su L’umorismo Pirandello farà ancora ri-

ferimento al canonico e astronomo polacco Niccolò Copernico (-) per mostrare il legame tra la teoria copernicana e la scoperta della marginalità dell’uomo nell’universo, rivelando tra l’altro di averne ricavato da Leopardi (dall’operetta morale Il Copernico: cfr. ..) il suo uso «umoristico»: «Uno dei piú grandi umoristi, senza saperlo, fu Copernico, che smontò non propriamente la macchina dell’universo, ma l’orgogliosa immagine che ce n’eravamo fatto. Si legga quel dialogo del Leopardi che s’intitola appunto dal canonico polacco».

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– Oh oh oh, che c’entra Copernico! – esclama don Eligio, levandosi su la vita, col volto infocato sotto il cappellaccio di paglia. – C’entra, don Eligio. Perché, quando la Terra non girava… – E dàlli! Ma se ha sempre girato! – Non è vero. L’uomo non lo sapeva, e dunque era come se non girasse. Per tanti, anche adesso, non gira. L’ho detto l’altro giorno a un vecchio contadino, e sapete come m’ha risposto? ch’era una buona scusa per gli ubriachi. Del resto, anche voi, scusate, non potete mettere in dubbio che Giosuè fermò il Sole. Ma lasciamo star questo. Io dico che quando la Terra non girava, e l’uomo, vestito da greco o da romano, vi faceva cosí bella figura e cosí altamente sentiva di sé e tanto si compiaceva della propria dignità, credo bene che potesse riuscire accetta una narrazione minuta e piena d’oziosi particolari. Si legge o non si legge in Quintiliano, come voi m’avete insegnato, che la storia doveva esser fatta per raccontare e non per provare? – Non nego, – risponde don Eligio, – ma è vero altresí che non si sono mai scritti libri cosí minuti, anzi minuziosi in tutti i piú riposti particolari, come dacché, a vostro dire, la Terra s’è messa a girare. – E, va bene! Il signor conte si levò per tempo, alle ore otto e mezzo precise… La signora contessa indossò un abito lilla con una ricca fioritura di merletti alla gola… Teresina si moriva di fame… Lucrezia spasimava d’amore… Oh, santo Dio! e che volete che me n’importi? Siamo o non siamo su un’invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché, senza pervenir mai a destino, come se ci provasse gusto a girar cosí, per farci sentire ora un po’ piú di caldo, ora un po’ piú di freddo, e per farci morire – spesso con la coscienza d’aver commesso una sequela di piccole sciocchezze – dopo cinquanta o sessanta giri? Copernico, Copernico, don Eligio mio, ha rovinato l’umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell’infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell’Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni; e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai, le nostre. Avete letto di quel piccolo disastro delle Antille? Niente. La Terra, poverina, stanca di girare, come vuole quel canonico polacco, senza scopo, ha avuto un piccolo moto d’impazienza, e ha sbuffato un po’ di fuoco per una . Giosuè fermò il Sole: allude al racconto biblico (Libro di Giosuè, , -) secondo cui il re ebreo chiese e ottenne da Dio che il Sole si fermasse su Gabaon, perché egli potesse compiere fino in fondo la vendetta sui suoi nemici: nella tradizione cattolica questo episodio era stato a lungo usato come prova dogmatica della centralità della Terra e del moto del Sole attorno a essa, anche contro le ipotesi e i calcoli della nuova scienza. Mattia sostiene ironicamente che don Eligio, come ecclesiastico, dovrebbe credere alla lettera al testo biblico, con tutto ciò che ne consegue. . Si legge … provare?: si riferisce a una battuta del retore latino Quintiliano (sec. I d.C.), contenuta nella Institutio oratoria, X, , : «Historia… scribitur ad narrandum non ad probandum» (“La storia si scrive per narrare, non per provare”). . Il signor conte … d’amore: elenco di formule stereotipate, come esempi di convenzionali esordi narrativi, entro un modello romanzesco che Pirandello ritiene non piú praticabile. Mazzacurati ha sottolineato la vicinanza di questo elenco parodi-

stico con i propositi del poeta francese Paul Valéry riferiti in un passo divenuto addirittura proverbiale del Manifeste du surrealisme (“Manifesto del surrealismo”), del , di André Breton (cfr. ..): «Paul Valéry proponeva recentemente di raccogliere un’antologia del maggior numero possibile di esordi di romanzo, dall’insania dei quali si attendeva molto… Una simile idea fa ancora onore a Paul Valéry, che tempo fa, a proposito di romanzi, mi garantiva che, per quanto lo riguarda, si sarebbe sempre rifiutato di scrivere: La marchesa uscí alle cinque». . disastro delle Antille: si riferisce probabilmente a una notizia di cronaca degli anni precedenti, quella sulla catastrofica eruzione del vulcano Montagne Pelée nella Martinica (), che aveva causato un altissimo numero di morti. Nel modo in cui Pirandello parla dell’azione distruttive del vulcano balenano inoltre evidenti suggestioni da La ginestra di Leopardi. . quel canonico polacco: il già «maledetto» Copernico.

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delle tante sue bocche. Chi sa che cosa le aveva mosso quella specie di bile. Forse la stupidità degli uomini che non sono stati mai cosí nojosi come adesso. Basta. Parecchie migliaja di vermucci abbrustoliti. E tiriamo innanzi. Chi ne parla piú? Don Eligio Pellegrinotto mi fa però osservare che, per quanti sforzi facciamo nel crudele intento di strappare, di distruggere le illusioni che la provvida natura ci aveva create a fin di bene, non ci riusciamo. Per fortuna, l’uomo si distrae facilmente. Questo è vero. Il nostro Comune, in certe notti segnate nel calendario, non fa accendere i lampioni, e spesso – se è nuvolo – ci lascia al bujo. Il che vuol dire, in fondo, che noi anche oggi crediamo che la luna non stia per altro nel cielo, che per farci lume di notte, come il sole di giorno, e le stelle per offrirci un magnifico spettacolo. Sicuro. E dimentichiamo spesso e volentieri di essere atomi infinitesimali per rispettarci e ammirarci a vicenda, e siamo capaci di azzuffarci per un pezzettino di terra o di dolerci di certe cose, che, ove fossimo veramente compenetrati di quello che siamo, dovrebbero parerci miserie incalcolabili. Ebbene, in grazia di questa distrazione provvidenziale, oltre che per la stranezza del mio caso, io parlerò di me, ma quanto piú brevemente mi sarà possibile, dando cioè soltanto quelle notizie che stimerò necessarie. Alcune di esse, certo, non mi faranno molto onore; ma io mi trovo ora in una condizione cosí eccezionale, che posso considerarmi come già fuori della vita; e dunque senza obblighi e senza scrupoli di sorta. Cominciamo.

. le illusioni … si distrae facilmente: in questa parte del discorso di Mattia tornano essenziali termini leopardiani, con il richiamo alle illusioni prodotte dalla natura, che resistono a ogni proposito di distruggerle, e al rilievo che nella vita sociale assume la distrazione.

. in certe … calendario: nelle notti di luna piena, quando il Comune cerca di risparmiare sull’illuminazione pubblica, fidando nella luce lunare, senza tener conto del rischio che la luna sia coperta dalle nuvole.

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L’umorismo Il sentimento del contrario (II, II) Si riportano qui le pagine centrali del saggio su L’umorismo, con la distinzione tra l’avvertimento del contrario, proprio del comico, e il sentimento del contrario, proprio dell’umorismo. La distinzione si appoggia su una nozione del processo di formazione dell’opera d’arte che ha le sue radici in varie teorie tardoottocentesche, soprattutto di area francese, ma che tiene conto in modo rilevante di De Sanctis e delle sue nozioni di vita organica e di forma (cfr. 8.8) ed è in forte contrasto con i principi dell’Estetica di Croce. Pirandello ritiene che l’opera d’arte risulti da una messa in forma del «libero movimento della vita interiore»: in questo processo ha una presenza non trascurabile la riflessione, la coscienza stessa che l’artista ha del proprio fare; essa costituisce una forma del sentimento, un principio critico interno, sempre attivo nell’opera d’arte. Ma mentre in genere questa attività della riflessione resta invisibile, mero specchio del sentimento, nell’umorismo essa giudica e scompone il sentimento stesso. La scomposizione, con il sostegno di procedimenti analitici, della logica e della critica, è quindi un dato essenziale dell’umorismo: e proprio da essa sorge il sentimento del contrario. Siamo evidentemente agli antipodi della concezione crociana della poesia come intuizione lirica pura, espressione di un sentimento che esclude il diretto intervento della riflessione. [EDIZIONE: Luigi Pirandello, L’umorismo e altri saggi, a cura di E. Ghidetti, Giunti, Firenze 1994]

Vediamo dunque, senz’altro, qual è il processo da cui risulta quella particolar rappresentazione che si suol chiamare umoristica; se questa ha peculiari caratteri che la distinguono, e da che derivano: se vi è un particolar modo di considerare il mondo, che costituisce appunto la materia e la ragione dell’umorismo. Ordinariamente, – ho già detto altrove, e qui m’è forza ripetere – l’opera d’arte è creata dal libero movimento della vita interiore che organa le idee e le immagini in una forma armoniosa, di cui tutti gli elementi han corrispondenza tra loro e con l’idea-madre che le coordina. La riflessione, durante la concezione, come durante l’esecuzione dell’opera d’arte, non resta certamente inattiva: assiste al nascere e al crescere dell’opera, ne segue le fasi progressive e ne gode, raccosta i varii elementi, li coordina, li compara. La coscienza non rischiara tutto lo spirito; segnatamente per l’artista essa non è un lume distinto dal pensiero, che permetta alla volontà di attingere in lei come in un tesoro d’immagini e d’idee. La coscienza, in somma, non è una potenza creatrice, ma lo specchio interiore in cui il pensiero si rimira; si può dire anzi ch’essa sia il pensiero che vede sé stesso, assistendo a quello che esso fa spontaneamente. E, d’ordinario, nell’artista, nel momento della concezione, la riflessione si nasconde, resta, per cosí dire, invisibile: è, quasi, per l’artista una forma del sentimento. Man mano che l’opera si fa, essa la critica, non freddamente, come farebbe un giudice spassionato, analizzandola; ma d’un tratto, mercé l’impressione che ne riceve. Questo, ordinariamente. Vediamo adesso se, per la natural disposizione d’animo di quegli scrittori che si chiamano umoristi e per il particolar modo che essi hanno di intuire e di con. ho già detto altrove: nota dello stesso Pirandello: «Vedi nel mio volume già citato Arte e scienza il saggio Un critico fantastico»: il saggio, dedicato allo scrittore Alberto Cantoni, era apparso sulla

«Nuova antologia» del  marzo , mentre la raccolta di saggi Arte e scienza apparve nel , lo stesso anno de L’umorismo.

La distinzione fra comico e umoristico

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siderar gli uomini e la vita, questo stesso procedimento avviene nella concezione delle loro opere; se cioè la riflessione vi tenga la parte che abbiamo or ora descritto, o non vi assuma piuttosto una speciale attività. Ebbene, noi vedremo che nella concezione di ogni opera umoristica, la riflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira; ma gli si pone innanzi, da giudice; lo analizza, spassionandosene; ne scompone l’immagine; da questa analisi però, da questa scomposizione, un altro sentimento sorge o spira: quello che potrebbe chiamarsi, e che io difatti chiamo il sentimento del contrario. Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso cosí, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi cosí come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che, parata cosí, nascondendo cosí le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto piú giovane di lei, ecco che io non posso piú riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, piú addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico. «Signore, signore! oh! signore, forse, come gli altri, voi stimate ridicolo tutto questo; forse vi annojo raccontandovi questi stupidi e miserabili particolari della mia vita domestica: ma per me non è ridicolo, perché io sento tutto ciò…». Cosí grida Marmeladoff nell’osteria, in Delitto e Castigo del Dostojevski, a Raskolnikoff tra le risate degli avventori ubriachi. E questo grido è appunto la protesta dolorosa ed esasperata d’un personaggio umoristico contro chi, di fronte a lui, si ferma a un primo avvertimento superficiale e non riesce a vederne altro che la comicità. Ed ecco qua un terzo esempio, che per la sua lampante chiarezza, si potrebbe dir tipico. Un poeta, il Giusti, entra un giorno nella chiesa di Sant’Ambrogio a Milano, e vi trova un pieno di soldati, Di que’ soldati settentrionali, Come sarebbe boemi e croati, Messi qui nella vigna a far da pali… Il suo primo sentimento è d’odio: quei soldatacci ispidi e duri son lí a ricordargli la patria schiava. Ma ecco levarsi nel tempio il suono dell’organo: poi quel cantico tedesco lento lento, D’un suono grave, flebile, solenne

. manteca: unguento. . Marmeladoff: si riferisce a una scena narrata nel capitolo del grande romanzo di Dostoevskij (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ). A questo esempio Pirandello aggiunge poi subito quello dell’atteggiamento del poeta nei confronti del «cantico tedesco» in Sant’Ambrogio di Giuseppe Giusti (cfr.

T.) e dei caratteri del personaggio di Don Chisciotte, dalla cui rappresentazione comica spira «un sentimento che ci impedisce di ridere o ci turba il riso della comicità rappresentata, ce lo rende amaro. Attraverso il comico stesso, abbiamo anche qui il sentimento del contrario».

T. LUIGI PIRANDELLO. L’UMORISMO

che è preghiera e pare lamento. Ebbene, questo suono determina a un tratto una disposizione insolita nel poeta, avvezzo a usare il flagello della satira politica e civile: determina in lui la disposizione propriamente umoristica: cioè, lo dispone a quella particolar riflessione che, spassionandosi del primo sentimento, dell’odio suscitato dalla vista di quei soldati, genera appunto il sentimento del contrario. Il poeta ha sentito nell’inno la dolcezza amara Dei canti uditi da fanciullo: il core, Che da voce domestica gl’impara, Ce li ripete i giorni del dolore. Un pensier mesto della madre cara, Un desiderio di pace e d’amore, Uno sgomento di lontano esilio… E riflette che quei soldati, strappati ai loro tetti da un re pauroso, A dura vita, a dura disciplina, Muti, derisi, solitari stanno, Strumenti ciechi d’occhiuta rapina, Che lor non tocca e che forse non sanno. Ed ecco il contrario dell’odio di prima: Povera gente! lontana da’ suoi, In un paese qui che le vuol male… Il poeta è costretto a fuggir dalla chiesa perché Qui, se non fuggo, abbraccio un caporale, Colla su’ brava mazza di nocciuolo Duro e piantato lí come un piuolo. Notando questo, avvertendo cioè questo sentimento del contrario che nasce da una speciale attività della riflessione, io non esco affatto dal campo della critica estetica e psicologica. L’analisi psicologica di questa poesia è il necessario fondamento della valutazione estetica di essa. Io non posso intenderne la bellezza, se non intendo il processo psicologico da cui risulta la perfetta riproduzione di quello stato d’animo che il poeta voleva suscitare, nella quale consiste appunto la bellezza estetica. Vediamo ora un esempio piú complesso, nel quale la speciale attività della riflessione non si scopre cosí a prima giunta; prendiamo un libro di cui abbiamo già discorso: il Don Quijote del Cervantes. Vogliamo giudicarne il valore estetico. Che faremo? Dopo la prima lettura e la prima impressione che ne avremo ricevuto, terremo conto anche qui dello stato d’animo che l’autore ha voluto suscitare. Qual è questo stato d’animo? Noi vorremmo ridere di tutto quanto c’è di comico nella rappresentazione di questo povero alienato che maschera della sua follia sé stesso e gli altri e tutte le cose; vorremmo ridere, ma il riso non ci viene alle labbra schietto e facile; sentiamo che qualcosa ce lo turba e ce l’ostacola; è un senso di commiserazione, di pena e anche d’ammirazione, sí, perché se le eroiche avventure di questo povero hidalgo sono ridicolissime, pur non v’ha dubbio che egli nella sua ridicolaggine è veramente eroico. Noi abbiamo una rappresentazione comica, ma spira da questa un sentimento che ci impedisce di ridere o ci turba il riso della comicità rappresentata; ce lo rende amaro. Attraverso il comico stesso, abbiamo anche qui il sentimento del contrario. L’autore l’ha destato in noi perché s’è destato in lui, e noi ne abbiamo già veduto le ragioni. Ebbene, perché non si scopre qui la speciale attività della riflessione? Ma

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perché essa – frutto della tristissima esperienza della vita, esperienza che ha determinato la disposizione umoristica nel poeta – si era già esercitata sul sentimento di lui, su quel sentimento che lo aveva armato cavaliere della fede a Lepanto. Spassionandosi di questo sentimento e ponendovisi contro, da giudice, nella oscura carcere della Mancha, ed analizzandolo con amara freddezza, la riflessione aveva già destato nel poeta il sentimento del contrario, e frutto di esso è appunto il Don Quijote: è questo, sentimento del contrario oggettivato. Il poeta non ha rappresentato la causa del processo – come il Giusti nella sua poesia, – ne ha rappresentato soltanto l’effetto, e però il sentimento del contrario spira attraverso la comicità della rappresentazione; questa comicità è frutto del sentimento del contrario generato nel poeta dalla speciale attività della riflessione sul primo sentimento tenuto nascosto.

T. LUIGI PIRANDELLO. NOVELLE PER UN ANNO

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Novelle per un anno La disdetta di Pitagora Pubblicata nel volume Beffe della morte e della vita, seconda serie, 1903, e poi nelle raccolte Quand’ero matto…, 1919 e Il vecchio Dio, 1926, questa novella affronta direttamente il tema del sosia, molto caro alla letteratura ottocentesca, da molti racconti dei tedeschi Hoffmann e Jean Paul, molto cari a Pirandello ed essenziali nella sua formazione letteraria, al William Wilson di Edgar Allan Poe, al Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, a Il sosia di Dostoevskij. In questa tradizione la figura del sosia (e cfr. GENERI E TECNICHE, tav. 223) appare come un’inquietante minaccia all’identità e alla sicurezza dell’io, crea il turbamento del ritorno di qualcosa un tempo originario e familiare, e poi dimenticato con un carico di sotterranei valori psicologici che sono stati indicati da Sigmund Freud nel suo celebre saggio Das Unheimliche (“Il perturbante”), 1919. Qui il racconto è affidato alla voce di un narratore soprannominato Pitagora e noto agli amici per le sue distrazioni di mente, il cui stesso nome annuncia la trasformazione e la trasmigrazione di identità (al filosofo antico Pitagora veniva attribuita la credenza nella metempsicosi, la trasmigrazione delle anime da un corpo all’altro) e la cui disdetta (indicata nel titolo) non è soltanto nel fatto che (come dice a un certo punto) nessuno tiene conto di ciò che egli sente, ma negli equivoci che viene involontariamente a creare. Pitagora crede di riconoscere per le strade di Roma un amico che non vede da tre anni (Tito Bindi) in un giovane felice sempre accompagnato da una fidanzata. Quando il vero Tito, malato e stravolto dalla follia, torna a Roma da Forlí, il narratore si accorge del suo errore, ma è costretto a riconoscere che il sosia che egli piú volte ha incontrato somiglia al Tito che egli frequentava tre anni prima molto piú di quanto non gli somigli il Tito attuale, ridotto alla follia dal peso della propria vita familiare, con due figli, di cui uno accecato dopo quattro mesi. Venuto a sapere dell’esistenza del suo sosia, il vero Tito, nella sua follia, si convince di continuare a vivere una vita felice nei panni dell’altro, di essere sdoppiato in due opposte vite; cerca di incontrarlo per riconoscere quella propria identità perduta e per convincerlo a evitare il matrimonio, fonte di insopportabili guai; e, una volta incontratolo, gli fa balenare davanti le possibili disgrazie familiari, convincendolo a rinunciare al matrimonio e a fuggire in America. La partenza del sosia fa sí che si crei una sorta di equilibrio perfetto tra i due personaggi, uno scambio totale tra le loro posizioni, tanto che al narratore tutti (anche con la sposa abbandonata e la suocera mancata del sosia) finiscono per sembrare una cosa sola: ma resta un elemento irresolubile, costituito da «quel bambino cieco in piú», il cui ricordo lascia un’eco angosciosa nella conclusione del racconto. Il motivo dell’accecamento (che rinvia al mito di Edipo, accecatosi per l’uccisione del padre e l’incesto con la madre) si ripresenta piú volte, come un essenziale dato simbolico, in molti momenti dell’opera di Pirandello (cosí anche nella novella Il treno ha fischiato…, cfr. p. 610). [EDIZIONE: Luigi Pirandello, Novelle per un anno, a cura e con un saggio di P. Gibellini, Giunti, Firenze 1994]

– Perbacco! E, rimettendomi il cappello, mi voltai a guardare la bella sposina tra il fidanzato e la vecchia madre. Dri dri dri… – ah come strillavano di felicità sul lastrico della piazza assolata, nel mattino domenicale, le scarpe nuove dell’amico mio! E la fidanzata, con l’anima tutta ridente nell’azzurro infantile degli occhietti irrequieti, nelle guance invermigliate, nei denti lucenti, sotto l’ombrellino sgargiante di seta rossa, si faceva vento, vento, vento, quasi a smorzar le

. Dri dri dri…: l’onomatopea vuol rendere qui lo scricchiolare delle scarpe nuove sul fondo stradale.

Il tema del sosia

La ricerca di una identità

Il motivo dell’accecamento

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vampe della gioja e del pudore, la prima volta che si mostrava cosí per via, bambina, alla gente, con a fianco – dri dri dri – quel pezzo di promesso sposo, esageratamente nuovo, pettinato, profumato e soddisfatto. Rimettendosi in capo il cappello (piano, che la pettinatura non si guastasse), si voltò anche lui, l’amico mio, a guardarmi. O che c’entrava? Mi vide fermo in mezzo alla piazza, e chinò il capo, con un sorriso impacciato. Risposi con un altro sorriso e un vivace gesto della mano che voleva dire: «Mi rallegro! mi rallegro!». E, fatti pochi passi, mi voltai di nuovo. Non m’aveva fatto tanto piacere quella vispa figurina tutt’accesa della piccola fidanzata, quanto l’aria di lui, dell’amico mio, che non vedevo da circa tre anni. O non si voltò anche lui a guardarmi una seconda volta? «Che sia geloso?» pensai, incamminandomi a capo chino. «N’avrebbe ragione in fin dei conti! È proprio carina, perbacco. Ma lui, lui!» Non so; m’era sembrato anche piú alto di statura. Prodigi dell’amore! E poi, tutto ringiovanito, negli occhi specialmente, nella persona cosí evidentemente carezzata da certe cure affettuose di cui non l’avrei mai stimato capace, conoscendolo nemico di quegli intrattenimenti intimi e curiosissimi che ogni giovinotto suole avere con la propria immagine per ore e ore davanti a uno specchio. Prodigi dell’amore! Dov’era stato in questi tre ultimi anni? Qua a Roma, prima, abitava in casa di Quirino Renzi, suo cognato, ch’era poi il vero amico mio. Infatti egli, per me, propriamente, si chiamava piú «il cognato di Renzi», che Bindi di casa sua. Era partito per Forlí due anni prima che Renzi lasciasse Roma, e non l’avevo piú riveduto. Ora, rieccolo a Roma e fidanzato. «Ah, caro mio,» seguitai a pensare, «tu non fai piú, certamente, il pittore. Dri dri dri: le tue scarpe strillano troppo. Di’ che ti sei voltato ad altro mestiere, che ti deve fruttar bene. E io te ne lodo, non ostante che cotesto nuovo mestiere t’abbia persuaso a prender moglie». Lo rividi due o tre giorni dopo, quasi alla stess’ora, di nuovo insieme con la promessa sposa e la futura suocera. Altro scambio di saluti accompagnati da sorrisi. Inchinando lieve e pur con tanta grazia il capo, mi sorrise anche la sposina, questa volta. Da quel sorriso argomentai che Tito le aveva certo parlato a lungo di me, delle mie famose distrazioni di mente, ed anche detto che Quirino Renzi, suo cognato, mi chiama Pitagora perché non mangio fagiuoli; e spiegato anche perché, a mo’ d’ingiuria scherzosa, si può chiamar Pitagora chi non mangi fagiuoli ecc. ecc. Cose che fanno tanto piacere. M’accorsi che segnatamente alla suocera questa faccenda dei fagiuoli e di Pitagora aveva dovuto fare una buffissima impressione, perché, incontrandoli in seguito, non so piú quant’altre volte, sempre tutt’e tre insieme, quella vecchia marmotta sbruffava proprio a ridere, senza neppur curarsi di nascondere la risata, dopo aver risposto al mio saluto, e si voltava anche a guardarmi, ridendo ancora. Avrei voluto ripigliar Tito qualche giorno da solo a solo per domandargli se la presente felicità non offrisse a lui, alla sposina e alla futura suocera alcun’altra cagione di riso, e in questo caso compiangerlo; ma non mi venne mai fatto. Desideravo inoltre da lui qualche notizia di Renzi e della moglie. Ma ecco, un bel giorno, arrivarmi da Forlí questo telegramma: «Brutti guaj, Pitagora. Sarò a Roma domattina. Trovati stazione ore ,. – Renzi». O come – pensai, – ci ha qui il cognato, e vuol essere accolto da me alla stazione? Feci su quel «brutti guaj» un mondo di supposizioni, tra le quali la piú ragionevole mi sembrò questa: che Tito stesse per contrarre un pessimo matrimonio, e che Renzi venisse a Roma per tentare di mandarglielo a monte. Dopo circa tre mesi di saluti e di sorrisi, confesso che nutrivo già per quella bambola di sposina un’antipatia irresistibile e qualcosa di peggio per la madre. . Pitagora … fagiuoli: a proposito del filosofo greco Pitagora (- a.C.) circolava nell’antichità la leggenda che egli odiasse le fave e che nella sua

scuola fosse proibito mangiarle (ma Pirandello le muta qui in fagioli).

T. LUIGI PIRANDELLO. NOVELLE PER UN ANNO

Il giorno appresso, alle otto, ero alla stazione. E ora giudicate voi, se io non sono davvero perseguitato da un destino buffone. Arriva il treno, ed ecco Renzi al finestrino d’una vettura: mi precipito… ma le gambe all’improvviso mi si piegano; mi cascano le braccia. – Ho con me il povero Tito, – mi fa Renzi, additandomi pietosamente il cognato. Tito Bindi, quello lí? Come! E chi avevo io dunque salutato per tre mesi, lungo le vie di Roma? Eccolo là, Tito… Ah Dio mio, in qual stato ridotto! – Tito, Tito… ma come?… tu… – balbetto. Tito mi butta le braccia al collo e scoppia in un pianto dirotto. Guardo Renzi a bocca aperta. Ma come? Perché? Mi sento impazzire. Renzi allora m’accenna con una mano alla fronte e sospira, chiudendo gli occhi. – Chi? lui, io o Tito? – Chi è il pazzo? – Su via, Tito, – esorta Renzi il cognato, – calmati! calmati! Aspetta un po’ qua, tieni d’occhio queste valige. Io vado con Pitagora a ritirare il baule. E, andando, mi narra sommariamente la storia miseranda del povero cognato, che da circa due anni e mezzo aveva preso moglie a Forlí: gli eran nati due bambini, uno dei quali, dopo quattro mesi, era accecato; questa disgrazia, l’impotenza di provvedere adeguatamente con l’arte sua ai bisogni della famiglia, le continue liti con la suocera e con la moglie sciocca ed egoista, gli avevano sconcertato il cervello. Ora Renzi lo conduceva a Roma per farlo visitare dai medici e divagarlo un po’. Se non avessi visto con gli occhi miei Tito ridotto in quello stato, avrei senza dubbio creduto che Renzi, come tant’altre volte, volesse farsi beffe di me. Tra lo stordimento e la pena, gli confesso allora l’equivoco in cui ero caduto, come io cioè, fino al giorno avanti, avessi salutato Tito, promesso sposo, per le vie di Roma. Renzi, non ostante la costernazione per il cognato, non può tenersi di ridere. – T’assicuro! – gli dico io. – Tal e quale! Proprio lui in persona! Da tre mesi ci salutiamo e ci sorridiamo: siamo divenuti amiconi! Ora, sí, ora noto la differenza. Ma perché Tito, poverino, sfido! non si riconosce piú. Io saluto ogni giorno, invece, Tito qual era prima che partisse per Forlí, tre anni or sono. Ma proprio lui, sai? Tito, Tito che guarda, Tito che parla, Tito che sorride, Tito che cammina, Tito che mi riconosce e mi saluta… Proprio lui! proprio lui! Figurati che impressione m’ha fatto rivederlo cosí, ora, dopo averlo veduto jeri, verso le quattro, felice e raggiante con la sposina accanto. La mia disdetta vuole, che di tutto quello che io sento nessuno mai debba o voglia tener conto. Renzi, com’ho detto, rideva, e, poco dopo, per distrarre il malato, gli volle raccontare questa bella avventura. Sentite ora che ne seguí. Quel poveretto rimase in prima stranamente stupito del mio abbaglio; ci lavorò su un pezzo con la fantasia, durante il tragitto dalla stazione all’albergo, e, alla fine, afferrandomi per braccio, con tanto d’occhi sbarrati, confitti nei miei, mi gridò: – Pitagora, hai ragione! Mi spaventai; mi provai a sorridergli: – Che vuoi dire, caro Tito? – Dico che hai ragione! – ripeté egli senza lasciarmi, con un brio di luce terribile negli occhi sempre piú sbarrati. – Non ti sei ingannato! Quello che tu saluti sono io. Proprio io, Pitagora, che non ho mai lasciato Roma! mai! mai! Chi dice il contrario, è mio nemico! Qua, qua, tu hai ragione, io sto qua, sempre, a Roma, giovane, libero, felice, come tu ogni giorno mi vedi e mi saluti. Caro mio Pitagora, ah, respiro! respiro! Che peso m’hai levato dal petto! Grazie, caro, grazie, grazie… Sono felice! felice! E, rivolgendosi al cognato: – Abbiamo fatto un brutto sogno, Quirino mio! Dammi, dammi un bacio! Sento il gallo cantare di nuovo nel mio vecchio studio di Roma! Pitagora qui presente te lo dice. È vero, Pitagora? è vero? ogni giorno tu m’incontri qua a Roma… E che faccio io a Roma? Dillo a Quirino. Faccio il pittore! Il pittore! E vendo, no? Se mi vedi che rido, vuol dire che ven. Chi è il pazzo?: il gioco degli equivoci suscita il dubbio su chi sia veramente folle, tra i tre personaggi.

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do! Ah… Va benone… Viva la gioventú! Scapolo, libero, felice… – E la sposina? – mi lasciai scappare disgraziatamente, senza avvertire che Renzi, per prudenza, poco fa, nel raccontargli l’equivoco, aveva tralasciato questo pericoloso particolare. Il volto di Tito s’abbujò a un tratto. Mi riafferrò questa volta per tutt’e due le braccia: – Che hai detto? Come! Prendo moglie? E guardò sbigottito il cognato. – Ma che! – gli faccio io, subito, per rimediare, a un cenno di Renzi. – Ma che, caro Tito! So bene che tu scherzi con quella marmottina! – Scherzo? Ah, scherzo, dici? – incalzò Tito, infuriandosi, stravolgendo gli occhi, agitando le pugna. – Dove sono? dove sto? dove mi vedi? Bastonami come un cane, se mi vedi scherzare con una donna! Non si scherza con le donne… Si comincia sempre cosí, Pitagora mio! E poi… e poi… Scoppiò di nuovo in pianto, coprendosi il volto con le mani. Invano io e Renzi cercammo di quietarlo, di consolarlo. – No, no! – ci rispondeva. – Se prendo moglie anche qui a Roma, sono rovinato! rovinato! Vedi come mi sono ridotto a Forlí, caro Pitagora? Salvami, salvami, per carità! A ogni costo bisogna impedirmelo! subito! Anche lí ho cominciato scherzando. E tremava tutto, come per brividi di febbre. – Ma se noi siamo qui per pochi giorni soltanto! – gli disse Renzi. – Il tempo di contrattare con due o tre signori per l’acquisto dei tuoi quadri, come s’era rimasti. Ce ne torneremo subito a Forlí. – E non gioverà a nulla! – rispose Tito, con un gesto disperato delle braccia. – Ce ne torneremo a Forlí, e Pitagora seguiterà pur sempre a vedermi qua a Roma! come vuoi che sia altrimenti? Vivo qua sempre a Roma, Quirino mio, anche standomene lí. Sempre a Roma, sempre a Roma, negli anni miei belli, scapolo, libero, felice, come appunto m’ha visto Pitagora jeri stesso, non è vero? Eppure jeri noi eravamo a Forlí: vedi che non dico bugie? Commosso, esasperato, Quirino Renzi scosse rabbiosamente la testa e strizzò gli occhi per frenar le lagrime. Finora la pazzia del cognato non gli s’era palesata in cosí disperate proporzioni. – Via, via, – rispose Tito, rivolgendosi a me: – andiamo, conducimi subito dove tu mi suoli vedere. Andiamo al mio studio, in via Sardegna! A quest’ora ci sarò, voglio sperare che a quest’ora non sarò dalla sposina! – Ma come! se sei qui con noi, Tito mio! – esclamai io sorridendo, con la speranza di richiamarlo in sé. – Dici sul serio? Non sai che io ho la specialità degli equivoci? Ho scambiato per te un signore che ti somiglia. – Sono io! Infame! Traditore!– mi gridò allora il povero pazzo, con gli occhi lampeggianti e con un gesto di minaccia. – Vedi questo pover’uomo? Io l’ho ingannato. Ho sposato senza dirgliene nulla. Ora tu vorresti forse ingannare anche me? Di’ la verità, sei d’accordo con lui? gli tieni mano? Vuoi farmi sposare di nascosto? Conducimi in via Sardegna… Già, so la via; ci vado da me! Per non farlo andar solo, fummo costretti ad accompagnarlo. Via facendo, gli dissi: – Scusa, ma non ricordi che non ci stai piú in via Sardegna? S’arrestò, perplesso, a questa mia osservazione; mi guardò un tratto, accigliato; poi disse: – E dove sto? Questo tu puoi saperlo meglio di me. – Io? Oh bella! Come vuoi che lo sappia, se non lo sai neanche tu? La risposta mi parve convincentissima, e tale da tenerlo fermo e inchiodato lí. Non sapevo che i cosí detti pazzi posseggono anch’essi quella complicatissima macchinetta cavapensieri che si chiama logica, in perfetta funzione, forse piú della nostra, in quanto, come la nostra, non si arresta mai, neppur di fronte alle piú inammissibili deduzioni. . macchinetta … deduzioni: motivo costante nell’opera di Pirandello è il richiamo alla razionalità della follia, la disponibilità a seguire il gioco di una

logica che smonta i meccanismi convenzionali, le sicurezze apparenti della ragione.

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Dopo tutto questo, avevo sí o no il diritto di credere che tutto fosse finito? Ebbene, nossignori. Ho ricevuto l’altro jeri – dopo circa due mesi dall’incontro che ho narrato – una cartolina firmata Ermanno Lèvera. Dice cosí: Caro signore, annunzi a quel tale Bindi che è stato obbedito. Non ho potuto piú dimenticarlo. M’è rimasto davanti come lo spettro del mio destino imminente. Ho sconcluso il matrimonio e parto domani per l’America. Suo ERMANNO LÈVERA. Ecco: se io non lo avessi salutato, povero giovine, scambiandolo per quell’altro, a quest’ora, chi sa! egli potrebbe essere un marito felice… chi sa! Tutto può darsi a questo mondo, anche certi miracoli. Ma penso che se l’incontro con quell’altro poté su lui tanto, da produrre un tale effetto, anch’egli dovette credere d’incontrar nel Bindi se stesso, quale sarebbe stato fra tre anni. E fino a prova contraria non posso in coscienza asserire che questo signor Lèvera sia anche lui pazzo. M’aspetto intanto che uno di questi giorni mi capiti la visita della sposina abbandonata e della mancata suocera. Le spedisco tutt’e due a Forlí, parola d’onore. Chi sa che non si riconosceranno anche loro nella moglie e nella suocera del povero Tito Bindi. Ormai pare anche a me, che siano tutti, realmente, una cosa sola, con soltanto quel bambino cieco in piú, che qua, se Dio vuole, non nascerà, se è vero che questo signor Lèvera è partito jeri per l’America.

. sconcluso: rotto, mandato a monte.

La tragedia d’un personaggio Questa novella, di fondamentale interesse per lo svolgersi della teoria pirandelliana del personaggio, che approderà alla grande invenzione dei Sei personaggi in cerca d’autore, apparve sul «Corriere della sera» del 19 ottobre 1911, fu poi raccolta in La trappola, 1915, e successivamente in L’uomo solo, 1922, come novella conclusiva. Tra le molte suggestioni da cui deriva questa teoria del personaggio gioca un ruolo particolare la lettura di alcuni testi di teosofi tardoottocenteschi (la teosofia mirava alla conoscenza della divinità e delle forze spirituali presenti nel cosmo): e in un passo poi soppresso della prima redazione de Il fu Mattia Pascal si faceva riferimento a una teoria (ricavata da un libro di Charles Webster Leadbeater, The Astral Plane, “Il piano astrale”, del 1897) secondo cui pensieri e desideri degli uomini produrrebbero degli «esseri viventi», la cui presenza tenderebbe a provocare di continuo «la ripetizione dell’idea, del desiderio ch’essi rappresentano» (ciascun desiderio si trasformerebbe cosí in un «camerata invisibile», sempre vicino a chi ne è posseduto). Nella novella questa teoria degli spiriti si trasforma nella visione del personaggio come dotato di un’esistenza propria, di cui si possono ritrovare altri numerosi precedenti letterari (tra cui si può vedere la novella di Capuana Conclusione, T9.4). Lo scrittore è solito dare udienza ai personaggi (motivo su cui si era già costruita una novella del 1906, Personaggi, rimasta fuori dalle No-

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velle per un anno). I personaggi affollano lo studio dello scrittore, presentando la propria storia e chiedendo di essere accolti nelle sue novelle, di essere trasformati da fantasmi in personaggi vivi. Con atteggiamento umoristico, l’autore mostra un sottile distacco critico nei confronti della pretesa che tutti i personaggi hanno di imporre la propria storia: e mentre essi rivendicano la serietà, l’autenticità della propria pena, egli non può fare a meno di mettere in luce gli aspetti ridicoli di quella loro pretesa di farsi avanti a tutti i costi. Gran parte della novella è dedicata a un personaggio particolare, il dottor Fileno, che Pirandello immagina abbozzato insufficientemente dal romanzo di un altro autore, che egli ha letto nella notte. La domenica mattina successiva a quella lettura, il personaggio si presenta all’udienza di Pirandello, manifestando l’«orrore» della propria tragedia, costituita dalla violenza che ha subito dall’autore che non ha saputo realizzarlo in tutto il suo significato, e reclamando una realizzazione artistica piú adeguata. Nella prospettiva umoristica della novella si danno già le linee di quel conflitto insanabile da cui scaturiranno i Sei personaggi, tra la volontà di essere del personaggio, la vita che esso pretende di imporre in tutta la sua autenticità, e l’azione dell’autore, che deve confrontarsi con quella vita, fissarla nella scrittura, imporle una forma artistica. Un altro motivo di interesse della novella è dato dalla visione del mondo attribuita al dottor Fileno: la sua filosofia del lontano (che consiste nel vedere anche il presente come da lontano, nella stessa distanza del passato) e la sua teoria del cannocchiale rivoltato offrono tra le immagini piú essenziali della poetica umoristica di Pirandello, del processo di distanziamento della realtà che essa comporta. E alla fine l’autore stesso invita il personaggio a usare il metodo del cannocchiale rivoltato anche nei confronti della propria esperienza, di quella propria invadente volontà di essere realizzato fino in fondo: il metodo umoristico si pone cosí per Pirandello anche come difesa nei confronti di questa invadenza dei personaggi, di questa minaccia che tante vite non vissute, che tanti fantasmi della piú diversa origine sembrano portare alla sua esperienza di scrittore.

È mia vecchia abitudine dare udienza, ogni domenica mattina, ai personaggi delle mie future novelle. Cinque ore, dalle otto alle tredici. M’accade quasi sempre di trovarmi in cattiva compagnia. Non so perché, di solito accorre a queste mie udienze la gente piú scontenta del mondo, o afflitta da strani mali, o ingarbugliata in speciosissimi casi, con la quale è veramente una pena trattare. Io ascolto tutti con sopportazione; li interrogo con buona grazia; prendo nota de’ nomi e delle condizioni di ciascuno; tengo conto de’ loro sentimenti e delle loro aspirazioni. Ma bisogna anche aggiungere che per mia disgrazia non sono di facile contentatura. Sopportazione, buona grazia, sí; ma esser gabbato non mi piace. E voglio penetrare in fondo al loro animo con lunga e sottile indagine. Ora avviene che a certe mie domande piú d’uno aombri e s’impunti e recalcitri furiosamente, perché forse gli sembra ch’io provi gusto a scomporlo dalla serietà con cui mi s’è presentato. Con pazienza, con buona grazia m’ingegno di far vedere e toccar con mano, che la mia domanda non è superflua, perché si fa presto a volerci in un modo o in un altro; tutto sta poi se possiamo essere quali ci vogliamo. Ove quel potere manchi, per forza questa volontà deve apparire ridicola e vana. Non se ne vogliono persuadere. E allora io, che in fondo sono di buon cuore, li compatisco. Ma è mai possibile il compatimento di certe sventure, se non a patto che se ne rida? . aombri: si adombri. . scomporlo: secondo il principio della scomposi-

zione, tipico dell’umorismo.

L’umorismo e i personaggi

Il «cannocchiale rivoltato»

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Orbene, i personaggi delle mie novelle vanno sbandendo per il mondo, che io sono uno scrittore crudelissimo e spietato. Ci vorrebbe un critico di buona volontà, che facesse vedere quanto compatimento sia sotto a quel riso. Ma dove sono oggi i critici di buona volontà? È bene avvertire che alcuni personaggi, in queste udienze, balzano davanti agli altri e s’impongono con tanta petulanza e prepotenza, ch’io mi vedo costretto qualche volta a sbrigarmi di loro lí per lí. Parecchi di questa lor furia poi si pentono amaramente e mi si raccomandano per avere accomodato chi un difetto e chi un altro. Ma io sorrido e dico loro pacatamente che scontino ora il loro peccato originale e aspettino ch’io abbia tempo e modo di ritornare ad essi. Tra quelli che rimangono indietro in attesa, sopraffatti, chi sospira, chi s’oscura, chi si stanca e se ne va a picchiare alla porta di qualche altro scrittore. Mi è avvenuto non di rado di ritrovare nelle novelle di parecchi miei colleghi certi personaggi, che prima s’erano presentati a me; come pure m’è avvenuto di ravvisarne certi altri, i quali, non contenti del modo com’io li avevo trattati, han voluto provare di fare altrove miglior figura. Non me ne lagno, perché solitamente di nuovi me ne vengon davanti due e tre per settimana. E spesso la ressa è tanta, ch’io debbo dar retta a piú d’uno contemporaneamente. Se non che, a un certo punto, lo spirito cosí diviso e frastornato si ricusa a quel doppio o triplo allevamento e grida esasperato che, o uno alla volta, piano piano, riposatamente, o via nel limbo tutt’e tre! Ricordo sempre con quanta remissione aspettò il suo turno un povero vecchietto arrivatomi da lontano, un certo maestro Icilio Saporini, spatriato in America nel , alla caduta della Repubblica Romana, per aver musicato non so che inno patriottico, e ritornato in Italia dopo quarantacinque anni, quasi ottantenne, per morirvi. Cerimonioso, col suo vocino di zanzara, lasciava passar tutti innanzi a sé. E finalmente un giorno ch’ero ancor convalescente d’una lunga malattia, me lo vidi entrare in camera, umile umile, con un timido risolino su le labbra: – Se posso… Se non le dispiace… Oh sí, caro vecchietto! Aveva scelto il momento piú opportuno. E lo feci morire subito subito in una novelletta intitolata Musica vecchia. Quest’ultima domenica sono entrato nello scrittojo, per l’udienza, un po’ piú tardi del solito. Un lungo romanzo inviatomi in dono, e che aspettava da piú d’un mese d’esser letto, mi tenne sveglio fino alle tre del mattino per le tante considerazioni che mi suggerí un personaggio di esso, l’unico vivo tra molte ombre vane. Rappresentava un pover uomo, un certo dottor Fileno, che credeva d’aver trovato il piú efficace rimedio a ogni sorta di mali, una ricetta infallibile per consolar se stesso e tutti gli uomini d’ogni pubblica o privata calamità.

. sbandendo: gridando dappertutto (dal siciliano sbanniri). . crudelissimo … buona volontà?: l’accusa di crudeltà e spietatezza nei confronti di Pirandello era ricorrente presso i critici contemporanei, contro i quali si rivolgono polemicamente queste battute. . per avere … un altro: in modo che siano riparati i loro diversi difetti. . si ricusa … allevamento: si ricusa di nutrirne

contemporaneamente due o tre: l’immagine consegue alla concezione che Pirandello ha dell’opera d’arte, come germe che emana dalla vita e viene generato e nutrito dalla fantasia dell’autore. . nel limbo: nella condizione di una vita sospesa, non realizzata. . remissione: remissività. . Icilio Saporini: protagonista della novella del  Musica vecchia.

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Veramente, piú che rimedio o ricetta, era un metodo, questo del dottor Fileno, che consisteva nel leggere da mane a sera libri di storia e nel veder nella storia anche il presente, cioè come già lontanissimo nel tempo e impostato negli archivii del passato. Con questo metodo s’era liberato d’ogni pena e d’ogni fastidio, e aveva trovato – senza bisogno di morire – la pace: una pace austera e serena, soffusa di quella certa mestizia senza rimpianto, che serberebbero ancora i cimiteri su la faccia della terra, anche quando tutti gli uomini vi fossero morti. Non si sognava neppure, il dottor Fileno, di trarre dal passato ammaestramenti per il presente. Sapeva che sarebbe stato tempo perduto, e da sciocchi; perché la storia è composizione ideale d’elementi raccolti secondo la natura, le antipatie, le simpatie, le aspirazioni, le opinioni degli storici, e che non è dunque possibile far servire questa composizione ideale alla vita che si muove con tutti i suoi elementi ancora scomposti e sparpagliati. E nemmeno si sognava di trarre dal presente norme o previsioni per l’avvenire; anzi faceva proprio il contrario: si poneva idealmente nell’avvenire per guardare il presente, e lo vedeva come passato. Gli era morta, per esempio, da pochi giorni una figliuola. Un amico era andato a trovarlo per condolersi con lui della sciagura. Ebbene, lo aveva trovato già cosí consolato, come se quella figliuola gli fosse morta da piú che cent’anni. La sua sciagura, ancor calda calda, l’aveva senz’altro allontanata nel tempo, respinta e composta nel passato. Ma bisognava vedere da quale altezza e con quanta dignità ne parlava! In somma, di quel suo metodo il dottor Fileno s’era fatto come un cannocchiale rivoltato. Lo apriva, ma non per mettersi a guardare verso l’avvenire, dove sapeva che non avrebbe veduto niente; persuadeva l’anima a esser contenta di mettersi a guardare dalla lente piú grande, attraverso la piccola, appuntata al presente, per modo che tutte le cose subito le apparissero piccole e lontane. E attendeva da varii anni a comporre un libro, che avrebbe fatto epoca certamente: La filosofia del lontano. Durante la lettura del romanzo m’era apparso manifesto che l’autore, tutto inteso ad annodare artificiosamente una delle trame piú solite, non aveva saputo assumere intera coscienza di questo personaggio, il quale, contenendo in sé, esso solo, il germe d’una vera e propria creazione, era riuscito a un certo punto a prender la mano all’autore e a stagliarsi per un lungo tratto con vigoroso rilievo su i comunissimi casi narrati e rappresentati; poi, all’improvviso, sformato e immiserito, s’era lasciato piegare e adattare alle esigenze d’una falsa e sciocca soluzione. Ero rimasto a lungo, nel silenzio della notte, con l’immagine di questo personaggio davanti agli occhi, a fantasticare. Peccato! C’era tanta materia in esso, da trarne fuori un capolavoro! Se l’autore non lo avesse cosí indegnamente misconosciuto e trascurato, se avesse fatto di lui il centro della narrazione, anche tutti quegli elementi artificiosi di cui s’era valso, si sarebbero forse trasformati, sarebbero diventati subito vivi anch’essi. E una gran pena e un gran dispetto s’erano impadroniti di me per quella vita miseramente mancata. Ebbene, quella mattina, entrando tardi nello scrittojo, vi trovai un insolito scompiglio, perché quel dottor Fileno s’era già cacciato in mezzo ai miei personaggi aspettanti, i quali, adirati e indispettiti, gli erano saltati addosso e cercavano di cacciarlo via, di strapparlo indietro.

. nel leggere … del passato: è la filosofia del lontano, già presentata da Pirandello in una prosa del , Da lontano, come invenzione di un certo Paulo Post. . Sapeva … come passato: Fileno rovescia tutte le prospettive correnti (ai suoi tempi come oggi, un secolo dopo) sull’uso della storia e sul rapporto tra

presente e futuro: sa che la storia non insegna nulla (non è magistra vitae), ma è solo una costruzione degli storici, determinata dai loro diversi punti di vista, e rifiuta di trarre dal presente ipotesi sul futuro; se guarda al futuro, è solo per vedere il presente come passato.

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– Ohé! – gridai. – Signori miei, che modo è codesto? Dottor Fileno, io ho già sprecato con lei troppo tempo. Che vuole da me? Lei non m’appartiene. Mi lasci attendere in pace adesso a’ miei personaggi, e se ne vada. Una cosí intensa e disperata angoscia si dipinse sul volto del dottor Fileno, che subito tutti quegli altri (i miei personaggi che ancora stavano a trattenerlo) impallidirono mortificati e si ritrassero. – Non mi scacci, per carità, non mi scacci! Mi accordi cinque soli minuti d’udienza, con sopportazione di questi signori, e si lasci persuadere, per carità! Perplesso e pur compreso di pietà, gli domandai: – Ma persuadere di che? Sono persuasissimo che lei, caro dottore, meritava di capitare in migliori mani. Ma che cosa vuole ch’io le faccia? Mi son doluto già molto della sua sorte; ora basta. – Basta? Ah, no, perdio! – scattò il dottor Fileno con un fremito d’indignazione per tutta la persona. – Lei dice cosí perché non son cosa sua! La sua noncuranza, il suo disprezzo mi sarebbero, creda, assai meno crudeli, che codesta passiva commiserazione, indegna d’un artista, mi scusi! Nessuno può sapere meglio di lei, che noi siamo esseri vivi, piú vivi di quelli che respirano e vestono panni; forse meno reali, ma piú veri! Si nasce alla vita in tanti modi, caro signore; e lei sa bene che la natura si serve dello strumento della fantasia umana per proseguire la sua opera di creazione. E chi nasce mercé quest’attività creatrice che ha sede nello spirito dell’uomo, è ordinato da natura a una vita di gran lunga superiore a quella di chi nasce dal grembo mortale d’una donna. Chi nasce personaggio, chi ha la ventura di nascere personaggio vivo, può infischiarsi anche della morte, Non muore piú! Morrà l’uomo, lo scrittore, strumento naturale della creazione; la creatura non muore piú! E per vivere eterna, non ha mica bisogno di straordinarie doti o di compiere prodigi. Mi dica lei chi era Sancho Panza! Mi dica lei chi era don Abbondio! Eppure vivono eterni perché – vivi germi – ebbero la ventura di trovare una matrice feconda, una fantasia che li seppe allevare e nutrire per l’eternità. – Ma sí, caro dottore: tutto questo sta bene, – gli dissi, – Ma non vedo ancora che cosa ella possa volere da me. – Ah no? non vede? – fece il dottor Fileno. – Ho forse sbagliato strada? Sono caduto per caso nel mondo della Luna? Ma che razza di scrittore è lei, scusi? Ma dunque sul serio lei non comprende l’orrore della tragedia mia? Avere il privilegio inestimabile di esser nato personaggio, oggi come oggi, voglio dire oggi che la vita materiale è cosí irta di vili difficoltà che ostacolano, deformano, immiseriscono ogni esistenza; avere il privilegio di esser nato personaggio vivo, ordinato dunque, anche nella mia piccolezza, all’immortalità, e sissignore, esser caduto in quelle mani, esser condannato a perire iniquamente, a soffocare in quel mondo d’artifizio, dove non posso né respirare né dare un passo, perché è tutto finto, falso, combinato, arzigogolato! Parole e carta! Carta e parole! Un uomo, se si trova avviluppato in condizioni di vita a cui non possa o non sappia adattarsi, può scapparsene, fuggire; ma un povero personaggio, no: è lí fissato, inchiodato a un martirio senza fine! Aria! aria! vita! Ma guardi… Fileno… mi ha messo nome Fileno… Le pare sul serio che io mi possa chiamar Fileno? Imbecille, imbecille! Neppure il nome ha saputo darmi! Io, Fileno! E poi, già, io, io, l’autore della Filosofia del lontano, proprio io dovevo andare a finire in

. Sancho Panza … don Abbondio: i personaggi del Don Chisciotte e de I Promessi Sposi sono tra quelli piú spesso citati da Pirandello, come grandi esempi di rappresentazione umoristica. . per l’eternità: in tutto il discorso del dottor Fileno si esplicita piú direttamente quella concezione dell’opera d’arte come vita fecondata dalla fantasia dell’artista a cui si è accennato alla nota :

proprio questo processo fa sí che i personaggi che ne risultano (tutti i grandi personaggi della letteratura) vivano di vita propria, al di là dei limiti della vita dell’autore. Gran parte di questi passi (a partire da che noi siamo esseri vivi) sarà direttamente ripreso nei Sei personaggi: cfr. pp.  e . . ordinato: destinato.

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quel modo indegno per sciogliere tutto quello stupido garbuglio di casi là! Dovevo sposarla io, è vero? in seconde nozze quell’oca di Graziella, invece del notajo Negroni! Ma mi faccia il piacere! Questi sono delitti, caro signore, delitti che si dovrebbero scontare a lagrime di sangue! Ora, invece, che avverrà? Niente. Silenzio. O forse qualche stroncatura in due o tre giornaletti. Forse qualche critico esclamerà: «Quel povero dottor Fileno, peccato! Quello sí era un buon personaggio!». E tutto finirà cosí. Condannato a morte, io, l’autore della Filosofia del lontano, che quell’imbecille non ha trovato modo neanche di farmi stampare a mie spese! Eh già, se no, sfido! come avrei potuto sposare in seconde nozze quell’oca di Graziella? Ah, non mi faccia pensare! Su, su, all’opera, all’opera, caro signore! Mi riscatti lei, subito subito! mi faccia viver lei che ha compreso bene tutta la vita che è in me! A questa proposta avventata furiosamente come conclusione del lunghissimo sfogo, restai un pezzo a mirare in faccia il dottor Fileno. – Si fa scrupolo? – mi domandò, scombujandosi. – Si fa scrupolo? Ma è legittimo, legittimo, sa! È suo diritto sacrosanto riprendermi e darmi la vita che quell’imbecille non ha saputo darmi. È suo e mio diritto, capisce? – Sarà suo diritto, caro dottore, – risposi, – e sarà anche legittimo, come lei crede. Ma queste cose, io non le faccio. Ed è inutile che insista. Non le faccio. Provi a rivolgersi altrove. – E a chi vuole che mi rivolga, se lei… – Ma io non so! Provi. Forse non stenterà molto a trovarne qualcuno perfettamente convinto della legittimità di codesto diritto. Se non che, mi ascolti un po’, caro dottor Fileno. È lei, sí o no, veramente l’autore della Filosofia del lontano? – E come no? – scattò il dottor Fileno, tirandosi un passo indietro e recandosi le mani al petto. Oserebbe metterlo in dubbio? Capisco, capisco! E sempre per colpa di quel mio assassino! Ha dato appena appena e in succinto, di passata, un’idea delle mie teorie, non supponendo neppure lontanamente tutto il partito che c’era da trarre da quella mia scoperta del cannocchiale rivoltato! Parai le mani per arrestarlo, sorridendo e dicendo: – Va bene… va bene… ma, e lei, scusi? – Io? come, io? – Si lamenta del suo autore; ma ha saputo lei, caro dottore, trar partito veramente della sua teoria? Ecco, volevo dirle proprio questo. Mi lasci dire. Se Ella crede sul serio, come me, alla virtú della sua filosofia, perché non la applica un po’, al suo caso? Ella va cercando, oggi, tra noi, uno scrittore che la consacri all’immortalità? Ma guardi a ciò che dicono di noi poveri scrittorelli contemporanei tutti i critici piú ragguardevoli. Siamo e non siamo, caro dottore! E sottoponga, insieme con noi, al suo famoso cannocchiale rivoltato i fatti piú notevoli, le questioni piú ardenti e le piú mirabili opere dei giorni nostri. Caro il mio dottore, ho gran paura ch’Ella non vedrà piú niente né nessuno. E dunque, via, si consoli, o piuttosto, si rassegni, e mi lasci attendere a’ miei poveri personaggi, i quali, saranno cattivi, saranno scontrosi, ma non hanno almeno la sua stravagante ambizione. . dovevo andare … Negroni: allusioni alla trama del presunto romanzo di cui Fileno è personaggio. . Si fa scrupolo?: lo scrupolo di far proprio un

personaggio inventato da un altro, cosa che invece Fileno ritiene legittima. . scombujandosi: rabbuiandosi.

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GUERRE E FASCISMO

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Il treno ha fischiato…

La ribellione di Belluca

Il fischio del treno, segnale «epifanico» della vita

La «follia» di Belluca

L’impossibilità di uscire dalla realtà se non nella follia

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Apparsa sul «Corriere della sera» del 22 febbraio 1914, raccolta poi in La trappola, 1915, e successivamente in L’uomo solo, 1922, questa novella presenta la vicenda di un personaggio, Belluca, che esce fuori dal cerchio di una squallida e insopportabile vita quotidiana, dagli umilianti rapporti che vive nell’ufficio in cui è computista e nella sua singolare situazione familiare, con atti e gesti che vengono presi per follia. La liberazione di Belluca si dà con l’avvertimento improvviso di una vita diversa, di un mondo lontano, annunciato da un semplice fischio di treno nella notte: questo fischio lo mette in comunicazione con una realtà sotterranea e segreta, con qualcosa che la vista consueta non permette di vedere. Belluca è stato sempre in rapporto con la cecità: legato al suo lavoro come una bestia bendata; costretto in casa a servire ben tre cieche. E si può notare che a liberarlo da questa minaccia della cecità (presente in modo ossessivo in tutta l’opera di Pirandello: qui si può vedere la novella La disdetta di Pitagora, pp. 599-604) contribuisce il senso dell’udito («Gli era parso che gli orecchi, dopo tant’anni, chi sa come, d’improvviso gli si fossero sturati.»). Il fischio del treno si pone, nell’orizzonte di una umile e limitatissima esistenza piccolo-borghese come quella di Belluca, come uno di quei segnali «epifanici» tanto cercati dalla cultura dell’inizio del Novecento: segnali spesso minimi e marginali che arrivano a svelare la realtà piú profonda e segreta, a sconvolgere la banalità quotidiana con il respiro autentico della vita. Il richiamo di questi segnali di un mondo «altro», che costituisce uno dei temi piú insistenti dell’opera di Pirandello, troverà la sua piú distesa manifestazione nel finale del romanzo Uno, nessuno e centomila: ma la loro forza dirompente è qui attenuata dal ristretto orizzonte di Belluca e dal modo in cui la sua vicenda viene narrata. Il personaggio viene subito presentato in condizione di follia, con il predicato senza soggetto che apre la novella (Farneticava) e attraverso i commenti dei suoi compagni d’ufficio, che costituiscono una sorta di coro che dà le prime informazioni su di lui: a questo coro si sostituisce man mano il narratore, raccontando come un narratore esterno alla vicenda la strana giornata passata da Belluca in ufficio prima del suo ricovero in manicomio: ma poi improvvisamente (a partire da «Chi venne a riferirmele…», a p. 612) il narratore interviene in prima persona, mostrando di conoscere personalmente il personaggio, riferendo della sua triste condizione familiare (che gli fa considerare una cosa naturalissima quanto accaduto) e della visita che gli ha fatto in manicomio. Solo a questo punto, in discorso indiretto libero (riferendo indirettamente quanto Belluca racconta di sé) si narra l’evento che ha scatenato quella follia, l’ascolto improvviso del fischio del treno nella notte. E alla fine emerge il proposito del povero impiegato di ritornare a una parziale normalità, accontentandosi, nelle pause del lavoro di ufficio, di brevi fantasticherie di evasione verso mondi per lui improbabili (la Siberia, il Congo), senza poter realmente mettere in discussione quel suo mondo reale, da cui in definitiva è per lui impossibile uscire, se non nello stravolgimento della follia: e resta ambigua, sospesa sul limite della follia, la frase finale che egli immagina di rivolgere al suo capufficio.

Farneticava. Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni d’ufficio, che ritornavano a due, a tre, dall’ospizio, ov’erano stati a visitarlo. Pareva provassero un gusto particolare a darne l’annunzio coi termini scientifici, appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che incontravano per via: – Frenesia, frenesia. – Encefalite. – Infiammazione della membrana. – Febbre cerebrale. . febbre cerebrale: encefalite. . ospizio: manicomio. Si noti come i colleghi d’ufficio si divertono a ripetere diversi termini scienti-

fici che motivano la malattia mentale. . Infiammazione della membrana: meningite.

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E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo cosí contenti, anche per quel dovere compiuto; nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospizio al gajo azzurro della mattinata invernale. – Morrà? Impazzirà? – Mah! – Morire, pare di no… – Ma che dice? che dice? – Sempre la stessa cosa. Farnetica… – Povero Belluca! E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui quell’infelice viveva da tant’anni, il suo caso poteva anche essere naturalissimo; e che tutto ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio, sintomo della frenesia, poteva anche essere la spiegazione piú semplice di quel suo naturalissimo caso. Veramente, il fatto che Belluca, la sera avanti, s’era fieramente ribellato al suo capo-ufficio, e che poi, all’aspra riprensione di questo, per poco non gli s’era scagliato addosso, dava un serio argomento alla supposizione che si trattasse d’una vera e propria alienazione mentale. Perché uomo piú mansueto e sottomesso, piú metodico e paziente di Belluca non si sarebbe potuto immaginare. Circoscritto… sí, chi l’aveva definito cosí? Uno dei suoi compagni d’ufficio. Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida mansione di computista, senz’altra memoria che non fosse di partite aperte, di partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e impostazioni; note, libri-mastri, partitarii, stracciafogli e via dicendo. Casellario ambulante: o piuttosto, vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d’un passo, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di paraocchi. Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, cosí per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire un po’, a fargli almeno almeno drizzare un po’ le orecchie abbattute, se non a dar segno che volesse levare un piede per sparar qualche calcio. Niente! S’era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non le sentisse piú, avvezzo com’era da anni e anni alle continue solenni bastonature della sorte. Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come effetto d’una improvvisa alienazione mentale. Tanto piú che, la sera avanti, proprio gli toccava la riprensione; proprio aveva il diritto di fargliela, il capo-ufficio. Già s’era presentato, la mattina, con un’aria insolita, nuova; e – cosa veramente enorme, paragonabile, che so? al crollo d’una montagna – era venuto con piú di mezz’ora di ritardo. Pareva che il viso, tutt’a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i paraocchi gli fossero tutt’a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d’improvviso all’intorno lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi tutt’a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci, suoni non avvertiti mai. Cosí ilare, d’una ilarità vaga e piena di stordimento, s’era presentato all’ufficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente. La sera, il capo-ufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri, le carte: – E come mai? Che hai combinato tutt’oggi? Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un’aria d’impudenza, aprendo le mani. – Che significa? – aveva allora esclamato il capo-ufficio, accostandoglisi e prendendolo per una spalla e scrollandolo. – Ohé, Belluca! . riprensione: rimprovero. . Circoscritto: limitato, costretto. . partite aperte … via dicendo: ancora un elenco di termini tecnici, ora riferiti al monotono lavoro

contabile di Belluca. . Casellario ambulante: archivio vivente. . imbizzire: irritare.

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GUERRE E FASCISMO

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– Niente, – aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d’impudenza e d’imbecillità su le labbra. – Il treno, signor Cavaliere. – Il treno? Che treno? – Ha fischiato. – Ma che diavolo dici? – Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L’ho sentito fischiare… – Il treno? – Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia… Oppure oppure… nelle foreste del Congo… Si fa in un attimo, Signor Cavaliere! Gli altri impiegati, alle grida del capo-ufficio imbestialito, erano entrati nella stanza e, sentendo parlare cosí Belluca, giú risate da pazzi. Allora il capo-ufficio – che quella sera doveva essere di malumore – urtato da quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato la mansueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli. Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti, s’era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del treno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non piú, ora ch’egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva piú, non voleva piú esser trattato a quel modo. Lo avevano a viva forza preso, imbracato e trascinato all’ospizio dei matti. Seguitava ancora, qua, a parlare di quel treno. Ne imitava il fischio. Oh, un fischio assai lamentoso, come lontano, nella notte; accorato. E, subito dopo, soggiungeva: – Si parte, si parte… Signori, per dove? per dove? E guardava tutti con occhi che non erano piú i suoi. Quegli occhi, di solito cupi, senza lustro, aggrottati, ora gli ridevano lucidissimi, come quelli d’un bambino o d’un uomo felice; e frasi senza costrutto gli uscivano dalle labbra. Cose inaudite; espressioni poetiche, immaginose, bislacche, che tanto piú stupivano, in quanto non si poteva in alcun modo spiegare come, per qual prodigio, fiorissero in bocca a lui, cioè a uno che finora non s’era mai occupato d’altro che di cifre e registri e cataloghi, rimanendo come cieco e sordo alla vita: macchinetta di computisteria. Ora parlava di azzurre fronti di montagne nevose, levate al cielo; parlava di viscidi cetacei che, voluminosi, sul fondo dei mari, con la coda facevan la virgola. Cose, ripeto, inaudite. Chi venne a riferirmele insieme con la notizia dell’improvvisa alienazione mentale rimase però sconcertato, non notando in me, non che meraviglia, ma neppur una lieve sorpresa. Difatti io accolsi in silenzio la notizia. E il mio silenzio era pieno di dolore. Tentennai il capo, con gli angoli della bocca contratti in giú, amaramente, e dissi: – Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri che non è impazzito. Qualche cosa dev’essergli accaduta; ma naturalissima. Nessuno se la può spiegare, perché nessuno sa bene come quest’uomo ha vissuto finora. Io che lo so, son sicuro che mi spiegherò tutto naturalissimamente, appena l’avrò veduto e avrò parlato con lui. Cammin facendo verso l’ospizio ove il poverino era stato ricoverato, seguitai a riflettere per conto mio: «A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè una vita “impossibile”, la cosa piú ovvia, l’incidente piú comune, un qualunque lievissimo inciampo impreveduto, che so io, d’un ciottolo per via, possono produrre effetti straordinarii, di cui nessuno si può dar la . imbracato: legato con la camicia di forza. . senza lustro: senza luce, opachi. . azzurre fronti … la virgola: i corsivi sottolineano le inaspettate formule poetiche usate improvvi-

samente da Belluca, rivolte agli opposti orizzonti della montagna e del mare (la metafora del far la virgola si riferisce alle curve fatte dalle code dei cetacei).

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

spiegazione, se non pensa appunto che la vita di quell’uomo è “impossibile”. Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara. Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per se stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà piú tale; ma quale dev’essere, appartenendo a quel mostro. «Una coda naturalissima.» Non avevo veduto mai un uomo vivere come Belluca. Ero suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri inquilini della casa si domandavano con me come mai quell’uomo potesse resistere in quelle condizioni di vita. Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera: queste due, vecchissime, per cataratta; l’altra, la moglie, senza cataratta, cieca fissa; palpebre murate. Tutt’e tre volevano esser servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché nessuno le serviva. Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti, l’una con quattro, l’altra con tre figliuoli, non avevano mai né tempo né voglia da badare ad esse; se mai, porgevano qualche ajuto alla madre soltanto. Con lo scarso provento del suo impieguccio di computista poteva Belluca dar da mangiare a tutte quelle bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, in casa: carte da ricopiare. E ricopiava tra gli strilli indiavolati di quelle cinque donne e di quei sette ragazzi finché essi, tutt’e dodici, non trovavan posto nei tre soli letti della casa. Letti ampii, matrimoniali; ma tre. Zuffe furibonde, inseguimenti, mobili rovesciati, stoviglie rotte, pianti, urli, tonfi, perché qualcuno dei ragazzi, al bujo, scappava e andava a cacciarsi fra le tre vecchie cieche, che dormivano in un letto a parte, e che ogni sera litigavano anch’esse tra loro, perché nessuna delle tre voleva stare in mezzo e si ribellava quando veniva la sua volta. Alla fine, si faceva silenzio, e Belluca seguitava a ricopiare fino a tarda notte, finché la penna non gli cadeva di mano e gli occhi non gli si chiudevano da sé. Andava allora a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato, e subito sprofondava in un sonno di piombo, da cui ogni mattina si levava a stento, piú intontito che mai. Ebbene, signori: a Belluca, in queste condizioni, era accaduto un fatto naturalissimo. Quando andai a trovarlo all’ospizio, me lo raccontò lui stesso, per filo e per segno. Era, sí, ancora esaltato un po’, ma naturalissimamente, per ciò che gli era accaduto. Rideva dei medici e degli infermieri e di tutti i suoi colleghi, che lo credevano impazzito. – Magari! – diceva. – Magari! Signori, Belluca, s’era dimenticato da tanti e tanti anni – ma proprio dimenticato – che il mondo esisteva. Assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto tutto il giorno nei conti del suo ufficio, senza mai un momento di respiro, come una bestia bendata, aggiogata alla stanga d’una nòria o d’un molino, sissignori, s’era dimenticato da anni e anni – ma proprio dimenticato – che il mondo esisteva. Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per l’eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d’addormentarsi subito. E, d’improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare un treno.

. Chi veda … naturalissima.»: con la metafora della coda (che riecheggia l’immagine della coda dei cetacei usata sopra da Belluca) il narratore si riferisce all’improvviso scatto di follia del personaggio, che sono effetti straordinarii di quella vita impossibile: se quella vita è il mostro, di cui quello scatto, non piú sorprendente, ma piú che natura-

le, è appunto la coda. . cataratta: malattia degli occhi, con perdita di trasparenza del cristallino. . computista: contabile. . nòria: macchina per sollevare liquidi o materiali terrosi, messa in moto da animali bendati costretti a girare continuamente in tondo.

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Gli era parso che gli orecchi, dopo tant’anni, chi sa come, d’improvviso gli si fossero sturati. Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d’un tratto la miseria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s’era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt’intorno. S’era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s’allontanava nella notte. C’era, ah! c’era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c’era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s’avviava… Firenze, Bologna, Torino, Venezia… tante città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sí, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr’egli qua, come una bestia bendata, girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato piú! Il mondo s’era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell’arida, ispida angustia della sua computisteria… Ma ora, ecco, gli rientrava, come per travaso violento, nello spirito. L’attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l’immaginazione d’improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari… Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C’erano, mentr’egli qua viveva questa vita «impossibile», tanti e tanti milioni d’uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch’egli qua soffriva, c’erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti… Sí, sí, le vedeva, le vedeva, le vedeva cosí… c’erano gli oceani… e foreste… E, dunque, lui – ora che il mondo gli era rientrato nello spirito – poteva in qualche modo consolarsi! Sí, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l’immaginazione una boccata d’aria nel mondo. Gli bastava! Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S’era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d’un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era ancora ebro della troppa troppa aria, lo sentiva. Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capo-ufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capo-ufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l’altra da registrare, egli facesse una capatina, sí, in Siberia… oppure oppure… nelle foreste del Congo: – Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato…

Una giornata

La casualità di una nascita

La novella, che sembra voler riassumere in sé, in uno scorcio di eccezionale tensione, l’intero percorso della vita e dell’opera di Pirandello, apparve sul «Corriere della sera» del 24 settembre 1935, prima di essere collocata alla fine della raccolta postuma che reca il suo stesso titolo, Una giornata. Il discorso in prima persona si svolge come in un’autobiografia condensata, prendendo avvio da due brevi periodi in forma nominale, che sembrano escludere ogni azione da parte del soggetto, che poi, nel corso del racconto, viene come costretto e trascinato a un agire che appare sempre involontario, determinato da altri. Si parla di un’espulsione da una condizione di sonno e di incoscienza: essere buttato fuori dal treno nella notte si pone come evidente figura della casualità di una nascita, di un ingresso nel mondo sentito come una caduta: e questa stessa immagine della caduta si trova in un breve testo autobiografico scritto da Pirandello poco prima della morte, Informazioni sul mio involontario soggiorno sulla terra: «Sono caduto, non so di dove né

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come né perché, caduto un giorno (ma che è il tempo, e perché non prima e non dopo?), caduto in un’arida campagna». Partendo da questa incomprensibile caduta nel fondo della notte, la novella segue le varie fasi di un ingresso nella vita concentrato in una sola giornata, in cui il personaggio ripercorre in una sintesi allucinata la propria intera esistenza, ne ritrova presenze e situazioni avvertendone l’estraneità, riconoscendole come qualcosa di dimenticato e di perduto (e del resto egli ha dimenticato anche da dove sia partito e quali siano ragioni e destinazione del viaggio). Il buio iniziale è solo angosciosamente illuminato da uno spettrale lanternino cieco che sparisce dentro la stazione; ma poi, ai barlumi dell’alba che si sovrappongono a un fanale ancora acceso sulla piazza della stazione, il personaggio si incammina in una città, atterrito anche dall’eco dei propri passi: e la progressiva immersione nella vita della città fa osservare tutta la sicura e indifferente normalità con cui chi la attraversa vive una situazione che invece, come avverte in sé il protagonista, non è affatto normale. Lo stupore del personaggio che si muove in una realtà ignota è rafforzato dal fatto che per tutti gli altri quella realtà sembra del tutto ovvia e naturale, che tutti sono «persuasi a fare come fanno»: e allora anche per lui scatta la necessità di apparire persuaso, di mostrare di comportarsi come gli altri. A questo punto si affaccia la scoperta di aver lavorato, nonostante la sensazione di non saper fare nulla, e di essere riconosciuto da quelli che lo salutano: egli avverte poi uno strano impaccio per l’abito che porta, si fruga addosso e scopre un portafoglio dove trova prima di tutto quelle che appaiono due immagini laceranti di qualcosa di perduto: una piccola immagine sacra, segno di una fede ingenua e infantile poi dimenticata, e una fotografia con una bellissima giovane, segno di un amore e di una giovinezza che il tempo ha forse dissolto e consumato. Dopo che il portafoglio ha rivelato il legame con il mondo economico (un grosso biglietto di banca molto consunto), la fame spinge l’uomo in una trattoria, dove si accorge di essere ben conosciuto, trattato come un ospite di riguardo; e, dato che il grosso biglietto con cui vuole pagare è fuori corso, viene condotto alla banca, dove è ben ricevuto e dove in cambio del biglietto gli viene dato addirittura un libretto di assegni. Ormai entrato nella propria identità, si accorge di avere un’automobile con un autista e una casa, dove esitante si reca e dove trova la stessa donna della fotografia che lo accoglie. Ma, passata la notte, ella è svanita e la casa assume un odore di vita appassita, con un senso di assoluta estraneità: e guardandosi allo specchio, il personaggio si scopre ormai vecchio. Appaiono poi in rapida successione i figli e i figli dei figli: infine, avvertendo che ai figli spuntano già i capelli bianchi e sentendo ormai di non potersi piú muovere dal posto in cui è stato fatto sedere, resta a guardare i suoi figli stessi, vecchi anch’essi. Tutta la vita, sintetizzata cosí in questo scorcio vertiginoso, si presenta come un sogno, come un continuo affacciarsi di presenze, di rapporti, di legami incomprensibili, come una costrizione ad assumere un abito e un ruolo, come un continuo, rapido perdersi di tutto: la novella sconvolge completamente i consueti rapporti temporali e spaziali, condensa in sé l’angoscia del crescere della vita su se stessa e del suo disfarsi, di una identità in cui mai è possibile riconoscersi, dalla quale ci si sente sempre espropriati, sottratti a se stessi. Pur avvertendo che ogni schematizzazione non può essere che parziale e discutibile, si possono fissare schematicamente questi punti nodali del percorso compiuto dal personaggio: treno di notte (espulsione) – stazione – piazza – città di giorno – saluti dei passanti – impaccio dell’abito – ritrovamento del portafoglio (immagine sacra, fotografia di donna, biglietto di banca) – trattoria – banca e libretto di assegni – automobile – casa – donna che lo attende – notte e risveglio senza la donna – sguardo allo specchio – figli – figli dei figli – imbiancare dei capelli dei figli – immobilità.

Strappato dal sonno, forse per sbaglio, e buttato fuori dal treno in una stazione di passaggio. Di notte; senza nulla con me. Non riesco a riavermi dallo sbalordimento. Ma ciò che piú mi impressiona è che non mi trovo addosso alcun segno della violenza patita; non solo, ma che non ne ho neppure un’immagine, neppur l’ombra confusa d’un ricordo. Mi trovo a terra, solo, nella tenebra d’una stazione deserta; e non so a chi rivolgermi per sapere che m’è accaduto, dove sono.

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L’estraneità della vita

La necessità di comportarsi come gli altri

Il rientro nella propria identità

L’immobilità

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Ho solo intravisto un lanternino cieco, accorso per richiudere lo sportello del treno da cui sono stato espulso. Il treno è subito ripartito. E subito scomparso nell’interno della stazione quel lanternino, col riverbero vagellante del suo lume vano. Nello stordimento, non m’è nemmen passato per il capo di corrergli dietro per domandare spiegazioni e far reclamo. Ma reclamo di che? Con infinito sgomento m’accorgo di non aver piú idea d’essermi messo in viaggio su un treno. Non ricordo piú affatto di dove sia partito, dove diretto; e se veramente, partendo, avessi con me qualche cosa. Mi pare nulla. Nel vuoto di questa orribile incertezza, subitamente mi prende il terrore di quello spettrale lanternino cieco che s’è subito ritirato, senza fare alcun caso della mia espulsione dal treno. È dunque forse la cosa piú normale che a questa stazione si scenda cosí? Nel bujo, non riesco a discernerne il nome. La città mi è però certamente ignota. Sotto i primi squallidi barlumi dell’alba, sembra deserta. Nella vasta piazza livida davanti alla stazione c’è un fanale ancora acceso. Mi ci appresso; mi fermo e, non osando alzar gli occhi, atterrito come sono dall’eco che hanno fatto i miei passi nel silenzio, mi guardo le mani, me le osservo per un verso e per l’altro, le chiudo, le riapro, mi tasto con esse, mi cerco addosso, anche per sentire come son fatto, perché non posso piú esser certo nemmeno di questo: ch’io realmente esista e che tutto questo sia vero. Poco dopo, inoltrandomi fin nel centro della città, vedo cose che a ogni passo mi farebbero restare dallo stupore, se uno stupore piú forte non mi vincesse nel vedere che tutti gli altri, pur simili a me, ci si muovono in mezzo senza punto badarci, come se per loro siano le cose piú naturali e piú solite. Mi sento come trascinare, ma anche qui senz’avvertire che mi si faccia violenza. Solo che io, dentro di me, ignaro di tutto, sono quasi da ogni parte ritenuto. Ma considero che, se non so neppur come, né di dove, né perché ci sia venuto, debbo aver torto io certamente e ragione tutti gli altri che, non solo pare lo sappiano, ma sappiano anche tutto quello che fanno sicuri di non sbagliare, senza la minima incertezza, cosí naturalmente persuasi a fare come fanno, che m’attirerei certo la maraviglia, la riprensione, fors’anche l’indignazione se, o per il loro aspetto o per qualche loro atto o espressione, mi mettessi a ridere o mi mostrassi stupito. Nel desiderio acutissimo di scoprire qualche cosa senza farmene accorgere, debbo di continuo cancellarmi dagli occhi quella certa permalosità che di sfuggita tante volte nei loro occhi hanno i cani. Il torto è mio, il torto è mio, se non capisco nulla, se non riesco ancora a raccapezzarmi. Bisogna che mi forzi a far le viste d’esserne anch’io persuaso e che m’ingegni di far come gli altri, per quanto mi manchi ogni criterio e ogni pratica nozione, anche di quelle cose che pajono piú comuni e piú facili. Non so da che parte rifarmi, che via prendere, che cosa mettermi a fare. Possibile però ch’io sia già tanto cresciuto, rimanendo sempre come un bambino e senz’aver fatto mai nulla? Avrò forse lavorato in sogno, non so come. Ma lavorato ho certo; lavorato sempre, e molto, molto. Pare che tutti lo sappiano, del resto, perché tanti si voltano a guardarmi e piú d’uno anche mi saluta, senza ch’io lo conosca. Resto dapprima perplesso, se veramente il saluto sia rivolto a me; mi guardo accanto; mi guardo dietro. Mi avranno salutato per sbaglio? Ma no, salutano proprio me. Combatto, imbarazzato, con una certa vanità che vorrebbe e pur non riesce a illudersi, e vado innanzi come sospeso, senza potermi liberare da uno strano impaccio per una cosa – lo riconosco – veramente meschina: non sono sicuro dell’abito che ho addosso; mi sembra strano che sia mio; e ora mi nasce il dubbio che salutino quest’abito e non me. E io intanto con me, oltre a questo, non ho piú altro! . un lanternino cieco: è la lanterna portata dal ferroviere che va a chiudere lo sportello; l’aggettivo cieco indica la scarsa luce che esso emana e il senso di accecamento che dà la sua visione da lontano nel buio.

. vagellante: tremolante. . restare dallo stupore: lasciarmi attonito per lo stupore, stupirmi. . riprensione: rimprovero.

T. LUIGI PIRANDELLO. NOVELLE PER UN ANNO



Torno a cercarmi addosso. Una sorpresa. Nascosta nella tasca in petto della giacca tasto come una bustina di cuojo. La cavo fuori, quasi certo che non appartenga a me ma a quest’abito non mio. È davvero una vecchia bustina di cuojo, gialla scolorita slavata, quasi caduta nell’acqua di un ruscello o d’un pozzo e ripescata. La apro, o, piuttosto, ne stacco la parte appiccicata, e vi guardo dentro. Tra poche carte ripiegate, illeggibili per le macchie che l’acqua v’ha fatte diluendo l’inchiostro, trovo una piccola immagine sacra, ingiallita, di quelle che nelle chiese si regalano ai bambini e, attaccata ad essa quasi dello stesso formato e anch’essa sbiadita, una fotografia. La spiccico, la osservo. Oh. È la fotografia di una bellissima giovine, in costume da bagno, quasi nuda, con tanto vento nei capelli e le braccia levate vivacemente nell’atto di salutare. Ammirandola, pur con una certa pena, non so, quasi lontana, sento che mi viene da essa l’impressione, se non proprio la certezza, che il saluto di queste braccia, cosí vivacemente levate nel vento, sia rivolto a me. Ma per quanto mi sforzi, non arrivo a riconoscerla. È mai possibile che una donna cosí bella mi sia potuta sparire dalla memoria, portata via da tutto quel vento che le scompiglia la testa? Certo, in questa bustina di cuojo caduta un tempo nell’acqua, quest’immagine, accanto all’immagine sacra, ha il posto che si dà a una fidanzata. Torno a cercare nella bustina e, piú sconcertato che con piacere, nel dubbio che non m’appartenga, trovo in un ripostiglio segreto un grosso biglietto di banca, chi sa da quanto tempo lí riposto e dimenticato, ripiegato in quattro, tutto logoro e qua e là bucherellato sul dorso delle ripiegature già lise. Sprovvisto come sono di tutto, potrò darmi ajuto con esso? Non so con qual forza di convinzione, l’immagine ritratta in quella piccola fotografia m’assicura che il biglietto è mio. Ma c’è da fidarsi d’una testolina cosí scompigliata dal vento? Mezzogiorno è già passato; casco dal languore: bisogna che prenda qualcosa, ed entro in una trattoria. Con maraviglia, anche qui mi vedo accolto come un ospite di riguardo, molto gradito. Mi si indica una tavola apparecchiata e si scosta una seggiola per invitarmi a prender posto. Ma io son trattenuto da uno scrupolo. Fo cenno al padrone e, tirandolo con me in disparte, gli mostro il grosso biglietto logorato. Stupito, lui lo mira; pietosamente per lo stato in cui è ridotto, lo esamina; poi mi dice che senza dubbio è di gran valore ma ormai da molto tempo fuori di corso. Però non tema: presentato alla banca da uno come me, sarà certo accettato e cambiato in altra piú spicciola moneta corrente. Cosí dicendo il padrone della trattoria esce con me fuori dell’uscio di strada e m’indica l’edificio della banca lí presso. Ci vado, e tutti anche in quella banca mi si mostrano lieti di farmi questo favore. Quel mio biglietto – mi dicono – è uno dei pochissimi non rientrati ancora alla banca, la quale da qualche tempo a questa parte non dà piú corso se non a biglietti di piccolissimo taglio. Me ne danno tanti e poi tanti, che ne resto imbarazzato e quasi oppresso. Ho con me solo quella naufraga bustina di cuojo. Ma mi esortano a non confondermi. C’è rimedio a tutto. Posso lasciare quel mio danaro in deposito alla banca, in conto corrente. Fingo d’aver compreso; mi metto in tasca qualcuno di quei biglietti e un libretto che mi danno in sostituzione di tutti gli altri che lascio, e ritorno alla trattoria. Non vi trovo cibi per il mio gusto; temo di non poterli digerire. Ma già si dev’essere sparsa la voce ch’io, se non proprio ricco, non sono certo piú povero; e infatti, uscendo dalla trattoria, trovo un’automobile che m’aspetta e un autista che si leva con una mano il berretto e apre con l’altra lo sportello per far-

. in petto: interna. . una bustina di cuojo: è il portafoglio, del quale, come tanti altri oggetti della vita sociale, il personaggio sembra aver dimenticato sia la funzione che il nome. . spiccico: stacco. . Però non tema: all’interno del discorso del pro-

tagonista vengono riportate le parole in discorso diretto del padrone della trattoria (che lo invita a non preoccuparsi), come piú avanti quelle dei bancari. . naufraga: perché, come è stato detto prima, si è salvata dall’acqua; ma anche perché è un relitto di vita che viene da un passato incomprensibile.

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mi entrare. Io non so dove mi porti. Ma com’ho un’automobile, si vede che, senza saperlo, avrò anche una casa. Ma sí, una bellissima casa, antica, dove certo tanti prima di me hanno abitato e tanti dopo di me abiteranno. Sono proprio miei tutti questi mobili? Mi ci sento estraneo, come un intruso. Come questa mattina all’alba la città, ora anche questa casa mi sembra deserta; ho di nuovo paura dell’eco che i miei passi faranno, movendomi in tanto silenzio. D’inverno, fa sera prestissimo; ho freddo e mi sento stanco. Mi faccio coraggio; mi muovo; apro a caso uno degli usci; resto stupito di trovar la camera illuminata, la camera da letto e, sul letto, lei, quella giovine del ritratto, viva, ancora con le due braccia nude vivacemente levate, ma questa volta per invitarmi ad accorrere a lei e per accogliermi tra esse, festante. È un sogno? Certo, come in un sogno, lei su quel letto, dopo la notte, la mattina all’alba, non c’è piú. Nessuna traccia di lei. E il letto, che fu cosí caldo nella notte, è ora, a toccarlo, gelato, come una tomba. E c’è in tutta la casa quell’odore che cova nei luoghi che hanno preso la polvere, dove la vita è appassita da tempo, e quel senso d’uggiosa stanchezza che per sostenersi ha bisogno di ben regolate e utili abitudini. Io ne ho avuto sempre orrore. Voglio fuggire. Non è possibile che questa sia la mia casa. Questo è un incubo. Certo ho sognato uno dei sogni piú assurdi. Quasi per averne la prova, vado a guardarmi a uno specchio appeso alla parete dirimpetto, e subito ho l’impressione d’annegare, atterrito, in uno smarrimento senza fine. Da quale remota lontananza i miei occhi, quelli che mi par d’avere avuti da bambino, guardano ora, sbarrati dal terrore, senza potersene persuadere, questo viso di vecchio? Io, già vecchio? Cosí subito? E com’è possibile? Sento picchiare all’uscio. Ho un sussulto. M’annunziano che sono arrivati i miei figli. I miei figli? Mi pare spaventoso che da me siano potuti nascere figli. Ma quando? Li avrò avuti jeri. Jeri ero ancora giovane. È giusto che ora, da vecchio, li conosca. Entrano, reggendo per mano bambini, nati da loro. Subito accorrono a sorreggermi; amorosamente mi rimproverano d’essermi levato di letto; premurosamente mi mettono a sedere, perché l’affanno mi cessi. Io, l’affanno? Ma sí, loro lo sanno bene che non posso piú stare in piedi e che sto molto molto male. Seduto, li guardo, li ascolto; e mi sembra che mi stiano facendo in sogno uno scherzo. Già finita la mia vita? E mentre sto a osservarli, cosí tutti curvi attorno a me, maliziosamente, quasi non dovessi accorgermene, vedo spuntare nelle loro teste, proprio sotto i miei occhi, e crescere, crescere non pochi, non pochi capelli bianchi. – Vedete, se non è uno scherzo? Già anche voi, i capelli bianchi. E guardate, guardate quelli che or ora sono entrati da quell’uscio bambini: ecco, è bastato che si siano appressati alla mia poltrona: si son fatti grandi; e una, quella, è già una giovinetta che si vuol far largo per essere ammirata. Se il padre non la trattiene, mi si butta a sedere sulle ginocchia e mi cinge il collo con un braccio, posandomi sul petto la testina. Mi vien l’impeto di balzare in piedi. Ma debbo riconoscere che veramente non posso piú farlo. E con gli stessi occhi che avevano poc’anzi quei bambini, ora già cosí cresciuti, rimango a guardare finché posso, con tanta tanta compassione, ormai dietro a questi nuovi, i miei vecchi figliuoli.

T. LUIGI PIRANDELLO. IL TEATRO

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Il teatro IL GIUOCO DELLE PARTI

Tratta dalla novella Quando s’è capito il giuoco («Corriere della sera»,  aprile , poi pubblicato sulla «Nuova Antologia»), questa commedia in tre atti, scritta tra il luglio e il settembre  e rappresentata a Roma il  dicembre , costituisce una delle prove piú celebri della fase «grottesca» del teatro pirandelliano. La situazione del triangolo marito-moglie-amante, tipica del teatro borghese, è qui occasione di un gioco di tipo quasi geometrico, con un movimento scenico sempre rapido, percorso da alcuni simboli inquietanti, pieno di crudeltà e di gelido rigore. Tutta la vicenda ruota intorno al personaggio di Leone Gala, demoniaco ragionatore, che vive rifiutando a suo modo la vita, dopo aver fatto intorno a sé il vuoto di sentimento e di ogni passione: egli ambisce a sottrarsi a ogni scatto di vitalità e preferisce guardare la vita altrui dall’esterno, limitando la propria esperienza alla piú fredda astrazione filosofica e all’hobby della cucina (sulla cucina egli modella la propria visione del mondo; e di paradossale sottigliezza sono i suoi dialoghi con il servo Filippo, in cui si affacciano anche riferimenti alla filosofia di Bergson). La moglie di Leone, Silia Gala, è personaggio del tutto diverso, donna che cerca di vivere intensamente i suoi sentimenti, che cerca molteplici modi e possibilità di esistenza, con il terrore di vedere fissata la propria vita in una forma stabile: nella sua passionalità c’è però qualcosa di ambiguo e minaccioso, che la fa percepire come una «belva». Il dramma è tutto nel conflitto tra l’astrazione di Leone e l’irrazionalità di Silia: l’amante di questa, Guido Venanzi, è una sorta di anello intermedio, di strumento docile nella lotta impietosa tra i due. Leone e Silia vivono separati, ma Leone, per un patto fatto con la moglie al momento della separazione, continua a sostenere la parte ufficiale del marito, e ogni giorno viene a passare mezz’ora (la cui durata controlla meticolosamente, con l’orologio) in casa di lei. La rabbia di Silia per l’indifferenza crudele con cui Leone mantiene con maniacale precisione questo patto la conduce a cercare un modo per sbarazzarsi di lui: e lo trova approfittando dell’oltraggio che ha subito da alcuni gentiluomini ubriachi; costringe infatti Leone, fedele senza cedimento alla parte ufficiale di marito che continua a sostenere, ad accettare un duello all’ultimo sangue con uno di questi gentiluomini, per vendicare l’offesa subita dalla moglie. Ma all’ultimo atto, al momento in cui il duello deve aver luogo, Leone sostiene che non a lui tocca battersi, ma all’amante Guido Venanzi: è infatti colui che ha preso fisicamente il suo posto nei rapporti con la moglie a doverlo prendere anche in un atto fisico come un combattimento; a lui è toccata solo la parte ufficiale della sfida. Con la sua logica stringente spinge Guido ad accettare di battersi («perfettamente secondo il giuoco delle parti. Io, la mia: lui, la sua. Dal mio pernio io non mi muovo»), aspettando poi che giunga la notizia della sua morte e rimanendo poi impassibile di fronte alla disperazione di Silia.

Sei personaggi in cerca d’autore L’irruzione dei personaggi Dei Sei personaggi (come di ogni altro testo teatrale, ma in modo forse ancora piú netto) non è possibile una semplice lettura antologica, anche perché ogni scelta di passi particolari viene a tradire l’orizzonte teatrale, la necessità che il dialogo e il movimento vivano sulla scena, come del resto richiedono i personaggi stessi. Solo per offrire un esempio della scrittura teatrale pirandelliana riportiamo qui, dalla prima parte dell’opera (che è articolata in tre parti che non vengono definite «atti» e che sono separate solo da momentanee interruzioni di una vicenda che si immagina si svolga dentro il teatro stesso), la scena dell’apparizione dei sei personaggi che irrompono in mezzo alla compagnia teatrale che sta provando Il giuoco delle parti. Dopo vari movimenti dei diversi addetti al teatro e varie battute scambiate tra i membri della compagnia, il suggeritore (figura sempre presente nelle sale teatrali del tempo, nascosto dentro una buca al centro del boccascena), comincia a leggere le prime battute della commedia da recitare, suscitando le critiche e le proteste degli attori, irritati dalla stranezza della situazione iniziale e incapaci di capirne

DATI

tav. 243

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Le maschere dei personaggi

La volontà di vita dei personaggi

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i significati, che il capocomico (il direttore della compagnia, indicato con un termine che poi è stato sostituito da regista: cfr. PAROLE, tav. 224) tenta faticosamente di spiegare. A questo punto irrompono i personaggi, che Pirandello descrive con una lunga e accuratissima didascalia, attribuendo a ciascuno dei quattro adulti un sentimento fondamentale, che dovrebbe essere fissato in apposite maschere: l’uso delle maschere non intende qui sottolineare, come accade piú spesso, la finzione e l’artificio, ma il fatto che i personaggi appartengono alla vita dell’arte, che li fissa in forme immutabili. Tutta la parte della didascalia relativa alle maschere, al sentimento fondamentale dei personaggi, alla particolare stoffa del loro vestiario, era assente nella prima edizione del dramma (apparsa presso l’editore Bemporad nel 1921) e fu inserita nell’edizione «riveduta e corretta» del 1925, che recava anche l’importante Prefazione (già pubblicata sulla rivista «Comoedia» nel gennaio 1925, con il titolo Come e perché ho scritto i «Sei personaggi»). Il primo scambio di battute tra il padre e il capocomico (in cui si riprendono vari spunti e interi passi dalla novella La tragedia d’un personaggio: cfr. pp. 604-609) si svolge in un contrasto tra l’assoluta serietà con cui il personaggio vive e rivendica la propria situazione e le risate o il disappunto che le sue parole suscitano negli attori: E vi si impone una dolorosa e disperata volontà di vita: nella loro ricerca di un autore, nel loro voler rappresentare sulla scena il proprio dramma, i personaggi aspirano in effetti a trasformare una dimessa realtà privata, i tristi e squallidi eventi di un groviglio familiare, in qualcosa di assoluto, in una realtà piú vera ed essenziale, che in qualche modo li riscatti e li salvi. Ma il loro tentativo di trasformare se stessi in creature «eterne» si risolverà nella ripetizione di una serie di eventi traumatici, in una piú radicale immersione nella sofferenza, che culminerà nel grido disperato della madre e nel colpo di pistola del giovinetto suicida. Si tenga presente che una lettera del 23 luglio 1917 al figlio Stefano mostra che in origine Pirandello aveva pensato di costruire i Sei personaggi non come un’opera teatrale, ma come un «romanzo da fare»: già nell’autunno 1919 si diffuse però la notizia del progetto di una commedia con quel titolo. La prima rappresentazione, al Teatro Valle di Roma (9 maggio 1921), da parte della compagnia di Dario Niccodemi (uomo di teatro e drammaturgo, 1874-1934) si concluse con violenti contrasti tra favorevoli e contrari e non ebbe echi entusiastici nella stampa: il vero trionfo (dopo l’uscita della prima edizione a stampa) ci fu il 27 settembre al Teatro Manzoni di Milano; seguí la consacrazione internazionale, che ebbe uno dei momenti essenziali nella rappresentazione da parte della compagnia di Georges Pitoëff a Parigi, alla Comédie des Champs Elysées il 10 aprile 1923. Tra le numerosissime rappresentazioni di quegli anni, un rilievo assoluto ebbe comunque quella diretta dallo stesso Pirandello, per la sua compagnia del Teatro d’Arte di Roma, la cui prima si ebbe al Teatro Odescalchi il 18 maggio 1925, con Lamberto Picasso (il Padre), Jone Frigerio (la Madre), Marta Abba (la Figliasta), Gino Cervi (il Figlio). [EDIZIONE: Luigi Pirandello, Maschere nude, a cura di A. D’Amico, vol. II, Mondadori, Milano 1993]

Troveranno gli spettatori, entrando nella sala del teatro, alzato il sipario, e il palcoscenico com’è di giorno, senza quinte né scena, quasi al bujo e vuoto, perché abbiano fin da principio l’impressione d’uno spettacolo non preparato. Due scalette, una a destra e l’altra a sinistra, metteranno in comunicazione il palcoscenico con la sala. Sul palcoscenico, il cupolino del suggeritore, messo da parte, accanto alla buca. Dall’altra parte, sul davanti, un tavolino e una poltrona con la spalliera voltata verso il pubblico, per il Direttore-Capocomico. Altri due tavolini, uno piú grande, uno piú piccolo, con parecchie sedie attorno, messi lí sul davanti per averli pronti, a un bisogno, per la prova. Altre sedie, qua e là, a destra e a sinistra, per gli Attori, e un pianoforte in fondo, da un lato, quasi nascosto. Spenti i lumi della sala, si vedrà entrare dalla porta del palcoscenico il Macchinista in camiciotto turchino e sacca appesa alla cintola; prendere da un angolo in fondo alcuni assi d’at-

T. LUIGI PIRANDELLO. IL TEATRO

trezzatura; disporli sul davanti e mettersi in ginocchio a inchiodarli. Alle martellate accorrerà dalla porta dei camerini il Direttore di scena. IL DIRETTORE DI SCENA: Oh! Che fai? IL MACCHINISTA: Che faccio? Inchiodo. IL DIRETTORE DI SCENA: A quest’ora?

Sono già le dieci e mezzo. A momenti sarà qui il Direttore per la prova. IL MACCHINISTA: Ma dico, dovrò avere anch’io il mio tempo per lavorare! IL DIRETTORE DI SCENA: L’avrai, ma non ora. IL MACCHINISTA: E quando? IL DIRETTORE DI SCENA: Quando non sarà piú l’ora della prova. Su, su, pòrtati via tutto, e lasciami disporre la scena per il secondo atto del Giuoco delle parti. Il Macchinista, sbuffando, borbottando, raccatterà gli assi e andrà via. Intanto dalla porta del palcoscenico cominceranno a venire gli Attori della Compagnia, uomini e donne, prima uno, poi un altro, poi due insieme, a piacere: nove o dieci, quanti si suppone che debbano prender parte alle prove della commedia di Pirandello Il giuoco delle parti, segnata all’ordine del giorno. Entreranno, saluteranno il Direttore di scena e si saluteranno tra loro augurandosi il buon giorno. Alcuni s’avvieranno ai loro camerini; altri, fra cui il Suggeritore che avrà il copione arrotolato sotto il braccio, si fermeranno sul palcoscenico in attesa del Direttore per cominciar la prova, e intanto, o seduti a crocchio, o in piedi, scambieranno tra loro qualche parola; e chi accenderà una sigaretta, chi si lamenterà della parte che gli è stata assegnata, chi leggerà forte ai compagni qualche notizia in un giornaletto teatrale. Sarà bene che tanto le Attrici quanto gli Attori siano vestiti d’abiti piuttosto chiari e gaj, e che questa prima scena a soggetto abbia, nella sua naturalezza, molta vivacità. A un certo punto, uno dei comici potrà sedere al pianoforte e attaccare un ballabile; i piú giovani tra gli Attori e le Attrici si metteranno a ballare. IL DIRETTORE DI SCENA:

(battendo le mani per richiamarli alla disciplina) Via, via, smettetela! Ecco il signor Direttore! Il suono e la danza cesseranno d’un tratto. Gli Attori si volteranno a guardare verso la sala del teatro, dalla cui porta si vedrà entrare il Direttore-Capocomico, il quale, col cappello duro in capo, il bastone sotto il braccio e un grosso sigaro in bocca, attraverserà il corridojo tra le poltrone e, salutato dai comici, salirà per una delle due scalette sul palcoscenico. Il Segretario gli porgerà la posta: qualche giornale, un copione sottofascia.

IL CAPOCOMICO: Lettere? IL SEGRETARIO: Nessuna. La posta è tutta qui. IL CAPOCOMICO: (porgendogli il copione sottofascia)

Porti in camerino. Poi, guardandosi attorno e rivolgendosi al Direttore di scena: Oh, qua non ci si vede. Per piacere, faccia dare un po’ di luce. IL DIRETTORE DI SCENA: Subito. Si recherà a dar l’ordine. E poco dopo, il palcoscenico sarà illuminato in tutto il lato destro, dove staranno gli Attori, d’una viva luce bianca. Nel mentre, il Suggeritore avrà preso posto nella buca, accesa la lampadina e steso avanti a sé il copione. IL CAPOCOMICO:

(battendo le mani) Su, su, cominciamo. Al Direttore di scena: Manca qualcuno? IL DIRETTORE DI SCENA: Manca la prima Attrice. IL CAPOCOMICO: Al solito!

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Guarderà l’orologio. Siamo già in ritardo di dieci minuti. La segni, mi faccia il piacere. Cosí imparerà a venire puntuale alla prova. Non avrà finito la reprensione, che dal fondo della sala si udrà la voce della Prima Attrice. LA PRIMA ATTRICE: No, no, per carità! Eccomi! Eccomi! È tutta vestita di bianco, con un cappellone spavaldo in capo e un grazioso cagnolino tra le braccia; correrà attraverso il corridojo delle poltrone e salirà in gran fretta una delle scalette. IL CAPOCOMICO: Lei ha giurato di farsi sempre aspettare. LA PRIMA ATTRICE: Mi scusi. Ho cercato tanto un’automobile per fare a tempo! Ma vedo che

non avete ancora cominciato. E io non sono subito di scena. Poi, chiamando per nome il Direttore di scena e consegnandogli il cagnolino: Per piacere, me lo chiuda nel camerino. IL CAPOCOMICO: (borbottando) Anche il cagnolino! Come se fossimo pochi i cani qua. Batterà di nuovo le mani e si rivolgerà al Suggeritore: Su, su, il secondo atto del Giuoco delle parti. Sedendo sulla poltrona: Attenzione, signori. Chi è di scena?

Gli Attori e le Attrici sgombreranno il davanti del palcoscenico e andranno a sedere da un lato, tranne i tre che principieranno la prova e la Prima Attrice, che, senza badare alla domanda del Capocomico, si sarà messa a sedere davanti ad uno dei due tavolini. IL CAPOCOMICO: (alla Prima Attrice) Lei dunque è di LA PRIMA ATTRICE: Io, sissignore. IL CAPOCOMICO: (seccato) E allora si levi, santo Dio!

scena?

La Prima Attrice si alzerà e andrà a sedere accanto agli altri Attori che si saranno già tratti in disparte. IL CAPOCOMICO: (al Suggeritore) Cominci, cominci. IL SUGGERITORE: (leggendo nel copione) «In casa di Leone Gala. Una strana sala da pranzo e da studio». IL CAPOCOMICO: (volgendosi al Direttore di scena) Metteremo la sala rossa. IL DIRETTORE DI SCENA: (segnando su un foglio di carta) La rossa. Sta bene. IL SUGGERITORE: (seguitando a leggere nel copione) «Tavola apparecchiata e scrivania con libri e carte. Scaffali di libri e vetrine con ricche suppellettili da tavola. Uscio in fondo per cui si va nella camera da letto di Leone. Uscio laterale a sinistra per cui si va nella cucina. La comune è a destra». IL CAPOCOMICO: (alzandosi e indicando) Dunque, stiano bene attenti: di là, la comune. Di qua, la cucina. Rivolgendosi all’Attore che farà la parte di Socrate: Lei entrerà e uscirà da questa parte. Al Direttore di scena: Applicherà la bussola in fondo, e metterà le tendine. Tornerà a sedere. IL DIRETTORE DI SCENA: (segnando) Sta bene. IL SUGGERITORE: (leggendo c.s.) «Scena Prima, Leone Gala, Guido Venanzi, Filippo detto Socrate». . Leone Gala: è il protagonista del Giuoco delle parti, di cui qui il suggeritore legge la didascalia iniziale del secondo atto; nella stessa commedia

Filippo, detto Socrate, è un servitore di Leone, mentre Guido Venanzi è l’amante della moglie Silia (cfr. DATI, tav. ).

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

Al Capocomico: Debbo leggere anche la didascalia? IL CAPOCOMICO: Ma sí! sí! Gliel’ho detto cento volte! IL SUGGERITORE: (leggendo c.s.) «Al levarsi della tela, Leone Gala, con berretto da cuoco e grembiule, è intento a sbattere con un mestolino di legno un uovo in una ciotola. Filippo ne sbatte un altro, parato anche lui da cuoco. Guido Venanzi ascolta, seduto». IL PRIMO ATTORE: (al Capocomico) Ma scusi, mi devo mettere proprio il berretto da cuoco in capo? IL CAPOCOMICO: (urtato dall’osservazione) Mi pare! Se sta scritto lí! Indicherà il copione. IL PRIMO ATTORE: Ma è ridicolo, scusi! IL CAPOCOMICO: (balzando in piedi sulle furie) «Ridicolo! ridicolo!» Che vuole che le faccia io se dalla Francia non ci viene piú una buona commedia, e ci siamo ridotti a mettere in iscena commedie di Pirandello, che chi l’intende è bravo, fatte apposta di maniera che né attori né critici né pubblico ne restino mai contenti? Gli Attori rideranno. E allora egli, alzandosi e venendo presso il Primo Attore, griderà: Il berretto da cuoco, sissignore! E sbatta le uova! lei crede, con codeste uova che sbatte, di non aver poi altro per le mani? Sta fresco! Ha da rappresentare il guscio delle uova che sbatte! Gli Attori torneranno a ridere e si metteranno a far commenti tra loro ironicamente. Silenzio! E prestino ascolto quando spiego! Rivolgendosi di nuovo al Primo Attore: Sissignore, il guscio: vale a dire la vuota forma della ragione, senza il pieno dell’istinto che è cieco! Lei è la ragione, e sua moglie l’istinto: in un giuoco di parti assegnate, per cui lei che rappresenta la sua parte è volutamente il fantoccio di sé stesso. Ha capito? IL PRIMO ATTORE: (aprendo le braccia) Io no! IL CAPOCOMICO: (tornandosene al suo posto) E io nemmeno! Andiamo avanti, che poi mi loderete la fine! In tono confidenziale: Mi raccomando, si metta di tre quarti, perché se no, tra le astruserie del dialogo e lei che non si farà sentire dal pubblico, addio ogni cosa! Battendo di nuovo le mani: Attenzione, attenzione! Attacchiamo! IL SUGGERITORE: Scusi, signor Direttore, permette che mi ripari col cupolino? Tira una cert’aria! IL CAPOCOMICO: Ma sí, faccia, faccia! L’Uscere del teatro sarà intanto entrato nella sala, col berretto gallonato in capo e, attraverso . se dalla Francia … commedia: allusione al successo che, nel teatro borghese di inizio secolo, riscuotevano le commedie francesi, sia quelle di tipo «morale», sia quelle di tipo comico e farsesco (tra gli autori di maggior rilievo nei due filoni c’erano Henri Bataille, -, e Georges Feydeau, -). . vale a dire … di sé stesso: il capocomico interpreta Il giuoco delle parti riducendolo schematicamente a un conflitto tra la ragione ridotta a vuota forma, rappresentata da Leone Gala, e l’istinto, rappresentato dalla moglie; in questo «giuoco di parti assegnate», già date, ogni personaggio rappresenta, piú che se stesso, il fantoccio di se stesso.

A questa condizione dei personaggi nella commedia del  si oppone invece l’urgenza e il bisogno di vita autentica, che incarneranno i sei personaggi che stanno per apparire. . cupolino: quello che copriva la buca del suggeritore e lo nascondeva agli spettatori. . gallonato: ornato di galloni, di strisce dorate. La piú gran parte di questa ampia didascalia (fino a in una qualsiasi sartoria) era assente dalla prima edizione, dove si sottolineava la «stranissima luce» in cui apparivano avvolti i personaggi, una luce «come irradiata da essi: lieve respiro della loro realtà fantastica», e veniva messa in evidenza «una certa loro naturale levità come di sogno», tale però da

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il corridojo fra le poltrone, si sarà appressato al palcoscenico per annunziare al Direttore-Capocomico l’arrivo dei Sei Personaggi, che, entrati anch’essi nella sala, si saranno messi a seguirlo, a una certa distanza, un po’ smarriti e perplessi, guardandosi attorno. Chi voglia tentare una traduzione scenica di questa commedia bisogna che s’adoperi con ogni mezzo a ottenere soprattutto l’effetto che questi Sei Personaggi non si confondano con gli Attori della Compagnia. La disposizione degli uni e degli altri, indicata nelle didascalie, allorché quelli saliranno sul palcoscenico, gioverà senza dubbio; come una diversa colorazione luminosa per mezzo d’appositi riflettori. Ma il mezzo piú efficace e idoneo, che qui si suggerisce, sarà l’uso di speciali maschere per i Personaggi: maschere espressamente costruite d’una materia che per il sudore non s’afflosci e non pertanto sia lieve agli Attori che dovranno portarle: lavorate e tagliate in modo che lascino liberi gli occhi, le narici e la bocca. S’interpreterà cosí anche il senso profondo della commedia. I Personaggi non dovranno infatti apparire come fantasmi, ma come realtà create, costruzioni della fantasia immutabili: e dunque piú reali e consistenti della volubile naturalità degli Attori. Le maschere ajuteranno a dare l’impressione della figura costruita per arte e fissata ciascuna immutabilmente nell’espressione del proprio sentimento fondamentale, che è il rimorso per il Padre, la vendetta per la Figliastra, lo sdegno per il Figlio, il dolore per la Madre con fisse lagrime di cera nel livido delle occhiaje e lungo le gote, come si vedono nelle immagini scolpite e dipinte della Mater dolorosa nelle chiese. E sia anche il vestiario di stoffa e foggia speciale, senza stravaganza, con pieghe rigide e volume quasi statuario, e insomma di maniera che non dia l’idea che sia fatto d’una stoffa che si possa comperare in una qualsiasi bottega della città e tagliato e cucito in una qualsiasi sartoria. Il Padre sarà sulla cinquantina: stempiato, ma non calvo, fulvo di pelo, con baffetti folti quasi acchiocciolati  attorno alla bocca ancor fresca, aperta spesso a un sorriso incerto e vano. Pallido, segnatamente nell’ampia fronte; occhi azzurri ovati, lucidissimi e arguti; vestirà calzoni chiari e giacca scura: a volte sarà mellifluo, a volte avrà scatti aspri e duri. La Madre sarà come atterrita e schiacciata da un peso intollerabile di vergogna e d’avvilimento. Velata da un fitto crespo vedovile, vestirà umilmente di nero, e quando solleverà il velo, mostrerà un viso non patito, ma come di cera, e terrà sempre gli occhi bassi. La Figliastra, di diciotto anni, sarà spavalda, quasi impudente. Bellissima, vestirà a lutto anche lei, ma con vistosa eleganza. Mostrerà dispetto per l’aria timida, afflitta e quasi smarrita del fratellino, squallido Giovinetto di quattordici anni, vestito anch’esso di nero; e una vivace tenerezza, invece, per la sorellina, Bambina di circa quattro anni, vestita di bianco con una fascia di seta nera alla vita. Il Figlio, di ventidue anni, alto, quasi irrigidito in un contenuto sdegno per il Padre e in un’accigliata indifferenza per la Madre, porterà un soprabito viola e una lunga fascia verde girata attorno al collo. L’USCERE: (col berretto in mano) Scusi, signor Commendatore. IL CAPOCOMICO: (di scatto, sgarbato) Che altro c’è? L’USCERE: (timidamente) Ci sono qua certi signori, che chiedono

non togliere nulla «all’essenziale realtà delle loro forme e delle loro espressioni». . appressato: avvicinato. . sia lieve: sia leggera, per non procurare fastidio all’espressività della recitazione degli attori. . con fisse lagrime … nelle chiese: nella maschera della madre ci devono essere lacrime fisse, modellate sulla cera stessa della maschera: e per spiegare la loro disposizione Pirandello cita le immagini della Madonna addolorata, presenti in molte chiese, specialmente nel Sud.

di lei.

. acchiocciolati: disposti a chiocciola, arricciati. La parte della descrizione dei personaggi che inizia qui con la presentazione del padre era già presente nell’edizione del . . crespo vedovile: velo nero increspato per lutto, da vedova: la Madre è in lutto per la morte, avvenuta due mesi prima, del convivente, padre della Figliastra, del Giovinetto e della Bambina (mentre il personaggio del Padre è padre del Figlio). . contenuto: trattenuto, represso.

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Il Capocomico e gli Attori si volteranno stupiti a guardare dal palcoscenico giú nella sala. IL CAPOCOMICO: (di nuovo sulle furie) Ma io qua provo! E sapete bene che durante la prova non deve passar nessuno! Rivolgendosi in fondo: Chi sono lor signori? Che cosa vogliono? IL PADRE: (facendosi avanti, seguito dagli altri, fino a una delle due scalette) Siamo qua in cerca d’un autore. IL CAPOCOMICO: (fra stordito e irato) D’un autore? Che autore? IL PADRE: D’uno qualunque, signore. IL CAPOCOMICO: Ma qui non c’è nessun autore, perché non abbiamo in prova nessuna commedia nuova. LA FIGLIASTRA: (con gaja vivacità, salendo di furia la scaletta) Tanto meglio, tanto meglio, allora, signore! Potremmo esser noi la loro commedia nuova. QUALCUNO DEGLI ATTORI: (fra i vivaci commenti e le risate degli altri) Oh, senti, senti! IL PADRE: (seguendo sul palcoscenico la Figliastra) Già, ma se non c’è l’autore! Al Capocomico: Tranne che non voglia esser lei… La Madre, con la Bambina per mano, e il Giovinetto saliranno i primi scalini della scaletta e resteranno lí in attesa. Il Figlio resterà sotto, scontroso. IL CAPOCOMICO: Lor signori vogliono scherzare? IL PADRE: No, che dice mai, signore! Le portiamo al contrario un dramma doloroso. LA FIGLIASTRA: E potremmo essere la sua fortuna! IL CAPOCOMICO: Ma mi facciano il piacere d’andar via, che non abbiamo tempo da perdere coi pazzi! IL PADRE: (ferito e mellifluo) Oh, signore, lei sa bene che la vita è piena d’infinite assurdità, le quali sfacciatamente non han neppure bisogno di parer verosimili; perché sono vere. IL CAPOCOMICO: Ma che diavolo dice? IL PADRE: Dico che può stimarsi realmente una pazzia, sissignore, sforzarsi di fare il contrario; cioè, di crearne di verosimili, perché pajano vere. Ma mi permetta di farle osservare che, se pazzia è, questa è pur l’unica ragione del loro mestiere. Gli Attori si agiteranno, sdegnati. IL CAPOCOMICO: (alzandosi e squadrandolo) Ah sí? Le sembra un mestiere da pazzi, il nostro? IL PADRE: Eh, far parer vero quello che non è; senza bisogno, signore: per giuoco… Non è loro ufficio dar vita sulla scena a personaggi fantasticati? IL CAPOCOMICO: (subito, facendosi voce dello sdegno crescente dei suoi Attori) Ma io la prego di credere che la professione del comico, caro signore, è una nobilissima professione! Se oggi come oggi i signori commediografi nuovi ci dànno da rappresentare stolide commedie e fantocci invece di uomini, sappia che è nostro vanto aver dato vita – qua, su queste tavole – a opere immortali! Gli Attori, soddisfatti, approveranno e applaudiranno il loro Capocomico. IL PADRE: (interrompendo e incalzando con foga) Ecco! benissimo! a esseri vivi, piú vivi di quelli che respirano e vestono panni! Meno reali, forse; ma piú veri! Siamo dello stessissimo parere! Gli Attori si guarderanno tra loro, sbalorditi.

. scalette: le scalette laterali, che mettono in comunicazione la platea con il palcoscenico. . La Madre … scontroso: didascalia aggiunta nell’edizione . . Dico che … pajano vere: il padre fa notare che, se le infinite assurdità della vita, che non sembrano verisimili e vengono considerate pazzia, sono

però vere, può in realtà essere davvero considerata pazzia quella del teatro, che invece mira a creare delle cose verisimili, per farle apparire vere, mentre vere non sono: egli oppone insomma la «verità» del suo caso inverisimile alla finzione apparentemente verisimile del teatro.

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IL CAPOCOMICO: Ma come! Se prima diceva… IL PADRE: No, scusi, per lei dicevo, signore, che

ci ha gridato di non aver tempo da perdere coi pazzi, mentre nessuno meglio di lei può sapere che la natura si serve da strumento della fantasia umana per proseguire, piú alta, la sua opera di creazione. IL CAPOCOMICO: Sta bene, sta bene. Ma che cosa vuol concludere con questo? IL PADRE: Niente, signore. Dimostrarle che si nasce alla vita in tanti modi, in tante forme: albero o sasso, acqua o farfalla… o donna. E che si nasce anche personaggi! IL CAPOCOMICO: (con finto ironico stupore) E lei, con codesti signori attorno, è nato personaggio? IL PADRE: Appunto, signore. E vivi, come ci vede. Il Capocomico e gli Attori scoppieranno a ridere, come per una burla. IL PADRE: (ferito) Mi dispiace che ridano cosí, perché portiamo in noi, ripeto, un dramma doloroso, come lor signori possono argomentare da questa donna velata di nero. Cosí dicendo porgerà la mano alla Madre per ajutarla a salire gli ultimi scalini e, seguitando a tenerla per mano, la condurrà con una certa tragica solennità dall’altra parte del palcoscenico, che s’illuminerà subito d’una fantastica luce. La Bambina e il Giovinetto seguiranno la Madre; poi il Figlio, che si terrà discosto, in fondo; poi la Figliastra, che s’apparterà anche lei sul davanti, appoggiata all’arcoscenico. Gli Attori, prima stupefatti, poi ammirati di questa evoluzione, scoppieranno in applausi come per uno spettacolo che sia stato loro offerto. IL CAPOCOMICO:

(prima sbalordito, poi sdegnato) Ma via! Facciano silenzio! Poi, rivolgendosi ai Personaggi: E loro si levino! Sgombrino di qua! Al Direttore di scena: Perdio, faccia sgombrare! IL DIRETTORE DI SCENA (facendosi avanti, ma poi fermandosi, come trattenuto da uno strano sgomento) Via! Via! IL PADRE: (al Capocomico) Ma no, veda, poi… IL CAPOCOMICO: (gridando) Insomma, noi qua dobbiamo lavorare! IL PRIMO ATTORE: Non è lecito farsi beffe cosí… IL PADRE: (risoluto, facendosi avanti) Io mi faccio maraviglia della loro incredulità! Non sono forse abituati lor signori a vedere balzar vivi quassú, uno di fronte all’altro, i personaggi creati da un autore? Forse perché non c’è là indicherà la buca del Suggeritore un copione che ci contenga? LA FIGLIASTRA: (facendosi avanti al Capocomico, sorridente, lusingatrice) Creda che siamo veramente sei personaggi, signore, interessantissimi! Quantunque, sperduti. IL PADRE: (scartandola) Sí, sperduti, va bene! Al Capocomico subito: Nel senso, veda, che l’autore che ci creò, vivi, non volle poi, o non poté materialmente, metterci al mondo dell’arte. E fu un vero delitto, signore, perché chi ha la ventura di nascere personaggio vivo, può ridersi anche della morte. Non muore piú! Morrà l’uomo, lo scrittore, strumento della creazione; la creatura non muore piú! E per vivere eterna non ha neanche bisogno di straordinarie doti o di compiere prodigi. Chi era Sancho Panza? Chi era don Abbondio? Eppure vivono eterni, perché – vivi germi – ebbero la ventura di . esseri vivi … in tanti modi, in tante forme: ripresa diretta di varie espressioni della novella La tragedia d’un personaggio (cfr. p. ). . Cosí dicendo … loro offerto: didascalia aggiunta nell’edizione del .

. Direttore di scena: il responsabile pratico dell’organizzazione delle scene e del teatro (diverso dal capocomico-regista). . scartandola: facendola spostare.

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trovare una matrice feconda, una fantasia che li seppe allevare e nutrire: far vivere per l’eternità! IL CAPOCOMICO: Tutto questo va benissimo! Ma che cosa vogliono loro qua? IL PADRE: Vogliamo vivere, signore! IL CAPOCOMICO: (ironico) Per l’eternità? IL PADRE: No, signore: almeno per un momento, in loro. UN ATTORE: Oh, guarda, guarda! LA PRIMA ATTRICE: Vogliono vivere in noi! L’ATTOR GIOVANE: (indicando la Figliastra) Eh, per me volentieri, se mi toccasse quella lí! IL PADRE: Guardino, guardino: la commedia è da fare; al Capocomico ma se lei vuole e i suoi attori vogliono, la concerteremo subito tra noi! IL CAPOCOMICO: (seccato) Ma che vuol concertare! Qua non si fanno di questi concerti! Qua si recitano drammi e commedie! IL PADRE: E va bene! Siamo venuti appunto per questo qua da lei! IL CAPOCOMICO: E dov’e il copione? IL PADRE: È in noi, signore. Gli Attori rideranno. Il dramma è in noi; siamo noi; e siamo impazienti di rappresentarlo, cosí come dentro ci urge la passione! LA FIGLIASTRA: (Schernevole, con perfida grazia di caricata impudenza) La passione mia, se lei sapesse, signore! La passione mia… per lui! Indicherà il Padre e farà quasi per abbracciarlo; ma scoppierà poi in una stridula risata. IL PADRE: (con scatto iroso) Tu statti a posto, per ora! E ti prego di non ridere cosí! LA FIGLIASTRA: No? E allora mi permettano: benché orfana da appena due mesi, stiano a vedere lor signori come canto e come danzo! Accennerà con malizia il «Prends garde à Tchou-Tchin-Tchou» di Dave Stamper ridotto a Fox-trot o One-Step lento da Francis Salabert: la prima strofa, accompagnandola con passo di danza. Les chinois sont un peuple malin, De Shangaï à Pékin, Ils ont mis des écriteaux partout: Prenez garde à Tchou-Tchin-Tchou! Gli Attori, segnatamente i giovani, mentre ella canterà e ballerà, come attratti da un fascino strano, si moveranno verso lei e leveranno appena le mani quasi a ghermirla. Ella sfuggirà; e, quando gli Attori scoppieranno in applausi, resterà, alla riprensione del Capocomico, come astratta e lontana. GLI ATTORI E LE ATTRICI: (ridendo e applaudendo) Bene! IL CAPOCOMICO: (irato) Silenzio! Si credono forse in un

Brava! Benissimo! caffè-concerto? Tirandosi un po’ in disparte il Padre, con una certa costernazione: Ma dica un po’, è pazza? IL PADRE: No, che pazza! È peggio! LA FIGLIASTRA: (subito accorrendo al Capocomico) Peggio! Peggio! Eh altro, signore! Peggio! Senta, per favore: ce lo faccia rappresentar subito, questo dramma, perché vedrà che a un certo punto, io – quando quest’amorino qua

. chi ha la ventura … per l’eternità: altra serie di dirette riprese dalla novella La tragedia d’un perso-

naggio (cfr. p. ).

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prenderà per mano la Bambina che se ne starà presso la Madre e la porterà davanti al Capocomico – vede come è bellina? la prenderà in braccio e la bacerà cara! cara! la rimetterà a terra e aggiungerà, quasi senza volere, commossa ebbene, quando quest’amorino qua, Dio la toglierà d’improvviso a quella povera madre; e quest’imbecillino qua spingerà avanti il Giovinetto, afferrandolo per una manica sgarbatamente farà la piú grossa delle corbellerie, proprio da quello stupido che è lo ricaccerà con una spinta verso la Madre – allora vedrà che io prenderà il volo! Sissignore! prenderò il volo! il volo! E non mi par l’ora, creda, non mi par l’ora! Perché, dopo quello che è avvenuto di molto intimo tra me e lui indicherà il Padre con un orribile ammiccamento non posso piú vedermi in questa compagnia, ad assistere allo strazio di quella madre per quel tomo là indicherà il Figlio – lo guardi! lo guardi! – indifferente, gelido lui, perché è il figlio legittimo, lui! pieno di sprezzo per me, per quello là, indicherà il Giovinetto per quella creaturina; ché siamo bastardi – ha capito? bastardi. Si avvicinerà alla Madre e l’abbraccerà. E questa povera madre – lui – che è la madre comune di noi tutti – non la vuol riconoscere per madre anche sua – e la considera dall’alto in basso, lui, come madre soltanto di noi tre bastardi – vile! Dirà tutto questo, rapidamente, con estrema eccitazione, e arrivata al «vile» finale, dopo aver gonfiato la voce sul «bastardi», lo pronunzierà piano, quasi sputandolo. LA MADRE: (con infinita angoscia al Capocomico) Signore, in nome di queste due creaturine, la supplico… si sentirà mancare e vacillerà – oh Dio mio… IL PADRE: (accorrendo a sorreggerla con quasi tutti gli Attori sbalorditi e costernati) Per carità una sedia, una sedia a questa povera vedova! GLI ATTORI: (accorrendo) – Ma è dunque vero? – Sviene davvero? IL CAPOCOMICO: Qua una sedia, subito!

Uno degli Attori offrirà una sedia; gli altri si faranno attorno premurosi. La Madre, seduta, cercherà d’impedire che il Padre le sollevi il velo che le nasconde la faccia. IL PADRE: La guardi, signore, la guardi… LA MADRE: Ma no, Dio, smettila! IL PADRE: Làsciati vedere!

Le solleverà il velo.

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ENRICO IV

Rappresentato per la prima volta il  febbraio  al teatro Manzoni di Milano, con protagonista Ruggero Ruggeri, questo dramma in tre atti riportò subito un grande successo, anche per il suo carattere davvero sorprendente. In esso, infatti, l’ambiente borghese consueto nel teatro pirandelliano viene confrontato con un lontano universo storico (quello della tradizione della tragedia), attraverso la vicenda di un protagonista, di cui non viene mai fatto il vero nome, che crede di essere Enrico IV, l’imperatore di Germania (-), che fu in lotta contro il papa Gregorio VII per la questione delle investiture. L’azione si svolge venti anni dopo il momento in cui il personaggio innominato è stato colpito da quella follia; un gruppo di parenti e conoscenti, tra cui la marchesa Matilde Spina (un tempo da lui amata, ma rimasta indifferente al suo amore) si recano a visitarlo, nella villa solitaria della campagna umbra, in cui vive assistito da alcuni servitori parati in abiti medievali, che sostengono cosí la sua illusoria identità di imperatore di quel lontano passato (e tra le pieghe del dramma si affacciano molteplici segni del tempo e della storia). I visitatori, che conducono con sé un medico esperto in moderne pratiche psichiatriche, raccontano le circostanze in cui il personaggio è divenuto folle: in occasione di una cavalcata in costume, in cui era appunto travestito da Enrico IV (mentre la marchesa Matilde aveva gli abiti della marchesa Matilde di Toscana), caduto da cavallo, aveva battuto la nuca e da quel momento era passato a vivere sul serio quella parte che aveva assunto nella finzione; questa sua follia, d’altra parte, era stata in qualche modo conseguente al suo carattere di sano, sempre «serio» e «tragico», di grande tensione sentimentale e passionale, sempre pronto a scontrarsi con la superficialità e il cinismo aggressivo della società circostante. I visitatori incontrano poi il folle (travestendosi anch’essi da personaggi dell’epoca), ma in questo incontro e in uno successivo avvertono nel linguaggio di Enrico IV (pur tramato di riferimenti al suo illusorio tempo storico) allusioni e frecciate che fanno pensare che egli li abbia riconosciuti (specie la marchesa, che pur non vedeva da vent’anni) o che comunque sia vicino a un recupero della ragione. In realtà, quando i visitatori si allontanano, egli rivela ai suoi servitori in costume di non essere piú pazzo, di aver scoperto, a un certo punto della sua reclusione, la vera natura della finzione in cui era entrato, ma di aver voluto continuare a fingere la follia e a vivere in quel falso passato, per non tornare nel gioco ipocrita della vita «normale», per non vedere la devastazione fatta dal tempo sulla sua vita, dopo che per tanto tempo ne era stato lontano: al contrario nella storia in cui si trova a vivere tutti i casi e le vicende appaiono «fissati per sempre», nell’immobile coerenza di ciò che si è concluso e si può soltanto ripetere. Ora egli esprime tutto il suo risentimento verso quei visitatori che pretenderebbero di ricondurlo alla normalità, senza voler comprendere la sua sofferenza, il peso che sulle sue spalle ha caricato il ventennio lí dentro trascorso. Il medico cerca però di architettare uno stratagemma per far riaffiorare in lui il ricordo della realtà precedente al suo impazzimento: gli farà apparire la figlia di Matilde, Frida, negli stessi abiti in cui era la madre vent’anni prima, accanto a un ritratto che la riproduce appunto in quel travestimento (a cui la giovane perfettamente somiglia). Ma questa visione, con il suo violentissimo choc, fa riemergere in Enrico IV passioni e desideri mai appagati e gli fa avvertire piú duramente la pena della violenza subita, della propria vita non vissuta. Rivelando ai visitatori di non essere piú pazzo, grida loro le ragioni per cui ha preferito continuare nella propria finzione, in quel tempo congelato della grande storia, in tragica solitudine. E per rifiutare definitivamente un mondo da cui è stato escluso e in cui gli altri vorrebbero ricondurlo con la violenza della logica borghese, trafigge con la spada uno dei visitatori, il suo antico rivale Tito Belcredi, ora amante della marchesa: si può cosí rinchiudere per sempre nell’universo della follia.

DATI

tav. 244

˜ TESTI

10.5 ITALO SVEVO Senilità Emilio e gli altri (I)

Il capitolo iniziale di Senilità presenta subito la situazione su cui il romanzo è basato, cioè il rapporto tra Emilio Brentani e Angiolina (il cui nome viene detto solo piú avanti), definito immediatamente, con le prime parole rivolte alla donna, nella sua natura deviata, nella sfasatura su cui esso si reggerà. Queste prime parole e la proposta che esse contengono resta d’altra parte indeterminata; e, a differenza dei narratori naturalisti, che usano registrare direttamente e oggettivamente le parole dei personaggi, Svevo non pretende di riferire le precise parole dette da Emilio, ma preferisce darne una trascrizione approssimativa («Parlò a un dipresso cosí»). E, sottolineando la scarsa franchezza di quelle parole, le smentisce, aggiungendo un’altra frase un po’ piú franca, che lo stesso Emilio avrebbe dovuto dire e non ha detto. Insomma le prime parole sono già di per sé portate fuori di se stesse: prima riferite sommariamente e poi contestate da altre parole possibili che il personaggio avrebbe dovuto dire. Si tratta di un incipit originalissimo, che ci precipita da subito (e non è un caso se la prima parola è proprio Subito) in un universo in cui i gesti e le parole presentano piú facce, in cui il rapporto tra i personaggi è continuamente regolato dal non detto e dal malinteso. Quelle parole che Emilio avrebbe dovuto dire e non ha detto chiamano peraltro in causa la sua famiglia, che viene poi rapidamente presentata. Si tratta però di una famiglia molto ridotta rispetto a quella che ci si aspetterebbe in un romanzo convenzionale: è costituita da quella sola sorella, che vive per lui «come una madre dimentica di se stessa». La rapida presentazione della sorella si svolge in un confronto tra giovinezza e vecchiaia, con un rovesciamento delle parti tra i due, dato che la donna è «di qualche anno piú giovane di lui, ma piú vecchia per carattere e forse per destino»: ma l’essere giovane ed egoista di Emilio è come segnato da quel sentirsi carico di responsabilità, da quel suo muoversi cauto nella vita (e proprio nelle precedenti parole ad Angiolina proponeva di essere molto cauti) e da una paura della propria debolezza, legata a un’assenza di esperienza. La natura scissa e deviata di Emilio viene poi ricondotta alla sua carriera doppia, divisa tra la sua condizione di «impiegatuccio di poca importanza» e la piccola reputazione acquisita come letterato, con l’unico romanzo pubblicato e ben poco venduto (evidente qui il riferimento alla carriera stessa dell’autore e al precedente romanzo Una vita): ma la coscienza della nullità della propria opera conduce il personaggio a credere di vivere «sempre nel periodo di preparazione», a sentirsi in uno stato di indefinita aspettativa, in attesa di qualcosa che può venirgli dal di fuori e dargli un improbabile successo, nella vita come nell’arte. A questo punto, dopo la presentazione dei caratteri del protagonista, spunta di nuovo l’immagine di Angiolina (ora indicata con il suo nome), che si presenta con i tratti della sanità, di una femminilità che dona salute, che viene a ravvivare l’esistenza in modo non problematico: e si fa piú diffusamente il racconto di quel primo incontro, favorito dal pretesto della caduta dell’ombrellino, ma svoltosi in una quasi totale assenza di comunicazione. Emilio si getta subito nell’avventura seguendo il modello di quelle «che aveva sentito descrivere tanto spesso» e che non gli erano mai toccate: e si costruisce subito una sua immagine della donna e del tipo di rapporto da avere con lei, senza farsi nessuna domanda sulla vera natura di lei, che in realtà poco capisce delle premesse dei discorsi di lui. Questo primo incontro si proietta su di un preciso sfondo triestino, sul terrazzo di Sant’Andrea, in una sera tranquilla e silenziosa, appena segnata dal rumore delle ruote di un carro che passa. Poi c’è il nuovo rapido incontro con Angiolina sul Corso, seguito dai discorsi di Sorniani, un conoscente vanesio e pettegolo, che informa Emilio su di un precedente rapporto della donna con un tal Meriggi. Cosí per la prima volta Emilio ascolta una voce e un parere altrui: la sua vicenda sentimentale si proietterà continuamente attraverso lo sguardo degli altri; egli potrà viverla solo interrogando il punto di vista degli altri, commisurando il proprio comportamento a un’immagine proposta tra gli altri.

Emilio Brentani

Un universo regolato dal malinteso

La sanità di Angiolina

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Lo scultore Balli

La “grigia” sorella Amalia

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Tra questi altri acquista un ruolo di primo piano il piú caro amico di Emilio, lo scultore Stefano Balli, a cui subito egli chiede un parere sulla storia che sta per nascere. Il narratore presenta subito questo nuovo personaggio, uomo maturo e sicuro, con scarso successo nella sua arte, ma molto amato dalle donne (il che gli dà un sicuro senso di superiorità): a lui Emilio riconosce una sorta di autorità paterna, e ne subisce l’influenza «persino nel modo di camminare, parlare, gestire». Il Balli mette in guardia l’amico sul pericolo che potrebbe esserci in quell’avventura e gli fa notare (cosa che fino allora egli aveva trascurato) come troppo facile sia stato l’approccio dato da «quell’ombrellino scivolato tanto opportunamente di mano e dell’appuntamento subito accordato». Alla confidenza con il Balli segue quella con la sorella Amalia, ora piú direttamente descritta nella sua figura fisica, in cui si impone l’assenza di colore (sottolineata dall’accenno al crudele detto del Balli: diceva ch’ella era grigia): e Amalia, che lo ascolta con lo stesso aspetto con cui aveva letto tanti romanzi, entra come di riflesso nell’avventura del fratello, si lascia come catturare dall’illusoria immagine di vitalità e di felicità che egli attribuisce a questo suo amore. Se Emilio vive di riflesso, non vede la realtà ma proietta su di essa i fantasmi del proprio egoismo e della propria inettitudine, Amalia vive di un ulteriore riflesso, proiettato su quello di cui vive il fratello. Il capitolo indica cosí i nodi essenziali della vicenda che sta per svolgersi (e il cui avvio viene esemplarmente sottolineato dalla frase conclusiva: «Fratello e sorella entravano cosí nella medesima avventura»), presentando, nell’atto stesso di vederli in movimento, i quattro personaggi principali: Emilio, Angiolina, Amalia e lo scultore Balli. [EDIZIONE: Italo Svevo, Romanzi, a cura di M. Lavagetto con la collaborazione di F. Amigoni, N. Palmieri e A. Stara, Einaudi-Gallimard, 1993]

Subito, con le prime parole che le rivolse, volle avvisarla che non intendeva compromettersi in una relazione troppo seria. Parlò cioè a un dipresso cosí: – T’amo molto e per il tuo bene desidero ci si metta d’accordo di andare molto cauti. – La parola era tanto prudente ch’era difficile di crederla detta per amore altrui, e un po’ piú franca avrebbe dovuto suonare cosí: – Mi piaci molto, ma nella mia vita non potrai essere giammai piú importante di un giocattolo. Ho altri doveri io, la mia carriera, la mia famiglia. La sua famiglia? Una sola sorella non ingombrante né fisicamente né moralmente, piccola e pallida, di qualche anno piú giovane di lui, ma piú vecchia per carattere o forse per destino. Dei due, era lui l’egoista, il giovane; ella viveva per lui come una madre dimentica di se stessa, ma ciò non impediva a lui di parlarne come di un altro destino importante legato al suo e che pesava sul suo, e cosí, sentendosi le spalle gravate di tanta responsabilità, egli traversava la vita cauto, lasciando da parte tutti i pericoli ma anche il godimento, la felicità. A trentacinque anni si ritrovava nell’anima la brama insoddisfatta di piaceri e di amore, e già l’amarezza di non averne goduto, e nel cervello una grande paura di se stesso e della debolezza del proprio carattere, invero piuttosto sospettata che saputa per esperienza. La carriera di Emilio Brentani era piú complicata perché intanto si componeva di due occupazioni e due scopi ben distinti. Da un impieguccio di poca importanza presso una società di assicurazioni, egli traeva giusto il denaro di cui la famigliuola abbisognava. L’altra carriera era letteraria e, all’infuori di una riputazioncella, – soddisfazione di vanità piú che d’ambizione – non gli rendeva nulla, ma lo affaticava ancor meno. Da molti anni, dopo di aver pubblicato un romanzo lodatissimo dalla stampa cittadina, egli non aveva fatto nulla, per inerzia non per sfiducia. Il romanzo, stampato su carta cattiva, era ingiallito nei magazzini del libraio, ma mentre alla sua pubblicazione Emilio era stato detto soltanto una grande speranza per l’avvenire, ora veniva considerato come una specie di rispettabilità letteraria che contava nel piccolo bilancio artistico della città. La prima sentenza non era stata riformata, s’era evoluta. . a un dipresso: pressappoco. . per amore altrui: cioè della stessa Angiolina: è evidente che Emilio non ha parlato per amore del-

la donna e per il suo bene, ma per il proprio interesse personale.

T. ITALO SVEVO. SENILITÀ



Per la chiarissima coscienza ch’egli aveva della nullità della propria opera, egli non si gloriava del passato, però, come nella vita cosí anche nell’arte, egli credeva di trovarsi ancora sempre nel periodo di preparazione, riguardandosi nel suo piú segreto interno come una potente macchina geniale in costruzione, non ancora in attività. Viveva sempre in un’aspettativa, non paziente, di qualche cosa che doveva venirgli dal cervello, l’arte, di qualche cosa che doveva venirgli di fuori, la fortuna, il successo, come se l’età delle belle energie per lui non fosse tramontata. Angiolina, una bionda dagli occhi azzurri grandi, alta e forte, ma snella e flessuosa, il volto illuminato dalla vita, un color giallo di ambra soffuso di rosa da una bella salute, camminava accanto a lui, la testa china da un lato come piegata dal peso del tanto oro che la fasciava, guardando il suolo ch’ella ad ogni passo toccava con l’elegante ombrellino come se avesse voluto farne scaturire un commento alle parole che udiva. Quando credette di aver compreso disse: – Strano – timidamente guardandolo sottecchi. – Nessuno mi ha mai parlato cosí. – Non aveva compreso e si sentiva lusingata al vederlo assumere un ufficio che a lui non spettava, di allontanare da lei il pericolo. L’affetto ch’egli le offriva ne ebbe l’aspetto di fraternamente dolce. Fatte quelle premesse, l’altro si senti tranquillo e ripigliò un tono piú adatto alla circostanza. Fece piovere sulla bionda testa le dichiarazioni liriche che nei lunghi anni il suo desiderio aveva maturate e affinate, ma, facendole, egli stesso le sentiva rinnovellare e ringiovanire come se fossero nate in quell’istante, al calore dell’occhio azzurro di Angiolina. Ebbe il sentimento che da tanti anni non aveva provato, di comporre, di trarre dal proprio intimo idee e parole: un sollievo che dava a quel momento della sua vita non lieta, un aspetto strano, indimenticabile, di pausa, di pace. La donna vi entrava! Raggiante di gioventú e bellezza ella doveva illuminarla tutta facendogli dimenticare il triste passato di desiderio e di solitudine e promettendogli la gioia per l’avvenire ch’ella, certo, non avrebbe compromesso. Egli s’era avvicinato a lei con l’idea di trovare un’avventura facile e breve, di quelle che egli aveva sentito descrivere tanto spesso e che a lui non erano toccare mai o mai degne di essere ricordate. Questa s’era annunziata proprio facile e breve. L’ombrellino era caduto in tempo per fornirgli un pretesto di avvicinarsi ed anzi – sembrava malizia! – impigliatosi nella vita trinata della fanciulla: non se n’era voluto staccare che dopo spinte visibilissime. Ma poi, dinanzi a quel profilo sorprendentemente puro, a quella bella salute – ai rètori corruzione e salute sembrano inconciliabili – aveva allentato il suo slancio, timoroso di sbagliare e infine s’incantò ad ammirare una faccia misteriosa dalle linee precise e dolci, già soddisfatto, già felice. Ella gli aveva raccontato poco di sé e per quella volta, tutto compreso del proprio sentimento, egli non udí neppure quel poco. Doveva essere povera, molto povera, ma per il momento – lo aveva dichiarato con una certa quale superbia – non aveva bisogno di lavorare per vivere. Ciò rendeva l’avventura anche piú gradevole, perché la vicinanza della fame turba là dove ci si vuol divertire. Le indagini di Emilio non furono dunque molto profonde ma egli credette che le sue conclusioni logiche, anche poggiate su tali basi, dovessero bastare a rassicurarlo. Se la fanciulla, come si sarebbe dovuto credere dal suo occhio limpido, era onesta, certo non sarebbe stato lui che si sarebbe esposto al pericolo di depravarla; se in. giallo di ambra: un giallo limpidissimo, quello dell’ambra, sostanza fossile e trasparente, che si lavora soprattutto per farne gioielli. . la testa … la fasciava: una immagine simile (il peso dei capelli che piega la testa da un lato) veniva usata in Una vita, capitolo VII, per una ragazza «dai capelli esattamente biondi, il colore puro dell’oro, una figurina diritta che pareva accorgersi del peso del tanto metallo che portava in testa». . il pericolo: quello d’una richiesta d’impegno amoroso piú vincolante di quel che Angiolina non

desideri. . sulla bionda testa: di Angiolina. . vita trinata: la vita (parte anatomica al di sopra dei fianchi) è coperta da una veste ornata con trine. . i rètori: la parola indica qui coloro che si fanno un’immagine della realtà modellata sui libri o su astratti ideali; proprio perché vede la vita secondo modelli precostituiti, letterari e retorici, Emilio crede erroneamente che corruzione e salute siano inconciliabili: non può sospettare che la bella salute di Angiolina nasconda un carattere volgare e corrotto.

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vece il profilo e l’occhio mentivano, tanto meglio. C’era da divertirsi in ambedue i casi, da pericolare in nessuno dei due. Angiolina aveva capito poco delle premesse, ma, visibilmente, non le occorrevano commenti per comprendere il resto; anche le parole piú difficili avevano un suono di carattere non ambiguo. I colori della vita risaltarono sulla bella faccia e la mano di forma pura, quantunque grande, non si sottrasse a un bacio castissimo d’Emilio. Si fermarono a lungo sul terrazzo di S. Andrea e guardarono verso il mare calmo e colorito nella notte stellata, chiara ma senza luna. Nel viale di sotto passò un carro e, nel grande silenzio che li circondava, il rumore delle ruote sul terreno ineguale continuò a giungere fino a loro per lunghissimo tempo. Si divertirono a seguirlo sempre piú tenue finché proprio si fuse nel silenzio universale, e furono lieti che per tutt’e due fosse scomparso nello stesso istante. – Le nostre orecchie vanno molto d’accordo, – disse Emilio sorridendo. Egli aveva detto tutto e non sentiva piú alcun bisogno di parlare. Interruppe un lungo silenzio per dire: – Chissà se quest’incontro ci porterà fortuna! – Era sincero. Aveva sentito il bisogno di dubitare della propria felicità ad alta voce. – Chissà? – replicò essa con un tentativo di rendere nella propria voce la commozione che aveva sentita nella sua. Emilio sorrise di nuovo ma di un sorriso che credette di dover celare. Date le premesse da lui fatte, che razza di fortuna poteva risultare ad Angiolina dall’averlo conosciuto? Poi si lasciarono. Ella non volle ch’egli l’accompagnasse in città ed egli la seguí a qualche distanza non sapendo ancora staccarsene del tutto. Oh, la gentile figura! Ella camminava con la calma del suo forte organismo, sicura sul selciato coperto da una fanghiglia sdrucciolevole; quanta forza e quanta grazia unite in quelle movenze sicure come quelle di un felino. Volle il caso che subito il giorno dopo egli risapesse sul conto dell’Angiolina ben piú di quanto ella gli avesse detto. S’imbatté in lei a mezzodí, nel Corso. La inaspettata fortuna gli fece fare un saluto giocondo, un grande gesto che portò il cappello a piccola distanza da terra; ella rispose con un lieve inchino della testa, ma corretto da un’occhiata brillante, magnifica. Un certo Sorniani, un omino giallo e magro, gran donnaiuolo, a quanto dicevasi, ma certo anche vanesio e linguacciuto a scapito del buon nome altrui e del proprio, si appese al braccio di Emilio e gli chiese come mai conoscesse quella ragazza. Erano amici fin da ragazzi ma da parecchi anni non s’erano parlati e doveva passare fra di loro una bella donna perché il Sorniani sentisse il bisogno di avvicinarglisi. – L’ho trovata in casa di conoscenti, – rispose Emilio. – E che cosa fa adesso? – chiese Sorniani facendo capire di conoscere il passato d’Angiolina e d’essere veramente indignato di non conoscerne il presente. – Non lo so, io – e aggiunse con indifferenza ben simulata: – A me fece l’impressione di una ragazza a modo. – Adagio! – fece il Sorniani risolutamente come se avesse voluto asserire il contrario, e soltanto dopo una breve pausa si corresse: – Io non ne so nulla e quando la conobbi tutti la credevano onesta quantunque una volta si fosse trovata in una posizione alquanto equivoca. – Senza che Emilio avesse bisogno di stimolarlo piú oltre, raccontò che quella poveretta era passata vicino ad una grande fortuna convertitasi poscia, per sua o per colpa altrui, in una sven. terrazzo di S. Andrea: è nei pressi della strada per Servola, oggi chiamata via Italo Svevo, dove era la villa della famiglia Veneziani e la fabbrica di vernici sottomarine del padre di Livia, la moglie dello scrittore, che nella Vita di mio marito ricorda i frequenti incontri nel giardino della villa di S.Andrea nel periodo del fidanzamento. . replicò … nella sua: Angiolina si adatta automaticamente alla prospettiva di Emilio, mira ora a

presentarsi a lui come egli la vuole, pur non comprendendo fino in fondo le sue premesse e rimanendo in fondo a esse estranea. . Date le premesse … conosciuto: Emilio è ora cosciente della deformazione del suo rapporto con Angiolina, e nascondendo il suo sorriso assume un comportamento simile a quello di lei: la loro storia prende avvio nella piú assoluta opacità, escludendo ogni trasparenza.

T. ITALO SVEVO. SENILITÀ



tura non piccola. Nella prima giovinezza aveva innamorato profondamente un certo Merighi, bellissimo uomo, – Sorniani lo riconosceva quantunque a lui non fosse piaciuto – e agiato commerciante. Costui le si era avvicinato con i propositi piú onesti; l’aveva levata dalla famiglia che non gli piaceva troppo e fatta accogliere in casa dalla propria madre. – Dalla propria madre! – esclamava Sorniani. – Come se quello sciocco – gli premeva di far apparire sciocco l’uomo e disonesta la donna – non si fosse potuta godere la ragazza anche fuori di casa, non sotto gli occhi della madre. Poi, dopo qualche mese, Angiolina ritornò nella casa donde non sarebbe mai dovuta uscire e Merighi con la madre abbandonò la città dando a credere di essere impoverito in seguito a speculazioni sbagliate. Secondo altri la cosa sarebbe proceduta in modo un po’ diverso. La madre del Merighi, scoperta una tresca vergognosa di Angiolina, avrebbe scacciata di casa la ragazza. – Non richiesto fece poi delle altre variazioni sullo stesso tema. Ma era troppo evidente ch’egli si compiaceva di sbizzarrirsi su quell’argomento eccitante e il Brentani non ritenne che le parole cui poteva prestare fede intera, i fatti che dovevano essere notorii. Egli aveva conosciuto di vista il Merighi e ne ricordava la figura alta d’atleta, il vero maschio per Angiolina. Rammentava di averlo sentito descrivere, anzi biasimare, quale un idealista nel commercio: un uomo troppo ardito, convinto di poter conquistare il mondo con la sua attività. Infine, dalle persone con le quali aveva da fare giornalmente nel suo impiego, aveva saputo che quell’arditezza era costata cara al Merighi il quale aveva finito col dover liquidare la sua azienda in condizioni disastrose. Il Sorniani perciò parlava al vento perché Emilio ora credeva di poter conoscere con esattezza l’accaduto. Al Merighi impoverito e sfiduciato era mancato il coraggio di fondare una nuova famiglia e cosí Angiolina, che doveva diventare la donna borghese ricca e seria, finiva nelle sue mani, un giocattolo. Ne sentí una profonda compassione. Il Sorniani aveva assistito egli stesso a delle manifestazioni d’amore del Merighi. Lo aveva visto, parecchie volte, di domenica, sulla soglia della chiesa di Sant’Antonio Vecchio, attendere lungamente che ella avesse fatte le sue preghiere inginocchiata presso all’altare, tutt’assorto a guardare quella testa bionda, lucente anche nella penombra. «Due adorazioni», pensò commosso il Brentani cui era già facile d’intuire la tenerezza dalla quale il Merighi era inchiodato sulla soglia di quella chiesa. – Un imbecille – concluse il Sorniani. L’importanza dell’avventura crebbe agli occhi d’Emilio per le comunicazioni del Sorniani. L’attesa del giovedí in cui doveva rivederla divenne febbrile, e l’impazienza lo rese ciarliero. Il suo piú intimo amico, un certo Balli, scultore, seppe dell’incontro subito il giorno dopo ch’era avvenuto. – Perché non potrei divertirmi un poco anch’io, quando posso farlo tanto a buon mercato? – aveva chiesto Emilio. Il Balli stette a udirlo con l’aspetto piú evidente della meraviglia. Era l’amico del Brentani da oltre dieci anni, e per la prima volta lo vedeva accalorarsi per una donna. Se ne impensierí scorgendo subito il pericolo da cui il Brentani era minacciato. L’altro protestò: – Io in pericolo, alla mia età e con la mia esperienza? – Il Brentani parlava spesso della sua esperienza. Ciò ch’egli credeva di poter chiamare cosí era qualche cosa ch’egli aveva succhiato dai libri, una grande diffidenza e un grande disprezzo dei propri simili. Il Balli invece aveva impiegati meglio i suoi quarant’anni sonati, e la sua esperienza lo rendeva competente a giudicare di quella dell’amico. Era men colto, ma aveva sempre avuto su lui una specie d’autorità paterna, consentita, voluta da Emilio, il quale, ad onta del suo . non ritenne che: trattenne, prese sul serio soltanto. . Sant’Antonio Vecchio: chiesa nella vecchia Trieste, cosí chiamata popolarmente, ma in realtà dedicata alla Vergine del Soccorso. . Due adorazioni: Emilio interpreta a suo modo il quadro tracciato dal Sorniani: Angiolina è adorante e adorata, al suo atto di adorazione verso l’altare corrisponde quello del Merighi verso di lei.

Ben diversa l’interpretazione del Sorniani, per il quale l’adorante Merighi non è che un imbecille. . un certo Balli: la figura dello scultore Balli evoca, ma solo in parte, quella di uno dei piú cari amici di Svevo, il pittore Umberto Veruda (-), conosciuto nel  e piú intensamente frequentato a partire dal : artista di valore che, a differenza del Balli, all’inizio ebbe anche un certo successo.

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destino poco lieto ma per nulla minaccioso, e della sua vita in cui non v’era niente di imprevisto, abbisognava di puntelli per sentirsi sicuro. Stefano Balli era un uomo alto e forte, l’occhio azzurro giovanile su una di quelle facce dalla cera bronzina che non invecchiano: unica traccia della sua età era la brizzolatura dei capelli castani, la barba appuntata con precisione, tutta la figura corretta e un po’ dura. Era talvolta dolce il suo occhio da osservatore quando lo animava la curiosità o la compassione, ma diveniva durissimo nella lotta e nella discussione piú futile. Il successo non era arriso nemmeno a lui. Qualche giuria, respingendo i suoi bozzetti, ne aveva lodata questa o quella parte, ma nessun suo lavoro aveva trovato posto su qualcuna delle tante piazze d’Italia. Egli però non aveva mai sentito l’abbattimento dell’insuccesso. S’accontentava del consenso di qualche singolo artista ritenendo che la propria originalità dovesse impedirgli il successo largo, l’approvazione delle masse, e aveva continuato a correre la sua via dietro a un certo ideale di spontaneità, a una ruvidezza voluta, a una semplicità o, come egli diceva, perspicuità d’idea da cui credeva dovesse risultare il suo «io» artistico depurato da tutto ciò ch’era idea o forma altrui. Non ammetteva che il risultato del suo lavoro potesse avvilirlo, ma i ragionamenti non lo avrebbero salvato dallo sconforto, se un successo personale inaudito non gli avesse date delle soddisfazioni ch’egli celava, anzi negava, ma che aiutavano non poco a tener eretta la sua bella figura slanciata. L’amore delle donne era per lui qualcosa di piú che una soddisfazione di vanità ad onta che, ambizioso, prima di tutto, egli non sapesse amare. Era il successo quello o gli somigliava di molto; per amore dell’artista le donne amavano anche l’arte sua che pure era tanto poco femminea. Cosí, avendo profondissima la convinzione della propria genialità, e sentendosi ammirato e amato, egli conservava con tutta naturalezza il suo contegno di persona superiore. In arte aveva dei giudizi aspri e imprudenti, in società un contegno poco riguardoso. Gli uomini lo amavano poco ed egli non avvicinava che coloro cui aveva saputo imporsi. Circa dieci anni prima, s’era trovato fra’ piedi Emilio Brentani, allora giovinetto, un egoista come lui ma meno fortunato, e aveva preso a volergli bene. Da principio lo predilesse soltanto per la ragione che se ne sentiva ammirato; molto piú tardi l’abitudine glielo rese caro, indispensabile. La loro relazione ebbe l’impronta dal Balli. Divenne piú intima di quanto Emilio per prudenza avrebbe desiderato, intima come tutte le poche relazioni dello scultore, e i loro rapporti intellettuali restarono ristretti alle arti rappresentative nelle quali andavano perfettamente d’accordo perché in quelle arti esisteva una sola idea, quella cui s’era votato il Balli, la riconquista della semplicità o ingenuità che i cosidetti classici ci avevano rubate. Accordo facile; il Balli insegnava, l’altro non sapeva neppure apprendere. Fra di loro non si parlava mai delle teorie letterarie complesse di Emilio, poiché il Balli detestava tutto ciò che ignorava, ed Emilio subí l’influenza dell’amico persino nel modo di camminare, parlare, gestire. Uomo nel vero senso della parola, il Balli non riceveva e quando si trovava accanto il Brentani, poteva avere la sensazione d’essere accompagnato da una delle tante femmine a lui soggette. – Infatti – disse dopo di aver uditi da Emilio tutti i particolari dell’avventura, – un certo pericolo non dovrebbe esserci. Il carattere dell’avventura è già fissato da quell’ombrellino scivolato tanto opportunamente di mano e dall’appuntamento subito accordato. – È vero, – confermò Emilio il quale però non disse come a quei due particolari egli avesse dato tanto poca importanza che essi, rilevati dal Balli, lo avevano sorpreso come dei fatti nuovi. – Credi dunque che il Sorniani abbia ragione? – Nel suo giudizio sulle comunicazioni del Sorniani egli certo non aveva tenuto conto di quei fatti. – Me la presenterai – disse il Balli prudentemente – e poi giudicheremo. Il Brentani non seppe tacere neppure con sua sorella. La signorina Amalia non era stata mai bella: lunga, secca, incolore – il Balli diceva che era nata grigia – di fanciulla non le erano rimaste che le mani bianche, sottili, tornite meravigliosamente, alle quali ella dedicava tutte le sue cure. Era la prima volta ch’egli le parlava di una donna, e Amalia stette ad ascoltare, sorpresa e con la cera subito mutata, quelle parole ch’egli credeva oneste, caste, ma che in bocca sua

T. ITALO SVEVO. SENILITÀ



erano pregne di desiderio e di amore. Egli non aveva raccontato nulla, ed ella, già spaventata, aveva mormorata l’ammonizione del Balli: – Bada di non fare delle sciocchezze. Ma poi volle ch’egli le raccontasse tutto, ed Emilio credette di poter confidare la sua ammirazione e la felicità provata quella prima sera, tacendo dei suoi propositi e delle sue speranze. Non s’accorgeva che quella che diceva era la parte piú pericolosa. Ella stette ad ascoltarlo, servendolo muta e pronta a tavola acciocché egli non avesse da interrompersi per chiedere una cosa o l’altra. Certo, col medesimo aspetto, ella aveva letto quel mezzo migliaio di romanzi che facevano bella mostra di sé, nel vecchio armadio adattato a biblioteca, ma il fascino che veniva ora esercitato su lei – ella, sorpresa, già lo sapeva – era del tutto differente. Ella non era passiva ascoltatrice, non era il fato altrui che l’appassionasse; il proprio destino intensamente si ravvivava. L’amore era entrato in casa e le viveva accanto, inquieto, laborioso. Con un solo soffio aveva dissipata l’atmosfera stagnante in cui ella, inconscia, aveva passati i suoi giorni ed ella guardava dentro di sé sorpresa ch’essendo fatta cosí, non avesse desiderato di godere e di soffrire. Fratello e sorella entravano nella medesima avventura. . la parte piú pericolosa: la nozione di pericolo che si è variamente affacciata sia nel primo incontro tra Emilio e Angiolina, sia nelle illazioni del Balli, si rivolge ora verso l’essere piú fragile e indifeso, la

grigia Amalia. L’avventura di Emilio fa sí che anche la sorella venga toccata dal richiamo rischioso dell’amore e del dolore, che fino allora aveva toccato solo attraverso i romanzi.

UNA VITA: UN INETTO

Alfonso Nitti, il protagonista del primo romanzo, è venuto dalla campagna a Trieste, vive presso una famiglia di affittacamere e lavora come corrispondente per la banca Maller: la situazione e il personaggio hanno numerosi precedenti nella narrativa ottocentesca e si appoggiano anche su motivi autobiografici. La rappresentazione, legata ai modelli realistici e naturalistici, tende a concentrarsi tutta sul punto di vista del personaggio protagonista, sulle sue ambizioni intellettuali, sul senso fortissimo che egli ha di sé, del proprio valore, delle proprie possibilità, su astratti ideali di vita che si muovono nella sua mente: ma tutte le velleità del personaggio sono continuamente smentite e avvilite dalla realtà del mondo degli affari con cui egli è in contatto, dai meccanismi della vita di relazione, dalla concretezza dei rapporti di forza e dei condizionamenti sociali, dalla sua insuperabile «inferiorità» verso il mondo borghese in cui egli pretende di inserirsi e che vorrebbe far suo e dominare. Preso dai suoi vaghi sogni intellettuali, egli non riesce mai a impadronirsi delle circostanze, ma viene sempre trascinato in situazioni a cui non riesce a partecipare pienamente, nei confronti delle quali resta sempre estraneo o assente. In lui si dà, come poi in modo diverso negli altri «eroi» di Svevo, «uno scompenso tra l’orientamento che l’individuo dà alla propria vita, e la curva che la vita descrive»; tutto il suo muoversi sembra il risultato di un «errore di calcolo» (Debenedetti). Nella sua condizione di subalterno, date le sue qualità intellettuali, egli viene ammesso a frequentare la casa borghese del signor Maller, il direttore della banca, e si trova, quasi senza rendersene conto, a possedere Annetta, la giovane figlia piena di vaghi desideri di fuga e di velleità intellettuali, che progetta di scrivere un romanzo a quattro mani insieme con lui. Ma quando sembra porsi il problema di superare gli ostacoli sociali che si opporrebbero a un matrimonio con Annetta, Alfonso si trova quasi insensibilmente a rinunciare a questa possibilità di scalata sociale: si mette alla ricerca delle proprie origini e ritorna al paese natale, dove assiste alla morte della madre, si ammala e finisce per vendere ogni bene familiare. Tornato a Trieste, riprende la vita di impiegato, piú umiliato ed emarginato del solito; dopo un dissidio con il signor Maller, dà le dimissioni dalla banca e invia ad Annetta una lettera, che viene vista dalla sua famiglia come un tentativo di ricatto. Sfidato a duello dal fratello di Annetta, egli rinuncia definitivamente alla lotta suicidandosi: ma anche nel suo suicidio non c’è nulla di eroico, c’è solo la conferma della sua condizione di subalternità e di inferiorità rispetto alla logica che governa il mondo reale.

DATI

tav. 245

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GUERRE E FASCISMO

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La coscienza di Zeno Il fumo

Narrazione per nuclei tematici

La malattia di Zeno e l’ultima sigaretta

Il tempo che «ritorna»

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Si riporta qui la parte iniziale del terzo capitolo, che costituisce il primo ampio brano de La coscienza di Zeno, dopo i due brevi capitoletti costituiti dalla Prefazione del dottor S. e dal Preambolo dello stesso Zeno. Mentre nel Preambolo il protagonista narratore accennava alla necessità di raccontare la sua vita risalendo indietro fino ai ricordi dell’infanzia, all’origine della propria malattia, secondo i consigli del medico, ora la narrazione vera e propria si svolge senza seguire la cronologia, ma concentrandosi, come accade per tutti i successivi capitoli del romanzo, su di un particolare nucleo tematico, che produce divagazioni e passaggi temporali, estranei a ogni successione cronologica. In questa che si presenta come la prima prova di analisi di se stesso, Zeno risponde al suggerimento del dottore della sua propensione al fumo: tema particolarmente originale, che tra l’altro suscitò l’interesse di James Joyce (cfr. CANONE EUROPEO, tav. 225), che cosí dice in una lettera a Svevo del 20 gennaio 1924: «Per ora due cose m’interessano. Il tema: non avrei mai pensato che il fumo potesse dominare una persona in quel modo; secondo, il trattamento del tempo nel romanzo». La malattia di Zeno viene qui a identificarsi quasi completamente con il vizio del fumo e con l’impossibilità di liberarsene. Secondo il compito attribuitogli dal medico, Zeno fa agire liberamente i suoi ricordi, cominciando dalle scatole delle prime sigarette da lui fumate (e che non esistono piú) e risalendo a una serie di scene familiari, in cui le prime esperienze di fumatore riconducono al rapporto con il padre, a piccoli furti compiuti a suo danno, a una violenta malattia alla gola durante la quale l’assoluto divieto di fumare aveva dato luogo a un piú intenso piacere di fumare di nascosto, accompagnato ogni volta dal proposito di non fumare piú. Sul motivo dell’ultima sigaretta si svolge una serie di notazioni umoristiche, che coinvolgono in primo luogo il tempo, con le date di tutte le ultime sigarette che Zeno nota non solo nei libri, ma sulle pareti della sua stanza: tempo che, attraverso quelle date sempre ripetute, sempre contraddette e sempre rinviate (fissate in giocose combinazioni numeriche), mostra la sua inafferrabile instabilità, il suo procedere nel rinvio, nel riavvolgersi su se stesso (fino alla conclusione del brano antologizzato: «Eppoi il tempo, per me, non è quella cosa impensabile che non s’arresta mai. Da me, solo da me, ritorna»). [EDIZIONE: Italo Svevo, Romanzi, cit.]

Il dottore al quale ne parlai mi disse d’iniziare il mio lavoro con un’analisi storica della mia propensione al fumo: – Scriva! Scriva! Vedrà come arriverà a vedersi intero. Credo che del fumo posso scrivere qui al mio tavolo senz’andar a sognare su quella poltrona. Non so come cominciare e invoco l’assistenza delle sigarette tutte tanto somiglianti a quella che ho in mano. Oggi scopro subito qualche cosa che piú non ricordavo. Le prime sigarette ch’io fumai non esistono piú in commercio. Intorno al ’ se ne avevano in Austria di quelle che venivano vendute in scatoline di cartone munite del marchio dell’aquila bicipite. Ecco: attorno a una di quelle scatole s’aggruppano subito varie persone con qualche loro tratto, sufficiente per suggerirmene il nome, non bastevole però a commovermi per l’impensato incontro. Tento di ottenere di piú e vado alla poltrona: le persone sbiadiscono e al loro posto si mettono dei buffoni che mi deridono. Ritorno sconfortato al tavolo.

. Il dottore: il dottor S., lo psicoanalista che ha prescritto a Zeno di «scrivere la sua autobiografia».

. aquila bicipite: emblema degli Asburgo e dell’impero austro-ungarico.

T. ITALO SVEVO. LA COSCIENZA DI ZENO



Una delle figure, dalla voce un po’ roca, era Giuseppe, un giovinetto della stessa mia età, e l’altra, mio fratello, di un anno di me piú giovine e morto tanti anni or sono. Pare che Giuseppe ricevesse molto denaro dal padre suo e ci regalasse di quelle sigarette. Ma sono certo che ne offriva di piú a mio fratello che a me. Donde la necessità in cui mi trovai di procurarmene da me delle altre. Cosí avvenne che rubai. D’estate mio padre abbandonava su una sedia nel tinello il suo panciotto nel cui taschino si trovavano sempre degli spiccioli: mi procuravo i dieci soldi occorrenti per acquistare la preziosa scatoletta e fumavo una dopo l’altra le dieci sigarette che conteneva, per non conservare a lungo il compromettente frutto del furto. Tutto ciò giaceva nella mia coscienza a portata di mano. Risorge solo ora perché non sapevo prima che potesse avere importanza. Ecco che ho registrata l’origine della sozza abitudine e (chissà?) forse ne sono già guarito. Perciò, per provare, accendo un’ultima sigaretta e forse la getterò via subito, disgustato. Poi ricordo che un giorno mio padre mi sorprese col suo panciotto in mano. Io, con una sfacciataggine che ora non avrei e che ancora adesso mi disgusta (chissà che tale disgusto non abbia una grande importanza nella mia cura) gli dissi che m’era venuta la curiosità di contarne i bottoni. Mio padre rise delle mie disposizioni alla matematica o alla sartoria e non s’avvide che avevo le dita nel taschino del suo panciotto. A mio onore posso dire che bastò quel riso rivolto alla mia innocenza quand’essa non esisteva piú, per impedirmi per sempre di rubare. Cioè… rubai ancora, ma senza saperlo. Mio padre lasciava per la casa dei sigari virginia fumati a mezzo, in bilico su tavoli e armadi. Io credevo fosse il suo modo di gettarli via e credevo anche di sapere che la nostra vecchia fantesca, Catina, li buttasse via. Andavo a fumarli di nascosto. Già all’atto d’impadronirmene venivo pervaso da un brivido di ribrezzo sapendo quale malessere m’avrebbero procurato. Poi li fumavo finché la mia fronte non si fosse coperta di sudori freddi e il mio stomaco si contorcesse. Non si dirà che nella mia infanzia io mancassi di energia. So perfettamente come mio padre mi guarí anche di quest’abitudine. Un giorno d’estate ero ritornato a casa da un’escursione scolastica, stanco e bagnato di sudore. Mia madre m’aveva aiutato a spogliarmi e, avvoltomi in un accappatoio, m’aveva messo a dormire su un sofà sul quale essa stessa sedette occupata a certo lavoro di cucito. Ero prossimo al sonno, ma avevo gli occhi tuttavia pieni di sole e tardavo a perdere i sensi. La dolcezza che in quell’età s’accompagna al riposo dopo una grande stanchezza, m’è evidente come un’immagine a sé, tanto evidente come se fossi adesso là accanto a quel caro corpo che piú non esiste. Ricordo la stanza fresca e grande ove noi bambini si giuocava e che ora, in questi tempi avari di spazio, è divisa in due parti. In quella scena mio fratello non appare, ciò che mi sorprende perché penso ch’egli pur deve aver preso parte a quell’escursione e avrebbe dovuto poi partecipare al riposo. Che abbia dormito anche lui all’altro capo del grande sofà? Io guardo quel posto, ma mi sembra vuoto. Non vedo che me, la dolcezza del riposo, mia madre, eppoi mio padre di cui sento echeggiare le parole. Egli era entrato e non m’aveva subito visto perché ad alta voce chiamò: – Maria!

. mio fratello … or sono: in questo fratello, di cui Zeno non parlerà mai piú nel corso dell’autobiografia e che ritornerà solo nell’ultimo capitolo in forma di diario, è adombrata la figura del fratello minore di Svevo, Elio Schmitz, nato nel  e morto nel : il diario da lui tenuto tra il  e il  dà molte notizie sui primi tentativi letterari di Svevo, di cui egli si voleva «bibliotecario» e «storico».

. sigari virginia: sigari con pagliuzza interna, in origine confezionati con tabacco della Virginia (stato degli U.S.A.). . In quella scena … vuoto: l’assenza del fratello equivale a una sua cancellazione dalla scena familiare: in termini psicoanalitici essa è evidentemente motivata dal senso di gelosia e di rivalità, dal desiderio di un rapporto esclusivo con la madre.

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La mamma con un gesto accompagnato da un lieve suono labbiale accennò a me, ch’essa credeva immerso nel sonno su cui invece nuotavo in piena coscienza. Mi piaceva tanto che il babbo dovesse imporsi un riguardo per me, che non mi mossi. Mio padre con voce bassa si lamentò: – Io credo di diventar matto. Sono quasi sicuro di aver lasciato mezz’ora fa su quell’armadio un mezzo sigaro ed ora non lo trovo piú. Sto peggio del solito. Le cose mi sfuggono. Pure a voce bassa, ma che tradiva un’ilarità trattenuta solo dalla paura di destarmi, mia madre rispose: – Eppure nessuno dopo il pranzo è stato in quella stanza. Mio padre mormorò: – È perché lo so anch’io, che mi pare di diventar matto! Si volse ed uscí. Io apersi a mezzo gli occhi e guardai mia madre. Essa s’era rimessa al suo lavoro, ma continuava a sorridere. Certo non pensava che mio padre stesse per ammattire per sorridere cosí delle sue paure. Quel sorriso mi rimase tanto impresso che lo ricordai subito ritrovandolo un giorno sulle labbra di mia moglie. Non fu poi la mancanza di denaro che mi rendesse difficile di soddisfare il mio vizio, ma le proibizioni valsero ad eccitarlo. Ricordo di aver fumato molto, celato in tutti i luoghi possibili. Perché seguito da un forte disgusto fisico, ricordo un soggiorno prolungato per una mezz’ora in una cantina oscura insieme a due altri fanciulli di cui non ritrovo nella memoria altro che la puerilità del vestito: Due paia di calzoncini che stanno in piedi perché dentro c’è stato un corpo che il tempo eliminò. Avevamo molte sigarette e volevamo vedere chi ne sapesse bruciare di piú nel breve tempo. Io vinsi, ed eroicamente celai il malessere che mi derivò dallo strano esercizio. Poi uscimmo al sole e all’aria. Dovetti chiudere gli occhi per non cadere stordito. Mi rimisi e mi vantai della vittoria. Uno dei due piccoli omini mi disse allora: – A me non importa di aver perduto perché io non fumo che quanto m’occorre. Ricordo la parola sana e non la faccina certamente sana anch’essa che a me doveva essere rivolta in quel momento. Ma allora io non sapevo se amavo o odiavo la sigaretta e il suo sapore e lo stato in cui la nicotina mi metteva. Quando seppi di odiare tutto ciò fu peggio. E lo seppi a vent’anni circa. Allora soffersi per qualche settimana di un violento male di gola accompagnato da febbre. Il dottore prescrisse il letto e l’assoluta astensione dal fumo. Ricordo questa parola assoluta! Mi ferí e la febbre la colorí: un vuoto grande e niente per resistere all’enorme pressione che subito si produce attorno ad un vuoto. Quando il dottore mi lasciò, mio padre (mia madre era morta da molti anni) con tanto di sigaro in bocca restò ancora per qualche tempo a farmi compagnia. Andandosene, dopo di aver passata dolcemente la sua mano sulla mia fronte scottante, mi disse: – Non fumare, veh! Mi colse un’inquietudine enorme. Pensai: «Giacché mi fa male non fumerò mai piú, ma prima voglio farlo per l’ultima volta». Accesi una sigaretta e mi sentii subito liberato dall’inquietudine ad onta che la febbre forse aumentasse e che ad ogni tirata sentissi alle tonsille un bruciore come se fossero state toccate da un tizzone ardente. Finii tutta la sigaretta con l’accuratezza con cui si compie un voto. E, sempre soffrendo orribilmente, ne fumai molte altre durante la malattia. Mio padre andava e veniva col suo sigaro in bocca dicendomi: – Bravo! Ancora qualche giorno di astensione dal fumo e sei guarito! Bastava questa frase per farmi desiderare ch’egli se ne andasse presto, presto, per permettermi di correre alla mia sigaretta. Fingevo anche di dormire per indurlo ad allontanarsi prima. . quel sorriso … mia moglie: ciò attribuisce caratteri materni alla figura della moglie di Zeno; ma nella parte finale del capitolo il riso della moglie

diventerà per Zeno assurdo motivo di gelosia e di sospetto, gli farà temere un tradimento della stessa moglie con l’elegante dottor Muli.

T. ITALO SVEVO. LA COSCIENZA DI ZENO

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Quella malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo di liberarmi dal primo. Le mie giornate finirono coll’essere piene di sigarette e di propositi di non fumare piú e, per dire subito tutto, di tempo in tempo sono ancora tali. La ridda delle ultime sigarette, formatasi a vent’anni, si muove tuttavia. Meno violento è il proposito e la mia debolezza trova nel mio vecchio animo maggior indulgenza. Da vecchi si sorride della vita e di ogni suo contenuto. Posso anzi dire, che da qualche tempo io fumo molte sigarette… che non sono le ultime. Sul frontispizio di un vocabolario trovo questa mia registrazione fatta con bella scrittura e qualche ornato: «Oggi,  Febbraio , passo dagli studii di legge a quelli di chimica. Ultima sigaretta!!». Era un’ultima sigaretta molto importante. Ricordo tutte le speranze che l’accompagnarono. M’ero arrabbiato col diritto canonico che mi pareva tanto lontano dalla vita e correvo alla scienza ch’è la vita stessa benché ridotta in un matraccio. Quell’ultima sigaretta significava proprio il desiderio di attività (anche manuale) e di sereno pensiero sobrio e sodo. Per sfuggire alla catena delle combinazioni del carbonio cui non credevo ritornai alla legge. Pur troppo! Fu un errore e fu anch’esso registrato da un’ultima sigaretta di cui trovo la data registrata su di un libro. Fu importante anche questa e mi rassegnavo di ritornare a quelle complicazioni del mio, del tuo e del suo coi migliori propositi, sciogliendo finalmente le catene del carbonio. M’ero dimostrato poco idoneo alla chimica anche per la mia deficienza di abilità manuale. Come avrei potuto averla quando continuavo a fumare come un turco? Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente. Io avanzo tale ipotesi per spiegare la mia debolezza giovanile, ma senza una decisa convinzione. Adesso che sono vecchio e che nessuno esige qualche cosa da me, passo tuttavia da sigaretta a proposito, e da proposito a sigaretta. Che cosa significano oggi quei propositi? Come quell’igienista vecchio, descritto dal Goldoni, vorrei morire sano dopo di esser vissuto malato tutta la vita? Una volta, allorché da studente cambiai di alloggio, dovetti far tappezzare a mie spese le pareti della stanza perché le avevo coperte di date. Probabilmente lasciai quella stanza pro. tuttavia: tuttora, ancora adesso. . frontispizio: frontespizio, prima pagina del volume. . Oggi … Ultima sigaretta!!: il tema dell’ultima sigaretta è direttamente autobiografico; esso è presente in molte lettere private di Svevo e nel Diario per la fidanzata. Molto simile a questa registrazione di Zeno sul vocabolario è la seguente notazione del Diario: «Oggi compisco  anni e due mesi. Ebbene! Questa che sto fumando è l’ultima sigaretta!». . diritto canonico: come poi si comprende, Zeno aveva abbandonato gli studi di legge per quelli di chimica, senza peraltro arrivare a concludere né gli uni né gli altri; questo del passaggio tra studi diversi è un’altra delle continue distrazioni del personaggio, delle sfasature e degli spostamenti di cui è fatta tutta la sua vita. . matraccio: recipiente di vetro usato in laboratorio; il ben noto luogo comune dell’identità tra la scienza e la vita, viene ironizzato e quasi smentito dalla constatazione che la scienza cattura la vita entro i propri strumenti, la stravolge per i propri

esperimenti. . catena … carbonio: i molteplici composti in cui entra il carbonio, studiati dalla chimica organica; Zeno non può credere nelle formule chimiche, che anch’esse catturano e deformano la vita. . complicazioni … carbonio: alle combinazioni della chimica corrispondono le complicazioni, per Zeno altrettanto poco convincenti, del diritto privato (che si occupa in primo luogo dei rapporti di proprietà e per questo è indicato attraverso la gamma dei pronomi, del mio, del tuo e del suo). . credersi … latente: il sentirsi dotati di qualità nascoste, non ancora espresse e manifestate all’esterno, è tipico dei personaggi di Svevo, in primo luogo dei protagonisti dei primi due romanzi. . Come quell’igienista … la vita: questo igienista goldoniano è stato identificato con Celso, personaggio della commedia Il vecchio bizzarro, malato immaginario, pieno di dubbi e ansie per la propria salute. . tapezzare: tappezzare; come in altri casi, Svevo

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prio perché essa era divenuta il cimitero dei miei buoni propositi e non credevo piú possibile di formarne in quel luogo degli altri. Penso che la sigaretta abbia un gusto piú intenso quand’è l’ultima. Anche le altre hanno un loro gusto speciale, ma meno intenso. L’ultima acquista il suo sapore dal sentimento della vittoria su sé stesso e la speranza di un prossimo futuro di forza e di salute. Le altre hanno la loro importanza perché accendendole si protesta la propria libertà e il futuro di forza e di salute permane, ma va un po’ piú lontano. Le date sulle pareti della mia stanza erano impresse coi colori piú varii ed anche ad olio. Il proponimento, rifatto con la fede piú ingenua, trovava adeguata espressione nella forza del colore che doveva far impallidire quello dedicato al proponimento anteriore. Certe date erano da me preferite per la concordanza delle cifre. Del secolo passato ricordo una data che mi parve dovesse sigillare per sempre la bara in cui volevo mettere il mio vizio: «Nono giorno del nono mese del ». Significativa nevvero? Il secolo nuovo m’apportò delle date ben altrimenti musicali: «Primo giorno del primo mese del ». Ancor oggi mi pare che se quella data potesse ripetersi, io saprei iniziare una nuova vita. Ma nel calendario non mancano le date e con un po’ d’immaginazione ognuna di esse potrebbe adattarsi ad un buon proponimento. Ricordo, perché mi parve contenesse un imperativo supremamente categorico, la seguente: «Terzo giorno del sesto mese del  ore ». Suona come se ogni cifra raddoppiasse la posta. L’anno  mi diede un momento d’esitazione. Mancava il tredicesimo mese per accordarlo con l’anno. Ma non si creda che occorrano tanti accordi in una data per dare rilievo ad un’ultima sigaretta. Molte date che trovo notate su libri o quadri preferiti, spiccano per la loro deformità. Per esempio il terzo giorno del secondo mese del  ore sei! Ha un suo ritmo quando ci si pensa, perché ogni singola cifra nega la precedente. Molti avvenimenti, anzi tutti, dalla morte di Pio IX alla nascita di mio figlio, mi parvero degni di essere festeggiati dal solito ferreo proposito. Tutti in famiglia si stupiscono della mia memoria per gli anniversarii lieti e tristi nostri e mi credono tanto buono! Per diminuirne l’apparenza balorda tentai di dare un contenuto filosofico alla malattia dell’ultima sigaretta. Si dice con un bellissimo atteggiamento: «mai piú!». Ma dove va l’atteggiamento se si tiene la promessa? L’atteggiamento non è possibile di averlo che quando si deve rinnovare il proposito. Eppoi il tempo, per me, non è quella cosa impensabile che non s’arresta mai. Da me, solo da me, ritorna. segue qui l’uso del dialetto triestino, che tende a evitare i raddoppiamenti consonantici. . dalla morte … mio figlio: eventi tra loro molto lontani; il papa Pio IX morí nel , mentre la nascita del figlio di Zeno, Alfio, è un fatto molto piú

recente, sul quale però nel romanzo egli non ci dà indicazioni precise, facendola oscillare di quasi dieci anni. . Da me: in me; espressione modellata sul tedesco bei mir.

Salute individuale e malattia collettiva: il finale della Coscienza di Zeno Nell’ultimo capitolo del romanzo (Psico-analisi) sembra come prolungarsi «la protezione della malattia attraverso la simulazione della guarigione, l’apologia di una salute tanto improvvisa ed eccessiva da risultare per rovescio patologica o almeno parodistica» (Mazzacurati). Il capitolo presenta una struttura diversa dai precedenti, che si svolgevano ciascuno come un flusso eterogeneo dei dati piú diversi, sempre ruotanti intorno a un tema centrale, e insieme costituivano il

T. ITALO SVEVO. LA COSCIENZA DI ZENO

libello consegnato al dottor S. Ora si susseguono alcune notazioni di diario, segnate da date precise (dal 3 maggio 1915 del primo brano al 24 marzo 1916 dell’ultimo); esse si svolgono a partire dall’affermazione della fine della cura, che viene contestata e criticata in vario modo, con alcune notazioni ironiche che toccano alcuni dei punti vitali del metodo psicoanalitico: Zeno mostra la sua intenzione (che comunque sarà realizzata solo in parte) di scrivere la storia della sua cura, denunciando subito come assurda la «scoperta» fatta dal dottore, che aveva ricondotto la sua malattia al freudiano complesso di Edipo («Non era altra che quella diagnosticata a suo tempo dal defunto Sofocle sul povero Edipo: Avevo amata mia madre e avrei voluto ammazzare mio padre»). Nel ripercorrere alcune tappe di quella cura, Zeno mostra il carattere artificiale e finto di tante associazioni mentali e di tante confessioni fatte al dottore: la menzogna e la finzione hanno insidiato il cammino stesso della cura, hanno gravato in modo determinante sui ricordi e sui sogni; e ora egli è come intento a guarire dalla sua stessa cura. Questo distacco dalla cura conduce a momenti di raccoglimento dentro di sé e alla verifica della propria condizione senile, a cui egli pensa per un attimo di sottrarsi corteggiando una contadinella adolescente durante una gita in campagna. Ma alla sua situazione personale si sovrappone lo scoppio della guerra mondiale, di quella terribile follia collettiva che lo coglie quasi di sorpresa e ancora in termini umoristici, dato che proprio al momento dell’apertura delle ostilità tra l’Italia e l’Austria egli si trova improvvisamente separato dalla famiglia: durante un soggiorno nella residenza di campagna di Lucinico nei pressi della frontiera, in territorio italiano, il 23 maggio 1915 Zeno si reca per una passeggiata in territorio austriaco, e non può piú tornare indietro, perché glielo impediscono i soldati austriaci schierati in vista delle ostilità che iniziano il 24 maggio; è costretto a tornare da solo a Trieste, mentre la famiglia resterà nel territorio italiano (e si tratta dell’ennesimo malinteso, di una distrazione che ora si proietta sullo sfondo di una gigantesca tragedia collettiva). L’ultimo brano, qui riportato, ci conduce a molti mesi piú tardi: mentre la famiglia si è rifugiata a Torino, Zeno si è trovato, da solo, a compiere alcune felici operazioni commerciali (vere e proprie speculazioni di guerra) che gli hanno dato quel successo che non ha mai avuto nella sua vita precedente; questo successo si collega alla constatazione della propria guarigione. Nell’orgoglio del proprio successo commerciale Zeno pensa di inviare al dottore anche quest’ultimo capitolo, ma vorrebbe poi riavere indietro tutto il suo manoscritto: vista da dopo, da questo raggiunto successo, la sua esperienza cambia radicalmente; la sua vita acquista significato e chiarezza vera proprio grazie a quest’ultimo periodo. Ma a questo punto si affaccia anche la coscienza che, in profondità, sia la vita stessa in quanto tale a somigliare alla malattia, a procedere come una malattia, tra continui miglioramenti e peggioramenti su cui non è possibile intervenire: e lo sguardo si allarga all’intera vita della terra, che Zeno sente inquinata alle radici. L’uomo con i suoi artifici sta occupando tutti gli spazi possibili, in uno sforzo continuo e sempre vano di trovare la salute, che invece produce un numero infinito di ordigni che creano sempre nuove malattie. A questo punto sorge la celebre immagine apocalittica della catastrofe determinata da un esplosivo incomparabile che un uomo degli altri un po’ piú ammalato potrà porre al centro della terra, facendola saltare in aria e lasciandola per sempre libera di errare nei cieli in forma di nebulosa e ormai priva di parassiti e di malattie. La salute del mondo equivale cosí alla sua distruzione; il disagio della civiltà, il male dato dal suo allontanarsi dalla natura, potrà essere guarito solo dalla sua definitiva esplosione. Molte e varie sono state le interpretazioni di questo celebre finale. Ma è certo che in esso Svevo si riconnette al pessimismo dei molti autori a lui cari (da Leopardi a Schopenhauer, a Nietzsche, allo stesso Freud) che variamente avevano guardato alla «vicenda del mondo come catena patologica». E in questa rivelazione-profezia sembra per un momento voler abbandonare quel gioco di finzioni, di distrazioni, di inciampi su cui è basata tutta la sua narrazione: qui «la letteratura ritrova funzioni di messaggio, di sia pur distruttivo pronostico proprio alla fine di un testo in cui, tra ironia di scrittura e umorismo di situazione, tra contraddizioni del desiderio e disorientamento della scienza, ogni totalità del passato ed ogni prevedibilità del futuro sembrava perduta» (Mazzacurati).



La critica di Svevo alla psicoanalisi

Guarire dalla salute Alla malattia personale si sovrappone la follia della guerra

La vita sulla terra inquinata alle radici

La salute sta nella distruzione della vita

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 Marzo  Dal Maggio dell’anno scorso non avevo piú toccato questo libercolo. Ecco che dalla Svizzera il dr. S. mi scrive pregandomi di mandargli quanto avessi ancora annotato. È una domanda curiosa, ma non ho nulla in contrario di mandargli anche questo libercolo dal quale chiaramente vedrà come io la pensi di lui e della sua cura. Giacché possiede tutte le mie confessioni, si tenga anche queste poche pagine e ancora qualcuna che volentieri aggiungo a sua edificazione. Ho poco tempo perché il mio commercio occupa la mia giornata. Ma al signor dottor S. voglio pur dire il fatto suo. Ci pensai tanto che oramai ho le idee ben chiare. Intanto egli crede di ricevere altre mie confessioni di malattia e debolezza e invece riceverà la descrizione di una salute solida, perfetta quanto la mia età abbastanza innoltrata può permettere. Io sono guarito! Non solo non voglio fare la psico-analisi, ma non ne ho neppur di bisogno. E la mia salute non proviene solo dal fatto che mi sento un privilegiato in mezzo a tanti martiri. Non è per il confronto ch’io mi senta sano. Io sono sano, assolutamente. Da lungo tempo io sapevo che la mia salute non poteva essere altro che la mia convinzione e ch’era una sciocchezza degna di un sognatore ipnagogico di volerla curare anziché persuadere. Io soffro bensí di certi dolori, ma mancano d’importanza nella mia grande salute. Posso mettere un impiastro qui o là, ma il resto ha da moversi e battersi e mai indugiarsi nell’immobilità come gl’incancreniti. Dolore e amore, poi, la vita insomma, non può essere considerata quale una malattia perché duole. Ammetto che per avere la persuasione della salute il mio destino dovette mutare e scaldare il mio organismo con la lotta e sopratutto col trionfo. Fu il mio commercio che mi guarí e voglio che il dottor S. lo sappia. Attonito e inerte, stetti a guardare il mondo sconvolto, fino al principio dell’Agosto dell’anno scorso. Allora io cominciai a comperare. Sottolineo questo verbo perché ha un significato piú alto di prima della guerra. In bocca di un commerciante, allora, significava ch’egli era disposto a comperare un dato articolo. Ma quando io lo dissi, volli significare ch’io ero compratore di qualunque merce che mi sarebbe stata offerta. Come tutte le persone forti, io ebbi nella mia testa una sola idea e di quella vissi e fu la mia fortuna. L’Olivi non era a Trieste, ma è certo ch’egli non avrebbe permesso un rischio simile e lo avrebbe riservato agli altri. Invece per me non era un rischio. Io ne sapevo il risultato felice con piena certezza. Dapprima m’ero messo, secondo l’antico costume in epoca di guerra, a convertire tutto il patrimonio in oro, ma v’era una certa difficoltà di comperare e vendere dell’oro. L’oro per cosí dire liquido, perché piú mobile, era la merce e ne feci incetta. Io effettuo di tempo in tempo anche delle vendite ma sempre in misura inferiore agli acquisti. Perché cominciai nel giusto momento i miei acquisti e le mie vendite furono tanto felici che queste mi davano i grandi mezzi di cui abbisognavo per quelli. . questo libercolo: la parte dell’autobiografia costituita dai brani di diario che costituiscono l’ultimo capitolo. . dr. S: È lo psicoanalista che ha indotto Zeno, suo paziente, a scrivere la propria autobiografia. . il mio commercio: già si comincia a capire che l’impegno di Zeno nel commercio è ora ben diverso da quello mostrato nella infelice associazione con il cognato Guido Speier (marito di Ada), a cui è dedicato il capitolo Storia di un’associazione commerciale. . convinzione: per questo tema della convinzione, cfr. Il fumo: «La malattia è una convinzione ed io nacqui con quella convinzione». . sognatore ipnagogico: uno che vede immagini in

uno stato di semi-incoscienza; ipnagogico (alla lettera: «che conduce al sogno») si dice della fase che precede immediatamente il sonno e in cui si formano allucinazioni o immagini visive irreali (che spesso hanno poi sviluppo nel sogno). . gl’incancreniti: coloro che sono colpiti da una cancrena. . perché duole: sottinteso solo: «solo perché, per il fatto che duole»; nei suoi appunti, Svevo, al contrario, annotava: «La vita è una malattia della materia». . L’Olivi: l’amministratore ottantenne di Zeno, impostogli perché non dilapidasse l’eredità del padre. . i miei acquisti … per quelli: le vendite furono tal-

T. ITALO SVEVO. LA COSCIENZA DI ZENO

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Con grande orgoglio ricordo che il mio primo acquisto fu addirittura apparentemente una sciocchezza e inteso unicamente a realizzare subito la mia nuova idea: una partita non grande d’incenso. Il venditore mi vantava la possibilità d’impiegare l’incenso quale un surrogato della resina che già cominciava a mancare, ma io quale chimico sapevo con piena certezza che l’incenso mai piú avrebbe potuto sostituire la resina di cui era differente toto genere. Secondo la mia idea il mondo sarebbe arrivato ad una miseria tale da dover accettare l’incenso quale un surrogato della resina. E comperai! Pochi giorni or sono ne vendetti una piccola parte e ne ricavai l’importo che m’era occorso per appropriarmi della partita intera. Nel momento in cui incassai quei denari mi si allargò il petto al sentimento della mia forza e della mia salute. Il dottore, quando avrà ricevuta quest’ultima parte del mio manoscritto, dovrebbe restituirmelo tutto. Lo rifarei con chiarezza vera perché come potevo intendere la mia vita quando non ne conoscevo quest’ultimo periodo? Forse io vissi tanti anni solo per prepararmi ad esso! Naturalmente io non sono un ingenuo e scuso il dottore di vedere nella vita stessa una manifestazione di malattia. La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite. Morremmo strangolati non appena curati. La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V’è una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza… nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà della mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco! Ma non è questo, non è questo soltanto. Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorché la rondinella comprese che per essa non c’era altra possibile vita fuori dell’emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte piú considerevole del suo organismo. La talpa s’interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo s’ingrandí e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute. Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre piú furbo e piú debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma oramai, l’ordigno non ha piú alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del piú forte sparí mente vantaggiose da coprire le spese degli acquisti. . resina: l’impresa commerciale di Zeno (che da giovane ha anche studiato chimica) riguarda infatti prodotti chimici: il motivo del fallimento dell’associazione commerciale con Guido era un investimento sbagliato in sessanta tonnellate di solfato di rame. . Il dottore … tutto: perché essa segna l’abbandono della cura da parte di Zeno, cura fondata sull’analisi delle sue confessioni (consegnate allo psicoanalista man mano che esse venivano scritte); il dottore però manterrà il manoscritto, onde pub-

blicarlo: «Le pubblico [queste memorie] per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch’io sono pronto di dividere con lui i lauti onorarii che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura». Come si vede, il danaro è uno dei motori simbolici fondamentali del romanzo, non solo per chi è curato, ma anche da parte di chi cura. . lisi: diminuzione lenta e progressiva della febbre (in termini medici, è il contrario di crisi). . l’abbandono della legge: com’è detto subito dopo, è la legge evoluzionistica (cfr. PAROLE, tav. ) della selezione naturale, secondo cui in natura so-

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e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati. Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno piú, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ piú ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.

pravvivono gli esseri che hanno maggiore capacità di adattarsi all’ambiente (e non senza una cupa ironia Zeno la chiama selezione salutare), che vie-

ne contraddetta artificialmente dall’uomo attraverso ordigni e congegni sempre piú sofisticati.

˜ TESTI

10.6 LE FORME DELLA PROSA TRA LE DUE GUERRE Gli scrittori de «La Ronda» Vincenzo Cardarelli Passo di Ronda (da Solitario in Arcadia)

Il volume Solitario in Arcadia, pubblicato nell’ottobre 1947, raccoglie e riorganizza vari testi in prosa, di tipo critico o riflessivo, già pubblicati e ripresi altrove: un primo capitolo, intitolato Passo di Ronda, mette insieme sei frammenti appartenenti a momenti diversi. La nostra scelta comprende due brani che derivano in realtà da tre frammenti diversi: il primo (fino a «Eccoci giunti al punto di agire con prudenza») proviene dal Prologo in tre parti che Cardarelli prepose al primo numero de «La Ronda» (aprile 1919), scritto con il proposito di indicare nuove prospettive alla generazione che aveva vissuto, piú che altro da spettatrice, gli anni convulsi dell’avanguardia e de «La Voce», e che non era stata travolta dalla grande e tragica avventura della guerra. Questa paginetta, limpida e olimpica nel suo aureo classicismo, vuole dunque essere l’autoritratto – e il programma operativo – di quella generazione, che al tempo stesso era anche una classe, e una casta. Il passo di ronda a cui si intitola (e a cui si intitolava anche la rivista della quale Cardarelli fu appunto l’animatore principale) è il percorso dei soldati in perlustrazione, per lo piú notturna, di guardia; metafora che allude alla ricerca di sicurezza e di equilibrio che quella generazione intendeva perseguire, dopo le avventure e i vortici delle avanguardie d’anteguerra; ma che si poteva anche leggere come una volontà di affermarsi, da parte dei «rondisti», come gruppo di dominio e controllo, in tutti i sensi, della società letteraria italiana. Il mutato carattere, la mutata ideologia, la mutata visione del mondo di un’intera generazione vengono fatti abbastanza irrazionalmente dipendere da un semplice fatto biologico: il progredire dell’età. Segue un breve passo piú tardo (un solo capoverso: cfr. nota 4), in cui invece si esprime il punto di vista dei quarant’anni, segnati dalla coscienza che la vita è una guerra continua, senza remissione. Alla tematica dell’età e al proposito di dare alla propria generazione un ruolo positivo e costruttivo, con un impegno a ritrovare il dialogo con valori certi e sicuri, con le forme piú riconosciute della tradizione poetica, è dedicato anche tutto il secondo paragrafo (da «A forza di rimandare» in poi), che invece Cardarelli aveva già pubblicato ne «La Voce» di Giuseppe De Robertis nel 1916. [EDIZIONE: Vincenzo Cardarelli, Opere, a cura di C. Martignoni, Mondadori, Milano 1987]

A trent’anni la vita è come un gran vento che si va calmando. Tante partenze, mutamenti, abbandoni, addii ai luoghi che ci piacquero, alle donne penetranti che ci sorrisero brevemente, alle idee, alle amicizie, ai grandi libri, coincidono finalmente col fatto che non siamo piú giovani. O animosa e benedetta gioventú, addio! Ci affrettiamo allora a renderti gli onori che ti si devono e a riconoscere che tu sei passata, giacché non potremmo prolungarti neppure d’un minuto senza parere dei ragazzi invecchiati. Altro tempo, altre condizioni, quando tu ci rapivi nelle tue lusinghe operose. Esser giovani significava incarnare una promessa, una glo. non potremmo … invecchiati: piú che altro si fa qui una questione di «dignità» della figura dell’intellettuale, per il quale «non sta bene» mantenere la carica aggressiva dell’avanguardia a un’età veneranda come i trent’anni. . lusinghe operose: lusinghe, quelle degli anni

d’anteguerra, perché all’intellettuale, specie se giovane – da parte dell’«interventismo culturale» allora molto diffuso – venivano offerte su un piatto d’argento, o cosí era sembrato, mille occasioni di distinguersi, di primeggiare, di entrare a pieno titolo nella classe dirigente. E sono dette operose

Prologo de «La Ronda»

Ricerca di sicurezza o volontà di dominio

La vita, una guerra continua Ricerca di valori sicuri

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riosa e audace promessa, verso la quale il mondo, com’è suo costume, poteva mostrarsi prodigo di fiducia e di condiscendenza. Di qui nasceva che a noi era dato illuderci e credere chissà a che cosa. Ma ora il mondo è mutato nei nostri confronti. Le persone che ritroviamo dopo tanti anni ci guardano impensierite, non riconoscono piú in noi quei bravi ragazzi che non siamo mai stati, hanno l’aria di chiederci spiegazione del tempo trascorso. Sostenere quest’incontri è per noi un imbarazzo pietoso. E ciò vuol dire proprio che non siamo piú giovani. Che importa che i nostri anni siano ancora pochi? Non è l’età, è il metodo, la fedeltà temeraria a un proposito, sono le nostre silenziose intenzioni che rendono adulta la vita e ce la fanno pesare come una colpa. Ora dunque non possiamo contare che su noi stessi. Eccoci giunti al punto di agire con prudenza. Cosí parla l’uomo a trent’anni. Ma a quaranta (e non andiamo oltre) il suo cuore è stanco, piú che agitato. Svogliatezza e disamore lo accompagnano, in questa età matura, mentre piú inesorabile e picchiante, come il sole di mezzogiorno, si fa in lui la coscienza che la vita è una guerra da combattere senza quartiere, fino alla morte. A forza di rimandare e vivere sulla fiducia verrà pure un giorno che andremo per toccare l’oro che dorme nelle nostre cantine. Quello sarà il giorno dei ricordi e delle storie piú particolareggiate. Io credo che l’essere scampati da tanti pericoli ci parrà un sogno avventuroso: il piú sicuro indizio, l’unico forse, della necessità e della grazia che ci assistevano. Che nelle condizioni in cui siamo cresciuti la nostra generazione si sia permessa il lusso d’una mezza storia, d’una quasi civiltà letteraria, non del tutto incolta, non sprovvista di qualche seria giustificazione: con un accento d’italianità consapevole, con ombre di continuità e di rassomiglianza nella tradizione; una civiltà letteraria che ha avuto, dopo tutto, una giovinezza, una limpida sorgente d’idee; che sa di dove viene, come è nata; sorta come ha potuto, dai piú sconsolati interessi di un’epoca di decadenza e di eclettismo confuso, per ritrovare e mettere in discussione, sfrondati di tutto il rettorico apparato degl’idolatri, alcuni valori propri alla vera e grande poesia di tutti i tempi; che tutto questo si sia potuto avere la forza, il tempo, il modo di cominciar a fare in Italia, coi libri che abbiamo letti, coi maestri che abbiamo avuti, con le umilianti compagnie che ci sono toccate, diciamolo coraggiosamente, è una storia che un giorno varrà bene la pena di raccontare. Intanto lasciamo che nessuno si ac(si ricordi il titolo di un libro di Bontempelli, La vita operosa. .) perché si traducevano in un impegno quotidiano senza tregua (anche il mito del «lavoro» faceva parte integrante, non a caso, dell’ideologia di un Prezzolini: e contagiava con il suo fascino anche letterati come Scipio Slataper). . Che importa … pochi: infatti il salto generazionale era avvertito come compiuto da intellettuali di età anche lontane tra loro; come sta per dire Cardarelli, era una questione di metodo (con cui si affronta la vita), non d’età. . Cosí parla … alla morte: all’immagine dello spirito costruttivo dei trent’anni, succede ora quella dell’età matura dei quarant’anni e della stanchezza inevitabile che in essa sopravviene, accompagnata dalla coscienza che tutta la vita non è che lotta: tutto questo capoverso di «sutura» tra le varie parti del testo proviene dal libro di Cardarelli Parole all’orecchio, , che già ricomponeva in maniera diversa questi stessi materiali. . A forza: il paragrafo che qui inizia, avverte una

nota dello stesso Cardarelli piú avanti, risale invece agli anni della sua breve ma significativa collaborazione a «La Voce» di De Robertis, e precisamente al  (nell’articolo Due parole cordiali, compreso poi nel volume Viaggi nel tempo, ). . l’oro … cantine: preziosa metafora; i ricordi, le memorie degli anni di gioventú e di piena attività. . una quasi civiltà letteraria: la falsa modestia della serie di litoti di questo periodo (una mezza storia… una quasi civiltà… non del tutto incolta… non sprovvista di qualche seria giustificazione) indica invece quanto fiero e pieno di sé sia questo discorso del giovane ma già pienamente in carriera Cardarelli. La quasi civiltà è, naturalmente, quella della dorata bohème delle riviste fiorentine. . per ritrovare … in discussione: già a quest’altezza, a Cardarelli interessano piú che altro, sia pure «sfrondati di tutto il rettorico apparato degl’idolatri», cioè di ogni ombra di santificazione acritica, i valori della grande poesia di ogni tempo.

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corga di nulla, o quasi. Purtroppo è in questi silenzi, faticosi per chi s’imbatte a sostenerli, sia pure, che i fatti realmente esistenti si svolgono e stringono in segreto i piú complicati e paradossali rapporti con la storia. Chi di noi rimarrà, chiunque sarà il commemoratore della nostra gioventú rinnovatrice e quasi insospettata, ci vedrà collocati nella nostra epoca assai piú giustamente di quel che persino a noi non paia o non si vorrebbe. E chissà che, osservando il nostro tempo, non trovi materia per argute analogie, non gli si offra il caso di rilevare, a titolo di gloria, l’inevitabile atmosfera di solidarietà storica in cui, alla fine, avremo vissuto e lavorato. Saremo stati anche noi – tale è l’imperturbabile e accomodatrice innocenza della storia lontana – i figli di una epoca di spostamenti, di mescolanze etniche e tentativi d’ingrandimenti in ogni direzione: gli eterni venturieri italiani che, nati in tempi esausti, dovevamo strapparci dalla patria, disprezzare e offenderne i benefici, creare quasi un dissidio di costume, renderci irriconoscibili e odiosi, ma per tornare un giorno, piú che probabilmente, con qualchecosa di nuovo da offrirle, guadagnato non si sa dove, non diciamo adesso con quali sacrifici. Chi ci vorrà rifiutare questo riconoscimento? Ahimè, ricordiamoci che, per quanto scarsa sia la gloria, la nostra capacità a sostenerne senza impazienza le piú composte e piacevoli manifestazioni è piú scarsa ancora. . l’inevitabile … lavorato: le scuole e le correnti che oggi la storia letteraria può credere di riconoscere e classificare dovevano apparire agli occhi dei loro partecipanti di allora convulsi e disorganici esperimenti, e tentativi soprattutto individuali. . Saremo stati anche noi: chissà, ironizza Cardarelli, entro quali grandiosi disegni complessivi, addirittura di migrazioni etniche di massa, verrà inserita dalla storia la vicenda della nostra generazione. . dovevamo strapparci dalla patria: in effetti, la storia di moltissimi degli intellettuali del primo

quarto del Novecento è una storia di migrazioni ininterrotte da una città all’altra, da un centro culturale all’altro: in questo senso le vicende dei protagonisti maggiori del tempo de «La Voce» (Boine, Jahier, Slataper ecc.) sono paradigmatiche. . Ahimé … manifestazioni: ancora una volta, è caratteristica la falsa modestia di questa cadenza finale: l’invito a resistere alle lusinghe e alle piacevoli manifestazioni della gloria e del riconoscimento danno per scontati, ovviamente, quella gloria e quel riconoscimento.

Vincenzo Cardarelli Sera di Gavinana (da Poesie) Una prima redazione di questa poesia (molto diversa da quella finale) è testimoniata da un autografo datato 6 agosto 1913; una prima redazione a stampa apparve sulla rivista «Lirica» nel 1913, e poi, in forma ormai vicina alla definitiva, nella raccolta di poesie e prose Il sole a picco, 1929, prima di arrivare alla prima raccolta di sole poesie Giorni in piena. Il dolce paesaggio della natura allo scendere della sera viene ricercato dal soggetto lirico come scena della propria pacificazione: pacificazione dai travagli fisici della quotidianità lavorativa («chi s’affanna il giorno»), ma soprattutto dai travagli interiori della individualità sofferta («in se stesso, incredulo, si torce»). Si tratta di un motivo molto diffuso nella tradizione poetica, che ha uno dei suoi modelli piú celebri nella canzone di Petrarca Ne la stagion che ’l ciel rapido inchina (Canzoniere, L): qui particolarmente forte è l’eco leopardiana, da Il sabato del villaggio e soprattutto da La quiete dopo la tempesta. Il vociar lieto e folto del v. 11 riassume il piú composito quadro della Quiete, che comprende il «verso» degli animali, il «rumorio» del «lavoro usato», il canto dell’«artigiano», il proverbiale «grido giornaliero» dell’«erbaiuol»; e quando appare in Cardarelli, con efficace modernizzazione, «il batter secco ed alto del camion sullo stradone bianco», il pensiero non può che andare allo stridere del «carro» del «passeggier che il suo cammin ripiglia» (La quiete dopo la tempesta, vv. 23-24). Come in Leopardi, questi rumori familiari servono a ri-

La sera, scena di pacificazione

Forte eco leopardiana

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Ricerca dello «stile come difesa»

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conciliare il soggetto lirico con la quotidianità, turbata da un evento precedente: in Leopardi è specificata (ma non descritta, si badi) la tempesta, in Cardarelli vi è analoga ellissi, e a precedere lo scendere pacificatore della sera è un imprecisato giorno in cui ci si torce. Il riferimento a Leopardi di questo Cardarelli, peraltro, è molto stringente sin dal dettato metrico, questa libera e molto musicale mistura di endecasillabi e settenari, come nella «canzone libera» di tanti capolavori leopardiani. Questa adesione allo spirito e in senso lato alla lettera di un grande esempio della tradizione letteraria precedente è tipico di quella ricerca affannosa e quasi nevrotica dello «stile come difesa e imposizione» (Luperini) che Cardarelli poneva a sostegno della sua difficile soggettività. E non si deve dimenticare, peraltro, il culto di Cardarelli per la prosa delle Operette morali, quella perfetta misura di olimpico equilibrio illuministico che per i rondisti doveva caratterizzare la prosa italiana dopo la sontuosa retorica dannunziana e i convulsi esperimenti vociani. [EDIZIONE: Vincenzo Cardarelli, Poesie, a cura di G. Ferrata, Mondadori, Milano 1966] strofa lunga in verso libero, con prevalenza di settenari ed endecasillabi, con alcune assonanze (tra cui la «quasi rima» tra i vv. 10-11, faccende/sente) e alcune rime, soprattutto nella parte finale. METRO:



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Ecco la sera e spiove sul toscano Appennino. Con lo scender che fan le nubi a valle, prese a lembi qua e là come ragne fra gli alberi intricate, si colorano i monti di viola. Dolce vagare allora per chi s’affanna il giorno ed in se stesso, incredulo, si torce. Viene dai borghi, qui sotto, in faccende, un vociar lieto e folto in cui si sente il giorno che declina e il riposo imminente. Vi si mischia il pulsare, il batter secco ed alto del camion sullo stradone bianco che varca i monti. E tutto quanto a sera, grilli, campane, fonti, fa concerto e preghiera, trema nell’aria sgombra. Ma come piú rifulge, nell’ora che non ha un’altra luce, il manto dei tuoi fianchi ampi, Appennino.

vv. -. la sera spiove perché cade rapida, senza lunghi crepuscoli: cosí avviene quando l’aria è particolarmente limpida e tersa, come in montagna. La montagna è appunto il toscano Appennino di Gavinana (in provincia di Pistoia). vv. -. le nubi sono prese a lembi perché si sfilacciano, paiono impigliarsi intricate, come tessuti radi e logori (con antiquato toscanismo, le ragne; che possono altresí indicare nuvole bianche e rade), fra i rami degli alberi. v. . nel tramonto. vv. -. il camion pulsa, e batte secco ed alto perché evidentemente lo stradone / bianco che varca i

monti (notare l’enjambement) è sconnesso e accidentato. vv. -. il rumorio non confuso ma limpido e distinto in ogni suo suono, nell’aria sgombra, di questa natura e di questa umanità pacificate può dunque divenire concerto e addirittura preghiera. vv. -. l’immagine finale della buona montagna dai fianchi ampi è del tutto pacificata e quasi estatica: la luce metaforica (e non solo, perché gli ultimi bagliori del tramonto si riflettono sui bordi della montagna) del contorno possente dei contrafforti montuosi addirittura rifulge gloriosa nella notte (l’ora che non ha un’altra luce).

T. LE FORME DELLA PROSA TRA LE DUE GUERRE. GLI SCRITTORI DE

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Emilio Cecchi Pesci rossi (da Pesci rossi) Il testo che inaugura la prima raccolta liberamente saggistica di Cecchi e le dà il titolo apparve su «La Tribuna» di Roma del 23 agosto 1917, come recensione a un’antologia di Poesie giapponesi di vari autori tradotte da H. Shimoi e G. Marone in quell’anno pubblicata; come si vedrà, nell’edizione nel volume del 1920 (Pesci rossi) furono tolti i riferimenti all’edizione recensita, trasformando cosí il testo in una riflessione di ordine piú generale sui caratteri fascinosi e misteriosi dell’Oriente. Ma la materia del saggio è come nascosta dal titolo e dalla descrizione iniziale dei pesci rossi, che fa pensare a una divagazione di tipo pittorico, con un gusto della precisione e della nettezza del particolare di grande forza suggestiva, ma in definitiva troppo esteriore e artificioso, come del resto spesso capita con la grande sapienza e il grande rigore stilistico di Cecchi. L’interesse del brano sta comunque in quel suo voler mostrare il carattere demoniaco e mostruoso che si cela dietro le forme in apparenza piú limpide e perfette, sia nella visione dei pesci che nell’evidenza delle figure dell’arte orientale. Dietro il suo volto esteriore questa sembra nascondere una sub-realtà misteriosa, caratterizzata da duplicità e inversione: duplicità perché sempre sottesa a una sovra-realtà apparentemente lineare e senza sorprese; inversione perché in questa sub-realtà vigono una logica e delle leggi diverse da quelle che tutti conosciamo. Con il tono avvertito e sicuro dell’intenditore, Cecchi insegue in quell’arte e in quella poesia la presenza del demoniaco e del mostruoso, di un’alterità radicale rispetto alle forme occidentali: come si sottolinea alla fine, l’arte orientale può giungere perfino ad ambientare una scena idillica in un contesto che – per la mentalità occidentale – sarebbe piú adatto a un dramma espressionista, con un dio dissanguato e l’orrida presenza della morte. Grande prova di intelligenza, supremo esercizio di precisione linguistica quello di Cecchi, che ha però qualcosa di arido e di volontaristico (si veda quella battuta sui luoghi in cui si trova ad accrescere la sua coltura) e sembra comunque ricadere in un’immagine convenzionale dell’Oriente, riallacciandosi al gusto dell’esotismo tanto diffuso nella cultura tra Ottocento e Novecento. [EDIZIONE: Emilio Cecchi, Saggi e viaggi, a cura di M. Ghilardi, Mondadori, Milano 1997]

I pesci rossi nella palla di vetro nuotavano con uno slancio, un gusto di inflessioni del loro corpo sodo, una varietà d’accostamenti a pinne tese; come se venissero liberi per un grande spazio. Erano prigionieri. Ma s’erano portati dietro in prigione l’infinito. Il piú straordinario però era questo: soltanto visti di profilo eran pesci veri e propri. A parte la gradevole pazzia del loro colore, visti di profilo erano assolutamente pesci soliti, di forma familiare, come i pesci del miracolo dei sette pani, o come quelli che ognuno la domenica può tirar su da un argine con l’amo o con la rete. Quando davano un colpo di coda, un guizzo e si mettevano di fronte, la cosa cambiava. La loro faccia dalla grande bocca arcuata diventava sotto la fronte montuosa una maschera

. un gusto di inflessioni: una sapienza di movenze, una cadenza particolare (inflessione propriamente è detto della voce e dell’accento). . una varietà d’accostamenti: accostare è usato nell’accezione marinaresca; vale «dirigersi, fare rotta» in una determinata direzione. . Ma … l’infinito: i movimenti dei pesci rossi hanno una tale apparenza di libertà e spontaneità da far dimenticare a chi li osserva affascinato il loro

stato di cattività, di prigionia. . la gradevole … colore: cioè l’alternarsi screziato delle tinte sulla fantasmagoria delle squame. . miracolo dei sette pani: cioè il miracolo di Cristo della moltiplicazione dei pani e appunto dei pesci, secondo il racconto di tutti e quattro i Vangeli, dove però non si tratta di sette pani, ma di cinque pani e due pesci. . la fronte montuosa: cioè bombata.

Il fascino e il mistero dell’Oriente Gusto per gli aspetti demoniaci e fantastici

Divergenze culturali fra Occidente e Oriente

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rossa di malinconia impersonale e disumana. Posata ai lati sulle branchie, come su un motivo di decorazione, pareva resa anche piú astratta dalla fissità dei grandi occhi neri cerchiati d’oro. Di profilo erano piccole triglie e sardelle purpuree. Di faccia erano vecchi mostri arcigni dell’epoca dei Han; draghi millenari imbronciati. Di profilo evocavano canneti e graziose scogliere. Ma di faccia pareva venissero fuori da un panorama amorfo, da un oceano pacifico e velato, e la loro palla d’acqua diventava semplicemente l’acqua. E cosí le parti del mondo principiarono anche per me ad essere qualcosa piú d’una distinzione geografica, a contenere una metafisica, una teologia. Cominciai a orientarmi in quell’enigma che è l’Oriente. Era la mia prima esperienza in materia, a banco di pasticcere, aspettando un caffè. Ma io non ho mai badato a’ luoghi quando si trattava di accrescere la mia coltura. Da allora, in fatto d’Oriente, d’arte orientale, di coltura orientale, ho saputo dove metter le mani. Tutte le volte che sopra un mobile di lacca vedevo un pingue ed elegante cavallo di bronzo, con la criniera a treccine e la coda come un grappolo d’api, sapevo che bastava mi spostassi di pochi palmi e questo cavallo si trasformava in una truce chimera. Tutte le volte che una poesia dell’antica Cina o del nuovo Giappone mi trasportava nell’atmosfera del piú insospettabile idillio, sapevo che bastava guardassi un po’ meglio e fra l’erba del prato idillico avrei visto luccicare la coda d’un drago, e fra i rami dell’arbusto il viso argenteo di uno spettro. Tutte le volte che nell’angolo di una pittura scorgevo il pellegrino o la volpe o il gallo cedrone stringersi, rannicchiarsi come impauriti sotto il dilagare del cielo, sapevo ch’essi avevano non una ma mille ragioni di spavento, perché quel cielo era davvero troppo bianco e troppo deserto per non essere un cielo serpeggiato d’invisibili demoni. In alcune liriche giapponesi contemporanee, ecco tutti i segni di questa misteriosa duplicità e inversione. Orme d’amore: «A una sosta ci volgiamo: sulla sabbia della spiaggia due sole tracce di passi segnate dal nostro amore». . Posata ai lati sulle branchie: la faccia del pesce, vista di fronte, pare poggiata sulle branchie laterali, cioè le membrane a forma di lamina che gli consentono di respirare. Le branchie hanno una forma ondulata che può essere accostata a un motivo di decorazione. . piccole … purpuree: cioè sembravano pesci comunissimi come le triglie e le sardelle (sardine), che spesso hanno una tinta purpurea, vicina al rosso. . dell’epoca dei Han: la dinastia degli Han dominò incontrastata sull’immenso Impero cinese dal  a.C. al  d.C. È il periodo d’oro dell’arte classica cinese, in particolare della pittura e della decorazione di vasi e suppellettili, nelle quali il motivo piú ricorrente era appunto quello del drago. . un panorama amorfo: informe, non obbediente alle proporzioni e agli schemi percettivi umani. . l’acqua: l’acqua contenuta nella palla di vetro dei pesci perde la sua connotazione reale, di acqua versata e periodicamente cambiata dall’uomo che quei pesci alleva, e viene trascesa in un’idea d’acqua assoluta. . a banco … un caffè: evidentemente proprio in quest’ambientazione quotidiana Cecchi ha avuto modo di affascinarsi guardando i pesci e la «fissità dei grandi occhi neri cerchiati d’oro».

. un mobile di lacca: i mobili cinesi, rivestiti di lacca translucida (usata generalmente come rivestimento prottettivo) decorata con bizzarre figurazioni, costituiscono da sempre un articolo fisso dell’antiquariato esotico in Europa. . e questo cavallo … chimera: cioè, bastava spostare in minima misura l’angolo di osservazione perché il cavallo apparisse invece una truce chimera, un mostro favoloso dal corpo composito (nella mitologia classica con corpo e testa di leone, una seconda testa di capra sporgente dalla schiena e coda di serpente). . e fra i rami … uno spettro: ogni figurazione apparentemente convenzionale e pacificata (il piú insospettabile idillio) può dunque nascondere, nell’arte orientale, chissà quali minacce, chissà quali manifestazioni di un universo misterioso e celato. . sotto il dilagare del cielo: espressione analogica, a rendere la piccolezza dei personaggi dell’arte orientale, sempre schiacciati – per un occhio occidentale – sotto un cielo troppo vasto e indifferenziato, dilagante. . In alcune … contemporanee: qui nella prima redazione del testo si inseriva l’esplicito riferimento all’antologia di poesie giapponesi tradotte, che veniva recensita, e da cui sono tratte le citazioni seguenti.

T. LE FORME DELLA PROSA TRA LE DUE GUERRE. GLI SCRITTORI DE

«LA RONDA»

Se si trattava di dare un senso di orme sperse in una immensità e solitudine tanto vasta ch’è perfino inumana, bisogna riconoscere che cotesto idillio è perfetto. Serata nebbiosa: «Croscio d’un torrente lontano! Lasciando il gruppo degli uomini che circondano il bracere rustico, le alte montagne si immergono nella sera, ma dal cuore di esse la nebbia fuma pianamente a inghiottire anche quel gruppo». È un paesaggio inapprezzabile, chi ami fantasticare una natura informe e fumosa che divora gli uomini e il loro mondo con la terribile semplicità d’un trapasso d’ora, d’un calare di nuvole, d’un mutare di tinte. Un altro motivo: «Che brivido di sudore freddo nel sogno; ho sentito stridere due pezzi di vetro strofinati fra loro da uno strano ragazzo ossuto». E cotesto è il dolore che non si decifra e diventa ossessione fisica, mania visiva, fantasma irrecusabile, oggettivo. Le nuvole del mattino: «Le nuvole del mattino mi fanno pensare a migliaia di gamberi rossi che sbucano in fila dalla grotta azzurra del cielo». […] Cosí un europeo avrà principalmente un dio o degli dei. Un orientale ha principalmente dei demoni. Un europeo finirà magari per sostituire se stesso a Dio; ma questa sostituzione è ancora il segno d’un bisogno essenzialmente religioso di unità col mondo. E un orientale affermerà religiosamente la impossibilità di ogni attuale rapporto fra sé e il mondo, si farà cioè una fede della formula piú atea e irreligiosa. Un europeo potrà dimenticare la natura. Ma un orientale si dimenticherà piuttosto dell’uomo; e nel suo scrupolo di non ingombrare la natura, di non turbare il mondo, lascerà il mondo tanto solo che finirà coll’empirsi di fantasmi come un campo trascurato s’empie di scimmie e di topi. Questi eccessi, naturalmente, non si danno senza compensi. E se l’orientale ha demoni invece di dei, ciò sta anche a significare che i suoi demoni gli escono cosí originali e attraenti da fargli scordare perfino Dio. E se un rametto di rose scempie gli tiene il posto di tutta la gloria umana, vuol dire che questo ramo riceve dai suoi occhi una bellezza magica e quasi sovrumana. Anche in coteste liriche quanti esempi di tale bellezza. Quale arte di silenzi e di spazi, per modo che ogni immagine, volta a volta, trae dall’immensa solitudine ch’è la sua atmosfera naturale, un che di trasfigurato e visionario che fissa e pietrifica la preziosa qualità della sua materia figurativa in una gelidità colorita e quasi funebre. E come nell’antica poesia cinese le scale erano di giada, e i ponticelli s’inarcavano sul fiume come tigri, e i padiglioni sulle acque specchianti eran di bianche e verdi porcellane, . Croscio: deverbale da «crosciare»: scorrere rumorosamente, detto della pioggia e in generale di getti d’acqua improvvisi e violenti. . dal cuore di esse: la nebbia pare scaturire magicamente dal cuore delle montagne, anziché calare uniformemente su tutto il paesaggio. . È un paesaggio … fantasticare: frase molto ricercata: inapprezzabile sta per «inestimabile», «preziosissimo»; la costruzione è per asindeto («inestimabile per chi ami fantasticare»), rara e preziosa. . d’un trapasso d’ora: di un brevissimo volgere di tempo (un trapasso d’ora), di fenomeni naturali come quelli poi indicati. . irrecusabile: irrefutabile, che non si può confutare, negare; appunto, oggettivo. . si farà cioè … irreligiosa: l’orientale vivrà come una fede anche la negazione di un rapporto tra se stesso e il mondo, anche ogni visione che esclude l’esistenza di Dio.

. lascerà … solo: l’orientale cioè, nel suo timor sacro della natura e del suo assetto immutabile, farà il possibile per non far avvertire la sua presenza all’interno di essa; cosí facendo, questo mondo «vuoto» finisce – fantasticamente – per riempirsi di spettri e simboli magici. . scempie: rovinate, sfiorite (oppure, etimologicamente, «scempiate», staccate dal ramo; ma anche, in Toscana, «semplici, non geminate». . per modo che: valore consecutivo: «in modo che». . un che … visionario: l’ambientazione in cui sono immerse le figurazioni dell’arte e della poesia orientali le rendono visionarie nella loro fissità quasi pietrificata, cioè nella loro assenza di moto e di rapporti con la dimensione umana. Per cui hanno un aspetto quasi funebre. . nell’antica poesia cinese: la poesia cinese classica mostra un campionario di immagini ricorrenti (che Cecchi passa rapidamente e virtuosisticamen-

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e i caratteri tracciati dal pennello sul foglio parevan capelli di donna recisi, qui la pioggia di primavera cela gli amanti come una persiana d’argento, e l’autunno è simile a un salone di Reggia perché alberi, uccelli, foglie, tutto è placcato d’oro. E il mare è un immenso pavimento di facce pallide di guerrieri, con i turcassi d’argento sul dorso. E il canto del grillo crea nella notte lunare case di filigrana. Ma tanta materialità di rapporto non sta che in funzione di un ultimo bisogno di sfumato, d’incredibile, di irreale; e un termine dell’immagine si realizza fino alla violenza, solo per celare l’altro, facilitarne la evasione, il mistero; sopprimerlo o renderlo irriconoscibile dentro un geroglifico ingannevole quanto preciso. Cioè, ancora e sempre, il solito punto: che per noi la fantasia e il sogno hanno da essere soprattutto credibili, organici, penetrabili, abitabili, e si direbbe comuni. E per quest’altri hanno da essere, soprattutto, remoti e strani. E che per noi una cosa è lirica quanto piú somiglia a se stessa. È per questi altri, invece, quanto piú esce di se stessa. Nella piú esaltata architettura europea, e pigliate il gotico, il barocco e magari lo stile del monumento di Lipsia, una porta rimane sempre, essenzialmente una porta. Ma le classiche porte del santuario di Nikko? Saranno incudini, saranno cappelli, saranno budini. Ma porte, via! Concludete che una porta nostrana cerca sempre di far capire che lí è fatto per passarci, mentre una porta orientale cerca in ogni modo di distogliere la mente da ogni idea di passaggio. Che un capitello europeo si sente in obbligo di garantire, possibilmente con stile, almeno con eleganza, che ciò ch’esso sostiene non cascherà in capo a nessuno. Ma un capitello di Nikko rappresenta piú un crollo di linee che un sostegno; e piú che alla stabilità della terra serve a far credere al terremoto. Cosí qui si giunge al canto infinitamente dolce e bestemmiatorio del giovane poeta morto tisico: «Io sono veramente un dio: la mite vacca mi offre il latte tepido e spumante dei suoi vitelli, e i pesci mi sacrificano la loro carne bianca per farmi guarire». Dove la scena idillica di un’offerta di latte e di pesci si compone intorno alla figura di un dio dissanguato; e la natura acquista piú vivace illusione di tinte e di desideri nell’orrida presenza della morte. te in rassegna) di forte tensione metaforica; tale che noi la definiremmo «barocca»: le immagini che seguono sono tratte da una serie di liriche cinesi che Cecchi aveva letto nel giugno  in un quaderno di traduzioni di Arturo Onofri rimasto allora inedito (cfr. ..). . turcassi: astucci per le frecce dell’arco o della cerbottana; faretre (detto in genere di popolazioni orientali – la parola è infatti di origine persiana). . materialità di rapporto: una metaforicità cosí intensamente, quasi corposamente visiva, non ha altra funzione, per Cecchi, che quella di alludere alla sub-realtà celata di cui parlava in precedenza. . un geroglifico … preciso: cioè una figurazione accurata, obbediente a una logica costruttiva che però sfugge indefinitamente all’osservatore; cosí come avveniva agli europei alle prese con la scrit-

tura ideografica egizia (i geroglifici), per lungo tempo misteriosa. . monumento di Lipsia: monumento inaugurato nel , nel centenario della battaglia di Lipsia o delle Nazioni (contro Napoleone). . santuario di Nikko: il tempio di Nikko, dedicato ai defunti, è, con i suoi sfarzosissimi intagli lignei dorati, uno dei capolavori della decorazione giapponese classica, ispirata ai modelli cinesi antichi (fine del secolo XVI), con una fantasia decorativa sbrigliata e liberissima, che poteva dare vita appunto a incudini, cappelli, budini. . piú un crollo … un sostegno: la funzione strutturale dell’elemento architettonico è posta completamente in secondo piano rispetto alla decorazione.

T. LE FORME DELLA PROSA TRA LE DUE GUERRE. ALTRI SCRITTORI TRA LE DUE GUERRE

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Altri scrittori tra le due guerre Massimo Bontempelli Due capitoli di un romanzo scritto «per i posteri» (da La vita intensa. Romanzo d’avventure, Prefazione e I-II) Riportiamo la Prefazione e i primi due capitoli del primo dei dieci brevissimi «romanzi» che costituiscono La vita intensa e che è intitolato per l’appunto La vita intensa: si tratta di una serie di incontri, di scherzi e di battute che ha per protagonisti un narratore e l’amico Piero a Milano (che, si nota nel capitolo II, sono due ufficiali del Regio esercito), nel giro di mezz’ora, nel breve percorso tra la via San Paolo e la Galleria. La Prefazione ha un evidente intento parodico nei confronti delle prefazioni consuete: e già al suo inizio l’indicazione sullo spazio di tempo nel quale dice svolgersi il «romanzo d’avventure» suscita battute giocose sulla complicata contemporaneità degli avvenimenti che possono darsi in una vita davvero intensa quale quella dell’immediato dopoguerra. Già con questo espediente viene messo in moto il frenetico straniamento comico che caratterizza questa singolare raccolta. La sfida di Bontempelli è proprio quella di trovare l’assurdo e il paradossale (nei casi migliori), il curioso e lo stravagante (negli episodi piú bozzettistici), proprio nel tran tran quotidiano della vita di città, che non parrebbe dover rivelare nulla di sorprendente. E, asserendo che il romanzo viene scritto per i posteri e per rinnovare il romanzo europeo, la Prefazione si conclude in un evidente circuito ironico, tanto piú che proprio le manie e le fissazioni letterarie saranno tra gli obbiettivi piú bersagliati dalla satira de La vita intensa. Paradossalmente, però, il Bontempelli di qualche anno dopo, all’altezza del 1926-29, quando darà vita alla rivista «900», intenderà programmaticamente proprio porsi come rinnovatore dei canoni narrativi, e piú in generale letterari, su scala continentale. I primi due capitoli presentano le tappe iniziali del percorso dei due amici, con gli scherzi piuttosto gratuiti e puerili che essi fanno a due diverse figure di borghesi sconosciuti che percorrono la città: prima, a partire dalla stessa scala del palazzo da cui decidono di uscire, nei confronti di una donna reduce da una visita a uno specialista in malattie veneree nello stesso palazzo, poi, nel largo di Case Rotte, ai danni di un affaticato viaggiatore con una valigia grande. Scherzi gratuiti e puerili, a cui collabora il Diavolo in persona, che tendono a rovesciare l’agitata serietà della vita cittadina, che la espongono alla futilità, rivolgendosi contro persone ignare, tutte prese nel tran tran della loro esistenza, e distorcendo provvisoriamente i loro movimenti e le loro reazioni. In queste piccole burle si sente l’eco dell’esaltazione futurista del gioco e del comico e una vicinanza al metodo giocoso messo in atto dal dadaismo (cfr. DATI, tav. 216): ma esse sono anche il frutto della depressione e della scioperataggine del dopoguerra (il narratore e Piero sono ufficiali che certo hanno partecipato alla guerra, ma che sono ancora in servizio). A essere messa in burla è comunque l’intera vita sociale contemporanea, e insieme tutte le ideologie vitalistiche cosí fortemente attive in quel dopoguerra (e in parte condivise dallo stesso Bontempelli). [EDIZIONE: Massimo Bontempelli, Opere scelte, a cura di L. Baldacci, Mondadori, Milano 1978]

PREFAZIONE

Racconto fatti veri, accaduti a me, nella città di Milano. Questa narrazione – la quale comprende tutte le avventure che mi sono occorse una mattina, tra le  e le ,, andando da via San Paolo alla Galleria – potrà sembrare troppo complicata a quanti sono capaci di andare da casa alla trattoria senza incontrare nulla che sia degno di essere raccontato. . da via … Galleria: percorso brevissimo: la via San Paolo va da piazza Meda a Corso Vittorio Emanue-

Straniamento comico

Messa in burla della vita sociale

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Eppure questa è una storia vera. E io non la scrivo per quegli uomini troppo semplici. Per contro, essa sembrerà troppo semplice ai lettori dei divini romanzi di Dumas, i quali certo esigeranno che, andando da via San Paolo alla Galleria tra le  e le ,, io dovessi incontrare almeno tre o quattro duelli, come avvenne al compianto moschettiere d’Artagnan nel romanzo che prende il nome dagli altri tre . E parrà insulsa addirittura agli ammiratori dei seccantissimi romanzi di Bourget , che per ogni mezz’ora di vita dei loro personaggi analizzano almeno venticinque movimenti psicologici principali e un centinaio di vibrazioni psichiche accessorie. Eppure questa storia è vera cosí. E io non la scrivo per quegli uomini troppo complicati. E allora per chi e perché scrivo questo romanzo? Lo scrivo per i posteri. Lo scrivo per rinnovare il romanzo europeo. Questa duplice dichiarazione non deve maravigliare. Uno che scrive un romanzo, e ci mette la prefazione, non può assolutamente dichiarare meno di tanto. I LA CLIENTE DEL PIANO DI SOTTO

Correva il primo anno del dopoguerra. Piero venne a prendermi a casa per andare a far colazione. Misi il cappotto, e uscimmo. Ora, è necessario sapere che io abitavo al terzo piano. E che al primo piano ci stava un certo dottore X. specialista in malattie veneree. Eravamo ancora otto o dieci gradini piú su del primo piano, quando vedemmo aprirsi l’uscio del dottore e scivolarne fuori una donnina, molto imbacuccata. Non certo una cocottina. Una piccola borghese assai modesta di contegno e di abiti. La disgrazia che l’aveva spinta dal dottore X. poteva benissimo essere un incidente strettamente coniugale. La povera donnina, stretta in una pelliccetta nera, con gli occhi bassi, cominciò a scendere senza voltarsi. E noi fatalmente la seguivamo, a distanza dei detti otto o dieci gradini. Il Diavolo, che qualche volta giunge invisibile fino al mio fianco e all’orecchio mi consiglia certe malizie torbide, me ne suggerí una in quel momento. Volgendomi a Piero, gli dissi, con l’aria piú candida del mondo: «Vedi? qui ci sta un dottore, il dottore X». Piero rispose: «Già». Io aggiunsi, forte (e avevamo guadagnato quattro gradini sulla distanza che ci separava dalla donna): «Sai? il dottor X. cura es-clu-si-va-men-te le malattie veneree». (La sillabazione scandita di quell’esclusivamente era tutto suggerimento del Diavolo che stava invisibile alla mia destra, mentre alla sinistra avevo Piero, visibile). le II: e da essa si può rapidamente raggiungere la Galleria Vittorio Emanuele II. . nel romanzo … altri tre: si allude a I tre moschettieri di Alexandre Dumas padre (), esemplare celeberrimo della narrativa di avventura piú sfrenata e leggera. . romanzi di Bourget: la narrativa di Paul Bourget (-), partita dal canone naturalistico, assurse a fama internazionale quando piegò – peraltro dopo studi testimoniati da un’interessante produzione saggistica – a tematiche piú sottili di tipo psicologico, prese in giro con gusto qui da Bontempelli. . Correva il primo anno del dopoguerra: cioè il .

Già questa presentazione lieve e perifrastica introduce al clima della rievocazione d’epoca (peraltro molto vicina al tempo della scrittura: il libro verrà pubblicato l’anno seguente al supposto svolgersi degli avvenimenti), leggero e fantastico. Si è visto in precedenza, in Rubè di Borgese, quale ben diverso tono abbia il quadro d’ambiente della stessa città, esattamente negli stessi mesi (cfr. pp.  e sgg.). . una cocottina: una giovane prostituta (dal francese cocotte). . incidente … coniugale: cioè una malattia venerea trasmessa dallo stesso marito. . mentre … visibile: nel clima de La Vita intensa

T. LE FORME DELLA PROSA TRA LE DUE GUERRE. ALTRI SCRITTORI TRA LE DUE GUERRE

Piero disse: «Ah». Intanto la donnina s’era ristretta, inverosimilmente: pareva un piccolo vestito con una piccola pelliccetta, che cercasse di scivolare magicamente verso la strada. Ella aveva aperto l’uscio vetrato davanti alla portineria. L’uscio aveva fatto squillare il campanello a scatto che c’è sopra. Il vestito e la pelliccetta avevano sussultato a quello squillo. Noi le eravamo arrivati quasi alle calcagna. Passammo prima che l’uscio si richiudesse, utilizzando lo stesso squillo. La donnina percorreva la lunghezza dell’androne, era già quasi sulla via. Ma io feci a tempo a concludere il mio discorso. «Ecco: soltanto le malattie veneree, per uomini e donne». Io non avevo mai visto arrossire un vestito grigio e una pelliccetta nera, specialmente visti per di dietro. Ma in quel momento mi parve che tutta la linea della donnina sfuggente divampasse di rossore. Il suo passo s’impacciò, come le si congelassero i ginocchi. E non si voltò. Non si voltava. Tutta la sua anima e il suo corpo, il suo passato e il suo avvenire, la sua ragiondivita, il suo Destino, si concentravano in questo scopo supremo: non voltarsi. E ormai la vittima era sulla via. Ora, quando una persona esce da una casa sulla via, generalmente prende o a destra o a sinistra, tanto piú se in faccia non c’è niente di meglio da prendere. In faccia lí c’era un muro. Sul muro non c’era nemmeno un avviso teatrale, nemmeno un cartellone di qualche lucido per le scarpe, nemmeno un proclama nazionalista: niente. Tuttavia la donnina non prese a destra. La donnina non prese a sinistra. La donnina andò verso il muro, dove non c’era nulla. Arrivata a due passi da quello si fermò. Probabilmente stava aspettando con qualche impazienza che si sprofondasse il suolo della strada. Invece io e Piero voltammo a sinistra. Piero disse: «Non mi sono mai divertito tanto in vita mia». «Davvero?» «Però sei stato crudele con quella disgraziata». «Coccodrillo». II SIGNORE CON VALIGIA GRANDE

Aristotele afferma che una mattinata o è tutta noiosa, o è tutta molto divertente. Infatti, dopo meno di quattro minuti – cioè esattamente quando da via San Paolo, avendo una presenza fantastica, appena evocata con tocco leggerissimo, come quella del malizioso Diavolo che consiglia all’io narrante la condotta piú imbarazzante possibile, è altrettanto «reale» quanto quella dell’amico Piero (peraltro introdotto nella narrazione con altrettanta noncuranza). . che cercasse … la strada: dall’imbarazzo la donnina è ancora piú rimpicciolita, fino a farsi invisibile (e quindi il suo moto è magico) dentro al vestito striminzito. . nemmeno … nazionalista: in poche battute, Bontempelli dipinge quello che doveva essere il panorama piú familiare a chi percorresse le vie di Milano in quella primavera del : pubblicità

commerciale, alla caccia dei primi consumatori dopo il lungo inverno della guerra, e proclami nazionalisti, che presto prenderanno definitivamente il sopravvento. . «Coccodrillo»: Piero e l’io narrante, che sembrano non avere altro scopo, nelle loro passeggiate, che divertirsi alle spalle del resto del mondo, non hanno da dare ovviamente nessuna coloritura morale alla piccola «avventura» appena consumata: il giudizio, convenzionale, di crudeltà è quindi effettivamente una lacrima di coccodrillo. . Aristotele: l’attribuzione della frase scherzosa che definisce due opposti esiti di una mattinata è naturalmente parodica.

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percorso via San Fedele, sboccammo nel largo di Case Rotte – ci si offerse un altro impreveduto sollazzo. Veniva da piazza San Fedele un signore grosso con una valigia. Intuii subito la situazione. Dissi a Piero: «Vedi? quella è la valigia grande.» «Vedo che è, sì, una valigia piuttosto grande.» «No, è “la valigia grande”. Quel signore vive in provincia, con moglie. Possiede due valigie: “la valigia piccola” e “la valigia grande”. Ogni volta che deve viaggiare, discutono, marito e moglie, se lui deve mettere “il cappello bello” o “il cappello di tutti i giorni” e se deve prendere “la valigia piccola” o “la valigia grande”. Questa volta la moglie gli ha permesso, o comandato, di mettere il cappello bello (vedi, quello duro) e di portarsi la valigia grande. Gli ha poi raccomandato, arrivando alla stazione, di non prendere la carrozza che ora costano il doppio perché c’è il dopoguerra; lui ha preso il tranvai, e arrivato in piazza della Scala non ha trovato nessuno da farsi portare la valigia. Così se la porta da sé, e suda, beato lui, in piazza, a Milano, di gennaio.» Il signore col cappello bello aveva posato un momento la valigia grande, che fino lì aveva portata con la destra; poi l’aveva ripresa, ma con la sinistra. Il cappello bello era gettato all’indietro sulla nuca, e il signore soffiava. Ora lo avevamo oltrepassato. D’un tratto m’accorsi che il Diavolo era ancora – invisibile – al mio fianco, perché certo per suo incitamento, alterando la voce e dandole un colore acuto tra di maschera e di ventriloquo, gracidai forte: «Comanda facchino il signore?» Io e Piero (e anche il Diavolo) ci eravamo fermati sull’angolo verso piazza San Fedele, a osservare l’effetto. Il signore col cappello bello si fermò, dischiuso il cuore alla più rosea speranza, e si voltò, mentre istintivamente il suo braccio (sinistro) allungava verso il suolo la valigia grande. Ma non vide nessuno da cui potesse essere venuta la voce. C’era un prete che traversava in fretta, una donna che svoltava verso San Fedele, e due assai serii ufficiali in grigioverde, cioè io e Piero. Tutte persone assolutamente impari al mestiere di facchino, e insospettabili di scherzo. Il signore sudato si fermò un buon minuto, tutto penzolante a sinistra, perché la valigia poggiava sì a terra ma la mano e il braccio, fulminati dalla sorpresa, non si risolvevano ad abbandonarla. La sua espressione dalla prima radiosa speranza, traverso la sorpresa sospettosa, giunse agli orli di una inquietudine pregna di spavento. Allucinazione? Si rimise dritto (con la destra) il cappello bello, corrugò le sopracciglia, pensò alla moglie, e si ridrizzò, ma ripassando la valigia dalla sinistra alla destra. Poi s’avviò risoluto verso San Paolo. Il Diavolo mi dette un pizzicotto. Per farlo star cheto dovetti ripetere, sul falsetto squillante di prima, traverso, la piazza ormai vuota, verso le spalle, grosse del signore con la valigia grande: «Comanda facchino?» Ma questa volta non stemmo a guardare l’effetto: scantonammo subito, rendendoci istantaneamente invisibili, come, il Diavolo.

. largo di Case Rotte: tra la chiesa di San Fedele e palazzo Marino, vicino alla piazza della Scala.

. in grigioverde: il colore delle divise dell’esercito, di cui i due buontemponi sono ufficiali.

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Corrado Alvaro Primi tempi al collegio (da L’età breve, IV) Ne L’età breve il personaggio autobiografico di Rinaldo Diacono inizia a frequentare la scuola media, partito dal nativo paese di Corace (che ha tutti i tratti di San Luca d’Aspromonte, il paese natale di Alvaro), in un collegio gesuitico che riproduce l’immagine di quello di Villa Mondragone, presso Frascati, realmente frequentato dall’autore. Nel passo che presentiamo si seguono i turbamenti del protagonista in rapporto con il nuovo mondo, tanto diverso da quello del paese natío. E subito il Rettore del Collegio, con la sua invadenza anche fisica, si caratterizza per il ragazzo come un’alterità negativa: con le sue rudi maniere, mettendogli le dita sulla punta del naso, egli agisce sulla sua inquietà fisicità, vicina a risvegliarsi ma ancora incerta e titubante, e quindi fonte di imbarazzo e malessere. A questa presenza negativa si oppone quella del padre Orbain: questo anziano prelato, di origine francese, si caratterizza invece subito come un’alterità benigna, una figura patriarcale e affettuosa e nella quale è possibile riporre fiducia. Ma tutto il clima vagamente «femminile» che si respira in quel collegio maschile, il fatto che lí tutto era gentile, ovattato e falsamente innocente, si oppone al mondo «sano», definito, integrale della comunità rurale da cui Rinaldo proviene. Le ambiguità sottaciute e negate, le sottili inquietudini dell’ambiente del collegio sono per Rinaldo complicate dall’esortazione reticente ed eufemistica del Rettore a conservare «il fiore dell’innocenza», che non può che ingenerare confusione e disorientamento in Rinaldo. Tutta la seconda parte del brano segue il vario interrogarsi di Rinaldo su quel fiore dell’innocenza e sulla tentazione: la sua ricerca inquieta lo porta negli anfratti meno illuminati del collegio, tra ali di pipistrelli, conchiglie, molluschi e altri strani e «perturbanti» esseri, e suscita in lui una serie di pensieri orrendi: la fase immediatamente prepuberale della sua esistenza, in quell’ambiente ipocrita e untuoso, sovraccaricata in anticipo di sensi di colpa e di forti censure psicologiche, si tramuta subito in un incubo, al quale si oppone la naturale solarità del suo temperamento e della sua terra d’origine. La solarità ancestrale delle radici di Corace è corrotta e messa in crisi dai turbamenti dell’età, ma soprattutto dell’ambiente saturo di ambiguità e incertezza nel quale Rinaldo si trova a crescere. [EDIZIONE: Corrado Alvaro, Opere. Romanzi e racconti, a cura e con introduzione di G. Pampaloni, Bompiani, Milano 1990]

Monsignor Rettore aveva scoperto che il naso di Rinaldo aveva un setto che a un certo punto cedeva ed era molle alla pressione. Questo parve divertirlo assai, sebbene a Rinaldo ripugnasse di sentirsi toccare. Era questo appunto che lo irritava nei suoi rapporti con suo padre, il quale lo considerava ancora come un suo oggetto, e spesso cavava di tasca il fazzoletto per strofinarglielo in viso se lo vedeva in qualche modo macchiato. Ma sua madre già da qualche anno non ardiva piú toccarlo; ed ecco che monsignor Rettore si permetteva di mettergli le dita sulla punta del naso. A volte, monsignor Rettore chiamava Diacono, e alla presenza di qualche prelato ospite del collegio, gli schiacciava la punta del naso con le sue dita secche, aride, nodose e lucide come coperte di squamma. Questo scherzo pareva divertirlo, ma non era evidentemente approvato dal padre Orbain. Il padre Orbain considerava Diacono, attraverso i suoi grandi occhiali, come un individuo grande, qualche volta lo chiamava «mon petit monsieur» come Carmela Diacono, quando vedeva suo figlio

. Monsignor Rettore: il prelato Rettore del Collegio dove passa la sua prima adolescenza Rinaldo Diacono, il protagonista del romanzo. . con le sue dita … squamma: la pelle del Rettore è talmente lucida e polita da sembrare l’epidermi-

de squamosa di un serpente. Le analogie misteriose con il mondo animale piú inquietante e ripugnante caratterizzano tutto il brano. . «mon petit monsieur»: francese; “il mio signorino”. . Carmela Diacono: la madre di Rinaldo.

I turbamenti del protagonista nel mondo nuovo del collegio

Ipocrisia contro sanità e solarità del paese natio

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vestito di nuovo al mattino delle feste, lo chiamava «mio bel signore» e gli dava del voi. Il padre Orbain viveva una vita molto appartata, non lo si trovava che di rado in giro, quando, a volte, preso da una premura improvvisa per qualcuno dei suoi figli spirituali, si presentava con un dono per lui, un libro o un’immaginetta. La sua stanza era piena di libri, e Rinaldo cercava di stamparsi nella mente il titolo di qualcuno di quei volumi, che evocava cose su cui si metteva a galoppare la fantasia. Altri preferiva come confessore il padre Corniglia, un gesuita; camminava costui un poco inclinato da una parte, come stando in ascolto verso qualcuno che gli parlasse all’orecchio. Una volta Rinaldo lo vide che si trascinava, attaccato alla falda della veste, uno spino, forse un diavoletto che l’avesse seguito dal confessionale. Se il padre Orbain fosse stato spesso in mezzo ai ragazzi, Rinaldo sarebbe stato sempre buono e bravo, come al suo paese era buono quando sapeva che lo guardava la zia Giuseppina. E poi il padre Orbain sapeva ogni cosa di Diacono, ma non che Diacono aveva trascritto in un taccuino, che teneva nascosto in tasca, alcuni titoli di libri che egli teneva allineati nel suo scaffale, e che su questi fantasticava. Certi nomi gli parevano vecchi, altri giovani, e per alcuni aveva delle preferenze. Certe parole lo empivano di una gioia segreta, come rosa rosae sulla grammatica latina; e rosarum era proprio un cespuglio di rose. Quando andavano a pregare in cappella, passavano davanti alla porta del padre Orbain, e Diacono camminava in punta di piedi. Egli non riusciva a conciliare l’immagine di quel prete francese con quella canzone in cui per la prima volta aveva sentito parlare della Francia: «O’ francese, o’ francese o saccio già, drin drin drin drà, so’ parigina si…». Questa canzone l’aveva sentita cantare a suo padre, e da allora la parola «francese» era stata nella sua mente come qualcosa di frangiato, leggero e fragile. In cappella, uno dei piú grandicelli leggeva le preghiere, a turno, ad alta voce, e tutti gli altri rispondevano in coro. Monsignor Rettore, al suo banco, stava con la grossa testa curva e l’esile collo piegato. Il padre Orbain, quando c’era, stava ben dritto sulle ginocchia piegate, come davanti a un re. Prima di farsi prete, era stato ufficiale in Cocincina. I piccoli stavano nei primi banchi, i grandi dietro. I piccoli erano stati ammoniti di non avere rapporti con quelli della camerata dei mezzani e dei grandi, i quali avevano facce d’uomini e si radevano già la barba. Questo ammonimento di non avere rapporti coi grandi provocò in Rinaldo un senso di panico verso la gente adulta. A Corace, i grandi esistevano come un mondo a sé, lavoravano, già facevano quello che fanno gli uomini. Ora, nel collegio, dopo quell’ammonimento, Rinaldo vedeva i grandi come i caproni e i cavalli. Uno gli faceva impressione, Gattiglia, che aveva i capelli lisci, chiari, divisi da una parte, con un viso dai lineamenti regolari, dritti, con due occhi grigi, e pareva deturpato dalla crescita di una peluria biondastra sul viso. Rinaldo pensava che quella fosse la traccia di un peccato. Si era abituato a quel mondo di immagini sacre in cui regnava la femminilità e la grazia dei santi adolescenti, o delle sante vergini, o il candore non vissuto dei vecchi barbuti, come se si fossero messe delle barbe per finta, o fossero fioriti. La Vergine, a Corace, aveva un viso paesano, e sant’Erasmo somigliava un poco al pellaio poeta. Qui, invece, tutto era gentile. Monsignor Rettore ammoniva di continuo di conservare «il fiore dell’innocenza». Rinaldo non sapeva che fosse un tal fiore, e cercava di saperlo. In una cella che si apriva sulla scala della soffitta, e dove si diceva che avesse soggiornato un santo, le pareti erano di. rosa rosae: è il classico ABC delle declinazioni latine. . «O’ francese, o’ francese o saccio già…»: una canzonetta da varietà, un cascame di civiltà «cittadina» penetrato chissà come nell’universo arcaico di Corace, il piccolo paese di Calabria dal quale proviene Rinaldo. . frangiato: la parola francese per omofonia fa pensare a frangiato, ornato di frange; decorato in modo frivolo.

. in Cocincina: il portamento rigido di Padre Orbain è spiegato immaginosamente con i suoi trascorsi militari nelle colonie francesi d’Indocina. . mezzani: i ragazzi delle classi intermedie. . A Corace: nella dimensione rurale del paese di origine i ragazzi grandi, che lavoravano nei campi, appartenevano già al mondo degli adulti. . pellaio poeta: conciatore di pelli, che è il poeta del villaggio di Corace.

T. LE FORME DELLA PROSA TRA LE DUE GUERRE. ALTRI SCRITTORI TRA LE DUE GUERRE

pinte di ali di pipistrelli: erano le impronte delle ali dei demonii i quali avevano assalito quel santo e ne erano stati sbaragliati. Essi volevano indurre il santo in tentazione. Ma come potevano pensarlo, essendo tanto mostruosi? E che cos’era la tentazione? Forse qualcosa di lubrico, che ha rapporto con le ali dei pipistrelli, e fa pensare anche alle conchiglie, ai serpenti, ai gusci degli animali, a qualcosa di appena creato, come certi invertebrati e molluschi che si vedevano nel libro di storia naturale. Neppure al padre Orbain ardí chiedere una spiegazione Diacono, il quale cominciò ad aver paura del diavolo. Ma piú aveva paura, e piú frasi terribili e orribili pensieri gli salivano alla mente. Non aveva mai avuto tanti pensieri orrendi, e quasi tutti in una atmosfera viscida, di serpi e anguille e animali a forma di budello e di conchiglia. E i fiori stessi, col loro segreto chiuso nel calice, somigliavano a quel mondo elementare e non terminato di creare. Ne aveva una profonda ripugnanza e nel medesimo tempo una attrazione spaventata. Né dai discorsi del padre Orbain egli riuscí a capire nulla. Il padre Orbain lo guardava e lo ascoltava con un sorriso quasi senza labbra che si spandeva sui suoi limpidi occhiali, e alla fine recitava accanto a lui le preghiere, col suo gran viso di argento curvo sul suo tavolo, presso l’immagine del Crocefisso, ai piedi del quale era un piccolo teschio di argento. E questo teschio rideva del sorriso delle conchiglie, era la conchiglia che conteneva il pensiero umano che si logorava e si stemperava a quel modo. Quello che lo inquietava maggiormente era che le immagini maschili dei santi avevano qualcosa di femmineo. Fino a quando scoprí che i ragazzi piú fortunati fra i suoi compagni, quelli piú protetti, erano coloro i quali avevano un’apparenza gentile. Uno di essi, Luisella, quando apriva un libro, specialmente il grosso dizionario latino, vi metteva sopra il naso e lo odorava là dove i fogli si uniscono in una piega profonda, come si apre una conchiglia. Gli orribili pensieri che gli venivano ora alla mente, che uscivano da tutti gli angoli piú inesplorati, all’improvviso, formando immagini a modo loro, senza che egli potesse in qualche modo correggerle o cancellarle, lo sorprendevano quando meno se lo aspettava, ed erano pensieri di cose che si sciupano e si corrompono. A Corace non gli era mai accaduto di pensare cosí. A Corace tutto viveva nel sole, nell’aria, nel vento. Tutto si trasformava, ed egli non era mai stato preso dal pensiero della decadenza. Ma qui egli aveva per la prima volta l’impressione delle cose che decadono, del tempo che divora, degli elementi nemici. A Corace era come aver vissuto per un giorno solo, come in una rappresentazione in cui un attore fa la parte del vecchio, uno del giovane, una della donna, e per essi non c’è fine, non c’è mutamento, sono infiniti come è infinita l’infanzia. Ora cominciava ad avere nozione della lotta contro il tempo, e quindi della lotta contro la corruzione e la fine. E quindi contro il brutto, il deforme, il guasto. E quindi contro tutto quello che sciupa. Perciò monsignor Rettore parlava del fiore dell’innocenza. Rinaldo non sapeva come potesse mantenere questo fiore, quando il suo pensiero era continuamente occupato di paure, di pericoli, di ripugnanze, e non faceva in tempo a lavarsi di tanti orribili pensieri, che altri sopraggiungevano. Ora, egli vedeva dappertutto il diavolo, anche nel verme che un giorno vide spuntare, spaventoso nella vita cieca che lo faceva vibrare, dal buco del cesso. . quasi tutti … viscida: i correlati immediati del turbamento presessuale di Rinaldo sono legati a immagini viscide e dalla forma indeterminata. . i fiori … nel calice: l’immagine del fiore chiuso nel suo calice, in analogia al mistero sessuale ha almeno un precedente illustre nella letteratura italiana moderna: Il gelsomino notturno di Pascoli (cfr. T.). . con un sorriso … occhiali: nel turbamento di Rinaldo, anche la figura benevola di Padre Orbain si colora di una luce ambigua, quasi spettrale. . un piccolo teschio d’argento: la tradizionale sim-

bologia del disprezzo del mondo si colora naturalmente, agli occhi di Rinaldo, di una luce sinistra. . sorriso delle conchiglie: nell’immaginazione di Rinaldo le conchiglie contengono segreti e misteri da svelare. . sono infiniti … l’infanzia: il tempo del luogo ancestrale è un tempo ciclico, sostanzialmente fermo in un eterno presente statico e dalla luce accecante. . anche nel verme … spaventoso: l’immagine del verme, dalla terribile cecità fremente, è il culmine di quello che ci è stato presentato quasi come un delirio del protagonista.

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GUERRE E FASCISMO

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Alberto Savinio Icaro (da Achille innamorato)

Trattamento ironico del mito

Ironia verso il militarismo fascista

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In questo breve racconto (pubblicato su «La Rivista di Firenze» nel settembre 1924 e poi raccolto nel 1938 nel volume Achille innamorato) si manifesta nel modo piú esemplare il trattamento «straniante», insieme giocoso, ironico e inquietante, che Savinio fa del mito: il mondo classico e la vita moderna si sovrappongono ed entrano in collisione; una figura mitica, come quella di Icaro, cade nel mondo contemporaneo, ne turba la normalità, vi inserisce l’imprevisto e la sorpresa. L’aura classica che circonda il mito viene cosí ironizzata, ridimensionata, ricondotta a una quotidiana banalità; ma nello stesso tempo quella presenza del mito nel mondo di oggi fa percepire la relatività e la provvisorietà del presente, della vita ovvia e consueta che in esso si svolge. Qui ci troviamo in un campo d’aviazione, dove quattro militari di diverse regioni d’Italia (presentati attraverso giocosi intrecci tra nomi classici e nomi moderni) stanno giocando a carte: ma arresta il loro gioco la fucilata con cui un soldato di origine napoletana ha colpito un uomo proveniente dal cielo, caduto in volo senza che nessun aereo lo portasse; solo un capitano che ha fatto studi classici riconosce in quel caduto il mitico Icaro (caduto in volo con le ali di cera costruite dal padre Dedalo, per essersi troppo avvicinato al sole), del quale poi si celebrano pomposamente i funerali, con la partecipazione delle piú varie autorità. Il raccontino si pone anche come aggressione ironica nei confronti del militarismo fascista, di cui viene a dare un ritratto deformante e caricaturale. Ma la conclusione del racconto viene a creare un nuovo cortocircuito tra il presente e il passato mitico: ci trasporta a Creta, dove Dedalo, il padre di Icaro, presentato come un vecchio signore contemporaneo in veste da camera, piange per la perdita del figlio. Il tempo e lo spazio annullano cosí i loro confini; il lettore è continuamente provocato a sentire i segni del mito nel piú banale mondo quotidiano; e nel mito non si ritrova piú un valore puro, originario e assoluto, ma un materiale narrativo frammentario, rimpicciolito e degradato. Ma in questa continua compresenza tra i residui del mito e il mondo presente, in ogni atto e in ogni situazione resta qualcosa di strano, di misterioso; la realtà di Savinio è sempre fuori di se stessa, si rivolge sempre da un’altra parte, al di là dei confini dell’apparenza. [EDIZIONE: Alberto Savinio, Casa «La vita» e altri racconti, a cura di A. Tinterri e P. Italia, Adelphi, Milano 1999]

Sdraiati sul tavolaccio del corpo di guardia al modo che gli scultori antichi figuravano il padre Nilo, quattro militari in maniche di camicia giocano a tresette. «Striscio a coppe!» annuncia il soldato Dello Spasimoso Aniello, campano, e tira un sorso di caffè con anice. Quattro giubbe pendono dal muro istoriato di epigrafi a Venere Libitina, illanguidite e sgonfie come la pelle di cui re Astiage spogliò l’apostolo Bartolomeo.

. Sdraiati … il padre Nilo: subito Savinio riconduce l’immagine di tipo «comico» dei militari contemporanei a un’iconografia classica, quella del fiume Nilo, rappresentato dagli antichi sdraiato (come accadeva in genere per le immagini dei fiumi). . «Striscio a coppe!»: battuta del tresette, come altre riportate successivamente. . muro … Venere Libitina: le scritte oscene sul muro del corpo di guardia vengono comicamente in-

dicate con un linguaggio classico: il participio istoriato, il sostantivo epigrafi, e la destinataria delle scritte stesse, Venere, qui impropriamente associata a Libitina, la dea dei funerali. . come la pelle … Bartolomeo: all’immaginario classico si associa ora quella religioso: le giubbe cascanti appese al muro vengono paragonate alla pelle afflosciata dell’apostolo Bartolomeo, fatto scorticare vivo dal re Astiage.

T. LE FORME DELLA PROSA TRA LE DUE GUERRE. ALBERTO SAVINIO

«Busso a denari!» ribatte il soldato Tornaquinci Amos, etrusco, risucchiando il toscano fino al limite infocato. Zaini affardellati e grosse pagnotte spolverate di farina stanno ammucchiate sul soppalco. Piovono come glicine le cinghie delle buffetterie. «Doppio liscio», annuncia a sua volta il soldato Pinco Archimede, apulo, e in cosí dire lancia a tre metri di distanza un getto sottile di saliva. Fuori, il campo d’aviazione riposa nella pace meridiana. Il caporale Pavani Telesforo, lucano, sceglie nel mezzo la carta da giocare, la torce tra le dita, grida: «Tre tre» e sta per aggiungere: «E una napoletana», ma nell’istante medesimo echeggia una fucilata. I quattro giocatori si guardano esterrefatti. Armato di tutto punto con cartuccere e sotto gola, il fucile che spira fumo dalla canna, pallido come un morto, appare sulla soglia il soldato Pavolantonio Aligi, sannita, che era di guardia agli hangar. «Chi ha sparato?» grida il caporale Pavani, saltando giú dal tavolaccio. «N’ommene a cascate da lu ciele» balbetta la sentinella. «Sei ammattito?» «I so matite, capurà? Venitele a vedè purre vu». * Fiorita è la mortale primavera. Danzano le limoniadi a tre a tre, leggere, intorno all’occhio di una margherita. Steso lo sbrillantio della sterile sabbia sotto la luce corruttrice, il cerchio perfetto del campo d’atterraggio è rotto in mezzo da un’ombra breve, su che lievissima una nube di polvere va dileguando a poco a poco nel luminoso ponentino. Stretto all’ombra il corpo nudo di un giovane, la testa e il sommo delle spalle nella sabbia d’oro, immagine ferma del nuotatore in tuffo, di Lucifero in viaggio per Giudecca. Il cielo l’ha respinto né lo ha voluto accogliere la terra. * «Chi monta di giornata?». «Presente!» risponde Pavani all’ufficiale di picchetto. «Non c’erano apparecchi in aria?». «Signornò!». Lungo è l’esame, il mistero impenetrabile. Emana quel morto un fascino che gli aviatori in cerchio sentono tutti, ma nessuno riesce a spiegare. L’uomo nudo ha sempre un che di marcio, di cadaverico: e quello no. La carne ha il verde, l’umidità dell’ombra: e su quel corpo ignoto e bellissimo, su quel corpo d’altri tempi, brilla il ricordo incancellabile del sole. . etrusco … infocato: il soldato toscano (indicato classicamente come etrusco) viene presentato nella posa di aspirare, come succhiando fino al limite, dove il tabacco è infuocato, un sigaro toscano. . buffetterie: accessori di cuoio della divisa militare. . apulo: ancora con un termine classico viene indicato il soldato pugliese. . sannita: cioè originario del Sannio (regione antica, genericamente corrispondente al nord della Campania e al Molise). . matite: «ammattito»; notare il tocco di colore dato dalle battute in dialetto «sannita». . limoniadi: insetti (anche limoniidi o limonidi) provvisti di zampe lunghe e talvolta privi di ali.

. immagine … Giudecca: la figura del giovane caduto viene paragonata a due immagini diverse: quella di un nuotatore in tuffo (che ricorda tra l’altro un celebre dipinto antico, quello del tuffatore di Paestum) e quella del capo degli angeli ribelli, Lucifero, precipitato nel fondo dell’Inferno (la zona che nella Commedia dantesca ha il nome di Giudecca). . La carne … del sole: il corpo del caduto reca sul campo d’aviazione l’immagine di un altro mondo e di altri tempi, del suo legame con il sole: rappresenta la distanza tra il mondo del mito, la sua misteriosa bellezza, e la mediocrità del mondo contemporaneo.

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* Chiamato per telefono, il capitano Fogliacco comandante il campo d’aviazione è accorso sul posto. Il capitano Fogliacco ha fatto studi classici. Si china sul cadavere nudo, esamina le membra pure, i piedi perfetti, i lacerti vivi tuttavia sotto la pelle bionda, l’armonia antica, e senza ombra di esitazione dichiara: «È Icaro». Fedele all’infallibilità del superiore, Pavolantonio Aligi risponde sull’attenti: «Signorsí!». * I tranvai in colonna fanno treno. Armenti di automobili e di botticelle sostano fitti lungo il marciapiede. Il corteo avanza a passo d’uomo. Precede la musica dei carabinieri. Il commissario per l’aeronautica, il ministro della guerra, le altre autorità seguono in gruppo il carro funebre. Nel cielo carico di presagi si spande di tanto in tanto uno scroscio di bombardini, un gemito di clarinetti. «Io non capisco», dice il ministro della Guerra, «oggi che l’aviazione è cosí avanti, volare ancora con ali di cera!». «Tradizionalisti, mio caro generale», risponde il commissario per l’Aeronautica, «tradizionalisti!». I cavalli bardati di nero accennano di sí col capo impennacchiato. Gli echi della marcia funebre si spengono in fondo al viale. Vola nel cielo un canto malinconioso e dolcissimo. * A Creta intanto, dall’intricato giardino di una villa presso il mare, un vecchio signore con una lunga barba bianca e una veste da camera a fiorami, guarda le nuvole arrivare, le guarda partire, e piange senza piú speranza. . I tramvai … marciapiede: si notino le metafore qui usate per descrivere il traffico cittadino bloccato dal corteo funebre: i tram incolonnati l’uno dietro l’altro danno l’immagine di un treno; i gruppi di automobili si presentano come animali raggruppati in armenti.

. bombardini: strumenti a fiato, ottoni simili a flicorni ma usati nelle bande, con tono di baritono. . A Creta: l’isola dove, secondo il mito, Dedalo, prigioniero con il figlio Icaro nel labirinto da lui stesso costruito (qui ridotto al rango di un intricato giardino), aveva costruito le ali di cera per fuggire.

T. LE FORME DELLA PROSA TRA LE DUE GUERRE. TOMMASO LANDOLFI

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Tommaso Landolfi LA PIETRA LUNARE

Pubblicato nel , il breve romanzo La pietra lunare può essere considerato un po’ come il punto d’arrivo della prima grande stagione di Landolfi, quella dei racconti fantastici: non perché ne costituisca l’ultimo tassello (a esso seguiranno testi ancora pienamente ascrivibili a questa «prima maniera», dalla raccolta La spada del  all’altro romanzo breve, Le due zittelle, del ), ma perché in esso approdano a una compiuta misura espressiva e a una sicurissima tenuta stilistica quegli elementi, tematici e formali, già sciorinati nella prima raccolta: un equilibrio che in effetti Landolfi non raggiungerà piú, nell’ambito di questa sua stagione, sino alla crisi e al cambiamento di rotta dell’inizio degli anni Cinquanta. La storia è quella di un giovane studente e poetucolo di nome Giovancarlo, che vive in città ma è evidentemente originario di un paese di provincia e che, di ritorno ai luoghi di origine, nella casa degli zii che lo ospitano (il paese, indicato con l’abbreviazione P., adombra chiaramente il paese natale di Landolfi, Pico Farnese), incontra una giovane per la quale prova un’istantanea, ambigua attrazione, Gurú. Nel corso di una serata conviviale descritta con toni sospesi e «straniati», ai quali non è estraneo un certo gusto di marca surrealista, Giovancarlo intravede le gambe di Gurú, constatando con orrore che si tratta di gambe di capra, pelose e terminanti in zoccoli biforcuti. L’orrore presto si stempera in un sentimento di ammirazione e insieme inquietudine, per il quale Giovancarlo finisce per accettare la doppia natura di Gurú: «il curioso era che queste zampe, a guardarci bene, parevano la logica continuazione di quelle cosce affusolate; né alcuni lunghi ciuffi di pelame ruvido bastavano a stabilire un’ideale soluzione fra l’agile corpo e le sue mostruose appendici». La donna-capra trascina con sé Giovancarlo in una dimensione notturna della realtà, alternativa a quella convenzionale e stereotipata del mondo diurno, appiattito nella sua monotonia. In questo universo notturno, vicino alle radici subliminali, al fondo terrestre dell’umanità (diversi sono i riferimenti al Goethe del Faust e all’inquietante immagine delle Madri, che simboleggiano appunto il rapporto stretto dell’essere umano con la sua matrice infera), i due finiscono – dopo un’ambigua scena rituale nella quale Gurú si accoppia con una capra alla luce lunare – per imbattersi nell’apparizione di una compagnia di briganti morti che si abbandonano a pratiche sanguinarie: queste si associano ad analoghe tendenze della stessa Gurú, che si rivela quindi essere parte di quella compagnia minacciosa ma anche burlesca. Il risveglio alla realtà di Giovancarlo comporta l’accettazione di una Gurú «normale», che piú non lo interessa, e il reinserimento nella vita di tutti i giorni, con l’addio del giovane al paese natale per recarsi in città e affrontare gli esami universitari. Il testo è intrecciato di citazioni diversissime, e appare sovraccarico di riferimenti non tutti facili da cogliere; mira insomma a essere la summa delle ossessioni psicologiche e letterarie del dotto Landolfi: per esempio il titolo fa riferimento a una delle epigrafi iniziali, un frammento del poeta romantico tedesco Novalis («… e collocò questo sassolino in un posto vuoto, che si trovava nel mezzo tra alte pietre, dove, come dei raggi, molte file si toccavano»); mentre in appendice c’è un lungo «montaggio» di citazioni dal Leopardi dello Zibaldone (sulla priorità della poesia di immaginazione degli antichi, che vivevano in sintonia con la natura, nei confronti di quella sentimentale e razionale dei moderni), scherzosamente presentata come Giudizio del signor Giacomo Leopardi sulla presente opera. Simboli e sensi dell’opera appartengono, come avviene quasi sempre nel primo Landolfi, al regno dell’ambiguo e dell’indeterminato, in una dimensione irrazionale in cui gli stessi elementi piú strani dell’intreccio possono essere fatti risalire alla realtà quotidiana, confondersi con essa: cosí l’immaginechiave delle gambe pelose di Gurú, che però trova la sua origine nell’usanza dei pastori di rivestirsi le gambe con cosciali di pelo di capra. Un’usanza alla quale Giovancarlo allude quando ancora la sua ragione non ha abdicato del tutto alla dimensione irrazionale e poi, ancora, al suo risveglio; ma lo stesso motivo appare al culmine del delirio della scena centrale con gli spettri dei briganti.

DATI

tav. 246

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Gurú e Giovancarlo (da La pietra lunare, V)

Un «notturno» fantastico e irrazionale

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La casa di Giovancarlo ha già di per sé un aspetto notturno e sinistro: nelle notti tempestose in essa si ha l’impressione di essere in inverno. La presenza di Gurú vi fa irrompere un’ulteriore dimensione irrazionale e fantastica, «notturna» e «lunare»; essa sfida la tempesta spalancando la finestra e spegnendo la luce, offrendosi all’odore della pioggia e alla minaccia dei fulmini. Singolari reazioni la donna suscita negli animali della casa; e durante una passeggiata notturna si ha un suo inquietante incontro con una capra. E quando Giovancarlo comincia a fare allusioni alle zampe di capra che crede di averle visto, nelle sue risposte resta un velo di ambiguità. L’affacciarsi della luna crea in Gurú uno stato di agitazione e il suo crescere fa salire la sua inquietudine, una smania che ella potrà soddisfare solo nella allucinata passeggiata sui monti, che sarà narrata nel seguito del romanzo. Si noti intanto come già in queste pagine sulla figura di Gurú si accumulino sempre piú insistentemente i segni del suo rapporto con il buio e la tempesta, con il mondo animale, con la luce notturna della luna: essa sembra come contenere dentro di sé i segreti incomprensibili di una natura che resta comunque «altra», sempre estranea e inafferrabile per l’esperienza di un uomo «normale» come Giovancarlo. [EDIZIONE: Tommaso Landolfi, Opere, I, 1937-1959, a cura di I. Landolfi, Rizzoli, Milano 1991]

La luna era finalmente sparita dal cielo, le stelle brillavano piú intense e Gurú respirava di sollievo. Ma spesso anche, da qualche tempo, il cielo era coperto, il che rendeva le notti assai cupe; e per di piú a volte si scatenavano violenti temporali notturni. La casa di Giovancarlo, tranne l’ala, del resto deserta, sul vicolo che s’è visto, era d’ogni parte isolata in mezzo al grande giardino; a chiamare aiuto con tutto il fiato dei propri polmoni, se la disgrazia si fosse abbattuta su questa casa, nessuno avrebbe udito. A chi in tali notti tempestose l’avesse guardata dalle abitazioni oltre il giardino, essa avrebbe presentato un ben funesto aspetto; tetra sotto le nuvole gonfie e nere, fra l’ululato del vento e il torcersi degli alberi bagnati, una sola luce trapelava da una finestra serrata, e anche la cagna ululava al brontolio lontano dei tuoni. Dentro, col frusciare rabbioso della pioggia e quello di risacca degli alberi, si poteva pensare d’essere in inverno, «Spengi la luce» diceva Gurú spalancando una finestra «vieni, hai paura dei fulmini?» Ella si appoggiava al davanzale attirandolo a sé, abbracciandogli le spalle come a proteggerlo e poi facendo scorrere i capelli di lui fra le sue dita; il corpo della fanciulla raggiava in quei momenti un calore quasi materno e al giovane pareva d’essere un bambino, tanto quel calore lo assicurava. Le narici di lei si dilatavano a respirare l’odore della pioggia, essa guardava intensamente fuori come se volesse distinguere qualcosa fra la sommossa oscurità. «Guarda, non è bello?». Il vento le scoteva i capelli, a Giovancarlo venivano in mente le parole della pinzochera Filomena, se qualche

. e quello di risacca degli alberi: la densa scena notturna, soffusa di elementi sonori e visivi, culmina nell’immagine analogica degli alberi che, frustati dal vento, fanno un rumore simile a quello delle onde del mare (risacca). . il corpo … quasi materno: diversi sono gli accenni ne La pietra lunare al fascino in qualche modo edipico (cioè legato all’attrazione nei confronti della madre definita da Freud «complesso di Edipo») che spinge Giovancarlo verso l’inquietante Gurú. . la sommossa oscurità: sommossa è, con costrutto raro, participio passato da «sommuovere»: l’oscu-

rità è tale perché sconvolta dal vento e dalla pioggia. . «Guarda, non è bello?»: Gurú fa parte di un universo notturno, che dalla notte di tregenda (simile ad altre analoghe notti nelle quali si svolgono tutti gli episodi principali del racconto) non ha nulla da temere; essa costituisce anzi il suo ambiente naturale. . a Giovancarlo … Filomena: emerge, in un momento come questo, il sostrato culturale profondo, antropologico, del «provinciale» Giovancarlo, cioè il repertorio popolare di leggende e superstizioni. La Filomena che lo ha messo in guardia dai

T. LE FORME DELLA PROSA TRA LE DUE GUERRE. TOMMASO LANDOLFI

fulmine pareva piegare verso di loro e poi invece sgusciava via e si fermava un momento alto sulle loro teste, senza tuono: i lupi mannari possono proteggere dalla cosa trista. Gurú infatti non guardava neppure i fulmini, quasi fosse sicura che non potevano far loro male. Gli animali della casa avevano subito fatto amicizia con lei, ma sembravano piuttosto dominati che inteneriti dalla sua presenza. La cagna la fissava spesso, cogli occhi vellutati e selvaggi, profondamente in volto; quando ella giocava con lei, e talvolta persino si rotolava con lei su un tappeto, c’era nell’animale alcunché di feroce e il suo uggiolio rassomigliava a un ringhio. Il gatto si lasciava lungamente accarezzare perché la sua natura lo soverchiava, ma continuava a battere la punta della coda. In quel tempo, quando non pioveva, cominciarono anche a uscire, a notte tarda; s’aggiravano per qualche stradicciola di campagna, lontano da ogni sguardo indiscreto, Gurú parlava delle siepi, degli alberi, delle piccole erbe che riusciva a scorgere malgrado l’oscurità. E rientravano dolcemente stanchi, un po’ raggelati dall’aria notturna. Presero una notte la strada maestra, fino a un gran folto d’alberi che le pendeva sopra da una scarpata; il cielo era spaventosamente cupo, sotto gli alberi l’oscurità divenne quasi completa. A un tratto Giovancarlo si sentí seguito da un passo leggero, eppure abbastanza sonoro; si volse e non distinse sulle prime che una vaga macchia biancastra, un fortore caldo ne emanava. Ma Gurú allungò una mano: «è una capra, non vedi? non ti piacciono?» disse palpando le orecchie dell’animale e grattandogli la testa. «Perché ci seguivi cosí, che vuoi? Va’ ora» aggiunse. La capra puntò di botto le zampe in terra e levò la testa come adombrata; vedendoli allontanare non si mosse, ma sembrò seguirli nel buio con uno sguardo obliquo; infine dileguò nella notte. Al giovane la sua felicità avrebbe dovuto bastare; invece, per quanto si fosse giurato e spergiurato di non far parola alla fanciulla del loro primo incontro, non resisté alla sua malsana curiosità, e forse anche al bisogno che provava di dissipare un resto di terrore. Accennò dunque una volta abbastanza chiaramente a quella prima notte e non mancò d’alludere alle zampe di capra. La fanciulla rise dapprima di cuore, come se si fosse trattato di uno scherzo bizzarro, ma quando il giovane, per uno sciocco puntiglio insisté e precisò, si fece pensierosa e cupa. «Ma che dici?» chiese coll’aria smemorata di chi non si raccapezza nel discorso, e tuttavia con una certa apprensione, quasi le balenasse un’orribile possibilità insospettata, o temesse, in un orrore retrospettivo, d’aver partecipato senza saperlo ad un’azione nefanda. «Ma che dici?» ripeté passandosi una mano alla fronte, come cercando di rammentare un presentimento. Era chiaro che se anche quei fatti erano avvenuti davvero, ella non ne sapeva nulla tuttavia. Vedendola soffrire il giovane si calmò.

lupi mannari è detta pinzochera («bigotta, bacchettona»), ma Giovancarlo in questo momento ragiona in base alla sua logica: se Gurú non ha paura dei fulmini è perché non appartiene al nostro mondo bensì a quello degli inferi, a una dimensione notturna e misteriosa. . un momento alto sulle loro teste: appena al di sopra delle loro teste. . cosa trista: con cadenza popolareggiante: il malanno, l’accidente. . Il gatto … coda: anche il gatto, sebbene per la sua natura di gaudente non sappia resistere alle carezze, mantiene una certa agitazione in presenza di Gurú, e nervoso continua a battere la punta della coda. . raggelati: raffreddati. . un gran folto d’alberi: un boschetto particolarmente fitto.

. fortore: odore penetrante e sgradevole. . «è una capra … piacciono?»: le capre, come è naturale, sono gli animali piú vicini a Gurú, che, come Giovancarlo ha creduto di vedere la notte in cui l’ha conosciuta e come presto scoprirà essere vero, partecipa anche della loro natura (ha gambe di capra). . adombrata: riferito all’animale, il vocabolo vuol dire «spaventata, imbizzarrita»; visto il contesto, però, e in considerazione della commistione di elementi umani e animali che caratterizza il mondo di Gurú, è piú calzante il senso che il termine ha riferito agli uomini, cioè «irritata, insospettita». . quella prima notte: quella dell’apparizione di Gurú nella casa dei genitori di Giovancarlo, che innesca la vicenda. . tuttavia: l’avverbio è usato nella sua accezione piú antiquata, nel senso di «tuttora».

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«Chissà che direbbe Bernardo se sapesse…» disse una volta all’impensata la fanciulla. «Chi è questo Bernardo?» s’accigliò Giovancarlo geloso. «Eh, lo vedrai una volta; non m’hai promesso che una volta verrai con me lassú, sulla montagna?» e si rifiutò di fornire altre spiegazioni. Passarono molti altri giorni; il cielo era schiarito, la luna ricomparve, sotto forma di falce sottile e argentina, e Gurú fu ripresa dalle sue irrequietezze. Ma ora non la evitava di proposito, sebbene di passeggiate, anche per il pericolo d’esser riconosciuti, non si parlasse piú. «Eppure» disse anzi con una sorta di rassegnazione «bisognerà uscire una volta con questa luna»; pronunciando però luna con malcelato disprezzo. La luna intanto cresceva, cresceva, si gonfiava, indugiava sempre piú a lungo per il cielo, e la strana inquietudine della fanciulla aumentava. Infine ella cominciò a pregare Giovancarlo d’accompagnarla in un’uscita sulla montagna. «Non resisto piú qui dentro» esclamava smaniosa, contraddicendo a tutto quanto aveva detto prima «fuori, via, sui monti, lontano! è piú forte di me» aggiungeva balenandole oscuramente il cavo degli occhi nella penombra lunare. . «Chissà … se sapesse…»: Bernardo, innamorato della ragazza-capra, è uno dei briganti morti che con Gurú Giovancarlo visiterà piú avanti nel racconto, nella sua scena culminante. . all’impensata: senza farci caso, distrattamente, all’improvviso. . argentina: del colore dell’argento. . «bisognerà … luna»: la luna e il suo ciclo dominano la natura ancipite, umana e animale, di Gurú, che all’avvicinarsi del plenilunio si fa sempre piú irrequieta e confusa. Il suo elemento uma-

no vorrebbe evitare il sopravvento di quello ferino, e per questo Gurú parla della luna con malcelato disprezzo ed evita le passeggiate notturne con Giovancarlo; presto, però, non potrà fare a meno di rispondere al richiamo della sua vera natura. . oscuramente … lunare: gli occhi esagitati ed eccitati di Gurú sono talmente brillanti da parer essere, innaturalmente, del tutto bianchi (per questo il loro balenío è detto oscuro, con un vero e proprio ossimoro).

T. LE FORME DELLA PROSA TRA LE DUE GUERRE. ANTONIO DELFINI

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Antonio Delfini Due apparizioni femminili (da Il ricordo della Basca, Introduzione) L’ampia Introduzione a Il ricordo della Basca, datata «Roma, 18 aprile 1956», può essere considerata il capolavoro di Delfini: vi viene narrata l’origine del libro del 1938 e in particolare del racconto che gli ha dato il titolo, nato dalla breve apparizione alla stazione di Firenze di un’adolescente proveniente dalle regioni basche, mentre infuriava la guerra civile di Spagna. Il ritorno sulla scrittura della propria opera è anche un ritorno sulla propria vita, che porta lo scrittore a rievocare varie esperienze e vicende personali degli anni Trenta, riavvolgendo insieme i diversi tempi, moltiplicando i rapporti e le transizioni tra il vissuto e l’inventato e trovando folgoranti scatti di passione. I ricordi si affollano in quella che Delfini definisce come la sua «mente di rivoluzionario e di reazionario, di scrittore un po’ mancato, e di amante fallito»: la realtà personale, quella letteraria e quella storica si avviluppano in un nesso inscindibile, giungendo anche a scatenare una ossessiva polemica sia contro la passata società fascista sia contro la nuova del dopoguerra, in cui Delfini vede svilupparsi quello che definisce il nuovo «inumanesimo italiano». Da questa Introduzione riportiamo due brani in cui si affacciano due diverse figure femminili, che annunciano immagini opposte di una femminilità comunque inafferrabile. Il primo brano si riferisce a un episodio di vita modenese, legato all’iniziativa di un viaggio a Roma suggerito da quel «complesso d’inferiorità» proprio degli intellettuali di provincia che nella capitale pensano di entrare in contatto con i piú importanti modelli della cultura contemporanea, da cui si sentono esclusi. Delfini sostiene di non condividere questo complesso, e polemizza con gli intellettuali che ne sono affetti, ma riconosce di aver comunque subito il loro contagio (e in questi scatti si può comunque apprezzare il vigore dello spirito polemico dello scrittore). Dal proposito di partire per Roma sorge però subito immediatamente una fascinosa immagine femminile, tutta interna a quel mondo provinciale: quando si sta recando a comprare una valigia necessaria per la sua partenza, l’autore riceve il sorriso di una donna bellissima che passa per la strada, dalla cui apparizione sembra esplodere un tripudio di colori, nel fulgore assoluto della primavera. Scoppia in lui l’uragano: l’effetto di questa sconvolgente apparizione è descritto con un’esaltazione ingenua e iperbolica, a cui fa da contrappeso l’esito «comico» del suo stordimento, notato dal valigiaio che gli ricorda che si tratta di una ragazza ben nota a Modena, la bella Margherita Matesillani. L’emozione e il turbamento, per la visione della sua bellezza e per non averla riconosciuta, riconduce subito lo scrittore a casa, dove è incalzato da una serie di tre sogni, registrati nella loro assurdità, con un tipo di scrittura che certamente risente dei modelli surrealisti. Il secondo brano appartiene alla parte finale dell’Introduzione e narra l’origine del racconto Il ricordo della Basca, dovuta alla fuggevole apparizione di una fanciulla quindicenne, insieme al padre e al fratellino, alla stazione di Firenze, nel 1937. Completamente diversa è questa figura da quella della prorompente Margherita Matesillani: è il rivelarsi di una grazia che è al di là della bellezza, fissata in una serie di modelli pittorici su cui ora Delfini indugia; è l’apparire di un candore totale che si intreccia con la dolcezza della lingua spagnola, di cui si distingue una sola parola, entonces; è il segno di una felicità serena che resiste in mezzo alle dolorose visioni di una vita d’esilio e di privazioni. Il treno che parte tronca questa visione, questo annuncio di possibilità illimitate, che ricordano «le vert paradis des amours enfantines» (“il verde paradiso degli amori infantili”) di una poesia di Baudelaire (cfr. CANONE EUROPEO, tav. 177): pensando a quanto il popolo basco ha sofferto nella guerra civile spagnola, Delfini ha battezzato la fanciulla «la Basca» e l’ha messa al centro d’un racconto d’amore e dell’intero libro Il ricordo della Basca. Cosí l’origine di quel racconto degli anni Trenta è a sua volta racconto, struggente immagine di un tempo tragico, del tempo dell’esilio, della violenza, della guerra, in cui la semplice ingenua bellezza appare l’unico inafferrabile rifugio del valore e del bene. [EDIZIONE: Antonio Delfini, Il ricordo della Basca, Einaudi, Torino 1982]

Polemica sia contro il fascismo sia contro la società del dopoguerra

L’uragano provocato dal fascino della bella modenese

L’epifania di una grazia con il ricordo della Basca

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Certo che se non avessi conosciuto degli intellettuali, e li avessi frequentati ancor meno di quanto li avessi frequentati fin allora, non sarei partito per Roma. Perché partire per Roma significava sottomettermi a una specie di complesso di inferiorità, che gli intellettuali mi avevano rivelato, e col quale non seppi giocare disinvoltamente a pallino. Era il loro complesso di inferiorità, e, par delicatesse , finsi di esserne anch’io infettato. Al punto che gl’intellettuali arrivarono a persuadermi di lasciarmi curare da loro, ormai inguaribilmente malati. Anzi, erano stati uccisi da quel complesso e le loro larve (che mi facevano da medico) non erano che sopravvivenze dei loro corpi. Il complesso di inferiorità si chiamava (e si chiama tutt’ora) provincia. Si badi però a quanto dico. Il loro complesso non stava nell’essere dei provinciali (che non esistono e non sono mai esistiti) ma nel parlare, nel giudicare, di una provincia, di un provincialismo, nel contagiare di un timore della provincia, e nell’isolarsi in una torre, o in una valle segreta, o nel centro di una grande città, o nel salotto di una signora dentro una villa, fuori della provincia. Essi erano veramente malati. Ma non possiamo dir malato alle gambe chi manca di gambe. Cosí essi sarebbero stati malati alla personalità, se l’avessero avuta. Io, sí, invece, che davo segni seri di esser malato alla personalità. Perché, se non fossi stato malato, non sarei partito per Roma. Fu una giornata grandiosa, verde di un verde estremo, appena attenuato dai ricordati colori amari dell’inverno, che trasudavano umidi e freddi dall’intonaco delle case intorno al Duomo. Era un profumo singolare, tra di cantina, di chiesa e di campo corse dei cavalli. Mai è esalato piú forte quel profumo (come di pura essenza, quasi miracolo di un poco esperto profumiere). Mai tanto come in quel giorno che ero occupato per l’acquisto di una valigia. Lei passò, mi vide, mi guardò e mi sorrise. Era bianca di pelle, con un rosa talmente delicato sulle guance tonde, che pareva il bianco risoluto (al quale il pennello avesse dato un po’ di colore) di un pittore, esclusivo pittore di bianchi. Tuttavia l’atmosfera che la circondava diventava rosa, come se lei fosse stata di un profondo rosa. L’alone ancora, che divideva lei dall’atmosfera rosa, era di un grigio chiaro vivificato dal giallo dell’intonaco del Vescovado il quale si rifletteva piú generosamente sull’impiantito dov’ella portava avanti i piedi, e diventava d’oro. Dalle vetrine basse della pasticceria, la ridda dei colori forti dei confetti bianchi, rossi e d’argento misto al blú che si trova blu ovunque ci sia aria di verde, lanciava spruzzi abbondanti di violetto dal quale la testa di lei pareva uscire come visione di dea in mezzo a un prato di anemoni e di margheritine. I suoi occhi celesti, chiari come nel cielo chiaro, si approfondivano in un forte azzurro disegnato in un sottile cerchio e non erano sprizzanti come son quelli troppo chiari, ma riposanti al cuore di chi li guardava: se non fosse stato che il suo passo riposato, fermo e pur avanzante, e le sue gambe grassottelle adatte a sostenere un corpo morbido e piumato (ma nuda la pelle e rosa) se non fosse stato appunto questo a ricordare che la primavera sopratutto può dare la sorpresa del piú improvviso temporale. Nel mio cuore, infatti scoppiò l’uragano. Essa era bionda come nessuno è mai stato biondo al mondo e quello era il giorno di primavera piú forte e piú verde, quale mai in questo secolo si è dichiarato. Era primavera! La sola primavera che io ricordi come primavera!

. col quale … a pallino: che non seppi dominare, da cui non seppi destreggiarmi; il pallino è forse il boccino del biliardo, o quello delle bocce. . par delicatesse: “per delicatezza” (francese). . Ma non possiamo … gambe: non è possibile diagnosticare una malattia alle gambe, se il supposto malato è privo di gambe: Delfini vuol dire che quegli intellettuali sono assolutamente privi di personalità. . tra di: che sapeva al tempo stesso di.

. Vescovado: il Palazzo dell’Arcivescovado, con facciata settecentesca, che si trova, a Modena, di fronte al Duomo. . sprizzanti: pungenti, tali da ferire chi li guarda. . piumato: adorno di piume: forse riferito a un cappello, oppure usato in senso figurato, a rafforzare l’idea di morbidezza. . Essa era … dichiarato: l’uso dell’iperbole testimonia la ricerca di eccesso e di assolutezza, la rottura delle barriere della normalità praticata dall’autore.

T. LE FORME DELLA PROSA TRA LE DUE GUERRE. ANTONIO DELFINI

Eravamo al centro, nella breve e larga strada che dalla via Emilia porta al Duomo. Non c’era neanche un prato né un giardino intorno. E pure fu una giornata grandiosa, verde di un verde estremo… Stavo davanti alla bottega del valigiaio. Prima ne avevo guardato la vetrina; adesso mi ci appoggiavo. Invece di seguire la donna, entrai nella bottega ed essa era già in fondo al portico: quel portico ch’era sempre stato buio col suo odore di bigliardi di caffè e di giorni di mercato sotto la pioggia, adesso era diventato azzurro come se l’intonaco giallo del Vescovado, e il Vescovado stesso fossero scomparsi. Ricordo che non comprai niente, pensando che la vecchia valigia che avevo a casa sarebbe stata piú elegante e sapendo che il mio cuore era diventato ora nemico dei viaggi. Il negoziante mi disse: «Signor Delfini, lei è diventato pallido. Se tutte le volte che la vede, fa cosí, va a finir male. Credo che adesso sia il momento buono: ha rotto anche con l’ultimo, ed era il quinto dei fidanzati. Perché non fa il sesto?» «Ma di chi parla?», gli dissi con un fil di voce. «Ma della bella Matesillani, la Margherita. Perché è stato a Parigi, non conosce piú i modenesi?» A queste ultime parole, ero già scappato. Correvo verso casa con l’idea precisa di andarmi a impiccare. Via di corsa i portici della via Emilia, e il monumento a Tassoni, e la piazza dell’Orologio, e i Portici del Collegio, e la Banca Popolare, e poi dentro casa, quattro scalini alla volta, come un fiat dentro la sala dei paesaggi e poi nella mia camera, nel mio letto. Passò molto tempo? Non so se un quarto d’ora o due ore. Il mio primo sogno fu questo: giravo in una città di fabbricanti di corda e di bottega in bottega cercavo la misura giusta; ma tutti i negozianti mi dicevano: «Ritorni per la prossima fiera delle corde». Mi svegliavo e dicevo: «Non è possibile». Poi un altro sogno: dentro una torre ci stava una gallina, la strozzo, la metto a cuocere, e mentre comincio a mangiarla, si avanza la bionda massaia che mi dice: «Tu mangi la mia gallina, ma intanto quando vai fuori a bere dimentichi di scrivere il tuo nome sulla porta e dopo non riconosci piú la casa». Un terzo sogno (ma che era già un dormiveglia) diceva: la figlia del guardiano del giardino esce dal grande cancello perché tu la incontri, e invece tu passi dal cancello di fondo e tiri sassate contro suo padre. Divertiti pure; ma se un giorno la figlia del guardiano del giardino incontra un gatto e un cane che fanno all’amore, e lei si metterà a ridere, tu come farai a divertirti? Poi, ancora: dormivo su un prato, con dodici fucili intorno puntati contro di me. Dietro i dodici fucili non c’era nessuno. Improvvisamente sparano: dodici proiettili che mi trafiggono il cuore. Sto per svegliarmi, perché sono morto, ma la fata mi dice: «una volta ero divisa in dodici palle di fucile, adesso sono una donna… puoi continuare a dormire…», e mi svegliai. […] Fu in un giorno del principio di primavera del , alla stazione di Firenze mentre aspettavo il solito treno per Bologna. Avevo dimenticato la guerra civile, la storia antica e moderna, leggevo i giornali che tenevo in mano. Mi cullavo nell’ansia di rivedere presto il fatale colore del Reno nelle vicinanze della stazione di Bologna, e la distesa delle locomoti. Se … finir male: «Se ogni qualvolta vede quella donna reagisce in questo modo, lei farà una brutta fine». . Perché … Parigi: «per il fatto di essere stato a Parigi», dove Delfini si era recato nel  e aveva preso conoscenza di alcuni testi surrealisti. . come un fiat … paesaggi: «correndo velocemente fin dentro la sala sulle cui pareti si trovavano pitture di paesaggi» (in questa Introduzione si fa spesso riferimento alla grande casa signorile che la famiglia Delfini possedeva nel centro di Modena). L’espressione come un fiat indica tempo brevissimo, dalle parole che Dio pronuncia per creare le varie forme del mondo, fiat (latino, “si fac-

cia”), nella versione Vulgata della Bibbia (cosí fiat lux, “sia fatta la luce”). . dodici fucili: sono quelli che l’autore dichiara, nella Introduzione, di aver acquistato da un amico contrabbandiere. . solito … Bologna: stabilitosi a Firenze, Delfini usa recarsi continuamente in treno a Bologna. . la guerra civile: la guerra civile spagnola, scoppiata nel  e conclusa nel  con la vittoria dei fascisti di Francisco Franco: particolarmente colpiti, in questa guerra, furono i paesi baschi (e tra l’altro nell’aprile del  la cittadina basca di Guernica fu rasa al suolo dall’aviazione tedesca, a sostegno dei franchisti).

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ve vampanti di grigio e di rosso, col cielo acceso dal tramonto del sole, e il color cotto e il verde del Santuario della Madonna di San Luca. Un signore dai lineamenti fini e dal portamento oltremodo signorile, molto dimesso negli abiti per quanto fossero eleganti, stava pensoso, tenendosi un po’ in disparte dai suoi figlioletti (un bambino e una ragazzetta): i quali stavano conversando in una lingua di tale toccante dolcezza, che il mio cuore a udirli, sembrò volesse fermare il proprio battito per lasciare le cose sospese per sempre in quell’attimo. Ma subito invece si udirono dei treni in arrivo e in partenza, l’urlo dei viaggiatori, dei facchini, dei ferrovieri, e fischi lunghi e lontani che parevano riecheggiare da viaggi antichi per gli spazi immensi delle grandi pianure europee. Il bambino avrà avuto dieci anni; lei quindici. Lui era di una dolcezza straordinaria, e di una particolare attenzione: pareva pendere dal labbro di sua sorella. Era molto pallido quel bambino, e sembrava piccolo per l’intelligenza che dimostrava nell’espressione. Lei diceva pochissime parole e le scandiva ritmicamente dando a tutto il suono il senso di una musica composta per una ballabile rassegnazione. Non mi parve bella, ma ne scoprii subito una grazia indiscutibile. Non era alta; e il cappottino di lana di un colore dell’avana chiaro, era chiuso al collo da un grande bottone, alla maniera del classico impermeabile inglese. Lui pareva uscire da un quadro di Velasquez. Lei, che ricordava, pur non somigliandole, quella Madonna del Greco (che vediamo in medaglioni riprodotta sulle copertine delle monografie di quel pittore) pareva essere, vivente all’improvviso e nell’infanzia, la piú adorata signora della mia vita: quella che sta in poltrona in un quadro di Cézanne. Però era anche (e forse, sopratutto) una Madonna del Greco, che allora non conoscevo, e che vidi poi nell’autunno dello stesso anno a Parigi: quella che, richiamata dall’alto, in cieli gialli che s’indorano, sembra placidamente salire con l’aiuto delle nuvole trasformate per l’occasione in angeli. Risolutamente piccoli erano i suoi piedi, chiusi dentro delle scarpette basse da giovanetto. Tutto il suo corpo, nell’insieme, tendeva alla rotondità, a una rotondità di una purezza assoluta. Aveva lungo il taglio delle labbra che erano delineate, chiare, di una pelle rosa, appena rossa, e erano sottili, accese da una lievissima umidità: si riflettevano in un sorriso, quasi senza ironia, di un genere che la Gioconda ancora non conosce e che ritrovai qualche tempo dopo in un passo delle Ricordanze, laddove il Settembrini racconta dell’incontro con colei che diventerà sua moglie. Le gambe non erano grosse, non erano sottili, non erano belle, non erano brutte: significavano nel modo piú perfetto il candore della gioventú e il senso piú vero, senza possibilità di contrasti, di quella che è la castità, la quale trovava tutta la sua descrizione nello sguardo, in quegli occhi dolci e profondi, che narravano di dolorose visioni, osservate e sofferte, ma superate dalla contemplazione di una vita interna piena di una felicità serena che il mondo non voleva piú tollerare. Pareva che cercasse di dare al fratellino (il quale cominciava forse a perdere qualcosa della grande fiducia infantile nella vita) tutta

. Reno: il fiume che scorre nei pressi di Bologna. . Santuario … San Luca: il santuario che si trova in vetta al Monte della Guardia, pochi chilometri a sud-ovest della città. . ballabile rassegnazione: notare la singolarità di questa espressione, che mira a rendere la rassegnata dolcezza che Delfini sente nel ritmo con cui la ragazza scandisce le sue parole, proiettandola come nell’onda di una danza malinconica e, appunto, «rassegnata». . un quadro di Velasquez … in angeli: Delfini accumula tutta una serie di riferimenti pittorici, che chiamano in causa due dei maggiori pittori spagnoli, piú genericamente Diego Velázquez de Silva, -, e, con riferimenti a opere particolari, El Greco (-: se ne ricordano due diver-

se Madonne, la seconda riconosciuta «dopo», a Parigi); ma si inserisce, con un’identificazione provvisoria, anche un quadro di Paul Cézanne (-), probabilmente quello della signora Cézanne nella poltrona gialla, che si trova all’Art Institute di Chicago, o l’altra versione, nella poltrona rossa, al Museum of Fine Arts di Boston (quest’ultima è riprodotta nella copertina dell’edizione Einaudi citata del Ricordo della Basca). . in un sorriso … moglie: paragona il sorriso della fanciulla a quello celebre della Gioconda di Leonardo, sottolineandone la diversità e identificandolo poi (anche qui un’identificazione a posteriori, come quella della Madonna del Greco) con quello che Luigi Settembrini attribuisce alla moglie in un passo delle Ricordanze della mia vita (cfr. ..).

T. LE FORME DELLA PROSA TRA LE DUE GUERRE. ANTONIO DELFINI

la confidenza possibile di un’esistenza pura che nessuno ed alcuna cosa avevano ancora intaccata, e mai sarebbe stata nemmeno alterata finché lei gli fosse stata vicina. Volevo udire le loro parole: intenderle, e per questo mi ero avvicinato quasi a toccarli. Nel discorso potei raccogliere una parola: «entonces». Lei mi guardò con un sorriso intatto, e pareva che dai suoi occhi scendesse un po’ di bene per me. Il padre intanto, lontano, mi guardò anche lui e temetti volesse darmi dell’importuno. Invece sorrise, come avesse detto: «Accomodatevi, caballero, siete della mia famiglia. Siamo ormai tanto in pochi, noi buoni sulla terra!» Il fratellino aveva qualcosa da opporre a quell’entonces, e lei continuò a persuaderlo. Stavo per entrare nel discorso anch’io. Il destino aveva preparato tutto per questo…, ma il treno sopraggiunto in quel momento, mi risucchiò in un istante. Fu come se fosse passato il carro dell’inferno; fui preso per i capelli, strappato alla felicità. La colpa fu mia. Se avessi fatto come il fratello di lei: lasciarmi persuadere! Come ho potuto opporre una partenza per Bologna a quell’entonces, a quella sola parola che racchiudeva in sé la poesia e la saggezza della piú nobile e piú grande biblioteca del mondo?! Sono passati diciannove anni da quel giorno del principio di primavera del , e quell’incontro torna a essere, come è sempre stato, pieno di rimproveri di prospettive e di speranze. Lei venne da me chiamata la Basca. La guerra civile spagnola stava diventando la prima vera grande tragedia dell’umanità. La immaginai tornata al suo paese. La immaginai fuggiasca. La pensai figlia del capo della rivolta. Il destino dei Baschi fu allora terribile, diventò tragico, e finí con lo svanire in altre e piú grandi tragedie. La mia ambizione trasmodò. Volli scrivere un libro, un grande messaggio all’umanità. Far capire agli italiani, e senza incorrere nella censura o nei castighi del regime, che io ero coi Baschi e contro di loro. Far leggere a lei il mio libro e farmela incontrare di nuovo. Dovevo fare in fretta, prima che finisse la guerra, prima che fosse tutto perduto. Ne venne fuori un pasticcio che nessuno ha capito, un racconto: Il ricordo della Basca. . «entonces»: la parola spagnola è un semplice avverbio, “allora”; che però si pone come qualcosa di assoluto, come una rivelazione, piú ricca della «piú grande biblioteca del mondo». . finí … tragedie: ne svaní il ricordo con l’esplodere, poco dopo, dei nuovi tragici orrori della seconda guerra mondiale.

. Far leggere … di nuovo: un sogno assurdo e impossibile, una specie di sfida al tempo presente e ai limiti del caso, a qualcosa di irrimediabilmente perduto: ma non si dimentichi che molto spesso la grande letteratura nasce da qualcosa di simile a questo proposito «folle» di Delfini.

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Dino Buzzati Il crollo della Baliverna (da Sessanta racconti)

Si affaccia sul fantastico dentro un quadro di normalità

La suggestione di Kafka

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Questo racconto fu pubblicato sul «Corriere della sera» il 20 maggio 1951, poi compreso nella raccolta di racconti del 1954 intitolata proprio Il crollo della Baliverna, e infine in quella dei Sessanta racconti (1958). Tra i piú famosi di Buzzati, permette di riconoscere nel modo piú esemplare il suo metodo narrativo, il modo in cui egli si affaccia sul fantastico come abbassandone i toni, sospendendo le vicende tra la realtà e l’allucinazione, rappresentando situazioni inquietanti dentro un quadro di normalità borghese e quotidiana. Si tratta di una sorta di incubo: la voce narrante ripercorre la vicenda del crollo catastrofico di un vecchio edificio, per il quale si sta per celebrare un processo. Il crollo è avvenuto in concomitanza con il tentativo dello stesso narratore di arrampicarsi su di una parete dell’edificio, atto di cui coloro che lo accompagnavano non sembrano essersi accorti: il sospetto di aver cosí provocato, anche se involontariamente, la catastrofe, e il senso di colpa che ne consegue, torturano il personaggio, gli fanno temere accuse e condanne future. Il lettore resta in dubbio sulla reale consistenza del fatto narrato: l’edificio stesso, descritto con grande cura del particolare, come a volerne affermare l’evidenza reale, ha qualcosa di sinistro, è una sorta di residuo architettonico che ricorda allo stesso tempo la prigione, l’ospedale e la fortezza; il suo aspetto e il suo stesso crollo sembrano come sorgere da un delirio o da un incubo, fantasmi del senso di colpa che ossessiona il personaggio (ma si noti come il delirio si appoggi su immagini concretissime, come quella della ragazza che si sporge incuriosita e ignara alla finestrella mentre sotto di lei già si apre la voragine). Nel motivo della colpa involontaria, accompagnata dalla sensazione che altri sappiano e dalla paura di una punizione, si può riconoscere la diretta suggestione di Kafka (in particolare de Il processo: cfr. CANONE EUROPEO, tav. 228), a cui si aggiunge qui, anche nel titolo, quella di un celebre racconto di Edgar Allan Poe, The Fall of the House of the Usher (“Il crollo della casa degli Usher”). Ma, rispetto a Poe e Kafka, Buzzati riduce la tensione tragica e fantastica, attenuando i toni e le misure della rappresentazione. [EDIZIONE: Dino Buzzati, Opere scelte, a cura di G. Carnazzi, Mondadori, Milano 1998]

Fra una settimana comincia il processo per il crollo della Baliverna. Che sarà di me? Verranno a prendermi? Ho paura. Inutile ripetermi che nessuno si presenterà a testimoniare in odio a me; che della mia responsabilità il giudice istruttore non ha avuto neanche il minimo sospetto; che, anche se venissi incriminato, sarei assolto certamente; che il mio silenzio non può fare male ad alcuno; che, pur presentandomi io spontaneamente a confessare, l’imputato non ne sarebbe alleggerito. Niente di questo serve a consolarmi. Del resto, morto di malattia tre mesi fa il commissario ragionier Dogliotti, su cui pesava la principale accusa, sul banco degli imputati sarà soltanto l’allora assessore comunale all’Assistenza. Ma si tratta di una incriminazione pro forma; infatti come lo si potrebbe condannare se aveva preso possesso della carica da appena cinque giorni? Se mai, responsabile poteva considerarsi l’assessore precedente, ma costui era defunto il mese prima. E la vendetta della legge non entra nel buio delle tombe. A distanza di due anni dall’avvenimento spaventoso, tutti certo ne hanno un vivo ricordo. La Baliverna era un grandissimo e piuttosto lugubre edificio di mattoni costruito fuori porta nel secolo XVII dai frati di San Celso. Estinto l’ordine, nell’Ottocento il fabbricato era servito da caserma e prima della guerra apparteneva ancora alla amministrazione militare. Lasciato poi in abbandono, vi si era installata, con la tacita acquiescenza delle autorità, una turba di sfollati e senzatetto, povera gente che aveva avuta distrutta la casa dalle bombe, va-

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gabondi, «barboni», disperati, perfino una piccola comunità di zingari. Solo col tempo il Comune, entrato in possesso dello stabile, vi aveva messo una certa disciplina, registrando gli inquilini, sistemando gli indispensabili servizi, allontanando i tipi turbolenti. Ciononostante la Baliverna, anche a motivo di varie rapine avvenute nella zona, aveva brutta fama. Dire che fosse un covo della malavita sarebbe esagerato. Però nessuno passava volentieri di notte nei dintorni. Benché in origine la Baliverna sorgesse in piena campagna, coi secoli i sobborghi della città l’avevano quasi raggiunta. Ma nelle immediate vicinanze non c’erano altre case. Squallido e torvo, il casermone torreggiava sul terrapieno della ferrovia, sui prati incolti, sulle miserabili baracche di lamiera, dimore di pezzenti, sparse in mezzo ai cumuli di macerie e di detriti. Esso ricordava insieme la prigione, l’ospedale e la fortezza. Di pianta rettangolare, era lungo circa ottanta metri, e largo la metà. Nell’interno, un vasto cortile senza portici. Laggiú accompagnavo spesso, nei pomeriggi di sabato o domenica, mio cognato Giuseppe, entomologo, che in quei prati trovava molti insetti. Era un pretesto per prendere un po’ aria e stare in compagnia. Devo dire che lo stato del tetro edificio mi aveva fatto senso fin dalla prima volta. La tinta stessa dei mattoni, le numerose spie infisse nei muri, le rappezzature, certi travi messi da puntello, denotavano la decrepitezza. E specialmente impressionante era la parete posteriore, uniforme e nuda, che aveva poche, irregolari e piccole aperture simili piú a feritoie che a finestre; e perciò sembrava molto piú alta della facciata, ariosa di loggiati e finestroni. «Non ti sembra che il muro pencoli un po’ in fuori?» mi ricordo che domandai un giorno a mio cognato. Lui rise: «Speriamo bene. Ma è una tua impressione. Sempre i muri alti fanno questo effetto». Un sabato di luglio si era laggiú per una di queste passeggiate. Mio cognato aveva portato le due figlie, ancora ragazzette, e un suo collega di università, il professor Scavezzi, zoologo anche lui, un tipo sui quarant’anni, pallido e molliccio, che non mi era mai stato simpatico per il fare gesuitico e le arie che si dava. Mio cognato diceva che era un pozzo di scienza, oltre che una bravissima persona. Io però lo stimo un imbecille: altrimenti non avrebbe con me tanto sussiego, tutto perché io sono sarto e lui scienziato. Giunti alla Baliverna, si prese a costeggiare la parete posteriore che ho descritta. Ivi si stende un largo lembo di terreno polveroso dove i ragazzi giocavano al calcio. Da una parte e dall’altra infatti erano stati infissi dei pali a segnare le due porte. Quel giorno però di ragazzi non ce n’era. Invece varie donne coi bambini sedevano, a prendere il sole, sul bordo del campo, lungo il gradino erboso che segue la massicciata della strada. Era l’ora della siesta e dall’interno del Falansterio non giungevano che sperdute voci. Senza splendore, il sole torpido batteva sul fosco muraglione; e dalle finestre sporgevano pali carichi di panni stesi ad asciugare; i quali pendevano a guisa di morte bandiere assolutamente immobili; non c’era infatti un fiato di vento. Già appassionato di alpinismo, mentre gli altri erano intenti alla ricerca degli insetti, mi venne voglia di provare a arrampicarmi su per lo sconnesso muro: i buchi, i bordi sporgenti di certi mattoni, vecchi ferri incastrati qua e là nelle fessure offrivano appigli convenienti. Non pensavo certo di salire fino in cima. Era soltanto il gusto di sgranchirmi, di saggiare i muscoli. Un desiderio, se si vuole, un po’ puerile. Senza difficoltà mi innalzai un paio di metri lungo il pilastro di un portone ora murato. Giunto all’altezza dell’architrave, tesi la destra verso una raggera di arrugginite aste di fer-

. entomologo: studioso degli insetti. . spie: liste di diverso materiale inserite nelle fenditure del muro a scopo di controllo. . gesuitico: da ipocrita (data la doppiezza tradizionalmente attribuita all’ordine dei Gesuiti). . Falansterio: per designare il grosso caseggiato,

con molti abitanti, Buzzati usa il termine con cui l’utopista ottocentesco Charles Fourier designava l’edificio che, nella società socialista da lui immaginata, avrebbe dovuto ospitare una comunità di circa  persone.

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ro, foggiate a lancia, che chiudeva la lunetta (forse in questa cavità c’era stata anticamente qualche immagine di santo). Afferrata la punta della lancia, mi tirai su di peso. Ma quella cedette, spezzandosi. Per fortuna non ero che a un paio di metri dal terreno. Tentai, ma inutilmente, di tenermi con l’altra mano. Perso l’equilibrio, saltai indietro e caddi in piedi, senza alcuna conseguenza benché prendessi un duro colpo. L’asta di ferro, spezzata, mi seguí. Quasi contemporaneamente, dietro all’asta di ferro se ne staccò un’altra, piú lunga, che dal centro della raggera saliva verticalmente a una specie di sovrastante mensola. Doveva essere una specie di puntello messo a scopo di rabberciatura. Venuto cosí a mancare il suo sostegno, anche la mensola – immaginate una lastra di pietra larga come tre mattoni – cedette, senza però precipitare; restò là sbilenca, mezza dentro e mezza fuori. Né qui ebbe fine il guasto da me involontariamente provocato. La mensola sorreggeva un vecchio palo, alto circa un metro e mezzo, che a sua volta aiutava a sostenere una specie di balcone (solo adesso mi si rivelavano tutte queste magagne, che a prima vista si confondevano nella vastità della parete). Il palo era stato semplicemente incastrato tra le due sporgenze; non fissato al muro. Spostatasi la mensola, due tre secondi dopo il palo si piegò in fuori e io feci appena in tempo a saltare indietro per non prendermelo in testa. Toccò terra con un tonfo. Era finita? A ogni buon conto mi allontanai dal muro verso il gruppo dei compagni distante circa trenta metri. Costoro erano in piedi, rivolti tutti e quattro verso me; non me però guardavano. Con un’espressione che non dimenticherò, fissavano il muro, molto sopra la mia testa. E mio cognato a un tratto urlò: «Mio Dio, guarda! guarda!». Mi volsi. Al di sopra del balconcino, ma piú a destra, il muraglione, in quel punto compatto e regolare, si gonfiava. Immaginate una stoffa tesa dietro la quale prema uno spigolo diritto. Fu dapprima un lieve fremito serpeggiante su per la parete; poi apparve una gibbosità lunga e sottile; poi i mattoni si scardinarono, aprendo le loro marce dentature; e, tra scoli di pulverulente frane, si spalancò una crepa tenebrosa. Durò pochi minuti o pochi istanti? Non saprei dire. In quel mentre – dite pure che io sono matto – dalle profonde cavità dell’edificio venne un boato triste che assomigliava a una tromba militare. E tutto intorno, per vasta zona, si udí un lungo ulular di cani. A questo punto i ricordi si accavallano: io che correvo a perdifiato cercando di raggiungere i compagni già lontani, le donne sul bordo del campo che, balzate in piedi, urlavano, una che si rotolava nella terra, una figura di ragazza seminuda che si sporgeva incuriosita da una delle piú alte finestrelle mentre sotto di lei già si spalancava la voragine: e, per un baleno di secondo, la visione allucinante della muraglia rovesciantesi nel vuoto. Allora dietro gli squarci sommitali, pure la intera retrostante massa, di là del cortile, si mosse lentamente, tratta da irresistibile forza di rovina. Seguí un terrificante tuono come quando le centinaia di Liberator si scaricavano insieme delle bombe. E la terra tremò, mentre si espandeva velocissima una nuvola di polvere giallastra che nascose quella immensa tomba. Poi mi rivedo in cammino verso casa, con l’ansia di allontanarmi dal luogo funesto e la gente, a cui la notizia era giunta con celerità prodigiosa, mi guardava spaventata, forse per i vestiti carichi di polvere. Ma soprattutto non dimentico le occhiate, cariche di orrore e di pietà, di mio cognato e delle sue due figlie. Muti, mi fissavano come si fissa un condannato a morte (o questa era una mia pura suggestione?). A casa, quando seppero ciò che avevo visto, non si stupirono che io fossi sconvolto; né che per qualche giorno me ne stessi chiuso in camera senza parlare con nessuno e rifiutandomi anche di leggere i giornali (ne intravidi solo uno, nelle mani di mio fratello entrato a senti. lunetta: l’apertura semicircolare che sovrasta il portone. . sommitali: presenti sulla sommità, sulla parte

piú alta. . Liberator: aerei da bombardamento dell’aviazione alleata, in azione nella seconda guerra mondiale.

T. LE FORME DELLA PROSA TRA LE DUE GUERRE. DINO BUZZATI

re come stavo; in prima pagina c’era una fotografia grandissima con una fila di furgoni neri, interminabile). Ero stato io a provocare l’ecatombe? La rottura dell’asta di ferro aveva, per una mostruosa progressione di cause ed effetti, propagato lo sfacelo all’intero mastodontico castello? O forse gli stessi primi costruttori con diabolica malizia avevano disposto un segreto gioco di masse in equilibrio per cui bastava togliere quella minuscola asticciola per scardinare tutto quanto? Ma mio cognato, o le sue figlie, o lo Scavezzi, si accorsero di ciò che avevo fatto? E se non si accorsero di nulla, perché da allora Giuseppe sembra evitare di incontrarmi? O invece sono io stesso che, per timore di tradirmi, ho inconsciamente manovrato per vederlo il meno possibile? In senso opposto non è inquietante l’insistenza del professor Scavezzi nel volermi frequentare? Benché di modeste condizioni finanziarie, da allora egli si è ordinata nella mia sartoria una decina di vestiti. Alle prove ha sempre quel suo sorrisetto ipocrita e non si stanca di osservarmi. Inoltre è di una pedanteria esasperante, qui una pieghetta che non ci vorrebbe, là una spalla che non casca bene: o sono i bottoni delle maniche, o la larghezza dei revers, c’è sempre qualche cosa da aggiustare. Per ogni abito sei sette prove. E ogni tanto mi domanda: «Si ricorda di quel giorno?». «Che giorno?» faccio io. «Eh, quel giorno alla Baliverna!» Sembra che ammicchi con furbeschi sottintesi. Io dico: «Come potrei dimenticarmi?». Lui scuote il capo: «Già… come potrebbe?». Naturalmente io gli faccio degli sconti eccezionali, finisco anzi per rimetterci. Ma lui fa finta di niente. «Sí sí» dice «da lei si spende, però vale la pena, lo confesso». E allora io mi chiedo: è un idiota o si diverte con questi piccoli ignobili ricatti? Sí. Potrebbe darsi che egli solo mi abbia visto nell’atto di rompere la fatale asta di ferro. Forse ha capito tutto, potrebbe denunciarmi, scatenare su di me l’odio della popolazione. Ma è perfido e non parla. Viene a ordinarsi un vestito nuovo, mi tiene d’occhio, pregusta la soddisfazione di inchiodarmi quando meno me lo aspetto. Io sono il topo e lui il gatto. Giocherella, finché di colpo mi darà l’unghiata. Ed aspetta il processo, preparandosi al colpo di scena. Sul piú bello si alzerà in piedi. «Io soltanto so chi ha provocato il crollo» griderà «l’ho visto coi miei occhi». Anche oggi è venuto per provarsi un completo di flanella. Piú mellifluo del solito. «Eh, siamo agli sgoccioli!» «Che sgoccioli?» «Come che sgoccioli? Il processo! Ne parla tutta la città! Si direbbe che lei viva tra le nuvole, eh, eh». «Vuol dire il crollo della Baliverna?» «Proprio, la Baliverna… Eh, eh, chissà se salterà fuori il vero colpevole!» Poi se ne va salutandomi con esagerate cerimonie. Lo accompagno alla porta. Aspetto a chiudere che abbia disceso una rampa di scale. Se ne è andato. Silenzio. Io ho paura.

. furgoni neri: i carri funebri. . revers: parola francese che indica i risvolti nei ca-

pi d’abbigliamento.

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Giacomo Debenedetti Personaggi e destino (da Saggi critici. Terza serie)

Divorzio tra protagonista e vicenda Epica della realtà ed epica dell’esistenza

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Si riportano qui alcune pagine del saggio Personaggi e destino, pubblicato nel 1947 sulla rivista «Janus pannonius», poi nel 1950 sulla rivista «Il pensiero critico», e raccolto nel 1959 nel volume della terza serie dei Saggi critici. La riflessione sul rilievo del personaggio nella narrativa e sul destino dei personaggi nella narrativa del Novecento costituisce uno dei punti centrali del pensiero critico di Debenedetti (che troverà il suo punto conclusivo in un testo intitolato Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo, letto alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1965): essa prende avvio dalla constatazione (in passi precedenti a quelli qui riportati) del consumarsi, nella narrativa del primo Novecento, di un vero e proprio «divorzio […] tra il protagonista e ciò che gli succede. Si è rotto il rapporto di pertinenza, di legalità tra personaggio e vicenda. Come dire: fra l’uomo e il suo destino». Da questa premessa sorge la distinzione tra un’epica della realtà (segnata ancora da un rapporto di aderenza, di scambio reciproco tra il personaggio e la vicenda, tra la vita dell’individuo e l’oggettività del reale) e un’epica dell’esistenza (segnata dalla caduta di questo rapporto). E si avanzano vari dubbi sui propositi contemporanei (quando Debenedetti scrive, siamo negli anni del neorealismo) di continuare un’epica della realtà. Proust, Pirandello e Joyce propongono poi tre grandi esempi di epica dell’esistenza e della frattura radicale tra il personaggio e la vicenda, e comprovano il consumarsi dell’epica della realtà. Il brano riportato si chiude con un’indicazione degli equivoci e delle sovrapposizioni contemporanee tra le stesse epiche della realtà e dell’esistenza, dovuti sia ai tentativi di prolungare fuori tempo l’epica della realtà (inoculandovi tracce di qualcosa di ignoto e di sconosciuto) sia a quelli di dar luogo a un’epica dell’esistenza riprendendo schemi e formule della vecchia letteratura realistica. [EDIZIONE: G. Debenedetti, Saggi, progetto editoriale e saggio introduttivo di A. Berardinelli, Mondadori, Milano 1999]

Nell’epica moderna, non vediamo che due grandi specie, e anch’esse fluttuanti, compenetrate: una che ammette la possibilità di legittimare la vicenda, l’altra che nega questa possibilità. Alla prima diamo il nome di epica della realtà; alla seconda quello di epica dell’esistenza. Nella prima noi vediamo il personaggio muoversi in mezzo a un mondo con cui c’è ancora la possibilità di un’intesa reciproca. In quest’epica della realtà il personaggio è ancora assistito da qualche cosa, se non altro dalla fiducia in un collegamento tra sé e il mondo. Quello che gli succede, si produrrà dunque come qualche cosa di spiegabile. Nell’epica dell’esistenza, il personaggio è abbandonato da tutto, in mezzo a un mondo anch’esso abbandonato da tutto, e tra i due non è possibile l’intesa, visto che si presentano l’uno all’altro come assurdi. Il mondo ha cessato di rispondere al personaggio; ciò che succede a costui apparirà quindi gratuito. Ma la stessa epica della realtà, come adesso la vediamo, è davvero riuscita a trovare le favole competenti ai propri personaggi, o viceversa i personaggi a misura delle proprie favole? Per un po’ di tempo, era parso che l’America avesse inventato un nuovo repertorio di queste favole. Oggi però quegli stessi che se ne dichiaravano piú entusiasti, hanno le loro resipiscenze, e cominciano a dichiarare che anche la moderna mitologia realistica di tipo americano si è stancata. Lo sappiamo anche noi, che in nessuno di quei personaggi abbiamo scoperto la capacità di diventare, con la sua storia, un proverbio: un don Abbondio, . favole competenti: vicende e schemi narrativi adeguati.

T. LE FORME DELLA PROSA TRA LE DUE GUERRE. GIACOMO DEBENEDETTI

un Julien Sorel, un padron ’Ntoni, una duchessa di Guermantes, un Raskolnikoff, un Tonio Kroeger, uno di quelli che battezzano le grandi congiunture e immagini con cui la vita si ripresenta alle nostre vite. D’altronde, se parlate coi nostri cultori di un’epica della realtà, vi sentirete dire che stanno alla ricerca di un linguaggio. Che qui non può significare vocabolario, o grammatica, o sintassi, puri sintomi esterni, bensí organica persuasione d’aver trovato il punto d’intesa tra il personaggio e il mondo; cioè, ancora una volta, la congruenza tra personaggio e vicenda. Prestiti di linguaggio sono stati tentati, innesti di vite americana, quasi a sollecitare quel punto di intesa, indurlo a rivelarsi. Ma vedete, per esempio, quello che è successo a Pavese nel romanzo Paesi tuoi : libro, d’altronde, rispettabilissimo. Il passo all’americana impresso ad alcuni contadini piemontesi faceva sí che il loro muoversi risonasse, nel loro intimo, come qualcosa d’irriconoscibile e straniero. Il fattaccio che essi commettono, per quanto plausibile in sede di cronaca, prende come realtà umana un’aria travisata, di non appartenenza. La persuasione è piú nell’autore che nei personaggi. E il Vittorini della Conversazione in Sicilia ha vinto la sua partita a patto di sfogare nel surreale la carica che il linguaggio aveva addensato nel protagonista, il quale, sotto quella carica, finirebbe forse col produrre fatti incompatibili col suo ritratto d’uomo. Anche l’epica della realtà, dunque, ha subíto una scossa. La vita va avanti, gli uomini seguitano a nascere, crescere, lavorare, nutrirsi, far l’amore, e morire in buona fede, se anche un manipolo di pensatori abbia constatato che il mondo è irrazionale e la vita gratuita, che la nuova genesi si apre con le parole: in principio è l’assurdo. Ma tra intellettuali, tra scrittori, le cose non possono andare cosí lisce. L’obiezione dell’assurdo è troppo ingombrante e corrosiva perché si possa fare a meno di tenerne conto. L’epica della realtà e quella dell’esistenza possono apparentemente influenzarsi; nella loro vera sostanza si escludono. E un’epica della realtà che proseguisse imperterrita, senza avere smaltito quell’obiezione, sarebbe ingenua e sleale verso la propria natura. […] Era successo, o stava succedendo, appunto, quel fatto che si chiama Proust, e quello che si chiama Pirandello, e quello che si chiama Joyce. Nell’opera di questi tre maestri si pronuncia una rivolta dei personaggi, i quali non sembrano piú disposti ad accettare i loro precedenti rapporti con l’autore. Si sta profilando una dichiarazione dei diritti del personaggio. Egli non vuole piú esser trattato come un fenomeno di fisica o di storia naturale. Proust seguita ancora a dichiarare che sta cercando delle leggi, ma in lui si è potuto vedere quasi subito lo «sciopero dei personaggi». Ci buttate nella vita – parevano dire – come un popolo di trovatelli, fidandovi che basti da sola, quella vita che ci avete data, a risolvere le nostre sorti. Non tenete conto che siamo incalcolabili. A meno che non ci abbiate messi al mondo per rispondere, non già ad un nostro, ma ad un vostro problema. Nel qual caso, rivendichiamo la ricerca della paternità. Effettivamente i personaggi di Proust, vivi come sono, tali da fare allo stato civile una delle piú serie concorrenze che si siano mai vedute, finiscono tuttavia col fondersi, col fare coro per testimoniare una finalità, una destinazione . Lo sappiamo … nostre vite: per Debenedetti nessuno dei personaggi della nuova letteratura americana ha la forza essenziale e simbolica di alcuni tra i grandi personaggi della grande narrativa europea, tra i quali vengono ricordati don Abbondio (I Promessi Sposi), Julien Sorel (Il rosso e il nero di Stendhal), padron ’Ntoni (I Malavoglia di Verga), la duchessa di Guermantes (nella Ricerca del tempo perduto di Proust), Raskolnikoff (Delitto e castigo di Dostoevskij), Tonio Kroeger (protagonista dell’omonimo racconto di Thomas Mann). . innesti … americana: trasparente metafora, per

indicare l’uso di modelli americani fatti dalla narrativa italiana soprattutto tra gli anni Trenta e Quaranta, specie per opera di Pavese e Vittorini (cfr. .). . Paesi tuoi: il romanzo pubblicato da Pavese nel  (cfr. ..). . l’assurdo: l’affermazione del carattere assurdo della realtà aveva caratterizzato la nuova letteratura esistenzialista e avrebbe avuto un forte sviluppo negli anni Cinquanta, nella narrativa e nel teatro (cfr. epoca ).

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Una grande stagione di epica della realtà era morta di questa crisi. Forse Zola, distinguendo un tempo dell’immaginazione e un tempo, che gli subentra, di senso della realtà, segnava i corsi e i ricorsi della storia dell’epica. Tocca infatti all’immaginazione di prestare i suoi buoni uffici, di inventare storie piacevoli e straordinarie – signori e cavalier che v’adunate… – affinché homo sapiens, nato di donna, accetti l’invasione, nello spazio della propria vita, di homo fictus, nato da una massa di parole. Solo dopo rabboniti con un tributo di fiabe i sospetti destati dalla sua anormale presenza, la popolazione epica può ricevere deleghe: attraversare lei, a nome degli uomini, i varchi misteriosi, andare a chiedere i responsi della sorte, assumersi una funzione vicaria. Entra allora in gioco il senso della realtà. Ma se il personaggio è tornato uno sconosciuto e il concordato è rotto, bisognerà daccapo cercare di riconciliarsi. Teoricamente, dovrebbe essersi riaperto un tempo dell’immaginazione. Purtroppo non è cosí, al diavolo la teoria. Noi vediamo un’epica della realtà, che cerca di prolungare e rinnovare i suoi giorni, inoculando alla chetichella dosi di sconosciuto sotto la vecchia pelle del personaggio, poi guarda stupita le risposte e i silenzi di costui. Sull’altra riva, vediamo un’epica dell’esistenza, la quale sembra approfittare di quella condizione di sconosciuto per supporre in essa i problemi e le difficoltà personali dell’autore. Su quell’essere che non è piú l’autore e non è ancora personaggio, è impossibile lavorare di immaginazione. Inventargli dei casi, sarebbe come per l’uomo inventare le circostanze del proprio domani. L’epica dell’esistenza compie il lavoro che toccherebbe all’immaginazione, utilizzando pezzi standard, prefabbricati dal vecchio teatro e romanzo realistico.

. Zola … dell’epica: si riferisce a una distinzione tra momenti diversi nella storia della narrativa fatta da Emile Zola nel celebre saggio Le roman expérimental (cfr. ..). . signori … che v’adunate …: come immagine di

una narrativa in piacevole accordo con il pubblico, il critico cita liberamente il primo verso dell’Orlando innamorato di Boiardo: «Signori e cavallier che ve adunati» (cfr. T.).

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Verso il realismo Romano Bilenchi Una città (da «Anna e Bruno» e altri racconti)

Un adolescente e la dolorosa scoperta del mondo

La bellezza del mondo

L’incapacità di capire

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Pubblicato su «La Nazione» del 14-15 dicembre 1941, e poi in varie altre sedi, prima di confluire nella raccolta del 1989 «Anna e Bruno» e altri racconti (che nella sua prima parte si riallaccia al volume omonimo del 1938), questo racconto può offrire un’immagine relativamente sintetica del narrare di Bilenchi, in gran parte incentrato sul rapporto tra un soggetto di ragazzo o adolescente e un mondo che gli si offre con caratteri insieme affascinanti e inquietanti, come qualcosa di misterioso la cui scoperta ha qualcosa di doloroso e di lacerante. Qui la voce narrante del ragazzo presenta l’immagine di una città senza nome (che nel suo aspetto reca le tracce di qualche città toscana) che allo sguardo, al modo di viverla e di percorrerla, appare come qualcosa di assoluto e di fantastico. L’occhio del ragazzo isola una serie di particolari, ciascuno dei quali suscita in lui un desiderio di identificazione, una voglia di partecipare e di essere accolto: cosí gli abitanti del castello dalle forme fiabesche, quegli uomini e quelle donne che si volevano perennemente bene, in uno scambio affettuoso di passioni e di grazie; cosí tutto il mondo che la città contiene dentro di sé, inglobando in se stessa ciò che è fuori (perfino colline e monti, perfino boschi e miniere); cosí la starna incontrata su una strada esterna; cosí le ragazze brune, la cui visione dà il senso della bellezza del mondo e fa scendere nell’animo una dolce rugiada. Questo sguardo alla bellezza del mondo, cosí carico di attesa e di desiderio di vita, si intreccia però con un’inquietudine che percorre tutto il racconto, che si sovrappone all’immagine dei luoghi e delle presenze cosí amorosamente descritti: la voce narrante che risuona nella solitudine è come immersa in un misterioso silenzio, nel quale si affacciano segni di malinconia, di difficoltà, di frustrazione e dolore. La strada che si arresta a un cumulo di terra e di pietre porta con sé il segno di uno strazio fatto dal lavoro umano sulla terra, di qualcosa di non finito che crea nell’io narrante un’inquietudine acuta: è l’incapacità di capire, la costrizione a tornare indietro, che fa sí che tutto il paesaggio finisca per suscitare in lui punte di dolore. Qui Bilenchi dà un’immagine davvero singolare del senso di vuoto e di insoddisfazione che possono lasciare le strade interrotte, i percorsi bloccati: le passeggiate del ragazzo acquistano un intenso rilievo simbolico, come mostra anche l’incontro con la starna solitaria, e ancora la presenza inquietante e dolorosa delle ragazze coi capelli rossi e bianchissime di pelle, che evocano un mondo pieno di tradimenti e che si oppongono alle rassicuranti ragazze brune. Il racconto si chiude con un fitto diminuendo del finale, in cui figure cosí normali come quelle delle ragazze coi capelli rossi, di quelle bionde e di quelle brune suscitano un senso di attesa quasi metafisico, culminante con la sommessa iterazione del motivo musicale delle benefiche ragazze brune (si veda la nota 9). [EDIZIONE: Romano Bilenchi, Opere, a cura di B. Centovalli, M. Depaoli e C. Nesi, Rizzoli, Milano 1997]

La città era bella d’inverno quando la neve copriva i colli vicini e i monti lontani e si ammucchiava nel giardino pubblico, nelle piazzette inclinate, nella grande piazza a conchiglia. La neve isolava i palazzi di mattoni rossi, i palazzi di pietra grigia nati col mondo; al tramonto il rosso avvampava, il grigio riluceva. D’inverno restavo ore e ore a guardare un antico palazzo che era stato di uomini feroci e guerrieri, di donne ardenti e traditrici, e che, cambiato il rosso tenero dell’estate in rubino scurissimo, sorgeva dall’ammasso della neve, incastonato fra gli altri palazzi della piazza larga e profonda. Era piú un castello che un palazzo, abitato da uomi. nati col mondo: che sembravano antichi quanto il mondo (forse per la suggestione del materiale, la

pietra grigia). . il rosso … scurissimo: il rosso del palazzo, che

T. LE FORME DELLA PROSA TRA LE DUE GUERRE. VERSO IL REALISMO

ni e da donne sconosciute e non da persone che potevo incontrare nelle vie della città; castello non poggiato ai margini di una piazza, ma sopra un monte, un monte non eretto sulla terra ma sorgente dal mare, come un castello che avevo veduto sopra scogli marini. Benché conoscessi la storia passata di quel palazzo e dei suoi antichi signori, poco mi avevano interessato i fantasmi e le streghe, e poco i pugnali e i veleni adoperati in stanze adorne di tappeti, di arazzi, di inestricabili tende. Là dentro ora gli uomini e le donne si volevano perennemente bene, coltivavano l’uno le passioni dell’altro, ognuno profferiva all’altro le sue grazie. Cosí era la città d’inverno; ma anche d’estate era bella. La campagna cominciava a ridosso delle mura; subito verde e folta; e sempre piú folta diveniva via via che le schiere degli alberi procedevano giú per le valli, salivano i fianchi delle colline e il dorso dei monti. Fra le colline e i monti, in mezzo a lecci oscuri e a pallidi castagni, si nascondevano piccoli tranquilli paesi e alcune miniere. Le miniere erano di mercurio e di ferro, e mi esaltavo di gioia al pensiero che sotto il muschio dei boschi la terra fosse grigia e rossa come i palazzi della città. Cosí la città possedeva non solo piazze e palazzi, colline e monti, ma anche boschi e miniere. E aveva inoltre una strada di tufo, docile e snella, che la cingeva alla base delle mura e ne segnava ogni minuta audacia; e per lei porte, baluardi, fortezze, abbandonati da secoli e ormai inutili nella loro pesante mole, si scrollavano di dosso il sonno del tempo e offrendo riparo a un contadino bagnato dalla pioggia, nascondendo una coppia di innamorati, partecipavano alla nostra vita di ogni giorno. Da questa strada altre ne nascevano e, rompendo siepi di rovi, di vitalbe, di biancospino, andavano oltre le colline e i monti, dopo avere toccato i prati e i campi di grano delle valli, case celesti di contadini, una fornace di mattoni, due ville circondate da immensi giardini; ed erano sempre uguali con la pioggia o il bel tempo, soltanto che con il sole rilucevano di pruni e di pagliuzze. Una di quelle strade, la piú larga, la piú promettente, si arrestava a un cumulo di terra e di pietre, e a ogni pioggia, a ogni brinata, lo sterro tornava fresco, recente. Non riuscivo a rendermi conto del perché si fosse fatto tanto lavoro, tanto strazio sul rosso della terra se poi doveva essere abbandonato; e un’inquietudine acuta mi assaliva per la mia incapacità di capire, per non disporre anche di quella strada che mi avrebbe portato in dominii sconosciuti. Oltre i cumuli di terra e di pietre dove la strada finiva, i campi erano di un verde diverso che altrove, pieni di fiori. E io tornavo indietro, correvo verso la città e ogni strada, ogni casa di contadini, la fornace, le ville diventavano per il mio desiderio frustrato altrettante punte di dolore. Nulla mancava alla città: palazzi, colline, miniere e monti, voci e colori, d’inverno e d’estate. Anche le strade su cui consumavo le mie avventure quotidiane piú segrete esistevano perché c’era la città. Io amavo quelle strade: l’inquietudine e il dolore che accumulavo dentro di me nel percorrerle mi spingevano a conoscere altre strade, piccole bestie, nuovi prati e stagni non meno meravigliosi. In una strada che dalla città scendeva a una piscina e poi risaliva verso le colline, una starna si recava talvolta a beccare le spighe di grano e le ciocche d’uva cadute dai carri dei contadini. L’avevo incontrata un giorno che, dopo un lungo bagno nella piscina, mi ero inoltrato per quella strada. Era mattina, la piscina era vuota e il bagno solitario mi aveva immalinconito. La sera ero tornato laggiú con la speranza di ritrovare la starna, l’avevo vista e cosí per tutto il mese e i mesi successivi. Quando non era nel mezzo della strada, spesso la starna gridava tra le piante basse del sottobosco, mentre il giorno si spengeva; poi attraversava con volo lento e radente la strada per celarsi nell’erba

appare tenero nella solarità dell’estate, acquista maggiore risalto, e appare scuro come quello del rubino, sullo sfondo del bianco della neve. . sorgente dal mare: le falde del monte non sembravano nascere dalla terraferma, ma erano immerse nelle acque del mare. . sopra scogli marini: nella prima redazione: «vicino all’isola d’Elba», con una precisazione geogra-

fica, che Bilenchi preferisce poi espungere da questa descrizione, in cui prevale una dimensione metafisico-favolosa. . profferiva: offriva. . lo sterro: lo scavo di terra, ai piedi del cumulo. . per non … strada: per non poter avere a disposizione (per capire e per avanzare) quella strada. . una starna: uccello dei galliformi affine alla pernice.

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del prato, e lí continuava il suo grido. Quel grido non era né monotono né triste, erano due note vivaci se mai, un saluto al sole che lasciava il bosco e i campi, ma un saluto amichevole. Infine la starna risaliva nella strada e trovava sempre da beccare, e beccava per breve tempo, senza affannarsi. Mi piacque subito quella calma disinteressata dinanzi al sole e al cibo. Indugiavo a pensare che la starna viveva sola e cosí vicino alla città. Per questo, e per qualcosa d’altro che non sapevo bene, andavo a vedere la starna, mentre mi inseguivano i gridi dei compagni rimasti nella piscina. Anche la starna faceva parte della città. Poi c’erano le ragazze brune. Ce n’erano anche coi capelli rossi e bianchissime di pelle, ma erano dolorose e rievocavano un mondo in cui i tradimenti fossero piú numerosi delle colline e degli stessi alberi; e al loro passaggio interrompevano la vita come la interrompeva la strada che giú nella valle si arrestava contro i cumuli di terra e di pietre. Io guardavo soltanto le ragazze brune, brune anche nel corpo, giuste di carne e snelle, e capivo che erano figlie della città, un ornamento che la città si creava, e quando vi fui vidi che neppure a Ferrara e a Vienna ne esistevano tante di uguali. Piú le guardavo piú erano belle, piú la campagna e il mondo erano belli. Una dolce rugiada scendeva nel mio animo. E d’inverno rimanevo ore e ore dinanzi al palazzo antico che sorgeva dalla neve, d’estate correvo per le strade di campagna pieno d’inquietudine e di gioia, mi bagnavo nella piscina, cercavo qualche volta se avessi potuto rivedere la starna. C’erano le ragazze coi capelli rossi, e forse ce n’erano anche bionde con tutto il fascino che può accompagnare una ragazza bionda, ma io negli anni che vissi in quella città guardavo soltanto le ragazze brune, brune anche nel corpo, giuste di carne e snelle, e avevo la certezza che esse avrebbero accompagnato la mia vita nei giorni a venire. . ragazze … snelle: notare l’effetto musicale dato dalla successione di un endecasillabo («ragazze brune, brune anche nel corpo») e un settenario («giuste di carne e snelle»), ripetuta anche nel periodo finale (cfr. nota ).

. quando vi fui: a Ferrara e a Vienna (due esempi di città nobili e antiche, seppur lontane per storia e dimensioni). . ragazze … snelle: cfr. nota .

Ignazio Silone Fontamara al buio (da Fontamara, I)

Il fatalismo offeso dei «cafoni» Aneliti di libertà

Fontamara, il nome che Silone sceglie di dare al paesino della Marsica nel quale è ambientato il suo romanzo, è quello della via in cui si trovava la sua casa di nascita, a Pescina dei Marsi. Il paese è dunque eletto a rappresentare tanti paesi tutti uguali («Fontamara somiglia dunque, per molti lati, ad ogni villaggio meridionale il quale sia un po’ fuori mano, tra il piano e la montagna, fuori delle vie del traffico, quindi un po’ piú arretrato e misero e abbandonato degli altri», si legge nella Prefazione del romanzo, datata da Davos, in Svizzera, dove Silone si trovava nell’estate del 1930). Si riportano qui le battute iniziali del romanzo, con la vicenda della sospensione dell’illuminazione elettrica nel paese, dovuta al mancato pagamento delle bollette: il racconto prende avvio in un registro ironico, dietro il quale si nasconde il fatalismo umiliato e offeso dei «cafoni», cioè dei contadini di Fontamara (chi narra è infatti il cafone Giuvà, che con la moglie e il figlio è riuscito a raggiungere Silone nel suo esilio e a riferirgli gli «strani fatti» accaduti nel paese). Il fatalismo e la rassegnazione verranno sostituiti piú avanti nella popolazione, con le lotte di Berardo Viola, da aneliti di liberazione e sviluppo, destinati peraltro a venire soffocati nel sangue. Già in queste prime battute emerge peraltro il tema, che percorre ossessivamente tutto il romanzo, dell’assoluta povertà della popolazione marsicana, presso la quale nulla nei secoli è intervenuto a modificare un

T. LE FORME DELLA PROSA TRA LE DUE GUERRE. VERSO IL REALISMO

assetto economico basato su una stentatissima agricoltura. Su questo sfondo si distingue la suggestiva scena del ritorno a casa dei lavoratori, che di lontano vedono le scure pietre delle case, in mancanza dell’illuminazione artificiale, confondersi con il paesaggio circostante in un grigiore indistinto. Nel mondo povero di Fontamara, nel quadro di una miseria assoluta, che non accetta gradazioni, quell’oscuramento appare peraltro inevitabile, quasi atteso (Fu e non fu una sorpresa), al punto che esso non viene nemmeno considerato come un reale peggioramento: e il lamento delle donne, alla fine del breve passo riportato, sembra rivolgersi soprattutto al fatto che il buio faccia diventare piú nera la miseria stessa. Sarà la siccità, che si manifesterà nel capitolo seguente, a far cominciare a serpeggiare, tra i fontamaresi, un senso di indignazione che prelude finalmente alla presa di coscienza e alla ribellione che saranno narrate nel corso del romanzo. [EDIZIONE: Ignazio Silone, Romanzi e saggi, I, 1927-1944, a cura di B. Falcetto, Mondadori, Milano 1998]

Il primo di giugno dell’anno scorso Fontamara rimase per la prima volta senza illuminazione elettrica. Il due di giugno, il tre di giugno, il quattro di giugno, Fontamara continuò a rimanere senza illuminazione elettrica. Cosí nei giorni seguenti e nei mesi seguenti, finché Fontamara si riabituò al regime del chiaro di luna. Per arrivare dal chiaro di luna alla luce elettrica, Fontamara aveva messo un centinaio di anni, attraverso l’olio di oliva e il petrolio. Per tornare dalla luce elettrica al chiaro di luna bastò una sera. I giovani non conoscono la storia, ma noi vecchi la conosciamo. Tutte le novità portateci dai Piemontesi in settant’anni si riducono insomma a due: la luce elettrica e le sigarette. La luce elettrica se la sono ripresa. Le sigarette? Si possa soffocare chi le ha fumate una sola volta. A noi è sempre bastata la pipa. La luce elettrica era diventata a Fontamara anch’essa una cosa naturale, come il chiaro di luna. Nel senso che nessuno la pagava. Nessuno la pagava da molti mesi. E con che cosa avremmo dovuto pagarla? Negli ultimi tempi il cursore comunale neppure era piú venuto a distribuire la solita fattura mensile col segno degli arretrati, il solito pezzo di carta di cui noi ci servivamo per gli usi domestici. L’ultima volta che il cursore era venuto, per poco non vi aveva lasciato la pelle. Per poco una schioppettata non l’aveva disteso secco all’uscita del paese. Egli era assai prudente. Veniva a Fontamara quando gli uomini erano al lavoro e nelle case non trovava che donne e creature. Ma la prudenza non è mai troppa. Egli era molto affabile. Distribuiva le sue carte con una risatella cretina, pietosa. Diceva: «Prendete, per carità, non ve l’abbiate a male, un pezzo di carta in famiglia può sempre servire.» Però l’affidabilità non è mai troppa. Alcuni giorni dopo un carrettiere gli fece capire, non a Fontamara (a Fontamara egli non metteva piú piede), ma giú nel capoluogo, che la schioppettata probabilmente non era stata diretta contro di lui, contro la sua persona, contro la persona di Innocenzo La Legge, ma piuttosto contro la tassa. Però se la schioppettata avesse colto in segno, non avrebbe ucciso la tassa, ma lui; e perciò non venne piú, e nes. finché … luna: fino a quando cioè ci si abituò a fare a meno dell’energia e della luce elettrica, e a seguire di nuovo il ciclo di illuminazione naturale. . un centinaio … petrolio: per un centinaio di anni aveva avuto altro tipo di illuminazione, prima quella a olio d’oliva e poi quella a petrolio. . Tutte le novità … ripresa: al fatalismo e alla rassegnazione senza speranze della voce parlante si aggiungono la sfiducia e l’ostilità nei confronti del governo centrale, sprezzantemente definito i Piemontesi. Questo radicale antistatalismo riflette

quello del Silone giovanissimo, che scriveva per l’edizione romana del giornale socialista «Avanti!», nel : «Lo Stato è sempre ruberia, camorra, privilegio, e non può essere altro» (ma l’articolo non venne allora pubblicato). . il cursore comunale: l’esattore proveniente dalla vicina cittadina di San Giuseppe. . creature: bambini. . Innocenzo La Legge: il cognome del cursore rimanda al ruolo da lui svolto, e come tale percepito dalla comunità di Fontamara.

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Un quadro di miseria assoluta

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suno lo rimpianse. Né a lui balenò mai l’idea di proporre al comune un’azione giudiziaria contro i Fontamaresi. «Se si potessero sequestrare e vendere i pidocchi», aveva suggerito una volta, «senza dubbio un’azione di giustizia darebbe importanti risultati. Ma anche se fosse lecito sequestrarli, poi, chi li ricomprerebbe?» La luce doveva essere tagliata al primo gennaio. Poi al primo marzo. Poi al primo maggio. Poi si disse: «Non sarà piú tolta. Sembra che la regina sia contraria. Vedrete che non sarà piú tolta». E al primo giugno fu tagliata. Le donne e i bambini che erano in casa furono gli ultimi ad accorgersene. Ma noi che tornavamo dal lavoro – quelli che erano stati al mulino e tornavano per la strada rotabile, quelli che erano stati alla contrada del cimitero e tornavano giú dalla montagna, quelli che erano stati alla cava di sabbia e tornavano costeggiando il fosso, quelli che erano stati a giornata e tornavano un po’ da tutte le parti – a mano a mano che si faceva scuro e vedevamo le luci dei paesi vicini accendersi e Fontamara sbiadirsi, velarsi, annebbiarsi, confondersi con le rocce, con le fratte, con i mucchi di letame, capimmo subito di che si trattava. (Fu e non fu una sorpresa). Per i ragazzi fu anzi motivo di baldoria. Da noi i ragazzi non hanno spesso motivi di baldoria e quando càpitano, povere creature, ne approfittano. Cosí quando arriva una motocicletta, quando due asini si accoppiano, quando si incendia un camino. Arrivati al paese trovammo in mezzo alla via il generale Baldissera che gridava e imprecava. D’estate egli usava rattoppar scarpe fino a tarda ora, davanti a casa sua, alla luce del lampione, e la luce gli era mancata. La marmaglia gli aveva circondato il deschetto, gli aveva confuso le subbie, i chiodi, i coltelli, la pece, lo spago, i ritagli di suola, gli aveva versato sui piedi la tinozza di acqua sporca, ed egli bestemmiava ad altissima voce i santi dei dintorni ed interpellava noi che tornavamo dal lavoro per sapere se alla sua età, miope, meritasse di essere privato della luce del lampione, e che cosa la regina Margherita avrebbe pensato di una simile infamia. Difficile era immaginare che cosa la regina avrebbe pensato. Vi erano naturalmente alcune donne che si lamentavano; donne, è inutile fare i nomi, sedute per terra, davanti alle loro case, che allattavano i loro figli, o li spidocchiavano, o facevano la cucina, e si lamentavano come se fosse morto qualcuno. Si lamentavano per la sospensione della luce, come se la miseria, al buio, fosse per diventare piú nera. . i pidocchi: spesso torna nel romanzo il tema della persecuzione da parte dei parassiti, nemici degli uomini e degli animali. Al termine del primo capitolo, il forestiero (un funzionario del regime fascista) venuto dalla città per far firmare ai cafoni una falsa petizione di protesta (che si rivelerà essere invece un atto di donazione all’autorità centrale delle poche acque che irrigano i territori limitrofi) umilierà i cafoni indicando con affettato orrore proprio un pidocchio caduto sulla carta appena fatta firmare alle proprie ingenue vittime. . la regina sia contraria: la fiducia nella benevolenza della casa regnante, in particolare della regina, è un tratto che sottolinea tradizionalmente l’ingenuità della popolazione. . quelli che … tutte le parti: vengono elencate le umili attività cui si dedicano gli abitanti di Fontamara: al mulino nei pressi dei paese, alla cava di sabbia e soprattutto a giornata, nei campi. . il generale Baldissera: è uno dei personaggi piú pittoreschi del romanzo, calzolaio che aveva com-

battuto nella «prima guerra d’Africa», cioè in Etiopia, conclusasi con il disastro di Adua (), e per questo gli è stato attribuito il nomignolo stesso del generale Antonio Baldissera (-), che assunse i poteri in Eritrea dopo la sconfitta. . le subbie: sorta di piccoli scalpelli per lavorare materiali duri. . la pece: bitume nero, usato dal calzolaio per impermeabilizzare e incollare le scarpe. . la regina … infamia: rispetto alla regina di allora (Elena di Montenegro, moglie di Vittorio Emanuele III), quella precedente (Margherita di Savoia, moglie di Umberto I e ancora in vita, nel ruolo di regina madre, fino al ) era stata mitizzata dalla popolazione per la sua leggendaria bontà (in effetti legò il suo nome a diverse iniziative umanitarie e di beneficenza). . è inutile fare i nomi: tranne pochi personaggi individuati, la gran parte dei cafoni e delle loro donne si esprime coralmente: con scabra, talvolta attonita asciuttezza.

˜ TESTI

10.7 LA NUOVA POESIA Dino Campana La Chimera (da Canti Orfici)

Una prima stesura di questa poesia, con il titolo Montagna-La Chimera, fu pubblicata su un giornale goliardico, «Il Papiro», l’8 dicembre 1912; nei Canti Orfici essa apre la sezione dei Notturni, composta da sette componimenti. Si tratta di due lunghi periodi (vv. 1-20 e vv. 21-32), entrambi divisi a metà, con una prima parte dubitativa, introdotta in tutti e due i casi da Non so (rispettivamente vv. 1-9 e vv. 21-26), che formula ipotesi sull’apparizione di una inquietante e misteriosa figura femminile indicata con nomi e immagini diverse, sullo sfondo di un aspro paesaggio montano. La seconda parte di ciascuno dei lunghi periodi è di tipo affermativo: i vv. 10-20 sono a loro volta articolati in due parti, introdotte ciascuna da un Ma (vv. 10-15, 16-20), e affermano la consistenza dell’immagine della musica fanciulla esangue e la forza con cui essa agisce sulla fantasia del poeta; i vv. 27-32 riconducono allo sguardo del poeta una serie di immagini del cosmo, sulle quali si impone la finale invocazione alla figura femminile solo in ultimo designata come Chimera, essere fantastico e ideale, insieme mostruoso e fascinoso (nella mitologia antica la chimera era un mostro a tre teste risultante da un incrocio tra diversi animali: ma poi la parola è passata a designare le immaginazioni assurde, le fantasticherie piú impossibili, abnormi, malsane). La Chimera (che ossessiona l’immaginazione di Campana e si affaccia tra l’altro anche nella prosa che apre i Canti Orfici, La notte: «l’antica, l’eterna Chimera teneva fra le mani rosse il mio antico cuore») si pone qui come «figurazione della poesia» (Ceragioli), di una poesia «notturna» e visionaria, che estrae dai paesaggi naturali immagini di lacerazione e lampi di violenza, che opera una sintesi inquietante tra le forme della natura esterna e le figure umane: ma nello stesso tempo essa evoca una femminilità sentita come forza fascinosa e distruttiva, dotata di qualcosa di regale e di «barbarico», radicata entro una natura implacabile, agitata da una sensualità rovinosa. L’immagine femminile viene come inseguita, quasi estratta a forza dal paesaggio e messa a confronto con il punto di vista del poeta e con l’intero ordine dell’universo. Tutto il componimento è guidato da un movimento analogico, che tende a trascinare ogni frase e ogni immagine verso la figura ossessiva della donna-Chimera-poesia: con un seguito di coordinate (fino al culmine delle congiunzioni E che aprono gli ultimi 5 versi), con una serie di reiterazioni che s’inanellano di continuo l’una nell’altra, come in una litania: e un effetto di ripetizione è dato dal libero succedersi di versi di varia misura, ma tutti fortemente concentrati sul proprio ritmo, con alcune rime che variamente riecheggiano nel corso del componimento e culminano nella serie finale -ore dei vv. 23-25 e nell’ossessiva esplosione della rima -enti che si ripete ben 5 volte di seguito nei versi che precedono l’ultimo: in cui si invoca finalmente il nome della Chimera. Nel linguaggio si sente molto forte la presenza dei modi di D’Annunzio, soprattutto di quelle Laudi in cui sullo sfondo di superbi spettacoli naturali si affacciano le immagini di figure mitiche sensuali e misteriose (si notino soprattutto i molti termini letterari e classicheggianti e l’insistente uso di un’aggettivazione di tipo classico, come in china eburnea / Fronte fulgente, giovine / Suora ecc.). [EDIZIONE: Dino Campana, Canti Orfici, a cura di F. Ceragioli, Rizzoli, Milano 1989] METRO: versi liberi, di varia misura, che tendono ad ampliarsi verso il finale, varie assonanze e rime, che si infittiscono verso la fine, con la successione di tre rime in -ore (vv. 23-25) e di ben cinque in -enti (vv. 27-31).

Non so se tra roccie il tuo pallido Viso m’apparve, o sorriso vv. -. «Non so se il tuo pallido viso m’apparve tra rocce, o se fosti [un] sorriso di (o anche: da) lonta-

DonnaChimerapoesia

La Chimera, figurazione della poesia

Poesia notturna e visionaria

Modi dannunziani Letterarietà e classicismo

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Di lontananze ignote Fosti, la china eburnea Fronte fulgente o giovine Suora de la Gioconda: O delle primavere Spente, per i tuoi mitici pallori O Regina o Regina adolescente: Ma per il tuo ignoto poema Di voluttà e di dolore Musica fanciulla esangue, Segnato di linea di sangue Nel cerchio delle labbra sinuose, Regina de la melodia: Ma per il vergine capo Reclino, io poeta notturno Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo, Io per il tuo dolce mistero Io per il tuo divenir taciturno. Non so se la fiamma pallida Fu dei capelli il vivente Segno del suo pallore,

nanze ignote, con la [tua] fronte china, come d’avorio che rifulgeva» (costruzione, quest’ultima, con accusativo alla greca). v. . Suora de la Gioconda: sorella della Gioconda (il celebre ritratto di Monna Lisa, a opera di Leonardo, custodito nel museo del Louvre). La suggestione di Leonardo (che in Campana passa anche attraverso l’uso che ne aveva fatto D’Annunzio) è attiva sin dal primo verso, con l’evocazione delle roccie che rimanda a molti sfondi di quadri del maestro di Vinci, e soprattutto a La Vergine delle rocce. vv. -. si tratta di un lungo vocativo, che fa eco a quello appena precedente (o giovine / Suora de la Gioconda), complicato da una prolessi del genitivo (delle primavere spente), da un enigmatico complemento di causa (per i tuoi mitici pallori) e da un’iterazione del vocativo vero e proprio (O Regina). Costruisci: «o Regina adolescente delle primavere spente, dei tuoi mitici pallori». I mitici pallori erano già annunciati dal pallido / Viso evocato all’inizio: quel per (in cui si sovrappongono valore finale e causale, ripreso varie volte piú avanti ai vv. , per il tuo ignoto poema, , , ) si pone come ragione quasi mistica della dedizione del poeta alla misteriosa chimera, come i per che si ripetevano nel Cantico delle creature di San Francesco e che erano stati ripresi dal D’Annunzio delle Laudi (cfr. La sera fiesolana, in T.). v. . il verbo che regge è spostato in avanti, addirittura al v. , terzultimo verso del periodo (vegliai). v. . vocativo, che si lega a quello del v.  (Regina de la melodia): Musica può intendersi tanto come

apposizione di «fanciulla» (fanciulla che canta, fa musica), quanto – viceversa – come sostantivo, di cui «fanciulla» è apposizione (musica che è come una fanciulla); esangue prolunga l’impressione di pallore, sviluppata nei versi precedenti. v. . segnato: riferito a poema (v. ), la linea di sangue è, anche, quella delle labbra, intente al canto (della poesia) seppur silenzioso (cfr. al v. : il tuo divenir taciturno), e perciò assimilate alla figura del «cerchio» e all’attributo della sinuosità. vv. -. l’immagine del capo / reclino riprende quella dei vv. -. Il poeta è notturno perché si rivolge a cantare l’oscurità, la nera notte del mistero e dell’amore micidiale. v. . le stelle luccicano nei mari (pelaghi) del cielo: l’identificazione dei due elementi contrapposti (mare e cielo, acqua e aria) definisce anche visivamente questo quadro di fusione tra le diverse forme della natura e del cosmo. v. . il tuo divenir taciturno: il processo silenzioso della poesia-Chimera, che il poeta «veglia», contemplandolo e insieme applicandosi a esso. vv. -. «Non so se la fiamma pallida che ardeva nei capelli fu il segno vivente del suo pallore»: dei capelli è retto probabilmente da la fiamma pallida (che ne indica forse il colore biondo o rossastro), ma è attratto, per la sua posizione (invertita rispetto al verbo) da il vivente segno del suo pallore. L’immagine è comunque indeterminata, evoca qualcosa di fosco e minaccioso, piú che indicare una figura precisa. Da notare che, dalla seconda persona, il tu del primo, lungo periodo della poesia (vv. -), qui si passa temporaneamente alla

T. LA NUOVA POESIA. DINO CAMPANA

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Non so se fu un dolce vapore, Dolce sul mio dolore, Sorriso di un volto notturno: Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti E l’immobilità dei firmamenti E i gonfi rivi che vanno piangenti E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

terza persona (suo pallore; ma nei versi finali si ritornerà al tu). vv. -. il soggetto di fu è indeterminato (potrebbe anche essere la fiamma pallida del v. ; sorriso di un volto notturno è apposizione di dolce vapore, che è invece citazione dantesca (da Purg., XI, : «di render grazie al tuo dolce vapore»). v. . torna l’immagine leonardesca; le mute fonti dei venti sono le montagne, cioè le stesse bianche

rocce (notare l’oscillazione di Campana tra le grafie roccie e rocce). v. . i fiumi gonfi d’acqua che scorrono sembrano piangere, in un’assimilazione di lacrime e d’acqua. v. . come nello sfondo di un dipinto quattrocentesco, si distinguono scene di lavoro umano sulle colline gelide (algenti). v. . chiare ombre correnti: sono le nuvole, che scorrono (correnti) nei cieli.

Barche amorrate Questi versi sono inseriti nei Canti Orfici nella sezione Varie e frammenti, che contiene solo un altro frammento ambientato a Firenze: si tratta in effetti di un frammento ricavato dalla prima parte di una poesia intitolata Le cafard (Nostalgia di viaggio) [cafard: “tetraggine”, francese], pubblicata su «Il Papiro» nel dicembre 1912. Il titolo fu modificato da Enrico Falqui in Barche amarrate (“ormeggiate”); ma Fiorenza Ceragioli ha ripristinato il titolo originale: amorrate corrisponderebbe al termine genovese marinaro amurrâ (“arenare”), a cui Campana avrebbe dato il senso di «ormeggiare». Il frammento può essere letto come una vera e propria allegoria: «le barche ormeggiate rappresentano la condizione umana legata al proprio destino: gli uomini (le vele) sospinti e incalzati dalla vita (il vento), oppressi da una serie di inutili problemi (vane sequele), sono condannati al dolore di vivere sempre vario e sempre uguale, che il tempo (l’onda) spezza con la morte» (Ceragioli). La visione delle vele e del loro oscillare e cigolare sotto la spinta del vento e dell’onda si svolge in una sorta di grido disperato, amplificato dai segni che sottolineano il carattere frammentario del testo (i puntini di sospensione), quasi un grido di meraviglia e di sgomento che si leva nel silenzio, di fronte alla visione delle cose e del loro movimento. Il grido del soggetto si espande nella triplice ripetizione del verso trimembre Le vele le vele le vele e di altre parole il cui insieme sembra riavvolgersi su se stesso: e si ripercuote, smorzato, nel lamento mutevole delle vele stesse, che finisce per esplodere nell’ultimo schianto crudele. METRO: nove novenari, ma come anticipati da un verso assente, che dovrebbe risuonare nel silenzio, rimati secondo lo schema ABAABCCAA, con la rima ricca ammorza/smorza.

Gli uomini “ormeggiati” al proprio destino di dolore

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. . . . . . . . . . . . . Le vele le vele le vele Che schioccano e frustano al vento Che gonfia di vane sequele Le vele le vele le vele! Che tesson e tesson: lamento Volubil che l’onda che ammorza Ne l’onda volubile smorza . . . Ne l’ultimo schianto crudele . . . Le vele le vele le vele

v. . lo schiocco è il rumore secco d’una frustata a vuoto, nell’aria; le vele frustano al vento esse stesse, provocando questi schiocchi. vv. -. da notare la circolarità e i continui capovolgimenti sintattici, che sono propri della poesia di Campana: le vele appaiono all’inizio del periodo come soggetto d’una proposizione nominale per poi diventare, alla fine dello stesso periodo, il complemento oggetto d’una subordinata (egualmente nominale) retta da quella stessa proposizione. Si intenda: «Oh le vele che schioccano sferzate dal vento che gonfia le vele d’inutili raffiche!». Che gonfia è retto da vento; le vane sequele sono le brevi raffiche di vento (sequele: propriamente serie di fatti sgradevoli, che si succedono l’un l’altro; vane perché non hanno il potere di condurre la na-

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vigazione delle barche, che stanno saldamente ormeggiate). vv. -. nel loro oscillare le vele paiono tessere instancabilmente (tesson e tesson); si tratta di un lamento mutevole (lamento / Volubil: si riferisce probabilmente al cigolío) che l’onda, indebolita di vigore (che ammorza: che si smorza, si indebolisce), attenua, spegne (smorza) nella stessa onda che ricade in modo discontinuo (volubile). Ma il procedimento sintattico campaniano, circolare e ricco di subordinate, tende ad estendere, non a circoscrivere, il senso letterale: la circolarità sintattica riproduce il movimento circolare dell’onda, che ricade dentro se stessa, e lo stesso ripetersi mutevole del movimento delle vele.

T. LA NUOVA POESIA. CLEMENTE RÈBORA



Clemente Rèbora O carro vuoto sul binario morto (da Frammenti lirici, XI) Scritto intorno al febbraio del 1913 e pubblicato su «La Voce» del 12 giugno 1913 e lo stesso anno nel volume dei Frammenti lirici, questo componimento presenta un’immagine di densissima e concreta realtà materiale: un vero e proprio senso di sofferenza delle cose è dato dalla figura del carro. Il suo essere vuoto sul binario morto e poi passare, con il carico della merce e il lento muoversi del treno, a una vita rappresa e compressa, in cui il movimento è qualcosa di forzato, si inserisce in una legge delle cose, in un cammino che è dato da un continuo liberarsi e poi trattenersi di forze inespresse. Questa realtà, costituita da oggetti meccanici il cui muoversi suscita immagini di carattere animale (rantoli, fumida, annusando, aggiogarti, gregge), è come lacerata, squarciata al suo interno, prigioniera di una forza segreta e nemica. Ma nella seconda parte della poesia (a partire dal v. 20) la prospettiva sembra come modificarsi: lo sguardo si rivolge al cielo, secondo un punto di vista esplicitamente umano, segnato dalla noia, prigioniero del ritmico e vano succedersi del tempo (il labirinto dei giorni e il bivio delle stagioni). Qui, da questa dimensione umana, il cielo appare segnare un varco verso una verità e una realtà superiore, rivolgersi verso l’eterno e verso l’amore: è la terra stessa, che soffre nelle cose e negli uomini, a chiedere al cielo il suo verbo (il Verbo della tradizione cristiana e insieme ogni parola di verità che porti fuori dalla noia e dall’angoscia della ripetizione): piena di passione, ma con una volontà che resta insoddisfatta, con una tensione che resta sconfitta, con una fede che viene pagata con la solitudine e col sangue. La poesia si pone cosí come la sofferta registrazione di un anelito verso la verità, di un processo di elevazione verso un valore assoluto, che resta sconfitto, prigioniero delle cose: ed è la forza di questo anelito a produrre quella visione cosí sconcertante, violentemente espressionistica, degli oggetti materiali, sostenuta da una musica aspra, che scava il verso, vi inserisce vuoti, lacerazioni, termini carichi di tensione. Per definire l’orizzonte di questa scrittura di Rèbora è particolarmente calzante quello che egli stesso ebbe a notare nel saggio Per un Leopardi mal noto (pubblicato nel settembre 1910 sulla «Rivista d’Italia»), a proposito della tendenza del grande poeta a «foggiare con vastezze e sfumature melodiose e densi significati di pause il ritmo dei periodi come allargamento e risonanza dentro e oltre il metro dei versi». La musicalità quasi «atonale» di Rèbora discende dunque dall’ordine sintattico, ma elettrifica la lingua con dense serie di sincopi e corrispondenze (che solo in Montale si ripresenteranno con uguale intensità): con uso costante, oltre che dell’enjambement, della rima al mezzo, di assonanze, allitterazioni, paronomasie, di fitti parallelismi sintattici. Tra le immagini si svolge un «processo di analogia che fa vivere, in uno stesso sintagma, astratto e concreto»; e spesso «un verbo fisicamente concreto è applicato […] a nozioni astratte, derogando dai normali contesti in cui di solito questi verbi vengono inseriti» (Bandini). [EDIZIONE: Clemente Rèbora, Le poesie, a cura di G. Mussini e V. Scheiwiller, Garzanti, Milano 1994] versi di varia misura, liberi ma fitti di richiami interni. Da notare che le rime, irregolari, sono assai spesso baciate: vedi per esempio i vv. 3-4; 12-13; 26-27; o i versi accoppiati per assonanza o allitterazione: vv. 1-2; 21-22; 23-24. Raggruppati, spesso, anche versi della stessa misura: distinguiamo, in particolare, un distico d’endecasillabi in apertura, un blocco di ottonari al centro (vv. 12-22), rotto appena da due novenari (vv. 14 e 18) e da un settenario che in serisce una forte sfasatura con quel balzàno (v. 20), e un blocco d’endecasillabi in chiusura (vv. 23-28), in cui è incastonato un martelliano (v. 25). Da notare altresí che, procedendo verso il finale, si ricompone una sorta d’incalzante regolarità rimica: soprattutto, i vv. 21-28 sono interpretabili come 2 quartine con assonanze AABB e CDDC (solo DD è una rima vera e propria).

Il carro figura delle sofferenze delle cose

Prigionia e ricerca di assoluto

Una fede pagata con la solitudine

Una musicalità quasi «atonale»

METRO:

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O carro vuoto sul binario morto, Ecco per te la merce rude d’urti E tonfi. Gravido ora pesi Sui telai tesi; Ma nei rantoli gonfi Si crolla fumida e viene Annusando con fàscino orribile La macchina ad aggiogarti. Via dal tuo spazio assorto All’aspro rullare d’acciaio Al trabalzante stridere dei freni, Incatenato nel gregge Per l’immutabile legge Del continuo aperto cammino: E trascinato tramandi E irrigidito rattieni Le chiuse forze inespresse Su ruote vicine e rotaie Incongiungibili e oppresse, Sotto il ciel che balzàno Nel labirinto dei giorni Nel bivio delle stagioni Contro la noia sguinzaglia l’eterno Verso l’amore pertugia l’esteso,

v. . il carico della merce sul vagone già vuoto (e che diverrà per questo gravido, pesante) si rivela rude di colpi. v. . telai: le assi che sostengono i vagoni, poste alla loro base. v. . nei rantoli: in mezzo ai rumori della locomotiva, vista come un essere animato, seguendo una diffusa immagine della macchina, presente per esempio nell’inno A Satana di Giosuè Carducci (cfr. ..). v. . il soggetto di si crolla e di viene è la macchina (v. ), di cui qui si anticipa l’epiteto fumida, fumante; o, seguendo la suggestione animalizzante (ribadita dal successivo annusando): che soffia. v. . annusando: usato qui all’intransitivo, acquisisce una connotazione ancor piú animalesca, sconfinando nell’orribile. v. . aggiogarti: da notare il parziale rovesciamento che l’espressione presenta: a esser posta sotto il giogo non è tanto la macchina animalizzata e trainante, quanto la stessa carrozza da trascinare: anche questa viene cosí subito animalizzata e il treno, nel suo insieme, può essere equiparato a un gregge (v. ). v. . assorto: questo participio presenta una sostanziale ambivalenza: assorto è infatti lo spazio o, a meglio dire, la condizione quasi meditabonda del carro quando stava inerte sul binario morto, prima di essere «aggiogato»; ma assorta è anche l’inerzia del suo cammino, segnato da una immuta-

bile legge. v. . rullare: delle ruote. v. . trabalzante: sobbalzante. vv. -. di nuovo, qui, la duplice dinamica dell’inerzia: il carro è trascinato dalla locomotiva, ma è pure in grado di trasmettere (tramandi) moto alle carrozze successive, alle loro chiuse forze inespresse; e nello stesso tempo può trattenerle con l’irrigidimento dato dalle frenate (irrigidito rattieni). v. . oppresse: dal peso delle carrozze. S’introduce qui un rilevante motivo, quello dell’incongiungibilità (anche nel senso d’una infinità cattiva e coatta), che troverà un’amplificazione anche sintattica nei parallelismi del v.  (ove però altro sarà il soggetto). v. . balzàno: qui, forse, nel senso di «imprevedibile» o «capriccioso» (ma è anche una ripresa musicale, che rilancia il precedente trabalzante). Si noti il valore di autentico, divaricatissimo bivio rappresentato da questo settenario: d’ora in poi, per gli ultimi  versi della poesia, e la seconda, lunghissima e articolatissima parte del periodo (che si presenta tutta come una lunga relativa), il soggetto diverrà cielo (con mutazione della persona dalla seconda alla terza singolare), gli ottonari scompariranno per lasciare il posto agli endecasillabi. vv. -. Il cielo, già «balzàno», oppone (sguinzagliandola, liberandola) eternità alla noia terrena (scandita dal ritmo «labirintico» dei giorni e da

T. LA NUOVA POESIA. CLEMENTE RÈBORA

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E non muore e vorrebbe, e non vive e vorrebbe, Mentre la terra gli chiede il suo verbo E appassionata nel volere acerbo Paga col sangue, sola, la sua fede.

quello divaricante delle stagioni), e fende, fora (pertugia, con termine di forte espressività) la propria infinità (l’esteso) per giungere nel punto raro e infinitesimo dell’amore (come sarà anche nell’ultimo verso del piú tardo Gira la tròttola viva. v. . il cielo appare anch’esso animato da una volontà di essere vivente (vorrebbe), anche se nella sua persistenza appare come condannato a non morire e a non vivere, costretto a sottrarsi al ciclo biologico e nello stesso tempo assimilato alla logica dell’inerzia.

vv. -. l’attesa del verbo da parte della terra (intesa come comunità dei viventi) è da intendere in senso metafisico, come aspirazione a una verità suprema (il suo verbo); ma questo senso pare innestarsi indistricabilmente su un altro senso piú fisico e concreto, poiché il verbo che la terra (intesa come elemento) chiede al cielo può essere identificato con l’acqua e il sole necessari per maturare. In ogni modo, in questa sua richiesta e attesa la terra appare sempre spinta da una volontà che resta acerba, inespressa, insoddisfatta (volere acerbo).

Voce di vedetta morta (da Poesie sparse e prose liriche) Fu inviata, insieme ad altri due componimenti inediti, con una lettera a Mario Novaro del 5 novembre 1916, e pubblicata sulla sua rivista, «La Riviera Ligure», il 1° gennaio 1917. L’esperienza tremenda della guerra, con la visione di un corpo in poltiglia, di un soldato che era in vedetta, rappresentato nei primi tre versi con violenza espressionistica, suscita qui un grido di orrore e di protesta: il poeta, immerso in quell’orrore, dichiara di non poter piangere e confonde la propria voce con la voce stessa del soldato morto, ma offre un messaggio a chi riesce a ritornare dalla guerra, a ritrovare la normalità dell’esistenza: un messaggio che è un invito a un atto d’amore violento e disperato (afferra la donna; stringile il cuore a strozzarla), capace di esprimersi e di esaltarsi nella coscienza che il male e l’infamia della guerra non ha nessuna giustificazione, non può essere riscattato da nessuna ragione, da nessuna vittoria; ciò che nella guerra è andato perduto non si ritroverà mai piú. In una rigorosa tensione vitale, con la forza aspra ed energica della sua poesia, Rèbora esprime il piú radicale rifiuto della guerra, mostra come nessun significato o nessun valore politico, storico, ideale possa nascondere o giustificare lo scempio che in essa viene fatto dei corpi e delle vite: un grande messaggio umano e poetico, in radicale contrasto con le molteplici esaltazioni della Grande Guerra fatte allora dalla maggior parte degli scrittori e intellettuali italiani. METRO: versi liberi, di varia misura, dal quinario all’endecasillabo, con prevalenza di novenari; due rime tra loro lontane (vv. 4 e 8, terra/guerra, 14 e 20, potrai/giammai) e una baciata (vv. 5-6, piango/fango).

C’è un corpo in poltiglia Con crespe di faccia, affiorante Sul lezzo dell’aria sbranata. v. . in poltiglia: ridotto in poltiglia. v. . crespe di faccia: il volto ridotto in pezzi.

v. . il lezzo è talmente denso da trasformarsi quasi in un elemento liquido, dal quale il corpo affiora;

Il corpo in poltiglia della vedetta, un grido di protesta

Tensione vitale contro la guerra

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Frode la terra. Forsennato non piango: Affar di chi può, e del fango. Però se ritorni Tu uomo, di guerra A chi ignora non dire; Non dire la cosa, ove l’uomo E la vita s’intendono ancora. Ma afferra la donna Una notte, dopo un gorgo di baci, Se tornare potrai; Sóffiale che nulla del mondo Redimerà ciò ch’è perso Di noi, i putrefatti di qui; Stringile il cuore a strozzarla: E se t’ama, lo capirai nella vita Piú tardi, o giammai.

allo stesso modo, l’aria straziata in questo scenario bellico pare consolidarsi sino a divenire carne che può essere sbranata, dilaniata. v. . la terra è un inganno. v. . non piango come un forsennato, preso da folle furore per il dolore e per l’orrore. v. . chi può: chi è (ancora) in grado di piangere. Il fango è quello in cui si confonde la poltiglia del corpo in decomposizione (o forse, il corpo stesso in decomposizione). vv. -. il tu è fortemente attratto dai versi che precedono, cosí che il poeta sembra ora rivolgersi al medesimo corpo in poltiglia, per quanto invece stia parlando a chi – forse – tornerà; e lo invita a non parlare di guerra, e del suo orrore, a chi non la conosce, a chi è vergine della sua conoscenza.

vv. -. «non parlare della guerra nel mondo della pace, dove c’è ancora intesa, armonia tra l’uomo e la vita»; ma si può intendere anche in senso del tutto diverso: «non parlare della guerra, che è la cosa dove il rapporto uomo-vita è ridotto al suo valore ultimo ed essenziale». vv. -. sussurrale (sóffiale: quasi in una forma d’identità con l’elemento aereo, e al tempo stesso in una situazione di forzatura, di violenza inferta) che nulla in questo mondo potrà riscattare quello che di noi s’è perso (nell’esperienza della guerra, e al tempo stesso in quella della vita), di noi che qui, in guerra, siamo putrefatti: trasformati anche noi, come quel cadavere, in viventi corpi in poltiglia. v. . a strozzarla: fino a strozzarla.

T. LA NUOVA POESIA. CAMILLO SBARBARO



Camillo Sbarbaro Taci, anima stanca di godere (da Pianissimo, I) Questo componimento, che apre la raccolta Pianissimo, inizia con una voce verbale (Taci) che il lettore percepisce in un primo momento come un imperativo, un invito al silenzio rivolto dal poeta a se stesso, alla propria anima: invito fatto a mezza voce, ma in modo perentorio. Ma, continuando la lettura, ci si accorge che non di imperativo si tratta, ma di un semplice presente dell’indicativo, della constatazione di una situazione di immobilità, di atonia, di silenzio: tutto ciò rappresenta sia la posizione esistenziale sia la scelta stilistica di Sbarbaro, che punta sempre – e soprattutto in questa raccolta dal titolo programmatico, Pianissimo – sul «silenzio» (relativo) di una poesia che rinuncia agli slanci e agli entusiasmi: una poesia che vuol essere la voce di una totale assenza di vita, e che per questo deliberatamente si nega la ricchezza delle metafore e delle immagini, di cui pure era perfettamente capace e a cui era predisposta dallo stesso orizzonte espressionistico in cui l’autore si era formato (come si può vedere dalla prima raccolta, Resine, non a caso poi rifiutata dall’autore). Questo silenzio e questa inerzia sono carichi di inespressi lamenti, costantemente sull’orlo di rompersi e di far trasparire le tracce di un rimpianto per qualche cosa di perduto, di un malessere e un tedio legati a una difficile vita famigliare. Ma la stessa espressione di quel rimpianto è per Sbarbaro impossibile: egli ne sfugge il rischio, la rifiuta come qualcosa di insopportabilmente retorico; la sua poesia non accetta nemmeno di esprimere il tedio, la noia e l’accidia interiori, che pure regnano in tanta poesia moderna (e che nell’Ottocento avevano trovato grandi manifestazioni nel nostro Leopardi e ne I Fiori del Male di Baudelaire). Sbarbaro mira in realtà a una specie di canto sommesso, a bocca chiusa e senza parole, che si limita a tratteggiare istantanee di una vita rappresa, fatta di sentimenti appena abbozzati, che hanno perduto ogni tensione: canto dell’essere dell’uomo solo nell’affollato deserto urbano, in una realtà ridotta alla sua essenza elementare e senza significato, arida e senza rilievo. Questa realtà continua a svolgersi, con il suo ritmo costante e monotono, ma all’anima e al corpo che giacciono in una rassegnazione disperata essa non comunica nulla, null’altro che il proprio stesso essere, dove nessuna presenza (nemmeno quella femminile) apre attese e possibilità di vita, ma dove «tutto è quello / che è, soltanto quel che è». Nessuna promessa, nessuna speranza, nessuna sirena, ma solo un deserto da cui è esclusa anche la possibilità del tragico e dove l’io del poeta non può avere altra funzione che quella di contemplare il proprio immobile essere. [EDIZIONE: Camillo Sbarbaro, L’opera in versi e in prosa, a cura di G. Lagorio e V. Scheiwiller, Garzanti, Milano 1985] METRO: si tratta di una libera successione di endecasillabi (interrotti da versi piú brevi e da pause ben modulate), che in alcuni momenti hanno un tono dimesso e prosastico, in altri un leggero abbandono musicale. I versi sono disposti in piú lasse (e si noti che i vv. 7 e 8, che si dispongono in due lasse diverse, in realtà costituiscono insieme un endecasillabo: e neppure di tedio. Giaci come).

Taci, anima stanca di godere e di soffrire (all’uno e all’altro vai rassegnata). vv. -. di godere e di soffrire: ai due estremi emotivi (il godimento e la sofferenza) Sbarbaro si concede, per nativa disposizione caratteriale, rasse-

gnato: senza mai vivere fino in fondo e con totale dedizione quegli stati dell’io che per altri sono cosí intensi e carichi di significato.

Constatazione rassegnata dell’assenza di entusiasmi

Un silenzio carico di inespressi lamenti

Solitudine e rassegnazione disperata

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GUERRE E FASCISMO

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Nessuna voce tua odo se ascolto: non di rimpianto per la miserabile giovinezza, non d’ira o di speranza, e neppure di tedio. Giaci come il corpo, ammutolita, tutta piena d’una rassegnazione disperata. Non ci stupiremmo, non è vero, mia anima, se il cuore si fermasse, sospeso se ci fosse il fiato… Invece camminiamo, camminiamo io e te come sonnambuli. E gli alberi son alberi, le case sono case, le donne che passano son donne, e tutto è quello che è, soltanto quel che è. La vicenda di gioia e di dolore non ci tocca. Perduto ha la voce la sirena del mondo, e il mondo è un grande deserto. Nel deserto io guardo con asciutti occhi me stesso.

vv. -. Giaci come il corpo…: il poeta «vede» la propria anima dall’esterno, reclinata passivamente in una posizione di sconfitta e attesa, ammutolita, cosí come il corpo. Uno dei caratteri piú moderni della poesia di Sbarbaro è proprio questo collegamento continuo tra le esperienze e le sensazioni fisiche e gli stati d’animo interiori; senza quella artificiale separazione tra «anima» e «corpo» che, in omaggio alla tradizione lirica, si trova in tanta poesia del Novecento. vv. -. Non ci stupiremmo…: la condizione dell’individuo è talmente sospesa nella propria passività da assomigliare a un paradossale letargo, nel quale giunge addirittua a cessare il battito del cuore, del respiro: come in una morte involontaria, ma che non si ritiene di dover fare nulla per evitare. vv. -. Invece camminiamo…: resta una sola possibile forma di attività (sia pure da sonnambulo), al soggetto e al suo «compagno» (la propria anima): il mettersi in cammino. La passeggiata senza direzione e senza scopo nella città notturna costituisce l’ambientazione di moltissima della poesia di Sbarbaro (che per questo deve molto a Baudelaire). vv. -. le cose e le persone (anche le donne) appaiono a Sbarbaro congelate nel proprio aspetto esteriore: «tutto è quello che è, soltanto quel che è», senza poter rimandare ad «altro», senza rivestirsi – come in quasi tutta la poesia contempora-

nea – di giochi di specchi simbolici, di rimandi metaforici, di allegorismi ideologici. vv. -. la gioia e il dolore (con una ripresa del godere e del soffrire dei vv. -) costituiscono la vita calda e tumultuosa degli «altri», che appare al soggetto chiuso in se stesso quasi come un’astratta vicenda priva di senso, che non ci tocca, non ci può coinvolgere. Il mondo è una sirena, come nel mito di Ulisse, ma ha perduto la sua voce, cioè non canta piú, non si sforza piú di tentarci, di trascinarci nella sua danza senza senso. L’espressione sirena del mondo è del D’Annunzio vitalistico ed esuberante di Maia («O Diversità, sirena / del mondo»): e con questa citazione Sbarbaro mostra esplicitamente tutta la sua lontananza da quel modello; egli è certamente piú vicino a Kafka, che in un suo frammento parlerà proprio di «silenzio delle sirene». vv. -. Nel deserto io guardo…: al soggetto, che non prova piú nessuna forma di trasporto verso il mondo esterno, non resta altro che rivolgere uno sguardo disincantato e trasognato verso di sé, ma in modo opposto sia al torturante scavo interiore tipico degli espressionisti vociani, sia alla preziosa celebrazione decadente di se stessi di D’Annunzio e dei suoi imitatori. Ma l’assorta e quieta indifferenza di Sbarbaro è lontana anche dal compiacimento patetico proprio di molti poeti crepuscolari.

T. LA NUOVA POESIA. CAMILLO SBARBARO

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L’anima avventurosa (da Trucioli, I, ; ) Si riportano due tra i primi Trucioli (datati tra il 1914 e il 1918), in cui risaltano forti caratteri espressionistici: la prosa secca e squadrata, dominata dalla paratassi, non tocca temi precisi e circoscritti, ma si rivolge ai contorni delle cose, misura la realtà oggettiva e quella del soggetto con una singolare «forza figurativa», con una «aggressività appena trattenuta e che sembra voglia esplodere» (Polato). La parola sembra volersi scavare nell’aridità della realtà, le figure e le apparenze sembrano volersi imporre e resistere in uno spazio pesante, che costringe l’esistenza e lo sguardo dell’individuo a una faticosa tensione: sembra che vi si nasconda qualche cosa di misterioso, qualche indefinibile segno spirituale. Nel primo truciolo riportato (il numero 7) si disegna un atteggiamento emotivo già diverso da quello della poesia di Pianissimo: c’è un nuovo radicarsi alla vita, che mostra il suo contrasto con un carattere sempre pronto a staccarsi, a rinchiudersi in se stesso e nella propria solitudine «minerale». Questo radicarsi, questo rientrare almeno in parte nella comunità dei viventi, è suscitato dalla febbre della città e si risolve nel solo gesto d’amore possibile (di un amore indeterminato e senza un oggetto preciso che non sia in generale la vita nel suo meccanismo biologico, quasi vegetale), che consiste nel condurre a spasso la sua muta meraviglia, nello sfiorare le facce della realtà, nell’identificarsi con le piú anonime esistenze, di immergersi in una sofferenza di «uomo qualunque» che non aspira a cercare nessuna espressione, che rifiuta di avere una voce. L’altro truciolo (il numero 15) è dedicato al paesaggio di Spotorno, la piccola località ligure (in provincia di Savona), sospesa tra mare e collina, nella quale Sbarbaro ha passato la maggior parte della sua vita: riducendo all’essenzialità la struttura sintatica, con il ritmo spezzato di periodi brevissimi che fanno risaltare e quasi isolano in se stessi le forme verbali, i sostantivi e gli aggettivi, Sbarbaro traccia una visione di paesaggio scabro e tagliente, che ha un carattere allo stesso tempo naturale e artificiale. La piccola località ligure si pone cosí immediatamente come «paesaggio dell’anima»: e molte tracce di questo tipo di rappresentazione si ritroveranno nella poesia di Montale, specialmente nel paesaggio «scabro ed essenziale» degli Ossi di seppia.

 Io, sempre pronto a staccarmi, quando la febbre della città mi prende, alla vita mi radico. Solo gesto d’amore possibile: condurre a spasso la mia muta meraviglia. (Non sanno i cocchieri, offrendomi i lor servigi, che fermo alla cantonata sto consumando le mie nozze con la città). Ci sono vie che s’aprono come domande che non han risposta; altre, che riempiono d’ardimenti come fanfare improvvise; altre, che pacificano come il respiro del mare… Ma gli aspetti meno notevoli sono quelli che m’impugnano. Allora, per penetrare il segre-

 . notare l’opposizione tra l’abitudine a staccarsi dalle cose e la spinta a radicarsi nella vita, legata alla febbre della vita cittadina. . i cocchieri: lo scrittore non ha bisogno dei servigi dei cocchieri, che lo vorrebbero trasportare con le loro carrozze: preferisce attraversare la città (sempre Genova: che con Sbarbaro e Campana, e poi con Caproni, si impone come uno dei piú rilevanti luoghi simbolici della letteratura del Novecento) con la sua muta meraviglia, o rimanere immobile, senza destinazione, fermo alla cantonata

all’angolo della strada, trasognato e assorto, a consumare le sue nozze con la città, con uno strano indefinibile entusiasmo. . Ci sono vie: innumerevoli le strade, gli scorci che si dispongono all’occhio dello spettatore assorto, coloriti di sensazioni, associati a immagini, ricordi, interrogativi; qui elenca tre tipi di vie: quelle che sono come domande senza risposta, quelle che possono riempire d’ardimenti e mettere in corpo una gioia quasi eroica, quelle che offrono la pace del respiro del mare. . gli aspetti meno notevoli di questo inesauribile

Volontà di radicarsi un po’ nella vita

Uno scabro «paesaggio dell’anima»

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to della piazzetta muffita, mi cambierei col commesso del notaio senza pratiche; per vivere la vita di quel braccio di strada, col contabile seppellito nel buio del fondaco… E ruga, davanti ad altri, che mi segna la faccia come al muto lo sforzo di esprimersi! E, al ritorno, rimpianto che mi attraversa ancora come una spada, di non sapere in che modo il sole illumina a cert’ora certa via! Desiderio, alla fine, d’essere un uomo qualunque perché la mia passione senza voce mi facesse solo soffrire.  Spotorno, terra avara. Vi imbianca l’olivo, il sorbo vi si carica di mazzetti duri. Ti siedi e taci sulla spiaggia sterposa di contro a un pallido mare. Vi tremola a volte una manciata di zecchini; al largo passa il guscio rossastro della petroliera. Il greto abbacina. La montagna mostra bianche ferite. Negli orti le casette screpolate rosee trasaliscono al passaggio del direttissimo. Allaga l’abitato la voce della maretta. Spotorno, paesaggio dell’anima; cielo che a guardarlo si beve. paesaggio urbano sono proprio quelli che si fanno piú vivi e sovraccarichi di colore e sentimento, che piú chiamano in causa (impugnano) l’individualità dell’autore. Anche qui, come nella poesia precedente, il poeta torna a fantasie di perdita dell’identità: per penetrare nel segreto di una ammuffita piazzetta cittadina, preferirebbe cambiarsi con figure dalla vita grigia e inattiva, come un commesso senza pratiche, un contabile seppellito nella penombra del fondaco (deposito di merci delle antiche città di mare come Venezia o appunto Genova). . con un rapido passaggio, tipicamente espressionistico, si fa riferimento alla ruga, che segna la faccia al poeta incerto e sospeso come se dovesse dire qualcosa, estrarre dal proprio impietrito mutismo una parola che costituisca una scelta definitiva, liberatoria. . E, al ritorno: terminata la propria passeggiata, lo scrittore resta insoddisfatto, in preda al rimpianto per non aver potuto davvero vedere tutti i possibili scorci, tutti gli angoli, in tutte le ore possibili: un rimpianto che lo attraversa come una spada, non gli dà pace per quel desiderio irrealizzabile di «sapere», di far propri, di radicare dentro di sé tutti i luoghi, tutti gli aspetti, tutti gli incontri della città. . Desiderio, alla fine: alla fine c’è il desiderio di liberarsi della propria ricerca di espressione, di raggiungere la passione senza voce dell’uomo qualunque, che soffre senza cercare di esprimere il senso della sua sofferenza, senza chiedersi che cosa essa sia.  . terra avara: quella di Spotorno è detta terra avara perché la vegetazione vi cresce stentata, malgrado il clima favorevole; il paesaggio è dominato dal-

l’olivo, che vi imbianca, acquista il suo colore argenteo, e dal sorbo selvatico, che si carica di mazzetti duri di bacche non commestibili. . Ti siedi e taci: Sbarbaro si rivolge a se stesso, e si osserva seduto e in silenzio (si ricordi il Taci rivolto all’anima nella prima poesia di Pianissimo). . spiaggia … mare: nessun entusiasmo può circolare nelle vene di chi osserva questo paesaggio dell’anima, arido e impallidito (cfr. il «pallido e assorto» di Montale in Ossi di seppia: qui a pag. ). . Vi tremola … zecchini: qualche barbaglio dorato (come quello delle antiche monete d’oro, gli zecchini) lo offre comunque il sole di Liguria che si rispecchia nel mare. . il guscio rossastro della petroliera: altra immagine tipica del paesaggio marino ligure; se ne ricorderà Montale nella Casa dei doganieri delle Occasioni («Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende / rara la luce della petroliera!», cfr. p. ). . Il greto abbacina: il greto del litorale abbacina, perché sui sassi di colore chiarissimo il sole si riflette e lampeggia implacabile; immagine di tipo espressionistico, come quella della montagna che mostra bianche ferite (perché di lontano appare la pietra chiara sotto vegetazione rada). . Negli orti le casette: le piccole case di Spotorno, screpolate dal vento, dal sole e dalla salsedine, sono cosí fragili e malridotte che, trovandosi nei pressi della linea ferroviaria, trasaliscono, paiono tremare, al passaggio del direttissimo (la presenza dei treni sarà essenziale anche nei paesaggi liguri di Montale). . la voce della maretta: il piccolo centro è allagato, pervaso, dal suono familiare della maretta, del piccolo moto delle onde del mare calmo. . cielo che a guardarlo si beve: il colore del cielo è

T. LA NUOVA POESIA. CAMILLO SBARBARO



Vivo in un ex voto a vedere come la marina si comporta ingenuamente davanti a questa levata di sole. Le colline paion pecore dopo la tosatura. Il promontorio in faccia all’isolotto di Bergeggi è appena ricciuto di pinastri. E il mare! – Conosco un mare brulicante d’oro dove le vele sono fiamme esili; uno, impalpabile da credere ad un inganno degli occhi; un mare che è tutto uno zaffiro liquefatto, in cui si vorrebbe stemperarsi. Questo, è una grigia lavagna, appena argentata a levante. Piú di tutti i mari che so; è questo che amo: esso risveglia in me l’anima avventurosa. Quand’ecco, nell’appropriato scenario, il sole balza, bolla infocata, sciorinandosi ai piedi un tremolante tappeto arancione.

di un azzurro talmente intenso, carico, che si può addirittura bere: e giunge a inebriare. . Vivo in un ex-voto: ora lo stesso paesaggio si presenta in una mutata condizione d’animo: l’autore dichiara di vivere in una condizione poco meno che estatica, sospeso e fissato come nelle figurazioni ingenue degli ex-voto, approntati dai fedeli per grazia ricevuta. . la marina: la spiaggia. Ancora una volta, al paesaggio (raffigurato all’alba, questa levata di sole) sono attribuiti sentimenti umani (si comporta ingenuamente). . Le colline … la tosatura: perché spelacchiate e lisce. . Il promontorio: lo sprone roccioso che si prolunga in mare davanti all’isolotto è anch’esso spoglio, appena ricciuto (ornato, come i radi capelli ornano una testa quasi calva) di pinastri (pini marittimi). . E il mare!: la presenza del mare si rivela di nuovo come una scoperta, come qualcosa che trattiene molteplici possibilità (e infatti, vengono presentate subito immagini diverse del paesaggio marino) . brulicante d’oro: sono i riflessi del sole sulle ac-

que calme; le vele da lontano sono, analogicamente, fiamme esili che rimandano alla luce del sole che incendia il paesaggio. . impalpabile … degli occhi: in altri momenti il mare appare evanescente nella bruma mattutina (oppure nella fissità da miraggio del sole piú pieno), cosí immateriale da far credere a un’allucinazione, un’illusione ottica. . uno zaffiro liquefatto: altra immagine del paesaggio marino è data dall’intensità accecante dell’azzurro, connotata con la metafora della pietra preziosa azzurra come liquefatta, che invita a perdervisi dentro, a dissolversi in essa con gli occhi e con il corpo (in cui si vorrebbe stemperarsi). . grigia lavagna: l’immagine che si presenta ora è quella del mare all’alba (alla levata di sole), che mostra la sua faccia piú cromaticamente severa, grigia lavagna, che però già riceve i primi raggi del sole (appena argentata a levante). . Quand’ecco: ormai lo scenario è pronto per l’apparizione del sole, che esplode (balza) nella sua luce assoluta, come bolla infuocata, che dispiega (sciorina) ai propri piedi un magnifico corredo di riflessi colorati (un tremolante, perché riflesso sul mare, tappeto arancione).

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GUERRE E FASCISMO

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Umberto Saba EDIZIONI E STRUTTURA DE IL CANZONIERE DI SABA DATI

tav. 247

Il canzoniere. - fu pubblicato a Trieste dalla Libreria Antica e Moderna (quella dello stesso Saba) nel ; i testi precedenti, già editi o ancora inediti, erano articolati nelle parti seguenti: Poesie dell’adolescenza, Voci dai luoghi e dalle cose, Poesie fiorentine, Versi militari, Casa e campagna, Trieste e una donna, La serena disperazione, Poesie scritte durante la guerra, Cose leggere e vaganti, L’amorosa spina. Il canzoniere. -, pubblicato a Roma da Giulio Einaudi nel , appariva un libro molto diverso da quello del  e si articolava in tre grandi partizioni, designate come volumi, il primo dei quali corrispondeva al libro del , ma con un’articolazione assai differente e con una nuova distribuzione di testi (molti poi quelli radicalmente modificati o soppressi); gli altri riprendevano in linea di massima le raccolte pubblicate successivamente al . Trattandosi di un libro tutto nuovo rispetto a quello del , la successiva edizione del  (che aggiungeva la raccolta Mediterranee) venne indicata come seconda edizione (con gli estremi cronologici -). Successive edizioni non subirono modificazioni rilevanti, fino alla quinta edizione, apparsa postuma nel , che comprende anche le ultime raccolte di Saba. Oltre che in «volumi», Il canzoniere è articolato in varie parti, che corrispondono grosso modo (ma con molte modificazioni rispetto all’ordine e alla struttura reale) a diverse raccolte e a diversi momenti della vita dell’autore, con titoli accompagnati da indicazioni cronologiche. Qui si indica sulla colonna di sinistra, con le date attribuite da Saba (e non sempre corrispondenti alla effettiva redazione delle poesie), l’indice delle parti-raccolte interne in cui è articolata la forma definitiva del Canzoniere (che, salvo le raccolte aggiunte in seguito, è già definitivamente assestata nell’edizione del ), mentre sulla colonna di destra si dà l’elenco delle prime edizioni delle raccolte stesse (che nella prima fase non sempre corrispondono immediatamente a quelle sistemate nel Canzoniere). Nella forma definitiva assunta nel Canzoniere, le varie raccolte sono state pubblicate anche separatamente da Mondadori, in una edizione di Tutte le opere di Saba, iniziata nel . Molte poesie delle raccolte giovanili e del Canzoniere del , eliminate dall’edizione definitiva, sono state recentemente raccolte sotto il titolo di Canzoniere apocrifo. Cfr. comunque l’edizione critica de Il canzoniere. , a cura di G. CASTELLANI, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano , e l’edizione di Tutte le poesie, a cura di A. STARA, con introduzione di M. LAVAGETTO, ne «I Meridiani» di Mondadori, Milano . Indice del Canzoniere VOLUME PRIMO

Prime edizioni delle singole raccolte

(-)

Poesie dell’adolescenza e giovanili (-)

Poesie, Casa Editrice Italiana, Firenze 

Versi militari (Salerno, ° Fanteria, )

(apparirà nel  un’altra raccolta riferita a questi anni, Ammonizione ed altre poesie, -)

Casa e campagna (-)

Coi miei occhi, Libreria della Voce, Firenze 

Trieste e una donna (-) La serena disperazione (-) Poesie scritte durante la guerra Cose leggere e vaganti () L’amorosa spina ()

Cose leggere e vaganti, Libreria Antica e Moderna, Trieste 

T. LA NUOVA POESIA. UMBERTO SABA

VOLUME SECONDO

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(-)

Preludio e canzonette (-) Autobiografia ()

Preludio e canzonette, Edizioni di Primo Tempo, Torino  Figure e canti, Treves, Milano  L’uomo, in venticinque copie per gli amici, Trieste 

I prigioni () Fanciulle ()

Preludio e fughe, Edizioni di Solaria, Firenze 

Cuor morituro (-) L’uomo () Preludio e fughe (-)

Tre poesie alla mia balia, Trieste 

Il piccolo Berto (-)

Tre composizioni, Treves, Milano Roma 

VOLUME TERZO

(-)

Parole (-)

Parole, Carabba, Lanciano 

Ultime cose (-)

Ultime cose, Quaderni della Collana di Lugano, 



Mediterranee, Mondadori, Milano 

Varie Uccelli, Edizioni dello Zibaldone, Trieste 

Mediterranee Uccelli () Quasi un racconto ()

Uccelli. Quasi un racconto, Mondadori, Milano 

Sei poesie della vecchiaia (-)

Epigrafe. Ultime prose, Mondadori, Milano 

Epigrafe (-)

A mia moglie (da Il canzoniere, Casa e campagna) Questa poesia, che chiudeva la raccolta Poesie del 1911, entrò poi a far parte del Canzoniere, già nell’edizione 1921, nella sezione Casa e campagna. Riportiamo alcuni dei passi dedicati a questa poesia nella Storia e cronistoria del Canzoniere (che Saba, sotto il nome di Giuseppe Carimandrei, scrive parlando di sé in terza persona): «La poesia provocò, appena conosciuta, allegre risate. Pareva strano che un uomo scrivesse una poesia per paragonare sua moglie a tutti gli animali della creazione. È la sola del Nostro che abbia suscitato un po’ di scandalo […]. Ma nessuna intenzione di scandalizzare, e nemmeno di sorprendere, c’era, quando la compose, in Saba. La

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«Una poesia infantile»

Identità fra la moglie e «i sereni animali»

Inafferrabilità della figura femminile

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GUERRE E FASCISMO

-

poesia ricorda piuttosto una poesia “religiosa”; fu scritta come altri reciterebbe una preghiera. Ed oggi infatti la si può nominare o leggere in qualunque ambiente, senza la preoccupazione di suscitare il riso. Un giornale comunista disse, recentemente, che A mia moglie è una poesia proletaria. Noi pensiamo invece che sia una poesia “infantile”; se un bambino potesse sposare e scrivere una poesia per sua moglie, scriverebbe questa». Nelle stesse pagine Saba racconta, stavolta in prima persona, l’origine della poesia: «Un pomeriggio d’estate […] mia moglie era uscita per recarsi in città. Rimasto solo sedetti, per attenderne il ritorno, sui gradini del solaio. Non avevo voglia di leggere, a tutto pensavo fuori che a scrivere una poesia. Ma una cagna, la “lunga cagna” della terza strofa, mi si fece vicino, e mi pose il muso sulle ginocchia, guardandomi con gli occhi nei quali si leggeva tanta dolcezza e tanta ferocia. Quando, poche ore dopo, mia moglie ritornò a casa, la poesia era fatta: completa, prima ancora di essere scritta, nella mia memoria. Devo averla composta in uno stato di quasi incoscienza, perché io, che quasi tutto ricordo delle mie poesie, nulla ricordo della sua gestazione. Ricordo solo che, di quando in quando, avevo come dei brividi. Né la poesia ebbe mai bisogno di ritocchi o varianti. S’intende che, appena ritornata la Lina, stanca della lunga salita (si abitava a Montebello, una collina sopra Trieste) e carica di pacchi e di pacchetti, io pretesi subito da lei che, senza nemmeno riposarsi, ascoltasse la poesia che avevo composta durante la sua assenza. Mi aspettavo un ringraziamento e un elogio; con mia grande meraviglia, non ricevetti né una cosa né l’altra. Era rimasta invece male, molto male; mancò poco litigasse con me. Ma è anche vero che poca fatica durai a persuaderla che nessuna offesa ne veniva alla sua persona, che era anzi “la mia piú bella poesia”, e che la dovevo a lei». Tornando alla terza persona: «se di questo poeta si dovesse conservare una sola poesia, noi conserveremmo questa […] Un giorno – e fu un bel giorno – Saba deve aver sentito, con acuta gioia e tenera commozione, le identità che correvano fra la giovane donna che gli viveva accanto e gli animali della campagna dove allora abitava. La poesia, nata da questa “scoperta”, porge, in sei lunghe strofe, altrettanti e piú paragoni […] Ad ogni animale sono attribuite (come nelle favole) qualità essenziali; i versi suonano, in cosí antica materia, con gravità e dolcezza». Tutte e sei le strofe iniziano con Tu sei come…Ciascuna delle sei strofe è in effetti dedicata all’identificazione tra la donna e un diverso animale (la pollastra, la giovenca, la cagna, la coniglia, la rondine, ma nella sesta strofa gli animali sono due, la formica e la pecchia, cioè l’ape): salvo che nella quinta strofa, il nome dell’animale si trova nel secondo verso; nella prima è preceduto da due aggettivi, nelle altre (seconda, terza, quarta, sesta) si trova all’inizio del verso ed è preceduto da un solo aggettivo, in enjambement; e per giunta un legame fonico, con la rima ricca, unisce tre di questi aggettivi (gravida, pavida, provvida). Nel discorso si alterna il Tu rivolto alla donna a un tu che appare nello stesso tempo impersonale (indica un essere umano in genere, in rapporto con la donna) e autoriflessivo (indica lo stesso poeta), a una terza persona che designa sia il singolo animale sia la donna. Nella poesia possiamo anche riconoscere una sorta di traduzione insieme «moderna» e «infantile» degli antichi bestiari: e se le qualità naturali dei diversi animali sottolineano da una parte la vicinanza della donna alla natura, la sua comunicazione con la profonda e segreta verità del cosmo, è anche vero che dall’altra queste identificazioni fanno di essa un essere «di un altro mondo». Ogni strofa pone in evidenza la semplicità elementare di atti e movimenti che sono insieme della donna e di ciascuno degli animali, al punto che ogni volta il lettore vede sovrapporsi i gesti femminili a quelli dell’animale evocato: ma ciò mostra anche l’inafferrabilità della stessa figura femminile, familiare ed estranea, accogliente e inquietante allo stesso tempo. [EDIZIONE: Umberto Saba, Tutte le poesie, a cura di A. Stara con introduzione di M. Lavagetto, Mondadori, Milano 1988] METRO: strofe con versi di diversa misura, dal bisillabo (v. 56) all’endecasillabo, ma con grande prevalenza di settenari, fitti di rime irregolarmente disposte.

T. LA NUOVA POESIA. UMBERTO SABA



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Tu sei come una giovane, una bianca pollastra. Le si arruffano al vento le piume, il collo china per bere, e in terra raspa; ma, nell’andare, ha il lento tuo passo di regina, ed incede sull’erba pettoruta e superba. È migliore del maschio. È come sono tutte le femmine di tutti i sereni animali che avvicinano a Dio. Cosí se l’occhio, se il giudizio mio non m’inganna, fra queste hai le tue uguali, e in nessun’altra donna. Quando la sera assonna le gallinelle, mettono voci che ricordan quelle, dolcissime, onde a volte dei tuoi mali, ti quereli, e non sai che la tua voce ha la soave e triste musica dei pollai. Tu sei come una gravida giovenca; libera ancora e senza gravezza, anzi festosa; che, se la lisci, il collo volge, ove tinge un rosa tenero la sua carne.

v. . pollastra: e non gallinella (cfr. invece gallinelle al v. ). La scelta di questo termine, per la prima delle similitudini animali della poesia, parrebbe introdurre subito una connotazione di ferocia amorosa, nello scenario d’intimità domestica che la scelta degli animali delle altre similitudini conferma (uno scenario in cui peraltro il cibo mantiene costantemente un suo valore fondamentale). Nella Storia e cronistoria del Canzoniere, Saba dichiarava che per lui «la gallina fu quasi l’animale sacro»; una della Sette novelle del , chiaramente autobiografica, è intitolata per l’appunto La gallina. v. . Le: riferito a pollastra, e, per converso, alla moglie, con un passaggio dal tu al lei. v. . pettoruta: con il petto gonfio, il portamento orgoglioso. vv. -. se l’occhio … non m’inganna: notevole inciso colloquiale, nobilitato e «poeticizzato» con la ripetizione del se. fra queste: riferito a le femmine, vv. -.

v. . assonna: provoca il sonno a; assonnare usato transitivamente con il complemento oggetto gallinelle, che è a sua volta soggetto di mettono voci (al verso seguente), benché staccato tramite una virgola, in una formula ricercatamente colloquiale. Si noti la frequenza dell’utilizzazione della virgola come elemento di pausa ritmica: vedi anche, per esempio, vv. -, in cui le virgole sottolineano una sintassi spezzata e ricca di inversioni. vv. -. onde … ti quereli: con le quali a volte ti lamenti sommessamente dei tuoi mali (querelarsi si riferisce soprattutto al suono sommesso che manifesta un intimo tormento). vv. -. giovane mucca, incinta (gravida) ma ancora da poco, ancora non appesantita dalla gravidanza (senza gravezza: notare la paronomasia con gravida). v. . se la lisci: è rivolto a un tu astratto e impersonale, non piú a quello della moglie. vv. -. ove tinge … carne: «dove un rosa tenero tinge la sua carne»: notare l’inversione sintattica.

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Se l’incontri e muggire l’odi, tanto è quel suono lamentoso, che l’erba strappi, per farle un dono. È cosí che il mio dono t’offro quando sei triste. Tu sei come una lunga cagna, che sempre tanta dolcezza ha negli occhi, e ferocia nel cuore. Ai tuoi piedi una santa sembra, che d’un fervore indomabile arda, e cosí ti riguarda come il suo Dio e Signore. Quando in casa o per via segue, a chi solo tenti avvicinarsi, i denti candidissimi scopre. Ed il suo amore soffre di gelosia. Tu sei come la pavida coniglia. Entro l’angusta gabbia ritta al vederti s’alza, e verso te gli orecchi alti protende e fermi; che la crusca e i radicchi tu le porti, di cui priva in sé si rannicchia, cerca gli angoli bui. Chi potrebbe quel cibo ritoglierle? chi il pelo che si strappa di dosso, per aggiungerlo al nido dove poi partorire?

vv. -. Ai tuoi … sembra: come già al v. , il riferimento non è piú alla moglie, ma a un tu impersonale, o forse autoriflessivo (cosí sarà per il ti del v. ). Intendi: «quando è ai piedi di qualcuno, questa cagna sembra una santa». v. . segue: a rigore, è sottinteso il ti impersonale dei versi precedenti. Da notare la ricercatezza della costruzione latineggiante tenti / avvicinarsi, senza la preposizione di. vv. -. i denti … scopre: in senso proprio, vale per «digrigna»; ma l’immagine è invece piena di grazia, anche per merito del superlativo candidissimi, aggettivo lungo come lunga è stata qualificata

la cagna al v. . v. . pavida: paurosa, tremebonda. vv. -. entro … s’alza: ancora il tu astratto (cosí sarà per tutta la strofa, escluso l’ultimo verso, il v. ). Intendi: «quando ti vede, s’alza dritta, dentro la piccola gabbia». v. . che: intrusione del linguaggio parlato; unita al dativo successivo le (le porti), sta per «a cui». vv. -. la coniglia, se priva del cibo (metaforicamente, dell’affetto), si riavvolge su di sé, nascondendosi negli angoli bui della gabbia. v. . chi il pelo: sottinteso ancora potrebbe ritoglierle (portarle via).

T. LA NUOVA POESIA. UMBERTO SABA

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Chi mai farti soffrire? Tu sei come la rondine che torna in primavera. Ma in autunno riparte; e tu non hai quest’arte. Tu questo hai della rondine: le movenze leggere; questo che a me, che mi sentiva ed era vecchio, annunciavi un’altra primavera. Tu sei come la provvida formica. Di lei, quando escono alla campagna, parla al bimbo la nonna che l’accompagna. E cosí nella pecchia ti ritrovo, ed in tutte le femmine di tutti i sereni animali che avvicinano a Dio; e in nessun’altra donna.

v. . sottinteso potrebbe. In questo verso, come al solito nel finale di ogni strofa, la parola si rivolge di nuovo direttamente alla moglie, dopo la lunga similitudine; qui tornando all’uso proprio della seconda persona, che si collega senza soluzione di continuità alla terza dei versi precedenti. v. . quest’arte: quella di partire; non parti come la rondine. vv. -. questo che: di nuovo una cadenza del parlato; il primo che è da intendersi probabilmente come complemento di mezzo: «con questo, con le tue movenze leggere, tu annunciavi un’altra primavera, un nuovo anno, a me che mi sentivo ed

ero già vecchio»; si notino le forme letterarie della prima persona singolare, sentiva ed era. vv. -. la nonna parla di lei, della formica, al bimbo che la accompagna, quando escono per la campagna. v. . pecchia: ape (forma letteraria). vv. -. tornano, in questa sorta di congedo, i versi centrali della prima strofa, indicando quindi il senso ultimo di questa poesia nell’adesione profonda all’elemento femminile, sentito come intimamente legato al procedere naturale, e investito della grazia divina.

La capra (da Il canzoniere, Casa e campagna) Inserita nella raccolta Coi miei occhi, pubblicata dalla Libreria della Voce nell’autunno 1912, questa poesia passò poi nel 1921 nella sezione Casa e campagna del Canzoniere. Come la precedente, di cui sembra come prolungare e arricchire il bestiario, essa rivolge lo sguardo alla creaturalità animale. Qui non si hanno diretti paragoni tra una figura umana e l’animale, ma si instaura con esso un colloquio, suscitato dalla sua nuda e semplice presenza, dal suo essere sola e prigioniera (legata), immobile e sazia, bagnata / dalla pioggia: nel suo belare il poeta sente qualcosa di fraterno al proprio dolore, ed esso diventa un’immagine del dolore del mondo, tanto piú assoluta e lacerante in quanto circoscritta al suo essere semplice e nudo.

Un’immagine del dolore del mondo

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METRO: tre strofe di settenari e endecasillabi liberamente disposti, con varia disposizione di rime e assonanze (solo il v. 12 non ha rapporti, e ciò dà particolare evidenza alla parola male); l’ultimo verso è un quinario.

Ho parlato a una capra. Era sola sul prato, era legata. Sazia d’erba, bagnata dalla pioggia, belava. 



Quell’uguale belato era fraterno al mio dolore. Ed io risposi, prima per celia, poi perché il dolore è eterno, ha una voce e non varia. Questa voce sentiva gemere in una capra solitaria. In una capra dal viso semita sentiva querelarsi ogni altro male, ogni altra vita.

vv. -. notare «l’assonanza che unisce tutti i versi della quartina e la sottolineatura quasi ironica dell’onomatopea (erBA BAgnata…BElava)» (Milanini). v. . uguale: dal ritmo costante, monotono; fraterno: familiare, simile, vicino. v. . sentiva: sentivo (forma letteraria). v. . con il naso schiacciato, tipico della fisionomia delle popolazioni semitiche. Nella Storia e croni-

storia del Canzoniere, Saba definisce questo «un verso prevalentemente visivo» ed escludendo ogni riferimento alle proprie origini ebraiche e comunque alla condizione del popolo ebraico, lo considera «un colpo di pollice impresso alla creta per modellare una figura». v. . querelarsi: lamentarsi, dolersi (vedi anche il v.  di A mia moglie, p. ).

Città vecchia (da Il canzoniere, Trieste e una donna)

Fraternità con la vita piú umile

Pubblicata sulla rivista «La Riviera Ligure» nel luglio 1911 e poi come terzo testo della raccolta del 1912 Coi miei occhi, quindi nel 1921 nella sezione del Canzoniere Trieste e una donna, questa poesia è definita in Storia e cronistoria del Canzoniere «una delle poesie piú intense e rivelatrici di Saba», tale da rendere «tutto un lato della sua anima e della sua poesia: quel bisogno, innato in lui, di fondere la sua vita a quella delle creature piú umili e oscure». L’attraversamento della «città vecchia», cioè del centro piú antico di Trieste, dove si trovava anche il ghetto ebraico (tutto un quartiere poi smantellato e che non esiste piú), si dà come un momento di vita quotidiana: nel tornare a casa, il poeta sembra come specchiarsi nel mondo brulicante, povero e affaticato di quel quartiere, dove vive e si muove un’umanità che, insieme alle merci, è come il detrito del grande porto; ma proprio in mezzo a questa cosí difficile umanità egli sente il respiro profondo della vita, il senso dell’infinito, la presenza di una divinità tutta terrena che si agita tra la gioia e il dolore. In mezzo a questo mondo che appare tanto turpe, il pensiero viene come a purificarsi, a riconoscere nella fraternità con la vita piú umile il senso piú autentico dell’esistenza. L’immagine di questi luoghi e delle presenze umane che li affollano si impone con evidenza, con un succedersi di termini di tipo realistico (come pozzanghera, osteria, lupanare, detrito, dragone, bottega, friggitore), con un ritmo sintattico che è scandito dall’anafora dei vv. 5, 11, 20: Qui… Qui… Qui, con l’avverbio che, introducendo i tre periodi, fissa il concreto radicarsi della vita nei luoghi attraversati dal poeta. L’adesione a quel

T. LA NUOVA POESIA. UMBERTO SABA

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mondo e il suo valore sono sottolineati dai rapporti che la metrica istituisce tra alcune parole di opposto livello: cosí l’enjambement tra i vv. 9-10 che sottolinea il rapporto tra l’infinito e l’umiltà, e la rima di friggitore (v. 14) con le piú consuete amore (v. 16) e dolore (v. 18) e con Signore (v. 19). METRO:

tre strofe di diversa lunghezza (due strofe rispettivamente di quattro e di tre versi precedono e seguono quella centrale piú ampia); i versi sono in grande prevalenza endecasillabi, con inserzione di pochi imparisillabi brevi di diversa misura. Varie e variamente distribuite le rime, spesso baciate; per il rapporto tra le parole conclusive della prima e della terza strofa, strada (v. 4) e via (v. 25) si può parlare di rima semantica (che collega non l’aspetto fonico delle parole, ma i loro significati), in uso di solito nella poesia ebraica (Milanini).

Spesso, per ritornare alla mia casa prendo un’oscura via di città vecchia. Giallo in qualche pozzanghera si specchia qualche fanale, e affollata è la strada. 

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Qui tra la gente che viene che va dall’osteria alla casa o al lupanare, dove son merci ed uomini il detrito di un gran porto di mare, io ritrovo, passando, l’infinito nell’umiltà. Qui prostituta e marinaio, il vecchio che bestemmia, la femmina che bega, il dragone che siede alla bottega del friggitore, la tumultuante giovane impazzita d’amore, sono tutte creature della vita e del dolore; s’agita in esse, come in me, il Signore. Qui degli umili sento in compagnia il mio pensiero farsi piú puro dove piú turpe è la via.

vv. -. Molto diversi erano questi versi nella prima redazione: «Spesso, in torbide sere, esco di casa, per godermi la mia vecchia Trieste; / dove ammiccano i lumi alle finestre, / e piú affollata ed angusta è la strada». Giallo: riferito a qualche fanale. v. . lupanare: postribolo. v. . umiltà: Saba parrebbe riportare la parola al senso proprio del latino humilis, cioè basso (da humus, terra, suolo), riferendosi allo strato sociale a cui appartengono i frequentatori della città vecchia. v. . bega: litiga. v. . dragone: militare appartenente a un particolare corpo, a metà tra cavalleria e fanteria, che si spostava a cavallo e combatteva a piedi; piú genericamente, si dice di soldato a cavallo. v. . tumultuante: con il cuore in tumulto (perché innamorata).

v. . il Signore: un Dio inteso in senso totalmente laico e terreno; il termine Signore «ha un valore etico-religioso non confessionale, poiché il poeta rifiuta ogni idea di colpa o di peccato che sottenda una qualche forma di contrapposizionefra divinità e vita» (Milanini). L’infinito (v. ), il divino, è un elemento intrecciato indissolubilmente alla vita, e cioè anche al dolore: i vv. - sono, insomma, una esplicazione di quell’infinità ritrovata quasi per caso (passando) nell’umiltà dei versi appena precedenti. vv. -. «Qui, in compagnia degli umili, dove piú turpe è la via, sento il mio pensiero farsi piú puro». Nella Storia e cronistoria del Canzoniere, spiega Saba: «La folla in essi [cioè: nei vicoli e vicoletti di città vecchia] rigurgitante gli ispira pensieri di (non sapremmo come altrimenti chiamarla) religiosa adesione».

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Il poeta (da Il canzoniere, Preludio e canzonette, canzonetta )

Le motivazioni della sua poesia

La poesia, solo «scampo» a una «vita dolorosa»

Le contraddizioni della poesia

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L’intera sezione Preludio e canzonette fu pubblicata sul numero 3 della rivista «Primo Tempo» (15 luglio 1922), fondata e diretta dal giovane Giacomo Debenedetti, e poi in un volumetto per le edizioni della stessa rivista: si tratta di dodici testi, preceduti da un preludio (Il canto di un mattina) e seguiti da un Finale, in cui Saba adotta una forma metrica chiusa, ricollegandosi alla tradizione della canzonetta arcadica (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. 119), cercando una leggera musicalità quasi con l’intento, dichiarato poi nella Storia e cronistoria del Canzoniere, di «rifare le poesie che leggeva nei suoi libri di scuola» e toccando quindi tutta una serie di temi, motivi, figure tradizionali. Mentre la maggior parte delle canzonette hanno al centro una tematica amorosa (rivolta a una fanciulla di nome Chiaretta), quella che qui presentiamo (l’undicesima) definisce la condizione stessa del fare poetico di Saba, le motivazioni della sua poesia. In un componimento con lo stesso titolo Il poeta (in Trieste e una donna) l’autore aveva già presentato la sua poesia come un modo di partecipare alla vita normale, di immergersi nel ritmo dei giorni e delle passioni degli uomini («Il poeta ha le sue giornate / contate, / come tutti gli uomini…»): e nella Storia e cronistoria del Canzoniere l’aveva presentata come una «risposta polemica» a una poesia omonima di Giosue Carducci. Nel nuovo componimento egli sottolinea invece la particolarità del proprio rapporto con la poesia, dichiara che il suo affidarsi a essa è per lui il solo scampo possibile a una vita dolorosa e difficile: ma questa sua arte, nella sua dolcezza e nella sua apparente semplicità, è anch’essa qualcosa di difficile, ha anch’essa un prezzo in dolore. Il fare poesia di Saba è una forma di resistenza alle infinite forze avverse che gravano sulla sua esistenza, all’assalto delle pene, alle forze sotterranee e secrete che lo angosciano, alle difficoltà della vita quotidiana (a tanti rei negozi, a tante fastidiose attività egli è costretto per poter poi trovare un breve tempo da dedicare a quegli ozi aspri in cui si risolve la poesia). In questo nesso di difficoltà, in questa vera e propria lotta con il male e con la sofferenza, la poesia si svolge in una suprema contraddizione: essa si trova a trasformare in bellezza, in amore e riconoscimento della bellezza del mondo, tutto il male e il dolore di cui è fatta la vita umana in genere e in particolare la vita del poeta. METRO: otto strofette di cinque versi ciascuna, di cui il primo, il secondo e il quinto sono quinari, il terzo è settenario, il quarto è endecasillabo, rimati secondo lo schema aabBc (ma il quarto verso della penultima strofa è irregolare). Le strofette sono accoppiate a due a due, per mezzo del quinto verso della prima strofetta, in rima con il quinto verso della strofetta successiva. Nella Storia e cronistoria del Canzoniere, Saba scriveva: «Formalmente, le Canzonette sono tutte composte di strofette chiuse; la misura dei versi e il gioco delle rime si ripete in tutte le strofe dei componimenti, imitando il modello, volta a volta, offerto dalla prima».



Io non so amare, io non so fare bene che questa cosa, cui dava a me la vita dolorosa unico scampo. Io dico l’arte d’incider carte di difficili versi,

v. . questa cosa: la poesia. vv. -. per mezzo della quale la vita piena di dolore dava a me l’unico scampo, l’unica difesa. vv. -. precisa ora quale sia la cosa che è per lui unico scampo: «Voglio dire, intendo l’arte della

poesia»; e si noti come incider carte dà un senso piú diretto di lavoro materiale, di fisicità dell’atto dello scrivere, mentre si sottolinea poi ai vv. - il dissidio su cui si svolge la poesia stessa, che fa degli stessi versi come dei nemici (il tutto sottolinea-

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che spesso stanno fra lor come avversi nemici in campo.

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Quando piú dolce la rima molce l’orecchio, e quando pare che della canzonetta il vago andare segua d’amica;

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ahi che nessuno, fuor di me e d’uno ne sa il prezzo in dolore. Chi beve il vino, e dell’agricoltore sa la fatica?

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Per questo bene di quante pene devo regger l’assalto! Muovere audace, trar rapido un salto fuor della rete.

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Ardito e scaltro, per far non altro che la mia buona guerra, quante forze ho d’abbatter sulla terra, e in me secrete!

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Campar la vita con l’infinita pena di rei negozi; e dar la mia giornata per gli ozi aspri d’un’ora.

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E tanto in cuore aver d’amore da dire: Tutto è bello; anche l’uomo e il suo male, anche in me quello che m’addolora.

to dalla rima ricca versi/avversi). v. . molce: addolcisce (termine letterario). vv. -. «che segua (il soggetto è la rima) da amica il vago procedere della canzonetta», oppure: «che segua il vago andare amichevole, proprio della canzonetta» (insomma da amica può riferirsi o a rima o a canzonetta). v. . «all’infuori di me e di uno solo»: quell’uno resta indeterminato, ma può riferirsi a un lettore sconosciuto, in grado si stabilire un’empatia profonda con il poeta. v. . rete: quella della vita, che si manifesta come dolore.

vv. -. per affermare la sua poesia (per combattere la sua buona guerra) il poeta deve avere audacia e astuzia (ardito e scaltro), in modo da sconfiggere le forze nemiche che operano nel mondo (sulla terra) e dentro di lui, nella profondità della sua anima (in me secrete). v. . rei negozi: di tristi, gravose occupazioni. vv. -. spendere tutta la mia giornata (in quei rei negozi), per potermi dedicare solo un’ora agli ozi della poesia (che sono comunque aspri, hanno qualcosa di ingrato e di difficile). v. . d’amore: dipende da tanto: tanto amore, una tale quantità d’amore.

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Preludio (da Il canzoniere, Preludio e fughe)

Voci contrastanti

La fusione delle vite del padre e della madre nella vita del poeta

Lo splendore dell’aurora e il tormento della notte

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Preludio e fughe (dodici «fughe» precedute da questo Preludio e seguite da un Commiato) apparve presso le edizioni di «Solaria» nel 1928, dopo che alcuni dei testi erano usciti, l’anno precedente, su «La Fiera letteraria». Come dichiara la Storia e cronistoria del Canzoniere, le Fughe «sono voci che si parlano tra loro, s’inseguono per dirsi cose ora contrastanti e ora concordanti. Ma i loro contrasti – come la vita colle sue lotte, a chi potesse guardarla da sufficiente altezza, apparirebbe univoca – sono solo apparenti. Le voci sono, in realtà, la voce di Saba; l’espressione – diventata poesia – del sí e del no che egli disse alla vita, alla “calda vita”, amata e odiata al tempo stesso e dalla stessa persona». Esse nascono da una suggestione musicale, da un’aspirazione a creare, nella poesia, l’effetto stesso della fuga musicale, con un andare e venire, un inseguirsi, dileguarsi, apparire e sparire di due voci che riecheggiano l’una nell’altra, pur rappresentando punti di vista diversi e opposti: «Una voce lieta ed una malinconica, una, di fronte alla vita, “ottimista”, e l’altra “pessimista”, si scambiano, per cosí dire, le parti, penetrano una nell’altra»; ce n’è però una, il Canto a tre voci, in cui le voci che si rincorrono non sono due, ma tre. Questo Preludio, in un tono di appassionata invocazione, presenta proprio queste voci contrastanti, care voci discordi, che sorgono da un originario passato, sepolto nell’anima del poeta, che aspira a farle risuonare ancora, in nuovi dolcissimi accordi: l’invocazione delle voci e il desiderio cosí intenso di ascoltarle sorge dal fondo di dolore in cui il poeta è immerso insieme agli esseri che gli sono vicini. E qui si svela, ai vv. 14-15, che le due voci che si rincorrono in tutte le Fughe hanno in definitiva un’origine familiare: in esse si identificano le due vite da cui è sorta quella di Saba, due vite che hanno agito in contrasto sulla sua infanzia (quella della madre e quella del padre assente). Nell’incontro tra le due voci riecheggia cosí anche il peso di una lacerazione: ma nel loro continuo scindersi e ricomporsi, nel loro contenere in sé la traccia di un passato perduto, esse testimoniano anche la possibilità di una conciliazione, che pure si sente come una sorta di possibilità ultima, un’ultima occasione lasciata al cuore (l’ultima volta, v. 12; estremi accordi, v. 17). In esse vengono come ad amarsi gli opposti che costituiscono la vita e il mondo («La luce e l’ombra, la gioia e il dolore / s’amano in voi»): e il loro ritorno attraverso la poesia garantisce forse le ultime ore serene a un’esistenza che si sente minacciata dal buio, che sente angosciosamente avvicinarsi la notte. Con musicale delicatezza, con una inafferrabile nitidezza e semplicità di linguaggio, Saba sembra come voler ritrovare affettuosamente il mondo dell’origine (da cui provengono quelle voci) e insieme sentirne la profonda inguaribile angoscia: e arriva a far risuonare contemporaneamente gioia e dolore, nostalgia e tenerezza, splendore dell’aurora perduta e tormento della notte che si avvicina. METRO: si tratta, nella sostanza, di due strofe di canzone, spezzate a metà, per sottolineare la cesura tra fronte e sirma. La fronte consiste di 3 endecasillabi e un settenario, secondo lo schema AbBC; la sirma si apre con un trisillabo che rima con l’ultimo verso della fronte, e procede in un’alternanza di endecasillabi e settenari, secondo lo schema cDdEggh.

Oh, ritornate a me voci d’un tempo, care voci discordi! Chi sa che in nuovi dolcissimi accordi io non vi faccia risuonare ancora? 

L’aurora è lontana da me, la notte viene.

v. . discordi: che non sono in accordo, dissonanti (in senso anche musicale).

vv. -. l’aurora e la notte sono, metaforicamente, le età della vita, giovinezza e vecchiaia, e, all’estre-

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Poche ore serene il dolore mi lascia; il mio e di quanti esseri ho intorno. Oh, fate a me ritorno voci quasi obliate! Forse è l’ultima volta che in un cuore – nel mio – voi v’inseguite. Come i parenti m’han dato due vite, e di fonderle in una io fui capace, in pace vi componete negli estremi accordi, voci invano discordi. La luce e l’ombra, la gioia e il dolore s’amano in voi. Oh, ritornate a noi care voci d’un tempo!

mo, la nascita e la morte. v. . il mio e di quanti: riferito a dolore. vv. . i parenti: i genitori (dalla fusione delle cui due vite ne deriva una, quella del figlio). v. . le voci possono ricomporsi solo nel cuore del poeta, in grado di fonderle in armonia, cosí come l’essenza di due vite si compone, nel figlio, in un’unica individualità: ma si tratta di accordi estremi, ultimi, che si pronunciano come un attimo prima

della definitiva lacerazione e del silenzio. v. . invano: appunto perché è proprio del poeta accordare le discordanze. vv. -. da notare la circolarità di questa poesia, per cui il verso iniziale si ripete, spezzato, negli ultimi due, ove l’io del poeta diviene collettivo: da a me del v.  si passa qui a questi noi, che fra l’altro si trova anche a riassumere le due vite fuse in una dei vv. -.

Cucina economica (da Il canzoniere, Il piccolo Berto) Questa poesia fu pubblicata su «L’Italia letteraria» del 12 gennaio 1930 e poi, con tutta la serie Il piccolo Berto, su «Solaria» del febbraio 1931, quindi nel 1933 nel volume dal titolo Tre composizioni, e poi nel 1945 nell’edizione del Canzoniere. In essa la gratitudine alla vita, affermata all’inizio con uno scatto gioioso, come in una rapita felicità, è motivata dal riconoscimento di un mondo povero e semplice: in una piccola trattoria (indicata nel titolo Cucina economica), nel contatto con le dimesse presenze umane che la frequentano, il poeta ritrova se stesso, la propria infanzia, addirittura una condizione prenatale. In questo mondo cosí comune, dove nulla appare mutato, dove le care cose sembrano resistere alle rovinose trasformazioni del tempo, gli oggetti e le presenze, gli stessi atti di chi consuma un semplice pasto, sembrano garantire salvezza, acquistano una calda e accogliente evidenza. Dalla normalità di questo universo, dalla comunissima macchia di colore della gialla polenta, il cuore viene spinto verso una felicità superiore, arrivando a salire all’estremo della sensibilità umana, in un’esperienza davvero equiparabile a quella della mistica. Questa esperienza è tanto sublime che il poeta desidera quasi di morire in questo luogo: e qui viene da pensare ai mistici, che identificano il punto piú alto della loro esperienza con la perdita di sé e con la morte. Le presenze umane che egli si trova davanti creano però una serie di richiami e di identificazioni: se i muratori che cenano sono del tutto indifferenti (ma il piacere di stare in questo luogo è dato anche da questa

Il poeta ritrova se stesso nel mondo povero e semplice

Un’esperienza mistica che nasce dalla normalità

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serena indifferenza di chi lo frequenta), il vecchietto che ha cenato senza vino evoca invece, con il suo chiudersi in se stesso, l’immagine di un nascituro / dentro il grembo materno; tuttavia il poeta non lo assomiglia a se stesso, come ogni lettore a questo punto si aspetterebbe, ma al proprio povero padre ramingo, al quale la madre stessa lanciava maledizioni di fronte al bambino / esterrefatto. Dal seno di quel mondo comune, povero e felicemente indifferente, in questo cortocircuito che chiama in causa padre, madre, bambino, sorge cosí tutto l’intreccio familiare che costituisce le origini di Saba: la cucina economica è il luogo di un ritorno, di un ritrovamento non solo del proprio perduto e lacerato mondo familiare, ma del popolo stesso, di quella gente comune a cui Saba pensa di appartenere (e si può far riferimento, per questa volontà di identificarsi con la piú umile e dimessa vita popolare, a un componimento come Città vecchia, a cui questo in parte si ricollega, e a un altro della raccolta Cuor morituro, Il borgo, dove il poeta affermava il desiderio provato nell’infanzia «d’immettere la mia dentro la calda / vita di tutti, / d’essere come tutti / gli uomini di tutti / i giorni»).

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METRO: endecasillabi con qualche rima irregolare, perlopiú baciata, distribuiti in un’ampia lassa, preceduta da tre versi in cui si concentra l’esclamazione di gratitudine alla vita e seguiti da un verso isolato, ma legato al precedente dalla rima baciata.

Immensa gratitudine alla vita che ha conservate queste care cose; oceano di delizie, anima mia! 

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Oh come tutto al suo posto si trova! Oh come tutto al suo posto è restato! In grande povertà anche è salvezza. Della gialla polenta la bellezza mi commuove per gli occhi; il cuore sale, per fascini piú occulti, ad un estremo dell’umano possibile sentire. Io, se potessi, io qui vorrei morire, qui mi trasse un istinto. Indifferenti cenano accanto a me due muratori; e un vecchietto che il pasto senza vino ha consumato, in sé si è chiuso e al caldo dolce accogliente, come nascituro dentro il grembo materno. Egli assomiglia forse al mio povero padre ramingo, cui malediva mia madre; un bambino esterrefatto ascoltava. Vicino mi sento alle mie origini; mi sento, se non erro, ad un mio luogo tornato; al popolo in cui muoio, onde son nato.

v. . la salvezza si trova anche in una grande povertà. v. . per gli occhi: attraverso gli occhi. v. . per fascini piú occulti: «a causa di (o per mezzo di, o anche attraverso) piú nascoste fascinazioni, di cose piú segrete»: alla bellezza di una cosa cosí evidente per gli occhi come la polenta, si aggiungono richiami che vengono piú dall’inconscio, da qualcosa che non è possibile vedere e conoscere con chiarezza; e non a caso al v.  si chiama in causa l’istinto.

v. . ha consumato: il soggetto è «un vecchietto»; al caldo: retto da si è chiuso (nel caldo della «cucina economica», della piccola trattoria). v. . cui malediva mia madre: «che mia madre malediva» (il bambino è il poeta stesso da piccolo, che ascoltava le imprecazioni della madre). v. . il verso isolato, ma in rima baciata con il precedente, sembra come ricondurre il poeta alla propria origine, riavvolgendolo nel respiro collettivo di quel suo popolo.

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

Squadra paesana (da Il canzoniere, Parole) Si riporta qui la prima delle Cinque poesie per il gioco del calcio, pubblicata su «La Gazzetta del Popolo» del 22 novembre 1932 e compresa poi insieme alle altre nella raccolta Parole (1934), confluita nel 1945 nel Canzoniere. Nella Storia e cronistoria del Canzoniere si racconta come il rapporto di Saba con il calcio sia nato per caso, una volta che un «giovane amico» gli aveva ceduto un biglietto d’ingresso allo stadio: insieme alla figlia e a un’amica della figlia aveva cosí assistito, in una bella giornata di sole, a una partita tra «la potentissima Ambrosiana» (l’attuale Inter) e la «vacillante Triestina» (con le maglie rosso alabardate), conclusasi con uno zero a zero, ma con una gagliarda esibizione della squadra locale. Quasi sorprendendosi di se stesso, di fronte alla bellezza dello spettacolo aveva condiviso l’entusiasmo della folla. Cosí precisa nella Storia e cronistoria: «Egli si entusiasmò per le stesse ragioni per le quali si entusiasmavano gli altri; vi mise, di suo, una piú chiara coscienza di quelle ragioni. […] Secondo Saba la gente (e lui stesso) non si eccita tanto per il gioco in sé, quanto per tutto quello che, attraverso i simboli espressi dal gioco, parla all’anima individuale e collettiva. E le Cinque poesie per il gioco del calcio sono nate in Saba da un’ultima possibilità che gli veniva offerta di “compalpitare” con gli altri, di realizzare, in una festa popolare, il “sospiro dolce e vano” di cui parla nella poesia Il Borgo [cfr. qui l’introduzione a Cucina economica, p. 711] di essere una volta tanto “come tutti / gli uomini di tutti / i giorni”». Il calcio e il tifo per la Triestina rappresentano quindi per Saba un’occasione per sentire ancora quel senso di partecipazione alla vita normale, quell’aspirazione alla calda vita popolare e collettiva che attraversa tutta la sua opera. In Squadra paesana questo senso di partecipazione si pone in modo tanto piú intenso in quanto i giocatori stessi della Triestina vengono sentiti come parte viva del popolo stesso che li ama, come un’emanazione stessa della vita della città di cui portano i colori, che è la madre (v. 18) che li ama e che essi stessi difendono con il loro gioco. In questo il poeta scopre la traccia di una bellezza, di un sapere, di un senso di umanità antico: sul prato erboso essi esprimono, come in un ricamo, spontaneamente, ignari, senza averne coscienza (ma forse proprio per questo in modo tanto piú autentico), antiche cose / meravigliose; e Saba guarda incantato alla loro giovinezza, alla leggerezza, lontana da tutte le angosce che fanno invecchiare, dell’effimera gloria che dà loro il successo. Si tratta di una delle piú belle immagini che la letteratura del Novecento abbia dato del gioco del calcio, in un momento in cui le squadre erano ancora radicate nella vita popolare, costruite e condotte in modo artigianale e davvero «paesano»: ancora molto lontane dal sistema industriale, affaristico e mediatico che caratterizza il calcio di oggi. METRO: endecasillabi alternati a trisillabi e quinari; i vv. 6 e 7, novenario+trisillabo, possono leggersi come ricomposti in un unico endecasillabo; abbastanza numerose le rime.

Anch’io tra i molti vi saluto, rosso alabardati,



sputati dalla terra natia, da tutto un popolo amati.

vv. -. rosso alabardati: il giglio stilizzato in forma di alabarda (un’arma medievale da punta e da taglio) è il simbolo della città di Trieste; assieme al colore, si riferisce ai colori della squadra di calcio della Triestina. v. . sputati: immagine quasi eruttiva, che fa i rosso

alabardati l’espressione diretta d’una naturalità terrestre e materna, la terra natia; nella Storia e cronistoria del Canzoniere Saba ricorda il momento in cui, la prima volta allo stadio, «vide i rosso alabardati uscire di corsa nel campo fra il delirante entusiasmo della folla».

Il gioco del calcio come momento per «compalpitare» con gli altri

Un senso di umanità antica

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Trepido seguo il vostro gioco. Ignari esprimete con quello antiche cose meravigliose sopra il verde tappeto, all’aria, ai chiari soli d’inverno. Le angosce, che imbiancano i capelli all’improvviso, sono da voi sí lontane! La gloria vi dà un sorriso fugace: il meglio onde disponga. Abbracci corrono tra di voi, gesti giulivi. Giovani siete, per la madre vivi; vi porta il vento a sua difesa. V’ama anche per questo il poeta, dagli altri diversamente – ugualmente commosso.

v. . trepido: trepidante. v. . il meglio … disponga: quel sorriso / fugace è il meglio di cui la gloria disponga, cioè la migliore cosa che può ricevere chi dalla gloria viene toccato. v. . per la madre vivi: nella preposizione per si combinano qui piú sensi: «a causa della madre, per mezzo della madre, in favore della madre». La

madre è naturalmente la stessa città di Trieste, quella terra natia da cui i calciatori paesani sono come sputati. vv. -. dagli altri … commosso: «il poeta v’ama in modo diverso dagli altri, ma commosso nello stesso modo» (la differenza sta nel fatto che il poeta è cosciente delle ragioni profonde di quell’entusiasmo che per gli altri è spontaneo e ignaro di sé).

Ulisse (da Il canzoniere, Mediterranee)

Il poeta, Ulisse moderno e irrequieto

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Questa poesia, pubblicata su «l’Unità» del 15 settembre 1946, conclude la raccolta Mediterranee (stampata nel dicembre 1946) ed è anche l’ultima dell’edizione 1948 del Canzoniere. In essa Saba ritorna a un mito già variamente da lui toccato in poesie precedenti, quello di Ulisse, figura del viaggiare infaticabile, dell’ininterrotto procedere per il mondo. L’eroe mitico qui è nominato solo nel titolo: ma è subito evidente che è il poeta stesso a presentarsi come un Ulisse moderno, nella rievocazione dei viaggi per nave lungo le coste della Dalmazia durante la sua giovinezza. Ma, nel ricordo di questa navigazione e del luminoso paesaggio marino, si impone l’immagine degli isolotti che l’alta marea e la notte nascondono alla vista e che costituiscono un pericolo per le imbarcazioni, che infatti si tengono da essi lontane: e in questo andare al largo delle vele il poeta vede ora una metafora della propria irrequietezza, di un doloroso amore della vita che lo conduce lontano da ogni porto. La consueta tematica autobiografica di Saba si fissa qui in questo paesaggio marino di forte evidenza, in una piú forte concentrazione delle immagini, in una plasticità del verso che indica un parziale avvicinamento (caratteristico delle raccolte Parole, Ultime cose e Mediterranee) a modi piú tipicamente «novecenteschi». METRO:

endecasillabi sciolti, con la sola rima identica largo (vv. 8, 11) e con una fitta serie di enjambement.

T. LA NUOVA POESIA. UMBERTO SABA



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Nella mia giovanezza ho navigato lungo le coste dalmate. Isolotti a fior d’onda emergevano, ove raro un uccello sostava intento a prede, coperti d’alghe, scivoloso, al sole belli come smeraldi. Quando l’alta marea e la notte li annullava, vele sottovento sbandavano piú al largo, per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno è quella terra di nessuno. Il porto accende ad altri i suoi lumi; me al largo sospinge ancora il non domato spirito, e della vita il doloroso amore.

vv. -. coperti … belli: aggettivi riferiti a isolotti. v. . li annullava: li faceva scomparire. v. . sottovento: esposte al vento, le vele sbandavano, cioè deviavano al largo, per evitare di arenarsi o rompersi sugli isolotti divenuti invisibili, per evitare l’insidia che essi rappresentavano.

vv. -. me al largo … amore: «il mio non domato spirito e il doloroso amore della vita mi sospinge ancora al largo»: per il non domato spirito cfr. Foscolo, Alla sera,  («quello spirto guerrier») e Leopardi, Aspasia,  («l’indomito mio cor»).

Vecchio e giovane (da Epigrafe) Il vecchio e il giovane di questa poesia che, con le altre di Epigrafe, Saba volle che fosse pubblicata solo postuma, sono lo stesso poeta e il giovane Federico Almansi (1924-1979), figlio di Emanuele, un libraio antiquario di cui Saba fu ospite a Milano dall’autunno 1945 al gennaio 1948 (nello stesso 1948 Federico pubblicò un volume di Poesie con la prefazione dello stesso Saba). Il rapporto e il dialogo tra il vecchio e il giovane assumono qui un essenziale rilievo simbolico, rappresentando la necessità e la difficoltà dell’incontro tra le diverse età della vita; e nello stesso tempo alludono a concrete e particolarissime situazioni della dolorosa esistenza del poeta, nella sua necessità di amare, di comunicare tutto se stesso e la propria esperienza a un amico piú giovane, a un angelo disposto a sentire in lui un padre e un maestro. La poesia si articola in tre strofe dai contenuti nettamente distinti. La prima, dopo il semplicissimo avvio narrativo, risale al momento del rapporto tra il vecchio e il bimbo che ha l’aspetto di gatto selvatico (Saba lo aveva conosciuto nel 1930, quando aveva sei anni) e insiste sulla gioia data dall’abbandonarsi fiducioso del bambino a chi lo conduce per mano. La seconda strofa presenta invece un momento del rapporto tra il vecchio e il ragazzo ormai adolescente (Giovinetto tiranno, imperioso e prepotente nelle sue richieste), che chiede racconti e storie che accompagnino il suo sonno (a cui il termine ninna nanna attribuisce un carattere infantile); e il vecchio parla della propria vita, che è un insieme di bene e di male (altro bene, altro male, v. 15); ma il giovane interrompe il racconto e prende sonno, pur manifestando la sua gratitudine di bambino verso il vecchio, che resta insonne. La terza strofa, una sorta di accorato commento, considera la distanza del giovane, parvenza / d’angelo, dal tormento del vecchio, e invita questi a comprendere il senso di quella distanza, ad accettarne tutto il peso: il giovane ha davanti il compito difficile di affrontare la vita; il vecchio non può far altro che procedere verso la morte, cancellando ogni turbamento e ogni pensiero (quel finale invito a se stesso, O non pensarci piú, suona come un’an-

Un incontro tra le diverse età della vita

La distanza tra il giovane e il vecchio

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gosciosa epigrafe a questa stessa poesia, come se il poeta volesse cancellare il dramma su cui essa è costruita).

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METRO: endecasillabi sciolti distribuiti in tre strofe, con alcune rime (tra cui quelle identiche bimbo, vv. 1, 6, e piú, alla fine della seconda e della terza strofa).











Un vecchio amava un ragazzo. Egli, bimbo – gatto in vista selvatico – temeva castighi a occulti pensieri. Ora due cose nel cuore lasciano un’impronta dolce: la donna che regola il passo leggero al tuo la prima volta, e il bimbo che, al fine tu lo salvi, fiducioso mette la sua manina nella tua. Giovinetto tiranno, occhi di cielo, aperti sopra un abisso, pregava lunga all’amico suo la ninna nanna. La ninna nanna era una storia, quale una rara commossa esperienza filtrava alla sua ingorda adolescenza: altro bene, altro male. «Adesso basta – diceva a un tratto; – spegniamo, dormiamo». E si voltava contro il muro. «T’amo – dopo un silenzio aggiungeva – tu buono sempre con me, col tuo bambino». E subito sprofondava in un sonno inquieto. Il vecchio, con gli occhi aperti, non dormiva piú. Oblioso, insensibile, parvenza d’angelo ancora. Nella tua impazienza, cuore, non accusarlo. Pensa: È solo; ha un compito difficile; ha la vita non dietro, ma dinanzi a sé. Tu affretta, se puoi, tua morte. O non pensarci piú.

v. . gatto … selvatico: con aspetto di gatto selvatico (formula letteraria: cfr. Dante, Purgatorio, I, : «degno di tanta reverenza in vista»). vv. -. la donna … volta: la situazione in cui per la prima volta nel camminare insieme la donna adatta il suo passo leggero a quello del compagno (quando un rapporto amoroso si traduce in un incedere comune, in una spontanea intimità). v. . al fine tu lo salvi: affinché tu possa salvarlo dai pericoli del mondo. vv. -. un abisso: quello della vita su cui il giovinetto si sta affacciando; pregava … ninna nanna: pregava il suo amico che gli facesse una lunga ninna

nanna, gli raccontasse una storia per farlo dormire. v. . la storia che il vecchio narra al giovane filtra la sua esperienza di vecchio, rendendola accessibile alla sua ingorda adolescenza (contrapposta, quest’ultima, nella sua voracità, a quella rara commossa esperienza). vv. -. Oblioso … ancora: è il giovane, che durante il sonno appare dimentico del vecchio, indifferente in una sua natura di angelo (allo stesso Federico Almansi è dedicata una poesia di Mediterranee intitolata appunto Angelo). v. . cuore: ora è il vecchio a rivolgersi a se stesso, al proprio cuore.

T. LA NUOVA POESIA. UMBERTO SABA



Laura (da Scorciatoie e raccontini, Prime scorciatoie, ) I brevi testi delle Scorciatoie, scritti per lo piú a Roma nel 1945, in parte pubblicati sulla rivista «La Nuova Europa» e raccolti nel volume del 1946 Scorciatoie e raccontini, toccano i temi piú vari della cultura e della vita sociale contemporanea: danno la singolare immagine di una saggezza delicatissima, che rifiuta ogni sistematicità e ogni presunzione intellettuale, che guarda alle cose, ai gesti, agli atteggiamenti umani, alle vicende storiche, ai dati della cultura, con una leggerezza capace di scendere in profondità, di toccare i significati piú intensi e inquietanti (sono dette «scorciatoie» in quanto vie per arrivare alla verità piú rapide di quelle consuete e riconosciute). Attraverso una scrittura aforistica (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. 65), che ha in Nietzsche il suo piú grande maestro, qui si sovrappongono intimamente poesia, filosofia, discussione intellettuale, osservazione del mondo e dell’Italia contemporanea: con un impegno a sentire le ragioni psicologiche, a interrogare i moventi inconsci e segreti, che ha il suo punto di riferimento nell’altro grande autore che il Saba delle Scorciatoie indica come sua guida, Sigmund Freud. Entro la scrittura cosí nitida ed essenziale, nello stesso tempo ingenua e sicura di sé, Saba adotta frequentemente l’uso delle maiuscole per evidenziare parole o frasi particolarmente significative. Questa scorciatoia suggerisce una sottile, delicata e convincente interpretazione psicoanalitica del Canzoniere petrarchesco, che risale al motivo della ricerca della madre perduta: ma suggerisce una distinzione tra quell’amore legato cosí strettamente al modello materno e l’amore vero, che consiste nella «fusione perfetta della sensualità e della tenerezza» e che trova manifestato piú intensamente che in Petrarca in Dante, riconoscendone una delle massime espressioni in un celebre verso di Francesca da Rimini (Inferno, V, 136), che considera «il piú bel verso d’amore che sia stato scritto».

Quanto si è discusso per sapere se Laura è, o no, esistita. Ancora ai nostri giorni, ai nostri poveri (per questi giochi, ultimi) giorni, un letterato ha tenuta, qui a Roma, una conferenza intorno al piacevole enigma. Ma non è – almeno non è piú – un enigma. Laura è certamente esistita. È esistita; ed era, alla luce di tutti i giorni, una bionda signora; nelle profondità inaccesse (infantili) dell’anima del poeta, era sua madre; era la donna che non si può avere. E tutta la fascinosa, un po’ monotona, storia del CANZONIERE, di venti e piú anni di corteggiamenti, per non arrivare, per voler non arrivare a nulla, è qui. Se Laura che lo loda, lo rimprovera, lo ammonisce a ben fare, siede in sogno sulla sponda del suo letto, si comporta in tutto e per tutto come una tenera madre col suo amato, e un po’ indiscreto, bambino, gli si fosse data (ma è questo che il poeta – fingendo desiderarlo – temeva; il CANZONIERE è pieno di accenti di gratitudine per quella che colla sua «virtú», colla sua «castità» gli risparmiava, con la tentazione, il pericolo di fare una brutta figura) sarebbe accaduto al Petrarca quello che accadde al Baudelaire con la bella signora Sabatier, e che non gli accadeva con la sua triste mulatta. La figura di Laura assorbí tutta la tenerezza del poeta. La sua sensualità egli la rivolse ad altro (ebbe – si racconta – non infecondi amori ancillari); a donne che, per la diversità delle origini, non potevano richiamare al suo inconscio, sempre vivo e vigile, la presenza – ben altrimenti diletta! – della madre. Ma l’amore, l’amore vero, l’amore intero, vuole una cosa e l’altra; vuole la fusione perfetta della sensualità e della tenerezza: anche per questo è raro. Cosí non c’è, in tutto il lungo CANZONIERE, un verso, uno solo, che possa propriamente dirsi d’amore; molte cose ci sono, ma non LA BOCCA MI BACIÒ TUTTO TREMANTE, il piú bel verso d’amore che sia stato scritto. LAURA

. un letterato: si tratta di Goffredo Bellonci (), che aveva tenuto una conferenza su Petrarca. . sarebbe … triste mulatta: allude alle difficoltà dell’amore di Baudelaire per la bella Apollonie Sabatier, e al diverso amore, tutto fisico e carnale, per l’attrice Jeanne Duval, creola di Santo Domin-

go, cantata ne Les fleurs du mal (cfr. CANONE EUtav. ). . amori ancillari: amori occasionali consumati con ancelle (servedalle quali Petrarca ebbe vari figli). . il piú bel verso: nel racconto dantesco di Francesca da Rimini (Inferno, V, ).

ROPEO,

Aforismi sul mondo

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EPOCA





GUERRE E FASCISMO

-

Giuseppe Ungaretti Agonia (da L’Allegria)

La morte preferita al «vivere di lamento»

Il poeta disincantato, ma interventista

˜

La poesia appare per la prima volta nell’edizione del 1919 de L’Allegria, ma è posta prima della sezione Il Porto Sepolto, tra quelle scritte nel 1914-1915. Essa dunque funge in qualche modo da introduzione all’esperienza della guerra, che campeggia terribile nelle poesie successive. Attraverso le immagini delle allodole e della quaglia che si offrono alla morte, sembrano annunciarsi le scelte radicali che si ponevano per Ungaretti e per gran parte degli intellettuali italiani nei mesi che precedettero l’entrata dell’Italia nella prima guerra mondiale. E non stupisce che, nell’imminenza del grande sacrificio, al vivere di lamento, al vivere passivo e senza sbocchi (che la cultura italiana d’avanguardia identificava nel regime liberale e neutralista dei governi Giolitti) venga preferito quello del morire. Morire di stanchezza, dopo un lungo sforzo che abbia impegnato tutte le nostre forze, come la quaglia che non ha piú voglia di volare, o magari per quello che per primi si riconosce come un miraggio; ma comunque assetati come allodole, assetati di un vivere piú coinvolgente. La posizione di Ungaretti, lucidamente disincantato eppure desideroso di unirsi ugualmente alla schiera dei combattenti (di fare insomma del suo un «grido unanime», come scriverà in Italia, un testo de Il Porto Sepolto), ricorda per certi versi quella di Renato Serra (cfr. pp. 235-240). E il parallelismo fonico tra primo e ultimo verso («assetate», connotato positivamente dal poeta – «accecato», connotato negativamente) mostra come al testo sia sottesa una certa dose di ambiguità: nell’immagine finale del cardellino accecato si può d’altra parte leggere una involontaria metafora dell’accecamento di tanti intellettuali europei che si gettarono entusiasticamente nel fuoco del conflitto. Già in questo testo si possono notare procedimenti di concentrazione stilistica che saranno portati all’estremo nelle poesie del Porto sepolto: l’aggettivazione, scarna e allusiva, è ottenuta per lo piú attraverso participi (cfr. anche passato, v. 4; accecato, v. 9) che, coinvolgendo l’area di significato di un verbo, danno grande «mobilità semantica» a un testo cosí breve, cosí distillato. I verbi persistono al modo infinito (morire, volare, vivere), seguendo i modi della teorizzazione futurista (in particolare del Manifesto tecnico della letteratura, del 1912), cui il primo Ungaretti, come ha sottolineato Carlo Ossola, è particolarmente attento. [EDIZIONE: Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura di L. Piccioni, Mondadori, Milano 1969] METRO: verso libero

Morire come le allodole assetate sul miraggio



O come la quaglia passato il mare nei primi cespugli perché di volare non ha piú voglia Ma non vivere di lamento come un cardellino accecato

T. LA NUOVA POESIA. GIUSEPPE UNGARETTI



In memoria (da L’Allegria) Si tratta di uno dei testi piú giustamente celebri de L’Allegria, e in assoluto piú cari all’autore. La vicenda dell’amico suicida (Moammed Sceab era un amico dei tempi di Alessandria d’Egitto, con il quale Ungaretti aveva affrontato la grande avventura di Parigi; l’amico, infiammato discepolo di Nietzsche e Baudelaire, aveva finito, nell’estate del 1913, per commettere un suicidio «filosofico» paragonabile a quello di Carlo Michelstaedter) diviene con gli anni un autentico «mito originario» della poesia di Ungaretti. Tanto che nella prima edizione de Il Porto Sepolto (1916) la poesia non reca titolo né data, e fa insomma da vera e propria apertura e dedica del volumetto alla «memoria» di Sceab (in parallelo con l’ultima poesia, il ringraziamento al curatore dell’edizione Ettore Serra; e, come ha notato Carlo Ossola, Sceab e Serra sono gli unici nomi di persona a essere pronunciati in queste poesie di Ungaretti), cui segue la poesia che dà il titolo al libro (Il Porto Sepolto). Perché questo avvenimento abbia tanto segnato Ungaretti è comprensibile: la condizione di emigrato, di nomade senza Patria (o con troppe patrie), di estrema dipendenza dalla cultura del paese ospitante fino al punto di cambiare nome (Fu Marcel) e di perdere il contatto con le proprie radici (non sapeva piú / vivere / nella tenda dei suoi), ma senza potersi integrare del tutto nella nuova identità (non era francese), era di Moammed come era anche la sua, di Ungaretti (che in alcune lettere a Prezzolini e a Soffici confessa in quegli anni di avere anche lui fantasie suicide). La differenza tra Sceab e Ungaretti, la differenza che salvò Ungaretti, è dichiarata nei vv. 18-21: il poeta italiano, contrariamente all’amico, seppe sciogliere il canto / del suo abbandono, seppe «sillabare» quella «pena» in parole nuove, inaudite. Le uniche per lui dicibili in modo autentico. METRO: versi liberi, con il caratteristico procedimento del «sillabato», che frantuma il rapporto tra metrica e sintassi e mette in evidenza singoli spezzoni di frase, limitati spesso a una sola parola (come al v. 3, al v. 5, al v. 7, al v. 13, al v. 19, al v. 28, al v. 31) o a semplici nessi sintattici (riflessivo+verbo, articolo+sostantivo, preposizione+sostantivo ecc.).

Locvizza il  settembre 

Si chiamava Moammed Sceab



Discendente di emiri di nomadi suicida perché non aveva piú Patria Amò la Francia e mutò nome



Fu Marcel ma non era Francese

v. . di capi di tribú nomadi: Sceab ha abbandonato il nomadismo delle sue origini per inserirsi in una città e in un mondo «altri», in cui si è sentito ancora «nomade», ma in un senso di lacerazione, ben diverso da quello della sua identità originaria.

v. . ma non: la costruzione con avversativa + negativa è stata identificata da Carlo Ossola come uno dei ritrovati piú efficaci del «sillabato» ungarettiano (già in Agonia si veda il v. : ma non vivere…). Parlare per negazioni (cfr. anche non aveva

Il suicidio di Sceab, «mito originario» della poesia di Ungaretti

La condizione di sradicati

«Il canto» come salvezza

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EPOCA















GUERRE E FASCISMO

-

e non sapeva piú vivere nella tenda dei suoi dove si ascolta la cantilena del Corano gustando un caffè E non sapeva sciogliere il canto del suo abbandono L’ho accompagnato insieme alla padrona dell’albergo dove abitavamo a Parigi dal numero  della rue des Carmes appassito vicolo in discesa Riposa nel camposanto d’Ivry sobborgo che pare sempre in una giornata di una decomposta fiera E forse io solo so ancora che visse

piú, v. ; non sapeva, v. ; non sapeva, v. ) può risalire alla suggestione delle lezioni del grande filosofo francese Henri Bergson (cfr. ..) che Ungaretti, come molti altri scrittori italiani, ascoltò al Collège de France negli anni immediatamente precedenti alla guerra: sottolinea Ossola come per Bergson, sempre attento ai problemi linguistici ed espressivi, negare è un atto che mette in comunicazione in uno stesso sistema linguistico due distinte proposizioni (quella negata e quella, per contrasto, affermata). Lezione preziosa per Ungaretti, attento ai non detti, alle assenze e ai «vuoti», piú che ai «pieni» e alla tendenza alla declamazione propria di tanta poesia e cultura del suo tempo. vv. -. è il canto dell’abbandonarsi partecipe alla vita, che avrebbe potuto come far rinascere, in un mondo diverso, il senso e il valore di quella cantilena del Corano. v. . l’ho accompagnato: termine «tecnico» delle processioni funebri («accompagnare la salma»).

v. . ricordando l’indirizzo dell’albergo di Parigi, Ungaretti ricorre «ai modi della prosa ostentati» (Contini), con un procedimento che può ricordare quello del Palazzeschi de La passeggiata (cfr. p. ) o del Soffici di Aeroplano, che sarà abbandonato nei testi piú estremi de Il Porto Sepolto). v. . Ivry: sobborgo a sud di Parigi. vv. -. l’immagine del sobborgo della grande città, desolato come alla fine di una festa, dopo che si è smontato l’apparato di attrazioni e bancarelle varie (una decomposta fiera), è tutta di origine crepuscolare. Si noti che il v. , nella prima redazione, suonava: «continuamente». vv. -. questi versi conclusivi racchiudono ambiguamente due significati opposti: alludono al fatto che ormai piú nessuno sa nulla della vita di Sceab, che essa è affidata solo al ricordo del poeta; ma nello stesso tempo affermano il valore sacro della poesia, che conserva la memoria del nomade come su una stele funeraria.

T. LA NUOVA POESIA. GIUSEPPE UNGARETTI



Stasera (da L’Allegria) Il componimento (che nella prima edizione de Il Porto Sepolto recava il titolo Finestra a mare) è tra i piú rappresentativi di una tipologia ampiamente rappresentata ne L’Allegria, quella definita da Luciano Rebay «ad haiku». L’haiku è forma poetica nata in Giappone ma in seguito diffusasi in Occidente a partire dalla Francia (un caro amico di Ungaretti, il futurista napoletano Gherardo Marone, fu proprio all’inizio della guerra il primo traduttore in italiano degli haiku giapponesi, nella rivista «La Diana» alla quale collaborava anche Ungaretti): si tratta, propriamente, di un componimento di 17 sillabe ripartite in tre gruppi di rispettivamente 5, 7 e 5 sillabe, nel quale viene ritratto dal poeta un singolo aspetto della natura circostante. L’haiku si risolve perciò in esercizi virtuosistici di condensazione immediata, impressionistica della visione: e per la sua brevità acquista spesso un rilievo essenziale il titolo (come nel piú celebre ed estremo degli haiku ungarettiani, il «M’illumino / d’immenso» con il titolo Mattina, del 1917; ma cfr. anche, piú avanti, la forse altrettanto celebre Soldati, p. 727). Ungaretti a questi elementi aggiunge da parte sua la data, che è un richiamo alla categoria di diario, piú volte da lui dichiarata, de L’Allegria (scriveva per esempio nella prefazione all’edizione 1931: «Questo vecchio libro è un diario. L’autore non ha altra ambizione, e crede che anche i grandi poeti non ne avessero altre, se non quella di lasciare una sua bella biografia»). Qui l’immagine della balaustrata, leziosa e lievemente di maniera (da Paul Verlaine in poi, molti i balconi e le balaustrate serali nella poesia decadente) viene accesa con una sbrigliata fantasia analogica, che si volge a dare concretezza ad aspetti aleatori e astratti del sentire (per cui la non tangibile anche se concreta brezza e la completamente astratta malinconia trovano entrambe una concreta raffigurazione addirittura tattile – vi ci si può appoggiare – come quella della balaustrata).

Un «haiku»

Un diario

˜

Versa il  maggio 

Balaustrata di brezza per appoggiare stasera la mia malinconia

Silenzio (da L’Allegria) Nel mezzo della guerra, dell’oscurità, e tra i bagliori delle armi delle trincee del Carso (di cui, come al solito, viene indicato, con la data, il luogo preciso), con appena brevi fulgori estivi tanto piú preziosi quanto piú brevi, si affaccia un sogno di vera estate, il sogno della città natale, Alessandria d’Egitto: una città empita di sole, che sembra trascinare con sé tutta la realtà («e tutto è rapito in quel momento»). È un brandello di memoria tutto affidato all’intensità delle luci, di echi sonori appena percettibili (il limio / delle cicale), di immagini sospese nel nulla: che si isola con nettezza in mezzo al diario di guerra de Il Porto Sepolto, come un frammento perfettamente autosufficiente, che rivestirà fra l’altro grande importanza nella memoria interna laboriosissima di Ungaretti (il quale lo riecheggerà direttamente nel componimento intitolato 1914-1915, in Sentimento del Tempo, nel quale i versi iniziali, «Ti vidi, Alessandria, / friabile sulle tue basi spettrali / diventarmi ricordo / in un abbracio sospeso di lumi», riprendono i vv. 9-10 e i due versi finali di Silenzio). METRO: versi liberi, in cui il sillabato della parte finale trova un momento di distensione e come di allargamento nel penultimo verso.

Il sogno della città natale

Un frammento di luce tra i brandelli della guerra

˜

EPOCA





GUERRE E FASCISMO

-

Mariano il  giugno 

Conosco una città che ogni giorno s’empie di sole e tutto è rapito in quel momento Me ne sono andato una sera 

Nel cuore durava il limio delle cicale



Dal bastimento verniciato di bianco ho visto la mia città sparire lasciando un poco un abbraccio di lumi nell’aria torbida sospesi

v. . la natía Alessandria d’Egitto. v. . il sole è simbolo ricorrente, in Ungaretti, di godimento e fiducioso abbandono alle forze ristoratrici della natura, che «rapiscono» tutta la realtà (cfr. il primo verso di uno dei primi componimenti de L’Allegria, Ricordo d’Affrica: «Il sole rapisce la città»). vv. -. il verso insistente delle cicale viene analogicamente accostato al suono di una lima che ripercorre il suo breve percorso. vv. -. il bastimento che aveva portato Ungaretti a Parigi, nell’autunno del . vv. -. quanto resta a Ungaretti di questo mo-

mento cruciale nel suo vissuto è una sensazione luministica resa con una dolce analogia (un abbraccio di lumi… /sospesi), diversa da quelle sensuali e quasi feroci spesso presenti nella sua poesia. È un poco, un punto di energia appena, ma immensamente significativo (dice Ungaretti nel componimento che dà il titolo a Il Porto Sepolto: «Di questa poesia / mi resta/quel nulla/d’inesauribile segreto»). Quanto all’aria torbida, Carlo Ossola rileva come l’aggettivo rimandi sempre in Ungaretti a una sensazione di rimescolamento interiore, piú che a una connotazione naturalistica del paesaggio (si veda il v.  de I Fiumi).

I fiumi (da L’Allegria)

Una «carta d’identità»

Si tratta della poesia di Ungaretti forse piú conosciuta e celebrata in assoluto; «poesia di autoriflessione, di discesa in se stesso» (Guglielmi) per eccellenza: lo stesso poeta la definí la sua «carta d’identità», e cosí ne parlò nella Nota introduttiva all’edizione delle sue poesie nei «Meridiani» (1969): «è il vero momento nel quale la mia poesia prende insieme a me chiara coscienza di sé: l’esperienza poetica è esplorazione d’un personale continente d’inferno, e l’atto poetico, nel compiersi, provoca e libera, qualsiasi prezzo possa costare, il sentire che solo in poesia si può cercare e trovare libertà. Continente d’inferno, ho detto, a causa dell’assoluta solitudine che l’atto di poesia esige, a causa della singolarità del sentimento di non essere come gli altri, ma in disparte, come dannato, e come sotto il peso d’una speciale responsabilità, quella di scoprire un segreto e di rivelarlo agli altri». Il componimento svolge, nel tessuto de Il Porto Sepolto e nell’insieme de L’Allegria, una funzione di riepilogo musicale dell’intero «racconto» lirico (come capita, ha

T. LA NUOVA POESIA. GIUSEPPE UNGARETTI



notato Leone Piccioni, a particolari componimenti anche nelle altre raccolte). Carlo Ossola ha ricostruito la quantità di elementi delle altre poesie de Il Porto Sepolto che si possono qui ritrovare: e ha notato che l’immagine del «fiume delle generazioni» trae spunto da testi della poesia romantica francese (in particolare di Maurice de Guérin, 1810-1839, precursore del simbolismo al quale l’Ungaretti studente parigino dedicò una tesina). Pur nella sua concentrazione e nella consueta «sillabazione» del verso, qui il discorso poetico si distende e si articola in una serie di momenti successivi. La prima strofa (vv. 1-8) si svolge al presente, indicando la posizione del poeta nella desolata dolina del Carso e il suo immobile contemplare il movimento delle nuvole. Le quattro strofette successive (vv. 9-26) evocano il bagno preso al mattino nell’Isonzo e il disporsi del corpo del poeta ad asciugarsi al sole. Nelle successive tre strofe (vv. 27-41), al bagno dell’Isonzo (subito indicato con il dimostrativo Questo) viene attribuito il significato di un riconoscersi nel profondo respiro dell’universo, di un superamento dell’angoscia del non credersi in armonia. I vv. 42-44 ricollegano questa felicità a uno sguardo indietro alle epoche della vita del poeta. Tutte le strofe successive (vv. 25-69), collegate dalla ripresa anaforica di Questi/Questo/Questa, passano in rassegna i fiumi della vita del poeta (Serchio, Nilo, Senna), che sembrano trovare la loro «verità» nello specchio dell’Isonzo (nella nuda persistenza dell’essere umano e della natura di fronte alla desolazione della guerra) e nella nostalgia che si fissa nell’immagine della notte, in un distendersi e in un prolungarsi delle tenebre. L’insieme del componimento mostra come Ungaretti si trovi ormai di fronte a una tematica e a una strumentazione già pronta per gli inni del Sentimento del Tempo. Come può mostrare proprio quell’uso massiccio dell’anafora, qui «si attua la riduzione massima che Ungaretti compie del margine di movimento del discorso poetico, che è anche la massima riduzione di ogni sperimentalismo» (Bàrberi Squarotti), con la chiusura nella «circolarità perfetta, atemporale, del mito» (Ossola). METRO:

versi liberi.

Cotici il  agosto 





Mi tengo a quest’albero mutilato abbandonato in questa dolina che ha il languore di un circo prima o dopo lo spettacolo e guardo il passaggio quieto delle nuvole sulla luna Stamani mi sono disteso in un’urna d’acqua e come una reliquia ho riposato

vv. -. la «posizione di partenza» è quella di tante altre «istantanee» del primo Ungaretti, e potrebbe stare benissimo a sé, come episodio dell’epopea del soldato-poeta disorientato nell’orrore della notte bellica: egli si stringe disperatamente al piú vicino elemento concreto del paesaggio, qui l’espressionistico albero mutilato, abbandonato nella dolina (l’avvallamento geologico tipico del paesaggio carsico), e guarda quietamente lo spettacolo

sempre uguale delle nuvole sulla luna. Ma questa situazione si allarga gradualmente, nell’immagine (che per quel languore può far pensare a echi della poesia crepuscolare) del circo / prima o dopo lo spettacolo, che ricorda la «decomposta fiera» di In memoria (cfr. p. ). vv. -. l’immagine del poeta che si distende in una polla d’acqua piovana con atto quasi liturgico, come fosse una bara, un’acquasantiera (un’urna d’ac-

L’articolazione del discorso poetico

˜

EPOCA





L’Isonzo scorrendo mi levigava come un suo sasso



Ho tirato su le mie quattr’ossa e me ne sono andato come un acrobata sull’acqua











GUERRE E FASCISMO

-

Mi sono accoccolato vicino ai miei panni sudici di guerra e come un beduino mi sono chinato a ricevere il sole Questo è l’Isonzo e qui meglio mi sono riconosciuto una docile fibra dell’universo Il mio supplizio è quando non mi credo in armonia Ma quelle occulte mani che m’intridono mi regalano la rara felicità

qua per custodire una reliquia), o forse un grembo materno, è stata evidenziata da Ossola come assolutamente centrale nell’immaginario poetico ungarettiano, denso di «memorie prenatali» (e si veda, sempre ne L’Allegria, la lirica Universo: «Col mare / mi sono fatto / una bara / di freschezza»). vv. -. strofa estremamente pregnante: a un tempo stesso immagine analogica della «situazione» (per cui nel greto del fiume in parte inaridito – è agosto – si può saltare come un acrobata da una pietra all’altra senza toccare l’acqua) e un sapiente rimando interno al circo del v. . vv. -. il poeta si sveste dei panni sudici di guerra, segno della «situazione» nella sua fisica, urgente presenza, e si accoccola al sole (cfr. la nota al v.  di Silenzio, p. ): l’atto è spontaneamente paragonato a quello del beduino nel deserto, e questo accende nella memoria di Ungaretti il ricordo del-

la natía Africa. È il punto di partenza per il viaggio all’interno del proprio vissuto, per ripassare epoche della vita (vv. -). vv. -. l’Isonzo, il fiume del Friuli insanguinato dagli inesauribili, folli assalti frontali dei primi anni di guerra, come un fiume infernale per la morte di decine di migliaia di soldati incolpevoli, è eletto a tempio della resurrezione della propria sacrale memoria. Il poeta vi si riconosce: questo è l’atto centrale, la presa di identità dalla quale discende il riepilogo della vita che segue. L’annullamento della personalità (una docile fibra / dell’universo tra le tante) è pura petizione di principio poiché, al contrario, è proprio qui che il soldato si afferma come poeta, sacerdote di se stesso. vv. -. nel suo farsi fibra di un corpo piú ampio, il poeta ricrea un’armonia che è, consciamente o meno, di chiara natura religiosa: a un’entità tra-

T. LA NUOVA POESIA. GIUSEPPE UNGARETTI



Ho ripassato le epoche della mia vita 







Questi sono i miei fiumi Questo è il Serchio al quale hanno attinto duemil’anni forse di gente mia campagnola e mio padre e mia madre Questo è il Nilo che mi ha visto nascere e crescere e ardere d’inconsapevolezza nelle estese pianure Questa è la Senna e in quel suo torbido mi sono rimescolato e mi sono conosciuto Questi sono i miei fiumi contati nell’Isonzo



Questa è la mia nostalgia che in ognuno mi traspare ora ch’è notte

scendente appartengono infatti le occulte mani che intridono (imbevono, riempiono di liquidi) il corpo e l’anima del soggetto, regalandogli finalmente la felicità (piú tardi Ungaretti spiegherà: «sono le mani eterne che foggiano assidue il destino di ogni essere vivente»). Questa felicità (che equivale alla vitalistica «allegria di naufragi») trova la propria giustificazione, il proprio nutrimento, nella beatitudine e nella nostalgia della memoria. vv. -. il Serchio è il fiume che scorre nella provincia di Lucca: da lí, e in particolare dal borgo contadino di San Concordio, provenivano i genitori di Ungaretti (mio padre e mia madre) trasferitisi in Egitto; cosí della sua origine egli dice in una lettera a Giovanni Papini del novembre : «Sono nato dal popolo, da contadini che da un migliaio d’anni in un fiato di terra in san Concordio di Lucchesia si rifacevano quietamente, razza come poche altre ramificate al chiaro». vv. -. il Nilo è naturalmente il fiume sacro dell’Egitto, che apre il suo delta proprio nella regione

di Alessandria, nelle estese pianure nelle quali nasce e cresce Ungaretti. È quello il luogo, di eterna nostalgia, nel quale il poeta ha potuto anche vivere la sua spensierata (inconsapevole) adolescenza. vv. -. la Senna è il fiume di Parigi. Commenta lo stesso Ungaretti: «È Parigi che incomincia a darmi, prima di quella piú compiuta che mi darà la guerra, piú chiara conoscenza di me stesso, che era stata impotente a concedere a Moammed Sceab che vi era venuto con me e che non ebbe in grazia di incominciare a conoscersi senza morirne» (cfr. In memoria, p. ). Il conoscersi è per Ungaretti un rimescolarsi, e quindi le acque del fiume sono torbide (cfr. la nota ai vv. - di Silenzio). vv. -. il poeta torna a essere come sbalestrato nell’oggi, nell’ora, ch’è notte e in cui la vita non è altro che una corolla di tenebre. Tutte le immagini sacre dei fiumi divengono oggetto di nostalgia. Ma in realtà nulla è perduto: il rito si è compiuto, l’uomo ha acquistato una dimensione nuova; al «tem-

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GUERRE E FASCISMO

-

che la mia vita mi pare una corolla di tenebre po dell’alienazione» e della «dispersione» (quello della guerra) è ormai succeduto quello, «puro», dell’«epifania» (Guglielmi). Non a caso le tenebre

non sono piú impenetrabili e assolute: ma sono invece una corolla quasi decorativa attorno a un «fiore» di chiarezza esistenziale e trionfo poetico.

Allegria di naufragi (da L’Allegria)

Il «riavvio» dopo il «naufragio»

«L’allegria» sostanziata di «naufragi»

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Scritta nel 1917, subito dopo l’esperienza segnata nelle pagine de Il Porto Sepolto, la poesia si fa emblematica (al punto di farsi titolo dell’edizione del 1919) di uno stato d’animo tipicamente ungarettiano, che anzi è proprio Ungaretti a codificare nella storia della poesia italiana: quello del «riavvio» dopo il disastro (il naufragio), della ripresa pervicace e incorreggibile, segno di vitalità inesausta, tanto piú incoercibile quanto piú esposta a limitazioni e ostacoli di tutti i generi (la guerra è ancora in pieno svolgimento). Dopo il naufragio (motivo frequente nella poesia decadente, celebrato in primo luogo ne Le bateau ivre di Rimbaud: cfr. CANONE EUROPEO, tav. 179), Ungaretti introduce uno scatto di energia: anziché perdersi nell’abisso e sparirvi, come fece il poeta francese, riprende / il viaggio: e lo fa subito. Una «ripresa» tanto istantanea che in realtà – ci si accorge – è strettamente contemporanea, quasi si identifica con il momento della caduta, del naufragio. L’uno è necessario all’altra; l’euforia irriflessiva, puramente epidermica, di questi momenti si nutre, si carica di naufragio: come in altri componimenti sarà per la pena e persino per il dolore di Ungaretti, uomo di eterni naufragi ed eterne allegrie. L’autentico lupo di mare ha in realtà estremo bisogno di contemplare l’abisso, misurarlo, per poter sperimentare quell’euforia paradossale: infatti l’allegria di Ungaretti è particolare, specialissima, proprio per il suo essere sostanziata di naufragi. Ma il poeta coglie, con gli strumenti che gli sono propri, uno stato d’animo che già da qualche tempo aveva cittadinanza nella letteratura italiana. Nel gennaio del 1914 era stato pubblicato infatti da «Lacerba» il manifesto del Controdolore di Aldo Palazzeschi (cfr. 10.3.8), il quale celebrava, nei toni buffoneschi e grotteschi propri del poeta fiorentino, proprio il dolore come premessa necessaria al moto di rigetto «allegro» del controdolore. Le consonanze tra le posizioni dei due poeti sono state piú volte messe in luce dalla critica, che ha segnalato come proprio negli anni 1914-1915 non mancarono influssi reciproci anche in sede di tecnica compositiva. Versa il  febbraio 



E subito riprende il viaggio come dopo il naufragio un superstite lupo di mare

T. LA NUOVA POESIA. GIUSEPPE UNGARETTI

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Soldati (da L’Allegria) Un altro degli «haiku» (cfr. il commento a Stasera) di Ungaretti: celeberrimo, divenuto pressoché proverbiale, per il suo definire la provvisorietà, la precarietà della vita al fronte. Eppure, nella sua apparente semplicità, nella linearità quasi prosastica, si tratta di un testo lavoratissimo e a un tempo carico di memoria letteraria. Lavoratissimo non nell’elaborazione dei versi, che restano gli stessi lungo le varie edizioni de L’Allegria, ma nella spezzatura ritmica interna a essi (quella che Giuseppe De Robertis definiva «metrica interna», perché simili microscopiche oscillazioni erano percepite soprattutto dal poeta stesso, e gli erano in qualche modo vitali, come se facessero parte del suo metabolismo). Carico di memorie perché il paragone della vita umana con quella delle foglie degli alberi compare già in un frammento di Mimnermo, poeta greco del secolo VII a.C. («Siamo come le foglie nate alla stagione florida…»: trad. di F. M. Pontani), e viene poi rielaborato in momenti e luoghi diversissimi della letteratura europea.

La precarietà della vita al fronte

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Bosco di Courton luglio 

Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie

La madre (da Sentimento del Tempo) Appartenente alla sezione «Leggende», la quarta di Sentimento del Tempo, la poesia è in assoluto tra le piú celebri della raccolta. Una versione molto diversa da quella finale (frutto di una elaborazione che deve aver avuto luogo nel 1930, la data che il poeta indica nell’ultima edizione) apparve su «L’Italia letteraria» del 27 ottobre 1929. L’espressione del dolore per la morte della madre non raggiunge qui l’intensità che avranno alcuni componimenti de Il Dolore: vi sono elementi che risentono di un preziosismo «monumentale» (come l’immagine della pietrificazione: Sarai una statua davanti all’Eterno) che riceve un’accentuazione in senso emblematico e celebrativo dalla recente «conversione» ufficiale del poeta all’ortodossia cattolica. La metrica classica, tornata ormai prepotentemente in uso, non fa che confermare quest’impressione di solennità e di austero rigore figurativo. METRO: endecasillabi e settenari incastonati in un prezioso ordito non rimato ma con sapienti assonanze e rispondenze ritmiche tra i versi.



E il cuore quando d’un ultimo battito Avrà fatto cadere il muro d’ombra, vv. -. il poeta immagina il proprio ricongiungimento (con quel delicato prendersi per mano) con la ma-

Il dolore «monumentale» per la morte della madre

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Per condurmi, Madre, sino al Signore, Come una volta mi darai la mano. 

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In ginocchio, decisa, Sarai una statua davanti all’Eterno, Come già ti vedeva Quando eri ancora in vita. Alzerai tremante le vecchie braccia, Come quando spirasti Dicendo: Mio Dio, eccomi. E solo quando m’avrà perdonato, Ti verrà desiderio di guardarmi.

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Ricorderai d’avermi atteso tanto, E avrai negli occhi un rapido sospiro.

dre dopo la propria morte, quando cioè il suo cuore avrà avuto l’ultimo battito: la separazione tra il mondo dei vivi e quello dei trapassati trova un’intensa raffigurazione analogica nel muro d’ombra. Da notare l’esordio con la congiunzione, tipico di questo secondo Ungaretti (Mengaldo), a sottolineare, da parte del poeta, la ricerca di continuità tra i vari episodi della raccolta. vv. -. la figura solenne, ieratica dell’antica Madre (religiosamente connotata dalla maiuscola) del poeta non gli appariva (notare la forma letteraria vedeva per la prima persona singolare «vedevo») diversa quando era ancora in vita. vv. -. Gianfranco Contini vedeva in questi versi

di raggelata fissità, nell’atteggiarsi della figura nella postura di un’icona medievale, «una tecnica di statua romanica». vv. -. la severità della figura materna è sottolineata da questa singolare mancanza di tenerezza: solo all’atto del perdono divino nei confronti del proprio figlio l’anziana donna, da tanto tempo da lui divisa dal muro d’ombra, che tanto tempo, cioè, lo ha atteso (come detto al v. ), pone gli occhi su di lui. v. . solo nell’immagine finale si ravvisa una punta di calore, un cenno dell’antica tenerezza: in quel rapido sospiro di sollievo e pacificazione che si legge improvviso negli occhi della madre.

Giorno per giorno (da Il Dolore)

La tragedia collettiva della guerra e quella personale della morte del figlio

Il Dolore si compone di poesie scritte tra la fine degli anni Trenta e il 1944, e in questo senso rappresenta compiutamente l’esperienza della seconda guerra mondiale, la grande tragedia collettiva nell’ambito della quale il poeta soffre anche la tragedia personale della perdita del figlio Antonietto di nove anni, avvenuta quando Ungaretti si trovava in Brasile a insegnare letteratura italiana. Cosí scriverà nella nota all’edizione di Tutte le poesie del 1969: «Fu la cosa piú tremenda della mia vita. So che cosa significhi la morte, lo sapevo anche prima; ma allora, quando mi è stata strappata la parte migliore di me, la esperimento in me, da quel momento, la morte. Il Dolore è il libro che di piú amo, il libro che ho scritto negli anni orribili, stretto alla gola». Tale esperienza, come scrive Guido Guglielmi, «entra di forza ne Il Dolore, non piú però in una prospettiva dinamico-temporale aperta come ne L’Allegria ma in una prospettiva tragicamente chiusa. (Letteralmente Il Dolore è un rovesciamento de L’Allegria)». E alla prospettiva personale si sovrappone in-

T. LA NUOVA POESIA. GIUSEPPE UNGARETTI

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scindibilmente quella collettiva; come scrive ancora Guglielmi: «Si tratta della morte che minaccia il mondo storico, la memoria, le tradizioni, il senso della letteratura». Giorno per giorno, come dichiara il titolo, è un insieme di diciassette strofe, singoli pezzi tra loro separati (qui se ne presentano i primi sette), che costituiscono una sorta di diario trasfigurato, come una Via Crucis stilizzata (Piccioni), dell’agonia e della morte del piccolo Antonietto: la stessa vicenda, narrata su un piano mitico e rituale in un’altra grande poesia della raccolta, Tu ti spezzasti, è qui vissuta «su un piano personale, intimistico» (Cambon). METRO:



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endecasillabi e settenari.

 «Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto…» E il volto già scomparso Ma gli occhi ancora vivi Dal guanciale volgeva alla finestra, E riempivano passeri la stanza Verso le briciole del babbo sparse Per distrarre il suo bimbo…  Ora potrò baciare solo in sogno Le fiduciose mani… E discorro, lavoro, Sono appena mutato, temo, fumo… Come si può ch’io regga a tanta notte?…

Mi porteranno gli anni Chissà quali altri orrori, Ma ti sentivo accanto, M’avresti consolato…



 Mai, non saprete mai come m’illumina L’ombra che mi si pone a lato, timida, Quando non spero piú… . il primo pezzo si apre improvvisamente con la voce, che si sta spegnendo, dello stesso bambino morente. I suoi lineamenti, sfatti dalla malattia, rendono già scomparso (smagrito) il suo volto; fatta eccezione per gli occhi ancora vivi con i quali Antonietto dà un ultimo sguardo al mondo, senza farsi distrarre dai pietosi giochi del babbo, il quale nutre i passeri che riempiono la stanza. . ciò che stupisce il poeta è la propria capacità di sopravvivenza, la capacità di durare (reggere) nelle attività di sempre, dopo tanto lutto, parlando, lavorando, facendosi prendere dalle normali

preoccupazioni e abitudini della vita (sono appena mutato, temo, fumo…). Ma, come diceva in una poesia de L’Allegria (San Martino del Carso), «È il mio cuore / il paese piú straziato»; il suo è un dolore intimo, un «pianto / che non si vede», una notte perenne che ha oscurato la sua anima. Del resto, «La morte / si sconta / vivendo» (Sono una creatura, sempre ne L’Allegria). . l’ombra che conforta (illumina) con la sua presenza timida il poeta nei suoi momenti di disperazione è appunto quella del figlio morto.

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GUERRE E FASCISMO

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 Ora dov’è, dov’è l’ingenua voce Che in corsa risuonando per le stanze Sollevava dai crucci un uomo stanco?… La terra l’ha disfatta, la protegge Un passato di favola…  Ogni altra voce è un’eco che si spegne Ora che una mi chiama Dalle vette immortali…  In cielo cerco il tuo felice volto, Ed i miei occhi in me null’altro vedano Quando anch’essi vorrà chiudere Iddio…

. è questo il brano centrale di Giorno per giorno: vi si tocca con mano il funzionamento della poesia di Ungaretti. Il momento è di estrema prostrazione (la memoria del bambino vivo e della sua ingenua voce si sfalda in un passato di favola: alla perdita reale del figlio si affianca anche, nel poeta, lo scolorire tormentoso del ricordo) e la poesia lo registra, parrebbe, con la massima sincerità e immediatezza; eppure si fa strada qui un complesso gioco di citazioni che incastona i versi celebri di A Silvia di Leopardi vv. - («Sonavan le quiete / stanze, e le vie dintorno / al tuo perpetuo canto»: Rebay) con quelli del Canzoniere di Petrarca, CCXCIX, - («Ov’è l’ombra gentil del viso umano / ch’òra e riposo dava a l’alma stanca?»: Noferi), combinando insomma in un nesso inscindibile due dei quattro grandi maestri (con Virgilio e Mallarmé) di Ungaretti. Si tratta di tracce indelebili,

automatiche, nella memoria del poeta, che si associano spontaneamente a momenti di straordinaria tensione emotiva. . La voce di Antonietto chiama il poeta dalle vette immortali dell’aldilà: ogni rumore che si dice umano (ogni altra voce) diviene indifferente al poeta, un’eco che si spegne. L’immagine dell’eco richiama anche «il modulo sintattico piú costante de Il Dolore», e cioè «la ripetizione ossessiva della stessa parola nel vuoto […] del presente-privazione», il «risuonare della parola su se stessa sino a esplodere in grido» (Ossola). . Come già ne La madre (cfr. p. ), la morte di un familiare strettissimo fa immaginare a Ungaretti la propria: quando cioè Dio vorrà chiudere anche i suoi occhi e potrà rivedere il felice volto del bambino, cancellando ogni altra cosa, senza piú vedere null’altro.

T. LA NUOVA POESIA. LEONARDO SINISGALLI

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Leonardo Sinisgalli Poesia per una cicala (da Vidi le Muse) Datata 1937, è una tra le poesie di Sinisgalli dedicate a esseri apparentemente futili e marginali. Qui la lode della cicala prende avvio dal consueto paragone tra la formica e la cicala (con implicito riferimento alla celebre favola di Esopo ripresa da La Fontaine, che oppone lo zelo, l’operosità della formica, al vano cantare della cicala). Il poeta afferma la vicinanza della propria sorte allo stridore della cicala, al tremolio continuo del suo canto; da questa affermazione sorge (dal v. 6) un ricordo del passato, di un tempo felice in cui egli si affidava a quel canto estivo (indicato qui, con espressivo enjambement, come un’ira / insistente), che lo conduceva al sonno. Ma da quel passato il poeta ritorna subito al presente (dal v. 10), constatando che nello sfacelo del tempo trascorso (la mia giornata è la giornata della vita) gli resta solo un po’ di polvere: eppure di quel resto, di quella spoglia sente tutto il valore, risentendo lo stormire del melo in cui si nascondeva la cicala e il nascere del suo canto. È come un ritorno della propria vita, consumatasi come lo stridore della cicala: uno sguardo su di sé affidato a questa presenza naturale, in modi che associano una leggerezza di favola, uno spirito sottilmente ironico, un brivido di inquietudine e di appena accennata malinconia. [EDIZIONE: Leonardo Sinisgalli, Vidi le Muse. Poesie 1931-1942, a cura di R. Aymone, Avagliano, Cava de’ Tirreni 1997] METRO: versi di varia lunghezza, cantabili ma con alcune irregolarità (ottonari, novenari, tre settenari ai vv. 6, 10, 16, piú un decasillabo al v. 4), in un fitto sistema di rime: abcbcdeedafghagfh.



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Io non so cantare lo zelo Della formica immortale. Piú vicino alla mia sorte È lo stridore della cicala Che trema fino alla morte. Nel tempo mio diletto Mi confidavo a quell’ira Insistente che mi assopiva Con la cicala nel petto. Ora nello sfacelo Della mia giornata mi resta Un po’ di polvere in pugno, Ma tanto vale la tua spoglia Che ancora risento quel melo Stormire e nell’aria di giugno La tua allegria funesta Nascere dietro una foglia.

v. . trema: con il tremore si designa il canto della cicala. vv. -. mi affidavo a quella furia insistente che mi faceva addormentare (appunto quella del canto della cicala), come se la cicala fosse dentro al mio petto, continuasse a stridere dentro di me. v. . praticamente nulla: come alla cicala nella favola. v. . spoglia: resto, cadavere (la polvere che gli resta è come il cadavere della cicala, quanto resta di quel tempo passato); da notare la spezzatura me-

trica, per cui per un attimo si passa a un ritmo esplicitamente giambico. vv. -. funesta è l’allegria della cicala, coincidente con l’ira, la furia (cosí come la spoglia finisce per coincidere con la nascita). Nella cantabilità di questa lirica, rientra anche un’eco facile dell’espressione ira funesta che ricorre nel secondo verso della versione dell’Iliade di Vincenzo Monti («Cantami, o Diva, del Pelide Achille / l’ira funesta»): l’ira, anticipata al v. , si converte qui in allegria.

La «sorte» del poeta vicina allo «stridore» della cicala

Il valore di quel poco di «polvere» che gli resta

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GUERRE E FASCISMO

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Salvatore Quasimodo Vento a Tíndari (da Acque e terre)

Il mito di un paradiso perduto

La pena dell’esilio

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Già presente nella prima raccolta pubblicata nel 1930, Acque e terre, questa poesia è tra le piú celebri e tipiche dell’ermetismo di Quasimodo; «ha l’andatura leggera e alata di un inno», il cui senso tende a dissolversi «in musica» (Montale). Essa prende spunto da un episodio reale della vita del poeta, una gita insieme ad alcuni amici nella località di Tindari, su di un dirupo affacciato sul mare, nella primavera del 1929. Il ricordo della gita «è l’occasione per stabilire un colloquio con un luogo che per lui e in lui è diventato il mito di un paradiso perduto: Tindari viene personificata come una realtà vissuta nel sogno. Il poeta è lontano e rievoca quell’avventura al sussulto della memoria e alla pressione del sentimento. In questa lievitazione fantastica egli rivive il suo antico stato d’animo di solitudine interiore, in cui immagini fervide di vita si contrappongono appunto a quelle di una solitudine che era già presente, interna e propria dell’uomo» (Tedesco). Il paesaggio che si proietta verso il mare e si espande nell’aria, pieno di echi e di suggestioni mitiche, sembra come assalire e investire il poeta, evocando la lacerazione dell’esilio, di una vita faticosa vissuta lontano; nel procedere della poesia Tindari acquista una sorta di identità femminile (tanto che c’è chi ha sostenuto che la poesia sarebbe legata al ricordo di una donna vera e propria: cfr. la nota ai vv. 19-22), a cui il poeta confida la pena del suo essere altrove, di una vita sradicata da se stessa, dominata da una tristezza in cui sembra perduta quella ricerca di armonia che il paesaggio della Sicilia sembrava promettergli. Ma tutto si scioglie in un rasserenarsi del paesaggio, mentre, sollecitato da uno degli amici che lo accompagnano, il poeta si desta dal suo turbamento, e finge il timore di sporgersi dalla rupe, mentre in lui riecheggia l’eco del vento che l’ha cercato, suscitando la sua sensazione di perdita, di doloroso distacco. Questa meditazione sulla terra della propria origine e sulla propria condizione di esule viene espressa attraverso una serie di passaggi analogici, in uno specchiarsi continuo tra le immagini naturali, come percorse da un respiro segreto e misterioso, e le sensazioni dell’io, in una ricerca di sfumature, di aperture verso lo spazio aereo e di ripiegamenti entro una chiusa intimità. [EDIZIONE: Salvatore Quasimodo, Poesie e discorsi sulla poesia, a cura di G. Finzi, Mondadori, Milano 1971] METRO: versi liberi, con prevalenza dell’endecasillabo.



Tíndari, mite ti so fra larghi colli pensile sull’acque dell’isole dolci del dio, oggi m’assali e ti chini in cuore.

vv. -. mite ti so: «ti conosco come mite». Tíndari è una località in provincia di Messina, in cui si trovano i resti dell’antica Tindaride (nei cui pressi ebbe luogo una famosa battaglia navale dei Romani contro i Cartaginesi). È posta su di un’altura protesa sul mare, e dunque pensile (sollevata, quasi sospesa) rispetto a esso. v. . le isole Eolie, che nell’antichità si reputavano dimora di Eolo, dio dei venti.

v. . oggi: «oggi che ritorno da te (ma in una condizione di esiliato, v. ) mi aggredisci»: anche la visione di ciò che è mite può assalire. Da notare l’ellissi della congiunzione tra il v.  e il , che rende i due membri del periodo parzialmente irrelati, e sembra preludere alla dimensione aerea della strofa seguente (analoga ellissi tra i vv.  e ). v. . ti pieghi sul mio cuore, lo commuovi.

T. LA NUOVA POESIA. SALVATORE QUASIMODO

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Salgo vertici aerei precipizi, assorto al vento dei pini, e la brigata che lieve m’accompagna s’allontana nell’aria, onda di suoni e amore, e tu mi prendi da cui male mi trassi e paure d’ombre e di silenzi, rifugi di dolcezze un tempo assidue e morte d’anima. A te ignota è la terra ove ogni giorno affondo e segrete sillabe nutro: altra luce ti sfoglia sopra i vetri nella veste notturna, e gioia non mia riposa sul tuo grembo. Aspro è l’esilio, e la ricerca che chiudevo in te d’armonia oggi si muta in ansia precoce di morire; e ogni amore è schermo alla tristezza, tacito passo nel buio dove mi hai posto amaro pane a rompere.

vv. -. «Salgo su picchi aerei a strapiombo, assorto nell’ascolto del vento che soffia tra i pini»: notare come l’aggettivo aereo, molto frequente in Quasimodo, sia qui «incorniciato ambiguamente, riferendosi a entrambi, da due sostantivi oppositivi che suggeriscono ascensione e crollo vorticoso» (Martignoni). vv. -. la brigata degli amici, che ha accompagnato il poeta, si distacca da lui nell’escursione, e il suono confuso delle loro voci, care al poeta (onda di suoni e amore), si disperde nell’aria. v. . è ripresa ed estensione del v.  (oggi m’assali). v. . da cui: riferito a tu; allude al distacco del poeta dall’isola natía, al suo esilio, sottolineato dall’avverbio male, che indica lo stato d’infelicità che ha rappresentato per il poeta. vv. -. sono le varie modalità in cui il tu invocato prende il poeta: «e mi prendono paure fatte di ombre e di silenzi, dolci rifugi da me un tempo assiduamente frequentati e una disperazione dentro l’anima». vv. -. «T’è ignoto il luogo del mio esilio, dove mi sembra di affondare ogni giorno di piú, e dove compongo versi quasi in segreto». Nella prima edizione seguiva un verso, poi eliminato: «fra gente petrosa ai sogni».

vv. -. «una luce notturna (lunare forse), diversa da quella che mi tocca mentre scrivo, si proietta (ti sfoglia) sui vetri delle tue finestre, e dentro di te si trovano delle felicità che a me oramai sono estranee, escluse»; ma Salvatore Pugliatti, amico di antica data del poeta, ha visto in questa lirica il riferimento a una donna, il cui ricordo per tutta la poesia si legherebbe alla suggestione del luogo. vv. -. «la ricerca d’armonia, quella stessa armonia che un tempo mi pareva in te compiuta, si trasforma ormai in una precoce ansia di morte»; nella prima edizione al posto di si muta si leggeva «si scarna». vv. -. e ogni amore che coltivo in questo esilio non è altro che un modo di ripararmi dalla tristezza della mia vita attuale, un silenzioso passo che mi fa avanzare nella sua oscurità. vv. -. probabilmente: «in cui, per trovare un lavoro (che non amo) e pane, che tu (Tindari: Sicilia) non potesti offrirmi, ho dovuto trasferirmi»; la necessità della sussistenza materiale lontano dalla patria viene indicata con un’immagine fortemente espressiva, quella del rompere un pane amaro perché del sapore dell’esilio, con eco di una celebre metafora dantesca, proprio riferita all’esilio: «Tu proverai sí come sa di sale / lo pane altrui» (Para-

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GUERRE E FASCISMO

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Tíndari serena torna; soave amico mi desta che mi sporga nel cielo da una rupe e io fingo timore a chi non sa che vento profondo m’ha cercato.

diso, XVII, -). vv. -. dopo l’assalto (v. ), cessato il vento, Tindari torna a essere serena per il poeta: un amico lo distoglie dai suoi pensieri, chiamandolo, e lo invita a sporgersi da un’alta rupe verso il cielo. vv. -. il poeta finge di aver timore (vertigine,

forse, di fronte al precipizio), per dissimulare la sua emozione, di fronte a chi non sa che è stato visitato dal vento (secondo quanto detto ai vv. -). Nella prima redazione tutto ciò era detto in forma piú esplicita: «e fingo timore a chi non sa del vento / che m’ha cercato l’anima».

Alle fronde dei salici (da Giorno dopo giorno)

La Storia ha imposto l’abbandono della poesia

Un nuovo impegno verso la realtà storica

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Compresa nella raccolta Giorno dopo giorno, pubblicata nel 1947, questa poesia si rivolge ai recenti orrori dell’occupazione nazista: gli anni 1943-1944 vengono «assunti come spettri temporali del “silenzio” o “non parola” o “non canto”» (Macrí). Ciò che è accaduto ha imposto ai poeti (di cui Quasimodo, parlando alla prima persona plurale, vuol come rappresentare la voce collettiva) l’abbandono della poesia, li ha costretti ad appendere alle fronde dei salici (che nel loro oscillare simbolizzano il dolore e il pianto) le loro cetre. Quella dei salici oscillanti al vento è peraltro la sola immagine del componimento che si ricollega a quelle consuete nella poesia ermetica: per il resto vi dominano immagini piú crudamente realistiche, che in rapido scorcio presentano alcuni terribili eventi degli anni appena trascorsi. Il poeta ermetico cerca cosí di muoversi verso un nuovo «impegno» e di cercare un linguaggio piú diretto, piú disposto a confrontarsi con la realtà storica e sociale. METRO:



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endecasillabi sciolti.

E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti abbandonati nelle piazze sull’erba dura di ghiaccio, al lamento d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo? Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese, oscillavano lievi al triste vento.

v. . nero: disperato. v. . per voto: il silenzio era dunque un dovere morale.

v. . cetre: antichi strumenti musicali, tradizionale immagine della poesia, del canto.

T. LA NUOVA POESIA. ALFONSO GATTO

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Alfonso Gatto Alla mia bambina (da Morto ai paesi) Dalla raccolta Morto ai paesi (pubblicata nel 1937) si riporta questa poesia, in cui l’immagine della bambina si dilata e si espande in un flusso di analogie con i piú vari aspetti della natura: è un movimento di immagini che va al di là dei precisi significati e mette in campo dati sensoriali diversi, dallo sguardo del primo verso a quel canto notturno che sembrano fare le porte mosse dalla deriva del vento (vv. 3-5), al respiro che trema nel cuore segreto della natura, a quel prolungarsi del silenzio nel volto e nel corpo della madre, che assume essa stessa l’aspetto di bambina, come riavvolta su se stessa (v. 12). In questo sviluppo si dà come un’incertezza fra il prima e il dopo la nascita, la figlia appare come un compimento della natura corporea della madre, le due figure femminili sembrano immergersi e come fondersi nel mistero di quella notte incarnata / nel rigoglio del seno. [EDIZIONE: Alfonso Gatto, Poesie (1929-1969) scelte dall’autore, introduzione di L. Baldacci, Mondadori, Milano 1972] METRO: quattro quartine di versi brevi (settenari, ottonari e novenari, e due senari ai vv. 11 e 14), a rime alternate abab.

Lo sguardo delle marine serene fino alla morte, povere notti supine cantate sulle porte 

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

alla deriva del vento ti resero nata d’amore. Ad ascoltare, eri il lento respiro che trema nel cuore nelle foglie, nel mare, silenzio caduto sul volto di mamma che pare bambina in sé sola rivolta e ridente. Tu, nata, compivi il sereno, la sua notte incarnata nel rigoglio del seno.

v. . supine: l’aggettivo introduce a una sorta di personalizzazione del dato naturale (le notti sono come sdraiate sul dorso, con il volto in su), nel gioco delle vibranti sinestesie di cui è fatta questa poesia. vv. -. le porte, con il rumore suscitato dal vento che le apre e le chiude, parrebbero dunque far sí che le notti stesse siano cantate, percorse dal canto.

v. . Ad ascoltare: «All’ascolto, se ti ascoltavo». v. . «coronavi la serenità del paesaggio, (è il paesaggio attraversato dal movimento analogico della poesia, fatto di marine, di notti, di vento, di foglie ecc.), davi compimento al suo carattere notturno, che ha preso vita nel rigoglio vivo del seno della madre».

Libertà immaginativa

La figlia e la madre si fondono con la natura

˜

˜ TESTI

10.8 EUGENIO MONTALE Ossi di seppia In limine

Il componimento messo «sulla soglia» (appunto In limine) già nella prima edizione degli Ossi (1925) è stato scritto nel 1924 e, come indicherà l’autore in una lettera a Giacinto Spagnoletti del 25 agosto 1960, intendeva «essere la summa o il congedo di tutto il resto»: la sua natura introduttiva è messa in evidenza anche graficamente dal carattere corsivo. La parola poetica si inserisce qui subito entro l’immagine dell’orto, che evoca tanti giardini e orti della tradizione, e in primo luogo i piú recenti «orti conclusi» dannunziani (cfr. la lirica Hortus conclusus in T9.6). La chiusura dell’orto, limitato da un erto muro, qui si pone anche come immagine della chiusura in se stessa di un’esistenza separata dal mondo, priva di senso e di identità: prigioniero, come ogni essere umano, di questa rete, di questa mancanza di senso, il poeta si rivolge a un tu, presenza costante nella poesia di Montale, che volta per volta può indicare una figura femminile, un essere umano fraterno, il lettore solidale e cosí via. È possibile comunque che il tu in questione sia qui dell’attrice Paola Nicoli, la stessa interlocutrice di Crisalide e di Casa sul mare, poesie a cui questa è fortemente collegata; ma Rosanna Bettarini ha dimostrato come il destinatario femminile (dichiarato da Montale come lo stesso di Incontro, Stanze e Casa sul mare) sia già qui quello di «Annetta», che ricomparirà nella Casa dei doganieri, e che «nascosta sotto Arletta, o sotto il toponimo di Annecy, o sotto il semplice monosillabo esclamativo Ah! e sotto quello che dio vuole, è stata per piú di mezzo secolo, da un capo all’altro del Libro, una perpetua crittografia, una parola sotto la parola, un ipogramma permanente». A questo tu, comunque, a questa presenza umana la voce poetica annuncia la possibilità di un’uscita, di una conquista di vita, di un riconoscimento di senso (già indicati all’inizio dall’immagine del vento). Questa possibilità si dà però come qualcosa di misterioso, di improbabile (il fantasma che ti salva): il poeta stesso sa di non poterla attingere, ma ardentemente invita l’interlocutore a procedere, a cercare comunque di uscire da quella rete, di andare comunque al di là; rimasto prigioniero, avrà almeno la consolazione di vedere libero quel tu. Si tratta di un’appassionata preghiera, il cui linguaggio si appoggia (specie nel lessico) su di una serie di preziosi riferimenti letterari, che danno al lettore l’impressione che la voce poetica venga come da lontano, da un io come avviluppato nel reliquiario di cui al v. 5. Cosí si può seguire lo svolgersi delle quattro strofe, pur considerando che nel discorso resta un margine di ambiguità, e che dunque non tutto è immediatamente parafrasabile: 1. il vento annuncia l’irrompere possibile della vita nel luogo chiuso di un’esistenza prigioniera di memorie rapprese e morte, che è piú reliquiario che orto; 2. in quello spazio chiuso si avverte il sommovimento della natura, un frullo che sembra trasformarlo in un crogiuolo dove si espandono le forme originarie della vita; 3. al rovello che lacera chi è prigioniero si oppone la possibilità di procedere, di trovare, per caso, il fantasma che salva, mentre si affaccia l’immagine, subito cancellata, della vita che sarà; 4. se il destinatario a cui si rivolge riuscirà a fuggire, a trovare la salvezza, il poeta, pur rimanendo prigioniero, ne avrà comunque sollievo. [EDIZIONE: Eugenio Montale, L’opera in versi, a cura di R. Bettarini e G. Contini, Einaudi, Torino 1980] 4 strofe di 5 (la prima e la terza) e 4 versi (la seconda e la quarta). La struttura è piú libera nelle strofe di 5 versi, composte da endecasillabi, alternati a qualche settenario: una rima lega il primo e il quinto verso, e nella terza strofa anche il secondo e il quarto (AbCBA). Le quartine, composte di soli endecasillabi, hanno invece uno schema di rime tradizionale: ABBA nel primo caso, ABAB nel secondo.

Un “io” prigioniero

Un “tu” a cui si augura la liberazione

I motivi delle quattro strofe

METRO:

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EPOCA

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GUERRE E FASCISMO

-

Godi se il vento ch’entra nel pomario vi rimena l’ondata della vita: qui dove affonda un morto viluppo di memorie, orto non era, ma reliquiario. Il frullo che tu senti non è un volo, ma il commuoversi dell’eterno grembo; vedi che si trasforma questo lembo di terra solitario in un crogiuolo.



Un rovello è di qua dall’erto muro. Se procedi t’imbatti tu forse nel fantasma che ti salva: si compongono qui le storie, gli atti scancellati pel giuoco del futuro.



Cerca una maglia rotta nella rete che ci stringe, tu balza fuori, fuggi! Va, per te l’ho pregato, – ora la sete mi sarà lieve, meno acre la ruggine…

v. . Godi: è forse imperativo, ma interpretabile anche come indicativo presente: alla maniera del Taci anima stanca di godere di Sbarbaro (in Pianissimo, del ): cfr. qui a p. ; pomario: voce preziosa e latineggiante per frutteto a pomi, già utilizzata da D’Annunzio, e associata significativamente a orti conclusi (per esempio in Per la morte di un capolavoro, in Elettra). È interessante notare come sin dall’adozione di questo termine venga introdotta una forma di partecipazione a una «liminarità» concettuale e concreta: esso può evocare infatti, per associazione fonica, il pomerio, che presso gli antichi romani era il terreno consacrato posto lungo la cerchia delle mura. v. . reliquiario: termine anche questo già dannunziano: è l’urna dove si conservano le reliquie dei santi; indica, qui, un luogo ormai privo di vita, che conserva solo il ricordo di cose passate. Ma la prospettiva dannunziana (particolarmente dichiarata nella strofa successiva, con l’immagine del grembo della natura e del crogiuolo) viene di fatto capovolta: l’orto concluso è valorizzato solo nel suo riempirsi di vento giunto dall’esterno. v. . frullo: è il rumore che fanno gli uccelli quando si alzano in volo all’improvviso; qui è riferito, probabilmente, al vento, e in genere al rumore segreto della natura. v. . crogiuolo: recipiente usato per fondere metal-

li; qui il termine appare però in un senso figurato, di sapore dannunziano, indicando il darsi di una profonda trasformazione, di un rimescolío, forse di una nuova germinazione dell’essenza delle cose e della vita. v. . rovello: rumore continuato e fastidioso; ma anche: travaglio, lacerazione interna; per alcuni interpreti si tratterebbe solo di un diminutivo di rovo, indicherebbe quindi un «piccolo rovo», immagine anche questa della chiusura dell’orto. v. . Se procedi: non è chiaro se si tratta di procedere nel pomario o di andare al di là, fuori di esso. v. . fantasma che ti salva: immagine che appartiene alla tipologia montaliana del miracolo (enunciata per esempio nella lirica Forse un mattino andando, v. oltre): ovvero, di quel «fatto che non era necessario» (dice altrove Montale), quell’evento inaspettato che – come ribadito nei Limoni – ci metta «nel mezzo di una verità». v. . scancellati: la «salvazione» è quella degli atti già cancellati di continuo nell’eterna mutazione del presente, che sempre deve decadere per dar luogo al futuro. Solo il miracolo, insomma, può svelare quella verità che sola ricompone il nesso del passato con il futuro. v. . ruggine: qui la metafora indica i caratteri difficili, sgradevoli e angosciosi dell’esistenza.

T. EUGENIO MONTALE. OSSI DI SEPPIA



I limoni Questa poesia, iniziata nel 1921 ma conclusa dall’autore solo alla fine dell’anno seguente, è la prima della prima sezione, Movimenti, degli Ossi di seppia, e vi si pone come un testo programmatico, vera e propria dichiarazione di poetica: vi si enuncia il rifiuto di una letteratura aulica ed estetizzante, di una poesia autorizzata e ufficiale (i poeti laureati). Rispetto ai modelli carducciani e dannunziani, Montale propone un «abbassamento» della poesia: i limoni vengono qui a rappresentare un paesaggio e un linguaggio che si collocano sul piano della normalità quotidiana, una natura semplice e non idealizzata, nella quale acquistano rilievo i margini, gli scarti, le forme piú dimesse. Si tratta del paesaggio consueto della Liguria, lo stesso di scrittori liguri dei quali la critica ha trovato varie tracce nella poesia di Montale (da Angiolo Silvio Novaro a Camillo Sbarbaro): e di fronte a questo paesaggio la lingua tende ad accostarsi parzialmente al parlato, anche in certi movimenti sintattici (come al v. 4: «Io, per me, amo le strade»), sebbene a livello lessicale non manchino forme preziose (come l’uso transitivo di piove, v. 17, cimase, v. 39, s’affolta, v. 40). D’altro canto, le due forme verbali con cui s’aprono la prima e la terza strofa (Ascoltami e Vedi) si rivolgono in tono colloquiale a un tu che resta indeterminato, come in In limine; stretto è più in generale il collegamento con quella poesia, attraverso l’immagine dell’orto e il tema della ricerca di salvezza, del possibile svelamento di una verità: alla «maglia rotta nella rete» della precedente poesia corrisponde qui «lo sbaglio di Natura», «l’anello che non tiene», capace di metterci «nel mezzo di una verità». Sono il silenzio e la pace degli orti dei limoni (e si noti che la parola limoni suggella sia la prima sia la seconda strofa), come sottolineati dal loro odore, e il loro essere appartati, fuori dai luoghi del clamore pubblico, ad annunciare quella possibile rivelazione, a far scorgere per un attimo il significato profondo delle cose: la poesia si colloca cosí nel cuore di quelle esperienze di epifania che sono tipiche della grande letteratura europea di primo Novecento. Ma nel suo procedere si affaccia peraltro il sospetto che quella rivelazione sia solo un’illusione, che comunque si ripropone piú volte, anche quando i limoni si affacciano improvvisamente nel cortile di una grigia e piovosa città: e il componimento si chiude con un provvisorio abbandono a quella illusione, con un suo dispiegarsi in un ritmo sonoro (le canzoni e le trombe: e non si dimentichi che il titolo della sezione indica proprio dei Movimenti musicali) e in una accensione luminosa (la solarità). Questo lo svolgimento dei vari motivi nelle quattro strofe: 1. rifiuto delle piante dai nomi rari e preziosi e amore per i percorsi e le stradine marginali che portano agli orti dei limoni; 2. l’ascolto del sussurro dei rami e l’odore dei limoni danno dolcezza e pace; 3. in quei silenzi sembra improvvisamente rivelarsi l’ultimo segreto: si ha l’impressione di essere sul punto di trovare una verità, di collocarsi al suo centro; e ogni presenza umana sembra recare la traccia di una disturbata Divinità. 4. Questa illusione viene meno e si ritorna alla vita grigia della città, al tedio dell’inverno; ma se da un cortile interno si intravedono delle piante di limone, il gelo del cuore si scioglie e ci si abbandona alla loro musica solare. METRO: 4 strofe di varia lunghezza, composte di endecasillabi, settenari, e altri versi composti (fra cui 5 martelliani: vv. 3, 4, 27, 28, 37), con un impianto rimico libero e spurio, ma molto denso: per esempio, nella prima strofa, i vv. 1, 2, 3, 5, 6, 9 sono legati da variabili assonanze, i vv. 4, 8, 10 da assonanza e rima: della stanza resta libero il solo v. 7, con anguilla (termine che diverrà assai significante in Montale: cfr. la lirica alle pp. 756-758) in posizione esterna.

Ascoltami, i poeti laureati si muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. vv. -. il riferimento polemico si rivolge in primo luogo a D’Annunzio, specie quello del Poema pa-

radisiaco: ai modelli negativi di preziosità esteriore rappresentati da nomi di piante del tutto lettera-

Una dichiarazione di poetica

Dove cercare la verità?

Lo svolgimento delle quattro strofe

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EPOCA

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GUERRE E FASCISMO

-

Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi fossi dove in pozzanghere mezzo seccate agguantano i ragazzi qualche sparuta anguilla: le viuzze che seguono i ciglioni, discendono tra i ciuffi delle canne e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni. Meglio se le gazzarre degli uccelli si spengono inghiottite dall’azzurro: piú chiaro si ascolta il susurro dei rami amici nell’aria che quasi non si muove, e i sensi di quest’odore che non sa staccarsi da terra e piove in petto una dolcezza inquieta. Qui delle divertite passioni per miracolo tace la guerra, qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza ed è l’odore dei limoni. Vedi, in questi silenzi in cui le cose s’abbandonano e sembrano vicine a tradire il loro ultimo segreto, talora ci si aspetta di scoprire uno sbaglio di Natura, il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,

rie, il poeta contrappone, ancor prima del per me al v. , la seconda persona intima e imprecisata (a cui si rivolge la prima parola della lirica, Ascoltami) e un tono programmaticamente colloquiale. v. . per me: «quanto a me»: con «passaggio marcatamente oraziano» (Spagnoletti); riescono: sboccano, vanno a finire (forma vicina al parlato). v. . fossi: fossati. v. . da notare il giro sintattico del verso montaliano, sinuoso e ricco d’inversioni: in questo caso, il soggetto (posposto) è i ragazzi (che catturano anguille in pozzanghere); e si noti l’enjambement tra i vv.  e . v. . sparuta: «piccola e magra» (oppure: «rara»); l’anguilla riveste un carattere tutto particolare nel bestiario montaliano (e uno dei racconti di Farfalla di Dinard, Il bello viene dopo, ne racconta presenza e vicissitudini, nel paesaggio adolescenziale del poeta): a tal proposito, cfr. la poesia a p. . v. . ciglioni: argini, margini dei fossati. v. . mettono: «immettono, conducono» (ancora nel registro prossimo al parlato). v. . Meglio: rispetto ai luoghi frequentati dai poeti laureati; gazzarre: «frastuono festoso». Si tratta, con l’inghiottite del verso successivo, di uno splendido esempio di sinestesia del primo Montale: l’azzurro colore del cielo inghiotte i suoni degli uccelli. v. . susurro: notare la forma piú preziosa, con una sola s.

v. . è qui presente un’eco dantesca, da Purgatorio, XXVIII, : «un’aura dolce, sanza mutamento», riverberata anche nella dolcezza inquieta del v. . v. . ancora una sinestesia: i sensi (le essenze, quasi endiadi con odore) sono retti ancora dal precedente si ascolta (intendi: «si sentono meglio le essenze degli odori»). v. . «suscita nel petto una inquieta dolcezza»; piove («suscita») ha valore transitivo (ha per soggetto odore); ma è possibile che qui si ricalchi Dante, Purgatorio, XVII, : «piovve dentro l’alta fantasia» (dove piovve è intransitivo). v. . divertite: deviate, distolte, rimosse (in un senso dunque arcaizzante e già dantesco); intendi: «qui miracolosamente cessa la lotta (guerra) provocata dentro l’animo dalle passioni distolte». v. -. questa serie rientra nella casistica del varco, dichiarata anche da In limine, con la «maglia rotta nella rete / che ci stringe» (cfr. p. ). È da notare quanto questa sola possibilità di salvazione, la possibilità di un approdo al flusso vitale a cui è possibile accedere una volta rotte le maglie della rete della banale esistenza, sia riposta solo in un errore: uno sbaglio di Natura, qualche momento in cui la vita si blocca (il punto morto del mondo), un meccanismo inceppato (l’anello che non tiene), un filo aggrovigliato che improvvisamente si disbroglia (per la metafora del filo, che evoca l’immagine

T. EUGENIO MONTALE. OSSI DI SEPPIA





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

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il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità. Lo sguardo fruga d’intorno, la mente indaga accorda disunisce nel profumo che dilaga quando il giorno piú languisce. Sono i silenzi in cui si vede in ogni ombra umana che si allontana qualche disturbata Divinità. Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase. La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta il tedio dell’inverno sulle case, la luce si fa avara – amara l’anima. Quando un giorno da un malchiuso portone tra gli alberi di una corte ci si mostrano i gialli dei limoni; e il gelo del cuore si sfa, e in petto ci scrosciano le loro canzoni le trombe d’oro della solarità.

classica del filo d’Arianna, si veda anche La casa dei doganieri, v. , qui a p. ). v. . la mente … disunisce: si tratta dell’attività analitica svolta dalla mente scientifica, denunciata dalla filosofia contingentista francese (che Montale teneva ben presente) in quanto inabile a giungere al segreto delle cose, a metterci «nel mezzo di una verità» (che risiede invece nel profumo del crepuscolo, nel languido disfarsi del giorno, indicato nei due versi successivi). v. . disturbata: il segno divino che in mezzo ai silenzi può scorgersi in ogni ombra umana (che viene vista allontanarsi e svanire nell’illanguidirsi del giorno) ha qualcosa di irregolare, di deviato, reca in sé la traccia di quello sbaglio di Natura; si noti come disturbata richiami un altro aggettivo che indica deviazione, disagio, divertite del v. . v. . l’illusione manca: viene a cadere l’illusione di rinvenire l’anello che non tiene, e di raggiungere cosí la verità. v. . città rumorose: se qui la città sembra allontanare la rivelazione della verità, occorre però ricordare che è proprio lo spazio urbano quello in cui piú spesso ha luogo l’esperienza dell’epifania novecentesca (e sin dalla sua fondazione, nella Parigi di Baudelaire: cfr. CANONE EUROPEO, tav. ): il tema del tedio e del fascino della vita urbana, essenziale in Baudelaire, aveva avuto una presenza essenziale in Rèbora e in Sbarbaro, due poeti di cui in questi versi si può sentire qualche suggestione. v. . cimase: i cornicioni in cima alle case e ai pa-

lazzi; la rima cimase/case è ripresa dal Pascoli dei Canti di Castelvecchio (Addio!), probabilmente con la mediazione del Gozzano de La Signorina Felicita, - (cfr. T.). Qui però tutto si tonalizza, come sempre in Montale, in un complesso sistema di assonanze (che contempla anche rumorose e malchiuso). v. . s’affolta: «s’infittisce» (forse con riferimento alla nebbia); termine già usato da D’Annunzio, nonché da Pascoli. v. . da notare la serie paronomastica in a: in una struttura chiastica, ove – in corrispondenza di avara – amara –, il primo membro (la luce) corrisponde ad anima. vv. -. è forse qui possibile notare la presenza del «mistero pregnante» e dell’«immobilità silente della gran pittura metafisica di quegli stessi anni» (Forti); corte è forma corrente per «cortile». v. . riferimento al disgelo primaverile (qui, come nel v. , a un oggettivo dato fisico corrisponde immediatamente uno stato d’animo soggettivo). vv. -. «i limoni, trombe dorate annunziatrici del sole, c’inondano il cuore con il suono delle loro canzoni». Viene qui introdotto un altro elemento della cosmologia montaliana degli Ossi di seppia: è il mito «mediterraneo» della solarità, trattato come accecamento, rinsecchimento, arsura (e, già in In limine, come sete), ma anche come gloria (nella lirica Gloria del disteso mezzogiorno). Nell’ultimo verso si può riconoscere un’eco da una poesia di Stéphane Mallarmé, la Prose (pour des Esseintes): «L’or de la trompette d’Été», “L’oro della trombetta d’Estate” (Ferraris).

EPOCA

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GUERRE E FASCISMO

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Non chiederci la parola

Una dichiarazione programmatica: ciò che la poesia non può dare

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Datata 10 luglio 1923 è la prima lirica della sezione Ossi di seppia che dà il titolo al libro: in una lettera ad Angelo Barile del 10 agosto 1924 Montale la definisce «chiave di volta» dei brevi componimenti (indicati come rondels, piccole partiture musicali) che costituiscono la sezione, e manifesta l’intenzione di porla alla fine come «conclusione e commento». Messa invece all’inizio, essa vale come definizione programmatica dell’inappartenenza su cui si basa il fare poetico, nel quadro della piú generale negatività della conoscenza e della condizione esistenziale e storica, sottofondo teorico e «filosofico» degli Ossi di seppia. Il tono assorto e pacato dell’argomentazione, svolta alla prima persona plurale come invito a un tu a non chiedere all’arte e alla poesia di dare parole sicure, di offrire risolutivi modelli di vita, ha fatto di questa poesia una delle piú celebri del Novecento: emblema della negazione di ogni falsa verità, di ogni ideologia e di ogni comportamento troppo convinti di sé, troppo ignari dei limiti di ogni verità e di ogni modello umano; e proverbiale è ormai l’immagine dell’uomo che se ne va sicuro, che non si ferma a guardare la propria ombra, che vive tranquillamente convinto del valore del mondo e del proprio io (simile all’ilare gente codarda, alla civil risma di eroi dei Frammenti lirici di Rèbora). La conoscenza, il comportamento possono essere solo negativi: e la poesia offre loro solo «qualche storta sillaba e secca come un ramo». Questa negatività è sottolineata dal ripetersi in anafora del Non all’inizio della prima e della terza quartina (con i sinonimi chiederci e domandarci) e dalla ripetizione (posta in risalto dal corsivo al v. 12) METRO: 3 quartine di versi di varia lunghezza: decasillabi, endecasillabi, e versi composti perlopiú sulla base del martelliano (settenario doppio ma anche settenario+ottonario oppure ottonario+settenario) o dell’endecasillabo (come il v. 7: settenario+quinario, quest’ultimo sdrucciolo per giunta), piú un verso (il sesto, quello centrale) interpretabile, secondo la scelta delle cesure, come novenario o decasillabo, rimati (se si tiene conto della rima tra amíco e canícola: una rima ipermetra che prescinde dall’ultima sillaba della parola sdrucciola canicola) ABBA CDdC EFEF.

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco lo dichiari e risplenda come un croco perduto in mezzo a un polveroso prato. 

Ah l’uomo che se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico, e l’ombra sua non cura che la canicola stampa sopra uno scalcinato muro!

v. . squadri: scruti, indaghi, esamini attentamente. v. . lo dichiari: «lo riveli, lo renda noto»; animo diventa poi soggetto del successivo risplenda; croco: è il fiore dello zafferano, dai petali d’un giallo sgargiante, quasi fosse il colore della «verità» risaltante nel prato brullo. v. . canicola: la grande calura estiva (o, alla lettera: il periodo della sua massima intensità). L’ombra corrisponde ai lati oscuri e insondabili dell’animo umano, e rinvia al tema mitico della scissione tra il soggetto e la sua ombra, che ha avuto una delle piú

celebri incarnazioni nel racconto del tedesco Adalbert von Chamisso (-), La meravigliosa storia di Peter Schlehmil (): esso chiama in causa la consistenza stessa dell’identità, ma anche l’ignoto alle sue spalle, il nulla di Forse un mattino, ignoto agli «uomini che non si voltano»; il muro, che evoca i muretti molto presenti nel paesaggio campestre della Liguria, è presenza costante nella prima poesia di Montale (si vedano qui quello di In limine e quello di Meriggiare).

T. EUGENIO MONTALE. OSSI DI SEPPIA

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Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, sí qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

v. . sí: bensí; ma invece (sottinteso: domandaci); «L’allitterazione della s e l’iperbato (con nome a separare i due aggettivi) raddoppiano il sentimen-

to di difficoltà espressiva e di riduzione a un linguaggio minimo, capace di dire la disarmonia nel rapporto tra io e mondo» (P. Cataldi e F. d’Amely).

Meriggiare pallido e assorto Questa poesia è la piú antica tra tutte quelle comprese in Ossi di seppia: la sua prima redazione risale al 1916; nella redazione definitiva, prima che nel volume del 1925, fu pubblicata sulla rivista «Il Convegno» nella primavera del 1924. L’attraversamento di un paesaggio campestre nella calura dell’estate si svolge qui attraverso una vera e propria sospensione del soggetto lirico: tutti gli atti e le sensazioni sono dette entro una successione di infiniti, dall’iniziale Meriggiare fino all’ultimo seguitare. La percezione di un paesaggio percorso da una inquieta vitalità si dà attraverso l’ascolto e l’osservazione, come nel tentativo di scoprire il segreto di una natura che però si impone con la sua estraneità: la vita si risolve nel ritmo monotono della passeggiata campestre, limitata da quel muro che sembra come indicare il limite stesso della possibilità (e si noti come il rovente muro d’orto dell’inizio sia ripreso alla fine nell’immagine piú lacerante, che sembra come ferire, della muraglia con i suoi cocci aguzzi di bottiglia). Moltissime sono le suggestioni letterarie, specialmente da Pascoli, di cui si riprende il vocabolario botanico, zoologico, onomatopeico; e «soprattutto pascoliane appaiono la serie delle percezioni minime, la tecnica delle analogie naturali e delle allitterazioni, la sillabazione ritmica del verso» (Bonfiglioli), con tante parole e immagini come pruni, schiocchi, veccia, e con la tipica situazione della campagna d’estate. Ma non manca la presenza di D’Annunzio, di Gozzano o di poeti liguri come Ceccardo Roccatagliata Ceccardi (cfr. 9.7.10.), a cui risale in primo luogo il nesso orto-muro-mare; e si possono scorgere (come mostrano le rime) anche suggestioni dal Dante piú aspro ed espressionistico. METRO: 3 quartine di novenari, decasillabi ed endecasillabi, di cui la prima e la terza in rima baciata, la seconda in rima alternata, piú una strofa di 5 versi (un novenario, due decasillabi e due endecasillabi) che rimano in -aglia, -iglia, con al centro rima imperfetta in -aglio. Sono dantesche le rime seguenti: nella prima strofa sterpi/serpi (Inferno, XIII, 37-39); nella seconda formiche/biche (Inferno, XXIX, 64-66); nella terza, scricchi/picchi (Inferno, XXXII, 26-28-30).

Meriggiare pallido e assorto presso un rovente muro d’orto, ascoltare tra i pruni e gli sterpi schiocchi di merli, frusci di serpi.

v. . Meriggiare: «trascorrere il meriggio»; v. soprattutto D’Annunzio, per esempio: L’Isotteo, Ballata ottava, : «Meriggiava quel re, sotto il pomario», o Il Fuoco, parte I, : «Né colui che meriggia profon-

dato nella messe matura sotto la canicola». Ma «il riscontro piú diretto è forse con Boine, Frantumi : “È cosí bello a volte meriggiare, all’ombra d’un carrubbo in faccia al mare”» (Mengaldo).

Nell’ascolto del paesaggio

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EPOCA

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GUERRE E FASCISMO

-

Nelle crepe del suolo o su la veccia spiar le file di rosse formiche ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano a sommo di minuscole biche.

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Osservare tra frondi il palpitare lontano di scaglie di mare mentre si levano tremuli scricchi di cicale dai calvi picchi.



E andando nel sole che abbaglia sentire con triste meraviglia com’è tutta la vita e il suo travaglio in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

v. . veccia: erba utile come foraggio; vocabolo usato da Pascoli, in Myricae (Dialogo, ), e da D’Annunzio in Alcyone (Le opere e i giorni, ). v. . anche questa immagine è ripresa probabilmente da un passo dei Frantumi di Giovanni Boine: «seguire […] intra la polve il rossiccio carvanare delle incessanti formiche», in cui ricorre anche il verbo meriggiare, nonché l’immagine del muro (Spagnoletti, Mengaldo); ma v’è anche una reminiscenza dantesca (Purgatorio, XXVI, -: «Cosí per entro loro schiera bruna / s’ammusa l’una con l’altra formica, / forse a spiar lor via e lor fortuna»). v. . ch’ora si rompono: è da notare che il modo infinitivo scompare, per lasciar spazio all’indicativo, solo nelle frasi subordinate (cosí anche al v.  e al v. ). v. . biche: alla lettera: mucchi, cumuli; sono, qui, quelli di terra, che fanno da ingresso al formicaio. v. . frondi: per fronde, «arcaismo morfologico di

stampo soprattutto dannunziano», ma anche pascoliano (Mengaldo). v. . scaglie di mare: «onde». L’immagine, che ricorre anche in un’altra poesia degli Ossi di seppia (Corno inglese), deriva probabilmente dal D’Annunzio di Alcyone, dove il mare «scintilla / intesto di scaglia / come l’antica / lorica / del catafratto» (L’onda, -). v. . scricchi: i canti delle cicale, che si levano dalle alture prive di vegetazione (calvi picchi). v. . seguitare: «seguire, costeggiare» (la prima redazione recava «sfiorar stanco», con la variante «seguir stanco»; Angelo Jacomuzzi ipotizza che l’immagine finale derivi dal Mystère dans les lettres (“Mistero nelle lettere”) di Mallarmé: «mur […] les culs de bouteille et les tissons ingrats» (“muro […] i fondi di bottiglia e gli ingrati tizzoni”); ma anche sul muro di recinzione dell’orto della Signorina Felicita di Gozzano si trovano «cocci innumeri di vetro» (v. ).

T. EUGENIO MONTALE. LE OCCASIONI



Le occasioni Dora Markus Questa celebre poesia è costituita da due parti composte in momenti diversi, anche con una singolare sovrapposizione tra immagini di figure femminili tutte convergenti nel personaggio dell’ebrea austriaca Dora Markus. La prima parte fu pubblicata sul «Meridiano di Roma» il 10 gennaio 1937 (come «l’inizio di una poesia che non fu mai né finita né pubblicata e non lo sarà mai piú»), ma nell’indice delle Occasioni è datata 1926: il nome di Dora Markus è però fatto per la prima volta piú tardi, in una lettera di Bobi Bazlen a Montale del 25 settembre 1928, a proposito di un’ospite di due amici comuni, Gerti e Carlo Tolazzi: «A Trieste, loro ospite, un’amica di Gerti, con delle gambe meravigliose. Falle una poesia. Si chiama Dora Markus». In lettere di poco successive Bazlen sollecita Montale a comporre la poesia per questa donna, che egli non vide mai (ed ebbe solo la fotografia delle sue gambe): ed è probabile che tra la fine del 1928 e l’inizio del 1929 egli abbia messo insieme, dedicandoli appunto a Dora Markus, dei versi già in parte composti (probabilmente proprio nel 1926) per un’altra donna: forse la stessa Gerti – austriaca della Carinzia come Dora –, alla quale del resto aveva già dedicato una poesia, Carnevale di Gerti, pubblicata nel giugno 1928 su «Il Convegno» e raccolta anch’essa nelle Occasioni. La seconda parte, datata 1939 (se ne trova infatti una prima traccia in una lettera a Gianfranco Contini del 15 maggio 1939), venne scritta sotto l’impressione delle persecuzioni razziali naziste, come sguardo al destino della donna ebrea. Sotto il nome e la figura di Dora essa comporta in realtà un riferimento a Gerti, inserendo però dati che non erano nella prima parte; dirà Montale in una lettera a Silvio Guarnieri del 29 aprile 1964: «In Dora Markus I, Dora non è ancora Gerti, non risulta ebrea. Non ho mai conosciuto Dora, nella seconda parte è presente solo Gerti, ebrea […]. Io Dora non l’ho mai conosciuta; feci quel pezzo di poesia per invito di Bobi Bazlen che mi mandò le gambe di lei in fotografia. La fede feroce [v. 30 della seconda parte] coincide con il ritiro di Gerti in una Carinzia immaginaria. Non c’è la condanna di ogni fede, ma la constatazione che per lei tutto è finito e deve rassegnarsi al suo destino. Resta pur sempre uno iato fra la vita inesplosa di Dora e la vita già vissuta di Gerti. La fusione delle due figure non è perfetta, a metà strada qualcosa è avvenuto che non viene detto e che io non so». Ma già in una lettera del 7 maggio 1939 a Bazlen Montale suggeriva di vedere nella donna della seconda parte «un pasticcio di quasi Gerti con antenati tipo Brandeis», sovrapponendovi cosí anche Irma Brandeis-Clizia, la donna-angelo lontana e in fuga dalle rovine d’Europa. Su questo cosí complesso intreccio di riferimenti a figure femminili reali e immaginarie si costruisce un’immagine di donna dominata dall’ansia della lontananza, dall’instabilità, immersa in una sua inafferrabile solitudine. La prima parte si svolge a partire da un emergere, nella prima strofa, della memoria (sottolineato dal Fu iniziale), sullo sfondo del porto di Ravenna e del canale che conduce da esso alla città, con una malinconica passeggiata che ha luogo in «una primavera inerte, senza memoria» (con un paradossale rapporto tra l’emergere del ricordo e quel senza memoria): in questo ambiente grigio e immobile la donna indica un luogo lontano, una sua patria vera che si colloca altrove. La seconda strofa, piú breve, si lega strettamente alla precedente (grazie all’iniziale E qui) e collega lo spirito di Ravenna, proiettata per la sua storia verso l’Oriente indicato dalla mano di Dora, al variabile guizzare delle parole della donna. La terza strofa prescinde invece da ogni riferimento all’ambiente e si concentra sull’irrequietudine e sull’indifferenza della donna, sul suo carattere tempestoso, sulla sua esistenza in cui resiste stremata, priva di certezze. Il suo equilibrio e la sua «salvezza» vengono alla fine affidati a un amuleto, a un oggetto salvifico, un piccolo e marginale segno di sopravvivenza (un topo bianco, / d’avorio): fulminante immagine di un mondo in cui l’esistenza degli individui si affida, nella sua piú personale intimità, a piccoli simulacri, oggetti marginali e inessenziali che vengono ad acquistare un impensato senso e valore. La seconda parte ci trasporta nella Carinzia, dove la donna ebrea vive in una cittadina lacustre, rappresentata nella prima strofa e all’inizio della seconda come a specchio dell’ambiente raven-

Le sovrapposizioni di figure femminili nel personaggio di Dora Markus

Una figura di donna segnata dalla provvisorietà e dall’isolamento

L’oggetto che salva

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Il mondo ebraico e l’accenno alla minaccia nazista

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GUERRE E FASCISMO

-

nate rappresentato nella prima strofa della prima parte: dal suggestivo trascolorare della sera nel paesaggio lacustre si passa poi all’interno della casa borghese di Dora, dove la sua esistenza errabonda e priva di sicurezze appare come inscritta, qui davvero fissata nella memoria, in uno specchio annerito. La terza strofa collega la leggenda personale di Dora ai suoi antenati, al mondo ebraico ottocentesco: e qui si affaccia lo sgomento della storia contemporanea, il buio che si addensa e minaccia, l’essere tardi di fronte alla minaccia del nazismo, non direttamente nominata. Questa minaccia si affaccia piú esplicita nell’ultima strofa, che affida il resistere di Dora, della vita sua e della sua gente, a un altro oggetto marginale carico di valore, il «sempreverde / alloro per la cucina»; poi in uno scorcio rapido si sottolinea la distanza dall’ambiente della prima parte (Ravenna è lontana) e si accenna al veleno del nazismo, all’aggressione che esso rivolge all’identità della donna. Di fronte al buio tremendo e all’orrore che in quel 1939 stava calando sull’Europa, la poesia si chiude, riprendendo il finale della strofa precedente, con una disperata constatazione della prossima fine («Ma è tardi, sempre piú tardi»). [EDIZIONE: Eugenio Montale, L’opera in versi, cit.] strofe di varia lunghezza, composte di versi di metro differente (e, come sempre in Montale, dotati di fitte rispondenze interne ed esterne); la prima parte è composta di tre strofe di versi liberi, con notevole presenza di endecasillabi e con poche rime (si distinguono le rime e quasi rime della terza strofa: pensare/fari/appare/rari); quasi regolare la seconda parte, costituita da quattro strofe di 8 versi con l’eccezione della seconda (che è di 9), ottonari e novenari con l’unica eccezione di un settenario (v. 18) e di un endecasillabo (v. 14, significativamente: allo specchio annerito che ti vide). METRO:

˜

I



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Fu dove il ponte di legno mette a Porto Corsini sul mare alto e rari uomini, quasi immoti, affondano o salpano le reti. Con un segno della mano additavi all’altra sponda invisibile la tua patria vera. Poi seguimmo il canale fino alla darsena della città, lucida di fuliggine, nella bassura dove s’affondava una primavera inerte, senza memoria.

v. . Fu: Accadde. v. . Porto Corsini: il porto di Ravenna, collegato alla città da un canale di circa dieci km; il ponte di legno dà accesso al molo proteso sul mare alto, in mare aperto. v. . salpano: tirano su. vv. -. la donna indicava la sua patria lontana, verso la sponda opposta dell’Adriatico, cioè verso Oriente: si tratta probabilmente di Trieste, dove si trovava provvisoriamente Dora secondo la lettera di Bazlen citata nell’introduzione; solo dopo l’aggiunta della seconda parte questa patria può essere identificata con la Carinzia, regione montuosa dell’Austria, della quale è originaria Dora. Ma, considerando la sovrapposizione di più figure femminili, accomunate dall’essere ebree, «la direzione verso cui punta il dito […] è la sua terra d’origine, la “patria vera”, cioè la terra promessa de-

gli Ebrei della Diaspora, luogo di una nostalgia senza ritorno» (Isella). v. . Poi: non esprime durata, continuazione; ma riapre su un altro tempo: «un’altra volta accadde che…»; darsena: la parte piú interna e chiusa del porto, piú vicina alla città (che dal mare si raggiunge attraverso il canale). v. . lucida: come impastata nella fuliggine (riferito alla darsena). v. . bassura: la zona di pianura bassa e piatta, sopra il mare. v. . c’è forse un’eco, in questa primavera, di quella di Rèbora, stagione dell’«accasciamento», nonché del proverbiale aprile con cui si apre la Terra desolata di T.S. Eliot, che «confonde memoria e desiderio» (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ). La primavera inerte è quella della «vita inesplosa» di Dora.

T. EUGENIO MONTALE. LE OCCASIONI









E qui dove un’antica vita si screzia in una dolce ansietà d’Oriente, le tue parole iridavano come le scaglie della triglia moribonda. La tua irrequietudine mi fa pensare agli uccelli di passo che urtano ai fari nelle sere tempestose: è una tempesta anche la tua dolcezza, turbina e non appare, e i suoi riposi sono anche piú rari. Non so come stremata tu resisti in questo lago d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse ti salva un amuleto che tu tieni vicino alla matita delle labbra, al piumino, alla lima: un topo bianco, d’avorio; e cosí esisti! II





Ormai nella tua Carinzia di mirti fioriti e di stagni, china sul bordo sorvegli la carpa che timida abbocca o segui sui tigli, tra gl’irti pinnacoli le accensioni del vespro e nell’acque un avvampo di tende da scali e pensioni.

v. . qui: riferito ancora alla città, a Ravenna, e non alla darsena: si noti l’impreciso fluttuare degli eventi, in un andamento onirico-memoriale o meglio ancora immaginario (si tratta, ricordiamolo, di «ricordi» di eventi che non ebbero luogo o che almeno non videro come protagonista la vera Dora Markus, che Montale aveva visto, e parzialmente, solo in fotografia). v. . nostalgia, e insieme attesa, d’un Oriente che è presente, a Ravenna, nei suoi mosaici bizantini oltre che accessibile fisicamente appena oltre l’Adriatico. vv. . iridavano: divenivano iridescenti, cangianti, mutavano continuamente, trascorrendo da un pensiero all’altro (effetto cromatico che allude anche allo splendore dei mosaici di Ravenna). v. . uccelli di passo: gli uccelli migratori, di passaggio, diretti altrove. v. . i riposi in cui si placa la tempesta interiore della donna sono piú rari di quelli naturali. vv. -. lago … cuore: reminiscenza dantesca, dall’Inferno, I, - («Allor fu la paura un poco

queta, / che nel lago del cor m’era durata…»), ma forse ancor piú dal sonetto di risposta a Giovanni Quirini, attribuito a Dante, ove si parla di «congelato lago» (questo sonetto riveste particolare importanza in Montale, in quanto connesso al mito di Clizia). vv. -. topo … d’avorio: è il campione, legato all’intimità della donna, agli strumenti del suo trucco, di una serie di amuleti e talismani ai quali Montale affida un’immagine e una speranza di salvezza, come sarà la «cipria nello specchietto» di Piccolo testamento. vv. -. si noti il gioco di allitterazioni che conducono da mirti a irti (in rima interna) e si distendono in una insistente presenza di t e di i. v. . pinnacoli: quelli dei fabbricati della cittadina della Carinzia, dai motivi rococò, con guglie e torrette. vv. -. un avvampo … pensioni: «un fiammeggiare di tende (per il loro colore) da scali (per le barche) e da pensioni»: si immagina Dora in una cittadina lacustre della sua Carinzia, come risulta

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GUERRE E FASCISMO

-

La sera che si protende sull’umida conca non porta col palpito dei motori che gemiti d’oche e un interno di nivee maioliche dice allo specchio annerito che ti vide diversa una storia di errori imperturbati e la incide dove la spugna non giunge. La tua leggenda, Dora! Ma è scritta già in quegli sguardi di uomini che hanno fedine altere e deboli in grandi ritratti d’oro e ritorna ad ogni accordo che esprime l’armonica guasta nell’ora che abbuia, sempre piú tardi. È scritta là. Il sempreverde alloro per la cucina resiste, la voce non muta, Ravenna è lontana, distilla veleno una fede feroce. Che vuole da te? Non si cede voce, leggenda o destino… Ma è tardi, sempre piú tardi.

da una lettera di Montale a Bobi Bazlen del maggio , che informa come in una prima redazione si parlasse di «pensioni sui laghi». v. . umida conca: quella del lago. v. . palpito dei motori: di battelli. vv. -. al paesaggio lacustre esterno (con l’avvampo delle tende, i motori delle barche e gli schiamazzi delle oche sul lago) succede ora l’interno della casa di Dora, con la sala in cui campeggiano oggetti di ceramica bianca (nivee maioliche); e l’interno stesso della casa sembra parlare allo specchio un po’ consunto, che ha visto già Dora nella sua giovinezza, raccontando la storia dei suoi errori imperturbati, del suo vagare da un paese all’altro nell’irrequietudine e nell’indifferenza di cui si è detto nella parte I: e questa storia viene incisa in una memoria che non può essere cancellata (metaforicamente dentro lo stesso specchio, nel suo nero che resiste alla spugna). vv. -. la leggenda di Dora è inscritta nei ritratti

dei suoi antenati, montati entro cornici dorate (le fedine sono le tipiche basette lunghe, che andavano di moda nell’Ottocento); e viene riproposta dagli accordi che un’armonica rotta diffonde nella casa, nelle ore serali (c’è qui tutto un riaffiorare di ambientazioni crepuscolari). v. . la voce: della razza, del sangue (Spagnoletti). v. . Ravenna: il luogo in cui la protagonista si trovava nella parte I. v. . fede feroce: «la fede nazista», come confermato dallo stesso Montale (rispondendo a un questionario di Silvio Guarnieri); tanto piú feroce in quanto la protagonista è ebrea. v. . Che vuole da te?: retto da fede feroce. v. . La tradizione razziale e familiare, che la fede feroce vorrebbe cancellare. v. . cfr. nell’introduzione la lettera a Guarnieri: «Non c’è la condanna di ogni fede, ma la constatazione che per lei tutto è finito e deve rassegnarsi al suo destino».

T. EUGENIO MONTALE. LE OCCASIONI



Il ramarro, se scocca Nella serie dei Mottetti, questo componimento datato 1937 fissa una serie di istantanee, «ciascuna immagine (non impressionistica, ma allusiva; d’après nature, ma anche culturale) fissata al millesimo di secondo, sorpresa in una folgorante momentaneità» (Isella); si tratta di vere e proprie «meteore dell’esistente» (Macrí), di un affacciarsi di presenze improvvise e scattanti, che appaiono e scompaiono immediatamente nelle brevi strofe: presenze visive nella prima (il ramarro) e nella seconda strofa (la vela che sparisce dietro la roccia), due opposte configurazioni del rumore nella terza. Queste presenze si contraggono fulmineamente e conducono alla fine a evocare la Luce di lampo, come immagine suprema e improvvisa dell’illuminazione: ma nessuna di queste rivelazioni della realtà, nessuna epifania degli oggetti, riesce ad avere l’intensità e il valore assoluto della donna, di Clizia, che resta assolutamente incomparabile, rappresentando qualcosa di assolutamente altro rispetto alla negatività del presente. 3 strofette (di tre versi le prime due, di quattro la terza) in cui sono disposte le quattro immagini, seguite dalla sospensione indicata dai puntini, cui segue un verso isolato e un distico finale. Le strofette sono composte prevalentemente da settenari, piú un novenario (v. 7), due quadrisillabi (vv. 3 e 6) e, nel distico finale, da due endecasillabi (vv. 12 e 13, quest’ultimo indicato dalla forte dialefe tra strano e Altro). I quadrisillabi sono però da comporre con il settenario che a ciascuno di essi precede, dando cosí un endecasillabo. Lo schema, tenendo conto delle assonanze (che quasi regolarmente in Montale prendono il posto delle rime), può ricostruirsi nel modo seguente: aba aca defe gFG (ove le rime vere e proprie sono in e, in f e in g).

Immagini folgoranti

METRO:

Il ramarro, se scocca sotto la grande fersa dalle stoppie – 



la vela, quando fiotta e s’inabissa al salto della rocca – il cannone di mezzodí piú fioco del tuo cuore e il cronometro se scatta senza rumore – . . . . . . . . . . . . . e poi? Luce di lampo

vv. -. Citazione del ramarro dantesco (Inferno, XXV, -: «Come ’l ramarro sotto la gran fersa / dei dí canicular, cangiando sepe, / folgore par se la via attraversa»); fersa vale «sferza, calore ardente»; se ha valore temporale (come quando al v. ); scocca (sfreccia) è anch’esso dantesco, e lancia il motivo della fulmineità, che (attraverso la sequenza aperta delle immagini) giungerà fino alla contrazione assoluta della Luce di lampo. v. . fiotta: ondeggia (Mengaldo ravvisa qui un’origine pascoliana, mediata da Boine, che usa moltissimo il verbo).

vv. -. la vela scompare alla vista dopo aver superato un grande scoglio, nell’improvviso cambio di vento (salto), e pare cosí inabissarsi. vv. -. «Clizia è termine di un confronto impossibile, che destituisce ogni cosa a un livello diminutivo» (Isella): ma c’è qualcosa di misteriosamente ambiguo in questo paragone tra il suono fioco del cannone e i battiti del cuore della donna. v. . il lampo del fulmine (che tornerà ne La bufera, -: cfr. p. ); ma anche il flash d’una macchina fotografica: in linea con quello che è descrivibile.

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GUERRE E FASCISMO

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invano può mutarvi in alcunché di ricco e strano. Altro era il tuo stampo.

v. -. citazione dalla canzone di Ariele, nella Tempesta di Shakespeare (atto I, scena ): «But doth suffer a sea-change / into something rich and strange» (versi citati già da Shelley, e riecheggiati spesso in D’Annunzio sempre con la mediazione di Shelley): «che non tolleri che il mare lo converta in qualcosa di ricco e strano». Il vi di mutarvi è

riferito agli elementi precedentemente evocati (ramarro, vela, cannone, cronometro), non a Clizia, che ha stampo incomparabile (altro) a quello di tali elementi, per quanto essi si trasfigurino nella fissità eternante del lampo (che sarà l’eternità d’istante della poesia La bufera).

Ti libero la fronte

La donna che salva attraverso l’amore

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Inserito tra i Mottetti nella seconda edizione delle Occasioni, dopo essere stato composto intorno al gennaio 1940 e pubblicato poco dopo sulla rivista «La Ruota», questo componimento «inaugura all’interno delle Occasioni […] il mito della donna salutifera», che sarà piú ampiamente sviluppato ne La bufera e altro (Isella). È il tema del visiting angel, l’angelo visitatore, la poesia d’amore rivolta alla donna lontana, che trasmette il fuoco dell’amore nel gelo della distanza e che, con il nome mitologico di Clizia, si identifica con l’americana Irma Brandeis, la studiosa incontrata nel 1933, che viveva ormai sul lago Ontario. Il poeta immagina di ricevere la visita di questa donna-angelo, che ha attraversato in volo l’Oceano, e in un gesto affettuoso e intimo le libera la fronte dal ghiaccio che ha raccolto nel volo turbato dal gelo e dal vento: le piume delle sue ali sono state lacerate dal vortice dei cicloni che ha attraversato (nei quali possiamo riconoscere un’immagine dei disastri che incombono sul mondo, in quel 1940 in cui aveva già avuto inizio la seconda guerra mondiale). A questa immagine della donna data nella prima quartina, della sfida che essa rivolge a quella distanza cosmica e alla lacerazione del mondo, succede nella seconda uno scorcio di immobile realtà invernale, sotto la sinistra presenza di un sole / freddoloso, dove si staglia l’ombra nera di un nespolo, in un mezzogiorno paradossalmente dominato dall’oscurità, che fa pensare alla figura del «sole nero», angosciosa immagine della malinconia molto amata dalla letteratura romantica: a tal proposito Dante Isella ha ricordato un verso delle Fleurs du mal di Baudelaire: «La froide cruauté de ce soleil de glace» (“La fredda crudeltà di questo sole di ghiaccio”, De profundis clamavi, 10). E in questo scuro mezzogiorno la presenza salvifica della donna resta ignota agli uomini che non sanno, chiusi nella loro inconsistenza di ombre. METRO: due quartine di endecasillabi, privi di rima ma folti di assonanze e quasi rime, in cui è possibile ricostruire uno schema esterno di questo tipo: ABBB AACD (ma C è legato al secondo dei tre A dall’esser sdruccioli ambedue, oltre che dall’iteratività delle o).

Ti libero la fronte dai ghiaccioli che raccogliesti traversando l’alte nebulose; hai le penne lacerate dai cicloni, ti desti a soprassalti. v. . ghiaccioli: il ghiaccio è, assieme al fuoco, il principale segno distintivo di Clizia. v. . nebulose: gli ammassi di materia cosmica, su

cui si proietta il volo di Clizia (ma c’è anche chi interpreta nebulose per nuvole: Elio Gioanola); è possibile anche che la parola alluda, per indiretta

T. EUGENIO MONTALE. LE OCCASIONI





Mezzodí: allunga nel riquadro il nespolo l’ombra nera, s’ostina in cielo un sole freddoloso; e l’altre ombre che scantonano nel vicolo non sanno che sei qui.

associazione, alla nebulosità di un sonno, da cui la donna stessa si risveglia (come fa supporre il successivo ti desti). Si noti il forte enjambement tra alte e nebulose e la rima interna entro i vv.  e , raccogliesti/desti. v. . riquadro: è lo spazio vuoto delimitato da una finestra, o da una porta; o forse: il settore di un terreno (distinto dai circostanti per il diverso tipo di coltivazione). Nella redazione in rivista i vv. - si leggevano: «Mezzodí: allunga l’ombra nera il nespolo / nel riquadro…». v. . freddoloso: invernale (è la giornata a essere fredda, non il sole): ma l’ossimoro (sottolineato dall’enjambement) è un’ulteriore variante sul tema

di Clizia, i cui tratti distintivi e dicotomici sono il fuoco e il ghiaccio (come il suo cognome anagrafico: il germanico Brandeis, da scomporre in Brand: incendio, e Eis: ghiaccio); scantonano: svoltano. Le altre ombre, che non sanno, sono quelle degli «altri uomini che ignorano la possibilità di simili eventi» (come dichiara Montale stesso). «È il tema dell’ignoranza-esclusione e della iniziazione-conoscenza che oppone i “pochi” alle “orde d’uomini capre” e i veggenti ai ciechi» (Isella): un tema già ben presente nella prima raccolta (è quello degli «uomini che non si voltano», in Forse un mattino, o di coloro che non si curano della propria ombra, in Non chiederci la parola).

La casa dei doganieri La poesia, che apre la sezione IV delle Occasioni e fu scritta nel 1930 e pubblicata la prima volta nell’«Italia letteraria» del 28 settembre di quell’anno, si rivolge (con l’evidenza di quel Tu non ricordi che si ripete come in un movimento ciclico dall’inizio, v. 1, al centro, v. 10, sino alla fine, v. 21) a una donna che si identifica, come ha suggerito lo stesso autore, con «una giovane villeggiante morta molto giovane» (per quanto il v. 7 possa far pensare a un suo invecchiamento) e che probabilmente di lui «mai s’accorse». Ma la casa dei doganieri sulla costa a Monterosso (dove si trovavano acquartierate le guardie di finanza che sorvegliavano il traffico navale) non esisteva già piú quando Montale intravvide questa villeggiante; cosí egli precisa in una lettera ad Alfonso Leone del 19 giugno 1977: «La casa dei doganieri fu distrutta quando avevo sei anni. La fanciulla in questione non potè mai vederla; andò […] verso la morte, ma io lo seppi molti anni dopo. Io restai e resto ancora. Non si sa chi abbia fatto scelta migliore. Ma verosimilmente non vi fu scelta». Giorgio Zampa riconosce invece in questa figura Anna degli Uberti, morta a Firenze ma solo nel 1959, a cinquantaquattro anni; è la donna che Montale chiama in altri luoghi Arletta o Annetta, facendone l’immagine di chi non ha potuto vivere, dell’adolescenza rapidamente svanita, dell’esperienza negata (forse è il tu di In limine: cfr. p. 738). All’icona di Arletta, per l’occasione restituita al suo reale nome anagrafico, riconduce la nostra poesia un’altra, tarda, nel Diario del ’71 e del ’72 (Annetta, appunto), che fa tra l’altro cenno alla «rupe dei doganieri». Le parole della poesia costituiscono in ogni caso un lancinante confronto con l’inesistenza: la destinataria non ricorda perché in quella casa dei doganieri (la cui figura può rinviare a quella del Lamento di Menone per Diotima, di Hölderlin: «Ma la casa è deserta ormai, e mi presero gli occhi: / insieme a lei io pure ho perduto me stesso») non ha mai messo piede, perché non esistenti sono ormai sia la casa stessa, distrutta prima che Arletta abbia attraversato quel luogo, sia la donna stessa, che il poeta crede ormai morta. L’evocazione di quel luogo assume allora un carattere del tutto singolare: la casa ormai inesistente attende la donna a partire dal momento in cui una sera lontana ha avuto notizia di essa, vi è come penetrata con lo sciame dei suoi pensieri. Sullo spazio disabitato, nel quale resta solo l’aggressiva violenza del vento di libeccio, si manifestano se-

La desolazione della nonesistenza

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



GUERRE E FASCISMO

-

gni di disorientamento (con le immagini della bussola impazzita e del calcolo dei dadi); alterno è anche il movimento del tempo, con l’intera situazione proiettata nel tempo altro al quale appartiene ormai la donna. L’immagine del filo che si avvolge, che conclude la seconda strofa, è ripresa all’inizio della terza mettendo in evidenza il punto di vista del poeta, il suo vano cercare un orientamento tenendo in mano un capo del filo: evocando quello mitico di Arianna, usato da Teseo per uscire dal labirinto, questo filo sembra promettere una via d’uscita, una possibilità di ritrovare la donna; ma tale possibilità è subito negata dall’allontanarsi della casa, dall’inquietante girare della banderuola in cima al suo tetto (immagine, di nuovo, hölderliniana); la donna resta assente, anche se nel buio della casa che non c’è piú sembra sentirsi il suo respiro. L’ultima strofa, rivolgendo uno sguardo al paesaggio marino, fa affacciare per un attimo l’ipotesi della fuga, sulla linea dell’orizzonte, di un varco che possa portare lontano; ma è l’avvolgersi stesso dell’onda su se stessa a riproporre la circolarità di quel non ricordi, confermata nei due versi finali: alla sera di un tempo (quella del v. 3) corrisponde la sera presente (v. 22), nella quale il poeta riconosce il proprio non sapere, sente sfuggire ogni conoscenza del destino, dell’andare e del rimanere delle persone nel tempo. METRO:

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4 strofe di cinque e sei versi, endecasillabi o composti sulla base dell’endecasillabo (v. 2, 6, 7, 12, 13, 14, 17, tutti settenario+quinario; v. 1, 8 ottonario+quinario), escluso il quinto verso che è settenario, strutturate nel modo seguente: ABBAc DCDEEF FGHGH IBIILL (in I c’è la quasi rima accende/frangente/ scoscende).





Tu non ricordi la casa dei doganieri sul rialzo a strapiombo sulla scogliera: desolata t’attende dalla sera in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri e vi sostò irrequieto. Libeccio sferza da anni le vecchie mura e il suono del tuo riso non è piú lieto: la bussola va impazzita all’avventura e il calcolo dei dadi piú non torna. Tu non ricordi; altro tempo frastorna la tua memoria; un filo s’addipana.

v. . Tu non ricordi: notare la ripresa di questa espressione iniziale ai vv.  e . vv. -. la casa è un «luogo d’assenza» (Contini), e di frustrata attesa, perché i pensieri della giovane non sono piú lí, dopo esservi entrati come uno sciame di api, sostandovi e lasciandovi il segno della sua irrequieta presenza. v. . Libeccio: vento di sud-ovest. v. . piú che «il tuo riso s’è spento» (a causa del tempo trascorso simile all’incessante vento di libeccio), è possibile intendere: «il tuo riso non esprime piú felicità»; o anche: «il tuo riso non risuona piú come lieto, nella mia memoria». vv. -. le due immagini indicano la perdita di orientamento, e di misurabilità del mondo, dovuta, piú che a un destino individuale, a un «guasto» della storia, in grado di azzerare ogni ordine oggettivo (spaziale, matematico). Da notare però la contraddizione insita nell’espressione il calcolo dei

dadi, che inscrive la «necessità» dell’ordine matematico (il calcolo) dentro la «casualità» del colpo di dadi, riecheggiando probabilmente il famoso assioma di Mallarmé, quello stesso su cui si fonderà gran parte della poesia novecentesca: «Un coup de dés jamais n’abolira le hasard» (“Un colpo di dadi non abolirà mai il caso”: cfr. CANONE EUROPEO, tav. ). v. . altro tempo: tempo come durata (l’accumulo delle esperienze del tu di questa poesia), oppure: tempo come presente (condizione in cui il tu si trova nel presente); frastorna: «confonde, distrae», o anche: «altera». v. . la tua memoria: la memoria che la donna ha della casa e nello stesso tempo la memoria che il poeta ha di lei; essa è frastornata da questo tempo che è altro, ostile, proiettato verso un «oltre» indefinibile; un filo s’addipana: la prospettiva si capovolge, e diviene ora soggettiva, incentrata sull’io

T. EUGENIO MONTALE. LE OCCASIONI







Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana la casa e in cima al tetto la banderuola affumicata gira senza pietà. Ne tengo un capo; ma tu resti sola né qui respiri nell’oscurità. Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende rara la luce della petroliera! Il varco è qui? (Ripullula il frangente ancora sulla balza che scoscende…). Tu non ricordi la casa di questa mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.

del poeta che ricorda: il filo che si avvolge (s’addipana), e quello della sua memoria spaesata, che allontana dal soggetto l’immagine della casa. vv. -. tenere un capo del filo non vale a salvare il ricordo, che sfuma (s’allontana) e si corrompe: e non resta che l’incessante vorticare della banderuola metallica, posta sulla cima del tetto per indicare la direzione del vento (lo stesso Montale ricorda che in cima al tetto della casa c’era «una ciminiera arrugginita»). Ma l’immagine del piccolo stendardo agitato da un vento senza pietà è anche quella che conclude una delle piú celebri liriche di Friedrich Hölderlin, Hälfte des Lebens (“Metà della vita”) (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ); il termine banderuola con il quale è tradotto l’originale Fahnen viene ripreso nella versione di Gianfranco Contini, Alcune poesie di Hölderlin, pubblicata in volume dall’editore fiorentino Parenti nel  (ma anticipata su varie riviste a partire dal ; Il mezzo della vita uscí su «L’Italia letteraria» appunto sul finire del ). Il capo del filo (immagine della stessa serie della bussola e dei dadi) è forse, anche, quello che Arianna diede a Teseo affinché questi non si perdesse nel labirinto (Barberi Squarotti): qui però all’altro capo non vi è piú nessuno (vedi v. ). Si noti l’effetto di rotazione (che converge con le immagini circolari del filo che si svolge dal gomitolo e della banderuola) dato dalla ripetizione di Ne tengo un capo dal v.  al v. . vv. -. ma tu … oscurità: la donna è nello stesso

tempo sola, assente, ma anche presente con il suo respiro nello stesso luogo della casa ormai inesistente (qui). v. . lo sguardo si sposta ora, dalle mura della casa, alla linea in fuga dell’orizzonte marino; c’è forse un’eco da Rimbaud, Soleil et chair (“Sole e carne”), III, : «Et l’horizon s’enfuit d’une fuite éternelle» (“E l’orizzonte fugge in una fuga eterna”). vv. -. l’avverbio qui indica l’orizzonte, oppure la luce della petroliera (Spagnoletti); il varco è quello del rivelarsi dello sbaglio di natura, dell’anello che non tiene (cfr. I Limoni, pp. -) che apre a un recupero pieno della memoria, e dunque alla pienezza dell’esperienza soggettiva. L’immagine che segue, tra parentesi, si oppone specularmente a quella dell’orizzonte in fuga, in cui – forse – si trova il varco: il frangente, l’onda che incessantemente si rompe contro la scogliera e si riforma, contrappone al varco il suo richiamo monotono, che è un richiamo alla vita reale, al suo implacabile ripetersi. vv. -. il punto di vista soggettivo, ormai compiuto e dichiarato, oppone all’assenza di memoria della donna (ribadita dalla ripetizione Tu non ricordi) la sera personale e circostanziata del poeta (questa / mia sera), che reclama per se stessa il ricordo. Ma la finale asserzione negativa, l’affermazione di non sapere fa sorgere il dubbio che ad andarsene sia l’io stesso poetante, scollegato dal filo del suo ricordo.

EPOCA





GUERRE E FASCISMO

-

La bufera e altro La bufera

“Bufera” come guerra ma anche come rivelazione

La partenza di Clizia racconta il partire di tanti ebrei

La poesia che apre la sezione inaugurale del nuovo libro di Montale, «Finisterre», dà il nome alla raccolta La bufera e altro; e fu pubblicata, prima che nel volumetto Finisterre, in «Tempo» del 613 Febbraio 1941. La bufera si pone subito come immagine della guerra ormai iniziata e vissuta come evento naturale (tuoni, grandine, lampi, al posto di bombe e di granate) o musicale (vedi vv. 16-19); Montale lo sottolinea con chiarezza in una lettera a Silvio Guarnieri del 29 novembre 1965: «La Bufera […] è la guerra, in specie quella guerra dopo quella dittatura (vedi epigrafe); ma è anche guerra cosmica, di sempre e di tutti». Ma, seguendo anche altre suggestioni, come quella di una poesia di Emily Dickinson (cfr. LETTERATURE DEL MONDO, tav. 181), The Storm (“La tempesta”), tradotta da Montale negli anni a cavallo tra Ossi e Occasioni, la bufera è anche l’affacciarsi della rivelazione, da cui scocca il lampo improvviso che illumina la realtà, la fissa in qualche cosa di eterno e di istantaneo nello stesso tempo (l’eternità d’istante del v. 12). Il sovrapporsi dell’orrore della guerra e di questo momento di epifania è determinato dal riferimento a Clizia, alla distanza che separa il poeta da lei, come separa l’Europa in preda al disastro dall’America in cui la donna è riparata. I significati cosí si intrecciano inestricabilmente; dopo la prima presentazione della bufera nei tre versi della prima strofa, nella seconda la bufera viene vista in azione nei luoghi di Clizia: la sua casa, il suo nido / notturno nella seconda; nella terza la figura del lampo si estende a segno e a ricordo di qualcosa di minaccioso e distruttivo che Clizia porta dentro di sé e che perciò la lega al poeta (e si noti il ripetersi del verbo sorprendere sia nella seconda sia nella terza strofa (vv. 5 e 11) . Nella quarta strofa, sospesa in una pausa tra i vv. 19 e 20, il fragore musicale che fa da eco alla bufera reca piú direttamente il segno della guerra, di qualcosa che incalza e opprime, a cui solo cerca di resistere qualche gesto che annaspa. C’è un effetto di separazione e sparizione che però comporta ancora una rivelazione, con la figura della donna che allontana i capelli dalla fronte (e che ricorda il gesto di Ti libero la fronte, cfr. p. 750, e di un’altra poesia di Finisterre, La frangia dei capelli…), in un saluto prima di sparire lontana. Clizia si illumina e scompare nella bufera che devasta il mondo, sembra promettere ancora una possibile e irraggiungibile salvezza nel disastro: e nello stesso tempo è solo una fragile donna che nel partire (lei, ebrea, di fronte all’incombere delle persecuzioni razziali) compie il gesto normalissimo e quotidiano di una donna del Novecento: un gesto che però qui finisce per assumere un aspetto misterioso, come sospeso nel mito. [EDIZIONE: Eugenio Montale, L’opera in versi, cit.] 4 strofe, composte principalmente da endecasillabi, piú due settenari (vv. 3, 10) e un quinario sdrucciolo (v. 9); segue un congedo d’un unico endecasillabo. Il v. 19, settenario, si compone (anche per l’occhio) con il quadrisillabo successivo, dando un ulteriore endecasillabo. Intricata la rete di relazioni, con scarse rime e assonanze, ma con molti echi interni e riprese foniche, come tra i vv. 1 e 3, con gronda e grandine e foglie e magnolia. METRO:

˜

Les princes n’ont point d’yeux pour voir ces grand’s merveilles, Leurs mains ne servent plus qu’à nous persécuter… AGRIPPA D’AUBIGNÉ,

. “I principi non hanno occhi per vedere queste grandi meraviglie, / Le loro mani non servono piú che a perseguitarci…”: versi della poesia A Dio di Agrippa D’Aubigné (-), scrittore e fiero campione francese di protestantesimo, autore d’u-

À Dieu

na Histoire universelle e del poema Les tragiques, ispirato alla strage della notte di San Bartolomeo (- agosto ), in cui per odio politico e religioso vennero trucidati molti ugonotti per tutta la Francia.

T. EUGENIO MONTALE. LA BUFERA E ALTRO



La bufera che sgronda sulle foglie dure della magnolia i lunghi tuoni marzolini e la grandine, 





(i suoni di cristallo nel tuo nido notturno ti sorprendono, dell’oro che s’è spento sui mogani, sul taglio dei libri rilegati, brucia ancora una grana di zucchero nel guscio delle tue palpebre) il lampo che candisce alberi e muri e li sorprende in quella eternità d’istante – marmo manna e distruzione – ch’entro te scolpita porti per tua condanna e che ti lega piú che l’amore a me, strana sorella, –

v. . sgronda: fa colare, scarica (ma è sinestesia lo sgrondare tuoni, nonché grandine – solido o addirittura sonoro al posto di liquido). Gli enjambement iniziali (tra i vv.  e  e tra i vv.  e ) sottolineano il fragore rotto della tempesta. v. . suoni di cristallo: quelli della grandine, come indica lo stesso Montale nella lettera a Guarnieri; il nido / notturno che segue (notare ancora l’enjambement) è la stanza da letto, nido dell’angelica Clizia vv. -. dell’oro … palpebre: «nei tuoi occhi, dentro le palpebre chiuse (nel loro guscio), risplende ancora, mentre dormi, un granello (come di zucchero) di quell’oro (un raggio di quel sole) che è andato a spegnersi su mobili, scaffali, libri dello studio (di filologa) da te attualmente occupato» (in America, presumibilmente: il mogano è un tipo di legno usato soprattutto nell’arredamento anglosassone). Ma la grana di quell’«oro che s’è spento sui mogani» si può intendere anche come un residuo bagliore del lampo (che ha preceduto i suoni di cristallo, i tuoni, e che s’è spento poi sull’arredo), che ha costretto la donna a chiudere gli occhi e davvero brucia ancora su di essi. Si ripresenta in questa strofa il motivo della luce di lampo, che chiude Il ramarro, nei Mottetti (cfr. p. ). v. . candisce: «sbianca, arroventando, sino a far impallidire»; ma v’è attrazione con lo zucchero che precede, che conferisce a questa espressione una connotazione alimentare, gelido/rovente, come di glassa. Questa connotazione verrà ribadita appena oltre da manna: il cibo miracoloso (fatto piovere da Dio sugli Ebrei, per nutrirli nel quarantennio delle loro peregrinazioni nel deserto) era, secondo la Bibbia, una sostanza dolce e bianca, che scendeva durante la notte e poi fondeva al calore del sole. vv. -. li sorprende … d’istante: il lampo (che è

anche il flash fotografico: tecnica cara a Montale, che a essa dedicò una sezione de La bufera, dal titolo Flashes e dediche), che illumina gli oggetti, per un istante, pare fissarli per l’eternità nella posa in cui li ha sorpresi. Determinante, però, è soprattutto questa figura di sospensione, prima dello schianto (della guerra, della bomba): l’eternità d’istante offre come un’improvvisa rivelazione, a cui segue l’esperienza distruttiva della bufera. vv. -. marmo … distruzione: tre sostantivi che definiscono l’eternità d’istante prodotta dal lampo, «correlativi oggettivi di freddezza, dolcezza, durezza inflessibile, nemica di ogni ambiguità o falsità» (Isella): marmo la tonalità (fredda) della luce, nonché la sua eternità; la biblica manna, cibo che cade dal cielo, sta per la grandine, ma si riferisce, insieme, alla virtú angelico-salvifica di Clizia: oppure, può essere anche quella della canzone dantesca Donna pietosa e di novella etade, , in cui, alla morte di Beatrice (vissuta in sogno dal poeta), gli angeli divengono «pioggia di manna» (Clizia infatti, com’è detto alla fine, è già scomparsa nel buio); distruzione è infine ciò che comporta la devastante caduta del fulmine demoniaco della guerra, l’incombente schianto. Ma l’intrico delle implicazioni, presenti in questi versi, è necessariamente irrisolvibile (cosí come la coincidenza di salvazione e distruzione, nel lampo/sguardo di Clizia); Montale stesso avvertiva Silvio Guarnieri, che gli chiedeva spiegazioni per marmo manna e distruzione: «sono le componenti di un carattere: se tu le spieghi ammazzi la poesia». vv. -. ch’entro te … sorella: «che (riferito a quella eternità d’istante) tu porti scolpita dentro di te come una condanna; essa ti lega a me piú di quel che non ci legherebbe l’amore». Ma il riferimento biblico (la manna, almeno) è forse una chiave d’ac-

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

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GUERRE E FASCISMO

-

e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere dei tamburelli sulla fossa fuia, lo scalpicciare del fandango, e sopra qualche gesto che annaspa… Come quando ti rivolgesti e con la mano, sgombra la fronte dalla nube dei capelli, mi salutasti – per entrar nel buio.

cesso a un’ampia allusione all’appartenenza di Clizia alla comunità ebraica, condanna inscritta nel sangue, che affratella e lega; nella distanza stessa della donna amata e nella minaccia che grava sul popolo ebraico. v. . schianto rude: del fulmine al suolo (o della bomba; o della guerra); di qui in poi si tratta (come conferma il poeta stesso) di «immagini di guerra»; sistri: strumenti metallici a percussione, che furono legati al culto egiziano della dea Iside. v. . fossa fuia: fuia («ladra») è voce dantesca (Inferno, XII, ); ma l’espressione risale certamente alla fossa fuia piú volte nominata nella Nave di D’Annunzio (cfr. ..), «ed è probabile che qui Montale ricuperi nel complesso la situazione centrale ed emblematica della tragedia dannunziana a essa legata (i sistri, lo scalpicciare, i gesti che annaspano), rivalutandola in un esemplare “correlativo” della guerra» (Mengaldo).

v. . fandango: danza andalusa, dall’andamento frenetico e spesso licenzioso, che qui qualifica la guerra in una sorta di danse macabre, danza macabra, carosello infernale. vv. -. e sopra … annaspa: si tratta di cenni d’invocazione d’aiuto (dopo l’esplosione metaforica o reale), che tuttavia richiamano alla memoria il cenno di saluto di Clizia (vv. -). v. . Come quando: come chiarisce Montale all’amico Guarnieri, gli ultimi versi enunciano una situazione di «separazione» (sicuramente la partenza di Clizia, Irma Brandeis, per l’America, in seguito alle leggi razziali fasciste; e il momento del commiato). v. . ti rivolgesti: ti voltasti indietro; sgombra: sgombrata; dopo aver sgombrato. v. . buio: «Il buio è tante cose; distanza separazione, neppure certezza che lei fosse ancora viva» (Montale).

L’anguilla

L’anguilla; allegoria dell’umanità che resiste ai disastri del mondo

Pubblicata per la prima volta nel 1948 nel Quaderno I della rivista «Botteghe Oscure» e poi inserita nella sezione Silvae della Bufera, questa poesia mette al suo centro una figura animale che non agisce piú soltanto come «correlativo oggettivo», come rivelatrice di occasioni di vita, ma occupa tutto lo spazio della poesia: un solo lunghissimo periodo in cui si sussegue tutta una serie di qualificazioni dell’anguilla, delle diverse fasi del suo ciclo biologico, che culminano in un improvviso accostamento dell’anguilla stessa al tu (la figura femminile) al quale il discorso si rivolge e in un’interrogazione che invita quel tu a riconoscere la propria fraternità e solidarietà con l’animale stesso («puoi tu / non crederla sorella?»). Per i caratteri della sua vita, per il percorso che le viene attribuito, che la porta a risalire dai mari piú lontani ai fiumi della Val Padana e poi, risalendo la loro corrente, a penetrare nei fossi piú riposti e ad addentrarsi sempre piú in alto, fino a toccare i ruscelli montani, l’anguilla (che si era affacciata già come «sparuta anguilla» nei Limoni, v. 7: cfr. p. 740) si pone qui come una vera e propria allegoria dell’umanità della poesia e della resistenza degli esseri umani immersi nel fango, tra i travagli della natura e della storia, della volontà di vita che sempre risorge, anche quando tutto sembra ormai morto («tutto comincia quando tutto pare / incarbonirsi, bronco seppellito»). Dietro il tu femminile si affaccia d’altra parte ancora una volta Clizia, nel suo resistere in mezzo ai disastri del mondo, nel suo apparire e sot-

T. EUGENIO MONTALE. LA BUFERA E ALTRO



trarsi, simile appunto a quello dell’anguilla: e non a caso nel suo guizzare serpentino, nel suo argentino trascolorare, questa è chiamata iride breve e gemella dell’iride che brilla negli occhi di Clizia, che manda la sua luce di salvezza in mezzo al fango della natura e della storia, in cui è anch’essa inevitabilmente immersa. Per questa sua immagine di resistenza dell’umano e di fraternità con un semplice essere naturale, questa poesia (che sembra tra l’altro imitare il guizzare e la forma dell’anguilla nel ritmo avvolgente e continuato della sua sintassi e della sua metrica) sembra come indicare, pur senza smentire il pessimismo professato piú volte da Montale, una fiducia nella sopravvivenza della poesia e dei valori umani, un’ipotesi di solidarietà tra la cultura e il mondo naturale (tanto è vero che qualcuno ha potuto anche parlare di «poesia ecologica», prendendone come emblema l’anima verde del v. 20).

Sorella a Clizia nella sua luce salvifica

METRO: strofa unica, composta da un unico periodo, di endecasillabi e settenari piú qualche verso composto, folti di rapporti in posizione esterna o anche interna al verso (rime facili sono presenti, ma solo negli ultimissimi versi).

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



L’anguilla, la sirena dei mari freddi che lascia il Baltico per giungere ai nostri mari, ai nostri estuarî, ai fiumi che risale in profondo, sotto la piena avversa, di ramo in ramo e poi di capello in capello, assottigliati, sempre piú addentro, sempre piú nel cuore del macigno, filtrando tra gorielli di melma finché un giorno una luce scoccata dai castagni ne accende il guizzo in pozze d’acquamorta, nei fossi che declinano dai balzi d’Appennino alla Romagna; l’anguilla, torcia, frusta, freccia d’Amore in terra

v. . sirena: l’attributo deriva «da un senso di estrosa libertà, e quasi regalità, che il poeta riconosce all’anguilla» (Spagnoletti). v. . è probabile che Montale si confonda con il salmone; non è ben accertato, difatti, in quale mare (o in quali mari) si riproducano le anguille (presumibilmente si tratta del Mar dei Sargassi, di sicuro non il Baltico). v. . piena: la corrente del fiume, al massimo della sua portata, che spinge in senso contrario (avversa) al procedere dell’anguilla. vv. -. di ramo … in capello: corsi d’acqua: rami di fiume, ruscelli, rigagnoli sempre piú esili. Ma di nuovo qui il sospetto è che Montale condensi nella sinuosità dell’anguilla quella del «gagliardo salmone» (Orelli): essa vive preferibilmente in stagni d’acqua salmastra, ma è possibile, sebbene assai raro, incontrarla anche a  km dalla foce dei fiumi. Probabile eco pascoliana: «Ora il bisbiglio e il fievole gorgoglio / si fa rumore, giú di balza in bal-

za, / divien fracasso, giú da scoglio a scoglio» (Le due aquile, -, in Nuovi poemetti). vv. -. sempre piú … macigno: l’anguilla (o almeno: quella montaliana) risale sempre piú a monte lungo i piú ardui corsi d’acqua che percorrono le rocce. v. . gorielli: rigagnoli. vv. -. finché un raggio penetrato tra i castagni non la illumina, mettendo in evidenza il suo guizzare negli stagni e le pozzanghere. v. . declinano: scendono, digradano; per l’uso di questo verbo, cfr. Dante Inferno, XXVIII, : «che da Vercelli a Marcabò dichina» (Orelli). v. . balzi d’Appennino: coste e pendii dell’Appennino. v. . torcia, frusta: serie di apposizioni, che denotano la sinuosità irrequieta e quasi esasperata dell’anguilla; la torcia è qui la fiaccola di funi ritorte, impregnata di resina.

Uno sprazzo di fiducia nella solidarietà con la natura?

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

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GUERRE E FASCISMO

-

che solo i nostri botri o i disseccati ruscelli pirenaici riconducono a paradisi di fecondazione; l’anima verde che cerca vita là dove solo morde l’arsura e la desolazione, la scintilla che dice tutto comincia quando tutto pare incarbonirsi, bronco seppellito; l’iride breve, gemella di quella che incastonano i tuoi cigli e fai brillare intatta in mezzo ai figli dell’uomo, immersi nel tuo fango, puoi tu non crederla sorella?

v. . botri: sono dei torrentelli (e le piccole valli in cui s’incassano). vv. -. disseccati … pirenaici: i ruscelli in secca dei Pirenei. Solo attraverso queste vie arse e desolate, l’anguilla (paragonata dal poeta a una freccia del dio d’Amore, scoccata in terra, quasi rasoterra, e quasi strisciante) può raggiungere i suoi «paradisi di fecondazione» (che si trovano non a monte ma in mare aperto). v. . anima verde: oltre che ai riflessi dell’anguilla, il verde allude alla vita pulsante contro l’arsura: quello che fa capire che tutto comincia proprio là dove tutto sembra bruciare, inaridirsi, farsi carbone (vedi vv. -). Si pensa inevitabilmente, per questi versi, alla Ginestra leopardiana: ma già alla sezione dei Mottetti, nelle Occasioni, era apposta una citazione dal poeta spagnolo Bécquer: «Sobre el bolcán la flor», (“Sopra il vulcano il fiore”). vv. -. da notare la serie allitterativa (in l, d, s), sempre piú estenuata, che è aperta da là dove solo;

scintilla, termine che implica una insorgenza di vitalità, si oppone a incarbonirsi, che fa parte del medesimo campo semantico, ma indica piuttosto isterilimento e morte. v. . bronco: ramo: come può apparire l’anguilla quando è seppellita nella melma; incarbonirsi è dannunziano. v. . iride: la metafora che cosí definisce l’anguilla per i riflessi che sulla sua pelle fanno i colori dell’iride la accosta subito come gemella al brillare incontaminato dell’occhio della donna (in cui la marca dell’iride ci fa ancora riconoscere un’eco di Clizia, spesso identificata con essa, anche con una poesia dal titolo Iride): «l’anguilla (e forse i suoi stessi occhi) è simile ai tuoi occhi, che tu continui a far brillare tra gli uomini (figli dell’uomo è espressione biblica); e gli uomini giacciono immersi nello stesso fango in cui tu, donna-iride-anguilla, sei immersa (l’anguilla infatti trascorre l’inverno infossata nei fondi fangosi)».

T. EUGENIO MONTALE. SATURA



Satura La storia Le due parti di questa poesia, inserita nella prima sezione di Satura, pubblicate già nel 1970 in un volume in onore di Raffaele Mattioli, sono datate rispettivamente 28 aprile e 10 luglio 1969. Si tratta di una riflessione ironica e colloquiale sulla mancanza di senso e sulla contraddittorietà della storia, in esplicita polemica contro le ideologie storicistiche e contro tanti luoghi comuni della cultura contemporanea: e in primo luogo contro la diffusa convinzione, sostenuta in quegli anni in modo particolarmente netto dai marxisti del piú diverso orientamento, che la storia vada verso qualche direzione. La prima parte si svolge in una rapida successione paratattica di brevi definizioni in negativo della storia stessa: semplici proposizioni negative, rese piú rapide dalla prevalenza di versi brevi e brevissimi, collegate dall’insistente anafora La storia non, rinforzata da una fitta successione di ulteriori negazioni. I due versi finali (26-27) giungono a ridurre il valore delle stesse precedenti constatazioni in negativo: il poeta ci avverte che anche accorgersi di ciò che la storia non è «non serve / a farla piú vera e piú giusta». La seconda parte prende avvio dalla ripetizione della formula su cui è costruita la prima parte (La storia non), ma si svolge in una piú distesa argomentazione in positivo (sostenuta da una versificazione che fa leva su versi piú ampi e dilatati). La prima strofa sembra voler indicare gli spazi che comunque la storia lascia, i margini che resistono al suo processo distruttivo. La seconda strofa si riallaccia al motivo della fuga, dell’uscita dalla rete, tanto essenziale nella precedente poesia montaliana, ma qui guardato con ironica disillusione: se infatti sembra possibile talvolta incontrare qualcuno che sia fuggito fuori, che abbia toccato l’altro, questi in realtà non lo sa nemmeno, mentre gli altri (quelli che sono del tutto dentro, ancora gli uomini «che non si voltano», prigionieri della propria ombra) si credono addirittura «piú liberi di lui». [EDIZIONE: Eugenio Montale, L’opera in versi, cit.] La prima parte consiste di un’unica strofa di versi brevi, principalmente settenari e ottonari (solo i vv. 14 e 15, endecasillabi, eccedono la misura). La seconda parte consiste di due strofe di otto versi, perlopiú endecasillabi o composti (martelliani i vv. 35, 41; quinario+endecasillabo il v. 40): il primo verso della prima strofa e l’ultimo della seconda sono settenari (e legati da assonanza, poi/lui). I versi, apparentemente liberi, intrattengono in realtà fra di loro diverse relazioni in posizione esterna, oltre che interna, anche a distanza. Nella prima parte, per es., il v. 3 rima con il v. 10, e imperfettamente con il v. 8; e si veda la densità di relazioni ai vv. 18-27, dove la rima somministra/magistra è in allitterazione con frusta/giusta, e con la consonanza giustifica/intrinseca. Nella seconda parte, oltre alla quasi-rima certo/corto, rime in senso proprio legano solo versi della prima strofa con versi della seconda: dice/felice, distrugge/sfugge, oltre alle assonanze corto/fondo, certo/credono, e a quella già notata poi/lui.

Ciò che la storia non fa e non è

Una riflessione più ampia sulla storia

METRO:

I



La storia non si snoda come una catena di anelli ininterrotta. In ogni caso molti anelli non tengono. La storia non contiene il prima e il dopo,

v. . autocitazione (dall’«anello che non tiene» dei Limoni, : cfr. p. ), applicato a una tematica

«civile» e non piú individuale.

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EPOCA

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GUERRE E FASCISMO

-

nulla che in lei borbotti a lento fuoco. La storia non è prodotta da chi la pensa e neppure da chi l’ignora. La storia non si fa strada, si ostina, detesta il poco a poco, non procede né recede, si sposta di binario e la sua direzione non è nell’orario. La storia non giustifica e non deplora, la storia non è intrinseca perché è fuori. La storia non somministra carezze o colpi di frusta. La storia non è magistra di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve a farla piú vera e piú giusta. II







La storia non è poi la devastante ruspa che si dice. Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli. C’è chi sopravvive. La storia è anche benevola: distrugge quanto piú può: se esagerasse, certo sarebbe meglio, ma la storia è a corto di notizie, non compie tutte le sue vendette. La storia gratta il fondo come una rete a strascico con qualche strappo e piú di un pesce sfugge. Qualche volta s’incontra l’ectoplasma d’uno scampato e non sembra particolarmente felice. Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato. Gli altri, nel sacco, si credono piú liberi di lui.

v. . non è nell’orario: non si trova scritta sull’orario. v. . riferito al famoso detto historia magistra vitae. vv. -. Ripresa dalla terza parte del Gerontion di Thomas S. Eliot (cfr. CANONE EUROPEO, tav. ), vv. -: «Think now. / History has many cunnings passages, contrived corridors / And issues» (“Pensa ora. / La storia ha molti imbrogliati passaggi, complicati corridoi / e sbocchi”). vv. -. si riferisce a un tipo di pesca particolar-

mente rovinoso per l’ambiente marino, oggi vietato; in un primo momento proprio Rete a strascico era previsto come possibile titolo per la raccolta poi uscita, nel , con il titolo Satura. Evidenti i riferimenti ai motivi di In limine, - (la «maglia rotta nella rete» e l’invito a fuggire, «tu balza fuori, fuggi»: cfr. p. ). v. . ectoplasma: in parapsicologia, si tratta di una sostanza che si libera dal medium (ma qui sta per «spirito», o «fantasma»).

T. EUGENIO MONTALE. SATURA



L’angelo nero Una prima redazione manoscritta, custodita presso il Fondo Manoscritti di Autori contemporanei dell’Università di Pavia (dove sono anche altre redazioni intermedie), è datata al 30 ottobre 1968; il testo fu poi inserito nella seconda sezione (Satura II) dell’edizione del 1971. Si tratta di una singolare preghiera (si veda l’invocazione che si ripete all’inizio di ognuna delle quattro strofe) rivolta a un angelo che non ha piú i connotati salvifici della donna-angelo, della Clizia stilnovistica e petrarchesca, ma che allo splendore solare e al bianco di neve di quel visiting angel oppone la negatività del nero, una dimensione infernale, un diretto legame con la morte e con la fine, con i micidiali residui di cui si riempie il mondo. Ma a tratti sembra che prevalga «l’affettuosa invocazione, […] l’intrecciarsi del riconoscimento del daimon (non celestiale né umano, il rapido lampeggio / della tua incomprensibile fabulazione) all’affiorare d’un riservato senso di consuetudine con le sue commosse personificazioni (la caldarrostaia e lo spazzacamino)» (Carpi). In realtà si tratta di una figura ambivalente che, pur nella sua negatività, nel suo rapporto con il mondo degradato, mantiene una continuità con le figure della precedente lirica montaliana, ne rappresenta piuttosto una specie di critica interna, un abbassamento insieme angoscioso e affettuoso: nella fuliggine dell’angelo-spazzacamino, grande all’inizio della poesia, piccolo all’inizio della seconda strofa, e miniangelo alla fine, si scorge la traccia del fuoco incandescente che pure bruciava negli occhi di Clizia; nel suo buio resta la possibilità di trascolorare e di mandare lampi improvvisi; il suo essere fosco può avere esito nel bianco (vv. 25-26). Dalla poesia che in Satura precede questo Angelo nero, Divinità in incognito, si può ricavare il suggerimento di vedere questa figura come una divinità degradata, l’unica divinità e salvezza possibile nel mondo contemporaneo, «deità in fustagno e tascapane», «divinità, anche d’infimo grado», che si rifugia nei margini e nei residui, nel quadro di una religione laica, «negativa» e pessimistica, che sente la minaccia dell’apocalissi. Numerose sono, d’altra parte, le analogie, notate da Oreste Macrí, con i vv. 13-19 del Piccolo testamento, fra cui: spenta ogni lampada e qui tizzi spenti; ombroso Lucifero e qui angelo nero; semi- e qui mini-; ali di bitume e qui angelo…fuligginoso; ali semi- / mozze dalla fatica e qui stanco di errare; cipria e qui spolvero. Questa preghiera in nero si svolge attraverso una serie di motivi cosí distribuiti nelle quattro strofe: 1. il poeta vorrebbe inginocchiarsi sui tizzoni spenti, dove resti un frammento delle penne dell’angelo nero, sullo sfondo di un paesaggio sul quale brillano i bagliori di forni sinistri; 2. dell’angelo viene sottolineato il trascolorare, l’aspetto insieme costante e multiforme, sfuggente; 3. la richiesta all’angelo di svelarsi è accompagnata dal rilievo sul carattere minaccioso del suo fulgore; 4. il poeta sa che se potesse toccare fisicamente l’angelo non potrebbe riconoscerlo, come invece fa nella sua immaginazione, sapendo bene che non c’è confine tra il vero e il falso; della sua presenza di cenere e di fumo ben poco, solo un grumo di bruciaticcio, può restargli tra le dita. METRO: 4 strofe di varia lunghezza, composte da versi di metro diverso, legati fra loro da assonanze, allitterazioni ecc., e rarissime rime.

O grande angelo nero fuligginoso riparami sotto le tue ali, che io possa sorradere

v. . fuligginoso: riferito ad angelo (in quanto spazzacamino, v. ).

v. . in modo che io possa rasentare, sfiorare (sorradere).

Un angelo degradato, l’unica divinità del mondo contemporaneo

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EPOCA

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i pettini dei pruni, le luminarie dei forni e inginocchiarmi sui tizzi spenti se mai vi resti qualche frangia delle tue penne



o piccolo angelo buio, non celestiale né umano, angelo che traspari trascolorante difforme e multiforme, eguale e ineguale nel rapido lampeggio della tua incomprensibile fabulazione

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GUERRE E FASCISMO

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o angelo nero disvélati ma non uccidermi col tuo fulgore, non dissipare la nebbia che ti aureola, stàmpati nel mio pensiero perché non c’è occhio che resista ai fari, angelo di carbone che ti ripari dentro lo scialle della caldarrostaia grande angelo d’ebano angelo fosco o bianco, stanco di errare se ti prendessi un’ala e la sentissi scricchiolare non potrei riconoscerti come faccio nel sonno, nella veglia, nel mattino perché tra il vero e il falso non una cruna può trattenere il bipede o il cammello,

v. . «le punte spinose dei rovi e le luci che emanano da forni industriali»; i pettini dei pruni possono far pensare anche ai fili spinati dei recinti o delle trincee belliche. Per le luminarie dei forni in una lettera a Guarnieri, Montale chiarisce di averne ricavato l’idea prima dalle luci (forse quelle delle raffinerie) visibili di notte, sulla linea del treno in direzione di Forte dei Marmi, dopo Sarzana; senza escludere però che vi sia un’allusione anche ai forni crematori nazisti. v. . tizzi: tizzoni (residui carbonizzati, forse ancora riferiti a distruzioni belliche); se mai, è sottinteso «per vedere». vv. -. «angelo che appari e scompari, mutando di colore, diverso da ogni altra forma (difforme), dotato di molteplici forme, uguale e diverso negli improvvisi lampi del tuo narrare che non si comprende». Nel lampeggio ricorre ancora la baluginante dimensione dei lampi della precedente poesia montaliana (dalle Occasioni alla Bufera). vv. -. «Qui Montale esprime fino in fondo il suo stato di smarrimento tra bisogno d’un punto

d’appoggio e incapacità a sopportare il peso d’una qualsiasi libertà e della sua luce» (Carpi); disvélati: líberati dai veli, manifestati (forse autocitazione da Incantesimo, vv. -: «attendi l’ora / di scoprire quel velo…». v. . fari: forse sono ancora i lampi (fotografici, metereologici, bellici, e qui anche automobilistici). vv. -. angelo fosco / o bianco: ritornano, ridotti a qualità della luce, i consueti attributi angelici della seconda e della terza raccolta: il fuoco e il gelo (e vedi prima, vv. -: fulgore e nebbia) vv. -. siamo qui ancora nella sfera semantica di Volpe, piú profano angelo subentrato a Clizia a partire dai Madrigali privati de La bufera e altro: «lo strazio / di piume lacerate che può dare / la tua mano d’infante in una stretta» (nel madrigale Se t’hanno assomigliato); ma anche in quella del Lucifero del Piccolo testamento, dalle ali di bitume semi- / mozze. vv. -. «non c’è nessun passaggio stretto a ostacolare il rapporto tra il vero e il falso, cioè è molto

T. EUGENIO MONTALE. SATURA





e il bruciaticcio, il grumo che resta sui polpastrelli è meno dello spolvero dell’ultima tua piuma, grande angelo di cenere e di fumo, miniangelo spazzacamino.

facile passare dall’uno all’altro»; la cruna che trattiene l’uomo (il bipede) o il cammello è quella dell’ago del famoso paradosso evangelico. Questa metafora era assente in una prima redazione manoscritta, che qui suonava: «perché tra il vero e il falso non c’è misura / e ciò che resta tra le dita è meno / di una piuma».

v. . il bruciaticcio: il suo rimanere sui polpastrelli delle mani evoca l’effetto delle caldarroste della caldarrostaia. vv. -. spolvero … piuma: «lo strato di polvere depositato sulla tua ultima (forse: minima) piuma»; oppure: «la polvere alzata dalla tua piuma, nell’atto di spolverare con essa».

˜ TESTI

10.9 CARLO EMILIO GADDA Giornale di guerra e di prigionia Il senso di colpa del prigioniero ( maggio )

Dai diari di Gadda si riportano dei passi del Diario di prigionia redatto nel campo di concentramento di Celle, nella regione tedesca della Bassa Sassonia (per la precisione, nei pressi di Hannover). Come era già accaduto per le parti del diario relative ai combattimenti del 1916 (Giornale di guerra) e, ancor prima, alle settimane di addestramento del 1915 (Giornale di campagna), Gadda elabora le sue pagine piú sentite e profonde a partire proprio dal dato dell’immobilità e della stasi, e tanto piú nello stato di prigionia dopo i già lunghi momenti di pausa tra i fulminei lampi dei combattimenti, degli assalti. Il prigioniero è qui assalito da un cupo senso di colpa per la propria stessa condizione, per la cattura subita nel disastro di Caporetto, e pensa che dalla stessa famiglia e da tutta l’Italia possano investirlo il disprezzo e la taccia di vile. Ciò lo fa cadere in una prostrazione mortale. La rivendicazione del proprio valore non può essere sostenuta da nessun documento, da nessuna testimonianza: la sua pura coscienza non varrà nulla davanti alla sfrontatezza dei vari imboscati, di tutti coloro che nella guerra hanno pensato solo a salvare la pelle. Ma egli sente nello stesso tempo che la sua coscienza è intaccata dal morso della delusione, che è accaduto qualcosa che ha rotto la sua fede e la sua passione di buon soldato. Per il modo in cui aveva vissuto la prima parte della guerra, si potranno ricordare queste parole del Castello di Udine: «Io ho presentito la guerra come una dolorosa necessità nazionale, se pure, confesso, non la ritenevo cosí ardua. E in guerra ho passato alcune ore delle migliori di mia vita, di quelle che m’hanno dato oblío e compiuta immedesimazione del mio essere con la mia idea: questo, anche se trema la terra, si chiama felicità». [EDIZIONE: Opere di Carlo Emilio Gadda, edizione diretta da D. Isella, IV, Saggi giornali favole e altri scritti, II, a cura di C. Vela, G. Gaspari, G. Pinotti, F. Gavazzeni e D. Isella, Garzanti, Milano 1992]

Cellelager,  maggio . Ore  antim.ne – Questi sei giorni scorsero e scorrono senza colore particolare, rispetto ai precedenti. Le solite tempeste, i ricordi insostenibili, gli affetti lontani, la patria. Tuttavia un po’ piú di calma e di misura, nel tragico esasperarsi della passione. Ieri sera, al finire d’un violento acquazzone, mi assalí a tradimento, mentre stavo inebetito sulla soglia della baracca, uno dei piú dolorosi pensieri. Esso va e ritorna a quando a quando, dopo assenze di giorni e di settimane, come un pirata contro una spiaggia. È difficile esprimerlo, in quanto pertiene alle facoltà subcoscienti dell’anima, e costituisce una immedesimazione. Mi par d’essere a Milano, mi par d’essere tra i miei cari, o nello stesso loro animo, nell’intimo del loro sentire; . Questi sei giorni … precedenti: l’appunto precedente è del  maggio . . Le solite tempeste: anche in senso metaforico (le tempeste dei sentimenti, dei ricordi furenti del prigioniero), ma soprattutto in senso proprio, meteorologico (si veda oltre il violento acquazzone): come è inevitabile che fosse, anche in maggio, nel Nord della Germania. . facoltà subcoscienti dell’anima: l’aggettivo subcosciente non rimanda al lessico della psicoanalisi (con il quale Gadda prenderà confidenza probabilmente negli anni Venti – comunque con molto

anticipo rispetto alla gran parte della cultura italiana), ma a trattati di psicologia sperimentale che pure non dovettero mancare tra le letture dello studente d’ingegneria del Politecnico, negli anni Dieci. . i miei cari: la madre, Adele Lehr; la sorella Clara; il fratello Enrico (che in realtà era morto nel cielo di Vicenza il  aprile ). Numerosissimi gli accenni alla famiglia contenuti nelle pagine del diario, soprattutto nella fase della prigionia, quando Gadda torna spesso con il pensiero agli anni pur non allegri dell’adolescenza.

Senso di colpa per l’impossibilità di agire

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EPOCA

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GUERRE E FASCISMO

-

mi pare di esser loro, in altre parole. E di leggere la prima notizia della disfatta di Tolmino: e di leggere le seconde notizie, non piú temperate da speranza. «Avanzano, li hanno lasciati passare. I nostri figli, i nostri fratelli li hanno lasciati passare. Ed erano pur jeri pieni di fede e di vita. Ma, dunque, anche il loro vantato coraggio non è nulla, di fronte ai tedeschi; si piegano come bambini, si terrorizzano al solo apparire dell’elmetto nemico. Che sarà di noi, delle nostre case, delle nostre persone, della nostra vita?» Mi pare che il disprezzo vinca la pietà, che lo sdegno superi l’amore; che nel profondo del loro pensiero i nostri cari stessi ci maledicano, nella città ardente e resistente. Questo pensiero, di cui ho segnato una traccia, ma di cui non m’è riuscito di riprodurre l’orrore e l’intensità, è esso pure una rievocazione, in quanto riguarda un’immagine dello scorso ottobre. Eppure è cosí vivo e feroce, che nel turbamento al quale mi porta sono i caratteri d’una prostrazione mortale. Allora muoio con lo spirito. Oh! Con quali parole, con quali affermazioni potrò smentire la taccia di vile che mi sarà fatta in eterno? Qual forza di chiacchiere o disdegnoso silenzio potrà conferire altrui la certezza ch’io fossi un bravo soldato? Nessun documento mi rimane, nessun vivo ricordo della mia vita nelle battaglie. Non fotografie, non lettere di superiori, non premî di sorta. Avendo girato qua e là, in diversi reparti, come potrò rintracciare i capi che mi hanno visto al mio posto? Come, d’altronde, potrei pregarli d’una testimonianza efficace? Il mio diario del Carso, le carte topografiche, gli schizzi, sono andati preda ai tedeschi. I miei soldati andranno dispersi nel mondo. Mi amarono; mi dimenticheranno. Oh, miei vecchî soldati, miei giovanissimi compagni, quali divini momenti abbiamo vissuto insieme! Il resto della lurida vita non significa nulla. […] E voi, soldati della .a , m’avete pur visto: voi ricorderete che il solo incoraggiamento ch’io credessi di darvi all’annunzio dell’offensiva tedesca fu il seguente: «Le pallottole della mitraglia bucano i tedeschi come gli austriaci». Voi m’avete visto sul Krasji e in ogni . disfatta di Tolmino: quella che è passata alla storia come Caporetto. L’esercito tedesco, intervenuto dopo l’armistizio con la Russia al fianco delle forze austriache che sin dal  sostenevano il confronto con le truppe italiane, il  ottobre del  sfondò, con l’ausilio della nuova tattica detta «infiltrazione», le linee di resistenza della II armata nella conca tra Tolmino e Plezzo, a valle del Monte Nero (nei pressi del quale era accampato Gadda). Gadda con i suoi uomini venne catturato in fase di ripiegamento il giorno dopo, mentre tentava di attraversare l’Isonzo presso un ponte distrutto a Ternova, proprio nei pressi di Caporetto. Lo scrittore redasse due diversi memoriali degli avvenimenti. . non piú temperate di speranza: i primi dispacci del Quartier Generale tentarono infatti di minimizzare il disastro militare; dalla fine di ottobre non fu piú possibile nascondere l’entità di quanto era accaduto. . Avanzano … passare: soggetto sottinteso di Avanzano (a cui si riferisce anche il pronome li) è «i nemici»; quella secondo cui nella disfatta di Caporetto i soldati italiani avrebbero ceduto senza combattere fu una delle voci piú insistenti (colpevolmente avallata come fu dallo stesso Comandante in Capo, Luigi Cadorna), sparse probabilmente

anche nel tentativo di trovare una spiegazione alla disfatta. . prostrazione: stato di profondo abbattimento fisico e spirituale. . Il mio diario del Carso: in effetti, il diario di Gadda relativo alle operazioni militari di gran parte del  andò perduto durante la ritirata del - ottobre. Molti degli scritti di Gadda, tra le Poesie del  (pubblicate nel ) e i brani confluiti nel Castello di Udine, possono essere considerati un tentativo di rendere testimonianza del proprio impegno e della propria efficienza in guerra. . quali divini … insieme: duplice fu il valore emotivo che Gadda diede alla guerra: tragedia sí, personale e collettiva («fine delle fini»), che seppe dipingere come pochi altri nelle sue pagine diaristiche; ma anche, nelle lunghe settimane di marce alpine e nel rapporto franco ed entusiastico (almeno sino ai primi combattimenti) con i giovani soldati a lui sottoposti, esperienza vitalistica e rinfrancante. . soldati della .a: la compagnia di mitraglieri alpini comandata dal tenente Gadda. . sul Krasji: l’altura (articolata su due picchi: Gadda si trovava sul piú basso, a quota ) nei pressi del Monte Nero sulla quale era accampata la a compagnia al momento dell’offensiva au-

T. CARLO EMILIO GADDA. GIORNALE DI GUERRA E DI PRIGIONIA

momento della tragica ritirata, voi potrete dire come e quanto io abbia avuto paura. Nessuno degli infiniti proietti d’ogni ora di battaglia, e quanti m’hanno infarinato di terra e di polvere della pietra in frantumi, e quanti m’hanno attossicato i polmoni e fatto velo alla vista, nessuno è stato cosí generoso da lasciarmi un documento della vita di soldato. Si direbbe che, in guerra, chi cerca non trova. Cosí tornerò, se tornerò, a capo chino, tra migliaia di traditori e di cani, di puttanieri da café-chantant, di istruttori di reclute a base di bordello e di fiaschi in batteria, di eroi dei comandi di divisione, di araldi della vita comoda e quieta; fra le congratulazioni per lo scampato pericolo e le esortazioni a ben continuare nella vita. E l’usbergo del sentirmi puro, del mio vecchio maestro di fede potrebbe esser pieno di letame, che sarebbe egualmente lucido ed ammirato. Se pure è lucido il mio, che lo vedo già intaccato dal morso della delusione, consigliatrice a mal fare. La parentesi è finalmente chiusa: e pure a fatica: un anello trae l’altro. Nella vita del campo, poche novità: non posta dall’Italia, nessuna notizia importante. stro-tedesca. . come … paura: antifrasi retorica; equivale a «non ebbi affatto paura». . infarinato … alla vista: la terra e i minuscoli frammenti della pietra in frantumi, sollevati dalle esplosioni, lo avevano ricoperto di un lieve velo di polveri simile a farina, attossicato i suoi polmoni, cioè danneggiato le vie respiratorie, e fatto velo alla vista, cioè lo avevano quasi accecato per lunghi momenti. . nessuno è stato … vita di soldato: Gadda addirittura si lamenta del fatto che nessuna ferita («documento della vita di soldato») gli sia stata inferta dal nemico, per poter dimostrare l’onestà del suo comportamento. in prima linea. Insomma: «in guerra, chi cerca non trova» (mentre invece chi fa di tutto per nascondersi e ripararsi – come un personaggio della Meccanica, Gildo Pessina – finisce impallinato). . migliaia di traditori … ben continuare nella vita: con spontaneo ricorso alla tecnica dell’accumulo, segno di violenta indignazione morale, Gadda dipinge il mondo degli «imboscati» che in mille modi sono riusciti a evitare di essere coinvolti nella guerra: li immagina, nel dopoguerra, vantarsi del-

le proprie gesta belliche pur essendosi magari limitati a fare «gli istruttori di reclute a base di bordello e di fiaschi in batteria», o a fare i passacarte presso i comandi di divisione, e ora tutti intenti a congratularsi per lo scampato pericolo. . l’usbergo … ammirato: la corazza che protegge la coscienza di aver bene operato (l’usbergo è, propriamente, la parte dell’armatura che protegge il busto) secondo l’insegnamento di un vecchio maestro di fede, potrebbe pure riempirsi di letame, ma di fuori apparirebbe ugualmente splendente e degna di ammirazione: insomma sarebbe presa per buona coscienza anche quella degli ipocriti vili e profittatori. Il vecchio maestro di fede, da cui è ricavata l’espressione l’usbergo del sentirmi puro, è Dante (che definisce la coscienza «la buona compagnia che l’uom fiancheggia / sotto l’asbergo del sentirsi pura», Inferno, XXVIII, -). . Se pure è … a mal fare: ma la purezza d’animo, la coscienza felice, è in lui duramente intaccata dal morso della delusione che l’esperienza bellica gli ha regalato spingendolo a mal fare, cioè alle accuse, alle polemiche, alle vociferazioni (cui anche Gadda, malgrado tutto, indulgerà in prigionia; e che poi celerà per un lunghissimo dopoguerra).

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GUERRE E FASCISMO

-

L’Adalgisa L’Adalgisa

L’assolo dell’Adalgisa sulla sua vita

La metamorfosi da popolana a borghese

Il suo ufficio di “ripulitrice di tombe”

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Il racconto di cui si riporta qui la parte iniziale uscí, prima che nel volume del 1944, sul «Tesoretto», Almanacco di Mondadori per il 1941, ed è il piú ampio dei «disegni milanesi» in parte desunti da un incompiuto romanzo sul quale Gadda lavorò a piú riprese a metà degli anni Trenta (Un fulmine sul 220, recentemente restaurato da Dante Isella). Questo inizio si svolge come una sorta di «assolo» della protagonista, il cui nome dà anche il titolo al volume, Adalgisa Borella vedova Biandronni: la sua voce imbastisce una serie di ricordi, recriminazioni, scatti polemici di fronte alla quasi silenziosa cognata Elsa Caviggioni-Cavenaghi, con un vero e proprio virtuosismo che ha le radici nel suo passato di cantante lirica ritiratasi dalle scene, ancor giovane, per l’affievolirsi della voce. Cantante non proprio di primo piano («Fu, “per breve stagione”, una Violetta e una Gilda di quinto ordine», cioè protagonista di Traviata e Rigoletto di Verdi in teatri periferici di Milano come il «Càrcano»), ma estremamente popolare (soprattutto per il rigogliosissimo aspetto) tra i giovanotti del Politecnico tra i quali si finge anche l’autore. La sfuriata con la quale veniamo avvicinati ex abrupto a questo personaggio è motivata dai rancori da lei accumulati nei confronti della tirannica famiglia borghese dalla quale proveniva il suo adorato e defunto marito, il ragioniere Carlo Biandronni, appassionato collezionista di francobolli, minerali e coleotteri. Dopo questo brano iniziale, il racconto proseguirà con vari ricordi del defunto ragioniere, e in particolare della sua collezione di coleotteri (che dà spunto a Gadda per produrre una giocosa e pullulante elencazione dei loro nomi piú diversi). Poi si farà esplicitamente avanti la voce del narratore, a rievocare la giovinezza dell’Adalgisa e la sua breve carriera di cantante, l’incontro con il futuro marito, il matrimonio guardato con ostilità dalla maggior parte dei parenti di lui, l’impegno della popolana Adalgisa nell’assumere la parte di signora borghese, le varie vicende della vita con Carlo, i rapporti con quei suoi parenti, tra cui spicca l’odiosa gentildonna Eleonora Vigoni, da lei definita «suocera universale» che, dall’alto della sua figura aristocratica e con gli strumenti di una lingua, orale e scritta, particolarmente «sardonica», «s’era investita di adeguate funzioni ispettive nei confronti di tutte le giovani spose della “famiglia”», tenute in scacco con i suoi modi «tra la levatrice e la maga e la druidessa». Dopo la morte di Carlo, sepolto con un funerale in grande stile nel cimitero Monumentale di Milano, Adalgisa passa interi pomeriggi davanti alla tomba del caro estinto, curandone l’assetto («non faceva che lavorare, pulire, disporre i fiori, rigovernare i vasi, toglierne li steli risecchi, mondar foglie, rimetter l’acqua, lucidar bronzi ed ottoni col Sidol»). Le figlie malandate di un conoscente di Carlo, sepolto accanto a lui, le chiedono di occuparsi anche della tomba dei loro genitori: e il racconto si conclude con la grottesca immagine di Adalgisa che, identificata quella tomba, si impegna a grattare e raschiare solertemente «certi licheni verdastri, o nerastri» che incrostano «d’una scandalosa flora criptogamica» le natiche di una statua di Saturno che la decora. [EDIZIONE: Opere di Carlo Emilio Gadda, edizione diretta da D. Isella, I, Romanzi e racconti, I, cit.]

«…E che ero una qui, e che ero una là; e che cantavo nei teatri di strapazzo, per i militari; che avevo già avuto una cinquantina d’amanti!… ma sí!… cento… mille… un milione!» . «…E che … un milione!»: le malignità sul suo conto che Adalgisa ripete sono quelle messe in giro appunto dai parenti serpenti, specie dopo la morte di Carlo: ella strilla con una voce evidentemente memore dei trascorsi teatrali, agile e veloce; piú avanti, in uno dei tanti flash back del racconto,

che ritrae una scenata prematrimoniale, la sua voce viene descritta come dotata della «secca, inaudita velocità d’una mitragliatrice, in quella parlata vertiginosa e crepitante che non dà tempo alle repliche, come la gragnuola non dà modo ai ripari». Il suo repertorio da soprano eccelleva del resto in

T. CARLO EMILIO GADDA. L’ADALGISA



Una frenesia improvvisa aveva colto quella donna, per solito cosí «normale». I ragazzi si erano allontanati a guardare una carabina che aveva un ragazzo, e pareva vera: non ad aria compressa, ma con le «vere cartucce». Stavano osservandola estasiati, pezzo per pezzo: la toccavano, timidi, con un ditino, l’uno dopo l’altro, mentre il ragazzo, muto e sprezzante, gioiva di orgoglio. «…Se non fosse stato per il mio povero Carlo, che mi adorava… senza esagerazione… mi adorava», ricordò di aver sorriso del verbo adorare nel caso di Elsa, «…povero figliolo!… se non fosse stato per lui… ti dico io che me lo sarei preso davvero l’amoroso… ma de quii viscor a, però… un tenente dei bersaglieri… sí, proprio, un tenente…», pareva una bambina in capricci, che dicesse un cioccolattino col rosolio… sí, proprio, col rosolio! «con delle piume fino alla vita!», e segnò davvero la cintura, «per farla crepare di rabbia… quella stregaccia!… E ce l’avevo lí pronto, veh?… bastava solo che avessi voluto!… Vedova… padrona di fare quel che volevo… dopotutto… Ed era perfino un nobile… un meridionale, magari… ma un gran bel ragazzo!» «È una strega!», gridò; «sono delle streghe! tutte quante insieme!… Gli manca soltanto la pentola da far bollire i malefizî, con dentro le lingue dei rospi… Mi hanno avvelenato la vita!» «Non pensarci, cara, a certe tristezze», disse Elsa assai triste, con una sincera pietà. «Rasserénati… hai almeno i tuoi figli…»: e un pianto le velò improvvisamente gli occhi. «Non voglio rasserenarmi, che rasserenarmi d’Egitto!», gridò l’altra con una rabbia crescente, facendo volgere chi passava. «Non voglio. E tutto perché ero rimasta vedova! Cosa non me ne han dette! Cosa non me ne avevano fatte passare già fin da prima!… perché cantavo! Sí, cantavo; oh bella!… Cantavo!… perché avevo una voce… che se non avessi sposato il mio povero Carlo… a quest’ora sarei sul palco del Metropolitan… con una cinquantina di file di perle intorno al collo…»

«vocalizzi, disperati gorgheggi, nelle zone sopracute della tessitura». L’accusa di facili costumi, in particolare, pare un’eresia ad Adalgisa, che piú avanti descrive a lungo l’abilità con cui si era difesa, prima del matrimonio, dalle troppo solerti attenzioni da parte dei propri ammiratori («Aveva ammiratori infiniti, ma aveva il senso, come dire? il desiderio, la manía della famiglia: delle nozze e del consorte legittimi, delle buone regole. […] Ebbe, insomma, un’adolescenza e una giovinezza illibata; fino al povero Carlo»). . cosí «normale»: l’uso delle virgolette da parte di Gadda è in tutto il racconto estremamente raffinato: esso allude molto spesso a una sorta di «voce comune» fuori campo, la voce dell’odiato «buon senso» borghese che fa da controcanto (insieme al solito apparato di erudite note al testo, qui spesso in forma di lunghe tirate di argomento storico o scientifico) alla voce compassionevole, anche se spesso divertita, dell’autore. . I ragazzi: i figli di Adalgisa e Carlo, Gianfranco e Luciano. . ricordò … di Elsa: la confidente di Adalgisa è la cognata Elsa Caviggioni-Cavenaghi, donna di estrazione sociale superiore la quale talvolta usa un linguaggio che suona alle sue orecchie artefatto e pretenzioso: come nell’uso del verbo adorare. . l’amoroso: un amante.

. un cioccolattino … la cintura: la fantasia erotica di Adalgisa dipinge il tenente dei bersaglieri come un cavaliere medievale, le cui tradizionali piume sul cappello si allungano, come fossero quelle di un cimiero, sino alla vita; una fantasia dolce come un cioccolattino (antiquato e lezioso il raddoppiamento consonantico) al rosolio, liquore zuccherino dal sapore stucchevole. . quella stregaccia: la rappresentante della famiglia di Carlo piú odiata da Adalgisa è l’anziana donna Eleonora Vigoni. . veh?: interiezione di ascendenza settentrionale: vale «sai?». . i malefizî: i venefici filtri delle streghe. . con una sincera pietà: la malinconica pietà è uno dei caratteri dominanti del personaggio di Elsa, destinata dalla famiglia a un freddo matrimonio con l’anziano nobile Gian Maria (la sua storia è raccontata nell’altro «disegno milanese» Al Parco, in una sera di maggio). . un pianto … gli occhi: sterile è invece il matrimonio di Elsa; ma del resto la sua bellezza pallida e austera risponde perfettamente all’identikit, caro a Gadda, della «signorina» tendenzialmente asessuata. Tutto il contrario dunque dell’entusiasticamente «fisica» Adalgisa (anche al di là della sua fedeltà postuma all’adorato marito). . a quest’ora sarei sul palco del Metropolitan … :

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I ragazzi, laggiú, ipnotizzati da quella carabina. «E questi due disgraziati lo devono a me, solo a me, se domani avranno qualche cosa addosso anche loro, come tütt i alter, una posizione, un po’ di sostanza…» Elsa considerò che in realtà la cognata le era sempre parsa piú sollecita dell’ordine che del disordine: piú preoccupata della casa, dei «paviment de cera», che del palcoscenico del Metropolitan. Una tenuta inappuntabile della persona, una borsetta chiusa, stretta a due mani sulla cerniera, una oculata amministrazione della «sostanza». Intenta sempre alle cose fondate, alle scuole e alle scarpe dei ragazzi, e impegnata a tutt’altro che a cercar bersaglieri, o ufficiali de’ bersaglieri, con le penne fino alla vita… Solo la patita umiliazione, lo sdegno che l’aveva rôsa per anni, lunghi anni, potevano indurla ad esprimersi cosí. Solo il ricordo degli anni di gioventú e d’orgoglio, che aveva sperato felici dopo le nozze: e invece nella «nuova famiglia» l’avevano considerata come una disgrazia, una debolezza «di quel benedetto Carlo». E l’avevano lasciata freddamente in disparte, o addirittura respinta, come una profittatrice e una ex-cantante d’operette, una furba, insomma, a cui fosse riuscito di fare il colpo. Il colpo col povero Carlo. «Hai da vendicarmi, Elsa mia!», disse a un tratto; in un tono sommesso, cattivo, quasi un suggerimento. Cercò un fazzoletto nella borsetta: se lo premé sugli occhi, si soffiò il naso. «Vendicarti?» «Voglio dire sta’ allegra; divèrtiti intanto che sei ancora in tempo. Non pensarci, non essere cosí triste. È tutta poesia, nient’altro che poesia, credi a me…» Disse «poesia» come avrebbe detto le feci o altri materiali putrescenti. «Soltanto… sceglilo bene… Càtel foeura cont i occ avert b…» «Ma non dargli la soddisfazione di credere al loro stemma… alla loro superbia… di prendere come oro colato tutte le minchionerie che gli vengono fuori dalla bocca… Sono dei marchesi minchioni! Dài retta a me! Tu poi! Che sei come me, che sei piú bella di me… che sei giovane…»: la guardò con l’occhio ammirato d’una sacerdotessa, d’una medichessa. «Se non sei felice… se non hai tutte le soddisfazioni che meriti… ascoltami! Gli anni fanno presto a passare… è inutile consumarli a far via la polvere ai mobili, ai ritratti… Credimi, Elsa, non meritano…» «Ma di che parli? Che dici? a quali marchesi alludi?…», implorò Elsa, con una voce tuttavia cosí limpida, che disarmò la cognata. La quale, come una scolaretta redarguita dalla maestra, inghiottí senza batter ciglio quel difficile «alludi».

fantasia, quella del Metropolitan (il grande teatro lirico di New York, uno dei piú prestigiosi del mondo); ma il «sacrificio» di se stessa e delle proprie ambizioni canore alle pur ambite nozze con il ragionier Carlo costituisce naturalmente uno dei cavalli di battaglia nella conversazione della vedova. . come … un po’ di sostanza…»: ambizione di Adalgisa, per sé e per i suoi figli, è quella di raggiungere la «normalità» borghese pure tanto esecrata: vuole insomma essere come tütt i alter, «come tutti gli altri» (lei che invece è di umilissime origini, e da piscinina, da bambina, faceva l’aiutante stiratrice), e a questo scopo si è fatta ordinata amministratrice di se stessa, come ci dirà Elsa nel capoverso successivo. . «Hai … Elsa mia!»: la trascinante forza vitale di Adalgisa, ormai però affievolita, tenta di trovare un risarcimento alle ingiurie patite istigando alla

ribellione la giovane e già rassegnata Elsa. . marchesi minchioni: nobili ma sprovveduti (con voce dialettale ma certo non specificamente milanese, minchioni – da cui il precedente minchionerie). . la guardò … d’una medichessa: Adalgisa, addirittura sacerdotessa del vigore fisico, certo comunque dotata di occhio clinico da medichessa, riconosce non senza ammirazione le grazie pur discrete della cognata. . far via la polvere: portar via la polvere, spolverare. . ritratti: quella dei ritratti, figure che accusano, nel ricordo di chi è scomparso, è una tematica ricorrente nel racconto come in tutta l’opera di Gadda (cfr. la nota , p. , al secondo brano da La cognizione del dolore). . quel difficile «alludi»: sulla semplicità linguistica di Adalgisa, che fa infatti esteso ricorso al dia-

T. CARLO EMILIO GADDA. L’ADALGISA

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I ragazzi tornarono rasserenati, e ormai dimentichi dell’uomo cattivo, a raccontare le perfezioni della carabina. Litigavano però intanto fra loro, in un «a parte» sottolineato da qualche calcio in tralice, sostenendo l’uno che era una Vetterly, l’altro una Royal Manchester. «Sei stupido!» «E tu sei scemo!». «Finitela!», si inviperí l’Adalgisa; pareva fuor di sé. «Finiscila, Gianfranco, o ti do uno schiaffo!» E lo schiaffo arrivò prima ancora della formulazione dell’ipotesi, come il lampo in precedenza sul tuono. Gianfranco, interdetto, zittí e smise di tirar calci al fratello, ma non pianse. Luciano si affievolí subito lui pure. Elsa ebbe delle parole buone e dolci per entrambi: ma intanto che si chinava sul piú piccolo, a racconsolarlo, e a persuaderlo che i calci sugli stinchi potevano far del male anche a Gianfranco, Bruno ripassò pedalando, lento, preciso. E le parve, mentre lui la guardò, un pensiero inesorabile e fulgido scaturito dalla folla tediosa dei viventi. L’Adalgisa, stavolta, seguí quel ciclista con l’occhio, esasperata anche di lui, come di una cosa irregolare, contraria alla decenza, e al buon ordine della società. Dopo quel po’ po’ di sermoncino. Oh! Ella avrebbe voluto veder pedalare il suo Carlo! Oh! allora sí! Oh! Col suo Carlo «era una cosa diversa». Il loro romanzo era stato una cosa incredibile, cosí davvero credeva. «Una pagina meravigliosa nel breve libro della vita!» diceva la «strega», cioè donna Eleonora Vigoni, (adoratrice di Longfellow), con molta dolcezza; e con altrettanta perfidia. Ella possedeva in sommo grado l’arte di lodare il Signore per far dispetto agli uomini. In tali occasioni atteggiava la lunga faccia vizza a un cosí compunto e disciplinato Deo gratias , che veniva voglia di prenderla a schiaffi. Certi ingegneri e fabbricanti di scaldabagni – il suo salotto non poteva respingerli, per via delle parentele e degli affetti familiari che ad esse conseguono – quando lei gli rivolgeva due parole d’obbligo piene di indulgenza e d’una commiserante sopportazione, avevano proprio difficoltà a non uscir dai gangheri. Dai quali gangheri usciva poi vi-

letto, in contrasto con il linguaggio di Elsa, cfr. in precedenza la nota . . in un «a parte»: come in teatro, un dialogo che si svolge non al centro della scena ma ai suoi margini (spesso rivolto direttamente al pubblico). . in tralice: «di traverso» (detto solitamente dello sguardo). . Vetterly … Royal Manchester: note marche inglesi di armi da fuoco. . E lo schiaffo, … del tuono: Adalgisa fa partire lo schiaffo ancor prima di minacciarlo («prima ancora della formulazione dell’ipotesi»). . Bruno: il garzone del macellaio, che corteggia discretamente Elsa (nel progetto del romanzo Un fulmine sul , il racconto dell’amore tra i due giovani – anch’essi di diversissima estrazione sociale, come anni prima, a ruoli invertiti, Carlo e Adalgisa – doveva essere la storia portante dell’intreccio generale; nella versione giunta alle stampe nel  sono restati sparsi accenni alla vicenda, ma nulla di piú). . le parve … dei viventi: la figura popolare, sveglia e rispettosa, di Bruno pare a Elsa brillare per intelligenza, decisione (inesorabile) e bellezza fisica (fulgido) in mezzo alla noia che le ingenerano le conversazioni della vita normale (la folla tediosa dei viventi). . esasperata … della società: a differenza di Elsa,

che pure a parole spinge all’insubordinazione sociale, Adalgisa è portata alla conservazione degli equilibri nei quali è riuscita a inserirsi, e Bruno le pare una figura «irregolare» o addirittura «contraria alla decenza, e al buon ordine della società». . Una pagina … Eleonora Vigoni: l’ironia sferzante dell’odiata donna Eleonora non risparmia i rosei ricordi amorosi della popolana Adalgisa, riproducendo con la sua abilità verbale una formula trita, da romanzo rosa. . Longfellow: Henry Wadsworth Longfellow, poeta statunitense (-) dallo stile semplice e dai contenuti sentimentali e borghesemente decorosi, divenne molto popolare in Europa sul finire del secolo XIX. Le «buone letture» di donna Eleonora adombrano forse quelle della madre di Gadda, Adele Lehr, insegnante di italiano nei licei e autrice di un saggio su Parini. . vizza: appassita, avvizzita. . Deo gratias: la religiosità di donna Eleonora, espressa dalla formula di ringraziamento a Dio, è ipocrita e strumentale, fatta appunto «per far dispetto agli uomini». . Certi ingegneri … dai gangheri: donna Eleonora, sprezzante alto-borghese, dileggia i convenuti nel suo salotto se appartenenti a categorie industriose ma meno altolocate, come gli ingegneri e i tecnici, trattandoli con indulgenza e commiserante

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ceversa ella stessa non appena il garzonaccio del macellaio, e il suo degno sosia della drogheria Usuelli, avesse pronunziato il nome illustre dei Vigoni «come solo può pronunciarlo un teppista» ecc. ecc. La cattiva pronuncia di simili «farabutti» era stata anzi causa efficiente c a mutar di macelleria nove volte in due anni: addebitandone però la colpa alla fesa. NOTE

a. Viscor: (dial. mil.) vivace, vispo. Leggi tra i righi. b. Cattà (pron. catà), è cogliere: (lat. captare); Cattà foeura = scegliere; prendere. «Apri gli occhi a cercarlo». c. Secondo il Maestro, la causa può essere: formale: materiale: efficiente: finale. La «causa nel senso primo e principale della parola» è la efficiente.

sopportazione: al che i malcapitati fanno fatica a restare calmi. . Dai quali … ella stessa: non si trattiene nel proprio sdegno classista donna Eleonora, se solo sente parlare persone di rango ancora inferiore, garzonacci di macellaio (come Bruno) o di droghiere. . La cattiva … alla fesa: basta insomma alla biliosa vecchia ascoltare gli accenti dei garzoni per far-

le decidere di mutar di macelleria di continuo: accusando invece la scarsa qualità della carne (la fesa è un taglio di coscia di manzo o di vitello). NOTE

. il Maestro: Aristotele (nella Fisica) distingue quattro tipi di causa, come riporta correttamente Gadda.

T. CARLO EMILIO GADDA. LA COGNIZIONE DEL DOLORE



La cognizione del dolore I pensieri della madre (da Parte seconda, V) In un pomeriggio dei primi di settembre la madre di Gonzalo, vagante «sola, nella casa», è rimasta sconvolta da un violentissimo temporale che, con la sua «gloria vandalica», la sconvolge con l’«insidia ripugnante della oscurità: nata, piú nera macchia, dall’umidore e dal male»; allora sente venir meno ogni barlume di ricordo e di conoscenza e si rintana nel «fondo buio delle scale» della villa: dove finisce per incontrare, ulteriore e piú terribile segno ferale, uno scorpione. Atterrita dalla «nullità stupida dello spazio», una volta cessato l’uragano, osserva «i fumi delle ville» e considera la propria distanza dal mondo, dalla vita che continua, mentre ella sa di essere «alla fine della sua vicenda. Il sacrificio era stato consumato». Ma il pensiero successivo è per il figlio Gonzalo, per la vita spesa per lui e per gli altri, per il suo carattere chiuso e malinconico, sempre distante (egli del resto fa di tutto per stare il minor tempo possibile nella casa dominata dalla presenza struggente della Madre e da quella irritante dei «peoni» che ella insiste a ospitarvi, malgrado le ristrettezze economiche della famiglia). Ecco che poi (qui inizia il brano da noi riportato) la sua mente si rivolge a una lontana felicità persa nelle nebbie di un passato ormai quasi sfumato in mito: quando il figlio primogenito, bimbo, era assorto e studioso, senza far sospettare i suoi futuri malumori di adulto. I ricordi si svolgono ora in modo sempre piú lacerante, in pagine che sembrano come contenere fino in fondo dentro di sé, rappreso e stravolto, quel dolore che dà il titolo al romanzo: con un senso di tragedia trattenuta, che esplode «dentro», che si esprime attraverso oggetti e figure apparentemente immobili. I ricordi, affidati ad alcuni oggettireliquie, sono come prigionieri del mobiletto, sécretaire, nel quale sono rimasti chiusi e che non si riesce piú ad aprire, e si proiettano nelle figure dei ritratti, di fronte ai quali ella sosta, come pietrificata e svuotata di sé («non era piú persona, ma ombra»). E il vuoto è reso piú angoscioso dal rintocco dell’ora della torre, dal vorticare delle mosche intorno ai ritratti, dal ricordo delle letture e di un sapere tanto attentamente cercato e ora svanito nell’orrore della notte. Tra queste letture emerge il ricordo della tragedia della paternità, della vicenda di Re Lear, il genitore tradito e perseguitato dalle proprie figlie: e il capolavoro di Shakespeare (cfr. CANONE EUROPEO, tav. 99) è in realtà presente come sfondo a tutto il capitolo, con la scena della tempesta che infierisce su una figura indifesa di persona anziana e confusa, a evocare la grande tempesta che nel III atto della tragedia aggredisce il vecchio re ridotto alla condizione di vagabondo. Dopo questo culmine «tragico» (esaltato dal richiamo a una delle piú grandi tragedie di tutti i tempi), la descrizione finale del dissolversi dei vapori e dei fumi nella sera rasserenata è, se non entusiastica, certo dolcemente elegiaca: ma infine, l’affacciarsi dell’oscurità notturna, nella quale risuona l’inquietante rotolare del treno, ripropone il piú angoscioso effetto di solitudine, sottolineato dal rilievo dato alle rare apparizioni del figlio, come una sorta di fantasma, sul limitare di casa. [EDIZIONE: Opere di Carlo Emilio Gadda, edizione diretta da D. Isella, I, Romanzi e racconti, I, cit.]

Pensava con dolcezza a questo suo primo figlio, rivedendolo bimbo, assorto e studioso. E adesso già curvo, noiato sopra l’errare dei sentieri. Rientrò, dal terrazzo, nella grande stanza. Le mosche avevano ripreso, dileguata la tempesta, a sorvolare la tavola: dov’erano i . già curvo … dei sentieri: all’immagine del bambino Gonzalo si oppone ora quella del suo incedere curvo, melanconico (noiato) nelle passeggiate lungo i sentieri che si sgomitolano nelle campagne

attorno alle ville. . Le mosche … la tavola: il vagare senza meta delle mosche nella casa, simile a quello della stessa Madre, è opprimente simbolo di morte incomben-

Il ricordo del figlio bambino…

… e le angosce del presente

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giornali, coi nuovi avvenimenti, ch’erano succeduti ad altri. Cosí d’anno in anno, di giorno in giorno; per tutta la serie degli anni, dei giorni. E i fogli, ben presto, ingiallivano. Quando le mosche, per un momento, si ristavano dal loro carosello, e anche il moscone verde, un attimo; allora nel cosmo labile di quella sospensione impreveduta udiva piú distinto il tarlo a cricchiare, cricchiare affaticatamente, con piccoli strappi, nel vecchio secrétaire di noce ch’ella non riusciva piú a disserrare. Il giuoco della chiave si era smarrito nella successione dei tentativi, o, forse, nelle ombre dolorose della memoria. Ci doveva esser il ritratto… i ritratti… i gemelli di madreperla… forse, anche le due lettere… le ultime!… le forbicine da lavoro, il ventaglio nero, di pizzo… Quello che le avevano regalato in palude, quando si era accomiatata dai colleghi, dalle poche alunne… piú d’una febbricitante, tutte avevano voluto il suo bacio… Ma non le mancavano, por suerte, delle forbicine di riserva: tre paia, anzi. Ed erano state le nozze. Se il suo pensiero discendeva, dal ricordo di quei due bimbi, agli anni vicini, all’oggi… le pareva che la crudeltà fosse troppa: simile, ferocemente, a scherno. Perché? Perché? Il volto, in quelle pause, le si pietrificava nell’angoscia: nessun battito dell’anima era piú possibile: forse ella non era piú la madre, come nell’urlo dei parti, lacerato, lontano: non era piú persona, ma ombra. Sostava cosí, nella sala, con pupille cieche ad ogni misericorde ritorno, immobilità scarnita da vecchiezza; per lunghe falcate del temte (Roscioni). . tutta la serie … dei giorni: frase ricorrente nella prosa di Gadda, con un’eco da una celebre ode di Orazio (III, , -), che accenna alla «innumerabilis / annorum series et fuga temporum» (“l’infinita serie degli anni e la fuga del tempo”); qui lo scorrere inesorabile del tempo che offende gli esseri umani giunge anche a ingiallire le loro futili, vane carte («i fogli, ben presto, ingiallivano»). . si ristavano … un attimo: interrompevano il loro torpido ma incessante andirivieni: ivi compreso l’orrendo moscone verde, dal moto ancora piú greve e lento di quello delle altre mosche. . nel cosmo … sospensione: il cessare improvviso (sospensione impreveduta) del ronzio produce nella casa un’oasi di silenzio, carica di tensione e attesa. . udiva … a disserrare: nel silenzio si sente allora, lievissimo, il rumore (cricchiare) del tarlo che scava faticosamente nel legno del vecchio secrétaire di noce, il mobile (con piano ribaltabile che è possibile chiudere a chiave) nel quale l’anziana madre ha riposto le reliquie della propria giovinezza e soprattutto del figlio morto in guerra, il figlio piú amato, ma che ora non è piú in grado di aprire (disserrare). . Il giuoco … memoria: la serratura del piano ribaltabile (il giuoco della chiave, cioè la fessura nella quale la chiave può girare e, come si suol dire, «fare gioco») è stata rovinata dalla successione dei tentativi, o, come vien detto con un’audace trasposizione dell’atto sul piano dell’interiorità, si è addirittura dispersa tra le ombre dolorose della memoria. . Ci doveva … anzi: nell’elenco confuso, incasto-

nato di angosciosi puntini di sospensione, degli oggetti che la memoria della madre crede di ricordare essere contenuti nel secrétaire, si alternano ricordi della sua passata gioventú («le forbicine da lavoro, il ventaglio nero, di pizzo» che le era stato regalato dai colleghi e dalle alunne ai tempi in cui aveva insegnato a scuola: Gadda scrive in palude perché sua madre insegnò a Grosseto, in Maremma) e reliquie del figlio morto (il ritratto o i ritratti, i gemelli da polso, le ultime lettere). Amaramente ironica la conclusione del periodo: per fortuna (por suerte, in uno dei molti incisi in spagnolo vero o falso di cui Gadda costella il testo), le erano rimaste, fuori dell’inviolabile mobile, delle forbicine di riserva. . Ed erano state le nozze … a scherno: la memoria ora si frange in mille rivoli, collegando tra loro immagini della propria vita tratte da momenti diversi e incongrui: le proprie nozze, la nascita dei figli (quei due bimbi), il presente che appare crudele, feroce scherno, offesa mortale. . nessun … possibile: non le resta nessuna speranza per il futuro, nessuna scintilla di vitalità. . forse … ma ombra: la memoria del proprio passato, dell’urlo dei parti (audace condensazione metonimica del momento della nascita dei figli, contrassegnato dall’urlo di dolore della partoriente) si è fatta cosí labile e frammentaria da far dubitare la donna della propria stessa identità, del proprio stesso essere fisico, individuato («non era piú persona, ma ombra»). . pupille … ritorno: gli occhi della madre non potranno godere della misericordia di un impossibile ritorno del figlio morto, né dell’altrettanto defunto marito; né in definitiva dell’altro figlio Gonza-

T. CARLO EMILIO GADDA. LA COGNIZIONE DEL DOLORE

po. E l’abito di povertà e di vecchiezza era come un segno estremo dell’essere portato davanti ai volti dei ritratti, dove alígeri fatui, sul vuoto, orbiteranno entro il sopravvivente domani. Poi, quasi un rito della stagione, improvvisa, le giungeva l’ora dalla torre; liberando nel vuoto i suoi rintocchi persi, eguali. E le pareva memento innecessario, crudele. Nel tempo finito d’ogni estate, traverso il mondo che l’aveva lasciata cosí. Le mosche descrivevano pochi cerchi nella grande sala, davanti ai ritratti, sotto i dardi orizzontali della sera. Con una mano, allora, stanca, si ravviava i capelli sbiancati dagli anni, effusi dalla fronte senza carezze come quelli di Re Lear. Superstiti ad ogni fortuna. Ed ora nel silenzio, discendendo il tramonto, vanite le tempeste della possibilità. Ella aveva tanto imparato, tanti libri letto! Alla piccola lucerna lo Shakespeare: e ne diceva ancora qualche verso, come d’una stele infranta si disperdono smemorate sillabe, e già furono luce della conoscenza, e adesso l’orrore della notte. Nel cielo si erano dissipati i vapori, e i fumi, su dalla strozza de’ camini, di sotto pentola, delle povere cene della gente. S’erano dissoluti come una bontà della terra: incontro alla stella vesperale, per l’aria azzurrina del settembre: su, su, dov’è la bionda luce, dai camini neri; che si adergono con vigore di torri al di là dell’ombre e delle inazzurrate colline, dietro alberi, sopra i colmigni lontani delle ville. lo: vivo ma irrimediabilmente allontanatosi da lei. . per lunghe falcate del tempo: il tempo inesorabile (di cui alla nota ) che corre ad ampi passi (lunghe falcate). . E l’abito … dei ritratti: la madre è chiusa nel suo «abito di povertà e di vecchiezza», che è come un ultimo segno del suo essere; si pone davanti ai ritratti della famiglia e sta di fronte a essi in muta contemplazione (mentre di fronte agli stessi ritratti Gonzalo prova accessi di furia irresistibile). . alígeri fatui … domani: gli alígeri (portatori di ali) sono le mosche, che orbiteranno, continueranno a girare per sempre sul vuoto, mentre gli esseri umani decadono, si pietrificano, muoiono. Segni di morte, «le mosche, come il tarlo, a esprimere la persistenza o il progredire indifferente della vita» (Manzotti): emblemi del sopravvivente domani, che prosegue, indifferente alla scomparsa degli uomini – come già il cavallo di Tendo al mio fine. . l’ora della torre … crudele: eco leopardiana dalle Ricordanze, - («Viene il vento recando il suon dell’ora / dalla torre del borgo»: E. Flores), ma abbassata di tono e di grado, ridotta a rito della stagione che non fa altro che ribadire il luttuoso scorrere del tempo: memento (dalla formula liturgica latina memento mori: “ricordati che devi morire”) innecessario, crudele, cioè ricordo inquietante (e per di piú non necessario, già presente com’è, lo si è visto, nei pensieri della madre) del destino di morte. . traverso … cosí: il mondo con i suoi strepiti e la sua storia, estate dopo estate, ha lasciato da parte la madre, corazzata nel suo dolore senza mutamento. . sotto i dardi … della sera: i raggi del sole al tramonto: sono frecce orizzontali perché filtrano trasversali dalle finestre con il declinare della luce (al

contrario di quelli perpendicolari del pieno giorno). . i capelli … ad ogni fortuna: i capelli della madre, incanutiti (sbiancati) dall’età ma comunque presenti (sopravvissuti ai capricci della fortuna), si spargono (effusi: forma colta dal verbo, già di uso letterario, «effondere») sulla sua fronte senza carezze, come quelli del protagonista della tragedia di Shakespeare. . le tempeste della possibilità: durante la tempesta, precedentemente scatenatasi sulla casa, tutto era parso poter accadere – cosí come nella vita si erano intraviste tante ipotesi mai poi verificatesi. Ora questa tempesta concreta, meteorologica, cosí come quella metaforica dei casi della vita, sono entrambe vanite, scomparse, dall’orizzonte della Madre: al tramonto, della giornata e della vita. . come d’una stele … della notte: le memorie letterarie (nello specifico, appunto lo Shakespeare) della madre appaiono frammentarie e quasi illeggibili come le incisioni con parole indecifrabili su una stele antichissima che sia stata ritrovata infranta in qualche deserto: le parole del classico sono ridotte a smemorate sillabe, mentre nella pienezza della lettura erano state luce della conoscenza; di tanto studio e di tante letture non resta ora che l’angoscioso orrore della notte. . Nel cielo … delle ville: sulla base di una probabile eco virgiliana (il celeberrimo finale dell’Ecloga I, -: «Et iam summa procul villarum culmina fumant / maioresque cadunt altis de montibus umbrae» (“E già lontano fumano i tetti dei casolari / e piú lunghe dall’alto dei monti discendono le ombre”), trad. di L. Canali), Gadda dipinge lo svanire delle ultime luci del crepuscolo su una doppia, estremamente suggestiva, processione di vapori: nel mentre si disperdono (dissipano) nel

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Aveva udito il rotolare del treno… il fischio d’arrivo… Avrebbe voluto che qualcuno le fosse vicino, all’avvicinarsi della oscurità. Ma il suo figliolo non appariva se non raramente sul limitare di casa.

cielo quelli della tempesta, salgono dalle case i fumi dalle bocche (strozza) dei camini neri, che indicano come di sotto, dentro le case, nelle pentole si stiano preparando le povere cene: i fumi si dissolvono (con crudo latinismo, dissoluti) come un’esalazione positiva (una bontà) della terra; e salgono su nell’aria limpida, sino alla stella vesperale, il pianeta Venere osservabile al crepuscolo, dove resta un’ultima lama di bionda luce; i camini neri dal

canto loro si innalzano (adergono), con la forza di vere e proprie torri, sporgendo alla vista al di là degli alberi e delle colline, inazzurrate dal calare dell’ombra, in cima ai tetti (colmigni) delle ville. . Aveva udito … d’arrivo: dalla villa dei Pirobutirro, cosí come da quella dei Gadda a Longone al Segrino, è possibile udire il fischio d’arrivo e il rotolare del treno.

T. CARLO EMILIO GADDA. QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DE VIA MERULANA

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Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana Il commissario Ingravallo (I) Il romanzo inizia con la presentazione del protagonista, l’ispettore di polizia di origine molisana comandato alla mobile (cioè assegnato alla squadra mobile) Francesco Ingravallo: portavoce di Gadda sí, ma con minore esclusività e concentrazione lirica del Gonzalo della Cognizione, dato che nel Pasticciaccio i caratteri autobiografici sono distribuiti tra vari personaggi, tra i quali spicca soprattutto uno dei testimoni interrogati da Ingravallo, il Commendator Angeloni, che di Gadda è anche un ritratto fisico (mentre Ingravallo, come si vedrà, non gli assomiglia affatto). Seguendo gli usi della narrativa naturalistica, si descrive l’aspetto fisico del personaggio (con alcuni tratti deformanti e leggermente caricaturali) e si indicano in generale le sue abitudini, insistendo in particolare sui suoi rapporti con la padrona di casa. L’immagine della vita nella pensione reca traccia del breve periodo di permanenza a Roma di Gadda, a metà degli anni Venti, che serví (insieme a un piú lungo periodo all’inizio degli anni Trenta, quando lavorò come ingegnere presso la Città del Vaticano) allo scrittore per orchestrare (durante la sua permanenza a Firenze, dal 1940 al 1950) l’ambientazione del suo romanzo «romano»: un periodo effettivamente fittissimo di traslochi da pensione ad alberghetto, da camera ammobiliata a stanza in coabitazione, durante il quale l’autore non faceva che lamentarsi per lettera delle sue varie padrone di casa. Dopo questi dati di tipo «naturalistico», non privi di risvolti autobiografici (anche nell’andatura greve e dinoccolata del personaggio), si passa a definire l’originale carattere della saggezza, la concezione del mondo legata alla sua esperienza di investigatore, in cui però la problematicità dell’indagine poliziesca diventa segno piú generale della problematicità della conoscenza, secondo le linee tracciate da Gadda fin dalla Meditazione milanese. Ingravallo ha una sua teoria delle catastrofi, dei mutamenti improvvisi (che oggi può far pensare alla «teoria delle catastrofi» del matematico francese René Thom, 1923-2002), che si svolgono da una molteplicità di cause, alle quali si conviene l’immagine dello gliuommero o gliommero, gomitolo o groviglio. In questa immagine convergono epistemologia e letteratura: essa mostra come la ragione del mondo non possa essere che deformata e stravolta, come ogni sua interpretazione non possa essere che aggrovigliata e ambigua; e nello stesso tempo rinvia a una particolare forma poetica sperimentale e popolaresca diffusasi nella letteratura colta della corte aragonese di Napoli, detta appunto gliommero (e coltivata, tra gli altri, anche dal Sannazaro: cfr. 3.6.5 e GLOSSARIO), i cui caratteri di narrazione incalzante, piena di giochi allusivi che si succedono per vorticosa associazione, si attagliano perfettamente al romanzo gaddiano, esso stesso gomitolo, svolgimento di dati convergenti, pastiche linguistico (cfr. GENERI E TECNICHE, tav. 239) che rispecchia il pasticciaccio del reale infinitamente interconnesso, inestricabilmente aggomitolato, nel quale il «fattaccio» giallo viene a prodursi. Ma queste idee filosofiche di Ingravallo suscitano le critiche dei suoi colleghi, i quali denunciano la loro astrattezza e la loro scarsa rispondenza con le necessità pratiche, con la determinata concretezza del lavoro investigativo. Ma il commissario, con il suo «filosofare a stomaco vuoto» e la sua «mezza sigheretta, regolarmente spenta» resta come sospeso sul piano del reale, tra le difficoltà della conoscenza, la necessaria indeterminazione sottolineate dalla sua teoria (che per Gadda corrispondono alla difficoltà e all’indeterminatezza della rappresentazione che la letteratura può dare della realtà), e il mondo pieno di oggetti, di materia, di fatti in cui egli deve muoversi nel suo lavoro e in cui si muove lo stesso scrittore (un universo la cui evidenza «materiale» è qui sottolineata dalla stessa presenza delle forme dialettali, nel linguaggio di Ingravallo e in quello del narratore). [EDIZIONE: Opere di Carlo Emilio Gadda, edizione diretta da D. Isella, I, Romanzi e racconti, II, a cura di G. Pinotti, D. Isella, R. Rodondi, Garzanti, Milano 1989]

Le indagini di un commissario, segno della problematicità della conoscenza Il gomitolo del pensiero che rispecchia il disordine del reale

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Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile: uno dei piú giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa: ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi. Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po’ tozzo, di capelli neri e folti e cresputi che gli venivan fuori dalla metà della fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici dal bel sole d’Italia, aveva un’aria un po’ assonnata, un’andatura greve e dinoccolata, un fare un po’ tonto come di persona che combatte con una laboriosa digestione: vestito come il magro onorario statale gli permetteva di vestirsi, e con una o due macchioline d’olio sul bavero, quasi impercettibili però, quasi un ricordo della collina molisana. Una certa praticaccia del mondo, del nostro mondo detto «latino», benché giovine (trentacinquenne), doveva di certo avercela: una certa conoscenza degli uomini: e anche delle donne. La sua padrona di casa lo venerava, a non dire adorava: in ragione di e nonostante quell’arruffio strano d’ogni trillo e d’ogni busta gialla imprevista, e di chiamate notturne e d’ore senza pace, che formavano il tormentato contesto del di lui tempo. «Non ha orario, non ha orario! Ieri mi è tornato che faceva giorno!» Era, per lei, lo «statale distintissimo» lungamente sognato, preceduto da cinque A sulla inserzione del Messaggero, evocato, pompato fuori dall’assortimento infinito degli statali con quell’esca della «bella assolata affittasi» e non ostante la perentoria intimazione in chiusura: «Escluse donne»: che nel gergo delle inserzioni del Messaggero offre, com’è noto, una duplice possibilità d’interpretazione. E poi era riuscito a far chiudere un occhio alla questura su quella ridicola storia dell’ammenda… . don Ciccio: tipico adattamento dialettale del nome di battesimo Francesco, suscitato dal suo modo di parlare, singolare e vivacissima mistura di napoletano e molisano. . non si sa perché: già da questo rapidissimo inciso è dato riconoscere alcuni dei caratteri della voce narrante del romanzo, apparentemente esterna e obiettiva come nel romanzo tradizionale ma continuamente coinvolta, dal modo di parlare dei vari personaggi o dal loro atteggiamento. In questo caso, essa aderisce al modo di vedere la propria posizione da parte dello stesso Ingravallo, che non si considera molto invidiabile. . ubiquo ai casi: Ingravallo ha la facoltà misteriosa di indagare su piú casi contemporaneamente: pare avere insomma il dono miracoloso dell’ubiquità. . gli affari tenebrosi: i casi cui si interessa Ingravallo sono tutti tenebrosi, fatti per incuriosire il suo animus speculativo. . della persona: nella corporatura. . cresputi: ricci. . quasi a riparargli … d’Italia: la folta capigliatura protegge dal bel sole d’Italia le ossa parietali del cranio di Ingravallo che si ispessiscono convesse ai due lati della fronte (ironicamente indicati come bernoccoli metafisici, forse alludendo ai significati metafisici attribuiti ai dati fisiologici dagli antichi trattati di fisiognomica o ai modi della pittura novecentesca detta appunto «metafisica»). . il magro … statale: lo stipendio. . quasi … molisana: ironico accenno alla grassa cucina del natio Molise. . Una certa … «latino»: la pratica da «uomo di mondo» (ironicamente limitata al solo mondo det-

to latino) distingue nettamente Ingravallo da Gadda (come la subito dopo dichiarata conoscenza delle donne). . trentacinquenne: nel , anno nel quale è collocata da Gadda la vicenda del Pasticciaccio, lo scrittore aveva  anni. . in ragione … tempo: la vita disordinata dell’inquilino Ingravallo, un arruffio (deverbale da arruffare, «scompigliare, turbare») di telefonate improvvise (ogni trillo… chiamate notturne) e arrivi imprevisti di posta (ogni busta gialla) che organizzano le partizioni del suo tempo (il suo tormentato contesto), delizia la sua padrona di casa che venera o forse adora il giovine ispettore. . preceduto … d’interpretazione: la padrona di casa, alla ricerca di inquilini, aveva fatto pubblicare un’inserzione al riguardo dal quotidiano romano Il Messaggero (preceduta come è d’uso da un certo numero di A per anteporla, nell’ordine alfabetico, alle inserzioni concorrenti). È stata dunque l’inserzione, in cui si vantava la stanza in offerta bella e assolata, ad attirare secondo la signora il distintissimo Ingravallo, evocato, – addirittura, con espressiva metafora – pompato fuori dal numero (assortimento) infinito di statali (evidentemente meno distinti): in ragione di e nonostante la condizione, indicata come un vero e proprio ordine (perentoria intimazione), di tener lontane le donne (ma la dizione Escluse donne, aggiunge la voce narrante, nel linguaggio del quotidiano, «offre una duplice possibilità d’interpretazione»: a donne sole non è permesso prendere in affitto una stanza; oppure: agli inquilini non è permesso invitare esponenti dell’altro sesso nel proprio alloggio).

T. CARLO EMILIO GADDA. QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DE VIA MERULANA

sí, della multa per la mancata richiesta della licenza di locazione… che se la dividevano a metà, la multa, tra governatorato e questura. «Una signora come me! Vedova del commendatore Antonini! Che si può dire che tutta Roma lo conosceva: e quanti lo conoscevano, lo portavano tutti in parma de mano, non dico perché fosse mio marito, bon’anima! E mo me prendono per un’affittacamere! Io affittacamere? Madonna santa, piuttosto me butto a fiume.» Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come d’agnello d’Astrakan, nella sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea (idea generale s’intende) sui casi degli uomini: e delle donne. A prima vista, cioè al primo udirle, sembravano banalità. Non erano banalità. Cosí quei rapidi enunciati, che facevano sulla sua bocca il crepitio improvviso d’uno zolfanello illuminatore, rivivevano poi nei timpani della gente a distanza di ore, o di mesi, dalla enunciazione: come dopo un misterioso tempo incubatorio. «Già!» riconosceva l’interessato: «il dottor Ingravallo me l’aveva pur detto.» Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla ro. E poi era riuscito … questura: il funzionario di polizia aveva fatto chiudere un occhio alla questura su qualche piccola contravvenzione di cui la signora si era resa colpevole nel proprio esercizio di locataria (la «mancata richiesta della licenza di locazione», il gettito della cui multa veniva diviso equamente tra la questura e l’autorità civile, che allora era il governatorato della città); non mai, dirà adesso lei stessa, di ambigua affittacamere. Già in questa frase, che precede il discorso diretto (all’interno del quale la signora farà ricorso a un certo punto direttamente al dialetto romanesco), si è infiltrato un idiotismo tipicamente romano (l’uso improprio del che in dizione emotivamente connotata in senso esclamativo: «che se la dividevano a metà»). . Che si può … de mano: l’espressione «portare in palma di mano» (deformata nella fonetica romanesca: parma de mano) è appunto una locuzione popolare per «stimare, rispettare, ossequiare». . bon’anima!: altra locuzione popolare, in convenzionale omaggio alla memoria di un defunto. . mo: adesso. . pareva … di sonno: e di poco altro, «nella sua povertà molisana». . sotto la giungla … d’Astrakan: la folta capigliatura di Ingravallo viene subito iperbolizzata dall’aggressività linguistica e dalla libertà visiva di Gadda, che raggiungono nel Pasticciaccio livelli inauditi: è divenuta una giungla, una foresta tropicale inestricabile e oscura (nera) e una parrucca (è infatti cosí compatta e densa da sembrare posticcia); è lucida come pece (il denso e nero materiale bituminoso usato per incatramare le superfici esposte alle intemperie); è arricciata e irsuta come

la lana pregiata dell’agnello di razza asiatica prodotta nella città russa di Astrakan. . degli uomini: e delle donne: è la seconda volta in questo incipit che si ripete questo sintagma, come ad alludere a una speciale conoscenza dell’universo femminile. . cioè al primo udirle: corregge ironicamente la precedente espressione comune a prima vista, naturalmente impropria per gli enunciati, verbali, di teoretiche idee da parte di Ingravallo. . quei rapidi … incubatorio: i teoremi dell’ispettore molisano, pronunciati con secchezza e rapidità tali da parere il suono (crepitio) prodotto dal fosforo (convenzionalmente associato all’intelligenza) del fiammifero (uno zolfanello illuminatore) nell’accendersi dopo essere stato sfregato contro una superficie ruvida, hanno la proprietà di risuonare in chi li ascolta (nei timpani della gente) a distanza di molto tempo dalla enunciazione; un tempo in cui le idee di Ingravallo, inizialmente poco comprensibili o apparentemente delle banalità, maturano e si chiariscono nel loro senso profondo: come un feto che cresca e prenda forma durante la gestazione («un misterioso tempo incubatorio»). . Sosteneva, … convergenti: il periodo contiene il succo delle convinzioni filosofiche di Gadda, cosí come sono trattate nella Meditazione milanese. Gli avvenimenti osservabili nella realtà sono definiti catastrofi e non hanno, per Gadda come per Ingravallo, una causa al singolare, ma sono invece prodotti da «una molteplicità di causali convergenti» (come in fisica meccanica l’incontro di vettori di forza vòlti in diverse direzioni produce un unico vettore dalla direzione composita), per cui ogni evento è connesso in realtà a tutti gli altri

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mana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico «le causali, la causale» gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L’opinione che bisognasse «riformare in noi il senso della categoria di causa» quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi: che gli evaporava dalle labbra carnose, ma piuttosto bianche, dove un mozzicone di sigaretta spenta pareva, pencolando da un angolo, accompagnare la sonnolenza dello sguardo e il quasighigno, tra amaro e scettico, a cui per «vecchia» abitudine soleva atteggiare la metà inferiore della faccia, sotto quel sonno della fronte e delle palpebre e quel nero píceo della parrucca. Cosí, proprio cosí, avveniva dei «suoi» delitti. «Quanno me chiammeno!… Già. Si me chiammeno a me… può stà ssicure ch’è nu guaio: quacche gliuommero… de sberretà…» diceva, contaminando napolitano, molisano, e italiano. La causale apparente, la causale principe, era sí, una. Ma il fattaccio era l’effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello (come i sedici venti della rosa dei venti quando s’avviluppano a tromba in una depressione ciclonica) e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata «ragione del mondo». Come si storce il collo a un pollo. E poi soleva dire, ma questo un po’ stancamente, «ch’i femmene se retroveno addó n’i vuò truvà». Una tarda riedizione italica del vieto «cherchez la femme». E poi pareva pentirsi, come d’aver calunniato ’e femmene, e voler mutare idea. Ma allora si sarebbe andati nel difficile. Sicché taceva pensieroso, come temendo d’aver detto troppo. Voleva significare che un certo movente affettivo, un tanto o, direste oggi, un quanto di affettività, un certo «quanto di erotia», si mescolava anche ai «casi d’interesse», ai delitti appa-

(«ogni anello o grumo o groviglio di relazioni è legato da infiniti filamenti a grumi o grovigli infiniti»: Meditazione milanese, IV, -). Qui Gadda paragona l’evento a un fenomeno meteorologico: «un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo». . Diceva anche … gomitolo: la metafora dello gnommero o, nel molisano di Ingravallo, gliuommero, serve a Gadda appunto a indicare la sua visione del reale come viluppo inestricabile di concause, per cui «l’individuo umano p.e. Carlo, già limitatamente alla sua persona, non è un effetto ma un insieme di effetti ed è stolto pensarlo come unità […] come un pacco postale di materia vivente e pensante» (Meditazione milanese, IV ), cui vengano recisi i necessari filamenti che lo uniscono al resto del reale. . Ma il termine … la causale»: all’investigatore, però, riesce spontaneo parlare piuttosto di causali, con termine apparentemente giuridico-burocratico. . «riformare … Kant: l’ispettore filosofo pretende dunque di emendare, con la sostituzione delle cause alla causa (cfr. nota ), uno dei concetti piú discussi nella storia della filosofia, da Aristotele a Kant. . gli evaporava dalle labbra: la fissazione filosofica, spesso ritornante nella conversazione di Ingravallo, è enunciata con l’indolenza che Gadda associa al personaggio: al punto che, piú che venire pronunciata, essa evapora dalle sue labbra pigre.

. il quasighigno … della parrucca: un sorriso scettico e sardonico (quasi un ghigno) è stampato sulla faccia di Ingravallo, al di sotto delle palpebre sonnolente e soprattutto del nero píceo («proprio della pece», latinismo) della parrucca in cui sembrano consistere i suoi capelli. . «Quanno … italiano: con una lingua inventata mista, Ingravallo si lamenta pigramente dei gliuommeri, i guaie che gli tocca sberretà (sciogliere, risolvere) ogni volta che lo chiamano, chiammeno. . La causale … principe: lessico aristotelico (cfr. la nota  al brano de L’Adalgisa, p. ). . tutta una rosa di causali … un pollo: viene sviluppata la metafora del vortice delle cause già utilizzata in precedenza (cfr. sopra la nota ): sono loro, le cause, come venti che, avviluppatisi a tromba (come appunto avviene in una depressione ciclonica), finiscono per annullare la «ragione del mondo»: con la violenza con cui «si torce il collo a un pollo». . E poi soleva … mutare idea: parte irrazionale dell’universo è per Ingravallo l’elemento femminile, che ne scombina l’armonia apparente. Il vieto «cherchez la femme» del senso comune viene cosí ristabilito, in tarda riedizione italica, su basi «filosofiche»: sono le donne, i femmene, che se retroveno, sono implicate, ogni qual volta l’ordine del mondo appare incrinato. Ma Ingravallo prova, come si vedrà piú avanti nel romanzo, attrazione e pietà per le femmene, e cosí si pente di averle calunniate.

T. CARLO EMILIO GADDA. QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DE VIA MERULANA

rentemente piú lontani dalle tempeste d’amore. Qualche collega un tantino invidioso delle sue trovate, qualche prete piú edotto dei molti danni del secolo, alcuni subalterni, certi uscieri, i superiori, sostenevano che leggesse dei libri strani: da cui cavava tutte quelle parole che non vogliono dir nulla, o quasi nulla, ma servono come non altre ad accileccare gli sprovveduti, gli ignari. Erano questioni un po’ da manicomio: una terminologia da medici dei matti. Per la pratica ci vuol altro! I fumi e le filosoficherie son da lasciare ai trattatisti: la pratica dei commissariati e della squadra mobile è tutt’un altro affare: ci vuole della gran pazienza, della gran carità: uno stomaco pur anche a posto: e, quando non traballi tutta la baracca dei taliani, senso di responsabilità e decisione sicura, moderazione civile; già: già: e polso fermo. Di queste obiezioni cosí giuste lui, don Ciccio, non se ne dava per inteso: seguitava a dormire in piedi, a filosofare a stomaco vuoto, e a fingere di fumare la sua mezza sigheretta, regolarmente spenta. . Voleva significare … tempeste d’amore: ancora una volta Ingravallo enuncia convinzioni che sono di Gadda, e che si trovano espresse in altre opere dello scrittore. L’ipotesi di un tanto o meglio (direste oggi) di un quanto (l’allusione è alla teoria fisica dei quanta enunciata dal fisico danese Niels Bohr) di erotia, cioè di irrazionale impulso «libidico» o «narcissico», che si introdurrebbe con valenza fortemente irrazionale nel meccanismo della storia, è infatti a lungo esposta dallo scrittore in Eros e Priapo (cfr. ..). Nel campo della criminologia che pertiene a Ingravallo, il quanto di erotia rappresenta quel certo movente affettivo che verrebbe a mescolarsi agli altri moventi in qualunque delitto, anche quelli piú lontani dal sembrare passionali (dalle tempeste d’amore). . qualche prete … del secolo: tra quelli che lo criticano, anche i preti che si sono potuti fare un’idea dei danni del secolo, cioè delle nuove teorie circolanti nel mondo (il secolo). . accileccare: intrappolare, confondere (dall’espressione popolare «fare cilecca»: detto propriamente dell’arma da fuoco che manca il colpo e, per traslato, genericamente nel senso di «commettere uno sbaglio, una mancanza»). . questioni … medici dei matti: Ingravallo, oltre che alla filosofia, si interessa quindi di psicoanalisi: come il suo creatore, del quale sono state censite e analizzate le letture in merito, in particolare

da Freud. . Per la pratica … polso fermo: ora la voce narrante è passata a esporre le tesi degli invidiosi delle trovate di Ingravallo (fumi e filosoficherie; Fumi è anche il cognome del commissario capo, superiore diretto del nostro ispettore e che con lui condivide a tratti l’animus speculativo), che negano la validità del suo metodo «analitico», filosofico e psicologico, di affrontare i casi di cui si occupa, sostenendo invece la praticità dei metodi tradizionali («pazienza, carità, stomaco a posto, senso di responsabilità, decisione, moderazione e polso fermo» – soprattutto): sempre che le incertezze del panorama politico non facciano «traballare tutta la baracca dei taliani» (l’afèresi della prima sillaba non è da ascrivere a un dialettismo, ma a un germanismo di cui si trovano cospicue tracce nell’ultima parte del Giornale di guerra e di prigionia: dove taliani e taliana sono gli italiani come venivano chiamati dai carcerieri tedeschi). Si noti la straordinaria mobilità e ricchezza dell’interpunzione, quasi a rendere un immaginario dialogo tra piú avversari di Ingravallo («moderazione civile; già: già: e polso fermo»). . non se ne dava per inteso: non se ne curava. . mezza sigheretta: il mozzicone di sigaretta (sigheretta è tinta romanesca) pende dalle labbra di Ingravallo piú per pigrizia (è regolarmente spenta) che altro.

Il «sogno del carabiniere» (VIII) Riportiamo uno dei passi del Pasticciaccio in cui piú scatenato e virtuosistico è il gioco linguistico, in un proliferare barocco di immagini che scaturiscono l’una dall’altra, dedicato al racconto indiretto del sogno fatto dal brigadiere (per la verità, vicebrigadiere) dei carabinieri Pestalozzi, as-

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segnato alla caserma di Marino e solerte collaboratore dell’ispettore Ingravallo nelle indagini. La mattina di buon’ora si è messo in marcia con la sua fedele motocicletta e un altro carabiniere abbrancato alla vita sul sedile posteriore, per raggiungere la località li Du Santi, dove si trova il laboratorio-bettola-antro nel quale esercita la sua ambigua professione Zamira Pàcori (ufficialmente «rammendatrice e rimagliatrice», in realtà «indovina chiromante e cartomante patentata», poi «dàtasi a un sempre piú scaltro e ardimentoso lenonato», cioè al ruolo di mezzana) con le sue nipotine apprendiste (tra le quali figura la Lavinia Mattonari che piú avanti finirà per condurre Pestalozzi in un casello ferroviario presso il santuario della Madonna del Divino Amore, nel quale finalmente si troveranno i gioielli rubati alla contessa Menegazzi) e nel quale sono stati già condotti degli interrogatori. La suggestione indotta da questi ultimi, e la fitta insolubilità del caso, durante la notte hanno evidentemente causato al semplice carabiniere dei sogni nei quali gli elementi del «giallo» si ripresentano deformati in un delirio analogico e metamorfico a base eminentemente linguistica il cui nucleo è il topazio, cioè uno dei gioielli rubati. Nello scendere verso la dimora della Pàcori, il carabiniere ricorda un sogno al cui centro c’è l’immagine di un gioiello, un topazio, che rappresenta gli oggetti preziosi rubati e che, per associazione fonetica, si trasforma in un topo; l’animale corre all’impazzata per i luoghi stessi che ora il carabiniere sta percorrendo e si proietta in un ambiente onirico in cui immagini deformate dell’antica mitologia (come quella della maga Circe) si sovrappongono e si identificano con quelle di qualche bettola sul litorale marino; qui ha luogo una scena, trionfale per risoluzione stilistica e concentrazione simbolica, in cui Gadda giunge a ritrarre l’abiezione oscura della propria attrazione-repulsione nei confronti dell’altro sesso, raffigurando le nude e provocanti alunne di Circe (che sono le stesse lavoranti della Pàcori). Apparentemente trionfante nella sua corsa per le campagne, e poi nella sua apparizione tra le baccanti sulla spiaggia, l’osceno topo deve obbedire al proprio oscuro e indesiderato dovere: la scalata rampicante lungo le cosce di una Circe di periferia, emblema di una femminilità orrenda e malgrado tutto magnetica, essudante osceni liquori e gaudente come una perversa santa barocca invertita di segno (si noti il richiamo alla celebre figura di S.Teresa, n.25). Ma oscenamente esso si blocca davanti alla trappola chiusa da mutanne (essenziale qui l’uso della forma romanesca) di cartone e di gesso: e in questo suo bloccarsi ha termine il ricordo del sogno, in cui si manifesta una stravolta fantasia erotica, in un gioco continuo di metamorfosi e deformazione che rende il brano particolarmente aggrovigliato e difficile, ma che proprio per questo rappresenta nel modo piú inquietante l’ambigua oscurità del sogno e del desiderio deviato che in esso si manifesta.

Il brigadiere filava in discesa verso li Du Santi. Era giornata lasca, il dolco aveva bevuto ai padúli. Ma il vento di corsa e qualche rada stilla, come un pallin di schioppo nella faccia, gli presagivano l’alacrità dell’indagine, e dei fruttiferi interventi nelle utili ore del mattino. Dando di clacson addosso a un oco, il quale indugiava a paperar di culo nella via, stritolò una mezza bestemmia fra i denti: fu allora proprio che gli riemerse e rilampeggiò nella mente, allucinata dal risveglio a ora presta, l’interminabile sogno della notte. . li Du Santi: località sulla Via Appia, nei pressi di S.Maria della Mole, sotto Marino e Albano. . Era giornata … ai padúli: la giornata è lasca, cioè «rilassata, molle», in virtú del clima mite anche se umido (il termine aulico dolco indica un clima piú caldo di quello consueto nella stagione, soprattutto per effetto dello scirocco), che si respirava finanche nelle paludi, i padúli, dei dintorni: l’inserto di lessico aulico e letterario ha la funzione di straniare il paesaggio «basso», desolato e degradato, ai margini di Roma. . qualche rada stilla … del mattino: malgrado la

giornata lasca, nella corsa in moto qualche rada stilla di pioggia fredda colpisce la faccia del brigadiere come un pallin di schioppo, e sembra dargli un presagio favorevole sul buon svolgimento del suo compito e sui suoi risultati. . Dando di clacson … della notte: un altro piccolo incidente (lo sfiorato investimento di un oco, antiquato maschile di «oca», che tarda a sgombrare la strada – cioè, con audace inversione degli epiteti, a paperar di culo – costringendo il Pestalozzi all’uso del clacson) gli fa mormorare un accenno di bestemmia (notare l’espressività di quello stritolò…

T. CARLO EMILIO GADDA. QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DE VIA MERULANA

Avea veduto nel sonno, o sognato… che diavolo era stato capace di sognare?… uno strano essere: un pazzo: un topazzo. Aveva sognato un topazio: che cos’è, infine, un topazio? un vetro sfaccettato, una specie di fanale giallo giallo, che ingrossava, ingrandiva d’attimo in attimo fino ad essere poi subito un girasole, un disco maligno che gli sfuggiva rotolando innanzi e pressoché al disotto della ruota della macchina, per muta magia. La marchesa lo voleva lei, il topazio, era sbronza, strillava e minacciava, pestava i piedi, la faccia stranita in un pallore diceva delle porcherie in veneziano, o in un dialetto spagnolo, piú probabile. Aveva fatto una cazziata al generale Rebaudengo perché i suoi carabinieri non erano buoni a raggiungerlo su nessuna strada o stradazia, il topazio maledetto, il giallazio. Tantoché al passaggio a livello di Casal Bruciato il vetrone girasole… per fil a dest! E s’era involato lungo le rotaie cangiando sua figura in topaccio e ridarellava topo-topo-topo-topo: e il Roma-Napoli filava filava a tutta corsa dietro al crepuscolo e pressoché già nella notte e nella tenebra circèa, diademato di lampi e di scintille spettrali sul pantografo, lucanocervo saturato d’elettrico. Fintantoché avvedutosi come non gli bastava a salvezza chella rotolata pazza lungo le parallele fuggenti, il topo-topazio s’era derogato di rotaia, s’era buttato alla campagna nella notte verso le gore senza foce del Campo Morto e la macchia e l’intrico del litorale pometino: le donne del casello strillavano, gridavano ch’era ammattito: lo fermasfra i denti) e fa balenare in un lampo (gli riemerse e rilampeggiò) alla sua mente, come allucinata dal risveglio a ora presta, il sogno della notte. . uno strano … un topazzo: la parola topazio si fonde con la parola pazzo (l’oggetto del furto si fonde cioè con il suo esecutore) e dà vita all’inedita voce topazzo, che richiama nel brigadiere l’«idea-topo» che sarà alla base del delirio successivo. La contiguità linguistica di topazio con topo era già stata implicitamente anticipata nel I capitolo del romanzo, quando la portinaia dello stabile nel quale era avvenuto il furto aveva descritto la fuga del ladro (vestito di grigio in quanto travestito da tecnico della caldaia a gas) «come una saetta grigia nell’atrio, un topo in fuga…» . una specie … per muta magia: la sintassi iperbolica e metonimica che governa il sogno è già pienamente all’opera. La luce gialla del topazio diviene quella di un fanale sempre piú grande, un disco maligno che sfugge rotolando all’inseguimento del brigadiere. . La marchesa … probabile: è la contessa Menegazzi, vicina di casa dei Balducci, trasformata in marchesa e per di piú sbronza (ubriaca) e strepitante; il suo linguaggio strascicato e mellifluo, infarcito di dialettismi veneti, è ora divenuto, probabilmente per contiguità fonetica, un dialetto spagnolo (nel quale pronuncia porcherie). . Aveva fatto … il giallazio: Pestalozzi immagina la Menegazzi rivolgere un’animata protesta (una cazziata, romanesco) nei confronti addirittura del generale Rebaudengo comandante dei Regi Carabinieri incapaci (non erano buoni) di ritrovare il topazio o giallazio su qualche strada o stradazia. Il gioco dei suffissi in z comincia a coinvolgere con effetto quasi glossolalico (cioè di spaesamento e totale sbrigliamento linguistico fino alla disartico-

lazione dei significati) tutti i termini che vengono in mente al brigadiere. . Tantoché … lungo le rotaie: al punto che il gioiello (il vetrone girasole), giunto «al passaggio a livello di Casal Bruciato», a Est di Roma, s’era involato a destra (nel gergo delle istruzioni militari, per fil a dest !) lungo le rotaie della linea Roma-Napoli: quindi verso Sud, verso i Castelli. . cangiando sua figura … topo-topo-topo-topo: la trasformazione linguistica diviene ora trasformazione fisica (cangiando sua figura: con un procedimento tipico del sogno, descritto da Freud): e il topazio diventa topaccio (la trasformazione delle z in c era già stata applicata al nome, sentito dai popolani romani come lievemente impudico, della Menegazzi-Menegacci), pronunciando tra le risa (ridarellando) in una ossessiva e comica ripetizione il suo nuovo nome di topo. . nella tenebra … d’elettrico: il treno Roma-Napoli assurge per un attimo a protagonista: Gadda (spesso affascinato dall’immagine ferroviaria) lo ritrae, virtuosisticamente, come una sorta di spirito notturno (il lucanocervo è un grosso coleottero dal bizzarro aspetto) in corsa, dalla magica illuminazione (saturato d’elettrico, anzi diademato, incoronato, di lampi e di scintille spettrali, cioè le faville elettriche del pantografo, il dispositivo che collega il treno alla linea elettrica che gli dà energia e che può in effetti assomigliare alla mandibola di un coleottero). La tenebra è detta circèa perché il treno si dirige verso il promontorio del Circeo, nel Lazio meridionale: ma si allude anche alla Circe dell’Odissea che qui aveva la sua sede (Circe è autrice di metamorfosi, e la metamorfosi è il tema che Gadda si è scelto per questo pezzo di bravura). . Fintatoché … pometino: quando al topaccio non basta piú quella (chella, napoletano) pazza corsa

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sero, lo ammanettassero: il locomotore lo rincorreva in palude, coi due gialli occhi tutta perscrutava e la giuncaia e la tenebra fino laggiú, dove i nomi si diradano, appiè il monte della contessa Circia, ove luminarie e ghirlande dondolavano sopra le altane a lido, nello spiro seròtino del mare. Nereidi, ivi, appena emerse dal flutto e subito ignudàtesi della lor veste d’alghe e di spuma fra l’andirivieni dei camerieri in bianco e de’ sifoni diacci e delle fistule, solevano allegrare la notte fascinosa di Castel Porcano. La contessa, tra languide nenie, dimandava una fiala al sonno, all’oblio: ai ghirigori vani, agli smarrimenti del sogno. Del sogno di non essere. A Castel Porcino, sotto festoni di pere gialle da due watt e palloncini sbronzi e dolcemente obesi nell’alitare e nello smorire d’ogni mèlode, la maga dalla tabacchiera in apertura (perpetua) elicitava al fiuto gli imminenti suini, coloro che di quel filtro, e di quell’olezzo, erano per tornare in porci grifuti, dopo essersi fatti orecchiuti asini a la scuola: del manganello del machiavello. Già le alunne si divincolavano, bianchissime eccettoché il trígono cesputo, da ogni torquente veto dei padri, si storcevano in una muta profferta: che di moresca lenta e ritenuta sarabanda s’esaltava a mano a mano fino al

(rotolata) lungo i binari (le parallele fuggenti), decide di deviare (derogare, uso improprio di termine giuridico che vale «fare eccezione, non rientrare in un regolamento») dalla linea ferroviaria e di lanciarsi verso la zona paludosa di Campo Morto (infestata dall’acqua stagnante in gore, avvallamenti, senza foce, sbocco), presso il litorale di Pomezia, dove la vegetazione può celarlo (vi sono la macchia e l’intrico). . il locomotore … del mare: Pestalozzi sogna che il treno vada alla ricerca del topaccio, perlustrando con i propri potenti riflettori (due gialli occhi) la palude e la giuncaia (dove abbondano cioè i giunchi, piante che crescono in luoghi acquitrinosi) sino a «dove i nomi si diradano» (ossia non vi sono piú località abitate che abbiano un nome), alle pendici del monte Circeo («appiè il monte della contessa Circia»), dove comunque a lido, sulla spiaggia, sono costruzioni a forma di loggia (altane) sulle quali delle luci (luminarie e ghirlande) ondeggiano sospinte dal vento marino della sera («spiro seròtino del mare»). Straordinaria l’inserzione di questo sprazzo di notturno marino, affidato ancora una volta a un lessico ricercato. Non a caso, subito dopo, le non esemplari fanciulle (alunne della maga) sono chiamate Nereidi, paragonate quindi alle classiche ninfe marine figlie di Nereo e di Doride (forse una fonte della straordinaria scena che segue può essere il mito nel quale si racconta di come Nettuno, invaghitosi di una delle Nereidi, Anfitrite, mentre con le sorelle danzava sulla spiaggia dell’isola di Nasso, la rapisse). . fra l’andirivieni … Castel Porcano: con salto mentale disorientante, le altane a lido sono ritratte come sede di un elegante ritrovo serale dove impeccabili camerieri maneggiano sifoni di seltz gelati (diacci) con le loro fistule (sono le canne flessibili dei sifoni da seltz, qui designate con improprio termine classico che indica invece uno strumento musicale a forma di canna) per dare ristoro (alle-

grare) ai convenuti. Siamo infatti pervenuti nell’allora elegante località marina di Castel Porziano, qui deformata prima in Castel Porcano, poi in Castel Porcino. . La contessa … mèlode: la contessa che incontriamo in questo locale sulla spiaggia evoca sia la Menegazzi, che la maga Circe (sopra chiamata contessa Circia), che la chiromante Zamira Pàcori: essa appare mentre, languidamente adagiata a molli musiche (languide nenie), chiede una fiala che le possa garantire il sonno, l’oblio di se stessa (il sogno di non essere): fiala del tipo di quelle il cui contenuto doveva circolare abbastanza spesso nei ritrovi eleganti dell’epoca. Il locale è dipinto da Gadda con straordinaria attenzione ai dettagli: l’illuminazione è fornita da piccole lampadine («festoni di pere gialle da due watt»), mentre lo spiro seròtino fa ondeggiare con movimento da ubriachi (sbronzi) dei palloncini gonfi (dolcemente obesi), che sembrano seguire il ritmo molle, che aleggia e si spegne (nell’alitare e nello smorire), della musica (d’ogni mèlode). . la maga … del machiavello: la maga Circe-Menegazzi-Pàcori sfoggia una tabacchiera sempre aperta con la quale invita (elicitava, voce dotta) gli uomini presenti al fiuto: pronta, come la Circe del mito, a trasformarli in suini, poiché basta l’odore (olezzo) della sostanza contenuta nella tabacchiera (quel filtro) a trasformare gli uomini in porci grifuti (il grifo è il muso del maiale), cosí come al tempo della scuola erano stati orecchiuti asini. La scuola è detta del manganello del machiavello, con probabile allusione alla «pedagogia» fascista, basata sull’esaltazione della violenza e dell’uso politico, «machiavellico» appunto, del manganello. Nella tabacchiera si potrà forse scorgere un’allusione sessuale: ma essa è anche propriamente un contenitore di polveri stupefacenti, come si vedrà piú avanti. . Già le alunne … muta profferta: entrano in scena le alunne della contessa Circia, le Nereidi già

T. CARLO EMILIO GADDA. QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DE VIA MERULANA

ritmo trocàico d’una estampida, ove il bàttito risoluto del piede regalasse fiere arsi al piancito: mentre la súbita erezione e lo scotimento e del collo e del capo ridava all’abisso i capelli, significando la indomita alterezza e della cervice e dell’animo, ribadita dal taratatà delle nàcchere. Intervenendo indi nel coro l’aggressione degli ignudi (e non per anco ebefatti) la stampita si esasperava a sicinnide, a danza simulatamente apotropàica: una frotta di spaurite mamillone facevan le viste d’aborrire un branco di satiri, di farsi schermo e ricovero e delle mani e della fuga avverso i rubescenti e fumiganti lor tirsi: di già mezzo imbecillati, per vero, dalle trasmodate officiature: del naso. Piombatogli in quel punto tra le gambe come la nera fòlgore d’ogni solletico e d’ogni nero evenire, il topaccio pazzo aveva impaurato a un tratto le belle. Schegge d’un cuore esploso, erano schizzate via in ogni direzione in ogni canto, dimesso d’un subito, alla sola vista di quella spiritata pantegana, il loro ancheggiato e mamillante sacerdozio. Ed erano gridi ed acuti da non dire mentre saetprecedentemente ignudàtesi, che sono poi le nipotine apprendiste di Zamira. Sono bianchissime, eccezion fatta per il grembo villoso (per la sua forma triangolare, è detto trígono cesputo), e si liberano in un attimo degli abiti, nonché di ogni remora di pudicizia imposta dai padri (torquente veto dei padri; la proibizione è detta torquente con crudo latinismo da torquere, «torcere, volgere, angustiare, crucciare»: di conseguenza – con falsa etimologia – la loro muta profferta sessuale le fa storcere). . di moresca … al piancito: la scena muta rapidamente dai toni della figurazione delle righe precedenti: i ritmi lenti di antiche danze come la moresca e la sarabanda che a quella si appropriavano si trasformano nell’esaltazione di una scena orgiastica e violenta, accompagnata necessariamente dal veloce ritmo trocàico (il trocheo è il classico piede di due sillabe con accento sulla prima, usato a esempio nelle scene concitate delle tragedie) dell’estampida (la canzone a ballo provenzale nella quale si battono a terra i piedi: bàttito risoluto che sulle assi del piancito, il pavimento di legno, deposita duri accenti in battere, fiere arsi). . la súbita … delle nàcchere: le danzatrici nude, al suono (con violenta onomatopea, taratatà) delle nàcchere (gli strumenti a percussione di origine araba suonati con due o tre dita dagli stessi danzatori per accompagnarsi), sollevano di scatto (in una allusiva súbita erezione) il collo, il cui scuotersi fa cadere alle loro spalle (con gusto grottesco dell’iperbole, ridava all’abisso) i capelli: un gesto che indica (significando) la fierezza (indomita alterezza) tanto della colonna dorsale (la cervice ne costituisce la parte superiore, alla base del collo) che dell’animo. . Intervenendo … apotropàica: gli uomini, resi suini dalle polveri della contessa Circia, si sono anch’essi sveltamente liberati delle vesti e intervengono volentieri nella danza (coro, con crudissimo grecismo). Sono essi ignudi, ma non ancora (per anco) ebefatti (voce di conio forse gaddiano: l’«ebefrenia» è psicosi dell’adolescenza, che però ha sintomi malinconici che non paiono attagliarsi

ai satiri qui ritratti; sarà da vedervi piuttosto un’allusione classica a Ebe, coppiera degli dei: chi è ebefatto è dunque chi si è ubriacato sino all’instupidimento, alla stupefazione). Con il loro intervento, la stampita (variazione della precedente estampida) si muta ormai senz’altro in orgiastica sicinnide, la danza dei satiri. Una danza simulatamente, fintamente, apotropàica in quanto la figurazione di spergiuro, per allontanare i mali (apotropàica), preferita in età classica era proprio quella del satiro dallo spropositato fallo in erezione. . una frotta … del naso: le alunne (dette mamillone alludendo forse alle maschere femminili degli antichissimi fescennini) fingono di spaventarsi (facevan le viste d’aborrire) di fronte ai satiri cosí sollecitati e in particolare si riparano con le mani e con la fuga dai loro membri (con greve eufemismo di stampo plautino detti tirsi, cioè «pannocchie») arrossati (rubescenti) e addirittura fumiganti dall’eccessiva frègola; anche se, per vero, i satiri sono ormai quasi ebefatti (mezzo imbecillati) dall’eccessivo utilizzo della sostanza contenuta nella tabacchiera (trasmodate officiature: con metafora blasfema, «funzioni» in misura eccessiva «officiate» con il naso), e sarebbero ormai quasi inoffensivi. . Piombatogli … sacerdozio: la scena si completa con l’arrivo inopinato del suo protagonista, il topaccio pazzo, che piomba tra le gambe delle alunne. È chiara ora la simbologia fallica sottesa al sogno del brigadiere: la nera fòlgore del topaccio allude alla tentazione sessuale (ogni solletico), oscuramente associata alla morte (ogni nero evenire: quanto di irrazionale e oscuro possa capitare o, latinamente, evenire). Per questo, a differenza del simulato terrore nei confronti dei satiri, la vista del topaccio (la spiritata pantegana; la pantegana è il ratto piú enorme che si aggiri nelle fogne) riesce a impaurare davvero le belle, che fuggono in ogni direzione come (con similitudine forse gratuita) «schegge d’un cuore esploso», cessando all’istante («dimesso d’un subito») la propria lasciva danza («il loro ancheggiato e mamillante sacerdozio»).

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tava qua e là il baffone come cocca di balestra, nera acuminata polpetta. Molte, smemoratesi d’essere ignude, avevano fatto il gesto d’abbassar la gonna ai ginocchi, a proteggere una delicatezza indifesa: ma la gonna se la sognaveno. E la delicatezza artrettanto. Cosí, nel delirio, avevano domandato scampo alla fuga, agli specchi del padúle, all’ombre dei giunchi, alla notte, all’argentata macchia dei lecci, dei pini a lido, alle risciacquature libere del lido, signoreggiato da bulicante maretta: altre, poetesse ed oceanine precipiti da le scogliere lunari del circèo, s’erano buttate a le spume del frangente. Ma la contessa Circia ebriaca arrovesciava il capo all’indietro, ricadendole i capelli zuppi (mentre palloncini gialli ridevano e dondolavano in cinese) nella torpida benignità della notte: zuppi d’uno shampo di white label: la fenditura della bocca, quale in un salvadanaio di coccio, s’inarcava sguaiata fino a potersi appuntare agli orecchi, le spaccava il volto come il cocomero dopo la prima incisione, in due batti batti, in due sottosuole di ciabatta: e dagli occhioni strabuzzati, che gli si vede il bianco di sotto a l’iridi come d’una Teresa riposseduta dal demonio, le gocciolavano giú per il volto lacrime etiliche, stille azzurrine: opalescenti perle d’un contrabbandato Pernod. Invocava la fiasca del ratafià, chiamava le sovvenzioni del Papà, del Papè, del grande Aleppo; dell’invisibile Onnipresente, ch’era, tutt’al contrario dell’Onnivisibile fetente salutato salvatore d’Italia, onnipotente nel praticare il solletico, ogni maniera di solletico: quanto era quello impotente a combinare checchefosse, e men che meno le sue verbose bravazzate. Stillava perle azzurrine, lacrime di àloe, di terebinto . Ed erano gridi … artrettanto: la nera fòlgore tuttavia saetta qua e là, con i suoi baffi (trattandosi di un topo) orribilmente frementi, minacciosa e nera polpetta a punta (acuminata) come cocca di balestra (la cocca è la parte terminale della freccia della balestra, con doppia aerodinamica punta), cosicché alcune delle belle, dimenticando di essere nude, tentano con ritardata pudicizia (immagine grottesca) di abbassar la gonna ai ginocchi. Gonna che non hanno (se la sognaveno: violentissimo il ritorno improvviso del dialetto romanesco), cosí come (artrettanto, altrettanto) non hanno, da tempo, la delicatezza che pensano di difendere cosí dalla scandalosa aggressione. . Cosí … del frangente: la fuga delle alunne prosegue, disperdendosi nei paraggi. Alcune si riparano negli acquitrini (gli specchi del padúle), altre nella giuncaia, in una macchia di lecci illuminata dalla luna (argentata), nella pineta che si trova nei pressi di una spiaggia libera (le risciacquature libere del lido), dominata dal mare che ribollisce inquieto (bulicante maretta). Alcune infine scelgono di gettarsi in mare (a le spume del frangente) dalle scogliere illuminate dalla luna, imitando con questo gesto poetesse (come Saffo, che la leggenda, echeggiata da Leopardi nell’Ultimo canto di Saffo, vuole essersi uccisa precipitandosi in mare) e ninfe oceanine (le mitiche figlie di Teti e Oceano progenitrici delle Nereidi, abitatrici dei mari). . Ma la contessa … dal demonio: per qualche motivo che capiremo poi, Circia non teme il topaccio, e continua a ridere ebriaca mentre i palloncini gialli dell’altana dondolano come in una stampa cinese (in cinese). La sua raffigurazione è potentemente espressionistica, e ricorda i quadri del pittore

belga James Ensor (-) o dei tedeschi del gruppo della Brücke, che certo Gadda conosceva. I capelli sono zuppi di whisky («uno shampo di white label»), la bocca enorme s’inarca in una smorfia sguaiata sin quasi a congiungere le orecchie (con paragone tremendo, come «la fenditura in un salvadanaio»): una smorfia che le spacca il volto come accade al cocomero quando lo si incide, dividendolo in due metà imperfette e sformate («due batti batti, due sottosuole di ciabatta»). Gli occhi strabuzzati mostrano solo il bianco piú dell’iride (come nella celebre statua dell’Estasi di Santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini, qui però passata dall’estasi divina a un osceno deliquio: riposseduta dal demonio). . le gocciolavano … Aleppo: lo stato di ubriachezza della Circia è tale che addirittura piange lacrime alcoliche (etiliche) dal colore azzurrino: e Gadda si compiace di affastellare qui liquori dai nomi esotici: il Pernod è un alcolico francese a base di anice giallastro e molto denso, le cui gocce possono essere quindi definite opalescenti perle; il ratafià è un liquore aromatico di origine creola, e il nome gli ricorda per la cadenza ossitona e vagamente onomatopeica il «Pape Satàn pape Satàn aleppe» dantesco, Inferno, VII , ulteriormente storpiato; piú avanti saranno citati l’àloe, un succo vegetale molto amaro, il terebinto, una resina oleosa e aromatica, e la wodka, noto liquore russo. . dell’invisibile Onnipresente … bravazzate: l’invocazione alla fiasca del ratafià è equiparata blasfemamente a una preghiera. Una preghiera rivolta però non a una Presenza divina, bensí forse infernale, comunque governatrice del (sessuale) solletico. Presenza onnipotente anche se invisibile e

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e di wodka: arrovesciato il capo, smarriti nella notte i capelli, coi due diti pollice indice con un topazio giallo cadauno aveva sollevato la gonna, sul davanti, palesato a tutti che ciaveva le mutanne. Ce l’aveva, la santa donna, le mutanne: sí sí sí ce l’aveva ce l’aveva. Lo spiritato ratto aveva infilato quella via, ch’era la via del dovere, per lui e per l’annasante sua fifa, le rampicava ora le cosce come un’edera, grasso e nel suo terrore fremente, la faceva ridere e ridere a cascatella grulla, smaniare dal solletico: ecco là: ce l’aveva di cartone e di gesso, le mutanne, quella volta. Perché una volta in vita le avevano ingessato la trappola.

quindi esattamente inversa rispetto all’Onnivisibile, l’ovunque effigiato Mussolini («fetente salutato salvatore d’Italia»), che è invece perfettamente «impotente a combinare checchefosse», qualsiasi cosa: soprattutto a realizzare i suoi deliranti proclami (le sue verbose bravazzate). . coi due diti … la trappola: siamo al culmine del rito: con i diti (il plurale alla romana è frequentissimo nel Pasticciaccio) alla cui sommità le unghie giallognole sono dette un topazio giallo cadauno, la

Circia solleva la gonna rivelando, santa donna, di avere le mutanne. Il ratto si era intrufolato per la via del suo oscuro dovere, con la sua annusante paura (annasante fifa), rampicando le cosce come un’edera e facendo oscenamente ridere la donna (a cascatella grulla, cioè istericamente e scioccamente) con il solletico che le produce; ma pieno di terrore fremente si era scontrato infine con mutanne insuperabili, materiate come sono di cartone e di gesso: alla donna infatti hanno ingessato la trappola.

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EPOCHE

- Bibliografia Indici

Elenco delle abbreviazioni usate in Bibliografia. BUR

«Biblioteca Universale Rizzoli», Rizzoli, Milano.

CR

«I classici Rizzoli», Rizzoli, Milano.

D

«I Diamanti», Salerno editrice, Roma

FB

«Biblioteca di scrittori italiani», Fondazione Pietro Bembo / Ugo Guanda Editore, Parma.

LIE

Letteratura italiana,  voll., Einaudi, Torino -.

LIG

Storia della letteratura italiana,  voll., Garzanti, Milano -; nuova ed., ivi, -; aggiornamento ,  voll.

LIL

Letteratura italiana Laterza,  voll., Laterza, Bari -.

LIR

«Letteratura italiana. Storia e Testi», Ricciardi, Milano-Napoli.

LIST

La letteratura italiana. Storia e testi,  voll., Laterza, Bari -.

M

«I Meridiani», Mondadori, Milano.

SI

«Scrittori d’Italia», Laterza, Bari.

SIE

Storia d’Italia,  voll., Einaudi, Torino -.

SLI

Storia della letteratura italiana, Salerno Editrice, Roma,  volumi usciti, -.

L’Indice dei nomi comprende tutti gli autori e i personaggi storici citati nel testo. Il corsivo distingue la trattazione dalla semplice citazione, mentre una (t) aggiunta al numero delle pagine indica che la citazione (o la trattazione) appare all’interno delle tavole. L’Indice dei termini notevoli è concepito come guida alla consultazione. Vi sono segnalati, selezionando inevitabilmente, concetti artistici, filosofici, metrici, retorici e storico-culturali in genere. Nel caso di riferimenti numerosi, al singolo lemma possono seguire le relative specificazioni. Come per l’Indice dei nomi, una (t) segnala che il concetto è trattato all’interno delle tavole (l’aggiunta del numero della tavola significa che questa è interamente dedicata al concetto particolare).

Epoca 9 La nuova Italia (-) .. Per un quadro storico generale, E.J. HOBSBAWM, L’età degli imperi. -, Laterza, Bari ; per l’Italia, E. RAGIONIERI, La storia politica e sociale, in SIE, vol. IV, tomo III, ; V. CASTRONOVO, La storia economica, e R. PARIS, L’Italia fuori d’Italia, in SIE, vol. IV, tomo I, . Sull’orizzonte delle scienze e delle ideologie, si ha una vastissima bibliografia: un primo orientamento si può ricavare da P. ROSSI, Positivismo e società industriale, Loescher, Torino ; un quadro generale in W.M. SIMON, Il positivismo europeo, Il Mulino, Bologna  []. Per la cultura italiana, cfr. il quadro del dibattito ideologico di A. ASOR ROSA, La cultura, in SIE, vol. IV, tomo II, , e cfr. R. FEDI, Cultura letteraria e società civile nell’Italia unita, Nistri-Lischi, Pisa ; A.M. CAVALLI PASINI, Tra eversione e consenso. Pubblico, donne, critici nel positivismo letterario italiano, Clueb, Bologna ; P. DI GIOVANNI, Filosofia e psicologia nel positivismo italiano, Laterza, Roma-Bari . Sulle vicende del socialismo italiano, cfr. la sintesi di G. ARFÉ,

Intellettuali e società di massa. I socialisti italiani dal  ad oggi, Ecig, Genova . Per A. Labriola, cfr. l’edizione degli Scritti politici, a cura di V. GERRATANA, Laterza, Bari ; L. PUNZO (a cura di), A.L. filosofo e politico, Guerini e Associati, Milano . Sui movimenti cattolici, cfr. G. CANDELORO, Il movimento cattolico in Italia, Editori Riuniti, Roma ; G. DE ROSA, Il movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età giolittiana, Laterza, Bari . Per Lombroso, cfr. G. COLOMBO, La scienza infelice. Il museo di antropologia criminale di C.L., Bollati Boringhieri, Torino [] ; e D. FRIGESSI, Cesare Lombroso, Einaudi, Torino ; per un primo avvicinamento a Pareto, cfr. di N. BOBBIO, P. e il sistema sociale, Sansoni, Firenze ; G. MANCA (a cura di) V.P. (-). L’uomo e lo scienziato, Scheiwiller, Milano ; e per G. Mosca, E.A. ALBERTONI, G.M. e la teoria della classe politica, Sansoni, Firenze ; C. MONGARDINI, G.M. Scienza, politica e regime rappresentativo nell’età contemporanea, Bulzoni, Roma . Per il giornalismo, V. CASTRONOVO, N. TRANFAGLIA (a cura di), Storia della stampa italiana, III. La stampa italiana dall’unità al fascismo, Laterza, Bari  []; E. SCARANO, Dalla «Cronaca bizantina» al «Convito», Sansoni, Firenze ; A. BRIGANTI, Intellettuali e cultura fra Ottocento e Novecento. Nascita e storia della terza pagina, Liviana, Padova . Sulla scuola, cfr. la sintesi di G. CANESTRI, G. RICUPERATI, La scuola in Italia dalla legge Casati a oggi, Loescher, Torino , e lo studio di M. BARBAGLI, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia (-), Il Mulino, Bologna . Per i problemi linguistici, T. DE MAURO, Storia linguistica dell’Italia unita, Laterza, Bari  []; L. SERIANNI, Il secondo Ottocento. Dall’Unità alla Prima guerra mondiale, Il Mulino, Bologna . Per G.I. Ascoli, cfr. l’edizione degli Scritti sulla questione della lingua, a cura di C. GRASSI, Einaudi, Torino , e lo studio di M. DARDANO, G.I.A. e la questione della lingua, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma . Per gli studi generali sulla storia letteraria e per le raccolte di testi, si deve in parte fare riferimento a varie indicazioni già date per .; molte ampie storie letterarie dedicano comunque specifici volumi al secondo Ottocento: cosí il vol. VIII della LIG, Dall’Ottocento al Novecento, ; e il vol. VIII della LIST, in due tomi, Il secondo Ottocento, . Copre la prima parte di questa epoca l’antologia di G. CONTINI, La letteratura dell’Italia unita. -, Sansoni, Firenze . Molti autori e tendenze di cui si tratta qui nei capitoli dal . in poi sono oggetto di trattazione in vari manuali e studi dedicati alla letteratura del Novecento, che si citeranno per .. A partire da questa epoca, la bibliografia non farà piú menzione delle numerose edizioni correnti dei vari autori: si citeranno soltanto raccolte di opere complete o di ampio respiro e edizioni critiche. .. Sulle nuove forme dell’arte del tardo Ottocento e sul concetto di decadentismo per cui cfr. anche le sintesi di Il decadentismo e la critica, La Nuova Italia, Firenze , e di E. GIOANOLA, Il decadentismo, Studium, Roma  [], hanno un rilievo notevole anche alcuni saggi già citati per ., in primo luogo quello di PRAZ: ma cfr. F. FLORA, Dal romanticismo al futurismo, Milano  []; W. BINNI, La poetica del decadentismo, Sansoni, Firenze  []; C. SALINARI, Miti e coscienza del decadentismo italiano, Feltrinelli, Milano ; A. LEONE DE CASTRIS, Il decadentismo italiano. Svevo, Pirandello, D’Annunzio, Laterza, Bari  []; E. GHIDETTI, Malattia, coscienza e destino. Per una mitografia del decadentismo, La Nuova Italia, Firenze 1993. Per la Scapigliatura, cfr. G. MARIANI, Storia della Scapigliatura, Sciascia, Caltanissetta-Roma  []. Per la storia della critica, cfr. F. BETTINI (a cura di), La critica e gli scapigliati, Cappelli, Bologna ; e cfr. la sintesi di L. BOLZONI, Le tendenze della Scapigliatura e la poesia fra tardo-romanticismo e realismo, in LIST, vol. VIII, tomo II, citato. Tra gli interventi critici piú notevoli, cfr. P. NARDI, Scapigliatura. Da Giuseppe Rovani a Carlo Dossi, Mondadori, Milano  []; T. POMILIO, Asimmetrie del due. Di alcuni motivi scapigliati, Piero Manni, Lecce ; sulla narrativa scapigliata dà essenziali indicazioni R. BIGAZZI, I colori del vero. Vent’anni di narrativa: -, Nistri-Lischi, Pisa  []; più recente G. ROSA, La narrativa degli Scapigliati, Laterza, Roma-Bari . Tra le antologie di testi, cfr. G. CONTINI (a cura di), Racconti della scapigliatura piemontese, Bompiani, Milano ; G. FINZI (a cura di), Lirici della Scapigliatura, Mondadori, Milano ; V. SPINAZZOLA (a cura di), Racconti della scapigliatura milanese, De Agostini, Novara ; F. PORTINARI (a cura di), Narratori settentrionali dell’Ottocento, Utet, Torino . L’edizione di Tutte le opere di Tarchetti è stata curata da E. GHIDETTI, Cappelli, Bologna ,  voll., del quale cfr. anche T. e la scapigliatura lombarda, Guida, Napoli . L’edizione delle Poesie di E. Praga è stata curata da M. PER. SCRIVANO,



EPOCA



TRUCCIANI,

SI, . L’edizione di Tutti gli scritti di A. Boito è stata curata da P. NARDI, Mondadori, Milano , del quale cfr. anche la Vita di A.B., Mondadori, Milano ; c’è anche una scelta di Opere, a cura di M. LAVAGETTO, Garzanti, Milano . Un’ampia raccolta delle opere di Dossi è stata curata da D. ISELLA, Adelphi, Milano ; cfr. l’edizione delle Note azzurre, a cura di D. ISELLA, Adelphi, Milano ,  voll. Per la storia della critica, cfr. L. AVELLINI (a cura di), La critica e D., Cappelli, Bologna ; il punto di partenza della critica su Dossi è costituito da G.P. LUCINI, L’ora topica di C.D. [], nuova ediz. a cura di T. GRANDI, Ceschina, Milano  (cfr. ..); cfr. inoltre F. SPERA, Il principio dell’antiletteratura, Liguori, Napoli . Per alcuni autori piemontesi, cfr. G. DE RIENZO, Camerana, Cena e altri studi piemontesi, Cappelli, Bologna . .. Per la poesia del secondo Ottocento, cfr. le raccolte citate per .; per Zanella è in corso un’edizione completa delle Opere di cui sono uscite Le poesie, a cura di G. AUZZAS, M. PASTORE STOCCHI, Neri Pozza, Vicenza ; Saggi critici, a cura di A. BALDUINO,  voll., ivi, , e Prose e discorsi di argomento religioso e civile, a cura di T. MOTTERLE, ivi, . Per la storia della critica carducciana, G. SANTANGELO (a cura di), G.C., Palumbo, Palermo ; utile strumento di base, A. PIROMALLI, Introduzione a C., Laterza, Bari ; per la biografia, cfr. M. BIAGINI, G.C. Biografia critica, Mursia, Milano  []. L’edizione nazionale delle Opere consta di trenta volumi apparsi presso Zanichelli, Bologna, tra il  e il , a cui si aggiungono i ventidue volumi delle Lettere, a cura di M. VALGIMIGLI, -; una nuova edizione nazionale, per i tipi della modenese Mucchi, è stata recentemente avviata; sono al momento usciti il Carteggio Carducci-Menghini (a cura di T. BARBIERI, ), Confessioni e Battaglie (a cura di M. SACCENTI, ) e il Carteggio Paola Pes di Villamarina-Carducci (a cura di A.M. GIORGETTI VICHI, ). Per le Odi barbare si ha ora l’edizione critica a cura di G.A. PAPINI, Fondazione Mondadori, Milano . Utilissimo il volume Tutte le poesie, a cura di P. GIBELLINI, Newton & Compton, Roma . Numerose le edizioni di singole opere, le antologie e le scelte commentate: cfr. Poesie e prose scelte, a cura di M. FUBINI, R. CESERANI, La Nuova Italia, Firenze ; Poesie, a cura di G. BÀRBERI SQUAROTTI, Garzanti, Milano ; Prose critiche, a cura di G. FALASCHI, Garzanti, Milano ; dall’epistolario è ricavato il volume Amarti è odiarti. Lettere a Lidia, -, a cura di G. DAVICO BONINO, Archinto, Milano . Per la critica, che prende le mosse dai saggi del Thovez (cfr. ..) e del Croce (cfr. ..), cfr. C. DE LOLLIS, Saggi sulla forma poetica dell’Ottocento, nel volume citato per ..; N. SAPEGNO, Ritratto di Manzoni e altri saggi (citato per .); L. RUSSO, C. senza retorica, Laterza, Bari  []; W. BINNI, C. e altri saggi, Einaudi, Torino  []; E. CACCIA, Poesia e ideologia per C., Paideia, Brescia ; R. BRUSCAGLI, C. nelle lettere. Il personaggio e il prosatore, Pàtron, Bologna ; F. MATTESINI, Per una lettura storica di C., Vita e Pensiero, Milano ; U. CARPI (a cura di), C. poeta, Atti del Convegno di Pietrasanta e Pisa del , Giardini, Pisa ; M. SACCENTI (a cura di), C. e la letteratura italiana, Atti del Convegno di Bologna del , Antenore, Padova ; M. SACCENTI, Il grande artiere. Commenti e documenti carducciani, Mucchi, Modena ; L. CANTATORE, Scelta, ordinata e annotata: l’antologia scolastica nel secondo Ottocento e il laboratorio Carducci-Brilli, Mucchi, Modena . .. Sul verismo, un’agile sintesi è quella di P. PELLINI, Naturalismo e verismo, La Nuova Italia, Firenze ; ma cfr. G. MARZOT, Battaglie veristiche dell’Ottocento, Principato, Milano-Messina . Sulla formazione del verismo è essenziale il saggio di R. BIGAZZI già citato per .; importante E. GHIDETTI, L’ipotesi del realismo. Storia e geografia del naturalismo italiano, Sansoni, Firenze ; cfr. poi C.A. MADRIGNANI, Ideologia e narrativa dopo l’unificazione, Savelli, Roma ; V. SPINAZZOLA, Verismo e positivismo, Garzanti, Milano . Per il teatro, cfr. l’antologia di A. BARBINA (a cura di), Teatro verista siciliano, Cappelli, Bologna , e G. NICASTRO, Teatro e società in Sicilia, Bulzoni, Roma . L’edizione dei Racconti di Capuana, in tre volumi, è stata curata da E. GHIDETTI, Salerno, Roma -; un’edizione dei saggi di Per l’arte è stata fornita da R. SCRIVANO, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli ; utili le edizioni del Decameroncino, a cura di A. CASTELVECCHI, Salerno, Roma , delle Novelle inverosimili, a cura di M. LA FERLA, Avagliano, Cava de’ Tirreni , e di Rassegnazione, a cura di L. PASQUINI, Bulzoni, Roma . Importante l’edizione del Teatro italiano, a cura di G. OLIVA e L. PASQUINI, Sellerio, Palermo . Per la critica, cfr. i saggi di C.A. MADRIGNANI, C. e il naturalismo, Laterza, Bari ; S. ZAPPULLA MUSCARÀ, C. e De Roberto, Sciascia, Caltanissetta ; AA.VV., Novelliere impenitente. Studi su L.C., Nistri-Lischi, Pisa ; M. PICONE e E. ROSSETTI (a cura di), L’illusione della realtà. Studi su L.C., Atti del Convegno di Montréal del , Salerno, Roma . Una Bibliografia verghiana (-) è stata curata da G. RAYA, Fermenti, Roma ; come strumenti di base, cfr. R. LUPERINI, Interpretazioni di V., Savelli, Roma ; I. GHERARDUCCI-E. GHIDETTI, Guida alla lettura di V., La Nuova Italia, Firenze ; G. MAZZACURATI, G.V., Liguori, Napoli ; V. MASIELLO (a cura di), Il punto su: V., Laterza, Bari . Tra i profili globali dell’opera verghiana, essenziali L. RUSSO, G.V., Laterza, Bari  []; R. LUPERINI, G.V., in LIG, vol. VIII, tomo II, ; N. BORSELLINO, Storia di V., Laterza, Bari  []. Per la biografia, cfr. G. CATTANEO, G.V., Utet, Torino . Tra le raccolte delle opere, essenziali sono quelle in M, Tutte le novelle, a cura di C. RICCARDI, , e I grandi romanzi,

BIBLIOGRAFIA



a cura di F. CECCO, C. RICCARDI,  []; cfr. anche l’edizione delle Novelle, a cura di G. TELLINI,  voll., Salerno, Roma , e quella di Tutti i romanzi, a cura di E. GHIDETTI,  voll., Sansoni, Firenze . È in corso di attuazione, a cura della Fondazione Verga di Catania e presso l’editore Le Monnier di Firenze, l’edizione nazionale delle opere verghiane, di cui ricordiamo: Vita dei campi, a cura di C. RICCARDI, , Drammi intimi, a cura di G. ALFIERI, , I carbonari della montagna - Sulle lagune, a cura di R. VERDIRAME, , Mastro-don Gesualdo, a cura di C. RICCARDI, , Mastro-don Gesualdo , a cura della stessa studiosa, Per le vie, a cura di R. MORABITO, . Per I Malavoglia, cfr. l’edizione critica a cura di F. CECCO, Il Polifilo, Milano . Assai numerose e spesso pregevoli le edizioni economiche e commentate di opere singole o di gruppi di opere: si veda almeno quella di Mastro-don Gesualdo a cura di G. MAZZACURATI, Einaudi, Torino . Per l’interpretazione, il lavoro di base resta quello già citato di L. RUSSO; cfr. poi il saggio del  di A. MOMIGLIANO, Dante, Manzoni, V., D’Anna, Messina-Firenze  []; G. DEBENEDETTI, Verga e il naturalismo, prefazione di N. BORSELLINO, Garzanti, Milano  []; R. LUPERINI, Pessimismo e verismo nell’opera di V., Liviana, Padova  []; V. MASIELLO, V. tra ideologia e realtà, De Donato, Bari ; ID., Il mito e la storia (già citato per .); A. ASOR ROSA (a cura di), Il caso V., Palumbo, Palermo ; G. GUGLIELMI, Ironia e negazione, Einaudi, Torino ; R. BIGAZZI, V. novelliere, Nistri-Lischi, Pisa ; G. PIRODDA, L’eclissi dell’autore. Tecniche ed esperimenti verghiani, Edes, Cagliari ; N. MEROLA, Su V. e D’Annunzio. Mito e scienza in letteratura, Edizioni dell’Ateneo, Roma ; G. BALDI, L’artificio della regressione. Tecnica narrativa e ideologia nel V. verista, Liguori, Napoli ; G. NENCIONI, La lingua dei «Malavoglia» e altri scritti di prosa, poesia e memoria, Morano, Napoli ; R. LUPERINI, Simbolo e costruzione allegorica in V., Il Mulino, Bologna ; G. PATRIZI, Il mondo da lontano. Il fatto e il racconto nella poetica verghiana, Fondazione Verga, Catania ; G. TELLINI, L’invenzione della realtà. Studi verghiani, Nistri-Lischi, Pisa ; G. MAZZACURATI, Stagioni dell’apocalisse. Verga Pirandello Svevo, a cura di M. PALUMBO, Einaudi, Torino . Sul primo Verga, cfr. G. DEBENEDETTI, V. e il Naturalismo, Garzanti, Milano ; L. JANNUZZI, Sul primo V., Loffredo, Napoli ; M. MUSCARIELLO, Le passioni della scrittura. Studi sul primo V., Liguori, Napoli . Sul teatro, S. FERRONE, Il teatro di V., Bulzoni, Roma ; A. BARSOTTI, V. drammaturgo. Tra teatro borghese e teatro verista siciliano, La Nuova Italia, Firenze . Numerosi e di vario interesse sono i volumi che raccolgono gli atti di convegni dedicati a Verga: in particolare quelli curati dalla Fondazione Verga di Catania trattano volta per volta di opere diverse o di fasi dell’esperienza verghiana. Per De Roberto, cfr. l’ampia raccolta di Romanzi, novelle e saggi, a cura di C.A. MADRIGNANI, M, ; utili le edizioni dei Processi verbali (Sellerio, Palermo ), e de Il rosario (a cura di D. PERRONE, Il Pungitopo, Marina di Patti ); per la critica, V. SPINAZZOLA, F.D.R. e il verismo, Feltrinelli, Milano ; C.A. MADRIGNANI, Illusione e realtà nell’opera di F.D.R., De Donato, Bari ; N. TEDESCO, La norma del negativo. D.R. e il realismo critico, Sellerio, Palermo ; P.M. SIPALA, Introduzione a D.R., Laterza, Bari ; B. STASI, Apologie della letteratura. Leopardi tra De Roberto e Pirandello, Il Mulino, Bologna . .. L. VOLPICELLI ha curato la Bibliografia collodiana (-), Fondazione Nazionale Carlo Collodi, Pescia ; l’edizione critica de Le avventure di Pinocchio (libro del quale si hanno, naturalmente, innumerevoli edizioni in tutte le lingue) è stata curata da O. CASTELLANI POLLIDORI, Accademia nazionale della Crusca, Firenze ; importante l’edizione delle Opere in M, a cura di D. MARCHESCHI, . Per l’interpretazione, cfr. G. GENOT, L’analise structurelle de Pinocchio, Fondazione Nazionale Carlo Collodi, Pescia ; E. GARRONI, Pinocchio uno e bino, Laterza, Bari ; gli Atti del I Convegno internazionale di Pescia del , Studi collodiani, Cassa di Risparmio di Pistoia e di Pescia, Pescia ; D. MARCHESCHI, Collodi ritrovato, ETS, Pisa ; R. BERTACCHINI-D. MARCHESCHI-F. TEMPESTI, Sterne e C., Pacini Fazzi, Lucca ; R; DEDOLA, Pinocchio e C., Bruno Mondadori, Milano . Per il Fucini, cfr. L.G. SBROCCHI, R.F. L’uomo e l’opera, D’Anna, Messina-Firenze ; per il Pratesi, l’edizione dei Racconti, a cura di G. LUTI, J. SOLDATESCHI, Salerno, Roma ; e il saggio di D. TANTERI, L’itinerario narrativo di M.P., Ets, Pisa . Per la narrativa napoletana, cfr. A. PALERMO, Da Mastriani a Viviani, Liguori, Napoli ; per il teatro, V. VIVIANI, Storia del teatro napoletano, Guida, Napoli . Per la Serao, cfr. la biografia di A. BANTI, M.S., Utet, Torino ; G. BUZZI, Invito alla lettura di M.S., Mursia, Milano . Per Di Giacomo, l’edizione delle Opere è stata curata da F. FLORA, M. VINCIGUERRA, Mondadori, Milano ,  voll.; ma cfr. ora Poesie e prose, a cura di E. CROCE, L. ORSINI, M, ; per la critica, resta un «classico» L. RUSSO, S.D.G., Ricciardi, Napoli  (nuova edizione a cura di C.F. RUSSO, Nino Aragno, Torino ). Per la letteratura dialettale, cfr. M. CHIESA, G. TESIO (a cura di), Il dialetto da lingua della realtà a lingua della poesia, Paravia, Torino . Per Pascarella, cfr. la raccolta I sonetti. Storia nostra. Le prose, a cura di E. CECCHI, A. SCHIAFFINI, P.P. TROMPEO, L. HUETTER, Mondadori, Milano . Per De Marchi, cfr. l’edizione delle Opere, a cura di G. DE RIENZO, Utet, Torino ; l’edizione critica del Demetrio Pianelli a cura di A. MODENA, in FB, ; utili le edizioni de Il cappello del prete e di Redivivo, a cura di T. IERMANO, Avagliano, Cava de’ Tirreni  e ; e i saggi di V. SPINAZZOLA, E.D.M. romanziere popolare, Edizioni di Comunità, Milano , e di A. BRIGANTI, Introduzione a De Marchi, Laterza, Roma-Bari . Su Calandra, cfr. G. PE-



EPOCA



TROCCHI, E.C., Morcelliana, Brescia ; su Zena, cfr. Romanzi e racconti, a cura di E. VILLA, Cappelli, Bologna  e Tutte le poesie, a cura di A. BRIGANTI, Cappelli, Bologna ; M. DI GIOVANNA, R.Z. narratore, Bulzoni, Roma . Per De Amicis, cfr. l’edizione delle Opere, a cura di A. BALDINI, Garzanti, Milano -,  voll., e quella delle Opere scelte in M, a cura di F. PORTINARI e G. BALDISSONE, ; e i saggi di L. GIGLI, E.D.A., Utet, Torino ; S. TIMPANARO, Il socialismo di E.D.A. Lettura del «Primo maggio», Bertani, Verona ; F. CONTORBIA (a cura di), E.D.A., Atti del Convegno di Studi di Imperia del , Garzanti, Milano ; M. RICCIARDI, L. TAMBURINI (a cura di), Cent’anni di «Cuore». Contributi per la rilettura del libro, Allemandi, Torino ; B. DANNA, Dal taccuino alla lanterna magica. De Amicis «reporter» e scrittore di viaggi, Olschki, Firenze ; E. TOSTO, Edmondo De Amicis e la lingua italiana, Olschki, Firenze ; Per la biografia di Fogazzaro, cfr. T. GALLARATI SCOTTI, La Vita di A.F., Baldini e Castoldi, Milano  []; la monografia di P. NARDI, A.F., Mondadori, Milano  []; e la guida di G. DE RIENZO, Invito alla lettura di F., Mursia, Milano ; l’edizione di Tutte le opere, in quindici volumi, è stata curata da P. NARDI, Mondadori, Milano -; notevoli molte edizioni economiche di singole opere, a volte con introduzioni critiche di grande rilievo. Per la critica, cfr. G. TELLINI, L’avventura di «Malombra» e altri saggi, Bulzoni, Roma ; E. GHIDETTI, Le idee e le virtú di A.F., Liviana, Padova ; F. FINOTTI, Una ferita non chiusa. Misticismo, filosofia, letteratura in Prezzolini e nel primo Novecento, Olschki, Firenze ; F. BANDINI-F. FINOTTI (a cura di), A.F. Le opere. I tempi, Atti del Convegno, Accademia Olimpica, Vicenza ; F. FINOTTI-G. PIZZAMIGLIO (a cura di), A.F. tra storia, filologia e critica, Accademia Olimpica, Vicenza . Per la Deledda, cfr. l’edizione dei Romanzi e novelle, in cinque volumi, con introduzione di E. CECCHI, Mondadori, Milano -; e le nuove edizioni in M, Romanzi e novelle, a cura di N. SAPEGNO, ; Romanzi sardi, a cura di V. SPINAZZOLA, ; per la critica, cfr. E. DE MICHELIS, G.D. e il decadentismo, La Nuova Italia, Firenze ; A. DOLFI, G.D., Mursia, Milano . Per il teatro, cfr. le raccolte di testi citate per ., e le antologie di A. CROCE (a cura di), Teatro italiano della seconda metà dell’Ottocento,  voll., Laterza, Bari -; C. BOZZETTI (a cura di), Il teatro del secondo Ottocento, Utet, Torino ; e cfr. gli studi di S. MONTI, Il teatro realista della nuova Italia: -, Bulzoni, Roma ; S. FERRONE (a cura di), Il teatro dell’Italia unita, Il Saggiatore, Milano , R. ALONGE, Teatro e spettacolo nel secolo Ottocento, Laterza, Bari . Su Giacosa, cfr. P. NARDI, Vita e tempo di G.G., Mondadori, Milano ; A. BARSOTTI, G.G., La Nuova Italia, Firenze . Per i libretti di Puccini, una informazione di base si può ricavare da C. CASINI, P., Utet, Torino , e la raccolta dei Libretti, a cura DI E.M. FERRANDO, Garzanti, Milano . Per la fortuna di Wagner nella letteratura italiana, cfr. A. GUARNIERI CORAZZOL, Tristano, mio Tristano. Gli scrittori italiani e il caso Wagner, Il Mulino, Bologna, .

.. Abbastanza numerosi sono gli strumenti per la bibliografia dannunziana: e in particolare possono essere consultati i «Quaderni dannunziani», pubblicati periodicamente a partire dal  (tra il  e il  col titolo di «Quaderni del Vittoriale»). Per la storia della critica, cfr. N. LORENZINI, D’A., Palumbo, Palermo . Come strumenti di base, cfr. E. DE MICHELIS, Tutto D’A., Feltrinelli, Milano ; N. MEROLA, D’A. e la poesia di massa, Laterza, Bari ; A.M. MUTTERLE, D’A., Le Monnier, Firenze ; G. BÀRBERI SQUAROTTI, Invito alla lettura di D’A., Mursia, Milano ; A. ANDREOLI, D’A., La Nuova Italia, Firenze  []. Tra le biografie, P. CHIARA, Vita di G. D’A., Mondadori, Milano ; P. ALATRI, D’A., Utet, Torino ; A. ANDREOLI, Il vivere inimitabile. Vita di G.D’A. Mondadori, Milano , e la raccolta fotografica, Album D’A., a cura di A. ANDREOLI, M, . Oltre ai volumi lussuosi dell’Opera omnia, intrapresa presso Mondadori dal  al ’, l’edizione di Tutte le opere di D’Annunzio apparve nei «Classici Contemporanei Italiani», Mondadori, in nove volumi usciti tra il  e il , a cura di E. BIANCHETTI (Versi d’amore e di gloria,  voll.; Tragedie, sogni e mistero,  voll.; Prose di romanzi,  voll.; Prose di ricerca, di lotta, di comando, di conquista, di tormento, d’indovinamento, di rinnovamento, di celebrazione, di rivendicazione, di liberazione, di favole, di giochi, di baleni,  voll.), a cui seguirono, a cura di E. BIANCHETTI, R. FORCELLA, nel , i Taccuini, e nel , a cura di E. BIANCHETTI, Altri taccuini. A parte è l’edizione Violante dalla bella voce, a cura di E. DE MICHELIS, Mondadori, Milano . Varie le edizioni di altri inediti, tra cui A. ANDREOLI (a cura di), Di me a me stesso, G.D’A., Mondadori, Milano . Una nuova edizione commentata delle opere dannunziane è in corso di pubblicazione in M: sono usciti Versi d’amore e di gloria, edizione diretta da L. ANCESCHI, a cura di A. ANDREOLI, N. LORENZINI, -,  voll.; Prose di romanzi, edizione diretta da E. RAIMONDI, a cura di A. ANDREOLI, N. LORENZINI,  voll., -; Tutte le novelle, a cura di A. ANDREOLI e M. DE MARCO, , e due volumi di Scritti giornalistici: -, a cura di A. ANDREOLI e F. RONCORONI, , -, a cura di A. ANDREOLI e G. ZANETTI, . Per l’epistolario, tra le edizioni piú recenti, Carteggio D’A. - Mussolini, -, a cura di R. DE FELICE, E. MARIANO, Mondadori, Milano ; Lettere a Giselda Zucconi, a cura di I. CIANI, Centro Nazionale di Studi Dannunziani, Pescara ; Lettere ai Treves, a cura di G. OLIVA, Garzanti, Milano ; Il befano alla befana. L’epistolario con Luisa Baccara, a cura di P. SORGE, Garzanti, Milano, . Numerose le edizioni economiche delle singole opere negli «Oscar Mondadori» e le antologie di vario tipo: ricordiamo Poesie-Teatro-Prose, a cura di M. PRAZ, F. GERRA, LIR, ; e quelle curate da F. RONCORONI per i «Grandi libri Garzanti», Poesie, , e Prose, . La nuova edizione dell’Opera omnia prevede una serie di edizioni critiche: essa è stata inaugurata dall’Alcyone, a cura di P. GIBELLINI, Mondadori, Milano .

BIBLIOGRAFIA



La base per l’interpretazione dell’opera dannunziana fu data da una serie di interventi all’inizio del Novecento, tra cui un saggio di B. CROCE del , confluito nel quarto volume della Letteratura della nuova Italia (cfr. ..), e i libri di G.A. BORGESE, G.D’A. (), nuova edizione a cura di A.M. MUTTERLE, Mondadori, Milano , e di A. GARGIULO, G.D’A., Sansoni, Firenze  []; cfr. poi F. FLORA, G.D’A., Ricciardi, Napoli ; il saggio di G. DEBENEDETTI, Nascita del D’A. [] raccolto in Saggi critici, seconda serie, Il Saggiatore, Milano ; quelli di E. CECCHI raccolti in Ritratti e profili, Garzanti, Milano ; il volume di M. PRAZ, La morte, la carne e il diavolo nella letteratura romantica (citato per ..). Ma cfr. successivamente G. BÀRBERI SQUAROTTI, Il gesto improbabile. Tre saggi su G.D’A., Flaccovio, Palermo ; e dello stesso vari saggi nei volumi Poesia e ideologia borghese, Liguori, Napoli ; A. JACOMUZZI, Una poetica strumentale. G.D’A., Einaudi, Torino ; ID., La forma e la vita: il romanzo del Novecento, Mursia, Milano ; i saggi di P.V. MENGALDO raccolti in La tradizione del Novecento. Da D’A. a Montale, Feltrinelli, Milano ; G.L. BECCARIA, L’autonomia del significante. Figure del ritmo e della sintassi. Dante, Pascoli, D’A., Einaudi, Torino ; L. ANCESCHI, Da Ungaretti a D’A., Il Saggiatore, Milano ; N. MEROLA, Su Verga e D’A. (citato per .); E. RAIMONDI, Il silenzio della Gorgone, Zanichelli, Bologna ; F. GAVAZZENI, Le sinopie di Alcyone, Ricciardi, Milano-Napoli ; A. MAZZARELLA, Il piacere e la morte. Sul primo D’A., Liguori, Napoli ; M. RICCIARDI, Coscienza e struttura nella prosa di D’A., Giappichelli, Torino ; N. LORENZINI, Il segno del corpo (saggio su D’A.), Bulzoni, Roma ; P. GIBELLINI, Logos e mythos. Studi su G. D’A., Olschki, Firenze ; F. ROMBOLI, Un’ipotesi per D’A. Note sui romanzi, Ets, Pisa ; G. NICASTRO, Il poeta e la scena, Saggio sul teatro di D’A., Edizioni del Prisma, Catania ; R. BARILLI, D’A. in prosa, Mursia, Milano ; P. GIBELLINI, D’A. dal gesto al testo, Mursia, Milano ; U. ARTIOLI, Il combattimento invisibile. D’A. tra romanzo e teatro, Laterza, Roma-Bari ; M. SANTAGATA, Per l’opposta balza. La cavalla storna e Il commiato dell’Alcyone, Garzanti, Milano ; A.R. PUPINO, D’A. letteratura e vita, Salerno, Roma . Innumerevoli sono i saggi raccolti in volumi collettivi, i numeri speciali di riviste dedicati a D’Annunzio, gli atti di convegni dannunziani, svoltisi in varie sedi, con frequenza periodica a Gardone Riviera presso il Vittoriale e, a partire dal , nella città di Pescara, dove opera il Centro Nazionale di Studi Dannunziani. .. La Bibliografia della critica pascoliana (-) è stata curata da F. FELCINI, Longo, Ravenna ; per la storia della critica, cfr. A. PRETE (a cura di), La critica e P., Cappelli, Bologna . Per la biografia, il libro della sorella, M. PASCOLI, Lungo la vita di G.P., Mondadori, Milano ; e M. BIAGINI, Il Poeta solitario. Vita di G.P., Mursia, Milano  []. Presso Mondadori è stata pubblicata l’edizione di Tutte le opere di Pascoli, con questa distribuzione: Poesie,  voll. a cura di A. VICINELLI,  []; Carmina, a cura di M. VALGIMIGLI, ; Prose,  voll. in tre tomi, a cura di A. VICINELLI, -. È stata recentemente inaugurata un’Edizione Nazionale, pubblicata dalla Nuova Italia; è uscita finora l’edizione critica dei Canti di Castelvecchio, a cura di N. EBANI, . Cfr. poi l’edizione critica di Myricae, a cura di G. NAVA,  voll., Sansoni, Firenze  (e cfr. anche il commento integrale, a cura dello stesso NAVA, Salerno, Roma ). Di Myricae è notevole anche l’edizione a cura di F. MELOTTI, con introduzione di P.V. MENGALDO, BUR, . Cfr. inoltre le edizioni annotate dei Poemetti, a cura di E. SANGUINETI, Einaudi, Torino ; dei Canti di Castelvecchio, a cura di G. NAVA, BUR,  []; dei Poemi conviviali, a cura di G. LEONELLI, Mondadori, Milano ; dei Nuovi poemetti, a cura di R. AYMONE, Mondadori, Milano  e la scelta dei Poemi cristiani, con testo latino e traduzione, a cura di A. TRAINA, BUR . Numerose le antologie e le raccolte di vario tipo, tra cui si distingue Opere, a cura di M. PERUGI, LIR, -,  voll. Nutrita di abbondantissimo commento ma dall’ordinamento testuale ampiamente discutibile l’edizione curata da C. GARBOLI e altri delle Poesie e prose scelte, in M, . Per l’interpretazione, essenziale è il saggio del  di G. CONTINI, Il linguaggio di P., raccolto in Varianti e altra linguistica, Einaudi, Torino ; cfr. poi G. DEBENEDETTI, Saggi critici, terza serie, Il Saggiatore, Milano , ID., P.: La rivoluzione inconsapevole, Lezioni inedite, Garzanti, Milano  []; C. VARESE, P. decadente, Sansoni, Firenze ; G. BÀRBERI SQUAROTTI, Simboli e strutture della poesia di P., D’Anna, Messina-Firenze ; G.L. BECCARIA, L’autonomia del significante (citato per .); F. FELCINI, Indagini e proposte per una storia delle «Myricae». Alle origini del linguaggio poetico pascoliano, La Goliardica, Roma ; T. FERRI, Riti e percorsi della poesia pascoliana, Bulzoni, Roma ; G. CAPOVILLA, La formazione letteraria del P. a Bologna, Clueb, Bologna ; ID., Fra le carte di Castelvecchio. Studi pascoliani, Mucchi, Modena ; C. GARBOLI, Trenta poesie famigliari di G.P., Einaudi, Torino ; M.A. BAZZOCCHI, L’immaginazione mitologica. Leopardi e Calvino, P. e Pasolini, Pendragon, Bologna, ; V. RODA, La folgore mansuefatta. Pascoli e la rivoluzione industriale, CLUEB, Bologna ; G. CAPOVILLA, P., Laterza, Roma-Bari ; E. GIOANOLA, G.P. Sentimenti filiali di un parricida, Jaca Book, Milano ; M. PAZZAGLIA, P., Salerno, Roma ; M. SANTAGATA, Per l’opposta balza (cit. in .). Cfr. inoltre gli Atti del Convegno di San Mauro del , G.P.: poesia e poetica, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna ; e, per il Pascoli latino, A. TRAINA, Il latino del P., Le Monnier, Firenze  []; G.B. PIGHI, Scritti pascoliani, a cura di A. TRAINA, Edizioni dell’Ateneo, Roma . Fondamentali due voci storiche: E. CECCHI, Saggi romantici. Rudyard Kipling - La poesia di G.P., a cura di M. GHILARDI, Avagliano, Cava de’ Tirreni ; e P.P. PASOLINI, Antologia della lirica pascoliana, a cura di M.A. BAZZOCCHI ed E. RAIMONDI, Einaudi, Torino, . Per il Graf, cfr. l’edizione della Medusa, a cura di A. DOLFI, Mucchi, Modena ; e il saggio di G. DE LIGUORI, I baratri della ragione. A.G. e la cultura del secolo Ottocento, Lacaita, Manduria .



EPOCA



.. Per un quadro generale dell’età giolittiana, cfr. G. CAROCCI, Giolitti e l’età giolittiana, Einaudi, Torino ; G. CANDELORO, Storia dell’Italia moderna, VII. La crisi di fine secolo e l’età giolittiana (-), Feltrinelli, Milano , e l’antologia di F. DE FELICE (a cura di), L’età giolittiana, Loescher, Torino ; sull’imperialismo italiano, cfr. G. MAIONE, L’imperialismo straccione, Il Mulino, Bologna . Per le riviste fiorentine, cfr. l’antologia di D. FRIGESSI CASTELNUOVO (a cura di), La cultura italiana del ’ attraverso le riviste. «Leonardo», «Hermes», «Il Regno», Einaudi,

Torino  []. L’edizione di Tutte le opere di Papini, in dieci volumi, è apparsa presso Mondadori, Milano -; e cfr. anche Opere. Dal «Leonardo» al futurismo, a cura di L. BALDACCI, G. NICOLETTI, M, , e il profilo di M. ISNENGHI, P., La Nuova Italia, Firenze . Per le ideologie nazionaliste, cfr. F. GAETA, Nazionalismo italiano, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli . L’Opera omnia di Oriani, a cura di B. MUSSOLINI, apparve in sedici volumi tra il  e il  per i tipi di Cappelli (Bologna), ma cfr. ora l’edizione dei Racconti, a cura di E. RAGNI, Salerno, Roma ,  voll.; per la critica, E. DIRANI (a cura di), A.O. e la cultura del suo tempo, Longo, Ravenna . Sulla letteratura di inizio secolo, cfr. E. SANGUINETI, Tra liberty e crepuscolarismo, Mursia, Milano ; e l’ampio profilo di M. CARLINO, F. MUZZIOLI, La letteratura italiana del primo Novecento (-), La Nuova Italia Scientifica, Roma . Su Lucini, G. VIAZZI, Studi e documenti per il L., Napoli, Guida ; e il fascicolo de «Il Verri», -, ; sulle tendenze simboliste, cfr. S. GIOVANARDI, La presenza ignota. Indagini sulla poesia simbolista fra otto e novecento, Istituto Enciclopedia Italiana, Roma . Sui crepuscolari, M. GUGLIELMINETTI, La «scuola dell’ironia». Gozzano e i viciniori, Olschki, Firenze . L’edizione delle Poesie edite e inedite di Corazzini è stata curata da S. JACOMUZZI, Einaudi, Torino  [], del quale cfr. anche la monografia S.C., Mursia, Milano  []; si vedano anche l’edizione commentata delle Poesie, a cura di I. LANDOLFI, Rizzoli, Milano, ; e quella delle Opere, poesie e prose, a cura di A.I. VILLA, Istituti Editoriali e Poligrafici, Pisa ; cfr. inoltre gli Atti del Convegno del , F. LIVI, A. ZINGONE (a cura di), «Io non sono un poeta». S.C. (-), Bulzoni, Roma ; A.I. VILLA, Neoidealismo e rinascenza latina tra Otto e Novecento. La cerchia di Sergio Corazzini, LED, Milano . Per Gozzano, cfr. la biografia di G. DE RIENZO, G.G. Vita di un rispettabile bugiardo, Rizzoli, Milano ; l’edizione critica di Tutte le poesie è stata curata da A. ROCCA, introduzione di M. GUGLIELMINETTI, M, ; importanti le edizioni commentate di Poesie e prose, a cura di L. LENZINI, Feltrinelli, Milano , e de Le farfalle, a cura di G. PATRIZI, Empiría, Roma ; tutte le novelle sono raccolte nel volume I sandali della diva, a cura di G. NUVOLI, introduzione di M. GUGLIELMINETTI, Serra e Riva, Milano ; varie le edizioni di Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India: per esempio quella a cura di A. D’AQUINO CREAZZO, Olschki, Firenze ; per la critica, cfr. E. SANGUINETI, G.G. Indagini e letture, Einaudi, Torino ; A. STÄUBLE, Sincerità e artificio in G., Longo, Ravenna ; numerosi saggi nel volume di G. BÀRBERI SQUAROTTI, Poesia e ideologia borghese (già citato per .); F. CONTORBIA, Il sofista subalpino. Tra le carte di G., L’Arciere, Cuneo ; F. ANTONICELLI, Capitoli gozzaniani. Scritti editi e inediti, a cura di M. MARI, Olschki, Firenze ; gli Atti del Convegno di Torino del , G.G. I giorni, le opere, Olschki, Firenze ; M. GUGLIELMINETTI, Introduzione a G., Laterza Roma-Bari, ; N. TEDESCO, La coscienza letteraria del Novecento. G., Svevo e altri esemplari, Flaccovio, Palermo . Una serie di volumi che raccolgono Tutte le opere di Moretti è apparsa presso Mondadori tra il  e il ; e cfr. l’ampia scelta In verso e in prosa, a cura di C. TOSCANI, prefazione di G. PAMPALONI, M, ; importante il Carteggio con Aldo Palazzeschi, pubblicato in quattro volumi, tra il  e il , dalle Edizioni di Storia e Letteratura di Roma; si vedano pure quello con Antonio Baldini, ivi , e quelli con Neera (Il sogno borghese, Guerini e Associati, Milano ) e Manara Valgimigli (Cartolinette oneste e modeste, Patron, Bologna ); per la critica, cfr. C. TOSCANI, M., La Nuova Italia, Firenze ; G. ZACCARIA, Invito alla lettura di M.M., Mursia, Milano ; e G. CALISESI (a cura di), Atti del convegno su M.M., Il Saggiatore, Milano ; molto interessante Non c’è luogo, per me, che sia lontano. Itinerari europei di M.M., Catalogo della mostra di Cesena del  a cura di M. RICCI, Clueb, Bologna 1999. Lo studio del Novecento italiano richiederebbe una serie vastissima di riferimenti bibliografici, che dovrebbe chiamare in causa, in un’ottica internazionale, quasi tutte le discipline storico-sociali e le scienze umane, quasi tutta la produzione saggistica che mira a definire i caratteri del mondo contemporaneo, i comportamenti e i rapporti sociali, i mezzi di comunicazione, le forme della cultura attuale. Ma qualunque rapido panorama in questa prospettiva risulterebbe troppo parziale e scarsamente utilizzabile: questa bibliografia si limita perciò a fornire informazioni solo per ciò che riguarda direttamente la letteratura italiana, le tendenze e gli autori che sono espressamente oggetto di trattazione nel volume. Qui ricordiamo solo che per un orientamento di base relativo alle vicende storiche, politiche e sociali possono essere utilizzati gli undici volumi della raccolta curata da N. TRANFAGLIA, Il mondo contemporaneo, La Nuova Italia, Firenze -; i saggi del vol. IV della SIE, citati in .; l’ampia Enciclopedia del Novecento, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma -; per un quadro dettagliato delle vicende storiche italiane dal  al , si può rinviare ai volumi VII-XI della Storia dell’Italia moderna, di G. CANDELORO, Feltrinelli, Milano -; per una vivace sintesi delle vicende del dopoguerra, si può vedere P. GINSBORG, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi,  voll., Einaudi, Torino . Molti sono gli strumenti di lavoro e le sintesi dedicate espressamente alla letteratura del Novecento: molto ampi e ricchi di saggi spesso rilevanti i volumi della LIST, IX, in due tomi (Il Novecento: Dal decadentismo alla crisi dei mo-

BIBLIOGRAFIA

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delli, ) e X, in due tomi (L’età presente. Dal fascismo agli anni Settanta, ), e la nuova edizione in due tomi de Il Novecento, della LIG (di particolare rilievo, per un ampio quadro storico, i saggi di N. BOBBIO, Profilo ideologico del Novecento, di E. RAIMONDI, Le poetiche della modernità e la vita letteraria, di G. PAMPALONI, Modelli ed esperienze della prosa contemporanea). Tra i manuali di ampio respiro, si impongono R. LUPERINI, Il Novecento: apparati ideologici, ceto intellettuale, sistemi formali nella letteratura italiana contemporanea,  tomi, Loescher, Torino , e G. SPAGNOLETTI, La letteratura italiana del nostro secolo,  voll., Mondadori, Milano . Ma cfr. anche l’incompiuto R. JACOBBI, L’avventura del Novecento, a cura di A. DOLFI, Garzanti, Milano , e i volumi di G. MANACORDA citati volta per volta per ., ., .. Saggi di vario tipo sono raccolti in modo sistematico in G. GRANA (a cura di), Novecento,  voll., Marzorati, Milano , e nella Letteratura italiana contemporanea, diretta da G. MARIANI, M. PETRUCCIANI,  voll., Lucarini, Roma -. Cfr. anche la sintesi di G. LUTI, Introduzione alla letteratura italiana del Novecento. La poesia, la narrativa, la critica, le riviste e i movimenti letterari, La Nuova Italia Scientifica, Roma ; G. LUTI ha curato anche Il Novecento, nella nuova edizione della Storia letteraria d’Italia dell’editore Vallardi, di cui è uscito il primo tomo, Piccin Nuova Libraria, Padova , e cfr. anche il volume terzo, L’età contemporanea, della Storia e geografia della LIE, , e P. ORVIETO (a cura di), Un’idea del ’. Dieci poeti e dieci narratori italiani del Novecento, Salerno, Roma . Per i critici, G. GRANA (a cura di), Letteratura italiana. I critici,  voll., Marzorati, Milano . Per i periodici, cfr. R. BERTACCHINI, Le riviste letterarie del ’, Le Monnier, Firenze . Numerosissime sono le antologie generali: ricordiamo, oltre quella «classica» di G. CONTINI, già citata per ., V. BOARINI, P. BONFIGLIOLI, Avanguardia e restaurazione, Zanichelli, Bologna ; L. CARETTI, G. TELLINI, Testi del Novecento letterario italiano, Mursia, Milano . Per le antologie della poesia, rinviamo a quelle citate in DATI, tav. ; per la prosa, ricordiamo M. PETRUCCIANI (a cura di), Racconti italiani del Novecento, Lucarini, Roma , ed. E. SICILIANO (a cura di), Racconti italiani del Novecento, 3 voll., M, . Si hanno anche alcune riviste dedicate espressamente alla letteratura del Novecento: «Studi novecenteschi», iniziata nel  (che a partire dal  presenta anche un’ampia rassegna bibliografica sugli studi recenti e dal  viene affiancata dall’annuale «Studi duemilleschi»), «Otto-Novecento», iniziata nel , «Autografo», iniziata nel ; «Avanguardia», nel ; «Archivi del nuovo. Notizie di casa Moretti», nel ; «Moderna» nel ; «Quaderni del ’» nel ; «Contemporanea» nel . Alcune collane editoriali sono dedicate espressamente allo studio della letteratura contemporanea: tra esse ricordiamo la «Civiltà letteraria del Novecento» dell’editore Mursia (CL), inaugurata nel , e «Il Castoro» della Nuova Italia (CS), serie di monografie su scrittori italiani e stranieri, inaugurata nel . Molte sono le raccolte di saggi critici dedicati ad autori, fasi e generi diversi della letteratura di questo secolo, a tradizioni e a problemi che vanno al di là dei limiti tra le epoche che abbiamo fissato per la nostra trattazione. Mentre dei lavori dedicati ad autori, gruppi e fasi specifiche daremo indicazione volta per volta, qui forniamo un rapido elenco di raccolte o studi che riguardano diversi momenti della letteratura di questo secolo: si tenga presente che, ancor piú che per il passato, per il Novecento gli interventi critici determinanti su singoli autori e opere vanno spesso cercati in volumi di carattere generale e in raccolte di saggi, o in altri di argomento relativamente piú circoscritto di cui daremo notizia piú avanti (e naturalmente nella bibliografia sui singoli autori non è possibile rinviare ogni volta a questi saggi). In primo luogo vanno ricordati gli studi di G. CONTINI, Varianti e altra linguistica, citato in .; ID., Altri esercizî (-), Einaudi, Torino  []; ID., Ultimi esercizî ed elzeviri (-), Einaudi, Torino ; Postremi esercizî ed elzeviri, a cura di G. BRESCHI, Einaudi, Torino ; quelli di G. DEBENEDETTI, dalle diverse serie dei Saggi critici (cfr. .. e sgg.) confluite nella recente edizione di Saggi, a cura di A. BERARDINELLI, M, , a Il romanzo del Novecento. Quaderni inediti, Garzanti, Milano  []; cfr. poi G. GETTO, Poeti, critici e cose varie del Novecento, Sansoni, Firenze ; R. BARILLI, La barriera del naturalismo, CL, ; M. GUGLIELMINETTI, Il romanzo del Novecento: struttura e sintassi, Editori Riuniti, Roma  []; I. BALDELLI, Varianti di prosatori contemporanei, Le Monnier, Firenze ; E. CECCHI, Letteratura italiana del Novecento, a cura di P. CITATI, Mondadori, Milano ; F. CURI, Perdita d’aureola, Einaudi, Torino ; ID. Struttura del risveglio, Il Mulino, Bologna ; ID., Epifanie della modernità, CLUEB, Bologna ; C. CASES, Patrie lettere, Einaudi, Torino  []; G. GUGLIELMI, Ironia e negazione (citato per .); ID., La prosa italiana del Novecento, Einaudi, Torino , e il vol. II, ivi ; ID., La parola del testo. Letteratura come storia, Il Mulino, Bologna ; ID., L’invenzione della letteratura, Liguori, Napoli ; N. GALLO, Scritti letterari, Il Polifilo, Milano ; L. CARETTI, Sul Novecento, Nistri-Lischi, Pisa ; G. BÀRBERI SQUAROTTI, Le sorti del «tragico». Il Novecento italiano: romanzo e teatro, Longo, Ravenna ; ID., La forma e la vita: il romanzo del novecento, CL, ; G. MARIANI, La vita sospesa, Liguori, Napoli ; W. PEDULLÀ, Miti, finzioni e maniere di fine millennio, Rusconi, Milano ; ID., Lo schiaffo di Svevo, giochi, fantasie, figure del Novecento italiano, Camunia, Milano ; ID. Le armi del comico, Mondadori, Milano . P.V. MENGALDO, La tradizione del Novecento, vol. I, Bollati Boringhieri, Torino  []; ID., La tradizione del Novecento. Seconda serie, Einaudi, Torino  []; ID. La tradizione del Novecento, Terza serie, Einaudi, Torino ; ID. La tradizione del Novecento, vol. IV, Bollati Boringhieri, Torino ; G. MACCHIA, Saggi italiani, Mondadori, Milano ; G. SPAGNOLETTI, Saggi e ritratti, Spirali, Milano ; N. MEROLA, Letteratura ultima scorsa, Pironti, Napoli ; ID., Studi di elzeviro. Letteratura e critica militante, Edizioni Periferia, Cosenza ; ID., Un Novecento in piccolo. Saggi di letteratura contemporanea, Rubbettino, Soveria Mannelli ; M. BEVILACQUA, Passaggi novecenteschi. Da Marinetti e Benjamin, Sansoni, Firenze ; C. OSSO-

EPOCA





LA,

Figurato e rimosso. Icone e interni del testo, Il Mulino, Bologna ; G. SAVARESE, «I colori di Carmen». Saba, Svevo e altri contemporanei, Bulzoni, Roma ; F. PAPPALARDO (a cura di), La torre abolita. Saggi sul romanzo italiano del Novecento, Dedalo, Bari ; G.L. BECCARIA, Le forme della lontananza, Garzanti, Milano  []; G. MANACORDA, Letteratura nella storia. Saggi critici dall’Ottocento ai contemporanei, Sciascia, Caltanissetta ; R. LUPERINI, L’allegoria del moderno, Editori Riuniti, Roma ; ID., Il dialogo e il conflitto, Laterza, Roma-Bari ; ID., Controtempo. Critica e letteratura fra moderno e postmoderno, Liguori, Napoli ; A. DOLFI, In libertà di lettura. Note e riflessioni novecentesche, Bulzoni, Roma ; EAD. Del romanzesco e del romanzo. Modelli di narrativa italiana tra Otto e Novecento, Bulzoni, Roma, ; EAD. Le parole dell’assenza. Diacronie sul Novecento, ivi ; C. GÀRBOLI, Falbalas, Garzanti, Milano ; ID. Pianura proibita, Adelphi, Milano ; A. BERARDINELLI, Tra il libro e la vita, Bollati Boringhieri, Torino ; ID. La poesia verso la prosa. Controversie sulla lirica moderna, ivi, ; S. CALABRESE, Intrecci italiani. Una teoria e una storia del romanzo (-), Il Mulino, Bologna ; R. BIGAZZI, Le risorse del romanzo. Componenti di genere nella narrativa moderna, Nistri-Lischi, Pisa ; G. TELLINI, Il romanzo italiano dell’Ottocento e Novecento, Bruno Mondadori, Milano ; G. DI GIACOMO, Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Noveento, Laterza, Roma-Bari ; M. GANERI, Il romanzo storico in Italia. Il dibattito critico dalle origini al postmoderno, Piero Manni, Lecce ; G. FERRONI, Passioni del Novecento, Donzelli, Roma ; N. LORENZINI, La poesia italiana del Novecento, Il Mulino, Bologna ; A. CASADEI, Romanzi di Finisterre. Narrazione della guerra e problemi del realismo, Carocci, Roma ; R. MANICA, La prosa nascosta, Avagliano, Cava de’ Tirreni . Non vanno infine trascurate le raccolte di saggi critici di scrittori, a cui si accenna peraltro negli appositi paragrafi (in primo piano le raccolte di Pasolini, Fortini, Calvino, Sanguineti, Giuliani): su questo repertorio si soffermano in particolare P.V. MENGALDO, Profili di critici del Novecento, Bollati Boringhieri, Torino , e A. BERARDINELLI, La forma del saggio. Definizione e attualità di un genere letterario, Marsilio, Venezia . Nella bibliografia che segue, non si danno indicazioni sulle varie edizioni delle opere degli scrittori contemporanei (le date delle prime edizioni sono d’altra parte sempre indicate nel testo), salvo il caso di raccolte complete, di edizioni critiche o di commenti particolarmente significativi.

Epoca  Guerre e fascismo (-) .. Impossibile naturalmente qualsiasi richiamo alla vastissima bibliografia sui problemi di storia sociale e culturale a cui si accenna in questo capitolo. Indichiamo soltanto alcune opere che riguardano le istituzioni culturali italiane. Per la stampa, cfr. O. DEL BUONO (a cura di), Eia, eia, alalà! La stampa italiana sotto il fascismo. -, Feltrinelli, Milano ; V. CASTRONOVO, N. TRANFAGLIA (a cura di), Storia della stampa italiana, IV. La stampa italiana nell’età fascista, Laterza, Bari . Per l’uso dei mass media, P.V. CANNISTRARO, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, De Donato, Bari . Per alcune istituzioni; M. FERRAROTTO, L’Accademia d’Italia: intellettuali e potere durante il fascismo, Guida, Napoli ; G. TURI, Il mecenate, il filosofo e il gesuita, L’«Encicloperia italiana», specchio della nazione, Il Mulino, Bologna . Per alcuni rapporti tra letteratura e potere, R. ZANGRANDI, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Mursia, Milano  []; R.S. DOMBROSKI, L’esistenza ubbidiente. Letterati italiani sotto il fascismo, Guida, Napoli ; F. PETROCCHI, Scrittori italiani e fascismo. Tra sindacalismo e letteratura, Archivio Izzi, Roma , G. FABRE, L’elenco. Censura fascista, editoria e autori ebrei, Zamorani, Torino ; R. BEN-GHIAT, La cultura fascista, Il Mulino, Bologna ; H. GOETZ, Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime fascista, La Nuova Italia, Scandicci (FI) ; G. BOATTI, Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini, Einaudi, Torino ; V. FERME, Tradurre è tradire. La traduzione come sovversione culturale sotto il fascismo, Longo, Ravenna . Per problemi essenziali, cfr. R. POGGIOLI, Teoria dell’arte d’avanguardia, Il Mulino, Bologna ; R. TESSARI, Il mito della macchina. Letteratura e industria nel primo Novecento italiano, CL, ; P. BÜRGER teoria dell’avanguardia [], Bollati Boringhieri, Torino ; J.T. SCHNAPP, 18 BL. Mussolini e l’opera d’arte di massa, Garzanti, Milano ; ID., Anno X. La mostra della rivoluzione fascista del , Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali Roma-Pisa ; A. CORTELLESSA (a cura di), Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia di poeti italiani nella Prima Guerra Mondiale, Bruno Mondadori, Milano . Espressamente dedicato alla letteratura che abbiamo compreso entro l’Epoca  il profilo di G. MANACORDA, Storia della letteratura italiana tra le due guerre (-), Editori Riuniti, Roma ; su alcuni momenti di rilievo: G. LUTI, Cronache letterarie tra le due guerre, -, La Nuova Italia, Firenze  []. Tra le raccolte di saggi dedicati soprattutto a questa epoca, cfr. i Saggi di DEBENEDETTI, a cura di A. BERARDINELLI, M, ; G. CONTINI, Esercizî di lettura, Einaudi, Torino  []; A. GARGIULO, Letteratura italiana del Novecento, Le Monnier, Firenze ; G. DE ROBERTIS, Scrittori del Novecento, Le Monnier, Firenze ; P. PANCRAZI, Ragguagli di Parnaso. Dal Carducci agli scrittori d’oggi, a cura di C. GALIMBERTI, Ricciardi, Milano-Napoli  []; W. BINNI, Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, La Nuova Italia, Firenze  [].

BIBLIOGRAFIA



.. Per il dibattito culturale qui analizzato, cfr. E. GARIN, Cronache di filosofia italiana. /. Quindici anni dopo: /, Laterza, Bari ,  voll.; ID., La cultura italiana tra Otto e Novecento, Laterza, Bari ; ID., Intellettuali italiani del XX secolo, Editori Riuniti, Roma ; R. LUPERINI, Letteratura e ideologia del primo Novecento italiano, Pacini, Pisa ; ID., La crisi degli intellettuali nell’età giolittiana, D’Anna, Messina-Firenze ; A. ASOR ROSA, La cultura, citato per ., e, soprattutto, il già citato Profilo ideologico del Novecento di N. BOBBIO, in LIG. Ma si vedano ora i volumi recenti di A. D’ORSI, La cultura a Torino tra le due guerre, Einaudi, Torino ; ID. Intellettuali nel Novecento italiano, ivi . L’edizione completa delle Opere di Croce è apparsa presso l’editore Laterza in settantacinque volumi: recentemente è stata intrapresa una nuova edizione presso Adelphi, mentre è in atto anche un progetto di edizione nazionale, promosso nel . Cfr. comunque la bibliografia di S. BORSARI, L’opera di B.C., Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli  (per la critica, cfr. C. OCONE, Bibliografia ragionata degli scritti su Benedetto Croce, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli ). Per i Taccuini inediti, cfr. lo studio di G. SASSO, «Per invigilare me stesso», Il Mulino, Bologna ; numerosissime sono state le edizioni dedicate a settori diversi dell’ampio epistolario crociano. Oltre a vari repertori e strumenti di lavoro, si pubblica una «Rivista di studi crociani», iniziata nel . Per la biografia, F. NICOLINI, C., Utet, Torino  []. Tra le interpretazioni generali, G. SASSO, B.C. la ricerca della dialettica, Morano, Napoli ; N. BADALONI, C. MUSCETTA, Labriola, C., Gentile, in LIST, vol. I, tomo citato; P. BONETTI, Introduzione a C., Laterza, Bari  []; G. GALASSO, C. e lo spirito del suo tempo, Mondadori, Milano . G. SASSO, Filosofi e idealismo vol. I: B.C., Bibliopolis, Napoli . Il nesso tra estetica e critica letteraria, quale si evidenzia nell’attività di Croce, è stato al centro della riflessione di molti autori: ricordiamo soltanto un saggio di G. CONTINI, in Altri esercizî, citato (e, piú in generale, ID., La parte di B.C. nella cultura italiana, Einaudi, Torino ); M. PUPPO, Il metodo e la critica di B.C., CL, ; il fascicolo dedicato a Croce dalla «Rassegna della letteratura italiana», LXXI, ; R. WELLEK, La teoria letteraria e la critica di B.C., in LIE, vol. IV. L’interpretazione, ; E. GIAMMATTEI, Retorica e idealismo. C. nel primo Novecento, Il Mulino, Bologna ; EAD, La biblioteca e il dragone. C., Gentile e la letteratura, Editoriale Scientifica, Napoli ; A. LEONE DE CASTRIS, Estetica e politica. C. e Gramsci, Franco Angeli, Milano ; D. COLI, Il filosofo, i libri, gli editori. C., Laterza e la cultura europea, ivi . Per Gentile, del quale è in corso la pubblicazione delle Opere complete presso Le Lettere di Firenze, cfr. la scelta delle Opere filosofiche, a cura di E. GARIN, Garzanti, Milano ; nella vastissima bibliografia, ricordiamo S. NATOLI, G.G. filosofo europeo, Bollati Boringhieri, Torino ; A. DEL NOCE, G.G. per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, Il Mulino, Bologna ; A. NEGRI, L’inquietudine del divenire. G.G., Le Lettere, Firenze ; G. TURI, G.G. Una biografia, Giunti, Firenze ; G. SASSO, Filosofia e idealismo vol. II: G.G., Bibliopolis, Napoli ; ID., Le due Italie di G.G., Il Mulino, Bologna ; E. GIAMMATTEI, La biblioteca e il dragone, cit. Sulla cultura della guerra e del fascismo, cfr. M. ISNENGHI, Il mito della grande guerra, Il Mulino, Bologna,  []; ID., Intellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista, Einaudi, Torino ; ID., L’Italia del fascio, Giunti, Firenze ; L. MANGONI, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Aragno, Torino  []; G.B. GUERRI, Bottai, un fascista critico, Feltrinelli, Milano  (piú affidabile della corriva riedizione dal titolo Giuseppe Bottai, fascista, Mondadori, Milano ). Si consultino poi le molte voci sugli intellettuali e l’organizzazione della cultura nel Dizionario del fascismo a cura di V. DE GRAZIA e S. LUZZATTO,  voll., Einaudi, Torino -. È stata allestita da Einaudi un’edizione delle Opere complete di Gobetti, in tre volumi: I. Scritti politici, a cura di P. SPRIANO,  []; II. Scritti storici, letterari e filosofici, a cura di P. SPRIANO; III. Scritti di critica teatrale, a cura di G. GUAZZOTTI, C. GOBETTI, ; importante altresí il Carteggio, nell’edizione a cura di E. ALESSANDRONE PERONA (da Einaudi nel  è uscito un primo volume che comprende le lettere tra il  e il ); cfr. inoltre Scritti sull’arte, a cura di M. DE BENEDICTIS, Aragno, Torino ; cfr. inoltre L. ANDERLINI, L. BASSO (a cura di), Le riviste di P.G., Feltrinelli, Milano  (ma si veda la ristampa completa de La Rivoluzione liberale, Einaudi, Torino ), il profilo di P. SPRIANO, Gramsci e G. Introduzione alla vita e alle opere, Einaudi, Torino ; M. GERVASONI, L’intellettuale come eroe. P.G. e le culture del Novecento, La Nuova Italia, Scandicci (FI) . Le opere di Gramsci sono state pubblicate nelle edizioni Einaudi; oltre all’edizione critica in quattro volumi dei Quaderni del carcere, a cura di V. GERRATANA,  [] (ma cfr. anche l’antologia Pensare la democrazia, a cura di M. MONTANARI, Einaudi, Torino ; della prima edizione si parla in ..), gli scritti politici e giornalistici sono raccolti in una nuova edizione, in corso di completamento, nella «Nuova Universale Einaudi»: sono usciti i seguenti volumi: Cronache torinesi (-), a cura di S. CAPRIOGLIO, ; La città futura (-), a cura di S. CAPRIOGLIO, ; L’Ordine nuovo (-), a cura di V. GERRATANA, A.A. SANTUCCI, ; un’essenziale antologia da Le opere è uscita, a cura di A.A. SANTUCCI, da Editori Riuniti nel ; fondamentali altresí le lettere: quelle precedenti alla detenzione (Lettere -, a cura di A.A. SANTUCCI, Einaudi, Torino ) e quelle dal carcere (disponibili in due diverse edizioni: limitata al carteggio con la cognata, Tatiana Schucht, quella delle Lettere -, Einaudi, Torino ; piú completa ma senza le lettere dei corrispondenti quelle a cura di A.A. SANTUCCI, Sellerio, Palermo , delle Lettere dal carcere (-); antologia essenziale che si legge come il miglior ritratto di G. è quella di Vita attraverso le lettere -, a cura di G. FIORI, Einaudi, Torino ). Per la vastissima bibliografia critica, cfr. i testi raccolti da E. FUBINI (a cura di), G. e la cultura contemporanea, Editori Riuniti, Roma ; i saggi di N. BADALONI, Il marxismo di G. Dal mito alla ricomposizione politica, Einaudi, Torino , e N. BOBBIO, Saggi su G., Feltrinelli, Milano ; E.J. HOBSBAWM, G. in Europa e in America, Laterza, Roma-Bari ; D.



EPOCA



LOSURDO, A.G., dal liberalismo al «comunismo critico», Gamberetti, Roma ; A. LEPRE, Il prigioniero. Vita di A.G., Laterza Roma-Bari ; A. BURGIO, G. storico. Una lettura dei «Quaderni dal carcere», ivi . Dal punto di vista letterario, G. GUGLIELMI, Da D.S. a Gramsci (citato per .), il volume di A. LEONE DE CASTRIS citato prima per Croce; l’antologia degli scritti di Critica letteraria e linguistica, a cura di R. PATERNOSTRO, Lithos, Roma ; per interventi sul teatro, G. DAVICO BONINO, G. e il teatro, Einaudi, Torino , e l’antologia di scritti dal titolo Pirandello, Ibsen e il teatro, Editori Riuniti, Roma . Per la cultura dell’antifascismo, cfr. L. VALIANI, Dall’antifascismo alla Resistenza, Feltrinelli, Milano ; A. GAROSCI, Gli intellettuali e la guerra di Spagna, Einaudi, Torino ; S.G. PUGLIESE, Carlo Rosselli. Socialista eretico ed esule antifascista -, Bollati Boringhieri, Torino . Di Giame Pintor, oltre alla raccolta Il sangue d’Europa. Scritti politici e letterari (-), a cura di V. GERRATANA, Einaudi, Torino  [], è stato pubblicato Doppio diario. -, a cura di M. SERRI, Einaudi, Torino , e C’era la guerra. Epistolario -, carteggio con Filomena D’Amico, Einaudi, Torino .

.. Per «La Voce», cfr. le antologie pubblicate da Einaudi, nella serie La cultura italiana attraverso le riviste: III. «La Voce» (-), a cura di A. ROMANÒ, , IV. «Lacerba». «La Voce» (-), a cura di G. SCALIA, ; e l’Indice della «Voce» e di «Lacerba», curato da E. FALQUI, Vallecchi, Firenze . Moltissime le rievocazioni delle vicende della «Voce» a cura di Prezzolini, tra cui Il tempo della «Voce», Longanesi, Milano , e «La Voce» (-), Rusconi, Milano ; innovativo, in prospettiva europea, I percorsi della «Voce», a cura di A. MAZZARELLA, Liguori, Napoli ; cfr. inoltre i saggi di U. CARPI, La «Voce». Letteratura e primato degli intellettuali, Pensa Multimedia, Lecce  [], e Giornali vociani, Bonacci, Roma . Per la discussione critica negli anni intorno alla «Voce», cfr. P. ORVIETO, D’Annunzio o Croce. La critica italiana dal  al , Salerno, Roma ; R. LUPERINI, Gli esordi del Novecento e l’esperienza della «Voce», Laterza, Roma-Bari ; F. FINOTTI Una ferita non chiusa. Misticismo, filosofia, letteratura in Prezzolini e nel primo Novecento, Olschki, Firenze ; M. BIONDI, Giuseppe Prezzolini: diario di un secolo, Centro di cultura dell’Alto Adige, Bolzano  (discutibile la decisa attualizzazione di B. BENVENUTO, Giuseppe Prezzolini, Sellerio, Palermo ). Le opere di Slataper sono state raccolte in sei volumi a cura di G. STUPARICH, Mondadori, Milano -; per la critica, cfr. A.M. MUTTERLE, S.S., CL,  []; R. LUPERINI, S.S., CS, ; F. PETRONI, Le parole di traverso. Ideologia e linguaggio nella narrativa d’avanguardia del primo Novecento, Jaka Book, Milano . Per Boine, cfr. la raccolta a cura di D. PUCCINI, Il peccato. Plausi e botte. Frantumi. Altri scritti, Garzanti, Milano , l’edizione del Carteggio, a cura di M. MARCHIONE, E.S. SCALIA,  voll., Edizioni di Storia e Letteratura, Roma -, quella degli Scritti inediti, a cura di G. BERTONE, Il Melangolo, Genova, ; L’esperienza religiosa e altri scritti di filosofia e di letteratura, a cura di G. BENVENUTI e F. CURI, Pendragon, Bologna ; Frantumi. I materiali preparatori, a cura di L. GATTI, Edizioni dell’Orso, Alessandria ; Il Peccato, a cura di U. PEROLINO, Millennium, Bologna ; per la critica, G. CONTORBIA (a cura di), Atti del Convegno Nazionale di Studi su G.B. (Imperia, novembre ), Il Melangolo, Genova ; G. BERTONE, Il lavoro e la scrittura. Saggio in due tempi su G.B., Il Melangolo, Genova . Per Jahier, cfr. l’edizione delle Opere in tre volumi, Vallecchi, Firenze -, quella delle Poesie in verso e in prosa, a cura di P. BRIGANTI, Einaudi, Torino  e quella di Ragazzo; il paese morale, a cura di A. DI GRADO, Claudiana, Torino ; e cfr. le monografie di P. BRIGANTI, J., CS, ; M. DEL SERRA, L’uomo comune. Claudelismo e passione ascetica in J., Patron, Bologna  e F. PETROCCHI, Conversione al mondo. Studi su P. J., Edizioni Scientifiche italiane . L’edizione delle opere di Michelstaedter è stata proposta da Adelphi, a cura di S. CAMPAILLA: sono apparsi La persuasione e la rettorica,  (ma si veda l’edizione arricchita delle Appendici critiche, ivi ), l’Epistolario, , le Poesie, , Il dialogo della salute e altri dialoghi, ; per la critica, cfr. M. CERRUTI, C.M., CL,  []; S. CAMPAILLA, Pensiero e poesia di M., Patron, Bologna ; ID., Quaderno bibliografico su M., Tilgher, Genova ; P. PIERI, La scienza del tragico. Saggio su C.M., Cappelli, Bologna ; D. BINI, C.M. and the Failure of Language, University Press of Florida, Gainesville ; G. TAVIANI, M., Palumbo, Palermo . Su Serra, cfr. l’ampia scelta degli Scritti, Einaudi, Torino , a cura di M. ISNENGHI; diverse le edizioni interessanti dell’Esame di coscienza di un letterato (quella commentata a cura di A. FRANCHINI, Letteratura in conflitto, Gallone, Milano ; quella condotta sull’autografo a cura di M. BIONDI e R. GREGGI, con un saggio di E. RAIMONDI, il Ponte Vecchio, Cesena ): e si veda anche l’edizione delle Lettere in pace e in guerra, a cura di M. CAPPELLINI, Aragno, Torino ; per la critica cfr. il profilo di G. PACCHIANO, S., CS, ; E. RAIMONDI, Un europeo di provincia: Renato Serra, Il Mulino, Bologna  []; A. ACCIANI, R.S. Contributo alla storia dell’intellettuale senza qualità, De Donato, Bari ; F. CURI (a cura di), Tra provincia e Europa. R.S. e il problema dell’intellettuale moderno, Il Mulino, Bologna ; C. Bo, Intorno a S., a cura di V. GUEGLIO, Greco e Greco, Milano . Per una bibliografia su Futurismo, cfr. C. SALARIS, Bibliografia del Futurismo -, Edizioni del Vascello, Roma ; imponente la documentazione offerta dal recente Dizionario del Futurismo, a cura di E. GODOLI, Vallecchi, Firenze ; per la storia cfr. C. SALARIS, Storia del Futurismo: libri, giornali, manifesti, Editori Riuniti, Roma  []. Per un’introduzione essenziale, A. SACCONE, Futurismo, Marzorati-Editalia, Roma . Per le opere di Marinetti, cfr. Teoria e invenzione futurista, a cura di L. DE MARIA; in M,  []; degli importanti Scritti francesi, a cura di P.A. JANNINI, l’edizione si è fermata al primo volume (Mondadori, Milano ), ma cfr. le tarde Poesie a Beny,

BIBLIOGRAFIA



Einaudi, Torino , e la recente edizione di Mafarka il futurista a cura di L. BALLERINI, Mondadori ; mentre del Teatro è prevista per il  un’edizione a cura di J.T. SCHNAPP. Dei manifesti futuristi esistono diverse edizioni recenti: cfr. le due antologie a cura di L. DE MARIA: Filippo Tommaso Marinetti, Mondadori, Milano  [] e Marinetti e i Futuristi, Garzanti, Milano  (ma anche l’appendice all’edizione di Marinetti, Gli indomabili, a cura di L. BALLERINI, Mondadori ). Per il teatro cfr. Teatro italiano d’avanguardia. Drammi e sintesi futuriste, a cura di M. VERDONE, Officina, Roma  (e cfr. Avanguardie teatrali: da Marinetti a Joppolo, a cura dello stesso, Bulzoni, Roma ); G. LISTA, Cinema e fotografia futurista, Skira, Milano . Per i rapporti con le altre avanguardie, M. CALVESI, Le due avanguardie: dal futurismo alla pop-art, Laterza Roma-Bari  []; C. SALARIS, La Roma delle avanguardie. Dal Futurismo all’underground, Editori Riuniti, Roma ; F. CURI, La poesia italiana d’avanguardia. Modi e tecniche, Liguori, Napoli . Su singoli aspetti e questioni cfr. almeno A. SACCONE, La trincea avanzata e «La città dei conquistatori». Futurismo e modernità, Liguori, Napoli , e S. CIGLIANA, Futurismo esoterico. Contributi per una storia dell’irrazionalismo italiano tra Otto e Novecento, ivi  []. Delle Opere di Ardengo Soffici è apparsa un’edizione in sette volumi presso Vallecchi, Firenze -; cfr. M. RICHTER, La formazione francese di A.S., -, Pentalinea, Prato  []; A. MARTINI, Storia di un libro. Scoperte e massacri di A.S., Le Lettere, Firenze ; V. TRIONE, Dentro le cose. A.S. critico d’arte, Bollati Boringhieri, Torino . Su Govoni, cfr. l’antologia a cura di G.TELLINI, Poesie (-), Mondadori, Milano ; per la critica, F. CURI, C.G., CL, , e gli Atti del Convegno di Ferrara del maggio , a cura di A. FOLLI, C.G., Patron, Bologna . Per Palazzeschi, cfr. S. GIOVANARDI, La critica e P., Cappelli, Bologna . È in corso una nuova edizione di Tutte le opere, presso i Meridiani Mondadori; per Tutte le novelle si ha l’edizione a cura di L. DE MARIA, ; e di Tutte le poesie, quella a cura di A. DEI, ; di Tutti i romanzi, a cura di G.TELLINI con introduzione di L. BALDACCI, è appena uscito () il primo volume (un secondo uscirà all’inizio del ). Molte opere singole sono state pubblicate negli Oscar Mondadori: cfr. L’incendiario, a cura di G. NICOLETTI, , Due imperi… mancati, a cura di M. BIONDI, ; Le sorelle Materassi, a cura di F. SERRA, , Il codice di Perelà, a cura di M. MARCHI, ; Il palio dei buffi, a cura di R. GUERRICCHIO, ; Stampe dell’, a cura di E. GHIDETTI, ; Il doge-Stefanino. Storia di un’amicizia a cura di A. NOZZOLI, ; per la critica, cfr. L. DE MARIA, La nascita dell’avanguardia. Saggi sul futurismo italiano, Marsilio, Venezia ; gli Atti dei Convegni di studi P. oggi (Firenze ), a cura di L. CARETTI, Il Saggiatore, Milano ; P. et les avant-gardes (Parigi ), a cura di G.TELLINI, Società Editrice Fiorentina, Firenze ; L’opera di A.P. (Firenze ), a cura dello stesso, Olschki, Firenze ; le monografie di P. PIERI, Ritratto del saltimbanco da giovane. P. -, Patron, Bologna , e A. SACCONE, L’occhio narrante. Tre studi sul primo P., Liguori, Napoli , ma anche il “romanzo” critico di W. PEDULLÀ, Il ritorno dell’uomo di fumo. Viaggio paradossale con P. in un paese allegro e innocente, Marsilio, Venezia . Importanti il catalogo della mostra Scherzi di gioventú e d’altre età. Album P. (-), a cura di S. MAGHERINI e G. MANGHETTI, Polistampa, Firenze  e La biblioteca di A.P. Catalogo, a cura di S. MAGHERINI, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma . Su Borgese, cfr. F. MEZZETTI, B. e il fascismo, Sellerio, Palermo ; gli Atti del Convegno di Palermo-Polizzi Generosa dell’aprile , a cura di G. SANTANGELO, G.A.B.: la figura e l’opera, Facoltà di lettere e filosofia, Università degli studi di Palermo, Palermo ; A. CAVALLI PASINI, L’unità della letteratura. B. critico e scrittore, Patron, Bologna ; cfr. l’edizione di Rubè a cura di L. DE MARIA, Mondadori, Milano  [] Su Tozzi, un orientamento critico, bibliografico e informativo di base è fornito dall’edizione delle Opere. Romanzi. Prose. Novelle. Saggi, a cura di M. MARCHI, introduzione di G. LUTI, M, : ma l’edizione completa delle opere, non completata, è quella curata dal figlio dell’autore, G. TOZZI, per Vallecchi di Firenze: I. I romanzi, ; II. Novelle,  [] (ora ripresa nella BUR ); III Il teatro, ; IV. Cose e persone. Inediti e altre prose, ; V. Le poesie, ; VI. Novale, ; VII. Carteggio con Giuliotti, . Molte le edizioni economiche, anche eccellentemente curate, come quella de Il podere, a cura di L. BALDACCI, Garzanti, Milano , e quella di Tre croci, a cura di G. NICOLETTI, Garzanti, Milano . La critica su Tozzi è inaugurata da vari saggi di BORGESE, raccolti in Tempo di edificare, Treves, Milano , e trova un momento di particolare rilievo nelle pagine de Il romanzo italiano del Novecento di DEBENEDETTI (cfr. ..); tra i libri a lui dedicati, ricordiamo E. DE MICHELIS, Saggio su T. Dal frammento al romanzo, La Nuova Italia, Firenze ; G. TELLINI, La tela di fumo. Saggio su T. novelliere, Nistri-Lischi, Pisa ; A.M. CAVALLI PASINI, Il “mistero” retorico della scrittura. Saggi su T. narratore, Patron, Bologna ; L. BALDACCI, Tozzi moderno, Einaudi, Torino ; M. MARCHI, F.T. Ipotesi e documenti, Marietti, Genova ; R. LUPERINI, F.T. Le immagini, le idee, le opere, Laterza, Roma-Bari ; M. MARCHI, Vita scritta di F.T., Le Lettere, Firenze ; M. MARTINI, T. e James. Letteratura e psicologia, Olschki, Firenze ; E. SACCONE, Allegoria e sospetto. Come leggere T., Liguori, Napoli ; C. GEDDES DA FILICAIA, La biblioteca di F.T., Le Lettere, Firenze ; i volumi collettivi, con gli Atti del Convegno di Siena del , C. FINI (a cura di), Per T., Editori Riuniti, Roma  e, recentissimo, Tozzi: la scrittura crudele, Atti del convegno di Siena del , in un numero monografico della rivista «Moderna» (), a cura di M.A. GRIGNANI (a piú voci, anche Il rabdomante consapevole. Ricerche su T., a cura di M. MARCHI, Le Lettere, Firenze , e T. tra filologia e critica, a cura di R. LUPERINI e R. CASTELLANA, Piero Manni, lecce ). .. La Bibliografia della critica pirandelliana - è stata curata da B. BARBINA, Le Monnier, Firenze ; un aggiornamento sulla ricchissima produzione recente è stato dato da C. DONATI, Bibliografia della critica pirandelliana -, La Ginestra, Firenze ; successivamente, L. TARDINO, Bibliografia pirandelliana -, Biblioteca-mu-



EPOCA



seo Luigi Pirandello, Agrigento . Agli studi pirandelliani sono dedicate due apposite istituzioni, l’Istituto di Studi Pirandelliani di Roma, che pubblica testi e studi e dal  una serie di «Quaderni», e il Centro Nazionale di Studi Pirandelliani di Agrigento, diretto da E. Lauretta, che dal  ha pubblicato molti volumi, con gli atti di numerosi convegni dedicati agli aspetti piú diversi dell’opera di Pirandello, e dal  una «Rivista di studi pirandelliani» (di cui nel  è stata inaugurata la terza serie), utile anche per l’aggiornamento bibliografico. Con particolare insistenza si sono succeduti altri convegni pirandelliani, in Italia e all’estero, con molteplici volumi di atti, che sarebbe troppo lungo citare. Per la biografia, è essenziale il lavoro di G. GIUDICE, L.P., Utet, Torino ; cfr. inoltre E. LAURETTA, L.P. Storia di un personaggio “fuori di chiave”, CL, . Come strumento di base, di particolare valore il volume di N. BORSELLINO, Ritratto e immagini di P., Laterza, Roma-Bari  [] . Nei Meridiani di Mondadori è in corso di pubblicazione l’edizione critica di tutta l’opera pirandelliana, di cui sono usciti: Tutti i romanzi, a cura di G. MACCHIA, M. COSTANZO,  voll., ; Novelle per un anno, a cura di M. COSTANZO, premessa di G. MACCHIA,  voll., (ciascuno in  tomi), -; Maschere nude, vol. I, a cura di A. D’AMICO, premessa di G. MACCHIA, ; vol. II, a cura degli stessi, ivi ; per le altre opere, la raccolta Saggi, poesie, scritti vari, a cura di M. LO VECCHIO MUSTI, Mondadori, Milano  []. Molte le edizioni di notevole interesse di singole opere: per L’esclusa quelle a cura di G. NICOLETTI (Giunti, Firenze ) e N. BORSELLINO (Garzanti, Milano ); per Il turno quelle a cura di M. GUGLIELMINETTI (Mondadori, Milano ) e di M. ONOFRI (Theoria, Roma-Napoli ); per Il fu Mattia Pascal, quelle a cura di G. PATRIZI, introduzione di N. BORSELLINO (Garzanti Milano ) e di G. FERRONI (Bompiani, Milano ); per I vecchi e i giovani, quelle a cura di M. ONOFRI, introduzione di N. BORSELLINO (Garzanti, Milano ) e di A. NOZZOLI (Mondadori, Milano ); per i Quaderni di Serafino Gubbio operatore quelle a cura di M.A. GRIGNANI, introduzione di N. BORSELLINO (Garzanti, Milano ) e di G. FERRONI (Giunti, Firenze ). Per Uno, nessuno e centomila quelle a cura di M. GUGLIELMINETTI (Mondadori, Milano ) e a cura di G. MAZZACURATI (Einaudi ). Numerose anche le edizioni di vari volumi delle Novelle per un anno, ma si segnala l’edizione commentata a cura di P. GIBELLINI (Giunti, Firenze ). Interessante la raccolta di Interviste a P. a cura di I. PUPO, Rubbettino, Soveria Mannelli . Del fittissimo epistolario pirandelliano sono state variamente pubblicate sezioni diverse: per esempio, Epistolario giovanile (-), a cura di E. PROVIDENTI, Edumond-Le Monnier, Firenze ; Lettere da Bonn -, a cura di E. PROVIDENTI, Bulzoni, Roma ; Carteggi inediti, a cura di S. ZAPPULLA MUSCARÀ, Bulzoni, Roma ; Lettere a Marta Abba, a cura di B. ORTOLANI in M, ; L.P. intimo: lettere e documenti inediti, a cura di R. MARSILI ANTONETTI, Gangemi, Roma . Numerose le edizioni di testi dialettali inediti o di testi minori: un lavoro che mette in luce aspetti diversi di uno di questi è quello di S. ZAPPULLA MUSCARÀ (a cura di), Odissea di maschere. ’A birritta cu ’i ciancianeddi di L.P., Maimone, Catania . Per i rapporti con il cinema, cfr. F. CÀLLARI, P. e il cinema. Con una raccolta completa degli scritti teorici e creativi, Marsilio, Venezia ; F. ANGELINI, Serafino e la tigre. P. tra scrittura, teatro e cinema, Marsilio, Venezia . Punto di partenza per la critica pirandelliana possono essere considerati gli interventi di A. TILGHER, a cui si accenna nel testo, dalle cronache teatrali (raccolte nel volume Il problema centrale, a cura di A. D’AMICO, Edizioni del Teatro Stabile di Genova, Genova ) al volume Studi sul teatro contemporaneo, Scienze e Lettere, Roma ; essenziali anche gli interventi di A. GRAMSCI nelle sue cronache teatrali e poi nei Quaderni del carcere (cfr. ..). Tra i volumi di maggior rilievo, vanno ricordati L. SCIASCIA, P. e il pirandellismo, Sciascia, Caltanissetta ; ID., La corda pazza, Einaudi, Torino ; ID., Alfabeto pirandelliano, Adelphi, Milano  (ora tutti compresi nei tre volumi di Opere, Bompiani, Milano -); A. LEONE DE CASTRIS, Storia di P., Laterza, Roma-Bari  []; ID., Il decadentismo italiano, citato per .; B. TERRACINI, Analisi stilistica, Feltrinelli, Milano ; L. LUGNANI, P. Letteratura e teatro, La Nuova Italia, Firenze ; ID., L’infanzia felice e altri saggi su P., Liguori, Napoli ; C. VICENTINI, L’estetica di P., Mursia, Milano ; R. BARILLI, La linea Svevo-P., Mondadori, Milano  []; ID., P. Una rivoluzione culturale, CL, ; J.M. GARDAIR, P. e il suo doppio, Abete, Roma  []; R. ALONGE, P. tra realismo e mistificazione, Guida, Napoli ; R.S. DOMBROSKI, La totalità dell’artificio: ideologia e forma nel romanzo di P., Liviana, Padova ; P. PUPPA, Fantasmi contro giganti. Scena e immaginario in P., Patron, Bologna, ; E. GIOANOLA, P. la follia, Jaca Book, Milano  []; G. MACCHIA, P. o la stanza della tortura, Mondadori, Milano  []; F. GIOVIALE, La poetica narrativa di P. Tipologia e aspetti del romanzo, Patron, Bologna ; G. MAZZACURATI, P. nel romanzo europeo, Il Mulino, Bologna  []; R. SCRIVANO, La vocazione contesa. Note su P. e il teatro, Bulzoni, Roma ; L. SEDITA, La maschera del nome. Tre saggi di onomastica pirandelliana, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma ; M. BARATTO, Da Ruzante a P. Scritti sul teatro (citato per .); M.A. GRIGNANI, Retoriche pirandelliane, Liguori, Napoli ; G. PATRIZI, P. e l’umorismo, Lithos, Roma ; U. ARTIOLI, L’officina segreta di P., Laterza, Roma-Bari ; G. MAZZACURATI, Stagioni dell’apocalisse. Verga P. Svevo, Einaudi, Torino ; M. MANOTTA, L.P., Bruno Mondadori, Milano ; R. LUPERINI, P., Laterza, Roma-Bari ; M. GANERI, P. romanziere, Rubbettino, Soveria Mannelli ; U. ARTIOLI, P. allegorico. I fantasmi dell’immaginario cristiano, Laterza, Roma-Bari ; I. PUPO, Un frutto bacato. Studi sull’ultimo P., Bulzoni, Roma . Tra le numerose sintesi sul teatro italiano del Novecento, rinviamo a quelle di ANTONUCCI e PUPPA citate in DATI, tav. ; e cfr. A. ATTISANI (a cura di), Enciclopedia del teatro del ’, Feltrinelli, Milano . Inoltre cfr. la raccolta curata da M. VERDONE, Teatro contemporaneo, Lucarini, Roma , in tre volumi, il primo dei quali è dedicato al Teatro italiano. Per il teatro al tempo di Pirandello, cfr. G. LIVIO, Il teatro in rivolta. Futurismo, grottesco, P. e pirandellismo, CL,

BIBLIOGRAFIA



; P. PUPPA. Dalle parti di P., Bulzoni, Roma . Per il teatro futurista, cfr. la bibliografia in .. L’edizione del Teatro di Rosso di San Secondo, in tre volumi (vol. I, con introduzione di F. FLORA, voll. II-III, con introduzione di R. JACOBBI) è stata pubblicata da Bulzoni, Roma -. .. Per un orientamento generale su Svevo, cfr. E. GHIDETTI (a cura di), Il caso S. Guida storica e critica, Laterza, Bari , e cfr. la storia della critica di S. MAXIA, S., Palumbo, Palermo . Per la biografia, L. VENEZIANI SVEVO, Vita di mio marito, Museo sveviano, Trieste  []; E. GHIDETTI, I.S. La coscienza di un borghese triestino, Editori Riuniti, Roma ; G.A. CAMERINO, S., Utet, Torino ; B. MAIER, L. SVEVO FONDA SAVIO, Iconografia sveviana, Studio Tesi, Pordenone . J. GATT RUTTER, Alias I.S. Vita di Ettore Schmitz, scrittore triestino, introduzione di G. LUTI, Nuova immagine, Siena ; M. MARCHI, Vita scritta di I.S., Le Lettere, Firenze . L’edizione dell’Opera omnia, in quattro volumi, è stata curata da B. MAIER, per l’editore Dall’Oglio: I. Epistolario, ; II. Racconti-Saggi-Pagine sparse, ; III. Romanzi, ; IV. Commedie, a cura di U. APOLLONIO, . B. MAIER cura anche l’edizione critica delle Opere, presso l’editore Studio Tesi di Pordenone: sono usciti i volumi: I. Una vita, ; II. Senilità, ; III. La coscienza di Zeno, ; IV. Il vegliardo, . Tra le altre edizioni cfr. la raccolta degli Scritti su Joyce, a cura di G. MAZZACURATI, Pratiche, Parma  (e cfr. ora Faccio meglio di restare nell’ombra: il carteggio inedito con Ferrieri seguito dall’edizione critica della conferenza su Joyce, a cura di G. PALMIERI, Lupetti-Piero Manni, Milano-Lecce ). Sull’ipotesi del progetto di un ultimo romanzo del “vegliardo”, cfr. G. CÒNTINI, Il quarto romanzo di S., Einaudi, Torino . Fra le edizioni intreressanti delle singole opere si ricordano quella di Una vita a cura di F. Amigoni, Einaudi, Torino ; di Senilità a cura di G. CÒNTINI (Garzanti, Milano ), a cura di C. BENUSSI con introduzione di D. DEL GIUDICE (Feltrinelli, Milano ) e quella a cura di S. CIRILLO (Einaudi Scuola, Milano ); della Coscienza di Zeno a cura di M. LAVAGETTO (con le Continuazioni: Einaudi, Torino ), di G. CÒNTINI (con presentazione di E. SACCONE, Garzanti, Milano ) e di G. PALMIERI (con presentazione di M. CORTI, Giunti, Firenze ). Il Teatro è raccolto in un’edizione a cura di O. BERTANI (Garzanti, Milano ). La critica sveviana ha inizio con gli articoli di Montale, a cui si accenna nel testo (.. e . .): cfr. E. MONTALE, I.S., Lettere con gli scritti di Montale su S., a cura di G. ZAMPA, Mondadori, Milano  []. Essenziali poi i saggi di DEBENEDETTI raccolti nella seconda serie dei Saggi critici (cfr. ..). Questi gli altri interventi piú rilevanti: A. LEONE DE CASTRIS, I.S., Nistri-Lischi, Pisa ; G. LUTI, I.S. e altri studi sulla letteratura italiana del primo Novecento, Lerici, Milano ; S. MAXIA, Lettura di I.S., Liviana, Padova ; R. BARILLI, La linea S.-Pirandello (citato per .); M. FUSCO, I.S.: coscienza e realtà, Sellerio, Palermo  []; E. SACCONE, Commento a “Zeno”, Il Mulino, Bologna ; ID., Il poeta travestito. Otto saggi su S., Pacini, Pisa ; M. LAVAGETTO, L’impiegato Schmitz e altri saggi su S., Einaudi, Torino ; E. GIOANOLA, Un killer dolcissimo, Mursia, Milano  []; G. CÒNTINI, Il romanzo inevitabile, Mondadori, Milano ; C. BENEDETTI, La soggettività nel racconto: Proust e S., Liguori, Napoli ; A. GAGLIARDI, La scrittura e i fantasmi. Radici de “La coscienza di Zeno”, Liguori, Napoli . F. CATENAZZI, L’italiano di S. tra scrittura pubbica e scrittura privata, Olschki, Firenze ; G. PALMIERI, Schmitz, S., Zeno. Storia di due “biblioteche”, Bompiani, Milano ; G. LANGELLA, Il tempo cristallizzato, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli ; G. MAZZACURATI, Le stagioni dell’Apocalisse (citato per .); G. SAVELLI, L’ambiguità necessaria. Zeno e il suo lettore, Franco Angeli, Milano ; A. CAVAGLION, I.S., Bruno Mondadori, Milano ; M. SECHI Il giovane S., Donzelli, Roma . In particolare, sulla narrativa breve, M. TORTORA, S. novelliere, Giardini, Pisa ; sul teatro, R. RIMINI, La morte nel salotto. Guida al teatro di I.S., Vallecchi, Firenze ; A. GUIDOTTI, Zeno e i suoi doppi. Le commedie di S. Ets, Pisa . Tra i volumi collettivi cfr. G. PETRONIO (a cura di), Il caso S., Guida storica e critica, Laterza, Roma-Bari ; R. SCRIVANO (a cura di), Contributi sveviani, Lint, Trieste ; gli Atti del Convegno di Firenze del febbraio , I.S. oggi, Vallecchi, Firenze ; F.P. BOTTI, G. MAZZACURATI, M. PALUMBO, Il secondo S., Liguori, Napoli ; gli Atti del Convegno di Perugia del marzo , I.S. scrittore europeo, a cura di N. Cacciaglia e L. Fava Guzzetta, Olschki, Firenze . .. Dei prosatori di cui si parla nel testo tratta ampiamente E. FALQUI, Prosatori e narratori del Novecento italiano, Einaudi, Torino . Su Pea, cfr. S. SALVESTRONI, E.P.: fra anarchia e integrazione, La Nuova Italia, Firenze ; M. FRATNIK, E.P et l’écriture du moi, Olschki, Firenze . Per «La Ronda», cfr. l’antologia di G. CASSIERI (a cura di), «La Ronda» -, Eri, Torino ; L. CARETTI, nel volume Antichi e moderni, Einaudi, Torino ; G. MANACORDA, Dalla «Ronda» al «Baretti», Bastogi, Foggia  []; G. LANGELLA, Le favole della Ronda, Bulzoni, Roma . Per la “prosa d’arte”, E. FALQUI, Ragguaglio sulla prosa d’arte, Vallecchi, Firenze . Per Cardarelli, cfr. la raccolta delle Opere, a cura di C. MARTIGNONI, M, ; per la critica, A. DEI, La speranza è nell’opera. Saggio sulle poesie di C., Vita e Pensiero, Milano ; L. MARTELLINI, V.C. Il sogno, la scrittura, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli . Per Cecchi, cfr. l’edizione dei Taccuini, a cura di N. GALLO, P. CITATI, Mondadori, Milano ; l’edizione critica dei Pesci rossi, a cura di M. GHILARDI, Vallecchi, Firenze ; la raccolta di Saggi e viaggi nei M,  e, sempre a cura della Ghilardi, i Saggi romantici, Avagliano, Cava de’ Tirreni ; Interessantissimi L’onestà sperimentale. Carteggio di E.C. e Gianfranco Contini a cura di P. LEONCINI, Adelphi, Milano ; gli Atti del Convegno di Firenze del , curati da R. FEDI, E.C. oggi, Vallecchi, Firenze , e la monografia di A. DEI, La scacchiera di C., Nistri-Lischi, Pisa . Su Bacchelli, cfr. M. SACCENTI, B. Memoria e invenzione, Le Lettere, Firenze . Su Baldini, E. GIACHERY, Il lettore in pantofole, Bulzoni, Roma . Le opere di Barilli sono parzialmente state ripubblicate presso Einaudi, in accurate edizioni: Il sorcio nel violino, a cura di L. AVEL-



EPOCA



LINI, A. CRISTIANI, introduzione di M. LAVAGETTO, ; Il paese del melodramma, a cura di L. VIOLA, L. AVELLINI,  (ma cfr. anche l’edizione Adelphi, Milano ); Capricci di vegliardo e taccuini inediti, a cura di A. BATTISTINI, A. CRISTIANI, . Diverse le edizioni dei bellissimi scritti di viaggio: Il viaggiatore volante, Muzzio, Padova  e Lo stivale, Editori Riuniti, Roma . Per Malaparte, cfr. L. MARTELLINI, Invito alla lettura di M., Mursia, Milano , e l’edizione a sua cura delle Opere scelte nei M, . Cfr. inoltre G.B. GUERRI, L’Arcitaliano, vita di C.M., Mondadori, Milano  []; M. BIONDI, Scrittori e miti totalitari. M, Pratolini, Silone, Polistampa, Firenze . I Racconti e romanzi di Bontempelli furono raccolti in due volumi, a cura di P. MASINO, Mondadori, Milano  (una raccolta del Teatro in due volumi era già apparsa da Mondadori nel , ma cfr. Nostra Dea e altre commedie, a cura di A. Tinterri, Einaudi, Torino ): è seguita una raccolta delle Opere scelte, a cura di L. BALDACCI, M,  (cfr. anche Il Bianco e il Nero, a cura di S. CIGLIANA, Guida, Napoli ). Per la critica, L. BALDACCI, M.B., Borla, Torino ; F. TEMPESTI, B., CS, ; L. LAPINI, Il teatro di Bontempelli, Vallecchi, Firenze ; M. MASCIA GALATERIA, Tattica della sorpresa e romanzo comico di M.B., Bulzoni, Roma ; A. SACCONE, M.B. Il mito del ‘, Liguori, Napoli  (e La trincea avanzata… cit. per .); U. PISCOPO, M.B. Per una modernità delle pareti lisce, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli . Per Alvaro, cfr. l’edizione dei Romanzi e racconti, a cura di G. PAMPALONI, Bompiani, Milano ; e gli Scritti dispersi (-) a cura di M. STRATI, introduzione di W. PEDULLÀ, Bompiani, Milano ; interessanti Lettere parigine e altri scritti -, a cura di A.C. FAITROP PORTA, Salerno Editrice, Roma , e Colore di Berlino. Viaggio in Germania, a cura della stessa, Falzea, Reggio Calabria . Per la critica, A. BALDUINO, C.A., CL,  []; C.A. Itinerario di uno scrittore, Rubbettino, Soveria Mannelli  []; A. PALERMO, E. GIAMMATTEI, Solitudine del moralista. A. e Flaiano, Liguori, Napoli . Per «Solaria», cfr. «S.» Antologia critica, a cura di E. SICILIANO, Lerici, Milano ; L. FAVA GUZZETTA, «S.» e la narrativa italiana intorno al , Longo, Ravenna ; S. BRIOSI, Il problema della letteratura in «S.», CL, . Per Comisso, cfr. l’edizione delle Opere a cura di R. DAMIANI e N. NALDINI in M, , (ma anche i testi di Solstizio metafisico, a cura di T. COLUSSO, Il Poligrafo, Padova  e Mio sodalizio con De Pisis, non compreso nelle Opere, a cura di N. NALDINI, Neri Pozza, Vicenza ). Cfr. A. ACCAME BOBBIO, G.C., CL, ; R. ESPOSITO, Invito alla lettura di G.C., Mursia, Milano ; N. NALDINI, Vita di G.C., L’Ancora del Mediterraneo, Napoli  []. Su Quarantotti Gambini, R. SCRIVANO, Q.G., CS, . Sul surrealismo, cfr. AA.VV., Studi sul surrealismo, Officina, Roma ; L. FONTANELLA, Il surrealismo italiano, Bulzoni, Roma ; ID., La parola aleatoria. Avanguardia e sperimentalismo nel Novecento italiano, Le Lettere, Firenze ; S. BELLOTTO, Metamorfosi del fantastico. Immaginazione e linguaggio nel racconto surreale italiano del Novecento, Pendragon, Bologna . È in corso un’edizione complessiva delle Opere di Savinio nella collana “La Nave Argo” di Adelphi. Finora sono usciti Hermaphrodito e altri romanzi, a cura di A. TINTERRI (), Casa «La Vita» e altri racconti, a cura di A. TINTERRI e P. ITALIA () e, a cura di P. ITALIA con introduzione di A. TINTERRI, Scritti dispersi - (); cfr. M. SAVINIO, Con S. Ricordi e lettere, a cura di A. SAVINIO, Sellerio, Palermo . Per la critica, S. LANUZZA, S., CS, ; M. CARLINO, S. La scrittura in stato d’assedio, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma ; ID., S., Milella, Lecce ; W. PEDULLÀ, A.S., Bompiani, Milano  []; V. BRAMANTI, Gli dei e gli eroi di S., Sellerio, Palermo ; il fascicolo di «Galleria», XXXIII, , a cura di R. TORDI; A. TINTERRI, S. e lo spettacolo, Il Mulino, Bologna ; M. SABBATINI, L’argonauta, l’anatomico, il funambolo, Salerno Editrice, Roma ; S. CIRILLO, A.S., Bruno Mondadori, Milano ; A. TINTERRI, S. e l’«Altro», Il Melangolo, Genova ; F. SECCHIERI, Dove comincia la realtà e dove finisce, Le Lettere, Firenze . E cfr., anche per gli autori successivi, S. CASTELLI, Azzardo. Landolfi, S., Delfini, Spirali, Milano . Su De Chirico scrittore, M. CARLINO, Una penna per il pennello. G.D.C. scrittore, Officina, Roma . Per Landolfi, cfr. l’antologia curata da I. CALVINO, Le piú belle pagine di L., Adelphi, Milano  []. Adelphi dal  ha preso a ristampare tutti i singoli titoli di Landolfi scrittore e traduttore (ne sono usciti piú di venticinque volumi); per la critica, gli Atti del Convegno di Firenze del marzo , S. ROMAGNOLI (a cura di), Una giornata per L., Vallecchi, Firenze ; il numero della rivista «Rapporti», , -, Omaggio a L.; A. CENI, La “sopra-realtà” di T.L., Cesati, Firenze ; la nota introduttiva di A. ZANZOTTO all’edizione de La pietra lunare, Rizzoli, Milano  (ora in ID., Scritti sulla letteratura, a cura di G.M. VILLALTA, Mondadori, Milano ); la monografia di O. MACRÌ, T.L. narratore, poeta, critico, artefice della lingua, Le Lettere, Firenze ; i volumi collettivi curati da I. LANDOLFI: Le lunazioni del cuore, La Nuova Italia, Scandicci (FI) ; La liquida vertigine, Olschki, Firenze ; la monografia di M. CARLINO, L. e il fantastico, Lithos, Roma . Si veda anche l’edizione delle Opere (-), vol. I, a cura di I. LANDOLFI, prefazione di C. BO, “Classici contemporanei”, Rizzoli, Milano  (e vol. II, ivi ). Per Delfini, è essenziale l’edizione dei Diari -, a cura di G. DELFINI, N. GINZBURG, prefazione di C. GARBOLI, Einaudi, Torino ; Il ricordo della Basca, Garzanti, Milano ; Poesie della fine del mondo e poesie escluse, a cura di D. GARBUGLIA, postfazione di G. AGAMBEN, Quodlibet, Macerata ; Manifesto per un partito conservatore e comunista e altri scritti, a cura di G. GARBOLI, Garzanti, Milano ; cfr. inoltre G. UNGARELLI, A.D. fra memoria e sogno, Bulzoni, Roma ; il numero monografico a cura di A. PALAZZI e M. BELPOLITI della rivista «Riga» (); e il recente A. BERTONI, Ritratto di A.D., Aliberti, Reggio Emilia . Per Buzzati, cfr. la scelta di Romanzi e racconti, a cura di G. GRAMIGNA, M, , e la raccolta del Teatro, a cura di

BIBLIOGRAFIA

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G. DAVICO BONINO,

Mondadori, Milano . In Francia esiste, a partite dal , una rivista dedicata a Buzzati, “Cahiers Dino Buzzati”; per la critica italiana, cfr. A. ARSLAN, Invito alla lettura di B., Mursia, Milano  [], gli Atti del Convegno della Fondazione Cini di Venezia del , a cura di A. FONTANELLA, D.B., Olschki, Firenze  e la monografia di N. GIANNETTO, Il sudario delle caligini. Significati e fortune dell’opera buzzatiana, Olschki, Firenze . Per Campanile, cfr. i due volumi delle Opere nei “Classici Bompiani” a cura di O. DEL BUONO  e ; per Zavattini, cfr. i due volumi Opere nei “Classici Bompiani” a cura di S. CIRILLO, introduzione di L. MALERBA, , e a cura di V. FORTICHIARI e M. ARGENTIERI, ; inoltre Z. parla di Z., a cura di S. CIRILLO, Bulzoni, Roma . Per la critica letteraria, cfr. l’ampia discussione di L. RUSSO, La critica letteraria contemporanea,  voll., Laterza, Bari - [-], L. BALDACCI, I critici italiani del Novecento, Garzanti, Milano ; G. LEONELLI, La critica letteraria in Italia (-), Garzanti, Milano ; F. MUZZIOLI, Le teorie della critica letteraria, Carocci, Roma ; G. FERRONI, La scena intellettuale. Tipi italiani, Rizzoli, Milano . Su Debenedetti, cfr. gli Atti dei Convegni di Roma del dicembre , a cura di R. TORDI, Il Novecento di D., Mondadori, Milano ; di Biella del , G.D. L’arte di leggere, Scheiwiller, Milano , e quelli dell’altro convegno romano del , a cura di A. BERARDINELLI, G. FERRONI e M.I. GAETA in un fascicolo monografico della rivista «Nuovi Argomenti» (). Inoltre le monografie di P. FRANDINI, Il teatro della memoria, Piero Manni, Lecce , e di V. PIETRANTONIO, D. e il suo doppio. Una traversata con Marcel Proust; Il Mulino, Bologna  (e i saggi compresi in A. BERARDINELLI, La forma del saggio, cit.). Sulla letteratura fiorentina degli anni Trenta, cfr. G. NICOLETTI, Scritture novecentesche a Firenze, Ricciardi, Milano-Napoli . Per Bilenchi, il volume delle Opere, a cura di B. CENTOVALLI, M. DEPAOLI e C. NESI, Rizzoli, Milano , e i singoli titoli in corso di ripubblicazione, dal  nella BUR Rizzoli; il numero monografico Per Romano Bilenchi, «il Vieusseux», , . Su Bernari, E. RAGNI, Invito alla lettura di B., Mursia, Milano . Per Silone, i due volumi di Romanzi e saggi, a cura di B. FALCETTO con introduzione di G. HERLING, usciti in M nel - e le singole opere in corso di ripubblicazione negli Oscar Mondadori; per la critica, L. D’ERAMO, L’opera di I.S. Saggio critico e guida bibliografica, Mondadori, Milano ; gli Atti del convegno Nicola Chiaromonte, I.S. L’eredità di «Tempo presente», a cura di G. FOFI, Fahrenheit , Roma ; il volume cit. di M. BIONDI, Scrittori e miti totalitari. Malaparte, Pratolini, S. .. Per la poesia, oltre ai vari saggi citati all’inizio della bibliografia di questo volume, si tenga presente il panorama di G. Pozzi, La poesia italiana del Novecento, Einaudi, Torino  [], e quelli di C. BO, La nuova poesia, in LIG, Il Novecento, citato, e di F. FORTINI, I poeti del Novecento, in LIST, vol. IX, citato; cfr. inoltre S. RAMAT, Storia della poesia italiana del Novecento, CL, . Essenziali il volume di L. ANCESCHI, Le poeticbe del Novecento in Italia. Studio di fenomenologia e storia delle poetiche, Marsilio, Venezia  [], e le lezioni di G. DEBENEDETTI, Poesia italiana del Novecento, Garzanti, Milano  []; cfr. inoltre AA.VV., Ricerche sulla lingua poetica contemporanea, Liviana, Padova . Per Campana, cfr. l’edizione delle Opere e contributi, a cura di E. FALQUI e altri, Vallecchi, Firenze ; l’ampio commento dei Canti orfici, a cura di F. CERAGIOLI, BUR  [], e quello a Canti Orfici e altre poesie di R. MARTINONI, Einaudi, Torino ; l’edizione critica dei Taccuini, a cura di F. CERAGIOLI, Scuola Normale Superiore, Pisa ; quella dell’epistolario, a cura di G. CACHO MILLET, Souvenir d’un pendu. Carteggio -, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli  (e diversi altri volumi di documenti e testimonianze a cura dello stesso, fra i quali D.C. Fuorilegge, Novecento, Palermo , e D.C. sperso per il mondo, Olschki, Firenze ). Tra le numerose biografie, oltre a quella di C. PARIANI, Vita non romanzata di D.C., a cura di C. ORTESTA, SE  [] e a quella di G. TURCHETTA, D.C. Biografia di un poeta, Feltrinelli, Milano  [], cfr. quella “romanzata” di S. VASSALLI, La notte della cometa. Il romanzo di D.C., Einaudi, Torino  (cfr. ..). Per la critica, N. BONIFAZI, D.C., Ateneo e Bizzarri, Roma  []; C. GALIMBERTI, D.C., CL, ; AA.VV., D.C. oggi. Atti del convegno di studi su D.C. (), Vallecchi, Firenze ; P. CUDINI (a cura di), Materiali per D.C., Pacini Fazzi, Lucca ; D.C. alla fine del secolo, a cura di A.R. GENTILINI, Il Mulino, Bologna ; I portici della poesia: D.C. a Bologna, a cura di M.A. BAZZOCCHI e G. CACHO MILLET, Patron, Bologna ; O poesia piú tu non tornerai. C. moderno, a cura di M. VERDENELLI, Quodlibet, Macerata ; G. CENACCHI, I monti orfici di D.C. Un saggio, dieci passeggiate, Polistampa, Firenze ; M.A. BAZZOCCHI, Nietzsche, C. e la puttana sacra, Piero Manni, Lecce . Imperdibile il CD di C. BENE, Canti Orfici di D.C., Bompiani, Milano . Per Rèbora, cfr. l’edizione de Le poesie (-), a cura di G. MUSSINI, V. SCHEIWILLER, Scheiwiller-Garzanti, Milano  [], (ma cfr. l’edizione critica e commentata di Curriculum vitae, a cura di R. CICALA e G. MUSSINI, Interlinea, Novara ); quella di Arche di Noè. Le prose fino al , a cura di C. GIOVANNINI, Jaca Book, Milano ; e quella delle Lettere, a cura di M. MARCHIONE,  voll., Edizioni di Storia e Letteratura, Roma -; per la critica, cfr. M. GUGLIELMINETTI, C.R., CL, , i volumi collettivi dei «Nuovi quaderni reboriani» diretti da G. DE SANTI ed E. GRANDESSO per Marsilio; e la Bibliografia reboriana a cura di R. CICALA e V. ROSSI, Olschki, Firenze, . Per Sbarbaro, cfr. L’opera in versi e in prosa, a cura di G. LAGORIO, V. SCHEIWILLER, Scheiwiller-Garzanti, Milano  []; l’edizione critica a cura di G. COSTA dei Trucioli (), Libri Scheiwiller, Milano  e quella commentata di Pianissimo a cura di L. POLATO, Marsilio, Venezia ; la Bibliografia degli scritti di C.S., a cura di C. ANGELERI, G. COSTA, Scheiwiller, Milano ; il sintetico profilo di L. POLATO, S., CS, ; per la critica, cfr. G. BÀRBERI SQUA-

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EPOCA



ROTTI, C.S., CL, ; A. GUERRINI (a cura di), Atti del convegno nazionale di studi su C.S. (), Edizioni di “Resine”, Genova , G. LAGORIO, S.: un modo spoglio di esistere, Garzanti, Milano ; M. GUGLIELMINETTI, S. poeta, ed altri liguri, Flaccovio, Palermo ; S. GIUSTI, Sulla formazione dei «Trucioli» di C.S., Le Lettere, Firenze ; V. COLETTI, Prove di un io minore. Lettura di S., «Pianissimo», Bulzoni, Roma ; C.S. Atti della giornata di studio, a cura di G. DEVOTO e P. ZOBOLI, San Marco dei Giustiniani, Genova . Per Onofri, cfr. l’edizione delle Poesie edite e inedite. -, a cura di A. DOLFI, Longo, Ravenna ; Poesie e prose inedite (-), a cura di M. VIGILANTE, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma ; è in corso la pubblicazione delle opere, a cura di M. ALBERTAZZI, dall’editore La Finestra di Trento; nel - sono usciti quattro volumi del Ciclo lirico della terrestrità del sole, nel  Nuovo Rinascimento come arte dell’io e altri Scritti esoterici, nel  Arioso, orchestrine, poesie e prose inedite, Quaderno di Positano; per la critica cfr. profilo di A. DOLFI, O., CS,  e C. D’ALESSIO, Il poema necessario. Poesia e orfismo in Dino Campana e A.O., Bulzoni, Roma  (dello stesso studioso si veda l’edizione della traduzione onofriana di Lune di giada. Poesie cinesi, Salerno Editrice, Roma ). Per Vigolo, cfr. M. ARIANI, V., CS, . Per un quadro generale su Saba, cfr. F. MUZZIOLI, La critica e S., Cappelli, Bologna ; il profilo di A. PINCHERA, S., CS, ; la guida di M. LAVAGETTO (a cura di) Per conoscere S., Mondadori, Milano ; quella di E. GUAGNINI (a cura di), Il punto su S., Laterza, Bari . Per le edizioni, cfr. Tutte le poesie, a cura di A. STARA, con introduzione di M. LAVAGETTO, M,  e Tutte le prose, a cura di A. STARA, introduzione di M. LAVAGETTO, M,  (ma cfr. l’edizione di Ernesto a cura di M.A. GRIGNANI, Einaudi, Torino ); cfr. inoltre l’edizione critica de Il Canzoniere , a cura di G. CASTELLANI, Fondazione Mondadori, Milano , e quella di Coi miei occhi, a cura di C. MILANINI, Il Saggiatore, Milano . Tra i saggi, sono essenziali quelli di G. DEBENEDETTI, sia nella prima serie già citata dei Saggi critici, sia in Intermezzo, Il Saggiatore, Milano ; cfr. poi l’introduzione di C. MUSCETTA all’Antologia del Canzoniere, Einaudi, Torino ; F. PORTINARI, U.S., CL, ; M. LAVAGETTO, La gallina di S., Einaudi, Torino  []; O. CECCHI, L’aspro vino di S., Editori Riuniti, Roma ; gli Atti dei Convegni del marzo , a Trieste, Il punto su S., Lint, Trieste , e, a Roma, R. TORDI (a cura di), U.S., Trieste e la cultura mitteleuropea, Mondadori, Milano ; L. POLATO L’aureo anello. Saggi sull’opera poetica di U.S., Franco Angeli, Milano . Si vedano anche la raccolta di lettere Atroce paese che amo, a cura di G. LAVEZZI, R. SACCANI, Bompiani, Milano ; Lettere sulla psicoanalisi. Carteggio con Joachim Flescher -, a cura di A. STARA, SE, Milano ; e Lettere a Sandro Penna (-), a cura di R. DEIDIER, Archinto, Milano . L’edizione completa delle poesie di Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura di L. PICCIONI, ha inaugurato nel  “i Meridiani” di Mondadori: sono seguiti nel , nella stessa collana, un volume di Saggi e interventi, a cura di M. DIACONO, L. REBAY; e, nel , uno di Viaggi e lezioni a cura di P. MONTEFOSCHI; tra i numerosi inediti sono state inoltre pubblicate varie parti dell’epistolario, (ad esempio le Lettere a Giovanni Papini, a cura di M.A. TERZOLI, Mondadori, Milano  e le Lettere a Prezzolini -, a cura della stessa, Edizioni di Storia e letteratura, Roma ). Per i molti problemi filologici e interpretativi legati all’opera di Ungaretti dà una indicazione fondamentale l’edizione de Il Porto Sepolto con ricco e articolato commento di C. OSSOLA, Marsilio, Venezia . Per la biografia, cfr. L. PICCIONI, Vita di un poeta. G.U., Rizzoli, Milano  e Album U., a cura dello stesso, M, . La monografia piú ricca è quella di C. OSSOLA, G.U., CL,  []; cfr. inoltre L. REBAY, Le origini della poesia di G.U., Edizioni di Storia e Letteratura, Roma ; G. CAMBON, La poesia di U., Einaudi, Torino ; L. PICCIONI, Ungarettiana. Lettura della poesia, aneddoti, epistolari inediti, Vallecchi, Firenze ; M. PETRUCCIANI, Il condizionale di Didone. Studi su U., Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli ; gli Atti del Convegno internazionale su G.U., tenuto a Urbino nell’ottobre ,  voll., Quattroventi, Urbino ; M. BARENGHI, Un ritratto e cinque studi, Mucchi, Modena ; A. CORTELLESSA, U. (con video), Einaudi, Torino ; il numero monografico a cura di G. GUGLIELMI della rivista «Il Verri» (, -); R. GENNARO, La risposta inattesa. U. e il Belgio tra politica, arte e letteratura, Franco Cesati, Firenze . L’edizione completa delle Opere di Solmi è in corso di pubblicazione presso Adelphi: sono usciti, a cura di G. PACCHIANO, il vol. I. Poesie, meditazioni e ricordi,  tomi, -, il vol. II. Studi leopardiani,  (cfr. .), il vol. III, La letteratura italiana contempornea, - (due tomi), il vol. IV, Letteratura e società, . Su Sinisgalli, cfr. G. MARIANI, L’orologio del Pincio. L.S. tra certezza e illusione, Bonacci, Roma ; R. AYMONE, Le muse appollaiate, saggi su S., Avigliano, Cava de’ Tirreni ; Le vespe d’oro. Saggi e testimonianze su L.S., a cura di G. TORTORAN, ivi ; S. a Milano, a cura di G. LUPO, Interlinea, Novara . Oltre a F. FLORA, La poesia ermetica, Laterza, Bari , sono essenziali per la definizione della poetica ermetica i numerosi volumi degli stessi critici ermetici, in primo luogo C. BO, O. MACRÍ, P. BIGONGIARI; per una prospettiva generale cfr. M. PETRUCCIANI, La poetica dell’ermetismo, Loescher, Torino ; S. RAMAT, L’ermetismo, La Nuova Italia, Firenze,  []; D. VALLI, Storia degli ermetici, La Scuola, Brescia ; B. STASI Ermetismo, La Nuova Italia, Scandicci (FI) . Su Quasimodo, cfr. G. FINZI, Q. e la critica, Mondadori, Milano  [], e la raccolta delle Poesie e discorsi sulla poesia, a cura di G. FINZI, M,  []; per la critica, N. TEDESCO, L’isola impareggiabile. Significati e forme del mito di Q., Flaccovio, Palermo,  []; G. FINZI, S.Q., Mursia, Milano ; gli Atti dei Convegni di Princeton  (S.Q. nel vento del Mediterraneo, a cura di P. FRASSICA, Interlinea, Novara ) e di quello di Lovanio del  (Q. e gli altri, a cura di F. MUSARRA, Franco Cesati, Firenze ); O. MACRÍ, La poesia di Q., Sellerio, Pa-

BIBLIOGRAFIA

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lermo ; gli Atti del Convegno di Messina del , a cura di G. FINZI, S.Q. La poesia nel mito e oltre, Laterza, Bari . Su Gatto, cfr. B. PENTO, G., CS, , e gli Atti del Convegno di Salerno dell’aprile , La cultura italiana negli anni ’-’ (Omaggio ad A.G.),  voll., Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli ; La rosa dei granili. Saggi e testimonianze su A.G., a cura di G. TORTORA, Cava de’ Tirreni, Avigliano . Per la poesia dialettale, cfr. l’ampia trattazione di F. BREVINI, Le parole perdute. Dialetti e poesia nel nostro secolo, Einaudi, Torino . Per Trilussa, cfr. l’edizione di Tutte le poesie, introduzione di P. PANCRAZI, Mondadori, Milano  [] e l’antologia di Poesie scelte a cura di P. GIBELLINI, ivi . Per Giotti, l’edizione delle Opere, a cura di R. DE ROSSI, E. GUAGNINI, B. MAIER, Lint, Trieste , e l’edizione critica di Colori, a cura di A. MODENA, Einaudi, Torino ; per Marin, la scelta delle Poesie, a cura di C. MAGRIS, E. SERRA, Garzanti, Milano , i saggi raccolti in E. SERRA (a cura di), Poesia e fortuna di B.M., Provincia di Gorizia, Gorizia ; e il catalogo B.M. i luoghi del poeta, a cura della stessa Electa, Milano . Per Tessa, cfr. la raccolta delle poesie L’è el dí di mort, alegher! De là del mur e altre liriche, a cura di D. ISELLA, Einaudi, Torino . Ore di città, a cura dello stesso, ivi ; cfr. M. NOVELLI, I saggi lirici di D.T., LED Edizioni, Milano . L’edizione delle Opere complete di Noventa è uscita presso Marsilio (Venezia), a cura di F. MANFRIANI, Versi e poesie, , e Nulla di nuovo e altri scritti (-), ; «Dio è con noi» e altri scritti (-), «Il Castogallo» e altri scritti (-), . .. Una Bibliografia montaliana è stata curata da L. BARILE, Mondadori, Milano ; per una informazione di base, M. FORTI (a cura di), Per conoscere M., Mondadori, Milano , e P. CATALDI, M., Palumbo, Palermo . Per la biografia, cfr. G. NASCIMBENI, E.M., Longanesi, Milano  []; E. BONORA, Conversando con M., Rizzoli, Milano ; F. CONTORBIA (a cura di), E.M. Immagini di una vita, Mondadori, Milano  []. L’edizione critica de L’opera in versi, a cui si accenna nel testo (..), a cura di R. BETTARINI, G. CONTINI, è stata pubblicata nei “Millenni” di Einaudi, Torino ; ma cfr. anche la raccolta Tutte le poesie, a cura di G. ZAMPA, M,  seguita, nella stessa collana, e per le cure dello stesso Zampa da Prose e racconti nel  (ma cfr. anche Ventidue prose elvetiche, a cura di F. SOLDINI, Scheiwiller, Milano, ) e dai due volumi del Secondo mestiere: Prose (-) e Arte, musica e società nel  (ma cfr. Prime alla Scala, a cura di G. LAVEZZI, Leonardo, Milano  [], e Sulla poesia a cura di G. ZAMPA, Mondadori, Milano  []). Controversa l’attribuzione della raccolta poetica Diario postumo, a cura di A. CIMA, Mondadori, Milano  (cfr. D. ISELLA, Dovuto a M., Archinto, Milano ; e Seminario sul Diario postumo di E.M., All’insegna del Pesce d’Oro, Milano ). Per l’epistolario, sono state pubblicate solo alcune raccolte parziali, tra cui quella del carteggio con Svevo, citata in ..; nelle lettere a Silvio Guarnieri, raccolte in L. GRECO (a cura di), M. commenta M., Pratiche, Parma  [], l’autore svolge un interessante commento alla propria poesia, cfr. anche E.M. e S. PENNA, Lettere e minute (-), a cura di R. DEIDIER, Archinto, Milano ; Eusebio e Trabucco. Carteggio di E.M. e Gianfranco Contini, a cura di D. ISELLA, Adelphi, Milano ; Giorni di libeccio. Lettere ad Angelo Barile (-), a cura di D. ASTENGO e G. COSTA, Archinto, Milano ; Caro Maestro e Amico. Lettere a Valery Larbaud (-), a cura di M. SONZOGNI, ivi . Si ha anche, curata da G. SAVOCA, una Concordanza di tutte le poesie di E.M., Olschki, Firenze . Per la critica, cfr. D’A. S. AVALLE, Tre saggi su M., Einaudi, Torino ; U. CARPI, M. dopo il fascismo. Dalla “Bufera” a “Satura”, Liviana, Padova ; M. FORTI, E.M. La poesia, la prosa di fantasia e di invenzione, CL,  []; ID., Nuovi saggi montaliani, CL, ; G. CONTINI, Una lunga fedeltà. Scritti su E.M., Einaudi, Torino  []; M. MARTELLI, Il rovescio della poesia. Interpretazioni montaliane, Longanesi, Milano ; A. JACOMUZZI, La poesia di M. Dagli “Ossi” ai “Diari”, Einaudi, Torino ; G. LONARDI, Il vecchio e il giovane e altri studi su M., Zanichelli, Bologna ; ID., Il poeta e l’agone. Un esempio di partita doppia montaliana, Essedue, Verona ; ID., Il fiore dell’addio. Leonora, Manrico e altri fantasmi del melodramma nella poesia di M., Il Mulino, Bologna ; R. LUPERINI, M. e l’identità negata, Liguori, Napoli ; ID., Storia di M., Laterza, Bari  []; G. ORELLI, Accertamenti montaliani, Il Mulino, Bologna ; S. RAMAT, L’acacia ferita e altri saggi su M., Marsilio, Venezia ; M.A. GRIGNANI, Prologhi ed epiloghi. Sulla poesia di E.M. con una prosa inedita, Longo, Ravenna . EAD., Dislocazioni. Epifanie e metamorfosi in M., Piero Manni, Lecce ; L. BARILE, Adorate mie larve. M. e la poesia anglosassone, Il Mulino, Bologna ; EAD., Montale, Londra e la luna, Le Lettere, Firenze ; A. CASADEI, Prospettive montaliane, Giardini, Pisa, ; F. ZAMBON, L’iride nel fango. L’anguilla di E.M., Pratiche, Parma ; O. MACRÌ, Studi montaliani. La vita della parola, Le Lettere, Firenze ; A. MARCHESE, Amico dell’invisibile, la personalità e la poesia di E.M., SEI, Torino ; F. CROCE, La primavera hitleriana e altri saggi su M., Marietti, Genova ; F. CONTORBIA, M. Genova, il modernismo e altri saggi montaliani, Pendragon, Bologna ; A. GAREFFI, M. La casa dei doganieri, Studium, Roma ; A. FERRARIS, M. e gli «Ossi di seppia». Una lettura, Donzelli, Roma ; T. ARVIGO, M. Ossi di seppia, Carocci, Roma ; L. BLASUCCI, Gli oggetti di M., Il Mulino, ; T. DE ROGATIS, M. e il classicismo moderno, Istituti Poligrafici ed Editoriali Europei, Roma-Pisa . Vanno poi ricordati vari volumi collettivi e atti di convegni: tra gli altri, S. RAMAT (a cura di), Omaggio a M., Mondadori, Milano ; il numero speciale della «Rassegna della letteratura italiana», , -; A. CIMA, C. SEGRE (a cura di), E.M. Profilo di un autore, Rizzoli, Milano ; gli Atti dei Convegni di Milano e Genova del settembre , La poesia di E.M., Librex, Milano ; P.V. MENGALDO (a cura di), Quaderno montaliano, Liviana, Padova ; gli Atti dei Convegni di Genova (Il secolo di M.: Genova -, Il Mulino, Bologna ) e Siena (M. e il canone poe-

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EPOCA



tico del Novecento, a cura di M.A. GRIGNANI e R. LUPERINI, Laterza, Roma-Bari ) del . Infine, di notevole rilievo i commenti delle prime tre raccolte: gli Ossi di seppia a cura di P. CATALDI e F. D’AMELY negli Oscar Mondadori, ; Le occasioni a cura di D. ISELLA, Einaudi, Torino, ; e, per La bufera e altro, la sola sezione Finisterre, a cura dello stesso, ivi . .. Garzanti ha pubblicato l’edizione delle Opere di Gadda, diretta da D. ISELLA: i Romanzi e racconti, vol. I, a cura di R. RODONDI, G. LUCCHINI, E. MANZOTTI,  (questo volume contiene la Bibliografia degli scritti di C.E.G. curata da D. ISELLA) e vol. II, a cura di G. PINOTTI, D. ISELLA, R. RODONDI, ; i Saggi, giornali, favole e altri scritti, vol. III, a cura di L. ORLANDO, C. MARTIGNONI, D. ISELLA,  e vol. IV a cura di C. VELA, G. GASPARI, G. PINOTTI, F. GAVAZZENI, D. ISELLA, , vol. V, Scritti vari e postumi, a cura di A. SILVESTRI, C. VELA, D. ISELLA, P. ITALIA e G. PINOTTI  (in due tomi: il secondo contiene un utilissimo indice dei nomi e dei luoghi a cura di G. LUCCHINI e L. ORLANDO). Presso Einaudi è apparsa l’edizione critica e commentata della Cognizione del dolore, a cura di E. MANZOTTI, , presso Garzanti quella “restaurata” di Un fulmine sul , a cura di D. ISELLA, . Scheiwiller ha pubblicato nel  Le carte militari di G., a cura di G. UNGARELLI. Negli anni Ottanta sono state pubblicate molte parti dell’epistolario gaddiano: ricordiamo le Lettere agli amici milanesi, a cura di E. SASSI, Il Saggiatore, Milano ; le Lettere a una gentile signora (Lucia Rodocanachi), a cura di G. MARCENARO, prefazione di G. PONTIGGIA, Adelphi, Milano ; L’ingegner fantasia. Lettere a Ugo Betti -, a cura di G. UNGARELLI, Rizzoli, Milano ; A un amico fraterno. Lettere a Bonaventura Tecchi, a cura di M. CARLINO, Garzanti, Milano ; Lettere a Gianfranco Contini, a cura dello stesso CONTINI, Garzanti, Milano  (arricchite da quelle contenute in Carissimo Gianfranco, a cura di G. UNGARELLI, Archinto, Milano ); Le Lettere a Piero (Bigongiari), a cura di S. PRIAMI, Polistampa, Firenze ; Cara Anita, Caro Emilio a cura di F. RONCORONI, Benincasa, Roma . Altri carteggi, inediti e rari, rassegne bibliografiche e altri strumenti sono pubblicate da «I Quaderni dell’ingegnere. Studi e testi gaddiani», diretti da D. ISELLA (ne sono usciti finora due numeri, da Ricciardi, nel  e nel ); strumenti bibliografici e una ricca Pocket Gadda Encyclopedia a piú voci sono invece nella rivista telematica «The Edimburgh Journal of Gadda Studies» diretta da FEDERICA G. PEDRIALI (www.arts.ed.ac.uk/italian/gadda). Per la storia della critica, cfr. G. PATRIZI, La critica e G., Cappelli, Bologna ; per un primo accostamento, A. SERONI, G., CS, ; E. FERRERO, Invito alla lettura di C.E.G., Mursia, Milano . Per la biografia, cfr. G. CATTANEO, Il gran lombardo, Garzanti, Milano ; P. GADDA CONTI, Le confessioni di C.E. G., Pan, Milano ; e soprattutto G.C. ROSCIONI, Il Duca di Sant’Aquila, Mondadori, Milano . Il vero punto di partenza della critica gaddiana è costituito dagli interventi di G. CONTINI, da un saggio del  raccolto in Esercizî di lettura, citato, all’introduzione alla prima edizione della Cognizione del dolore (cfr. ..), raccolta con altri saggi in Varianti e altra linguistica, citato (ma lo stesso Contini ha raccolto i suoi scritti su Gadda nel volume Quarant’anni d’amicizia, Einaudi, Torino ). Si vedano poi i volumi seguenti: G.C. ROSCIONI, La disarmonia prestabilita. Studio su G., Einaudi, Torino  []; G. BALDI, C.E.G., CL, ; E. FLORES, Accessioni gaddiane, Liguori, Napoli ; E. GIOANOLA, L’uomo dei topazi. Saggio psicanalitico su G., Librex, Milano  []; R. RINALDI, La paralisi e lo spostamento. Lettura critica della “Cognizione del dolore”, Bastogi, Livorno ; ID., L’indescrivibile arsenale. Ricerche intorno alle fonti della «Cognizione del dolore», Unicopli, Milano ; M. GRANDE, La meccanica del testo. Tipi narrativi e tipologie testuali, Lerici, Cosenza ; C. BENEDETTI, Una trappola di parole. Lettura del “Pasticciaccio”, Ets, Pisa  []; A. ANDREINI, Studi e testi gaddiani, Sellerio, Palermo ; M. FRATNIK, L’écriture détournée. Essai sur le texte narratif de C.E.G., prefazione di C. OSSOLA, Albert Meynier, Torino ; M. DEBENEDICTIS, La piega nera. Groviglio stilistico ed enigma della femminilità in C.E.G., De Rubeis, Anzio ; S. CASINI, C.E.G. e i re di Francia. Retroscena di un testo radiofonico, Le Lettere, Firenze ; F. AMIGONI, La piú semplice macchina. Lettura freudiana del «Pasticciaccio», Il Mulino, Bologna ; F.P. BOTTI, G. o la filologia dell’Apocalisse, Liguori, Napoli ; W. PEDULLÀ, C.E.G. Il narratore come delinquente, Rizzoli, Milano ; P. ITALIA, Glossario di C.E.G. milanese da «La meccanica» a «L’Adalgisa», Edizioni dell’Orso, Alessandria ; A. PECORARO, G., Laterza, Roma-Bari, ; F. PIERANGELI, C.E.G., L’indagine dolorosa, Studium, Roma ; G. LÈUCADI, Il naso e l’anima, Il Mulino, Bologna ; F. BERTONI, La verità sospetta. G. e l’invenzione della realtà, Einaudi, Torino ; R.S. DOMBROSKI, G. e il barocco, Bollati Boringhieri, Torino ; E. NARDUCCI, La gallina Cicerone. C.E.G. e gli scrittori antichi, Olschki, Firenze ; M. BERSANI, G. (con video), Einaudi, Torino . Un particolare rilievo per la definizione della “modernità” di Gadda e per lo studio dei diversi aspetti dell’opera gaddiana hanno i volumi collettivi curati dal gruppo romano di «Quaderni di critica»: L’alternativa del ’: G., Savelli, Roma ; Gadda: progettualità e scrittura, a cura di M. CARLINO, A. MASTROPASQUA, F. MUZZIOLI, Editori Riuniti, Roma ; ma diverse altre sono le pubblicazioni colletive: Per C.E.G., Atti del convegno di Pavia, novembre , in un numero monografico della rivista «Strumenti critici» (, ); Le lingue di G., Atti del convegno di Basilea, dicembre , a cura di M.A. TERZOLI, Salerno Editrice, Roma ; La coscienza infelice. C.E.G., Atti del convegno di Torino, novembre , a cura di A. ANDREINI e M. GUGLIELMINETTI, Guerini e Associati, Milano ; Nella biblioteca di G.E.G., Atti del convegno di Milano del , a cura di A. SILVESTRI, Scheiwiller, Milano ; La letteratura in scena. G. e il teatro, a cura di A. ANDREINI e R. TESSARI, Bulzoni, Roma ; La biblioteca di Don Gonzalo: il fondo G. alla biblioteca del Burcardo, a cura di A. CORTELLESSA e G. PATRIZI, prefazione di W. PEDULLÀ, ivi .

Indice dei nomi

A Abba, Marta ,  Agamben, Giorgio  Age (pseud. di Agenore Incroci) (t) Aimeri, Luca (t) Alberti, Leon Battista (t) Albertini, Luigi ,  Alceo ,  Aleardi, Aleardo  Aleramo, Sibilla (pseud. di Rina Faccio) (t), (t), ,  Alessandro Magno ,  Alessandrone Perona, Ersilia  Alfieri, Vittorio ,  Alighieri, Dante (t), , , , , , , , , , , , , , (t), , , , , , , ,  Allocatelli Vincenti, Caterina  Almansi, Emanuele  Almansi, Federico ,  Alvar, Manuel (t) Alvaro, Corrado (t), , , , , - Amendola, Giovanni  Amigoni, Ferdinando  Aminta III  Anderson, Sherwood (t), (t) Andreoli, Annamaria , ,  Angioletti, Giovan Battista (t) Antoine, André (t) Antonelli, Luigi  Apollinaire, Guillaume ,  Appia, Adolphe (t) Ariosto, Ludovico ,  Aristotele , ,  Arrighi Cletto (pseud. di Carlo Righetti) , (t),  Artaud, Antonin (t) Ascoli, Graziadio Isaia , - Automi, Annunziata  Avigliano, Elisa  Aymone, Renato 

B Bacchelli, Riccardo (t), ,  Bachtin, Michail (t) Bailo, Luigi  Baioni, Giuliano (t)

Baldacci, Luigi , , (t), ,  Baldini, Antonio , (t), ,  Baldini e Castoldi (editore) (t) Baldissera, Antonio  Baldissone, Giusi  Balzac, Honoré de  Bandini, Fernando  Banfi, Antonio (t),  Banti, Anna (pseud. di Lucia Lopresti Longhi) (t), (t) Barbèra, Gaspero (editore) ,  Bàrberi Squarotti, Giorgio , ,  Bargellini, Piero (t) Barile, Angelo ,  Barilli, Bruno (t), ,  Barnacle, Nora (t) Baseggio, Cesco (t) Basile, Giovan Battista (t) Bataille, Henri  Baudelaire, Charles -(t), , , (t), (t), (t), (t), , , , , , , , , , , , , , , , , , , ,  Bazlen Roberto (detto Bobi) , , ,  Beccaria, Gian Luigi  Bécquer, Gustavo Adolfo (t),  Belli, Giuseppe Gioacchino  Bellonci, Goffredo  Bemporad, Enrico ,  Berardinelli, Alfonso  Bergamini, Adele (Delia) ,  Bergson Henri-Louis , (t), (t), , (t),  Bermond, Adolphe  Bernari, Carlo (pseud. di Carlo Bernard) (t),  Bernhardt, Sarah  Bernini, Gian Lorenzo , ,  Bersezio, Vittorio (t),  Bertelli, Luigi vedi Vamba Bertolazzi, Carlo (t) Bertolucci, Attilio (t) Betocchi, Carlo (t), (t),  Bettarini, Rosanna  Betteloni, Vittorio 

Betti, Ugo  Bettini, Pompeo  Bianchi, Patricia  Bigazzi, Roberto  Bilenchi, Romano (t), (t), , -, , - Binni, Walter (t) Biondi, Marino  Bixio, Nino , ,  Bizet, Georges  Bizzoni, Achille  Blake, William  Bo, Carlo (t), ,  Bobbio, Norberto  Boccaccio, Giovanni ,  Bohr, Niels  Boiardo, Matteo Maria  Boine, Giovanni (t), , , , , , ,  Boito, Arrigo , , , , - Boito, Camillo  Bompiani, Valentino (editore) (t) Bonaparte, Napoleone vedi Napoleone Bonfantini, Mario  Bonfiglioli, Pietro  Bonghi, Ruggero ,  Bonsanti, Alessandro (t), (t), , ,  Bontempelli, Massimo , (t), (t), (t), , -, , , , - Borgese, Giuseppe Antonio , (t), (t), (t), , , -, , , , -, (t), (t),  Borsari, Carlotta  Borsellino, Nino  Bottai, Giuseppe (t), (t), (t), ,  Botticelli, Sandro ,  Bourget, Paul  Bracco, Roberto  Bragaglia, Anton Giulio (t), ,  Brambilla, Teresa  Brancati, Vitaliano , , (t) Brandeis, Irma , ,  Breton, André (t), , , (t), 

INDICE DEI NOMI



Briganti, Dante  Briganti, Gabriele ,  Briganti, Paolo  Brigola (editore) (t) Brod, Max (t) Broglio, Emilio  Browning, Robert  Buonaiuti, Ernesto  Buongiovanni, Francesco  Buzzati, Dino (t), (t), , , - Buzzi, Paolo (t),  Byron, George Gordon, lord 

C Cadorna, Luigi  Cagna, Achille Giovanni  Calandra, Edoardo  Caldwell, Erskine (t) Calogero, Guido  Calvino, Italo (t) Cambon, Glauco  Camerana, Giovanni  Cameroni, Felice , , , (t) Campailla, Sergio  Campana, Dino (t), (t), -, (t), , -, ,  Campanile, Achille (pseud. di Gino Cornabò) (t), ,  Canali, Luca  Cantoni, Alberto  Capitini, Aldo  Capovilla, Guido ,  Caproni, Giorgio 4(t),  Capuana, Luigi , -, (t), , , , , (t), (t), , (t), , , , , ,  Caracalla, Marco Aurelio Antonio  Cardarelli, Vincenzo (pseud. di Nazareno Caldarelli) (t), , , - Carducci, Beatrice  Carducci, Dante (figlio di Giosue) , , ,  Carducci, Dante (fratello di Giosue)  Carducci, Giosue , , , , -, (t), , , , -, , , , , , , , , , , , ,  Carducci, Ildegonda  Carducci, Libertà (detta Tittí)  Carnazzi, Giulio  Carocci, Alberto (t), (t),  Carpi, Umberto ,  Carrà, Carlo (t), (t), ,  Carrara Spinelli, Clara 

Castellani, Giordano (t) Castellazzi di Sordevolo, Dina  Catalano, Gabriele  Cataldi, Pietro  Cattaneo, Carlo , ,  Cattermole Mancini, Eva (pseud. Contessa Lara)  Cavacchioli, Enrico ,  Cavallotti, Felice ,  Cecchi D’Amico, Suso (t) Cecchi Emilio , , (t), (t), (t), , , , (t), (t), - Cˇ echov, Anton Pavlovicˇ , -(t) Cecioni, Adriano (t) Céline, Louis-Férdinand , -(t) Cena, Giovanni  Centovalli, Benedetta  Ceragioli, Fiorenza ,  Cerne, Carlo  Cervi, Gino  Cesare, Gaio Giulio  Ceserani, Remo  Cézanne, Paul (t),  Chamisso, Adalbert von ,  Chiarelli, Luigi  Chiaves, Carlo (t) Ciampoli, Domenico  Cicognani, Bruno (t),  Cino Da Pistoia  Collodi, Carlo (pseud. di Carlo Lorenzini) (t), , -, - Comisso, Giovanni (t), ,  Comte, Auguste (t) Conforti, Maria  Conti, Angelo  Conti, Augusto  Contini, Gianfranco , , , , , , , , , , , ,  Copeau, Jacques (t) Copernico, Niccolò ,  Corazzini, Sergio , -,  Cordelli, Franco (t) Corelli, Arcangelo  Corradini, Enrico  Correggio, Antonio Allegri detto il  Cossa, Pietro  Cousin, Victor  Craig Edward Gordon (t) Crémieux, Benjamin  Crispi, Francesco  Cristofori Piva, Carolina (detta Lina o Lidia) , , , ,  Croce, Benedetto , , , , , , , (t), , , (t), -

, , , , , , , , , -,  Croce, Elena  Cruyllas, Maria Gravina  Curiel, Eugenio (t), 

D D’Amely, Floriana  D’Amico, Alessandro  D´Annunzio, Antonio  D’Annunzio, Gabriele , , , , , , , -, , , , , (t), , , -, , , , , , , , , , (t), (t), , , , , , , , , , , , , , , , ,  D’Annunzio, Renata ,  D’Aubigné, Agrippa  D’Azeglio, Massimo ,  Daguerre, Louis-Jacques  Dall’Ongaro, Francesco ,  Dario III  Darío, Ruben (t) Darwin, Charles (t) De Amicis, Edmondo (t), -,  De Angelis, Milo (t) De Bosis, Adolfo , ,  De Chirico, Giorgio (t), (t), ,  De Filippo, Eduardo (t), (t), (t) De Filippo, Peppino (t) De Frenzi, Giulio (pseud. di Luigi Federzoni)  De Gubernatis, Angelo (t) De Guérin, Maurice  De Libero, Libero (t),  De Maistre, Joseph  De Marchi, Emilio , - De Maria, Luciano ,  De Martino, Ernesto (t) De Pisis, Filippo (pseud. di Luigi Filippo Tibertelli) (t),  De Robertis, Giuseppe (t), (t), , , , ,  De Roberto, Federico , , , -, , -, (t),  De Sanctis, Francesco , , , , , , , , ,  De Viti de Marco, Antonio (t) Debenedetti, Giacomo (t), (t), (t), (t), , , , (t), -,  Debussy, Claude  Degli Uberti, Anna 

INDICE DEI NOMI

Dei, Adele ,  Delaunay, Robert (t) Deledda, Grazia -, -, (t),  Delfini, Antonio (t), , -, - Depaoli, Massimo  Depretis, Agostino  Devoto, Giacomo  Di Benedetto, Arnaldo  Di Gallese, Maria Hardwin  Di Giacomo, Salvatore , -, (t), , , -, , (t) Dickinson, Emily -(t),  Diderot, Denis  Dionisotti, Carlo  Dolci, Luzio  Dolci, Ottaviano  Donatello, Donato de’ Bardi detto il  Donini, Filippo ,  Donizetti, Gaetano (t) Donne, John (t) Dos Passos, John (t), (t) Dossi, Carlo Alberto Pisani -, , -,  Dostoevskij, Fëdor Michajlovicˇ (t), (t), , , , ,  Duchamp, Marcel  Dujardin, Edouard (t) Dumas, Alexander (figlio)  Dumas, Alexandre (padre) , , ,  Dupoix, Jeanne  Durkheim, Emile (t) Duse, Eleonora , , , , , , (t),  Duval, Jeanne 

E Ebani, Nadia  Einaudi, Giulio (t) Einaudi, Luigi (t), , , , ,  Einstein, Albert  El Greco, Domenico Theotokópulos detto  Elena di Montenegro  Eliot, Thomas Stearns , , , -(t), , (t), , ,  Engels, Friedrich  Ensor, James  Esopo 



F Falcetto, Bruno  Faldella, Giovanni  Falqui, Enrico  Fattori, Giovanni (t) Faulkner, William (t), (t) Fechter, Paul (t) Ferrari, Paolo  Ferrari, Severino , , ,  Ferraris, Angiola  Ferrata, Giansiro (t),  Ferravilla, Edoardo (t) Ferroni, Giulio  Feydeau, Georges  Filippo II di Macedonia  Finzi, Gilberto  Fitzgerard, Francis Scott (t) Flaiano, Ennio (t) Flaubert, Gustave -(t), , , , (t), (t), ,  Flora, Francesco (t), ,  Fogazzaro, Antonio , , -, , -,  Fogazzaro, Mariano  Foianesi Giselda  Folgore, Luciano (pseud. di Omero Vecchi) (t),  Ford, Ford Madox  Forti, Marco  Fortini, Franco (pseud. di Franco Lattes)  Fortunato, Giustino (t) Foscolo, Ugo , , , , , , ,  Fourier, Charles  Francesco d’Assisi, san , ,  Francesco II di Borbone  Franchetti, Leopoldo (t),  Franco, Francisco  Freud, Sigmund , (t), (t), (t), , , , , , , , , ,  Frigerio, Jone  Fucini, Renato (pseud. di Neri Tanfucio) ,  Fuga, Ferdinando 

G Gadda, Carlo Emilio (t), (t), , , , -, - Gadda, Clara  Gadda, Enrico ,  Gallimard editore  Gallina, Giacinto (t) Gàrboli, Cesare , 

García Lorca, Federigo (t) Gargiulo, Alfredo , (t),  Garibaldi, Giuseppe , ,  Garin, Eugenio  Garzanti, Livio ,  Gaspari, Gianmarco  Gatto, Alfonso (t), (t), (t), , ,  Gautier, Théophile ,  Gavazzeni, Franco  Gentile, Giovanni , , (t), (t), , , , -, , , ,  Germi, Pietro  Gerratana, Valentino ,  Ghidetti, Enrico , (t), , ,  Ghilardi, Margherita  Giacometti, Paolo  Giacosa, Giuseppe ,  Gianandrea, Antonio  Giannotta Niccolò editore (t), ,  Gibellini, Pietro , ,  Gide, André ,  Gini, Ida ,  Ginzburg, Leone (t) Ginzburg, Natalia (t) Gioanola, Elio  Giolitti, Giovanni , , , , , , , ,  Giordani, Giuseppe (detto il Giordanello)  Giotti, Virgilio (pseud. di Virgilio Schönbeck) (t),  Giovenale Decimo, Giunio  Giuliotti, Domenico (t),  Giusti, Giuseppe  Gnoli, Domenico vedi Orsini, Giulio Gobetti, Piero (t), , , (t), (t), , , , , , , , - Goethe, Wolfgang , , , , , ,  Gogol’, Nikolaj (t) Goldoni, Carlo (t),  Goncourt, Edmond de  Goncourt, fratelli  Gòngora y Argote, Luis de , (t) Govi, Gilberto (t) Govoni, Corrado , , , (t), (t), , - Gozzano, Guido Gustavo (t), , (t), -, -, , (t), , , , 

INDICE DEI NOMI



Graf, Arturo ,  Gramatica, Irma (t) Gramsci, Antonio (t), (t), (t), , (t), -, - Gramsci, Delio  Gravina, Maria  Graziani, Luigi  Greggi, Roberto  Greppi, Paolina ,  Grimm, Jakob (t) Grimm, Wilhelm (t) Gromo, Mario (t) Gualdo, Luigi (t), ,  Guarnieri, Silvio , , , , ,  Guerrazzi, Francesco Domenico  Guerrini, Olindo (pseud. di Lorenzo Stecchetti)  Guglielmetti, Amalia  Guglielmi, Guido , , ,  Guglielminetti, Marziano , 

H Hawthorne, Nathaniel , (t) Hegel, Georg Wilhelm Friedrich , , ,  Heine, Heinrich ,  Hemingway, Ernest (t) Hérelle, Georges  Higginson Wentworth, Thomas (t) Hoffmann, Ernst Theodor Amadeus ,  Hölderlin, Friedrich ,  Hugo, Victor , ,  Husserl, Edmund  Huysmans, Joris-Karl 

I Ibsen, Henrik , -(t) Illica, Luigi  Imbriani, Vittorio  Invrea, Gaspare vedi Zena, Remigio Isella, Dante , , , , , , ,  Isnenghi, Mario ,  Italia, Paola 

J Jacomuzzi, Angelo  Jacomuzzi, Stefano  Jahier, Piero (t), , , -,  James, William (t) Jammes, Francis , , , ,  Jean Paul , 

Jiménez, Juan Ramón (t) Joyce, James , , (t),(t), , , (t), , 

K Kafka, Franz , -(t), , , , ,  Kant, Immanuel 

L La Fontaine, Jean de  Labriola, Antonio 8, ,  Labriola, Arturo  Laforgue, Jules , (t) Lagorio, Gina  Lancastre, Maria José de (t) Landolfi, Idolina  Landolfi, Tommaso (t), , , -, , - Larbaud, Valéry  Lavagetto, Mario , (t),  Leadbeater, Charles Webster  Lehr, Adele ,  Leibniz, Gottfried Wilhelm von  Leighton, Frederick  Leonardo da Vinci , , ,  Leoncavallo, Ruggero  Leone XIII (Vincenzo Gioacchino Pecci) papa ,  Leone, Alfonso  Leone, Enrico  Leonelli, Giuseppe  Leoni, Barbara ,  Leopardi, Giacomo , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , (t), , , ,  Levi, Carlo (t) Lévi-Strauss, Claude (t) Lidia (o Lina) vedi Cristofori Piva, Carolina Linati, Carlo  Lombardo, Niccolò ,  Lombroso, Cesare  Lonardi, Gilberto  Longanesi, Leo (t), (t),  Longfellow, Henry Wadsworth  Longhi, Roberto (t), (t), ,  Lorenzetti, Ambrogio  Lorenzini, Carlo vedi Collodi, Carlo Lorenzini, Niva  Loria, Arturo (t), 

Lotman, Jurij Michalovicˇ (t) Luca evangelista  Lucchesi Palli, Andrea  Luciano di Samosata  Lucini, Gian Pietro -, (t),  Lumière, fratelli  Luperini, Romano , , (t),  Lussu, Emilio  Luti, Giorgio  Luzi, Mario (t), (t)

M Maccari, Mino (t), (t),  Macchia, Giovanni ,  Machado, Antonio -(t) Machiavelli, Niccolò ,  Macrì, Oreste (t), , , ,  Madrignani, Carlo Alberto ,  Maffei, Andrea  Maggi, Carlo Maria  Malaparte, Curzio (pseud. di Kurt Erich Suckert) (t), (t), (t),  Mallarmé, Stéphane , , , ,  Mancini, Giuseppina ,  Manganelli, Giorgio  Mann, Thomas , -(t), ,  Manzini, Gianna (t), (t) Manzoni, Alessandro , , , , , , , , , , , ,  Manzotti, Emilio  Marangoni, Matteo  Marchi, Marco  Margherita di Savoia, regina d’Italia ,  Marin, Biagio (t),  Marinetti, Filippo Tommaso , (t), , (t), (t), , , , , -, , , ,  Marone, Gherardo ,  Martelli, Mario  Martignoni, Clelia ,  Martinetti, Piero (t),  Martini, Fausto Maria (t) Martini, Ferdinando  Martoglio, Nino , (t), (t), ,  Marx, Karl (t), , (t), ,  Marziale, Marco Valerio  Mascagni, Pietro , , , 

INDICE DEI NOMI

Massenet, Jules  Matteo evangelista  Mattioli, Raffaele ,  Maupassant, Guy de  Mazzacurati, Giancarlo , , , , , , , , ,  Mazzini, Giuseppe  Mazzoni, Guido  Melchiori, Giorgio (t) Melville, Herman (t), (t) Menasci, Guido  Mengaldo, Pier Vincenzo , , , , ,  Menicucci, Elvira ,  Merola, Nicola  Metastasio, Pietro ,  Michelet, Jules ,  Michelstaedter, Carlo , -, , -,  Michetti, Francesco Paolo , , , ,  Milanini, Claudio ,  Mimnermo  Miraglia, Giuseppe , ,  Misasi, Nicola  Modena, Anna  Molière, Jean-Baptiste Poquelin, detto  Momigliano, Attilio (t),  Monaci, Ernesto  Mondadori, Arnoldo , (t),  Montale, Eugenio , , , , , (t), , , , , , , , , , (t), -, , , , , , - Monti, Augusto (t) Monti, Vincenzo , ,  Moravia Schmitz, Allegra  Moravia, Alberto (pseud. di Alberto Pincherle) (t),  Moretti, Marino (t), , -, -, (t),  Morino, Maria  Morovich, Enrico (t),  Mosca, Gaetano  Mosco  Murger, Henry (t) Murri, Romolo  Musco, Angelo (t), (t),  Musil, Robert , , -(t) Mussini, Gianni  Mussolini, Benito , , , , , , 



N Napoleone I Bonaparte (t),  Nardi, Piero , ,  Nasshab, Habel  Nava, Giuseppe , ,  Nencioni, Enrico ,  Nesi, Cristina  Niccodemi, Dario  Nicoli, Paola  Nietzsche, Friedrich , , , (t), -(t), , , , , , , , , , , , , (t), , , ,  Nievo, Ippolito , , ,  Nitti, Francesco Saverio  Noferi, Adelia ,  Novalis (pseud. di Frederich Leopold von Hardenberg), (t) Novaro, Angiolo Silvio (t),  Novaro, Mario (t),  Noventa, Giacomo (pseud. di Giacomo Ca’ Zorzi) (t), (t), , 

O Ojetti, Ugo , (t), (t) Omero ,  Onofri, Arturo (t),  Orazio Flacco, Quinto , ,  Orelli, Giorgio  Orfeo  Oriani, Alfredo (t),  Orsini, Giulio (pseud. di Domenico Gnoli)  Orsini, Lanfranco  Ortese, Anna Maria (t) Ossola, Carlo , , , , , ,  Otero, Carolina  Ovidio Nasone, Plubio , 

P Pacini, Filippo  Palagi Tozzi, Emma , (t) Palazzeschi, Aldo , , , (t), , , -, , , , -, ,  Palmieri, Nunzia  Pampaloni, Geno ,  Pancrazi, Pietro (t),  Panzacchi, Enrico  Panzini, Alfredo (t), , (t),  Papini, Giovanni , (t), (t), , , , , , -,  Pareto, Vilfredo (t), 

Parini, Giuseppe , ,  Parise, Goffredo (t) Pascal, Blaise  Pascal, Théophile  Pascarella, Cesare  Pascoli, Giacomo  Pascoli, Giovanni (t), , , -, , (t), , , , , , -, , , , , , , , , ,  Pascoli, Ida  Pascoli, Luigi  Pascoli, Maria (detta Mariú) , ,  Pascoli, Ruggero  Pasolini, Pier Paolo (t), ,  Pater, Walter (t) Pavese, Cesare (t), (t), (t),  Pea, Enrico (t),  Péguy, Charles  Péladan, Joseph  Pelloux, Luigi  Penna, Sandro (t) Perrault, Charles (t) Perrone, Domenica  Pessoa, Fernando , -(t) Petito, Antonio (t) Petrarca, Francesco , , , , , , , , , , , , , , , , , ,  Petrolini, Ettore (t),  Picasso, Lamberto  Piccioni, Leone , ,  Pinotti, Giorgio ,  Pintor, Giaime (t), , (t) Pio IX (Giovanni Mastai Ferretti), papa  Pio X (Giuseppe Melchiorre Sarto), papa (t) Piovene, Guido (t) Pirandello, Luigi , , , , , (t), (t), , , (t), , , , , , -, (t), , , , , , , (t), , (t), -,  Pirandello, Stefano (figlio di Luigi)  Pirandello, Stefano (padre di Luigi)  Pisacane, Carlo  Pitagora ,  Pitoëff, Georges  Pitrè, Giuseppe , ,  Platone , ,  Plauto, Tito Maccio (t)

INDICE DEI NOMI



Plutarco  Pocar, Ervinio (t) Poe, Edgar Allan (t), , , , ,  Polato, Lorenzo  Pompeo, Gneo  Pontani, Filippo Maria  Pontano, Giovanni ,  Porta, Carlo , , ,  Portinari, Folco  Portulano Pirandello, Maria Antonietta  Poulet-Malassis editore (t) Pound, Ezra , (t),  Pozzi, Antonia  Praga, Emilio , , - Praga, Marco  Pratesi, Mario  Prati, Giovanni ,  Pratolini, Vasco (t), (t), (t), ,  Praz, Mario (t), , , , (t),  Prezzolini, Giuseppe , (t), (t), , , (t), , ,  Properzio Sesto  Proust, Marcel , , -(t), , , , , , ,  Puccini, Giacomo , ,  Pugliatti, Salvatore  Pulitzer, Anna detta Gioietta ,  Pusˇkin, Alexandr Sergeevicˇ (t)

Ricci Gramitto Pirandello, Caterina  Ricci, Berto (t), (t),  Righetti, Carlo vedi Arrighi, Cletto Rimbaud, Jean-Arthur -(t), , , , , , ,  Rocca, Andrea  Rocca, Enrico  Roccatagliata Ceccardi, Ceccardo , ,  Rocco, Alfredo  Rocco, Emanuele  Rod, Edouard , , , ,  Rodari, Gianni (t) Rodondi, Raffaella  Roscioni, Giancarlo ,  Rosselli, Carlo (t),  Rosselli, Nello (t),  Rossetti, Dante Gabriel (t) Rossetti, Gabriele (t) Rossi, Cesare (t) Rossi, Ernesto  Rossini, Gioacchino  Rosso di San Secondo, Pier Maria (t), ,  Rovani, Giuseppe  Rudel, Jaufré ,  Rudinì, Alessandra di  Ruggeri, Ruggero (t), (t) Ruskin, John  Russo, Ferdinando  Russo, Luigi , , , , (t), 

Q

S

Quadrelli, Rodolfo  Quarantotti Gambini, Pier Antonio (t),  Quasimodo, Salvatore (t), -, - Quinet, Edgar  Quintiliano, Marco Fabio  Quirini, Giovanni 

Saba, Umberto , (t), , , -, , , (t), ,  Sabatier, Apollonie  Saccenti, Mario ,  Sacchetti, Roberto  Saffo , ,  Salandra, Antonio  Salgari, Emilio  Salvemini, Gaetano (t), (t), (t), , ,  Salvini, Marina  Sanguineti, Edoardo , , , , , ,  Sannazaro, Jacobo  Saramago, José (t) Saroyan, William (t), (t) Saussure, Ferdinand de  Savinio, Alberto (pseud. di Andrea De Chirico) (t), (t), (t), , -, , -

R Racine, Jean  Radetzky, Johann-Joseph-FranzKarl  Raffaello, Sanzio (t) Raimondi, Ezio , , ,  Raja, Anita (t) Rapisardi, Mario ,  Rebay, Luciano ,  Rèbora, Clemente (t), -, , -, ,  Riccardi Carla , 

Savonarola, Girolamo  Sbarbaro, Camillo , (t), , , , -, , ,  Scarfoglio, Edoardo ,  Scarlatti, Alessandro (padre)  Scarpetta, Eduardo (t) Sceab, Moammed , ,  Scheiwiller, Vanni ,  Schmitz, Adolfo  Schmitz, Elio ,  Schmitz, Francesco  Schmitz, Letizia  Schopenhauer, Arthur , , , , ,  Schucht, Julija detta Giulia  Schucht, Tatiana  Scialoja, Toti (t) Sciascia, Leonardo , , , , ,  Scott, Walter (t) Scrivano, Riccardo  Sennuccio del Bene  Serao, Matilde , -, (t) Sereni, Vittorio (t) Serpieri, Alessandro (t) Serra, Ettore 487 Serra, Renato (t), , , , -, ,  Settembrini, Luigi  Shakespeare, William , ,  Shelley, Percy Bysshe ,  Shimoi, Harukichi  Signorini, Telemaco (t) Silone Ignazio (pseud. di Secondo Tranquilli) , , - Simmel, Georg  Simoni, Renato (t) Sinisgalli, Leonardo (t), (t), ,  Slataper, Scipio (t), (t), , , -, ,  Socrate  Soffici, Ardengo (t), (t), , , , , , , , ,  Sofocle  Soldati, Mario (t), (t) Solmi, Sergio (t), (t), ,  Sommaruga, Angelo , ,  Sonnino, Sidney (t), ,  Sonzogno editore  Spagnoletti, Giacinto , , , ,  Spaventa Bertrando  Spaventa Silvio  Spencer, Herbert (t)

INDICE DEI NOMI

Spirito, Ugo  Stanislavskij, Konstantin (t) Stara, Arrigo , (t),  Stecchetti, Lorenzo vedi Guerrini, Olindo Stein, Gertrude (t), (t) Steinbeck, John (t), (t) Stendhal Marie-Henri Beyle detto  Sterne, Lawrence , ,  Stuparich, Giani (t),  Sue, Eugène ,  Svevo, Italo (pseud. di Ettore Schmitz) , (t), , , -, , (t), , , , , , - Swinburne, Algernon Charles  Szondi, Peter (t), 

T Tabucchi, Antonio (t), (t) Tadema, Lawrence Alma  Tadié, Jean Yves, (t) Talli, Virgilio (t) Tanda, Nicola ,  Tanzi, Drusilla  Tarchetti, Iginio Ugo , -,  Tarchiani, Alberto  Targioni Tozzetti, Giovanni  Tarquinio Prisco  Tarsia, Galeazzo di  Tasca, Angelo (t) Tasso, Torquato  Tecchi, Bonaventura (t), ,  Tedesco, Natale ,  Tellini, Gino  Terenzio Afro, Publio  Tessa, Delio (t),  Thom, René  Thovez, Enrico  Tibullo, Albio ,  Tilgher, Adriano  Tinterri, Alessandro  Tiossi, Gina  Tofano, Sergio (t) Togliatti, Palmiro (t) Tolazzi, Carlo 



Tolazzi, Gerti  Tolomei, Claudio (t) Tolstoj, Lev Nikolaevicˇ -(t) Torelli, Achille  Torraca, Francesco  Tosti, Francesco Paolo  Tozzi, Federigo , (t), , -, , , , , - Tozzi, Glauco  Treves editore , , , , , , , , (t), (t) Trilussa (pseud. di Carlo Alberto Salustri) (t),  Tronconi, Cesare  Turati, Filippo ,  Turchetta, Gianni  Turiello, Pasquale (t) Tzara, Tristan (t)

U Umberto I, re d’Italia ,  Ungaretti, Antonietto , ,  Ungaretti, Giuseppe (t), (t), , -, , , , - Uspenskij, Boris Andreevicˇ (t)

V Valentini, Valentina (t) Valera, Paolo ,  Valeri, Diego (t),  Valéry, Paul ,  Valgimigli, Manara  Vallecchi editore  Valli, Donato  Vamba (pseud. di Luigi Bertelli) (t) Van Gogh, Vincent (t) Vecchi, Omero  Vecchietti, Giorgio (t) Vela, Claudio  Velázquez de Silva, Diego  Veneziani, Livia ,  Verdi, Giuseppe , ,  Verdura, Salvatore Paola  Verga, Giovanni , , , , -, , , , , (t), , , , , , , 

Verlaine, Paul (t), , ,  Veruda, Umberto  Viani, Lorenzo (t),  Vieusseux, Giampietro  Vico, Gianbattista ,  Vigolo, Giorgio (t),  Villari, Pasquale (t), ,  Virgilio Publio Marone , , ,  Vittorini, Elio (t), , , , (t), ,  Vittorio Emanuele II ,  Vittorio Emanuele III  Vivanti, Annie  Viviani, Raffaele (t), (t), (t) Volpe, Gioacchino  Vram, Ettore 

W Wagner, Richard , , , (t), , , ,  Weber, Max (t),  Weston, Jessie (t) Whitman, Walt (t), (t) Wilde, Oscar , ,  Wölfler, Carolina detta Lina  Woolf Virginia 

Z Zacconi, Ermete  Zampa, Giorgio  Zampanelli, Angelina  Zanella, Giacomo  Zanichelli editore  Zavattini, Cesare (t), (t), (t),  Zena, Remigio (pseud. di Gaspare Invrea)  Zergol, Giuseppina ,  Zola, Emile , (t), , , , , (t), , , , , ,  Zuccari, Anna (t) Zuccari, Federico  Zucconi, Giselda 

Indice dei termini notevoli

A Accademia dei Lincei  Accademia Reale d’Italia  Allegoria (t) Allitterazione (t) «Ambrosiano» (L’)  Analogia , , -, ,  – Pascoli e l’  – simbolismo europeo e (t) Antropologia , -(t) – culturale (t) – strutturale (t) Archivi di Stato ,  «Archivio glottologico italiano»  Attualismo - Avanguardia (-e) , -, (t) «Avanti!» , 

B «Baretti» (Il) (t), ,  «Bargello» (Il) (t), ,  Bestiari  Bicicletta e letteratura (t) Borghesia , -,  – Artisti e 

C «Campo di Marte» (t), (t),  Canzonetta  «Capitan Fracassa»  Cinema , -,  Classico/Classicismo -,  – Carducci e il - – Pascoli e il , ,  «Colonna»  – Gadda e il  – Pirandello e il  – Svevo e il  Comunismo vedi Marxismo «Contemporaneo» (Il)  «Convito» (Il)  (vedi anche Estetismo) Correlativo oggettivo (t),  «Corriere d’informazione» ,  «Corriere della Sera» , , ,  – De Roberto e il  – Moretti e il  «Corriere di Napoli» (Il)  «Corriere di Roma» (Il)  Crepuscolarismo -, (t) Critica (v. Anche Intellettuali; Stampa) – militante  – Carducci critico - – Pascoli critico - «Critica fascista» (t), 

Critica letteraria , ,  Critica letteraria formalistica (vedi Formalisti russi) «Critica sociale» ,  «Critica» (La) , (t), ,  «Cronaca bizantina» , ,  (vedi anche Estetismo)

D Dadaismo (t) Darwinismo vedi Evoluzionismo Decadentismo/Decadenti (t), ,  (vedi anche Estetismo) Dialettale, Letteratura  – Di Giacomo - – Fucini - Dialettale, Poesia - Dialetto e lingua media nei Malavoglia  «Domus»  Donna (-e) (v. anche Femminismo) – borghese  – lettrici  Doppio , (t)

E Editoria -, -, -(t) (vedi anche Intellettuali; Stampa) – fiorentina  – milanese  – Scapigliatura e  Elzeviro , (t) Enciclopedia italiana (Treccani) ,  – nei Poemi conviviali (Pascoli)  «Energie Nove» (t),  Ermetismo/Ermetico , , ,  «Esame» (L’)  Esistenzialismo  Espressionismo (t), , (t), , , , - – del Dossi  – del Faldella  – del Tozzi  – nei Malavoglia  Estetismo , , , (t) – D’Annunzio e l’ - – Roma e l’  Etnologia (t) Evoluzionismo (o darwinismo) (t), (t),  (vedi anche Modernismo; Positivismo)

F Fanciullino, poetica del (Pascoli) -

«Fanfulla della Domenica» (Il) ,  Femminismo  Ferrovia e letteratura  «Fiera letteraria» (La) (t) «Figaro» (Le)  Flusso di coscienza , (t) Folclore (t) – siciliano , ,  «Folla» (La)  Formalisti russi , (t) Fonografo  Fotografia  «Frontespizio» (Il) (t), (t), , ,  Fumetto  Futurismo (t), (t), -

G «Gazzetta del popolo»  «Gazzettino rosa»  Giacobinismo in Carducci  «Giornale per i bambini»  Giornalismo letterario - (vedi anche Editoria; Stampa) «Giorno» (Il)  «Grido del popolo» (Il) 

H «Hermes» 

I Idealismo  – Croce e l’ ,  Imperialismo - Impersonalità, canone dell’ , , ,  «Indipendente» (L’) ,  Infanzia, letteratura per l’ -(t) – Fiabe di Capuana , (t) – Pinocchio (Collodi) , - Intellettuale-i -, - – impegno politico degli , ,  – meridionali (t) (vedi anche Questione meridionale; Verismo) – non professionista (Svevo)  – potere politico e ,  – Scrittori-giornalisti - «Italia letteraria» (L’) (t), (t) «Italiano» (L’) (t), 

K

Kitsch , (t) – D’Annunzio e il 

INDICE DEI TERMINI NOTEVOLI

L



«Lacerba» (t), (t), , , , ,  «Leonardo»  – americana , (t) – di appendice , ,  – di massa - «Letteratura» (t), , , , ,  Liberalismo conservatore  Liberalsocialismo  Liberty , (t) (vedi anche Estetismo)

«Poesia»  Poetica dell’oggetto ,  «Popolo d’Italia» (Il)  Positivismo , , - (vedi anche Naturalismo; Sociologia) Preraffaelliti , (t) «Primato» (t), (t), , ,  «Primo Tempo» (t),  Psicoanalisi , -(t), , , , , , , -, , , ,  Psicologia -(t) Pubblicità 

M

Q

Macchiaioli , , , (t) – degli intellettuali antifascisti  – degli intellettuali fascisti ,  – futurista ,  Marxismo ,  «Marzocco» (Il)  (vedi anche Estetismo) Materialismo storico  «Mattino» (Il)  Melodramma ,  Metrica barbara (t), ,  Mito (in D’Annunzio) - Modernismo (t), 8, ,  (vedi anche Evoluzionismo; «Rinnovamento» Il) – Fogazzaro e il  «Mondo» (Il)  Monologo interiore , (t)

N Naturalismo , (t), , ,  (vedi anche Verismo) – Fogazzaro e il  – Il Piacere (D’Annunzio) e il  Nazionalismo - «Nazione» (La) (Trieste) ,  «900» (t), (t), ,  «Nuova Antologia» (La) ,  «Nuovo Corriere» (Il) 

O «Officina»  Onomatopea , (t) «Ordine Nuovo» (L’) (t), (t), ,  Orfismo/Orfico , (t)

P «Pan» (t), (t) Parnassianesimo/Parnassiani (t), ,  Pastiche , (t),  «Pègaso» (t), (t) Plurilinguismo 118, -

Questione della lingua - Questione meridionale , (t), 

R Realismo , - (vedi anche Naturalismo; Verismo) – classicistico ,  – e teatro (t) – magico (Bontempelli) ,  Regia/Regista , , (t) «Regno» (Il)  «Riforma letteraria» (La) (t), ,  Riformismo socialista  «Rinnovamento» (Il) (t) (vedi anche Modernismo) «Riviera ligure» (La) (t),  «Rivista letteraria» (La)  Riviste (t), (t), , -(t), , , ,  Riviste di cultura  «Rivoluzione Liberale» (La) (t),  – e decadentismo europeo  – estremistico e Scapigliatura  Romanzo – picaresco e Pinocchio  «Ronda» (La) , (t), , (t), -, , 

S Satira , ,  Scapigliatura -, (t), ,  Sceneggiatura cinematografica , (t) Scrittori-professori  (vedi anche Università) Scrittura automatica , (t) Scuola storica  «Selvaggio» (Il) (t), (t), ,  Semiotica (t) Simbolismo/Simbolisti , (t), , , ,  – D’Annunzio e il  – Lucini e il  – Pascoli e il , 

Simbolo/Simbolico (t) Sindacalismo rivoluzionario  Socialismo ,  (vedi anche «Critica sociale») «Società»  Sociologia , (t) (vedi anche Positivismo) «Solaria» , (t), (t), , , , -, , , , , ,  Stampa -,  (vedi anche Editoria) Stile indiretto libero (t), , (t) (vedi anche Flusso di coscienza) – Verga e lo ,  Storicismo crociano - Storiografia crociana - Stracittà  (vedi anche «») Strapaese  (vedi anche «Selvaggio», Il) Strutturalismo 11(t) Superuomo (t), (t) – D’Annunzio e il  Surrealismo (t), -, (t)

T Teatro – borghese - – Capuana e il  – D’Annunzio e il - – del Novecento , -, ,  – Di Giacomo e il  – dialettale , -(t), ,  – Verga e il  «Torre» (La)  «Tribuna» (La) , 

U Umorismo , , ,  – pirandelliano - «Unità» (L’) (t), (t) «Universale» (L’) (t), (t),  Università , 

V «Valori plastici» (t), (t) Verismo -, (t), ,  (vedi anche Naturalismo) – letteratura dialettale e  – narrativa meridionale e - – narrativa settentrionale e - – narrativa toscana e - Verso libero , (t), , (t), ,  (vedi anche Metrica barbara) – crepuscolari e (t),  – futuristi e (t) «Voce» (La) , , (t), , (t), -, , , , -, , , , , 