I partiti in Italia dal 1945 al 2018 9788815272690, 8815272690

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I partiti in Italia dal 1945 al 2018
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Piero Ignazi

I partiti in Italia dal 1945 al 2018

il Mulino Le vie della civiltà

Dall’inizio della repubblica i partiti sono al centro della vita politica italiana. Alcuni sono tram ontati, altri si sono trasformati, altri sono appena sorti. Come orientarsi? Solo un’analisi dettagliata dei program mi, delle alleanze, del dibattito interno, dell’elettorato, degli iscritti e dirigenti di ciascuna formazione consente di avere una visione docum entata delle vicende della politica italiana. Nel libro viene ricostruito il percorso di tutti i partiti italiani dagli anni quaranta a oggi, dai partiti storici, grandi come la Democrazia cristiana o minuscoli come il Partito repubblicano, ai partiti nuovi come Forza Italia e Lega, o nuovissimi come il Movimento 5 stelle. Di ciascuno viene presentato un ritratto che ne m ette in luce le caratteristiche organizzative e ideologiche, i conflitti interni e i rapporti con la società, con le istituzioni e con le altre formazioni politiche.

Piero Ignazi è professore ordinario di Politica comparata nell’Università di Bologna. È editorialista di «Repubblica». Fra i suoi libri per il Mulino segnaliamo: «Vent’anni dopo. La parabola del berlusconismo» (2014), «I muscoli del partito. Il ruolo dei quadri intermedi nella politica atrofizzata» (con P. Bordandini, 2018) e «Partito e democrazia. Dalla legittimazione dei partiti al loro rifiuto» (in corso di pubblicazione).

€ 25,00 Cover design: Sara Bianchi

ISBN 978-88-15-27269-0

Società editrice il Mulino 9 788815 272690

I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull’insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet:

www.mulino.it

Piero Ignazi

I partiti in Italia dal 1945 al 2018

Società editrice il Mulino

ISBN

978-88-15-27269-0____________________________

Copyright © 2018 by Società editrice il Mulino, Bologna.

Redazione e produzione: Edimill srl - www.edimill.it

Indice

Introduzione

p.

7

PARTE PRIMA: I PARTITI STORICI ESTINTI

I.

Pii. Il grande assente della politica italiana

13

IL

Pri. Il grillo parlante della modernizzazione

21

III.

Psdi. Il sole che non riuscì a splendere

33

IV.

Psi. Il riformismo (schiacciato) tra sudditanza e arroganza

43

PARTE SECONDA: I PARTITI STORICI RESILIENTI

V.

De e postdemocristiani. Il potere che logora

VI.

Msi-An. La nostalgia al binario morto

67 109

VII. Pci-Pds-Ds. Prima e dopo il Muro

137

V ili. Pr. Carisma e diritti civili

169

PARTE TERZA: I PARTITI NUOVI

IX.

LN. Dalla Padania alla nazione

183

X.

FL II partito personale-patrimoniale

XI.

Pd. La grande illusione

p. 213 233

XII. Pdl. L’equivoco della destra moderata

251

XIII. Prc-Sel. L’araba libertario

215

fe n ic e d e l c o m u n iS m o

PARTE QUARTA: L ’ULTIMO ARRIVATO: IL NUOVO PER ECCELLENZA

XIV. M5s. Ecologia, internet, rabbia

297

Conclusioni. Dall’oro, al ferro, all’argilla. Le tre età dei partiti italiani

319

Bibliografia

333

Indice dei partiti

349

Introduzione

Le quattro età dei partiti italiani

I partiti italiani sono stati considerati, a giusto titolo, artefici, custodi e perni della democrazia italiana. Artefici in quanto, a seguito della fuga da Roma del re dopo l’8 settembre e del collasso deir amministrazione civile e militare, prima hanno preso in mano le redini del governo anche in contrapposizione con il governo Badoglio nei primi mesi imponendosi come autorità legittima; poi hanno animato e diretto le attività di resistenza armata contro l’occupazione tedesca e il regime fascista di Salò. Custodi in quanto hanno diretto e gestito la politica italiana garantendo, pur con atteggiamenti a volte contraddittori, il funzionamento delle istituzioni. Perni perché, come negli altri paesi europei, a partire dal dopoguerra, hanno elaborato e promosso le politiche pubbliche nelle istituzioni rappresentative a ogni livello e hanno controllato l’esecutivo nominando personale politico di derivazione partitica, sia nel governo sia nel cosiddetto «sottogoverno». I partiti italiani che si presentano alla ribalta nell’estate del 1943 o nascono ex novo o escono dalla clandestinità dopo gli anni della repressione del regime fascista. Sono strutture piccole e fragili sia per la loro nascita improvvisa come la Democrazia cristiana e, pur con alcune differenze, il Partito d’Azione, sia per la loro estromissione dal territorio nazionale e l’immersione forzata in una dimensione clandestina, come per tutti i partiti prefascisti, dai liberali ai repubblicani, dai socialisti ai comunisti. La rapidità con cui però trovano una sede istituzionale e un ruolo - e quindi una legittimità riconosciuta - porta a un loro immediato consolidamento. Democrazia cristiana (De), Partito comunista (Pei), Partito socialista (Psi), Partito repubblicano (Pri) e Partito liberale (Pii) rimarranno al centro della politica italiana per lunghi decenni. A essi si aggiungeranno gli scissionisti moderati del

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intuì id ii / k ini :

Psi, costituitisi in Partito socialista democratico (Psdi) nel gen­ naio 1947 (anche se all’inizio avrà un’altra dizione ma questa è quella «storica»), e i nostalgici neofascisti del Movimento sociale italiano (Msi) fondato già nel dicembre 1946. Scom­ parirà invece il Partito d’Azione, la formazione più nuova di tutte perché nata durante il regime fascista come espressione dell’opposizione, senza legami con i partiti storici. Questo partito, antifascista per eccellenza, era erede di una formazio­ ne, Giustizia e libertà - promossa e animata soprattutto dai fratelli Rosselli negli anni Trenta, fino al loro assassinio nel 1937 - che aveva prodotto un’originale elaborazione teorica di compenetrazione tra socialismo e liberalismo. Nonostante un suo ruolo primario nella guerra di liberazione tanto da fornire il primo presidente del Consiglio dell’Italia libera, Ferruccio Parri, le urne non lo premiarono per nulla e nel giro di pochi anni si sciolse fornendo però quadri dirigenti di primissima qualità a tutti gli altri partiti (Dei e Pii esclusi). In sostanza, già alle prime elezioni politiche del 1948 il lotto dei sette partiti «storici» è completo, dalla De al Pei, dal Psi al Psdi, dal Pii al Pri, fino al Msi. Gli altri sono dei comprimari che spariranno in breve tempo o, dopo qualche exploit come nel caso dei monarchici, saranno del tutto marginali fino alla loro estinzione. Questi sette partiti rimangono al centro della scena fino alle soglie degli anni Novanta. La stabilità del sistema partitico italiano è senza pari in Europa. Qualche variante interviene: la scomparsa del piccolo Partito nazionale monarchico assorbito dal Msi nel 1972, l’ingresso in parlamento del Partito radicale (Pr) di Marco Pannella nel 1976 (pur con successivi cambi di nome), la presenza di piccole formazioni di estrema sinistra (Manifesto, Pdup, Dp) negli anni Settanta e Ottanta, e infine i Verdi. Poi dal 1994 il sistema partitico entra in una fase del tutto nuova, tanto che si adotterà l’espressione, impropria ma evocativa, di «Seconda Repubblica». I partiti storici af­ fondano e quelli che sopravvivono - De, Pei e Msi e, pur nella loro peculiarità, i radicali - si trasformano più o meno radicalmente. Inoltre, emergono formazioni inedite, in primis Forza Italia (FI), mentre si affermano definitivamente partiti nati qualche anno prima, nel 1991, come Lega Nord (LN) e Partito della rifondazione comunista (Prc, nel testo si utiliz-

LE QUATTRO ETÀ DEI PARTITI ITALIANI

9

zeranno la dizione corrente di «Rifondazione comunista» e la sigla Re), costituitisi il primo come federazione delle varie leghe regionali, il secondo come scissione del Pei al momento della sua trasformazione in Partito democratico della sinistra (Pds). Infine, in occasione delle elezioni del 2008 emergono due attori politici importanti, il Popolo delle libertà (Pdl) e il Partito democratico (Pd), il primo fusione di FI e Alleanza nazionale (An, erede del Msi), il secondo fusione di post co­ munisti e postdemocristiani. Ma la sperimentazione politica italiana non si arresta. Nello stesso periodo prende forma quello che diventerà nell’arco di pochissimo tempo il partito più votato alle elezioni del marzo del 2018, il Movimento 5 stelle (M5s), partito nuovo per ec­ cellenza in termini organizzativi e valoriali. Vi sono quindi quattro categorie di partiti nella storia dell’Italia repubblicana. La prima è quella dei partiti storici virtualmente scomparsi (Psi, Pri, Pii e Psdi). Attori che interpretavano rilevanti tra­ dizioni culturali e ideologiche, importanti nella formazione dei governi nonostante le loro dimensioni medio-piccole, ma che hanno cessato di vivere. Solo il Psi mantiene seppure in termini quasi carbonari e dopo una serie infinita di diaspore e divisioni una minima traccia continua. La seconda è quella dei partiti storici resilienti ma trasfor­ mati, spesso con più mutazioni. Fanno parte di questo gruppo la De, con tutte le sue varie espressioni post-1994, il Pei, la cui evoluzione parte un po’ prima nel 1991, il Msi, passato senza colpo ferire ad An nel 1995, e i piccoli radicali, passati attraverso numerose variazioni di sigle e componenti ma sempre ricondu­ cibili, alla fin fine, al loro leader carismatico, Marco Pannella. La terza è quella dei partiti nuovi nati a partire dagli anni Novanta: preceduti di qualche anno dai Verdi, essi compren­ dono Lega Nord, Rifondazione comunista e, soprattutto, Forza Italia. E, a seguire, due formazioni che si presentano con l’ambizione di semplificare il sistema partitico aggregando, rispettivamente, quanto preesisteva nel centro-destra e nel centro-sinistra: Popolo delle libertà e Partito democratico. La quarta, infine, riguarda il nuovo per eccellenza, il Mo­ vimento 5 stelle, prodotto inedito e originale delle turbolenze del sistema politico italiano, un partito senza radici preesistenti, del tutto innovativo quanto a struttura organizzativa e finalità

IO

INTRODUZIONE

e con una capacità di fascinazione, così come di repulsione, travolgente. Un soggetto in evoluzione di cui è certo impresa temeraria, ma necessaria, fornire una prima radiografia. In questo volume si cercherà di tracciare un profilo sinte­ tico dell’evoluzione di tutti questi partiti mettendone in luce le dinamiche interne, le prospettive ideologiche, le evoluzioni organizzative, gli andamenti elettorali, le scelte strategiche e i rapporti con le altre forze politiche. Non è una storia, perché gli attrezzi del mestiere dello scienziato sociale sono diversi - e per questo molta attenzione è riservata ai dati empirici a dispo­ sizione -, ma la trattazione segue un profilo tendenzialmente cronologico proprio per interpretare il percorso compiuto da questi attori fondamentali della politica italiana fino a oggi. Il lavoro è frutto di un interesse pluridecennale e fondato su un’ampia quanto inevitabilmente imperfetta, letteratura storica, politologica e sociologica sui partiti italiani. Per ren­ dere possibilmente più agevole la fruizione del testo non sono state inserite note o riferimenti bibliografici puntuali. Una bibliografia di orientamento, limitata a libri in lingua italiana, è fornita alla fine del libro. Per le parti fino ai primi anni Duemila sono stati utilizzati alcuni capitoli, rivisti più o meno ampiamente, di I partiti italiani (Il Mulino, 1997) e Partiti politici in Italia (Il Mulino, 2008). Le persone che dovrei ringraziare per avermi aiutato e consigliato in questo pluridecennale lavoro di ricerca sui partiti italiani sono troppe per non rischiare di cadere in qualche dimenticanza. Mi limito a ricor­ dare i due colleghi e amici con i quali ho collaborato alla stesura di altri lavori sul tema e con i quali ho condiviso la passione per lo studio dei partiti, Luciano Bardi e Oreste Massari. A tutti i numerosissimi e non meno preziosi «altri» un sincero grazie.

Farte prima

I partiti storici estinti

Capitolo primo

Pii. Il grande assente della politica italiana

Il partito che si richiama al pensiero liberale, anche a causa della debolezza di questa cultura politica, è sempre stato minoritario sotto il profilo elettorale, ma non per questo irrilevante. Innanzitutto perché incarna la tradizione risorgi­ mentale della costruzione dello stato unitario; e poi perché ha fornito, anche nel secondo dopoguerra, molto più personale politico esperto nella gestione della cosa pubblica, molta più «classe dirigente», rispetto alle sue reali dimensioni. La sua minorità deriva dal ritardo nell’accettare le modalità della lotta politica nell’«epoca delle masse»; in altri termini, nel dotarsi di strutture partitiche adeguate a un contesto ben diverso da quello elitario del suffragio ristretto. Peraltro, il Partito liberale ha giustificato teoricamente questa sua difficoltà/estraneità all’idea dell’organizzazione di partito. Lo stesso Benedetto Croce, primo presidente del Partito liberale italiano (Pii) nel dopoguerra, sosteneva che un vero e proprio partito liberale non avesse senso perché tutti i partiti, in una società liberale e democratica, dovevano ispirarsi all’idea di libertà; e quindi il partito liberale doveva essere una sorta di «pre-partito» con funzioni pedagogiche per tutti gli altri. Questa impostazione ha frenato l’adattamento del partito alla politica competitiva di massa. D ’altro lato, va sottolineato che, proprio perché i liberali rappresentano un’ancora importante della classe dirigente nazionale, trovano buona accoglienza nel Comitato di liberazione nazionale (Cln) fin dal suo atto costitutivo, al quale partecipano attivamente rappresentati da Leone Cattani. Formalmente, il partito viene costituito nel giugno del 1944 a Napoli, nel corso di un convegno di rappresentanti dei liberali dell’Italia liberata. Già in quell’occasione si profi­ lano chiaramente le due anime del partito: da un lato, quella raccolta attorno al classico notabilato meridionale del Sud,

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dall’altro quella più militante, formatasi a contatto con la lotta di liberazione nel Nord. Anche se la prima componente è maggioritaria, come primo segretario del partito viene scelto un giovane avvocato torinese, Manlio Brosio, esponente dei liberali attivi nella Resistenza al Nord; e Croce assume la presidenza. Sia Brosio che Cattani, che lo sostituirà a fine 1945, sono di orientamento moderatamente progressista ma il Partito liberale si connota comunque come il fulcro moderato dei governi pre e post-Liberazione. Si deve infatti in buona misura all’iniziativa liberale (il casus belli è la politica agraria) se il primo governo postbellico guidato da Ferruccio Parri sarà costretto a dimettersi. Il Pii esprime infatti posizioni molto moderate in materia economica e sociale a difesa dell’iniziativa privata, contrappo­ nendosi frontalmente alle sinistre, e posizioni conservatrici sul piano istituzionale; su quest’ultimo aspetto sostiene la necessità della continuità dello stato (in opposizione allo slogan nenniano «tutto il potere al Cln») e si schiera sostanzialmente a favore della monarchia, nonostante una formale dichiarazione di agnosticismo nel referendum tra monarchia e repubblica. L’alleanza con il Partito democratico del lavoro (l’effimera formazione guidata da Tvanoe Bonomi) nelle elezioni della Costituente sotto la sigla dell’Unione democratica nazionale, che peraltro dà scarsi frutti (appena il 6,8%), il rifiuto di partecipare a governi dove siano presenti le sinistre, la difesa di interessi economici e di settori sociali non dinamici, come quelli agrari meridionali, collocano il Pii alla destra dello schieramento politico a fianco dei monarchici. Guidato dal nuovo segretario Lucifero, che ha sconfitto nel IV Congresso (30 novembre-4 dicembre 1947) sia i centristi che la sinistra interna, il Pii si presenta alle elezioni legislative del 1948 con l’etichetta di «Blocco nazionale» accogliendo nelle sue liste qualunquisti e notabili prefascisti vari. Se il risultato del 1946 era stato modesto, quello del 1948 è disastroso: il Blocco nazionale raccoglie solo il 3,8%. Questo magro risultato rac­ chiude una realtà sfaccettata, in linea con le scelte operate dal partito: quasi inesistenza del partito al Nord (1,6%) e discreta tenuta al Sud e nelle Isole (7,3% e 8%). A causa di questo sbilanciamento territoriale il Pii accentua i caratteri moderati perdendo le componenti più moderne, recalcitranti ad accet­ tarlo come partito di notabili meridionali. Dopo l’uscita di

PLI. IL GRANDE ASSENTE DELLA POLITICA ITALIANA

15

Brosio a seguito del dissenso sulla scelta non repubblicana in occasione del referendum anche altri esponenti della sinistra interna come Cattani e Carandini abbandonano il partito inau­ gurando così quella emorragia di energie liberal-progressiste che indebolirà fatalmente il partito. La curvatura verso il mo­ deratismo meridionale si modifica quando il nuovo segretario, eletto dopo il disastro elettorale, Bruno Villabruna, favorisce una riflessione sul ruolo dei liberali nella società moderna. In un importante convegno, organizzato per la prima volta al Nord, a Torino, nel dicembre 1951, al quale partecipa anche il gruppo che ha fondato il settimanale «Il Mondo» (diretto da Mario Pannunzio), si sottolinea l’opportunità di promuovere un «intelligente progressismo liberale». Con questi nuovi accenti, il Pii esce, seppur timidamente, dalle secche in cui i filomonarchici e gli interessi agrari lo avevano incagliato, cucendogli addosso i panni della destra più conservatrice. Infatti poco dopo nega l’appoggio alla cosiddetta operazione Sturzo, la lista clerico-moderata appoggiata dai neofascisti per le elezioni amministrative di Roma del 1952. Ma il passaggio cruciale avviene in due momenti, nel biennio 1953-54. Il primo, in occasione del VI Congresso (23-26 gennaio 1953), si condensa nella corposa relazione economica redatta da Giovanni Malagodi, banchiere inter­ nazionale e dirigente dell’Ocse, appena entrato in politica. Per la prima volta il Pii sembra ricordarsi di avere avuto tra i suoi esponenti più prestigiosi Luigi Einaudi, economista di vaglia internazionale, vicepresidente e ministro del Bilancio nei governi De Gasperi, governatore della Banca d’Italia e, infine, presidente della Repubblica dal 1948 al 1955. In quel congresso risuonano tematiche fino ad allora tenute in om­ bra nel dibattito interno, come l’importanza dello sviluppo economico, della libertà di mercato, deH’imprenditorialità e della concorrenza. In sostanza, il Pii volge lo sguardo agli interessi industriali, e quindi al Nord. E l’elettorato lo segue. Alle elezioni del 1953, anche se complessivamente perde qual­ che cosa, il partito si riequilibra territorialmente: le perdite al Sud sono compensate da un netto aumento nell’area del triangolo industriale (dall’ 1,6 al 3,5%). Il secondo passaggio è contrassegnato dalla conquista della segreteria da parte dello stesso Malagodi. Dimessosi Villabruna per il suo ingresso al governo, nell’aprile 1954 Malagodi diventa

u.

I PARTITI S TORICI ESTINTI

il candidato naturale, per quanto contestato, della nuova po­ litica del partito. La sua ascesa è favorita da un orientamento del ceto imprenditoriale più attento nei confronti dei partiti laici e, in particolare, verso il Pii, una volta affievolitosi il tra­ dizionale sostegno alla De ormai propensa al potenziamento dell’intervento pubblico nell’economia. Questa scelta ha anche i suoi costi. L’assoluta indisponibilità della nuova segreteria ad allacciare rapporti con i socialisti in via di autonomizzazione, lo stretto rapporto con la Confindustria tanto da sollevare l’accusa di averle «affittato» il partito, e la gestione «autoritaria» da parte della segreteria (nello statuto del 1954 si vietano pubbliche manifestazioni di corrente) sono alla radice della più corposa scissione della storia del Pii. Alla fine del VII Congresso, nel dicembre 1955, la corrente di sinistra, raccolta principalmente intorno al settimanale «Il Mondo», esce e fonda il Partito radicale. Da quel momento, la leadership di Malagodi diviene incontestata, tanto da vederlo riconfermato segretario nell’VIII Congresso (29 novembre-l° dicembre 1958) con una maggioranza molto ampia (oltre il 75%). Gli sforzi intrapresi per organizzare in maniera più efficace il partito e i crescenti consensi di settori economici influenti non portano però al miglioramento dei risultati elettorali: anche nel 1958 il partito rimane confinato a un modesto 3,5%. Il ruolo del Pii cambia con l’avvento del centro-sinistra. Per la prima volta, il partito si pone all’opposizione non in maniera strumentale, per mutare gli equilibri interni alla De, ma per proporre un’alternativa liberal-moderata, in contrasto con la De, a fasce consistenti di elettorato. Con l’opposizione al programma di nazionalizzazioni del primo governo di centrosinistra (1962-63), corroborata anche da tattiche ostruzionistiche in parlamento, il Pii si caratterizza come l’opposizione demo­ cratica all’apertura a sinistra. Una connotazione derivante dai decisi dinieghi a ripetute proposte monarchiche e missine per costituire una grande destra. Le credenziali democratiche del Pii sono inappuntabili tanto quanto la sua rocciosa difesa della libera iniziativa, e questo gli consente lo sfondamento elettorale soprattutto nelle zone più sviluppate del paese alle elezioni po­ litiche del 1963. Il raddoppio dei voti a livello nazionale (7%) è frutto del successo ottenuto nel Triangolo industriale (10,3 %) in particolare nelle città sopra i 100 mila abitanti (15,4%).

PLI. IL GRANDE ASSENTE DELLA POLITICA ITALIANA

17

Forte dell’inedito patrimonio di voti, negli anni del centrosinistra il Pii conduce una serrata opposizione ma non ottiene alcun risultato concreto. Malagodi domina il partito ma i dissensi non mancano, soprattutto nella base giovanile che, attraverso le correnti prima di Energie nuove e poi di Presenza liberale, invoca un liberalismo critico sul modello dei liberali tedeschi che si stanno orientando a collaborare con i socialdemocra­ tici. La divaricazione delle posizioni interne al Pii aumenta progressivamente, fino a contenere uno spettro politico che va da arciconservatori alla Edgardo Sogno (ex medaglia d’oro della Resistenza ma poi ispiratore di un «golpe liberale» dai contorni ambigui), a liberal-radicali alla Cesare Pogliano (tra l’altro presidente di Amnesty International e doppia tessera con il Partito radicale). A questa divaricazione interna contribuisce anche lo stato di isolamento in cui si trova il partito, stretto fra un’opposizione senza sconti ai governi di centro-sinistra e l’indisponibilità assoluta a collaborare con la destra nostalgica. Neppure l’improvviso ritorno al governo, dopo le elezioni del 1972 - che pure segnano un regresso per il partito con il 3,9% - pacifica la lotta interna, perché quello che viene considerato un successo dalla maggioranza interna è invece contestatissimo dalla sinistra, che aspira a un mutamento di rotta in senso antidemocristiano e «radicale». In effetti il Pii, dopo la breve parentesi governativa nel governo Andreotti II (1972-73), si ritrova senza strategia: mentre la sinistra interna chiede una politica di raccordo con i partiti laici e i socialisti per la creazione di un terzo polo in opposizione al Pei e alla De, la componente malagodiana continua a porre pregiudiziali antisocialiste, candidandosi quindi a un ruolo di supporto solo alla De. Nemmeno la vittoria nel referendum sul divorzio (1974), su una legge promossa congiuntamente da un socialista (Fortuna) e un liberale (Basiini) e che era stata difesa in un inedito comizio comune di tutti i leader laici - Nenni, Saragat, La Malfa e Malagodi - sospinge la segreteria a un cambio di direzione. E solo con il tracollo alle amministrative del 1973 (2,5%) e con il rischio della scomparsa dalla scena politica alle elezioni anticipate del giugno 1976, che il partito attua quel rinnovamento ai vertici troppo a lungo rimandato: si insedia alla segreteria, nel febbraio 1976, poi confermato nel XV Congresso (7-11 aprile 1976), un giovane esponente della sinistra, Valerio Zanone.

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Il nuovo segretario deve gestire il momento più critico del partito. Le elezioni del 1976 rischiano di cancellare il Pii dal parlamento. Il partito si salva solo grazie al quoziente pieno ottenuto proprio da Zanone nella sua Torino, ma si riduce ad appena 5 deputati. Inoltre, l’accordo tra De e Pei - che sta reificando lo spettro della «repubblica conciliare» prefigurato da Malagodi già nel 1969 - marginalizza le forze intermedie e minori. Per scongiurare il rischio di una totale emarginazione, il Pii accetta di sostenere, astenendosi insieme a tutti gli altri partiti dell’arco costituzionale, il governo monocolore De Andreotti III (1976-78). Invece rifiuta, con una scelta difficile, di votare la fiducia al governo Andreotti IV, il 16 marzo 1978, pur in una circostanza così drammatica - il rapimento Moro - per confermare la propria opposizione all’ingresso strisciante del Pei nell’area governativa. Le difficoltà del Pii trovano un lenimento nelle prime ele­ zioni per il parlamento europeo, nel 1979, quando il partito, appena una settimana dopo le politiche che gli avevano con­ sentito un modestissimo recupero (1,9%: +0,6), raggiunge il 3,6%, dimostrando di poter contare ancora su un serbatoio di consensi sufficiente a garantirgli una tranquilla sopravvivenza. In questa fase, la leadership di Zanone si rafforza: il parti­ to rientra stabilmente, dopo un ventennio, nella maggioranza governativa pentapartitica, grazie alla sua impostazione per un liberalismo critico che ottiene maggiore audience presso gli altri partiti laici con i quali cresce la sintonia. In particolare viene stretta un’intesa inattesa e alquanto solida con il Partito socialista. In realtà questa sintonia non sorprende se si guarda alla collocazione nello spazio politico dei quadri del partito nei primi anni Ottanta: infatti il 55,3% nel 1981 e il 58,2% nel 1984 si posizionano sul versante di sinistra dello spettro politico. Il rientro nel governo e il collegamento con le altre forze laiche consentono al Pii di consolidare la sua presenza parlamen­ tare: nel 1983 avanza ancora raggiungendo il 2,9%. Tuttavia, si tratta di recuperi molto modesti in rapporto alle potenzialità espansive dimostrate dai partiti liberali europei in questo pe­ riodo. Il punto è che il Pii è dissonante rispetto alla diffusione della cultura neoliberale in tutto l’Occidente. Mentre oltralpe il vento antikeynesiano, liberista, antistatalista e, soprattutto, conservatore, conquista posizioni su posizioni, influenzando partiti e governi, in Italia il Pii non può capitalizzare in alcun

PLI. IL GRANDE ASSENTE DELLA POLITICA ITALIANA

19

modo questa tendenza perché si muove controcorrente. In effetti, il Pii si è spostato su posizioni «liberal» proprio quan­ do si afferma una visione aggressivamente conservatrice, à la Hayek, del liberismo. Le leadership succedute alle dimissioni di Zanone nel 1985 (prima Biondi, poi, più lungo, Altissimo) non mettono il partito in sintonia con questo mutamento di sensibilità. Chi interpreta una posizione iperliberista in economia e conservatrice sul terreno sociale come l’economista Antonio Martino, raccoglie meno di un terzo dei consensi al X X Congresso (14-18 dicembre 1988). In sostanza, il Pii si adagia nella partecipazione, senza acuti, ai vari governi pentaparti­ to. Il partito non raccoglie - non può raccogliere - i frutti delle condizioni favorevoli, sia per il suo indirizzo ideologico «liberal», sia per la debolezza intrinseca della sua organizza­ zione. Le roboanti cifre di decine di migliaia di iscritti non corrispondono ad alcuna capacità di mobilitazione. Benché il partito dichiari di avere, nel 1992, il 15% di iscritti studenti, una presenza giovanile liberale non si avverte. In realtà il partito è approdato ad un spazio politico di centro-sinistra già molto affollato mentre rimane sguarnito il fronte moderato presidiato solo dalla De, o meglio da alcune sue correnti. Il piccolo cabotaggio del Pii prosegue senza scosse fino allo scoppio di Tangentopoli quando viene investito pesan­ temente dalle inchieste sulla corruzione. Sono coinvolti sia il segretario Altissimo, che nel 1993 si dimette a favore di Raf­ faele Costa sia, soprattutto, il ministro della Sanità Francesco De Lorenzo accusato di aver ottenuto miliardi (di lire) dalle società farmaceutiche per introdurre nei prontuari farmaci e vaccini. La crisi morale che investe il partito porta alla sua deflagrazione. Al X X II Congresso (5-6 febbraio 1994), il Pii si scioglie formalmente. Incomincia la diaspora. Zanone, già uscito dal partito nel dicembre precedente, dopo lo scioglimento del Pii, dà vita, con Raffaello Morelli, alla Federazione dei liberali, per poi avvicinarsi al Patto Segni, ed infine entrare nella Margherita, seguendo un percorso orientato a sinistra. Il successo maggiore però arride alla componente più moderata che per iniziativa di Costa e Biondi fonda l’Unione di centro ed entra a far parte del Polo delle libertà, riuscendo a eleggere nel 1994 quattro deputati, mentre altri esponenti liberali, come Martino, entrano direttamente in Forza Italia.

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In effetti, al suo primo apparire il partito di Silvio Berlusconi presenta, pur con varie ambiguità, un programma in linea con un’ispirazione liberale (e tra i fondatori ci sono, oltre a Mar­ tino, personalità con un pedigree liberale come il politologo Giuliano Urbani). Il successo berlusconiano travolge ogni possibilità di vita autonoma dei liberali. In seguito, la diaspora dei liberali continua con un’altra componente che «rifonda» il partito sotto l’egida di Stefa­ no De Luca riprendendone il nome (Pii) con un congresso costitutivo nel luglio del 1997. Mentre questa formazione, lungi dal raccogliere tutti i liberali, si colloca nell’ambito del centro-destra, Zanone e la Federazione dei liberali rimangono nel centro-sinistra. In realtà, dopo il 1994 scompare una presenza autonoma dei liberali nel sistema partitico. Pur essendo stata riesumata la sigla del Pii e una embrionale struttura organizzata con tanto di congressi periodici - nel 2017 si tiene il X X X Congresso del Pii, il VII dalla sua «rifondazione» del 1997 - la voce dei liberali è troppo flebile e non è più distinguibile da quella di tanti altri partiti che hanno, strumentalmente o sinceramente, fatto propri molti dei riferimenti culturali del liberalismo, sia nella sua versione «critica» e liberal-radicale, sia in quella moderata. La virtuale scomparsa di un «partito» liberale, spesso sussunto, a livello mediatico, nella narrazione berlusconiana, peraltro molto lontana dal liberalismo in ogni sua versione, attesta la debolezza di questa pur multiforme tradizione nella cultura politica italiana. In un certo senso la storia ha «ven­ dicato» Benedetto Croce quando affermava che non c’era bisogno di un partito liberale in quanto tale, dato che esso andava considerato un «pre-partito», una sorta di palestra di formazione per chi volesse occuparsi seriamente della cosa pubblica. Fino a tempi recentissimi tutti si sono richiamati al liberismo, ma ben pochi ne hanno avuto consapevolezza. E, soprattutto, ancor meno ne hanno espresso i valori. Quel grande partito della borghesia italiana, moderato e moderno, atteso ancor più di Godot, non è mai arrivato.

Capitolo secondo

Pri. Il grillo parlante della modernizzazione

Il Partito repubblicano italiano (Pri) ha incarnato una tra­ dizione specificamente nazionale, quella legata alla formazione della nazione nella sua versione «rivoluzionaria», democratica e repubblicana, simboleggiata dalla figura di Giuseppe Mazzi­ ni. Il Pri affonda quindi le proprie radici nella storia italiana, addirittura nella sua fase preunitaria. Il peso di questa lunga tradizione costituirà una dote, una risorsa identitaria e sim­ bolica fortissima, ma anche un handicap che sarà (abilmente) superato solo negli anni Sessanta del secolo scorso, grazie alle capacità di un grande leader politico con il quale il partito si identificherà a lungo, Ugo La Malfa. Proprio per l’attaccamento alle sue radici, il Pri man­ tiene nel periodo della guerra di liberazione una posizione distaccata e autonoma, rifiutando di entrare nel Comitato di liberazione nazionale (Cln) a causa dell’indeterminatezza sulla questione istituzionale: la scelta per la repubblica non poteva essere messa in secondo piano per il partito. Quindi, pur essendosi immediatamente ricostruito dopo il 25 luglio 1943, grazie soprattutto all’iniziativa di repubblicani storici come Giovanni Conti, il Pri non aderisce al Cln né parteci­ pa ad alcun governo, fino al referendum istituzionale del 2 giugno 1946. La ricostruzione del Pri avviene nel nome degli ideali storici: sul piano economico-sociale si sottolinea ed enfatizza la concezione mazziniana dell’unione tra capitale e lavoro e dello strumento cooperativo, su quello istituzionale si affac­ cia l’ipotesi di un’Italia federale con istituti di democrazia diretta, cara a Carlo Cattaneo. Fino al 1948, sotto la guida di Randolfo Pacciardi, eroe della guerra civile spagnola, la sua collocazione è quella di un partito di sinistra democratica in cui risuonano forti accenti anticapitalisti (al X IX Congresso

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del 17-20 gennaio 1947 vengono chiaramente auspicati «il superamento dell’economia capitalista»), una scelta neutralista in politica internazionale e un atteggiamento di apertura alle sinistre, al punto di fare appello a tutte le forze antifasciste per cooperare armoniosamente alla ricostruzione del paese. La riattivazione del partito si incentra sulle zone dove, già nel periodo prefascista, raccoglieva i maggiori consensi: la Romagna, in primis, poi le Marche, il litorale toscano e l’alto Lazio. In queste aree, il partito è una sorta di partito di massa, non solo per l’alto numero di iscritti ma per la rete di associazioni e di strutture che, nel tempo, ne avevano consolidato la presenza: le cooperative, le case del popolo, le associazioni collaterali, i sindacati. Numeri così grandi e articolazioni organizzative così estese sono però assolutamente isolati: a livello nazionale gli iscritti al partito sono poche decine di migliaia e l’organizzazione è tutt’altro che solida e territorialmente omogenea. Ciononostante, nel pri­ mo congresso postbellico (XVIII), tenutosi a Roma dall’8 al 12 febbraio 1946, il Pri si struttura seguendo il modello del partito di massa. Questa ipotesi di sviluppo organizzativo è sostenuta dai risultati ottenuti nelle prime amministrative della primavera del 1946, e confermati nelle elezioni per la Costituente del giugno successivo perché, a fronte di dati nazionali modesti (5 e 4,4% nelle due elezioni), raggiunge valori elevati nelle Marche (16,4%), in Umbria (11,4%), in Romagna (le province di Forlì e Ravenna sono sopra il 20% ), mentre nel Lazio è addirittura il primo partito di sinistra con il 14,8%. Il regresso alle elezioni del 1948, che lo porta al 2,5% , fa sfumare molte illusioni. Un partito «anticapitalista», neutralista e potenzialmente aperto a sinistra come il Pri dei primi anni della democrazia si converte in breve alla collaborazione con la Democrazia cristiana ed entra nel governo De Gasperi V (1948-50), in coabitazione con liberali e socialdemocratici. Questa scelta, che sarà strategica per tutti gli anni Cinquanta, arresta, e inverte, la propensione verso sinistra: tale brusco mutamento di rotta viene motivato come necessario per salvaguardare le istituzioni democratiche minacciate dalla destra monarchica (e poi neofascista) e dal comuniSmo, interno e internazionale (al punto che il precedente neutralismo viene sostituito con un filoatlantismo a tutta prova). In sostanza, il Pri si «sacri­

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fica» alla collaborazione con liberali e democristiani in nome dell’interesse superiore della nazione. L’ulteriore arretramento alle elezioni del 1953 (1,6%), che riduce il partito ai minimi termini, innesca un ripensamento nella strategia. La difesa delle istituzioni con cui era stata motivata l’adesione alla formula centrista rischia di ridurre il partito a un mero portatore d’acqua per la De, proprio quando la stessa De sta mandando i primi segnali di intesa verso il Psi. La ridefinizione delle coordinate ideali e strategiche del partito porta alla riappropriazione di elementi caratterizzanti e tradizionali, come la connotazione laica dello stato e l’esten­ sione dei diritti civili, e all’adozione di nuove tematiche come l’apertura a un riformismo sociale, sull’esempio del New Deal americano e del laburismo inglese. Sul primo versante, quello laico e libertario, il partito si avvicina al neonato Partito radi­ cale (Pr), composto prevalentemente da una scissione del Pii alla fine del 1955, mentre sul secondo il Pri va all’incontroscontro con il Psi. Per un partito ridotto ai minimi termini, le cui perfor­ mance elettorali sono ulteriormente aggravate dalle elezioni del 1958 (1,4%), dove si presenta unitamente al Pr, e minato da un’accesa conflittualità interna tra Pacciardi e La Malfa, l’obiettivo di rappresentare una proposta laica e riformista autonoma sembra sproporzionato ai mezzi. Tuttavia, il Pri, per quanto minuscolo, dispone di due risorse importanti: la prima è la sua collocazione «strategica» nello schieramento politico, in una posizione di cerniera, di ponte, tra sociali­ sti e democristiani; la seconda, la caratura della leadership repubblicana. Benché il segretario del partito sia dal 1954 Oronzo Reale, il vero leader è Ugo La Malfa. L’autorevolez­ za di La Malfa non è tanto nella sua biografia personale di antifascista - quella di Pacciardi è ancora più ricca - quanto nella modernità e nell’ampiezza della sua visione dello svilup­ po socioeconomico. Quasi in parallelo con il rinnovamento culturale operato da Malagodi sul Pii, anche il Pri, sotto l’impulso di La Malfa, interpreta la società italiana come una società industriale moderna con problemi ed esigenze nuovi. Da questa analisi discendono proposte come la politica dei redditi in concertazione con sindacati e imprenditori, la programmazione economica, l’intervento mirato dello stato in economia, la necessità dell’aggancio all’Europa e, in ter­

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I l'AKTITI STOKICI liSTINTI

mini di referenti sociali, una maggiore attenzione al mondo imprenditoriale e professionale. Avvicinandosi al centro-sinistra, il Pri cambia pelle (anche stilisticamente, dato che è il primo partito italiano ad affidarsi a un art director professionale per la sua comunicazione visi­ va): abbandona i riferimenti classici mazziniani come l’unione nelle stesse mani di capitale e lavoro, benché lo stesso La Malfa non dimenticherà mai di rendervi omaggio, e cerca di presentarsi come una forza di sinistra democratica moderna in sintonia con le esperienze delle socialdemocrazie nordiche. Progressivamente, La Malfa trascina il partito, di cui assume la guida diretta nel 1965, sul terreno del riformismo democratico, sottolineando sempre più la differenza con i liberali, relegati tra le forze conservatrici. L’azione repubblicana in favore del centro-sinistra si coro­ na con il governo Fanfani IV del 1962-63. La partecipazione repubblicana in quel governo è marcata dalla famosa «Nota aggiuntiva» presentata da La Malfa, ministro del Bilancio, con la quale si indicano nella programmazione, nella politica dei redditi e nella piena integrazione nel Mercato comune europeo gli obiettivi di fondo di un governo riformatore. Questo ap­ prodo viene però pagato con la rottura con Pacciardi che, da tempo in contrasto con la linea politica della segreteria, viene espulso nel 1964 per aver votato contro il governo Moro, a cui partecipano anche i repubblicani. Liberatosi dall’ingombrante presenza di Pacciardi, il Pri accentua la sua vocazione di interlocutore di tutta la sinistra, incalzando il Pei e la Cgil sui problemi concreti dello sviluppo socioeconomico. Una provocazione che, al di là di qualche occasionale ed enfatizzato episodio, non produce risultati apprezzabili; tuttavia, caratterizza il partito sempre più come « l’altro polo della sinistra», per seguire lo slogan del Pri in quegl’anni. A queste ambizioni corrisponde anche uno sforzo di ristrutturazione organizzativa, nel segno di un adeguamento sempre più stretto al modello del minipartito di massa: si promuove la costituzione di nuove sezioni, lo sviluppo delle associazioni parallele, l’apertura del partito ai non iscritti, e si attua un profondo rinnovamento dei quadri dirigenti, con l’immissione di una nuova generazione nella direzione nazionale, tanto che, al X X X Congresso (7-10 novembre 1968), entrano

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8 nuovi membri su 20 componenti. Il Pri acquista sempre più l’immagine di partito delle professioni liberali e intellettuali, lasciando sullo sfondo, quasi come elemento folklorico, la sua tradizione risorgimentale. Le varie definizioni che lo dipingono come «minoranza consapevole», «coscienza critica», «grillo parlante», ne sottolineano l’autorevolezza e la competenza, ma allo stesso tempo l’aspetto minoritario. Come già lamentava Oronzo Reale nel 1947, il Pri è una sorta di corpo estraneo nel paese: l’arretratezza della cultura civica italiana, il predominio di visioni «dogmatiche» su quella laica, l’assenza di senso dello stato, sono tutti ostacoli per chi si presenta come un pezzetto d’Europa trapiantato nella penisola. I consensi raccolti tra la classe dirigente, che in gran parte abbandona un Pii ormai ossificato dalla dominazione malagodiana, e una buona stampa - il direttore del «Corriere della Sera», Giovanni Spadolini, diventerà senatore repubblicano nel 1972 - non bastano però a fare da catalizzatori elettorali: per tutti gli anni Sessanta il partito sopravvive solo grazie al serbatoio di voti assicurato dalla Romagna e dalla Sicilia occi­ dentale, che forniscono gli unici quozienti pieni, per eleggere una manciata di deputati e senatori. Solo a partire dagli anni Settanta il partito raggranella qualche decimo di punto in più superando così il rischio dell’estinzione; ma non va oltre. I suoi risultati elettorali continuano a oscillare tra il 2 e il 3%. La vivacità intellettuale e propositiva degli anni Sessanta si smorza nel decennio successivo. Il Pri attraversa i primi anni Settanta senza riuscire a incidere, né sulle scelte complessive, né su aspetti particolari come il deterioramento della finanza pubblica, problema al quale dedica molta premura. In effet­ ti, sembra essersi esaurita sia quella funzione di stimolo allo svecchiamento della cultura massimalistica e marxisteggiante operata nei confronti del Psi, sia il ruolo di collegamento tra sinistra e cattolici. Un ultimo sussulto in questa direzione è fornito dall’avallo che il Pri dà all’incontro tra comunisti e democristiani. Dopo le elezioni del 1976, infatti, La Malfa definisce «ineluttabile» la prospettiva del «compromesso storico». Ma tre anni dopo, nella primavera del 1979, sarà lui stesso a formalizzare la fine dell’esperienza della «solidarietà nazionale», cercando di formare un governo senza l’appoggio del Partito comunista che chiuda definitivamente quella sta­ gione. L’opposizione del Pei all’ingresso dell’Italia nel Sistema

I PARTITI STORICI ESTINTI

monetario europeo (Sme) delude profondamente La Malfa, il quale aveva tanto investito nella trasformazione riformista e «socialdemocratica» del partito di Berlinguer. Il fallimento strategico del Pri, acuito dall’insuccesso dell’incarico a La Malfa per formare un governo - primo non democristiano a ottenere questo mandato -, viene dram­ matizzato dall’improvvisa scomparsa dello stesso leader poco tempo dopo. Per un partito che si era identificato in maniera pressoché assoluta con il suo leader, la perdita è gravissima e fa dubitare della possibilità della sua stessa sopravvivenza. Invece, alle elezioni del 1979 il Pri conserva gli stessi voti. Queste elezioni evidenziano alcuni tratti che andranno ac­ centuandosi negli anni successivi: il peso delle zone di maggior forza (le otto province più repubblicane) tende a diminuire, il voto del Triangolo industriale supera quello della zona me­ ridionale, e il partito raccoglie praticamente la metà dei suoi voti (49,8%) nelle aree urbane (sopra i 50 mila abitanti). Dopo una fase di transizione il vuoto lasciato da La Malfa viene occupato da una personalità del calibro di Giovanni Spadolini che insieme a Bruno Visentini, altra figura di spicco del partito, rappresentano credibilmente il partito presso quei ceti imprenditoriali, professionali e della cultura ai quali da anni il partito fa riferimento. Le prospettive dei repubblicani mutano improvvisamente e positivamente quando Spadolini forma, nel giugno del 1981, il primo governo a guida non de­ mocristiana della repubblica. E un momento storico che segna l’inizio della lunga e lenta crisi della De, costretta a cedere la poltrona di Palazzo Chigi a un altro rappresentante. Ed è un momento storico anche per il Pri che si trova catapultato al vertice del potere esecutivo. Il partito passa dal rischio dell’e­ stinzione, a seguito della morte del suo grande leader, al più grande e imprevedibile successo politico. Nei diciotto mesi del governo Spadolini, che inaugura la formula del «pentapartito» (dai socialisti ai liberali), il Pri riesce a capitalizzare una quota di consensi che ritroverà nelle urne alle elezioni del 1983: in quell’occasione raggiunge infatti il suo massimo storico (5,1%), raddoppiando i consensi nel Triangolo industriale e arrivando al 7% nelle città sopra i 100 mila abitanti. Per la prima volta il partito distanzia tanto il Psdi quanto il Pii. Il successo fa balenare alla leadership repubblicana la pro­ spettiva di rappresentare un polo di attrazione per quell’elet-

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torato «centrale» che ha abbandonato massicciamente la De in quelle elezioni. Come afferma Spadolini nel consiglio nazionale del 9-10 settembre 1983, «La fase del Pri “coscienza critica’’ del sistema [...] è terminata. Oggi il nuovo peso elettorale, il nuovo disegno strategico, il nuovo rapporto tra forze laiche e forze cattoliche [...] ci attribuiscono una funzione più ampia, di guida politica e non più soltanto di coscienza critica». In effetti, il Pri da tempo non enfatizza più, come nei decenni precedenti, la sua collocazione a sinistra ma preferisce glissare su questo aspetto e sottolineare piuttosto le sue caratteristiche di competenza, serietà, affidabilità e onestà. In altre parole, il Pri si candida a essere «il partito leader della democrazia laica italiana». Il Pri punta a giocare in proprio un ruolo centrale, non più a fare da cerniera o da «grillo parlante». Il tentativo è corroborato da un notevole irrobustimento organizzativo (le sezioni raddoppiano rispetto a vent’anni prima - da 987 a 1.981 - e gli iscritti raggiungono quasi quota 100 mila) e da un forte rinnovamento nei quadri dirigenti (entrano in dire­ zione 16 nuovi membri su 47). Il proposito spadoliniano di rappresentare i «ceti emergenti» stride tuttavia con l’accentuata meridionalizzazione della forza organizzata del partito: il 60% degli iscritti e il 50% delle sezioni sono infatti nelle regioni del Sud. Inoltre, mentre nel 1964, prima della scissione di Pacciardi, il 33% degli iscritti era emiliano-romagnolo, nel 1983 il loro peso è passato al 13,5%, a fronte di un 23,5% di iscritti siciliani. L’ambizione, mai carente tra i repubblicani, è costretta però a fare i conti con la concorrenza inedita del Psi. L’ascesa di Bettino Craxi e la sua lunga permanenza alla presidenza del Consiglio, dal 1983 al 1987, e la contemporanea rivitalizzazione democristiana sotto la guida di Ciriaco De Mita, sottraggono al Pri quel ruolo di possibile referente centrale dello schieramento politico per fasce più ampie di elettorato. I tentativi per smar­ carsi dalla tenaglia socialista e democristiana non sortiscono effetti, anzi, in alcune occasioni, si rivelano controproducenti, come nel caso del contrasto fra la posizione filoamericana di Spadolini, ministro degli Esteri, e quella «nazionale» di Craxi nella crisi di Sigonella, dove si scontrarono marines americani e forze armate italiane. Schiacciato tra Psi e De il partito perde consensi alle elezioni del 1987 (-1,4 punti percentuali). I sogni

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di gloria svaniscono. A nulla è servita l’espansione organizzativa che l’aveva portato ad avere 121 mila iscritti e 2.450 sezioni. Il ridimensionamento delle ambizioni repubblicane spin­ ge il Pri, guidato dalla nuova segreteria di Giorgio La Malfa (figlio di Ugo), eletto nel settembre 1987, a manifestare una sempre maggiore insoddisfazione nei confronti della politica dei governi «pentapartito». Dopo aver dichiarato che, «per l’ultima volta», il partito sarebbe entrato in un governo (Andreotti VI, luglio 1989) il cui programma non indicava come priorità assoluta il rigore finanziario, nel 1991 il Pri passa all’opposizione. Un ruolo che sembra più congeniale alla leadership lamalfiana, la quale cavalca molti e disparati temi per raccogliere una protesta che monta: dall’opposizione al provvedimento di sanatoria degli immigrati clandestini, con la quale il Pri vuole contendere spazio alla Lega lombarda, al sostegno ai referendum elettorali di Mario Segni in polemica con la De; dalla proposta di un’alleanza democratica con altri gruppi ed esponenti politici (di cui l’elezione a sindaco di Catania del giovane repubblicano Enzo Bianco con una lista molto eterogenea rappresenta il maggior successo), alla critica moraleggiante dell’invadenza dei partiti. Questo profilo più battagliero non serve però a rilanciare in maniera decisiva il partito. Il leggero incremento (+0,7 punti) alle elezioni del 1992 è molto inferiore alle aspettative. Tuttavia, il X XXV III Congresso (11-14 novembre 1992) conferma la linea dell’opposizione al governo e della riforma del sistema politico, appoggiando i progetti di modifica costituzionale e favorendo la costituzione di una nuova formazione di «allean­ za democratica». A dispetto dell’opposizione di due leader storici come Spadolini e Visentini, questa linea vince con più dell’80% dei consensi e permette a La Malfa di promuovere una nuova leva di dirigenti, attraverso un fortissimo ricambio nella dirigenza nazionale. In sostanza, il Pri cerca di connotarsi sempre più come un partito «antipartito», estraneo al sistema di corruzione e di de­ grado morale: un’operazione che potrebbe essere fruttuosa alla vigilia del crollo del sistema, se il partito non avesse la zavorra gigantesca di essere (ed essere percepito come) espressione della classe dirigente, protagonista e quindi corresponsabile dell’azione governativa a livello nazionale e locale e, infine, abbondantemente compartecipe della pratica di lottizzazione.

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Se a tutto ciò si aggiunge lo sfregio di immagine causato dal coinvolgimento, prima di esponenti di spicco del partito di Milano nell’inchiesta Mani pulite, poi alla comunicazione giudi­ ziaria per finanziamenti illeciti allo stesso segretario nazionale, la speranza di giocare un ruolo anche nella trasformazione del sistema svanisce. Le dimissioni di La Malfa nel febbraio del 1993 producono uno sbandamento profondo nel partito, con una conseguente emorragia di iscritti. La nuova segreteria, assunta prò tempore da Giorgio Bogi, porta a compimento il progetto di presentarsi alle elezioni politiche del 1994 nelle file di Alleanza democratica, un’aggregazione di varie com­ ponenti laiche, parte dello schieramento progressista. Ma La Malfa, riassunta la segreteria nel gennaio del 1994, propone un improvviso mutamento di alleanze schierandosi a favore della confluenza nel Patto Segni. Questa decisione, approvata con soli sei voti di scarto, ha effetti dirompenti e spacca in due il partito: l’ex segretario Bogi, un padre nobile come Visentini, e altri dirigenti storici mantengono la posizione favorevole ad Alleanza democratica e, per questo, vengono dichiarati decaduti dal partito. Ad acuire la crisi del partito rimasto nelle mani di La Malfa arriva l’insuccesso clamoroso del Patto Segni (un eletto), mentre sono quattro gli esponenti repubblicani entrati in parlamento nella lista di Alleanza democratica. Né miglior sorte arride alla lista del Pri lamalfiano alle europee del giugno del 1994, dove raccoglie appena lo 0,7%. Infine, la sconfitta per un solo voto di Giovanni Spadolini (nel frattempo nominato senatore a vita) nell’elezione a presi­ dente del Senato chiude emblematicamente un ciclo storico. Il Pri di Giorgio La Malfa, che aveva tentato di intercettare gli umori protestatari che montavano nell’opinione pubblica, è rimasto travolto da quella stessa ondata che chiedeva novità ben più radicali e credibili. Era un esercizio di alto equilibrismo proporsi come interprete di una protesta antiestablishment quando il partito era connotato come espressione dell’establish­ ment a tutto tondo. In più, le sue commistioni nel sistema tangentizio hanno abbattuto il capitale di credibilità che il Pri aveva cercato di costruirsi nel tempo. Se nemmeno negli eredi di Ugo La Malfa si poteva aver fiducia, allora la borghesia delle professioni e delle imprese non aveva più ragioni per sostenere un piccolo ma virtuoso partito. Tanto valeva passare armi e bagagli a Forza Italia.

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Dopo il terremoto di Tangentopoli il microcosmo ufficiale del Pri, mantenuto in vita da La Malfa, alle elezioni del 1996 si orienta a favore della coalizione di centro-sinistra e si pre­ senta in una lista comune insieme al Partito popolare (Ppi), a sostegno del candidato premier Romano Prodi. In quella lista elegge due suoi candidati, mentre altri ex repubblicani vengono confermati nelle liste del Pds. L’acconciarsi all’interno dell’Ulivo non soddisfa La Malfa. Dopo aver espresso a più riprese - rinverdendo un’antica tra­ dizione - la propria insoddisfazione per l’attività del governo dell’Ulivo (anche sull’Europa e sull’ingresso nell’euro il leader repubblicano si esprime criticamente), a fine legislatura, nel 2001, annuncia il cambio di coalizione. Nel congresso convocato per sancire questo passaggio emergono però voci critiche che portano alla fuoriuscita di alcuni esponenti, tra cui Luciana Sbarbati, favorevoli al mantenimento dell’alleanza a sinistra. Il Movimento dei repubblicani europei della Sbarbati troverà poi accoglienza nell’Unione per Prodi. La rottura non pregiudica le sorti del partito. Il Pri lamalfiano trova finalmente un riconoscimento con l’ingresso dello stesso leader al dicastero degli Affari europei in occasione del rimpasto del Berlusconi III nel 2005. Ma è un canto del cigno. Pur rientrato in parlamento nel 2006 e nel 2008 con Forza Italia prima e con il Pdl poi, il Pri scompare dai radar della politica. La Malfa, unico eletto nel 2008, abbandona Berlusconi in occasione del voto di fiducia del dicembre del 2010 sancendo una volta di più l’irrequietezza di un leader mai a proprio agio con le altre forze politiche. Per quanto la sigla Pri sussista e si sia addirittura ripresen­ tata autonomamente, dopo più di vent’anni, alle elezioni del 2018, senza alcun successo, la sua storia è da tempo conclusa. Come gli altri partiti laici anche il Pri è stato affondato dalla tempesta di Mani pulite e dall’emergere impetuoso di nuove forze politiche, in particolare Forza Italia, che hanno svuotato il suo serbatoio elettorale. Il partito risorgimentale per eccellenza tramonta defini­ tivamente. Nemmeno la caratura intellettuale e l’intelligenza politica di una grande personalità come Ugo La Malfa sono riuscite a insediare stabilmente nell’arena politica un’offerta politica di sinistra moderata, riformista e laica aperta ai ceti produttivi e alla classe intellettuale. Forse la società italiana

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non era ricettiva, oppure il messaggio era troppo elitario. O, ancora, altri attori politici a sinistra (Psi prima, postcomunisti poi) e a destra (Forza Italia) gli hanno tolto spazio politico finendo per mantenerlo in una posizione minoritaria. E infine gli eventi del 1994 lo hanno travolto.

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Capitolo terzo

Psdi. Il sole che non riuscì a splendere

Le vicende del Partito socialista democratico italiano (Psdi) sono state a lungo strettamente legate a una persona, Giusep­ pe Saragat. Giovanissimo esponente del socialismo riformista prefascista, emigrò in Francia, dove divenne uno dei dirigenti più attivi del movimento socialista e partecipò alla redazione della Carta di Tolone del 1930, che riunificava le varie anime del socialismo italiano. Membro della prima direzione del Partito socialista alla sua ricostituzione nel 1943, arrestato con Sandro Pertini nel 1944 e rocambolescamente liberato, anima una corrente, attorno alla rivista «Critica sociale», ispirata alla tradizione riformista e alle esperienze delle socialdemocrazie europee. Il suo antagonismo con Pietro Nenni, di lui poco più anziano, costituisce la chiave interpretativa delle vicende del socialismo italiano dei primi decenni della vita repubblicana. Saragat è il protagonista della rottura con il Psi a difesa dell’autonomia socialista e in opposizione a ogni prospettiva di stretto accordo, se non addirittura di fusione, con il Pei. Nonostante egli stesso avesse accettato, nell’ottobre del 1946, il rinnovo del patto di unità d’azione con il Pei, le pressioni della sinistra interna del Psi per realizzare un più stretto rapporto con i comunisti lo convincono della necessità di una rottura. La sua impostazione politico-culturale è troppo dissonante dai fusionisti e la sua concezione umanistica del marxismo, che rivendica l’indissolubilità del nesso democrazia-socialismo, non può coesistere con un’alleanza strategica con il Partito comunista. La scissione è consentita dalla confluenza sullo stesso obiettivo - l’autonomia dal Pei - di due correnti molto diver­ se nei loro riferimenti teorici e nelle loro prospettive: quella libertaria-trotzkista di Iniziativa socialista, animata principal­ mente dal gruppo di giovani romani che avevano tessuto le fila

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dell’organizzazione socialista in una fase ancora clandestina, e quella dei riformisti classici di Critica sociale, tra cui lo stesso Saragat. Al XXV Congresso del Psi (9-13 gennaio 1947), la componente di Iniziativa socialista non partecipa nemmeno ai lavori, mentre Saragat ufficializza la scissione della sua corrente con un durissimo intervento. Gli scissionisti si riuniscono a Palazzo Barberini, l’i l gennaio, dove viene fondato il Partito socialista dei lavoratori italiani (Psli), riprendendo un’antica sigla del Partito socialista. La scissione socialdemocratica è un’operazione di vertice, in quanto aderiscono ben 52 parlamentari su 115, ma anche di giovani, essendo la maggioranza della Federazione giovanile inquadrata nelle file di Iniziativa socialista; soprattutto, è la scissione di una tradizione, quella riformista, rappresentata da personaggi-simbolo come Giuseppe Modigliani, primo presidente del partito, Claudio Treves, Francesco Zanardi, Ludovico D ’Aragona, Ugo Guido Mondolfo. Manca però al neonato partito una base di massa: appena un decimo degli iscritti socialisti segue gli scissionisti, e la presa sulla classe operaia e contadina si rivela talmente ridotta che al I Con­ gresso della Cgil (1947) gli iscritti che si riconoscono nel Psli sono appena il 2%. I primi mesi di vita del Psli sono incerti quanto a strategia e finalità, e pertanto tumultuosi. Dapprima, il partito rifiuta l’invito di De Gasperi a entrare nel governo una volta usciti dalla coalizione i partiti di sinistra, sia per l’opzione neutra­ lista in politica estera che il partito ancora persegue, sia per il timore di non avere la forza di caratterizzare il governo in senso «progressista»; poi accetta di partecipare al primo governo quadripartito centrista (con De, Pri e Pii) alla fine del 1947, avendo constatato la sua impossibilità a sfondare tra le file socialiste. La partecipazione al governo, per quanto tormentata, diventa una scelta strategica, al di fuori della quale c’è il rischio della marginalizzazione. Ma questa scelta non è indolore: la componente giovanile di Iniziativa socialista si stacca infatti dal partito. Sebbene la figura di Saragat sia dominante all’interno del Psli, il partito non è mai controllato interamente dal leader, anzi, resta a lungo profondamente diviso. Il rapporto con le sinistre e l’atteggiamento sulle questioni di politica internazio­ nale rimangono nodi irrisolti. Sull’ultimo aspetto il Psli adotta

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una posizione dalle forti tinte neutraliste. Anche se condanna fermamente il colpo di stato di Praga del 1948 (a differenza dell’atteggiamento ambiguo del Psi), e viene così riconosciuto come referente italiano dell’Internazionale socialista, il Psli mantiene un atteggiamento tiepido sulla Nato. Infatti, nel II Congresso (23-26 gennaio 1949) la linea filoamericana di Saragat è in minoranza e nel dibattito parlamentare sulla Nato, nel 1949, quasi un terzo dei deputati socialdemocratici vota contro, mentre una decina si astiene. Il partito è attraversato da tante e tali tensioni sia in merito alla politica estera sia alle politiche del governo al quale partecipa che nell’arco di tre anni, dal 1949 al 1952, si consumano una serie di scissioni (la più rilevante è quella guidata dallo scrittore Ignazio Silone e da Mario Zagari che fondano il Psu) e di ricomposizioni che portano il partito a celebrare ben cinque congressi. Con il VII Congresso (3-6 gennaio 1952) la diaspora socialdemocratica si ricompone, e viene adottato il nuovo nome di Partito socialista democratico italiano (Psdi). Questa situazione interna convulsa, che alterna tentativi di recupero con il Psi a impennate antisocialiste, rende difficile il consolidarsi del consenso elettorale. Alle elezioni del 1953 il Psdi scende dal 7,1% del 1948 al 4,5%, una sconfitta stig­ matizzata da Saragat con la celebre espressione «un destino cinico e baro». Questo regresso porta i socialdemocratici al ripensamento della loro collocazione governativa, e a un più deciso riavvicinamento al Psi. Del resto, il Psdi, anche per i legami che lo vincolano all’Internazionale socialista, continua a parlare, alla stregua dei suoi partner europei, di «superamento del sistema capitalista», seppur con mezzi democratici, ed esercita una pressione all’interno del governo, per una politica sociale secondo la classica formula «case, scuole e ospedali». In sostanza, il Psdi continua a sentirsi parte del mondo socialista, nella sua versione riformista, ma non riesce a caratterizzarsi pienamente come tale agli occhi dell’opinione pubblica, schiac­ ciato com’è, da un lato, da un Psi forte, che detiene ancora il marchio di autenticità del socialismo italiano e, dall’altro, dalla partecipazione a governi connotati dal moderatismo democristiano, il che intacca l’immagine riformista del partito. La ripresa del dialogo tra i due partiti socialisti rimane sullo sfondo della politica socialdemocratica, ma viene costan­

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temente rallentata da Saragat, consapevole che in una nuova formazione socialista, dati i rapporti di forza, egli giocherebbe un ruolo minore rispetto a Nenni. Le resistenze saragattiane cedono solo di fronte all’apertura a sinistra della De. Il Psdi non può certo tirarsi indietro, con il rischio di rimanerne estromesso. L’apertura porta vantaggi sia elettorali (+1,5 punti alle politiche del 1963) sia di potere, aumentando la capacità coalizionale del Psdi nelle giunte locali e, soprattutto, fa­ cendo convergere sul nome di Saragat un ampio arco, laico e di sinistra, per la sua candidatura alla presidenza della Repubblica, prima nel 1962, quando viene sconfitto dal democristiano Antonio Segni, poi, nel 1964, quando risulta eletto anche con l’appoggio della De. Il passo successivo è, inevitabilmente, quello dell’unificazione socialista, resa più agevole dalla forzata assenza dalla futura formazione dei due dioscuri del socialismo italiano, l’uno, Nenni, vicepresidente del Consiglio, l’altro, Saragat, presidente della Repubblica. Alcuni dirigenti più giovani, meno impregnati di rancori e incomprensioni decennali, come Francesco De Martino e Giacomo Mancini per il Psi, e Mauro Ferri e Mario Tanassi per il Psdi, conducono in porto l’unificazione, celebrata dal congresso unitario dei delegati dei due partiti il 30 ottobre 1966. L’unificazione, che ha come obiettivo la creazione di una sinistra non classista, più composita socialmente e net­ tamente differenziata dai comunisti, dovrebbe consentire alla tradizione riformista e autonomista storicamente incarnata dai socialdemocratici di giocare un ruolo determinante. In realtà, il Psdi, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, ha iniziato a perdere sempre più rapidamente la connotazione di partito socialista seppure in versione riformista: la scomparsa degli «storici» quadri e dirigenti riformisti, il deperimento della base operaia nella Uil, la sempre maggiore identificazione del partito con il governo, hanno portato a una mutazione profonda del partito indirizzato a rappresentare più che altro una borghesia medio-piccola di intonazione moderata, non molto coinvolta dalle diatribe sul socialismo. Gli organismi unitari creati con l’unificazione attribuiscono un numero pari di posti ai due partiti anche se il Psi è eletto­ ralmente ma, soprattutto, organizzativamente, ben più grande del Psdi: i socialdemocratici vantano solo circa un quarto degli

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iscritti e un terzo degli elettori sul totale del partito unificato. Alla verifica dei veri rapporti di forza tra le componenti, nel XXXVIII Congresso del 1968 (23-28 ottobre; nel periodo dell’unificazione si segue la numerazione congressuale del Psi), la corrente degli ex socialdemocratici si ritrova con appena il 17,3% dei consensi. Questo sbilanciamento innesca una di­ namica dirompente. Il casus belli è fornito dal ribaltarsi degli equilibri interni, quando la maggioranza, formata dall’alleanza tra autonomisti nenniani e saragattiani, viene messa in crisi da un gruppo di autonomisti che, guidati da Mancini, abbandona Nenni e si allea con la sinistra di De Martino. Ancora una volta, Saragat, che dal Quirinale continua a determinare le scelte del partito, rompe l’unità e promuove una nuova scissione. Contribuiscono alla separazione, consumata nel luglio del 1969, la mancata armonizzazione politica delle due componenti, la sconfitta elettorale del 1968 (benché i deputati di marca Psdi siano ancora 33 come nella precedente legislatura), lo spirito di conservazione dell’apparato socialdemocratico di fronte al rischio di una sua crescente marginalità nel nuovo partito. La rottura non avviene su base ideologica, ma piuttosto con una sorta di riappropriazione, in esclusiva, di alcuni spazi fino ad allora condivisi, forzosamente, con i cugini socialisti. I socialdemocratici usciti dal Psi danno vita nel luglio del 1969 al Partito socialista unitario (Psu) con Ferri, ex Psi, come segretario. Il nuovo partito (che riprenderà l’antico nome di Psdi nel 1971) sembra tornare ai fasti elettorali del passato, conquistando il 7% alle amministrative del 1970. L’elettorato, però, è molto diverso da quello degli anni Quaranta e Cin­ quanta: il partito ha perso il suo, pur ridotto, radicamento operaio (anche per il passaggio di buona parte della Uil al Psi), e raccoglie piuttosto il consenso di ceti medi moderati, grazie alla sua netta contrapposizione alle sinistre. Questo successo è di breve periodo. L’atteggiamento for­ temente antisocialista e conservatore lo allontana a tal punto dall’ambito della sinistra moderata da farlo diventare una sorta di costola democristiana. E quindi, invece di entrare in com­ petizione con il Psi per conquistare l’elettorato riformista - un terreno di competizione possibile - si ritrova schiacciato sul lato moderato dove la De ha ben più solide spalle dei socialdemocratici. Le difficoltà del partito sono ulteriormente acuite dal coinvolgimento del nuovo segretario del partito, Tanassi,

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nello scandalo delle tangenti Lockheed (1975): una bufera che costringe lo stesso Saragat ad assumere, seppure brevemente, la segreteria dato che al XVII Congresso (11-15 marzo 1976) si erano manifestati segni di disgregazione interna. Le elezioni di quello stesso anno confermano lo stato confusionale del Psdi, che tocca il minimo storico del 3,4%. Dopo essersi illusi di poter giocare un ruolo trainante nei confronti della De, prevalentemente in funzione antisocialista, i socialdemocratici sono obbligati dal disastro elettorale del 1976 a ripensare la loro strategia. Per evitare la completa marginalizzazione, la nuova segreteria di Pier Luigi Romita adotta un atteggiamento più accomodante verso il Psi. In questa marcia indietro, il Psdi cerca di accreditarsi di nuovo, come agli albori del centro-sinistra, nel ruolo di partito cerniera tra sinistra e De, non osteggiando nemmeno ravvicinamento del Pei all’area governativa. Questa strategia inserisce una dose di «sinistrismo» nella politica del partito giudicata eccessiva da Saragat, che interviene direttamente per sconfessarla e in­ sediare alla segreteria un suo uomo di fiducia, Pietro Longo, ex assistente di Nenni. Questo passaggio di consegne consente una certa stabili­ tà interna: Longo si rivela abile nello sfruttare la nuova fase politica che si è aperta nel Psi con il consolidamento della leadership craxiana. La forte polemica anticomunista e la plausibilità di una riedizione del centro-sinistra da parte del Psi trovano una sponda accogliente nel Psdi al punto di ar­ rivare, nel 1980, a un patto di consultazione tra i due partiti. Questo rapporto privilegiato è sostenuto anche dalla grande maggioranza dei delegati del XVIII Congresso (16-20 gennaio 1980) che considera il Psi come il partito di gran lunga più vicino al Psdi rispetto a tutti gli altri; non solo, quasi tutti i delegati si considerano «di sinistra». La scelta filosocialista è la più adeguata per far uscire il partito dalla marginalità in cui il trend elettorale negativo lo sta trascinando. D ’altro lato, però, c’è anche il problema del mantenimento di un’identità propria: il rafforzamento socialista è infatti tale che il Psdi rischia di divenire una mera corrente esterna del Psi. Lo scandalo in cui si trova coinvolto Longo (appartenenza alla loggia massonica coperta P2) e l’inaspettato tonfo elettorale alle europee del 1984 (3,5%, laddove solitamente il partito recuperava qualche punto percentuale rispetto alle politiche),

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spingono a un ulteriore cambio di dirigenza con conseguente aggiustamento di linea politica. Nel 1985 la segreteria passa a Franco Nicolazzi, il quale si muove con più spregiudicatezza nei confronti del Psi per riguadagnare visibilità. Tuttavia, lo sbilanciamento a sinistra inaugurato dalle precedenti segreterie non viene ribaltato tanto che il Psdi arriva a proporsi per un’alternativa di sini­ stra, a presentare liste unite al Senato con Psi e radicali alle elezioni politiche del 1987 e ad accettare esponenti radicali nelle sue liste alle europee del 1989. Tutti questi tentativi sono ispirati anche a una logica di sopravvivenza perché rimane irrisolto il problema strategico del Psdi: che senso ha un partito socialdemocratico quando tutto il suo spazio tradizionale è ormai occupato dal Psi? Ancora una volta, l’unico ancoraggio possibile è fornito dalla collocazione all’interno dell’area governativa grazie alla quale retribuire una pur piccola clientela. A questa risorsa rimane aggrappa­ ta quella componente del partito rappresentata da Antonio Cariglia - eletto segretario nel 1988 al posto di Nicolazzi, travolto anch’egli, dopo Tanassi e Longo, da uno scandalo finanziario - che non vuole andare alla confluenza con il Psi. Cariglia vanta nel X X II Congresso (9-13 marzo 1989) l’irrealistica cifra di 200 mila iscritti, ma dispone comunque della corposa realtà di circa 1.500 assessori nei comuni so­ pra i 5 mila abitanti e di 168 sindaci. E tuttavia il canto del cigno: da un lato, il partito viene abbandonato da un gruppo guidato da Longo e Romita, che confluisce nel Psi; dall’altro, tocca il fondo nelle regionali del 1990 con il 2,8% . Anche le risorse «materiali» si esauriscono. Nell’arco di pochi mesi, il Psdi, come i suoi partner laici, scende lungo la china dell’irrilevanza. Resiste ancora nel 1992, quando ottiene il 2,7% e partecipa al governo Amato, ma poi viene travolto dagli scandali di Tangentopoli che non rispar­ miano nemmeno il giovane neosegretario Carlo Vizzini. Alle elezioni locali dei mesi successivi il partito precipita. Riesce appena a far sentire la sua voce in parlamento sostenendo il governo Ciampi, ma non basta. Poi, con l’introduzione del sistema elettorale maggioritario, dovendo scegliere tra i due schieramenti in vista delle elezioni del 1994, il partito si divide (ancora una volta): la sua componente ufficiale, guidata dal nuovo segretario Gian Franco Schietroma, si schiera con l’Al­

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leanza dei progressisti e ottiene un seggio, quella di minoranza fonda il Movimento di rinascita socialdemocratica e aderisce al Polo delle libertà. L’ultimo, effimero, segno di vita viene dalle elezioni europee del 1994 dove il Psdi si presenta con il proprio simbolo e, pur raccogliendo solo lo 0,7%, riesce a eleggere il segretario, Enrico Ferri. La stessa divisione del 1994 viene riproposta alle elezioni del 1996, con la differenza che la componente che aderisce al centro-destra riesce a far eleggere due parlamentari, contro uno del Psdi ufficiale (Schietroma, eletto segretario al XXIV Congresso, 28-29 gennaio 1995) nella coalizione dell’Ulivo. Il Psdi, privo ormai di seguito elettorale proprio, decide infine di sciogliersi e confluire, nel 1998, in uno dei tronconi in cui si è spezzettato il vecchio Psi, i Socialisti democratici italiani (Sdi) di Enrico Boselli. Il ritorno nel 2004 a una for­ mazione autonoma recuperando la vecchia sigla e convocando un congresso, il XXV (9-11 gennaio 2004), in continuità con il passato, rimanda più alla nostalgia che alla politica. Anche se il segretario del resuscitato Psdi troverà posto in parlamento nelle file dell’Unione, questa componente storica della politica italiana è giunta, già da tempo peraltro, a fine corsa. La tradizione storica del «riformismo», incarnata dal Psdi alla sua fondazione, si affievolisce presto a causa di un’aspra contrapposizione con la sinistra e con lo stesso Psi, e di una lunga coabitazione governativa con i partiti centristi senza interventi che ne caratterizzassero la presenza. Questa ten­ denza, appianata alla vigilia e durante la breve unificazione con il Psi, si è poi acuita come contraccolpo dell’ulteriore scissione dalla formazione unitaria del socialismo. Il partito che nasce da questa ulteriore rottura, nel 1969, ha tratti di­ versi dal Psdi preunificazione. Il rancore antisocialista, unito alla perdita quasi completa di quell’ancoraggio sindacale rappresentato dalla Uil, spinge il Psdi a sposare posizioni sempre più conservatrici e a rivolgersi a un elettorato indi­ stinto di ceto medio moderato fino a diventare assimilabile a un partito conservatore. La rivendicazione della tradizione riformista da parte del Psi craxiano e l’aggressività di questi nella spartizione delle spoglie hanno progressivamente tolto spazio vitale al Psdi che ha perso il suo (piccolo) capitale elettorale nell’attesa di una nuova riunificazione rimandata ad infinitum. Fino al momento in cui è troppo tardi.

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Il partito ha preferito agire come corrente esterna della De e non come ala riformista del socialismo e quindi la sua ragion d’essere svanisce nel momento in cui il Psi rompe con il mondo comunista e inizia il suo percorso di autonomizzazione. Inoltre, dominato da una figura ingombrante e sempre incombente, anche nei suoi anni di presidenza, come quella di Saragat, non può resistere alla scomparsa del leader.

Capitolo quarto

Psi. Il riformismo (schiacciato) tra sudditanza e arroganza

La storia del Partito socialista italiano (Psi) è una storia di occasioni non colte, di appuntamenti mancati, di treni persi, culminata con un disastro irreparabile. A essere impietosi potrebbe essere addirittura una storia la cui catarsi esige la decapitazione della sua classe dirigente, la condanna penale del leader incontrastato degli ultimi vent’anni della sua fase finale, il fallimento finanziario, la girandola dei segretari, fino alla sua disintegrazione in una miriade di schegge poi faticosamente ricomposta in una formazione di dimensioni appena visibili. Quando nell’agosto del 1943, subito dopo la caduta del fascismo, si tiene la prima riunione pubblica e ufficiale del partito, sono rintracciabili tre tronconi: quello storico legato ai fuoriusciti, il Movimento di unità popolare formatosi nel Nord con epicentro a Milano, e il gruppo romano dei giovani che avevano ripreso a tessere le fila dell’organizzazione. In quella riunione vengono nominati i nuovi organismi dirigenti, con Pietro Nenni segretario, e il partito assume il nome di Partito socialista di unità proletaria (Psiup) in omaggio alle richieste delle nuove componenti che vogliono marcare una cesura rispetto al passato. Il nome, comunque, riflette anche il programma: l’obiettivo fondamentale, al di là della liberazione del paese, è puntato sulla realizzazione del partito unico della classe ope­ raia. Il che significa che il rapporto con il Partito comunista influisce in maniera decisiva sulle scelte politico-strategiche, e sugli assetti interni, del Psiup fin dai suoi primi passi. E in­ comberà sempre sul partito: un rapporto complesso, intricato, spesso rispondente più a meccanismi psicologici che politici di odio-amore, schiavo-padrone, padre-figlio, maestro-allievo. Gli anni della Resistenza e del primissimo dopoguerra evidenziano una contrapposizione tra la linea «fusionista»,

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incarnata principalmente da Lelio Basso, favorevole a una completa amalgamazione con il Pei, e quella più gelosa dell’autonomia socialista rappresentata dalla vecchia guardia, con Pietro Nenni in testa. In una prima fase, le occasioni di conflitto con il Pei prevalgono sulle ragioni delPaccordo. Lo scontro più eclatante si manifesta nell’aprile del 1944 con la cosiddetta «Svolta di Salerno», quando il segretario comunista Paimiro Togliatti propone di accantonare la questione istitu­ zionale vanificando cosi l’offensiva antimonarchica di socialisti e azionisti. Le frizioni tra i due partiti valgono a rinvigorire le posizioni autonomiste all’interno del Psiup che lancia ri­ petuti segnali di apertura verso la De tanto che, nell’ottobre del 1945, il Comitato centrale auspica una «franca intesa e collaborazione con la De». Il Psiup ambisce a giocare un ruolo centrale nel nuovo sistema partitico - e per questo si muove quindi su più fronti - puntando sul prestigio dei suoi leader, primo fra tutti Nenni, sul peso della tradizione, sulla sua presenza nel movimento cooperativo e nel sindacato e sui primi, confortanti esiti elettorali nelle amministrative (24,1% contro il 25% del Pei), poi migliorati alle elezioni per la Co­ stituente (20,7% contro il 18,9% del Pei). Questo possibile incontro con la De naufraga però sullo scoglio della laicità dello stato e in particolare sull’art. 7 della Costituzione che riconosce il Concordato tra stato e chiesa. In questa occasione il Partito socialista rimane schiacciato dall’accordo tra De e Pei «sopra la sua testa»; mentre i socialisti si fanno alfieri di una scuola e di un diritto di famiglia più laici, andando allo scontro con la De, il Pei lancia u’inattesa ciambella di salvataggio al partito di De Gasperi votando a favore dell’art. 7. Il Partito socialista rimane spiazzato dal suo supposto «alleato» comunista. E così sarà nel futuro. L’illusione di poter giocare un ruolo di leadership nella politica italiana crolla con la scissione delle correnti di Iniziativa socialista e di Critica sociale che nel gennaio 1947, in occasione del XXV Congresso (9-13 gennaio), abbandonano il partito e danno vita al Partito socialista dei lavoratori italiani (Psli). A causa della scissione il Partito socialista, che riprende l’antico nome di Psi, perde ben 52 parlamentari su 115, la maggioranza della Federazione giovanile socialista e, soprattutto, alcuni dei personaggi-simbolo della tradizione riformista come Giuseppe Modigliani, Ludovico D ’Aragona e Ugo Guido Mondolfo. La

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perdita della componente riformista proietta sul Psi Pimmagine del «vecchio» partito massimalista e rivoluzionario. La conflittualità con i socialdemocratici e lo sbilanciamento a sinistra della mappa del potere interno (dove Basso sostituisce Nenni) sospingono il Psi verso l’abbraccio soffocante con il Pei. Lo sbocco naturale di questa scelta è la presentazione di liste comuni con i comunisti alle elezioni del 18 aprile 1948 sotto l’etichetta del Fronte popolare. Per il partito è un sui­ cidio politico. Non tanto per le liste comuni con il Pei, scelta dettata anche dalla paura del confronto con i socialdemocratici, quanto per le implicazioni di questa opzione, che vedono il Psi appiattito sulla linea del Pei in politica internazionale, dove aderisce ciecamente alla logica di potenza dell’Urss al punto di non condannare il colpo di stato comunista a Praga nel febbraio del 1948 (rompendo così con il socialismo eu­ ropeo), e sull’organizzazione, con la creazione di organismi di massa unitari con il Pei. In tal modo il Psi perde d’un colpo i suoi referenti autonomi internazionali, il laburismo e la socialdemocrazia scandinava, e regala alla più efficiente e motivata organizzazione comunista la dote della tradizione cooperativistica e sindacale. I risultati delle elezioni del 1948 sono disastrosi. I candidati socialisti raccolgono meno della metà delle preferenze di quelli comunisti al punto che i deputati socialisti sono appena 42 sui 183 complessivi del Fronte popolare. La disfatta elettorale impone una battuta di arresto ai più accaniti sostenitori della fusione con il Pei. Il congresso straordinario convocato nell’e­ state del 1948 (27 giugno-10 luglio) estromette dalla segretaria Basso sostituendolo con un candidato espresso da una nuova corrente «centrista», Alberto Jacometti, affiancato dall’ex azio­ nista Riccardo Lombardi quale vicesegretario. L’alleanza con il Pei viene sottoposta a un vaglio critico ma, allo stesso tempo, non si trovano altre sponde: i rapporti con i socialdemocratici rimangono freddi e ostili, e con la De il discorso si è chiuso il 18 aprile. In altri termini, il Psi si è infilato in un cul-de-sac in fondo al quale c’è solo l’intesa con il Pei. La consapevolezza della situazione di minorità in cui il partito si trova di fronte al Pei non riesce a farsi strada, tant’è vero che l’esperimento centrista del duo Jacometti-Lombardi dura poco più di un anno. Riemerge la componente di sinistra, favorevole a una «politica di classe» orientata esclusivamente

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verso il Pei. Tuttavia, per ragioni di immagine e di equilibri interni la segreteria è affidata alle mani del leader più presti­ gioso del partito, e cioè Nenni. La sua lunga segreteria (1949-62) si consoliderà negli anni Cinquanta grazie all’intesa, a volte elettrica, con Rodolfo Morandi, a lungo vicesegretario e responsabile dell’organizza­ zione. Morandi è l’artefice della ricostruzione organizzativa del partito dopo lo sfascio degli anni 1947-48. Pur criticando la concezione del partito dei comunisti, Morandi ne ripropone il modello organizzativo sotto altre vesti, proprio per rinvigorire uno specifico socialista appannato dalle politiche fusionistiche e unitarie. I risultati della gestione Morandi sono brillanti. Le sezio­ ni passano dalle 5.936 del 1950 alle 7.385 del 1954, i nuclei aziendali socialisti (strutture di mobilitazione all’interno delle fabbriche) da 720 a 1.412, i «collettori» (militanti a tempo pieno) da 2.530 a 7.704. Gli iscritti, secondo i dati ufficiali, oscillano tra i 500 e i 650 mila. Nel 1950 il 50% degli iscritti proviene dal Nord, il 20% dal Centro, il 20% dal Mezzogiorno e il 10% dalle Isole. Coerentemente con questa distribuzione geografica, la componente principale è quella operaia mentre molto più scarsa di un tempo è l’adesione dei contadini. La geografia del voto socialista riflette quella degli iscritti. Alle elezioni del 1946 per la Costituente, ricalcando quasi i risultati delle ultime elezioni prima del fascismo nel 1919 e nel 1921, il Psi raccoglie i maggiori consensi nelle regioni in­ dustriali del Nord, dove oscilla tra il 20 e il 30% con punte del 31,6% in Friuli e del 30,5% in Lombardia, mentre nel Centro-Sud riesce a malapena a oltrepassare la soglia del 10%. A eccezione della Liguria, il Psi è davanti al Pei in tutto il Nord mentre nelle regioni agricole centrali, la cosiddetta «Zona rossa» (Emilia-Romagna, Toscana, Marche e Umbria), è il Pei a sopravanzare il Psi. In sostanza, il Partito socialista recupera quasi tutto il suo insediamento tradizionale prefascista confermandosi forte dove era forte, e debole dove era debole (a eccezione dell’Emilia-Romagna, dove cede molti consensi ai comunisti). Mentre le elezioni del 1948 affrontate congiuntamente con il Pei nel Fronte popolare impediscono di fare un calcolo preciso del rapporto di forza tra i due partiti, quelle del 1953 chiariscono un quadro che non si modificherà per quasi un trentennio. Il

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Psi si mantiene ben saldo nel Triangolo industriale (Piemonte, Lombardia e Liguria) e conserva d’un soffio (ma per poco) il primato in Lombardia, ma perde disastrosamente il confronto con il Pei nelle regioni della Zona rossa e, soprattutto, nel Sud. Da un lato, il Psdi erode quella base elettorale, concentrata nel Nord, di «aristocrazia operaia» e di ceto medio urbano sensibile alle sirene del socialismo riformista, e, dall’altro, il Pei fa il pieno dei voti operai e soprattutto contadini nella Zona rossa e nel Mezzogiorno. Il ridimensionamento del Psi non è quindi dovuto tanto all’abbandono dell’elettorato operaio nella zona industriale quanto all’incapacità di conservare (nella Zona rossa) o di guadagnare (nel Sud) il consenso nelle campagne. In sostanza, il Psi è, negli anni Cinquanta, un partito a forte concentrazione operaia, ben insediato nelle aree più sviluppate del paese, tanto che, se si sommano i suoi voti con quelli dei transfughi del Psdi, i «socialisti» sono ancora nettamente il primo partito in tutto il Nord, Emilia esclusa. Il rafforzamento organizzativo e il buon risultato alle elezioni del 1953 rilanciano l’autonomia del partito. Pur tra contraddizioni e incertezze - si pensi al peana di Nenni in onore di Stalin alla morte del dittatore sovietico (1953), alla presidenza dello stesso Nenni dei (filosovietici) Comitati per la pace, o alla promozione dell’accordo tra i partiti «socialisti di sinistra» europei in contrapposizione allTnternazionale sociali­ sta - il Psi cerca di recuperare una sua tradizione distinta. In questo tentativo rivendica anche l’eredità del filone democra­ tico-risorgimentale e prefascista, difendendo una visione laica della società e dello stato e il valore delle libertà «borghesi». Rimane però ancora immerso nella tradizione marxista tanto che le libertà borghesi sono considerate soltanto un passo per arrivare all’instaurazione di una vera democrazia, che sarà tale solo grazie all’uguaglianza sociale. E quindi la democrazia parlamentare, più che un bene in sé, è un mezzo per edificare la società socialista. Il Psi si affanna alla ricerca di una sua autonoma posizione politico-ideologica ma rimane in una terra indefinita: da un lato, il Psdi ha buon gioco a sottolineare queste reticenze e contraddizioni ideologiche, dall’altro, il Pei utilizza ogni arma di ricatto ideologico-psicologico per tenerlo legato alla mitologia dell’unità di classe, della rivoluzione socialista e deH’anti-imperialismo (ovviamente guidato dalla patria del socialismo, e cioè l’Urss).

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11 passaggio definitivo del Psi nel suo faticoso processo di autonomizzazione dal Pei avviene grazie a una diversa configu­ razione dei vincoli internazionali. Già dal 1953 il Psi si era posto in maniera meno manichea il problema dell’accettazione della Nato e, dopo un’iniziale ostilità alla Comunità europea di difesa (Ced, il progetto di esercito comune europeo), all’awicinarsi della scadenza per l’ingresso dell’Italia nel Mercato europeo comune (Mec), si era dimostrato sempre più possibilista; ma è con il 1956 che tutto cambia. Il X X Congresso del Pcus, la denuncia dei crimini di Stalin da parte di Chruscèv e l’invasione dell’esercito sovietico contro gli insorti in Ungheria forniscono al Psi l’occasione per marcare nettamente e senza equivoci la sua estraneità rispetto a quel mondo. Le durissime prese di posizione di Nenni, simboleg­ giate tra l’altro dalla restituzione del premio Stalin da parte del segretario socialista che destina i relativi 15 milioni ai martiri ungheresi, facilitano una ripresa di dialogo con i cattolici. Il nuovo corso della De di Fanfani aveva già consentito al Psi di riproporre qualche intesa, tanto che Nenni aveva scritto che «l’incontro (dei democristiani) con noi è scritto nelle cose». Ma questo incontro necessiterà di tempi lunghi. L’approccio con i socialdemocratici, invece, timidamente avviato già da qualche tempo, subisce una netta accelerazione. L’incontro tra Nenni e Saragat a Pralognan, nell’estate del 1956, si conclude con un celebre abbraccio, foriero di sviluppi immi­ nenti. In realtà, all’interno del partito permangono resistenze al taglio del cordone ombelicale con il movimento comunista interno e internazionale. La fronda interna si coagula nella cosiddetta «corrente dei carristi», cioè di coloro che non vo­ gliono una denuncia troppo esplicita dell’intervento sovietico in Ungheria per paura di rompere l’unità di classe con il Pei, proprio quando questo partito vive la sua prima, profonda crisi che sfocia nelle dimissioni di un nutrito gruppo di intellettuali e di quadri che, in buona parte, aderiscono al Psi. Quando i fatti del 1956 e il buon risultato delle ammini­ strative di quello stesso anno sembrano porre le premesse per il passaggio del Psi nell’area di governo e la ricomposizione della frattura socialdemocratica, Nenni non ha più al suo fianco il più prezioso alleato di questa strategia, Rodolfo Morandi, morto l’anno precedente. Gli effetti si vedono nel X X X II Congresso (6-10 febbraio 1957) svoltosi a Venezia, che avrebbe dovuto

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consacrare la svolta autonomista e l'apertura alla De (tra l’al­ tro, il congresso è significativamente accolto da un caloroso messaggio del patriarca di Venezia, cardinale Roncalli, futuro papa Giovanni XXIII); benché vengano approvate risoluzioni innovative - inscindibilità del nesso democrazia-socialismo, democrazia come fine e non come mezzo, abbandono di ogni legame con il mondo del socialismo reale -, la conclusione del congresso è ambigua. Il leader che identifica questa linea, Nenni, non viene plebiscitato ma, al contrario, ottiene meno preferenze di altri leader nell’elezione al Comitato centrale. Anche se viene riconfermato alla segreteria, è un leader dimez­ zato, a legittimità ridotta. Questa débàcle riporta in alto mare tutti i progetti coltivati negli anni immediatamente precedenti: si rompe il patto di consultazione con i socialdemocratici, soprattutto per la diffidenza di Saragat, si isterilisce il dialogo con i cattolici, stenta quello con repubblicani e radicali. Lo slancio per arrivare al sospirato incontro con i cattolici potrebbe essere fornito dalle elezioni del 1958, che danno il miglior risultato in assoluto del Psi fino ad allora, 14,2%. Ma non basta. E di nuovo il contesto internazionale a dare il via libera alla strategia di integrazione socialista nel sistema: l’ele­ zione del democratico John Kennedy alla presidenza degli Stati Uniti e il pontificato di papa Roncalli con i loro messaggi di distensione facilitano indirettamente la marcia di avvicinamento alla «stanza dei bottoni». Semmai, sono proprio all’interno dello stesso Psi le zavorre più ingombranti. La sorda ostilità della sinistra socialista all’ipotesi di un governo con i «nemici di classe», rinfocolata abilmente da un’attività ai fianchi (o, meglio, per file interne) del Pei, indebolisce l’azione della se­ greteria socialista. Inoltre, nella stessa maggioranza, al XXXIV Congresso (16-18 marzo 1961), emerge la posizione particolare di un esponente della maggioranza, Riccardo Lombardi, fautore di un enigmatico «riformismo rivoluzionario». Nonostante tutto il Partito socialista compie il grande passo e consente con il suo appoggio esterno la nascita del IV go­ verno Fanfani (21 febbraio 1962). In contropartita ottiene dal nuovo esecutivo la nazionalizzazione delle industrie elettriche, il cosiddetto «Piano verde» per l’agricoltura, la riforma della scuola media, l’attuazione delle regioni e la programmazione economica: il più ambizioso programma riformista mai realiz­ zato fino ad allora. Anche se queste non sono quelle riforme

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di struttura per scardinare il sistema capitalista invocate da Lombardi, la sinistra interna si adegua e mette la sordina alle critiche. Per Nenni si è finalmente arrivati a «colmare il distacco tra istituzioni e popolo». Tuttavia, la speranza di condizionare stabilmente la De e di mettere all’angolo il Pei svanisce subito. Al momento di entrare direttamente al governo sotto la premiership di Aldo Moro (5 dicembre 1963) 25 deputati su 87 e 12 senatori su 36 non partecipano al voto di fiducia lamentando la svendita del socialismo al moderatismo capitalista-borghese, ed escono dal partito fondando il Psiup (il vecchio nome del partito nel 1943-46). Gli scissionisti sono seguiti da circa 3 mila sezioni e nuclei aziendali e da una grande quantità di quadri tra cui almeno 500 funzionari. Un’emorragia che indebolisce mortalmente il Partito socialista. Dopo un effimero successo alle elezioni del 1968, il Psiup si scioglierà nel 1972, travolto dal fiasco elettorale in quell’occasione. Questa scissione priva il Psi della forza necessaria per mantenere l’impulso riformatore appena avviato. Inoltre, le pressioni diventano insostenibili: la più drammatica quella profilatasi durante la crisi di governo dell’estate del 1964 con voci di colpi di stato (il caso Sifar del generale Giovanni de Lorenzo), rievocate poi da Nenni con la celebre espressione del «tintinnar di sciabole». In compenso, il partito, liberatosi della sua ingombrante ala sinistra, può riprendere il processo di unificazione con il Psdi già tentato un decennio prima. Auspice il neoeletto presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, dopo altri due anni di gestazione, il 30 ottobre 1966, a conclusione del X X X V II Congresso (26-29 ottobre), viene celebrata, in un clima di grande euforia, la fusione tra i due partiti. Nonostante tutti i travagli, in questi anni il Psi raccoglie adesioni entusiastiche da parte di un ceto intellettuale che tendenzialmente lo snobbava a favore del Pei; le idee-forza della programmazione economica e delle riforme di struttura attraggono numerosi brillanti economisti, alcuni dei quali partecipano a quel serbatoio di intelligenze che è il Comitato per la programmazione (Paolo Sylos Labini, Giorgio Ruffolo, Antonio Giolitti); il massimalismo e il verbalismo rivoluzio­ nario socialista sembrano lasciare posto a una concretezza riformatrice tale da portare il partito finalmente a contatto con le esperienze socialdemocratiche europee.

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L’unificazione con il Psdi potrebbe essere congeniale a questo processo. Ma questo obiettivo è stato così ritardato da non rispondere più alle aspettative che vi erano state riposte quando venne prefigurato: è una sorta di matrimonio tardivo quando ormai le passioni, in positivo e in negativo, si sono spente. Per questo motivo, da un lato, l’unificazione si rivela una sovrapposizione di apparati con le gelosie e le piccinerie tipiche di queste operazioni fatte a tavolino, a freddo; dall’altro, non riesce a fungere da motore per quella più ampia aggrega­ zione laico-socialista, prefigurata da Nenni, che consentisse di dialogare con «pari dignità» con Pei e De. Le ambizioni del Partito socialista unificato si scontrano con i dati delle elezioni del 1968 dove il partito - che si pre­ senta con la sigla Psu - ottiene un misero 14,5%, ben inferiore alla somma dei voti ottenuti dai due partiti nel 1963. Questo insuccesso innesca una spirale di frammentazione e rissosità interna. Lo sfaldamento della corrente autonomista, che aveva gestito il processo di unificazione, consente alla sinistra interna di conquistare la segreteria acuendo così la contrapposizione con la componente socialdemocratica. Nonostante lo sforzo di Nenni a favore dell’unità, la scissione socialdemocratica si consuma nell’estate del 1969. Il progetto di costituzione di un forte polo laico-socialista va in frantumi. A questa prospettiva strategica si sostituisce la formula dei «nuovi e più avanzati equilibri», infelice espressione con la quale si patrocina un governo aperto a sinistra. Sostanzial­ mente, la nuova segreteria di Francesco De Martino vuole rappresentare al governo tutta la sinistra, innescando un rap­ porto preferenziale sia con il Pei sia con il sindacato, definito «il quinto partito» della coalizione. In tal modo la dirigenza socialista pensa di avere un maggior potere contrattuale nei confronti della De: in realtà, invece, non fa altro che irritare i partner di governo e scontentare i suoi interlocutori esterni (Pei e sindacato) che non si accontentano delle pur rilevanti riforme realizzate in questo periodo, come lo Statuto dei lavoratori, fortissimamente voluto dal ministro del Lavoro, Giacomo Brodolini, e la legge sul divorzio firmata dall’inedita coppia, liberale e socialista, Antonio Basiini e Loris Fortuna. Questi successi non sono sufficienti a dirottare consensi sul Psi alle elezioni del 1972, che invece segnano il suo peggior risultato fino ad allora: 9,6%. Il partito arretra al Centro-Nord

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dove ha perso la propria base militante, visto che nel 1971 gli iscritti delle regioni meridionali sono saliti al 48% del totale (contro il 31% di dieci anni prima). Nei primi anni Settanta il Psi attraversa un periodo difficile: estromesso dal governo per far posto a una (breve) riedizione del centrismo; «forzato» al cambio di segreteria per le accuse di corruzione lanciate contro Giacomo Mancini (sostituito da De Martino); spiazzato dalla proposta del segretario del Pei di un «compromesso storico» con le forze popolari, De inclusa, quindi; investito senza trarne particolari benefici dalla stagione dei movimenti collettivi. Per quanto una parte del Psi si offra di rappresentare i fermenti della società civile, un’altra è del tutto indifferente. Ne è un esempio la reazione della segreteria ai risultati del referendum sul divorzio nel 1974. Mentre il vecchio Nenni, dopo aver partecipato al comizio finale con gli altri leader storici delle forze laiche, saluta il risultato come la rivincita sul 18 aprile 1948, De Martino, in sintonia con il Pei, ne sminuisce la portata, in puro stile autolesionista. Del resto, la strategia del segretario socialista, chiaramente enunciata alla fine del 1974, è quella di instaurare un rapporto preferenziale con la De piuttosto che con i partiti laici per aprire la strada del governo al Pei. Ci vorrà il tonfo elettorale del 1976, e corrispettivamente il successo comunista, perché la dirigenza socialista capisca che sta avanzando, alle sue spalle, un’intesa diretta tra Pei e De. A forza di portare acqua al Pei, il Partito socialista rischia di rimanere a secco. E quanto accade alle elezioni del 1976, quando il Psi riconferma il suo minimo storico delle precedenti elezioni (9,6%) e arretra di 2,4 punti rispetto alle amministrative dell’anno prima che avevano illuso circa una ripresa elettorale del partito. Una situazione così buia necessita di un capro espiatorio, che non può che essere il segretario del partito. In un infuocato Comitato centrale (12-16 luglio 1976) all’hotel Midas di Roma, gli schieramenti interni, da tempo cristallizzati, si frantumano in un caleidoscopio di posizioni. La corrente di maggioranza di osservanza demartiniana si sfalda, demolita dalla defezione guidata da Enrico Manca che assume il ruolo di regista nella scelta del nuovo leader. Un’inedita coalizione composta da sinistra lombardiana, autonomisti nenniani, ex demartiniani e manciniani insedia alla guida del partito il candidato meno appariscente, più giovane e più debole

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(in quanto esponente della piccola corrente autonomista), Bettino Craxi. L’elezione di Craxi, a lungo segretario della Federazione di Milano, seguace di Nenni e dal 1972 giovane vicesegretario nazionale, è in sintonia con il rinnovamento dei dirigenti socialisti e l’affacciarsi della terza generazione dopo quella storica dei Nenni e dei Pertini e quella inter­ media dei De Martino e dei Mancini. Proprio nel congresso immediatamente precedente (3-7 marzo 1976) c’era stato un ricambio significativo negli organi dirigenti nazionali: più di un quarto del totale (10 su 37) apparteneva alla generazione dei quarantenni. Quella che sarebbe dovuta essere una segreteria di transi­ zione si rivela invece la più stabile e la più solida della storia del Psi. Il consolidamento di Craxi avviene in pochi anni at­ traverso alcuni passaggi cruciali. Il primo è quello di stringere alleanze con le altre componenti per poter governare il partito. Particolarmente stretto il rapporto con il leader emergente della sinistra lombardiana, Claudio Signorile, tanto che l’asse Craxi-Signorile gestisce il partito fino alla rottura della loro intesa tra fine 1979 e inizio 1980. Il secondo è il mutamento politico-strategico. L’avanza­ mento della strategia del «compromesso storico» è percepito come una minaccia diretta al ruolo e alla sopravvivenza po­ litica del Psi. Nella seconda metà degli anni Settanta il Psi fa ogni sforzo per contrastare la tendenza al bipolarismo, a un duopolio tra Pei e De che azzeri le forze intermedie. Per ritrovare uno spazio d’azione autonomo, vira a sinistra adot­ tando una strategia «mitterrandiana» di alternativa di sinistra. Mentre il Pei corre al centro e deve mettere la sordina alle proteste per accreditarsi come affidabile partner di governo, il Psi lo incalza da sinistra blandendo tutti i movimenti di contestazione (ivi compreso il Movimento del Settantasette), esaltando i fermenti della società civile e riaccendendo una forte polemica sul «socialismo reale» dell’Europa dell’Est. In questa fase, un contributo decisivo viene portato dal più prestigioso intellettuale vicino al partito, Norberto Bobbio. Con una serie di saggi brillanti e provocatori pubblicati sulla rivista del partito, «Mondoperaio», che conosce una stagione di grande fervore, Bobbio affonda il rasoio della critica sulle debolezze teoriche del marxismo e dei suoi interpreti italiani in merito alla concezione dello stato e della democrazia. Il

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dibattito che ne scaturisce ha un duplice effetto: marca delle chiare linee divisorie ideali nei confronti del Pei, e rinforza l’immagine del partito precisandone alcuni tratti ideologici ancora indefiniti. Il riformismo pragmatico nenniano - di cui Craxi si considera l’erede - aveva mantenuto nei suoi codici genetici l’impronta marxista e l’analisi di classe. Nenni era approdato, con il fatidico 1956, all’accettazione della demo­ crazia come metodo e non solo come fine, ma mancavano i fondamenti teorici di questa opzione: era una sorta di con­ statazione di fatto, di accettazione naturale facilitata da quel fondo umanistico, e umano, che pervadeva il grande leader socialista. Alla fine degli anni Settanta, prende invece corpo la consapevolezza delle radici ideologiche, diverse e autonome, del partito, attraverso un processo di rivalutazione ed esaltazione della tradizione riformista, e di acquisizione piena dei principi della liberaldemocrazia. L’integrazione senza distinguo o pru­ derie nella socialdemocrazia europea ne è una conseguenza. L’ansia di rinnovamento presente nel partito incide anche nel reclutamento del personale politico: circa la metà dei 6 mila membri eletti degli organi direttivi provinciali viene rinnovata nel corso del 1977. Lo stesso vale per il Comitato centrale eletto dal X LI Congresso del 1978 in cui ben il 41,3% dei membri è di nuova nomina. Di questo massiccio ricambio, guidato dal nuovo, dinamico responsabile dell’organizzazione, Gian­ ni De Michelis, beneficiano le due correnti al potere, quella autonomista e quella lombardiana, spappolando il correntone demartiniano, ormai privo di qualsiasi referente politico, ideo­ logico e strategico. Il cambiamento interno è favorito anche da una nuova leva di amministratori locali eletta nel 1975. Il nuovo personale amministrativo locale, svincolato da logiche di unità di classe e sempre più insofferente verso il Pei, ma anche meno conciliante la De, favorisce un incremento del potenziale di coalizione del Psi in quanto si rende disponibile a entrare sia nelle tradizionali giunte di centro-sinistra sia in quelle di sinistra, soprattutto nelle grandi città. Nel 1977 il Psi ha il 16,5% degli assessori comunali e il 14,3% dei sindaci, quote superiori a quelle dei suoi voti. Anche le iscrizioni mostrano un’inversione di tendenza: aumentano i membri delle regioni settentrionali - oltre il 40% - a scapito di quelli delle regioni meridionali. La nuova segreteria milanese sembra sollecitare un nuovo trend di reclutamento.

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La prima conferma della segreteria di Craxi si ha al X LI Congresso del 1978 (30 marzo-2 aprile). Grazie all’alleanza con Signorile, il segretario si assicura il consenso di quasi i due terzi dei delegati; una maggioranza confortevole, se rap­ portata con la tradizionale frammentazione e rissosità interna del partito. Proprio grazie a questo ampio sostegno vengono introdotti importanti cambiamenti: viene modificata la linea politica indirizzandosi a favore dell’alternativa di sinistra e viene cambiato il simbolo storico del partito in modo da marcare, anche in questo modo, l’inizio di una nuova fase. La leadership craxiana si consolida però solo all’inizio del 1980 quando rie­ sce a liberarsi dall’alleanza con la sinistra interna, critica sulla gestione del partito che lascia poco spazio ai non allineati con il segretario, e sulla scarsa convinzione nell’alternativa di sini­ stra, provocando lo scontro con la sinistra interna. Grazie al decisivo passaggio nelle file craxiane del demartiniano Manca e del lombardiano De Michelis, il segretario vince lo scontro con Signorile e impone la nuova strategia della «governabilità», abbandonando ogni ipotesi di alternativa. Da questo momento la leadership di Craxi diviene sempre più incontrastata. Il X LII Congresso (22-26 aprile 1981) ne rappresenta il suggello: Craxi viene plebiscitato da più del 70% dei delegati, che per la prima volta votano direttamente il segretario, aggiungendo un tassello importante al processo di personalizzazione della leadership. Il controllo del partito è assicurato anche da un forte rinnovamento della classe di­ rigente: entrano in direzione 25 nuovi membri, quasi tutti di fede craxiana, su 41. E a segnare un’ulteriore cesura rispetto al passato, i due vicesegretari, Claudio Martelli e Valdo Spini, sono due trentenni, entrambi con un’elevata caratura intellettuale. La consacrazione finale della leadership di Craxi avviene con la sua nomina a presidente del Consiglio. Nel 1983, di fronte a una De sotto choc per la sua sonora sconfitta, Craxi forma un governo destinato a durare, per la prima volta nella storia repubblicana, tutta la legislatura (benché interrotta un anno prima della scadenza naturale). Questo periodo è contrasse­ gnato da una continua offensiva sia verso la De sia verso il Pei. Il Partito socialista si contrappone alla Democrazia cristiana candidandosi come il vero garante della stabilità governativa e come una forza moderna, efficiente e riformatrice: il tutto allo scopo di sostituire al centro dello schieramento politico,

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in posizione egemonica, la stessa De. È una lotta sorda, senza esclusione di colpi, che passa anche (e poi, soprattutto) per una spietata competizione per il «sottogoverno» e per l’occupazione di qualunque posto e risorsa disponibili. Le residue resistenze morali vengono tacitate, oltre che da un costume ormai molto rilassato, dall’argomentazione che bisogna contrastare la De sul suo stesso terreno. Anche nei confronti del Partito comunista il Psi procede nella sua politica antagonistica. Il Pei viene incalzato sia sul piano teorico, continuando a demolire quel poco che è rimasto di riferimenti marxisti, ed enfatizzando la superiorità della tradizione riformista, sia sul piano ideologico e su quello della politica internazionale. La polemica con il Pei raggiunge vette impensabili fino a qualche anno prima. A un Partito comu­ nista che individua in Craxi «un pericolo per la democrazia» rispondono le bordate di fischi che accolgono Enrico Berlin­ guer al XLIII Congresso socialista (11-15 maggio 1984): una scena inimmaginabile nei decenni di passiva subordinazione all’«autorevolezza» comunista. In effetti, il Psi esce definiti­ vamente da uno stato di vassallaggio psicologico proprio nel 1984, quando sfida il partito di Berlinguer sul terreno delle relazioni industriali con l’accordo sul costo del lavoro, decre­ tato dal governo Craxi nonostante la feroce opposizione del Pei (che indice anche un referendum, poi disastrosamente perduto). Il governo - e quindi il Psi - non riconosce più al Pei un diritto di primogenitura sui problemi del mondo del lavoro. Anzi, il Partito socialista sfrutta questa occasione per sottolineare l’arretratezza culturale del Partito comunista rispetto alle modificazioni socioeconomiche dell’Italia degli anni Ottanta. Non a caso, il Psi si orienta a rappresentare i nuovi ceti medi, emersi con la ripresa economica della metà di questo decennio. Questo porta il partito a enfatizzare, a volte con effetti grotteschi, un collegamento privilegiato con i settori trainanti e di punta dell’economia italiana, i cosiddetti «ceti emergenti». Tuttavia, questa autorappresentazione non corrisponde alla realtà. Anche se il Psi è forte e governa le maggiori città del Centro-Nord, il suo baricentro elettorale si è spostato nel Sud. Alle elezioni del 1983 per la prima volta il Psi ottiene più voti al Sud che al Nord. Con un processo che si è sviluppato fin dagli anni Sessanta, il Psi ha perso terreno nelle tradizionali

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aree di forza nel Settentrione per acquistarne nel Mezzogiorno. Calabria e Puglia diventano le roccaforti socialiste al posto di Lombardia e Piemonte. Stesso andamento per la distribuzione geografica degli iscritti. Una ragione plausibile per cui la forza del Psi si sposta verso sud proprio quando il suo rinnovamento vorrebbe farne il partito della modernizzazione del paese ri­ manda al ruolo giocato dal cosiddetto «voto di scambio»: con la presenza sempre più massiccia e spregiudicata del Psi negli enti pubblici, nelle amministrazioni dello stato e nel settore economico statale, la disponibilità di risorse da distribuire è certamente aumentata, con la conseguente possibilità di agganciare un elettorato motivato da altro che da tradizioni e idealità riformiste. A ogni modo, la leadership socialista si presenta, ed è per­ cepita, ben ancorata al Nord e a Milano in particolare, culla politica del segretario. Per questo la cosiddetta «mutazione antropologica» dei socialisti dell’era craxiana è dovuta più ai cambiamenti in atto della società italiana che al pervertimento causato dalla leadership: le scelte adottate negli anni del governo Craxi, l’autoimmagine di partito della modernità anche negli aspetti più frivoli (la «Milano da bere») e l’adozione spregiu­ dicata delle pratiche del sottogoverno e del clientelismo hanno inciso in questa mutazione, tanto da sollevare critiche sempre più forti sia all’esterno, dal Pei, sia all’interno, dal gruppo iniziale dei rinnovatori di «Mondoperaio»; ma sono anche il riflesso di una società che ha finalmente lasciato alle spalle gli anni di piombo e che manifesta un nuovo individualismo acquisitivo. Il Psi è all’incrocio di pulsioni modernizzanti e pratiche antiche. Per molto tempo pensa di risolvere le sue contraddizioni con la forza prometeica della sua leadership. Il decisionismo craxiano, l’immagine di leader volitivo fino all’arroganza, le sfide vinte su più terreni {in primis lo scontro con gli Stati Uniti a Sigonella a seguito del sequestro della nave Achille Lauro) contribuiscono a spandere un’aura di vittoria inevitabile sul partito. Ma anche se «la nave va», metafora di un’economia in ripresa, coniata dai socialisti in quel periodo, i dividendi elettorali del partito continuano a essere sideralmente lontani dalle aspettative. Il voto del 1987 consente al Psi di arrivare vicino al suo massimo storico con il 14,3%, ma è poca cosa. Tuttavia, in questa elezione il partito inverte la tendenza alla

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meridionalizzazione in atto e guadagna soprattutto al Nord e nelle grandi città riequilibrando parzialmente la sua di­ stribuzione geografica anche se le zone di maggior successo rimangono quelle di quattro anni prima, nell’ordine Puglia, Calabria e Campania. Questo risultato rappresenta l’apogeo delle fortune socialiste. Negli anni successivi, persa la premiership a favore della De, la capacità di condizionamento nei confronti dello Scu­ docrociato diminuisce verticalmente e Craxi abbandona la strategia del confronto costante e pungente. E infatti nel corso del XLV Congresso (13-16 maggio 1989) sigla un accordo con la leadership democristiana per una gestione più consensuale del governo. La tregua su quel fronte potrebbe essere funzio­ nale alla realizzazione dell’antico progetto nenniano di una federazione laico-socialista imperniata sul Psi, su cui all’interno del partito molti, sulla scia del vicesegretario Claudio Martelli, insistono. Ma l’atteggiamento egemonizzante nei confronti del Partito socialdemocratico e del Partito radicale, le due formazioni più vicine al Psi in questa fase, impediscono di concretizzare tale ipotesi. Analogamente, la leadership socialista è incapace di sfruttare al meglio il collasso del socialismo reale e la conseguente crisi del Pei. Invece di stringere il Partito comunista in un «abbraccio mortale», una replica del 1948 con ruoli invertiti, il Psi oscilla tra l’indifferenza e l’irrisione buttando a mare l’occasione storica di pareggiare i conti con l’avversario di sinistra. Tutto ciò riflette uno stato di astenia strategica e politica del partito e della sua leadership. All’interno della dirigen­ za socialista, e anche in larghissima parte del partito, vige un’acquiescenza assoluta verso il leader, al limite del culto della personalità. Non esiste praticamente più dibattito e anche il fiore all’occhiello della stagione riformista, la rivi­ sta «Mondoperaio», ha (da tempo) perso mordente. Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta il Psi vegeta, mantenendo inalterata la sua forza elettorale e organizzativa, ma perdendo ogni capacità progettuale. In sostanza, gestisce l’esistente sfruttando al massimo la sua collocazione strategica senza prefissarsi obiettivi di lungo periodo. Non emerge nulla di lontanamente paragonabile all’attenta e originale riflessio­ ne sulle trasformazioni della società italiana elaborata nella Conferenza programmatica di Rimini del 1982, quando il

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vicesegretario Martelli delineò un’azione riformatrice che, già allora, superasse i limiti dell’assistenzialismo, tenendo piuttosto in conto «meriti e bisogni»: una capacità progettuale e una visione prospettica dissipate. Un segno dello sfilacciamento del partito rispetto agli umori dell’elettorato emerge in maniera clamorosa nel giugno del 1991, quando Craxi irride il referendum elettorale sulla preferenza unica promosso dal Comitato Segni invitando a non votare e ad «andare al mare». L’esito del referendum, favorevole all’abrogazione, si ritorce come un colpo di frusta sul leader socialista, che diventa agli occhi dell’opinione pub­ blica il vero sconfitto. Improvvisamente Craxi perde tutto d’un colpo l’aura del vincitore. In una rovente e caotica sala del XLVI Congresso (27-30 giugno 1991) Craxi dà l’immagine del leader appannato e affaticato. La canottiera che traspare dalla camicia intrisa di sudore è lontana mille miglia da quell’imma­ gine efficientistica, manageriale e «rampante» (per usare un termine di uso corrente negli anni Ottanta) che il partito e il suo leader volevano proiettare. Ma il colpo di maglio alla «potenza» socialista è assestato dalle indagini giudiziarie sulla corruzione politica. L’inchiesta Mani pulite inizia con l’arresto di un amministratore socialista milanese. Il tentativo di minimizzare la questione da parte di Craxi - «è un mariuolo» - viene sconfessato dalla valanga di incriminazioni e arresti che piovono sul Psi. Tuttavia, nell’imme­ diato, il partito non ne risente: alle elezioni del 1992 ottiene un buon 13,6% (perdendo però quei consensi al Nord che aveva recuperato nel 1987 e sbilanciandosi ancor più pesantemente verso Sud). Ma il peso degli scandali che coinvolgono il Psi, e più direttamente l’entourage milanese craxiano, è tale che il leader deve rinunciare alle sue ambizioni: non si candida né alla presidenza della Repubblica, né a quella del Consiglio, alla quale riesce però a collocare un socialista, per quanto anomalo, nella persona di Giuliano Amato. La performance del governo Amato è una delle migliori della storia repubbli­ cana, soprattutto sul piano della politica economica, ma non basta a frenare la precipitosa china discendente del Psi. In fondo, proprio l’eccentricità di Amato rispetto aÌVinner circle craxiano, ancor più del suo alto profilo intellettuale e della sua personale probità, impedisce al partito nel suo complesso di beneficiare del suo impegno.

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Nel Psi affiorano i primi malumori. Se ne fa interprete il delfino di Craxi, Martelli, il quale rompe il lungo sodalizio con il leader dissentendo sulla totale contrapposizione verso la procura milanese e sulla chiusura a riccio del partito, oltre che su altri temi come la riforma del sistema elettorale. Lo scontro si consuma nell’Assemblea nazionale del novembre del 1992, dalla quale esce nettamente vincitore ancora Craxi che raccoglie quasi due terzi dei consensi. Solo dopo aver ricevuto quattro avvisi di garanzia il leader socialista decide di passare la mano favorendo nel febbraio del 1993 l’elezione di un suo fedele sostenitore, Giorgio Benvenuto, ex segretario della Uil. La scelta si rivela infelice. Benvenuto entra in una spirale di recriminazioni e accuse nei confronti dello stesso Craxi tali da portare dopo tre mesi alle sue dimissioni e all’uscita dal partito. Al posto di Benvenuto viene eletto un altro ex sindacalista (questa volta della Cgil), Ottaviano Del Turco, che assiste impotente allo sfaldamento organizzativo e politico avviatosi con una progressione acce­ lerata negli ultimi mesi del 1993. Alle elezioni amministrative di novembre il Psi non supera il 4% confermando lo stato preagonico del partito. All’Assemblea nazionale del 16 dicembre si consuma uno strappo ulteriore: la componente craxiana che si oppone frontalmente alla politica di Del Turco, imperniata nel sostegno al governo Ciampi, nella ricerca di un’alleanza a sinistra e nello sforzo di moralizzazione del partito, per la prima volta viene sconfitta, 156 a 116. Finisce un’epoca nella storia del Psi: Craxi non è più il dominus incontrastato del partito, anche se controlla ancora buona parte del gruppo par­ lamentare, che infatti si scinde in due tronconi, uno allineato con il segretario e l’altro fedele a Craxi. In quello stato confusionale il Psi, dopo aver cambiato nome e simbolo al partito - Partito socialista (Ps) e una rosa stilizzata -, alle elezioni del 1994 affonda al 2,2% anche se, avendo aderito all’Alleanza dei progressisti, alcuni socialisti vengono eletti. Tuttavia, il colpo finale al partito è assestato dall’espatrio di Craxi in Tunisia, subito dopo le elezioni, in una sua villa di vacanze, per sfuggire all’ordine di arresto spiccatogli dalla magistratura. Il Psi senza il suo leader di riferimento si scioglie come neve al sole e implode in una miriade di gruppi; Ben­ venuto, uscito qualche mese prima, fonda il raggruppamento

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di Rinascita socialista, vicino alla sinistra; Amato aderisce personalmente al Patto Segni; Valdo Spini dà vita ai Laburi­ sti; altri come Ruffolo entrano nel nuovo movimento laico di Alleanza democratica; i fedelissimi di Craxi (Intini, Boniver) fondano la Federazione liberalsocialista. Altri ancora, infine, soprattutto a livello locale, rimpinguano le file del neonato movimento Forza Italia. A Del Turco non rimane che condurre il partito verso lo scioglimento, sancito il 12 novembre 1994, al XLVII Congresso dove, in rappresentanza dei residui 42.387 iscritti, si decide la sua trasformazione in Socialisti italiani (Si) eleggendo segreta­ rio un giovane dirigente, Enrico Boselli. Sulle sue spalle grava il compito di «restituire l’onore» e la visibilità a un partito travolto nell’arco di pochi mesi dalla rivoluzione dei giudici, ridotto a dimensioni risibili e additato a responsabile massimo del degrado morale e della corruzione. Si sembra in grado di reclutare ancora alcune decine di migliaia di iscritti e, grazie a un’accorta alleanza elettorale prima con Alleanza democratica e Patto Segni alle regionali del 1995, dove ottiene il 4,5% dei voti, e poi con la lista Dini, alle elezioni del 1996, riporta in parlamento alcuni socialisti. Il partito di Boselli non riesce però a risalire la china stretto tra l’evoluzione e la capacità di attrazione del Partito democratico della sinistra (Pds), lo scivolamento a destra di molti quadri intermedi, militanti ed elettori e la presenza tuttora incombente di Bettino Craxi i cui fax da Hammamet provocano regolarmente imbarazzi e disagi a un partito che vuole chiudere la stagione che si identifica nel capo carismatico del Partito socialista degli ultimi vent’anni. Un tentativo per ricomporre la diaspora dei socialisti viene messo in atto con la fondazione dello Sdi (Socialisti democratici italiani) nel 1998, a cui partecipano molte delle anime sparse del socialismo. Questo consente di mantenere un minimo di visibilità e di portare a Strasburgo due rappresentanti grazie al 2,1% ottenuto alle europee del 1999 e di ottenere un ministero nel governo D ’Alema (1998-2000) e in quello di Amato (20002001) grazie al buon rapporto instaurato con i Democratici di sinistra (Ds). Lo Sdi mantiene viva la tradizione socialista in continuità con il passato, ma nel mondo socialista non c’è pace perché una componente si stacca dal partito e insieme ad altri ex dirigenti del Psi dà vita al Nuovo Psi, animato da Martelli, De Michelis e Bobo Craxi (che però poi prenderanno strade

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diverse), e orientato a una collaborazione con Forza Italia. Ma se lo Sdi cerca di mantenere un suo spazio autonomo nel sistema partitico e a tal fine stringe varie alleanze (quella con i Verdi nel Girasole nel 2001 e quella con i radicali nel 2006 con la Rosa nel pugno, tutte di limitato successo, peraltro), le altre formazioni inclinate verso destra cercano piuttosto collocazione nel grande corpo di Forza Italia. Il paradosso è che con questa dispersione, calcolando anche le fuoriuscite precedenti, saranno eletti nelle varie formazioni una sessantina di ex socialisti tra Camera e Senato, nel 2001: una presenza tutt’altro che trascurabile ma non ricomponibile in una sola formazione. Il lascito di dissidi e ostilità insanabili, di scelte politiche e visioni divergenti impedisce la rinascita di una formazione di dimensioni apprezzabili. Nemmeno l’unità di quasi tutte le membra sparse a sinistra e a destra, realizzata nel 1998 con la costituzione di un nuovo soggetto, il Ps, consente di uscire dalle secche di consensi minuscoli. La tenacia dell’ex segretario del Si prima e dello Sdi poi, Enrico Boselli, che lo porta a essere confermato alla guida del nuovo partito, non è premiata dalle urne, tutt’altro. Nel 2008, complice la forza aggregativa del nuovo Partito democratico (Pd) che respinge una proposta di alleanza formulata da Boselli, il Ps affonda sotto l’l % e rimane senza rappresentanza parlamentare. Le dimissioni del segretario aprono una nuova fase tur­ bolenta che si conclude con la riesumazione del nome storico Partito socialista italiano, nel 2009 e con una nuova leadership, nella figura di Riccardo Nencini, che nel corso degli anni, pur senza presentare il partito alle elezioni, riuscirà a marcare una presenza grazie soprattutto all’attenzione rivoltagli dal Pd e all’ingresso nei governi Renzi (2014-2016) e Gentiioni (20162018). Gli ultimi vent’anni dei socialisti descrivono un declino irrecuperabile. La resilienza di tanti dirigenti del Psi craxiano ha impedito un vero rinnovamento e un’autentica rifondazione. E stato disperso un patrimonio inestimabile di idealità e di iniziative, basti pensare al periodo aureo del primo centrosinistra dove i giovani economisti socialisti guidavano, insieme ad alcuni illuminati democristiani e a Ugo La Malfa, il più intelligente e ambizioso progetto di modernizzazione del paese. Il fallimento di quell’esperienza, in parte per il massimalismo della corrente che lasciò il partito in quel momento cruciale, ma

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anche per altre cause, ha fiaccato in maniera fatale il partito. La leadership craxiana ha illuso tanti sull’avvento di una nuova stagione marcata dall’impronta socialista. In realtà, i progetti di modernizzazione, che trovano nella Conferenza program­ matica di Rimini del 1982 il suo apice e in Claudio Martelli il suo potenziale interprete, sfumano nella ricerca disinvolta e arrembante di risorse per fronteggiare al meglio la potenza democristiana, come veniva detto per giustificare quelle pra­ tiche. L’ingresso a Palazzo Chigi, coronamento di una storia secolare, non porta i frutti sperati. Anzi: evidenzia tutti i limiti insiti in un partito gracile, non alimentato da sufficienti energie militanti alla base, con quadri intermedi ed eletti arraffoni, e presto privato delle migliori energie intellettuali, allontanatesi da quella fucina del rinnovamento socialista che si ritrovava nella rivista «M ondoperaio». La concentrazione ossessiva sull’acquisizione di risorse al di là di ogni remora morale alla fine «ha perso» il partito. Lo ha svuotato di energia politica e forza di convincimento. Il crollo è stato catastrofico e la fuga di Craxi in Tunisia ha sparso sale sulle rovine. E quindi il Psi attuale, e residuale, non può che essere una pallida controfigura in sessantaquattresimo di uno dei grandi partiti della storia d’Italia.

Parte seconda

I partiti storici resilienti

Capitolo quinto

De e postdemocristiani. Il potere che logora

La Democrazia cristiana (De) è il partito cattolico italiano in quanto nasce in ambienti cattolici, fa riferimento agli inse­ gnamenti della chiesa e si alimenta di un rapporto simbiotico con il mondo ecclesiastico; ma, allo stesso tempo, è anche il partito moderato e centrista per eccellenza, baluardo contro il comuniSmo a sostegno dell’Occidente libero, partito di ceti medi e popolari, della libera impresa e dell’intervento dello stato. La De si definisce, e in effetti è, il partito di e dei cattolici. La formazione della De coinvolge due componenti diverse: il Movimento guelfo, fondato a Milano da Piero Malvestiti insieme ad altri esponenti dell’Azione cattolica, connotato da un intransigente antifascismo, e la vecchia componente del Partito popolare prefascista, coordinata da Alcide De Gasperi e oculatamente sostenuta dal Vaticano. La formalizzazione avviene in una riunione di esponenti di questi due gruppi nell’autunno del 1942. La De esce allo scoperto all’indomani del 25 luglio 1943 con il Manifesto di Milano, diffuso in oltre un milione di copie, redatto da Malvestiti e improntato a un esplicito antifascismo. Grazie a questa connotazione antifascista, la De entra subito nel Cln e in tal modo orienta i cattolici in una direzione diversa rispetto a quell’atteggiamento di acquie­ scenza al regime fascista che la chiesa aveva a lungo favorito. In questa fase costitutiva, la segreteria è affidata, nell’agosto del 1944, alle mani esperte di De Gasperi, ultimo segretario del Partito popolare prima del suo scioglimento. La strategia di De Gasperi si articola in cinque obiettivi di fondo. Il primo è affermare l’autonomia dei cattolici in politica evitando una tutela vaticana troppo stretta. E il solo modo per far accettare il partito democristiano come il partito di riferimento per tutti, un vero partito «nazionale». Il secondo è aggregare ceti sociali compositi non solo grazie al riferimento

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comune alla religione, quanto piuttosto ai principi del solida­ rismo. Il terzo è la continuità dello stato: l’amministrazione deve rimanere al suo posto e non deve essere scompaginata dalle epurazioni. Il quarto consiste nell’accreditarsi come parte integrante dell’Occidente, schierandosi senza esitazioni a fianco degli Stati Uniti e sostenendo l’Alleanza atlantica. In questo modo, De Gasperi elimina ogni ambiguità neutralista, come una certa visione cattolica e vaticana universalista e super partes poteva suggerire, e affianca al legame con l’oltretevere un contraltare d’oltreoceano: in altri termini, enfatizzando le buone relazioni con gli Stati Uniti, De Gasperi può far disto­ gliere l’attenzione dal rapporto a doppio filo con il Vaticano. Infine, il quinto obiettivo, legato in qualche misura al primo, riguarda la strategia delle alleanze. Per far uscire il «partito dei cattolici» dal suo recinto e proporlo come partito di tutti, evitando ogni rischio di integralismo, De Gasperi promuove l’alleanza quadripartita con i partiti laici e democratici ed evita di governare da solo, come i numeri dopo le elezioni del 1948 consentirebbero, benché gli manchino alcuni seggi in Senato. L ’organizzazione cresce tumultuosamente, cercando di in­ canalare le nuove energie nelle strutture modellate sul classico partito di massa, con sezioni di base, movimenti giovanili, fem­ minili e «di azienda» (sulla falsariga delle cellule comuniste); ma il coordinamento tra i vari livelli organizzativi sono modesti. Il clima aperto e lo scarso controllo che la segreteria esercita nei primi anni favoriscono un’effervescenza politico-ideologica di grande spessore. L ’opposizione a De Gasperi è rappresentata dal gruppo dei giovani docenti - «i professorini» -, esponenti di una generazione maturata negli ultimi anni del fascismo attorno all'Università cattolica e di cui Amintore Fanfani, Giuseppe Lazzati e Giuseppe Dossetti sono gli esponenti più rappresentativi. Il leader (per certi aspetti carismatico, come il suo percorso umano dimostrerà) è Dossetti. Attivo nella Resistenza, ma esclusivamente mediante azioni non violente, Dossetti emerge come figura di punta già nel I Congresso della De (24-28 aprile 1946) collocandosi al quarto posto nelle votazioni per il Consiglio nazionale. Il prestigio personale di molti dirigenti della sinistra De non riesce però a mutare l’impronta originaria di partito centrista-moderato. Il voto per la Costituente nel 1946 (35,2%) esprime un elettorato variegato in cui convergono ceti medi

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e proletariato e, soprattutto, il mondo contadino. In queste elezioni la De si afferma come primo partito, posizione che ribadisce quanto già registrato nelle amministrative della primavera, dove aveva conquistato più comuni delle sinistre (2.326 contro 2.259). La De sfonda nel Nord-Est andando oltre il 50%, riconfermando così la supremazia che il Partito popolare prefascista aveva conquistato in quell’area, e, pur con percentuali minori, si assesta come partito egemone anche nel Centro-Sud, in quanto le sinistre sono minoritarie e la destra spezzettata in varie formazioni. Fin dal 1946, il partito assume un aspetto bifronte: da un lato, i bastioni inviolabili nel Trivene­ to, dove religiosità tridentina, organizzazioni cooperativistiche e laicato cattolico costituiscono le pietre angolari della forza democristiana; dall’altro, le aree depresse del Mezzogiorno, dove notabilato conservatore, piccola borghesia e «plebi» contadine convergono, per ragioni diverse, sulla De. Il partito si è radicato in tutto il paese con 7.171 sezioni, 602.652 iscritti, adottando un’organizzazione ricalcata su quella dei partiti socialisti. Ma questo modello organizzativo è più ideale che reale. In effetti, la più potente macchina di mobilitazione mai messa in opera nel campo cattolico è quella dei comitati civici di Luigi Gedda, che diventano la vera task force della campagna elettorale democristiana del 1948. In occasione dello «scontro di civiltà» delle elezioni del 1948, la De viene utilizzata come scudo da un insieme com­ posito di ceti, interessi e sensibilità. Sulla De piovono consensi da ogni dove, tanto da far fare al partito un balzo di 13,5 punti percentuali rispetto alle elezioni della Costituente (dal 35,2% al 48,7%). La De conquista la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera, mentre al Senato gliene mancano una manciata, ma rifiuta la tentazione di governare da sola: De Gasperi è convinto della necessità di doversi ancora legittimare pienamente e quindi di aver bisogno di una coalizione ampia che coinvolga i partiti laici. In questo modo, oltretutto, può meglio garantire l’autonomia del partito, sul quale si stende l’ombra del Vaticano. Questo appoggio esterno, insieme a quello degli Stati Uniti (attraverso il Piano Marshall di aiuti alimentari) dei quali De Gasperi si accredita come referente privilegiato, è una chiave del successo democristiano. Ma è anche molto ingombrante. L ’influenza del Vaticano arriva infatti ad alimentare una sorta di corrente interna informale,

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il «partito romano»: un intreccio di alti prelati, parlamentari, notabili del partito, dirigenti di associazioni cattoliche, tutti di orientamento marcatamente conservatore. I tentativi del «partito romano» di influenzare le scelte democristiane sono innumerevoli ma, grazie soprattutto all’intransigenza di De Gasperi, difensore della laicità della politica, i risultati riman­ gono tutto sommato modesti. La leadership degasperiana non deve fronteggiare solo l’opposizione della destra interna ma anche quella della sini­ stra. Al III Congresso del partito (2-6 giugno 1949) Dossetti lancia il guanto di sfida con una sorta di controrelazione dalla quale emergono sia preoccupazioni sociali per il mon­ do del lavoro e la classe operaia, che deve essere «liberata» dall’egemonia del Pei, sia proposte di riforma istituzionale incentrata sugli organi centrali dello stato (e qui Dossetti punge sul vivo la leadership degasperiana che proprio sulle questioni istituzionali - la rifondazione dello stato nella continuità - ha basato parte della sua legittimazione). Lo scontro congressuale si conclude con l’invito di De Gasperi alla sinistra di «mettersi alla stanga», mostrando di sapere non solo criticare ma anche «tirare il carro» del partito in un appello che trova una risposta positiva (ma non entusiastica), della sinistra, con Dossetti che accede alla vicesegreteria del partito e Fanfani al ministero del Lavoro, in rappresentanza della corrente di sinistra. La ventata riformista che pervade il VI governo De Gasperi (1950-51) - riforma agraria, istituzione della Cassa del Mez­ zogiorno, riforma tributaria, provvedimenti per la Sila dopo i moti contadini - sembra preludere a un sempre maggior peso della componente dossettiana nel partito, ma De Gasperi, con un abile divide et impera, innesca una spirale distruttiva nella corrente avversaria che porta Dossetti prima alle dimissioni da vicesegretario e poi anche da deputato e da semplice iscritto. Il percorso personale di Dossetti che, dopo aver obbedito all’ingiunzione delle gerarchie ecclesiastiche di guidare una lista De alle elezioni comunali di Bologna del 1956 (iniziativa che fallisce), abbandona definitivamente la politica e prende i voti, non comporta però uno sfaldamento della sua corren­ te, anzi. Adottando maggiore flessibilità rispetto al periodo dossettiano questa componente, in larga misura composta da giovani, smussa la contrapposizione frontale con De Gasperi

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e si premura di cercare alleanze che consentano di mettere fuori gioco gli ex popolari e il «partito romano». De Gasperi cerca un rafforzamento del governo che metta a tacere le opposizioni interne ed esterne. Gli strumenti indivi­ duati sono la legge Sceiba sulla difesa dell’ordine democratico e la legge elettorale, con un premio di maggioranza alle liste apparentate che superino il 51 % (definita dal giurista Pietro Calamandrei una «legge truffa»). Il progetto di irrobustire il centro, e il centrismo come formula politica, neutralizzando gli opposti estremismi era razionale: ma si rivela fallimentare. La legge Sceiba rimane inapplicata e non è servita nemmeno da deterrente, anche perché promulgata dopo i trionfi missini e monarchici nel Sud, e, soprattutto, il premio di maggioranza non scatta per la débàcle di tutti i partiti centristi, De compresa che scende al 40,1%. Per De Gasperi è la fine. Il suo breve, e ultimo, governo postelettorale e il suo ritorno alla segreteria sono passaggi a vuoto. La sua generazione sta arrivando al binario morto, non tanto per un rinnovo generazionale - molti suoi esponenti rimarranno in sella ancora per lustri - quanto per il diffondersi di una diversa concezione del partito e del suo ruolo. L ’esperienza degasperiana è stata caratterizzata da un robusto senso dello stato e dall’idea - comune peraltro allo stesso Dossetti - che le istituzioni e l’amministrazione debbano essere riformate e rafforzate, tanto da invocare a più riprese una netta distinzione tra partito e governo. La nuova generazione modifica questa visione. E parte da un’idea precisa: il partito deve diventare lo strumento autosufficiente di acquisizione e controllo del consenso e non deve più dipendere dal bene­ volente appoggio delle organizzazioni del mondo cattolico e della chiesa. A tal fine sono necessari una strutturazione più efficiente e un legame più stretto con l’amministrazione pub­ blica, in particolare con il crescente settore dell’economia di stato, che avrà uno sviluppo importante con la costituzione dell’Ente nazionale idrocarburi (Eni) nel 1953, affidato al democristiano di sinistra Enrico Mattei. Il trionfo di Fanfani al V Congresso della De (26-29 giu­ gno 1954), eletto con un irripetibile 83,1% dei voti, segna uno spartiacque nell’evoluzione del partito. La corrente fanfaniana diventa egemone in tutti gli organi centrali: Consiglio nazionale, Direzione e Segreteria. Il Consiglio nazionale viene

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aperto a nuovi membri con voto consultivo, rappresentanti di Associazioni cristiane lavoratori italiani (Adi), Coldiretti, Con­ federazione italiana dirigenti d’azienda (Cida) e Associazione italiana maestri cattolici (Aimc), e vengono costituiti uffici appositi per sostenere il radicamento del partito nel Sud in modo da liberarlo dall’ingombrante presenza di un notabila­ to vecchio e instabile, poco identificato con il partito. Tutto questo implica un rafforzamento delle strutture centrali con l’incremento vertiginoso dei funzionari e l’instaurazione di un sistema di controlli e sanzioni, oltre che di premi. Inoltre, la segreteria escogita anche una serie di incentivi simbolici per stimolare l’attivismo di partito, come la Festa del socio, istituita per offrire pubblici riconoscimenti ai membri più attivi. Infine, viene modificata e rilanciata la struttura di base, i nuclei: già creati nel 1950 come sottounità della sezione, con compiti in­ definiti di attivazione e mobilitazione, essi vengono ristrutturati legandoli all’attività elettorale e denominandoli «nuclei di seg­ gio». Il successo di quest’ultima iniziativa è travolgente: in un anno, dal 1957 al 1958, i responsabili e gli incaricati femminili e giovanili di seggio passano da 56.523 a 112.500 unità. Se a questi si aggiungono anche i dirigenti sezionali, gli attivisti della De salgono dai circa 37.000 denunciati nel 1951 ai 101.940 del 1956, fino ai 195.189 del 1959. Questo sforzo organizzativo ha un riscontro nelle cifre della forza organizzata del partito che vede crescere costantemente sia gli iscritti, da poco più di un milione nel 1953 fino a un massimo di 1.602.929 nel 1959, sia le sezioni, da poco più di 10.000 a 12.672. Questo quadro potrebbe far pensare a una grande capacità di reclutamento e mobilitazione autonoma, e quindi al pieno successo della prospettiva fanfaniana. In realtà, non è così: la De rimane ancora dipendente dalle organizzazioni cattoliche e dal clero, che forniscono il nocciolo duro degli attivisti, cioè gli incaricati di seggio, i dirigenti di sezione o i semplici militanti attivabili in determinate occasioni. Questa sovrapposizione non viene eliminata, né può esserlo volontaristicamente, perché la De è un partito cattolico con radici profonde in quel mondo. Fanfani mette però in moto un’altra dinamica che, avviata dalla sua segreteria, viene portata a regime (e poi esasperata) dai suoi successori: l’interpenetrazione del partito con lo stato. La De non è più solo il partito dei cattolici, bensì anche il partito dello stato: non nei termini degasperiani di chi difende

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le istituzioni dai pericoli degli opposti estremismi, ma partito deH’amministrazione pubblica e, soprattutto, dell’economia pubblica. Se De Gasperi esaltava la distinzione tra partito e governo e difendeva l’amministrazione come valore in sé Fanfani si muove nella direzione opposta: la De è lo stato. Fanfani vuole sottrarre il partito alle tutele esterne, e per questo, oltre a un rafforzamento strutturale, deve fornirgli un’identità autonoma, da affiancare a quella dei valori religiosi. La nuova identità è quella del «partito-stato». Per arrivare a questo obiettivo è necessario passare da incentivi puramente simbolici (forniti abbondantemente dal legame con la chiesa) a incentivi materiali. In altri termini, si tratta di occupare lo stato e distribuirne le risorse. Con questo approccio, la gestione fanfaniana segna uno stacco «culturale» rispetto al passato: si passa dalla società rurale e contadina a quella industriale. Del resto, il mondo delle campagne è già stato monopolizzato con sistemi analoghi: si pensi alle varie leggi di riforma agraria, alla costituzione della Coldiretti (potentissima organizzazione degli agricoltori legata a filo doppio al partito), all’istituzione della Federconsorzi e così via. Alle soglie degli anni Sessanta questo mondo sta scompa­ rendo: adesso si tratta di controllare le risorse della società industriale e dei servizi attraverso la colonizzazione dell’amministrazione e del settore pubblico dell’economia. Non è un caso se, all’apogeo del potere fanfaniano, nel 1959, il suo modello di reclutamento abbia già dato i primi frutti, con una distribuzione geografica degli iscritti significativa: l’Abruzzo ha il doppio degli iscritti del Piemonte, la Basilicata più della Liguria, e il Veneto, la regione più «bianca» d’Italia, è solo al sesto posto. Inoltre, alle elezioni del 1958, per la prima volta, i voti raccolti nel Mezzogiorno superano quelli del Triangolo industriale. Laddove c’è fame di posti e il rapporto con il potere politico è più diretto e personale, l’adesione al partito è più massiccia. Fanfani, caso unico nella storia della Prima Repubblica, cumula per alcuni anni le cariche di segretario del maggior partito, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri. Il suo dinamismo, il controllo esercitato su un partito riplasmato e rivitalizzato, l’accentramento del potere, l’apertura a sinistra creano tra i suoi stessi seguaci ostilità tanto forti da sfociare in una congiura di palazzo. All’inizio del 1959 oppositori ed

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ex sostenitori di Fanfani si riuniscono nel convento di Santa Dorotea per detronizzare il leader, il quale, da parte sua, facilita loro il compito, dimettendosi sia da presidente del Consiglio sia da segretario del partito. Dal suo volontario esilio all’eremo di Camaldoli Fanfani prepara la controffensiva, ma al VII Congresso (23-28 ottobre 1959) prevale, di poco, la corrente dorotea, ed emerge quale figura di mediazione con la sinistra Aldo Moro. Il nuovo segretario, eletto per frenare Fanfani, in realtà ne asseconda i progetti: guida infatti il partito (la cui direzione viene rinnovata per la metà, il ricambio più cospicuo dopo quello del 1949) verso rincontro con i socialisti, facendo deperire lentamente le ostilità interne ed esterne al centro-sinistra. Con il suo linguaggio astruso ed ellittico, Moro avvolge e stempera ogni conflitto, perché lo ritiene il male della società. Partendo da un’analisi pessimistica dell’«immaturità» democratica della società italiana, Moro sostiene che il dispiegarsi delle conflit­ tualità politiche e sociali porterebbe al collasso del sistema. La sua conversione al centro-sinistra è ritenuta il male minore per devitalizzare i contrasti con una parte della società fino ad allora esclusa dal governo, e assicurare la stabilità del sistema. Nonostante la perdurante opposizione del «partito roma­ no», il nuovo corso del Vaticano inaugurato dal pontificato di Giovanni XXIII consente di condurre in porto il progetto di inserimento dei socialisti nel governo. Inevitabilmente, la De paga vari prezzi per questa scelta. Il primo è l’arretramento di quasi 4 punti percentuali alle elezioni del 1963, scendendo al di sotto del 40% dei voti (38,3%). Una perdita molto più consistente al Nord che al Sud, tale da sbilanciare ulteriormen­ te il baricentro del partito a favore delle regioni meridionali. Questo insuccesso costa la segreteria a Moro che deve passare la mano a dorotei doc come Mariano Rumor e Flaminio Piccoli. Il secondo prezzo investe i rapporti con il mondo indu­ striale, ormai incrinatisi dopo il matrimonio di convenienza stipulato negli anni Cinquanta: la politica dichiaratamente filoindustriale del nuovo segretario del Pii, da un lato, e il sostegno all’impresa pubblica (raggruppata in un’associazione separata dalla Confindustria, l’Intersind) con il sovrappiù di provvedimenti ostici come la nazionalizzazione dell’industria elettrica e la riforma urbanistica, dall’altro, non possono che scontentare i ceti imprenditoriali.

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Il terzo prezzo riguarda raffermarsi della nuova concezio­ ne del far politica. In sostanza, si profila in maniera sempre più palese e massiccia l’occupazione dello stato da parte del partito: mentre in questa pratica aveva inizialmente una logica, per quanto autogiustificativa, di affrancamento dal Vaticano e di riequilibrio sociale, con la sua progressione geometrica perde ogni manto ideologico e si riduce a mero esercizio del potere. Questa evoluzione stride con la riflessione su temi più specificamente religiosi e spirituali che il Concilio Vaticano II ha acceso nel mondo cattolico. Il concilio assorbe le energie delle organizzazioni cattoliche e innesca un processo che porta alla rottura del collateralismo con la De. Prima le Adi, poi l’Azione cattolica, recidono il loro legame simbiotico con il partito. Nonostante questo, negli anni del centro-sinistra l’organiz­ zazione democristiana si rafforza costantemente, arrivando nel 1973 a 1.879.429 iscritti e sopravanzando il Pei di quasi 300 mila unità. La solidità dell’impianto organizzativo consente al partito di passare indenne attraverso l’offensiva dei liberali a destra, che si spegnerà dopo il fuoco fatuo del 1963, e la con­ correnza degli alleati di governo. Tali dimensioni ipertrofiche consentono alla De di navigare tranquillamente per buona parte degli anni Sessanta. La lunga stagione della politica ottundente di Moro e dei dorotei mostra i segni del logoramento alla fine degli anni Sessan­ ta, sia sul versante di sinistra sia su quello di destra. A sinistra, l’effervescenza sociale degli anni 1968-69 provoca il distacco del sindacato cattolico (la Cisl) e la «scelta socialista» delle Adi. A destra, le manifestazioni della maggioranza silenziosa nelle città del Nord e la rivolta di Reggio Calabria provocano un’emorragia di voti verso il Msi alle amministrative parziali del 1971 (ma, come maliziosamente affermò Andreotti, si trattava di «voti in libera uscita»). Prima l’elezione di Giovanni Leone alla presidenza della Repubblica, con i voti anche dei missini, poi, dopo le elezioni del 1972, il ritorno alla formula centrista, con il governo Andreotti-Malagodi, approfittando delle incertezze e dei ripensamenti di un Psi in crisi di identità, dimostrano come la De sia ancora pronta a modificare le proprie posizioni per rispondere a un elettorato inquieto. Tuttavia, non basta. L ’abilità tattica e gestionale non risolve il problema della perdita di contatto con la società

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civile. La fine del collateralismo delle associazioni cattoliche, seppur assai meno influenti di un tempo, dimostra che la De, per quanto ancora centrale, è anche più sola. Le accuse del malgoverno democristiano mosse dal vicariato di Roma du­ rante il convegno su «I Mali di Roma» (13-14 febbraio 1974) sottolineano la perdita, o quantomeno l’attenuazione, di un legame fiduciario tra il partito e le gerarchie e, a maggior ragione, il mondo cattolico. Il referendum sul divorzio del maggio del 1974 costituisce uno spartiacque nella storia italiana ma, soprattutto, in quella democristiana. La baldanzosa sicurezza con la quale Fanfani, ritornato alla segreteria nel 1973 grazie alla mediazione di Moro, affronta la campagna referendaria è una clamorosa di­ mostrazione del distacco creatosi tra partito e società civile. I costumi sono ormai sideralmente lontani da quelli degli anni Cinquanta quando si potevano additare al ludibrio i «pubblici concubini», non venivano riconosciuti diritti ai figli illegittimi e l’adulterio della donna era un reato penale. Non solo, anche all’interno del mondo cattolico il Concilio Vaticano II ha pro­ dotto profondi mutamenti nel rapporto tra fede e scelte politi­ che. L ’esempio più lampante è dato da un gruppo di cattolici (i «cattolici del No») che, nel corso della campagna elettorale, si dichiara contrario all’abrogazione della legge sul divorzio. Inoltre, le stesse gerarchie ecclesiastiche non si mostrano così disponibili a intervenire nella campagna referendaria. Il disastroso risultato del referendum - soltanto il 41% è favorevole all’abrogazione - è solo il primo segnale d’allarme. Quello più forte suona alle amministrative del 1975, quando l’avanzata impetuosa del Pei fa balenare per la prima volta l’ipotesi di un sorpasso e il numero degli eletti (e le loro ca­ pacità coalizionali) si riduce notevolmente. Il partito passa dal 57,4% di assessori comunali al 48,9% e dal 63,8% di sindaci al 54,8%. Un clima da ultima spiaggia investe la De, che in un drammatico Consiglio nazionale (22-25 luglio 1975) sfiducia Fanfani e individua in Benigno Zaccagnini una «faccia nuova e onesta» da nominare alla segreteria. L ’operazione, che ha l’avallo e la regia di Moro, è di successo. Zaccagnini, oltretutto, ottiene una forte legittimazione grazie all’elezione diretta in congresso, introdotta per la prima volta (e poi sospesa fino al 1982) in occasione del XIII Congresso (18-22 marzo 1976). Con la nuova leadership e con la paura del sorpasso comu­

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nista adeguatamente rinfocolata, la De riesce a mantenere le posizioni conseguendo il 38,5% dei voti. Tuttavia, è in atto uno scollamento organizzativo: in quattro anni, tra il 1973 e il 1977, il partito perde oltre 650 mila iscritti. Questo calo è in parte dovuto all’opera di bonifica sulle «anime morte» che popolano gli elenchi dei tesserati De e all’aumento della quota di iscrizione, ma è anche addebitabile alle difficoltà di riattivare il reclutamento. Le elezioni del 1976 impongono comunque alla Democrazia cristiana un ripensamento della strategia: con l’appello a votare De anche «turandosi il naso», come suggeriva l’autorevole giornalista Indro Montanelli, i partiti alleati sono stati ridotti all’osso, e lo stesso Psi si dibatte in una crisi gravissima. E di nuovo Moro a prendere in mano il partito e a guidarlo verso una nuova meta, l’incontro con il Pei. Moro cerca di convin­ cere un riottoso partito che l’ingresso del Partito comunista nella maggioranza consente di dare all’Italia quella stabilità che i movimenti sociali degli ultimi anni hanno indebolito. A differenza di quanto avvenuto all’epoca del centro-sinistra, l’apertura al Pei non avviene sulle ali dorate del boom e del miracolo economico: si concretizza per rispondere alle sfide insidiose alla democrazia portate dal terrorismo rosso e nero, per reggere di fronte alla crisi economica, per rispondere al disagio giovanile. La formula «solidarietà nazionale» esprime bene lo stato di necessità con il quale si dà il via ai due governi monocolore Andreotti, il primo con l’astensione di tutti i partiti dell’arco costituzionale, dal 1976 al marzo 1978, il secondo con il voto favorevole anche del Pei. Che le minacce alle istituzioni questa volta siano reali lo dimostrano le azioni terroristiche, fino al loro macabro apogeo con il rapimento e l’uccisione dello stesso Moro, alla vigilia del dibattito parlamentare sulla fiducia al governo Andreotti, nel marzo 1978. La lunga prigionia del leader democristiano e le sue deva­ stanti lettere in cui l’intera classe dirigente democristiana viene messa sul banco degli accusati lacerano il partito che, tuttavia, trova nella «linea della fermezza», contraria a ogni trattativa con le Brigate rosse, il cemento della propria unità interna. La politica di Moro non regge alla sua scomparsa. Anzi, l’abbandono dell’incontro con il Pei è anche un modo per dimenticarne il dramma. La conclusione dell’esperienza della «solidarietà nazionale» trova il suo momento catartico nella

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decisione del governo di entrare nel Sistema monetario euro­ peo (Sme) al quale si oppone il Pei. Questa rottura fa cadere il IV governo Andreotti e consente alla De di archiviare de­ finitivamente la stagione di collaborazione con il Pei. Il XIV Congresso (15-20 febbraio 1980) adotta un «preambolo» alla mozione congressuale nel quale si ripercorrono tutti i motivi di dissenso e contrapposizione con il Partito comunista e si auspica un ritorno alla collaborazione con i partiti democratici, dal Psi al Pii, superando i vecchi confini del centro-sinistra e inaugurando la stagione del «pentapartito». Questo mutamento di strategia produce un rovesciamento delle alleanze interne che riportano al governo del partito il nucleo doroteo, appoggiato dalla sinistra sindacalista, con Flaminio Piccoli alla segreteria. Il ricambio al vertice, nonostante tentativi di ripensamento della struttura del partito, che ha nell’Assemblea degli esterni del 1981 la sua massima espressione, non basta però a fare della De il motore politico della fase successiva alla «solidarietà nazionale». Anzi. La perdita della presidenza del Consiglio, affidata per la prima volta a un non democristiano, il repubblicano Giovanni Spadolini, nel novembre del 1981, evidenzia l’anoressia progettuale del partito. Lo sconcerto per questo vulnus al ruolo primario del partito provoca un ulteriore scompaginamento delle alleanze interne con conseguente cambio di segreteria: viene eletto, di nuovo in congresso, al XV (2-6 maggio 1982), Ciriaco De Mita proprio per portare alla controffensiva il partito. In effetti, De Mita si presenta con due progetti ben definiti. Il primo riguarda il rafforzamento del partito attraverso sia l’aumento delle responsabilità e dell’autonomia decisionale a livello regionale, sia il contenimento del potere delle fazioni rompendo la logica proporzionale di rappresentanza e immettendo a ogni livello una nuova leva di dirigenti fedeli alla segreteria. Il secondo investe la nuova strategia politica: per De Mita è prioritario contrastare l’inedita aggressività socialista riproponendo la centralità democristiana e riformulando, ai fini del contenimento dei Psi, la strategia morotea dell’attenzione verso il Pei. Per realizzare tale obiettivo vengono introdotti inediti accenti neoliberisti mettendo sul banco degli accusati lo stata­ lismo dato che il sistema «si è inceppato per quel tanto e quel poco di socialismo che è stato introdotto nella nostra società».

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Il rigetto della logica dell’intervento pubblico nell’economia e dell’intervento regolativo sul mercato, nonché la critica al welfare state, rappresentano una rivoluzione copernicana per la De. Questa ridefinizione ideologica e strategica punta a collocare la De di nuovo al centro delle dinamiche sociali che attraversano gli anni Ottanta - e di cui gli alleati di governo (Psi e Pri) cercano di farsi interpreti - per conquistare, o trat­ tenere, i ceti medi urbani. Ovviamente un passaggio di questa portata necessita di un partito unito, una leadership forte e una ricucitura dei rapporti con il mondo cattolico. La De ha quasi perso ogni legame con quel mondo: da un lato, la secolarizzazione ha toccato il suo apice con la scon­ fitta dello schieramento favorevole all’abolizione della legge sull’aborto nel referendum del 1981, quando tale posizione ha raccolto solo il 32,6% dei consensi; dall’altro, le organizzazioni cattoliche sono divenute ininfluenti quanto a dimensioni e contributi di riflessione o si sono allontanate dal partito o, ancora, quando mantengono un rapporto, come Comunione e liberazione e il Movimento popolare, agiscono quasi da correnti interne. Questa progressiva perdita di linfa, ideale e militante, non può essere controbilanciata dalla perdurante, e in certi casi crescente, occupazione dello stato da parte del partito. Tra l’altro, ne va delle radici stesse dell’identità democristiana. Le innovazioni prefigurate da De Mita si scontrano con la sconfitta devastante alle elezioni del 1983, dove la De tocca il minimo storico con il 33,6% (-5,4 punti percentuali), cifra che scende al 26,8% nelle grandi città sopra i 250 mila abi­ tanti. Il rinnovo dei candidati nelle liste elettorali, in linea con i propositi riformatori della segreteria, è stato massiccio, sia per la non ripresentazione di molti parlamentari uscenti, sia per l’immissione di «esterni» al partito. Ma questa iniziativa non è servita ad arrestare l’emorragia elettorale: anzi, forse l’ha favorita. Infatti, dato che il voto De è abbondantemente alimentato dalla modalità dello scambio (cioè il voto ad personam, diretto e misurabile in termini di benefici promessi), l’eliminazione dei tradizionali referenti locali del partito dalle liste elettorali ha certo provocato disorientamento. Nonostante la sconfitta De Mita rimane in sella. Prima supera indenne la prova del XVI Congresso (24-28 febbraio 1984), dove però il consenso (apparentemente) unanime garan­

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titogli dalle correnti alla vigilia viene infranto dall’improvvisa candidatura di un outsider come Vincenzo Scotti che raccoglie d’un colpo il 33% dei consensi; poi viene plebiscitato due anni dopo - candidato unico - al XVII Congresso (26-30 maggio 1986) con il 74% dei voti. Forte di questo sostegno la segre­ teria demitiana va allo scontro con gli alleati socialisti - dai quali invocava «pari dignità» (sic!) - e provoca le elezioni anticipate del 1987. Il risultato delle urne, in questo caso, è favorevole al partito, che recupera qualcosa (34,3%: +1,4), e ritorna quindi alla guida del governo. La traversata nel deserto appare superata. In effetti, se si guardano le cifre degli iscritti sembra che la De scoppi di salute visto che in quegli anni è il partito più forte di tutti, con un’impennata nelle iscrizioni proprio nel 1987 a 1.814.578; e nel 1990 tocca la cifra record di 2.109.670 membri, surclassando di ben 850 mila(!) unità un declinante Pei post-1989. In realtà, l’anno dopo i tesserati, sottoposti a un più rigoroso controllo sancito dalle nuove regole appro­ vate alla Conferenza interorganizzativa di Assago del 1991, crollano a 1.390.918. Questa epocale migrazione dal partito, in assenza di fatti traumatici, è la riprova di un reclutamento largamente fittizio, dalle basi di argilla. E, corrispettivamente, di un consenso elettorale non più granitico. La De vive gli ultimi anni del decennio Ottanta nell’illusione di essere ritornata al centro del sistema. Per riaffermare la sua posizione ha però dovuto liquidare De Mita, capro espiatorio dell’accordo con i socialisti, per mantenere la premiership, con conseguente ritorno di dirigenti di lungo corso come Forlani e Andreotti. Ma questa abilità manovriera non può nascondere la crisi incipiente. Il mosaico del declino della De è composto di molte tessere: rallentamento del legame con il mondo cattolico, la difficoltà di rispondere alle domande di modernizzazione e di liberazione della società, la crescente inefficienza nella gestione dell’apparato dello stato e in ispecie del comparto pubblico dell’economia, le dimensioni ipertrofiche della corruzione poli­ tica, l’impotenza, al punto di alimentare sospetti di collusione, nei confronti della criminalità organizzata, l’aperta sfida al suo ruolo di dominus lanciata dai tradizionali alleati di governo negli anni Ottanta. La crescita improvvisa e impetuosa della Lega Nord nelle terre d’elezione dell’area bianca del Nord-

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Est, dimostra meglio di ogni altro evento l’aggravarsi della crisi democristiana. Il partito prende atto delle sue difficoltà nei primi anni Novanta e avvia un processo di rinnovamento, anche in ri­ sposta a una serie di miniscissioni che, benché di dimensioni contenute, danno comunque il senso di una difficoltà, di una crisi latente. Nel 1991 nasce la Rete, movimento capitanato dall’ex sindaco democristiano di Palermo, Leoluca Orlando, con una forte connotazione legalitaria e di lotta alla mafia, che poi aggregherà altre componenti pacifiste e alternative. Nel 1992 un piccolo gruppo di intellettuali cattolici, poi estesosi a macchia d’olio a livello nazionale, fonda Carta ’93 con l’obiettivo di contribuire a una «rivisitazione e un aggiornamento del patrimonio cattolico-democratico». Nel 1993 si costituisce il raggruppamento «cattolico, democratico e sociale» dei Cristiano-sociali ispirato dall’ex leader della Cisl Pierre Camiti. Ma più rilevante di tutti è la formazione, nel 1992, del Movimento dei popolari per la riforma. Fondato da Mario Segni, democristiano di seconda fila sino alla vittoria, nel 1991, nel referendum da lui promosso per la preferenza unica alle elezioni politiche, il movimento ha lo scopo di «moralizzare la vita politica» attraverso l’indizione di ulteriori referendum sulla legge elettorale, l’immunità parlamentare e il finanziamento pubblico dei partiti. Dopo aver insistentemente, e anche provocatoriamente, incitato il nuovo segretario della De, Martinazzoli, a un’incisiva opera di riforma interna, in connessione con l’incriminazione di Andreotti per collusio­ ne con la mafia, nel marzo del 1993 Segni esce dal partito e nell’autunno fonda il Patto Segni con il fine dichiarato di presentarsi alle imminenti elezioni politiche. Tutta questa turbolenza si scatena proprio quando il par­ tito ha avviato un percorso di autoriforma, o quantomeno, di riflessione interna. L ’Assemblea di Assago, convocata alla fine del 1991 per discutere una profonda ristrutturazione organiz­ zativa, rappresenta certamente un punto di svolta rispetto al passato: non tanto perché mette in cima all’agenda la questione del partito, quanto perché apre le porte agli esterni, vale a dire a quella (larga) parte del mondo cattolico simpatetica ma non iscritta al partito. Le audaci proposte innovative emerse ad Assago (ricambio e ringiovanimento della classe dirigente, limitazione dei mandati, incompatibilità tra cariche di partito

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e di governo e tra incarichi parlamentari e governativi, esclu­ sione dalle candidature di quanti hanno procedimenti penali pendenti, apertura agli esterni, moralizzazione e verifica delle iscrizioni, ecc.) rimangono però lettera morta. Nemmeno il nuo­ vo segretario, Martinazzoli, invocato da tutta la classe dirigente del partito come il salvatore della patria, e significativamente eletto per acclamazione dal Consiglio nazionale dell’ottobre del 1992, dopo il tonfo alle elezioni di quello stesso anno, quando la De scende per la prima volta sotto il 30% (29,7%) e la sua classe dirigente nazionale e locale è sotto i riflettori dell’inchiesta Mani pulite, riesce a incidere nel corpaccione della «balena bianca». Martinazzoli si trova di fronte un muro di gomma issato dalla vecchia guardia. Su alcune proposte il segretario cede, accettando la riconferma di una direzione eletta tre anni prima in tutt’altro contesto, ma su altre vince, inserendo nel nuovo organigramma anche personalità non iscritte alla De, prove­ nienti dall’Azione cattolica, dal sindacato e dal volontariato. La rimobilitazione del mondo cattolico costituisce il vero segno di discontinuità con il recente passato e sancisce l’autenticità del rinnovamento. Dopo decenni di separatezza, se non di freddezza (con l’eccezione, eccentrica in realtà, di Comunio­ ne e liberazione), il mondo cattolico, forse consapevole della crisi, forse spaventato dagli esiti possibili, torna a impegnarsi nel partito: «i più bei nomi del cattolicesimo democratico», a partire dal presidente dell’Azione cattolica, Alberto Monticone, appoggiano esplicitamente il segretario. Questo rinnovato investimento degli ambienti cattolici nella De è coerente con le indicazioni del Vaticano e delle gerarchie che ribadiscono il dogma dell’unità dei cattolici. La rumorosa fuoriuscita dal partito dell’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, la nascita della Rete e le iniziative di Mario Segni sono infatti duramente stigmatizzate dal vertice della Cei. La chiesa sollecita, anche con una certa decisione, gli esponenti dell’associazionismo cattolico a «sporcarsi le mani» andando a occupare le posizioni messe a disposizione dal rinnovamento interno della nuova segreteria democristiana. Il gruppo di Carta ’93, nato con un non troppo velato imprimatur delle gerarchie, anche su pressione di queste ultime, entra in blocco nella De proprio per sventare le minacce alla stabilità del partito portate dal trasversalismo referendario del movimento di Mario Segni.

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Sul piano organizzativo, l’innovazione più rilevante pro­ posta da Martinazzoli riguarda il tesseramento. Per tagliare il circuito clientelare dominante a livello periferico, l’iscrizione diventa diretta e personale: ogni iscritto deve recarsi di perso­ na in sezione a firmare un atto di adesione e versare la quota relativa. Il provvedimento è solo parzialmente seguito, quanto basta comunque per un feroce dimagrimento della membership, soprattutto laddove il rinnovamento prende piede, come nelle regioni settentrionali e in particolare nel Veneto guidato da Rosy Bindi, battagliera allieva di Vittorio Bachelet (il pre­ sidente dell’Azione cattolica assassinato dalle Br), nominata in sostituzione deH’inquisito Carlo Bernini. Nel Sud, invece, poco si muove. La frattura territoriale che attraversa il partito (su ogni piano: politico, ideale, organizzativo, elettorale) viene accentuata dal processo riformatore. Al Nord la spinta di rigenerazione morale trasmessa dal segretario trova rispondenza in un ambiente cattolico assai più ramificato ed esteso rispetto al Sud, che agisce quindi da moltiplicatore degli sforzi della leadership democristiana. Al Sud le interconnessioni clientelari, da una parte, marginalizzano l’intervento dei cattolici demo­ cratici - tra l’altro indirizzati in certa misura a sostenere la Rete di Leoluca Orlando - e, dall’altra, mantengono inalterate le tradizionali modalità d’azione politica. Le prime iniziative di Martinazzoli non sono certo premiate dall’elettorato, bombardato com’è da una serie apparentemente senza fine di incriminazioni di dirigenti democristiani, accusati di reati di finanziamento illecito e corruzione. Alle elezioni amministrative parziali del giugno del 1993, le prime che si tengono con il nuovo sistema elettorale maggioritario, nei 14 comuni capoluoghi dove si vota il partito raccoglie appena il 13,3 % dei voti. Per la prima volta nella storia repubblicana, lo scudo crociato è relegato ai margini della competizione politica. Lo shock accelera il processo di rinnovamento. L ’Assemblea programmatica costituente, convocata d’ur­ genza nel luglio del 1993, rappresenta l’ultimo passo nel disegno di mutazione del partito; e allo stesso tempo offre un ulteriore segnale di apertura verso il mondo cattolico, tant’è che la metà dei partecipanti è composta da esterni al partito. L ’assemblea, tuttavia, pur affidando a Martinazzoli i pieni poteri nella fase di gestione straordinaria verso il nuovo partito (che prende il nome di «Partito popolare italiano»), non scioglie i dilem­

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mi sul nuovo profilo ideale e sulla collocazione nello spazio politico. Il dissidio tra rinnovatori e conservatori permane. Per i rinnovatori prevale il richiamo all’esperienza cattolico­ democratica e al popolarismo sturziano, ma in un’ottica di netta discontinuità con il recentissimo, poco nobile, passato del partito: il riferimento alle radici è invocato proprio come contraltare al degrado in cui è precipitato lo scudo crociato. Per la componente più tradizionalista, invece, non va messa la sordina alla storia della De, di cui anzi vanno rivendicati orgogliosamente tutti i meriti storici, e va mantenuto uno stretto rapporto tra partito e società, attraverso le tradizionali modalità di gestione del consenso, con un’attenzione particolare verso 10 storico elettorato di riferimento (moderato, di ceto medio, femminile, maturo-anziano). Né la fuoriuscita dagli organi nazionali di tanti vecchi di­ rigenti inquisiti, né il rinnovato impegno di parte del mondo cattolico e nemmeno la pulizia nel reclutamento bastano a rilanciare il partito. Grava su tutto il processo una carenza di leadership. Martinazzoli evita, assai democristianamente, di andare allo scontro con gli avversari del cambiamento e non sceglie mai: emblematico il rapporto «irrisolto» con Mario Segni, lasciato andare via tranquillamente senza valutare le conseguenze di quella fuoriuscita che avrebbe privato la De di energie fresche e l’avrebbe additata all’opinione pubblica come irriformabile, vecchia e isolata. Il disastroso esito delle elezioni amministrative dell’autunno del 1993, dove nessun candidato democristiano riesce ad arrivare al ballottaggio nelle grandi città (tra le altre, Roma, Napoli, Genova, Venezia) e la rappresentanza dello scudo crociato nei consigli comunali viene falcidiata (il partito fatica a superare 11 10% dei voti), impone di accelerare la rigenerazione. I postdemocristiani del centro-sinistra: Ppi e Margherita Nel gennaio del 1994 termina ufficialmente la storia della De. La fine dello scudo crociato porta alla gemmazione di due formazioni: il Partito popolare italiano (Ppi), già «istruito» dalla segreteria democristiana nell’estate precedente e che assume le vesti di discendente «legittimo» della De, visto che ne eredita le strutture organizzative e la tradizione ideologica,

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pur con una curvatura di cattolicesimo democratico; e il Centro cristiano democratico (Ccd), che, benché figlio minore, aspira a rappresentare il coté moderato della storia democristiana. Alla prova delle elezioni politiche del 27 marzo 1994 i due partiti scelgono strategie diverse. Il Ccd si allinea al Polo delle libertà e al Polo del buongoverno inserendo propri candidati in quelle liste ed evitando di presentarsi distintamente nel comparto proporzionale. Il Ppi invece si presenta da solo, neH’ambizione-illusione di poter aggregare un elettorato centrista e cattolico non inquadrabile dagli altri due blocchi di sinistra e di destra. L ’accordo, tardivo e «irrilevante», siglato con il Patto Segni, anch’egli presentatosi fuori dai blocchi dopo aver tentato un’alleanza con la Lega, non basta a scardinare la nuova logica bipolare. Il risultato del Ppi è modestissimo: 11,1% e 33 deputati, di cui appena 4 eletti direttamente nel maggioritario, a dimostrazione dell’ormai certificata minorità del partito. Ancora più deludente il dato del Patto Segni: 4,7% e 13 deputati senza però che nemmeno il leader fondatore riesca a essere eletto direttamente nel suo collegio di Sassari. Il Ppi ha mancato l’obiettivo di proporsi come un partito, se non nuovo, quantomeno profondamente rinnovato e quindi credibile agli occhi del suo elettorato di riferimento. In realtà, nonostante l’immissione di tante facce nuove (appena il 15% dei candidati era costituito da ex parlamentari) e il sostegno delle gerarchie cattoliche, solo una piccola quota di elettori ex democristiani - meno di un terzo - converge sul partito di Martinazzoli: la maggior parte si riversa su Forza Italia, vero collettore del vecchio voto De. Al Ppi rimangono le briciole. Il suo elettorato è quasi tutto - all’85% - di ascen­ denza democristiana ma è connotato da tratti diversi rispetto al passato. Sociologicamente ha accentuato gli aspetti meno moderni (è molto più anziano della media della popolazione e concentrato nei piccoli centri), e ha rivoluzionato la propria geografia elettorale. Il Nord, e soprattutto il Lombardo-Veneto, hanno contenuto le perdite, a dimostrazione del rinnovato rapporto con la tradizione cattolica. E in quest’area, infatti, che si registra un incremento di forze militanti. Laddove in­ vece il partito si poggiava su scambi clientelati e sul controllo delle risorse, l’allontanamento dai centri del potere ha avuto effetti catastrofici. In Sicilia, ad esempio, il partito passa dal

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41,2 all’8,5%. Il Centro-Sud e le Isole fornivano alla De, nel 1992, il 53% dei suoi voti, contro il 33% del Nord (EmiliaRomagna esclusa); nel 1994 il Centro-Sud contribuisce per il 38% , mentre il Nord per il 45%. Per la prima volta dalle elezioni politiche del 1953, il Mezzogiorno pesa meno delle regioni settentrionali nel partito cattolico. L ’esito fallimentare delle elezioni provoca le immediate e irrevocabili (e irrituali in quanto comunicate con un fax...) dimissioni del segretario. Il I Congresso del Ppi, convocato d’urgenza nel luglio del 1994, si tiene quindi in una situazione di assoluta emergenza; ciononostante, riflette anche i primi segni del cambiamento. E vero che in periferia le telluriche innovazioni introdotte negli ultimi due anni non hanno por­ tato a quella nuova classe dirigente sulla quale tanto contava Martinazzoli, ma è altrettanto vero che al partito è affluita nuova linfa, tant’è che, pur in presenza di un collasso in termini di iscritti (si passa dagli 813.233 del 1993 ai 236.603 del 1994), il 27% dei delegati al congresso non era mai stato iscritto alla De. Di fronte alla crisi, il partito si divide tra una scelta di continuità nel rinnovamento, rappresentata dal notabile Nicola Mancino, e una di ricalibratura del rinnovamento, espressa dalla new entry Rocco Buttigliene, filosofo vicino al Vaticano e ideologo di Comunione e liberazione. Un’altra opzione, minoritaria, di approfondimento ulteriore del rinnovamento, ha come portabandiera la segretaria del Veneto, Rosy Bindi, animatrice di una corrente che si definisce puntigliosamente «sinistra del Ppi», proprio per marcare una cesura rispetto alla vecchia sinistra democristiana. La vittoria, peraltro di stretta misura, di Buttiglione impone un mutamento di rotta al neo­ nato partito. Disinteressato alla questione morale, che tanto ha affannato la De negli ultimi anni, e scettico sul «ritorno tra i cittadini» proprio grazie alla catarsi morale, Buttiglione disdegna l’impostazione laica del cattolicesimo democratico, e indica invece come prioritarie l’appartenenza religiosa e la promozione dei valori cattolici. Inoltre, egli rovescia l’imposta­ zione strategica di estraneità/alterità ai due blocchi e punta a stabilire buoni rapporti con il centro-destra, sia per recuperare l’elettorato cattolico, sia per riavvicinarsi e magari fagocitare i fratelli separati del Ccd, sia, infine, con un progetto assai am­ bizioso, per egemonizzare culturalmente tutto il centro-destra.

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Obiettivi alti e non privi di fascino perché ridisegnano un percorso di largo respiro dopo la catastrofe del ciclo 1992-94. A Buttiglione non manca la duttilità nel perseguire questo fine, tanto da accordarsi con il Pds di D ’Alema per portare colpi sfiancanti al governo Berlusconi e poi per appoggiare il governo tecnico di Lamberto Dini. Ma non riesce a essere convincente sulla sua strategia di lungo periodo. Il Ppi, incapace di rappresentare un centro autonomo e l’ago della bilancia, si ritrova stretto nelle maglie del bipolarismo: deve scegliere con quale polo instaurare un rapporto privilegiato. Ma è una scelta divisiva. Mentre i cattolici democratici guardano a sini­ stra, Buttiglione, insistendo nel recupero dei cattolici persi per strada, punta verso il centro-destra, dove in effetti si è rifugiato il grosso degli ex elettori scudocrociati: il 28% ha preferito Forza Italia e il 13 % An. I cattolici democratici, sostenuti nella loro intransigenza da figure carismatiche del mondo cattolico quali il cardinale di Milano Carlo Maria Martini e il padre spirituale del cattolicesimo sociale Giuseppe Dossetti, non sono disposti a fare sconti sulle alleanze. La forza della nuova frattura della politica italiana, la demarcazione destra-sinistra, è a tal punto penetrante da attraversare anche il partito che se ne era estraniato. Buttiglione non riesce a gestire questa frattura e scivola su alcuni passi falsi, enfatizzati e drammatizzati dagli avversari interni, a loro volta altrettanto maldestri e irrituali in varie circostanze. Il casus belli che fa precipitare la crisi viene dall'offerta al centro-destra di alleanze alle regionali del 1995, offerta presentata pubblicamente da Buttiglione in un luogo sensibile come il congresso di Alleanza nazionale (e a un partner ostico a molti). A questo slittamento a destra risponde l’ala sinistra del partito, che lancia invece l’ipotesi di un nuovo cartello elettorale con la sinistra candidando nel contempo a leader di questo schieramento l’ex presidente dell’Iri Romano Prodi. Lo scontro tra le due anime del partito è lacerante. In una ridda di votazioni nei vari organi dirigenti, alla fine prevale di pochissimo il fronte di sinistra che elegge Gerardo Bianco alla segreteria. Il segretario sconfitto non riconosce legittimi­ tà al nuovo assetto direttivo del Ppi e ne rivendica l’eredità avviando anche una serie di cause legali che si chiuderanno solo grazie all’intervento mediatorio dei vertici del Partito popolare europeo.

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Il nuovo Ppi affronta le elezioni regionali in una situazione più che mai emergenziale. L ’esito non può essere che negativo (6%), sia perché il partito è stato abbandonato da molti quadri, soprattutto al Nord, sia perché si presenta con un’inedita sigla, Popolari di Bianco, sia perché la sua collocazione nel sistema partitico è ancora in via di definizione nonostante l’accordo con gli altri partiti del centro-sinistra in 13 regioni su 15. Il II Congresso (29 giugno-1° luglio 1995), convocato per sancire formalmente l’elezione di Bianco ed eleggere i nuovi organi centrali, sottolinea la continuità del partito con l’impostazio­ ne «popolare» martinazzoliana, considerando la segreteria Buttiglione nient’altro che un’infausta parentesi. Parentesi devastante, per la verità: il partito è stato dissanguato dalla scissione ben più di quanto fosse successo con il Ccd. Un dato ne rispecchia emblematicamente la dimensione: al congresso vengono convocati tutti i delegati che avevano partecipato al I Congresso del Ppi, l’anno precedente: degli 826 aventi diritto se ne presentano 512, vale a dire il 62%. Buttiglione ha portato con sé più di un terzo del partito. Il nuovo Ppi è unito nel rivendicare la continuità, tanto con la migliore tradizione democristiana quanto con la breve stagione del rinnovamento sub specie di cattolicesimo demo­ cratico e sociale, ma è tutt’altro che unito sulle scelte future. Il nuovo fronte interno passa tra chi propugna un’accelerazione del progetto dell’Ulivo, con cui è sceso in campo Romano Prodi e grazie al quale si stanno mobilitando nuove energie, e chi intende valorizzare quanto è rimasto dell’eredità Dc-Ppi. La formula dal vago sapore degasperiano, «una politica di centro, alternativa alla destra e aperta alla sinistra», riflette il minimo comun denominatore del partito. Pur con qualche resistenza e contorcimento verbale, il futuro del partito è ormai proiettato sul versante di sinistra dello schieramento politico. Con tutte le conseguenze del caso. Infatti, spostandosi verso sinistra il Ppi deve abbandonare ogni progetto-illusione di recuperare il voto democristiano. Quei voti sono andati laddove era naturale si indirizzassero una volta che la scelta diventava bipolare: l’eredità più che quarantennale del l’alternativa al comuniSmo non poteva che tradursi, agli occhi dei vecchi elettori dello scudo crociato, nella preferenza per il centro-destra. Alle elezioni del 1996 il Ppi si presenta con una lista che evidenzia la sua apertura verso le forze moderate del centro­

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sinistra e allo stesso tempo il sostegno al premier designato Romano Prodi, il cui nome campeggia nel simbolo. Nono­ stante questo sponsoring di Prodi, che peraltro mantiene nella campagna elettorale un atteggiamento distaccato, il risultato è drammaticamente inferiore alle aspettative: appena il 6,8%. La delusione per l’esito elettorale è mitigata dal numero degli eletti: nonostante il regresso di 3 punti e mezzo rispetto al 1994, i de­ putati aumentano di 13 unità grazie alla generosa assegnazione di collegi sicuri da parte del Pds. Il rinnovamento della classe parlamentare, tenuto conto della scissione di Buttigliene, è ver­ tiginoso: su 81 eletti 51 sono di nuova nomina, e se prendiamo a confronto il 1992, il ricambio tocca quasi il 90%. Il Ppi è certo molto diverso da come l’aveva prefigurato Martinazzoli. Allora l’erede della De poteva avere l’ambizione di giocare in proprio e di «rinascere», grazie a una profonda autoriforma morale. Solo che Martinazzoli, e con lui tanti altri, non aveva «visto» l’attrazione magnetica di Forza Italia né gli effetti dirompenti del sistema maggioritario. In appena due anni il Ppi, devastato da due scissioni, è ridotto a meno di 200 mila iscritti, è finito al di sotto della barra del 10%, è costretto a competere con tanti altri pretendenti, legittimi e non, del voto cattolico e infine è obbligato a scegliere uno schieramento abbandonando le sirene centriste. Inoltre, si profila una nuova insidia, difficile da affrontare perché tutt’altro che ostile, rappresentata da Romano Prodi. Il rapporto complesso, irsuto, che si è venuto a creare tra il Ppi e il «suo» presidente del Consiglio fin dalla drammatica discesa in campo del Professore, non si è risolto nemmeno con il suo sponsoring alle elezioni, quando ha inserito il proprio nome nel simbolo del partito. Sia per ragioni ovvie, essendo Prodi il candidato premier di una coalizione e non di un, peraltro piccolo, partito, sia per ragioni più intricate di affrancamento da una sorta di tutela politica, sia infine per una diversa visione del futuro dell’Ulivo, quella che potrebbe in linea di principio rappresentare una grande risorsa si rivela in realtà un proble­ ma. Dopo le elezioni, matura infatti il dibattito tra chi insiste sul rafforzamento del partito per costruire il (grande) centro dell’Ulivo, e chi punta alla promozione dei valori cattolico­ democratici all’interno di una nuova configurazione partitica sotto l’egida dell’Ulivo. La rivendicazione dell’autonomia e dell’«irriducibilità» dei popolari è perfettamente comprensibile

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dopo le burrasche degli ultimi due anni; allo stesso tempo, però, poiché i popolari hanno passato il guado e sono saltati a piè pari nella dinamica bipolare, gli ulivisti incitano a tener conto della scelta di campo operata. Il III Congresso del Ppi (9-12 gennaio 1997), il primo che si svolge in condizioni di normalità, ruota intorno a questo di­ lemma: difesa e promozione dell’identità specifica, «popolare», del partito o apertura ad altre componenti della maggioranza per una più ampia coalizione di forze, dove comunque i cattolici abbiano un ruolo centrale e propulsore. Questa divaricazione taglia il partito sia geograficamente (Nord più ulivista, Sud più partitico) sia per provenienza politica (con il gruppo dei nuovi entrati, provenienti dal mondo cattolico, più ulivisti, e quelli di antica ascendenza democristiana, più partitici). Coerente­ mente con il rinnovato squilibrio territoriale del partito che ha perso molte posizioni al Nord, soprattutto in Lombardia, a causa della scissione di Buttigliene, prevale l’impostazione del rilancio del partito, incarnata da Franco Marini, potente responsabile dell’organizzazione sin dai tempi di Martinazzoli. Ovviamente questa scelta è in contrasto con i desiderata di Prodi, per cui la distanza tra il presidente del Consiglio e il suo antico partito di riferimento si allarga. La distanza di­ venta abissale e incolmabile in occasione della crisi di governo dell’autunno del 1998. In quell’occasione, il governo viene messo in minoranza, di un solo voto, dal ritiro della fiducia da parte di Rifondazione comunista, ma Prodi si considera vittima di un’operazione che comprende tra i congiurati anche il Ppi, vista la crescente diffidenza di quest’ultimo nei confronti di un’evoluzione organizzativa dell’Ulivo. La nascita del coordinamento nazionale dell’Ulivo nel maggio del 1998 non era infatti stata salutata con calore dalla nuova dirigenza popolare, anche perché le iniziative prodiane continuavano a drenare preziose risorse umane al partito. Con la nascita del governo D ’Alema sembra che la strategia, delineata da Marini, di un rafforzamento dei partiti del centrosinistra, invece che di un loro superamento, si concretizzi. Ma l’instabilità del sistema partitico è tale che partono subito nuove sfide al ruolo e alla strategia centrista della segreteria mariniana. In realtà, tanto Forza Italia, con la virata «neodemocristiana» del I Congresso e la domanda di adesione al Ppe, quanto il nuovo raggruppamento di centro, l’Unione democratica per la

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repubblica (Udr), promosso dall’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che riunisce le sparse membra di tanti ex democristiani, insidiano il monopolio del Ppi nell’area centra­ le. Il vertice del partito sottovaluta la portata (e il sostegno discreto del vertice della Cei) della prima sfida e confida di gestire la potenzialità disgregatrice della seconda ai propri fini. In effetti, il Ppi non viene intaccato dalla meteora cossighiana, ma non riesce a contrastare l’offensiva neocentrista di Forza Italia che gli sottrae spazio. Inoltre, arriva una sfida interna, ben più pericolosa delle altre. Nel febbraio del 1999 Prodi lancia un nuovo partito che raccoglie numerose personalità di diversa estrazione, dall’ex diessino Massimo Cacciari, sin­ daco di Venezia, al già radicale-ecologista Francesco Rutelli, sindaco di Roma, fino all’ex pubblico ministero Antonio Di Pietro, simbolo di Mani pulite. Questa nuova aggregazione politica - i Democratici - si incunea nello stesso territorio politico centrale in cui insiste il Ppi. Con, in più, la leadership di alto profilo di Prodi. Di fronte a questo attacco concentrico, a cui va aggiunto lo smacco per l’elezione al Quirinale di un laico come Carlo Azeglio Ciampi, al posto del quale Marini avrebbe voluto un esponente del Ppi per ridare lustro al partito, non sorprende che alle elezioni europee del 1999 il partito tocchi il minimo storico del 4,3% - mentre i Democratici veleggiano al 7,7%, peraltro tarpati dall’assenza di Prodi nominato nel frattempo presidente della Commissione europea. L ’insistenza sulla continuità con la tradizione democristia­ na, rintracciabile anche in un disinvolto utilizzo delle risorse del sottogoverno, non costituisce più un atout spendibile sul mercato politico. La virata neocentrista di Forza Italia, per quanto poco credibile - ma poi in realtà certificata dal Ppe e velatamente avallata dalla Cei -, i movimenti delle varie componenti cattoliche nel fronte moderato e soprattutto la nascita dei Democratici di Prodi hanno ristretto lo spazio vitale del partito. Marini non nasconde la portata della crisi e presenta le sue dimissioni con un’inequivoca autocritica. Al congresso straordinario convocato per l’elezione del nuovo segretario (30 settembre-2 ottobre 1999), l’ulivista Pierluigi Castagnetti, viene eletto con un confortevole 70% dei voti. L ’obiettivo è quello di superare il «partito autistico», troppo ripiegato su sé

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stesso, e la sua tradizione, e di promuovere un’aggregazione al centro, non limitata ai soli cattolici, che costituisca la «seconda gamba» dell’Ulivo. La segreteria Castagnetti si muove in coerenza con le premesse, e promesse, di apertura. Seppellisce rapidamente le animosità con la formazione dei prodiani, allaccia una relazione con il residuo movimento cossighiano rimasto in mano a Cle­ mente Mastella (l’Unione democratica per l’Europa, Udeur) e con la piccola formazione Rinnovamento italiano (Ri) di Lam ­ berto Dini, e promuove la costituzione di un coordinamento dei partiti centristi della maggioranza. Il processo aggregativo patrocinato da Castagnetti - e per una volta condiviso da tutto il partito - trova sponde ricettive negli altri partiti dell’area postdemocristiana e ulivista dati anche gli esiti deludenti delle elezioni regionali di tutte le formazioni. I Democratici, invece, che vivono un momento convulso, attraversati da una linea di frattura analoga a quella del Ppi tra chi vuole costruire il partito (Antonio Di Pietro) e chi lo vede come ponte transitorio per arrivare a un nuovo e più ampio soggetto (Arturo Parisi), recalcitrano ad aderire alla proposta unitaria dei popolari; anche dopo la rumorosa fuoriuscita di Di Pietro, addirittura espulso nel corso della II Assemblea delle regioni nel maggio del 2000, i Democratici prendono tempo. Solo con la candidatura alla premiership del centro-sinistra del loro leader, Francesco Rutelli, nell’ottobre del 2000, i Democratici sbloccano le loro perplessità. Le elezioni del 2001, dopo tante sconfitte, offrono infine una bella soddisfazione al Ppi. Il cartello elettorale, che si presenta sotto la sigla Democrazia è libertà-La Margherita, ed è guidato da un outsider rispetto al mondo cattolico come Francesco Rutelli quale candidato premier, raggiunge il 14,5% dei voti, appena 2 punti in meno dei Ds. Dal rischio di finire sotto la soglia di rappresentanza del 4% il Ppi, in simbiosi con gli alleati della Margherita, vede dischiudersi la possibilità di una partnership paritaria con i diessini. Infatti, a eccezione della Zona rossa del Centro, sia al Nord sia al Sud la Margherita sopravanza la Quercia. L ’entusiasmo per il risultato spinge a un rapido consoli­ damento del cartello elettorale su una linea riformista, non confessionale e di centro-sinistra. Soltanto l’Udeur di Mastella si sfila dal progetto: accetta di far parte dei nuovi organismi

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creati subito dopo le elezioni, nel luglio del 2001 - il Comitato costituente e il Comitato esecutivo, l’organo che riunisce i quat­ tro segretari -, ma manifesta una netta contrarietà a confluire nel nuovo soggetto preferendo mantenere una posizione più di confine tra centro-sinistra e centro-destra. Il vero motore della nascita della Margherita sono i Democratici; già alla fine del 2001 decidono di sospendere le attività e di confluire nella nuova formazione lasciando cadere le pregiudiziali per il partito unico dell’Ulivo. Anche all’interno del Ppi si levano perplessità solo da poche, per quanto autorevoli, personalità, come i due primi segretari del partito, Bianco e il redivivo Martinazzoli. Di conseguenza, il IV Congresso del Ppi (8-10 marzo 2002) decreta anch’esso la sospensione delle attività, formula soft per far digerire ai vecchi notabili la confluenza nel nuovo soggetto politico, ma anche per preservare, attraverso la trasformazione del partito in associazione culturale, la proprietà di simboli, sedi e beni. La settimana successiva, a Parma, il 22-24 marzo 2002, viene celebrato il congresso costituente della Margherita, il cui nome ufficiale, opportunamente mai usato, suona «Democrazia è libertà». Il manifesto programmatico riflette le diverse anime che lo compongono, dal popolarismo alla tradizione liberaldemocratica fino all’ambientalismo, residuo omaggio ai trascorsi politici del presidente del nuovo partito, Francesco Rutelli, acclamato alla presidenza dalla platea dei congressisti. Il clima festoso e ottimistico dell’assemblea viene incrinato dalla forte polemica di uno degli architetti del nuovo partito, il prodiano Arturo Parisi, che abbandona le assise criticando l’eccessiva ingerenza dei popolari e lo scarso slancio ulivista. In effetti, il Ppi è l’unico partito strutturato tra quelli che confluiscono nella Margherita e, inevitabilmente, vi trasferisce, forse con qualche ruvidezza, la sua forza organizzata. Del resto, tutte le stanze in cui si sono disegnati gli organigrammi dei partiti della filiera postdemocristiana sono rimaste impregnate dal fumo prima del sigaro e poi della pipa di Franco Marini. La Margherita introduce comunque alcune innovazioni formali interessanti: si articola come partito federale e destina la metà delle risorse finanziarie ai partiti regionali, rilancia la struttura dei circoli come strumento di aggregazione alterna­ tivo alla sezione territoriale e introduce una differenziazione tra aderenti, sostenitori senza diritto ad accedere alle cariche

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interne, e iscritti a pieno titolo, nella speranza di catturare l’attenzione e il coinvolgimento di un maggior numero di cittadini. La consistenza organizzativa a fine anno viene sti­ mata in poco più di 200 mila aderenti, cifra da prendere con beneficio d’inventario, in quanto il tesseramento non brilla per precisione e affidabilità. La Margherita costituisce una novità, forse non troppo sottolineata, vista la sua breve durata, nel panorama politico­ culturale italiano: in essa confluiscono per la prima volta com­ ponenti di diversa origine ed esperienza, laiche e cattoliche, socialiste e liberali, animate da una progettualità alta, quasi «rivoluzionaria», vale a dire la realizzazione di una nuova sintesi, di un «nuovo riformismo», come campeggia nello slogan del congresso di fondazione. Il distacco tormentato, e in certi passaggi abilmente guidato da Rutelli, dall’alveo anche organizzativo della tradizione democristiana e popolare verso un interregno - rappresentato, a livello europeo, dopo le ele­ zioni europee del 2004, dalla costituzione, insieme al centrista cattolico francese Francois Bayrou e a qualche altra compo­ nente minore, del Partito democratico europeo (mentre nel parlamento di Strasburgo aderisce al gruppo liberal-riformista dell’Alde) - attesta l’insoddisfazione per le tradizioni politi­ che del Novecento e la necessità di individuare «un altrove». Questa ricerca, in realtà, si arena ben presto nel deserto di un investimento culturale pressoché nullo e nella fanghiglia della politique politicienne. Le prospettive ambiziose di una nuova sintesi e di un nuovo percorso, sottolineate con forza tanto dai prodiani per intendere la nascita del partito riformista, quanto dallo stesso Rutelli per trovare un terreno di crescita autonomo e originale, sfumano di fronte alle contingenze della politica quotidiana. Ma se i prodiani, con alla testa un indefettibile e inflessibile Parisi, mantengono la loro carica utopica, quan­ tomeno in termini di ingegneria partitica, Rutelli cede presto al mainstream politico-culturale dominante della Margherita, vale a dire il riferimento cattolico. Un riferimento condiviso da larga parte del suo elettorato benché non esclusivo, visto che un quinto di esso non si considera credente e non va mai a messa. Complice anche uno spirito dei tempi molto cambiato, alterato dall’11 settembre e dalla svolta in senso più tradizionale della chiesa, la Margherita diluisce i suoi

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tratti più innovativi incanalandosi piuttosto lungo i fondali consueti dei riferimenti cattolici, anche se increspati da tur­ binìi di stampo integrista. Il voto favorevole di buona parte del partito al progetto di legge del governo Berlusconi sulla fecondazione assistita esemplifica la deriva confessionale. La Margherita assume sempre più i connotati di partito cattolico, ben distante però dall’ispirazione cattolico-democratica e laica dei riformatori del primo Ppi. Anzi, trovano ospitalità anche posizioni fondamentaliste in sintonia con i mutati orientamenti della chiesa e della Cei. La vita della Margherita, così come, peraltro, quella dei Ds, si intreccia con l’accidentato percorso unitario della coalizione di centro-sinistra. Dopo un primo anno di rodaggio, il partito di Rutelli deve affrontare e gestire, di nuovo, il rapporto con Prodi. La proposta del presidente della Commissione dell’U­ nione Europea per la costituzione di un partito riformista, lanciata nell’estate del 2003, rimette in discussione il futuro della Margherita e riapre la conflittualità latente e mai sopita tra partitici e ulivisti. Alla resa dei conti, nel I congresso (12-14 marzo 2004), prevale nettamente l’impostazione favorevole a un rafforzamento dell’identità del nuovo partito. Il nocciolo duro degli ulivisti non va oltre un quinto dei delegati, mentre più della metà si identifica con l’eredità del Ppi; in posizione mediana vi è Rutelli, sostenuto da un quarto dei congressisti. Sulla scelta del radicamento pesano non solo la stanchezza per i cambiamenti (che per i popolari coprono un decennio intero), ma anche un tendenziale sbilanciamento nel reclutamento e nel consenso elettorale verso le regioni meridionali (che rap­ presentano più dei due terzi del partito), al cui elettorato va spesso garantito un benefit selettivo che non può venire altro che da una continuità organizzativa. La debolezza degli ulivisti si accentua dopo il risultato delle elezioni europee, affrontate insieme a Ds, socialisti e repubblicani dissidenti nella lista Uniti nell’Ulivo. L ’esito poco entusiasmante di questo primo test unitario (31,1 con­ tro il 30,8% delle politiche del 2001) rallenta bruscamente il cammino ulivista. Rutelli decide immediatamente di presentare liste proprie alle elezioni regionali del 2005 e ridimensionare l’impegno della Margherita a un patto federativo tra i vari partiti. Ma la minoranza ulivista non demorde. La sua insi­ stenza, giocando di sponda con Prodi che minaccia di lasciare

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tutto, consente di strappare, dopo un lungo tira e molla, liste comuni in 9 regioni su 14. Alle elezioni regionali il centro-sinistra vince in 12 regio­ ni su 14; ma per la Margherita il risultato è insoddisfacente. Nelle 5 regioni in cui si è presentata con il proprio simbolo ha ottenuto soltanto il 10,5%, una quota ben al di sotto delle aspettative, e inferiore di 4 punti percentuali rispetto al 2001. Ciononostante, il 75% dei membri dell’Assemblea federale approva una mozione per presentare liste autonome alle imminenti elezioni politiche giustificando tale scelta come la modalità più efficace per intercettare gli elettori in libera uscita dal centro-destra. Un’impostazione che fa prevedere un posizionamento sempre più «centrale» e sempre meno di centro-sinistra o ulivista tout court. Questa ferma determina­ zione si scioglie però come neve al sole dopo il travolgente successo delle primarie per la scelta del candidato premier del centro-sinistra. Allorché il 16 ottobre 2005 più di 4 milioni di elettori si mobilitano e il 74,1% sceglie Prodi, immediatamente tutti i leader «partitici» della Margherita abbandonano l’ipo­ tesi di liste autonome. Saranno riproposte, solo al Senato, ma per ragioni «strumentali», in conseguenza della nuova legge elettorale approvata alla fine del 2005. Il risultato delle elezioni del 2006 non è brillante come nella tornata precedente: il partito si ferma al 10,5% al Senato. Ma il risultato non sconcerta più di tanto. Da un lato, l’elezione del vero leader del partito, Franco Marini, alla presidenza del Senato gratifica il bisogno di riconoscimento a lungo cercato, dall’altro, la strada della confluenza nel nuovo soggetto rifor­ mista è ormai tracciata. Certo, permane il timore, espresso con forza da alcuni dirigenti di antica ascendenza democristiana come Ciriaco De Mita, di farsi assorbire dai Ds e di «morire socialisti», ma l’ultimo congresso della Margherita, convocato in contemporanea con quello dei Ds il 20-22 aprile 2007, pur tra discussioni e litigi (protagonista ancora Parisi), soprattutto per un numero irrealistico di iscritti dichiarati (un paradossale 448.537, di cui due terzi nel Centro-Sud, con una punta di 89.144 membri in Campania) - brutto segno di antichi vizi democri­ stiani - conclude unitariamente a favore dello scioglimento. L ’adesione al Partito democratico (Pd) comporta ovvia­ mente dei rischi - inevitabili in chi rappresenta lo junior part­ ner -, il maggiore dei quali è l’offuscamento del riferimento

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ideale cattolico-democratico. La nuova sintesi attraverso la contaminazione delle culture, tanto enfatizzata dagli 1 divisti a 24 carati, diventa il banco di prova della forza propulsiva di quella tradizione politico-culturale. La resistenza sarà grintosa ma alla fine la connotazione confessionale e lo specifico popolare-ulivista si diluirà pro­ gressivamente nel corpo del nuovo partito. Il colpo finale sarà assestato da un leader come Matteo Renzi che, in linea di principio, avrebbe dovuto essere in presa diretta con quella tradizione; e invece Renzi farà aderire subito il Pd al Partito socialista europeo - pillola amarissima per popolari e ulivisti - e aprirà senza esitazioni il partito a un’accezione laica su temi etici e diritti civili come fosse cresciuto tra i radicali di Marco Pannella e non tra i cattolici boy-scout. I postdemocristiani del Polo: Ccd, Cdu, Udc e Udeur Alla nascita del Ppi, nel gennaio del 1994, la separazione del Ccd non arriva inaspettata. Già alcuni mesi prima due giovani leader di seconda fila, Clemente Mastella e Pierferdinando Casini, si sono attrezzati per il grande passo. Fin dal luglio precedente, essi predispongono un organigramma-ombra all’interno del quale convogliare coloro che si oppongono al rinnovamento promosso da Martinazzoli. Per gli scissionisti la trasformazione della De in un partito su basi democratico­ popolari e di cattolicesimo sociale costituisce un vulnus alla tradizione moderata e centrista dello scudo crociato. La fedeltà a quella tradizione impone ai fondatori del nuovo partito che si spartiscono le responsabilità occupando le cariche di presidente e di segretario - di collocarsi sul fianco moderato dello schieramento politico. Avendo assimilato in fretta la logica del nuovo sistema maggioritario, per loro è naturale scegliere il fronte alternativo alla sinistra. L ’accoglienza da parte di Forza Italia non può essere più generosa: ai candidati del Ccd vengono offerti numerosi collegi sicuri in modo da garantire al partito un’ampia rappresentanza (ben 36 deputati e 18 senatori) in cambio Forza Italia riceve la mobilitazione di un personale politico radicato nel territorio. Il partito si struttura in maniera piuttosto originale rispetto ai canoni tradizionali e per certi aspetti prefigura l’architettura

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organizzativa di Forza Italia. Lo statuto prevede infatti due tipologie di iscritti: gli «aderenti», che fanno parte dei circoli (la struttura di base del partito) e che svolgono funzioni di mobilitazione e propaganda ma non entrano nel processo decisionale, e i «soci», di cui fanno parte solo i presidenti dei circoli nonché i candidati e gli eletti alle varie assemblee rap­ presentative. Un doppio livello di membership che riproduce il classico «partito di notabili», dove l’iscritto viene tenuto in una posizione sostanzialmente subordinata rispetto all’eletto. Questa conformazione è comunque coerente con il personale politico del Ccd, composto prevalentemente da quadri locali e da eletti, abili nell’intessere relazioni con gli interessi organizzati ma piuttosto lontani dal mondo del volontariato e dell’asso­ ciazionismo cattolico. Al I Congresso (10-12 marzo 1995) su 30 mila iscritti-aderenti dichiarati ben 8 mila sono eletti nelle varie amministrazioni locali, la maggior parte nei comuni sotto i 15 mila abitanti. Il partito poggia quindi sulla classe politica notabilare e meridionale della ex De, classe politica che attira iscritti ed elettori congruenti con il suo profilo. La prima prova elettorale senza rete protettiva (regionali 1995) colloca il Ccd non lontano dal Ppi (peraltro ancora frastornato dalla scissione di Buttigliene): 4,2 contro 6%. Il partito sembra aver raggiunto un suo equilibrio politico­ elettorale: l’identità è chiara (cattolica-moderata), la scelta di campo altrettanto (con il centro-destra), così come l’elettorato di riferimento (ex democristiani moderati e prevalentemente centro-meridionali). Alle elezioni politiche del 1996 il Ccd si presenta insieme ai Cristiani democratici uniti (Cdu) di Buttigliene, del quale condivide l’aspirazione alla ricostituzione di un centro demo­ cratico-cristiano benché non sia attraversato dallo stesso impeto confessionale-spirituale né dalla hybris di sostituire a breve l’usurpatore (delle truppe cattoliche) Berlusconi. Il risultato non è entusiasmante (5,8%), ma non produce lacerazioni tra i due partiti che, anzi, formano gruppi parlamentari comuni. Entrambi procedono tranquilli, finché non vengono inve­ stiti dal ciclone cossighiano che scuote in profondità il Ccd e trascina con sé tutto il Cdu. Per iniziativa dell’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, nel febbraio del 1998 viene creata una nuova formazione, l’Udr, che ha una nascita tipicamente interna, dato che il nucleo centrale è costituito da

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parlamentari del Cdu e del Ccd: da quest’ultimo attrae l’ex segretario Clemente Mastella, con gran parte dei parlamentari, mentre il Cdu aderisce in blocco, Buttiglione in testa, benché l’altra figura di spicco del partito, anch’egli espressione di Comunione e liberazione, Roberto Formigoni, non accetti la confluenza e preferisca defilarsi (salvo poi aderire a Forza Ita­ lia). La convenzione costituente dell’Udr (2 luglio 1998) affida a Mastella la segreteria e a Buttiglione e Cossiga la presidenza effettiva e onoraria. La caduta del governo Prodi e la nascita del governo D ’Alema con l’apporto dei voti dell’Udr e con la partecipazione di ben tre ministri, di cui uno a un dicastero importante come la Difesa, costituiscono l’apice delle fortune politiche del progetto cossighiano. In realtà, si tratta di un successo effimero perché il centro-sinistra non ridefinisce il proprio perimetro politico e gli altri partiti del centro-destra, soprattutto Forza Italia, verso cui era indirizzata l’operazione dell’ex presidente, resistono all’offensiva. Alla fine, fallisce il progetto di coagulare le sparse membra degli ex democristiani e provocare la frana di Forza Italia per poi, con quelle truppe, «rifare la De». La massa di manovra parlamentare che Cossiga pensava di gestire non poteva che disperdersi di fronte alle prime difficoltà, proprio per la sua debolezza strutturale e la sua eterogeneità. L ’elezione di Ciampi al Quirinale - osteggiata ferocemente da Cossiga - e lo squagliamento dell’Udr di fronte alla scadenza delle europee fanno calare il sipario su questa ulteriore chi­ mera neocentrista. Il gruppo parlamentare dell’Udr si scioglie ufficialmente il 30 giugno 1999 ma il suo segretario, Clemente Mastella, mantiene in vita quel poco di organizzazione che si era formata adottando il nuovo nome di Udeur (in quanto Cossiga rifiuta di lasciargli in eredità la sigla dell’Udr). L ’al­ tra componente maggiore dell’avventura cossighiana, quella di Buttiglione, rifluisce nell’alveo, prudentemente congelato ma non abbandonato, del Cdu e si presenta alle europee con quella sigla raccogliendo il 2,2%. La scissione di Mastella verso Cossiga riduce inizialmente la presa elettorale del Ccd, soprattutto in Campania, terra di Mastella, tant’è che alle europee del 1999 il partito scende al 2,6%. Comunque il Ccd dispone ancora di un buon numero di parlamentari ed eletti locali e, soprattutto, di una leadership molto visibile, quella di Casini, confermata al II Congresso

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(21-23 gennaio 2000). In conclusione, le perdite causate dalle scorrerie cossighiane sono contenute: alle elezioni regionali del 2000 il Ccd ottiene il 3,4%, cifra che raddoppia nelle regioni meridionali assicurando quindi al partito un buon margine di manovra nelle arene rappresentative del Sud. Fallito il progetto Udr, rimane vero che la compresenza di due partiti cattolici quali il Ccd e il Cdu, entrambi moderati ed entrambi schierati con il centro-destra, stride con la logica politica. Per quanto diversi, classicamente democristiano, incen­ trato sull’attività degli eletti e impegnato nel tessere relazioni personali e clientelari, il primo, confessionale e fortemente impregnato di riferimenti ed esperienze religiose, soprattutto grazie al sostegno di Comunione e liberazione, il secondo, il processo di unificazione tra Ccd e Cdu si prospetta inevitabile. Le loro caratteristiche distintive si compenetrano perfetta­ mente, assicurando al nuovo soggetto le risorse che mancano a ciascuno dei due partiti. In realtà, l’unificazione produce, come spesso succede, risultati assai deludenti. Alle elezioni politiche del 2001 i due partiti, che si presentano uniti sotto la polverosa sigla del Biancofiore, raccolgono un misero 3,2%, addirittura inferiore a quanto aveva raccolto il solo Ccd alle regionali dell’anno prima. Si tratta di un risultato umiliante rispetto a concorrenti vicini come Democrazia europea (3,4%) - il nuovo ed effimero partito lanciato da Giulio Andreotti e Sergio D ’Antoni - e lontani come la Margherita, accreditata di uno stratosferico 14,5%. Nonostante il limitato consenso elettorale, i due partiti possono comunque giovarsi, come sempre, di una generosa ospitalità tra le fila della Casa delle libertà, al punto da ga­ rantirsi ben 70 parlamentari (45 al Ccd e 25 al Cdu), il 7,4% del totale, una percentuale più che doppia rispetto a quella che sarebbe spettata loro sulla base dei voti ottenuti. Il ritorno al governo con due ministri (benché senza portafoglio), ma soprattutto l’elezione di Casini alla presidenza della Camera, compensano il modesto responso delle urne. L ’unificazione tra Cdu e Ccd (all’interno del quale è stata reintrodotta la figura di segretario, affidata a Marco Follini dopo l’ascesa di Casini allo scranno più alto di Montecitorio) prende corpo solo alla fine del 2002, un anno e mezzo dopo l’alleanza elettorale per le politiche. Il ritardo con il quale si giunge a un esito che appariva da tempo scontato attesta l’esistenza di alcune

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divergenze non così irrilevanti. Le posizioni di Marco Follini, eletto segretario del neonato partito, l’Unione dei democratici cristiani (Udc), sono ben diverse da quelle del leader dell’ex Cdu, Rocco Buttigliene. Mentre il primo indica nella modera­ zione l’elemento identificativo del nuovo partito, distaccandosi con fastidio dai toni virulenti e dalla radicalità dei partner della coalizione di centro-destra e mettendo quasi la sordina al tratto confessionale del partito, il secondo insiste invece sulla necessità di connotare l’Udc come partito della riscossa cattolica in linea con gli appelli dell’ultimo Wojtyla. Follini conduce l’Udc al confronto-scontro con gli alleati di governo: prima stabilisce un rapporto privilegiato con An al fine di contrastare lo strapotere dell’asse Berlusconi-Bossi, poi, muovendosi in solitaria, passa a martellare il bersaglio grosso, e cioè lo stesso capo della coalizione. Con un crescendo continuo, Follini trascina un sempre più riluttante partito allo scontro diretto con Berlusconi arrivando a contestarne la leadership. Nemmeno la nomina a vicepresidente del Consiglio, nel dicembre del 2004, frena il segretario dell’Udc nella sua iconoclastia. Del resto, in coerenza con gli assunti di un centro cattolico-moderato, erede della tradizione inclusiva, prosistemica e solidale della De, è ben difficile accettare la xenofobia, l’euroscetticismo, un lassez faire spinto e disattento alla socialità, l’aggressività nei confronti degli avversari, nonché una disinvoltura istituzionale piegata a interessi particolari se non personali. Tutti questi elementi di stile e di sostanza pongono la leadership dell’Udc in contrasto con i suoi alleati di governo. Tuttavia, esiste uno iato tra l’impostazione folliniana e la realtà del suo partito. L ’Udc è quasi una Lega del Sud tanto è il peso delle regioni meridionali e soprattutto della Sicilia, che da sola vale un sesto di tutto il partito. Non per nulla alle amministrative parziali del 2003 l’Udc ottiene il 17,6% nelle province siciliane (e il 14% nelle europee dell’anno successivo a fronte di un 5,9% nazionale) e, a conferma del suo successo nell’isola, ottiene la guida della regione (con Totò Cuffaro). Le priorità delle constituencies meridionali sono decisamente diverse da quelle veicolate dal segretario. Una sfida al berlusconismo imperniata sulla moderazione, così come sulle buone maniere, si muove su piani incompatibili, al limite incomprensibili, con chi è abituato a trattare con gli interessi organizzati e a interagire in ambienti particolarmente «difficili» come quelli meridionali

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c siciliani in ispecie. Poiché in periferia, nel nocciolo duro del partito, dove l’Udc vanta decine di consiglieri regionali, circa 200 sindaci e oltre 4 mila consiglieri comunali, prevale un approccio che si affida soprattutto alla mediazione e allo scambio, o la le­ adership nazionale impone la sua visione, con effetti traumatici nelle zone forti del partito, o alla fine si adegua. Lo iato, a un certo punto, deve essere colmato. In occasione del rimpasto governativo del dicembre del 2004 le aspettative di «riconosci­ mento» della componente siciliana vengono totalmente disattese in quanto l’unica promozione ottenuta, oltre alla vicepresidenza del Consiglio per lo stesso Follini, è riservata a un esponente della vecchia guardia democristiana, e di estrazione Ccd, quale Mario Baccini, che passa da sottosegretario a ministro (senza portafoglio, però). Lo sfregio non rimane senza conseguenze. Uno dei capi del partito in Sicilia, Raffaele Lombardo, esce dal partito fondando il Movimento per le autonomie (Mpa) e trascinando con sé molti delusi del mancato riconoscimento ai collettori di tanti voti. Ciononostante, il II Congresso dell’Udc (1-3 luglio 2005), tenutosi dopo le dimissioni polemiche del suo segretario dal governo e il risultato a luci e ombre delle regionali (5,8%: modesto in sé ma non così negativo in rapporto alla crisi del centro-destra), fila liscio e tranquillo. Foliini è riconfermato con amplissima maggioranza (gli fanno fronda solo gli iperberlusconiani) pur non lesinando critiche a oppositori interni e alleati esterni. Ma la crisi sta montando e ormai anche il vero dominus del partito, Casini, vecchio amico e sodale di Foliini, comincia ad allentare i legami con lui, con la conseguenza di emarginarlo sempre più. Situazione dalla quale il segretario trae le dovute conclusioni rassegnando le irrevocabili dimissioni nell’ottobre del 2005. L ’intonazione laica e modernizzante modulata da Follini non poteva reggere in un ambiente politico esterno sovraecci­ tato dallo scontro continuo con l’opposizione e in un partito adagiato su logiche clientelati - entusiasticamente adottate dalla componente meridionale -, e impregnato di fondamentalismo cattolico, al quale la componente interna di provenienza Cdu fa da cassa di risonanza. Insomma l’Udc, con la benedizione di Casini, ma forse con personale malincuore di quest’ultimo, alla fine, «espelle» il corpo estraneo Follini. La sua sostituzione con Lorenzo Cesa sancisce il ritorno a un approccio più morbido e non conflittuale nei confronti degli altri partner di governo. Tuttavia, all’approssimarsi della

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scadenza elettorale del 2006 anche Casini segue, seppur con modi e toni ben più felpati, il tracciato segnato da Foliini, tanto che manifesta la necessità di voltare pagina rispetto a un centro-destra dominato da Berlusconi. L ’esito delle elezioni non consente però all’Udc di prendere alcuna iniziativa forte. Il 6,8%, per quanto sia un risultato discreto in sé (+3,5% ), soprattutto se si considera lo sbandamento delle fila meridionali causato dalla scissione di Lombardo due anni prima - tant’è che il partito cresce sopra la media al Nord ma rimane nettamente sotto la media al Sud - è insufficiente a consentire un salto di qualità nel sistema partitico: troppo modesto il consenso del partito, troppo forte (ancora) la leadership di Berlusconi. Nel corso della legislatura 2006-2008 l’Udc alterna l’allinea­ mento agli ex alleati di governo con prese di distanza, anche clamorose, su vari temi, soprattutto in politica estera, dove ri­ suona un europeismo senza falle di antica marca democristiana. Questo ondeggiamento riflette tanto la sua debolezza politica, sanzionata dai piccoli numeri, quanto l’assenza di sponde cre­ dibili sul versante di sinistra, per cui il desiderio/ambizione di proporsi come perno di un nuovo centro rimane frustrato. Eppure la collocazione centrista dell’Udc poggia su alcuni fondamenti reali: non solo il suo elettorato si posiziona esat­ tamente al centro dell’asse destra-sinistra, ma si differenzia da quello degli altri partner di coalizione per essere più sensibile ai problemi sociali, meno ostile agli immigrati e più attento ai valori della vita, ivi compresa la pena di morte (non per nulla oltre il 40% è composto da praticanti regolari, la quota più alta fra tutti i partiti italiani). La convivenza nello stesso contenitore di richiami ai principi della dottrina cattolica, di tradizionale benpensantismo e di disinvoltura nei confronti delle risorse e del potere certo garantisce al partito uno spazio e un ruolo. Ma lo spazio rimane angusto perché né a sinistra né, soprattutto, a destra si intravedono smottamenti in suo favore e neppure cenni di interesse. Questa situazione di difficoltà prospettica è acuita dal di­ lemma strategico che l’Udc si trova ad affrontare con la nascita subitanea del Popolo delle libertà (Pdl), la nuova formazione a traino berlusconiano aperta ad Alleanza nazionale. Di fron­ te all’aggregazione dei due maggiori partiti del centro-destra e all’incentivo a coalizzarsi insito nel sistema elettorale che premia la coalizione vincente, l’Udc si trova a dover decidere

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se tornare a fare lo junior partner entrando nel Pdl con la ga­ ranzia di qualche seggio sicuro, oppure continuare a proporre un’«alternativa» centrista confidando nell’insofferenza per un bipolarismo così accesso nei toni e onnivoro nei voti. La scelta è quella dell’autonomia: il partito non aderisce al Pdl e corre da solo alle elezioni del 2008. Si tratta di una scelta rischiosa perché lo sbarramento posto al Senato per chi non è coalizzato è dell’8%, da raggiungere in almeno una regione: il che significa che il partito deve eguagliare i suoi migliori risultati. Alla fine, la sfida è vinta, seppure di un soffio, grazie ai buoni risultati ottenuti al Sud, dove recupera le posizioni perse nella tornata precedente. Inoltre, il fatto di essere l’unico partito fuori dalle coalizioni a superare gli sbarramenti della Camera e del Senato, oltre a rafforzare la leadership di Casini, suggerisce una via di sviluppo autonomo al centro. 11 partito dimostra di essere in grado di mantenere legami con una parte della società civile moderata, conservatrice e tradi­ zionalista ma, allo stesso tempo, l’ipotesi di attrarre gli scontenti dello scontro muscolare tra centro-destra e centro-sinistra si dimostra irrealistica. Non c’è molto spazio per la moderazione e, inoltre, l’appello confessionale non attrae più di tanto l’elet­ torato sia per il restringimento di questa constituency, sia per la concorrenza esercitata da altri partiti tanto a destra quanto a sinistra. Infine, ancora più problematico è il travaso di voti alle elezioni: circa metà del suo elettorato precedente è andato a destra, al Pdl, mentre una cifra quasi simile è arrivata dagli scontenti (moderati e confessionali) del centro-sinistra. Invece di prendere voti da entrambe le parti, in linea con una visione autenticamente centrista, l’Udc si trova «involontariamente» più innervato da apporti provenienti da sinistra. Certo, proprio l’afflusso di cattolici moderati a disagio nel Pd, così come la fuoriuscita dei più conservatori verso destra, fornirebbe, in linea di principio, una vera caratura centrista all’Udc. Anche se il suo cuore batte a destra, l’Udc mantiene una posizione equidistante nei confronti dei due poli. E lo attesta alle elezioni regionali del 2010, dove modula la propria presenza su ogni registro, dalle liste autonome (in 5 regioni) al sostegno tanto al Pdl (in 3 regioni) quanto al Pd (in 4 regioni). Una scelta vincente sul piano dell'efficacia, non tanto in termini di voti (anzi), quanto di potere poiché il suo appoggio ai partiti maggiori lo ha portato al governo di 6 regioni, il punto di forza del partito consiste

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nel suo potenziale di coalizione che esercita disinvoltamente tra i due poli, mentre la sua capacità di attrazione elettorale rimane assai modesta in quanto l’elettorato centrista preferisce, alla fine, scegliere l’una o l’altra alternativa. Alla fine dell’anno, l’appiattimento di Berlusconi sulla Lega e le sbavature della vita privata del presidente del Consiglio portano il partito su posizioni critiche verso il governo. Al momento decisivo, nonostante pressioni e miniscissioni, l’Udc presenta, congiuntamente con il nuovo raggruppamento finiano di Futuro e libertà per l’Italia (F1I), con l’Mpa di Raffaele Lom­ bardo, e con Alleanza per l’Italia (Api) di Francesco Rutelli, la mozione di sfiducia al governo Berlusconi. Per il partito di Casini si tratta della rottura di un sodalizio con il Cavaliere durato tre lustri almeno. Benché non fossero mancate critiche nei confronti di Berlusconi fin dal distacco dell’Udc dalla Casa delle libertà nel 2007, Casini non aveva mai interrotto i rapporti con Berlusconi, tanto da aver preferito una dolorosa rottura del rapporto personale e politico di lunga data con Marco Follini, quando questi si era dimesso da segretario nel 2005 in polemica con il leader di Forza Italia, piuttosto che abbandonare quest’ultimo. Il voto contro il governo non porta comunque a una rot­ tura definitiva con Berlusconi. Del resto, in termini valoriali non c’è nulla che accomuni l’Udc alla sinistra, se non un sentimento filoeuropeo, un atteggiamento non ostile verso gli immigrati e un minimo di senso dello stato, frutti dell’eredità democristiana. L ’idem sentire si accorda piuttosto con quel moderatismo che l’Udc cerca di «estrarre» dal corpaccione del Pdl. Un tentativo vano che non porterà mai alcun frutto. Eppure le speranze centriste avevano avuto un ritorno di fiamma in occasione dell’iperpubblicizzato convegno di un cartello di associazioni di ispirazione cattolica (Cisl, Confartigianato, Confcooperative, Coldiretti, Adi, Movimento cristiano lavoratori e Compagnia delle opere) riunito a Todi nell’ottobre del 2011. Quell’entrata in scena del mondo cattolico in con­ trapposizione al capo dell’esecutivo, benedetta dalle gerarchie ecclesiastiche, era semmai servita per dare forza al definitivo distacco dell’Udc dal governo, al quale nega ripetutamente la fiducia fino alla sua caduta finale. Con l’uscita di scena di Berlusconi e la nascita del governo Monti, l’Udc, che sostiene caldamente il nuovo esecutivo, po­

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trebbe godere di quell’appeal dovuto a chi chiedeva da tempo, isolato, il superamento degli steccati tra i poli. In fondo, Mario Monti simboleggia proprio l’estraneità alla conflittualità esaspe­ rata di quegl’anni. Tuttavia, avviene esattamente il contrario: il ruolo di alterità ai blocchi che l’Udc incarnava in esclusiva non ha più spazio, perché c’è Monti che lo occupa. Il colpo finale viene dalla decisione dell’ex commissario europeo di candidarsi alle politiche con un proprio partito. E evidente che il premier uscente, andando a occupare con tutto il suo peso il centro, mette in ombra ogni altra offerta che si presenti nello stesso spazio politico. Per l’Udc non ci sono altre possibilità che «saltare sul carro» del (supposto) vincitore. E vi riesce. L ’intesa siglata con Monti è un vero colpo da maestro di Casini perché riesce a far accettare all’impolitico e al tecnico Monti un accordo con il suo contrario, ossia con il più navigato esponente della politique politicienne ancora in circolazione. Solo che il responso delle urne è molto amaro. L ’Udc raccoglie appena 1’ 1,8% e 8 parlamentari, il peggior risultato della sua storia. Il «centro» montiano non solo non sfonda, ma trascina alla rovina anche il più antico e coerente paladino del centrismo. L ’ingresso al governo delle larghe intese presieduto da Enrico Letta con un ministro non attenua il senso di mar­ ginalità del partito. L ’esaurimento della convivenza con Scelta civica, e la nascita del Nuovo centrodestra (Ned), il movimento scissionista dei ministri Pdl guidato da Angelino Alfano, lasciano il partito in una terra incognita, alla ricerca di una linea politica tra riproposizione di alleanze centriste e tentazioni di ritorno al centro-destra. Il travagliato congresso (21-23 gennaio 2014), celebrato sette anni dopo il primo, in cui viene riconfermato per una manciata di voti il segretario Cesa sul ministro Gianpiero D ’Alia, oltre a segnalare un conflitto fra tentativi di rinnovamento interno e resistenza della vecchia guardia, non definisce la linea strategica. E piuttosto la nascita del governo Renzi e la partecipazione al governo con un proprio esponente, quale ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti - un sodale di Casini, che quindi rinfodera le proprie perplessità - a far prevalere la linea filocentrista; un indirizzo che si concretizza poi con una lista unitaria insieme all’Ncd di Alfano alle elezioni europee. Tuttavia, ancora una volta, i voti latitano: la lista raggiunge appena il 4,4%, (-2,1% rispetto alla sola Udc nel 2009), anche

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perché è mancato il sostegno della componente siciliana, uscita insieme a D ’Alia. L ’ipotesi di una via centrista autonoma non trova consensi. Nonostante la delusione, alla fine del 2014 Udc e Ned fondono i rispettivi gruppi parlamentari sotto l’etichetta di «Area popolare» (Ap). Anche questa configurazione non raccoglie però i successi elettorali sperati, tutt’altro. Al di là di qualche isola meridionale il centrismo raccoglie suffragi modesti. Nemmeno la riproposizione alle regionali del 2015 della strategia adottata nel 2010 di presentarsi insieme ad altre forze politiche, alternativamente di destra o di sinistra, risulta redditizia, contrariamente alla precedente esperienza. A eccezione della Puglia, i consensi scendono intorno al 2%, con una manciata appena di consiglieri. La restrizione del bacino elettorale, pur in comunione con l’Ncd, e la nascita del gruppo parlamentare Alleanza liberalpopolare-autonomie (Ala) fondato da Denis Verdini, a lungo braccio destro di Berlusconi, ma in rotta con quest’ultimo dopo la sua virata antigovernativa all’inizio del 2015, rendono molto incerto il futuro deU’Udc. Ma ancor più impervio da affrontare è il distacco di Casini dalla «sua» creatura. Il casus belli che innesca la rottura, che covava da tempo, è fornito dall’adesione dell’Udc al fronte del No nel referendum costituzionale del dicembre del 2016. Questa scelta provoca l’abbandono di Casini (e del ministro Galletti) e rompe il sodalizio con l’Ncd, peraltro già indebolito da varie uscite alla spicciolata di parlamentari e rappresentanti locali. In conseguenza di questa divaricazione, l’Udc si stacca dal fronte comune in Ap e ritorna nell’orbita del centro-destra. L ’Ncd di Alfano, per parte sua, tenta un rilancio nel marzo del 2017 ridefinendosi come Alleanza popolare. In linea di principio, la nuova formazione si muove su un terreno più agevole rispetto all’ex partner Ucd in quanto ha una presenza nel governo non irrilevante (il leader è ministro degli Esteri, e lo affiancano due altri ministri e viceministri); e anche i primi risultati alle amministrative parziali di maggio non sono del tutto scoraggianti. Ma il disastro delle elezioni siciliane del novembre del 2017 (con il 4,2% non supera la soglia del 5% per ottenere rappresentanti a Palazzo dei Normanni), benché da sempre feudo elettorale del partito, e la sconfitta personale di Alfano nella sua Agrigento portano alla dissoluzione finale.

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È una sorta di liberi tutti, con i vari esponenti che scelgono o il ritorno nella casa forzista o l’alleanza con il Pd, in linea con la partecipazione al governo. Quest’ultima componente dà vita alla lista Civica popolare, promossa dal ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, e nella quale poi confluisce anche Casini. Angelino Alfano, prendendo atto dell’inabissamento della sua formazione, esce di scena e rinuncia a presentarsi alle elezioni del 2018. Quanto all’Udc, non gli rimane che tornare all’ovile di centro-destra in vista delle elezioni del 2018. La girandola delle varie formazioni «centriste» nell’ultima legislatura dimostra l’incapacità di mantenere coeso, attorno a un attore ben riconoscibile, un mondo di nostalgie per un passato tramontato (quello democristiano, ormai remoto), o di speranze per un futuro mai sorto (quello di un’alternativa al bipolarismo post-1994). L ’unica risorsa dell’Udc negli anni successivi alla sua fuoriuscita dall’alleanza di centro-destra, nel 2008, consisteva nella partecipazione ad alcuni governi locali - regionali e comunali - concentrati nel Mezzogiorno. Questa risorsa si è però andata esaurendo per l’isterilimento del consenso elettorale e per l’offuscamento della presenza politica, a causa sia della crescente «estraneità» del leader indiscusso del partito (Casini), sia della concorrenza di altri attori centristi (Monti prima e Alfano poi). Si chiude così la parabola centrista degli eredi della com­ ponente moderata di derivazione democristiana. La fine del bipolarismo e l’avvio del tripolarismo, invece di fornire ali­ mento a un’offerta fuori dai blocchi, ne ha del tutto esaurito la praticabilità politica. La formazione di un robusto terzo polo e/o di una rinascita democristiana (che ha avuto la sua ultima fiammata nei convegni di Todi) si è rivelata una chi­ mera. Lo spazio elettorale «centrale» in Italia dopo il 1994 non è mai stato «centrista». I moderati e la moderazione sono stati scartati dagli elettori che hanno invece preferito proposte politiche ben precise e marcate. E infine, nonostante una visibilità delle questioni religiose tanto martellante mediaticamente quanto ininfluente nella società, la realtà di una galoppante secolarizzazione a partire dagli anni Novanta ha inciso sul comportamento elettorale, rendendo non attraente una proposta confessionalmente identificata.

Capitolo sesto

Msi-An. La nostalgia al binario morto

La ricostituzione di un partito che si ispirasse più o meno apertamente al fascismo avviene in tempi rapidi. Appena un anno e mezzo dopo la fine della guerra, nel dicembre del 1946, per iniziativa di un gruppo di giovani ex fascisti sostenuti, nell’ombra, da alcuni gerarchi del vecchio regime, viene fonda­ to, nello studio di Arturo Michelini, ex vicefederale di Roma, il Movimento sociale italiano (Msi). Questo partito si dichiara, prima in forme velate, poi sempre più esplicitamente, erede del fascismo nella sua ultima versione, quella della Repubblica sociale italiana (Rsi). Il riferimento alla Repubblica di Salò comporta una precisa scelta politico-ideale, e cioè il richiamo ai principi socializzatori, anticapitalisti e antiborghesi e, allo stesso tempo, l’ostilità per quei fascisti del Centro-Sud che non avevano seguito Mussolini nella sua ultima stagione. Il Msi nasce quindi con un’impronta ideologica ben definita, e cioè con una decisa preferenza per la tendenza del «fascismo-movimento». Solo qualche anno si affermerà, per rimanere poi dominante all’interno del partito, l’altra tendenza costitutiva dell’ideo­ logia fascista, quella del «fascismo-regime», caratterizzata da un’impostazione filoclericale e conservatrice-benpensante, sulla quale ricalcare i riferimenti nostalgici. In questa fase genetica, il Msi affronta il nodo della sua partecipazione al sistema politico «nato dalla Resistenza». Dopo alcune esitazioni e ambiguità il partito decide di percorrere la strada legalitaria respingendo le tentazioni sovversive e terrori­ stiche di alcuni gruppi di irriducibili. Già nel 1947 si presenta alle elezioni amministrative di Roma ottenendo, nonostante le inevitabili difficoltà a condurre la campagna elettorale, il 4% dei voti e l’elezione di tre consiglieri: un risultato che gli consente di catalizzare tutto il mondo nostalgico eliminando ogni concorrenza.

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Il partito si struttura da subito seguendo le modalità clas­ siche del partito di massa: la sezione territoriale è l’unità di base, il processo decisionale procede formalmente dal basso all’alto, la discussione e l’organizzazione del dissenso sono libere, il congresso per delegati eletti è l’organo deliberativo supremo, l’iscritto ha il solo dovere di aderire allo statuto e al programma. Nulla a che vedere con l’impostazione paramilitare del Partito nazionale fascista (Pnf). Alle elezioni del 1948, a dimostrazione della rapidità del suo insediamento territoriale, il Msi riesce a presentarsi in tutte le circoscrizioni della Camera dei deputati. Tuttavia, mentre nel Sud il partito svolge la campagna elettorale indisturbato, nel Nord la sua presenza suscita reazioni molto vivaci da parte delle forze antifasciste: il ricordo della guerra civile tra il 1943 e il 1945 è ancora troppo vivo per accogliere placidamente gli eredi del fascismo. I risultati elettorali confermano una spaccatura geografica lungo la Linea gotica; il Msi raccoglie più dei due terzi dei propri voti al Sud e i sei deputati eletti (equivalenti al 2% dei voti) provengono tutti da collegi elettorali meridionali. Questo sbilanciamento nella distribuzione territoriale dei consensi determina un riassetto tra le componenti interne del partito e, di conseguenza, nelle sue scelte politiche. In effetti, poiché la divisione ideologica interna tra «socializzatori» e «corporativisti» riflette anche una divisione geografica tra Nord e Sud, una direzione politica «di sinistra» e «nordista», legata ai miti e al ricordo della Rsi, contrasta con un consenso elettorale concentrato al Sud. Se a questo si aggiunge una crescita orga­ nizzativa quasi tutta nel Mezzogiorno e l’afflusso di ex quadri e dirigenti del Pnf il cambio al vertice è inevitabile: nel 1950 il giovane primo segretario del partito, Giorgio Almirante, esponente dei «socializzatori», cede la carica ad Alfredo De Marsanich (ex ministro del regime fascista), che incarna invece la tendenza del fascismo-regime. Con il cambio di leadership il Msi abbandona l’atteggia­ mento di totale contrapposizione alla Democrazia cristiana (De) e ai suoi governi, e adotta la strategia di «inserimento» nel sistema, strategia che proseguirà per due decenni fino ai primi anni Settanta. In questa fase, il Msi si propone alla De come un potenziale alleato per contrastare le sinistre in nome dei comuni ideali cristiani e nazionali. Questa politica

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di moderazione ottiene due successi immediati: l’intesa con la destra democristiana, poi saltata all’ultimo momento, per una candidatura unica alle elezioni comunali di Roma del 1952 (la cosiddetta «operazione Sturzo»), e l’alleanza elettorale con i monarchici. Grazie a questa alleanza, alle amministrative del 1951 e del 1952 (svoltesi prevalentemente nel Sud), il Msi entra nel governo di molti comuni tra cui grandi città come Napoli e Bari. Un successo di queste proporzioni si rivela vitale per il Msi perché così disinnesca la minaccia di una sua messa fuorilegge proposta dal ministro degli Interni, Mario Sceiba: il partito è cresciuto troppo per essere sciolto senza creare incidenti e tensioni. Superato questo ostacolo, il Msi consolida la propria presenza parlamentare più che raddoppiando i consensi alle elezioni del 1953: dal 2 al 5,8%. Il voto è ancora fortemente concentrato al Sud (6,4%), ma anche al Nord (a eccezione di Piemonte ed Emilia-Romagna) il partito supera il 3% dei voti. Il Lazio (in particolare Roma e Latina) e la Sicilia (soprattutto le grandi città) sono i suoi punti di forza con oltre il 10% dei suffragi. La legittimazione «implicita», ottenuta attraverso i successi elettorali alle amministrative dell’anno prima, ha con­ sentito al partito di candidare ed eleggere figure di rilievo del passato regime: otto suoi parlamentari hanno infatti ricoperto cariche pubbliche o di partito nel regime fascista. Il Msi non solo non nasconde più le sue radici, addirittura le ostenta. Il clima dei tempi glielo consente. Il consolidamento elettorale si riverbera sull’organizzazione, che viene ristrutturata accentrando il controllo sulla periferia. A questo scopo il segretario di federazione viene svincolato dalla responsabilità nei confronti del Direttivo federale e deve rispondere solo alla Direzione nazionale. Molta attenzione è riservata alle organizzazioni giovanili del partito. L’organizza­ zione studentesca (Giovane Italia), quella universitaria (Fronte universitario d’azione nazionale, Fuan) e quella giovanile di partito (Raggruppamento giovanile studenti e lavoratori, Rgsl), reclutano, negli anni Cinquanta, decine di migliaia di iscritti sfruttando, soprattutto, il tema nazionalista-patriottico della reintegrazione di Trieste nel territorio italiano (allora ancora sotto il comando alleato). Il Fuan miete consensi negli atenei del Centro-Sud addirittura vincendo le elezioni universitarie in alcune facoltà.

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A partire dalla metà degli anni Cinquanta, in particolare dopo il V Congresso (24-26 novembre 1956) nel quale la corrente interna «di sinistra» dei socializzatori, guidata da Almirante, viene ulteriormente sconfitta, il Msi sviluppa appieno la sua strategia di inserimento nel sistema. Sotto la guida del nuovo segretario, Arturo Michelini, in carica fino alla morte, nel 1969, il Msi raggiunge grandi successi politici, arrivando fino alla soglia del governo: prima appoggia insieme a liberali e monarchici alcuni esecutivi democristiani e infine sostiene, con ipropri voti determinanti, il governo monocolore democristiano di Fernando Tambroni nel 1960. Questa intesa rappresenta il culmine della politica di inserimento ma sanci­ sce anche la sua impraticabilità. Infatti, la prospettiva di un governo «clerico-fascista» innesca una serie di manifestazioni di protesta che hanno come epicentro la città di Genova, dove nel luglio del 1960 è convocato il congresso del Msi. I gravi scontri, che poi a partire da Genova investono varie parti d ’Italia con esiti mortali a Reggio Emilia e a Roma, im­ pediscono lo svolgimento del congresso missino e inducono il governo alle dimissioni: con la caduta di Tambroni il Msi viene ricacciato nella marginalità. Questa sconfitta, da un lato, rinvigorisce l’opposizione interna, dall’altro, favorisce lo sviluppo di altre organizzazioni di estrema destra, esterne e in contrapposizione al partito. Ma mentre il primo aspetto rientra nella tradizione di frammen­ tazione interna, il secondo rappresenta una novità di rilievo. Fino ai primi anni Sessanta, infatti, il Msi detiene il monopolio della rappresentanza politica dell’estrema destra: a eccezione del movimento Ordine nuovo, creato da un gruppo di scissionisti guidati da Pino Rauti all’indomani del V Congresso del 1956, nessun gruppuscolo ha avuto visibilità politica. Invece, dopo la sconfitta del 1960, il Msi perde gradualmente la capacità di controllo su quell’area. In sostanza, il Msi si dimostra incapace di far fronte al mutato contesto politico dato che continua a riproporre la politica dell’inserimento, anche dopo la nascita dei primi governi di centro-sinistra; né sa reagire alla concor­ renza che nello spazio di destra, seppure su altri registri, ora viene dal Partito liberale (Pii), il quale rifiuterà sempre sde­ gnosamente ogni ipotesi di alleanza per una «grande destra». Anche se l’organizzazione missina regge, sfiorando i 200 mila iscritti e mantenendo tra le 1.400 e le 1.500 sezioni, l’isolamento

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politico restringe il bacino elettorale sia alle elezioni del 1963 sia, ancor peggio, a quelle del 1968, dove tocca il punto più basso della sua storia elettorale: 4,5%. Nel 1969, con la morte di Michelini e il ritorno, dopo vent’anni, di Almirante alla guida del partito, si apre una nuova fase che vede una ristrutturazione organizzativa e una nuova strategia politica. Sul piano organizzativo, il partito viene dotato di una struttura centrale con funzionari a tempo pieno, le organizzazioni giovanili vengono fuse in un solo organismo (il Fronte della gioventù, Fdg), viene enfatizzato il ruolo dei quadri locali favorendo l’ascesa di nuove leve e, allo stesso tempo, viene fortemente centralizzato il processo decisionale sia tra vertice e periferia sia a livello centrale, dove il segretario concentra sempre più potere. Sul piano ideologico-strategico, il Msi introduce una serie di innovazioni di forma assai più che di sostanza per giocare il ruolo di una destra moderna, meno nostalgica del passato. Il lancio del progetto «Destra nazionale» - espressione che si aggiunge come suffisso al nome ufficiale del partito - consiste nel tentativo di accreditarsi come potenziale partner di governo della De diluendo l’identità fascista, raccogliendo le spoglie dei monarchici, ed enfatizzando l’adesione di esponenti liberali e democristiani o comunque estranei all’ambiente nostalgico; il tutto grazie a un’accorta riverniciatura ideologica alla quale contribuisce inizialmente il filosofo ex marxista Armando Plebe. La leadership almirantiana minimizza, per quanto possibile, il richiamo alle radici al fine di conquistare maggior legittimità nell’arena politica e allargare il consenso elettorale. Tuttavia, parallelamente alla modernizzazione e moderazione, la strategia almirantiana prevede anche un rinnovato antagonismo contro «la sovversione comunista». Con un appello così militante, ben lontano dalla cautela micheliniana, il Msi riesce a recu­ perare buona parte di quella dissidenza radicale che aveva alimentato movimenti come Ordine nuovo e Avanguardia nazionale. Il partito si offre quindi come difensore agguerrito della «maggioranza silenziosa», che si manifesta al Nord con presenze diversificate nei suoi cortei e che il partito cerca di egemonizzare, e, allo stesso tempo, come rispettabile alleato, potenziale, di una coalizione moderata. Nonostante i clamorosi successi elettorali delle elezioni amministrative parziali del 1971, dove arriva al 13,9% (con

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il 21,5% a Catania e il 16,3 a Roma), e delle politiche del 1972, dove tocca il massimo storico (8,7%), e l’espansione organizzativa (457.897 iscritti e migliaia di sezioni), il partito non esce dal suo ghetto: le sue contraddizioni interne - re­ visione ideologica superficiale e scopertamente strumentale, incapacità di controllare le frange più militanti e le sue orga­ nizzazioni giovanili, conniventi con i gruppi più violenti della destra radicale - e, soprattutto, la politica di contenimento della De, preoccupata per il travaso di voti in favore del Msi, conducono a un vicolo cieco la strategia della Destra nazio­ nale. La sconfitta elettorale del 1976 (-2,6 punti) provoca una levata di scudi contro il segretario da parte della componente più accomodante e filodemocristiana; la scissione che ne de­ riva depaupera il gruppo parlamentare e attrae molti quadri medio-alti, ma non riesce a penetrare nella base: rimane una scissione di generali senza esercito che fallirà miseramente la prova elettorale nel 1979. L’uscita della componente più moderata produce uno spostamento del partito verso posizioni di maggiore contesta­ zione del sistema e rilancia la figura di Pino Rauti, personalità di spicco e punto di riferimento della destra radicale degli anni Sessanta, rientrato nel Msi agli inizi degli anni Settanta. Rauti organizza una corrente molto vivace culturalmente e rielabora originalmente spunti della tradizione movimentista del fascismo e tematiche della nouvelle droite francese, labo­ ratorio di riflessione e di rivisitazione dei referenti culturali della destra, animata dal filosofo Alain de Benoist. Per Rauti il vero nemico è il capitalismo che, con la riduzione a merce di ogni rapporto, ha distrutto la possibilità di una vita comu­ nitaria, autentica e spirituale: massificazione, consumismo e alienazione - non più sovversione o comuniSmo - sono infatti i problemi centrali della società contemporanea. Sulla spinta di questa impostazione i giovani e il ceto medio meridionale vengono considerati gli interlocutori privilegiati in sostituzione della piccola borghesia spaventata del Nord industriale. Il nemico da battere non è più il comuniSmo ma «il regime»: tutti i partiti, a incominciare dalla De, sono responsabili della crisi italiana e quindi non c’è più una maggioranza silenziosa da difendere, ma la protesta dei giovani e dei meridionali da sostenere. In questo modo il partito si caratterizza come il catalizzatore della «protesta».

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Almirante non condivide molte delle analisi rautiane ma, spinto anche dalla scissione dei moderati, accede a una strategia che accolga e rappresenti le pulsioni genericamente antisistemiche. Il mutamento della strategia è netto e sembre­ rebbe indirizzare il Msi a un flirt, ancora più pericoloso che in passato, con i gruppi radicali che, alla fine degli anni Settanta, conoscono un’ultima stagione di violenza. Ma nell’ambito della destra radicale e terrorista alla sostanziale indifferenza verso il Msi si è sostituita un’aperta ostilità. Nonostante per­ mangano alcune aree grigie di connivenza (ad esempio, una sede romana del Fronte della gioventù è luogo di incontro tra giovani del partito e terroristi), il Msi non è contaminato dall’ultima ondata terroristica a cavallo tra anni Settanta e Ottanta. Le nuove leve si muovono al di fuori dell’orbita missina e, quindi, il partito non subisce i contraccolpi negativi delle loro azioni, contrariamente a quanto era successo nei primi anni Settanta. Negli anni Ottanta cambia il rapporto del Msi con gli altri partiti. In realtà, il partito non modifica le sue strategie della «protesta» e dell’opposizione al regime e mantiene, con qualche difficoltà di convivenza, sia i tradizionali referenti nostalgici sia le prospettive «alternativistiche» e «comunitarie» del gruppo rautiano (più quelle «modernizzanti» di una nuova componente che si sta coagulando nel partito). I cambiamenti avvengono all’esterno e senza alcun contributo da parte del partito. Il primo mutamento riguarda il diverso approccio al fenomeno storico del fascismo; grazie all’opera pionieristica di Renzo De Felice sul piano storiografico, si afferma una visione più distaccata e meno demonizzante del ventennio fascista. Il secondo è connesso con la fine degli «anni di piombo»; terrorismo e violenza politica sono gradualmente sostituiti da un’accettazione delle diversità ideologiche. Pertanto, agli inizi del decennio, in virtù della storicizzazione del fascismo e della deradicalizzazione del conflitto politico, si creano le condizioni per un’integrazione del partito nel sistema. I partiti antifascisti, a incominciare dal Psi, mo­ strano un’inedita disponibilità ad accettare il Msi in quanto tale. La dichiarazione del presidente del Consiglio Bettino Craxi durante il dibattito sulla fiducia al suo governo (9 agosto 1983), di non avere preclusioni per alcun partito presente in parlamento, chiude un lungo periodo di totale emarginazione

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che aveva fatto del partito un «polo escluso». Il Msi può uscire dal proprio ghetto. Paradossalmente, questa favorevole congiuntura mette in difficoltà il Msi perché non è attrezzato culturalmente, più ancora che politicamente, alla nuova fase. Infatti, il partito non riesce a rinunciare alla sua vera identità - il fascismo - e anche le «innovazioni» rautiane si collocano comunque fuori dal sistema liberaldemocratico rappresentativo. A parte una piccola componente di «modernizzatori» che cerca di calarsi nella «realtà politica della democrazia antifascista», il partito continua a rivendicare la sua alterità al sistema. Tale impasse politico-strategica si riverbera anche sul piano elettorale: nel 1987 il Msi ristagna attestandosi al 5,9%. Nemmeno il cambio della guida del partito con il giovane ex segretario del Fronte della gioventù, Gianfranco Fini, imposto da Almirante nel XV Congresso (11-14 dicembre 1987) come suo delfino, modifica l’atteggiamento del partito che oscilla incerto tra rivendicazioni di estraneità al sistema e ricerca di sponde politiche, soprattutto nell’area cattolica (il Movimento popolare di Roberto Formigoni). In realtà, il partito rimane ai margini delle dinamiche politiche. A indebolire ulteriormente il giovane segretario contribuisce la chiusura dell’ala protettrice del vecchio leader, scomparso nel 1988. Fini non riesce a controllare un partito sempre più frammentato e inquieto, e il distacco dalla sua maggioranza di una componente lo obbliga alle dimissioni e alla convocazione di un congresso. Il XVI Congresso (11-14 gennaio 1990) ripropone in tutta la sua solidità l’identità fascista del partito. Nella sua relazione congressuale Fini esalta le radici ideologiche del Msi. I «prin­ cipi del 1789» sono all’origine di ogni male: da allora, l’uomo europeo ha perso «ogni dimensione eroica» e si è trasformato in homo oeconomicus. E quindi necessario, prosegue Fini, rilanciare «la polemica nei confronti del sistema dei valori e di vita del mondo occidentale (liberaldemocratico in politica; capitalista in economia; laico e materialista sul piano spirituale) e di cui l’americanismo rappresenta la massima espressione». La fedeltà alle radici ideologiche porta a sostenere che il fa­ scismo non subisce «alcun contraccolpo dalla scomparsa del comuniSmo, anzi vede aprirsi un orizzonte quanto mai ampio per decenni precluso dagli ostacoli (e che ostacoli!) eretti dal comuniSmo». In conclusione, si tratta di «consegnare [il fasci­

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smo] al giudizio della storia dopo averne estratto le intuizioni ancora oggi valide e attuali». Nonostante questa esaltazione dell’identità originaria Fini è sconfitto da Pino Rauti, che ha finalmente l’occasione di mettere in atto le sue proposta eterodosse. In primo luogo, per il neosegretario il partito deve abbandonare ogni riferimento alla «destra» in quanto il fascismo non era un movimento con­ servatore ma rivoluzionario. Pertanto, il Msi, senza negare le proprie origini, anzi, riscoprendo quelle più autentiche, deve collocarsi sulla sinistra e lì cercare di sfondare, catturando l’elettorato comunista disorientato dal crollo del Muro di Ber­ lino. In secondo luogo, vanno rifiutati gli «pseudovalori» della civiltà occidentale americanizzata - agnosticismo, materialismo, edonismo, egoismo e consumismo - e vanno sostituiti da valori autenticamente spirituali. In terzo luogo, l’ostilità al capitalismo e alla democrazia liberale si trasferisce anche sul piano della politica internazionale dove viene accentuato il sentimento antioccidentale e antiamericano, nonché terzomondista e fi­ loarabo. Infine, al falso egualitarismo e all’omogeneizzazione di massa va contrapposta l’esaltazione delle «differenze». Quest’ultimo punto è particolarmente importante perché porta a giustificare la tolleranza e il rispetto delle opinioni altrui, e perché implica, in controtendenza rispetto agli altri partiti della estrema destra europea, il rifiuto del razzismo (anche se alcune frange giovanili indulgono ad atteggiamenti ostili, soprattutto nei confronti degli ebrei). La segreteria di Rauti è comunque una parentesi. Dopo una serie di impressionanti rovesci elettorali (alle amministrative del 1990 il partito piomba al 3,9%, il peggior risultato della sua storia), nell’estate del 1991 Rauti viene sostituito dal suo predecessore Fini. La nuova leadership abbandona il richiamo ai delusi del comuniSmo, lascia cadere gli accenti più veemen­ temente antiamericani e anticapitalistici e, riproponendosi come forza di destra tradizionalista e nazionale, cerca contatti con settori moderati e cattolici, ma non ribalta l’approccio antixenofobo e tollerante. E questo l’aspetto più innovativo e dissonante rispetto alle pulsioni della destra radicale che sta emergendo in Europa, in particolare in Francia con il Front National di Jean-Marie Le Pen. La tenuta del Msi nelle elezioni del 1992 (appena 0,5 punti in meno rispetto al 1987 ma 1,5 punti in più rispetto alle re­

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gionali di due anni prima) consente al partito di presentarsi ancora «in piedi» di fronte al rivoluzionamento politico degli anni successivi. All’esplodere dell’ondata antipartitica sollevata dall’inchiesta Mani pulite, l’estraneità del Msi al sistema della corruzione e la sua immagine di partito antagonista ne accre­ scono la capacità di attrazione. E, inaspettatamente, il nuovo sistema elettorale di tipo maggioritario sia a livello locale sia, pur in versione diversa, a livello nazionale, offre al Msi una grande chance di rilancio. In effetti, all’indomani del referen­ dum elettorale della primavera del 1993, che apre la strada al sistema maggioritario per le elezioni politiche, all’interno del Msi risuona il de profundis, perché, in assenza di alleanze, non ci sono speranze di vincere alcun collegio. Invece, al primo test con il nuovo sistema a livello locale - maggioritario a doppio turno - nella primavera del 1993 il Msi riesce a eleggere 14 sindaci in città sopra i 15 mila abitanti. Un segnale tutto sommato incoraggiante che induce il partito a giocare le sue carte migliori nel turno amministrativo di novembre dove infatti candida il segretario, Gianfranco Fini, e la mediatizzata nipote del Duce, Alessandra Mussolini, in due città storicamente generose con il Msi come Roma e Napoli. Entrambi i protagonisti arrivano al ballottaggio contro i rappresentanti della sinistra facendo terra bruciata dei can­ didati democristiani e imponendosi come alfieri dell’elettorato moderato-conservatore: inoltre, la loro sconfitta è assolutamente onorevole visto che raccolgono, rispettivamente, il 46,9% e il 44,4% dei voti. Questo clamoroso risultato dimostra che vi è un elettorato disorientato e bisognoso di un proprio interpre­ te al posto di una declinante De, tanto da essere disposto a sorvolare anche su alcune, persistenti, macchie del passato. A completare il successo il partito elegge 19 sindaci, di cui quattro in città capoluogo di provincia, con una punta del 71,5 % ( ! ) di voti a Benevento. Nell’arco di pochissimo tempo il Movimento sociale è riuscito a invertire la tendenza al declino non solo in termini elettorali ma anche come forza organizzata: gli iscritti passano dai 150.157 del 1991 ai 202.715 nel 1993, e le sezioni da 4.185 a 8.337. A ciò si aggiunga il consolidamento di tutta l’ampia rete di organizzazioni parallele, da quelle sindacali (Cisnal) a quelle giovanili e studentesche (Fdg, Fare fronte e Fuan), da quelle sportive (Fiamma) a quelle ecologiche (Gruppi di ricerca ecologica), da quelle dei veterani di guerra e d’arma

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a quelle degli emigrati (Comitato tricolore degli italiani nel mondo). Con questi risultati il Movimento sociale dimostra di non essere più un’entità trascurabile nel calcolo delle pos­ sibili alleanze. Il primo a riconoscere questo stato di fatto e a fornire al Msi un formidabile, e imprevisto, appoggio viene da Silvio Berlusconi, che si spende pubblicamente a favore di Gianfranco Fini nel suo scontro con Francesco Rutelli per la poltrona di sindaco di Roma. Al Movimento sociale si aprono quindi spazi del tutto imprevisti, anzi, nemmeno sognati a leggere gli interventi del dibattito interno sul futuro del partito di quei mesi. Per coglierli appieno è però necessario inviare messaggi in sintonia con la nuova domanda di rappresentanza di ceti sociali medio-alti e moderati, non certo rivendicare i meriti del ventennio. In un lungo articolo pubblicato significativamente sul quotidiano della Confindustria, «Il Sole 24 Ore», Fini opera una brusca inversione a U sui temi economici: abbandona ogni riferimento ai vecchi refrain del corporativismo e dell’intervento pubblico, nonché del comando della politica sull’economia, e si lancia in un’inedita e appassionata perorazione del libero mercato e della riduzione del ruolo dello stato in economia. Si tratta di un messaggio calibrato per la platea alla quale si rivolge, vitale per l’accreditamento del partito presso l’establishment economico-finanziario. Inoltre, per facilitare il definitivo «in­ serimento», il partito lancia il progetto della costituzione di Alleanza nazionale, un contenitore in cui diluire l’immagine ancora sulfurea del Msi. E con questo nuovo nome e con un simbolo leggermente modificato nel quale la fiamma è ridimen­ sionata e il tutto è circonfuso di un rassicurante colore azzurro volto a rimuovere la cupezza del precedente simbolo, che il partito si presenta alle elezioni. All’innovazione di immagine non corrisponde però un rivoluzionamento nel programma elettorale che, contrariamente ai buoni propositi espressi da Fini, si incentra ancora sul corporativismo e sull’ostilità alle privatizzazioni, e su un rinnovato nazionalismo segnalato dall’opposizione al Trattato di Maastricht e dalle rivendicazioni territoriali (sic!) relative all’Istria e alla Dalmazia. A ogni modo, il passaggio decisivo verso la piena legit­ timazione politica viene, in vista delle elezioni politiche del 1994, dall’offerta di Silvio Berlusconi di stringere un patto elettorale con Forza Italia nel Centro-Sud, il Polo del buon­

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governo, in vista delle elezioni politiche del 1994, mentre al Nord viene escluso dal patto gemello siglato da Forza Italia con la Lega, il Polo delle libertà, per l’ostilità di quest’ultima verso il partito di Fini. Il maquillage politico, la legittimazione fornitagli da Ber­ lusconi e la disintegrazione del vecchio sistema partitico con­ sentono al Msi di raggiungere alle elezioni del 1994 il 13,5% dei voti (+8,1 punti). Un successo elettorale - riconfermato dal 12,5% delle elezioni europee di giugno - che si concretizza poi nella partecipazione di cinque ministri missini nel governo Berlusconi. Nell’arco di un anno il Msi è passato dal rischio della scomparsa all’occupazione delle poltrone ministeriali. Le elezioni del 1994 si differenziano da quelle del passato nel numero dei voti, ma non nella distribuzione geografica e nel tipo di elettorato (anche se affiora qualche novità). Il CentroSud è ancora il territorio di caccia privilegiato. Il Lazio e la Puglia sono nettamente le regioni a più alta concentrazione di voto missino con più del 25% dei voti validi, seguite dalla Campania e dall’Abruzzo. All’estremità opposta, le province più impenetrabili sono tutte del Nord, Lombardia in testa, dove il successo della Lega costituisce un ostacolo invalicabile all’espansione del partito. Come da tradizione, il Msi attira il voto giovanile: rispetto a una media del 13,5%, i 18-24enni votano il partito nel 23 % dei casi. A conferma di questo dato, gli studenti costituiscono la categoria maggiormente presente tra i suoi elettori, con il 20% del totale. Fattori interni - la domanda di rinnovamento da parte dell’opinione pubblica anche simpatetica con il partito - e fattori esterni - lo sconcerto in molti governi occidentali per la presenza di ex neofascisti al governo - spingono la dirigenza missina a completare il processo di costituzione di Alleanza nazionale. Il doppio congresso —ultimo del Msi e primo di Alleanza nazionale (An) - che si tiene a Fiuggi il 25-29 gennaio 1995 sancisce la svolta svolgendosi in un clima sereno senza quel pathos che prorompe da una rivisitazione profondamente critica del proprio passato e quindi della propria identità. Qualche faro mediatico si accende su alcuni passaggi forti, come l’ammissione che « l’antifascismo è stato il momento storicamente essenziale perché tornassero in Italia i valori della democrazia», sui dubbi di qualche anziano nostalgi­

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co, sulla lacrimuccia del leader alla fine del suo intervento conclusivo, sulla fuoriuscita di Pino Rauti - nonostante gli applausi scroscianti tributatigli - in nome di una continuità con il fascismo che lui stesso peraltro aveva sempre denun­ ciato; ma in realtà tutto fila liscio, senza grandi patemi, sulle ali dell’incredibile successo raggiunto nei precedenti quindici mesi. Del resto, come poteva essere introvertito e rabbuiato un partito che dal rischio della virtuale eliminazione è passato alle luci della ribalta nelle amministrative di Roma e Napoli, a triplicare i voti alle elezioni del 1994 portando alle camere un plotone di 157 parlamentari (109 deputati e 48 senatori), e infine, addirittura, all’ingresso al governo? Come potevano non essere felici e riconoscenti i 107 neoeletti in parlamento che mai avrebbero immaginato di accedere d ’un balzo a Montecitorio o a Palazzo Madama? Il «nuovo» partito che nasce a Fiuggi ha un’immagine scintillante e appealing, lontana mille miglia da quella lugubre, minacciosa e plumbea che connotava il Msi. Al di là dell’immagine, però, domina la continuità, nell’organizzazione, nella classe dirigente e, in buona misura, anche nell’ideologia. Le strutture organizzative del Msi vengono trasferite in toto in An. Gli iscritti missini sono inseriti d’ufficio, a meno di una loro esplicita richiesta di esclusione, nelle liste di An; le sezioni territoriali del Msi si trasformano in circoli di An; e tutta la struttura burocratico-amministrativa missina, sia al centro sia in periferia, passa armi e bagagli ad An. La linea del comando viene ulteriormente verticalizzata: il segretario - denominato «presidente» - oltre alla nomina dei segretari regionali, al potere di decidere sanzioni disciplinari e com­ missariare le federazioni, designa i membri della Direzione e di un alto numero di componenti dell’Assemblea nazionale e, soprattutto, non è più responsabile nei confronti di un organo collettivo ma solo di fronte al congresso. Solo una piccolissima componente rifiuta il cambiamento e va ad alimentare la scissione promossa dall’ex segretario missino Pino Rauti. L’anziano leader fonda il Movimento sociale-Fiamma tricolore e rivendica, come in tutte le scissioni, la continuità ideale e pratica con la casa madre. Anche qui, come in casa postdemocristiana e postcomunista, nascono litigi e contese legali su simboli, sedi e soldi, ma contrariamente agli altri due casi la scissione è di assai poco conto. Nessun

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parlamentare e pochissimi eletti locali seguono Rauti; e anche in termini di militanti il drenaggio è praticamente irrilevante, non solo in termini assoluti, quanto perché le perdite sono nulla rispetto al reclutamento tumultuoso e massiccio di nuovi aderenti in corso in An. La classe dirigente aennina, nonostante la sovraesposizione mediatica di alcune personalità non legate al mondo missino, tra cui spicca il politologo Domenico Fisichella, nominato presidente dell’Assemblea nazionale di An, è tutta targata Msi: più del 90% dei 450 membri dell’Assemblea nazionale proviene dal partito della fiamma, e su 100 membri della Direzione, ben 83 avevano ricoperto cariche nell’organigramma missino. Inoltre, l’85% dei parlamentari ha militato nel Msi o nelle organizzazioni parallele a esso collegate, e il 77% ha ricoperto ruoli nelle amministrazioni locali. Insomma, un autorecluta­ mento quasi completo: di nuovo non c’è praticamente nulla. Infine, il profilo ideologico di An galleggia nell’indetermi­ natezza: non si dissocia drasticamente dal passato né indica precise linee guida di un percorso futuro. Il manifesto program­ matico contiene innovazioni importanti come la valutazione positiva dell’antifascismo, della libertà, della democrazia, del libero mercato, ma annega tutto questo in una palude conti­ nuista dove Gentile ed Evola figurano ancora come riferimenti politico-ideali, fino ad assumere una continuità della storia d’Italia che, in sostanza, assolve il fascismo. E certamente inedita, per nettezza di accenti e reiterazione dell’argomen­ tazione, l’enfasi sulla libertà come valore di riferimento, e altrettanto esplicita - e, anzi, sarà ulteriormente rafforzata dagli emendamenti presentati al congresso - è la ripulsa del razzismo e dell’antisemitismo; inoltre, anche il riconoscimento che « l’antifascismo fu un momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato» costituisce un’acquisizione importante. Tuttavia, affiorano insopprimibili sia nostalgie sia reticenze: nonostante la maggiore poliedricità dei referenti cultural-politici, il nuovo partito non riesce a marcare un passo definitivo nel distacco dall’identità originaria. Queste incertezze e contraddizioni sono rispecchiate dalle valutazioni dei quadri intermedi presenti al Congresso di Fiuggi. Ad esempio, a dispetto di un’esplicita condanna dell’antisemiti­ smo proclamata in congresso, il 47,2% dei delegati intervistati

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ritiene «eccessivo» e «da contenere» il potere degli ebrei nella finanza intemazionale. Allo stesso modo, le coraggiose prese di posizione ufficiali contro il razzismo e la xenofobia sono contraddette da un diffuso sentimento di paura nei confronti degli immigrati: il 34,8% li considera causa dell’aumento della criminalità e il 59,1% teme che gli immigrati possano annullare l’identità nazionale. Sulle tematiche inerenti i diritti civili in senso lato le valutazioni si alternano tra chiusure e aperture, creando un quadro dai contorni indefiniti; se si considera accettabile in alcuni casi il ricorso all’aborto (46%) - contra­ riamente alla posizione di rifiuto assoluto indicata nel manifesto programmatico - per i consumatori di droghe si prescrive invece la galera (55,5%), e se l’omofobia è rintracciabile solo in un quarto degli intervistati, la cancellazione delle norme sull’obiezione di coscienza è condivisa dalla maggioranza. Ma il vero punto dolente riguarda proprio la rielaborazione del rapporto ideale con il fascismo. In una lista di «pensatori» che gli intervistati ritengano importanti per «la formazione politica di un giovane» primeggiano ancora i maestri della tradizio­ ne antidemocratica, da Giovanni Gentile (90,9%) a Benito Mussolini (82,3%), a Julius Evola (70,5%). Questa nostalgia è coerente con un’inequivoca rivalutazione del fascismo: al di là di un piccolo gruppo di duri e puri che lo giudica tuttora «il miglior regime possibile» (7,1%), un’ampia maggioranza (61,5%) lo ritiene, nonostante alcune scelte discutibili, «un buon regime»; solo il 18,2% lo definisce un «regime auto­ ritario»; e praticamente nessuno (0,2%) lo condanna senza appello in quanto «brutale dittatura». In sostanza, i referenti ideali continuano a essere gli stessi al di sotto di una riverniciatura posticcia, la classe dirigente aggrega qualche personaggio esterno come fiore all’occhiello - destinato ad appassirsi nella quasi totalità dei casi - ma la generazione dei militanti del Fronte della gioventù degli anni Settanta mantiene le redini del comando, e l’organizzazione conserva tutte le strutture e il personale del Msi. Il partito nato a Fiuggi, in quanto dotato di una struttura organizzativa solida, ramificata e in espansione - alla fine del 1995 vengono dichiarati 467.539 iscritti, una cifra elevatissima, pur tenendo conto che tutti gli iscritti missini sono stati inseriti d’ufficio nelle liste di An - e di un personale politico con una lunga esperienza alle spalle indipendentemente dalla giovane

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età, gode di un chiaro vantaggio competitivo nell’ambito del centro-destra. Ovviamente, gli è difficile farlo pesare appieno, sia per una certa inesperienza a navigare nell’alta politica, sia per un atteggiamento tra il reverenziale e il riconoscente nei confronti di Berlusconi, al quale si deve tutto. Tuttavia, grazie ai buoni risultati alle elezioni amministrative del 1995 il partito incomincia a muoversi con più autonomia, conscio delle sue potenzialità. E vero che molti all’interno vagheggiavano un risultato ancora migliore ma, nel generale arretramento del centro-destra, An sale al 14,5% alle regionali, con una punta del 24,5% nel Lazio dove arriva a insidiare il primato del Pds. Questo risultato porta nelle assemblee rappresentative 139 consiglieri regionali contro i 25 di cinque anni prima, nonché a un’infornata di circa 5 mila consiglieri comunali e provinciali. Per la prima volta dai gloriosi anni Cinquanta, gli ex missini entrano in giunta in centinaia di comuni sopra i 5 mila abitanti. Se prima del 1993 bisognava cercare nelle liste non partitiche dei piccoli comuni qualche sindaco missino, con le elezioni del 1995 il loro numero supera le 250 unità. Forza organizzativa, radicamento territoriale, classe dirigen­ te compatta benché geneticamente litigiosa, autoconvinzione, omogeneità ideologico-culturale, desiderio di affermazione sono tutti elementi propulsori di An. A questi dati va aggiunta infine l’assenza di un competitore credibile alla propria destra: al test elettorale del 1995, per quanto fastidiosa in alcune circoscritte situazioni, la scissione di Rauti non morde nel tradizionale elettorato missino. E comunque An ormai pesca in bacini ben più ampi di quelli nostalgici. Nel 1994 il suo voto era arrivato dai democristiani per il 29% , dai socialisti per il 17% e dai tre partiti laici minori (Pii, Pri e Psdi) per il 13%. Alleanza nazionale non si pone il problema, un tempo angoscioso, di mantenere stretta tutta la sua tradizionale constituency nostal­ gica, pena il declino, perché ormai gioca a tutto campo. Poggiando su questi punti di forza An intravede la possi­ bilità di incrementare ulteriormente il proprio peso nel breve periodo e, all’inizio del 1996, impone contro tutti, anche con­ tro Berlusconi, il ricorso alle elezioni anticipate affondando il progetto di un governo Maccanico per le riforme istituzionali. La sfida riesce solo in parte. Il partito avanza ancora ma non sfonda: raggiunge il 15,7%. Ma ciò che più conta è che il differenziale da Forza Italia si è ridotto a soli cinque punti.

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Da questo momento in poi nel leader di An, più che in altri dirigenti, prende corpo l’ipotesi di colmare il divario. Nei tre anni successivi, sino al 1999, Fini trascina il suo partito lungo una serie di montagne russe per scrostare i residui di nostalgia ancora presenti e per distanziarsi dal suo stesso partito al fine di massimizzare politicamente il successo di immagine che egli riscuote. È lui infatti il leader più popolare del centro-destra e, a volte, di tutto lo schieramento politico italiano. Il suo obiettivo consiste quindi nel capitalizzare un consenso per­ sonale ben superiore alle percentuali che il partito raccoglie, anche in una situazione abbastanza favorevole come quella del 1996. Lungo questa strada è inevitabile una certa dose di conflittualità con il capo indiscusso del centro-destra, Silvio Berlusconi. Il primo round, con l’imposizione delle elezioni anticipate del 1996, è andato a favore di Fini. Il secondo, con la nascita della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali, è invece perso dal leader di An: Fini è sospinto ai margini dal dialogo che si intesse direttamente tra i leader dei due maggiori partiti, Berlusconi e D ’Alema. In compenso il partito dimostra vitalità: le iscrizioni continuano ad aumentare, le associazioni fiancheggiatrici, giovanili, femminili, sindacali, di categoria e ricreative sono state ristrutturate e rivitalizzate, le iniziative culturali ed editoriali si moltiplicano. Accompagna questo fervore un consolidamento delle correnti interne che si articolano in tre componenti: i liberal-liberisti di Adolfo Urso e Altero Matteoli (Nuova alleanza), la componente identitaria e sociale di Gianni Alemanno e Francesco Storace (Destra sociale), e il correntone finiano di Pinuccio Tatarella, Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri (Destra protagonista). L’esito dell’impasse politica in cui è caduta An si vede alle elezioni amministrative del 1997, dove il partito perde molte posizioni. Mentre le elezioni di quattro anni prima erano state il volano dell’ascesa e del rinnovamento interno, queste sono il segno della stasi e dell’affaticamento. Fini approfitta di questo insuccesso per additare aH’opinione pubblica e soprattutto ai militanti di An le insufficienze della classe dirigente e per rimarcare ulteriormente il suo ruolo di dominus incontrastato del partito. Il presidente di An porta questo affondo perché ritiene che il processo di rinnovamento avviato a Fiuggi si sia arenato e il partito si sia seduto sugli allori, attratto dalle risorse del sottogoverno locale con il rischio che proliferino

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i «carrieristi», poco mobilitabili su obiettivi di largo respiro e legati alle filiere correntizie interne più che al partito in sé (e alla sua guida). Inoltre, Fini si muove con tanta irruenza non solo perché si sente intangibile grazie al ruolo pubblico conquistato, ma perché dispone, statutariamente, di ampi po­ teri e, soprattutto, non è sfiduciabile da alcun organo centrale bensì solo dal congresso. Non si può ripetere quanto accadde nel 1990... Lo show-down di Fini con gran parte della sua classe dirigente, alla fine, anche grazie alla consueta, abile, opera di mediazione di uno dei pochissimi leader della vecchia guar­ dia ancora influente, Tatarella, non porta sconvolgimenti. Ma appare ormai evidente la distanza tra il leader e il suo partito. E, allo stesso tempo, la resilienza del partito in quanto tale. Fini, contrariamente a Berlusconi, ha di fronte a sé un partito vero e proprio, forte, strutturato, con decine di migliaia di militanti e di quadri coinvolti nelle amministrazioni locali e disposti a difendere il loro ruolo, e con una classe dirigente che lo riconosce come leader ma che non è priva di autonome risorse politico-simboliche. Fini, incurante delle reazioni del suo partito, insiste, in varie sedi, sulla piena adesione ai principi della democrazia liberale e, specularmente, sul ripudio del passato fascista, denuncian­ do con parole mai così drastiche anche la Repubblica sociale italiana, al punto da dichiarare che se fosse stato un ventenne nel 1943 non avrebbe aderito alla Rsi. Parole che intaccano un tabù potentissimo della memoria collettiva del partito. E infatti queste affermazioni non sono per nulla condivise dai partecipanti al «Convegno teorico» convocato a Verona nella primavera del 1998: il 61% rifiuta di tagliare il cordone ombelicale con quel passato, perché ritiene che «condannare l’esperienza della Rsi significherebbe dissolvere le radici della propria identità politica»; un atteggiamento che prevale anche tra gli iscritti post-1994, 45% contro 37%. Inoltre, i loro giudizi sul fascismo sono sostanzialmente identici a quelli espressi dai congressisti di Fiuggi tre anni prima: il rinnovamento ideologico non ha fatto breccia. Persino tra gli iscritti post-1994, i nativi di An, prevale una rivalutazione del fascismo, con il 57% che si esprime a favore del regime e il 26% contro. Gentile, Mus­ solini ed Evola, nell’ordine, continuano a primeggiare nella graduatoria dei maìtres à penser. E evidentemente passata del

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tutto inosservata l’intervista di Fini sulla rivista «Ideazione» nella quale si era speso a favore di intellettuali autenticamente liberali, da Popper alla Arendt, consegnando al dimenticatoio la quasi totalità degli esponenti del pensiero antidemocratico. Tutto ciò segnala l’acuirsi più che l’appianarsi di un distacco tra il leader e il corpo militante del partito. Il punto critico è che sui temi fondanti l’identità del «nuovo» partito non c’è l’ombra di un dibattito interno: sono considerati un pedaggio che si è dovuto pagare a Fiuggi ma che ormai va messo in soffitta. Altre sono le linee di conflitto interno: una riguarda la frattura tra «liberisti» e «aperturisti» (Fini e Urso) contrapposti ai «sociali», difensori della tradi­ zione politica originaria (Alemanno e Storace), con in mezzo una palude che segue volente o nolente il leader; l’altra, più sotterranea e con allineamenti che trascendono le correnti, riguarda il rapporto competitivo-conflittuale o pienamente collaborativo con Forza Italia. La leadership, pur muovendosi sempre in assoluta libertà, sa che una parte del partito segue senza convinzione e solo per lealtà. E quindi difficile essere pienamente convincenti per quei ceti produttivi del Nord che An vuole conquistare sottraendoli agli altri partiti del centrodestra e ponendosi così al centro della coalizione moderata. La strategia finiana di egemonizzazione del centro-destra si infrange di fronte alla doppia sconfitta, nella primavera del 1999, nel referendum sull’eliminazione della parte proporzio­ nale della legge elettorale e nelle successive elezioni europee. Fini sostiene a spada tratta il referendum, anche e soprattutto per differenziarsi da Berlusconi che rimane defilato (tanto che andrà a votare solo pochi minuti prima della chiusura delle urne). Il leader di An usa la consultazione referendaria come un test, una sfida quasi, per la leadership nel Polo. Forte della vittoria annunciata, commentando in televisione i primi dati ingannevolmente favorevoli all’abrogazione, Fini lancia un affondo contro il Cavaliere rivolgendogli un perentorio invito a una verifica dei rapporti interni al Polo. Ma la realtà dei numeri, alla fine dello spoglio, è diversa e per una manciata di voti non viene raggiunto il quorum. Nonostante questo passo falso, o forse proprio per questo, il presidente di An rilancia proponendo, alle elezioni europee, una lista comune con Ma­ rio Segni, icona del riformismo istituzionale, sotto l’emblema dell’elefante, simbolo del Partito repubblicano statunitense.

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Questa scelta, improvvisa e affrettata, è imposta a un partito riluttante che teme un annacquamento dell’identità. In effetti, è proprio questo l’obiettivo di Fini: diluire il marchio An, inadeguato per il grande balzo in avanti, in un ulteriore con­ tenitore, riformista, e del tutto slegato dalla tradizione missina. Anche questa sfida è persa, e in maniera disastrosa. La lista dell’elefante retrocede di ben 5 punti in rapporto alle elezioni del 1996 scendendo al 10,3%. La sconfitta è troppo bruciante per passare sottotraccia. Per la prima volta, Fini viene apertamente contestato al proprio interno e deve mettere in gioco tutta la sua autorevolezza per riaffermarsi. Consapevole che non c’è alternativa al leader, la classe dirigente accetta il rilancio d’orgoglio proposto da Fini: confermare la validità della scelta riformatrice impegnando il partito in una solitaria raccolta di firme per riproporre il referendum appena bocciato. Il partito risponde alla chiamata alle armi e, in piena estate, vengono raccolte quasi 700 mila firme. E un successo interno, della capacità di mobilitazione del partito, più che rivolto all’esterno perché, ormai, la strategia della competizione con Forza Italia è archiviata. An deve accontentarsi di un ruolo subordinato. Il partito entra in un cono d’ombra e perde quella rilevanza politica e quell’attenzione mediatica di cui ha goduto nei cinque anni precedenti. L'appuntamento elettorale delle regionali del 2000 è atteso con una certa ansietà. Il partito ha di fronte a sé un Berlusconi in auge, che allarga la sua influenza, per sua fascinazione o altro, anche dentro la classe dirigente di An, e una Lega che, radicalizzando il proprio messaggio sull’immigrazione e sul law and order, potrebbe pescare consensi nel serbatoio di destra tradizionalmente presidiato da An. In realtà, Alleanza nazionale, al Nord quantomeno, non è più il partito della destra intesa in senso tradizionale. Benché sull’asse destra-sinistra An con­ tinui a essere considerata dall’opinione pubblica il partito più a destra - ma la Lega e la stessa Forza Italia non sono molto distanti -, le opinioni dei propri elettori e militanti su molti temi sono più moderate di quelle dei leghisti e, spesso, sono indistinguibili da quelle forziste. Infatti, il livello di xenofobia e di autoritarismo degli aennini è solo leggermente superiore a quello dei forzisti, ma è nettamente inferiore, di più di 10 punti percentuali, rispetto a quello dei leghisti. Anche la costante crescita di consensi al Nord dimostra che Lega e An pescano

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in elettorati diversi: più popolare ed estremista il primo, più di ceto medio-alto e moderato il secondo. L’ansietà per l’esito delle elezioni regionali si stempera: An beneficia del vento favorevole al centro-destra e risale al 12,9% cancellando il tonfo dell’anno precedente. Soprattutto, riesce a eleggere un suo candidato in una regione importante come il Lazio dove, a sorpresa, si impone Francesco Storace, leader della destra sociale e spesso critico con Fini. La vittoria di un candidato così fortemente connotato in senso partitico, e non di un esterno, di un rappresentante della società civile, ridà smalto ad An: dimostra che il partito dispone di una forza di attrazione autonoma. Le elezioni politiche del 2001 non confermano però la ripresa del partito. Alleanza nazionale retrocede al 12%, tre punti e mezzo in meno rispetto alle politiche precedenti. Il risultato negativo è però compensato dall’ingresso nel governo Berlusconi, e questa volta con adeguati riconoscimenti: Fini diventa vicepresidente del Consiglio e ad An sono attribuiti 4 ministeri. Il voto del 2001 evidenzia un’accentuazione di quelle modi­ ficazioni nella distribuzione territoriale e sociale del consenso che si erano manifestate nelle precedenti elezioni. In primo luogo, An continua nella sua lenta penetrazione nel Nord. Rispetto alle elezioni del 1994 guadagna in tutte le regioni centro-settentrionali, in particolare in Lombardia e Veneto, mentre perde in quelle centro-meridionali, dal Lazio in giù. In secondo luogo, il partito continua, come da tradizione, a essere premiato dai giovani - studenti e non - e dagli uomini, mentre i suoi referenti sociali privilegiati sono ora diventati, nell’ordine, gli imprenditori - piccoli e grandi - e i liberi professionisti (entrambi molto sovrarappresentati, esattamente il doppio della media dell’elettorato di An), i commercianti e gli altri lavoratori autonomi e, in misura minore, gli impiegati pubblici. In sintonia con questo profilo occupazionale, gli elettori di An hanno anche un livello di istruzione medio­ alto, superiore a quello degli elettorati dei suoi alleati di coalizione. In sostanza, rispetto agli altri partiti del centrodestra An si configura meno popolare e più borghese. Ciò è dovuto in larga parte al fatto che l’immagine del leader ha avvolto e coperto quella del partito fornendogliene una assai più moderna e accattivante. La sua compostezza di fronte alle

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scivolate demagogiche dei suoi partner (Udc esclusa) risulta particolarmente attraente a un elettorato moderato e articolato. L’immagine di Fini costituisce la risorsa maggiore del partito. Non l’unica comunque. Rispetto agli altri contendenti dispone anche di un partito ben insediato e attivo. Le iscrizioni veleggiano oltre il mezzo milione, i circoli territoriali sarebbero addirittura superiori al numero dei comuni italiani (cifre forse un po’ troppo generose...) e gli iscritti si mobilitano intensa­ mente. Come attesta una ricerca sui membri di An, condotta nel 2001, quasi la metà degli intervistati dichiara di aver presenziato «spesso» a incontri politici organizzati dal partito nel corso dell’ultimo anno, il 28% «qualche volta», 1’ 11 % «raramente» e altrettanti «mai». Quindi, solo poco più del 20% è un iscritto sulla carta, ossia inattivo (una quota assai bassa se confrontata con altri partiti italiani ed europei). Inoltre, i contatti infor­ mali, personali, al di là dell’attività militante, tra i membri del partito coinvolgono un numero ancora maggiore di iscritti, il che significa che il partito è un luogo importante per la vita dell’iscritto, un luogo di socializzazione dove si realizza quella «comunità» tanto spesso evocata nei discorsi più mobilitanti, soprattutto dalla componente sociale di Alemanno e Storace. L’impegno dei militanti non si traduce però in altrettanta soddisfazione. In linea generale le valutazioni non sono cupe: gli iscritti si dividono in due gruppi di pari consistenza tra contenti e scontenti dell’influenza da loro esercitata nelle decisioni del partito. Quando poi si passa a considerazioni più puntuali sul loro ruolo, gli umori si fanno più bui: il 60% ritiene che gli iscritti contino poco o nulla nelle scelte dei dirigenti, il 70% che il partito non si interessi delle opinioni degli iscritti, e il 79% che il lavoro dei militanti sia misconosciuto. L’aspetto più preoccupante è che emerge una relazione diretta tra grado di coinvolgimento e insoddisfazione. La percentuale più alta di insoddisfatti (34%) si registra infatti tra coloro che sono più intensamente mobilitati, mentre la più bassa (20%) si ha tra i meno mobilitati; all’opposto, la percentuale più alta di soddisfatti (33%) si riscontra tra i meno attivi. In sostanza, il partito è attivo, è coinvolto, ma è anche fru­ strato. Vorrebbe contare di più, essere preso maggiormente in considerazione. Una parziale soddisfazione a questa domanda viene dalla convocazione, nel febbraio del 2002, sette anni dopo Fiuggi, del II Congresso di Alleanza nazionale (4-8 aprile 2002).

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Il congresso si svolge placidamente, senza tensioni, essendo stato preceduto da un accordo fra le tre correnti interne che mette a tacere le infuocate polemiche della vigilia. Il leader vola alto nella sua relazione, evitando di scendere sul terreno dei conflitti interni. Il dibattito risulta sterilizzato, avvolto in una cappa di unanimismo forzoso e non conosce colpi d’ala; semmai si registra una certa frenata nel processo di innovazio­ ne e modernizzazione, in quanto ritornano echi di nostalgia missina anni Settanta per sottolineare l’unità generazionale del gruppo dirigente e in tal modo saldare le fratture che si erano aperte nei mesi precedenti. Con l’appannarsi del consenso al governo, e allo stesso Berlusconi, esemplificato dalle sconfitte del centro-destra alle amministrative del 2003, An incomincia a uscire dallo stato di minorità in cui gli insuccessi degli anni precedenti l’avevano sospinta. Per uscire dall’angolo il partito utilizza due leve. La prima è una costante opera di smarcamento nei confronti del presidente del Consiglio. Una clamorosa occasione in cui si staglia nettamente la lontananza, di modi e di stile quanto­ meno, tra i due leader, emerge in occasione della disastrosa presentazione della presidenza di turno italiana dell’Unione Europea di fronte al parlamento di Strasburgo: mentre Ber­ lusconi prosegue imperterrito nello scontro con i parlamentari europei, Fini, seduto al suo fianco, continua a roteare gli occhi alla ricerca di un appiglio chiedendosi come uscire da quella situazione imbarazzante e finisce per mettersi, letteralmente, le mani nei capelli. Anche se questo è solo un episodio, che pur illumina visivamente lo iato che separa i due leader, è poi sulle scelte politiche del governo che si manifesta il distacco. La seconda leva agisce su una diversa linea di politica economica e sociale. I provvedimenti bloccati in Consiglio dei ministri o contestati pubblicamente sono numerosi. Particolarmente accesi sono gli scontri con il superministro dell’Economia Giulio Tremonti accusato di essere insensibile ai problemi sociali. Dopo una serie di scontri all’arma bianca - particolarmente cruento quello sul ruolo del governatore della Banca d’Italia dopo il crack della Parmalat - Fini ottiene, in un teso show-down in Consiglio dei ministri, nel luglio del 2004, le dimissioni di Tremonti, al quale addebita la modesta performance elettorale della Casa delle libertà alle elezioni europee. Vinto questo braccio di ferro, pochi mesi dopo, in

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occasione del rimpasto del governo, nel novembre del 2004, il presidente di An entra alla Farnesina occupando la prestigiosa poltrona di ministro degli Esteri: un incarico che, dopo la sua guida della delegazione italiana alla Convenzione delPUnione Europea per il nuovo trattato costituzionale, legittima inter­ nazionalmente e in maniera conclusiva Fini e, per riflesso, il suo partito. Questa legittimazione viene dopo una serie di interventi spiazzanti del presidente di An che costituiscono la seconda leva per rilanciare il partito. In particolare, nell’autunno del 2003, Fini scuote il suo partito - e l’opinione pubblica - con due prese di posizione, una più clamorosa dell’altra. La pri­ ma riguarda gli immigrati. All’inizio di legislatura il leader di An aveva promosso, significativamente insieme a Bossi, una nuova normativa restrittiva sull’immigrazione. Un anno dopo, però, Fini cambia registro: sconcertando alleati e oppositori propone, in antitesi allo spirito della «sua» legge, il diritto di voto degli immigrati alle elezioni amministrative. La proposta desta grande sorpresa ma non risulta ostica agli iscritti di An. Infatti, sondati nel 2001 su questo tema, i giudizi si dividevano quasi a metà: 42% favorevoli e 46% contrari. Esisteva già un atteggiamento aperto su questo tema, alla base, che il leader ha saputo intuire e interpretare. Tuttavia, all’interno di An si alternano atteggiamenti diversi e persino contraddittori, in quanto a fronte del consenso sul riconoscimento di diritti agli immigrati (voto e assistenza) gli iscritti sono anche spaventati dalla dimensione del fenomeno migratorio e dal contemporaneo aumento della criminalità. Ben più dirompente risulta la visita di Fini in Israele nel novembre del 2003. Giunto infine a essere ammesso nel paese dopo un lunghissimo lavorio diplomatico e la totale condivi­ sione di ogni aspetto della politica israeliana, mandando alle ortiche il precedente penchant filopalestinese del partito, il leader di An, di fronte al Museo dell’Olocausto, denuncia in maniera mai così netta e dura il fascismo, definendolo «male assoluto», soprattutto a causa delle leggi razziali. Questa volta, però, il partito non segue compatto. Si leva­ no voci critiche che trovano nel leader della corrente sociale Francesco Storace, e in Alessandra Mussolini, gli interpreti più vocali. Mentre il primo si limita a manifestare il suo dissenso o, meglio, ad aggiungere questo elemento alla lunga lista di

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querimonie, la Mussolini, invece, esce dal partito per fondare Teffimera formazione Alternativa sociale. Ma se all’interno di An si rumoreggia, all’esterno l’elettorato aennino, invece, ap­ prova le dichiarazioni del leader: il 72% e l’80% le ritengono, rispettivamente, «credibili» e «opportune». Una sconfessione clamorosa delle resistenze nostalgiche che ancora attraversano i quadri dirigenti di An. Fini accentua comunque la sua posizione super partes e isti­ tuzionale grazie al suo ruolo di ministero degli Esteri, e insiste nella demolizione di molti riferimenti ideologici consolidati del partito, di cui il solitario sostegno all’abrogazione delle norme restrittive per la fecondazione assistita nel referendum del 2005, che tanto irrita le gerarchie ecclesiastiche e vaticane, è uno dei più eclatanti episodi. In questa occasione, sconcertati da un’ulteriore presa di posizione eccentrica del leader, e infastiditi dal suo isolamento al limite dell’autoreferenzialtà, i custodi dell’ortodossia in­ sorgono e Fini è sottoposto per la prima volta a un fuoco di fila di critiche da parte dei più influenti dirigenti del partito. I quali però, pochi giorni dopo, incappano in un clamoroso infortunio mediatico - parole in libertà contro il leader carpite al bar da un giornalista e prontamente pubblicate - che con­ sente a Fini di revocare loro ogni incarico e di redistribuire a proprio piacimento le poltrone interne, ritornando così a controllare autocraticamente il partito. Ma questa prova di forza non attiva un circuito virtuoso come in altre occasioni. Gran parte della classe dirigente e ancor più dei quadri peri­ ferici e dei militanti di base non sono conquistati dal leader. Ubbidiscono e seguono, per consuetudine e stile politico, ma non fanno proprie le acquisizioni e le innovazioni politico­ culturali della leadership (a eccezione della condanna delle leggi razziali del fascismo). Tutto è comunque rimandato all’esito delle elezioni politiche del 2006: se la coalizione di centro-destra perde, ma An ottiene un buon risultato, finalmente si può riaprire la questione della leadership dello schieramento. Ma la spettacolare rimonta del Cavaliere, che trascina a un passo dalla vittoria gli sfiduciati alleati, e il mesto risultato del 12,3%, cioè la metà dei suf­ fragi di Forza Italia, azzerano le aspirazioni del presidente di An. In più, gli ostacolano un’ulteriore implementazione del rinnovamento interno.

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È su quest’ultimo rovello che il partito continua acl attorcigliarsi. La leadership patrocina un’evoluzione verso il conservatorismo alla Cameron e alla Sarkozy, esaltati come modelli di una destra moderna, evoluzione che dovrebbe trovare completamento nell’adesione al Ppe. In effetti, il saluto portato dal futuro presidente francese al congresso del partito, nonché la prefazione di Fini all’edizione italiana del suo libro sono viatici importanti. E la nascita della fondazione Farefuturo animata dall’esponente più liberal del partito, Adolfo Urso, rafforza questa tendenza. D ’altro lato, le domande di difesa dell’identità e di alternativa al pensiero unico neoliberale, benché continuino a circolare nella corrente sociale del partito, hanno un’influenza sempre più ridotta, tanto che uno dei suoi più esuberanti rappresentanti, Francesco Storace, nell’autunno del 2007 lascia il partito per fondare La Destra. Il futuro di An, e in prospettiva la conquista della guida del centro-destra, passano ancora per la cruna d’ago del rap­ porto con Forza Italia. La carta vincente del partito in questa competizione rimane sempre e soltanto quella del proprio leader, che continua ad avere un alto gradimento non solo tra gli elettori di destra ma anche nell’opinione pubblica nel suo complesso. Ma la distanza che si è creata nelle idee, nelle scelte e persino nello stile tra Fini e il suo partito è sempre più incolmabile. Questa frattura si rivela in tutta la sua profondità al momen­ to della proposta di Berlusconi di creare il partito unico della destra. Nell’estate del 2007 Fini aveva sostenuto la necessità di ridefinire quanto prima l’assetto dell’alleanza, nella speranza di assumere un ruolo maggiore. Ma l’improvvisa accelerazione di Berlusconi verso un nuovo «grande partito dei moderati», lanciato nel novembre, con il cosiddetto «discorso del predel­ lino» lo coglie in contropiede. Fini prima cerca di ignorare e persino di ridicolizzare l’iniziativa del Cavaliere, definendola «comiche finali»; ma poi, di fronte alla marea montante di consensi anche dentro il proprio partito, e soprattutto alla brusca fine della legislatura, si acconcia a seguire il leader di Forza Italia. Fini tocca qui con mano la penetrazione del berlusconismo nel suo mondo e di converso la sua personale alterità a quel mondo che non è più «suo». La nascita di questa nuova coalizione elettorale, destinata poi a concretizzarsi in un nuovo partito, mette in luce tutta

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l’indeterminatezza del progetto di Alleanza nazionale, rimasto a metà strada tra velato e pudico nostalgismo, pur epurato delle sue scorie più sulfuree, e diluizione nel moderatismo a tinte qualunquistiche e populiste di cui però è Forza Italia l’autentico, accreditato rappresentante; e anche l’approdo conservatore-europeo patrocinato da Fini rimane incompiuto, attestando così il divario tra il leader e il resto del partito. Una debolezza fatale per An e per lo stesso Fini. Per la compo­ nente di origine missina e postmissina sarà la fine della storia. Nemmeno quando la giovane Giorgia Meloni ex leader del movimento giovanile di An, Azione giovani, si staccherà dal nuovo partito alla fine del 2012 fondando con Ignazio La Russa Fratelli d’Italia, riemergerà quella tradizione. Troppo lontani i tempi, i miti, i ricordi di quell’esperienza e troppo pochi i dirigenti legati a quel mondo (solo La Russa e la stessa Meloni avevano un profilo riconoscibile e legato alla storia del Movi­ mento sociale). La storia del neo e postfascismo si chiude qui.

Capitolo settimo

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Il Partito comunista italiano (Pei) è la formazione politica che ha attraversato il regime fascista mantenendo la maggior continuità organizzativa, sebbene con dimensioni molto esigue, non più di 5-6 mila iscritti. La caduta del fascismo non ha comportato quindi, come nel caso di altri partiti, la ricostituzione o la rifondazione del partito; ha rappresentato comunque un evento di cruciale importanza anche per il Pei, perché ha permesso la liberazione di migliaia di militanti incarcerati dal regime e il rientro in Italia del suo gruppo dirigente. Questa disponibilità di militanti e quadri consente al par­ tito di svilupparsi rapidamente al Sud, nei territori liberati, e di organizzare efficacemente la Resistenza al Nord, attraverso le Brigate Garibaldi e i gruppi d’azione patriottica (Gap). La mobilitazione comunista nella Resistenza è così ampia - il par­ tito inquadra circa 100 mila partigiani, il 50% del totale - che consente al Pei di esercitare una sorta di egemonia militare e politica durante la guerra di Liberazione e poi di accedere ai primi governi di ricostruzione postbellica. Questo risultato non sarebbe stato possibile se non fos­ se stato sostenuto dalla politica distensiva e collaborativa adottata dalla leadership del Pei. E il segretario del partito, Paimiro Togliatti, appena tornato dall’esilio moscovita dove era stato segretario del Comintern (l’organizzazione mondiale dei partiti comunisti), a impostare una nuova linea politica conciliante: in un discorso, divenuto celebre, pronunciato a Salerno nell’aprile del 1944, Togliatti indica infatti come priorità l’obiettivo della liberazione nazionale e invita a rimandare al dopoguerra la decisione sulla monarchia. Una mossa abile, che attenua le diffidenze degli Alleati e accredita il Pei come partito «nazionale» e affidabile.

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A questa spregiudicata iniziativa, che verrà definita la «svolta di Salerno», si affianca un’altra cruciale innovazione, annunciata dal segretario nello stesso periodo, che riguarda più direttamente il partito e il suo rapporto con la società civile. Per Togliatti il Pei deve aprirsi alla società, facilitando il reclutamento di massa senza distinzioni di classe o di fede religiosa: deve diventare un grande partito «popolare», incen­ trato ovviamente sul proletariato urbano e rurale, ma capace di includere anche altre componenti sociali. Per favorire questo progetto è necessario allora stimolare la costituzione di associazioni e organismi di massa, non direttamente di­ pendenti dal partito, per catalizzare un potenziale consenso. In sostanza, il Pei non deve più essere un piccolo partito di «rivoluzionari di professione» che preparano la presa del potere all’ora X, sul modello del partito bolscevico-leninista, ma un grande partito di massa per iscriversi al quale, come verrà espressamente indicato nell’art. 2 del nuovo statuto, approvato al primo congresso dopo la guerra, il V (29 di­ cembre 1945-6 gennaio 1946), non sarà più richiesta alcuna professione di fede marxista. Questo nuovo riorientamento politico-organizzativo affianca e sostiene la ridefinizione strategica: il Pei dopo aver dedicato tutte le sue energie alla lotta di liberazione «nazionale» deve consolidare gli istituti della democrazia borghese nell’attesa di poter arrivare, in un futuro indefinito, alla società socia­ lista. Togliatti spegne sul nascere, ancora prima che si arrivi alla Liberazione, ogni ipotesi o velleità di quella «rivoluzione sociale» coltivata dalla parte più tradizionale, di ispirazione bolscevica, impersonata, fino a metà negli anni Cinquanta, da Pietro Secchia. L’edificazione del socialismo, ripete Togliatti in più occasioni, ha bisogno di un periodo di maturazione della società; quindi il partito deve favorire lo sviluppo di una «democrazia progressiva» che, accettando le «libertà formali» e il parlamentarismo, prepari il terreno al socialismo. In questa impostazione c’è anche molta indeterminatezza, al confine con la «doppiezza». A livello ufficiale, infatti, il Pei proclama fedeltà ai principi democratici e, in seguito, alla Costituzione, ma nell’attività di propaganda a livello popolare risuonano accenti ben diversi. I miti dell’Urss, della rivolu­ zione bolscevica, del comuniSmo, ritornano continuamente nei discorsi e negli scritti di questo periodo. E siccome non

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vengono mai smentiti, o sanzionati, prende corpo l’idea che l’azione del Pei si muova su un doppio binario: uno palese e legale, che proclama l’adesione alla democrazia, l’altro sotterraneo, che affila le armi per la spallata rivoluzionaria. Sebbene questa doppiezza si mantenga per molti anni, anzi per decenni, è comunque vero che Togliatti in prima persona interviene, più volte e in occasioni cruciali come in occasione dell’attentato che subisce il 14 luglio 1948, per smorzare gli ardori rivoluzionari. Coerentemente con l’impostazione togliattiana della demo­ crazia progressiva e del partito nuovo, fino al 1947 il Pei vuole consolidare le sue posizioni di partito di governo e cerca in tutti i modi di mantenere buone relazioni con l’establishment e con il mondo cattolico. Togliatti, in qualità di ministro della Giustizia, promulga un’amnistia benevola a favore dei fascisti e, successivamente, appoggia l’inserimento dei Patti lateranensi nella Costituzione (l’art. 7), suscitando le ire di socialisti e laici. Ma tutto questo è vanificato dalle dinamiche internazionali che impongono la loro logica: con l’acuirsi della guerra fredda il Pei è richiamato all’ordine dalla casa madre moscovita e deve allinearsi a una politica di contrapposizione frontale. E il contesto internazionale, e lo sarà per tutta la sua storia, a determinare la politica dei comunisti italiani. L’opposizione al Piano Marshall e all’Alleanza atlantica costa al Pei l’estromissione dal governo De Gasperi nel maggio del 1947. Non per questo, però, il Partito comunista abbandona l’idea di diventare un grande partito di massa: la strategia della penetrazione e dell’egemonizzazione negli organismi di massa unitari - dai sindacati alle cooperative, dal movimento per la pace agli organismi studenteschi - gli permette di emarginare la componente socialista. Il passaggio decisivo arriva con la presentazione di liste comuni sotto l’egida del Fronte popolare alle elezioni del 1948. Per il Pei si tratta infatti di modificare l’assetto uscito dalle urne nel primo test postbellico (le ele­ zioni della Costituente del giugno del 1946) dove era rimasto dietro al Psi con il 18,9%. Rispetto alle ultime elezioni libere dell’anteguerra, nel 1921, quando tra i due partiti c’era uno scarto di circa 20 punti a favore del Psi, nel 1946 il distacco è quasi colmato. Non solo: nella cosiddetta Zona rossa - EmiliaRomagna, Toscana, Umbria e Marche - il Pei è diventato più forte del Psi (33,5% contro 24,5% del Psi). Per il resto, il Pei

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è superato dal Psi (di quasi 8 punti percentuali) nella zona industriale per eccellenza (Piemonte, Lombardia e Liguria) mentre nelle altre aree, il Nord-Est e il Mezzogiorno, i due partiti si equivalgono, assestandosi a livelli molto bassi, intorno al 10%. Le elezioni del 1948 ribaltano i rapporti di forza. Il Pei conquista una posizione dominante nei confronti del suo alleato socialista, con il 22% contro il 9% dei socialisti. Se il primo obiettivo, quello di egemonizzare la sinistra, appare vicino, la sconfitta del Fronte popolare inibisce ogni ulteriore ipotesi di influenza sulla politica governativa. Di fronte alla prospettiva di una lunga emarginazione, il Pei utilizza due leve per mantenere un profilo politico alto: la creazione di una possente organizzazione in grado di mobilitare la piazza e la conquista di una posizione egemonica nella produzione culturale. L’organizzazione del Pei è sempre stata fonte di orgoglio, all’interno, e di un’ammirazione mista a timore reverenziale, nei partiti concorrenti. Il Pei è stato giustamente definito un «sistema organizzativo complesso [...] in quanto di ampie dimensioni; con vari livelli organizzativi gerarchicamente or­ dinati; con strutture di base territoriali e funzionali; con unità di base specializzate per determinate categorie sociali (donne e giovani); con organi di staff per ogni livello». Implicitamente, diventa il modello per tutti i partiti italiani che, sia pure in sedicesimo, cercheranno di assomigliargli. Inoltre, il Pei di­ spone di un’ideologia organizzativa, il cosiddetto «centralismo democratico», di derivazione leniniana. Questa concezione prevede che il processo decisionale proceda dall’alto in basso e che ogni iscritto, dopo aver eventualmente manifestato cri­ tiche e proposte solo all’interno degli organi del partito, debba adeguarsi alle deliberazioni ufficiali. Il dibattito nelle strutture periferiche serve per sondare gli umori della base in modo da poter intervenire per sanzionare e/o correggere, ma soprattut­ to per assicurarsi che la linea sia ben compresa e introiettata. Per molti anni predomina un clima di plumbeo conformismo, venato dalla sudditanza psicologica nei confronti della classe dirigente circondata dall’alone di prestigio e di autorevolezza creato dalle esperienze drammatiche - l’esilio o il carcere - vis­ sute durante la dittatura fascista. Ogni dissenso esplicito viene messo a tacere utilizzando una serie variegata di sanzioni, che producono piccoli e grandi drammi in coloro che le subiscono.

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Drammi, perché l’adesione al partito è totalizzante, una scelta di vita. Anzi, di più, perché il partito è una fede. Perinde ac cadaver, «fedele fino alla morte»: così, richiamando il motto dei gesuiti, un leader di primo piano come Giancarlo Pajetta sintetizzava l’appartenenza al Pei. Questa concezione assorbente, totalizzante, onnicomprensiva dell’adesione al partito ha come «conseguenza naturale» che il dissenziente sia considerato null’altro che un nemico oggettivo del popolo o un agente provocatore. Il tratto specifico dell’organizzazione comunista è dato dalla sua articolazione di base, la cellula, un organismo di dimensioni limitate, attivato prevalentemente nei luoghi di lavoro, ma anche nei caseggiati. Su poco più di 2 milioni di iscritti nel 1950, gli appartenenti alle cellule di fabbrica sono 416.017. Considerando che per tutti gli anni Cinquanta gli operai dell’industria iscritti al partito sono 886.635, ciò significa che quasi la metà di loro fa parte di una cellula. La penetrazione dell’organizzazione comunista nei luoghi di lavoro è così capillare da suscitare un senso di inferiorità e di inadeguatezza negli altri partiti, in particolare nel Psi, e una costante ansietà nella controparte borghese. Queste caratteristiche organizzative reggono per i primi anni Cinquanta, quando la politica antisindacale del governo e delle imprese e l’isolamento politico del partito spingono a sviluppare al massimo l’organizzazione. L’apice della forza organizzativa è raggiunto nel 1954-55, ma proprio in questo momento emergono i primi segni dell’esaurimento di quello slancio e di quella grinta che avevano consentito di impian­ tare e consolidare una struttura così poderosa. Esaurimento che si fa vera e propria crisi con «i fatti del 1956»: il Rap­ porto Chruscév sui crimini di Stalin e l’invasione sovietica dell’Ungheria. Ben 200 mila iscritti (pari a circa il 10%) e quasi un terzo della Federazione giovanile lasciano il partito. L’VIII Congresso (8-14 dicembre 1956), convocato a ridosso della rivolta ungherese, riconferma fedeltà assoluta all’Urss. «Quando crepitano le armi dei controrivoluzionari si sta da una parte sola della barricata, quella della rivoluzione prole­ taria e dell’Unione Sovietica», è la sintesi dell’intervento di Togliatti sulla crisi ungherese. Assicurata granitica fedeltà alla patria del socialismo, tutta­ via, il leader comunista ammette che per raggiungere una meta

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sono possibili più strade e, riprendendo i temi della svolta di Salerno ibernati dalla guerra fredda, rivendica la plausibilità di una via nazionale al socialismo, oltre il modello sovietico. Le nuove posizioni che emergono nella politica comunista - la difesa della Costituzione, l’applicazione del metodo de­ mocratico con il rispetto del principio di maggioranza e del pluripartitismo, il mantenimento di forme di proprietà privata, il rifiuto della rottura rivoluzionaria - costituiscono indubbie cesure nei confronti della teoria e della prassi politica prece­ denti. Ma non sono sufficienti per innescare un’innovazione nell’elaborazione ideologica. L’unico passaggio originale viene dalla rivalutazione del pensiero di Antonio Gramsci: il diri­ gente comunista morto in carcere durante il fascismo assurge al ruolo di teorico «nazionale» del comuniSmo. Delle inquietudini che serpeggiano tra gli intellettuali e nella classe dirigente nulla giunge tra i quadri e i militanti, per non dire tra i semplici iscritti. Il partito cura con attenzione la formazione dei quadri istituendo vere scuole di partito, per le quali passano più di 300 mila quadri tra il 1943 e il 1934. Ai partecipanti vengono fatti studiare i testi classici della vulgata marxista, a cominciare dalla celebre Storia del P.C.b. dell’Urss redatta da Stalin, un’acritica esaltazione deH’Urss e del «socialismo reale». Gli avvenimenti del 1956 portano a un forte impatto sull’organizzazione, tanto che oltre a un calo degli iscritti portano a un rinnovo radicale degli organismi dirigenti: il Comitato centrale eletto dopo l’V ili Congresso ha il minor numero di membri confermati e il più alto numero di nuovi entrati, 56,4%, di tutta la storia del Pei. Ma l’impatto mag­ giore si ha sulle prospettive strategiche in quanto il Partito comunista perde il «controllo» sul Psi: pur con tentennamenti e ricadute, il Partito socialista incomincia a muoversi senza la tutela comunista. L’avvio del dialogo tra socialisti e cattolici e del lungo processo di unificazione tra Psi e Psdi, di fatto, emargina il Pei. La robusta organizzazione comunista riesce comunque ad attutire gli effetti di questa situazione difficile. Alla fine degli anni Cinquanta, il partito mantiene circa 1 milione e 800 mila iscritti, ma l’attivazione per cellule è in declino: nel 1962 le cellule sono calate a 33.646, con un tracollo in quelle operaie, che scendono del 43% tra il 1956 e il 1963. In sostanza, il

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partito mantiene una buona capacità di reclutamento ma perde proprio nel suo ambiente naturale: pur essendo ancora costituito da operai per circa il 40% del totale, mentre nel 1954 aveva tra le sue file il 23,5% degli operai industriali attivi, nel 1962 ne recluta solo il 12,3%. A ogni modo, il partito «come orga­ nizzazione» regge, e bene, e anche sul piano ideologico nulla sembra incrinare l’ortodossia dell’ideologia marxista-leninista appena «italianizzata» con la ripresa di Gramsci. Togliatti scompare nell’agosto del 1964, lasciando uno scritto inedito, II memoriale di Yalta che sottolinea l’importanza delle vie nazionali al socialismo rispetto al tracciato sovietico. Subito si apre un dibattito all’interno del partito. Si profilano due posizioni che rimarranno poi, in versioni diverse, punti di riferimento costanti. La prima, impersonificata da Giorgio Amendola, cerca di inserirsi nel processo di unificazione socia­ lista proponendo al Psi e alla sinistra democratica una nuova stagione unitaria, «un grande partito unico del movimento ope­ raio» per andare oltre la socialdemocrazia e il modello sovietico. L’altra, interpretata da Pietro Ingrao, enfatizza le conflittualità sociali ed esalta la centralità della fabbrica mentre prefigura, un po’ fumosamente, un modello di sviluppo diverso da quello burocratico-collettivista sovietico. Questo dibattito, poi sopito in occasione dell’XI Congresso (25-31 gennaio 1966) quando entrambi i contendenti vengono ricondotti all’ordine (anche se viene accolto il merito delle proposte di Amendola) perché i dissensi non devono manifestarsi troppo chiaramente all’ester­ no, favorisce lo sviluppo, tra i quadri intermedi e i dirigenti più giovani, di posizioni radicali e «alternativistiche». Sensibilità che si coagulano nella rivista «il manifesto», animata da Rossana Rossanda, Lucio Magri e Luigi Pintor, che diviene il forum dell’opposizione al modello sovietico, a favore, invece delle esperienze eccentriche, in primis quella cinese. Anche questo dissenso, comunque, sarà represso duramente: il gruppo viene espulso nel 1969 con l’accusa di deviazionismo e frazionismo. Non a caso, spetta allo stesso Ingrao (dover) argomentare le ragioni del provvedimento nel Comitato centrale. La scissione socialista e la ripresa dell’effervescenza sinda­ cale con l’autunno caldo del 1969 offrono al partito prospettive più rosee. Per quanto colto di sorpresa - e messo anche ai margini - dal movimento studentesco del Sessantotto e anche dalla proposta sindacale del 1969, il Pei riesce ad approfittare

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di questo moto generale di contestazione. A partire dal 1971 si inverte la tendenza, in atto dal 1956, del declino degli iscritti, scesi a 1.503.816, mentre il pericolo di uno sfonda mento socialista è stato scongiurato dal disastro elettorale del 1968 a cui si è contrapposta invece una buona affermazione comunista (26,9 %). La nuova leadership di Enrico Berlinguer, esponente della terza generazione, potrebbe tornare a usare il Psi come sponda, operazione alla quale il partito di Francesco De Martino volen­ tieri si presta con la sua ipotesi degli «equilibri più avanzati». In realtà, con un improvviso colpo d’ala, Berlinguer scarta i socialisti e individua nel rapporto diretto con la Democrazia cristiana la nuova strategia del suo partito: nel settembre del 1973 il segretario del Pei propone alla De un «compromesso storico» per governare il paese con un’ampia maggioranza. L ’offerta di collaborazione con gli ex nemici di classe è motivata dalla convinzione che solo l’alleanza con la De può legittimare il Pei a governare. Prendendo spunto dal colpo di stato di Augusto Pinochet contro le sinistre in Cile, il leader comunista argomenta che società divise non possono essere governate con una risicata maggioranza ma hanno bisogno di larghe intese. La proposta di collaborazione con la De in nome delle comuni basi popolari e dell’appartenenza allo stesso nucleo fondante del sistema repubblicano viene, come al solito, tran­ quillamente digerita dal partito. Anche perché il Pei coglie un inaspettato trionfo elettorale alle amministrative del 1975 (33,4% alle regionali). Il Pei avanza in tutto il territorio na­ zionale e sfonda soprattutto nelle grandi città: artefici della vittoria sono i giovani tra i 18 e i 21 anni, che per la prima volta hanno accesso al voto. Questo improvviso successo cata­ pulta il partito al governo di tutte le più grandi città italiane, a eccezione di Bari e di quelle siciliane. Anche le iscrizioni fanno un balzo in avanti riportando il Pei ai fasti del passato: 1.814.262 iscritti, la cifra più alta dal 1956, mai più raggiunta. Anche l’apparato si rafforza: i funzionari di federazione passano dai 1.220 circa del 1969 ai 2.325 del 1976, il 40% dei quali iscritti al partito dopo il 1969. Le nuove leve sono ben diverse da quelle di un tempo. In primo luogo, sono molto diversificate socialmente: ceti medi, impiegati e professionisti affluiscono in abbondanza. In secondo luogo, molti di coloro che si iscrivono hanno già un’esperienza

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politica, ma non sono reclutati attraverso i consueti canali della Fgci o di altri organismi collaterali. Si tratta, infatti, di operai, studenti o anche giovani di estrazione borghese che hanno preso parte alle formazioni gruppuscolari della cosiddetta «nuova sinistra» negli anni caldi della contestazione. Dopo il 1975 le nuove leve beneficiano, nelle sezioni e nelle federa­ zioni, di una rapidità di carriera inedita nel Pei grazie al fatto che, a causa del successo elettorale, molti dirigenti sono stati eletti nei consigli e hanno lasciato libere le loro posizioni nel partito. Tutto ciò avrà un’importanza decisiva sulle dinamiche interne quando esploderà la crisi alla fine degli anni Ottanta. Per gran parte degli anni Settanta il Partito comunista è al centro della politica italiana. Con il 34,4% alle elezioni politiche del 1976, il Pei si avvicina alla De (li separano 4,3 punti percentuali) e surclassa uno stremato Psi ridotto al 9,6%. Il dialogo con la De, auspice Aldo Moro, ha come primo risultato la concertazione con gli altri partiti dell’arco costituzionale per decidere di sostenere, con l’astensione, il governo Andreotti (1976-78). Queste scelte non sono però senza costi. La rinnovata inquietudine studentesca (il Mo­ vimento del Settantasette) si infiamma proprio durante un improvvido comizio del segretario della Cgil, Luciano Lama, all’Università di Roma. Analogamente, la base operaia recal­ citra alla nuova impostazione di concertazione del sindacato, chiamato ad avallare la politica governativa di austerità. E, last but not least, si diffonde il terrorismo di sinistra. Contro questa sfida, particolarmente insidiosa perché ricorda un «album di famiglia», e cioè l’idea che la violenza rivoluzionaria di massa fosse legittima, il Pei si mobilita massicciamente, per evitare crepe interne e per dimostrare agli altri partiti e all’opinione pubblica nazionale e internazionale di essere estraneo a quel mondo e quindi, pienamente affidabile. In effetti, per essere accettato come partner di governo il Pei deve ridefinire la sua collocazione internazionale. A metà degli anni Settanta, favorito dalla distensione e dalla presidenza democratica negli Stati Uniti, il Pei, pur con molte esitazioni, retromarce e contraddizioni, incomincia a smarcarsi dall’ab­ braccio sovietico lanciando l’efficace quanto fumosa immagine deH’«eurocomunismo», un comuniSmo affrancato dall’ortodos­ sia sovietica e in sintonia con le società occidentali. In questo contesto, per rispondere a quanti rinfacciano l’esistenza di un

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«fattore K», cioè di un legame di ferro con l’Urss, Berlinguer, in una famosa intervista prima delle elezioni del 1976, arriva a dichiararsi «protetto» dalla Nato, picconando così un muro di ostilità vecchio di trent’anni nei confronti dell’Alleanza at­ lantica. Solo che questa dichiarazione rimane un fatto isolato, niente affatto in sintonia con l’orizzonte ideologico e politico dei militanti che continuano a essere avvinti all’Urss. Un’in­ chiesta condotta nel 1978 evidenzia infatti una valutazione a tinte rosee dell’Unione Sovietica, dove per il 41% non esiste rischio di detenzioni arbitrarie (contro un 30% che invece lo ammette) e per il 43% ritiene questo rischio più probabile in Italia che in Urss; per finire poi con un 90% (sic!) che è convinto che nella patria del socialismo ci sia «libertà dal bisogno e garanzia di avere cibo a sufficienza», cosa che solo il 30% ritiene sussistere in Italia. Il corpo del partito è ancora immerso nel mito dell’Urss. La tragica scomparsa dell’interlocutore privilegiato del partito, cioè Moro, annulla le speranze di proseguire lungo la strada del «compromesso storico». Nell’immediato, all’in­ domani del giorno stesso del rapimento di Moro, il 16 marzo 1978, il Pei, decide di votare, per la prima volta, la fiducia a un governo democristiano, guidato da Giulio Andreotti. Ma il dialogo si chiude già alla fine del 1978 con i dissensi sulla politica europea e monetaria, casus belli di un diverso orien­ tamento dei partiti di centro-sinistra. Le elezioni del 1979 sono giocate sulla difensiva. La nuova strategia adottata repentinamente alla fine dell’anno precedente in risposta all’uscita dalla maggioranza punta sull’«alternativa democratica» (non si capisce però da realizzare con chi) per perseguire un’indefinita e problematica «terza via» tra co­ muniSmo e socialdemocrazia. Il cambio di politica, brusco e debolmente argomentato, non incontra i favori dell’elettorato: per la prima volta, dal 1946, il Pei arretra (-3,7 punti percen­ tuali). Il Pei è rimasto, per usare un’espressione celebre, «in mezzo al guado», avendo abbandonato (ma di poco) le rive dell’ortodossia marxista e non essendo approdato a quelle socialdemocratiche. In effetti, nel Pei non c’è alcun ripensa­ mento sulle coordinate ideologiche. Nei dibattiti tra intellet­ tuali si riconosce che il marxismo è in crisi, ma si aggiunge che la socialdemocrazia e il capitalismo stanno ancora peggio. La prospettiva, indeterminata, della terza via assume quindi

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contorni quasi miracolistici con i quali la dirigenza comunista cerca di superare le asperità del reale. Per il Pei gli anni Ottanta sono inversamente proporzionali al decennio precedente. Mentre allora il Pei egemonizzava la sinistra e strapazzava un Psi in crisi di identità, ora la leadership craxiana affronta il Pei senza timori reverenziali, inchiodandolo alle sue difficoltà teoriche e alle sue ambiguità politiche soprattutto sul tema delle società del socialismo reale nell’Europa dell’Est. In questo periodo i risultati elettorali volgono verso il basso. L’acuto delle elezioni europee del 1984 dove il Pei per la prima e unica volta con il 33,3% supera la De di qualche decimale non fa testo perché fortissimamente condizionato dall’ondata emotiva suscitata dalla scomparsa di Berlinguer, colpito da un infarto durante un comizio elettorale. Mentre nel decennio pre­ cedente il Partito comunista aveva conquistato tante posizioni nelle amministrazioni locali e si apprestava a entrare al governo, ora gli viene sbattuta la porta in faccia da una De e un Psi che ritornano a collaborare senza passare dal Pei. Mentre allora il Pei vantava un’egemonia culturale e Gramsci e il neomarxismo dominavano la scena, negli anni Ottanta guadagna sempre più spazio il liberalismo, in par­ ticolare nella versione liberaldemocratica rappresentata dal filosofo Norberto Bobbio, e torna in auge, con un investimento diretto da parte del Psi, la tradizione del socialismo riformista italiano ed europeo; nessun autore di derivazione marxista è più degno di attenzione. Mentre allora il sindacato si accodava obbediente alle mutevoli politiche del partito, lo scontro sulla scala mobile con il governo Craxi spacca l’unità sindacale e porta il partito alla disastrosa sconfitta nel referendum del 1983. In sostanza, gli anni Ottanta sono tutti in salita per il Pei. Cominciano con il golpe del generale Jaruzelski in Polonia, che obbliga Berlinguer a prendere le distanze dal socialismo reale in termini un po’ più decisi dichiarando «esaurita la fase propulsiva della Rivoluzione d’ottobre». Proseguono con la sconfitta nel referendum sulla scala mobile incautamente promosso dal partito. Si concludono con il crollo del Muro di Berlino e con la crisi verticale del mondo di riferimento del Pei. Dopo la scomparsa di Berlinguer, una breve segreteria di Alessandro Natta (1984-87) gestisce il declino. I tentativi di

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rinnovamento ideologico e organizzativo procedono infatti con timidezza esasperante. Al XVII Congresso (9-13 aprile 1986) viene sommessamente riconosciuta la possibilità di dissentire (non di organizzare il dissenso), ma non si va oltre. Ancora una volta, le scelte del Pei dipendono dal contesto interna­ zionale. Come Berlinguer aveva operato uno strappo con la fedeltà all’Urss dopo il colpo di stato in Polonia, prima Natta e poi, più decisamente, Achille Occhetto cercano di sfruttare il nuovo clima instaurato dal premier sovietico Gorbacév. Il vero problema è che il mito dell’Urss e della società socialista è ancora terribilmente solido tra i militanti e i quadri periferici del Pei. Infatti al congresso del 1986 risuonano ancora accenti di amorosi sensi con l’Unione Sovietica: circa un terzo dei delegati la considera il modello di paese da seguire, mentre il secondo paese preferito, la Svezia, raccoglie solo l’8% di consensi. La nuova, e contestata, segreteria di Occhetto (11 membri su 38 della Direzione votano contro la sua nomina) in qualche modo risponde al bisogno di innovazione che assilla il partito dopo la sconfitta elettorale del 1987 (-3,3 punti percentuali). La crisi ha investito anche l’organizzazione, dove non solo calano continuamente gli iscritti, che scendono sotto il milione e mezzo, ma diminuiscono quelli in età lavorativa, per lasciar posto a frotte di pensionati, mentre della Fgci non c’è quasi più traccia. Occhetto si muove lungo due direttrici: il deciso rinnova­ mento della classe dirigente e la revisione ideologica. Al XVIII Congresso (18-22 marzo 1989) entrano in Direzione 22 nuovi membri, equivalenti al 42,3% del totale, e nel Comitato centrale le matricole sono addirittura il 46,3%. Ancora più radicale il ricambio nella segreteria, l’organo ristretto di gestione del partito: nello spazio di sei anni, dal 1983 al 1989, i componenti della segreteria cambiano tutti meno Occhetto; e l’età media scende a 43 anni. La segreteria che affianca Occhetto è quin­ di la più giovane, sia generazionalmente sia come esperienza politica, vista la rapidissima carriera di tutti i suoi membri. Questo assetto dovrebbe consentire al segretario di af­ frontare il mutamento ideologico-politico con più agilità. In effetti, le innovazioni sono numerose: la rivisitazione critica del ruolo di Togliatti, il riconoscimento del valore storico della Rivoluzione francese e della centralità dei diritti individuali,

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l’abbandono del centralismo democratico, il capovolgimento del giudizio sui fatti di Ungheria, la condanna del regime ci­ nese dopo il massacro di Piazza Tienanmen, la centralità dei diritti individuali, la domanda di ingresso nell’Internazionale socialista. Tutte acquisizioni importanti, ma manca ancora un passaggio, la rottura con la tradizione comunista non solo condannando singoli episodi bensì attraverso una ridefinizione ideologica e dell’identità. Di nuovo, sono le condizioni esterne, internazionali, a cambiare tutto. La caduta del Muro di Berlino nel novembre del 1989 è l’evento scatenante che «obbliga» a mutare radi­ calmente i connotati del partito. Nei giorni immediatamente successivi il segretario Occhetto, in una sezione del partito di un quartiere di Bologna (la Bolognina), annuncia la necessità di cambiare tutto: dichiara esplicitamente fallito l’esperimen­ to comunista e, meno apertamente, l’ideologia su cui esso si fondava e quindi propone di modificare nome, simbolo, padri spirituali e appartenenze ideologiche. Attraverso un faticoso percorso che dura più di un anno, con la celebrazione del X X Congresso (31 gennaio-3 febbraio 1991) il partito approda a una nuova configurazione con un nuovo nome - Partito democratico della sinistra (Pds) - e un nuovo simbolo - una quercia con alla base una piccola, residua, falce e martello. Il momento cruciale rimanda però al congresso «straordinario» (l’unico nella storia del Pei) convocato a Bologna, forse non pour cause, dopo pochi mesi dallo strappo, il 7-11 marzo 1990. In congresso si confrontano, per la prima volta, mozioni contrapposte. A conclusione di un dibattito vero e appassionato la mozione del segretario Occhetto, che si è garantito l’appoggio delle grandi federazioni della Zona rossa, ottiene più dei due terzi dei consensi. A quella del segretario si contrappongono la mozione di Ingrao che ammette la crisi del comuniSmo ma anche la sua validità ideale per non perdere contatto con l’ansia di superamento del capitalismo e quella, assai minoritaria, di Cossutta, espressione dei nostalgici che respingono le critiche al socialismo reale e ai suoi fondamenti teorici. La formazione che nasce nel 1991 è, sotto tutti gli aspetti - meno uno -, un partito autenticamente nuovo. Lo è, in­ nanzitutto, sul piano ideologico: con la rapidità tipica di chi, da tempo, non aspettava altro, vengono mandati in soffitta

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i riferimenti marxisti. La centralità attribuita all’indivicluo, al cittadino e ai suoi diritti, al posto della classe e della sua missione storica, illustra meglio di ogni altra considerazione la rivoluzione copernicana compiuta con la nascita del Pds. Cambiano anche i testi sacri e gli autori di riferimento: pur senza una bussola chiara, si buttano a mare biblioteche intere del pensiero marxista e rivoluzionario per sostituirle con apporti diversi, a volte eterogenei, ma in cui spiccano i migliori nomi del pensiero liberale critico, da Dahrendorf a Bobbio. Anche l’organizzazione subisce radicali mutamenti, soprattutto nella sua filosofia, non più improntata al centralismo democratico bensì disposta ad accogliere forme regolate di dissenso. Quello che manca in questo processo «rivoluzionario» è una nuova classe dirigente. Non emerge alcuna figura estranea alla tradizione comunista, a eccezione della breve, e non a caso irrilevante, parentesi della presidenza del partito affidata al giurista Stefano Rodotà. Il vorticoso ricambio, anche generazionale, della classe dirigente compiuto alcuni mesi prima, al XVIII Congresso, era comunque rimasto nel perimetro interno del partito. Il cambiamento non è indolore. Il nuovo partito perde la componente più radicale e nostalgica, che fonda il Partito della rifondazione comunista (Re), e subisce, anche a seguito di questa scissione, un’emorragia di iscritti e di voti. I tesserati calano vertiginosamente da 1.264.790 nel 1990 (ultimo anno del Pei) a 989.708 nel 1991 (primo anno del Pds); alla prima verifica elettorale il partito scende al 16,2% perdendo più di 10 punti percentuali, che si riducono a 5 tenendo conto dei voti andati al Re. In questa situazione di estrema debolezza - ancora emar­ ginato e ostracizzato dall’area governativa, insidiato per la prima volta da un credibile partito scissionista alla sua sini­ stra, incalzato dal Partito socialista staccato ormai di appena 2,6 punti percentuali - il Pds trova la sua àncora di salvezza nell’inchiesta Mani pulite sulla corruzione politica. Colpito solo tangenzialmente dalle accuse (e, pour cause, soprattutto a Milano), il Pds, grazie anche all’atteggiamento sinceramente autocritico del segretario Occhetto, che denuncia - di nuovo dalla sezione della Bolognina, nel capoluogo emiliano - ce­ dimenti sul piano dell’etica pubblica, si salva dal collasso dei partiti tradizionali. Lo status di partito di opposizione,

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la granitica moralità personale dei dirigenti nazionali e locali (le tangenti erano sempre e solo per il partito, nulla rimaneva nelle mani della persona coinvolta nello scambio illegale), il sostegno spassionato, ma non disinteressato, alle inchieste sulla corruzione, uniti alla contemporanea liquefazione degli altri partiti, lasciano campo libero al partito della Quercia. Nell’arco di un anno, alle prime amministrative comunali organizzate con il nuovo sistema di elezione diretta del sin­ daco, il Pds dimostra di essere rimasto l’unico partito storico, dell’arco costituzionale, a godere ancora di buona salute. I suoi candidati - o i candidati da esso sostenuti - vincono tutte le grandi sfide sia della primavera del 1993, a Torino, Ancona e Catania con la sola cospicua eccezione di Milano, sia dell’au­ tunno, da Genova a Napoli, da Venezia a Roma, da Pescara a Palermo. Il successo è tale da far ventilare l’ipotesi che il partito possa diventare il perno di una coalizione di governo alle imminenti elezioni legislative. In vista delle elezioni del 1994 - le prime con il nuovo sistema elettorale prevalentemente maggioritario (detto «Mattarellum») - il Pds promuove una coalizione, i Progressisti, alla quale partecipano tutti i partiti di sinistra compresi, mestamen­ te, i socialisti di Ottaviano Del Turco. La classe dirigente del partito, che si cullava nella convinzione di una facile vittoria sul parvenu Silvio Berlusconi, viene colta di sorpresa dalla sconfitta. Il partito perde il primato, a favore di Forza Italia (20,4 contro 21,1%), e si ritrova, una volta di più, all’opposi­ zione. Lo sconcerto è tale che, per la prima volta nella storia del vecchio Pei e del neonato Pds, il segretario presenta irre­ vocabili dimissioni; dimissioni che, alquanto irritualmente, non sono respinte ma accettate. Questa inedita circostanza - che indica meglio di ogni altro aspetto il mutamento copernicano di stile e prassi - offre l’occasione di avviare una ancor più inedita competizione tra candidati. Massimo D ’Alema e Walter Veltroni, i due giovani dirigenti che si fronteggiano, sono entrambi espressione della «gene­ razione Berlinguer», quarantenni che hanno maturato le loro esperienze nella Fgci e che ora incarnano un ulteriore salto generazionale rispetto a Occhetto. La procedura adottata in questa competizione per la leadership risente dell’inesperienza dei postcomunisti a scegliere senza rete, senza avere identifi­ cato preventivamente il delfino. Si arriva infatti al paradosso

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di far precedere la designazione da parte del Consiglio nazio­ nale (l’organo che ha sostituito il Comitato centrale) da una doppia consultazione non vincolante, sia tra i membri degli organi centrali e i parlamentari, sia tra una vasta platea di quadri ed eletti locali. In sostanza, un tentativo di aprire - di democratizzare ma non troppo - il processo di selezione della leadership. Dei 14.454 esponenti locali consultati, il 42% sce­ glie Veltroni e il 36% D ’Alema, mentre i dirigenti nazionali si esprimono con uno scarto minimo - 130 a 120 - a favore di D ’Alema. Il Consiglio nazionale, l’organo deputato alla scelta definitiva, conferma e anzi rafforza, l’indicazione dei dirigenti nazionali optando - 249 a 173 - per D ’Alema. Al di là dell’e­ sito, lo scontro tra i due giovani dirigenti segna un passaggio nel partito: con la sola eccezione di Giorgio Napolitano, viene marginalizzata tutta la vecchia classe dirigente, compreso l’ex giovane Occhetto, che precipita in una spirale di rancore e autoemarginazione. Il confronto tra D ’Alema e Veltroni, destinato a marcare tutta la storia successiva del Pds, e anche dopo, verte sulle loro diverse prospettive strategiche. Il primo punta, pur con qualche indeterminatezza, alla definitiva e compiuta socialdemocratizzazione del Pds, avendo come riferimento i partiti del socialismo europeo; il secondo aH’allentamento dei legami persino con la tradizione socialista (appena quattro anni dopo aver lasciato quelli con il comuniSmo...) per allargare le ma­ glie ideologiche del partito fino a farne una sorta di partito democratico, sul modello statunitense. Con la vittoria di D ’Alema si afferma un’impostazione classica di partito della sinistra, attento a mantenere rapporti con i referenti di classe, con i compagni di Re e con le orga­ nizzazioni sindacali, ma calato nella specificità italiana, vale a dire in un paese «diverso», che è privo sul piano economico e sociale, di quei tratti di modernità e di apertura già acquisiti in altri paesi. Il progetto dalemiano punta infatti a raggiungere una «normalità» nazionale attraverso quella che egli stesso definirà una «rivoluzione liberale» (con strana assonanza con quanto proclamato in altri contesti e con altri intenti da Silvio Berlusconi), che garantisca istituzioni solide e condivise, e un mercato aperto e trasparente. Senza particolari enfasi, con un moto accelerato negli anni a seguire, la leadership dalemiana introduce nel corpo del partito ulteriori elementi innovativi,

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di tipo diverso rispetto a quelli della svolta post-Muro. Mentre allora si doveva conquistare il partito ai principi - e non solo alla prassi - della democrazia liberale, ora si tratta di farne non più l’attore finalmente accettato dal sistema, bensì il pro­ tagonista della modernizzazione, anche economica, dell’Italia, sulla scia delle socialdemocrazie europee. La segreteria D ’Alema si divide in due fasi distinte. Una fase alta, manovriera e creativa, che porta all’avvicinamento tattico con la Lega e all’accordo con il Ppi per contrastare Berlusconi, al lancio della candidatura di Romano Prodi e dell’Ulivo, alla vittoria nelle elezioni del 1996 e a un rinnovamento ideologicostrategico del partito. Una fase declinante che parte dal trionfo del II Congresso (1997) e che arriva, attraverso una serie di passi falsi - Bicamerale, Cosa 2, gestione interna del partito, rapporti con gli alleati - a concludersi, paradossalmente, con un grande successo personale del leader, ma non del partito, ovvero con la nomina di D ’Alema a presidente del Consiglio nell’ottobre del 1998. La prima fase vede, oltre a una ridefinizione delle co­ ordinate politico-valoriali, la costruzione di alleanze al di là del perimetro tradizionale della sinistra. Pur senza clamori o rotture, anche in virtù del recente trauma della scissione di Re, il Pds rinuncia a caratterizzarsi come il rappresentante «più» autentico della sinistra, e a ricercare esclusivamente accordi con gli altri partiti della sinistra, bensì si spinge a stringere alleanze, prima tattiche poi strategiche, con i postdemocri­ stiani del Ppi, che culminano nella nascita dell’Ulivo e nella leadership di Romano Prodi. La spinta a insistere sulla coalizione dell’Ulivo lanciata nel marzo del 1995 viene dall’ottimo risultato conseguito alle elezioni regionali di quell’anno. Per un attimo, perché tale si rivelerà, il partito della Quercia pare riavviarsi verso un lumi­ noso futuro: non solo risulta il primo partito in 10 regioni su 15, ma supera il 25% dei voti riprendendo la prima posizione a Forza Italia che lo aveva umiliato alle europee dell’anno pri­ ma, e mantiene percentuali dominanti, sopra il 40%, nelle sue roccaforti dell’Emilia-Romagna e della Toscana. I cambiamenti strategici introdotti sembrano quindi incontrare le aspettative dell’elettorato. Il doppio successo del 1996 - il Pds non solo risulta il più votato alle politiche, con il 21,1%, ma accede per la prima

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volta al governo - segna lo zenit della fortuna della segreteria D ’Alema. Forte di questi risultati (e forse sazio), il segretario promuove il primo vero congresso del Partito democratico della sinistra (20-23 febbraio 1997), benché sia ufficialmente il secondo, dopo quello «tematico» e privo di potestà deliberative del 6-8 luglio 1993. In questa occasione D ’Alema accentua i caratteri modernizzanti e ulivisti del partito, accogliendo molte sollecitazioni dell’antagonista Veltroni, e apre un fronte pole­ mico nei confronti della «sinistra conservatrice», identificata in Re e nel sindacato. Lo scontro con il segretario della Cgil, Sergio Cofferati, in pieno congresso, esprime plasticamente la divaricazione di prospettive rispetto alla sinistra interna (e sindacale) e, altresì, l’esaurimento del ruolo di cinghia di trasmissione del sindacato. La nuova impostazione, sostenuta con forza dal segretario, che viene confermato in congresso con l’88% dei voti (si dissocia solo la sinistra interna), è in linea con l’evoluzione di alcune socialdemocrazie europee, in particolare quella laburista di Tony Blair, e si fonda su acquisizioni inedite come il valore positivo del mercato, le compatibilità di bilancio al posto di un automatico deficit spending, il passaggio da un welfare delle garanzie a uno delle opportunità. In sostanza, il Pds si offre all’opinione pubblica come un partito responsabile di governo. Questa nuova immagine - o identità - non è né recepita, né apprezzata coralmente e, anzi, come emergerà negli anni successivi, si rivelerà un boomerang perché scontenterà parte dell’elettorato tradizionale del partito e non attrarrà consensi significativi dai ceti medi e dalla borghesia produttiva. No­ nostante l’ampia adesione alla segreteria dalemiana, il partito «in carne e ossa» risponde solo parzialmente a queste ulteriori innovazioni. Quello che viene subito acquisita è la nuova collocazione del partito nello spazio politico: i partecipanti al II Congresso si autocollocano in grande maggioranza nel centro-sinistra (68,1%) e non a sinistra (24,6%). Esattamente il contrario di quanto registrato aH’ultimo congresso del Pei nel 1990 quando il 25,7% si posizionava al centro-sinistra e il 71,3% a sinistra. Tuttavia, anche se la nuova identità topologica di centrosinistra è ormai metabolizzata, permangono contraddizioni e incertezze su altre questioni. Ad esempio, mentre addirittura il 74% ritiene che «una società giusta non può fare a meno del

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mercato», mostrando la completa assimilazione delle logiche politico-economiche delle democrazie industrializzate, e mentre il 72% concorda sulla necessità di riformare le pensioni, mo­ strando altresì la consapevolezza dei problemi di equilibrio di bilancio, il 48% condivide ancora una visione stereotipata del capitalismo, «la cui essenza rimane lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo». Ad ogni modo, rispetto all’ultimo congresso del Pei nel 1990, quando erano state poste le stesse domande ai delegati, la «rivoluzione liberale» dalemiana ha trovato una rispondenza allora inimmaginabile. Forse convinto di aver fatto attraversare al partito un (altro) guado, forse infastidito per le contrattazioni ciliose sugli assetti interni, D ’Alema avvia un processo di smarcamento dal proprio partito, articolato in tre passaggi: la formazione di uno staff di assistenti che interpongono un filtro tra il segretario e gli organi direttivi del partito inducendo un loro depotenziamen­ to (lo staff); la prefigurazione di un ulteriore e più evidente rinnovamento (la cosiddetta «Cosa 2»); un sostanziale disim­ pegno dalla vita interna del partito proiettandosi all’esterno e dedicandosi ai lavori della Bicamerale di cui è presidente. Questi passaggi si tramutano però in altrettanti passi falsi: la presidenzializzazione strisciante produce nel partito una lunga scia di diffidenze e rancori, soprattutto a causa dell’immagine clanica proiettata dallo staff del segretario, la Cosa 2 si riduce a un’irrilevante ridenominazione e la Bicamerale si chiude con un sostanziale fallimento. Gli «Stati generali della sinistra», convocati il 27 marzo 1998 per dar vita alla nuova formazione partitica, si limitano infatti all’aggregazione di spezzoni di ceto politico - ex repubblicani ed ex socialisti, cattolici democratici e dissidenti di Re -, senza la partecipazione dell'unico perso­ naggio che avrebbe potuto dare un qualche senso all’iniziativa, il tanto atteso Giuliano Amato. In sostanza, oltre ad aprire gli organi dirigenti ai nuovi venuti, le sole innovazioni rilevanti riguardano il cambio del nome in «Democratici di sinistra» (Ds) e la sostituzione, nel simbolo, della residua, piccola, falce e martello con la rosa, emblema del Partito socialista europeo. Innovazioni che passano inosservate, prive di quella forza evocativa in grado di marcare la storia di un partito. Non solo il Pds si trasforma nell’indifferenza generale, ma suscita anche malumori interni. Il dissenso con gli ulivisti, appianato al momento del precedente congresso, si riapre in pieno dopo

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che, già l’anno prima, la pace interna era stata incrinata dal brusco intervento di D ’Alema in un convegno cultural-politico nel borgo di Gargonza, laddove il segretario aveva riproposto con forza il ruolo primario dei partiti, e del partito, rispetto a ipotesi aggregative sotto l’etichetta dell’Ulivo. Saltata la Bicamerale, fallita la Cosa 2, rotta l’unità interna, inaspriti i rapporti con gli altri partiti della coalizione, calati gli iscritti (che alla fine del 1998 scendono a 613.412), D ’A­ lema esce dall’angolo in virtù della crisi del governo Prodi. Nonostante tanta dietrologia e cattiva letteratura, niente può attribuire ai Ds, né tantomeno al segretario diessino, la re­ sponsabilità diretta della caduta del governo. Ma questo non impedisce che il passaggio di consegne tra Prodi e D ’Alema sia visto come un vulnus del progetto del centro-sinistra da parte degli ulivisti; nasce da qui la postura polemica senza sconti da parte di questi ultimi verso il nuovo presidente del Consiglio. La nomina di D ’Alema alla guida del governo costituisce il punto più alto della parabola politica del Pds-Ds, dalla sua fondazione al suo scioglimento in Partito democratico (Pd). Così come nel 1983 l’ingresso di un socialista, Bettino Craxi, a Palazzo Chigi era stato salutato come un evento storico, allo stesso modo l’accesso alla principale stanza dei bottoni di un erede diretto della tradizione comunista segna la conclusione di un’epoca. Ma non ne inaugura un’altra. Per un misto di inesperienza e supponenza nella direzione del governo, di abrasività e di malcelato disprezzo nei confronti degli alleati, di indeterminatezza strategica e nebulosità politico-ideologica nell’indirizzo politico, questa esperienza governativa non solo non lascia una traccia significativa nella memoria storica del partito e della sinistra in senso lato, ma addirittura brucia molti ponti alle spalle. La modalità stessa della sua conclusione, con l’improvvisa e la solitaria decisione di dimettersi da capo del governo, presa da D ’Alema all’indomani della sconfitta alle regionali del 2000, ne evidenzia la fragilità istituzionale e il malinteso approccio presidenzialista. E lascia un vuoto alle spalle. Nei diciotto mesi del governo D ’Alema i Ds rimangono imbrigliati in una contraddizione tra il necessario sostegno al leader-capo del governo e la necessità di continuare nell’i­ potesi di rinnovamento. La nuova leadership dei Ds, che è stata affidata a Veltroni su esplicita sollecitazione di D ’Alema

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nel momento in cui ha assunto la presidenza del Consiglio, e quasi plebiscitata dal partito, non porta significativi passi in quella direzione. Il I Congresso dei Ds (13-16 gennaio 2000) tributa a Veltroni un’amplissima maggioranza (quasi l’80%), ma ripropone nel dibattito interno la contrapposizione di tre anni prima tra spinte modernizzatrici e resistenze sindacalcorporative. I quadri del partito riflettono fedelmente questa frattura: a un capo, c’è una residua componente prò labour (28%), preoccupata del peggioramento delle condizioni di lavoro in fabbrica e della sicurezza del posto di lavoro, favorevole a un più diretto coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle imprese e con una visione comunque negativa del capi­ talismo; all’altro capo, una corposa componente favorevole alle privatizzazioni, al mercato, definito «essenziale per una società giusta», e non ideologicamente ostile al capitalismo (41%); quasi un terzo (31%) resta invece a metà strada, a dimostrazione della fluidità dei riferimenti culturali e della difficoltà della leadership di incanalarli. Comunque, pur con contraddizioni e resistenze, la marcia verso una piena ricezione della «rivoluzione liberale» prosegue. Alle residue incertezze sulle linee guida sul piano economico-sociale, campo privile­ giato dell’azione politica del partito e dei suoi antesignani, fa da pendant un’ormai consolidata coerenza sul piano dei diritti civili, sebbene queste tematiche siano state poco frequentate dalla tradizione comunista e postcomunista. Tra i quadri si afferma ormai un atteggiamento laico-radicale, che sostiene le libertà individuali, compresi i diritti dei gay, e si oppone alla revisione della legge sull’aborto e aH’insegnamento della religione cattolica. Questo atteggiamento, cui fa capo il 59% dei quadri, è però contrastato da una visione diversa, e per certi aspetti alternativa, maggiormente sensibile ai valori tradizionali, anche di ispirazione confessionale. L’ingresso di componenti cattoliche, soprattutto in occasione della forma­ zione dei Ds, ha probabilmente contribuito a differenziare lo spettro valoriale all’interno del partito, diluendo leggermente il carattere laico riscontrato tra i quadri in occasione del II Congresso del Pds del 1997. Un terreno potenzialmente minato per la sua carica conflit­ tuale interna è costituito dalla politica internazionale, argomento particolarmente saliente dopo la scelta del governo D ’Alema di

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intervenire a fianco della Nato nella crisi del Kosovo. In realtà, 0 per convinzione o per un riflesso di solidarietà al «proprio» governo, i quadri del partito approvano l’operato del governo in misura addirittura superiore rispetto all’opinione pubblica italiana - 74% contro 67% - anche se su singoli aspetti, come 1 bombardamenti Nato sulla Serbia, i quadri si dividono in parti quasi uguali tra favorevoli e contrari. Coerentemente con queste valutazioni filoatlantiche, l’opzione della fuoriuscita dalla Nato è ormai del tutto tramontata. Questo non comporta, però, l’abbandono del giudizio critico verso gli Stati Uniti: il 69% li considera «aggressivi» in politica estera. L’acquisizione di una cultura politica modernizzata, in presa diretta con le sfide della società occidentale, e ormai estranea ai topoi della tradizione comunista, non consente tuttavia ai Ds di accreditarsi come un grande partito socialdemocratico agli occhi di un elettorato più ampio. Il deludente risultato delle elezioni europee (17,3%), quando il partito avrebbe potuto beneficiare dell’unanime riconoscimento per la serietà nella conduzione della crisi nei Balcani, indica quanto sia difficile il suo accreditamento, al di là del tradizionale bacino di rife­ rimento. Sul mancato successo pesa l’handicap del cambio di governo presentato urbi et orbi - da avversari ma anche da alleati - come una congiura di palazzo o addirittura come un tradimento. Infatti, la spina nel fianco è portata proprio dal nuovo partito, ispirato all’ex premier Romano Prodi, i Demo­ cratici, che si presenta con lo scopo dichiarato di contrastare, nel campo del centro-sinistra, l’egemonia dei Ds e di offrire una prospettiva ulivista. In questo clima avverso, anche i positivi risultati del governo - rilancio della concertazione, ripresa economica, mantenimento degli impegni internazionali, decentramento amministrativo - si vanificano. D ’AIema arresta lo sfarinamento del suo governo, insidiato dalle critiche dei socialisti di Enrico Boselli e dell’Unione democratica per la repubblica (Udr) di Francesco Cossiga, con un rimpasto, nel dicembre del 1999, che sostituisce i riottosi con una folta rappresentanza dei Democratici. Ma lo slancio iniziale è esaurito. Alle elezioni regionali del 2000 il presidente del Consiglio, per uno scatto d’orgoglio e per calcolo politico, cioè per otte­ nere una vittoria che lo rilanci all’esterno e all’interno, accetta di entrare in competizione diretta con Berlusconi. Espostosi

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durante la campagna elettorale, D ’Alema si deve così confron­ tare con il modesto risultato sia del suo partito, 19,5%, che consente di mantenere il primato solo in 4 regioni rispetto alle 10 del 1995, sia della coalizione di centro-sinistra, che cede alla ricostituita coalizione di centro-destra 9 regioni su 15, ribaltando il precedente rapporto di forza. La sua reazione sono le dimissioni che portano i Ds allo sbando. In effetti, negli ultimi diciotto mesi il partito si è retto soprattutto grazie alla risorsa offerta dalla guida del governo. Persa quella, emerge tutta la fragilità della segreteria Veltroni che non ha saputo rispondere al triplo compito che doveva affrontare: sostenere il governo a guida diessina, rimobilitare il partito su temi alti, rilanciare l’organizzazione. Su ogni aspetto, vuoi per desiderio di distinzione o rivalità mai sopita, vuoi per distrazione o disinteresse (il pur pregevole documento elaborato sotto la direzione di Giorgio Ruffolo, il «Progetto per la sinistra del 2000» rimane lettera morta), vuoi per dilettantismo o presun­ zione di una nuova leva di dirigenti, la leadership veltroniana non regge la crisi. In questa situazione, i conflitti interni si riacutizzano e il rientro di D ’Alema nella vita di partito non li stempera, tutt’altro. Lo prova la reazione alla sua dichia­ rata disponibilità a occupare una carica simbolica come la presidenza del partito che impegna la classe dirigente in una cavillosa discussione prima di arrivare a un esito positivo nell’Assemblea congressuale del 15 dicembre 2000; l’ampio consenso che gli viene tributato - l’83 % dei voti - nasconde in realtà una diffusa irritazione e mal sopiti rancori. Dato un contesto così increspato, i Ds non riescono a im­ porre un proprio rappresentante come candidato premier per le elezioni politiche del 2001 e cedono la guida della coalizione al margheritino Francesco Rutelli. Le elezioni politiche del 2001 sono combattute dai Ds con puro spirito decoubertiano. Partecipano senza molta convin­ zione e, soprattutto, senza guida. Né il segretario Veltroni né il presidente D ’Alema scendono con decisione nell’arena a condurre la battaglia elettorale: il primo si limita a prepararsi per la competizione a sindaco di Roma che si terrà un mese dopo il voto, il secondo si concentra nell’impresa, difficile, di conquistare un collegio tradizionalmente di destra come quello di Gallipoli. Da partito «bicefalo» i Ds sono diventati un partito «decollato».

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I risultati sono conseguenti a questa situazione. Il 16,6% ottenuto nel voto proporzionale alla Camera - un calo di -I punti e mezzo - riporta la Quercia agli anni bui del primis simo Pds. Cambiamenti teorici e strategici, rinnovamento d ’immagine e di stile, accesso al, e direzione del, governo: nulla è servito per disancorare il partito dal suo status di dio minore e farlo crescere; al contrario, è tornato alla casella d’inizio. Del resto, non va dimenticato che un terzo esatto dell’elettorato lo considera ancora non diverso dal vecchio Pei. L’unica nota positiva riguarda il contenimento delle perdite nelle regioni del Nord, che fa presagire una possibile inveì' sione di rotta rispetto al declino degli anni Novanta. Mentre nelle regioni settentrionali il calo è molto limitato, il partito crolla al Sud (- 6,5%) e, cosa ancora più preoccupante, nei bastioni tradizionali della Zona rossa (-5,7% ). Alla crisi elet torale corrisponde una geografia sociale dai tratti inediti. Il partito continua a essere pesantemente sottorappresentato tra i lavoratori in proprio, soprattutto commercianti e artigiani (4 punti percentuali in meno rispetto alla media). Ma questo non sorprende. Sorprende invece che il partito raccolga que sta stessa, ridotta, quota di consensi tra i dipendenti a bassa qualificazione (impiegati esecutivi e operai) del settore privato, che dovrebbero costituire il suo naturale referente sociale. Solo tra gli operai e i dipendenti a bassa qualificazione del settore pubblico i Ds mantengono una presa (+3 punti sopra la media) anche se il bacino preferenziale sembra piuttosto quello degli impiegati del settore pubblico (+9 punti). La ricerca di normalità, la «rivoluzione liberale» annunciata ma non attuata, la scelta del rigore finanziario e la promozione dei «capitani coraggiosi» del capitalismo hanno finito per scontentare la tradizionale base popolare senza che questa fosse sostituita, come ci si poteva attendere, dal popolo delle partite Iva; con il risultato, un po’ inquietante, di aver assunto un profilo da partito di classe media protetta. Lenisce la sconfitta alle politiche la netta vittoria di Veltroni a sindaco di Roma; ma le sue contemporanee dimissioni dalla segreteria del partito aprono la questione della successione. Il partito si affida alla reggenza di 11 membri presieduta da Pietro Folena (un altro ex Fgci) in attesa di celebrare il congresso. I sei mesi che passano tra la sconfitta elettorale e il Congresso di Pesaro (16-18 novembre 2001) sono tra i più

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difficili della storia postcomunista. Privo di una leadership, incapace di organizzare una strategia di opposizione (dram­ matici i suoi sbandamenti in occasione del G8 di Genova), il partito sembra sull’orlo dell’implosione. Come ripete Piero Fassino, candidato alla segreteria, «o si cambia o si muore». In effetti, all’interno del partito si rimescolano le carte. La pax dalemiana-veltroniana, alla quale si era contrapposta solo la sinistra interna, va in frantumi. In vista del II Congresso la mappa interna del partito presenta una componente erede in gran parte della vecchia maggioranza, che innalza le bandiere del riformismo in continuità con l’impostazione degli ultimi anni; una piccola corrente Uberai di Enrico Morando e Michele Salvati e una sinistra che guarda con interesse ai movimenti e in parte anche a Re. Quest’ultima corrente ingloba la tradizionale, piccola, opposizione di sinistra rinforzandola con personaggi di peso quali Antonio Bassolino, Sergio Cofferati, Fabio Mussi e, seppur non dichiaratamente, lo stesso Veltroni, ma anche con componenti eterogenee tanto da essere comunemente identificata come «correntone». Il Congresso, in virtù delle nuove regole che hanno elimina­ to l’elezione diretta del segretario nell’assise nazionale e hanno reintrodotto la procedura del computo dei voti congressuali raccolti nelle assemblee locali, non riserva sorprese, perché non fa che ratificare scelte già compiute. Fassino arriva in congresso vincitore con il 61,8% dei consensi contro il 34,1% del «correntone» di sinistra guidato da Giovanni Berlinguer, anziano fratello del leader scomparso, e il 4,1% della corrente liberal di Morando. La linea proposta da Fassino non si discosta da quella dalemiana-veltroniana degli anni precedenti: modernizzazione economica, riferimento alle socialdemocrazie europee, soste­ gno all’Ulivo, competizione con Re. Ciò che è diverso è sia l’approccio del neosegretario - pragmatico, dialogico, fattivo, con un mix di passione e integrità - sia il contesto esterno, molto più difficile, con un partito finanziariamente dissangua­ to, elettoralmente ridotto ai minimi termini, insidiato dalla Margherita, e contestato duramente da un nuovo movimento d’opinione radicaleggiante che avrà la sua più vivace e visibile espressione nei «girotondi». Le relazioni con il mondo esterno sono tutte in debito d’ossigeno: il rapporto con il sindacato è incrinato dalla lunga, spesso astiosa, polemica tra D ’Alema e

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Cofferati, sostanzialmente non ricucita neppure nel periodo della segreteria Veltroni; il rapporto con Re e con i Comunisli italiani è definito dalla concorrenza per guadagnare il ruolo di partito guida dell’opposizione; il rapporto con la società civilidi sinistra, il cosiddetto «ceto medio riflessivo», è inquinato da accuse di inettitudine e scarsa combattività. Due episodi sono emblematici di questa perdita di feeling. Uno riguarda la brutale contestazione a tutta la leadership diessina (e non solo, vista la compresenza di Rutelli) durante una manifestazione a Piazza Navona da parte del regista Nanni Moretti che, incautamente invitato a parlare, se ne esce con una filippica contro i dirigenti presenti sul palco («con questa classe dirigente saremo sempre condannati a perdere»), peral­ tro salutata da un’ovazione del pubblico. La seconda rimanda al «processo» intentato a D ’Alema da parte di un gruppo di intellettuali radicai in un’infuocata assemblea all’Università di Firenze, processo che si conclude però con un’autodifesa tanto brillante da acquietare i torquemada fiorentini. Nonostante l’immagine onesta, dedita e quasi monacale proiettata dal neosegretario, i Ds non si riprendono dall’astenia politica per loro meriti. E il contesto esterno, l’appannamento del governo e, soprattutto, il «nemico» Cofferati, che consente di arrestare la loro china discendente. Il governo Berlusconi perde rapidamente di spinta e incomincia a sollevare una delu­ sione tanto forte quanto lo era l’aspettativa suscitata: nemmeno un terzo degli italiani lo approva. I primi segni dello scontento si hanno alle elezioni amministrative parziali della primavera del 2002 che forniscono un’imprevista boccata d’ossigeno per il centro-sinistra e per i Ds in particolare, i quali strappano al centro-destra 5 capoluoghi di provincia, tutti nel Nord. Ben­ ché questa tornata elettorale sia di poco conto e ben lontana dall’indicare una trionfale ripresa, tuttavia rimette in carreggiata i Ds e toglie loro il marchio del declino ineluttabile. Ma l’inversione di tendenza viene dal clamoroso succes­ so della manifestazione contro le modifiche all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori organizzata dalla Cgil. Questa manife­ stazione si tiene a pochi giorni dall’omicidio del giuslavorista e consulente del governo Marco Biagi, assassinato dalle Brigate rosse proprio perché collaboratore del governo, e nei confronti del quale il leader della Cgil Cofferati si era fortemente contrapposto nei mesi precedenti; per questo

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contrasto Cofferati viene accusato da tutto il centro-destra di essere l’ispiratore degli assassini. In questo clima arroven­ tato, aver confermato la manifestazione e aver fatto sfilare pacificamente quasi 3 milioni di persone per le vie di Roma, oltre a innalzare Cofferati al rango di primo antagonista di Berlusconi, mostrano all’opinione pubblica la consistenza e la capacità di mobilitazione dell’opposizione. Alla fine, anche i Ds beneficiano di questo successo. Perdita di appeal del governo e intensa mobilitazione dell’opposizione sindacale e pacifista (molto partecipati i cortei contro la guerra in Afghanistan e Iraq negli anni post-11 set­ tembre) consentono alla Quercia di riparare le falle sia orga­ nizzative (gli iscritti tornano a risalire benché la partecipazione alla vita interna del partito coinvolga poco meno della metà degli iscritti), sia del seguito elettorale (anche le amministra­ tive parziali del 2003 segnano una ripresa, tra cui spicca la conquista della provincia di Roma). Svanisce l’impressione di accerchiamento e di isolamento. In termini strategici rimane indefinito il rapporto a sinistra con Rifondazione comunista e a destra con la Margherita, ormai costituitasi in partito. Ma questa impasse viene superata da un intervento esterno, quan­ do dal ritorno in campo di Prodi, che, nell’estate del 2003, rilancia l’ipotesi di una nuova alleanza riformista - un nuovo Ulivo - per contrastare il centro-destra e per riprendere il cammino unitario interrotto nel 1998. La dirigenza diessina accoglie entusiasticamente la propo­ sta di Prodi. L’adesione non è però corale. In effetti, anche grazie a questa accelerazione, riemerge in maniera sempre più evidente il fossato culturale e strategico che attraversa il partito. Da un lato, la maggioranza cerca una sua «terza via» e sente impellente il bisogno di cambiare ancora pelle: non si trova pienamente a proprio agio nella tradizione socialdemo­ cratica, ma non riesce nemmeno ad approdare a una conce­ zione puramente liberalsocialista, invocata con convinzione e puntualità dall’ideologo di questa corrente, Michele Salvati. Dall’altro lato, la minoranza oscilla tra l’arroccamento nella tradizione del partito, che nasconde nostalgie berlingueriane, e una vocazione movimentista assai vicina alle pulsioni di Re. La divisione interna causa una serie di cortocircuiti politici nel processo di avvicinamento alla «casa dei riformisti». Le difficoltà sono poi acuite dal non esaltante risultato alle europee

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del 2004 - primo test della nuova alleanza composta dai Ds, dalla Margherita, dallo Sdi di Enrico Boselli e dai Repubblicani europei (scissionisti del Partito repubblicano di Giorgio La Malfa) -, dalla concorrenza insidiosa della Margherita e dalle iniziative, a volte estemporanee, dei prodiani doc. Il percorso di ricostituzione dell’Ulivo diventa sempre più accidentato e si inerpica in un susseguirsi di annunci e smentite, di accelerazioni e frenate. Il partito regge con fatica l’alternarsi di litigi e riconciliazioni, perché a ogni ostacolo le perplessità interne si rafforzano. Nella stessa maggioranza fassiniana affiorano dubbi. Solo la tenacia del segretario riesce a mantenere sotto controllo le tensioni. Il III Congresso (3-5 febbraio 2005) viene indetto so­ prattutto allo scopo di chiarire e definire le diverse posizioni all’interno del partito, nonché di consolidare la leadership di Fassino. La mozione del segretario, favorevole all’adesione al progetto di Federazione dell’Ulivo - che per qualche tempo utilizzerà l’acronimo di Fed - riceve un consenso larghissimo (79%), ben superiore a quello ottenuto al congresso precedente, quattro anni prima. L’opposizione di sinistra, l’ex «correntone», si presenta divisa e in perdita di appeal. Priva del felpato ap­ poggio di Veltroni e sganciatisi Cofferati, Bassolino, Giovanna Melandri e altri dirigenti di rilievo, si divide in tre correnti e così le posizioni più «identitarie» perdono influenza. Al di là dell’ampio sostegno alla mozione Fassino, che pure consacrano definitivamente la sua leadership affrancandola dall’immagine di best secondi spesso affibbiatagli, è l’accoglienza riservata a Romano Prodi a dare il segno dell’adesione corale al progetto di federazione. L’ovazione che gli viene riservata porta alla superficie un sentimento di identificazione e di fiducia nel Professore, sentimento che costituirà il lievito per la realizzazione del Partito democratico. Proprio la sintonia e la disponibilità della base e dei quadri, ben più del ceto politico nazionale, costituiranno l’alveo verso cui incanalare e contenere tutte le tensioni del percorso unitario. Il cambio di mood nell’opinione pubblica si registra nelle elezioni regionali del 2005. Non solo il centro-sinistra conquista 12 regioni su 14 (raddoppiando così il numero di quelle governate), ma i Ds realizzano ottime performance, specialmente a livello provinciale e comunale. Nelle 5 regioni nelle quali non si è presentata la lista unitaria dell’Ulivo, i Ds sono il primo partito

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in Abruzzo, Campania e Calabria, e sono dietro a Forza Italia di appena un punto percentuale in Puglia e di 2 in Piemonte. Conseguentemente a questo successo l’orgoglio di partito si ravviva, e si raffredda l’entusiasmo per la federazione unitaria. Tuttavia, dando prova di coerenza e serietà, pur senza grande convinzione, i Ds accettano di promuovere le primarie di coa­ lizione per la scelta del candidato premier e di appoggiare Romano Prodi. L’ondata impressionante di partecipazione alle primarie del 16 ottobre 2005 (4.294.487 di votanti), al di là dello scontato successo del Professore (74,2% di preferenze), fa accantonare le perplessità emerse dopo le elezioni regionali e rilancia il progetto unitario. Le speranze di ripresa dei Ds però non si concretizzano. All’inizio del 2006 dalla diffusione di alcune telefonate tra Fas­ sino e il presidente dell’Unipol Giovanni Consorte, nelle quali il segretario del partito si sbilancia in espressioni di grande empatia a favore della compagnia di assicurazioni impegnata nella scalata alla banca Bnl getta un’ombra sulla correttezza del segretario. L’assoluta incapacità di reagire con un minimo di efficacia alle accuse di collusione e insider trading lanciate dal centro-destra fanno sì che una macchia di affarismo e disonestà si imprima sul partito. L’impatto sull’opinione pubblica è disastroso e i Ds precipitano nei sondaggi. Come se non bastasse, all’interno del partito, le correnti di sinistra si riorganizzano per contrastare il progetto di una formazione unitaria del centro-sinistra. Con un partito diviso e un’immagine sfregiata, il risultato delle elezioni politiche del 2006 è abissalmente inferiore alle aspettative. Non soltanto la vittoria della coalizione è sul filo di lana (49,81 contro 49,74%), ma il partito raccoglie appena il 17,2% dei voti al Senato (alla Camera i Ds si presentano con la Margherita nella lista unitaria dell’Ulivo). L’esito delle elezioni non arresta però il percorso verso il «partito dell’Ulivo». Anzi, è proprio la delusione per il risultato a fornire lo stimolo a procedere. Il mancato sfondamento ha messo in soffitta il retropensiero di una corsa solitaria a guidare il centro-sinistra senza doversi diluire in un altro contenitore. Per conquistare un ruolo primario nel sistema partitico è (or­ mai) necessario accorpare tutte le risorse disponibili. E quindi andare alla fusione con la Margherita. Il IV Congresso dei Ds (19-21 aprile 2007) sancisce la fine della lunga, travagliata storia del Pci-Pds-Ds. E ne indica una

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nuova in quella del Partito democratico in cui confluire insiemi' alla Margherita. Alla fine di un percorso molto partecipato più del 40% degli iscritti, pari a 256.689 tesserati, partecipa ai congressi di sezione per eleggere i delegati -, la mozione di Fassino favorevole all’unione con la Margherita nel Partito democratico riceve il 75% dei voti. Ma anche questo passag gio non è indolore. Le due componenti di sinistra, ostili allo scioglimento, guidate rispettivamente da Mussi e da Angius, lasciano il partito. I Ds, pur portando in dote 615.441 iscritti, arrivano all’ap puntamento del Partito democratico esausti: culturalmente, elettoralmente, socialmente. La perdita di contatto con parte del loro bacino elettorale tradizionale, risucchiato dalle sirene neopopuliste del centro-destra, e la perdurante diffidenza delle professioni liberali e dei ceti medio-alti, nonché il crescente peso delle classi più anziane e dei pensionati nel suo elettorato, hanno appesantito il partito sul piano della rappresentanza sociale. Anche in conseguenza di ciò, la capacità di espan­ sione elettorale si è arrestata e i Ds sono rimasti confinati al di sotto del 20% , a eccezione dei bastioni delle regioni rosse (che tuttavia alle elezioni del 2006 hanno mostrato le prime crepe), connotandosi come un partito di medie dimensioni. Infine, la Quercia non riesce a portare in dote al nuovo Partito democratico nemmeno la tradizione ideologica del sociali­ smo. Un po’ per ragioni contingenti - per non scontentare la Margherita - un po’ per scarsa convinzione, i riferimenti alla tradizione socialista vengono messi in soffitta. Un’abdicazione rapida, sottotono, e, soprattutto, immotivata, a testimonian­ za di una debolezza e un’aridità di elaborazione ideologica lungo tutti gli anni del post-Muro. Il bisogno di liberarsi del passato ha prodotto una ricerca affannosa, a 360 gradi, di un qualcosa che colmasse la voragine lasciata in eredità dal 1989. Nel quindicennio successivo sono stati acquisiti elementi della cultura socialista e di quella liberale, che sono stati in parte anche metabolizzati dai quadri e dai militanti (pur con qualche resistenza in questi ultimi). Ma non è mai nato un autentico e autonomo profilo pidiessino-diessino. Non c’è stata la capacità di affermarsi come il portabandiera legittimo del socialismo europeo né di produrre idee-forza conseguenti attraverso le quali l’opinione pubblica identificasse chiaramente, senza incertezze, cosa fosse il partito della Quercia.

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Questa carenza ha portato alla fine i Ds ad aderire, più per necessità strategiche - costruire il maggior partito italiano, cata­ lizzare altre forze, sollecitare la società civile, allargare il bacino sociale - che per idealità e convinzioni, al progetto del nuovo partito riformista. Un parto per sfinimento, più che per vitalità. La lunga storia del Partito comunista e delle sue incar­ nazioni post-1989 si chiude lasciando un iceberg di nostalgia che emergerà a tratti negli anni successivi. Spesso, come in tutte le nostalgie, si edulcora il passato e si rimuovono le cose brutte. Il Pei ha rappresentato la classe operaia e i lavoratori subordinati, anche nelle campagne, per tanti anni, rivendicando condizioni migliori e diritti pieni. Ma ha illuso e sterilizzato queste componenti sociali. Illuso perché offriva loro immagini inebrianti e salvifiche di un paradiso in terra, quello realizzato nella patria del socialismo; sterilizzato perché ha compresso la loro forza in un ghetto - la fossa d’inferno dell’opposizione, ebbe a dire un tempo Togliatti in una lucida e rarissima auto­ critica - senza poter farli entrare a pieno titolo nella politica nazionale. Il fattore K, il legame di ferro con l’Urss, hanno incatenato il Pei a una condizione di «dio minore», come dirà Massimo D ’Alema, che il partito ha tentato di tagliare per le vie brevi, cercando un accordo di potere con la De - il «compromesso storico» - ma evitando di attuare una profon­ da, radicale revisione delle proprie coordinate ideologiche. Proprio il segretario più amato, Enrico Berlinguer, è stato il responsabile di questa sterilizzazione perché non ha colto sia i cambiamenti sociali profondi della stagione dei movimenti prima e degli anni «affluenti» del post-terrorismo poi, sia la dimensione catastrofica della crisi del socialismo reale. Le frasette con cui ha blandito un’opinione pubblica disponibile ad accontentarsi non hanno inciso in nulla nel corpo del partito. Per questo quando è crollato il Muro di Berlino il partito non era certo pronto a riconoscere il fallimento di una storia. Ha dovuto subirlo. Con tutte le difficoltà, i contorcimenti e le nostalgie che ne sono derivate. Pds e Ds sono stati ben altra cosa rispetto al Pei, ma hanno sofferto di un handicap fatale: l’assenza di una nuova classe dirigente arrivata al partito a far piazza pulita del passato. Per questo, alla fine, i Ds sono andati all’incontro con la Margherita più per esaurimento che per convinzione. E il testimone con­ segnato al nuovo partito portava ancora delle pesanti zavorre.

Capitolo ottavo

Pr. Carisma e diritti civili

Il Partito radicale (Pr) è l’erede, per tanti aspetti irricono­ scibile, di un’antica tradizione che risale alla fine dell’Otto­ cento. Nei primi decenni postunitari si formano in parlamento gruppi di deputati, prima sotto l’egida di Agostino Bertani e poi di Felice Cavallotti, che si richiamano ai principi classici del radicalismo francese e anglosassone: laicismo, istruzione obbligatoria, suffragio universale, indipendenza della magi­ stratura, abolizione della pena di morte, laicità dello stato, protezione sociale ed «elevazione» delle classi più disagiate. Un vero e proprio partito prende comunque forma solo all’inizio del nuovo secolo, nel 1904. Il suo ruolo rimane minoritario in quanto l’emergere del Partito socialista, da un lato, e l’irruzione di componenti nazionaliste, dall’altro, radicalizzano il conflitto politico e gli tolgono spazio. Quando alla caduta del fascismo rinascono i partiti, nessuno riprende esplicitamente le insegne del Partito radicale. L ’eredità della tradizione democratico-radicale è rivendicata, velatamente piuttosto che esplicitamente, dal Partito repubblicano e, con più convinzione, dal Partito d’Azione. Solo alla fine del 1955 viene fondato un partito che prende il nome di «Partito ra­ dicale» e adotta il simbolo del berretto frigio, emblema della Rivoluzione francese. Il nuovo partito nasce da una scissione di esponenti della sinistra liberale in dissenso con la politica moderata della segreteria del Partito liberale, riuniti attorno al settimanale «Il Mondo». Seguendo la tradizione del radicalismo francese, il Pr si struttura come una sorta di club politico-culturale. A determi­ nare la politica radicale contribuiscono, al di là delle cariche ufficiali, Mario Pannunzio, direttore de «Il Mondo», Ernesto Rossi, il polemista più brillante del giornale, Leopoldo Piccardi, l’animatore del movimento Unità popolare, gli ex azionisti Leo

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Valiani e Guido Calogero, il direttore del neonato settimanale « L ’Espresso», Arrigo Benedetti, ex liberali come Mario Paggi, Nicolò Carandini e Bruno Villabruna, oltre al giovane Eugenio Scalfari. Affianca questo gruppo di intellettuali e giornalisti una vivace componente giovanile, reclutata quasi interamente tra gli universitari dell’Unione goliardica italiana (Ugi). Il Pr non si pone il problema dell’organizzazione sul modello classico degli altri partiti in quanto intende esercitare soprattutto una funzione di impulso e di stimolo. Le sezioni che sorgono qua e là sono centri culturali, luoghi di dibattito piuttosto che strutture di mobilitazione e di cattura del voto: il vero veicolo dell’attività politica radicale è «Il Mondo». Gli obiettivi iniziali del Pr riguardano la difesa della laicità dello stato dall’«ingerenza clericale»; la polemica, sostanzial­ mente liberista, contro l’arretratezza culturale del mondo imprenditoriale italiano, timoroso di confrontarsi con i mer­ cati esteri e alla continua ricerca di protezioni da parte dello stato; la critica serrata al dogmatismo marxista della sinistra; la denuncia della corruzione e del malgoverno soprattutto attraverso i fulminanti interventi di Ernesto Rossi. Questi temi e altri ancora (energia, informazione, Europa), dibattuti nei celebri convegni degli Amici del Mondo, costituiscono una sorta di programma politico riformatore con il quale il Pr sfida i maggiori partiti di governo e di opposizione. In questa fase, il Pr si autodefinisce «partito della sinistra democratica» e punta alla costituzione di una terza forza che accomuni laici e socialisti. Privo di una struttura organizzativa sufficiente a tentare autonomamente la via delle urne, il Pr stringe varie alleanze elettorali, prima con i repubblicani alle elezioni politiche del 1958, poi con il Psi alle amministrative del 1960. Il contributo radicale è però limitato. Nel 1958 la lista comune Pri-Pr raccoglie appena l’l,4% , ancora meno di quanto aveva fatto il Pri da solo nel 1953, senza eleggere alcun radicale. Nel 1960, essendo l’accordo con il Psi mirato ad alcu­ ne città, il risultato è migliore: vengono eletti una cinquantina di esponenti radicali, di cui tre a Roma e quattro a Milano. Con il concretizzarsi dell’ipotesi del centro-sinistra, il Pr si trova di fronte alla scelta tra un rapporto sempre più stretto con il Psi e una rivendicazione di autonomia terzaforzista. Il dibattito sulla strada da intraprendere degenera in una dram­ matica contrapposizione che porta, tra il gennaio e l’ottobre

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del 1962, alla fuoriuscita prima dei terzaforzisti guidati da Pannunzio, poi dei filosocialisti; una spaccatura che viene ulteriormente acuita dalle polemiche sul ruolo di uno dei dirigenti di spicco, Piccardi, a un convegno sulla razza nel 1939. Di fronte alla liquefazione del partito, abbandonato da tutti i fondatori, il gruppo della sinistra giovanile guidato da Marco Pannella, con al fianco gli altri giovani dirigenti dell’Ugi (tra cui Massimo Teodori e Gianfranco Spadaccia), decide di mantenere comunque in vita il partito. Il ricambio politico-generazionale del 1962 comporta modifi­ cazioni strategiche e di orientamento così profonde da far parlare di «nuovo» Pr. Nei primi anni la rottura rispetto al passato si manifesta oltre che attraverso un’enfatizzazione di argomenti che già circolavano nel «vecchio» Pr, come l’anticlericalismo, l’abolizione del Concordato e l’introduzione del divorzio, con l’affacciarsi del tema dell’antimilitarismo e della non violenza e con un’opposizione al centro-sinistra a favore di un’alternativa di sinistra. La cesura diviene ancora più netta nel decennio successivo quando altre tematiche entrano nel patrimonio ideale radicale - femminismo e omosessualità - e, soprattutto, mutano le modalità d’azione, lo stile politico e i referenti sociali. Il Pr adotta metodi di intervento politico di marca anglosassone, del tutto inediti nel panorama politico italiano: marce silenziose, presenza di uomini-sandwich in luoghi e in momenti particolari, sit-in, digiuni e scioperi della fame, iniziative spettacolari volte a catalizzare l’attenzione dei mass media. Queste «azioni dirette», rigorosamente non violente, sono sideralmente lontane non solo dalle modalità di intervento felpate e riflessive del vecchio Pr, ma anche dalle pratiche di lotta di tutte le forze politiche. In questo periodo il Pr svolge un ruolo di «lobby rifor­ matrice» su singoli problemi creando anche associazioni ad hoc per meglio promuoverli. Assenti dal parlamento, i radicali utilizzano queste strutture, in parte autonome, come la Lega italiana per l’istituzione del divorzio (Lid), in altri casi «fede­ rate» al partito per fare pressioni sui vari parlamentari al fine di ottenere provvedimenti sui temi più significativi proposti dal partito. La visibilità maggiore del Pr è fornita dallo stretto rapporto dei suoi dirigenti e militanti con la Lid, fondata già nel 1963 con lo sponsorship del giornale scandalistico «ABC» (e solo questo marca la distanza abissale con gli ambienti del «M ondo» e dell’«Espresso») e in grado di coinvolgere decine

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di migliaia di cittadini. L ’approvazione della legge sul divorzio nel 1970 attraverso un’intensa attività di lobbying costituisce il primo successo dei radicali, sia pure attraverso lo strumento della Lid; a questo si aggiunge nel 1972 l’introduzione dell’o­ biezione di coscienza, a cui contribuisce la disobbedienza civile di militanti radicali che sfidano volontariamente le norme rifiutando il servizio militare, e ne sopportano le conseguenze andando in prigione. A partire da questi primi vagiti della presenza pubblica dei radicali si sviluppa un’intensa attività di promozione dei «diritti civili» che investono questioni inedite nel panorama politico italiano quali la liberazione femminile (puntando sulla depenalizzazione dell’aborto) e sessuale (promuovendo campagne contro la stigmatizzazione e la discriminazione degli omosessuali), l’antimilitarismo, l’abolizione delle norme illiberali del codice penale Rocco, e la difesa dell’ambiente attraverso l’opposizione alla caccia e all’energia nucleare. In sostanza, i radicali puntano al riconoscimento normativo e culturale di diritti negati o non riconosciuti, in un’ottica liberale e libertaria. All’innovazione delle tematiche, nelle quali si avverte l’eco dei movimenti controculturali cresciuti in Occidente dalla metà degli Sessanta in poi - dal movimento beat americano ai Provos olandesi, dal femminismo ancora di marca statu­ nitense alle manifestazioni antinucleari britanniche - e delle modalità d’azione politica e nel linguaggio (esplicito, diretto, privo degli eufemismi tipici del dibattito politico tradizionale) si aggiunge un’impostazione originale dell’organizzazione interna. Questa prevede una struttura federale su base re­ gionale, la possibilità di federazione con altri movimenti, la doppia tessera (cioè l ’appartenenza contemporanea al Pr e ad altri partiti), la trasparenza delle fonti di finanziamento, l’assenza di funzionari, il reclutamento aperto, senza controlli e senza espulsioni, l’incompatibilità tra cariche elettive e di partito, la partecipazione aperta a tutti gli iscritti al congresso nazionale. Il modello di partito prefigurato dallo statuto ma solo in parte realizzato date le dimensioni minuscole del Pr - è quello di un partito non burocratizzato, a democrazia diretta e assembleare. Un modello che anticipa quello pro­ posto negli anni Ottanta dai Verdi tedeschi e poi diffuso in tutti i partiti ecologisti.

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In questa struttura aperta, flessibile e libertaria si inseri­ sce, con insita contraddizione, la figura carismatica di Marco Pannella. La leadership di Pannella è dal 1962 incontestata e incontestabile; è sempre stato riconosciuto, all’interno del par­ tito e nell’opinione pubblica, come l’autentico leader. Pannella «identifica», più ancora di quanto non rappresenti, i radicali, e viceversa. Indubbiamente, le non comuni qualità personali in termini di intuizione politica, di capacità argomentativa, di abilità oratoria e di impegno personale (si pensi agli scioperi della fame e a volte anche della sete) fanno del leader radicale una figura di alto profilo e gli consentono una libertà d’azione assoluta, al di là di ogni vincolo di partito. I congressi infatti si risolvono quasi sempre in un sostegno plebiscitario alle sue proposte anche quando rovesciano improvvisamente scelte precedenti (a volte dello stesso Pannella). Questo rapporto di dominio sul partito ha periodicamente causato tensioni e crisi; ma tutte si sono risolte o con la riconferma della «lealtà» al leader o con l’«uscita» dal partito dei dissidenti. Negli anni Settanta il Pr oltrepassa la dimensione del gruppuscolo grazie al traino della vittoria dei sostenitori del divorzio nel referendum del 1974, alla prima, clamorosa ap­ parizione televisiva di Marco Pannella in sciopero della fame, e all’imposizione nell’agenda politica nazionale di un tema scottante come l’aborto, l’anno successivo, quando vennero arrestati, suscitando grande scalpore nell’opinione pubblica, il segretario del partito Gianfranco Spadaccia e le militanti femministe Adele Faccio ed Emma Bonino, accusati di aver sostenuto attraverso il Centro di informazione sulla steriliz­ zazione e sull’aborto (Cisa) strutture, all’epoca illegali, che praticavano l’interruzione della gravidanza. L ’eco di queste vicende, che oltrepassa abbondantemente la minuscola dimensione del partito, spinge il Pr a tentare la via della presentazione autonoma alle elezioni politiche del 1976. Per un soffio, grazie al superamento per poche centinaia di voti del quorum nella circoscrizione di Roma, il Pr porta, con 1’ 1,1 %, quattro deputati in Parlamento. Il voto disegna il profilo di un elettorato concentrato nelle aree urbane e metropolitane (tre province - nell’ordine, Roma, Milano e Torino - danno quasi un terzo di tutti i voti raccolti dal Pr) e nelle regioni settentrionali, più il Lazio. Il Pr attira elettori giovani, con istruzione superiore, di classe medio-alta, con­

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centrati nelle professioni e nella cultura, provenienti un po’ da tutte le aree politiche. L ’attività parlamentare non è comunque il luogo privilegiato dell’azione radicale. Nonostante una presenza nel territorio ridottissima - gli iscritti, per molti anni, non andranno oltre i 3 mila e le sedi si limiteranno a poche decine - il Pr si im­ pegna nella promozione di una serie di referendum incentrati sulla promozione di diritti civili. È l’inizio di una strategia che durerà nel tempo tanto che finora i radicali hanno raccolto le firme per più di 100 referendum. Questa strategia si basa su un doppio assunto: il valore della scelta individuale su ogni specifico tema, e la conseguente, auspicata, liberazione degli elettori da appartenenze politico-partiche consolidate. La campagna referendaria della primavera del 1977 costitui­ sce un tornante decisivo per il Pr. Non solo il partito riesce nell’impresa di raccogliere le firme per tutti gli otto referendum praticamente da solo, a parte una distratta adesione di Lotta continua e, nelle ultime battute, del Psi; ma con questa batte­ ria di proposte e con questa modalità d’azione si propone al mondo giovanile come un’alternativa libertaria e non violenta alla radicalizzazione estremista del movimento del Settantasette. Con provocazioni e calembour linguistico-politici al limite del comprensibile Pannella cerca di penetrare nell’universo giovanile più arrabbiato e alienato puntando il dito contro la chiusura e l’insensibilità della «partitocrazia» e la «violenza di stato». In questa polemica a 360° il compromesso storico e il Pei, a volte più della stessa De, assurgono a bersagli costanti della polemica radicale. Il consenso di fondo alle iniziative radicali, già emerso dalla consultazione del 1974 sul divorzio, si ritrova anche nel risultato, sorprendente, di uno dei referendum radicali arrivati al voto, quello sul finanziamento pubblico dei partiti: nella primavera del 1978 la proposta di abrogazione, nonostante fosse sostenuta solo da radicali e liberali, ottiene il 43% dei consensi. Il Pr intercetta sentimenti e pulsioni politiche diffu­ si, benché sotterranei, ma si scontra con un tetto di cristallo quando passa sul terreno elettorale. Alle elezioni del 1979, infatti, si ferma al 3,4% alle politiche e al 3,7% alle europee della settimana successiva. Nei comuni sopra i 100 mila abitanti il Pr ottiene il 5,7% e in tutte le grandi città del Centro-Nord, più Napoli, è il

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quarto partito, con punte sopra il 7% . Il Pr ha ampliato le basi sociali del suo consenso attraendo sia settori della borghesia intellettuale e delle professioni sia di proletariato giovanile, entrambi attratti, per quanto in misura diversa, dalle tematiche dei diritti civili e dall’opposizione al “regime” del «compromesso storico». I voti sono però troppo pochi per giocare un ruolo di primo piano nelle dinamiche inter­ partitiche. Alla politica «del e nel Palazzo», metafora che Pannella utilizza spesso mutuandola da Pier Paolo Pasolini, con il quale vi è stata una forte sintonia nei suoi ultimi anni, vengono così contrapposte le iniziative dal basso, nella socie­ tà civile: una politica «del marciapiede» (altra provocatoria metafora pannelliana). Il leader radicale riassume in sé le varie anime del partito: quella liberale-istituzionale e quella non violenta gandhiana, quella alternativistica arrabbiata e quella riformista, quella antipolitica e quella degli accordi con i vertici dei partiti. Solo lui riesce a fonderle con sintesi ardite, tutte intrise di un vissuto personale incomparabile rispetto a tutta la classe politica, dando corpo alla celebre espressione «il personale è politico». L ’incremento elettorale, ottenuto anche grazie a candida­ ture eccellenti come quella di Leonardo Sciascia, non viene adeguatamente capitalizzato a causa di alcune scelte cruciali. La prima riguarda la non presentazione di liste radicali alle amministrative del 1980: in tal modo, viene impedito un radi­ camento territoriale (in effetti incompatibile con l’imprinting carismatico del partito sul quale la leadership vuole avere mani libere). La seconda è l’impennarsi della contrapposizione frontale verso tutti gli altri partiti (peraltro contraddetta da un implicito invito a votare le liste socialiste). La terza è l’im­ provvisa decisione di Pannella di dedicare il proprio impegno all’inedito problema della «fame nel mondo» cercando un rapporto con gli ambienti cattolici. Questa politica pannelliana sconvolge i referenti politico-culturali del partito ma, a riprova del carattere carismatico del Pr, viene seguita, pur senza grande convinzione, da tutto il partito. La campagna contro la fame nel mondo raccoglie successi di prestigio (ben 130 premi Nobel firmano un appello contro «lo sterminio per fame») e normativi (il fortissimo incremento degli stanziamenti per la cooperazione allo sviluppo, dallo 0,07% allo 0,4% nel 1986, che finalmente pone in linea l’Italia

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con gli altri paesi occidentali); tuttavia, non porta benefici né in termini di immagine - il Pr non sarà mai identificato con questo tema -, né in termini politici - i rapporti con il mondo cattolico non decollano. Le elezioni del 1983, condotte con un profilo molto bas­ so - a eccezione della candidatura di Toni Negri, professore padovano da quattro anni detenuto in attesa di processo su reati di terrorismo - si traducono in una contrazione dei consensi (2,2%: -1,2 punti). Sulla politica del Pr grava una contraddizione in questo periodo: da un lato, il partito si erge a critico intransigente del regime partitocratico, dall’altro stringe rapporti sempre più stretti con il Psi, benché destinati a una rapida rottura anche per lo scontro di personalità tra i due leader. Lo stesso Pannella oscilla tra iniziative di politique politicienne e prospettive palingenetiche in linea con il tema della fame nel mondo. E seguendo quest’ultima linea che il leader propone di «chiudere» il partito per poter far politica in altre forme, in altri ambienti e con altre sigle. Coerentemente con tale prospettiva i radicali sostengono, politicamente e logisticamente, la formazione di liste verdi alle quali cedono il simbolo del «sole che ride» per le elezioni amministrative del 1985. In tal modo, favorendo la nascita di un attore poli­ tico per molti aspetti concorrente, il Pr rinuncia a insediarsi localmente: in pratica, il partito innalza deliberatamente un potenziale ostacolo al proprio sviluppo. Il processo di affrancamento di Pannella dal proprio partito, troppo angusto per le ambizioni e la visionarietà del leader, giunge a compimento alla fine degli anni Ottanta quando il Pr, accentuando i suoi caratteri transnazionali (tra l’altro, nel 1978 aveva eletto come segretario un antimilitarista belga, Jean Fabre), adotta un nuovo simbolo (l’immagine di Gandhi) e si trasforma in una sorta di minuscola internazionale libertaria e non violenta. Corollario di questo passaggio la rinuncia a partecipare alle elezioni nazionali. Del resto, il 2,2% ottenuto alle elezioni del 1987 (dove il Pr sconcerta, una volta di più, l’opinione pubblica con la candidatura e l’inopinata elezione della pornostar Cicciolina), ha confermato lo status minoritario del partito nell’elettorato italiano. La trasformazione del Pr in Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito (questa la nuova sigla ufficiale, benché negletta dall’opinione pubblica), decisa in un lacerante

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congresso che si tiene significativamente a Budapest nell’aprile del 1988, non comporta però una totale estraneità rispetto alla politica italiana. Il Pr in quanto tale non si presenta alle elezioni europee del 1989, coerentemente con il progetto di chiusura del partito e di trasversalità della politica, ma non per questo i radicali sono assenti; in realtà, essi si disperdono su varie liste: una parte entra nella nuova formazione dei Verdi arcobaleno - nata da una scissione dei Verdi -, altri danno vita alla Lega antiproibizionista sulla droga, altri ancora si candidano, senza successo, con il Psdi; e Pannella promuove in solitaria una federazione laica con Pii e Pri, che però si sfascia subito dopo l’insuccesso elettorale. In vista delle elezioni del 1992 il Pr, che registra un forte incremento di iscritti non italiani in linea con la sua proiezione internazionale (su 9.948, 7.337 sono stranieri, in gran parte russi), mantiene fede all’impegno di non presentarsi con la propria sigla; in sua vece viene coniata la «lista Pannella», una denominazione che comunque non lascia dubbi sulla sua identità politica. L ’innovazione non ha fortuna: in que­ ste elezioni i radicali ritornano ai minimi storici ottenendo appena 1’ 1,2 % e sette deputati. La débàcle elettorale è però compensata da alcuni successi politici, in quanto la tempesta di Mani pulite apre nuove prospettive, molto favorevoli per il Pr. Il primo successo è ottenuto personalmente da Pannella, che si fa promotore, nel più totale isolamento e scetticismo, della candidatura del democristiano Oscar Luigi Scalfaro prima alla presidenza della Camera e poi alla presidenza della Repubblica. Nella situazione di sbandamento di quei giorni, tra inchieste a raffica sulla corruzione politica e attacco della mafia (omicidio Falcone), la grinta e la tenacia di Pannella scuotono un mondo politico paralizzato e facilitano l’intesa sul nome di Scalfaro. Il secondo riguarda la partecipazione insieme a Mario Segni e altri a un’iniziativa politica centrale, come i referendum elettorali (ai quali il Pr affianca una serie di quesiti di marca radicale come quello sulla depenalizzazione delle droghe leggere che risulterà poi approvato dagli elettori). Pannella non è il protagonista di questa iniziativa, tuttavia i radicali sono presenti e attivi in un’iniziativa popolare e di largo respiro e ne raccolgono i frutti, tant’è che cade il muro di inerzia dei suoi sostenitori e, attraverso un’ennesima ulti­ mativa campagna di iscrizione, entrano a fine anno addirittura

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42.676 iscritti. Una cifra mai lontanamente raggiunta prima, e nemmeno poi. Tuttavia, ancora una volta, il Pr non capitalizza né i suc­ cessi politici né quelli organizzativi. Proprio quando il vecchio sistema «consociativo e partitocratico», per usare gli stigmi pannelliani, sta per crollare e i radicali sono meglio attrezzati rispetto al passato grazie a una solida dote di iscritti e al successo ai referendum della primavera del 1993, non riescono a offrirsi come i paladini del rinnovamento. Anzi, alcune iniziative di Pannella, in particolare l’ostilità alle inchieste sulla corruzione politica e soprattutto lo scudo offerto ai parlamentari inquisiti per «difendere la dignità del parlamento», definito dal leader radicale «il migliore della repubblica», isolano il partito dal sentimento prevalente dell’opinione pubblica e lasciano scon­ certati molti neoiscritti tanto che poi non rinnovano la tessera facendo piombare il partito a quota 5.281. Nel momento in cui il sistema dei partiti traballa e i radicali possono esibire la loro estraneità al Palazzo e la loro adamantina onestà, Pannella sembra travolto da cupio dissolvi. Una finestra di opportunità gigantesca viene chiusa quasi con fastidio. Questo atteggiamento sarebbe stato comprensibile in un’ottica di estraneazione totale dalla politica italiana per de­ dicarsi a quella «transnazionale». In effetti, Pannella è presente ininterrottamente nel parlamento europeo di Strasburgo dal 1979 al 2009, mentre esce da quello italiano nel 1994, per non rientrarvi più. Tuttavia, i risultati sul piano internazionale sono poco più che simbolici e di stima: appelli firmati da prestigiose personalità, riconoscimento dello status di Ong dell’Onu (1995), partecipazione alla creazione della Corte penale internazionale (1998) e alla proclamazione da parte dell’Onu della moratoria sulla pena di morte (2007) attraverso associazioni ad hoc (Non c’è pace senza giustizia e Nessuno tocchi Caino). Comunque, Pannella non abbandona il contesto italiano. Navigando in questa ambiguità il Partito radicale, a eccezione di un’improvvisa fiammata nel 1999, anch’essa senza prosieguo, non riesce a più a incidere sulla politica italiana. Gli ondeggiamenti tra centro-destra, prima (equivocando clamorosamente sulla caratura liberale di Silvio Berlusconi) e centro-sinistra, poi, e il moltiplicarsi delle sigle elettorali sconcertano l’opinione pubblica più attenta alle vicende radicali e disperdono lentamente un potenziale serbatoio di consensi. Nei primi anni dopo il crollo

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del vecchio sistema partitico i radicali esibiscono una sintonia con il centro-destra. Alle elezioni del 1994 la lista Pannella con il 3,5% non supera lo sbarramento del 4% necessario per guadagnare una rappresentanza parlamentare, ma Forza Italia e Lega inseriscono alcuni radicali nelle loro liste consentendone così l’elezione. Il feeling con il centro-destra si accentua tanto che Emma Bonino viene nominata commissario europeo dal governo Berlusconi e alcuni radicali aderiscono formalmente a Forza Italia. Ciononostante, non si concretizza un’alleanza elettorale tra FI e radicali. La conseguente decisione di correre da soli si rivela suicida: la lista Pannella-Sgarbi si ferma all’1,9%. Pannella continua a proporre iniziative politiche su molti versanti, dalla legalizzazione delle droghe, per cui si fa arre­ stare, a carceri più umane, a un fine vita dignitoso, ma emerge al suo fianco un’altra figura che ne condivide la popolarità ma non la leadership, Emma Bonino. E la lista a suo nome che fa di nuovo sperare in un ruolo importante per i radicali quando, alle elezioni europee del 1999, grazie al traino di una campagna di stampa a favore della sua candidatura alla presidenza della Repubblica, «Emma for president», ottiene il miglior risultato mai arriso a una lista radicale: 8,5%. Ma anche questo exploit rimane isolato: in tutte le successive elezioni nazionali o europee le liste radicali non ottengono risultati apprezzabili. Nemmeno la candidatura di Bonino alla guida della regione Lazio nel 2010 avrà successo, sconfitta di misura dalla candidata del centro-destra. Il nuovo secolo non riporta i radicali ai piani alti della po­ litica. Si presentano senza successo alle elezioni del 2001 con la lista Pannella-Bonino (con però solo il nome della Bonino nel simbolo) ottenendo il 2,2%, e a quelle del 2006 in alleanza con i socialisti di Enrico Boselli nella lista Rosa nel pugno (che richiama lo storico simbolo dei radicali degli anni Settanta) raccogliendo appena il 2,6% . Rientrano in parlamento nel 2008 quando il Pd include nelle sue liste alcuni esponenti del partito (ma non i leader storici): questa rinnovata presenza nelle istituzioni, tuttavia, non lascia il segno. Nulla di paragonabile alle iniziative dissacranti, alle polemiche feroci, alle intuizioni rivoluzionarie, alla capacità di coinvolgimento - emotivo e politico - esercitata negli anni Settanta-Ottanta. I radicali, nelle loro diverse vesti, si affacciano alla ribalta ancora in alcuni momenti, intervenendo sulla questione del

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fine vita - casi Coscioni e Welby (2006) -, sulla situazione carceraria e sulla depenalizzazione delle droghe; e, infine, ot­ tengono un «riconoscimento» della loro storia più che del loro peso politico con la carica di ministro degli Esteri nel governo Letta (2013-14) affidata a Bonino, riconoscendone l’impegno europeista. Tuttavia, la dispersione delle poche energie su molti fronti e le increspature nel rapporto tra Pannella e Bonino, e rispettivi seguaci, relegano i radicali a un ruolo minore. La scomparsa del leader carismatico dei radicali nel maggio del 2016 porta con sé anche una storia in via di esaurimento. Lo conferma il magro risultato della lista promossa da Bonino, -l-Europa, aggregata al Pd alle elezioni del 2018: anche se elegge tre deputati si ferma al 2,5%. La grande innovazione introdotta dal Pr nella politica italiana a partire dagli anni Sessanta non ha retto all’assenza di impianto organizzativo, di radicamento territoriale e di rapporti continuativi e cooperativi con altre forze politiche. Ironicamente, quando nel cataclisma di Mani pulite la lunga, costante, feroce polemica radicale contro tutti i partiti poteva premiare un partito antagonista ed estraneo al sistema come il Pr, il cupio dissolvi di Pannella ha fatto mancare al partito l’appuntamento decisivo. I radicali, negli anni della Seconda Repubblica, a eccezione di alcuni momenti, sono rimasti con­ finati in un cono d’ombra. La loro stagione d’oro, quella dei diritti civili, ha comunque marcato la storia d’Italia e, a rischio di un’enfasi eccessiva, si potrebbe usare l’espressione churchilliana del «mai tanto fu dovuto da tanti a così pochi». L ’intuizione del ruolo centrale dei diritti civili, il risalto assegnato al primato della legge in un paese così alieno alle norme, il ruolo centrale delle scelte individuali in una cultura dominata per tanto tempo dalle «chiese», la pratica politica non violenta in un periodo in cui crepitavano (e fascinavano) le armi, e infine l’estraneità quasi antropologica al potere e alle sue seduzioni fanno dell’espe­ rienza radicale un unicum. E tutto questo con una struttura organizzativa e militante lillipuziana, compensata però da una classe dirigente e, soprattutto, da un leader, Marco Pannella, di rara levatura.

Parte terza

I partiti nuovi

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Capitolo nono

LN. Dalla Padania alla nazione

La Lega Nord - dal 2017 soltanto Lega - ha la sua in­ cubazione negli anni Ottanta del secolo scorso, quando si sviluppano o si rafforzano movimenti di difesa dell’identità territoriale. In coincidenza con il riemergere della frattura centro-periferia in Europa e, in Italia, deH’improwiso suc­ cesso della lista civica-autonomista alle elezioni comunali di Trieste nel 1978 (la Lista per Trieste), esce dall’anonimato l’autonomismo regionale, fino ad allora incarnato da Union valdòtaine, Partito sardo d’azione e Partito popolare del Sudtirolo/Siidtiroler Volkspartei. Le prime elezioni europee del 1979, che prefigurano una contrazione dello stato nazionale e corrispettivamente un’enfatizzazione delle «piccole patrie», offrono l’opportunità alle varie sigle autonomiste di coordinarsi per presentare liste comuni in tutte le circoscrizioni. Il 1979 assurge quindi a data simbolo per il riconoscimento di una causa comune tra i vari partiti «etnoregionalisti»; ma anche e soprattutto perché viene fondata la prima delle «leghe», la Liga veneta, e perché Umberto Bossi, secondo le sue parole, viene folgorato sulla via dell’autonomismo dall’incontro con il leader dell’Union valdòtaine, Bruno Salvadori. Il primo segnale di vita di un nuovo tipo di partito etnoregionalista viene dal Veneto. Alle elezioni politiche del 1983 la Liga veneta, movimento di «promozione culturale» fondato da Franco Rocchetta quattro anni prima, ottiene un imprevisto e clamoroso successo: nel cuore del Veneto bianco conquista il 4,2% dei voti ed elegge un deputato e un senatore. La Liga nasce con lo scopo di difendere e recuperare la tradizione culturale veneta e conquistare una reale «sovranità» dei veneti sulla loro regione. Il suo primo manifesto richiama temi che diventeranno comuni poi alle altre leghe: l’autodeterminazione e l’autogoverno del popolo (veneto), coartato dal centralismo

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romano, soffocato dalla burocrazia centrale e locale, taglieggiato da una tassazione feroce a favore dei parassiti (ovviamente meridionali), inquinato nella sua identità e minacciato nella sua sicurezza dagli immigrati. Dietro il clamoroso successo della Liga - che ha decuplicato i propri voti rispetto a tre anni prima, quando si era presentata, per la prima volta, alle elezioni regionali del 1980 - c’è una società dinamica, attiva, opulenta ma insoddisfatta, che non si sente più rappresentata dal ceto politico tradizionale e che cerca un’alternativa. Questa prima offerta leghista, però, delude rapidamente tali aspettative. La radicalizzazione in cui si lancia il partito rivendicando una piena autonomia fiscale e amministrativa per la «nazione veneta» e invocando un repulisti di tutti gli «stranieri» non incontra i favori dell’elettorato: se a questo si aggiunge lo spettacolo di lotte intestine e l’assenza di figure di alto profilo, è inevitabi­ le che alle regionali del 1985 scenda al 3,7%, e alle elezioni politiche del 1987 cali ulteriormente al 3% perdendo i suoi rappresentanti in parlamento. Al declino della Liga si contrappone la crescita di altre leghe, in particolare della Lega lombarda, che insistono sulle specificità dei «popoli» delle loro regioni e promuovono la riscoperta e l’attualizzazione delle radici culturali; il largo uso del dialetto esprime, in questa fase, la rivendicazione localista. Animata fin dalla fondazione da Umberto Bossi, la Lega lombarda subentra alla Liga come partito leader della famiglia etnoregionalista. Alle elezioni politiche del 1987 è infatti l’unica lega che, raccogliendo il 2,9% nella propria regione - con punte significative nei collegi di Como-Varese-Sondrio e di BergamoBrescia - riesce a inviare in parlamento un deputato, Carlo Leoni, e un senatore, Umberto Bossi. In realtà, la ricezione del messaggio leghista è ancora più ampia in Piemonte ma, essendosi presentate due liste autonomiste in competizione tra loro, il lusinghiero bottino complessivo del 4,3% dei suffragi non produce nemmeno un parlamentare. La Lega lombarda, pur essendo anch’essa attraversata da faide interne ferocissime, non subisce la stessa sorte delle altre leghe perché il suo leader riesce a gestire i conflitti interni a colpi di espulsioni ed epurazioni. Il controllo che Bossi eser­ cita sulla sua microrganizzazione è ferreo; tra l’altro, dopo il successo elettorale del 1987, introduce una doppia figura di iscritto, quella del sostenitore, senza diritto di voto, riservata

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ai nuovi arrivati che potranno accedere alla qualifica di socio ordinario solo dopo un periodo di prova (indeterminato e a discrezione del leader), attestante la loro dedizione alla causa. In questa fase, la Lega lombarda affianca alla rivendi­ cazione di autonomia su basi etnico-culturali la difesa degli interessi locali. Viene così proposta un’identità territoriale in termini di interessi. L ’operoso «popolo lombardo» - la celebre gallina dalle uova d’oro dei primi manifesti leghisti, tanto naif quanto efficaci - condivide nella sua globalità, senza divisioni di classe o d’altro genere, la condizione di essere un produttore di ricchezza sfruttato: dallo stato rapace che drena le sue risorse attraverso un esoso sistema fiscale, dai partiti inetti e corrotti, dalla burocrazia infestata dai meridionali, primi beneficiari della spesa pubblica. Il popolo lombardo deve quindi liberarsi dalle catene impostegli dal centralismo romano e guadagnare la propria autonomia. La rivendicazione dell’autonomia regionale dal centro, contro «Roma ladrona», costituisce l’asse portante del movimento leghista. Questo messaggio trova rispondenza principalmente nei piccoli centri, dell’arco pedemontano e tra ex elettori democristiani. La De, investita da un irruente processo di secolarizzazione in quelle aree - e in difficoltà nel mantenere un’efficiente gestione del potere, che fino a quel momento aveva surrogato la caduta della religiosità -, è indifesa di fronte all’attacco di un nuovo attore politico «centrista» (nel senso che si definisce né di destra né di sinistra). L ’affermazione delle leghe sulla scena politica nazionale avviene in rapida sequenza, grazie a due passaggi elettorali. Il primo si compie con le elezioni europee del 1989. I vari movimenti autonomisti - Liga veneta, Lega lombarda, Piemont autonomista, Union ligure, Lega emiliano-romagnola e Alleanza toscana - si presentano uniti nella lista Alleanza Nord, e con 1’ 1,8% a livello nazionale eleggono un eurodeputato. A dispet­ to del risultato elettorale complessivo, questa partecipazione collettiva permette alle leghe di proiettarsi su una dimensione nazionale, e di ottenere visibilità grazie al risultato ottenuto dalla Lega lombarda in Lombardia (8,1%), che vale la quarta posizione nel sistema partitico regionale dopo De, Pei e Psi, e davanti a tutti gli altri partiti storici. Il secondo passaggio arriva con le elezioni amministrative del 1990. Le varie leghe regionali ottengono tutte buoni ri­

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sultati - 5,9% in Veneto, 6,1% in Liguria, 7,4% in Piemonte (sommando le due liste concorrenti) - ma in Lombardia raggiungono un eclatante 20,1% (somma del 18,9% della Lega lombarda e dell’1,2% della Lega autonomia lombarda). Ciò vuol dire che la Lega lombarda è seconda solo alla De, avendo sopravanzato, tra lo stupore di tutti i commentatori e i politici, Pei e Psi. Il partito di Bossi aumenta laddove era già forte innescando un processo virtuoso di radicamento ter­ ritoriale che caratterizzerà l’evoluzione successiva del partito. La maggior parte dei consensi, il 40%, viene dagli elettori democristiani, il 12% da socialisti e comunisti e il 10% dai partiti laici minori. E un elettorato maschile, con istruzione medio-bassa, di età «centrale» e composto prevalentemente da commercianti e impiegati. Nell’arco di tempo che va dalla fine del 1989 all’inizio del 1991, sotto l’impulso di Umberto Bossi, leader indiscusso del movimento leghista data la preminenza della Lega lombarda, viene ridefinita l’identità dell’arcipelago leghista e promossa la federazione delle varie componenti nella Lega Nord. Nel dicembre del 1989 si tiene il I Congresso dei movimenti autonomisti e poi, nel febbraio del 1991, viene fondata uf­ ficialmente la Lega Nord, alla cui guida è chiamato Bossi il quale, nonostante le forti perplessità della componente veneta, mantiene comunque la guida della Lega lombarda. La coniugazione della rivendicazione localista di una diver­ sità etnico-culturale con quella dei comuni interessi politico­ economici dei cittadini del Nord acuisce la pulsione autono­ mista, al punto che viene invocata la nascita della Repubblica del Nord. Già il manifesto del congresso del dicembre 1989 proponeva la costituzione di tre macroregioni - Nord, Centro e Sud; ma sotto lo stimolo di Gianfranco Miglio, intellettuale isolato ma di alto profilo e forte personalità, Bossi spinge l’accento sull’autonomia delle regioni settentrionali. Tuttavia, la Lega non si limita a una rivendicazione «territoriale» perché ambisce a giocare un ruolo sulla scena nazionale; di conseguen­ za, corrobora le proprie tematiche anticentraliste con appelli di intonazione populista, contro i partiti, i potentati economici, l’establishment. E, soprattutto, la responsabilità dell’ineffi­ cienza statale non è più imputata soltanto ai meridionali che infestano l’apparato statale, bensì ai partiti, corrotti e lottiz­ zatoti. La polemica antipartitocratica diventa parte integrante

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del discorso politico della Lega. Solo staccandosi da Roma e dalla corruttela politica, nonché dalle pastoie burocratiche del centralismo amministrativo, il Nord può sviluppare appieno le proprie capacità e godere finalmente delle risorse prodotte. La Lega patrocina quindi, in questa fase, una politica liberista rivolta soprattutto alla piccola impresa, e al lavoro autonomo, destinati a diventare referenti privilegiati del partito. Nonostante il grande successo alle elezioni regionali in Lombardia, la Lega rimane fino alle politiche del 1992 un fenomeno circoscritto, e solo in seguito a quelle consultazioni elettorali assume rilievo nazionale. Benché la Lega Nord pre­ senti candidati esclusivamente nelle regioni settentrionali, più la Toscana, essa raccoglie oltre 3 milioni di voti, equivalenti all’8,6% a livello nazionale. Con questo successo entrano in parlamento 55 deputati e 25 senatori. Facendo riferimento alle sole regioni nelle quali la Lega Nord si è presentata, il consenso assume dimensioni degne di un grande partito: è seconda in tre regioni, Piemonte, Veneto e Lombardia (qui ad appena un punto percentuale dalla De), e prima in sei province. La conquista del primato in sei province da parte della Lega è un evento storico: al di là di aree particolari come le regioni a statuto speciale del Trentino-Alto Adige, della Valle d’Aosta e del Friuli Venezia Giulia (e in quest’ultima solo dalla fine degli anni Settanta in poi), nessun partito aveva mai scalzato gli storici partiti di massa dal loro primato. Alla base dello straordinario successo del partito di Bossi vi è un mélange di posizioni inedite nella politica italiana del dopoguerra: il Carroccio attrae consensi con un discorso autonomista-localista che innerva tematiche che vanno dal neoliberismo economico alla diffidenza antiestablishment, daH’etnocentrismo venato di xenofobia all’europeismo, dal federalismo alla chiusura familista, dall’antipartitismo alla pro­ testa fiscale, dalla domanda d’ordine alle aperture libertarie in tema di diritti civili, dalla non violenza gandhiana all’irruenza plebea. Grazie a questo pot-pourri ideologico e valoriale l’eletto­ rato utilizza la Lega come veicolo per le più diverse domande: non per nulla è talmente eterogeneo ideologicamente che si distribuisce lungo quasi tutto l’asse destra-sinistra, con una leggera concentrazione in prossimità del centro-destra. Questa ubiquità spaziale della Lega è congruente con la multiforme origine politica del suo elettorato. Su 100 elettori leghisti del

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1992 il 25,4 vengono dalla De, 18,5 dal Pei, 12,5 dal Psi e 6,6 dal Msi. Tutti i partiti hanno dato il loro contributo alla Lega in misura grosso modo proporzionale alla loro dimen sione: dopo aver saccheggiato la De nelle precedenti tornate elettorali - e infatti la Lega lombarda aveva ottenuto i risultati migliori laddove la De era più forte - nel momento in cui espande il suo consenso non attinge più così massicciamente da un solo serbatoio. Gli elettori del 1992 evidenziano una chiara sintonia con il messaggio leghista: essi sono infatti caratterizzati da una sorda ostilità verso i partiti, accusati di corruzione, di inefficienza e di insensibilità verso i veri problemi della gente comune, una rivendicazione di autonomia regionale e una forte ostilità verso gli immigrati extracomunitari. Il sentimento antipartitico sembra costituire il mastice più forte dell’elettorato leghista, sia perché tale sentimento già circola ampiamente nell’opinione pubblica, sia perché l’inchiesta Mani pulite, appena iniziata al momento delle elezioni, lo rafforzerà all’ennesima potenza. Oltre a questa capacità di dare voce ad atteggiamenti e pulsioni veicolate da nessun altro partito, un ulteriore punto di forza della Lega Nord sta nella sua capacità di attrazione trasversale, da tutti i ceti sociali, tanto da rispecchiare fedelmente la stratificazione sociale dei cittadini delle regioni settentrionali. Il partito federale costituitosi nel gennaio del 1991 ha una struttura per molti aspetti tradizionale, ricalcata sul mo­ dello del partito di massa: centralità dell’iscritto-militante, processo decisionale dal basso verso l’alto, preminenza degli organi collettivi su quelli monocratici e del partito sugli eletti. La struttura federale adottata dalla Lega comporta tuttavia alcuni scostamenti dal modello. Ad esempio, il partito si ar­ ticola in sezioni territoriali che corrispondono, al livello più alto - significativamente definito «nazionale» - alle regioni in cui è sorto il movimento autonomista (Lombardia, Veneto, Piemonte, Liguria, Emilia-Romagna e Toscana); seguono poi, più tradizionalmente, il livello provinciale e quello comunale. La caratteristica distintiva del modello organizzativo le­ ghista sta nella compresenza di un attivismo militante, che richiede «fede e dedizione» agli iscritti, con una leadership dai tratti carismatici. Mentre i leader con tratti carismatici sono solitamente insofferenti nei confronti dell’organizzazione e

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dell’istituzionalizzazione partitica, Bossi, al contrario, predica una diffusione ramificata e radicata del partito nel territorio. Lo spirito missionario-messianico con cui stimola e infervora i propri militanti attraverso un intenso uso dei rituali (si pensi al giuramento di fedeltà degli eletti a Pontida) erige una bar­ riera simbolica all’ingresso nel partito di quanti potrebbero individuare in una Lega in ascesa l’opportunità per una rapida carriera politica. La leadership leghista si rivela molto occhiuta di fronte a questo rischio tanto che, proprio per poter conti­ nuare a controllare e selezionare il reclutamento, impedisce, o scoraggia, la presentazione a tappeto di liste leghiste nelle elezioni amministrative. Altrettanta cura è poi riversata nella creazione di un’identità propria. Con un processo lungo, che si articola in varie tappe e occupa alcuni anni, il partito riesce a inventare una propria tradizione e a creare una subcultura politica grazie anche a una miriade di associazioni parallele e fiancheggiatrici che, secondo la migliore tradizione dei partiti di massa, tendono a incapsulare l’elettorato di riferimento in un contesto consonante e rafforzativo dell’identità. Infine, mastice di tutte le ispirazioni e di tutte le domande è il leader del partito. Il suo linguaggio popolare con accenti plebei, la sua gestualità, la forza immaginifica e mitopoietica delle sue narrazioni bucano lo schermo, penetrano nell’opinione pubblica e definiscono i contorni politico-ideali del Carroccio. L ’impatto che Bossi ha sull’opinione pubblica si ritrova anche all’interno del partito, dove conduce un’infaticabile opera di mobilitazione anche nei più piccoli centri, cercando il contatto diretto con elettori e militanti. Nel partito è il leader incontra­ stato, circondato da fedelissimi della prima ora, i quali devono comunque obbedienza piena al capo pena l’emarginazione e, al limite, l’espulsione. La Lega è il primo interprete del malessere del Nord, quell’insofferenza dei ceti produttivi e più in generale dell’area economicamente più moderna e ricca rispetto a una politica inefficiente e corrotta. L ’epicentro di questa protesta non poteva che essere nella capitale del Nord, Milano, feudo del Partito socialista dagli anni Ottanta, e cuore della corruzione politica. Dopo il disvelamento di Tangentopoli, Milano viene attraversata da un vento di protesta impetuoso e anche ambienti della sinistra guardano con interesse e curiosità ai «nuovi bar­ bari» della Lega - come simpateticamente li descrisse Giorgio

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Bocca - per far pulizia e portare aria fresca nelle stanze del potere. L ’occasione per dimostrare attenzione alla Lega viene dalle prime elezioni con il nuovo sistema di elezione diretta del sindaco nella primavera del 1993. Il confronto tra il can didato leghista, lo sconosciuto eurocrate Marco Formentini, e il candidato delle sinistre Nando dalla Chiesa, figlio del gene­ rale dalla Chiesa, animatore da anni di un movimento contro la cattiva amministrazione e la corruzione (Società civile), si chiude con un trionfo per Formentini: 57,1% contro 42,9%. A questo successo si accompagna il risultato ottenuto dalla lista del Carroccio per il consiglio comunale: con il 38,8% la Lega diventa di gran lunga primo partito. Il vento della pro­ testa è altrettanto impetuoso altrove: 49,3 % nelle provinciali di Varese, 32,9% in quelle di Mantova e 26,7% nelle regionali del Friuli Venezia Giulia. La marcia trionfale della Lega subisce la sua prima battuta di arresto nell’autunno, nel secondo round di elezioni ammi­ nistrative nelle grandi città. Anche a causa dell’accusa di un finanziamento illecito di 200 milioni versato dalla Ferruzzi, la Lega fallisce l’obiettivo dichiarato di «conquistare gli sbocchi sul mare», cioè di vincere nelle due grandi città del Nord dove si votava, Venezia e Genova. Inoltre, la Lega deve fronteggiare un diverso scenario isti­ tuzionale, creato dal referendum sul sistema elettorale che ha eliminato la proporzionale. La Lega si era opposta alla riforma perché il nuovo sistema le impediva di continuare a correre da sola contro tutti e la obbligava a cercare dei partner con cui stringere un’alleanza, pena la marginalizzazione. Impresa difficile per un partito antagonista, ostile ai vecchi partiti e dai contorni così peculiari. La soluzione non poteva arrivare che da un partito altrettanto nuovo. Dopo uno strano abboccamento con il Patto Segni, poi liquidato in poche battute, la Lega tro­ va nella neonata Forza Italia il partner ideale. L ’alleanza - il Polo delle libertà - non è priva di spine, per la figura stessa di Silvio Berlusconi, non proprio sintonica con l’immagina­ rio antiestablishment della Lega, e soprattutto per l’alleanza indiretta, tramite Forza Italia, con il Msi di Gianfranco Fini. Nel discorso politico della Lega non manca infatti un robusto e vocale antifascismo: Bossi non esita a definire i missini «la porcilaia fascista» e a ripetere che «con il fascismo i conti si sono chiusi nel 1945».

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Alle elezioni del 1994, alla Camera, la Lega registra un leggerissimo regresso (8,4%: -0,2), ma grazie alla generosa ripartizione dei collegi elettorali concordata con Forza Italia, porta in parlamento ben 117 deputati, il 18,6%. L ’ingresso nel governo Berlusconi sembra coronare un percorso politico; eppure Bossi si trova in una situazione imprevista e difficile da gestire: ha tanti parlamentari in più, ma è imbrigliato in un’alleanza che rischia di vampirizzarlo. La Lega ha infatti perso il primato in molte città a favore di Forza Italia. E stato proprio il Carroccio a fornire agli azzurri il contributo più alto al partito di Berlusconi: su 100 elettori che hanno votato per Forza Italia, 31 avevano scelto la Lega nel 1992. Infine, la Lega non rappresenta più «il nuovo» per eccellenza, qualifica che ora spetta a Forza Italia: una formazione che compete con il Carroccio sui temi, comuni, del liberismo economico e dell’antipolitica ma con un appeal e risorse (soldi, personale, media, relazioni) ben superiori. In particolare, Forza Italia gli ha sottratto lo spazio più moderato conquistando quei «settori sociali presso i quali la rivendicazione regionalista e l’antitesi verso lo stato hanno un peso assai minore rispetto ai temi del fisco, dell’ordine e della sicurezza» come ha scritto Ilvo Dia­ manti. Non a caso la geografia della Lega cambia: retrocede nelle zone di recente avanzata, come le province della pianura lombarda, e si rafforza ulteriormente laddove era già molto forte, nelle zone originarie dell’area pedemontana, soprattutto in Veneto. E una sorta di marcia verso il passato, che si com­ pleterà nelle elezioni successive. Il rischio di una marginalizzazione o addirittura di un prosciugamento da parte di Forza Italia diventa ancora più concreto alle elezioni europee, quando rispetto a un 30,6% del partito di Berlusconi la Lega ottiene appena un 6,6%, calando di quasi 2 punti in soli tre mesi. Di fronte a questi segnali Bossi non poteva non reagire. A partire dall’estate, infatti, il leader del Carroccio co­ mincia una sistematica opera di distinzione rispetto all’alleato forzista con una serie di dichiarazioni e gesti a effetto; cele­ berrima l’intervista televisiva a un Bossi in canottiera d’antan su una spiaggia affollata in contrasto eclatante con le vacanze esclusive e lussuose del proprietario della Fininvest. Alla fine dell’anno, poi, complici le mobilitazioni dei sindacati e della sinistra sulle pensioni rispetto alle quali la Lega non si sente

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così distante, Bossi si stacca dall’abbraccio soffocante di Forza Italia e aderisce alla mozione di sfiducia presentata dal Pds c dal Ppi, costringendo in tal modo Berlusconi alle dimissioni. La decisione di differenziarsi da Forza Italia e di affondare il governo è tutt’altro che indolore per il Carroccio. Nel gruppo parlamentare, composto da molti novizi (il 69,5% è di prima nomina), si aprono delle crepe: 50 deputati su 117 abbandonano il partito e così fa il segretario della Lega lombarda, accusando il leader di verticismo e mancanza di democrazia. Per arginare la frana Bossi deve dar fondo a tutte le sue doti di leader. Il congresso straordinario convocato nel febbraio del 1995 si svolge in un clima da psicodramma collettivo, perfettamente funzionale all’esaltazione della figura taumaturgica e carisma­ tica del leader. Evocando gesta eroiche e sfide impari, Bossi ridefinisce le coordinate strategiche della Lega. L ’alleanza con «la destra», nuova etichetta affibbiata con toni e intenti spre­ giativi al Polo, viene rigettata in toto denunciando il progetto di marginalizzazione operato da Berlusconi contro la Lega - e quindi contro i veri interessi del Nord - in combutta con i poteri forti e il grande capitale. Per difendere il Nord la Lega deve in primis contare solo sulle proprie gambe e, in secondo luogo, aprirsi pragmaticamente ad alleanze nuove, senza pregiudizi. Bossi tuona contro i dissidenti passati a Forza Italia, attratti dalle lusinghe del potere e del denaro, e pertanto indegni di rappresentare il popolo del Nord, ma salva dal furore della platea congressuale Roberto Maroni, numero due della Lega, fedelissimo della prima ora, le cui esitazioni, alla fine, vengono magnanimamente perdonate dal leader. La Lega si conferma più che mai un partito carismatico, con un capo che sovrasta incommensurabilmente tutti gli altri dirigenti, su ciascuno dei quali pende sempre il rischio della scomunica, e che ridefinisce a suo piacimento la politica del partito, nonostante l’esistenza di organi collegiali deliberativi ed esecutivi ai quali Bossi, almeno in pubblico, rende sempre omaggio. Lo sganciamento dal Polo porta la Lega a una breve parentesi di entente cordiale con il Pds il quale, a sua volta, è prodigo di riconoscimenti sottolineando l’anima popolare del Carroccio. Questo (temporaneo) spostamento a sinistra si concretizza nell’accordo con gli altri partiti del centro-sinistra per il sostegno al governo tecnico di Lamberto Dini. Il brusco cambio di alleanze e la scissione, non provocano troppi dan­

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ni: alle elezioni regionali del 1995 la Lega raccoglie il 6,4%, appena uno 0,2% in meno di quanto ottenuto l’anno prima alle europee. In Lombardia e Veneto il Carroccio si conferma solidamente radicato ottenendo rispettivamente il 17,7 e il 16,7%. Ma la distribuzione dei suoi consensi è cambiata. Mentre rispetto alle regionali del 1990 la Lega registra in Lombardia un calo, ancorché limitato, in Veneto, invece, triplica i voti. L ’ago della bilancia si è spostato a est. Questa ridefinizione delle aree di forza e, inevitabilmente, del potere interno delle diverse leghe regionali determina una radicalizzazione del par­ tito. La componente veneta è infatti portatrice di una visione di estraneità e alterità verso il sistema ben più netta rispetto alle altre componenti: la parola d’ordine dell’indipendenza del Nord sostituisce gradualmente il riferimento al federalismo; e il partito si chiude a riccio, rifiutando ogni collaborazione con gli altri attori politici. Conseguentemente, alle elezioni politiche del 1996 la Lega corre da sola impostando una campagna di netta contrappo­ sizione ai due schieramenti alternativi —contro «Roma-Polo» e «Roma-Ulivo» - , entrambi centralisti e partitocratici. Sola contro tutti la Lega sfonda il tetto del 10%. Al Nord i consensi salgono al 20,5% con punte superiori al 40% in ben 40 colle­ gi. La crescita elettorale determina un’ulteriore accentuazione della tendenza, già in atto nelle elezioni del 1994, di ritorno nella culla bianca del Lombardo-Veneto. Il Carroccio avanza nei comuni della fascia pedemontana di tutto l’arco alpino, mentre regredisce al di sotto del Po e nelle grandi città: come è stato efficacemente sintetizzato, «la Lega si sviluppa nelle aree di piccola impresa, a urbanizzazione diffusa, a tradizione bianca». E cambia il suo gruppo sociale di riferimento: quasi un terzo dei colletti blu delle regioni a nord del Po ha votato per la Lega. Questa poderosa forza d’urto viene convogliata verso la nuova strategia della secessione. Il successo nel confronto con i «partiti romani» rafforza la sensazione che una parte della società settentrionale sia disponibile ad andare da sola: insofferenza per l’amministrazione centrale, disprezzo per la politica romana, orgoglio del rapido ipersviluppo economico soprattutto nel Nord-Est, difesa di un benessere corposo, diffuso e recente, recupero, soprattutto in alcune aree del Veneto, di una pregressa identità locale, sono gli elementi su

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cui si fonda il mutamento di linea leghista a favore dell’indi­ pendenza della Padania. Per marcare la nuova strategia secessionista viene annun ciata per il 15 settembre 1996 la dichiarazione di indipendenza al termine di una marcia lungo il Po, dalle sorgenti al mare. La sfida portata dalla Lega alle istituzioni è molto alta. Ma fallisce: la marcia va praticamente deserta e il comizio finale di Venezia, sotto una pioggia battente, si risolve in un fiasco. Non per questo il partito demorde. Anzi, mantiene alta la tensione antisistemica per tutto il 1997. Attraverso il referendum autogestito per l’indipendenza, le elezioni padane per eleggere il «parlamento del Nord» con varie liste leghiste in compe­ tizione - dai Comunisti padani del giovane Matteo Salvini ai Democratici europei-lavoro padano di Roberto Maroni - e la costituzione del «governo del Nord» il partito di Bossi cerca di coagulare un’ampia opposizione al governo centrale. Tra l’altro, al III congresso (14-16 febbraio 1997) il partito cambia la denominazione ufficiale, da Lega Nord-Italia federata a Lega Nord-Per l’indipendenza della Padania. Il Carroccio si sviluppa come un classico partito di inte­ grazione sociale che ambisce a creare una comunità di fedeli piuttosto che essere un mero strumento d’azione politica. Nasce, così, una vera e propria «subcultura verde», incentrata sul mito identitario della Padania. Molti gli elementi che contribuiscono a crearla: dall’organizzazione ramificata e insediata per sezioni territoriali all’enfasi sul militantismo, dalla formazione politico­ ideologica alla fitta rete di organizzazioni parallele (la Guardia nazionale padana, il sindacato Sin.pa., i movimenti giovanili e femminili), dalle strutture di comunicazione autogestite (oltre a vari giornali ed emittenti locali, all’inizio del 1997 nascono Radio Padania libera e il quotidiano «la Padania» e, l’anno successivo, Telepadania) a molteplici iniziative economiche (le cooperative di consumo e, più tardi, la banca CredieuroNord, poi disastrosamente fallita) e sodali-ricreative. Queste ultime coprono un arco amplissimo di settori di attività per ciascuno dei quali viene creata un’associazione padana, promossa dal partito o a esso collegata. Spesso sono iniziative estemporanee e limitate localmente - dal circo padano a non meglio iden­ tificati artisti padani -, ma in altri casi hanno un obiettivo di più lungo periodo come le scuole elementari, o di più largo raggio, come il movimento dei cattolici; tutte le sfere della

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vita sociale vengono coinvolte, dall’assistenza fiscale-tributaria all’elezione di miss Padania, dal volontariato dell’Umanitaria ai giochi della gioventù padani, dalle innumerevoli feste celtiche al campionato di calcio padano. Insomma, a partire dalla fine degli anni Novanta si amplia e prende corpo un mondo a parte fatto di simboli, codici, linguaggi, riferimenti culturali che definiscono un’appartenenza esclusiva; un mondo alimentato e rappresentato dalla Lega. Il secessionismo si innesta in una visione del mondo di chiaro segno populista. La Lega è «con il popolo e contro tutti i potenti». E questi ultimi sono icasticamente identificati da Bossi, in un’intervista del marzo del 1997, in «Agnelli, il Papa e la mafia». E il modello del fortino assediato, un mondo chiuso in cui «noi» ci dobbiamo difendere da «loro», e nel quale il noi identifica gli operosi, attivi cittadini del Nord, operai e (piccoli) industriali, commercianti e artigiani: un mondo da proteggere e dove non c’è spazio per mediazioni e alleanze. In questo periodo la questione settentrionale si stempera e quasi scompare dall’agenda politica, e la Lega, di conseguenza, perde peso. Per mantenersi autonomo e sempre più antagonista ri­ spetto agli altri partiti di centro-destra, Bossi gioca anche la carta della xenofobia. Nessun altro partito, in effetti, utilizza questo tema, quindi la Lega occupa un terreno libero. Nel mondo della Lega questi sentimenti sono molto diffusi. Gli elettori leghisti esibiscono infatti il più alto livello di xenofobia popolare, ovvero considerano gli immigrati responsabili della disoccupazione, della criminalità e dei costi sociali: rispetto alla media nazionale del 36% di xenofobi, i leghisti sono il 58%. Ma la scelta dell’isolamento diventa sempre più controprodu­ cente: alle elezioni amministrative primaverili e autunnali la Lega regredisce e a Milano, l’unica grande città con sindaco leghista, le preferenze crollano dal 57,1 al 19,1% per il sindaco uscente Formentini, e dal 38,8 al 15,4% per il partito. Anche la competizione con Forza Italia (ma pure con An), spesso esasperata fino agli insulti («Berlusconi mafioso» è l’epiteto più frequente in questa fase), si rivela perdente. 11 fallimento dell’ipotesi secessionista - sancita dall’annuncio ufficiale dell’entrata nell’euro che manda in frantumi le speranze leghiste di approfondire il solco tra settori rilevanti dell’econo­ mia e della società settentrionali e la comunità nazionale - e

il rigido isolamento nel quale la Lega si è, ed è stata, relegata spingono Bossi a un cambio di strategia. Nel marzo del 1998 nel congresso straordinario il leader introduce, prendendola a prestito daH’esperimento in corso in Gran Bretagna, una nuova parola d’ordine: devolution. Come spiega Bossi nel consueto raduno di Pontida, bisogna «prendere atto che l’unica strada percorribile è quella [...] della creazione di due parlamenti (uno al Nord e uno al Sud) in cui siano devoluti gran parte dei poteri che fino a oggi sono accentrati a Roma». La proposta suscita malumori all’interno, perché oltre a un’anima moderata che vorrebbe rientrare nel gioco politico ve n’è una più radicale, molto forte in Veneto, che, al contrario, vorrebbe lo scontro su tutto, mantenendo ferma la barra sulla secessione. Alla fine, pur non dismettendo propositi incendiari, Bossi vara la «Lega di governo» candidandosi a guidare il processo di devoluzione in accordo con le istituzioni, senza strappi antisistemici. La virata, però, non solo non riesce a tamponare l’emorragia di parlamentari che si spostano verso lidi moderati, dal gruppo misto all’Udr di Cossiga, ma induce un gruppo di duri e puri del Veneto ad attuare una loro secessione per fondare la Liga Veneta Repubblica. Il partito è allo sbando, scosso dall’alternarsi di spinte estremiste e ritorni alla politica. L ’atteggiamento filoserbo assunto durante la crisi del Kosovo, nella primavera del 1999 quando Bossi tuona contro l’intervento della Nato e accusa gli Stati Uniti di imperialismo e aggressione, e va addirittura a Belgrado per esprimere solidarietà a Milosevic, porta la Lega all’isolamento. In realtà, questo atteggiamento è coerente con la deriva antiamericana e antiglobalizzazione, nonché con la diffidenza verso il mercato e il capitalismo anglosassone, di questa fase. A una visione stereotipatamente negativa del capi­ talismo «americano» vengono infatti contrapposte le virtù del capitalismo «renano», con corollario di intervento pubblico e difesa del welfare state. La critica «da sinistra» del neoliberismo contraddice tutta la retorica pro-market e filoimprenditoriale degli anni precedenti, ma per la Lega i giri di valzer teorici e politici non sono un problema. La leadership indiscussa di Bossi basta e avanza per farli accettare alla base (salvo qualche defezione come quella degli irriducibili veneti). L ’inevitabile esito dei continui cambiamenti di rotta è il declino. Alle elezioni europee la Lega scende ancora e plana

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al 4,5%: con questo risultato è pressoché ritornata al punto di partenza, cioè al 1990. Tuttavia, ancora una volta, attraverso un ulteriore ribaltamento strategico-politico, Bossi evita la disfatta. L ’unica ancora di salvezza della Lega non può che essere il ritorno a un’intesa con Berlusconi. In un clima arroventato dalla sconfitta elettorale Bossi utilizza le consuete risorse della leadership carismatica per gestire la situazione: drammatizzare la sconfitta e presentare le proprie dimissioni per far venire allo scoperto gli oppositori e poi farsi plebiscitare di nuovo dal congresso imponendo clamorose innovazioni. Nell’arco di poco più di un mese, prima nel consueto meeting di Pontida, poi in un congresso straordinario (24-25 luglio 1999), Bossi si muove su tre piani: riporta ordine all’interno del partito espellendo alcuni oppositori come l’imprenditore Vito Gnutti e l’ex leader della Lega piemontese Daniele Cornino; mette definitivamente la sordina alla secessione in favore della devolution; apre qualche spiraglio alla collaborazione con Forza Italia, dalla quale sono giunti segnali di disponibilità (anche se, in realtà, Bossi sta già trattando in segreto con Berlusconi, ma, come confesserà candidamente l’anno dopo, «non si poteva dire», aggiungendo poi: «mi perdoneranno i dirigenti leghisti di non aver detto subito come stavano le cose: del resto di un segretario bisogna fidarsi»). Ripreso saldamente in mano il partito, all’inizio del 2000 viene siglato un patto di unità d’azione con Forza Italia, preludio alla ricostituzione dell’alleanza di centro-destra con An e Udc. Alle elezioni regionali del 2000 la Lega recupera qualcosa in termini di suffragi rispetto alle europee dell’anno prima, ma il vero benefit della sua alleanza con gli altri partiti di centro-destra sta nell’accesso alle stanze dei bottoni nelle regioni del Nord. Questo rientro nella politica non attenua i toni radicali ed estremisti del discorso leghista. Al contrario. La Lega cavalca in maniera sempre più disinvolta i temi cari al populismo di estrema destra spingendo sull’ostilità anti-immigrati, sulla do­ manda di sicurezza, sull’antipolitica più demagogica. In questo fuoco di fila non vengono risparmiate né la chiesa, troppo accondiscendente nei confronti degli immigrati, né l’Unione Europea, centro di potere invasivo e tecnocratico, sottratto a ogni controllo popolare. Tuttavia, la bussola della Lega non si ferma su queste stelle polari. Complice l’i l settembre, il partito mette la sordina alla polemica anticlericale e sposa

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invece la visione neoconservatrice della chiesa, baluardo della civiltà cristiana contro l’invasione islamica, e degli Stati Uniti difensori dei valori occidentali. (La Serbia è abbandonata...). Alle elezioni del 2001 la Lega paga il suo ritorno all’ovile nella Casa delle libertà e la rinuncia alla secessione. Il partito scende sotto la soglia del 4% , e solo grazie alla presenza dei suoi candidati in molti collegi sicuri mantiene una buona rap­ presentanza parlamentare. Il suo elettorato si è però disperso. Di coloro che avevano votato per il Carroccio nel 1996, soltanto il 60% ha optato per la Casa delle libertà, mentre il 25% è passato all’Ulivo. E di quel 60% rimasto nel centro-destra quasi la metà ha lasciato Bossi per Berlusconi. Il Carroccio si è ulteriormente rintanato nei comuni pedemontani, riducendo a poca cosa la sua presenza in pianura e nelle grandi città. Solo a Bergamo supera il 20% dei voti, mentre il 10% è sorpassato in appena 7 province. Negli anni della XIV legislatura, contrariamente all’espe­ rienza del primo governo Berlusconi, Bossi si rivela l’alleato più affidabile. Le cene del lunedì nella villa del Cavaliere ad Arcore diventano la vera situation room per definire le iniziative politiche. Il gioco di squadra tra i due leader è ben orchestrato. Bossi lancia provocazioni che Berlusconi, a se­ conda dell’effetto che hanno avuto, smentisce, ridimensiona, articola o rilancia. Grazie a questa copertura il leader leghista può lasciarsi andare a qualsiasi intemperanza, inconcepibili in realtà per un ministro in carica di una democrazia occidentale: clamoroso l’invito ad accogliere «a cannonate» gli immigrati che sbarcano sulle coste italiane. Non meno irrituali e provo­ catori sono i suoi ministri. Roberto Castelli, al dicastero della Giustizia, interviene ripetutamente a sostegno di Berlusconi dedicandosi a delegittimare il lavoro della magistratura, a bloc­ care le richieste di rogatorie internazionali, a inviare ispettori nelle sedi dove si indaga contro il Cavaliere e i suoi partner, a boicottare l’attività del coordinamento giudiziario a livello comunitario (l’Eurojust). Roberto Calderoli, sostituto di Bos­ si alle Riforme istituzionali, autore di una serie di interventi improvvidi, l’ultimo dei quali - la pubblica esibizione di una t-shirt con la vignetta su Maometto che aveva suscitato forti proteste nel mondo islamico - lo costringerà alle dimissioni. Diverso, invece, è lo stile, misurato e pragmatico, adottato dal ministro del Welfare, Roberto Maroni. Pur contrapponendosi

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duramente al centro-sinistra, soprattutto nei momenti acuti dello scontro sull’art. 18, e durante la discussione sulla riforma dell’età pensionabile, Maroni non indulge nello stile populistico e gladiatorio dei suoi colleghi. La Lega deve comunque affrontare un tornante drammatico nel marzo del 2004, quando Umberto Bossi viene colpito da un grave malore e rimane per più di un anno in riabilitazione. Come sempre accade nei partiti personali con tratti carisma­ tici, la perdita del capo è un evento traumatico. Benché le condizioni di Bossi permangano estremamente critiche per tutto l’anno - un breve, affaticatissimo e quasi incomprensibile messaggio radiofonico trasmesso da Radio Padania sancisce coram populo le cattive condizioni di salute del leader —non si procede ad alcuna sostituzione. Anzi, la presa sul partito aumenta e assume un carattere familista visti il ruolo che im­ provvisamente assume la moglie del leader, l’unica a gestire comunicazioni e incontri, e la curiosa designazione, nella prima apparizione pubblica del leader, dei suoi giovanissimi figli alla successione. Nonostante l’eclisse forzata di Bossi, le elezioni europee del 2004 e le regionali del 2005 non fanno precipitare ulteriormente i consensi, anzi con il 5 e il 5,5% rispettivamente, ne recupera qualcuno. Tuttavia, l’assenza del leader provoca una perdita di peso negli equilibri interni alla Casa delle libertà. A questo oggettivo indebolimento la Lega risponde rafforzando ancora di più il repertorio populista e candidandosi a rappresentare l’ala più estrema non solo del governo bensì di tutto il sistema partitico italiano. Lo slittamento verso destra è comunque in linea con gli orientamenti del suo elettorato che assume posizioni assai radicali su una serie di tematiche. Sulla pena di morte, sui diritti degli omosessuali e sull’ostilità anti-immigrati i leghisti hanno posizioni ben più estreme rispetto agli elettori di FI e della stessa An. Questo quadro si completa con una nuova tematica incen­ trata sulla religione. Abbandonato il folclorico neopaganesimo dei primi tempi, la Lega si connota sempre più come difensore roccioso dell’identità cristiana. Già nei primi anni Duemila aveva richiesto che fossero esplicitati nel progetto di Costitu­ zione europea il riferimento alle radici cristiane dell’Europa. Però questo approccio «strumentale» del ruolo della religione porta il partito a opporsi alle posizioni della chiesa, giudicata

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troppo condiscendente verso i migranti, e a stringere legami con le componenti cattoliche scismatiche ispirate dal vescovo Marcel Lefebvre, scomunicato da papa Giovanni Paolo IL La virulenza della polemica anti-islamica ha portato tuttavia ad azioni controproducenti come l’esibizione della maglietta antiMaometto del ministro Calderoli, provocazione che, come si è detto, costa al ministro le dimissioni. Grazie a questa radicalizzazione il partito riesce a mantenere intatto il suo «mondo a parte», sempre più chiuso, introverso e settario. L ’accesso al governo non scalfisce questo assetto, anzi, ne favorisce il congelamento attraverso l’uso continuo di un doppio linguaggio e di un doppio standard: aggressivo e antisistemico per mobilitare la base e per mantenere alta la tensione e la polemica con gli avversari, e tranquillo e conci­ liante con l’alleato forzista. Le elezioni del 2006 (4,6%: +0,7) consentono al partito di superare la soglia fatidica del 4% ed entrare in parlamento grazie alle proprie forze. In queste elezioni la «subcultura verde» si dimostra saldamente radicata. Le province subalpine sono diventate un bastione leghista inattaccabile, disposto a seguire il Carroccio sempre e comunque, indipendentemente da qualunque mutamento di rotta indicato dalla leadership. Tuttavia, se è vero che il partito resiste, è altrettanto vero che ha perso centralità politica. Il progetto di riforma costitu­ zionale, al quale la Lega aveva collaborato attivamente e che prevedeva una sorta di devolution, era la carta più importante di cui disponeva il partito per caratterizzarsi di fronte all’elet­ torato. Ma il referendum costituzionale indetto nel giugno del 2006 boccia senza appello la proposta (61,3% di No contro 38,7% di Sì). Passaggio all’opposizione e sconfitta della devolution impongono alla Lega di ripensare la sua strategia. Riaffiora il dilemma di sempre: isolarsi e invocare la secessione o scen­ dere nell’arena e trattare con il governo di centro-sinistra per ottenere qualche passo verso la devolution. In più il partito si sente ormai stretto tra un fratello maggiore (FI) che certo 10 sostiene politicamente ma continua a drenargli voti o co­ munque a impedire la sua espansione, e due altri alleati (An e Udc) con i quali i rapporti si deteriorano sempre più per 11 loro atteggiamento, stigmatizzato dai leghisti come troppo istituzionale.

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La radicalizzazione del conflitto politico successiva al voto del 2006 e le difficoltà del governo Prodi offrono comunque, nel medio periodo, l’opportunità di una ripresa. L ’insoddisfazione per la pressione fiscale e il montare della questione immigra­ zione portano alla Lega buoni risultati nelle amministrative parziali del periodo. L ’organizzazione del partito si rafforza e la presa sulle amministrazioni locali aumenta. Infine, il ritorno di Bossi dopo la malattia galvanizza i militanti. Le elezioni del 2008 segnano il ritorno della Lega ai fasti elettorali e politici di un tempo. Anche se al suo fianco è nato un alleato di grandi dimensioni come il Pdl, la Lega non ne è schiacciata: anzi, raccoglie proprio un elettorato radicale di provenienza An scontento dell’accordo con i berlusconiani. L ’8,3% ottenuto dal Carroccio è raggiunto grazie a questi nuovi apporti. Ne è testimonianza la riduzione della frattura urbanorurale che da sempre connotava il voto leghista. Superando il 20% dei consensi nelle sue storiche roccaforti del Veneto e della Lombardia si posiziona di nuovo come perno del centro-destra. L ’intesa con Berlusconi è molto salda e consente al partito di influenzare le politiche governative molto di più del peso elet­ torale del Carroccio. Non sono tanto i tre ministri al governo con Bossi in testa a fare la differenza rispetto ai passati governi della legislatura 2001-2006: è la presenza di una pattuglia di parlamentari più consistente, sperimentata (sono tutti dirigenti leghisti di medio-lungo corso) e, soprattutto, fedele. Per una volta Bossi non dovrà procedere alle periodiche epurazioni a cui sottoponeva parlamentari e dirigenti di partito riottosi o scomodi. Inoltre, la Lega, con l’avallo implicito o esplicito di Berlusconi, cavalca con rinnovata irruenza temi che irritano i moderati della maggioranza: un federalismo non solidale, la riduzione dei benefit per il Mezzogiorno, un antieuropeismo a 360 gradi, norme sempre più restrittive nei confronti degli immigrati, leggi più severe contro i reati comuni fino a un lassez faire sull’uso delle armi per difesa personale. Al di là dello stile nonché dell’esasperazione dei toni, la Lega tocca corde sensibili nell’opinione pubblica. L ’impennata dei reati, incontestabile dopo l’indulto del 2007, e la crescente ansietà sociale di fronte al montare dell’immigrazione, alimen­ tano impetuosamente una domanda di sicurezza. La Lega, vero e proprio imprenditore della paura, capitalizza il proprio consenso molto più dalla coppia immigrazione-sicurezza che

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dagli altri temi. Ad esempio, gli elettori leghisti sono i piu sensibili al problema della criminalità (il 25,1%, contro una media nazionale del 13,9%, lo ritiene il problema prioritario); esprimono un’ostilità verso gli immigrati di quasi 20 punti superiore a quella dell’elettorato nel suo complesso (67,5% contro 49,3%); vogliono rendere più difficile l’aborto (43,8% contro 31,4%); e limitare i diritti per le coppie non sposate solo agli eterosessuali (55,5% contro 45,8%). Per quanto la retorica sul Nord e sul federalismo, ivi coni presa tutta la simbologia connessa (l’uso ossessivo del verde diventerà un boomerang di lì a qualche anno con il famoso caso delle «mutande verdi» acquistate con soldi pubblici dal presidente della regione Piemonte Cota), costituiscano il Leitmotiv della propaganda leghista, non sono più quelli i motori dell’adesione al partito. E l’enfasi sul binomio sicurezzaimmigrazione che consente alla Lega di arrivare alle elezioni europee del 2009 al suo massimo storico con il 10,2% dei voti. Non solo aumenta in tutto il Nord, con il Veneto che diventa di gran lunga la regione più forte con il 28,4% dei voti, ma, soprattutto, penetra nella Zona rossa, dall’Emilia-Romagna fino aH’Umbria. La Lega erode qualche consenso al Pdl ma punta al bersaglio grosso: a scalzare l’egemonia della sinistra dalle sue zone tradizionali di insediamento. In effetti, segni di cedimento sono percepibili, in particolare nelle zone periferiche dell’Emilia-Romagna (Piacenza e la riviera romagnola) e nei comuni della montagna. Il messaggio securitario attrae quelle componenti popolari che in una situazione di incertezza sono sensibili a messaggi forti e tranchant. Per tutta la prima parte della legislatura la Lega vive un momento felice. Grazie anche al gioco di squadra con il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, molto vicino alle richieste leghiste, il partito esercita un’influenza sul governo sproporzionata al suo peso. Inoltre, Berlusconi utilizza l’alleato come contraltare alle tendenze più moderate del suo partito espresse nel gruppo raccolto intorno a Gianfranco Fini. Il punto più alto della parabola leghista viene toccato alle elezioni regionali del 2010. Nelle 13 regioni a statuto ordi­ nario in cui si era votato la Lega raggiunge il 12,3%, i.1 che significa oltre il 25% nelle regioni del Nord, con una punta del 35,2 % in Veneto, vera regione faro del leghismo degli anni Duemila. Il Carroccio diventa così un partito dominante

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nelle regioni settentrionali. Sono suoi esponenti 261 sindaci e 6 presidenti di provincia; soprattutto, la bandiera del Car­ roccio sventola per la prima volta su due regioni, Piemonte e Veneto (particolare il caso del Friuli, dove il governo di vari esponenti leghisti dal 1993 al 1998 era stato tempestoso e si era concluso con quello di Luigi Ceccotti, sostenuto però an­ che dai partiti di sinistra). Grazie a questa espansione la Lega entra stabilmente nei gangli del potere economico a livello sia locale sia nazionale nominando propri esponenti (e famigli) nelle società partecipate, negli enti pubblici, nelle banche e dovunque si possa esercitare un’influenza politico-partitica. E la società civile del Nord ben si acconcia al nuove potere verde-padano. Il Carroccio dismette gli elmi con le corna delle adunate di Pontida per indossare le grisaglie d’ordinanza dei consigli di amministrazione, con cravatta verde, ovviamente. L ’implementazione delle politiche di federalismo fiscale, le iniziative di lobbying a favore degli agricoltori (in partico­ lare per aumentare le quote latte) presso l’Unione Europea del ministro dell’Agricoltura Luca Zaia, l’enfatizzazione di ogni malefatta anche di scarso peso compiuta da immigrati e l’accentuazione di posizioni euroscettiche («l’euro di Prodi» è la causa di tutto...) in una società che comincia a percepire la portata della crisi e quindi ricerca qualche responsabile im­ mediatamente individuabile sono i punti di forza della politica e della polemica leghista. I leghisti sono talmente convinti di avere il vento in pop­ pa che pungolano di continuo il governo Berlusconi su vari fronti. E in questo sono in sintonia con il loro elettorato, che accusa il governo di fare troppo poco per contrastare l’immigrazione (73%) e di essere intervenuto in Libia (65%); di conseguenza, il 42% vorrebbe aprire una crisi di governo. Ma il partito non prende nessuna iniziativa conseguente. E quindi, i risultati delle elezioni amministrative, con Milano e Torino sopra ogni altra (ma anche in altre città controllate fino ad allora dalla Lega), interrompono - e invertono - la marcia trionfale del partito. Il regresso è, in media, del 16%, ed è particolarmente accentuato nelle grandi città come, appunto, Milano e Torino (-20% ) e nelle zone di recente espansione come in Emilia-Romagna. Il partito continua ad attrarre iscritti che raggiungono i 182 mila, articolati in 1.441 sezioni, con­ fermando la tendenza in crescita degli ultimi anni; allo stesso

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tempo, però, crescono anche le proteste per una perdita dello spirito originario e per un’eccessiva subordinazione al Pdl e a Berlusconi: lo stesso Bossi è, per la prima volta, contestato a Pontida, dove si vedono cartelli inneggianti a Maroni (au­ todefinitosi «barbaro sognante») considerato dalla base come un’alternativa al vecchio leader. In realtà, seguendo la sua tradizione leninista, la Lega usa le maniere forti di fronte a tutte le manifestazioni di dissenso interno: oltre alle consuete minacce di espulsioni, il blog dei giovani padani viene chiuso, e viene messo il silenziatore ai fili diretti di Radio Padania, a causa di un tracimare di critiche alla dirigenza del partito. Addirittura viene minacciato di espulsione lo stesso Maroni e ammesso a parlare alla manifestazione contro il nuovo governo Monti nel gennaio del 2012 solo per le insistenze della base e di molti dirigenti. Lo stato di tensione interno alla Lega si riflette sulla vita del governo. Negli ultimi mesi del 2011 i vari tentativi di fronteggiare l’ondata speculativa e i richiami delle istituzioni europee rivolti a contenere l’impennarsi del debito pubblico sono ostacolati anche dall’ostinato rifiuto di Bossi a ogni intervento sulle pensioni, preoccupato di dimostrarsi troppo cedevole di fronte a Berlusconi e alle ingiunzioni dell’UE. Coerentemente con il suo accentuato antieuropeismo la Lega rifiuta di appoggiare il governo Monti e va di nuovo all’opposizione rompendo dopo molti anni di collaborazione l’alleanza con il Pdl. L ’atteggiamento più barricadiero non basta a evitare il deflagrare di una crisi devastante che investe in pieno il ver­ tice del partito. Viene infatti alla luce una malversazione dai contorni quasi farseschi dei fondi del partito. Si scoprono bonifici effettuati in Tanzania e a Cipro per l’acquisto di titoli e diamanti (sic!) del valore di quasi 5 milioni di euro, oltre a sospetti di intermediazioni attraverso la ’ndrangheta. In ag­ giunta, lo stesso Bossi è investito dalle accuse di aver utilizzato fondi del partito per ristrutturare la propria casa e per altre (ingenti) spese personali, tra cui l’acquisto a suon di euro di una farlocca laurea albanese per il figlio Renzo (consigliere regionale e più volte indicato come delfino del leader). In conseguenza di questo turbinio di accuse, al Consiglio federale del 5 aprile 2012 Bossi rassegna le dimissioni. E la chiu­ sura di un’epoca, perché questa volta, diversamente dal passato,

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quando erano state presentate strumentalmente, le dimissioni sono pienamente accettate. Il pessimo risultato delle elezioni amministrative del maggio del 2012 evidenzia il precipitare della crisi. La Lega non solo perde al primo turno Monza, sede dei cosiddetti «ministeri del Nord», ma viene sconfitta in tutti i ballottaggi e riesce a eleggere solo 16 sindaci sui 36 che aveva; nei 99 comuni sopra i 15 mila abitanti perde i due terzi dei voti nel Nord-Est e i tre quarti nel Nord-Ovest. Praticamente scompare nella Zona rossa. Gli scandali hanno prodotto una’emorragia di consensi e di iscritti, scesi a 56.074. Questi risultati accelerano il processo di rinnovamento guidato da Maroni. In vista del congresso federale, nelle due regioni forti del partito, Lombardia e Veneto, vengono eletti giovani segretari vicini a Maroni, Matteo Salvini e Flavio Tosi (l’unico sindaco eletto in una grande città, Verona), che scon­ figgono nettamente i candidati bossiani. E al congresso Maroni trionfa con 600 voti su 630. A Bossi, che alla fine aveva dato il suo imprimatur, viene lasciata la consolazione della nomina di presidente a vita, anche se con poteri molto più ridotti rispetto a quelli di cui tale carica godeva nel passato. Questo cambio alla testa del partito non ne ha modificato il profilo. Il passaggio del testimone, per quanto traumatico, non ha portato alla guida del Carroccio persone nuove con idee e progetti diversi. Si è trattato piuttosto di un regicidio per eliminare il vecchio leader ormai inadeguato a gestire il potere (anche a causa del cosiddetto «cerchio magico» che lo circondava come una corte fin dalla sua malattia). Rimangono intatte le domande di autonomia del Nord, l’ostilità verso gli immigrati, l’opposizione all’Unione Europea. Si attenuano le manifestazioni più folkloristiche ed emerge un tratto più pragmatico (esemplificato dal meeting degli «Stati generali del Nord» a Torino dove vengono invitati imprenditori, sindacalisti ed esponenti del governo Monti). Le elezioni anticipate della regione Lombardia nel gennaio 2013 offrono un’opportunità insperata per risollevare le sorti della Lega. Le dimissioni del presidente Roberto Formigoni, colpito da una serie di rinvìi a giudizio, e la crisi profonda del Pdl lasciano via libera alla candidatura di Maroni che, grazie anche alla debolezza del candidato del centro-sinistra, riesce a conquistare il Pirellone (con il 42,8% dei voti).

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Una boccata d’ossigeno per una Lega in caduta verticale di consensi, i cui iscritti, dopo essersi ridotti a 56.074 nel 2012, precipitano poi a meno di 20 mila a fine anno. Un drastico ridimensionamento. Le elezioni politiche del 2013 certificano lo stato comatoso del partito. L ’opposizione solitaria al governo Monti non ba­ sta a mantenere un certo grado di consenso perché è nato nel frattempo un temibile concorrente quanto a retorica populista e antiestablishment, il Movimento 5 stelle. La Lega dimezza i suoi voti passando dall’8,3% del 2008 al 4,1%, e se il confronto fosse con le elezioni europee del 2009 o le regionali del 2010 il calo sarebbe ancora più vertiginoso. Il tracollo più vistoso si ha nel Veneto dove, complice anche il conflitto che oppone il nuovo segretario regionale Tosi con il presidente della regione Zaia, la Lega arriva appena al 10,5% (rispetto al 27,6% delle politiche e al 35,2% delle regionali); ma anche in Emilia-Romagna la ritirata è impressionante, in quanto il Carroccio passa dal 13,6% ad appena il 2,6%. Sono rimasti fedeli al partito lavoratori auto­ nomi e imprenditori, oltre a una quota rilevante di operai: ma non più nelle dimensioni di un tempo. Il vento dell’antipolitica che soffia impetuoso come negli anni di Tangentopoli (e forse ancora di più) questa volta non premia il Carroccio perché sui temi dell’antipolitica i grillini sono considerati più credibili dei leghisti. Alla Lega rimane il primato dell’opposizione agli im­ migrati: a fronte di un 33 % dell’elettorato che esprime fiducia negli immigrati, solo il 18% dei leghisti esprime uno stesso atteggiamento. A questo tratto dal sapore xenofobo se ne associa uno di tenore diverso, che riguarda la giustizia sociale: i leghisti sono i più tiepidi nel volere una politica di riduzione delle dif­ ferenze di reddito (14% contro 45%); persino i berlusconiani mostrano più afflato sociale. La Lega non trae particolare vantaggio dalla sua oppo­ sizione al governo Letta di grande coalizione perché resta schiacciata dall’offensiva antigovernativa e tendenzialmente antisistemica dei pentastellati. Per uscire dall’angolo non ri­ mane che enfatizzare e radicalizzare il proprio tema portante, l’anti-immigrazione. Su questo terreno la Lega non ha rivali: è riconosciuta da tutti come il partito più ostile all’afflusso di nuovi migranti. Questa è la linea che sarà adottata con grande decisione dal nuovo segretario della Lega, Matteo Salvini, eletto alla fine

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del 2013. Roberto Maroni, diventato presidente della giunta regionale della Lombardia nel gennaio di quell’anno, dopo molte incertezze e dopo molti mesi si dimette e, per la prima volta, anche la Lega affida la scelta del nuovo segretario al voto dei suoi sostenitori. In realtà, diversamente dalle primarie del Pd la platea dei votanti è molto più sorvegliata perché possono votare solo coloro che sono iscritti da più di un anno con la qualifica di «soci ordinari militanti». I candidati che riescono a raccogliere le mille firme necessarie per presentarsi sono due: il giovane segretario della Lega lombarda Matteo Salvini (40 anni) e l’anziano leader Umberto Bossi, che non rinuncia a combattere un’ulteriore, finale battaglia, il cui esito, tuttavia, è assai mesto: dei 10.221 votanti (il 60% di 17.474 iscritti aventi diritto) solo il 18% vota per lui. Il passaggio di consegne produce una progressiva, netta, ricalibratura della strategia della Lega, articolata su tre fronti. Il primo si concretizza in una rinvigorita e martellante polemica sul pericolo immigrazione. Salvini interviene costantemente e grintosamente su qualunque episodio critico riguardi la pre­ senza di stranieri, dagli sbarchi al terrorismo islamico, dalla costruzione di moschee alle troppe sinecure offerte ai migranti. Ogni argomento è valido purché instilli nell’opinione pubblica il timore dell’«invasione». Tutti gli attentati compiuti (altrove) dall’Isis diventano minacce incombenti sulla vita degli italiani. Il clima internazionale e l’ondata di sbarchi sulle coste italiane forniscono alimento al messaggio leghista. Il secondo fronte investe in pieno un connotato tradizio­ nale della Lega, la questione settentrionale. Mentre in merito all’immigrazione non si tratta altro che di una enfatizzazione di tematiche già patrimonio del partito, su secessione.-devolutionfederalismo Salvini cambia radicalmente registro. Il Nord si opacizza nel discorso del segretario. A parte qualche omaggio alla tradizione, il nuovo slogan della Lega non risuona più «prima il Nord», bensì «prima gli italiani», dal Friuli alla Sicilia. La Lega appanna il riferimento padano per diventare una Lega nazionale. E la sigla Noi con Salvini - al posto dell’ufficiale Lega Nord - è lo strumento inizialmente adottato per scendere al Sud. Questi due cambi di marcia sono stati rinforzati dal terzo nuovo asse introdotto da Salvini, la fine della sudditanza rispetto all’alleato storico Berlusconi. Anche Bossi aveva polemizzato

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duramente con il capo di Forza Italia nel passato, ma non ne aveva mai messo in discussione la leadership. L ’espulsione di Berlusconi dal parlamento e la scissione del Pdl nell’autunno del 2013 hanno invece indebolito a tal punto il Cavaliere da consentire alla Lega di contestare apertamente la primazia forzista sul centro-destra. L ’aggressività della nuova dirigenza del Carroccio è pre­ miata dalle urne. Al primo test nazionale, le elezioni europee del giugno del 2014, appena un anno dopo la débàcle delle politiche, la Lega arresta la caduta e recupera qualche consen­ so, ottenendo il 6,2%. E l’inizio della ripresa. Alle regionali anticipate dell’Emilia-Romagna, pur in contesto di eccezionale, bassissima, partecipazione (appena il 37,7%) il Carroccio, gra­ zie al traino del suo candidato a capo della coalizione, ottiene il 19,4% (contro l’8,4% di Forza Italia). Comunque il vero salto di dimensione avviene alle regionali del 2015. La Lega recupera voti in tutte le regioni, riconferma il suo presidente in Veneto, e impone a un riottoso Berlusconi un’alleanza sulla base del modello adottato nelle comunali di Milano. E se nel capoluogo lombardo la vittoria sfuma per un soffio, in Liguria - grazie alle divisioni del Pd, in realtà - si afferma una lista unitaria di centro-destra. Infine, per la prima volta la Lega supera Forza Italia, complice la concentrazione di consultazioni nel Nord: 13,9% a 10,5%. La coalizione, ormai, è a trazione leghista. Una plastica espressione di questo passaggio del te­ stimone si inscena a Bologna nel novembre del 2015. A una manifestazione indetta dalla Lega e da Fdl, e che inizialmente il Cavaliere aveva snobbato, alla fine, di fronte alla decisione dei due giovani leader di procedere a una consultazione per la scelta della guida della coalizione e all’adesione di esponenti forzisti come il presidente della Liguria Giovanni Toti, arriva anche Berlusconi a fare buon viso a cattivo gioco. I sondaggi e i vari risultati alle elezioni locali degli anni suc­ cessivi confermano l’ascesa del partito di Salvini. Le difficoltà anche personali di Berlusconi e la perdurante, limitata, presa di Giorgia Meloni - affondata nella corsa per il Campidoglio (giugno 2016) dal mancato appoggio di Forza Italia - lasciano campo libero al leader leghista. Le uniche difficoltà, in questa fase, sono interne, per via dei «mugugni» che si sollevano nei confronti di una svolta troppo «italiana» a scapito degli inte­ ressi padani e settentrionali, scelta confermata dal lancio della

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lista Noi con Salvini utilizzata proprio per raccogliere consensi nelle regioni meridionali. Tuttavia, il dominio del segretario sul partito è attestato dalle elezioni per la segreteria che si tengono nel maggio del 2017: il segretario è riconfermato con l’82,7% degli 8.024 votanti (il 56,6% degli aventi diritto). La Lega è ormai identificata in maniera quasi esclusiva con il suo leader, ancora più fortemente rispetto al periodo di Bossi. Allora vi era una classe dirigente che attorniava il capo e che lo aveva affiancato fin dai tempi eroici degli esordi. Ora questa classe politica o, meglio, quella che sopravvive, rimane nell’ombra. Solo i due presidenti di Lombardia (Maroni) e Veneto (Zaia) hanno una loro visibilità, ma questa è spesa unicamente a livello locale e non emergono contrapposizioni con il segretario, se non per qualche distinguo da parte di Maroni preoccupato di mantenere unita la maggioranza di cui fanno parte integrante gli eletti di Forza Italia. Nemmeno la relazione sempre più stretta con le formazioni populiste dell’estrema destra europea, in particolare con il Front National di Marine Le Pen, e l’immagine più radicale ed estremista suscitano particolari dissapori o perdite di consenso. In realtà, nell’elettorato della Lega ha sempre battuto un cuore di destra autoritaria-xenofoba che segue ben volentieri il ritmo «ruspante» di Salvini. Più delle fantasie celtiche, dei riti del dio Po e di altre invenzioni di una tradizione che non ha mai attecchito nell’opinione pubblica padana - benché abbia deli­ ziato stuoli di commentatori e fotografi sul prato di Pontida - il nocciolo duro del leghismo, anche prima dell’arrivo di Salvini, si trova in un impasto di welfare chauvinism (no ai trasferimenti di risorse allo stato centrale) e di chiusura identitaria contro immigrati e poteri sovranazionali. L ’euroscetticismo leghista arriva al punto di trasformarsi spesso in vera e propria eurofobia. Salvini, comunque, non ha fatto altro che enfatizzare al massimo livello questi sentimenti. In linea con quanto faceva Bossi, anche il giovane segretario si presenta con un eloquio molto diretto e assai poco riverente e, affrontando gli avversari di petto, coltiva un’immagine ruvida e decisa, non apprezzata dalla classe dirigente e un po’ indigesta anche a una parte di Forza Italia, ma acclamata dal suo elettorato. Lo sbarco al Sud prefigurato da Salvini non è però subito coronato da successo. Alcuni risultati importanti sono stati ottenuti nel 2015, dove alle regionali in Toscana e nelle Mar­

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che i candidati leghisti ottengono circa un un quinto dei voti, e alle elezioni comunali di Bologna, dove il sindaco uscente del Pd è costretto al ballottaggio della candidata leghista che nel secondo turno ottiene il 45,4% dei voti. Però, per quanto lusinghieri, questi risultati non si ripetono più a sud. La Lega si arresta lì, non penetra a Roma e nel Mezzogiorno. La lista Noi con Salvini, veicolo per impiantare il partito nelle regioni meridionali, non scende sotto la Zona rossa. I longobardi non ritrovano i loro feudi sotto il Garigliano. Devono attendere le elezioni politiche del 2018 per sfondare. La Lega che si presenta alle elezioni del 4 marzo 2018 è ormai molto diversa da quella di Bossi. Il cambiamento che ap­ pare immediatamente in tutta la sua evidenza - e significato - è nel simbolo: scompare il termine «N ord» e rimane solo «Lega». Un cambio di identità clamoroso, avvenuto tutto sommato in souplesse. Non c’è più uno specifico settentrionale a connotare il partito. La sua ragion d’essere, quella di rappresentare gli interessi - e i malesseri - del Nord scompaiono. Ovviamente non mancano i richiami alla causa del federalismo fiscale ri­ lanciato dal successo dei referendum regionali in Lombardia e soprattutto in Veneto che chiedevano più autonomia per le regioni. Una vittoria che tuttavia Salvini evita di enfatizzare perché in contrasto con la sua strategia di diffusione del partito sul territorio nazionale. Lo slogan che risuona infatti in que­ sta fase, ricalcato sulla falsariga degli altri partiti populisti di estrema destra, Front National francese in testa, è «prima gli italiani». Il Nord, la Padania rimangono nel retrobottega delle cose desuete. La Lega si proietta sul territorio nazionale perché i temi che agita non sono più specifici di un’area - tenere i soldi che vanno a Roma ladrona - ma investono tutti: dall’immigra­ zione clandestina extracomunitaria alla sicurezza, dal sistema pensionistico introdotto dalla legge Fornero al recupero della sovranità nazionale svenduta agli eurocrati di Bruxelles. Tutte tematiche che fanno della Lega il rappresentante italiano del populismo euroscettico che attraversa l’Europa, che poco ha a che fare con i partiti indipendentisti/regionalisti (e infatti la Lega rimane molto tiepida di fronte alla questione catalana esplosa alla fine del 2017). La distanza della Lega da tutti gli altri partiti e la sua collocazione al polo estremo di destra sono confermate da una serie di dati. Il primo vede l’85% dei sostenitori del

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partito collocarlo a destra; il secondo rileva una distanza abissale tra i leghisti e gli altri elettori sui temi etici: il 62% di chi vota Lega si oppone al matrimonio gay, contro una media nazionale del 34% , e ancor maggiore è il divario sulla «difesa della famiglia tradizionale» (64% contro 21%); il terzo evidenzia la posizione più restrittiva di tutti sugli immigrati e l’opposizione più ferma all’Unione Europea e all’euro. Il ritratto è quello di partito sempre più radicalizzato a destra. Tuttavia, questo non turba in alcun modo la classe dirigente leghista di ascendenza bossiana: semmai inquieta l’abbandono della indipendenza-secessionz-devolution della Padania (ter­ mine che scompare del tutto dal lessico leghista) in cambio di una discesa al Sud. Questo cambio di linea aspetta la conferma delle urne alle elezioni del 2018. L ’improvvisa rinuncia di Maroni a ripresen­ tarsi come candidato presidente alle regionali lombarde e le reciproche dichiarazioni velenose tra l’ex presidente lombardo e il segretario fanno presagire l’irrompere di una viva conflit­ tualità interna in caso di insuccesso elettorale. Ma il risultato del 4 marzo tacita ogni possibile critica. La Lega trionfa con il 17,3%: supera per la prima volta Forza Italia e diventa il partito pivot della coalizione di centro-destra. Bastano poche cifre a definire la dimensione del successo: nel 39% dei comuni italiani la Lega è al primo posto, e lo è nel 94% dei comuni veneti, nell’88% di quelli lombardi, nel 73% di quelli friulani e nel 65 % di quelli piemontesi. Soprattutto, la Lega è scesa al Sud. Nel passato, con la parziale eccezione del 1996, la Lega raccoglieva più del 90% dei suoi voti al Nord: adesso è scesa al 62%. Anche al Centro-Sud ottiene risultati a due cifre in alcune città. Il duplice obiettivo di Salvini è stato raggiunto: diventare un partito nazionale e conquistare il primato nella coalizione di centro-destra. La sua leadership diventa asso­ luta. Dopo il dominio bossiano ora la Lega ha trovato un altro «capo» (anzi, un «capitano», come viene vezzosamente chiamato in questa fase). Nel suo itinerario quasi trentennale la Lega ha vissuto tre fasi diverse. La prima è quella nordista-autonomista, in cui la rivendicazione della rappresentanza degli interessi del Nord si coniuga con l’antimeridionalismo, l’antipolitica e l’anticentralismo. L ’obiettivo dichiarato è il federalismo ma lo slogan «Roma ladrona» identifica al meglio questi primi passi.

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La seconda fase, che inizia dopo il 1994, si connota per una virata secessionista e antisistemica, in vista dell’indipendenza della Padania. Pur ritornando al governo, nel 2001, la Lega mantiene un atteggiamento critico nei confronti dell’assetto istituzionale e radicalizza le proprie posizioni su molti temi, dall’immigrazione ai diritti civili, anche a costo di frizioni con gli alleati: è la Lega di lotta e di governo che alterna posture gladiatorie a prassi più concilianti. La terza fase si apre con la crisi verticale del partito a seguito degli scandali finanziari del 2011-12 e la conseguente rimozione del leader storico Umberto Bossi. L ’arrivo di una nuova generazione, con a capo Matteo Salvini, introduce cambiamenti profondi in quanto adotta un atteggiamento molto più conflittuale con l’alleato storico Berlusconi, si connota come esponente italiano della destra populista europea in virtù di una forte radicalizzazione e, so­ prattutto, taglia il legame identitario con il Nord per proiettarsi in una dimensione nazionale. La Lega passa dall’interpretare il «malessere del Nord» a invocare «prima gli italiani». Un mutamento strategico e identitario di grande rilievo - simbo­ leggiato anche dall’eliminazione del termine «N ord» dalla sua denominazione - che, tuttavia, viene accettato placidamente da tutto il partito grazie agli inediti successi politici raggiunti.

Capitolo decimo

FI. Il partito personale-patrimoniale

Al suo apparire, nel 1994, Forza Italia (FI) rompe con tutta la tradizione politica-organizzativa dei partiti italiani in quanto nasce per iniziativa di una sola persona, l’imprenditore delle costruzioni e dei media Silvio Berlusconi. E in seguito, nonostante alterne vicende di ogni tipo, FI rimarrà sempre dominata in tutto e per tutto dal suo fondatore. L ’imprinting di Berlusconi è tale da non poter separare la sua persona dal partito. Le fortune politiche ed elettorali saranno intimamente legate, nel bene e nel male, alle vicende personali del leader. La personalizzazione della politica trascende così la dimensio­ ne dei piccoli gruppi - si pensi al Partito radicale di Marco Pannella - per investire una formazione politica di dimensioni maggiori; e, soprattutto, questa tendenza andrà poi a diffondersi contagiando molte altre formazioni politiche. Il partito di Berlusconi costituisce comunque un fenomeno unico anche a livello europeo per la particolare disponibilità di risorse cruciali che egli ha potuto dispiegare: ciò non riguarda tanto l’aspetto finanziario, importante ma non unico, bensì il controllo di quasi il 50% del mercato televisivo, affiancato da una rete di giornali e periodici, e la possibile attivazione di strutture associative (i Milan club) e, soprattutto, della rete di promotori finanziari di una società del gruppo (Publitalia) diffuse sul territorio nazionale. A queste risorse organizzative, fondamentali nella fase della creazione del partito, vanno af­ fiancati, per comprendere il successo, un messaggio che tocca nervi scoperti nell’opinione pubblica, e un leader di indubbie qualità, prima solo comunicative poi anche politiche a tutto tondo. Il primo affacciarsi pubblico del «Cavaliere» - termine con il quale sarà spesso identificato - avviene in concomitanza con le elezioni amministrative per il comune di Roma, nel dicembre

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del 1993, dove sono in lizza il leader del partito neofascista, il missino Gianfranco Fini, e l’esponente dei Verdi, l’ex radicale Francesco Rutelli. Sorprendendo - e in parte scandalizzando tutto l’establishment, economico e politico, Berlusconi dichiara pubblicamente che, se fosse stato un cittadino romano, avrebbe senza dubbio votato per Fini. E un gesto di rottura contro una prassi di marginalizzazione del Movimento sociale che, benché saltuariamente sostenuto, anche finanziariamente, da alcuni industriali, mai era stato sponsorizzato pubblicamente per il dogma antifascista su cui fino ad allora si reggeva il consensus repubblicano. È, in una certa misura, un gesto di rottura anche nei confronti delle precedenti simpatie politiche di Berlusconi, che non aveva mai fatto mistero della sua frequentazione e sintonia politica con il leader socialista Bettino Craxi. Proprio questo scarto politico rispetto al passato indica che il sistema partitico è entrato in una fase fluida, dove si ridefiniscono fedeltà e alleanze. L ’esternazione a favore di Fini viene inter­ pretata da molti come un incidente di percorso, frutto della naìveté politica del personaggio. In realtà, costituisce il vero atto fondativo della «discesa in campo» del Cavaliere in quanto veicola un messaggio, inequivoco, al quale rimarrà fedele nel corso degli anni: sconfiggere «i comunisti». Sui lavori preparatori della nascita di Forza Italia aleggia ancora un certo mistero alimentato da informazioni discordanti fornite dagli stessi protagonisti. Quello che è certo è che nel giugno del 1993 Berlusconi e altri manager del gruppo Fininvest, più alcune persone a lui vicine, fondano un’associazione denominata «Forza Italia! Associazione per il buongoverno». Questa iniziativa passa quasi inosservata perché, in quella fase di particolare effervescenza politica, se ne contano diverse, e con diversa fortuna. Solo nel mese di dicembre, dopo l’ester­ nazione a favore di Fini e una serie di incontri con vari leader politici moderati, da Mario Segni al segretario del Ppi Mino Martinazzoli, allo scopo di convincerli a fare fronte comune contro l’Alleanza dei progressisti, il Cavaliere lancia la campa­ gna di adesione alla prima struttura organizzativa del futuro partito, i club di Forza Italia. Il primo è inaugurato dallo stesso Berlusconi, il 9 dicembre 1993, a Milano. I club sono strutture assodative locali, inizialmente promos­ se dalla rete commerciale di Publitalia (la società di raccolta della pubblicità della Fininvest), tese a raggruppare tutti coloro

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che, secondo lo statuto standard che viene fornito dalla sede nazionale, «si riconoscono nella cultura liberaldemocratica e desiderano impegnarsi per la sua diffusione e il suo sviluppo». Una volta costituito un club, esso deve venire riconosciuto dal centro promotore, l’Associazione nazionale dei club di Forza Italia (Anfi), fondata il 25 novembre 1993 e presieduta da An­ gelo Codignoni, un manager Fininvest. I club, quindi, nascono ancora prima del lancio ufficiale del partito e si configurano come una sorta di struttura militante, attivabile per le inizia­ tive politiche e, quindi, per l’imminente campagna elettorale. Il loro ruolo è limitato alla mobilitazione e alla propaganda: non hanno alcuna possibilità di influire sulle scelte politiche e sulle nomine per il semplice fatto che non c’è alcun colle­ gamento con il partito; in tutto lo statuto standard elaborato dal coordinamento nazionale dell’Anfi, infatti, non si fa mai cenno a Forza Italia che, del resto, non è ancora formalmente costituita né presentata all’esterno. Forza Italia - o, meglio, il «Movimento politico Forza Ita­ lia», secondo la dizione originale del neonato partito - nasce successivamente, il 18 gennaio 1994. Ne fanno parte, oltre al presidente Silvio Berlusconi, altri quattro soci fondatori, Luigi Caligaris, Antonio Martino, Antonio Tajani e Mario Valducci. L ’impostazione dello (scarno) statuto, 19 articoli in tutto, ricalca più quello di una società che di un’associazione politica. Poco o nulla è detto del funzionamento interno e dell’articolazione organizzativa del partito sul territorio; le uniche indicazioni precise riguardano la convocazione - entro tre anni - di un’assemblea dei soci per eleggere il Comitato di presidenza e la «possibilità» che il partito si articoli territorialmente a livello regionale, le cui strutture «afferiscono gerarchicamente al Comitato di presidenza» (art. 11). Nelle settimane successive alla costituzione di Forza Italia viene lanciata la campagna di reclutamento dei soci. L ’adesione avviene attraverso il versamento di una quota di iscrizione (elevatissima per gli standard dell’epoca: 100 mila lire equivalenti a circa 80 euro nel 2018) e il contestuale invio .alla sede centrale di una scheda con i dati dell’aspirante socio, che viene insindacabilmente valutata da un comitato nomina­ to dallo stesso Berlusconi. Questa scheda è reperibile sia sul settimanale popolare «Tv Sorrisi e Canzoni» (una testata della casa editrice di proprietà del Cavaliere), sia presso la struttura

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(parallela dei club di Forza Italia. La modalità del reclutamento è apparentemente molto aperta, essendo necessario il solo invio della quota e la compilazione di un modulo facilmente reperibile, ma in effetti è «sorvegliata», dato che l’iscrizione è subordinata all’accettazione da parte del centro. L ’architettura organizzativa di Forza Italia si regge quindi su due colonne separate e non comunicanti, i club e il movimento politico. I club hanno un successo travolgente: le domande di adesione superano rapidamente le 10 mila, e a febbraio ne vengono riconosciute 6.840; alla fine del 1994, gli iscritti sono stimati in circa 170 mila. A questa esplosione di adesioni si contrappone invece una limitatissima quota di soci (così sono chiamati) del Movimento politico Forza Italia, vale a dire il partito vero e proprio: appena 5.100. Essendo quest’ultima la struttura che in base allo statuto ufficiale di diritto privato governa il partito, è ipotizzabile che la leadership abbia ben presto bloccato gli accessi per controllare - e limitare - l’im­ patto degli iscritti sui processi decisionali interni. Coerentemente con il messaggio apolitico con venature antipolitiche con il quale Berlusconi si presenta all’opinione pubblica, esaltando il suo ruolo di imprenditore, di uomo del fare e pragmatico, estraneo ai riti dei politici di professione, l’organizzazione del partito non ha alcun peso nelle vicende iniziali di Forza Italia. Tutto si gioca sulla figura del leader e sulla comunicazione da lui veicolata. Forza Italia assume così i caratteri di partito carismatico, in quanto si identifica in tutto e per tutto nella persona del leader, unico a fornire legittimità a qualsivoglia azione; di partito verticistico, quasi di stampo leninista, perché le decisioni sono prese in assoluta autonomia dal leader e fatte poi discendere alle strutture locali e operative; di partito patrimonialista, perché le risorse sulle quali è stato fondato e lo staff che al centro come in periferia inizialmente lo gestisce sono dipendenti del gruppo societario di Berlusconi. Per certi aspetti si potrebbe sostenere che Forza Italia viene travolta dal suo successo: la tumultuosa campagna elettorale, l’imprevedibile performance alle elezioni politiche del 1994 che la porta a essere con il 21,1% il primo partito italiano, appena tre mesi dopo la sua presentazione ufficiale (avvenuta il 26 gennaio con un messaggio televisivo registrato di Berlu­ sconi, e mandato in onda dalle reti del gruppo Fininvest), e

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l’ingresso al governo rendono oggettivamente impraticabile una gestione «normale» del partito. Solo nel settembre del 1994 verrà dato incarico al coordinatore nazionale - Cesare Previti, avvocato di fiducia del Cavaliere e ministro della Difesa - il compito di ridefinire l’organizzazione. In realtà, non cambia quasi nulla. Rimane intatta, anzi, viene ancora più accentuata, la distinzione tra i club, lasciati al loro destino, e il movimento politico. Quest’ultimo mantiene una struttura minima, centellina l’accesso dei simpatizzanti, fa affidamento sugli eletti e tenta di creare una rete di responsabili di collegio. In tal modo si rafforza l’impostazione di partito elettorale, vale a dire una struttura pronta alla mobilitazione nelle competizioni elettorali ma nulla più e, soprattutto, priva di quei meccanismi di delega e rappresentanza che possono creare legami e interessi alla sopravvivenza dell’organizzazione in quanto tale. Il successo di Forza Italia alle elezioni del 1994, diventato trionfale alle successive europee di giugno quando arriva a uno straordinario 30,6%, è dovuto a due fattori: in primo luogo, la disgregazione dei partiti tradizionali di governo e in particolare della De, già evidente dai disastrosi risultati alle amministrative d’autunno, e quindi la disponibilità di un’amplissima area di elettorato moderato privo di rappresentanza; in secondo luogo, la novità intrinseca offerta da Forza Italia su più versanti, da quello comunicativo a quello del personale politico, da quello ideologico a quello organizzativo. In termini di marketing Forza Italia ha realizzato un perfetto incontro tra una domanda di rappresentanza da parte di un elettorato spaesato e in cerca di un nuovo approdo che fosse simile alla vecchia e logora De, e un’offerta smagliante, innovativa, moderna. In più, oltre alle indubbie doti comunicative del leader e alla disponibilità dei media (suoi, ma non solo), Forza Italia presenta un pro­ gramma dai tratti inediti. Per la prima volta, risuonano nel dibattito politico italiano accenti autenticamente liberal-liberisti con forti tinte neoconservatrici. E una rottura con la cultura politica dominante del solidarismo tinto di assistenzialismo, nelle sue varianti cattolica, socialista e comunista. E quanto vogliono sentirsi dire, da un interprete credibile, vasti settori della classe media, impegnata soprattutto nelle professioni, nelle attività indipendenti e nei livelli medio-alti del lavoro dipendente nel settore privato. In sintesi, gli ingredienti del successo stanno nella felice combinazione del riferimento

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liberista e della mitologia imprenditorial-efficientista, con il sentimento antipolitico e antipartitico della società civile coni n > i partiti, ambedue impastati da un tradizionalismo e da un moderatismo di antiche ascendenze. Queste visioni e quesli umori vengono rappresentati, e quasi sublimati, dalla salvifica immagine dell’imprenditore di successo, sceso in campo per il bene della nazione, ergo per impedire la vittoria delle sinistre-. Più in particolare, per conquistare l’elettorato in uscita dalla De ed evitare che rifluisca sul Ppi o sul Patto Segni, Berlusconi conduce nel 1994 una campagna elettorale in cui coniuga una fortissima contrapposizione nei confronti della sinistra con registri di comunicazione intrisi di buone maniere formali. Introducendo una dinamica di radicalizzazione del conflitto politico - rafforzata ulteriormente dalla distinzione tra «nuovo» (Berlusconi e il Polo) e «vecchio» (il Pds e i Pro gressisti) - Forza Italia toglie spazio agli schieramenti intermedi rappresentati dal Patto per l’Italia di Martinazzoli e Segni. Non solo: oltre alla centralità politica rapidamente conquistata con una tambureggiante campagna elettorale, Forza Italia si pone anche al centro della coalizione costruita per contrapporsi a quella dei Progressisti. Berlusconi riesce infatti a dar vita a una doppia alleanza, con la Lega al Nord - il Polo delle libertà e con il Msi al Sud - il Polo del buongoverno -, nella quale Forza Italia funge da trait d’union tra due forze politiche che si considerano antitetiche e che per tutta la campagna elettorale non smetteranno mai di insultarsi. Ma proprio la capacità di rendere credibile una tale coalizione attesta la forza di attra­ zione di FI, e fa risplendere le doti di mediatore del Cavaliere. Il risultato elettorale conferisce il primato a Forza Italia e catapulta il suo leader a Palazzo Chigi a capo di una coalizione Forza Italia-Lega-An; ad essa si aggiunge il Centro cristiano democratico (Ccd), fondato da Pierferdinando Casini al mo­ mento della nascita del Ppi, che non aveva presentato una lista autonoma ma aveva candidato suoi esponenti nelle liste della coalizione. Sulla carta, in base ai risultati elettorali, Polo delle libertà e Polo del buongoverno godono di una confortevole maggioranza alla Camera ma non al Senato. A risolvere il problema vengono rapidamente in soccorso alcuni transfughi dal Patto Segni più qualche senatore a vita. Nei mesi del primo governo Berlusconi Forza Italia rivela tutta la sua impreparazione a comprendere e gestire le dina­

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miche interpartitiche nell’arena parlamentare. Del resto, il 91% dei suoi deputati e senatori è di pritna nomina e coloro che hanno avuto precedenti esperienze nelle amministrazioni locali sono appena il 20%. L ’esito, inevitabile, di tale carenza di expertise, nonché della debolezza culturale di tanti, anche della leadership, è la rapida fine dell’esperienza governativa. Con la caduta del governo, provocata dallo sganciamento della Lega dalla coalizione nel dicembre del 1994, l’autoproclamata impostazione ideologica liberaldemocratica sfuma in una deriva dai toni vittimistico-populisti per cui la caduta dell’esecutivo è attribuita al «remare contro dei poteri forti». In realtà, nella sua azione, Forza Italia si era rivelata così maldestra da sollevare una reazione fortissima sia nella magistratura, alla quale si volevano tagliare le unghie con il cosiddetto «decreto salva ladri», sia nel movimento sindacale, con una proposta di riforma delle pensioni squilibrata e improvvisata. Ma se lo scontro con la sinistra e i sindacati è fisiologico per un governo di centro-destra, quello con la magistratura apre invece una linea di frattura interna, dato il sostegno spassionato che il Msi le aveva garantito nelle inchieste di Mani pulite nonché nella lotta alla mafia. La crisi di governo congela anche il progetto di rinnova­ mento organizzativo di FI. Da quel momento, il partito vive per tre anni in una dimensione extrastatutaria in cui incarichi e organi vengono fatti e disfatti al di là di ogni norma scritta, a insindacabile volontà del leader. Inoltre, il Cavaliere, non solo manifesta un sovrano disinteresse verso i problemi dell’orga­ nizzazione, ma rifiuta l’idea stessa di un partito governato con una catena di comando diversa da quella dell’impresa privata personale (a cui ha sempre fatto riferimento), cioè dall’alto verso il basso senza alcun vincolo e condizionamento. L ’indeterminatezza organizzativa, unita a un disdegno manifesto per tutto ciò che è partito, impediscono la forma­ zione di una vera classe dirigente sia a livello locale, sia a livello nazionale dove si assiste a un vorticoso andirivieni di persone che sono prima innalzate ai vertici e poi subitamen­ te accantonate in base alle cangianti valutazioni del leader. Non muta invece, nella gerarchia di Forza Italia, la presen­ za, dominante, dei più stretti collaboratori di Berlusconi di provenienza Fininvest che costituiranno, anche negli anni a venire, una sorta di superélite del partito (contribuendo così

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ad affibbiare a Forza Italia l’etichetta di partito-azienda). In sostanza, in questi anni si consolida il dominio del fondatore sul «suo» partito. Forza Italia assume quindi una fisionomia personal-carismatica. Ciò implica una capacità di controllo assoluto sui dirigenti - condizione che si realizza agevolmente visti i rapporti professionali asimmetrici tra il leader e i suoi «dipendenti» - e sui quadri locali - condizione anch’essa realizzata grazie al congelamento delle iscrizioni al partito vero e proprio e alla marginalizzazione dei club. Questi ultimi vengono infatti mantenuti a distanza, negando loro ogni ruolo nella gestione del partito; ne conseguono, inevitabilmente, disaffezione e uscite, tanto che nel 1996 le sedi (circa 3.500) e i membri (circa 87.000) sono dimezzati. Con questa «non struttura» e fidandosi solo dei media a disposizione e delle sue qualità comunicative, Berlusconi af­ fronta le elezioni regionali del 1995 e quelle politiche del 1996. Entrambe dimostrano che in una competizione elettorale di respiro nazionale le risorse comunicative riescono a sopperire a quelle organizzative in senso stretto. Mentre alle regionali il partito aumenta, seppur di poco, i consensi ottenuti l’anno precedente (22,3%: +1,3) anche in virtù dell’apparentamento con il neonato Cdu di Rocco Buttiglione, che si è avvicinato al Cavaliere rompendo con il Ppi, in competizioni locali, come alle provinciali e alle comunali FI paga il suo rifiuto di radicamento territoriale, e cala paurosamente. Alle politiche del 1996, condotte con un registro molto aggressivo culminato con il monito che se avesse vinto l’Ulivo non ci sarebbero più state elezioni libere (sic!), si mantiene al 20,6% grazie anche a una generosa copertura mediatica offerta da entrambi i network, Mediaset e Rai sia al partito (1.118 mi­ nuti a FI contro i 618 del Pds) sia al suo leader (1.399 minuti contro i 652 di Prodi). Il risultato delle urne, al di là delle percentuali, indica che FI si è affermata come una presenza stabile nel nuovo sistema partitico. Ha scongiurato il destino dei flash-parties. Inoltre, rispetto al 1994 non ci sono grandi cambiamenti nella geografia del voto: l’elettorato forzista è rimasto concentrato nelle regioni settentrionali a nord del Po, Lombardia in primis, e in Sicilia. Votano per Forza Italia in misura pressoché simile casalinghe e lavoratori autonomi (liberi professionisti, imprenditori, artigiani e commercianti), mentre impiegati, operai e studenti non ne sono attratti.

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Di fronte al nuovo contesto che la vede all’opposizione, Forza Italia adotta inizialmente un atteggiamento cooperativo, sulla falsariga di quanto aveva tentato all’inizio del 1996 quando aveva proposto un governo di transizione che affrontasse le riforme istituzionali. Infatti, subito dopo le elezioni, Berlusco­ ni rilancia l’ipotesi di una larga intesa per avviare le riforme rivolgendosi in primis al leader del Pds Massimo D ’Alema con il quale intreccia un complesso rapporto, fatto di stima e ammirazione, quanto di competizione e antagonismo. Grazie al deciso sostegno del segretario pidiessino, che supera le per­ plessità dell’area prodiana, nell’agosto del 1996 viene varata la legge per istituire una commissione bicamerale ad hoc. L ’atteggiamento cooperativo sul terreno delle riforme non comporta però un’attenuazione della polemica antigovernativa da parte di Forza Italia. Ad esempio, in novembre organizza insieme ad An una grande manifestazione contro i provvedi­ menti economici del governo (convergono a Roma circa mezzo milione di manifestanti) e successivamente abbandona i lavori parlamentari durante la discussione del bilancio. Questo at­ teggiamento bifronte, fatto di avances e stoccate, riflette una strategia precisa: blandire il maggior partito della coalizione e specialmente il suo leader, particolarmente sensibile al coté suadente del Cavaliere, cercando di ottenere alcuni provve­ dimenti favorevoli su temi sensibili {in primis, la giustizia) e, allo stesso tempo, incalzare senza sconti il governo al fine di inserire un cuneo tra D ’Alema e Prodi. In certa misura questa strategia andrà a buon fine, seppure grazie ad altri interventi e con alcuni pedaggi da pagare. Nonostante l’abilità del Cavaliere che, ad esempio, riesce a far saltare la Bicamerale senza pagare pegno perché non ha ottenuto quanto richiesto sulla giustizia, il partito langue. Alle amministrative dell’autunno del 1997 Forza Italia non supe­ ra nemmeno il 10% nei 19 capoluoghi dove si vota. Tra le grandi città, solo a Milano è in grado di affermarsi eleggendo un outsider, Gabriele Albertini, anch’egli esponente del mon­ do industriale. In molte competizioni amministrative locali i candidati del partito sono addirittura in numero inferiore ai posti disponibili in lista, e latita anche il sostegno da parte della società civile, soprattutto delle associazioni di interesse che pure dovrebbero essere interlocutori privilegiati. Sotto la spinta di una più corposa rappresentanza di politici

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di professione rientrati in parlamento o giuntivi da esperien ze nelle amministrazioni locali, nonché di un vivo dibattito interno promosso dal gruppo dei «professori» - intellettuali esterni eletti nel 1996, tra cui Lucio Colletti, Giorgio Rebuf fa, Pietro Melograni e Saverio Vertone - viene ridisegnata l’architettura interna del partito. Il lungo sonno organizzativo dei primi tre anni è interrotto dalle cure del nuovo coordina­ tore nazionale, Claudio Scajola, uno degli esponenti politici della Prima Repubblica che comincia a trovare spazio nella gerarchia del partito. Infatti, dopo l’occupazione del partito da parte dei manager Fininvest e dintorni, viene lasciato pii: spazio a un personale con maggiore esperienza politica. Tra l’altro, già alle elezioni del 1996 il ricambio dei parlamentari si era assestato sul 49% , realizzando quindi una scrematura importante di coloro che, nel 1994, avevano aderito alla can­ didatura offerta da Berlusconi senza essere né troppo convinti né troppo interessati. Il nuovo statuto, approvato in vista della celebrazione del I Congresso nazionale, adegua il partito all’articolazione territoriale dello stato introducendo strutture regionali, pro­ vinciali e comunali (con uno status particolare per le grandi aree metropolitane). In più, viene prefigurata una struttura coincidente con i 475 collegi elettorali, indicata come il terreno privilegiato per la mobilitazione da parte dei cosiddetti «pro­ motori azzurri» (espressione che riflette icasticamente le radici marketing-oriented della superélite di Forza Italia); ma rimarrà tutto sulla carta. Inoltre, precisa meglio la figura dell’iscritto, definisce il ruolo dei club, statuisce le modalità di nomina delle cariche locali e il processo decisionale interno, introduce nuovi organi decisionali. Il congresso acquisisce formalmente la centralità tipica di ogni partito. A esso spetta infatti eleggere il presidente. Ma poco di più: i suoi poteri di nomina negli organismi collegiali, Comitato di presidenza e Consiglio nazio­ nale, sono infatti limitatissimi in quanto i membri eletti sono un terzo nel primo caso e appena un ottavo nel secondo; la maggior parte dei componenti degli organi collegiali è cooptata dal presidente, e a essi si aggiunge una piccola quota di membri di diritto in quanto detentori di cariche elettive. Anche questa nuova articolazione organizzativa evidenzia molto chiaramente le caratteristiche verticiste, top-down e plebiscitarie di Forza Italia. Il partito è uno strumento a disposizione del leader, che

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si fa incoronare dall’assemblea e nomina i suoi fedeli in tutti gli organi, anche in quelli locali (i coordinatori regionali non sono infatti eletti, bensì indicati dal presidente), assicurandosi così un controllo assoluto sulla struttura. Dopo aver finalmente convocato l'assemblea dei 5.100 soci primigeni, lasciati in sonno in tutti questi anni ma ai quali spetta, in base al vecchio statuto, implementare le nuove regole, il I Congresso si celebra dal 16 al 18 aprile 1998. Il dibattito è pressoché assente mentre prevale lo stile da convention, in sintonia peraltro con la socializzazione culturale della superélite di matrice Fininvest. Al di là di alcuni momenti al limite del cul­ to della personalità, il congresso segna comunque un tornante ideologico-culturale. Viene messa la sordina (ufficialmente, in quanto già con il manifesto elettorale del 1996 erano intervenuti cambiamenti significativi) all’impostazione liberal-liberista, e vengono invece accentuati i riferimenti alla tradizione cattolica connotando così il partito come un contenitore ancora più ampio, vero partito pigliatutti. Utilizzando la data simbolica del 18 aprile, giorno in cui si tiene il congresso, Forza Italia si autoproclama erede della De degasperiana ed enfatizza il suo ingresso, peraltro accidentato, nel Partito popolare europeo. Insomma, Forza Italia non spinge più sul tasto del partito nuovo, estraneo alla politica della Prima Repubblica; preferisce acconciarsi quale erede della tradizione centrista (rifiutando con vigore l’etichetta di «destra») e definirsi partito «cattolico ma non confessionale». Questa mutazione tuttavia contrasta con alcune valutazioni dei suoi elettori. In primo luogo, solo il 20% crede che FI sia assimilabile alla vecchia De; per loro FI è qualcosa di compietamente nuovo. L ’insistenza dei primi anni sulla discontinuità con il passato e l’imposizione nel dibattito politico della dicotomia vecchio-nuovo hanno lasciato dei segni nel suo elettorato. In secondo luogo, la collocazione degli elettori forzisti sull’asse sinistra-destra è inclinata verso destra: più dei tre quarti si situa al centro-destra o a destra, mentre solo un quarto scarso si posiziona al centro. Lo scivolamento a destra è tale che poi, all’inizio del 2000, gli elettori di Forza Italia raggiungono quasi quelli di An: su una scala sinistra-destra da 0 a 10 i due elet­ torati si collocano, rispettivamente, a 7,4 e a 7,9. L l’opzione centrista è del tutto minoritaria, in quanto solo un quarto dei forzisti ritiene che il partito debba spostarsi verso il centro.

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La ripresa politica di Forza Italia si concretizza nella pri mavera del 1999. Il primo segnale del ritorno della buona stella viene dal fallimento del referendum sulla riforma elettorale, tenutosi il 18 aprile 1999. Il referendum era stato proposto, tra gli altri, anche, e con grande convinzione, dal leader di Alleanza nazionale, in contrasto con l’atteggiamento tiepido e scettico del Cavaliere. In gioco, al di là del merito della con­ sultazione referendaria, c’era la leadership del centro-destra. Fini intendeva usare l’arma del referendum per modificare i rapporti di forza tra loro. Alla fine, per una manciata di voti non viene raggiunto il quorum. Berlusconi così rintuzza la prima sfida alla sua leadership portatagli dall’interno della coalizione. Il secondo colpo, con il quale viene messo definitivamente al tappeto il competitore interno, è assestato il mese successivo in occasione delle elezioni europee. Attentamente preparate, con grande dovizia di mezzi e un’invasione pubblicitaria sui media (grazie alla non validità delle norme della par condicio per le europee), Forza Italia ottiene un buon successo ritor­ nando primo partito con il 25,2% e distanziando nettamente An. In un sol colpo FI ritorna prepotentemente al centro della scena nazionale ed elimina ogni insidia alla sua primazia nel centro-destra. L ’ultimo tassello nel percorso alla riconquista del governo è fornito dalla rinnovata alleanza con la Lega Nord. Dopo i dissidi degli anni precedenti, grazie all’abile tessitura di alcune personalità, tra cui spicca Giulio Tremonti, la Lega ritorna all’ovile stringendo un patto d’azione con Forza Italia e con­ sentendo quindi la riproposizione unitaria del centro-destra «formato 1994» alle regionali del 2000. Questa ripresa politica coincide - anche se è azzardato sta­ bilire un rapporto di causa ed effetto - con il consolidamento strutturale del partito avviato con il nuovo statuto sancito dal congresso del 1998. La rivitalizzazione organizzativa, pur non cambiando la fisionomia carismatica e patrimoniale del partito, nondimeno fornisce un quadro di regole formali che, con le debite, rilevanti, eccezioni, assimilano Forza Italia ai partiti di tradizione conservatrice-notabilare. Alcuni dati confermano questo mutamento. All’apertura delle iscrizioni con il nuovo statuto, a fine 1997, aderiscono subito quasi 140 mila persone. Un numero che cresce con­ tinuamente, passando a 161.319 nell’anno successivo, e a

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190.398 nel 1999, raggiungendo poi il picco nell’anno delle regionali, il 2000, con ben 312.863 membri. La roccaforte del seguito forzista è la Lombardia, che fornisce circa il 15% degli iscritti, seguita dappresso dalla Puglia con il 12%, mentre le altre regioni oscillano fortemente, come la Sicilia, che perde posizioni dal suo iniziale picco del 13%, e il Lazio, che cala e cresce come una fisarmonica arrivando, nel 2000, a insidiare da vicino il primato lombardo. I club rimangono in vita ma mantengono il loro status di strutture affiliate al partito, senza alcun ruolo nel processo decisionale. Solo i «soci» del partito hanno questa facoltà, ma è puramente teorica perché a essi manca una sede fisica per riunirsi e fare politica: lo statuto non prevede «sezioni» o «circoli» e rimanda l’attività di socializza­ zione e attivazione politica all’eventuale costituzione di un club. E quindi si ritorna al punto di partenza. Questa situazione, però, non soddisfa i membri di Forza Italia in quanto circa la metà vorrebbe «contare di più» (53,9% nel 1999 e 42,4% nel 2000). Proprio per andare incontro a questa esigenza, nel febbraio del 2000 viene promossa la I Conferenza organizza­ tiva del partito. Ma non cambia granché: la normalizzazione di Forza Italia - non più partito-azienda, bensì organizzazione (semi)tradizionale, inserita nei circuiti anche internazionali della politica - non implica il venir meno del suo tratto carismatico. La ripresa del partito si conferma alle regionali del 2000. La nave berlusconiana, per metaforizzare il mezzo con il quale viene condotta la campagna elettorale, assicura a FI il 25,4% dei voti, distanziando nettamente non solo i rivali esterni (i Ds si fermano al 19,5%), ma anche quelli interni, visto che An, con il 12,9%, si ferma alla metà dei consensi di Forza Italia. Ne consegue che Forza Italia affronta le elezioni del 2001 come il vincitore annunciato: i suoi avversari sono allo sbando e gli alleati, diversamente dal 1996, sono allineati e coperti. Ancora una volta il dominus della campagna elettorale è Berlusconi. Non solo per lo straordinario favore con il quale è trattato dai suoi media - ai 1.427 minuti dedicatigli dalle reti Fininvest fanno riscontro gli 887 minuti per il candidato del centro-sinistra Francesco Rutelli - e, un po’ meno, dalla Rai, quanto per la qualità immaginifica e trasversale della campagna stessa. Berlusconi parte in anticipo emergendo da enormi cartelloni pubblicitari con brevi e assai azzeccati slogan che toccano una varietà di interessi e sensibilità: si va dalle

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pensioni più giuste alla sicurezza, dalle adozioni più semplici a un «buon» lavoro, dall’ambiente alle grandi opere. Forza Italia dà il tono alla campagna elettorale imponendo temi, interpretazioni e soluzioni. Questa polifonia è riassunta, più che nel messaggio del partito, nella figura del leader, unico autorizzato a presentare la propria immagine nei manifesti. La focalizzazione sulla persona del Cavaliere è assoluta, tanto che viene prodotto un singolare rotocalco apologetico, Una storia italiana, inviato a milioni di famiglie. Questa iniziativa editoriale, unita alla presentazione nel corso del talk show Porta a Porta di un «contratto con gli italiani», cioè l’impegno a realizzare almeno quattro dei cinque punti essenziali del programma pena l’uscita dalla politica, rafforza, se ce ne fosse ulteriore bisogno, il carattere personale del partito, sussunto in tutto e per tutto dalla figura del suo leader. In questa fase, il profilo di FI subisce qualche ritocco. Mentre nel 1994, e parzialmente nel 1996, spiccavano, oltre al rifiuto della Prima Repubblica e dei partiti tradizionali, riven­ dicazioni di un’ispirazione liberaldemocratica come il richiamo all’iniziativa privata e all’imprenditorialità, e la denuncia dello statalismo e del consociativismo, nel 2001 Forza Italia smussa gli angoli e diventa ecumenica per aderire plasticamente a tutte le componenti della società, accentuando ulteriormente i tratti del partito pigliatutti evocato nel congresso del 1998. Questa trasformazione è intesa alla penetrazione nei diversi settori della società per diventare il partito centrale e «insostituibile» della politica italiana. La camaleontica adattabilità del leader consente di offrire a tutti il volto che desiderano e si attendo­ no, e allo stesso tempo spiazza continuamente gli avversari (e spesso anche gli alleati), in affanno nel seguire le rapidissime e disinvolte mutazioni di toni e temi del Cavaliere. Non a caso gruppi di interesse importanti, come Confindustria e la chiesa, passano dalla precedente neutralità a un appassionato sostegno nel primo caso, e a una benevola attenzione nel secondo. Una campagna elettorale così non poteva che portare a un trionfo: con il 29,5% alla Camera Forza Italia è il primo partito in 81 province su 103 e in 15 regioni su 20; Lombardia e Sicilia si confermano le sue roccaforti. Quando un partito raggiunge queste dimensioni pesca i suoi consensi da serbatoi ampi e differenziati e, inevitabilmente, affronta un rischio: che ci sia dissonanza tra il messaggio inviato e la sua ricezio­

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ne. In effetti, si registra uno scarto rilevante tra l’immagine modernizzante, efficientista, sintonica con i ceti produttivi e imprenditoriali del Nord e la distribuzione territoriale non­ ché l’ancoraggio socioprofessionale del suo consenso. Forza Italia si conferma infatti tanto forte al Nord quanto al Sud (e fortissima in Sicilia, dove stravince), e attira consensi più nei piccoli centri che nelle città medio-grandi e nelle metropoli. Quanto alla distribuzione professionale, sono le casalinghe il gruppo sociale dove viene maggiormente recepito il messaggio di Forza Italia: lo vota quasi una casalinga su due; al secondo posto vengono i pensionati, poi i lavoratori autonomi - assai più i commercianti e gli artigiani che i liberi professionisti - gli operai e gli impiegati esecutivi. Se si aggiunge anche il basso livello medio di scolarità si ha il profilo di un elettorato pre­ valentemente «periferico» in termini sociali. Inoltre, più che attrarre elettori moderati-conservatori FI coinvolge sempre più chiaramente componenti animate da pulsioni antipolitiche, che trovano un loro baricentro nell’identificazione quasi fideistica con il leader; il tutto è rafforzato dal loro incapsulamento all’interno di un sistema di comunicazione consonante con le loro opinioni. Non può quindi stupire che l’alta esposizione alla televisione e, soprattutto, la fruizione dei canali Mediaset costituiscano le due variabili esplicative più potenti del voto a favore di Forza Italia. Anche sul piano degli atteggiamenti emerge una certa divaricazione tra i valori proclamati e quelli condivisi dall’e­ lettorato e dai simpatizzanti. In primo luogo, l’elettorato è molto più spostato a destra rispetto al 1996: la collocazione degli azzurri sull’asse sinistra-destra 0-10 è arrivata a 7,99 (solo An è percepita più a destra, ma di poco), con un incremento di coloro che si considerano di destra in confronto a quelli che si dichiarano di centro-destra. In secondo luogo, i forzisti sono nettamente orientati in senso autoritario e clericale: si dichiarano favorevoli alla pena di morte, a norme vessatorie verso gli immigrati e a rendere più difficile l’interruzione di gravidanza. (Quest’ultimo aspetto riflette la massiccia adesio­ ne di cattolici al partito: quasi la metà di coloro che vanno a messa tutte le domeniche vota per Forza Italia.) Infine, nella loro valutazione delle istituzioni e delle associazioni che me­ ritano maggiore fiducia, mentre il parlamento non è apprez­ zato nemmeno dal 20% , gli elettori di Forza Italia indicano

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al primo posto assoluto le reti Mediaset, a dimostrazione sia della forza dell’identificazione del leader e del partito con i suoi network, sia del grado di incapsulamento informativo degli elettori azzurri. In sintesi, Forza Italia sembra attrarre un elettorato so­ cialmente molto diversificato e tutt’altro che concentrato tra i settori più dinamici e più prestigiosi della stratificazione sociale, e politicamente molto conservatore e assai poco liberal; ma soprattutto, un elettorato distante dalla politica, connotato dal più alto livello di disinformazione e disattenzione verso di essa. Questo scarto tra proiezione (del partito) e ricezione (dell’elettorato) viene colmato dalla figura del leader grazie a un processo identificativo sulla sua persona creato innescando una fortissima contrapposizione frontale nei confronti di tutte le espressioni istituzionali o associative che gli si oppongono. Questa dinamica di scontro, vittimizzazione, e delegittimazione dell’avversario sollecita le corde del populismo e del plebiscitarismo. In effetti, Forza Italia veicola, attraverso il leader, e poi tramite tutti i suoi esponenti, che ripetono spesso alla lettera le sue parole con effetto gigantesco di risonanza, un’interpretazione della democrazia in cui «l’eletto dal popolo» non è responsabile delle sue azioni altro che verso il corpo elettorale; e qualunque intervento critico di qualsivoglia istituzione o espressione della società civile diventa, di conseguenza, antidemocratico e ille­ gittimo. Poggiando su questa impostazione il Cavaliere parte lancia in resta contro la magistratura, rea di continuare nelle inchieste che riguardano lui personalmente o i suoi più stretti collaboratori (Previti e Marcello DelTUtri), contro i giornalisti non allineati (alcuni dei quali fatti allontanare dalla Rai), contro i sindacati nemici dello sviluppo e dell’ordine, contro, ovviamente, l’opposizione ostile al bene del paese. Questa interpretazione populistico-plebiscitaria della democrazia ha ampia circolazione grazie alla capacità di Berlusconi di condizionare e indirizzare il mondo dell’informazione al punto da innescare una sorta di egemonia culturale. Infatti, intorno al partito, sono cresciute e si sono consoli­ date iniziative culturali importanti, con un impegno crescente con l’andare degli anni. In primo luogo, la rivista bimestrale «Ideazione», fondata già nel 1994, diretta dall’ex missino critico Domenico Mennitti e foro autorevole di dibattito culturale, la rivista «Liberal», cui è seguita l’omonima fondazione, diretta

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dall’ex comunista Ferdinando Adornato, e, successivamente, le fondazioni Magna Charta, legata al presidente del Senato Marcello Pera, Free, animata dall’economista Renato Brunetta, e II Circolo, fondato da Marcello Dell’Utri. Tutte queste ini­ ziative sono rivolte a diffondere un pensiero liberale-liberista, con forti accenti neoconservatori e cattolico-integristi. Grazie alla divulgazione di questa visione attraverso libri e pubbli­ cazioni periodiche, nonché, a livello più popolare, attraverso le televisioni delle reti Mediaset, si comprende come il lavoro metapolitico intrapreso dai dirigenti di Forza Italia abbia potuto produrre un’egemonia culturale, con ovvie, benefiche ricadute sul partito. Negli anni del secondo governo Berlusconi (2001-2006) la subordinazione/identificazione del partito rispetto al le­ ader diventa totale. Dopo il successo elettorale Forza Italia organizzativamente si rilassa e agisce soltanto a sostegno dell’azione di governo. E, inevitabilmente, il partito subisce i contraccolpi della perdita di velocità dell’esecutivo, indebolito dai modesti risultati sul piano economico, proprio il terreno d’elezione del Cavaliere: Forza Italia arretra nettamente già nelle elezioni parziali del 2002 e ancora di più in quelle del 2003 (dove ottiene appena il 16% alle provinciali e perde ben 10 comuni capoluogo su 32) riconfermando la fragilità del suo impianto organizzativo locale nonostante gli sforzi e i passi avanti compiuti negli anni precedenti. Anche i rapporti con gli alleati diventano più difficili. Progressivamente An e Udc manifestano evidenti malumori, tanto da imporre prima un rimpasto alla fine del 2004 e poi una crisi formale nel 2003. Per rimediare a questo affanno viene ridefinito l’organi­ gramma con un nuovo coordinatore nazionale, Sandro Bondi, affiancato da Fabrizio Cicchitto (provenienti, rispettivamente, dai partiti comunista e socialista) e, nel 2004 (27-29 maggio), viene convocato il II Congresso, che ha uno svolgimento ben diverso da quell’evento epifanico e celebrativo della precedente assise del 1998. Il partito, agli occhi dei congressisti, si colloca ormai stabilmente nel centro-destra (il 62,3% dei delegati lo considera tale e lo stesso numero di delegati si considera di centro-destra), ma non al centro (come auspicato dal congresso precedente), tutto allineato dietro al leader (il 61,5% giudica il partito dipendente in tutto e per tutto dal suo leader e il 57,5 % lo considera il leader europeo degno di maggior ammirazione),

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ed emerge un sentimento di ostilità e diffidenza verso avversari e alleati. In effetti, i rapporti con questi ultimi, dopo i tonii elettorali del 2003 e il deludente esito delle europee del 2004, sono al livello di massima tensione. La colazione di governo scricchiola al punto che Berlusconi è costretto a un rimpasto e ad affidare la vicepresidenza dell’esecutivo a Marco Pollini, nuovo segretario dell’Udc, molto più riottoso di quanto non 10 fosse il precedente leader, Pierferdinando Casini. Il regresso alle europee del 2004 (20,9%) - contenuto rispet­ to alle precedenti elezioni per il parlamento di Strasburgo del 1999, ma fortissimo rispetto alle politiche del 2001 (quasi nove punti percentuali in meno) - e soprattutto il calo alle regionali del 2003 (18,5 % ) sembrano instradare FI verso una sconfitta secca alle imminenti elezioni politiche del 2006. Nonostante questo clima negativo, all’interno del partito non emergono oppositori. Il partito è attraversato da frizioni e rivalità, come quella che contrappone i fedelissimi compagni di strada pro­ fessionali di Berlusconi dai dirigenti con un pedigree politico precedente a FI, ma queste riguardano le seconde file e non investono mai il leader. Lo spettacolare recupero di consensi alle elezioni del 2006, dove non solo mantiene il partito al primo posto con il 23,7%, ma quasi acciuffa la vittoria per la coalizione di centro-destra, la Casa delle libertà (Cdl), rinforza all’ennesima potenza il suo carisma all’interno e all’esterno di FI. La campagna elettorale del 2006 è in effetti significativa della capacità di mobilitazione dei consensi da parte del Cavaliere. Mentre tutti i sondaggi prevedevano una netta sconfitta della Cdl, e gli stessi alleati si mostravano rassegnati all’opposizione, 11 leader di FI innesca una campagna pirotecnica e tambureg­ giante di cui la produzione di sondaggi «veri» a suo favore e il comizio improvvisato all’assise di Confindustria simboleggiano la capacità di conquistare audience e centralità. Di fronte a questa performance i malumori interni e le prese di distanza esterne svaniscono d’un colpo. Alla fine di una notte elettorale al cardiopalma, costellata sia di elementi irrituali, come la visita durante lo spoglio delle schede del ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu a casa del leader di FI, sia di vari errori di conteggi, la vittoria arride alla coalizione di centro-sinistra per poco più di 24 mila voti. Tuttavia Berlusconi non si rassegna alla sconfitta e innesca una velenosa, e solitaria, polemica sui «brogli» della sinistra che gli

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avrebbero scippato la vittoria (in realtà inesistenti, come verrà dimostrato, mentre invece dubbi vengono avanzati proprio sullo spettacolare recupero di FI), ma poi si rassegna e si ritira per alcuni mesi nella sue ville a smaltire la delusione, ulteriormente acuita dalla sconfitta, in giugno, nel referendum confermativo della riforma costituzionale varata dal centro-destra a fine legislatura (appena il 38,3% vota a favore della riforma). Il partito rimane in stand-by per molti mesi privo com’è del suo dominus assoluto. Vive questo periodo in apnea, in attesa del ritorno. Che si materializza solo quando il gover­ no Prodi affronta le prime difficoltà in autunno. Il successo della grande manifestazione antigovernativa organizzata il 2 dicembre a Roma insieme ad Alleanza nazionale, ma senza l’Udc, sancisce la ripresa di attività di FI e del suo leader. Il disorientamento, al limite dell’afasia, della classe dirigente forzista nei mesi dell’autoesilio del Cavaliere confermano lo stato di dipendenza assoluta dal suo fondatore. FI riprende tono nel corso del 2007: alle amministrative di primavera conquista 16 città in più, passando da 51 a 77. Allo stesso tempo si profilano una serie di ipotesi di ridefinizione del partito, a riprova della necessità «ontologica» del leader di non solidificare e sedimentare un’organizzazione. Dopo aver sollecitato già nell’estate del 2006 la costituzione di «circoli della libertà» affidati a Michela Brambilla, all’inizio del 2007 il Cavaliere progetta di fondere le strutture del partito con quelle di questi circoli ed, eventualmente, con la rete dei club (di impostazione culturale) fondata qualche anno prima da DeH’Utri. Per una volta, però, i dirigenti del partito recalcitrano apertamente. Ma, in realtà, il cammino per un superamento del partito è segnato. La spinta finale viene dalla costituzione del Partito de­ mocratico nell’ottobre del 2007. Di fronte alla novità emersa sulla sponda sinistra, e al credito che riscuote nell’opinione pubblica, il Cavaliere passa all’azione. A metà novembre, a margine di un comizio, circondato da una folla trabocchevole ed entusiasta, lancia il progetto di un nuovo partito unitario dei moderati. Il contesto di identificazione, assoluta ed esal­ tata, della folla con Berlusconi, ma anche la ricezione positiva nell’opinione pubblica moderata at large attestano una volta di più la presa del Cavaliere sull’elettorato di destra. A poco servono, e ancor meno durano, le esitazioni di Fini. Anche

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quell’ambiente riconosce in Berlusconi il vero leader, come poi ammetterà amaramente lo stesso Fini. Inoltre, la caduta del governo Prodi nel febbraio del 2008 azzera ogni perplessità, cosicché An convola a nozze con FI, e i due partiti presentano liste comuni sotto l’egida della neonata formazione, il Popolo delle libertà (Pdl). Il «primo atto» di Forza Italia (il «secondo» si aprirà nel 2013) si chiude sulle ali del successo. Il nuovo partito unico della destra tante volte accarezzato in An come in FI semplifica il sistema partitico proponendo un’offerta politica classicamente di destra, per quanto fiduciosa in uno sfondamento al centro per installarsi come partito egemone del sistema italiano. Un’ipotesi che sembra a portata di mano dopo le elezioni del 2008 ma che sfuggirà in maniera definitiva pochi anni dopo.

Capitolo undicesimo

Pd. La grande illusione

A dispetto della lunga e travagliata gestazione, il Partito democratico (Pd) nasce sulle ali dell’entusiasmo. L’accesso di Walter Veltroni in ticket con il margheritino Dario Franceschini alla guida del nuovo partito è un buon viatico, sulla carta. Veltroni, infatti gode di buona stampa grazie alla sua gestione del comune di Roma e della benevola attenzione di una fascia di elettori non identificati strettamente con la storia comunista. Sembra in grado di introdurre nella nuova creatura un soffio di novità e di apertura, e di offrire all’opinione pubblica un prodotto nuovo, non la sola risultante della fusione tra due partiti con una lunga tradizione alle spalle. L’impresa è però al limite dell’impossibile sia per le incrostazioni del passato comunista e democristiano, sia per la debole elaborazione teorica su che cosa dovesse essere il nuovo partito. Tra le pochissime riflessioni di indirizzo e prospettiva per il Pd se ne segnalano due, orientate su versanti diversi, tuttavia. Da un lato, Michele Salvati si fa promotore, come già in passato, della necessità di andare oltre la storia comunista e di abbracciare una prospettiva blairiana abbandonando la tradizione statalista e accedendo ai contributi del pensiero liberale. Dall’altro, un gruppo di intellettuali animati da Salvatore Biasco e, più defi­ lato, Giuliano Amato, propone una visione più coerentemente e classicamente socialdemocratica. Tuttavia, e questo è l’handicap iniziale, nessuna delle due tendenze esercita un’influenza significativa. Il partito nasce senza un corpus teorico solido. Il nuovo statuto e il manifesto dei valori esemplificano meglio di ogni altro documento lo scivolamento protopo­ pulista del nuovo progetto. Lo statuto rompe radicalmente con ogni tradizione organizzativa dei partiti di massa europei abbattendo incomprensibilmente la distinzione tra iscritti e non iscritti: l’art. 1 definisce infatti il Pd «un partito di iscrit­

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ti ed elettori». Ne consegue che l’incentivo a iscriversi per scegliere i dirigenti e selezionare i candidati viene meno. In più, l’organizzazione viene terremotata dall’introduzione delle primarie per ogni carica elettiva, interna ed esterna. Questa pseudoamericanizzazione, impiantata fuori dal contesto in cui è nata, ha l’effetto di enfatizzare la personalizzazione a tutto discapito dell’identificazione con la dimensione collettiva. L’i­ dea stessa di partito passa in secondo piano rispetto al leader. Il Pd nasce programmaticamente depauperato del senso di appartenenza. Cambiamenti di tale portata senza un’adeguata metabolizzazione riveleranno la loro portata disgregante negli anni a venire. Comunque, in occasione della prima competizione per la segreteria tutto fila liscio per la stima reciproca che lega i tre maggiori contendenti: Walter Veltroni, ex segretario dei Ds, sindaco di Roma e anima dialogante e ulivista del partito; Rosy Bindi, battagliera interprete della tradizione del cattolicesimo democratico; ed Enrico Letta, giovane e modernizzatore, a cavallo tra tradizione tecnocratica europeista di stampo prodiano e afflato industrialista (grazie all’intesa di lungo periodo con il ministro dell’Industria Pier Luigi Bersani, peraltro trattenuto dai suoi compagni diessini dal presentarsi alle primarie). Veltroni è, inevitabilmente, il favorito e già a fine giugno presenta la propria candidatura con un discorso di ampio respiro, pronunciato al Lingotto di Torino, dove insiste sull’intreccio tra un partito aperto alla società civile, e di cui le primarie assurgono presto a «mito fondativo», e un partito inclusivo di componenti sociali e ispirazioni ideali diverse (ma senza qualificarle precisamente). Il 14 ottobre 2007 la partecipazione al voto per l’elezione del segretario, aperta a tutti gli elettori come in occasione dell’in­ coronazione di Prodi a candidato premier del centro-sinistra nel 2005, risulta amplissima: si recano alle urne 3.536.317 cittadini, quasi un terzo degli elettori dell’Ulivo alle politiche del 2006. (Si noti, en passante che secondo un sondaggio Ispo, circa il 20% dei votanti alle primarie dichiararono di avere simpatie per Beppe Grillo che aveva organizzato il suo V-Day qualche settimana prima...). Il vincente annunciato trionfa con il 75,8%, mentre gli altri due si dividono il rimanente. L’Assemblea nazionale, organo pletorico di più di 2 mila persone, assolutamente inutile se non per scopi celebrativi,

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ha una composizione che, per un verso, registra i rapporti di forza tra i due partiti contraenti - 46% di origine diessina, 27% di origine margheritina - ma, per altro verso, introduce una nutrita presenza di persone senza appartenenze pregresse ai mondi dei fondatori. La direzione egualizza ancora di più le quote di ex Ds ed ex Margherita visto che 8 membri pro­ vengono dai primi e 7 dai secondi, più due «estranei». I delegati ai due congressi di scioglimento di Ds e Mar­ gherita evidenziano una certa consonanza di posizioni su temi economici, ma non altrettanto su temi etici e culturali. L’innesto di una componente solidamente cattolica nel nuovo partito porta con sé una netta differenziazione sulle tematiche relative ai diritti civili. Proprio l’intensità delle convinzioni religiose fa la differenza: i quadri intermedi della Margherita con alta religiosità adottano scelte che li distingue nettamente non solo dai Ds ma anche dai non credenti della Margherita. Queste dissonanze avranno modo di emergere nel corso degli anni provocando tensioni nel, e fuoriuscite dal, partito. La prima prova elettorale del Pd è positiva in termini numerici in quanto con il 33,4% affianca il risultato migliore della storia della sinistra, cioè il 34,4% ottenuto dal Pei nel 1976. Tuttavia, l’ipotesi lanciata da Veltroni di costruire un partito a «vocazione maggioritaria» - fumosa espressione per indicare un grande partito capace di instaurare una dinamica bipartitica anche in Italia - si scontra con un risultato ben al di sotto del necessario. E, soprattutto, rimane molto distan­ ziato dal Pdl, nonostante il Pd avesse fatto eccezione alla sua strategia di autonomia accordandosi, incomprensibilmente, con la barricadiera l’Italia dei valori (Idv) di Antonio Di Pietro e immettendo nella sue liste una pattuglia di radicali. Il Pd recupera parte dei voti della sinistra radicale di Rifondazione (che infatti non entra in parlamento) ma non riesce a sfondare al centro né a recuperare l’astensione di sinistra. E questo rende palese la contraddizione tra puntare alla creazione di un grande partito facendo terra bruciata degli alleati, rendendo così ancora più debole il fronte progressista, e fornire invece ossigeno all’ingestibile partito di Di Pietro, destinato a creare difficoltà negli anni successivi, fino al suo improvviso inabis­ samento alla fine del 2012. La delusione per il risultato elettorale (enfatizzata da tanti, di diversa ispirazione, all’interno del partito) viene acutizzata

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da una serie di sconfitte in tutte le elezioni amministrative che si susseguono tra 2008 e 2009. Benché sia bruciante la débàcle al comune di Roma (un mese dopo le elezioni politiche), dove non riesce il ritorno dell’ex sindaco Rutelli, è la perdita della regione Sardegna che induce Veltroni a rassegnare le dimissioni, nel febbraio del 2009. Del resto, anche l’opposizione al governo Berlusconi, condotta inizialmente sulla falsariga «britannica» del governo ombra, è apparsa inefficace politicamente, tanto che, già nei primi mesi, il 41% degli elettori Pd la giudica «troppo remissiva». Il partito si affida alla reggenza del vicesegretario Dario Franceschini (eletto con 1.047 voti contro i 92 andati ad Ar­ turo Parisi), che tampona i dissensi interni, ma non riesce a invertire la rotta tanto che alle europee il partito subisce un tracollo ottenendo il 26,1% (-7,3% ). Anche calcolando la presenza autonoma della pattuglia radicale che alle politiche era accorpata al partito e che qui raccoglie da sola il 2,1%, l’erosione del consenso è drammatica. Incalzato dal vocale antiberlusconismo dell’Idv e dalla radicalità del nuovo partito promosso da Nichi Vendola (Sei) sulle ceneri di Rifondazione comunista, il Pd non riesce a presentare un’offerta politica appetibile anche perché la repentina defezione di Veltroni lo ha privato di un asset importante. Le difficoltà della confluenza delle due forze fondatrici doveva essere superata, nelle intenzioni, con una nuova strut­ turazione interna e una politica più inclusiva, meno marcata dalla sola opposizione radicale al centro-destra. In realtà, entrambe le condizioni si rendono impraticabili perché, sul primo versante, la vocazione maggioritaria è stata sconfessata dalle urne, e quindi la nuova modalità organizzativa rimane a mezz’aria, limitata a una sconfessione della tradizione, e a un’esaltazione delle primarie; e sul secondo, l’aggressività del governo Berlusconi non ha lasciato spazi a quella postura soft, promossa inizialmente dalla leadership veltroniana, che invece si è ritorta contro il partito fomentando accuse di scarsa combattività e incisività. Il Pd cerca di uscire da questa doppia impasse, politico­ strategica e organizzativa, concedendo fiducia a una figura, e a una politica, più tradizionale, o quantomeno più in sintonia con l’esperienza postcomunista di «rito riformista». La can­ didatura di Pier Luigi Bersani, ex presidente della regione

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Emilia-Romagna ed ex ministro dell’Industria del governo Prodi, molto apprezzato anche in ambienti confindustriali per la sua opera di liberalizzazione del mercato, risponde alla do­ manda di rimettere il neonato Pd lungo una strada conosciuta. Bersani, che si presenta in ticket con l’ex margheritino Enrico Letta, è fronteggiato dal segretario reggente Franceschini e daN outsider Ignazio Marino, portatore di una visione laica, attenta ai diritti civili. Alle primarie del settembre del 2009 partecipano ancora tantissimi sostenitori: 3.107.709. Bersani viene eletto con il 53,2%. Franceschini ottiene il 34,3% e Marino un sorprendente 12,5%. Per quanto le percentuali sembrino rispecchiare le quote riservate a Ds e Margherita negli organi dirigenti al momento della fondazione del Pd, in realtà i consensi ai candidati non sono connessi con il voto ai rispettivi partiti nel 2006: Franceschini, infatti, non è sostenuto in maniera particolare laddove il voto al suo partito di origine, La Margherita, era molto forte nel 2006. Le carte sembrano finalmente mescolarsi. Ma è un’illusione. La nuova leadership non riesce comunque a insufflare energie al partito, che continua a non incidere nella politica nazionale: alle elezioni regionali del 2010 il partito perde altre regioni dopo quelle già lasciate al centro-destra nel 2008-09 e si ritrova al governo in 7 regioni contro le 6 degli avversari (rispetto alle 11 contro 2 di cinque anni prima). La tradizionale Zona rossa resiste (Emilia-Romagna e Toscana sono sopra il 40% seguite da Umbria con il 36% e Marche con il 31%), ma brucia la perdita del Lazio nel quale nemmeno la candidatura esterna di Emma Bonino serve a mantenere la maggioranza. Anche le primarie per individuare i candidati sindaci nelle grandi città che andranno al voto l’anno successivo riservano dolori al Partito democratico. A Milano, Genova e Cagliari, per citare i centri più importanti, le primarie di coalizione vedono la vittoria di candidati più radicali - Giuliano Pisapia, Marco Doria, Massimo Zedda - sulla scia di quanto accaduto l’anno prima in Puglia, dove Vendola aveva sconfitto il candidato del Pd. Però è proprio grazie a questa immissione di figure estranee al partito che il centro-sinistra conquista il governo delle grandi città; a esse si aggiunge la vittoria dei sindaci Pd di Bologna, Torino e Trieste. In effetti, il Pd, sia pure lasciando spazio ad altre componenti, sembra in grado di intercettare il mutato clima di opinione che sta sviluppandosi e che si

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manifesta anche nei referendum - partecipati e vittoriosi - sui beni pubblici e sul nucleare. All’interno del partito continuano a convivere diverse anime legate alle divisioni «fondanti» del Pd, oltre a conflitti nati nell’alveo postcomunista e postdemocristiano che si riaf­ facciano periodicamente nel nuovo partito. A latere emerge una componente di tipo completamente diverso, irriducibile ai vecchi schemi e che si presenta soprattutto come una rivolta generazionale contro tutta la vecchia classe dirigente, senza distinzioni. Due trentenni, Matteo Renzi e Giuseppe Civati, giovane sindaco di Firenze il primo e consigliere regionale lombardo il secondo, animano una convention, nel 2010, per reclamare un ricambio radicale al vertice adottando lo slogan irriverente della «rottamazione». All’inizio la loro provocazione è considerata con la condiscendenza che si usa per i giovani scapestrati senza vedere quanto entusiasmo, vitalità e innova­ zione trabocchi in quella e nelle successive riunioni che Civati e Renzi poi animeranno separatamente. Ai livelli alti il Pd continua nella tranquilla navigazione bersaniana nella speranza di raccogliere il frutto della lunga opposizione al centro-destra nel momento in cui questo sta affondando. In realtà, il Pd non contribuisce in maniera signi­ ficativa allo sfaldamento del governo di Berlusconi. Più che altro assiste agli eventi pronto a intervenire se chiamato in causa. Ed è quanto succede, dopo le dimissioni dell’esecutivo il 12 novembre 2011. Incalzato dal presidente della Repub­ blica e da un’opinione pubblica traumatizzata dallo spettro della crisi finanziaria il Pd accetta di sostenere insieme allo stesso Pdl (ma non alla Lega) il governo tecnico guidato dal neosenatore a vita Mario Monti. Questo passaggio, giudicato all’epoca dovuto e inevitabile, rientra pienamente nella tradi­ zione di «responsabilità» nei confronti di interessi generali e di sistema manifestata in più occasioni dalla sinistra. Tuttavia, ciò imbriglia il partito e lo costringe ad appoggiare una serie di misure impopolari che costeranno molto nelle urne. In vista delle elezioni del 2013 il Pd adotta una diversa strategia coalizionale rispetto a quanto adottato da Veltroni nel 2008. In questa circostanza Bersani promuove una coali­ zione, Italia bene comune, nella quale aggrega Sinistra eco­ logia libertà (Sei), i socialisti di Riccardo Nencini e il Centro democratico di Bruno Tabacci. Per legittimare questa nuova

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coalizione e soprattutto per dimostrare la «democraticità» del partito il segretario convince una riottosa Assemblea nazionale, appositamente convocata il 6 ottobre, a modificare lo statuto per consentire di svolgere primarie di coalizione in quanto, a termini di statuto, il segretario del partito è automaticamente il candidato premier. Bersani ritiene invece opportuno aprire il partito alla competizione interna sia per rispondere alle pressioni dell’opinione pubblica per una maggiore apertura, sia per «istituzionalizzare» il dissenso renziano che potrebbe prendere altre strade. La sfida catalizza l’attenzione dell’opinione pubblica e fi­ nalmente, dopo anni di appannamento, porta il Pd alla ribalta della politica nazionale. L’esito riserva una certa sorpresa. Dopo un primo turno al quale si presentano oltre a Bersani, Renzi e Laura Puppato per il Pd e due esterni, Vendola e Bruno Tabacci, il ballottaggio finale riguarda segretario e giovane sfidante. Il 25 novembre 2012 al primo turno votano in ben 3.100.210, a dimostrazione della passione politica ancora viva tra i sostenitori di centro-sinistra; e la partecipazione si mantiene elevatissima anche nel secondo turno con 2.802.382 votanti. Il segretario prevale, inevitabilmente, ma Renzi sfiora il 40% dei consensi. Un risultato che dovrebbe far suonare un cam­ panello d’allarme nella leadership, non solo perché è cospicuo il sostegno allo sfidante, praticamente isolato rispetto al corpo del partito (nessun segretario di federazione e un solo membro della Direzione, Paolo Gentiioni, lo appoggia apertamente), ma soprattutto perché è maggioritario in tre delle quattro regioni rosse (ovviamente esclusa l’Emilia-Romagna, terra di Bersani). Ciò significa che Renzi fa breccia nel cuore del partito, nelle zone ad alta densità di voti e militanti di tradizione comunista e postcomunista. Allo stesso tempo, cattura nuove leve in quanto raccoglie il consenso dei non iscritti al partito in misura ben superiore al segretario (+11%). Militanti di lunga data e nuovi arrivati danno fiducia al rottamatore. Se la scelta di questi ul­ timi è intuitiva - Renzi non è riconducibile alla nomenklatura piddina -, quella delle zone rosse molto meno: probabilmente i militanti di queste aree, ben inseriti nelle dinamiche sociali e politiche dei loro territori, hanno colto i segni di uno sfalda­ mento del consenso per il partito proprio nelle sue zone forti e hanno inviato un messaggio alla segreteria.

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Evidentemente c’è una domanda di cambiamento, quanto­ meno di classe dirigente, che matura da tempo e che finalmente ha trovato un veicolo di espressione. Soprattutto perché Renzi è fuori dagli schemi e dalle dinamiche della storia postcomu­ nista e postdemocristiana. Anche se è nato politicamente in quest’ultima culla, presenta un profilo eccentrico a quell’imprinting ed è estraneo alle tradizionali correnti di quel partito. Inoltre, la sua proposta politica rompe con molte scelte di entrambe le tradizioni pre-Pd. Proprio per identificare anche programmaticamente quel desiderio di cambiamento che smuove il mondo piddino, Renzi batte su tutta la tastiera di­ sponibile dell’innovazione, fino a propugnare un neoliberismo anticonformista sulla scia della terza via blairiana. La proposta renziana è molto appealing per la sua aura di novità e moder­ nità: proprio quello di cui ha bisogno il Pd per sottrarsi a un destino di grigiore e di passatismo. Tuttavia, le sue coordinate sono ancora culturalmente acerbe e incerte. Renzi si presenta giovanilmente entusiasta per le nuove tecnologie (senza però comprendere quanto lavoro esse uccidano), ostentatamente vicino al mondo dell’imprenditoria (e da questo caldamente sponsorizzato), freddo nei confronti del sindacato (e da questo cordialmente detestato) e tutt’altro che tiepido nei confronti dei diritti civili nonostante la provenienza cattolica. Questo pastiche non riesce sempre a coagularsi in una visio­ ne coerente ma comunque attrae e convince per la sua novità. Anche con gusto della provocazione, Renzi si rivolge al di là del mondo tradizionale della sinistra per conquistare (alla prova dei fatti con scarso successo) consensi nell’area moderata. A ogni modo, le sue riunioni alla stazione Leopolda di Lirenze, dalle quali ha presto scaricato l’iniziale compagno di viaggio Civati, non solo sono lontane mille miglia dall’immagine innegabilmente polverosa delle assise di partito, ma ribollono di idee e debor­ dano di entusiasmo. I partecipanti spaziano su molte tipologie, da manager affermati in manica di camicia (una modalità easy e friendly poi divenuta una stucchevole divisa) a ex boy-scout fidelizzati al leader, da quadri locali delusi a giovani alla loro, entusiastica, iniziazione politica. Al di là dei temi, a volte pun­ tuali e innovativi, altre volte rimasticature di slogan da terza via o di banale buon senso, quello che colpisce è la rifioritura di passione politica e il tuffo nel pragmatismo, nella voglia di fare, nella proiezione verso il «governo delle cose».

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Nelle prime Leopolde si costruisce un’ideologia a tutto tondo del renzismo in termini di contenuti e specialmente, di immagine. Per il sindaco di Firenze la comunicazione è l’alfa e l’omega della politica, e in questo si dimostra uomo del nuovo millennio, calato in pieno nelle dinamiche televisive che controlla con rara maestria (per poi affacciarsi, meno a proprio agio, sui social media). Non per nulla i talk show ne fanno un ospite fisso lanciando la sua figura nel firmamento della politica nazionale. Renzi interviene, discute, polemizza e spesso spiazza gli interlocutori catturando - e accentrando su di sé - l’attenzione di tutti coloro che vogliono non solo un partito diverso ma anche una politica diversa. La sua forza dirompente sta nel partire da un trampolino classicamente partitico, anzi, da quello più legato alle tradizioni di partito strutturato e radicato, per proiettarsi al di fuori, trascinando con sé coloro che aspirano a una politica e a un partito dai tratti inediti. Lo stesso slogan della rottamazione, termine urticante quanto efficace, utilizzato per portare alla ribalta una nuova classe dirigente con una sfida «generazionale» a viso aperto, risuona nella politica italiana come un tuono fragoroso. Di fronte a Berlusconi e Monti, Bersani e Grillo, tutti ultra sessantenni se non ben di più, il trentenne Renzi non può che essere l’alfiere del.nuovo, il rinnovatore a 360 gradi. Inoltre, vi sono tendenze generali che favoriscono lo sfi­ dante. La personalizzazione della politica, infatti, è sempre più pervasiva anche nel contesto italiano, e spinge vigorosamente sulla scena personalità di spicco come Renzi, fomentandone l’incipiente leaderizzazione. Il suo naturale egocentrismo, so­ spinto ulteriormente da una sconfinata ambizione, non sarebbe bastato se non fosse stato messo al servizio di un progetto con finalità collettiva, quello della conquista del partito. Il legame tra Renzi e il Pd è stato spesso sottostimato, e invece costituisce la chiave di volta per comprendere il successo del sindaco di Firenze. Per quanto si possa pensare a una caval­ cata solitaria, Renzi non si muove in un’ottica solo personale. Sa bene che iniziative individuali come quelle promosse, con ben altri mezzi, da Luca Corderò di Montezemolo con Italia futura o da Monti con Scelta civica hanno il fiato corto perché nessuno ha le risorse del Berlusconi di un tempo, unico caso di successo di una corsa solitaria, incentrata su un solo leader. Per questo, Renzi, dopo l’onorevole sconfitta contro Bersani

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nel dicembre del 2012, si ripropone con inalterato entusia smo. Di fronte a una platea di sostenitori più rancorosa che delusa, Renzi nel suo discorso della sconfitta eleva un inno alla politica e alla dimensione collettiva delle imprese politi che, rilanciando verso il futuro. Comprende meglio di tutti i suoi seguaci che la vittoria è a portata di mano, al prossimo giro. Non sono solo i dati generazionali che gli permettono di guardare con fiducia all’avvenire, ma è la constatazione che la conquista solitaria di un 40% di consensi sono un capitale troppo prezioso per lasciarlo disperdere nella recriminazione e nel settarismo. Pur con una certa, comprensibile, riluttanza (passano poche settimane tra la fine delle primarie e l’inizio della campagna elettorale) e con qualche frizione con l’organizzazione, Renzi partecipa comunque, e ben più convintamente di altri suoi sodali, alla campagna elettorale del 2013. Egli acquista quin­ di un credito e un rispetto anche tra i vincitori della disfida delle primarie; questo gli consente di portare in parlamento un gruppo di suoi fedelissimi e di mantenere contatto con la segreteria bersaniana, nella quale gioca un ruolo di trait d’union il presidente della regione Emilia-Romagna, Vasco Errani. Le primarie hanno, in sostanza, dato ragione a Bersani che aveva tanto insistito per indirle, perché hanno «tenuto dentro» e istituzionalizzato il rottamatore. Allo stesso tempo, però, ne hanno dimostrato la forza, non solo all’esterno ma nel cuore rosso del partito. Il vero punto dolente riguarda piuttosto lo stato di salute del partito. Il Pd, sospinto nei sondaggi dal fervore suscitato nell’opinione pubblica dalla disfida delle primarie, sembra ve­ leggiare verso un sicuro successo alla testa della coalizione Italia bene comune. I sondaggi, per la prima volta, danno il Pd ben oltre il 30%. Tuttavia, lo stato di salute dell’organizzazione del partito non sembra buono. Gli iscritti sono intorno al mezzo milione, in netto calo rispetto al picco dei circa 800 mila dei primi anni. L’emorragia più grave si riscontra al Sud con un dimezzamento degli iscritti, e con punte del 69% e 67% in meno in Puglia e Campania. Questa debolezza si riverbera sul risultato delle urne. Una campagna elettorale piatta, funestata da plumbei manifesti che ritraggono il segretario Bersani in una posa immobile su sfondo grigio scuro, tutta proiettata a discettare

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sulle eventuali compatibilità tra Vendola e Monti in un futuro governo a guida Pd, non regge all’urto dell’antipolitica grillina. Il risultato lascia esterrefatti anche perché nessun istituto di sondaggi aveva previsto l’esito, e cioè un testa a testa sia tra le due storiche coalizioni di centro-destra e centro sinistra, sia tra Pd e 5 stelle per il primato. Il 25,5% ottenuto dal Pd sul territorio nazionale lo colloca appena dietro il M5s e solo grazie ai voti degli italiani all’estero recupera, di poco, la prima posizione. A ogni modo, la vittoria della coalizione di centro-sinistra le attribuisce la maggioranza alla Camera dove il Pd conta 293 deputati, con un’inedita, ampia partecipazione femminile (38%) e un certo ringiovanimento (l’età media è di 47 anni superiore solo a quella dei grillini). Tuttavia, ancora una volta il Senato rappresenta il tallone d’Achille della sini­ stra e quindi, privo di maggioranza nella camera alta, il Pd si muove a tutto campo per formare un governo. Il primo passo, quello dell’elezione dei presidenti delle camere, ha successo e sembra spianare la strada. Con una coraggiosa rottura rispetto ai tradizionali equilibri interni la segreteria propone due figure non fortemente caratterizzate politicamente ed estranee alle logiche interne di partito: la neodeputata di Sei Laura Boldrini alla Camera e l’ex magi­ strato antimafia Pietro Grasso al Senato. La scelta di Grasso è particolarmente azzeccata perché smuove in suo favore alcuni grillini siciliani che rendono omaggio alla figura e all’impe­ gno del magistrato conterraneo, votandolo contro il parere di Grillo. A questa mossa innovativa Bersani fa seguire un «programma di cambiamento» in otto punti costruito ad arte per blandire il M5s. Ma l’incontro decisivo con la delegazione grillina si risolve in un disastro. Con arroganza e protervia inusitate i capigruppo del M5s irridono le proposte di Bersani, preso in contropiede e incapace di replicare a tono. La sua disastrosa performance, ripresa in diretta, ne azzoppa la leadership. Il colpo finale viene dall’elezione per il presidente della Repubblica: i due candidati proposti, prima Franco Marini e poi Romano Prodi, vengono travolti dai franchi tiratori. Bersani a quel punto si dimette. E al Pd non rimane che andare al Quirinale, insieme ad altri, a pregare Napolitano affinché accetti un secondo mandato, e acconciarsi a un governo di grande coalizione con Forza Italia e Scelta civica.

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L’esperienza di governo con una Forza Italia tonificata fino all’esaltazione dal ritorno al potere ha le asprezze di un calvario. Enrico Letta, inviato a gestire l’esecutivo, con la sua calma c determinazione riesce a contenere in qualche misura l’irruen­ za forzista, incarnata a tutto tondo da un tonitruante Renato Brunetta. Ma il Pd è in uno stato di sofferenza acutissima. Soprattutto, i 101 parlamentari che hanno pugnalato la candi datura di Prodi riaffiorano continuamente nella coscienza del partito, come un’ombra di Banco. Guglielmo Epifani, nominato segretario reggente, non può far altro che gestire il partito in attesa di un nuovo processo elettorale per la segreteria. Dopo un po’ di suspence sulla decisione o meno di presentarsi, Renzi si ripropone. In questo caso le primarie sono solo di partito e non di coalizione come le precedenti. Vi partecipano, oltre all’europarlamentare Gianni Pittella che viene eliminato dopo i voti dei circoli del partito, Gianni Cuperlo, ex segretario dei giovani Pei e rappresentante della tradizione diessina, e Pippo Civati, alter ego di Renzi nei primi passi della rottamazione poi separatosi per seguire un’impostazione più libertaria. Anche in questa occasione la competizione interna ravvi­ va il partito facendolo uscire dalle secche della non vittoria delle elezioni e successivi disastri. Gli iscritti risalgono sopra il mezzo milione (515.623), e la partecipazione al voto nei cir­ coli, primo passo del processo di scelta del leader, è altissima in quanto coinvolge quasi 300 mila iscritti. Questo grande afflusso si registra soprattutto nel Centro-Sud, tanto che in Lazio, Campania e Sicilia partecipano più numerosi rispetto alle storiche regioni rosse. Il fatto che i circoli delle regioni meridionali si affollino più di quelli a maggior radicamento fa ritenere che la tradizione del voto ad personam si sia diffusa anche all’interno del Pd. Renzi vince, primeggiando sia nel voto tra gli iscritti (45,3% contro il 39,7% di Cuperlo) sia, ben più nettamente, nella votazione finale aperta a tutti. I 2.797.858 cittadini che si recano alle urne l’8 dicembre 2013 per votare il segretario plebiscitano il sindaco di Firenze con il 67,5% di consensi. Agli due altri contendenti restano le briciole. La netta sconfitta di Cuperlo e della tradizione che incarna non va ricercata tanto nell’esito finale quanto nel risultato del voto degli iscritti nei circoli, dove perde ovunque salvo in Emilia-Romagna: anche tra i militanti viene premiato il «nuovo».

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Il voto del 2013 consolida, con enfasi accresciuta, il desi­ derio di rinnovamento espresso l’anno prima. Come dicono chiaramente molti ex sostenitori di Bersani e militanti di lunga data, «adesso vogliamo vincere». Renzi, con la sua età, la sua carica innovativa, il suo impeto trasformativo, il suo linguag­ gio diretto del tutto estraneo alla prosa dei «vecchi» leader, incarna il desiderio di rinnovamento e riscossa che da tempo matura nel partito e oltre, nella sinistra nel suo complesso. Non ostacolano questa gigantesca apertura di credito alcune sue posizioni eterodosse sul piano economico-sociale che vengono messe da parte per non disturbare il sogno di una vittoria. Gli organi dirigenti che escono da questa competizione dimostrano uno slittamento di posizioni non indifferente, anche in virtù di un profilo sociodemografico diverso. In primo luogo, i delegati congressuali sono più giovani rispetto al passato (un terzo ha meno di 40 anni), quasi la metà non proviene dai due partiti fondatori e il livello di istruzione è maggiore rispetto al passato. Ma diversamente dalle primarie dell’anno prima Renzi non è più il candidato dei giovani, degli studenti e dei laureati: il suo profilo si è standardizzato su quello del partito nel suo complesso e ha lasciato la rappre­ sentanza delle fasce giovanili e acculturate a Civati, di gran lunga il preferito da questa componente anagrafica e sociale. Renzi non è più l’alfiere di una parte sola del partito: ora che anche molti capelli bianchi lo sostengono vanta un seguito che riflette la composizione del partito nelle sue varie facce. Infine, la sua vittoria, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non sposta a destra l’asse del partito: i delegati si collocano grosso modo sulla stessa posizione media del 2012, ma ben più a sinistra rispetto al 2009. Questo perché si sono quasi esaurite le provenienze margheritine e popolari e, d’altro canto, i sostenitori dei due competitori di Renzi, e soprattutto la pattuglia civatiana, esprimono posizioni più radicali rispetto a ogni altra corrente interna del passato. Questo spostamento a sinistra del partito è in buona parte, oscurato dall’immagine «centrista» ed estranea ad ogni riferimento (post)comunista di Renzi. In realtà, anche grazie a questo profilo progressista dei quadri del partito, il segretario prenderà, nell’immediato e nel tempo, una serie di decisioni decisamente laiche e di sinistra. La prima, adottata subito, taglia il nodo gordiano nel quale si era attorcigliato a lungo il partito per i veti degli ex

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margheritini, e cioè l’appartenenza o meno al Partito sociali sta europeo (Pse). Con una decisione tranchant Renzi poni' la questione nei suoi termini esatti: il Pd non può che essere dalla parte opposta ai moderati del Ppe e quindi deve aderire al Pse, esattamente come auspicava la gran maggioranza dei delegati. Poi verranno le riforme, coraggiose, sui diritti civili, dal matrimonio gay al biotestamento, dal fine vita alla step child adoption. C ’è quindi un paradosso che si insinua nel partito. I quadri intermedi del 2013 rompono con il passato quanto a profilo sociodemocrafico - molto più giovane, femminile e istruito - e a posizioni politiche - molto più laiche e di sinistra. Allo stesso tempo, però, Renzi non incarna - o incarna solo parzialmente, con l’eccezione vistosa e importante delle due scelte sopracita­ te - una caratura di sinistra del partito. L’indirizzo politico del suo governo andrà per la maggior parte in direzioni diverse, e questo produrrà una lenta emorragia di dirigenti, di militanti e, infine, di elettori. La contraddizione tra grandi speranze di rinnovamento, tutte indirizzate quasi salvificamente al nuovo segretario, intessute di prospettive di sinistra, e un’azione politica spesso opposta verrà a galla con il tempo, producendo effetti devastanti. Comunque la topografia interna non ha più molti contatti con il passato in quanto ha azzerato le tradizioni del vecchio Pd: le due componenti fondanti sopravvivono nell’élite ma non si ritrovano, più, sotto questo strato. Il partito è sempre più di «nativi» visto che il 43,9% dei delegati all’Assemblea nazionale del 2013 non ha precedenti appartenenze. Renzi irrompe nel Pd dissacrando molti suoi riti ma caden­ do anche in alcune goffaggini. Tra queste si segnala la prima riunione della segreteria, irritualmente convocata a Firenze nella sede del suo comitato elettorale (privo di ogni simbolo del partito) e non nella sede nazionale del Pd. Sul piano politico la mossa più sconcertante riguarda l’invito rivolto a Berlusconi a un incontro per discutere le riforme istituzionali. Questa mossa solleva ire, e ironie, dentro e fuori il partito perché la mano tesa all’avversario storico viene offerta a chi in quei mesi sconta ancora la condanna ai servizi sociali inflittagli dal tribunale di sorveglianza di Milano. Un gesto così «generoso», che rompe l’isolamento in cui si trova Berlusconi e gli restituisce l’onore politico, incrina il clima consensuale che Renzi aveva instaurato dopo le primarie includendo esponenti delle minoranze negli

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organi direttivi, a incominciare dalla presidenza del partito assunta, con una certa ritrosia, da Cuperlo (che però lascia dopo appena un mese). Le perplessità si accentuano con le modalità della sostituzione di Enrico Letta con lo stesso Ren­ zi alla guida dell’esecutivo Pd-Ncd. Anche se la decisione è ratificata a larghissima maggioranza dalla Direzione (solo la corrente civatiana vota contro) il vulnus all’immagine di un leader sincero e trasparente che rigetta la politica velenosa degli intrighi è profondo. Tanto più che un messaggio, diventato virale, inviato poche giorni prima da Renzi a Letta, recitava «Enrico, stai sereno». L’ingresso del segretario a Palazzo Chigi imprime indubbia­ mente un altro ritmo all’azione governativa e, contestualmente, rende ben chiaro che l’esecutivo non solo è a guida Pd, ma è dominato da questo partito, e dal suo segretario/presidente del Consiglio. Più che un avvicendamento tra due dirigenti piddini si assiste a una rivoluzione nei modi, nello stile e nelle stesse proposte politiche. Quanto allo stile, non potrebbe essere più lontana dall’aplomb british e dalla prosa pulita e piana di Letta la torrenzialità pirotecnica di Renzi: sarebbe stato inconcepibile per l’elegante e formale Letta intervenire in Senato nel discorso sulla fiducia con una mano in tasca come ha fatto Renzi. (E le conferenze stampa infarcite di slide prima incuriosiscono, poi sollevano le perplessità di chi vede in queste modalità un’ingenua seduzione, prona a scivolare nella parodia, per una comunicazione managerial-efficientista da convention di venditori più che da uffici governativi.) A ogni modo, il successo arride in maniera sorprendente, e sopra ogni misura: alle europee il partito tocca l’inarrivabile tetto del 40,8%, doppiando il secondo arrivato, il M5s, ferma­ tosi al 21,2%. Il timore, alimentato da sondaggi non accurati, di un possibile sorpasso dei 5 stelle può aver convinto alcuni settori a rafforzare il Pd, ma non si è trattato di un voto di­ fensivo dettato dalla paura. Al contrario, la motivazione più diffusa indica fiducia nella «competenza» del Pd nell’affrontare le questioni più rilevanti. Il rinnovamento dell’immagine, con il giovane Renzi in maniche di camicia (bianca) e sprizzante energia da ogni poro, ha certo aiutato (così come gli 80 euro mensili assegnati al ceto medio-basso poco prima delle ele­ zioni), ma è il marchio Pd, che rimanda ad un partito serio e affidabile, che ha fatto la differenza, più che la sola personalità

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di Renzi. Mentre Bersani, che pure incarnava a tutto tondo per sua storia personale ed esperienza di governo il marchio Pd, al punto da definirlo «la ditta», non era riuscito a farlo penetrare nell’elettorato rendendolo invece grigio e peniten ziale, il giovane Renzi l’ha ricoperto di quella patina fresca c smart di inevitabile, maggiore appeal. In sostanza, la solidità «governativa» del Pd, guadagnata anche portando acqua al governo Monti (e subendone, neH’immediato, le conseguenze alle urne) aveva bisogno di un’immagine più accattivante per risaltare in tutta la sua forza. La distribuzione geografica del voto rinforza questa ipotesi vista la penetrazione inusitata del partito nelle regioni setten­ trionali, specialmente nel Nord-Est, dove arriva al 43,5%; in Veneto, terra ostile quant’altre mai, il Pd aumenta i propri voti del 20% rispetto alle europee precedenti. Il Pd non solo sfonda in terreni impervi, ma si rafforza ulteriormente nelle regioni rosse dove, sia in Emilia-Romagna sia in Toscana, su­ pera il 50% con, rispettivamente, il 52,5% e il 56,4%. Cifre, letteralmente, da capogiro, che non hanno riscontro nella storia della sinistra italiana, e bisogna tornare alla De degli anni Cinquanta per vedere percentuali analoghe. In effetti, per quanto la reazione di Renzi sia insolitamente sobria nell’immediato, forse consapevole delle gigantesche aspettative che sono state poste sul suo governo, passo a passo cresce la sua baldanza. Trascinato da un congenito egocentri­ smo e rinchiuso nella cerchia ristretta dei suoi fedelissimi, il cosiddetto «giglio magico», Renzi innalza la sua figura su un piedestallo inarrivabile disconoscendo qualità e capacità ad ogni altro soggetto. Per questo bistratta e maltratta dirigenti non in linea e organizzazioni non compiacenti come i sindacati. La curvatura sempre più pro-market, coerente con la sua impostazione presentata nelle primarie, porta il governo a una conflittualità continua con tutti i sindacati e in ispecie con quello di riferimento, la Cgil. Dietro questa scelta - e altre sulla stessa lunghezza d’onda come il Jobs Act, che ridefinisce i contratti di lavoro decurtando le garanzie dei lavoratori in cambio di (eventuali) riduzioni del precariato - si intravede un approccio che rimanda alla terza via blairiana. Solo che Renzi non si rende conto del mutato contesto politico ed economico-sociale: i sindacati italiani non hanno certo mai goduto dello (stra)potere che avevano in Gran Bretagna, la fase

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economica è recessiva e non espansiva come alla fine degli anni Novanta-inizio Duemila (l’epoca dei governi Blair), e la società italiana è piegata dalla disoccupazione, dall’impoverimento e dal timore del futuro. Questo slittamento in senso liberista potrebbe essere in sintonia con l’ipotesi che i consensi alle europee fossero dovuti a uno sfondamento a destra grazie alla conquista di ceti sociali fino ad allora insensibili al corteggiamento della sinistra. Benché qualcosa si sia mosso, si tratta di piccole cifre perché il Pd ha vampirizzato i propri alleati - più della metà degli elettori della montiana Scelta civica e circa un terzo di Sei sono affluiti al Pd - mentre ha catturato dai partiti di destra meno del 10% del loro elettorato. La realtà è che sono ritornati al Pd tanti elettori che nel passato lo avevano votato (o avevano soste­ nuto i partiti fondatori) e poi si erano allontanati dirigendosi verso astensione, liste minori, Lega e, ultimamente, M5s. Gli elettori di sinistra si erano disaffezionati e si erano dispersi in mille rivoli: vedendo un Pd radicalmente rinnovato, privo delle incrostazioni d’un tempo, con una leadership giovane e volitiva, aliena da gergaliSmi e schemi mentali d’un tempo che fu, hanno investito l’ultimo residuo di fiducia nel loro campo d’origine. Nel corso degli anni, questo investimento fiduciario si è volatilizzato. Quando Renzi assume la segreteria cala come un corpo estraneo perché non ha mai «praticato» il partito. Eletto giovanissimo prima presidente della provincia di Firenze poi sindaco del capoluogo, ha scarsa esperienza di vita di partito; ha costruito la sua carriera non per file interne ma impiantando comitati a sostegno delle sue iniziative. La sua cavalcata alla conquista del Pd parte infatti dall’esterno. Centro nevralgico per le sue attività è la fondazione Big Bang, costituita nel febbraio del 2012 e poi trasformata in fondazione Open, del cui consiglio direttivo fanno parte i rappresentati massimi del giglio magico, Alberto Bianchi (presidente), Maria Elena Boschi (segretario generale), Marco Carrai e Luca Lotti. La fondazione ha lo scopo dichiarato di «supporta[re] le attività e le iniziative di Matteo Renzi, fornendo il suo contributo fi­ nanziario, organizzativo e di idee alle attività di rinnovamento della politica italiana, in particolare quelle articolate intorno alla figura di Renzi». Assai pochi sono le fondazioni e i think tank così espliciti nel sostegno a una persona sola...

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La sostanziale estraneità al partito precedentemente alla sua elezione e il brevissimo tempo trascorso al quartier generale del Nazareno, uniti alla decisione di non passare la mano una volta entrato a Palazzo Chigi, influiscono negativamente sulla vita interna del partito. I vicesegretari, Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini, non hanno né l’autonomia né lo status per dirigere. E poi, su ogni questione rilevante, interviene direttamente Renzi. La conseguenza di tutto questo è duplice: uno sbandamento organizzativo (le iscrizioni calano e l’atti­ vità politica in periferia langue) e una dilagante conflittualità interna al centro. L’affanno organizzativo è relativo in quanto gli iscritti non scendono in maniera precipitosa (si attestano poco sopra i 400 mila); tuttavia rispetto al trionfo elettorale non si registra un’impennata di adesioni. Al di là dei numeri delle adesioni viene comunque unanimemente lamentata una perdita di slancio nelle attività locali: sezioni e circoli chiudono e le mitiche feste dell’Unità spariscono una dopo l’altra. Sono segnali di una minore disponibilità ad attivarsi. Del resto, la mistica delle primarie aperte, dove tutto si decide, e l’enfasi sulla comunicazione, più che sulla partecipazione, raffreddano gli entusiasmi e la disponibilità a militare attivamente. A questo si aggiunga l’impennarsi dei contrasti interni. Lo stile tranchant di Renzi, al limite dello sprezzante, produce abbandoni più o meno clamorosi. La fuoriuscita di Civati, interprete della componente più moderna e libertaria, sostenuta da una quota rilevante di giovani con alto livello di istruzione (il 44% dei suoi delegati ha meno di 45 anni, contro il 29% dei renziani, e il 45% è laureato contro il 34%), passa quasi sotto silenzio visto che avviene in un momento alto della leadership renziana; tuttavia, mostra tutto il malessere che serpeggia in quei segmenti di sinistra laica e radicalmente riformatrice che speravano in un Pd forte per realizzare questi progetti. Invece la direzione politica del governo e del partito vanno in senso contrario. Gli amorosi sensi che Renzi scambia con gli imprenditori, dimenticando troppo spesso gli operai in cassa integrazione, il continuo corpo a corpo con il sindacato, che porta addirittura allo scontro con gran parte del mondo insegnante, bastione del voto di sinistra, per una riforma (La buona scuola), gestita disastrosamente ben al di là dei suoi (limitati) demeriti, curvano il Pd in direzione moderata. Del resto, se quasi i due terzi dei membri dell’Assemblea nazionale

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erano tendenzialmente pro-market ciò significa che era già in atto una mutazione significativa degli orientamenti del corpo attivo del partito. E Renzi lo interpreta, e lo esaspera. Lungo questa strada «si perdono i pezzi», e anche lo stile adottato dal segretario, indisponibile al dialogo e al compromesso, acuisce le difficoltà di convivenza interna. Le prime crepe inquietanti si aprono nella tornata elettorale della primavera del 2013. Il conflitto tra le anime del partito esplode in Liguria: il casus belli viene da una malaccorta ge­ stione delle primarie che avrebbe indebitamente favorito la candidata legata al segretario nazionale, contrapposta a Sergio Cofferati, europarlamentare ed ex segretario della Cgil e sin­ daco di Bologna. L’asprezza di quel conflitto, che provoca la fuoriuscita di Cofferati dal partito (e la sconfitta del Pd nella regione), è un indicatore dello stato di tensione che attraversa il partito. I tentativi di sedare i contrasti messi generosamente in atto dal vicesegretario Guerini possono ben poco di fronte all’irruenza del fronte renziano. Il Pd continua a sfilacciarsi al centro e in periferia, sia con la smobilitazione degli oppositori interni (le riunioni degli organi dirigenti si riducono a una rapida carrellata di opinioni di 5 minuti o poco più), sia con il silenzioso abbandono di militanti e quadri locali. La leadership del partito gioca tutto sulle riforme istituzio­ nali. Dopo aver approvato, tra le proteste della componente bersaniana che però alla fine cede, una nuova legge elettorale a metà del 2015, viene completato, nell’aprile del 2016, l’iter della riforma costituzionale (votata anch’essa da tutti i parla­ mentari Pd nonostante mugugni e perplessità); una riforma che tende a modificare il rapporto centro-periferia a favore di una ri-centralizzazione, a rendere più agevoli ed efficaci gli istituti di democrazia diretta e a eliminare l’elezione diretta del Senato e molte delle sue funzioni. Renzi fa della riforma il banco di prova della sua leader­ ship. Non aspetta che siano le opposizioni parlamentari a chiedere un referendum confermativo: lo promuove anche il Pd. E la mossa per ottenere una piena legittimazione popolare archiviando l’accusa di essere arrivato al governo con una congiura di palazzo, senza essere stato consacrato dal voto popolare. Per circa sei mesi, fino al 4 dicembre 2016, il Pd è tutto ripiegato su questa sfida. Le illusioni di un trionfo fatte balenare dai primi sondaggi svaniscono presto di fronte

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al montare, nella società civile così come negli altri partili, di una ferma ostilità al progetto. Anche Berlusconi, che puri­ aveva ripreso i contatti con Renzi dopo il lungo freddo causato dall’emarginazione del Cavaliere dalle trattative per reiezionidel presidente della Repubblica all’inizio del 2015, e aveva fatto votare a favore della riforma, alla fine cede alle insistenzedella sua componente più antigovernativa e si schiera contro. Nel tentativo di invertire la tendenza negativa Renzi (poi imitato dalla fedelissima Maria Elena Boschi) butta tutto il peso della sua leadership in una sfida paragollista: o votate a favore, o mi dimetto. In realtà, si tratta di un disastroso erroridi calcolo. Proprio la personalizzazione della contesa acuisci­ la politicità dello scontro. Il referendum è sempre meno sui contenuti e sempre più sul governo e, in primis, sulla sua gui­ da. In questa prova il Pd è praticamente isolato: non serve a più di tanto il soccorso che un gruppo di fuoriusciti da Forza Italia, guidati da Denis Verdini, gli assicura in parlamento. Anzi, viene giudicato con sempre maggiore diffidenza dalle minoranze interne che vi vedono i prodromi di uno slittamen­ to a destra. Infine, il Pd è minato al suo interno: una parte dell’opposizione, che pure aveva votato disciplinatamente ma obtorto collo la riforma in parlamento, non cela più il proprio dissenso e si schiera apertamente e attivamente per il No invocando libertà di coscienza su questioni istituzionali. Un vulnus, questo, alla coesione e all’unità del partito, e foriero di successive, insanabili, divisioni. Il risultato della consultazione è senza appello. Soltanto il 40,6% appoggia la riforma. Ancora più inquietante il profilo di chi l’ha sostenuta - persone con medio-basso livello sopra i 65 anni, pensionati - che ormai coincide, in gran parte, con quello dell’elettorato del partito. Il cuore pulsante della società, in termini anagrafici, sociali e culturali, si è opposto. Questo esito appariva scontato se fossero state considerate nel loro vero significato le sconfitte per l’elezione del sindaco a Roma e a Torino avvenute in primavera, e cioè il distacco dal Pd delle sue fasce popolari e di ceto medio. Non è riuscito l’incontro, in linea di principio vincente, dei consensi delle classi medio­ alte - quelle dei «bei quartieri» - con quelli, tradizionali, di profilo più popolare. Allo sfondamento nelle europee del 2014 è subentrato un altrettanto forte arretramento. Solo che la leadership sembra

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non rendersene conto e si culla del nuovo 40% considerandolo come un consenso al partito. Inoltre, Renzi si limita a dimet­ tersi da presidente del Consiglio mantenendo la segreteria del partito, contrariamente alle precedenti dichiarazioni di voler abbandonare la politica in caso di sconfitta. (E con ciò buttando alle ortiche la ratio della concentrazione nelle stesse mani del ruolo di premier e segretario, su cui aveva tanto insistito quando era entrato a Palazzo Chigi.) Non si rende conto che, come dimostrano tutte le analisi, il voto è stato motivato dalla sua presenza: il 50-60% degli intervistati (la cifra varia a seconda dei sondaggi), indipendentemente dalla loro scelta di voto si è espresso su questa base non per il contenuto della proposta referendaria; e la gran maggioranza ha votato contro di lui. Del resto, quando meno del 30% esprime fiducia in lui (e ancora minore è la considerazione per Maria Elena Boschi: 21% ) è arduo vincere una sfida personalizzandola. L’esito del referendum dimostra che ormai il problema dell’identità del Pd, su cui tanto si è dibattuto dentro e fuori il partito, è superato perché è sussunta nella figura di Renzi, al punto che alcuni parlano di PdR, Partito di Renzi. La personalizzazione - e la personalità - di Renzi hanno agito da catalizzatore, nel bene e nel male. Solo che, se l’identità sembra coincidere con il leader, lo smarrimento della sua capacità di guida impatta disastrosamente su tutto il partito. La sopravvivenza nel breve periodo è assicurata dal governo Gentiioni, volto cortese e rassicurante dopo le tempeste renziane. Ma il leader è sempre il segretario. E non muta in nulla dopo la sconfitta. Anzi, sembra alla ricerca di una rivincita personale. I rapporti interni si fanno tesi, al limite della rottura, che in effetti deflagra nel febbraio del 2017 con la fuoriuscita di Bersani, D ’Alema e altri dirigenti storici, difensori (in ritardo) della tradizione «progressista» del partito. Per Renzi, che non ha fatto nulla per impedire l’ennesima scissione, «nemmeno una telefonata», come rivela un suo stretto collaboratore, è l’occasione per rilanciare: si dimette e avvia in tutta fretta il processo per le primarie. Sfidanti, da sinistra, sono il ministro della Giustizia Andrea Orlando, le cui qualità come ministro non compensano un deficit evidente di leadership, e il presi­ dente della regione Puglia Michele Emiliano, barricadiero ma limitato da una dimensione localista.

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I votanti - peraltro molti meno rispetto al passalo (1.817.412) - sostengono in massa il segretario uscente: vii’ ne eletto con il 69,2%. Ciò significa che per il popolo de l Pd, pur piegato dalle sconfitte, è ancora lui il leader a cui affidarsi. Come hanno scritto Antonella Seddone e Marco Valbruzzi: «Renzi non è più quel corpo esterno, tollerato perché, pur turandosi il naso, pareva essere l’unica via per vincere le elezioni». Renzi è il Pd, nonostante tutto. Solo che la divaricazione tra le anime del partito si è enormemente ac­ centuata. Tra i delegati della maggioranza e quelli di Orlando (la minoranza più corposa) non c’è quasi terreno comune: gli orlandiani sono nettamente schierati a sinistra (74%), mentre i renziani si posizionano preferenzialmente nel centro-sinistra (56%); tra le fila orlandiane quasi la metà dei delegati ha meno di 40 anni mentre tra i renziani sono il 30% (erano il 37% nel 2013, e ben di più nel 2012); le prospettive per il futuro sono diametralmente opposte dato che in vista delle prossime elezioni gli orlandiani puntano a un accordo con le sinistre (92%) mentre i renziani non vogliono alcuna alleanza (40%); e se un’eventuale alleanza con la sinistra non bastasse gli orlandiani vogliono stare all’opposizione (53%) mentre i renziani puntano a un accordo con il centro o il centro-destra (79%) (il M5s non è preso in considerazione da nessuno o quasi); la polemica antisindacale condotta dal governo Renzi è pienamente confermata dai suoi delegati (70%), contro il 23% degli orlandiani; infine, i renziani indicano uguaglianza e merito in misura simile (40% a ciascun valore), mentre gli orlandiani prediligono la sola uguaglianza (80%). L’epilogo (forse provvisorio) della stagione renziana si ha con le elezioni del 4 marzo 2018. La coalizione che raccoglie Psi, +Europa (la formazione creata da Emma Bonino), la lista Civica popolare degli ex alfaniani dell’Ncd, e l’improvvisato gruppo di prodiani, Insieme, è ancora guidata da Renzi. A nulla sono valse le esortazioni di candidare il presidente del Consiglio Gentiioni, che ha raccolto un consenso sempre più ampio durante la sua premiership tanto da avere (cosa rarissima) un gradimento superiore rispetto al momento della sua investitura. In realtà, i rapporti prima idilliaci tra Renzi e Gentiioni sono andati incrinandosi nel corso dei mesi per una manifesta insofferenza del segretario nei confronti del premier che guadagnava in popolarità mentre la sua stagnava a livelli

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molto bassi. Una rivalità sempre smorzata da Gentiioni che però raggiunge un livello di guardia con l’ordine del giorno di sfiducia nei confronti del governatore della Banca d’Italia pre­ parato, a sua insaputa, e contro il suo parere, dalla fedelissima (di Renzi) Maria Elena Boschi, sottosegretaria alla presidenza del Consiglio. Una mossa che dimostra tutta la curvatura protopopulista, irrispettosa delle prassi istituzionali, a cui la segreteria ha sottoposto il partito nell’illusoria convinzione di sottrarre consensi ai 5 stelle. Alle elezioni il partito precipita al 18,7%, con una perdita di 6,7 punti percentuali, il peggior risultato nella storia della sinistra. Totalmente abbandonato dal Sud, dove non vince nemmeno un collegio e persino sorpassato nelle sue, ormai ex, regioni rosse, a eccezione della Toscana, il Pd trattiene solo persone anziane e pensionati: il calo è particolarmente forte tra operai e lavoratori a basso reddito, disoccupati, e soprat­ tutto, insegnanti, irritati dal contestatissimo provvedimento del governo Renzi definito con scelta infelice «La buona scuola». L’immagine di partito nuovo e moderno, giovane e arrem­ bante, crolla definitivamente. Renzi annuncia le sue dimissioni, che verranno formalizzate solo molti mesi dopo. Come recita nella conferenza stampa postelettorale, in realtà, non c’è nulla da cambiare: è stata tutta colpa di una serie di coincidenze sfortunate e di cattiva comunicazione. L’egocentrismo del leader non consente autocritiche. Il Pd è rientrato nei suoi ranghi, quelli del 2013, in quanto il profilo sociodemografico del suo elettorato non è cambiato granché: semplicemente, ha perso parte del suo elettorato tra­ dizionale sconcertato da un’azione governativa e da messaggi indirizzati fuori dall’area di sinistra e non ha catturato coloro ai quali quei messaggi erano indirizzati. Alla fuoriuscita dei sostenitori tradizionali si è poi aggiunta la defezione di quella componente giovanile e acculturata che era stata trascinata nel partito da Civati e che si è dispersa con la fuoriuscita del suo interprete. Il fragore della comunicazione renziana e la sua «centralità» nella politica italiana e nel partito hanno messo in ombra quanto le sue scelte stessero scavando la terra sotto i piedi del partito. Il successo del 2014 era un successo di credito e di fiducia di un partito ancora unito che voleva «riprendersi» e a cui tutti volevano dare una mano. La dispersione delle energie nuove senza sostituirle ha minato le prospettive di un

partito incapace di fronteggiare una concorrenza, quella dei '> stelle, che, per la prima volta, insidiava il suo terreno di caccia privilegiato, fino a spopolarlo.

Capitolo dodicesimo

Pedi. L’equivoco della destra moderata

Le elezioni del 2008 sono trionfali per il Popolo delle libertà (Pdl), che ottiene il 37,4% e, insieme alla Lega, dispone di una ampia e confortevole maggioranza in entrambe le camere. Ad alimentare il consenso alla destra contribuiscono, oltre a una valutazione negativa sull’operato del governo Prodi (nonostante i buoni risultati economici), la polarizzazione sui temi etici (aborto, fecondazione assistita, matrimoni gay) e l’emergere prepotente della questione sicurezza-immigrazione. La radicalizzazione in senso tradizionalista dell’elettorato moderato è anche frutto di un pressante interventismo delle gerarchie cattoliche. Lo sponsorship della chiesa, esteso fino al paradosso di accet­ tare tranquillamente che i leader della destra, tutti divorziati, sfilassero verso San Pietro alla manifestazione indetta «in difesa della famiglia», ha indirizzato molti cattolici verso il Pdl, tanto che lo ha votato il 63% dei praticanti. Inoltre, il Pdl raccoglie il consenso di una nutrita componente di elettori «spaventati»: lo vota il 61% di coloro che esprimono preoccupazione per gli immigrati e il 48% di coloro che temono per la loro sicu­ rezza personale. Proprio perché tradizionalismo e insicurezza sono i due drives più potenti del voto al Pdl (e alla Lega) ne consegue un rafforzamento del consenso tra quelle categorie sociali molto sensibili a questi problemi: i meno istruiti, le persone anziane e le casalinghe, coloro che guardano molto la televisione e che hanno un rapporto lontano, distaccato ed «emotivo» nei confronti dei messaggi politici. Un elettorato con queste caratteristiche, in termini sociologici, «periferico», è comunque lontano anni luce dal profilo degli elettorati dei partiti moderati. Questo incontrovertibile ritratto della constituency pidiellina azzera ogni possibile riferimento alla fantasmatica «rivoluzione liberale» che il Cavaliere e i suoi intendereb-

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belo immettere nella società italiana attraverso un’azione ili governo conseguente. In realtà, il problema non si pone neppure perché il Peli, al di là di una retorica liberista e modernizzante, ha altri riferimenti culturali e si muove ver­ so settori sociali tali da connotarlo piuttosto come alfiere, e continuatore, di una forma di populismo. Un profilo di questo genere non rappresenta una rottura rispetto al passato dovuta eventualmente alla confluenza di An nel tronco di FI in quanto il Pdl riprende le caratteristiche, assestate ormai da anni, dell’elettorato di Forza Italia. La progressiva, sempre più netta, curvatura in direzione populista del messaggio berlusconiano, irridente delle norme, e insofferente delle istituzioni e delle prassi quando esse coartano il dispiegarsi prometeico del leader, vellica le pulsioni antipolitiche e anti-istituzionali del suo elettorato. Ma, altresì, alimenta un sentimento che poi si manifesterà dirompente di lì a pochi anni investendo lo stesso Pdl. Benché lanciato con il celebrato e iconico «discorso del predellino» nel novembre del 2007, e plebiscitato dagli elettori alle elezioni politiche del 2008, il Pdl si concretizza formalmente solo nella primavera del 2009. Il 27-29 marzo, dopo che An ha celebrato il suo terzo e ultimo- congresso, si tiene quello fondativo del Pdl. La confluenza tra i due partiti definisce un rapporto di forza nei vari organi di partito di un terzo per An e due terzi per FI, così come era stato stabilito, grosso modo, per le candidature alle elezioni dell’anno prima. Il Pdl è accomunabile al Pd quanto alla modalità della formazione - entrambi uniscono due soggetti fondanti (An e FI per il Pdl, e Ds e Margherita per il Pd) - ma differisce radicalmente per pulsione innovativa. Mentre il primo non si pone alcun progetto trasformativo e si limita ad aggregare due alleati di lungo corso, il secondo si propone, seppur confusamente, di offrire un soggetto politico nuovo (nelle intenzioni, almeno, perché quanto alla riuscita...). Berlusconi è, ovviamente, acclamato presidente del partito. Al di sotto del leader operano tre «coordinatori», due sono esponenti di FI (Sandro Bondi e Denis Verdini) e uno di An (Ignazio La Russa). Fini, divenuto presidente della Camera, assume il ruolo puramente esornativo di «co-fondatore». L’at­ mosfera del congresso del Pdl trabocca di entusiasmo anche perché il governo è ai livelli massimi del consenso. Il clima di

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opinione favorevole continuerà a sostenerlo per tutto l’anno raggiungendo l’apice nei mesi successivi al devastante terremoto dell’Aquila quando il governo, e Berlusconi in prima persona, dimostrano una rapidità di intervento inconsueta. Inoltre, forse travolto dall’entusiasmo per il grande consenso - oltre il 50% - che lo circonda in queste settimane, il leader del Pdl partecipa per la prima volta a una manifestazione del 25 aprile, a Onna, un paesino terremotato, indossando anche il fazzoletto dei partigiani della Brigata Maiella. Il risultato delle elezioni europee attesta tale stato di grazia riconfermando la percentuale delle politiche dell’anno precedente, 35,3%, e, per la prima volta, sopravanza il Pd, seppur d’un soffio, in due regioni tradizionalmente rosse come l’Umbria e le Marche. In questa festosa cavalcata politica l’unica nota stonata è rappresentata dall’atteggiamento freddo e distaccato di Gianfranco Fini. Il leader di An aveva già parlato di «comiche finali» alludendo al progetto di un partito unico della destra dopo il comizio del predellino di Berlusconi ma poi, in vista delle elezioni, e per le pressioni interne, aveva dato il via libera. Tuttavia, al momento della celebrazione dell’evento, il suo intervento si discosta dagli accenti trionfalistici che attraversano il congresso. Fini indica in quell’occasione un percorso istituzionale e moderato-conservatore sideralmente distante dal populismo strisciante del messaggio berlusconiano. Sia per il ruolo che ricopre (presidente della Camera) sia per una personale evoluzione politico-culturale, il leader di An incarna ora una visione forte dello stato e delle istituzioni, orientandosi verso le esperienze del conservatorismo euro­ peo, da quella neogollista di Nicolas Sarkozy, a quella - in misura minore - del britannico David Cameron. Mentre Fini intesse rapporti cordiali con questi leader (soprattutto con il presidente francese, al quale scrive la prefazione di un suo libro), Berlusconi sconta una certa diffidenza in Europa per i noti guai giudiziari e il perdurante conflitto di interesse, oltre che per uno stile politico ritenuto, eufemisticamente, eccentrico. Il conflitto caratteriale tra i cofondatori del Pdl non aveva impedito di stringere alleanze solide nel passato; dopo le insofferenze manifestate da Fini nel periodo 1996-99, il rapporto era stato ricomposto e, inoltre, le stesse differenze tra gli elettorati dei due partiti erano andate riducendosi negli

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anni: in fondo la nascita del Pdl era nelle cose. Ma alla firndel primo decennio Duemila le divergenze tra i due leader si approfondiscono. Il problema, che poi si rivelerà devastante, è che Fini ha seguito una traiettoria politico-culturale divergente rispetto non solo al forza-leghismo dominante ma anche nei con fronti di gran parte del suo partito. Dopo Fiuggi, ma con un crescendo a partire dalle sue esperienze istituzionali di rappresentante italiano nella Convenzione per la Costituzioneeuropea e di ministro degli Esteri, il leader di An ha portato all’appuntamento con FI un partito finalmente libero dalle zavorre del passato ma persino troppo «leggero» in quanto l’identità neofascista non è stata adeguatamente sostituita con una nuova. La personale evoluzione di Fini rimane isolata e il suo tentativo di portare tutto il partito su lidi moderato­ conservatori convince assai poco. I quadri e gli eletti del partito o rimangono intimamente legati alla loro storia, o si acconciano alla vulgata berlusconiana (che trova comunque ampio consenso nell’elettorato di An). Faticano a cogliere le aperture del loro leader sui diritti civili, dal testamento biologico alla fecondazione assistita, dall’accoglienza dei mi­ granti alle unioni civili. Possono apprezzare la polemica con la Lega in quanto qui risuonano i mai sopiti accenti nazionalnazionalisti, o la difesa della magistratura per un riflesso antico di senso dello stato e una sorta di venerazione per il martire antimafia Paolo Borsellino, ma rimangono disorientati da altre scelte aperturiste del leader. Soprattutto, la frattura con i «colonnelli» apertasi negli ultimi anni non si è rimarginata e questi dirigenti sono ormai entrati stabilmente nell’orbita berlusconiana. Per questo Fini fa sempre più riferimento a una generazione più giovane di «capitani», insofferenti dei loro colleghi più anziani e maggiormente disposti a giocare una nuova sfida. Le differenziazioni, le punture di spillo, e anche le critiche aperte, indirizzate da Fini a Berlusconi investono una gran quan­ tità di temi, dall’eccessiva condiscendenza alle richieste della Lega, come sul federalismo fiscale, alla richiesta di un rapporto più disteso con la magistratura, dal consenso al biotestamento all’accoglienza dei migranti. Un veicolo privilegiato con il quale mantenere viva la distinzione è il webmagizine «Farefuturo», legato alla fondazione omonima avviata qualche anno prima

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da Adolfo Urso proprio per modernizzare il mondo aennino. La rivista gioca un ruolo di primo piano quando emerge, nella primavera del 2009, la disinvolta vita privata del presidente del Consiglio, rivelata dalla sua «sorprendente» partecipazione alla festa dei 18 anni di una giovane nell’hinterland napoletano. A questo episodio, che tra l’altro spinge la moglie di Berlusconi a una clamorosa rottura pubblica, si aggiunge la notizia che il Pdl vorrebbe infarcire le liste elettorali per le imminenti elezioni europee di giovani e avvenenti donne senza alcuna esperienza politica. Proprio su questo aspetto politico, e non sui comportamenti privati, «Farefuturo» pubblica un violen­ tissimo attacco contro il «velinismo in politica», vale a dire la selezione delle candidature e le prospettive di carriera interna affidate a null’altro che a criteri estetici. Questo round della polemica interna è appannaggio di Fini perché il Cavaliere deve soprassedere a tali propositi e, perdipiù, l’estate è contrasse­ gnata da ulteriori indiscrezioni di comportamenti privati non commendevoli e tutt’altro che consoni alla funzione pubblica di presidente del Consiglio. Tuttavia, ogni critica, interna come esterna, si arresta per via di un episodio fortuito: a margine di una iniziativa politi­ ca, il 13 dicembre 2009, Berlusconi viene colpito al volto da un oggetto contundente lanciato da uno spettatore con gravi disturbi mentali. Per quanto l’aggressione non abbia alcuna valenza politica essa viene presentata, non solo dai media berlusconiani ma da quasi tutta la stampa, come il frutto di una «campagna d’odio». E di conseguenza la polemica sui sex scandals dell’estate precedente e sui provvedimenti per alleggerire le posizioni processuali del leader del Pdl cessano. La fiducia riprende vigore e si attesta di nuovo oltre il 45%. Escort e feste delle debuttanti non hanno lasciato alcun segno. Le elezioni regionali del marzo del 2010 confermano il buono stato di salute del Pdl che sottrae 4 regioni al centrosinistra, e sembra quindi mettere il partito al riparo da ogni tensione. Invece lo scontro interno deflagra teatralmente nel corso di una direzione del partito, il 21 aprile 2010. A una requisitoria di Berlusconi contro Fini e i suoi più fedeli soste­ nitori che marcano costantemente un dissenso sulle posizioni assunte dalla leadership, il presidente della Camera, seduto in platea mentre Berlusconi lo attacca dal palco, a un certo punto si alza e gli grida «Che fai? Mi cacci?».

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In effetti, è proprio quanto accade. L’Ufficio di presidenza del partito, il 29 luglio, su proposta di Berlusconi, considera «non compatibile» la presenza di Fini nel Pdl. Solo tre dei molti membri ex An votano contro. Si infrange così quella solidarietà umana e politica del mondo di origine neofascista che aveva attraversato il deserto dell’ostracismo e della ghet tizzazione dagli anni Settanta in poi. All’interno della classe dirigente di An, riconoscenza verso Berlusconi per il suo appoggio nei cruciali anni Novanta e riconoscimento nel suo populismo alla fine hanno avuto la meglio sulla «fedeltà» a Fini, ormai troppo distante dalle sensibilità di tanti. In parlamento, invece, i sostenitori di Fini che escono dal Pdl sono numerosi tanto da costituire due gruppi autonomi (denominati «Futuro e libertà») sia alla Camera sia al Senato con, rispettivamente, 35 e 10 membri. Un numero che rende vulnerabile il governo in quanto decisivo per mantenere la maggioranza. La rottura chiude un sodalizio iniziato nel 1993 quando Berlusconi aveva sottratto il segretario del Msi alle paludi del neofascismo. Il paradosso di questo rapporto, mai scorrevole per la polarità caratteriale dei due personaggi, sta nella pro­ gressiva inversione di posizioni. Mentre Berlusconi è andato radicalizzandosi in senso populista-plebiscitario sia sul piano istituzionale sia sul piano valoriale accedendo infine a un’o­ smosi di posizioni con la Lega - il forza-leghismo -, Fini ha prima tagliato, lentamente e cautamente, i ponti con il fascismo e poi, completata la pars destruens con la visita in Israele e la definizione del fascismo come «male assoluto», si è incammi­ nato alla ricerca di una collocazione moderato-conservatrice. La divaricazione di percorsi, già palpabile prima delle elezioni politiche del 2008 ma superata dalla reciproca convenienza di fronte all’appuntamento elettorale, era destinata a ripro­ porsi. Ad acuirla, oltre a tutte le divergenze politiche, anche il progressivo fagocitamento della componente aennina da parte del Cavaliere. Questo esito non era del tutto scontato: il matrimonio nel Pdl poteva anche favorire Alleanza nazio­ nale perché essa disponeva di un insediamento territoriale incomparabilmente più solido di FI, di una base militante con un forte spirito di corpo, di una classe dirigente locale e nazionale ben sperimentata. Però c’era un punto debole: l’incerta identità politico-ideale. I militanti e i quadri di An potevano anche sorridere con una punta di sufficienza a fronte

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del pastiche liberal-populista berlusconiano, ma non avevano nulla di altrettanto potente da contrapporre: abbandonato il nostalgismo non era ancora emersa una cultura politica nuova che connotasse An. La gran parte della classe politica nazionale e locale del partito di matrice missina era rimasta a mezza strada, senza bussola, mentre quella del Cavaliere, magari rozzamente, comunque la orientava. Infine, attrae­ vano gli agi del potere che solo l’alleanza con Berlusconi poteva garantire. Per queste ragioni Fini quando si scontra con il Cavaliere non ha più dietro di sé tutto il suo vecchio partito: molti si sono ben accasati nel nuovo partito a guida berlusconiana e non vogliono tornare indietro. Segue Fini solo la nuova guardia dei «capitani» che fornisce l’ossatura della sua nuova formazione, Futuro e libertà (FU). Il clima che si respira in occasione della convention fondativa del 6-7 novembre 2010 è di «liberazione» da un rapporto considera­ to soffocante e ormai inconciliabile in termini di riferimenti culturali e persino di stile politico: chi segue Fini, al di là di lealtà personale, condivide anche un progetto di una destra «europea» indirizzata su binari moderato-conservatori e aliena da pulsioni populiste anti-istituzionali come quelle manifestate con sempre maggior nettezza da Berlusconi. Lo scontro finale tra i due leader destinato a decidere il futuro politico di entrambi si presenta quando FlI firma anch’essa una mozione di sfiducia al governo presentata dal­ le opposizioni a fine novembre. La mozione si gioca sul filo dei numeri. Messa ai voti con quasi un mese di ritardo per approvare prima la legge di bilancio, il 14 dicembre, all’ul­ timo minuto tre parlamentari finiani abbandonano il campo e consentono al governo di sopravvivere. Fini perde tutto e Futuro e libertà andrà incontro a una rapida consunzione. Dissidi interni, scontri di personalità, perdita di strategia, appannamento del leader sono tutti fattori che portano ben presto FU all’irrilevanza politica e infine, con le elezioni del 2013, alla scomparsa di Gianfranco Fini. Uno dei leader più longevi, segretario del Msi già nel 1987-1990, e di nuovo, ininterrottamente, dal 1991 in poi fino alla nascita del Pdl, chiude amaramente la sua stagione politica. La sua responsabilità - o illusione - maggiore è forse stata quella di aver ritenuto possibile un’evoluzione del suo mondo di origine in un qualcosa di comparabile alla destra

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moderato-conservatrice, e che esistesse uno spazio politico per quella opzione, a destra. L’epurazione dei finiani omogeneizza e normalizza il Pdl, che rimane però segnato da questa vicenda. Pur essendosi chiuso a riccio per difendere il leader, all’interno del partito prendono corpo le ambizioni personali di alcuni dirigenti, primo fra tutti il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che, forte di un’intesa speciale con la Lega e di una sua personale statura intellettuale, contrasta spesso il leader, seppure solo sui temi economici. Tremonti offre un’ipotesi alternativa in caso di naufragio del governo. E non è il solo: in quel periodo fioriscono una quantità di fondazioni culturali legate a vari dirigenti pidiellini che non sono altro che strutture correntizie dove i vari leader in pectore coltivano alleanze e rapporti in vista di un loro futuro, pur senza scoprirsi troppo. La vittoria su Fini ottenuta per una manciata di voti ri­ manda soltanto la fine di un’ormai lunga egemonia politica. Il percorso fino al tracollo del novembre del 2011 si snoda come un calvario per il Cavaliere e il suo partito. L’acuirsi della crisi economica e la percezione di un governo e di un leader dedito alle feste con giovani ragazze reclutate e mantenute come in un moderno harem, fanno precipitare il consenso sotto il 30%. Le attività libertine del premier emergo­ no con rinnovato clamore con le vicende legate a una giovane marocchina, chiamata «Ruby Rubacuori», attiva nel circuito dei privé scollacciati e delle escort con prestazioni a pagamento. Questo caso si trascinerà per più di un anno intaccando in maniera indelebile la credibilità di Berlusconi soprattutto di fronte alla comunità internazionale dalla quale sarà emarginato (a eccezione del presidente russo Vladimir Putin con il quale invece mantiene frequenti e cordiali rapporti). Anche in questa occasione il partito, uscita la componente finiana, lo difende com­ patto al punto che tutti i parlamentari senza eccezione di sorta votano una mozione in cui si asserisce che Berlusconi riteneva in buona fede che la giovane escort Ruby fosse la nipote del presidente egiziano Hosni Mubarak. Un episodio che conferma il controllo assoluto del leader sul partito. Tutto quello che si muove «sotto» di lui con il pullulare di fondazioni e iniziative non scalfisce in nulla il suo dominio. Tuttavia, il Pdl non può non risentire di questi sfregi di immagine soprattutto perché si associano alla sensazione

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di inefficacia nell’azione governativa sul piano economicosociale. Infatti, alle amministrative della primavera del 2011 il partito cede 21 grandi città su 30 e perde un quarto dei suoi voti; inoltre, per la prima volta da lustri, il centro-sinistra sopravanza nettamente il centro-destra al Nord con il 47,1% contro il 39,2%. In questo contesto il segnale inequivoco dell’incipiente fine di un’epoca viene dalla perdita di Milano, culla e roccaforte del berlusconismo. Questa sconfitta ha un forte impatto simbolico: attesta che il potere del Cavaliere è in via di sfaldamento. A questo colpo subito dagli avversari politici se ne as­ socia un altro che non viene direttamente dalle formazioni politiche del centro-sinistra, bensì da una rete di movimenti, promotori di quattro referendum nella primavera del 2011 di cui uno contro il legittimo impedimento (una delle tante leggi approvate dal governo per ritardare i processi che coinvolgono Berlusconi e far intervenire la prescrizione). Il centro-destra tenta di replicare la strategia dell’astensionismo per far fallire i referendum, strategia risultata vincente nel 2005 in occasione della consultazione sulla procreazione assistita. Invece, per la prima volta dal 1995, un referendum abrogativo supera il 50% degli elettori, nonostante si fosse tenuto ad appena quindici giorni dal ballottaggio alle elezioni comunali, non avesse goduto di ampia copertura da gran parte dei media, e non avesse ri­ cevuto un appoggio deciso dal Pd, preda com’era di pressioni contrastanti al suo interno su tre dei quattro referendum (solo quello antiberlusconiano della legge sul legittimo impedimento lo motivava senza esitazioni). E, a corollario del successo di partecipazione - 55,6% - gli elettori esprimono circa un 95% di consenso su tutti i temi. Il rigetto dell’opzione astensionista ripropone la dinamica innescata dal rifiuto dell’invito, formulato all’epoca da Bettino Craxi, di andare al mare in occasione del referendum sulla preferenza unica del 1991. Come allora l ’incomprensione del mood dell’opinione pubblica avviò la china discendente del craxismo, così questa rivela che il tocco del Cavaliere ha perso forza e valore. La fiducia nei confronti del presidente del Consiglio e del governo nel corso del 2011 si inabissa sotto il 25%: la super­ ficialità, la noncuranza e l’ottimismo fuori luogo di fronte a una drammatica congiuntura economico-sociale «scollegano»

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ulteriormente il presidente del Consiglio dalle preoccupazioni e dalle ansie prevalenti nell’opinione pubblica. Il Pdl tenta eli reagire in qualche modo al vento critico. Da un lato, apre le porte dell’esecutivo a seconde file del partito e a fiancheggiatori nominando un nuovo ministro e nove sottosegretari, e dall’altro, il Consiglio nazionale del Pdl, il 1° luglio, nomina (meglio: acclama) segretario del partito - introducendo una carica non prevista dallo statuto che viene votata seduta stante perché qualcuno all’ultimo minuto lo ricorda - un giovane dirigente, Angelino Alfano, nella convinzione che un nuovo volto possa ridare smalto al partito. Ma è un’innovazione pallida. Nulla può contro l’aggravarsi della crisi economico-finanziaria. E questo il colpo decisivo alla credibilità dell’esecutivo e della sua guida. Mentre Berlusconi continua a spandere ottimismo al limite dell’irresponsabilità, in contrasto, già da tempo, con i tentativi del ministro dell’Economia Tremonti di salvare il salvabile, si scatena una tempesta finanziaria. In estate le agenzie di rating abbassano le valutazioni, il credito si blocca, lo spread aumenta e il rischio di insolvenza cresce. Le cause che hanno portato l’Italia vicina al baratro sono strutturali, di lungo periodo, ma alcune sono legate all’azione governativa sia sul piano strettamente economico (liberalizza­ zioni inefficaci, tiepida lotta all’evasione fiscale, spesa pubblica in aumento), sia sul piano politico (debolezza dell’esecutivo, sfiducia nel capo del governo e contrasti interni tra ministro dell’Economia e presidente del Consiglio). Infine incide, e molto, l’effetto reputazione. L’immagine del capo del governo presso i media internazionali è pessima. Nessun leader è mai stato raffigurato e descritto con termini cosi irridenti. Questa valutazione grava pesantemente nei contesti internazionali, a incominciare dall’Unione Europea, e nella business community. Vengono infatti accolti con grande stupore i provvedimenti va­ rati dal governo a metà luglio per tamponare le falle in quanto la loro applicazione è nella maggior parte dei casi, rimandata di due anni. Di fronte a questa manifestazione di sostanziale irresponsabilità non possono stupire interventi come la lettera dei presidenti, uscente ed entrante, della Banca centrale euro­ pea, Jean-Claude Trichet e Mario Draghi, i ripetuti richiami della Commissione Ue, le valutazioni sempre più negative dei mercati e, infine, la plateale irrisione di Nicolas Sarkozy e Angela Merkel sull’affidabilità e credibilità di Berlusconi.

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Sul piano interno si assiste a un distacco netto da parte di quei gruppi che avevano sostenuto il Pdl e il presidente del Consiglio: Confindustria, la cui nuova presidente, contraria­ mente al predecessore Luca Corderò di Montezemolo, aveva mostrato grande sintonia con il governo, varie organizzazioni di interessi e, infine, anche la chiesa si sganciano. Il presidente della Repubblica, che aveva fatto barriera alle sbavature isti­ tuzionali del governo (dal legittimo impedimento al fine vita connesso con il caso di Eluana Englaro), è invocato sempre più intensamente come il «salvatore della patria» nella drammatica crisi fiscale di autunno. Il consenso che riceve è trasversale (tra l’altro i festeggiamenti del 150° anniversario dell’Unità d’Italia ne hanno rafforzato l’immagine di interprete della nazione) e inversamente proporzionale a quello del Cavaliere. Per la prima volta, si staglia un’alternativa politica credibile anche se fuori dal contesto del «normale» conflitto politico. Infatti, nessun leader dell’opposizione si erge a potenziale contraltare del Cavaliere. Tocca quindi a una personalità estranea al gioco politico - ma tutta intrisa di politicità per la sua storia personale - raccogliere le perplessità che si delineano anche all’interno del Pdl. Per la prima volta, segnale inequivoco della fine di un’era, alcuni parlamentari pidiellini sollevano esplicitamente critiche nei confronti del capo del governo. Sprofondato sotto il 20% dei consensi nei sondaggi sul gradimento al suo governo e privo ormai di una maggioranza parlamentare, Berlusconi cade il 12 novembre. Le dimissioni assumono le sembianze di una fine di regime. Le urla sguaiate e irridenti dei dimostranti che festeggiano la fuoriuscita del leader non hanno nulla in comune con un sem­ plice cambio di governo: fanno pensare piuttosto al tramonto di un’epoca. Ma per quanto così potesse apparire, la realtà è ben diversa. Berlusconi e il suo partito resistono alla crisi. Gli anni che separano questo evento dalle elezioni del 2018 lo vedono ancora protagonista, seppure a fasi alterne, di discese e risalite. E questo il periodo della «resilienza» (che tuttavia le elezioni del 2018 e la formazione del governo gialloverde di Giuseppe Conte sembrano aver fiaccato in maniera decisiva). Il Pdl non implode di fronte alla débàcle della fine del 2011. La defezione che ha portato il governo alle dimissioni riguarda singoli deputati, estranei all’inner circle berlusconiano, per cui non si assiste all’ipotizzata frantumazione del partito.

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Pur in una situazione di inedita emarginazione il Cavaliere non si ritira in una sorta di esilio dorato, né designa un vero erede alla guida del partito essendo il neosegretario Alfano troppo fragile per aspirare a succedergli. Tutte le componenti interne non raggiungono una massa critica tale da imporre un indirizzo politico diverso da quello auspicato dal leader. Nemmeno la classe politica di derivazione aennina sembra intenzionata a rivendicare un ruolo primario e men che meno altri esponenti di tradizione democristiana da Pisanu a Scajola (più volte sugli scudi e poi sulla polvere, ma sempre in una prima fila). Anche se un quinto circa di elettori del Pdl considera chiu­ sa l’esperienza politica di Berlusconi, in realtà l’ex premier continua a dominare il suo partito tanto che impone, anche ai più riottosi, come Brunetta, il sostegno al nuovo governo tecnico di Mario Monti nonostante esso si presenti e agisca, soprattutto nei primi mesi, in totale contrasto con quanto operato dall’esecutivo precedente. Tuttavia, sia la transumanza di deputati e consiglieri locali verso altri lidi formando irrilevanti gruppuscoli o cercando ri­ paro sotto un sempre evocato e mai concretizzato «terzo polo», a cui la nascita del governo Monti e il lancio del movimento Italia futura per iniziativa di Luca Corderò di Montezemolo hanno dato nuovo slancio, sia le sconfitte elettorali alle am­ ministrative del 2012, in particolare nel feudo siciliano dove prima a Palermo il candidato pidiellino non arriva nemmeno al ballottaggio, e poi alle regionali deve cedere alla sinistra il governo dell’isola, incidono sul carisma del leader. Berlusconi viene descritto dai media come un uomo stanco e affaticato, senza più smalto né appeal. Questo quadro, che peraltro enfatizza eccessivamente (e sguaiatamente) l’aspetto biopolitico, trova conferma nell’ipotesi reiterata più volte dal Cavaliere di passare la mano. In effetti, alla fine di ottobre del 2012 consente che vengano organizzate delle primarie per individuare il nuovo candidato premier e leader del partito; e il segretario Alfano infatti le indice per dicembre scatenando una sorta di fiera delle vanità tanto che i concorrenti, interni ed esterni al partito superano la dozzina. Ma dopo poche set­ timane Berlusconi cambia idea e delle primarie non se parla più. Il partito continua a essere cosa sua. E lo dimostra una volta di più togliendo improvvisamente il sostegno al governo Monti. Una scelta che da un lato rivi­

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talizza le fila del partito ma dall’altro provoca una scissione, non tanto per dissenso politico quanto per indisponibilità a seguire supinamente i cambi di marcia del Cavaliere: lasciano il Pdl molti ex missini-aennini, da Giorgia Meloni a Ignazio La Russa, che vanno a formare Fratelli d’Italia, la piccola costola di destra che, con alterne fortune, ma con grinta inossidabi­ le, manterrà viva negli anni a venire la «destra identitaria». Anche se fallirà per un soffio l’ingresso in Parlamento nel 2013 riuscirà a occupare uno spazio politico autonomo grazie soprattutto alla presenza mediatica della giovane leader del partito, Giorgia Meloni (eletta presidente al primo congresso del nuovo partito, nel marzo 2014), e a una stretta intesa fino a tutto il 2017 con l’altro leader giovane del centro-destra, il neosegretario della Lega Nord, Matteo Salvini. L’ingresso in parlamento nel 2018 con il 4,4% e il riconoscimento di terzo partner del centro-destra consacrano la leadership della Meloni alla guida di quello che si può considerare l’erede legittimo di An. Le elezioni del 2013 hanno un sapore dolce-amaro per il Pdl. Da un lato, nonostante la débàcle alle regionali della fine del 2012 in Sicilia e una campagna elettorale in sordina, contro ogni previsione la coalizione di centro-destra, guidata ancora una volta dal Cavaliere, arriva a un palmo dalla vittoria con il 29,2% contro il 29,5% del centro-sinistra; d’altro lato, però, il Pdl ottiene appena il 21,6%, un risultato che lo fa retrocedere al terzo posto tra i partiti italiani a causa di una catastrofica perdita del 46% dei consensi rispetto al 2008, quando ottenne 6 milioni di voti in più: quasi un elettore su due si è perduto per strada optando in gran parte per l’astensione. L’insoddi­ sfazione per le performance degli anni del governo Berlusconi e la perdita di carisma del leader sono alla base del tracollo elettorale, il maggiore mai subito da un partito italiano in tutta la storia della repubblica. Eppure, il Pdl è identificato come uno dei vincitori delle elezioni perché il tonfo clamoroso del Pd ne rilancia le fortune politiche, ben al di là dei dati elettorali. Complice il fallimento dei democratici nel formare un governo e, soprattutto, nell’eleggere un «suo» presidente della Repubblica, il Popolo delle libertà ritorna un attore politico centrale tanto da partecipare alla rielezione di Giorgio Napolitano alla presidenza della Repubblica ed entrare nel nuovo governo di «grande coali-

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/ione» con il Pd, dove impone tutti i suoi temi in agenda, a incominciare dall’abolizione della tassa sulla prima casa. Ma l’epifania berlusconiana è di breve durata perché ven­ gono al pettine, per una volta, i suoi problemi giudiziari. Nel novembre del 2013 il Senato vota la decadenza del Cavaliere in quanto condannato in via definitiva per frode fiscale e quindi interdetto dai pubblici uffici. Il voto favorevole del Pd porta Berlusconi a dichiarare chiusa la partecipazione al governo ma in realtà i suoi cinque ministri non seguono le indicazioni e secedono dal partito dando vita al Nuovo centrodestra (Ned) presieduto dall’ex segretario pidiellino, Angelino Alfano. Il Pdl termina così la sua corsa. E ritorna in vita Forza Italia. Un ritorno di necessità, mesto e sottotono: una riproposizione pallida, incomparabile con i fasti di un tempo. L’emarginazione politica di Berlusconi non provoca danni irreparabili al rinato partito anche perché è di breve periodo: all’inizio del 2014, inaspettatamente, l’invito del neosegretario del Pd, Matteo Renzi, a discutere ufficialmente, nella sede del Partito democratico, di riforme istituzionali riporta Berlusconi all’«onore della politica», legittimando non solo il suo ruolo di interlocutore politico ma elevandolo addirittura a potenziale costituente. Di nuovo, dalla polvere agli altari, da reietto a padre della patria. Il ritorno alla politica si accompagna a un tentativo di riattivare la struttura organizzativa del partito. Viene nomi­ nato un «consigliere politico» del presidente, nella figura di Giovanni Toti (ex direttore di «Panoram a»), viene ridefinito e rinnovato il Comitato di presidenza ma, in vista delle ele­ zioni europee, la domanda di un rinnovamento più radicale attraverso primarie torna a farsi sentire. A veicolarle è in particolare il giovane ex presidente della regione Puglia, Raffaele Fitto, il quale, inizialmente ostracizzato per questa sua intemperanza, alla fine, dopo un lungo tira e molla, ottiene la candidatura alle elezioni europee del 2014 nella circoscrizione Sud. E proprio grazie alla sua presenza il partito evita una catastrofe. In questa occasione il partito del Cavaliere raggiunge il punto più basso in una competizione nazionale - 16,8% - e solo al Sud, grazie proprio a Fitto, che registra un notevole successo personale, con 284.712 preferenze (secondo in assoluto solo dietro alla piddina Simona Bonafè), FI contiene le perdite.

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Nonostante il risultato modesto, in questa prova elettorale emerge un elemento di solidità del partito: se si confrontano i centri in cui si votava solo per le europee con quelli in cui si votava contemporaneamente anche per le elezioni ammini­ strative il partito regge meglio in questi ultimi. Ciò significa che, pur senza il traino del leader, dato che Berlusconi non è candidato e quindi il suo nome, per la prima volta, non compare sulla scheda elettorale, soccorre la capacità di mobilitazione del consenso di un ceto politico locale forzista-berlusconiano, ben radicato e in grado di catturare «autonomamente» i voti. Per quanto Berlusconi sia tenuto in vita politicamente dalla strategia renziana di seduzione nei confronti dell’elettorato di centro-destra, FI ha perso centralità nella politica italiana. Lo dimostrano i sempre più scarni consensi elettorali, le convul­ sioni organizzative con tanto di licenziamenti dei funzionari nella sede centrale, le critiche aperte di alcuni giovani leoni del partito e, infine, la «voglia di leadership» del nuovo segretario della Lega, Matteo Salvini. La contestazione al ruolo di Berlu­ sconi tocca l’apice nel novembre del 2015 in occasione di un meeting organizzato da Lega e Fratelli d’Italia e «aperto» a FI dove Salvini e Meloni lanciano la loro sfida alla leadership e costringono Berlusconi a parteciparvi sostanzialmente da spettatore. In effetti, FI non è più il dominus del centro-destra per­ ché ha di fronte una Lega in piena ripresa. La mano tesa di Matteo Renzi fin dal suo arrivo alla guida del Pd, e poi del governo, aveva illuso Berlusconi sulla possibilità di mantenere un rapporto privilegiato con il leader democratico. La brutale rivelazione di quanto il Pd renziano considerasse meramente strumentale il rapporto con FI si concretizza al momento dell’elezione del presidente della Repubblica (gennaio 2015). In quell’occasione, contrariamente alle sue aspettative, FI viene tagliata fuori dalla decisione. Questo schiaffo politico porta FI a sposare una linea di opposizione ferma al governo Renzi. Ma è controproducente perché isola maggiormente il partito in quanto lo priva della sua componente più dialogante, guidata da un fedelissimo del Cavaliere, Denis Verdini, che esce dal partito e fonda, con un piccolo drappello di parlamentari, un raggruppamento a sostegno più o meno diretto del governo. In FI, comunque, non c’è pace: il capogruppo alla Camera, Renato Brunetta, tra i più tranchant contro il governo e il Pd, è

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spesso contestato dalla componente più attenta a non rompere del tutto il filo del dialogo con Renzi. Ma al di là di queste scaramucce interne, FI non ha più un respiro prospettico. L’a­ genda del centro-destra è in mano a Salvini e per il partito si tratta di scegliere se seguirla o no. L’inaspettata vittoria dell’ex «consigliere politico» del Cavaliere, Giovanni Toti, alle regio­ nali liguri del 2015 grazie a un accordo con Lega, e il buon risultato al comune di Milano l’anno dopo, non cambiano lo scenario in quanto, semmai, attestano l’importanza decisiva del sostegno leghista. * II problema si acuisce l’anno successivo. Il successo della Lega alle comunali del 2016 e il sorpasso del Carroccio su FI in tutti i sondaggi ripropongono il dilemma strategico: rimanere agganciati a un rapporto collaborativo con Renzi nell’ipotesi di una futura grande coalizione come nel 2013, o schierarsi a fianco di Salvini per evitare che quest’ultimo occupi tutto lo spazio di destra. Il partito ondeggia da un capo all’altro di questo di­ lemma. Da un lato, vota in parlamento le riforme istituzionali proposte dal Pd mentre la Lega si oppone, dall’altro si schiera contro la loro approvazione nel referendum del dicembre del 2016 affiancando la Lega. Di fronte alla crisi postreferendum del Pd Berlusconi li­ mita gli attacchi all’arma bianca contro il governo - a questo è delegata l’irruenza del capogruppo Brunetta - e adotta un profilo insolitamente moderato. La chiave di volta di questo atteggiamento è in Europa: la nomina del fedele collaboratore del Cavaliere nelle istituzioni comunitarie, Antonio Tajani, a presidente del parlamento europeo, è il viatico attraverso il quale Berlusconi riannoda una serie di legami in Europa, troncati di netto dopo la fine - ma già durante —il suo ultimo governo. La moderazione di Forza Italia ha quindi un doppio scopo: differenziarsi dalla Lega, e riaccreditarsi presso quegli ambienti che hanno abbandonato il Cavaliere. In vista delle elezioni politiche del 2018 FI cerca di reg­ gere alla sfida portata da Salvini per la guida della coalizione, sfida alla quale Berlusconi alterna fin de non-recevoir a scatti di orgoglio. Il punto è che i rapporti di forza sono cambiati e i temi più salienti in agenda, come immigrazione e sicurezza, sono di marca leghista. Per FI è difficile riproporre sé stessa, immutata, dopo più di vent’anni con lo stesso leader ormai usurato da fallimenti politici, appesantito da fardelli giudiziari

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e, inevitabilmente, espressione di un tempo che fu. Tuttavia, (r)esiste ancora una quota di elettori rimobilitabili, per consue­ tudine e affezione, dal Cavaliere, elettori sempre operosamente coltivati dai media di proprietà del leader. Nonostante la grande visibilità di Berlusconi su carta stam­ pata e televisioni, indice di una sorta di riflesso automatico da parte del mondo dell’informazione, proprio l’assenza di un nuovo messaggio e di una nuova leadership condannano FI al peggior risultato della sua storia e, in prospettiva, a un ruolo marginale nella politica italiana. Il risultato del 4 marzo 2018 fotografa la discesa del partito fino al 14% (più di 7 punti percentuali in meno rispetto al 2013) e, per la prima volta, è superato da un altro partito della coalizione di centrodestra, la Lega, che ottiene il 17,4%. Solo grazie a un’abile contrattazione con il partner leghista FI ottiene una generosa quota di candidati in collegi sicuri del Nord, il che garantisce al partito una rappresentanza corposa di parlamentari (104) nettamente superiore alla sua percentuale di voti, e anche al numero del 2013 (quando venne penalizzato dal meccanismo premiale della legge elettorale Calderoli, il cosiddetto «Porcellum»). Tuttavia, il declino di FI non è solo elettorale (non vi è provincia italiana in cui FI sia il primo partito), ma anche politico, perché è costretto a cedere lo scettro della leadership della coalizione a Matteo Salvini, il quale dimostrerà, nella lunga fase postelettorale fino alla formazione del governo Conte, tutta la sua conquistata autonomia rispetto al vecchio leader. FI deve acconciarsi a un ruolo minoritario nel sistema partitico italiano. Il lungo dominio politico di Berlusconi nella politica italiana sembra giunto al capolinea così come la sua formazione a lui indissolubilmente legata, nella buona e nella cattiva sorte. Il partito fondato nel 1994, poi trasformato in Pdl nel 2007-09, e successivamente ritornato al suo alveo originale di FI alla fine del 2013, riassume in sé il tentativo, fallito, di dar vita a un grande partito moderato, innervato dalla borghesia italiana ma anche aperto a ceti popolari. La contraddizione insita nella cultura politica del fondatore, anticomunista come input primario, ripiegata sugli interessi individuali più che collettivi, e quindi sostanzialmente priva di senso dello stato e incline semmai a pulsioni populiste, ha presto stroncato l’il­ lusione, coltivata da molti nei primi momenti, di aver trovato

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l’interprete di sentimenti liberal-conservatori. FI ha raccolto quel mondo che si era più o meno neghittosamente rifugiato sotto le ali protettrici della De ma che, allo stesso tempo, non voleva più nascondere le sue spinte particolaristiche e, al fondo, velatamente antisistemiche e tendenti all’estraneità dal mondo della politica. Si afferma così un neoqualunquismo a cavallo del nuovo millennio, riverniciato con i colori sfavillanti di una comunicazione di altissima fattura professionale in cui nulla era lasciato al caso, e presentato con una narrazione di efficientismo e modernità meneghina (peraltro un po’ rétro), e un’iperesaltazione del capo, novello demiurgo della politica e della società italiana. Cosa tutto ciò abbia lasciato nella cultura politica italiana e nel sistema partitico lo si può leggere in filigrana negli ul­ timi sommovimenti politici. Il populismo degli anni Duemila deve molto all’impostazione berlusconiana e alla sua costante delegittimazione della democrazia rappresentativa, del sistema di pesi e contrappesi e del primato della legge a dispetto di ogni unzione popolare. Il lungo lavoro di picconamento agli istituti liberaldemocratici e una coniugazione della libertà come liberazione da ogni impaccio e da ogni dimensione collettiva hanno favorito il ripiegamento particolaristico e tendenzial­ mente anomico della società italiana : ma i beneficiari, alla fine, sono stati altri, Lega e Mós, che ne rappresentano due, diversissime, espressioni. Forse, solo l’abbandono definitivo del fondatore dalla sua creatura potrebbe «liberare» quella componente moderata, non legata agli interessi del Cavaliere e non modellata in toto dalla sua narrazione, che pure serpeggia in Forza Italia. In fondo, se si pensa alle (ripetute) promesse di «rivoluzione liberale» e alla (illusoria) prospettiva di chiamare finalmente a raccolta la borghesia in una grande formazione dei «moderati», anche questo partito può entrare nella categoria delle «grandi occa­ sione mancate».

Capitolo tredicesimo

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Rifondazione comunista (Partito della rifondazione comu­ nista; di seguito Re) discende in linea diretta dalla tradizione comunista. La sua nascita avviene infatti per scissione dal Partito comunista al momento della trasformazione di quest’ultimo in un partito postcomunista. In occasione del X X e ultimo congresso del Pei (31 gennaio-3 febbraio 1991) coloro che non accettano il taglio delle radici escono dal partito per fondare quello che viene inizialmente denominato il «Movimento per la Rifondazione comunista». L’ultimo giorno del congresso una novantina di delegati si riuniscono per decretare la loro fuoriuscita e la costituzione della nuova formazione politica. Da mesi la minoranza cossuttiana è in rotta con la mag­ gioranza e le posizioni sono andate cristallizzandosi su linee radicalmente divergenti, al punto che, all’inizio di gennaio, si erano già riuniti, con propositi bellicosi, i rappresentanti dei «Circoli per la rifondazione comunista». L’esito, prevedibile e previsto - tant’è che era stato già da tempo prenotato un notaio per gli adempimenti di rito - è quello della scissione. Il documento costitutivo del neonato partito ricalca l’impo­ stazione della corrente cossuttiana, che valorizza ancora la cen­ tralità della classe operaia in contrapposizione all’introduzione dei diritti individuali di cittadinanza proposti come bandiera innovatrice dal nascente Pds. Sul mito operaista convergono tutti gli scissionisti, dai sostenitori di Cossutta, ossatura del nuovo movimento, agli ingraiani non romanticamente avvinti al vecchio partito come il loro leader; questa impostazione comune non basta però ad annullare le specificità delle varie componenti. Il maggior punto di dissidio riguarda la strategia di lungo periodo: salvare il comuniSmo dal pervertimento perpetrato dai rinnovatori occhettiani e quindi rifare il Partito comunista, oppure prendere atto criticamente dei cambiamenti

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intervenuti e degli errori commessi nel mondo comunista e quindi cercare di rifondare il comuniSmo? Lo stesso Cossutta è conscio di quanto sia difficile una riproposizione sic et simpliciter del vecchio Partito comunista e, proprio per non offrire il destro ad accuse di filosovietismo al neonato partito, fa un passo indietro lasciando la segreteria all’ex sindacalista Sergio Garavini, figura assai meno connotata ideologicamente e politicamente, e più consona a incarnare l’innovazione. Il gesto di Cossutta, all’apparenza generoso, è in realtà controbilanciato dal fatto che le strutture locali e i quadri del nuovo partito rispondono quasi interamente a lui. In Re approdano infatti tutti i militanti inquadrati nei mesi precedenti sotto le insegne correntizie della «mozione 3», mentre gli altri apporti sono più frastagliati e incapaci quindi di costituire una massa critica. Il successo della scissione - nel maggio del 1991 vengono già dichiarati più di 100 mila iscritti, concentrati prevalente­ mente in Toscana, vero bastione del partito, seguita poi da Lombardia e Lazio - attira altre forze: due leader di grande visibilità come Lucio Magri e Luciana Castellina lasciano il Pei per Re, mentre Democrazia proletaria decide di confluire in blocco. Questi nuovi apporti rafforzano il partito, soprattutto nell’arena parlamentare, e irrobustiscono la tendenza più inno­ vatrice e più critica dell’ortodossia comunista. Si delinea così una divaricazione sempre più netta fra i true believers, i duri e puri fautori del ritorno alla tradizione comunista, e i rifor­ matori. Il neosegretario Garavini, rinforzato dalle poliedriche sensibilità dei nuovi arrivati, accentua sempre più quest’ultimo indirizzo aprendo sia ideologicamente sia organizzativamente il partito, ed entrando in rotta di collisione con Cossutta. In questa fase genetica, quindi, si consuma un paradosso. L’arte­ fice della scissione non solo ha lasciato ad altri la leadership ufficiale - sia pur per calcolo - ma vede strutturarsi un partito ben diverso da quello prefigurato, in termini sia ideologicostrategici con l’irruzione di tematiche postmaterialiste incentrate sull’ambientalismo e il femminismo, sia organizzativi con lo scardinamento del vecchio modello leninista. Il I Congresso (12-14 dicembre 1991) fornisce l’occasione per un chiarimento, peraltro travagliatissimo, sugli indiriz­ zi generali. Celebrato a conclusione di un processo molto partecipato (quasi la metà degli iscritti viene coinvolta in un iter decisionale articolato in più di 3 mila assemblee), e for­

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se proprio per questo, il congresso si divide su quasi tutto, spesso con esiti imprevisti. La decisione sul nome del partito, ad esempio, mentre sembrava acquisita con l’adesione di Cossutta al termine di «Rifondazione» piuttosto che alla nuda riproposizione della dizione «Partito comunista», passa invece con una maggioranza risicatissima; e una risoluzione di taglio femminista che riconosce alcune specificità di genere anche sul piano organizzativo, benché anch’essa sponsorizzata in toto dalla dirigenza nazionale, viene addirittura respinta dalla base congressuale. In sostanza, si delineano qui i tratti di un partito fram­ mentato, irrequieto e poco gestibile. Mentre al vertice vigono pratiche tipiche della politique politicienne e delle manovre di corridoio, alla base sembra tornato in auge il movimentismo più disarticolato. Ciò riflette, da un lato, un senso di liberazione rispetto a prassi antiche, ereditate dal Pei, delle quali anche i più ortodossi cossuttiani, evidentemente, non ne potevano più; e, dall’altro, una struttura organizzativa molto aperta senza più alcuna traccia di centralismo democratico, con un’adesione poco formalizzata e una struttura di base (i circoli) che gode di gradi di autonomia, sconosciuti agli altri partiti dell’epoca. Le divisioni interne riflettono le diverse socializzazioni politiche sia della classe dirigente sia, soprattutto, dei militanti. A fianco della generazione più anziana, vissuta tutta all’interno della subcultura comunista, se ne è aggiunta una più giovane che ha avuto nel Sessantotto e nei movimenti il suo luogo privilegiato di socializzazione, e nelle formazioni di nuova sinistra il suo riferimento organizzativo. Inoltre, permangono sedimenti di differenziazione ideologica, dall’operaismo al trotzkismo, dal nostalgismo comunista alle infatuazioni terzomondiste di sapore cattocomunista; e tutti si articolano per correnti. Nemmeno la faticosa mozione unitaria partorita dal congresso appiana i contrasti interni alla classe dirigente. Cossutta, dopo aver lasciato il passo a Garavini, pretende, con qualche ragione, un ruolo più visibile e ufficiale. Per accontentarlo, pur con qual­ che mugugno interno, gli viene creata la carica di presidente. Ma questi faticosi assestamenti deteriorano il clima interno al punto che le elezioni degli organi dirigenti vengono rinviate a un secondo momento. Nonostante la positiva ricezione sul piano militante (il primo tesseramento del 1991 registra 112.278 iscritti e 3.127

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circoli) ed elettorale (alle elezioni politiche del 1992 raggiunge un lusinghiero 5,6% che lo pone al quinto posto tra i partiti italiani), Rifondazione comunista rimane ondivaga sulla dire­ zione da seguire. L’unico ancoraggio sicuro è l’opposizione al sistema capitalistico e la riproposizione di un’alternativa di classe, antimperialista e antiamericana, presidiando così lo spazio di sinistra dello schieramento pohtico lasciato sguar­ nito dalla trasformazione del Pei; ma la diarchia al vertice tra Cossutta e Garavini si divide sul modo di realizzare tale alternativa: richiamando le radici tagliate della Quercia o aprendo il serbatoio delle variegate opposizioni giovanili, di ogni tipo e genere? E una sfida esterna - il nuovo sistema elettorale maggioritario introdotto dopo il referendum del 1993 nel quale Rifondazione ha invano difeso la rendita proporzionale - a provocare lo show-down interno. I rifondatori a 24 carati come Garavini hanno in mano ottime carte per imporsi: non solo il nuovo assetto sistemico obbliga a una strategia coalizionale, ma vi sono segni di una possibile, ulteriore, frana del Pds, tangenzialmente intaccato da Mani pulite e, soprattutto, colpito dalla fuoriu­ scita (peraltro solitaria e senza polemica) di un leader storico come Pietro Ingrao. Invece, nel luglio del 1993, il segretario è costretto alle dimissioni proprio per le sue dichiarazioni apertu­ riste, favorevoli alla costruzione di un nuovo soggetto pohtico più ampio e includente; grazie a un accordo tra Cossutta e la componente proveniente dal Pdup di Lucio Magri, la quasi totalità del Comitato pohtico nazionale, massimo organo diret­ tivo del partito, sfiducia Garavini ed elegge in sua vece Lucio Libertini. La difesa del territorio di caccia elettorale appena conquistato, irrobustito dai buoni risultati alle amministrative per i grandi comuni nella primavera del 1993, nonché da una crescita delle iscrizioni, prevale sulla prospettiva di una nuova mutazione politico-strategica. Tuttavia, sono ancora gli eventi esterni a influenzare il percorso previsto. La morte repentina di Libertini, pochi mesi dopo la sua elezione, porta il partito a dover scegliere un nuovo segretario. Al II Congresso (21-24 gennaio 1994) la coalizione dominante del partito individua in un nuovo arrivato, Fausto Bertinotti, sindacalista uscito dalla Cgil in polemica con la gestione riformista di Sergio Cofferati, il candidato designato alla segreteria. Una scelta così inusuale,

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in qualsiasi partito e vieppiù in uno altamente gerarchizzato come Rifondazione comunista, si spiega soprattutto come so­ luzione estrema, ed estranea, all’intersecarsi delle varie linee di frattura che coprono un ventaglio che spazia dalla sinistra ex Pei all’opposizione sociale di stampo movimentista. Il II Congresso le riflette tutte e, anzi, fa rimbalzare sulla platea nazionale lo stato magmatico in cui fluttua la base del partito. Nonostante il clima surriscaldato del congresso, passa con più dei due terzi dei voti la mozione della componente CossuttaMagri che impone Bertinotti alla segreteria e indica la linea dell’accordo con gli altri partiti della sinistra per entrare nella coalizione dei Progressisti. Il risultato delle urne alle elezioni politiche del 1994 non è particolarmente gratificante in quanto il partito sale di appena lo 0,4% arrivando al 6% e rende impervia la strada della colla­ borazione organica con gli altri partner della coalizione. Infatti, al momento del varo del governo tecnico affidato a Lamberto Dini, nel 1995, si riaffaccia il conflitto tra antagonisti e possibi­ listi, tra chi cioè non vuole dare i propri voti in cambio di un mero governo tecnico ancorché alternativo alla destra, come si prefigura quello di Dini, e chi invece vuole entrare nel gioco e far pesare i propri voti che, tra l’altro, alla Camera, possono risultare decisivi. La spaccatura interna vede contrapposta la direzione del partito, decisa a mantenere un’opposizione sen­ za falle, a buona parte del gruppo parlamentare. Benché gli organi dirigenti del partito si esprimano per il voto contro il governo Dini, alcuni parlamentari, Garavini e Magri in testa, votano la fiducia; e un analogo comportamento dissonante si ripete in altre occasioni (tra cui la riforma delle pensioni). La divaricazione arriva ben presto al punto di rottura. Nel giugno del 1995 abbandonano Re, oltre a qualche dirigente di partito, 14 deputati su 36 e 3 senatori su 18, mentre la base e i quadri locali rimangono insensibili. Gli scissionisti danno vita ai Comunisti unitari, raggruppamento composto esclusi­ vamente da ceto politico, senza alcuna incidenza elettorale né respiro politico. Rifondazione non è per nulla intaccata da questa mini­ scissione, anzi, alle elezioni regionali sale all’8,4%. Questo exploit conforta l’atteggiamento antagonistico della leadership bertinottiana. Infatti, in vista delle elezioni politiche del 1996, Rifondazione comunista rifiuta di entrare nella coalizione

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dell’Ulivo offrendo soltanto un patto di desistenza nel mag gioritario e contrattando la candidatura in collegi sicuri di un numero di parlamentari equivalente agli eletti prescissione. L’appoggio tecnico, che potrebbe far balenare un allentamento della tensione anticapitalista, è offuscato da una campagna elettorale molto radicale, che spazia dall’opposizione alla Nato all’ammirazione per il regime di Fidel Castro, dalla proposta di tassazione dei Bot alla difesa di tutte le guarentigie del settore pubblico. Grazie a questa duplicità - fermezza sul profilo antagonista e disponibilità ad accordi con l’Ulivo - il partito tocca il massimo storico dei consensi con l’8,6% (anche se i deputati sono solo 34, equivalenti al 5,6%, scontando quindi uno scarso rendimento delle candidature comuni dell’Ulivo targate Re). Il sostegno esterno al governo Prodi pone, ovviamente, un problema di ripensamento strategico in quanto si tratta di conciliare la rappresentanza dell’opposizione sociale con la par­ tecipazione alla maggioranza governativa. Nei primi mesi, grazie a una buona dose di retorica nonché di ingegneria organizzativa e regolamentare, la linea «filogovernativa» Bertinotti-Cossutta marginalizza il dissenso interno e si afferma al III Congresso (12-15 dicembre 1996) con l’82% dei voti. Bertinotti veicola con efficacia, in performance televisive qualitativamente pari a quelle di Gianfranco Fini, ma con un tocco di civetteria in più, posizioni critiche nei confronti del governo per evitare di essere accusato di arrendevolezza. Solo di fronte alla pesante manovra fiscale per consentire l’adesione dell’Italia alla moneta unica europea Rifondazione sostiene il governo senza troppi brontolìi abbandonando il suo tradizionale euroscetticismo. Ma a partire dal 1997 le scelte di politica estera (la missione Alba per la stabilizzazione dell’Albania) e di politica economica e sociale diventano oggetto di continui conflitti con il governo fino a provocare, in ottobre, una minicrisi sulla legge finanziaria. La crisi viene superata con la concessione della legge sulle 35 ore, garantita direttamente dal presidente del Consiglio Romano Prodi. Questo esito, che agli occhi dell’opinione pubblica ap­ pare come una grande vittoria di Rifondazione, in realtà lascia profondi strascichi polemici dentro il partito. Sulla fiducia a Prodi si è infatti inscenato uno scontro violentissimo tra Cossutta e Bertinotti, con quest’ultimo sempre più insofferente dei condizionamenti posti dalla collaborazione governativa.

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Il conflitto riesplode nell’estate successiva quando lo stesso segretario lancia l’allarme sul rischio di omologazione con la sinistra riformista: Rifondazione deve rappresentare l’opposizione sociale e i movimenti di protesta e quindi non può continuare a sostenere un governo non in linea con que­ sti obiettivi. Il casus belli che fa precipitare la crisi interna è fornito dal voto sulla legge di bilancio nell’ottobre del 1998. Il Consiglio politico nazionale approva la mozione del segre­ tario favorevole al passaggio all’opposizione, ma la minoranza cossuttiana non si adegua e, in occasione del drammatico voto di fiducia, dove il governo cade per un solo voto, un gruppo di parlamentari guidati da Cossutta vota contro le direttive del partito. Di nuovo, a distanza di tre anni, si consuma un’altra scissione, questa volta molto più dolorosa per Rifondazione. Cossutta esce portandosi via buona parte degli eletti - 21 deputati su 34, 8 senatori su 11, 36 consiglieri regionali su 62 - e alcuni dirigenti locali - 22 segretari di federazione su 117 e 4 segretari regionali su 20 - e fonda il Partito dei comunisti italiani (Pdci). Contrariamente alla fuoriuscita dei Comunisti unitari di Magri, Castellina e Garavini, questa volta il partito subisce una netta contrazione della sua forza organizzata. Da quel momento, Rifondazione comunista non riuscirà più a reclutare un numero analogo di iscritti: dai 130.061 del 1997 scende negli anni successivi a una quota che oscilla intorno ai 90.000. La scelta di interrompere la collaborazione governativa viene confermata anche nei confronti del governo D ’Alema. Nemmeno al primo postcomunista che entra a Palazzo Chigi si fanno sconti. Mentre gli scissionisti dei Comunisti italiani adottano subito una logica negoziale - come del resto era pre­ vedibile vista la ragione filogovernativa della loro nascita - e viene beneficato da un ministero di peso (Grazia e giustizia) più uno senza portafoglio (Affari regionali) e conseguenti ulteriori attribuzioni ministeriali, Re mantiene inalterata la sua linea antigovernativa. L’isolamento politico in cui si ritrova il partito lo penalizza: alle elezioni europee del 1999 il partito scende al suo minimo storico, 4,2%. Nemmeno la forte polemica contro il governo D ’Alema (1998-2000) per la partecipazione militare italiana all’intervento Nato contro la Serbia ha pagato. Ovviamente Rifondazione sconta una perdita di consensi a favore del Pdci, che raccoglie il 2% dei

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voti, ma anche sommando i due elettorati il partito sarebbe rimasto ben lontano dalla sua performance di tre anni prima. L’affanno politico del partito viene attribuito soprattutto a deficit organizzativi. In effetti, qualche ragione per tale ipo tesi esiste in quanto, al IV Congresso (18-21 marzo 1999), convocato per serrare le fila dopo la scissione e preparare le europee, erano stati denunciati una contrazione e un alto turnover negli iscritti, e un collegamento deficitario tra centro e periferia. Il passaggio al Pdci di intere sezioni locali, con militanti di lungo corso, in molti casi di provenienza Pei, ha depauperato il tessuto periferico di Re. Per rimettere ordine e limitare i danni il partito modifica l’impostazione organizzativa originaria e, oltre a eliminare la figura del presidente, impone una più rigida separatezza tra eletti e partito, mentre rilassa ulteriormente il controllo degli organi centrali su quelli locali, in sintonia con la domanda di maggiore integrazione e partecipazione. Al rischio dell’ab­ bandono [Vexit) il partito preferisce favorire l’espressione del dissenso (la voice). Il clima interno più rilassato favorisce l’aggregazione di nuovi gruppi di militanti che esprimono tanto il variegato mondo protestatario giovanile quanto le nostalgie del passato. I quadri di fine anni Novanta riflettono questa divaricazione: da un lato manifestano atteggiamenti giustificazionisti ed eufemistizzanti nei confronti del socialismo reale sovietico sottolineandone le conquiste sociali (43,8%); dall’altro negano il carattere socialista dell’Urss (42,8%) e un 10% si spinge a condannarla come brutale dittatura. Continuità e rinnovamento dividono ancora il partito, e lo dividono in parti quasi uguali. Alla carente metabolizzazione del carattere autoritario del modello sovietico, nonostante le chiare denunce da parte della leadership di Garavini prima e di Bertinotti poi, fa però da contrappeso una sensibilità particolare per tematiche postmaterialiste incentrate sui diritti civili in senso lato. Il mastice, il filo rosso che avvolge tutte queste posizioni è fornito da un anticapitalismo a tutto tondo: i quadri denunciano coralmente il carattere intrinsecamente oppressivo del capitalismo e la mistificazione del mercato al punto che la vera cifra identitaria del partito si potrebbe rintracciare in questa sua opposizione al «pensiero unico neoliberale». In sostanza, il partito che si affaccia al nuovo millennio

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trascina con sé alcuni residui della mitologia comunista ma senza l’involucro ordinatore dell’ideologia marxista lasciata deperire a favore di un radicalismo pacifista e no global, antagonista e protestatario, libertario e anticapitalista. Questa nuova koinè marginalizza sempre più, anche per ragioni anagrafiche, l’eredità comunista dei vecchi militanti di provenienza Pei benché essi costituiscano ancora il bacino di reclutamento preferenziale del partito. Lo attesta, indirettamente, il profilo sociologico dei membri del partito: nelle roccaforti di Re, cioè nelle regioni rosse, ben il 38,8% degli iscritti sono pensionati, un tempo membri del Pei approdati a Rifondazione comunista con tutto il loro bagaglio nostalgico. Questo ancoraggio impedisce di comprendere appieno la mutazione in atto dentro e fuori dal partito, tanto che, a titolo d’esempio, Re non coglie l’oppor­ tunità di guidare la mobilitazione dei movimenti no global attivati dalle clamorose proteste di piazza in occasione del G7 di Seattle, alla fine del 1999. E solo dopo le tumultuose giornate del G8 di Genova, nel luglio del 2001, che Bertinotti decide di investire il partito nel nuovo antagonismo sociale indirizzando il partito verso un’ancora maggiore apertura, sburocratizzazione c flessibilità all’interno, e verso la ricezione di domande postmaterialiste provenienti dalla società e dal mondo giovanile in particolare. Questa svolta, a cui non è estranea la necessità di un cambiamento dopo il tonfo alle elezioni del 2001 (5%: -3,6), è tutt’altro che condivisa in Rifondazione: esponenti della vecchia guardia, trotzkisti, operaisti e nostalgici del conflitto capitale-lavoro insorgono contro la «deriva movimentista». Il conflitto verte sulla strategia del corteggiamento dei movimenti: mentre l’obiettivo della loro egemonizzazione sarebbe anche risultato appetibile a molti oppositori interni, non lo era certo quello di far rimbalzare direttamente nell’arena politica le loro domande, disarticolando in qualche maniera i confini tradizionali delle identità e delle appartenenze politiche. In un modo o nell’altro, comunque, Re non solo si garantirebbe la rappresentanza di un movimento antagonista con cui esistono già molti punti di contatto, ma potrebbe utilizzarlo come un ariete contro i concorrenti diretti, in primis i Ds. Il partito della Quercia, dopo la sconfitta della coalizione di centro-sinistra alle elezioni politiche del 2001 - scon­ fitta causata anche dall’indisponibilità di Rifondazione ad

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accordi con l’Ulivo - , è difficilmente conquistabile con gli armamentari della vecchia tradizione comunista di cui alcune componenti di Rifondazione, come quella raccolta intorno alla rivista «L’Ernesto», si fanno interpreti; per attrarre i Ds serve una proposta politica innovativa, innervata di spunti libertari. Il V Congresso (4-7 aprile 2002) è tutt’altro che unanime su questa prospettiva, tanto che vi si confrontano quattro correnti diverse. E la maggioranza bertinottiana si afferma di stretta misura. Il segretario impone un taglio molto esplicito con il pas­ sato includendo nello statuto il rifiuto di ogni «concezione autoritaria e burocratica, stalinista o d’altra matrice, del socialismo»; e coerentemente spinge il congresso a rigettare una mozione in cui si richiama la continuità con l’esperienza storica del movimento comunista internazionale. Per il leader di Rifondazione comunista il partito deve essere l’interprete del «caos creativo» e antagonista che monta nella società, non la caricatura in sessantaquattresimo del vecchio Pei. In linea con l’impostazione movimentista viene delineato un «partitocomunità», in sintonia con i fermenti della società civile. L’ipotesi del rifiuto dell’esperienza ideologica comunista accompagna il partito fin dalla sua fondazione, a incominciare dalla querelle sul nome. Dopo tante esitazioni e retromarce sembra arrivato il momento del distacco. Mancano ancora però alcuni tasselli. Uno, molto importante e altamente sim­ bolico, irrompe con grande forza con una serie di clamorosi interventi in cui Bertinotti proclama il rifiuto radicale per ogni azione politica violenta e demolisce una volta per tutte la mitologia leninista della presa del Palazzo d ’inverno. Non tutti all’interno del partito si adeguano - del resto solo la metà dei delegati al congresso nazionale del 1999 si era dichiarata d’accordo con la scelta non violenta, sempre e comunque ma il segretario conduce un’intensissima attività maieutica per ridefinire l’identità del suo partito lungo questa linea. Il passaggio è particolarmente rilevante perché nella fase post-11 settembre Rifondazione si schiera «senza se e senza ma» contro ogni intervento militare nella lotta al terrorismo internazionale. Il partito vota contro tutte le risoluzioni che impegnano le truppe italiane all’estero, dall’Afghanistan all’I ­ raq, anche per incalzare i Ds su questo terreno. L’intesa con il movimento per la pace raggiunge nei primi anni Duemila il

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suo punto più alto: Rifondazione promuove e/o sponsorizza una serie di meeting e di manifestazioni antiglobalizzazione e pacifiste di grande risonanza e viene riconosciuta ormai come un portavoce legittimo del variegato arcipelago antagonista. Non per nulla nella sua classe dirigente sono ormai entrate persone prive di precedenti esperienze nella sinistra storica o extraparlamentare: il 36% dei membri del Comitato politico nazionale si è iscritto direttamente a Rifondazione comunista e il 25% ha militato nei movimenti. La strategia adottata dalla leadership offre visibilità e vitalità al partito - è uno dei pochi che non perde iscritti in questi anni - ma lo allontana dalle altre forze della sini­ stra, con il rischio dell’isolamento. Il rilancio massimalista, e solitario, attraverso un referendum abrogativo su alcune norme che consentono il licenziamento nelle imprese sotto i 15 dipendenti, promosso in polemica con i Ds e la Cgil «riformista» di Cofferati, si risolve in un fiasco. Va a vota­ re, nella primavera del 2003, appena il 25% degli elettori, vanificando così l’esito della consultazione. E il primo test elettorale nazionale dopo le politiche, quello per le europee del 2004, non è esaltante: dopo tutta la mobilitazione degli anni precedenti Re arriva solo al 6,1%, appena un punto percentuale sopra le politiche del 2001. Il rischio di irrilevanza nello scacchiere politico e la spinta dell’opinione pubblica di sinistra, nelle sue varie sfaccettature, a costituire un fronte anti-Berlusconi riportano Rifondazione al tavolo con gli altri partiti del centro-sinistra per costituire una alternativa al centro-destra, ancora sotto l’egida di Romano Pro­ di. Questa decisione è considerata dalla minoranza interna un tradimento della linea alternativistica. Lo show-down tra le varie componenti interne è inevitabile e lacerante. Al VI Congresso (3-6 marzo 2005) si scontrano ben cinque diverse mozioni, ma Bertinotti, che tra l’altro dichiara di presentarsi per l’ultima volta alla guida del partito, riesce a far approvare la propria mozione mentre la sua rielezione passa, nel Comitato politico nazionale, con solo 143 voti contro 85 (più 2 astenuti e 30 che non hanno partecipato). La strada per l’adesione al cartello dei partiti del centro-sinistra sotto l’ombrello dell’Unione è imboccata. Rifondazione influisce su alcuni punti caratterizzanti del programma (legge Biagi sul lavoro, pensioni, welfare) e non rinuncia a cavalcare molti terreni di protesta come quello in

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Val di Susa contro la costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità, ma deve accettare posizioni in contrasto con quanto proclamato fino ad allora in politica internazionale come il permanere delle truppe italiane in Afghanistan. Comunque la caratura più «responsabile» di Rifondazione, senza peraltro abbandonare una propensione movimentista, è corroborata da alcuni significativi successi elettorali, in particolare quello ottenuto alle elezioni regionali del 2005. Il suo candidato alla carica di presidente della regione Puglia, Nichi Vendola, ex dirigente della Fgci e molto attivo nel movimento omosessuale, riesce prima a sconfiggere il candidato di Ds e Margherita nelle primarie e poi ad affermarsi alle elezioni in una regione da sempre orientata a destra. Dopo questo esito, tutto sommato clamoroso, Re inanella una serie di risultati positivi. Il primo si registra alle elezioni politiche del 2006, dove il partito, pur non sfondando eletto­ ralmente (5,8% alla Camera e 7,4% al Senato), grazie al siste­ ma proporzionale aumenta di ben 52 unità la sua compagine parlamentare, in precedenza ridotta ai minimi termini dalla partecipazione solitaria del 2001. Il secondo, con la nomina di Bertinotti alla presidenza della Camera. E il terzo, infine, con l’ingresso, per la prima volta, al governo con un ministro (Solidarietà sociale), un viceministro e sei sottosegretari. La normalizzazione di Rifondazione sembra così acquisita anche grazie alle fuoriuscite di trotzkisti e nostalgici. Questi indubbi successi innescano però una dinamica di difficile gestione. Dover contemperare per la prima volta piene responsabilità governative e presidenza di cariche istituzionali con la vis antagonista, che è inscritta nel suo codice genetico, è un esercizio molto complesso. In più Rifondazione si trova insidiata nel suo ruolo antagonista da due altre componenti, molto diverse per ispirazione e peso politico ma entrambe insidiose. Da un lato, vi è l’Italia dei valori di Antonio Di Pietro, vocale e aggressiva tanto quanto Re (e anche più), benché su registri completamente scevri da impostazioni clas­ siste o altermondialiste; dall’altro, la pattuglia dei Comunisti italiani, minoritaria ma collocata sulla medesima lunghezza d’onda ideologica e gratificata anch’essa di un ministro nel governo Prodi. Rifondazione comunista mantiene nei due anni di vita dell’esecutivo dell’Unione un atteggiamento altalenante fatto

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di strappi, soprattutto in politica estera, e di acquiescenza. In questo modo cerca di mantenere l’egemonia nel territorio della protesta e dei movimenti senza arrivare a rotture clamorose. Altrimenti detto, tenta di bilanciare l’etica della convinzione con l’etica della responsabilità. Ma, alla fine, viene coinvolta, e travolta, da un episodio di cui, pur non essendo direttamente responsabile, ne porta il peso. Le posizioni «pacifiste» soste­ nute così spassionatamente dal partito in tutto questo periodo fanno maturare un frutto avvelenato: nel febbraio del 2007, in occasione del voto sul finanziamento delle missioni militari all’estero il voto contrario di un senatore eletto in quota Pdci porta alle dimissioni del governo Prodi. Questo episodio ri­ flette l’inquietudine che serpeggia nei due partiti di sinistra radicale e in particolare in Rifondazione al punto che anche la capacità di attrazione sul territorio ne risente: in due anni, dal 2006 al 2008, Re perde più di 20 mila iscritti scendendo al minimo storico di 71.007. Politica economica e politica estera fanno salire periodicamente la tensione tra Rifondazione e gli altri partiti della maggioranza di governo. Che la crisi finale del governo venga poi sancita dalle dimissioni del ministro della Giustizia Clemente Mastella (Udeur) e di altri moderati imprudentemente imbarcati nella coalizione ulivista poco im­ porta. Lo stigma della crisi viene, ancora una volta, attribuita al massimalismo di Rifondazione e compagni. Re arriva alle elezioni del 2008 gravata da questa immagine negativa, resa manifesta anche dalla totale indisponibilità del Partito democratico (Pd) a stringere alleanze con Rifondazio­ ne. Per contrastare questo isolamento il partito dà vita a un cartello elettorale, Sinistra l’Arcobaleno, che comprende tutte le formazioni alla sinistra del Pd, e cioè, oltre a Rifondazione, Pdci, Verdi e Sinistra democratica (formazione di esponenti Ds che non hanno accettato la trasformazione in Pd). Il risultato è catastrofico: il totale dei suffragi della Sinistra l’Arcobaleno, che poteva contare su un bacino virtuale del 10% in base ai voti ottenuti alle politiche di due anni prima, precipita al 3,1% escludendo dal parlamento, per la prima volta da decenni, una formazione di sinistra radicale. Da quell’esito calamitoso nascono, attraverso alcuni pas­ saggi intermedi ricchi di fratture e dissensi (emblematizzato dal cataclismatico VII Congresso, 24-27 luglio 2008), due formazioni distinte: Sinistra ecologia libertà (Sei), capitanata

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da Nichi Vendola, che trascina con sé una parte del partito, più altre componenti minori; e la Federazione della sinistra (Fds), composta dal nucleo portante di Re e dal Pdci. Entram­ be le formazioni si costituiscono formalmente più tardi, nel dicembre del 2009. Questi sussulti non vedono più al centro il leader storico di quest’area, Fausto Bertinotti, che, dopo le elezioni, lascia definitivamente il campo. Alle elezioni europee del 2009 Sei e Fds, presenti con diverse etichette, sono premiate allo stesso modo, 3,1% e 3,4% rispettivamente. Tuttavia, è Sei a impossessarsi della scena negli anni successivi. La ragione sta nella presenza alla sua testa di un leader dai tratti carismatici, Nichi Vendola, che si distingue nettamente da tutti gli altri politici per un linguaggio fantasioso ed evocativo, con forti tinte utopiche, perfetto per attrarre componenti giovanili e pulsioni alterna­ tive. Se si vuole un paragone, può essere accostato, mutatis mutandis, a Marco Pannella, proprio per la carica passionale e la proiezione metapolitica. Inoltre, è l’unico che può vantare successi elettorali personali importanti. Non solo ha vinto alle regionali pugliesi del 2005 ma ha confermato la sua presa con la rielezione nel 2010 ottenendo un risultato pressoché identico (48,7%) a quello precedente. Questa vittoria riscatta la prova deludente delle europee dell’anno prima e proietta Sei e il suo leader in una dimensione più rilevante rispetto ai suoi soli voti. Sei si pone l’obiettivo di iniettare nell’area riformista elementi più radicali sia su un piano classico di «vecchia sini­ stra», attento alle tutele dei lavoratori, sia su quello più nuovo, «postmaterialista», imperniato su pacifismo, ambientalismo e diritti civili. Sei, contrariamente al Pedi che difende l’ortodossia postcomunista, si muove in un’ottica di riformismo radicale, a ridosso del grande partner del Partito democratico. Chiave di volta di questa strategia è la partecipazione alle primarie di coalizione del centro-sinistra per il candidato premier alle future elezioni. Già nell’estate del 2010, a conclusione del meeting delle «fabbriche di Nichi», laboratori di riflessione alimentati da Sei, Vendola indica un percorso di confronto con il Pd imperniato sulla sua candidatura alle future primarie. Su questa base Sei viene accettata come partner in una prospettiva di governo di centro-sinistra: i ripetuti vulnus portati ai governi Prodi da quel mondo sembrano sanati.

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Contribuisce a questo mutamento nei rapporti una pro­ fonda revisione dell’universo valoriale di riferimento. Nono­ stante mantenga fermi alcuni capisaldi della sua ispirazione alternativistica e altermondialista, ipercritica nei confronti del mercato, del capitale e della finanza, le tematiche ambienta­ liste e dei diritti civili occupano uno spazio inedito tanto da portare Sei sul terreno del postmaterialismo libertario più che della tradizione comunista. In effetti, il profilo dei delegati al I Congresso di Sei (2010) conferma questo slittamento verso «una sinistra dell’eguaglianza, non dogmatica, libera, plurale e unitaria» secondo le parole di Vendola. In primo luogo, quasi nessuno si definisce di «estrema sinistra», e appena il 13% ritiene in primis adeguata la defi­ nizione di «comunista» per Sei, contro un 75% che predilige la connotazione di «laica» e il 58% di «progressista». Addi­ rittura sono più numerosi quelli che prediligono il termine, un tempo fermamente respinto, «riformista» (20%) rispetto a «comunista». Sembra passato un secolo dalle nostalgie ri­ voluzionarie all’origine di Rifondazione. Questa mutazione si evince anche da tutta una serie di scelte adottate dai delegati di Sei che li caratterizzano come adamantinamente laici e alfieri dei diritti civili (quasi fossero redivivi pannelliani...). Infatti, la quasi totalità difende la libertà di abortire, i diritti dei gay e l’uso personale di droghe leggere. Altrettanto unanimi si schierano a difesa della laicità dello stato, della scuola e della non ingerenza della chiesa nelle decisioni politiche (qui con il consenso dell’82% dei delegati). Alcune posizioni sulla politica estera rendono ancora più emblematico il passaggio a una cultura politica riformista e più articolata: pur conser­ vando un certo antiamericanismo di fondo, non scalfito dalla nuova presidenza Obama, il 70% esprime fiducia nell’Unione Europea e il 94 % ( ! ) considera positivo il passaggio all’euro; ma, soprattutto, il 50% ritiene «utile e opportuno» l’impegno italiano nelle operazioni di peace-keeping (proprio il tema più divisivo all’epoca del governo Prodi pochi anni prima). Infine, pur riconfermando un’impostazione fortemente prò labour, il 40% ritiene il mercato «essenziale per una società libera». Anticapitalisti sì, ma non con gli occhi bendati. La mutazione movimentista dell’ultimo Bertinotti ha certo fatto da levatrice a questo passaggio in direzione postcomunista e riformista: la sua accelerazione e il viraggio laico-radicale ne-

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cessitavano però di un nuovo interprete. Vendola ha impresso un’impronta personale tale da portare Sei ai confini del partito carismatico. La sua popolarità nei social media dell’epoca - è il più seguito di tutti. Grillo escluso - e il consenso personale travalicano la cerchia dei simpatizzanti. L’handicap, semmai, sta nella curvatura regionale di Sei: dei circa 40 mila iscritti tra 2010 e 2011, i due terzi sono concentrati nel Centro-Sud, Lazio, Puglia, Campania e Sicilia in testa. I riferimenti e le stesse scelte personali postmoderne di Vendola si mescolano, attraverso un accattivante linguaggio immaginifico, con tratti tradizionalisti della cultura popolare cattolica. L’uso dei nuovi media e delle nuove tecnologie superiore agli altri concorrenti non bastano però a penetrare nel Centro-Nord, le cui com­ ponenti sindacalizzate e riformiste rimangono indifferenti al messaggio vendoliano. Tra le elezioni regionali del 2010 e le elezioni locali nelle grandi città del 2011 Sei tocca il punto più alto della sua traiet­ toria. Sono i suoi esponenti a imporsi nelle sfide interne al centro-sinistra come candidati sindaco in città importanti come Milano, Genova, Cagliari e Perugia. Non solo. Come accaduto in Puglia con Vendola alle regionali, sono questi candidati «estremi» a portare alla vittoria il centro-sinistra. Giuliano Pisapia a Milano, Marco Doria a Genova, Massimo Zedda a Cagliari, più Ippazio Stefano a Taranto l’anno dopo, forniscono per la prima volta a un partito a sinistra del Pd l’immagine della governabilità. Il problema è che queste vittorie sono più il frutto di contingenze particolari e di personalità di spicco che di uno spostamento di consensi sul partito: infatti, anche in quelle elezioni raccoglie un numero di preferenze nettamente inferiore al 10%. Nemmeno la vittoria nei referendum sui beni pubblici della primavera del 2011, per la quale Sei ben più di altri si è impegnata, è servita a dare una spinta al partito. Tuttavia, Sei è ormai entrata nell’orbita del centro-sinistra come alleato imprescindibile. Sia la partecipazione alle primarie del centro-sinistra 2012 per l’indicazione del candidato premier, sia una campagna elettorale condotta sul filo della responsabilità proiettano Sei nell’area governativa. D ’altro canto, invece, i «cugini» della Federazione della sinistra, dopo aver mestamente celebrato il ventennale della nascita di Rifondazione, che ha ripreso la sua identità dichiarando chiusa alla fine del 2012 l’esperienza di Fds, falliscono l’ingresso in parlamento: la li­

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sta che raccoglie varie anime sparse della sinistra, approntata per le elezioni del 2013, Rivoluzione civile, capitanata dal magistrato antimafia Antonio Ingroia, non arriva a superare 10 sbarramento del 4% raccogliendo il 2,3%. L’onda alta di Sei - Vendola alla fine del 2012 era il poli­ tico con il sito web più seguito (329.390 amici) dopo Beppe Grillo - si infrange alle elezioni del 2013. Nonostante i successi alle amministrative del 2011, i consensi ottenuti da Vendola alle primarie per la leadership del centro-sinistra (13,3%) e la prospettiva di tornare al governo con la coalizione di centro-sinistra, Sei ottiene un modesto 3,2%, simile a quanto raccolto alle europee del 2009. Questo sostanziale insuccesso viene acuito daH’impossibilità di formare un governo con il Pd per via della mancanza di una maggioranza al Senato. La nascita della grande coalizione tra Pd e Pdl chiude la porta a ogni possibile collaborazione con il Partito democratico. Il contraccolpo rispetto alle aspettative maturate negli ultimi anni è molto forte. Sei non può riprendere il suo ruolo di oppo­ sizione radicale perché ha perso il monopolio della protesta. La nascita del M5s ha prosciugato quegli umori antagonisti che si indirizzavano anche verso Sei. Paradossalmente anche un partito contestativo e alternativo come Sei non regge il confronto con il dilagare del messaggio antiestablishment a 360 gradi di Beppe Grillo. Emblematico di questa impasse è 11 ritorno all’ovile, alle elezioni europee dell’anno successivo: Sei si presenta in una lista - L’altra Europa con Tsipras - in­ sieme a tutte le altre componenti sparse della sinistra extra-Pd e qualche intellettuale di punta. La decisione di partecipare, peraltro, è sofferta in quanto al II Congresso (24-26 gennaio 2014), convocato per approvare la confluenza nella lista Tsipras, emerge un ampio dissenso visto che viene ratificata con 382 voti favorevoli, 68 contrari, 123 astenuti. Questa volta, comunque, la lista comune riesce a superare di un soffio lo sbarramento del 4% ma la scelta degli eletti tra rinunce mancate e accordi rimangiati proietta una volta di più un’immagine di rissosità e, tutto sommato, di inconcludenza, anche su questa esperienza. L’epilogo è scritto in questo passaggio. Il gruppo parla­ mentare di Sei, incapace di individuare una via politica, si frantuma sia verso il Pd sia altrove. Chiusa l’esperienza di presidente della regione Puglia nel 2013, Vendola si ritira dalla scena politica (anche) per seguire sue scelte personali. Così

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lascia il campo vuoto. O, meglio, deserto perché nessuno è in grado di rimpiazzarlo. La saracinesca su Sei cala definitivamente nel dicembre del 2016 con la confluenza in un soggetto politico (Sinistra italiana) destinato poi ad approdare alla lista Liberi e uguali (Leu) guidata da Pietro Grasso alle elezioni del 2018. La costituzione di questo nuovo soggetto politico, alimentato soprattutto dalla fuoriuscita di esponenti del Pd, offre forse una chance di sopravvivenza a un ceto politico che ha seguito tutti i tornanti della sinistra extra-Pd ma, al di là componenti minuscole, in questo tourbillon di aggregazioni e fusioni (e ulteriori divisioni) svanisce una distinta identità riconducibile a Rifondazione. Liberi e uguali, confederazione di tre gruppi diversi gli ex Pd bersaniani (che avevano fondato nella primavera del 2017 il Movimento democratico e progressista, Mdp), il gruppo animato da Pippo Civati, Possibile, e gli ultimi epigoni di Sei più altri fuoriusciti del Pd, tutti riuniti in Si­ nistra italiana - rimane al di sotto della più cupa previsione alle elezioni del 2018. Raccoglie appena il 3,4% inviando in parlamento una manciata di deputati; anche una delle sue figure più emblematiche, Massimo D ’Alema, presentatosi nel suo collegio storico di Gallipoli, subisce una disfatta clamorosa raccogliendo appena il 3,9% (poco più di 10 mila voti) laddove in precedenza veniva invece plebiscitato con percentuali altissime. Nell’immediato la sconfitta è talmente devastante da lasciare in pregiudicato ogni possibilità di ripresa della sinistra radicale. Il conflitto continuo, aspro ed esasperato tra il maggior interprete della tradizione di sinistra, nelle sue varie incarnazio­ ni (Pds-Ds-Pd), e i suoi contestatori di sinistra, rappresentati principalmente da Re e poi in ultimo da Sei, ha finito per in­ debolire entrambe le formazioni. Nemmeno il breve interludio cooperativo nel governo Prodi (2006-2008), o la candidatura unitaria dei sindaci delle grandi città nel 2011, o le vittorie in Puglia con Vendola, sono serviti ad appianare antichi, profondi contrasti. Passaggi ideologicamente dirimenti come quello «imposto» con grande determinazione da Bertinotti sulla piena e inequivoca accettazione della non violenza non hanno modificato l’atteggiamento di alterità assoluta, nutrita di pulsioni - e fascinazioni - movimentiste, verso gli altri attori del

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sistema partitico. Troppo tardiva l’irruzione di Nichi Vendola e troppo peculiare il suo messaggio per consentire di riportare in auge la sinistra radicale. Quest’area è stata prosciugata da altre, nuove espressioni di estraneità e contestazione al sistema, per di più prive di orpelli ideologici.

Parte quarta

L’ultimo arrivato: il nuovo per eccellenza

Capitolo quattordicesimo

M5s. Ecologia, internet, rabbia

Un urlo sguaiato riempie la piazza rossa per eccellenza, quella di Bologna. L’8 settembre 2007 - una data non casua­ le - Beppe Grillo ritma di fronte a una folla strabocchevole una litania scurrile contro la classe politica e i partiti. E il «Vaffa Day» (V-Day) di Bologna. Svoltosi in contemporanea con circa duecento altre piazze italiane, più alcune all’estero, rappresenta il punto di arrivo e di partenza della carriera po­ litica di Beppe Grillo e del suo movimento. Di arrivo, perché il comico genovese ha da tempo promosso iniziative politiche, seppure con modalità eterodosse; di partenza, perché da quel momento prende il via la sua avventura politico-organizzativa in senso proprio. La politicizzazione di Grillo inizia nell’autunno del 1986 quando, in piena era craxiana, nello spettacolo clou della Rai, al sabato sera, pronuncia una battuta feroce sui socialisti ac­ cusandoli, in sostanza, di essere tutti ladri. La battuta provoca l’immediata espulsione di Grillo dalla televisione pubblica. Il lungo esilio, interrotto solo da una fugace apparizione in oc­ casione dei festival di Sanremo del 1988 e 1989, ma con testi supervisionati fino alle virgole, termina significativamente nel 1993, quando infuria la tempesta di Tangentopoli. In occasione delle due trasmissioni che gli vengono affidate, questa volta senza vincoli, il comico genovese riprende e amplifica temi che sta da tempo illustrando nei suoi show: ambiente ed energia pulita, consumo critico e riciclaggio dei rifiuti; inoltre lancia i primi strali conto un’imprenditoria predatoria e arruffona, e una classe politica di incapaci e corrotti. L’agenda iniziale di Grillo non ha al centro la politica, bensì l’economia, con un discorso articolato su due versanti. Il primo riguarda la malagestione delle imprese e la vessazio­ ne del cittadino-utente. La polemica di Grillo si estrinseca

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con interventi contro i numeri a pagamento della compagnia telefonica di stato (che portano la Sip a cancellarli in fretta dopo essere stata inondata da cartoline di protesta), contro i produttori di auto (inquinanti), contro le case farmaceutiche esose e inventrici di sindromi inesistenti, e contro altri target di volta in volta individuati. Tra questi ultimi, la Parmalat, ripetutamente definita, già un anno prima del crack del 2003, un’azienda fallita (tanto che Grillo verrà chiamato dai magistrati incaricati dell’indagine, perché spiegasse «cosa sapeva»: al che rispose con un tranchant «bastava guardare i bilanci»...). Con queste azioni Grillo veste i panni del difensore del cittadino-consumatore, una sorta di Ralph Nader italiano, Le vittorie riportate (caso Sip) come le conferme delle sue denunce (caso Parmalat), modificano progressivamente la sua immagine da semplice interprete, per quanto vocale e grintoso, delle vessazioni da parte del big business, a credibile protagonista di battaglie per la difesa di interessi e diritti collettivi. L’altro versante dell’interesse del comico genovese per le questioni economiche è in linea con una visione postmateria­ lista della società, analoga a quella patrocinata dai movimenti ambientalisti e dai partiti verdi. Questa visione insiste sullo sviluppo più che sulla crescita, sull’energia rinnovabile, sul riciclo dei rifiuti, sul consumo critico, sui trasporti non inqui­ nanti, sulla gestione pubblica, comunitaria e gratuita, di beni essenziali come l’acqua, e sull’innovazione tecnologica (dopo un interludio luddista quando sfasciava in scena i computer accusandoli di asservire e assorbire le intelligenze). La sintonia di questa impostazione con molte delle politiche espresse dai movimenti ambientalisti è evidente, tuttavia non si concretizza alcuna significativa collaborazione. Grillo agisce su un versante civile, volutamente riluttante a «confondersi» con l’ambiente politico-partitico. E integra le critiche sferzanti ai responsabili della gestione dell’economia con una serie di indicazioni pratiche e concrete per migliorare la qualità della vita. Il taglio pragmatico dei suoi interventi, ad esempio sull’autoproduzione di energia, offre quel tanto di concretezza che ricalibra la visione proiettiva e utopica di una società carbon free e sostanzialmente bucolica. Nelle sue invettive risuona di frequente anche l’invito esplicito all’attivazione individuale, alla partecipazione diretta e alla responsabilizzazione in quan­ to cittadini: un tratto tipico della cultura politica liberale e

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libertaria rilanciata dai movimenti della new politics attivi in Occidente sin dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso. Coerentemente con questi assunti, Grillo, da un lato, critica ferocemente Berlusconi, di cui denuncia il conflitto di interesse e lo sprezzo per la legalità, nonché le politiche sociali inique del suo governo, e, dall’altro, è contiguo a movimenti di protesta come il «popolo viola» e i girotondi, mentre mantiene le distanze rispetto alla sinistra istituzionale. In questa fase, Grillo utilizza le basse frequenze della comunicazione - sostanzialmente i suoi spettacoli - perché le apparizioni televisive, così come gli interventi sulla stampa, sono rari. In particolare, il comico genovese coltiva un rap­ porto diretto, proprio di chi calca le scene, con gli spettatori che assistono ai suoi show: così, attraverso una modalità co­ municativa immediata, calda, personale, fidelizza un proprio pubblico. La sua caratura, e corporeità, di uomo di spettacolo è funzionale alla creazione di un seguito. La realizzazione di un blog (beppegrillo.it) nel gennaio del 2005 rappresenta un punto di svolta. E da questo me­ gafono che si irradia a macchia d’olio il suo messaggio. In breve, diviene uno dei siti politici più cliccati, tanto che il quotidiano inglese «Observer» lo considera uno tra i dieci blog più visitati e powerful del mondo. Il passaggio dal chiuso del teatro allo spazio infinito della piazza virtuale di internet (prima di appropriarsi della piazza vera e propria) ha un’o­ rigine ben precisa: l’incontro con Gianroberto Casaleggio, ingegnere informatico ex Olivetti e fondatore di una società di informatica, che esprime una visione a tratti palingenetica della politica e della democrazia. E grazie alla collaborazione, e poi alla grande amicizia, quasi una simbiosi, con Casaleggio che Grillo espande il suo uditorio a dimensioni prima incon­ cepibili e sviluppa i temi della democrazia diretta via internet, asse portante teorico e pratico del futuro partito. L’apertura del blog e l’incontro con Casaleggio portano a una maggiore politicizzazione del messaggio: a partire dal febbraio del 2008 Grillo posta sul sito i suoi primi «comunicati» riprendendo e parodiando, con quel gusto del paradosso e della provocazione, a volte anche macabro, i famigerati comunicati delle Brigate rosse negli anni di piombo. L’esplosione mediatica e politica del V-Day immette Grillo nella scena politica italiana. Il clamoroso successo di pubblico

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a Bologna e nelle altre piazze italiane in contemporanea è con­ fermato da un sondaggio, effettuato a caldo, secondo il quale il 17% dei cittadini lo voterebbe sicuramente, e un 33% lo prenderebbe in considerazione; e questo consenso è trasversale, pur con un’inclinazione verso sinistra (57%) più che verso de­ stra (32%); una connotazione che rimarrà costante nel tempo. Questa ubiquità politico-spaziale è conseguente al cambio di passo del discorso di Grillo, esploso in occasione del V-Day: anche se continua a picchiare duro sulla destra berlusconiana, non risparmia più la sinistra (per la quale, invece, aveva fatto un esplicito, quanto problematico, endorsement alle elezioni del 2006), e quindi i suoi strali si dirigono verso la classe politica tout court. Il vaffa è a 360 gradi. Viene a galla quanto fermentava da tempo: una delusione cocente nei confronti di tutti i partiti. L’esito delle «primarie dei cittadini», organizzate nel 2006 in polemica non velata con le primarie del centro-sinistra dell’anno prima, aveva eviden­ ziato un disagio non solo verso i partiti di centro-sinistra ma anche, seppure in forma ancora attenuata, verso le istituzioni. Al fondo emerge una sfiducia nella capacità dei politici di rappresentare le domande dei cittadini. Conseguentemente, complice anche il rifiuto del Pd ad accettare la sua provocatoria domanda di iscrizione, Grillo propone alle elezioni del 2008 l’astensione o la scheda bianca. Si rafforza la convinzione che sia necessario assumersi in prima persona la responsabilità di farsi «portavoce» dei cittadini nelle istituzioni ed entrare nell’arena politica. Questo passaggio completa il percorso iniziato quando, su ispirazione del movimento creato dal candidato democratico americano Howard Dean, erano stati fondati, nel luglio del 2005, dei meetups di «amici di Beppe Grillo» - blog di di­ scussione a livello locale che consentivano ai simpatizzanti di incontrarsi - ed erano state promosse, nel gennaio del 2007, delle liste civiche per le elezioni locali. L’interconnessione tra lo strumento - la rete - e il fine - la partecipazione alle deci­ sioni - sostanzia il mito della democrazia diretta, destinata a diventare la stella polare della visione grillina. Non potendo più contare sulla delega, i cittadini devono riappropriarsi del potere di decidere, direttamente e senza mediazioni. Lo stesso V-Day aveva dato voce a questa impostazione raccogliendo le firme per tre progetti di legge di iniziativa popolare (che

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totalizzano 336.144 firme ma che rimarranno senza esito) su temi squisitamente politici come il limite di due mandati parlamentari, il divieto di candidarsi per i condannati in via definitiva e l’introduzione del voto di preferenza. I meetup crescono lentamente ma costantemente da poche decine fino ai 239 del 2011, per poi esplodere negli anni successivi e oltrepassare quota mille a partire dal 2013. I meetup vivono una vita autonoma senza alcun collegamen­ to con il «centro»; devono solo essere registrati dal blog di Grillo. Il passaggio alla competizione elettorale e a iniziative di carattere nazionale come la raccolta di firme per le tre leggi di iniziativa popolare «istituzionalizzano» in un certo senso i meetup, benché essi rimangano strutture molto fluide, prive di un’organizzazione predefinita e di una catena di comando gerarchica. L’unica figura istituzionale è Yorganizer del meetup, che ha la responsabilità di attivare la piattaforma internet, incarico che viene ricoperto a rotazione dai partecipanti. Orizzontalità delle relazioni tra i membri e assenza di verticalità nei rapporti con il centro (fino alle elezioni del 2013, perché dopo tutto cambia) sono i tratti originali dell’or­ ganizzazione di base del movimento grillino. L’interazione libera attraverso la rete e, in più, la possibilità di incontrarsi senza obblighi o prescrizioni calati dall’alto, vista la totale assenza di regole e di agende prefissate, sono un motivo di orgoglio per i partecipanti perché marcano la differenza rispetto agli altri partiti. L’assemblea degli aderenti fornisce la faccia calda e diretta dell’interazione consentendo, in un certo senso, di passare dall’anonimato della rete alla «fisi­ cità» degli incontri. Grillo, e Casaleggio dietro le quinte, riconoscono la neces­ sità di una strutturazione di quanto stanno sollevando. Di qui alcune decisioni cruciali che vengono prese in breve sequenza: il meeting di tutte le liste civiche ispirate in qualche modo alle tematiche del blog, e l’approvazione della «Carta di Firenze» dove si stilano i 12 temi cardine (marzo 2009); la presenta­ zione ufficiale del Movimento 5 stelle (M5s), con un denso programma di 122 punti (ottobre 2009); l’omogeneizzazione delle liste locali con il nuovo logo, dove campeggiano le 5 stelle (che fanno riferimento ad acqua, trasporti, ambiente, energia e sviluppo); e, infine, la redazione di uno statuto (minimo) polemicamente definito «non-statuto».

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Con questi passaggi finisce la fase della mobilitazione spontanea catturata - e sospinta - dal sito di Grillo e si defi­ niscono alcuni tratti del nuovo, nascente, partito. Ovviamente, questo termine è aborrito e il fondatore, così come Casaleggio, ripetono all’infinito che il M5s è un’altra cosa e non ha nulla a che spartire con i partiti tradizionali. L’insistenza su questa linea di demarcazione non ha solo una valenza polemica ma riflette anche un’ideologia politico-organizzativa ben precisa. In primo luogo, il M5s si collega idealmente ai movimenti della new politics emersi nei primi anni Ottanta del secolo scorso, come i Griinen tedeschi, che sbandieravano la loro peculiarità organizzativa per sottolineare l’estraneità ai partiti tradizionali. In secondo luogo, suggerisce una modalità d’azione politica basata sull’impegno diretto e personale, senza deleghe, e quindi coerente con l’enfasi della democrazia diretta, alla quale la rete offre un nuovo, potente, strumento. E dato che i cittadini sono i diretti responsabili del loro destino non ci possono essere strutture di intermediazione se non per fornire un servizio minimo di coordinamento. Nel corso della campagna elettorale siciliana del 2012, ini­ ziata in maniera spettacolare quanto poche altre con la traversata a nuoto di Grillo dello Stretto di Messina, il richiamo a un civismo di base è continuo. Grillo prende l’esempio della sua traversata per sollecitare l’impegno dei siciliani e convincerli a smuovere ogni inerzia. Se «un sessantenne con la pancetta» ha attraversato lo stretto più rapidamente del ferry boat solo grazie alla convinzione e all’allenamento, «voi potete svegliare quest’isola», ripete Grillo nei suoi comizi. In questa fase il discorso del leader batte costantemente, quasi con un’eco tocquevilliana, sulla necessità della parte­ cipazione civica. L’approccio antiestablishment e le invettive contro la casta sono mitigati da un richiamo alla responsabilità individuale del singolo. Il «populismo» grillino è contrastato da un riferimento culturale del tutto opposto, di natura so­ stanzialmente liberale. Non per nulla, proprio a suggellare la caratura istituzionale del M5s e sedare crescenti inquietudini, nel comizio finale della campagna elettorale 2013, a Roma, prima di dare la parola ai vari candidati vengono letti gli articoli della Costituzione, oltre ai commenti di Piero Calamandrei. L’ingresso a pieno titolo del M5s nel sistema partitico avviene con il voto alle politiche del 2013. Un risultato preceduto dalla

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sorprendente vittoria alle comunali di Parma in primavera (dove il candidato grillino affonda il concorrente di centro-sinistra guadagnando 40 punti percentuali al secondo turno, passando dal 19,5 al 60,2%), e dallo sfondamento in Sicilia (primo partito in termini di voti con il 14,9%). In precedenza i 5 stelle avevano trovato un terreno fertile o in aree attraversate da movimenti di protesta (i No Tav della Val di Susa) o in zone connotate da alto capitale sociale e concentrazione di professioni del terziario avanzato (l’Emilia-Romagna nei centri lungo la via Emilia, con risultati intorno al 10% nei comuni capoluoghi - Bologna, Ravenna e Rimini - dove si era votato nel 2011). Il M5s entra in parlamento sulle ali di un successo impreve­ dibile: nessun sondaggio aveva minimamente avvicinato l’esito del 25,6% alla Camera, primo partito sul territorio nazionale, superato dal Pd solo grazie all’apporto delle circoscrizioni estere; e nessun partito, presentatosi per la prima volta alle elezioni, aveva mai ottenuto una percentuale paragonabile in Europa. Vengono eletti 161 «novizi» nessuno dei quali (salvo un caso) ha mai esercitato funzioni di rappresentate eletto, nemmeno a livello locale. Tuttavia, chi aveva un certo pe­ digree da attivista ha avuto più probabilità di essere scelto nelle «parlamentarie» indette dal movimento (dove hanno votato in 20.252 su 31.612 aventi diritto): infatti, il 34% dei parlamentari eletti sono organizers dei meetup, e il 36% membri di meetup. L’età media dei deputati è la più bassa mai registrata dal 1946 (33,7 anni), fatto questo che può spiegare, in certa misura, l’irruenza manifestata nel corso di tutta la legislatura tanto da far guadagnare loro il record di sanzioni da parte della presidenza (con la quale da subito si apre una contesa spinosissima). Oltre alla loro giovane età (in merito al genere sono sullo stesso livello del Pd: 38% di donne), il dato più significativo riguarda il titolo di studio, non tanto per il livel­ lo - il numero di laureati è pari alla media generale - quanto per il profilo: il 31,2% ha una laurea in materie scientifiche contro il 10,6% nel Pd e l’ 11,3% nel Pdl. Evidentemente l’imprinting delle originarie battaglie ecologiste ha lasciato traccia vista l’inusuale presenza di biologi, chimici e fisici, così come l’enfasi sulla rete ha portato alla Camera ingegneri e informatici a 5 stelle.

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l.'lll.TIMO ARRIVATO

L’ingresso in parlamento scuote l’impianto carismaticocameratesco del M5s. Un successo di proporzioni così in­ gombranti trova la leadership impreparata nel gestirlo. I 161 parlamentari, molti dei quali arrivati agli scranni della Camera o del Senato con pochissima o nessuna esperienza politica bastava una manciata di click per essere candidati - costitui­ scono una massa indistinta e amorfa, potenzialmente corriva a sbandamenti. I primi passi sono di conseguenza impostati su una rigida disciplina militaresca. Grillo interviene su ogni problema dando la linea e, soprattutto, impone il divieto di rapporti con la stampa e la televisione allo scopo di evitare sia l’esplosione pirotecnica di opinioni sia le lusinghe dell’e­ sposizione mediatica e del potenziale leaderismo. La riluttan­ za a consentire accesso al video ai novizi deriva anche dalla conoscenza di tutte le difficoltà a gestire la comunicazione da parte di un professionista come Grillo. Ma se questa cautela è comprensibile in un’ottica di man­ tenimento dell’unità di intenti di un gruppo composito e poli­ ticamente e mediaticamente imberbe, diversa è la motivazione del pugno di ferro adottato nei confronti di chiunque dissenta o sollevi critiche sulle decisioni dei gruppi parlamentari o sulle prese di posizione del «sacro blog». In questo caso prevale l’impronta leaderistico-carismatica su quella democratico­ partecipativa della fase iniziale. La costituzione di organi di controllo esterni ai gruppi parlamentari stessi (lo staff di comunicazione), ma direttamente controllati dai due leader, e le espulsioni dei dissidenti affidate prò forma al giudizio della base, che in realtà viene chiamata a ratificare la condanna già emessa da Grillo come si evince dalla formulazione delle domande nei referendum interni, imprimono un’impronta verticistica e autoritaria al partito. Tutto ciò riguarda la sua espressione più visibile, quella nelle assemblee rappresentati­ ve, mentre l’attività di base dei meetup continua a godere di massima libertà d’azione, anche perché del tutto ininfluente nelle decisioni e invisibile nei media. Tutta l’attenzione è fo­ calizzata o sul leader o sugli eletti; del livello locale, fino alle elezioni comunali di Torino e Roma (2106), né il partito né i media si interessano. L’unica eccezione a questa capacità di controllo del vertice viene, significativamente, dal voto sull’eliminazione del reato di immigrazione clandestina. Nell’ottobre del 2013 i deputati

M5S. ECOLOGIA, INTERNET, RABBIA

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grillini sostengono una proposta del Pd sulla cancellazione di parte della legge Bossi-Fini. Immediatamente Grillo interviene per bloccare questa scelta affermando che nel programma elettorale non c’era alcuna indicazione sul punto e quindi non si poteva prendere posizione. Argomento capzioso che in realtà si collega a una certa inclinazione di Grillo verso posizioni restrittive, in sintonia con buona parte del suo elettorato. In effetti, mentre su tutti i diritti civili gli elettori grillini sono più aperti degli altri partiti, sull’immigrazione hanno posizioni più chiuse: una «specificità» che contrasta con l’originaria immagine libertaria-postmaterialista del M5s e lo accosta piuttosto all’ambiente populista-xenofobo. A ogni modo, sottoposta a referendum la posizione dei parlamentari, gli aderenti sconfessano il leader: il 14 gennaio 2014 ben il 63,5% vota a favore dell’eliminazione del reato (sebbene con una partecipazione ridotta, in quanto hanno votato in 24.932 su 80.383 aventi diritto al voto, «certificati» al 30 giugno 2013). Questa rivolta della base rimane un caso isolato (si ripeterà solo su una questione meno saliente, nel marzo del 2014, quando, per pochi voti, verranno contraddetti Grillo e Casaleggio sull’opportunità o meno di incontrare Renzi nelle consultazioni per il governo); ma dimostra le potenzialità, in negativo e in positivo, della democrazia diretta. L’episodio è comunque sintomatico di una distonia che attraversa il M5s: aperto su molti temi inerenti i diritti civili (e spesso più di ogni altro partito come sull’eutanasia, dove i favorevoli sono il 90%), diffidente se non chiuso rispetto all’im­ migrazione (e all’Europa). Una distonia che si associa a quella costituiva, ontologica potremmo dire, tra iperdemocraticismo e dominio della leadership. E proprio la curvatura in direzione anti-immigrati, unita all’ostilità all’Europa «dei mercanti e dei burocrati», che porta il M5s a fare, nel parlamento europeo di Strasburgo, gruppo comune con l’Ukip, il partito euroscettico e anti-immigrati di Nigel Farage. Una scelta in netto contrasto con l’imprinting ecologista che dimostra uno slittamento verso posizioni populiste. A conferma del controllo verticistico esercitato da Grillo nei primi passi della vita parlamentare, arriva la reazione all’unico incontro ufficiale tra M5s e Pd dopo l’arrivo di Renzi al gover­ no. Nel luglio del 2014, durante il confronto tra la delegazione parlamentare dei 5 stelle e quella dei democratici per discutere

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L'ULTIMO ARRIVATO

di riforme istituzionali, scoppia un’improvvisa sintonia tanto che Renzi afferma che non li divide un «Rio delle Amazzoni ma solo un ruscello». A questa apertura provvede però Grillo: con una dichiarazione tranchant chiude subito ogni spiraglio, e i suoi parlamentari si accodano. Viene così ribadita, al di là di ogni dubbio, sia la strategia di confrontaticin a tutto campo con il Pd, sia la preminenza assoluta del leader dal quale dipende, insindacabilmente, ogni scelta politica rilevante. E anche vero, però, che Grillo si sente «un po’ stanchino», per usare le sue parole. Per questo, nel novembre del 2014, nomina un direttorio di 5 membri composto da Roberto Fico, Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista, Carlo Sibilia e Carla Ruocco, destinato a gestire in sua vece - o su suo impulso - il partito. Sembra un passaggio decisivo verso l’istituzionalizza­ zione e l’identificazione di una classe dirigente, ma in realtà il percorso sarà diverso e nell’ottobre del 2016 il direttorio verrà sciolto senza rimpianti. Il progetto di autonomizzazione dei 5 stelle dal fondatore si arresta di fronte a due fatti imprevisti: la morte di Gianroberto Casaleggio e la vittoria alle comunali di Torino e Roma. Nella primavera del 2016, a poca di distanza l’uno dall’altro, il M5s si ritrova senza la vera mente politico-strategica e, allo stesso tempo, con ben maggiori responsabilità. La conquista di due città così importanti come Torino (inaspettatamente) e Roma (largamente prevista benché non in quelle dimensioni: 67%) porta il M5s per la prima volta nelle stanze del potere. Anche se aveva già ottenuto qualche poltrona di primo cittadino in primis a Parma - nulla è paragonabile per importanza alle due metropoli. E le difficoltà di gestione, soprattutto a Roma, mettono in evidenza tutta l’impreparazione del M5s. La vittoria nelle due città segnala quale sia diventato il terreno privilegiato del consenso pentastellato: le periferie. Lo schema estabhshment-/orgo«