Le strade della teppa. Etnografia sociale e politica delle culture di strada 8867183583, 9788867183586

Teppisti, ultras, writers, vandali, autonomi, coatti, zanza, lumpen, drogati, cavallini, picchiatori del sabato sera, mi

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Le strade della teppa. Etnografia sociale e politica delle culture di strada
 8867183583, 9788867183586

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|||BARRIO CHINO

Le strade della Teppa a cura di Fabio Bertoni, Andrea Caroselli e Luca Sterchele Prima edizione in «Barrio Chino»: ottobre 2022 Stampato presso Cimer s.n.c. (Roma) Red Star Press Società cooperativa Viale di Tor Marancia, 76 – 00147 Roma www.facebook.com/libriredstar [email protected] | www.redstarpress.it

a cura di Fabio Bertoni ||| Andrea Caroselli ||| Luca Sterchele

Le strade della teppa

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le strade della teppa. pratiche, spazi e soggettivazioni delle culture di strada di Fabio Bertoni, Andrea Caroselli e Luca Sterchele

1. Introduzione Teppisti, ultras, writers, vandali, autonomi, coatti, zanza, lumpen, drogati, cavallini, picchiatori del sabato sera, micro-delinquenti, marginali tout court: pochi autori hanno contribuito alla comprensione delle culture di strada quanto Valerio Marchi, autore che ha affrontato il tema sia attraverso lavori monografici, con approfondimenti su alcune declinazioni specifiche della teppa, sia partendo da una prospettiva eterodossa per giungere a strumenti teorico-analitici che superano la portata specifica del lavoro in cui sono sviluppati. Per quanto la sua figura indipendente ed eretica sia stata velocemente relegata all’oblio dai saperi ufficiali e accademici, Valerio Marchi è un riferimento prezioso per studiose e studiosi che si occupano di culture di strada, di classi popolari, di processi di normalizzazione e di governo dei conflitti sociali e, in primis, giovanili. Questo volume non intende essere celebrativo, né è pensato come un libro su Marchi. Piuttosto, è un testo sui temi, sugli strumenti, sulla postura intellettuale e militante dell’autore, che si pone l’obiettivo di riprendere alcuni fili del suo discorso mettendoli a critica e facendone oggetto di ripensamento, anche a fronte della capacità produttiva di testi che, a distanza di oltre venti anni dalla loro scrittura, continuano a essere fonte di interpretazione e di possibilità di azione e mutamento. Il tempo trascorso dalla loro pubblicazione, tuttavia, pone di fronte alla necessità di una rilettura complessiva che consenta di cogliere le linee di continuità e differenziazione dei processi culturali descritti, le riconfigurazioni del conflitto rispetto a istituti di controllo e normalizzazione, così come le possibilità di frattura nell’ordine sociale dato dalle sottoculture e dalle culture giovanili. È, insomma, un libro di studiosi di scienze sociali che vorrebbe confrontarsi con Valerio Marchi, pur sapendo che questo confronto potrebbe essere 7

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anche animato, vivace, dai toni accesi. In questa introduzione, ci sembra dunque utile segnare alcune di queste linee di pensiero che a partire dall’opera di Marchi attraversano i contributi qui presentati. Partire dal nesso tra culture, dinamiche del potere e conflitto significa muovere da un punto focale nella riflessione di Marchi e, al tempo stesso, dal momento costitutivo della “teppa” come categoria. Nelle storie del teppismo giovanile si evidenzia infatti un continuo intreccio tra culture popolari, istituti sociali di repressione e di controllo e continua produzione di categorie devianti. La costruzione di allarme sociale e l’individuazione di folk devils si è molto spesso rivelata uno strumento fondamentale ai fini del governo delle crisi di consenso, consentendo di volta in volta di ridurre a questione morale ogni manifestazione di protagonismo e conflitto. La teppa, nel suo stesso emergere in quanto tale, diventa infatti funzionale ai processi di civilizzazione e di modernizzazione della società. Non è una novità che la storia del “progresso” nasconda continue ed elevate spese sociali, in un continuo aumento di intensità operazione dopo operazione, le quali si configurano di volta in volta in termini di espulsioni, controllo delle risorse, emarginazione, migrazioni forzate, produzione selettiva della crisi. Tali costi sono giustificati e legittimati attraverso l’esposizione e la spettacolarizzazione delle vite marginali nei loro aspetti più lontani dai valori egemoni nel periodo storico: in particolare, i giovani – o le manifestazioni storiche precedenti all’invenzione della gioventù (Anderson 2018), come mostra Marchi parlando dei puer rinascimentali – vengono sovraesposti a tal fine. La loro presenza nello spazio pubblico, la tendenza di assemblarsi in grandi gruppi, il tempo di vita non ancora del tutto assorbito dal lavoro e le energie non del tutto incanalate dalla produzione, la sperimentazione di esperienze differenti e la voglia di allontanarsi dalla chiusura sociale della famiglia: tutti questi aspetti diventano il bersaglio perfetto per la costruzione dell’alterità sociale, delle situazioni ingestibili che necessitano di essere governate, del soggetto da educare e curare. Ecco allora che le classi popolari diventano i barbari. Su questo punto, risulta evidente la connessione con il progetto coloniale, seppure Marchi non ne faccia esplicitamente riferimento. Da un lato, le retoriche su tali gruppi sono nel tempo equivalenti e parallele a quelle del governo nelle colonie, con l’esposizione del mostro e dell’alieno nel processo di definizione dell’alterità (Giuliani 2019; Palma 2013), con tutto il repertorio di zoo umani, freak show, ipersessualizzazione, esposizione della violenza; dall’altro lato, il progetto coloniale è stato, in modo abbastanza netto, laboratorio politico di governo i cui metodi sono stati ampiamente riportati e riprodotti nelle città europee (Picker 2017). Tale 8

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nesso diventa tanto più evidente, tanto più ci si misura con le migrazioni e tanto più la costruzione della teppa percorre assi di razzializzazione. La forza e la pervasività di tali processi di civilizzazione si può osservare compiutamente nel progetto di sanificazione della città: tale meccanismo (funzionale alla urbanizzazione prima, alla riqualificazione poi), mosso attraverso un protagonismo del sapere medico nella trasformazione spaziale, non si è concluso con la scomparsa delle grandi epidemie e la realizzazione delle bonifiche, ma si è esteso attraverso una trasposizione dal piano fisico a quello morale. In tal senso, le cronache aristocratiche dell’edificazione di Casoria a seguito della peste del 1656 si confondono con le parole del «Corriere della Sera» che commenta lo sgombero del campeggio hippie di Barbonia City (nel giugno 1967) affermando che «finisce così il più pericoloso focolaio d’infezione morale e biologico della città», in un’operazione di Polizia chiamata “operazione sterminio” che ha visto impiegati 500 litri di disinfettante. E a ben vedere, le politiche del decoro e del degrado che oggi dettano l’agenda delle politiche urbane differiscono da questi precedenti forse per una questione “stilistica”, in una normalizzazione dei toni attraverso la loro applicazione nel quotidiano, ma non nella sostanza delle questioni. La ricorsività della metafora sanitaria esemplifica bene il processo di individuazione della teppa in soggetti e comportamenti: attraverso il parallelismo con la malattia, la componente malata è pericolosa non soltanto in sé, ma anche nella sua potenziale infezione, nel contagio, nell’estensione. A farsi possibili interpreti della devianza giovanile non sono dunque soltanto “le belve del ghetto”, quei sottoproletari per antonomasia pericolosi e violenti, ma anche tutti gli altri giovani, compresi quelli di condizioni sociali più privilegiate, che possono rimanere esposti e farsi influenzare da tali modi di fare barbarici (Marchi 2004). Sorge così la sindrome di Andy Capp, una patologia sociale che non riguarda i ragazzi, soggettivati nello sguardo pubblico come incivili, violenti, provocatori, indolenti, ma che colpisce la cultura egemone stessa, che al contempo crea i “mostri” delle culture popolari e delle periferie e l’ansia di esserne circondata e minacciata. Tale ansia viene replicata e rigenerata incessantemente, così come sono continui i movimenti di urbanizzazione e di securizzazione. Al tempo stesso, e forse questo è l’elemento più importante di Teppa (Marchi 2014 [1998]), la continuità di tali processi è invisibilizzata e nascosta dietro a una presunta eccezionalità e unicità di ogni forma concreta di cultura di strada, in cui l’originalità di pratiche, produzioni e consumi viene posta sempre come una preoccupante novità che muove allarme sociale. 9

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I ragazzi non sono mai stati così violenti, le canzoni mai così sfrontate, i comportamenti mai così sconsiderati, i vestiti mai così provocatori: «ogni manifestazione teppistica è tanto più agghiacciante tanto più appare nuova» (ivi: 18). All’emergenza vengono associati una serie di retoriche e di meccanismi funzionali sia all’individuazione delle culture di strada come folk devils che della comunità civile come entità da proteggere e difendere: da un lato, una rappresentazione delle memorie e del passato come un’età dell’oro, di tranquillità e ricchezza, che è sparita per l’incursione nella scena pubblica del nuovo allarmante fenomeno; dall’altro, la caratteristica contrapposizione delle sottoculture alle tradizioni e ai tratti culturali nazionali: che siano le “chiare caratteristiche non inglesi” dei Victorian Boys, fino ai servizi televisivi sulle “nuove mode esotiche che dilagano tra i giovani italiani” in fatto di sport di strada, di musica o di consumi di sostanze. Tale panico è, al tempo stesso, anche accolto nelle stesse formazioni sotto e contro-culturali, in un’ambiguità che attraversa tutto il discorso sulla Teppa, in un gioco tra sovversione e subalternità a quella cultura egemone che li definisce nell’atto di nominarli e contestualmente emarginarli. Scontri di piazza e sugli spalti, consumo di sostanze, occupazioni temporanee, scritte sui muri, “gabole”, truffe e piccoli commerci che caratterizzano le mille sfumature di chi cerca un reddito attraverso vie sommerse, gesti vandalici e atti spregiudicati che compongono le variegate possibilità di teppismo: è evidente nelle culture di strada quante connessioni esistano tra pratiche espressive e comunicative e la sperimentazione di uno spazio di azione nell’illecito e nell’illegale. Non è di certo una sorpresa, per chi realizza tali pratiche, scoprirne quale ne sia il costo, e non solo a livello personale. Pur riuscendo spesso a sfuggire individualmente alla sorveglianza e al controllo, nel momento stesso in cui sono svolte le pratiche mettono in conto repressione, produzione di ulteriori norme, restringimento degli spazi per sé e per gli altri in futuro, esponendosi alla “vendetta” dello Stato (Del Corno e Philopat 2018). Alternando di volta in volta la volontà di agire la sovversione, lo scarso rispetto per le istituzioni statali, la mancanza di altre prospettive nel soddisfare desideri e bisogni, quello dell’illegalità appare essere un aspetto difficilmente separabile dalle culture di strada. L’agire illegale diventa un modus operandi per interrogare le opportunità, le strutture sociali, il quartiere, la propria vita nelle costrizioni imposte e nelle forme di controllo e di disciplinamento che vengono agite nei loro confronti, cercando soluzioni (in primis individuali, in alcuni casi comunitarie o collettive) al di fuori di essa. Allo stesso modo, specie nelle sue dimensioni più impolitiche, ossia incapaci di creare un’autonomia 10

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simbolica e di autodeterminazione di altre forme del vivere, tali pratiche rischiano continuamente di essere imbrigliate nelle dinamiche di potere, sperimentando quanto siano anguste le strettoie dell’agire legale che pongono continuamente i soggetti al di fuori del campo di azione previsto dal diritto. Il bilanciamento tra sovversione e funzionalità delle pratiche teppistiche è da sempre dato dai rapporti di forza esistenti, che raramente si sono dati a favore delle culture di strada. Presentare una visione storica delle culture di strada diventa così uno strumento attivo per disinnescare il panico morale, per evidenziare le connessioni e per contribuire alla comprensione, da parte delle culture di strada stesse, dei meccanismi di normalizzazione che subiscono come li hanno subiti altre teppe a loro precedenti. L’attenzione nei confronti delle culture di strada non può però esaurirsi nella dinamica di produzione della teppa da parte degli istituti di controllo e governo. Per quanto in modo sempre più ossessivo e pervasivo si impegni nella normalizzazione, nell’identificazione, nella sanzione, nel controllo preventivo, lo Stato non è mai in grado di “risolvere” definitivamente la questione sociale della devianza giovanile e di come, attraversando mode e modi, linguaggi e pratiche, determinati comportamenti continuino a verificarsi, al di là di ogni controllo e di ogni politica educativa. L’irriducibilità delle resistenze create nelle culture di strada, e il modo in cui esse vanno a inserirsi nelle dinamiche di potere, evidenziano un piano politico nella continua manifestazione di un conflitto sociale e culturale, sia che venga esplicitato nelle forme delle controculture, con una postura immediatamente politica di contrapposizione al potere e costruzione radicale di alternativa; sia nelle forme di sottocultura, dove il conflitto non viene espresso in termini sistemici ma rimane radicato all’interno della definizione di stili di vita e di pratiche. Al di là della (spesso utile) distinzione terminologica e dei suoi differenti sviluppi (per i quali, si rimanda a Gelder e Thornton 1997), gli aspetti di lotta politica e di conflitto culturale non vanno inquadrati in chiave normativa, poiché nelle differenti realizzazioni, localizzazioni e differenziazioni interne alle culture vengono a realizzarsi concretamente elementi di entrambe. In questo senso, la stessa enfasi che in questo volume viene data all’idea di culture di strada è volutamente trasversale, non solo per “tenere insieme” culture e produzioni fortemente differenti, ma anche per mostrare le connessioni che sussistono tra di esse. Attraverso le culture della strada, viene dunque a evidenziarsi il piano in cui il conflitto politico investe le esistenze, nelle condizioni e nelle scelte di vita, 11

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trovando il modo di manifestarsi attraverso espressioni culturali che mettono al centro lo svago, il tempo libero, le attività aggreganti e non produttive: lo stile estetico e le tecniche corporee che lo completano (e che potremmo riassumere nell’“attitudine”) sono un elemento centrale delle culture di strada, aspetto aggregante e identificativo, che si tratti delle ciprie dei Merveilleux post-rivoluzionari, dei capelli lunghi degli Swingboys nella Germania nazista, dei bomber al contrario nelle curve degli stadi negli anni Ottanta, delle creste punk o delle treccine colorate e il completo Gucciato dei trap boi. Le culture si organizzano così intorno a quegli elementi che creano disgusto, repulsione, panico nella cultura egemone (ora perché straccione, ora perché ostentatrici) e che sono maggiormente bersaglio delle retoriche del contagio e di atti di controllo e repressione. Del resto, come evidenziato da Bollon (1990), visto che l’apparenza rende visibile l’appartenenza, è proprio l’apparenza che diventa il bersaglio e riassume i conflitti nel linguaggio popolare. Proprio attraverso questi punti teorici (la contrapposizione alla cultura egemonica, il conflitto simbolico, la dimensione di classe) il lavoro di Marchi si pone in dialogo con un approccio che restituisce la sua centralità alla cultura e ai modi in cui si articola con la condizione materiale: immediati ed espliciti sono infatti i richiami al cccs di Birmingham e, ancora più, alla scuola di Leicester (Murphy e Williams per tutta la produzione sugli hoolingans, e soprattutto Dunning, anche grazie a Quest for Excitament, 1986, testo a quattro mani con Norbert Elias in cui viene ben evidenziato il rapporto tra aggressività e civilizzazione nello sport). Il dialogo che Marchi instaura con questi autori, avente a che fare sia con una dimensione teorica sia con le prassi di ricerca, inserisce l’autore romano in una prospettiva ampia e ricchissima, nonostante un seguito complessivamente sottodimensionato in Italia. È in questo senso che si nota in maniera particolarmente accentuata la necessità di situare il dialogo di Marchi in rapporto con le critiche e i superamenti di questi approcci, evidenziando il portato e gli spunti che i suoi studi offrono alle ricercatrici e ai ricercatori presenti.

2. Oltre Marchi. Rileggere la Teppa oggi Non possiamo in questa sede soffermarci su tutto il dibattito sui post-cultural studies (per il quale si può rimandare a Polhemus, 1994; Maffesoli, 1996; Muggleton e Weinzerl, 2004; Wheaton, 2004) e le sue infinite sfumature che sviluppano e continuano la critica posta dallo stesso Chambers (1987), mi12

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rando a trovare strumenti teorici e rielaborazioni che siano maggiormente ricettivi delle forme di ibridazione delle culture di strada nella loro fluidità, così come nelle parzialità e ambiguità di un movimento non esclusivamente oppositivo rispetto alla cultura mainstream. Decisamente più centrale ci appare invece la ripresa delle prospettive femministe sui cultural studies, le quali, in una prima rilettura, evidenziano come questi si concentrino eccessivamente sulle espressioni maschili delle controculture, nascondendo la conflittualità delle ragazze. Ciò accade su più livelli: in primo luogo, non riconoscendo il protagonismo femminile in moltissime culture di strada e la loro importanza sia in termini quantitativi di presenza, sia in termini qualitativi nelle definizioni di stili, nelle produzioni culturali, nella partecipazione ai momenti di vita quotidiana così come di protesta; in seconda battuta, limitando a determinati luoghi e determinati tipi di manifestazione le sottoculture, tralasciando così dallo studio intere scene, gruppi ed espressioni, interamente o a prevalenza femminili, che hanno individuato altre forme di produzione e creatività. I folk devils rappresentati dalla stampa e dalle agenzie istituzionali rispondono quasi esclusivamente al maschio bianco delle classi popolari, nella cui decostruzione non viene reincluso il protagonismo delle ragazze e le loro declinazioni di culture, quando questo potrebbe invece rappresentare una possibilità ulteriore nel mostrare gli esercizi di semplificazione operati nella loro rappresentazione. Il modo in cui tali esperienze si inseriscono nel rapporto tra poteri e resistenze sono infatti molto interessanti. Tra i vari aspetti, in particolare, queste operano forme di conflitto sulle dinamiche di genere, contrapponendosi alle culture egemoni che prescrivono e normano la mascolinità e la femminilità: prendendo esempi classici, skingirls, modette, flygirls, punk, sviluppano tutte, in modi e con strumenti anche molto differenti, uno stile che unisce elementi ritenuti mascolini e altri iper-femminili, creando un contrasto parodistico alla norma sessuata, sia attraverso l’eccesso, sia attraverso la sottrazione (LeBlanc 2002; Bell et al. 1994). Tale operazione di ricostruzione del genere non solo opera una resistenza e un’opposizione rispetto alla normatività egemone, ma lo fa anche nei confronti del rapporto di potere rispetto al genere all’interno delle stesse controculture e subculture (Reddington 2004; McRobbie 2000). Inoltre, la mancanza di attenzione date alle cosiddette bedroom cultures (McRobbie e Garber, 1976), con la loro produzione di stili e significati sviluppati per lo più in luoghi domestici e familiari, attraverso forme di comunicazione meno evidenti del ritrovo in piazza (si pensi a fanzine e corrispon13

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denze private prima, seguite poi dai fax e dai primi usi di internet attraverso le chat e i forum, fino ad arrivare ai fandom) ma, non per questo, meno capaci di contrapporsi a isolamenti ed esclusioni. Tali culture estendono il repertorio di pratiche e di produzioni possibili anche attraverso posture differenti rispetto alla cultura egemone, non più impostate sulla contrapposizione come dichiarata alterità, ma piuttosto attraverso usi tattici e sovversioni (Roman e Christian-Smith 1988). Inoltre, il merito di tali culture è quello di evidenziare come le forme stesse di espressione, manifestazione e concretizzazione delle culture di strada siano attraversate da norme di genere, a partire proprio dalla possibilità o meno di usare la strada e la piazza come luogo di ritrovo. Complessivamente, tale critica permette di evidenziare un aspetto importante delle culture, e di quelle di strada nel loro particolare: con le parole di Evans, «nessuna identità culturale è ontologicamente distinta e fondata, ma sono sempre definite nel farsi, costruirsi e riprodursi quotidianamente attraverso comportamenti, vestiti, tecniche del corpo, e altre pratiche culturali» (Evans 1997: 181). Una prospettiva anti-essenzialista è fondamentale anche per comprendere i saggi che animano questo libro: in primis, la reificazione delle culture (giovanili, “etniche”, di classe, di lifestyle che siano) si configura spesso come atto di cesura, agito sulle culture come strumento di normalizzazione; secondo, e forse più importante, la critica femminista evidenzia come e quanto attraverso il farsi delle culture si costruiscano e si definiscano congiuntamente il genere, la razza, la generazione, la classe nei loro contenuti simbolici, espressivi, identitari. Proprio a partire da tali osservazioni è possibile soffermarci su un altro aspetto, proprio soprattutto dei “primi” cultural studies, meritevole di uno sguardo più attento e critico. Come osservato da Gilroy (2003 [1993]) è necessario porre in continua discussione il rischio, alle volte percorso, di un “nazionalismo metodologico” (Sayad 2002 [1999]) che ripropone una storia della modernità, dei suoi conflitti culturali e delle sue divisioni, racchiusa negli angusti confini dei propri centri statuali e imperiali. Pur evitando ogni forma di riduzionismo economicista, le riflessioni sulle pratiche di ribellione e di contro-soggettivazione sono state infatti raramente connesse ai movimenti e alle ibridazioni che strutturano quella che, sin dagli albori, si configura come una storia (e delle storie) globali, così coltivando una sorta di compiacenza con un’immagine della englishness che ne ha forse favorito anche la diffusione commerciale. D’altronde, se è stato proprio «l’ingresso dei neri nella vita sociale che ha stimolato in modo determinante le circostanze particolari che resero possibile la formazio14

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ne dei cultural studies» (Gilroy 2003 [1993], 59), è difficile sottostimare l’importanza di una ricostruzione della classe come soggetto in continua formazione e tensione, minando alla radice la possibilità di poter definire e nominare un “esterno” e un “interno”. Una prospettiva di questo genere permette non solo di proseguire quel lavoro di ricostruzione storica finalizzato a rompere con ogni visione apologetica della modernità, ma anche di riconoscere degli spazi di sovversione attraversati da soggettività tanto complesse quanto i «marinai, rinnegati e reietti» del Melville di C. L. James (2003 [1953]). Se è forse banale sottolineare come siano proprio le analisi di Stuart Hall a impegnarsi a sciogliere sempre di più lo sguardo culturale da ogni forma di condiscendenza con alcune, difficili a morire, «mitologie bianche» (Young 2007 [1990]), ci sembra quantomai importante ricordarle in un momento in cui la tentazione di rifugiarsi nella sicurezza di “imperturbabili categorie” sembra a portata di mano. Infine, sarebbe ingeneroso ed errato tenere la lettura della teppa all’interno di un dibattito che è prevalentemente accademico. La prima referenza del lavoro di Marchi proviene da una storia collettiva, ampia, conflittuale, moltitudinaria: «il più italiano dei folk devils, [...] l’autonomo dei teoremi giudiziari, aggressivo e politicizzato, determinato a prendersi quanto viene negato» (Marchi 1994: 57). Immediato si pone il confronto con un altro libraio, fine studioso delle sottoculture e dei movimenti sociali, il cui lavoro si è mosso in ampia parte fuori dalle discipline e dalle istituzioni universitarie: Primo Moroni. Entrambe le figure, studiosi e intellettuali eretici, hanno costruito uno sguardo a partire da ambienti politici e sociali per interrogare la strada. Le loro librerie (quella di Moroni, in Calusca a Milano, quella di Marchi in via dei Volsci a Roma, due strade che segnano le mappe del conflitto politico e dell’antagonismo sociale) sono diventate osservatori delle culture di strada e laboratori di costruzione di senso ed elaborazione. L’“università della strada” segna il modo per avere uno sguardo interno, che parte dall’urgenza di comprendere e l’importanza della produttività delle culture di strada di generare saperi, pratiche, linguaggi indipendenti, innovativi e conflittuali. Al tempo stesso, lo sguardo interno alle culture, alle dinamiche di vita, ai conflitti non implica uno schiacciamento su posizioni acritiche rispetto ai loro sviluppi. La prospettiva che si dà nella saldatura tra il politico e il sociale richiede di interrogare le culture, riconoscendo però come queste possano essere comprese solo dentro un rapporto viscerale con i soggetti e con i contesti vissuti. Non si tratta infatti di romanticizzarne le manifestazioni, atteggiamento che non è che il rovescio 15

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speculare del disprezzo morale e moralistico dei media, ma, per l’appunto, di comprenderne politicamente cause e ragioni, situandosi dentro quegli spazi ibridi e contesi dove, tra mille complessità, «si snoda e riannoda il conflitto quotidiano» (Wu Ming 5), il più lontano possibile da un’astratta «ragione sociologica». Muovendosi al di fuori dalla necessità sintetica, quasi poliziesca, della riduzione a classificazione e definizione, nelle fanzine, nelle assemblee, nei dischi registrati e nelle scritte sui muri viene generato un sapere alternativo al formalismo accademico, meno “nobile” per criteri classici (e non potrebbe essere altrimenti, considerato che tali criteri non sono assolutamente neutri o oggettivi), ma non per questo meno importanti: da questi lavori e da queste riflessioni sorge infatti un’energia che nei lavori di Marchi (e dello stesso Moroni) trovano eco, in una germinazione di saperi e nella continua invenzione di milieu radicalmente alternativi all’esistente. Da questa postura, critica e militante, vengono a delinearsi gli strumenti con cui guardare ai conflitti giovanili, delineando le possibilità di evitare due diffuse semplificazioni, tanto comode quanto disoneste. La prima di queste è data dal porre eccessiva attenzione alla novità, alla cronaca, alle mode: attraverso una retorica della tendenza, dell’emergenza e dell’inedito, le culture di strada vengono destoricizzate e inserite in un dispositivo agito rispetto ai giovani. La novità è un meccanismo per innescare il panico morale e, conseguentemente, assumerlo come punto di partenza del proprio lavoro senza metterlo a critica, riproducendo tali politiche e consolidandole, dando loro ulteriore autorevolezza. Al tempo stesso, è necessario evitare di considerare esclusivamente quelle espressioni culturali provenienti dalla strada che i cultural studies (nelle loro derivazioni e avanzamenti) hanno già approfondito e studiato. Senza dubbio alcune di tali forme continuano a essere attuali, produttive di conflitti e di opposizioni, attrattive per ragazze e ragazzi, così come è sicuramente interessante indagarne ricomposizioni, trasformazioni, nonché le continue risposte in termini di normalizzazione e di controllo che rispetto a esse vengono attuate, e che portano a reazioni e risposte. Nonostante questo, considerare le espressioni contro- e sottoculturali come una lista finita sarebbe da un lato una limitazione della portata analitica del concetto e un misconoscimento della vitalità delle culture di strada. Tale modo di procedere costruirebbe piuttosto una “nobiltà” delle controculture, erigendone alcune a termine di paragone delle altre, impedendo di leggere a pieno i conflitti che queste pongono al presente, condannandole al confronto con le culture di strada “storiche”. A tal proposito, è importante sottolineare come tali sguardi celebrativi, sempre 16

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rivolti al passato o a contesti “distanti”, si siano spessi configurati come degli strumenti di depoliticizzazione del presente. Dietro una maschera di radicalità, non è raro che questi discorsi nascondano una scarsa capacità di leggere le nuove forme del conflitto che proprio le sottoculture, attraverso i propri corpi e la propria (questa sì) radicale presenza, hanno sempre contestato. Le controculture e le sottoculture più incisive si sono del resto date come fratture non solo e non tanto rispetto alla cultura mainstream, ma soprattutto rispetto alle culture del proprio stesso contesto. Allo stesso modo, farne dei feticci rende difficile anche considerare le loro stesse trasformazioni, togliendo sensibilità ai cambiamenti e invisibilizzando processi di normalizzazione che operano attraverso disciplinamento, commercializzazione, sussunzione, pacificazione. Di fronte a questa apertura in divenire, diventa necessario chiedersi quali siano gli elementi che permettono di riconoscere le culture in una temporalità che non sia ex-post, a espressione e codificazione avvenuta, ma nel loro vivo, prima (e al di là) del loro nominarsi come cultura e come identità. L’eterogeneità dei contributi di questa collettanea cerca allora di esplorare strade e sensibilità che, a partire da ricerche diverse, provano a individuare lo sviluppo attuale di alcune linee di quel conflitto, tra forme di soggettivazione e processi di normalizzazione, ricostruendo geografie e forme molteplici della Teppa.

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la “teppa” oltre la classe. ordine ed evasione nell’età dell’incertezza strutturale di Pietro Saitta

1. Definizioni Se nei termini di Marchi (1998) la «teppa» è grosso modo il nucleo problematico della riproduzione sociale, ovvero il terrore di una discendenza inadeguata, irresponsabile e pericolosa, essa è anche una costante del discorso culturale e politico. Si potrebbe così essere esposti alla tentazione – peraltro fondata – di discutere di questo oggetto come di un mero sinonimo di “gioventù”. Un termine, quest’ultimo, anch’esso evocativo e plurale dal punto di vista semantico; oltre che ugualmente capace di richiamare tanto rappresentazioni romantiche relative a una fase biografica comunemente avvertita come carica di possibilità, sentimenti e vigore, quanto una serie di problemi e di demoni popolari. Demoni che accompagnano pressoché ogni passaggio di generazione, producendo retoriche e politiche: politiche penali e del controllo sociale così come giovanili, tese alla formazione, alla cura psicologica, all’attivazione e all’integrazione sociale e lavorativa di una categoria volatile, i cui limiti anagrafici si estendono peraltro periodicamente (molte survey odierne, per esempio, considerano giovani gli individui adulti sino a quarant’anni e oltre; mentre gran parte delle ricerche classiche, come per esempio quelle dello Iard, fissavano di norma a ventinove anni il limite anagrafico per l’applicazione di questa categoria. A riguardo si vedano: Cavalli 1994; Spanò 2019). E se effettivamente il problema della teppa per buona parte coincide storicamente con quello della gioventù, bisognerà però stare attenti a evitare le sovrapposizioni di senso e distinguere dunque i differenti portati che le due espressioni – «gioventù» e «teppa» – recano con sé. Il problema della teppa, intesa essenzialmente come manifestazione di una ricorrente questione giovanile carica di ripercussioni sociali, oppure come espressione di una tensione relativa alla convivenza tra generazioni, non 19

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pertiene infatti solo agli ambiti del mutamento sociale e dell’ordine declinati in chiave culturale, medica o poliziesca (per esempio, quelli concernenti la proiezione sul futuro, la depressione, l’uso di droghe, la vita notturna o la sessualità disordinata), ma a quelli della classe. La teppa, infatti, è generalmente la gioventù appartenente agli strati inferiori, improduttivi e solo difficilmente recuperabili della società. Oppure è quella parte di gioventù che ha rinnegato la classe, ovvero i valori, l’habitus e le aspettative generali di condotta che pertengono al gruppo sociale di origine. Un gruppo originario che può collocarsi tanto in alto quanto in basso alla stratificazione sociale, ma che, quando è inteso in senso positivo, appare comunque caratterizzato dai valori dell’integrazione, come per esempio una forte etica lavorista. Pressoché in ogni epoca la teppa è dunque la gioventù problematica e anomica che ha – per lo meno temporaneamente – scelto di rinnegare i valori conformi all’ordine ereditati dalla famiglia o dalla classe di appartenenza. Oppure, per paradosso, quella eccessivamente integrata nella propria classe “infima”, che ha scelto di riprodurre i valori devianti della famiglia e del gruppo sociale di origine. E che, così facendo, produce disordine se non autentica criminalità. Una prima e superficiale definizione dell’oggetto nelle sue valenze contemporanee dovrebbe pertanto osservare che la teppa è, oggi come ieri, quella parte della gioventù che rende la città insicura, che è refrattaria ai doveri sociali individuati nel corso delle varie epoche e che appare integrata nei fini del consumo, ma non nei mezzi per conseguirli. Una seconda definizione dovrebbe invece evidenziare come la teppa sia quella sezione di gioventù che, con la propria presenza e condotta, caratterizza i luoghi e attiva meccanismi reciproci di distinzione e reazione. Occorre precisare che il termine caratterizzazione va qui inteso come sinonimo di visibilità “passiva” e “attiva” (ossia come detenzione di tratti che sfuggono alla volontà e, di contro, come ricerca attiva di tale visibilità) da parte di individui dai tratti peculiari, talvolta stridenti con l’ambiente circostante. Tale nozione di stridore, inoltre, richiama e si riconnette attivamente alla nozione di distinzione, intesa come tentativo da parte di un individuo o di un’entità collettiva composta da soggetti tra loro affini, di evidenziare quei tratti peculiari che rendono chiari – almeno per gli spettatori interni alla grammatica sociale dei segni – i gusti, le posizioni e i ranghi sociali di appartenenza (per esempio, attraverso abbigliamento, tagli di capelli, tatuaggi, musica, gestualità). Se a tale principio di visibilità si aggiunge una variabile geografica, come per esempio quelle di centro e periferia, si intuisce come la teppa appartenga quasi per definizione alla seconda e come la sua presenza in aree spaziali e 20

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sociali socialmente riconosciute come periferiche non provochi alcuna sorpresa o reazione. Sarà viceversa lo spostamento verso il centro a stridere con le aspettative e a provocare un doppio movimento reattivo e difensivo: da un lato il movimento di chiusura dell’abitante “naturale” oppure “camuffato”1 del centro (lo stesso, peraltro, dotato sovente di un potere di nominazione e produzione di stigma) verso la teppa e, dall’altro, la manovra contrapposta, rumorosa e orgogliosa di quest’ultima verso chi le si oppone, sia anche soltanto con lo sguardo oppure con manovre volte all’evitamento o alla dissimulazione. È inoltre superfluo osservare che si tratta di quel genere di doppi movimenti che, per i promotori di quelle campagne sicuritarie ormai connaturate alla vita cittadina, si traducono nella contesa relativa a spazi urbani avvertiti come insicuri, degradati e ostaggio delle inciviltà.

2. Convergenze La dialettica tra la teppa e il suo contrario (il fighetto, l’integrato, i membri dei comitati civici contro il degrado, il poliziotto) ha dunque lo spazio come oggetto primario. La teppa è, in primo luogo, un’orda composta da soggetti che appartengono a uno spazio fisico e morale generalmente ritenuto ai margini della civiltà urbana (per quanto esistano dentro quell’insieme anche individui che non appartengono a tale margine fisico; ma che finiscono ciò nondimeno con l’esservi idealmente associati, salvo la permanenza di alcuni importanti privilegi di classe che possono talvolta proteggerli dalle conseguenze estreme dei comportamenti adottati). Quest’orda, tuttavia, diventa un problema solo quando esce dalla propria sede “naturale” per invadere lo spazio urbano “civile”, ponendo questioni che sono insieme estetiche, economiche, di condotta e di polizia. Con Lombroso più che con Bourdieu, con il Pasolini di film e sceneggiature come La nebbiosa o La notte brava, ma anche con le lenti di classe incorporate che consentono a ogni individuo di leggere le situazioni e orientare le relazioni sociali, potremmo forse dire che se la teppa è sgradevole allo sguardo integrato o medio-borghese, questo accade perché spesso essa è già fisicamente distinta e distinguibile. Che sia grasso e sgraziato, dinoccolato e nervoso oppure semplicemente anonimo e medio, il corpo dei membri di una 1 Chiamiamo così l’individuo che non appartiene al centro urbano e sociale per provenienza o estrazione, ma che simula, riuscendovi in parte o del tutto, l’adesione a un tipo sociale e a delle maniere. Non a caso, si tratta di quelle maniere che chiamiamo urbane e che si traducono in pratiche, le quali, pur se esposte a mutamento, si caratterizzano per essere distinte da altre, proprie di altri spazi e classi.

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teppa appare spesso immediatamente riconoscibile allo sguardo dell’abitante privilegiato del centro. Sono i segni di una cura eccessiva dei particolari a denunciarlo (per esempio, le sopracciglia). Oppure una certa prossemica degli individui, tesa a occupare lo spazio. È certamente la voce e l’inflessione a risultare suggestiva. Ma anche l’adesione a uno stile che, anche quando pretende di essere alla moda, è spesso carico come un manichino dei grandi magazzini o la foto di un catalogo di abbigliamento. E che dire, si potrebbe aggiungere, della musica che agita gli appartenenti a una teppa o che fuoriesce dallo stereo delle loro automobili? Per non parlare del gusto per la violenza, spesso anche al di là delle aspettative di genere. Una violenza, insomma, che appartiene al maschile così come al femminile e che fa vacillare le aspettative implicite sui differenti ruoli legati ai sessi (un elemento progressista dei sistemi di relazione non-borghesi, si potrebbe timidamente sostenere). Del resto, come lo stesso Marchi in fondo suggerisce, il corpo della teppa costituisce da sempre un problema perché è un corpo che fa, oppure simboleggia, cose sgradite a un ordine che andava gradualmente espandendosi in Europa. Restando tuttavia sul piano della cultura nazionale e affrontando velocemente le rappresentazioni più radicate alla base delle aspettative sociali, si può osservare che dal corpo agile dello scugnizzo napoletano a quello possente e predatorio dei ritratti lombrosiani e anche di molti di quelli contemporanei,2 transitando per le rappresentazioni impietose di Ciprì e Maresco in Cinico Tv, è agevole attendersi che il corpo della teppa derubi con destrezza e persino acrobaticamente, aggredisca spietatamente gli innocenti, oppure simboleggi la mancanza di cura del sé e la consegna alle forze della natura anziché a quelle volontaristiche e opposte all’imbarbarimento proprie della civiltà urbana e dell’umano (anche oggi, infatti, per molto del discorso comune la teppa appartiene più facilmente all’ordine del bestiale). Al di là, perciò, della cronaca e dell’attenzione per il presente, questi sono dunque temi culturali e politici di lunghissima durata, correlati alla storia delle classi sociali così come alle loro funzioni politiche nel corso di determinate fasi della vita nazionale, oltre che ai processi di integrazione mancata e alla produzione di linee simboliche di demarcazione utili alla produzione di gerarchie sociali. Dai romanzi di Hugo e dei naturalisti al Marx del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, passando per le sezioni del pci e quelle dei col2  Il caso dell’omicidio di Willy Monteiro, consumatosi nel settembre 2020 a Colleferro, è un esempio di ritualizzazione di temi lombrosiani. Gli assassini sono dei popolani che girano in gruppo, praticanti di sport da combattimento, propensi alla violenza gratuita e all’intimidazione e, soprattutto, muscolosi e tatuati. Non è un caso che la stampa, ma anche il discorso generato da moltissimi utenti nei commenti sui social network, si siano concentrati su questi corpi scolpiti e paurosi. Il medesimo interesse di Lombroso, per l’appunto.

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lettivi extra-parlamentari, senza dimenticare i progetti di inclusione sociale di comuni, Chiesa e terzo settore, ma anche le frequenti campagne di criminalizzazione dei quartieri a rischio intentate dai media scandalistici nazionali e locali, oltre che gli usi clientelari di queste stesse aree per mano di forze politiche tese a promuovere variegate forme di scambio, la teppa è da secoli al centro di differenti progetti, passioni e poetiche sociali: progetti di salvezza, di inclusione nel processo di sviluppo capitalistico o in quello rivoluzionario. Oppure poetiche dell’autenticità da contrapporre agli artifici borghesi e corruttivi della modernizzazione; ma anche di una rincorsa a forme di esotizzazione, di segno positivo o negativo, volte a esaltare tratti drammatici oppure buffi dell’esperienza marginale, così come a estetizzare una condizione e delle forme mentali. Come osservato poco sopra, teppa, sottoproletariato e giovani “devianti” in genere, appartenenti alle classi inferiori oppure “pervertiti” e “regrediti” nel corso della crescita al punto da non serbare quasi più tracce della propria origine sociale, costituiscono un antico interesse e, dunque, una componente delle forme mentali ordinatrici del mondo. Il linguaggio quotidiano, del resto, ha ovunque forme per definire la teppa che invade lo spazio pubblico civile: coatto, tamarro, zarro, zaurdo, zallo e una infinità di altri epiteti dalla diffusione circoscritta sono espressioni impiegate largamente e frequentemente, utili a sancire la divisione sociale tra desiderabile e indesiderabile (e persino l’eccesso; ciò, in altri termini, di cui si farebbe volentieri a meno in nome dell’ordine e della pace sociale). Tuttavia, l’enfasi sulla divisione sociale – propria di forme di “dualizzazione” politica molto antiche e radicate, che richiamano sostanzialmente la contrapposizione tra borghesia e proletariato (e sottoproletariato come sorta di “resto”, ossia rimanenza ed eccesso di cui sbarazzarsi) – rischia di essere consolatoria e parziale. Come notava Walter Siti ne Il contagio, un interessante romanzo di ambientazione romana, ricco di preziose intuizioni sociologiche, la contrapposizione tra periferia e centro, tra umanità dei margini e umanità integrata, appare nell’Italia contemporanea assolutamente sfumata e convergente. La periferia si rispecchierebbe nel centro dal punto di vista dei fini individuali e dei valori sociali, e il centro pescherebbe dalla periferia elementi utili a trarre piacere e soddisfare bisogni (dal sesso, alla droga al reperimento di forza lavoro irregolare). L’uno, insomma, converge nell’altra sino ad annientarsi da un punto di vista culturale e sentimentale. Questa convergenza, pertanto, rende le categorie di centro e periferia, borghese e coatto dei semplici tipi ideali, insensibili alle trasformazioni e alle contaminazioni. Ed è questo, per esempio, il tema che anche Dal Lago e Quadrelli sviluppano in un testo ormai classico come La città e le ombre (2003). In tal modo, se le 23

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spiegazioni duali sul funzionamento dell’urbano risultano inadeguate già dal semplice punto di vista economico, esse lo sono a maggior ragione dal punto di visto culturale, sociologico o antropologico. Per lo meno da una prospettiva generale o media. In un certo senso, ciò di cui si discute qui è la realizzazione di profezie di segno elitario, se non reazionario, come quella di Ortega y Gasset ([1929] 2001), sull’avvento dell’«uomo volgare» che «rimane ammirato di sé stesso» e che «impone il diritto alla volgarità, o la volgarità come un diritto». Del resto, che la distinzione – intesa come forma di attribuzione a individui e collettività di qualità e appartenenze – sia in realtà un gioco di scambi e dismissioni continue di maniere, stili e interessi, che ha come esito frequente la convergenza di una classe nell’altra dal punto di vista dei costumi e delle aspirazioni, è qualcosa che sappiamo per lo meno dai tempi delle ricerche di Ariès e Duby (1987) sulla vita privata in epoca moderna.

3. Bassi culturali Non è un caso, come osservato in fondo da Panarari (2010) a proposito dell’Italia, che la cultura pubblica contemporanea abbia pienamente integrato ed elevato ciò che in altri tempi si sarebbe chiamato il “basso culturale”.3 E non è questo qualcosa che si limiti al consumo e alla circolazione di prodotti culturali, che peraltro non sono mai neutri e agiscono anzi come elementi di egemonizzazione e diffusione di ideologie (Gramsci 1975, Q.23, 57, 2253; Said 1998, p. 313). L’integrazione a cui si fa riferimento, infatti, è più intima. Ed è, a uno sguardo conservatore e determinista, persino contraria alle “leggi” e alle aspettative sulla riproduzione sociale così come le abbiamo maturate sulla base di importanti studi come quelli di Bourdieu [1970] 2006), Willis (1977) e Le Wita (1994) intorno a quella che potremmo convenzionalmente chiamare – resuscitando un termine desueto che fu della sociologica classica – la “statica” sociale: ossia il problema del mantenimento delle gerarchie materiali e simboliche nel corso del tempo. La cultura mainstream italiana, all’incrocio tra media nuovi e tradizionali, presenta evidenti tracce di integrazione del “basso”, ossia del volgare e persino del pecoreccio nella propria offerta (qualcosa, del resto, che è propria della cultura glo3  Quello della dissoluzione delle gerarchie culturali è un tema che si dà ormai da molti anni per scontato. La tensione che deriva da questa sparizione, tuttavia, resta sempre sullo sfondo e riemerge periodicamente, in modi per lo più disarticolati, perché ha effettivamente implicazioni che vanno oltre la produzione culturale e che pertengono alla direzione ideologica del sociale. Limitando al massimo i riferimenti, si vedano: Williams 1974; Gans 1974; Jameson 2007.

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bale, sia pure con intensità differenti per ciascun paese). È plausibile, per esempio, che “tronisti” di origine borgatara ospitati da programmi di larga circolazione abbiano orientato, o quantomeno rafforzato, idee, sentimenti, gusti e modi di pensare di molti giovani italiani negli ultimi vent’anni.4 Lo stesso può evidentemente dirsi di soubrette, calciatori e intrattenitori a vario titolo che da anni si esprimono sui media italiani intorno a fenomeni politici, storici, scientifici o criminologici avvallando la convinzione per cui le opinioni hanno tutte uguale peso e che la conoscenza accurata delle questioni discusse pubblicamente è un sovrappiù che non conferisce particolari meriti a un interlocutore. In questo quadro ben noto e affatto originale (che implica peraltro la finzione del sorprendersi, assumendo la prospettiva torva del determinista sociale e mobilitando inoltre il vasto e comune corredo di pregiudizi che serve solitamente agli umani per orientarsi nella complessità del reale) ciò che da un punto vista teorico sembra andare contro quella stessa “statica” a cui si faceva riferimento poco sopra sono le forme pubbliche e spettacolari assunte da personaggi appartenenti, ormai da almeno tre generazioni, a una borghesia industriale di altissimo livello. Personaggi estremamente facoltosi da generazioni – come possono esserlo per esempio Gianluca Vacchi o Elettra Lamborghini (ma si tratta solo di uomini e donne di paglia, senza particolari colpe, da impiegare per puro comodo espositivo) – colpiscono l’accigliato determinista ossessionato dal problema dell’habitus per il piacere che esibiscono nel flirtare col trash; oppure per la scelta delle compagnie – di frequente alquanto buzzurre – che si affiancano a loro nei video realizzati per il pubblico dei social network. Se la buona conversazione e l’esibizione di gusto e cultura superiori erano tratti distintivi dell’auto-rappresentazione borghese, peraltro spesso affiancati da deboche e decadenza, Vacchi e Lamborghini lasciano intendere di preferire di gran lunga l’ordinario e il basso, senza però alcuna poetica dell’auto-annientamento e della rivolta.5 Lasciando casomai che sia la ricchezza, che fa mostra di sé sullo 4  Il pensiero va, in primo luogo, ai programmi pomeridiani di Maria De Filippi, incentrati sul discorso sentimentale e il senso comune. D’altro canto, su un piano solo apparentemente diverso, ma ugualmente connesso alle ibridazioni tra alto e basso, già nel 1992, nell’ambito degli allora innovativi studi sulla semiotica del diritto, Carzo aveva iniziato a osservare un nuovo discorso popolare sul diritto che sembrava emergere nel corso di trasmissioni Fininvest incentrate proprio sulla messa in scena del processo. 5  Per quanto non sia da scartare l’ipotesi che la traiettoria di questi personaggi e altri analoghi – per esempio Paris Hilton – sia effettivamente una rivolta contro i ruoli ascritti che l’appartenenza a una famiglia o a una dinastia comportano. Lo spettacolo, insomma, come forma di realizzazione del Sé. È anche vero, tuttavia, che di solito, nel prepararsi al passaggio di generazione, le dinastie economiche realizzano molto presto una selezione, volta a discernere tra coloro che sono idonei a continuare gli affari di famiglia e i “cadetti”, liberi invece di impiegare il proprio tempo a far nulla. Non sappiamo molto di quale fosse la posizione di questi specifici individui nelle gerarchie e nelle opinioni familiari. Ma in fondo poco importa.

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sfondo dei video auto-prodotti, a parlare della loro oggettiva collocazione su un piano superiore di classe. Così se i ricchi rampolli di famiglie industriali possono oggi dare vita a simulacri di sostanziale ordinarietà (per lo meno interiore o “spirituale”), è altrettanto legittimo che i discendenti di famiglie di classe inferiore possano performare una ricchezza che non possiedono, a volte con costi personali e sociali elevati (per esempio nel caso di reati predatori, con vittime e, in generale, di arresto). A ogni modo è certo – ma lo sappiamo in realtà da molto tempo – che la distinzione, se non in ambiti sociali ristrettissimi e probabilmente anche agée, non transita oggi attraverso le raffinate collezioni di arte orientale (per quanto il mercato delle opere d’arte e del collezionismo abbia in effetti dimensioni economiche colossali, si veda: Boltanski, Esquerre 2019). A tal riguardo, si potrebbe osservare che se nei primi anni Ottanta del secolo scorso circolava ancora la storiella, mutuata da chissà quale film, in cui un impenitente e vagamente disgustoso playboy poteva invitare le sue future conquiste a casa per ammirare la sua collezione di vasi cinesi (oppure di rare farfalle, in altre versioni della medesima storia), questo postulava in fondo tanto il diffondersi di un sospetto verso il mondo intellettuale destinato a consolidarsi nel corso del tempo quanto la plausibilità sociale di un racconto in cui qualcuno tenta di sedurre le persone esibendo manufatti d’arte antica destinati a una visione privata. Non si può essere davvero certi che all’interno dell’attuale sistema di relazioni e gerarchie culturali una rappresentazione artistica di sapore realistico possa, al fine di rappresentare gli ordinari rituali volti a iniziare una relazione sessuale, impiegare il medesimo stratagemma narrativo pretendendo anche di risultare credibile. Infatti, solo raramente, e in circoli sociali ristrettissimi, i rituali di seduzione prevedono dotte discussioni sui filosofi continentali, la concezione marxiana del lavoro o l’arte cinese negli anni della dinastia Song. Con questo evidentemente non si vuole intendere che non esistano più le classi sociali, la riproduzione di classe, i sapio-sessuali6 o quelli che, in luogo delle vaserie cinesi o delle collezioni entomologiche, esibiscano con fini seduttivi conversazioni colte e raffinatissime oppure ricercate raccolte di toy ispirate dagli anime giapponesi. Ma che la media delle persone ordinarie, così come probabilmente chi, nel proprio ruolo di regista o autore le dovesse rappresentare, molto difficilmente individuerà nel possesso e nella condivisione di conoscenze “alte” un criterio sociale fondamentale al fine di stabilire relazioni o una componente imprescindibile dell’erotismo (come accadeva per esempio in una letteratura primo novecentesca in cui, per 6  Sapio-sessuale è il neologismo che definisce le persone sessualmente attratte dalla cultura, erudizione e intelligenza dei potenziali partner.

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esempio, Anaïs Nin poteva infatuarsi serialmente, oltre che sessualmente, di intellettuali vitalisti come Henry Miller, e costruire su questa predilezione romanzi non stucchevoli. Una letteratura sapio-sessuale, diremmo oggi). Oltre a costituire una decisa percezione dell’autore di questo articolo, fondata verosimilmente su un posizionamento geografico svantaggiato, questa impressione appare in qualche modo confermata dai dati Istat (2018), i quali suggeriscono che i tassi italiani di quella che viene chiamata la “non partecipazione culturale” siano alquanto elevati. Infatti: «Più della metà degli italiani, il 58,3 per cento, nel 2017 non ha mai letto un quotidiano nell’arco di una settimana. I non lettori si concentrano fra gli abitanti del Sud (69,5%), tra i bambini, gli adolescenti e i giovani fino ai 24 anni». Inoltre: Quanto ai libri, quasi 6 italiani su 10 non ne hanno letto nemmeno uno in dodici mesi. Se si considera il genere, mentre non legge poco più della metà delle donne, i maschi non lettori totali sono ben il 64,1%. Tra i residenti nelle regioni del Nord-est la percentuale dei non lettori di libri è la più bassa: 49,7%, mentre al Sud raggiunge il 70,7%.

E se altri consumi culturali – in primis le visite ai musei – sembrano andare bene, resta alquanto indistinta la tipologia e la qualità di prodotti culturali consumati. Voci come “intrattenimento e spettacoli fuori casa” dicono infatti molto poco relativamente alla natura degli eventi a cui percentuali importanti di italiani si sono recati almeno una volta nel corso di un anno. Ancora meno, perciò, del tipo di esposizione culturale, delle idee e dei sentimenti a cui sono sottoposti. Se la teppa appare dunque incarnare l’ignoranza – un termine, quest’ultimo, che di recente ha peraltro conosciuto una certa fortuna e che viene frequentemente adottato con valenze positive o rivendicative (si pensi al gergale “mi è scattata l’ignoranza”, di origine centro-italiana, ma ampiamente diffusosi nel territorio nazionale) – diviene tuttavia molto difficile assegnarle oggi il tradizionale ruolo espiatorio di “altro” dall’ordinario, dal dominante e, più in generale, dal “bene”. Recuperando e radicalizzando quanto osservato in precedenza, nella cornice sociale contemporanea la teppa e i suoi presunti opposti convergono, e quasi tutti, senza distinzione di classe o ruolo, possono dunque finire con l’essere, almeno entro una certa misura, teppa (ma, paradossalmente, anche borghesi; o, forse, “borghesucci”). Nel complesso il senso di scandalo per il basso e per il male appare così come un mero rituale linguistico di distinzione, privo però di autentica sostanza. Sia 27

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pure tenendo conto delle debite differenze e particolarità (dacché esistono quote, generalmente basse, di consumatori “forti” per ciascun prodotto culturale o informativo) possiamo supporre infatti che solo raramente possa esservi qualcosa di radicalmente “altro” in chi pratica una sostanziale ritirata dai saperi o dalle forme artistiche “impegnate” (ossia “pesanti”, concettuali, serie anche quando pretendono di essere leggere) e partecipa invece dell’esposizione al senso comune diffuso – per lo più “escapista” – proprio di un universo mediatico dominante estremamente omogeneo nei contenuti. Si pensi, in particolare, a quella informazione che raggiunge l’utente senza che questi la ricerchi, allorché accende l’autoradio, avvia il browser del cellulare partendo dall’interfaccia di Google o accenda il televisore su una qualunque delle principali reti generaliste. Il banale pregiudizio che qui si sostiene – o quello che alcuni, anche tra gli accademici, potranno ritenere tale – è infatti quello per cui le visioni individuali e collettive relative al mondo dipendono per buona parte – senza peraltro che ciò esaurisca le fonti di strutturazione degli atteggiamenti7 – dall’accesso a idee complesse, dalla “volontà di sapere” dell’individuo e dalla capacità di questi di distinguere la qualità di fonti tra loro disuguali; dalla sua capacità di individuare le connessioni tra elementi sparsi e avvertire i problemi logici, ma anche storici, connessi alle narrazioni e alle forze a cui è personalmente esposto.8 In questa ottica 7  Per quanto i conduttori di Fahrenheit, la trasmissione culturale di Rai Radio 3, e con loro i cultori del pregiudizio “acculturante” o “educativo”, ebbero la sorpresa di vedere montare la protesta di un numero consistente di ascoltatori dinanzi alla notizia che il governo italiano aveva deciso di recuperare i corpi degli immigrati rimasti seppelliti in una nave affondata nel Mediterraneo, impegnandosi così in una missione lunga e, soprattutto, costosa. L’esposizione a contenuti decisamente più complessi della media, evidentemente, non è sufficiente a contrastare il razzismo. Una constatazione, dunque, che cozza decisamente con l’importanza assegnata alla cultura critica. Senza, però, che si possa rinunciare a praticarla e diffonderla. 8  Sono questi atteggiamenti e capacità che dovrebbero emergere ed essere coltivati dal sistema pubblico dell’istruzione. A questo riguardo, com’è ampiamente noto, i dati ci dicono che in Italia i livelli di istruzione sono sensibilmente più bassi di quelli europei. Infatti, con riferimento all’anno 2018, l’Istat (2019) osserva che: «Sul territorio nazionale il più basso livello di istruzione si riscontra nel Mezzogiorno, dove poco più di un adulto su due ha conseguito almeno il diploma di scuola secondaria superiore; al Centro si stima invece il valore più alto, oltre due adulti su tre. Situazione analoga si rileva per il livello di istruzione terziario, ancora una volta minimo nel Mezzogiorno (15,3%) e massimo al Centro (23,3%)». Se la scuola è certamente fondamentale, si può incidentalmente notare che a contare è comunque la considerazione sociale per la cultura. Per esempio, pur nella complessità della propria relazione con l’istruzione pubblica, percepita sovente come spazio di esclusione e, al limite, anche inutile, parti del mondo contadino, operaio e della società italiana in genere hanno a lungo ritenuto che il sapere fosse una forma di potere, utile non a dominare (come avrebbe potuto osservare Foucault) ma ad affrancarsi dal potere e dalla dipendenza. E non era stata certamente la scuola – luogo fondamentalmente d’esclusione e riproduzione della subalternità – a diffondere questa percezione. A mancare, nel tempo, è stato in primo luogo la considerazione sociale della cultura come capitale. Sul mondo contadino e l’istruzione, si vedano: Harrison e Callari Galli (1971), Rabito (2014).

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l’aspettativa di cui sopra continua osservando che chi coltiva il corpo per trasformarlo contemporaneamente in oggetto di desiderio e in un’arma contro gli immigrati, così come chi compie crimini predatori e strumentali per assolvere a una specie di dovere di integrazione, è più facilmente qualcuno che è esposto alle idee e alle informazioni immediatamente disponibili e non a quelle seppellite in una coltre di libri e di ragionamenti complessi. In tal modo se l’“altro criminale” andrebbe visto come un alieno spirituale, alla luce delle summenzionate convergenze tra alto e basso è arduo trovare oggi forme radicali di estraneità sociale tra individui. La qual cosa, per inciso, non costituisce in fondo niente di veramente nuovo e corrisponde sostanzialmente a quanto, tra moltissimi altri, osservavano Bauman (1989) circa il farsi quotidiano del nazismo presso i normali strati della società tedesca e Merton (1938), allorché, già sul finire degli anni trenta del Novecento, si concentrava sulla tensione tra mezzi e fini: ossia sulla convergenza dei valori da parte dei soggetti conformi e di quelli devianti, e le parziali differenze sugli strumenti da adoperare per conseguire gli obiettivi. Ciò, insomma, che risultava nella integrazione culturale del soggetto comunemente ritenuto difforme e, perciò, nella sostanziale identità ideologica delle componenti sociali.

4. Territori Come questa convergenza sentimentale si realizzi non è facilissimo a dirsi. La storia della teppa e della “teppificazione” degli strati superiori è solo fino a un certo punto una storia comune o globale, che si dispiega attorno ad alcune cesure storiche fondamentali per l’emisfero occidentale (per esempio la prima rivoluzione industriale e quelle successive; il dopoguerra nelle sue articolazioni territoriali di carattere nazionale; la deindustrializzazione e la diffusione di una economia di servizio ecc.). Per esempio, la storia delle teppe britanniche o statunitensi non è infatti la medesima di quella italiana, così come la storia delle teppe nere nordamericane o britanniche si distingue da quelle bianche.9 Ugualmente la storia del sottoproletariato italiano 9  La letteratura, di matrice storica ed etnografica sui sottoproletariati inglesi e americani è sterminata. È arduo individuare un numero limitato di titoli che faccia luce sui processi storici antichi e contemporanei di formazioni di classe le cui origini risiedono in processi tra loro molto diversi, che hanno inizio in alcuni casi con l’età moderna e il primissimo colonialismo. Oppure che attraversano la rivoluzione industriale e la de-industrializzazione, con esiti solo superficialmente comuni, se si considera il diverso privilegio assegnato dalla razza a ciascun individuo e gruppo collocato ai margini. Una rassegna, comunque, dovrebbe includere certamente: Jencks e Peterson (1991); Massey e Denton (1993); Gilroy (1995).

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meridionale segue traiettorie diverse da quello centrale e settentrionale, con differenze che si accentuano negli ultimi decenni. Senza contare, naturalmente, il farsi di una «teppa d’importazione»: sarebbe a dirsi il processo di formazione di un largo sottoproletariato immigrato prodotto artatamente dalle politiche migratorie e dai restanti processi di marginalizzazione degli stranieri. Inoltre, la vicenda nazionale autoctona di cui parliamo non è tanto la storia di una teppa sottoproletaria quanto di un ibrido. È una storia, come si è osservato già numerose volte, di convergenza di sensibilità di classe relative alla propria presenza nel mondo sociale. D’altra parte, è probabile che stabilire il processo di formazione delle teppe possa risultare un esercizio accademico e moralistico. La storia degli individui e delle formazioni collettive entro cui questi si organizzano non è sempre derivante da leggi o costanti sociologiche. Tuttavia, è chiaro che azioni e corsi umani, individuali o collettivi, hanno luogo dentro ambienti che agiscono come strutture d’opportunità o come causa di formazioni reattive, con tutte le ambivalenze che ammantano comunemente le risposte, le percezioni e i sentimenti umani nelle condizioni di crisi. Non è indifferente, insomma, stabilire se l’ambiente in cui si muove la teppa è più simile a quello descritto da Willis (1977), in cui lasciare la scuola, esibire la propria mascolinità e dare qualche pugno rivelano solo la fretta di entrare nell’età adulta, in un mondo che, ancora per poco, abbonderà di lavoro garantito, oppure se lo scenario è quello neo-darwinista e metropolitano esplorato da Bourgois (2005). E qualora i due modelli sembrassero geograficamente distanti o socialmente estremi, sarà opportuno chiarire se l’Italia di cui intendiamo parlare è, per esempio, quella dei distretti industriali messa in difficoltà dalle ripetute crisi economiche, dai processi di delocalizzazione e dalla mancata trasmissione inter-generazionale (Dini, Goffi e Blim 2015), ancora dotato però di capitali familiari che attendono di essere dispersi; oppure quella delle aree meridionali dall’economia perennemente inceppata e senza realistiche via di uscite differenti dall’emigrazione, dall’impiego nella pubblica amministrazione, dai traffici criminali di varia entità o dalla dipendenza protratta dalla famiglia (Farinella 2010). O, magari, l’Italia delle città d’arte travolte dalla turistificazione, dalla gig economy e dalla finanziarizzazione, in cui le opportunità si dividono in vario modo, secondo coordinate di classe e razza, nel tramonto di quella cultura operaia che ne costituiva l’anima (Queirolo Palmas e Torre, 2005; Capello e Semi 2018; Gainsforth 2019). Ciascuno di questi posti è caratterizzato, infatti, da forme di tolleranza, da meccanismi selettivi della repressione, da interessi legati allo spazio urbano, da popolazioni residenti capaci di fare udire la propria voce in modo diverso. 30

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In ciascuno di questi posti i membri delle teppe hanno origini, capitali sociali e strutture di controllo sociali differenti. Oltre che motivazioni e ragioni differenti per esistere come formazioni “organizzate”. Ma se, come abbiamo detto precedentemente, il punto nodale è la convergenza di alto e basso, allora il movimento che conduce alla teppificazione della borghesia e a un imborghesimento della teppa è certamente anche di natura ambientale. Da tempo la critica sociale, a partire per esempio da autori come Sennett (2000; 2012) o Fisher (2018), ha messo in luce gli effetti che i cambiamenti nell’assetto capitalismo stavano avendo sul carattere degli individui: la proiezione sul presente anziché sul futuro; la volatilità delle relazioni con ambienti di lavoro transitori; la fine dei vecchi nessi tra formazione, salari e le aspettative professionali e di vita. E poi il crescente senso di inutilità derivante dalla percezione dell’intercambiabilità. La mancanza di senso, dunque, che travolge delle masse esposte sistematicamente all’incertezza e che, secondo la più classica delle risposte umane, si impegna a rimuoverla dal proprio orizzonte mentale. È del tutto prevedibile, dunque, che l’enfasi si collochi in primo luogo su ciò che può placare l’angoscia, ciascuno impiegando metodi compatibili col proprio patrimonio culturale e sociale. Frivolezza, ebbrezza e violenza diventano così modi solo superficialmente diversi tra loro per cercare di placare quell’angoscia. E, infine, diventano tratti duraturi della personalità e collanti sociali per formazioni composte da individui simili, associatisi tra loro sulla base della somiglianza oppure di un caso che non lascia comunque intravedere molte alternative.

5. Conclusioni Se le teppe sono demoni dell’immaginario sociale, questo loro ruolo non è tanto legato agli scontri di classe e alla contrapposizione tra una borghesia operosa e il suo contrario, ma, come aveva osservato lo stesso Marchi, all’impossibilità di impiegare queste presenze inopportune per fini diversi da quelli consistenti nel decretare il fallimento dell’organizzazione sociale stessa. È da tempo, infatti, che esse non servono, come per esempio accadeva nell’Italia comunale al centro dell’interesse dell’autore, ad animare conflitti tra fazioni cittadine gestiti dagli adulti. Così, nel quadro contemporaneo, le teppe appaiono, almeno a chi si percepisce come esterno a esse, una forma dell’eccedenza sociale. Una sorta di risposta auto-immunitaria a una organizzazione dell’esistenza, del capitale e del lavoro che latita di senso e che, in assenza di strutture di trasmissione culturale dotate di legittimità e attrat31

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tività, non può più neanche essere raccontata, riorganizzata e re-indirizzata verso altro. Le teppe, insomma, come formazioni in sé, ma non per sé, che non avvertono né immaginano alternative all’esistente. La teppa è dunque un processo sfuggito di mano, dai tratti parassitari e, soprattutto, progressivi e inclusivi, che lascia poco spazio per cose che non siano il consumo e la rimozione di un dolore che attanaglia gli individui, in modo indipendente dalla classe e dalle opportunità del presente. Il futuro, che è il rimosso, ma in realtà anche l’irremovibile, è infatti lì, pronto ad attendere anche chi oggi dispone di un po’ di capitale economico ereditato. La «teppificazione» del sociale, senza significative differenze tra le classi, con modalità che includono i ricchissimi, può dunque essere intesa come una forma di sedazione delle inquietudini generate dall’instabilità delle posizioni di privilegio ereditate, oppure dalla fissità inaggirabile degli status ascritti che collocano i soggetti “in alto” o “in basso”.10 Può essere altresì considerata una risposta adattiva al fantasma di un inevitabile precipizio che assilla gli individui giovani di classe media e medio-bassa così come la generazione dei loro padri, che individuano un problema ed escogitano i termini per stigmatizzarlo; oppure può essere intesa come il segno di una progettualità mancante, tanto come conseguenza di percezioni fondate sull’impossibilità individuale e collettiva di incidere sul reale e le sue direzioni di marcia, quanto come assenza di una necessità di farlo (in particolare nel caso degli individui giovani maggiormente ricchi). Ciò che, al di là delle posizioni di classe occupate dagli individui in un dato istante, produce per l’appunto quella convergenza tra alto e basso che è al centro di questo saggio. E che – in modo paradossale e triviale – costituisce il massimo del “comunismo” possibile in una società composta da masse di persone che, come abbiamo già osservato, non intravedono un autentico senso nel reale. E che si muovono dunque in una notte dello spirito, ossia attraverso una visione oscurata, che non permette loro di vedere i recinti che li separano gli uni dagli altri in quanto membri di classi ancora obiettivamente attive e contrapposte; e che, perciò, li rende incapaci di riconoscere la natura oggettiva e sistematica delle divisioni che presiedono a differenti destini. Questa limitazione delle prospettive e delle percezioni, la cui origine ha motivazioni diverse per ciascun individuo e gruppo sociale, può produrre però un effetto, che abbiamo definito “comune”, che consiste nella rinuncia alle forme simboliche astratte 10  Sulla verticalità e l’orizzontalità come metafore del politico e del sociale, le cui modalità di impiego analitico hanno radici storiche, esprimono pregiudizi latenti (di cui il anche il mio testo è disseminato) e producono effetti sulle rappresentazioni condivise del reale così come sul suo farsi, si veda Boni (2021).

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e a una concentrazione dell’impegno individuale e sociale (proprio cioè di un gran numero di persone indipendenti le une dalle altre) in direzione di una materialità triviale, fatta di passione per le merci e i consumi vistosi. Una passione così intensa da indurre tantissimi a farsi oggetto dentro la “vetrina sociale” secondo modalità autenticamente estreme, così come suggerisce la successione di immagini autoprodotte sui social network o le forme vistose di presenza negli spazi pubblici (malgrado la possibilità di usi alternativi e imprevisti di questi canali). Una forma di presenza ed esposizione, come indica bene un medium come TikTok, che può fare a meno delle parole e del pensiero e in cui per esistere basta muovere le labbra, fingendo di star dicendo qualcosa detta in realtà da altri. Una articolazione di passioni, a ogni modo, che certamente contempla il simbolico, a condizione però che questo non sia né astratto (come non è astratta una immagine didascalica, che rappresenta il sesso attraverso un corpo agghindato per generare ciò che si suppone sia il desiderio) né intangibile (non più intangibile cioè di un corpo che esiste realmente, che è calato dentro relazioni sociali locali, che è contattabile attraverso una chat e, forse, se si è bravi, persino “ottenibile”). Oppure una passione che, quando decide di essere “profonda” e “impegnata”, spinge tanti all’individuazione di nemici immaginari, di solito collocati o in fondo alla scala sociale (come nel caso, per esempio, di immigrati, barboni e senza dimora; gli esclusi cioè dal possesso legittimo, che incarnano l’impossibilità ascritta del consumo e che infatti scandalizzano quando per caso lo fanno) o in un etereo incorporeo (i poteri forti, i finanzieri ebrei, Big Pharma, ma la lista è sterminata), identificati, compresi e spiegati attraverso quelle “idee senza parole” di cui ci ha parlato Furio Jesi (1979) molto tempo fa. Per buona parte, insomma, la teppa è facilmente definibile come quella vasta entità di fatto, priva cioè di una ideologia condivisa e compiuta, collocata apparentemente oltre le classi, che appare sovente divisa tra aspirazione al consumo e “fascismo”, tra materialità e autoritarismo; tra cura del sé corporeo e fuga dallo “spirito”. In tale quadro il punto fondamentale per chi – da attivista, assistente sociale o insegnante – vede in questi processi un problema, è quello di non cedere alla tentazione di psicologizzare o criminalizzare le condotte, ma di armarsi di concretezza e andare alle radici di una dinamica sociale e di un modello organizzativo che ha fatto coincidere la proiezione umana nel tempo con lo spazio di scadenza di un progetto (un progetto di design, di ricerca, di lavori pubblici ecc.) e che, così facendo, ha diffuso stanchezza, dipendenza e impotenza. Ma anche angoscia performativa e necessità esistenziale di controllare il reale almeno per gli aspetti su cui è possibile 33

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intervenire direttamente. Tra questi, in primo luogo, il corpo, divenuto sempre più “progetto”; ossia terreno di sperimentazioni, incessanti auto-manipolazioni e “spettacolo” offerto a un pubblico le cui reazioni positive possono fornire gratificazioni tanto immediate quanto volatili; cioè facilmente sostituibili e rivolgibili a una infinità di altri soggetti nello stesso tempo e nello stesso spazio (quest’ultimo, peraltro, spesso virtuale; e quindi multi-locale e simultaneo). Una condizione, in ultima analisi, che non può che aggiungere angoscia ad angoscia. Se tutto questo è vero, la psicologia e la polizia non possono essere altro che sostanze lenenti o incapacitanti, ma non soluzioni. In questa prospettiva la riscoperta della politica da parte di chi opera nelle istituzioni e nella società civile, così come l’esercizio pratico della critica rispetto alle modalità organizzative dei più vari ambiti della vita, costituiscono le fasi obbligate di una terapia di contrasto che ha tempi lunghissimi e che, soprattutto, vede i contagiati dai mali di questo nuovo capitalismo risiedere ovunque, nella strada così come nelle stanze dove si organizza e amministra il quotidiano. Ciò che, sempre su un piano realista, deve renderci consapevoli del fatto che sarà arduo trovare veri alleati negli uomini e nelle donne delle istituzioni, in gran parte vittime di un narcisismo esso stesso istituzionalizzatosi e legittimato in ambiti sino a poco tempo fa insospettabili. Un’evenienza, quest’ultima, che allontana la prospettiva di una inversione di rotta che sia compartecipata dall’alto. Sta dunque a chi è collocato negli spazi intermedi, e che sfugge in tutto o per buona parte agli eccessi di questa antropologia collettiva, armarsi di tenacia, cercare alleati affidabili e tentare di organizzare la resistenza.

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“la santa teppa”. le bande giovanili nell’immaginario del neofascismo italiano di Elia Rosati

1. “Teppisti” In Italiano, con il significato odierno, il termine “téppa” ebbe origine nella Milano austriaca restaurata dal Congresso di Vienna: inizialmente significava, in dialetto, semplicemente “muschio”, ma nel 1821 le cronache riportano di uno scandaloso processo contro una associazione criminale giovanile antiasburgica, la Compagnia della Teppa. Il nuovo significato quindi prende origine, secondo una tradizione orale, dal tessuto del cappello tricorno, indossato da questi giovani, che era di felpa plumée con un pelo lungo e arruffato, simile per l’appunto al muschio. Un’altra radice etimologica per identificare i “teppisti”, era che avessero come punto di ritrovo quella zona verde e umida che si trovava a nord del Castello Sforzesco (Vocabolario Milanese-Italiano, 1897), una distesa inospitale di prati e alberi lasciata all’abbandono a partire dalla dominazione spagnola del Seicento. Potremmo dire, insomma, che i primi “teppisti” erano una compagnia di giovani violenti (armati di bastoni e piccoli coltelli) che aveva base nell’allora periferia nord di una grande città, e che, sempre riferendosi alle notizie del processo della polizia austriaca, annoverava tra le sue fila “giovinastri prepotenti e crudeli che fanno il male per amore del male e per mania di sbravazzare” anche di origine straniera (Rovani1859; 2008). All’inizio del Novecento, invece, tornava “la razza trista del signor teppista” nell’Inno Individualista (Vettori 1975) degli anarchici italiani braccati dalla polizia dei Savoia dopo i colpi di pistola di Gaetano Bresci, dimostrando come ormai fosse un termine famigerato, usato nel mondo sovversivo. In campo marxista, il 10 Dicembre del 1904 un giovane (e sorelliano) Benito Mussolini firmava sul numero 104 di «Avanguardia Socialista» uno spigoloso e aristocratico articolo dal titolo La Teppa, in cui si distingueva tra «la teppa 37

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autentica che vegeta nei bassifondi delle grandi città […] impotente a pregiudicare in qualsiasi modo la riuscita di un movimento proletario» e «il sacro terrore della teppa» che lo sciopero insurrezionale suscita tanto nei Riformisti che nella Monarchia (Bidussa 2019). Il Mussolini (prefascista) di allora metteva insieme il suo magmatico background (De Felice 1995; Gentile 2018) e, in altro momento, parlando dei veri rivoluzionari (a partire dalla sua Romagna anarco-marxista) disse che anche «se i socialisti da salotto ci accusano di essere una vile teppaglia, Sì noi siamo la teppa, siamo la santa teppa che non si ferma né davanti alle spade degli arcangeli né davanti ai fucili degli sbirri»: così nacque questa espressione, che divenne poi cara alla destra, tuttavia rimanendo sepolta per poco più di un secolo. Nel 2007 infatti vediamo riemergere prepotentemente l’espressione «Santa Teppa» come titolo di una ballata degli ZetaZeroAlfa, il gruppo musicale colonna sonora dell’area neofascista romana del movimento/partito CasaPound d’Italia. Il brano celebra la prima sede del gruppo, il circolo metapolitico romano Cutty Sark. Tutta la canzone è un inno al senso di fratellanza dei membri del movimento (soprattutto i più giovani del Blocco Studentesco), imbarcati idealmente in una “ciurma pronta all’arrembaggio” in un “bosco fitto di fratelli”. Lasciamo lì per un attimo la Santa Teppa di CasaPound; può essere infatti interessante ripercorre la figura e l’immaginario del “teppista” nella destra radicale italiana in poco più di un secolo, per vedere come si sia lentamente strutturato.

2. Dalle squadracce al ring La sfaccettata identità culturale fascista si calibrò, fin dalla sua nascita a Milano nel marzo del 1919, sul portato esperienziale cardine e simbolico dei suoi aderenti: cosa potevano avere, infatti, come immediato minimo comune denominatore le molte “eresie” nazionalistiche riunite da Benito Mussolini in Piazza San Sepolcro per fondare i Fasci di combattimento? Molto semplicemente: essere giovani, aver preso parte fanaticamente alla Prima guerra mondiale e soprattutto, rientrati dalle trincee, voler continuare a combattere in nome di una aristocratica palingenesi dell’Italia. Lasciando qui da parte il lunghissimo dibattito storico sull’immediata riuscita o meno di quell’operazione politica, possiamo dire sicuramente che Mussolini si era deciso a contendere quel target di riferimento alle tante esperienze politiche che intendevano capitalizzare la rabbia (giovanile) prodotta dalla grande 38

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rottura storica – ma, non dimentichiamolo, anche generazionale (Maiale 2018) – prodotta nella società italiana dalla Grande guerra (Gentile 2011). Il futuro duce, infatti, aveva compreso già dalla fine del conflitto, come occorresse costruire e organizzare un movimento politico a partire da quel legame, nato nel sangue e nel fango delle trincee, tra giovani-violenza-nazione: tutta le retorica del Il Popolo d’Italia dal 1915 al 1919 e dei suoi discorsi era incentrata su un immaginario ponte tra «la migliore gioventù d’Italia» e la «trincerocrazia». Era il ribollente 1919: l’anno d’inizio del Biennio Rosso, dell’impresa legionaria di D’Annunzio a Fiume e delle scorribande armate delle primissime squadracce di fascisti e futuristi; il pragmatismo e la lucidità politica di Mussolini di saper dirottare tutto questo in un movimento d’ordine al servizio del capitalismo agrario (e poi industriale) si rivelerà da lì a pochi anni molto efficace (Germinario 2011; Vercelli 2019; Bianchi 2019). Mussolini seppe insomma costruire un immaginario guerriero che strutturò e cementò una comunità di spirito, prima che un movimento politico, capace di essere una minoranza attiva giovanile determinante nella storia d’Italia e d’Europa (Reichardt 2002). Anche successivamente, l’idea che il Fascismo dovesse sembrare in primis questo accompagnò tutta la prima fase del Mussolini al potere: dalla Marcia su Roma del 1922, letta alla luce del diritto-dovere delle migliori forze giovanili, selezionate e forgiate dalle trincee, di salvare la nazione dalla sovversione, fino al preciso riferimento, nel celebre discorso “inaugurale” della dittatura del 3 Gennaio 1925, al fascismo come «una passione superba della migliore gioventù italiana». Paradossalmente la Santa Teppa e gli spunti ribelli del 1904 avevano propagandisticamente trovato una nuova casa, anche se storicamente figlia della conservazione reazionaria e non certo della rivoluzione proletaria. Il tutto risultò, si direbbe oggi, anche uno straordinario successo di una tattica politica mitopoietica che si affievolì decisamente durante tutto il Regime (le organizzazioni giovanili fasciste non seppero mai riprodurre in massa questo immaginario guerriero) ma sopravvisse carsicamente, come ad esempio sul piano dell’indottrinamento giovanili tramite, potrà sorprendere, l’aggregazione sportiva, ovviamente “guerriera”. Quando il Regime fascista, dal 1926, strutturò l’associazionismo giovanile statale (dagli 8 ai 18 anni) con la nascita della Opera Nazionale Balilla (onb) e poi, in modo più meditato, dei Gruppi Universitari Fascisti (guf), il problema degli sport da combattimento si pose subito, complice la nascita nel 1928 della Accademia Fascista Maschile di Educazione Fisica (afmef). 39

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Tuttavia, se il Regime incentivò notevolmente nel mondo giovanile la pratica dell’atletica leggera, del nuoto, del ciclismo o dello sci, all’interno della Carta dello sport del 1928 erano già citati, tra le varie discipline codificate su base di federazione sportiva ufficiale, la boxe e la lotta giapponese (judo). A livello storico, infatti, nonostante la prima struttura sportiva nazionale che includesse la lotta fosse nata nel 1902 (Federazione Atletica Italiana), il judo avrà, con la denominazione di lotta giapponese, un suo ente fascista già nel 1924, per poi venire inserito nel 1930-1931 nella Federazione Italiana Atletica Pesante. Un passaggio importante fu la prima grande manifestazione sportiva fascista dedicata al judo/jujitsu organizzata dal quotidiano «L’Impero» nella Sala della Corporazione della stampa a Roma a cui partecipò, tra gli altri, il Maestro Jigoro Kano, fondatore riconosciuto a livello internazionale del judo moderno. Il grande combattente del Fascismo italiano fu però un pugile, Primo Carnera, che nel giugno del 1933 divenne campione dei pesi massimi in un memorabile match al Madison Square Garden; sarà lui l’esempio di sportivo da ring scelto da Mussolini. Il Regime in fretta e furia lo arruolò nella Legione Alpina di Gemona in tempo per le foto propagandistiche di fianco al Duce; così come il Ministero della Cultura Popolare (MinCulPop) si preoccupò zelantemente di proibire ai giornali le fotografie di Carnera sconfitto al tappeto nel campionato del mondo dei pesi massimi del 1934. Si uscì quindi dal Ventennio per giovani fascisti con nel cuore un posto speciale per la boxe e il jujitsu. Un amore quello per la cultura delle arti marziali orientali, ulteriormente cementato dai programmi di interscambio culturale dovuti all’avvicinamento tra il Fascismo italiano e l’Impero Giapponese, esplicitato nel patto anti-Comintern del 1937 e, successivamente, nel Patto tripartito del settembre 1940 (l’Asse Roma-Tokyo-Berlino). Il mantenere questa attenzione alle forme di combattimento e alle palestre sarà il primo strumento di socializzazione giovanile della destra radicale italiana dopo la Seconda guerra mondiale, quando i giovani fascisti, accettata obtorto collo la sconfitta militare, si accorsero dolorosamente di essere tornati una minoranza e, dopo l’amnistia Togliatti (estate1946), cominciarono a riorganizzarsi nella nuova Italia repubblicana. Non è quindi un caso che, dopo la guerra, le prime bande di giovani neofascisti si aggregarono, prima ancora che nelle sezioni missine, in luoghi come l’Accademia Pugilistica Romana o, nazionalmente, il Centro Sportivo Fiamma. 40

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3. Legionari della Tradizione Se l’immaginario della teppa fascista degli anni Venti, fattasi squadraccia trincerocratica, era legata alla “vita”, quella legionaria tra anni Cinquanta e anni Settanta si cementò sul mito «dell’onore e della fedeltà» della morte legionaria, dei soldati fieramente sconfitti. Questo è ben esemplificato da una iniziale scelta mitopoietica: a quale fascismo richiamarsi? Dall’immediata fine della Seconda guerra mondiale apparve necessario e impellente iniziare a costruire un immaginario forte che giustificasse una presunta collocazione antisistemica, dispiegatasi prima nel terrorismo dei Fasci d’Azione Rivoluzionaria (far) e sviluppatasi poi con la nascita del Movimento Sociale dal Dicembre 1946 in poi (Parlato 2006). Ai fascisti senza Mussolini serviva però un simbolo adatto che ben incarnasse il loro sentirsi accerchiati e “dannati”; un esempio granitico di fedeltà e onore, in grado di stare al pari con la determinazione aristocratica e l’abnegazione dei soldati del Terzo Reich (Parlato 2006). Nulla poteva essere più adatto a questo scopo quanto l’esempio della Repubblica Sociale Italiana (rsi), che rappresenterà nei cuori di più generazioni neofasciste un fulgido esempio di quella mistica della morte essenziale alla rifondazione di una identità/ritualità, anche in virtù di alcune sue autentiche caratteristiche storiche. Non va inoltre dimenticato che una delle componenti più forti dell’identità propagandistica di Salò fu la possibilità di costruire un nuovo stato, figlio proprio di quel fascismo giovanile delle origini: un qualcosa che potesse rompere ogni ponte anche con il Fascismo-Regime, dimostratosi incapace di modificare nel profondo il popolo italiano, scendendo invece a patti con i suoi difetti più vili e plebei. All’Italietta badogliana, gretta, traditrice, opportunista e vile, i giovani repubblichini potevano simbolicamente sbattere in faccia la nobiltà della loro Repubblica. In ultimo, dato fondamentale agli occhi della futura destra radicale dagli anni Sessanta, la rsi aveva rappresentato anche sostanzialmente una partecipazione più decisa del fascismo italico al progetto del Nuovo Ordine Europeo hitleriano, collaborando attivamente alla difesa dell’Occidente, tanto dai suoi nemici interni quanto esterni (Ganapini 1999). Per tutte queste caratteristiche la rsi si prestava a essere un esempio in grado di rendere efficacemente quel “sovversivismo esistenziale” di cui tanto necessitavano i neofascisti italiani: un elitario, caparbio, giovane e guerriero simbolo da onorare e scolpirsi nel cuore (Ferraresi 1995). In questo la maggioranza dei giovani neofascisti venne ontologicamente plasmata dal filosofo tradizionalista Julius Evola che costruì intorno all’im41

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maginario dei soldati della “Tradizione” una «pratica organizzativa iniziatico-occultistica basata su formalizzati rituali di iniziazione, volta a costruire una lega di uomini armati e saldati da un vincolo di sangue inscindibile» che rappresenterà «una svolta nel modello organizzativo fascista, tradizionalmente sbilanciato verso la dimensione di massa» (Revelli, 1986). Tutto questo si concretizzò inizialmente nelle strutture giovanile della sempiterna casa-madre del neofascismo, il Movimento Sociale Italiano (msi) e, a partire dalla metà degli anni Cinquanta e fino quasi alla metà dei Settanta, anche nel più importante gruppo della cosiddetta destra extraparlamentare, Ordine Nuovo (on). Questo produsse un primo immaginario forte: Mosley, Codreanu, Degrelle, Ramos e molti altri collaborazionisti si sommarono alle SS di Himmler e alla X Mas, creando un unico aristocratico schieramento «ghibellino», un «esercito della Tradizione» in lotta disperata e mortale contro il «Mondo Moderno»: le armate della Differenza contro quelle dell’Uguaglianza (Germinario 2001; Giannuli e Rosati 2017). Un immaginario potente, giovane, europeo e guerriero in grado di rottamare i fotogrammi da operetta delle “otto milioni di baionette” o dell’improvvisata Milizia del Regime e di costruire il senso di un passaggio di testimone tra vecchi e nuovi fascisti fino ad arrivare agli anni della Globalizzazione, non a caso letta ancora oggi con le lenti degli scritti di Evola degli anni Sessanta. Tuttavia, in questo granitico schema ideologico, la teppa propriamente detta spariva per lasciare posto a una visione elitaria e legionaria, mentre ciò che non rispecchiava il curriculum del “soldato politico” finiva per essere bollato come plebeo e imbelle, almeno per molti; anche se, nella realtà storica della militanza di strada invece, non sempre i sodalizi neri pretendevano esami ideologici da parte delle soggettività più borderline (in senso proletario metropolitano e/o criminale) che li attraversavano: è il caso degli esempi della comunità nera di San Babila a Milano o del fascismo missino di borgata romano tra Settanta e Ottanta, dal cui bacino di ex-militanti nascerà lo spontaneismo terroristico dei nar (Rao 2014).

4. Non perdiamoci anche il Settantasette! Nella seconda metà degli anni Settanta, invece, i giovani neo-evoliani più moderati (rimasti nel Movimento Sociale Italiano), discostandosi dal maestro, si interrogarono per la prima volta sul mainstream e sull’uso politico 42

“la santa teppa”. le bande giovanili nell’immaginario del neofascismo italiano

della comunicazione; nascevano l’esperimento dei Campi Hobbit, del cantautorato d’area e delle radio libere di destra (Alberti 2014; Di Giorgi 2008; Vercelli 2018). Sul modello della destra francese i fascisti scoprivano la grafica e praticavano in modo manifesto una socialità ideologizzata, sulla falsariga di quella dei grandi raduni giovanili della sinistra extraparlamentare. La destra radicale italiana, cacciata dal ’68, non voleva perdersi il (suo) ’77. Questi esperimenti – va detto, marcatamente copiati dall’opposta fazione – sono spesso stati autocelebrati fino a oggi, ma al tempo divennero un nuovo pezzo del background comunitario fascista che, specie nel Fronte della Gioventù della capitale, lasciò un segno profondo e, a partire dagli anni Ottanta, contribuì a creare, reclutare e formare una generazione di giovani dirigenti – approdata poi nei tardi anni Novanta a ruoli di primo piano in Alleanza Nazionale (Amorese 2018; Lanna e Rossi 2003). Il laboratorio politico del neofascismo romano diventò quindi centrale: qui si tenteranno le prime sperimentazioni metapolitiche (con la creazione di associazionismo parallelo), i primi esempi di occupazioni giovanili e la costruzione di una nuova «comunità di destino». Centrale in questo fu “sciacquare i panni” nella Senna, ritornando a Evola dopo aver letto a fondo gli scritti della Nouvelle Droite francese degli anni Settanta: le critiche di Alain De Benoist (e dei suoi sodali) alla destra radicale d’Oltralpe furono molto più pervasive in Italia di quanto si creda; fu così che la metapolitica entrò nella base militante giovanile del msi. A distanza di anni, guardando a ritroso le «generazioni Hobbit», possiamo dire che nonostante le sconfitte congressuali (storica quella di Marco Tarchi contro Gianfranco Fini nel giugno 1977) fu una rivoluzione per qualunque neofascista italiano abbia cominciato a fare politica dagli anni Settanta. Se a questo mondo aggiungiamo anche un suo sottoprodotto più recente, la «generazione Atreju» (dal nome della festa nazionale dei giovani prima di Alleanza Nazionale e poi di Fratelli d’Italia), possiamo storicamente dire che, nonostante l’opposizione di Almirante e Fini, quel seme piantato a fine anni Settanta e le tante comunità di destino che ne conseguirono (dentro e fuori il partito) abbiano cresciuto e plasmato la classe dirigente della destra italiana più contemporanea. Questa ennesima articolazione storica della Santa Teppa circoscriveva insomma la comunità di camerati, partendo in compagnia sulle strade di una Terra di Mezzo popolata non solo di hobbit e elfi ma di collaborazionisti (da Brasillach a Codreanu), filonazisti (da Leon Degrelle a Mosley) e, scegliendo come emblema la croce celtica, simbolo scelto da Jean Thiriart per riunire 43

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la gioventù nazionalista, neonazista e neofascista europea occidentale. Una destra radicale, più borgatara, riunita in concerti e campeggi, ben armata, che si incontrava nelle tante sezioni e sedi di quartiere delle grandi città, in cui spesso il terrorista nero, il fiancheggiatore e lo squadrista pistolero, nella fine dei Settanta, si trovavano a essere camerati della stessa trincea. Una foto di famiglia, imbarazzante, ma ancora cara a tantissimi, giovani e vecchi eredi di quella storia. Per la prima volta i neofascisti italiani sperimentavano codici linguistici, grafici, musicali propri, costruendo una socialità di destra più inclusiva, giovanile e moderna, che trovava nei luoghi di ritrovo piazze, sedi, sezioni missine il primo embrione di quelli che sarebbero diventati nei decenni successivi prima circoli metapolitici e poi “centri sociali di destra”.

5. Teste rasate Perché si potesse parlare a destra di “banda di strada” dobbiamo arrivare alla seconda metà degli anni Ottanta, con l’irruzione in Italia della sottocultura White Power di derivazione inglese: l’elitarismo spirituale dei fascisti italiani dal 1945 in poi, aveva infatti, come si è detto, impedito che si potesse costruire un vero e proprio immaginario plebeizzante. A differenza però dell’esempio anglosassone, questo processo avvenne non in modo graduale ma immediatamente politico, tanto da datare, come sottolineato più volte da Marchi, la presenza di un consistente mondo skinhead italiano agli anni Ottanta inoltrati e non prima. Non abbiamo qui il tempo di ricapitolare e approfondire le caratteristiche fondamentali della sottocultura skinhead, la sua genesi o evoluzione, così come dei fenomeni giovanili a essa collegata (Pedrini 2004); quello che va sottolineato però è il fatto che la genesi in Italia del mondo skinhead di destra (che andrebbe più correttamente definito bonehead) ha rappresentato una moda di importazione che si è radicata localmente solo dove c’era già terreno politicamente fertile, copiando quanto si muoveva nel neonazismo inglese, francese e belga (Cadalanu 1994). Va ricordato inoltre come, dopo le grandi retate giudiziarie seguite alle indagini sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980, molti giovani extraparlamentari di destra fossero finiti o in carcere o in esilio (spesso proprio in Inghilterra) o fossero rientrati nelle strutture giovanili del msi, approfittando anche, in alcuni casi, di quella prassi della “doppia tessera” tipica dell’estremismo nero degli anni Settanta. 44

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Infatti, la nascita dei primi nuclei di naziskin (mutuando questo termine dal giornalismo) avvenne dove le strutture giovanili del Movimento Sociale Italiano msi erano presenti e radicate, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, come ad esempio Roma, il Triveneto o Milano. Non fu, quindi, come nel contesto anglosassone un processo di politicizzazione radicale di mondi sottoproletari giovanili già esistenti ma, al contrario, di adesione ideologica/militante e accettazione pedissequa di uno stile, con aspetti fortemente esterofili (Castellani 1994). Rientrava nella visione di questi gruppi una ingenua e superficiale esaltazione della retorica plebeizzante del regime come presunto collegamento con la cultura working class ma, più diffusamente, specie nella fascia prealpina, il modello sociale di riferimento divenne quello familistico, patriarcale e identitario della piccola media impresa, ben incarnato dal fenomeno delle Leghe. Dal punto di vista ideologico però, anche per un primo impatto del dispiegarsi degli effetti sociali della Globalizzazione in alcuni Paesi europei, già dalla metà degli anni Ottanta il neofascismo e neonazismo continentale (e anche italiano) aveva enormemente radicalizzato nella propria weltanschauung l’elemento razziale, antisemita e tradizionalista. Si trattò in realtà di una tendenza comune a tutti i contesti della destra, che finì a livello occidentale (nel clima neoliberista del Thatcherismo/Reaganismo) per produrre un nuovo più rozzo e radicale linguaggio per l’estremismo di destra. Una generica, semplicistica ma radicale grammatica che descriveva una identità nazionale plebea, ancestrale e verace messa in pericolo dalle migrazioni, da oscuri complotti finanziari massonico-giudaici e dalla cultura progressista liberale/libertaria che invece predicava una società meticcia, senza un welfare per soli autoctoni e dove l’aborto, i diritti degli omosessuali e le droghe avrebbero distrutto – a detta dei fascisti – la famiglia tradizionale (Caldiron 1994). In realtà si trattò di un primo assaggio di una ridefinizione ideologica del mondo della destra, che riorganizzò la propria cassetta degli attrezzi costruendo, tra Ottanta e Novanta, una visione identitaria, molto più funzionale alla progressiva e violenta affermazione del Neoliberismo che alla difesa di fantomatiche patrie razziali. Sottolineando questo aspetto, la politologia ha più volte raccomandato di abbandonare gli schemi interpretativi classici sulla destra, sottolineando il carattere “postindustriale” di questi fenomeni politici, definibili tali proprio perché si muovono su domande e soluzioni identitarie per le società dell’epoca della globalizzazione (Ignazi 2000). 45

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Spesso, infatti, ci si trovò davanti a un fraintendimento interpretativo: questo mondo giovanile fascista bianco e proletario venne ingenuamente definito «nuove destre» ma più attentamente andrebbe inquadrato, a livello storico-politologico, come destra postfordista, figlia cioè di quella «controrivoluzione liberista», che a partire da una nuova logica d’impresa sempre più rigida, pretendeva una razionalizzazione/smantellamento della macchina statale (Revelli 1996). Questa destra giovanile atomizzata, divisa in bande, legata a questo immaginario nazionalista, xenofobo e sciovinista si diffondeva insomma in Italia (come con Le Pen padre in Francia, il National Front inglese o nella Germania post-unitaria) rivendicando la difesa di una Heimat immaginaria, fintamente autoctona e interclassista, in un momento in cui il Capitale riorganizzava il mondo della produzione e del lavoro globale (Anderson, 2020). È questa forse una delle chiavi di lettura per leggere il diffondersi del fenomeno naziskin in Italia negli anni Novanta: un tentativo di costruire una tendenza giovanile fascista che sapesse fare tesoro della lezione delle sottoculture relativamente ai suoi codici aggregativi (musicali, lessicali, iconografici) (Knight 1982). Non si trattò, insomma, di nessuna insorgenza della gioventù bianca nazionalista e working class, nonostante la destra amasse raffigurare la situazione, pro domo sua, così. Sta di fatto che l’immaginario skinhead finì per caratterizzare una nuova generazione di giovani neonazisti che non solo adottarono codici e pose da banda (intesa come crew), ma che entrarono in contatto, grazie alla rete di concerti e alle inedite possibilità di internet, con circuiti suprematisti bianchi e fascisti in tutto il mondo occidentale e particolarmente in usa e Europa (Searchlight 2004; Forbes e Stampton 2015). In Italia, come si diceva, tutto questo si saldò a un substrato di destra organizzata pre-esistente, ma è interessante notare come inizialmente la discussione su questa nuova leva di camicie nere interrogò la nomenclatura politica missina e post-missina e il mondo intellettuale neofascista: molto nota fu un intervista sull’Europeo del 1992, in cui l’ex-ordinovista Franco Freda bollò i naziskin come “balordi”, incapaci di diventare dei “soldati politici”, mentre un personaggio, seppur attento ai movimenti giovanili, quale l’evoliano Pino Rauti, tenne lontane queste tendenze dalla sua neonata Fiamma Tricolore a metà degli anni Novanta. Tuttavia ci furono anche tentativi duraturi di costruire un network politico che potesse federare diversi gruppi di skins neonazisti come “Base Autonoma” le cui componenti più attive furono il Veneto Fronte Skinhead (nel Triveneto), Azione Skinhead (Milano) e il Movimento Politico Occidentale (Roma e 46

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dintorni); questo nascente raggruppamento fu bloccato dalla Legge Mancino che, dal 1993, introducendo il reato di istigazione all’odio razziale, contribuì con decisione allo scioglimento delle più importanti organizzazioni naziskin italiane, bloccando ogni velleità politica autonoma di questo mondo. Sicuramente la moda e l’iconografia skinhead finì per caratterizzare anche alcune frange politicizzate del tifo calcistico organizzato ma, anche in questo caso, non possiamo parlare della formazione di vere e proprie “firm” sul modello inglese, proprio per la particolare storia e la struttura gerarchico-organizzativa del mondo ultras italiano che per decenni ancora si trovò a vivere un periodo fortemente incentrato sui «gruppi» (Louis 2019) e che quindi non subì quel processo di frammentazione e disgregazione propedeutico alla nascita di piccole bande autonome, come successe invece nell’Inghilterra post-tatcheriana (De Biasi 2008). Anche se, a livello italiano, il mondo degli skins neonazisti non ebbe molta fortuna politicamente, questo non si può dire a livello internazionale. Infatti, soprattutto in contesti dove mancavano partiti o strutture politiche organizzate a destra, come ad esempio nell’est Europa o negli Stati Uniti, le reti telematiche di coordinamento oppure i network musicali neonazisti internazionali riuscirono a federare e tenere insieme singole bande o realtà territoriali per più di vent’anni, come ad esempio il circuito Blood and Honour o la Hammerskin Nation, organizzando raduni annuali e animando forum criptati e webpage internet. In questo processo le band musicali politicizzate furono un tassello fondamentale, molto più delle specifiche identità territoriali, in tutti i contesti europei occidentali (Mantuano 2013; Marchi 1997); mentre nell’ex-Europa del Patto di Varsavia giocarono un ruolo fondamentale le bande da stadio, che pur aderendo per decenni allo stile naziskin, avevano un proprio nome, logo, colori e pratiche dello scontro (Fielitz e Laloire 2016). Le crew di teste rasate, concludendo, per quanto si siano sforzate di essere un modello di partecipazione politica giovanile alternativo, a destra, alla forma partito novecentesche e meno elitario dei gruppi degli anni Settanta, non giunsero mai a valicare i confini della loro sottocultura identitaria e non riuscirono a togliersi di dosso l’immagine di rozzi balordi violenti: non si sviluppò mai, insomma, un meccanismo inclusivo che potesse arruolare un numero di persone consistente. Tuttavia, per quello che ci interessa qui, fu proprio in questo modo che l’immaginario del teppista di strada (sia esso skin razzista o hooligan) entrò stabilmente nell’immaginario della destra giovanile radicale italiana. 47

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6. Tortuga Da metà degli anni Duemila, invece, una parte del neofascismo italiano produsse un vero e proprio salto di qualità metapolitico e mitopoietico, strutturando in modo diffuso territorialmente, e decisamente più inclusivo, un nuovo modo di intendere l’aggregazione; un processo che seppe usare le possibilità del web 2.0 e una serie di sperimentazioni comunicative/identitarie, che con un approccio professionale e pubblicitario, rivoluzionarono completamente il modo di militare, da giovani, a destra. Di questa rivoluzione culturale il neofascismo romano ne fu culla e motore: nella Capitale, infatti, si erano prodotti nei primi anni Novanta sia i tentativi più moderni di strutturare in senso fortemente ideologico la nuova aggregazione sottoculturale naziskin (con il Movimento Politico Occidentale), sia di costruire un nuovo immaginario ribelle all’altezza dei tempi della Globalizzazione (con l’esperienza lombardo-romana di Meridiano Zero e successivamente il collettivo Fahrenheit 451). Proprio da quest’ultimo gruppo, nato nella seconda metà dei Novanta, partì quel progetto metapolitico che portò alla nascita nel 2002 dell’area della «Destra Non-Conforme» prima a Roma e poi, come fazione interna alla Fiamma Tricolore, in tutta Italia a partire dal 2005: il risultato di tutto questo divenne, dal 2008 a oggi, il movimento/partito CasaPound Italia. Va sottolineato sicuramente che questa non fu una solitaria traversata del deserto; come hanno infatti sottolineato gli studi di Caldiron e Revelli; infatti, tutto ciò poté avvenire così in fretta e senza ostacoli solo grazie al nuovo clima culturale e alle sinergie costruite dalla particolare compagine di “destra plurale” che governò il Paese nella cosiddetta Seconda Repubblica (19942012) a partire dalla prima vittoria della coalizione berlusconiana del marzo 1994. Tuttavia, non possiamo non sottolineare come, seppur in un quadro di lassismo giudiziario verso la violenza di destra e di dichiarate collaborazioni politiche tra partiti governativi e gruppi neonazisti, l’area aggregatasi intorno al progetto CasaPound portò una innovazione complessiva e originalissima, a differenza di altre esperienze storicamente parallele come il partitino Forza Nuova (Germinario 2001). Una parte del successo di questo mondo si basò sulla costruzione, per l’appunto, di un immaginario di «nuovi teppisti» intesi come giovani antisistema, costruendo questa identità con un metodo mitopoietico, a partire dal modo di stare insieme e di autorappresentarsi come ribelli, con l’ossessione pubblicitaria di essere accattivanti, dall’aspetto fresco, ma fermamente ideologici. Come collante fu utilizzata una rilettura complessiva dell’esperien48

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za del primo fascismo italiano, del futurismo, del dannunzianesimo e del nazionalismo interventista: un progetto efficace soprattutto in un contesto storico di ridefinizione della memoria civile e pubblica del Paese, avviata, come si diceva, dai partiti del centrodestra. Fondamentale in questo fu la costruzione di una comunità giovanile che sapesse partire dalla metapolitica per strutturare una fanatica militanza, come sottolineato da molti studi di carattere antropologico e sociologico (Di Nunzio e Toscano 2011; Albanese et al. 2014; Cammelli 2015) o storico-politologico (Rosati 2018; Germinario 2018). Tutto questo seppe sfruttare le possibilità propagandistiche del web (e in particolare dei social network) (Baldini 2019) e, più recentemente, la solitudine generazionale di fronte alla precarietà giovanile dilagante e alla mancanza di una adeguata offerta politica (Raimo 2018). Non è un caso però che, prima della “Santa Teppa” mussoliniana, a venire utilizzato da questo mondo fu l’immaginario guerriero e libertario della pirateria del xviii secolo, narrato in senso comunitario chiuso e dannunziano, occhieggiando (e distorcendolo in senso gerarchico) il concetto di TAZ (Bay 1991) e, come venne direttamente affermato in una pubblicazione del gruppo, copiando, da destra, l’esperienza dei centri sociali italiani e del movimento dei «disobbedienti» (Di Tullio 2006). Non a caso il primo circolo metapolitico di questo mondo venne chiamato Cutty Sark, un vascello pirata, e molti «centri sociali di destra» in gito per l’Italia vennero denominati in senso piratesco: la Perla Nera (Novara), Roccabruna (Milano), Santa Pirateria (Aosta), la Cannonniera (Bergamo), Barbanera (Cesena), Kraken (Bari) e così via. Venne inoltre dato alle stampe proprio nel 2008, quando formalmente nasceva CasaPound come organizzazione nazionale, un romanzo politico sui pirati, Tortuga, scritto non a caso, da Gabriele Adinolfi, un vecchio neofascista romano esule all’estero per decenni perché inseguito dalla giustizia italiana, diventato poi mentore da fine anni Novanta dell’area politica in questione. Sempre in questo solco immaginifico si volle formare un ulteriore ben studiato mix tra pirati, ardimentosi soldati della Prima guerra mondiale, legionari fiumani, squadristi fascisti, collaborazionisti europei e militanti neofascisti morti negli anni Settanta, a cui poi si aggiunse la sussunzione depotenziante di ribelli simbolo di altri contesti politici (come Che Guevara o Bobby Sands) o di suggestioni letterario-cinematografiche più recenti, dal già citato Fahrenheit 451 alla pellicola Fight Club (Germinario 2018). Una fabbrica, prima metapolitica e poi militante, di disciplinati “fascisti del terzo millennio” che rappresenta sicuramente la sintesi storico-ideolo49

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gica più articolata a destra del concetto e dell’immaginario di “teppa”, non a caso proprio a partire da quella “Santa Teppa” esaltata dal ventunenne Benito Mussolini all’inizio del Novecento.

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«do you really believe in that shit, combo?» sottoculture giovanili, antirazzismo e vita quotidiana di Andrea Caroselli e Pasquale Schiano

I primi skin ebbero delle polemiche coi compagni militanti del Socialist Worker Party perché il compagno militante gli diceva “ma tu non fai un cazzo”, e lo skin rispondeva “no, io forse non faccio un cazzo ma vedi, il mio migliore amico è nero, suono in una band […], porto le spille degli Specials, quando vado in giro tutti sanno chi sono. Io faccio più di te! (Valerio Marchi)

Come testimoniato dal rinnovato interesse dell’industria discografica e di quella editoriale, da alcuni anni a questa parte le sottoculture giovanili degli anni Settanta e Ottanta hanno mostrato una nuova significativa attualità. Nell’imperante atmosfera “retromaniacale” che sembra caratterizzare il presente, il 2019 ha costituito una data altamente simbolica per i giovani (e meno giovani) kids di tutto il mondo con la celebrazione di una duplice ricorrenza. Nel 1969, infatti, grazie al successo di artisti come Desmond Dekker e Jimmy Cliff, il reggae si imponeva nelle classifiche del Regno Unito, offrendo ai giovani della working class britannica una nuova colonna sonora in grado di accompagnare e raccontare la propria esperienza quotidiana, ma anche nuovi fondamentali riferimenti stilistici e culturali. Un incontro, quello tra proletariato giovanile e cultura caraibica, che dallo spirit of ’69 avrebbe portato in dieci anni esatti allo ska revival del 1979 e alla two-tone revolution, vedendo germogliare – sulle piste da ballo prima e per le strade poi – un inedito sodalizio meticcio e policulturale tra i kids della classe operaia bianca e i propri coetanei delle comunità nere afrocaraibiche. Eppure, anche se le sottoculture degli anni Settanta e Ottanta «refuse to die» (Bushell 2019), continuando a influenzare pratiche culturali e stili di vita della gioventù contemporanea, è difficile non osservare quanto abbiano assunto un posto sempre più “residuale”, perdendo molti dei connotati di massa e popolari che avevano segnato prima la loro nascita in Gran Bretagna e, in seguito, la loro esportazione/ibridazione nei più diversi contesti globali. A eccezione dello stile casual, la cui vitalità ha accompagnato il pro53

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tagonismo conflittuale del movimento ultras e che, inevitabilmente, ne vive le difficoltà odierne (esasperate evidentemente dalla scure della pandemia), le attuali trasformazioni estetiche e stilistiche delle culture giovanili appaiono oggi ignorate o guardate con malcelata superficialità. Se la tradizione sotterranea che collegava questo “dialogo in gesti tra le classi popolari” (Bollon 1990) sembra però essersi effettivamente interrotta, ciò non impedisce di riconoscere una nostra incapacità a seguirne le discontinuità, le rotture e le importanti mutazioni. Sono proprio queste le motivazioni che, attraverso questo breve contributo, ci spingono a ripercorrere alcune delle tappe più significative dell’irrequieta vicenda delle sottoculture giovanili tra le fine degli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta, cercando di mostrare come – ben oltre il suo mero rilievo storico-sociologico – questa possa rivelarsi ancora utile per ripensare limiti e contraddizioni dell’antirazzismo contemporaneo. Ritornare a riflettere sull’emersione e la diffusione di una delle sottoculture più irriducibilmente proletarie (nello stile, nell’identità, così come nelle sue incoerenze) non è per noi l’ennesima occasione di stabilire dei modelli, delle pietre di paragone buone solo a nutrire uno sguardo malinconico sul passato, ma essenzialmente una questione di metodo. Vi sono almeno due ordini di ragioni che possono rendere l’analisi di quel momento storico (in tutta la sua [in]attualità) particolarmente produttiva per l’oggi. In primo luogo, pur abbandonando l’idea di una temporalità lineare e progressiva, è possibile constatare come in quegli anni si gettino le fondamenta per l’apertura di un ciclo reazionario che è lungi dall’essere esaurito. Margaret Thatcher, al di là della sua stessa figura, è diventata un significante della contemporaneità, capace di suscitare ancor oggi rabbie e passioni di ogni genere. Del resto, il tentativo di governare la crisi (economica, sociale, politica, postcoloniale) della Gran Bretagna spostandola su di un lessico morale e di ordine pubblico, di creazione di folk devils e di mancanze (di costumi e di cultura) continua a influenzare, pur nelle sue differenze, il presente. In particolare, per quanto riguarda l’Italia, Miguel Mellino (2019) ha messo in evidenza fino a che punto la prospettiva di un lavoro come quello di Policing the Crisis (Hall 1978) non finisca di rivelarsi produttiva per l’analisi politica. In secondo luogo, ed è questa la dimensione che più interessa il nostro saggio, il fondamentale lavoro di memoria del culto di coloro che ancor oggi ne tengono viva l’attualità, sembra però aver lasciato nell’ombra alcune delle principali questioni che hanno accompagnato il dibattito sulla nascita delle culture giovanili del secondo dopoguerra. Delle tracce che ci conducono a interrogare le forme dell’attivismo contemporanee che, attraverso un movi54

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mento speculare a quello mediatico e di governo, rischiano spesso di essere schiacciate su un’agenda morale distante da quanto si gioca a livello delle soggettività reali. Ricordata orgogliosamente (e a buon diritto) dai suoi protagonisti come la prima sottocultura autenticamente meticcia e antirazzista, infatti, la galassia two-tone prese tuttavia forma attraverso una dialettica tra coscienze ambigue e “spurie”, nella cui cornice i temi della razza, della classe e del genere si intrecciavano in maniera estremamente complessa e ambivalente. Un nodo problematico oggi largamente rimosso dal contemporaneo dibattito sul lascito delle sottoculture giovanili, entro il quale queste ultime vengono spesso piegate a una rappresentazione stereotipata e macchiettistica, che tende spesso a banalizzare la complessità delle genealogie di cui sono espressione. Una dinamica che, se da un lato non sorprendentemente ritroviamo all’opera nel contesto del discorso mediatico – che a fronte della recente recrudescenza della violenza razzista su scala globale è tornato in più occasioni non solo a rievocare la figura dello skinhead nazionalista e xenofobo, ma a scaricare le responsabilità del razzismo sulla presunta “ignoranza proletaria” – dall’altro sembra riprodursi anche sul piano delle pratiche e dei discorsi dei movimenti che, in maniera più o meno esplicita, si richiamano alla tradizione dell’antirazzismo radicale. Se nel primo caso, infatti, lo skinhead è storicamente assurto a incarnazione paradigmatica del folk devil razzista, in grado di descrivere e «sintetizzare» le pulsioni xenofobe e autoritarie degli strati più abietti del proletariato urbano (contestualmente invisibilizzando le più sottili forme di razzismo “strutturale” di matrice istituzionale), d’altra parte è proprio sul rovesciamento speculare di questa rappresentazione che ha gradualmente preso forma la costruzione pratico-discorsiva del «Soggetto» antirazzista. Un soggetto modellato intorno al prototipo del militante bianco e middle class della sinistra marxista, ai cui rigidi canoni finiscono con lo sfuggire non di rado proprio le traiettorie biografiche di quanti nella violenza razzista vedono una costante della propria esperienza quotidiana. Una lezione oggi dimenticata, che nel corso degli anni Settanta e Ottanta divenne tuttavia ben chiara alla sinistra antirazzista britannica, che proprio per questa ragione scelse di affrancarsi dalle consuete strategie ereditate dal Communist Party of Great Britain per dare progressivamente spazio a nuovi attori e nuove pratiche esito di una «awkward alliance» (Weight 2013) tra mods, punks, skinheads e rude boys. Kids bianchi e neri uniti non tanto da una concezione dell’antirazzismo inteso nei termini di una prassi militante ideologicamente orientata, quanto piuttosto da una poetica della strada, che, per così dire, in sé stessa trovava le proprie ragioni antirazziste, attraverso 55

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uno stile di vita irriverente da opporre al grigiore della british way of life e alle ragioni mercantili e coloniali allora emergenti come risposta alla crisi del capitalismo britannico. Ripercorrerne la travagliata storia può allora rivelarsi utile, non per fondare teoricamente l’ennesima “dottrina anticapitalista”, ma per ritrovare una politica che sappia muoversi e ritrovarsi, senza moralismi di sorta, tra le spinte, più profonde, delle molto spesso incoerenti passioni quotidiane.

2. Stili working class e rabbia giovanile Intorno alla metà degli anni Sessanta la cultura Mod comincia a manifestare i primi segni di esaurimento. Dopo aver incarnato l’irruzione arrogante della gioventù working-class nei nuovi templi del consumo attraverso la riappropriazione dei suoi stessi simboli, è l’illusione di poter realizzare, stilisticamente, il mito della società dell’affluenza che inizia a sgretolarsi. Quadrophenia (1979), il film culto dell’epoca, riesce forse meglio dei tanti bei saggi scritti sull’argomento a cogliere e a trasmettere visivamente il vissuto di un vicolo-cieco esperienziale: Jimmy, il protagonista, scopre che Ace, il mito mod della sua adolescenza, il ragazzo più grande ammirato nelle rituali scazzottate delle Bank Holiday, durante il resto della settimana altro non è che l’umile facchino di un hotel di lusso. È il duro scontro con la materialità della Gran Bretagna dell’epoca che, al di là della narrazione della classness society, ai suoi kids continua a riservare lavori umili, mal pagati e, di lì a qualche tempo, un ritorno prepotente di una disoccupazione dilagante. Impossibilitato a continuare a perseguire «una diversità che non è la sua» (Chambers, 1985), Jimmy lancerà il proprio scooter giù dalle bianche scogliere di Beachy Head, simbolo “gemello” di Dover, a rappresentare plasticamente le radici mistificate dell’epopea nazionale. È necessario dunque partire da qui, e dai cambiamenti strutturali che in quegli anni attraversano la società britannica, per comprendere le circostanze specifiche da cui è nata e si è diffusa la sottocultura skinhead. Mentre una parte del modernismo viene sempre più fagocitata «nell’immagine patinata di Carnaby Street» (Clarke 1973), trasformandosi da uno stile di vita a un più innocuo stile di consumo,1 alcuni ragazzi dell’East End londinese 1  Crediamo non ci sia esempio migliore delle riflessioni che lo stesso Roger Daltrey degli Who rese pubbliche durante un’intervista per Sound nel 1973, in cui dichiarò che, a partire dalla fine degli anni Sessanta, il gruppo aveva ormai perso quel «working class feeling» che l’aveva contraddistinto in passato.

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lentamente esasperano le caratteristiche più riconoscibilmente proletarie della sottocultura, reagendo alla congiuntura attraverso un fiero ritorno al proprio quartiere, al territorio, al pub di zona. Sviluppatasi da una costola del movimento mod, l’hard-mod, allo scopo di salvaguardarne lo spirito working class dalle influenze hippie provenienti dall’altra sponda dell’Atlantico, la sottocultura skinhead percorre quindi il cammino di un «ritorno alle origini», riprendendo, enfatizzando e in alcuni casi rovesciando diversi dei tratti stilistici che avevano segnato gli albori del movimento e situandosi agli antipodi del progressivo imborghesimento dei mods. La ricerca di un’estetica curata e impeccabile, la territorialità e l’attaccamento morboso al quartiere, l’attitudine violenta e rissosa sono i sintomi di un tentativo di restaurare l’immaginario virile e “guerriero” dei primordi. È assai nota la felice osservazione di Phil Cohen, secondo cui gli skinhead hanno rappresentato «una sistematica inversione del Mod – laddove i mod esplorano una traiettoria sociale verso l’alto, gli Skinhead esplorano la condizione Lumpen» (Cohen 1972), che racconta di un’esplorazione che è anche un tentativo di recuperare un senso di comunità minacciato da una serie di ristrutturazioni socio-economiche che imprimono i loro marchi sulla carne viva della società britannica del dopoguerra. Difatti proprio l’East End, come molti altri working-class neighbourhood del paese, sta attraversando in quel momento un processo di rapida mutazione che ne mette in crisi i tradizionali equilibri. I nuovi progetti di sviluppo ridisegnano l’ecologia urbana della zona con spostamenti di popolazione da un quartiere all’altro e gli edifici a più piani, ad alta densità abitativa e concepiti sul modello nucleare della famiglia borghese, disgregano le forme allargate di controllo del vicinato fino ad allora prevalenti. Lo spazio comune, in particolare la strada come luogo di svago per i ragazzi, è soppiantato da arterie sempre più trafficate e molti dei piccoli commerci di zona sono costretti a chiudere dal dilagare delle catene commerciali. Com’è evidente, non ci troviamo di fronte a dei neutri cambiamenti ambientali, ma a dei processi che riflettono e partecipano delle profonde trasformazioni economiche dell’epoca, destrutturando i meccanismi di riproduzione del proletariato urbano britannico. L’incremento delle tecniche di produzione di massa, favorito dall’apporto delle nuove tecnologie, ha tra i suoi effetti una polarizzazione occupazionale per cui, mentre alcuni settori più “rispettabili” della working-class riescono ad approfittare della situazione, la maggioranza, non disponendo delle qualifiche adatte, vede un progressivo degradarsi della propria posizione lavorativa verso mansioni sempre più meccaniche, routinarie e alienanti. (Clarke, 1973, 1979). È principalmente tra i suoi figli, chiusi tra le secche di un rapporto storicamente conflittuale 57

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ed escludente con l’istituzione scolastica e un futuro i cui contorni diventano sempre più grigi, che si diffonderà l’abitudine di tagliarsi i capelli, mettere un paio di scarponi di pelle, dei jeans (preferibilmente Levi’s) e una camicia button-down, per andare a godersi e ad appropriarsi della giornata.2 Eppure, la riaffermazione collettiva e orgogliosa di una «radicata mitologia proletaria» (Chambers 1985) coglie solo una parte della storia skinhead. Per non cadere nella retorica dell’eccezionalità che molto spesso caratterizza la descrizione giornalistico/sensazionalistica dei giovani proletari, è importante sottolineare, come ricorda Valerio Marchi (1998), quanto alcune delle caratteristiche ascritte ai giovani seguaci del culto (territorialità, alcuni simbolismi aggro, la passione per il football) in realtà non si discostino molto «dai tradizionali canoni e stereotipi della gioventù operaia più turbolenta», espellendo dalla storia ciò che ha effettivamente distinto questo sognato ritorno alle origini, sarebbe a dire l’ibridazione con diverse espressioni culturali di provenienza jamaicana. Infatti, alle trasformazioni socio-economiche che investivano la Gran Bretagna e, nel caso specifico, l’East End e i quartieri londinesi, bisogna aggiungere il decisivo aumento di famiglie immigrate dalle ex-colonie, soprattutto afro-caraibiche, i cui figli si rendono immediatamente protagonisti della diffusione stradaiola di stili e riferimenti radicati in un dialogo diasporico con la Jamaica parentale. È in questo contesto che i kids, nelle loro sperimentazioni, guardano e si ispirano ai propri coetanei della comunità afrocaraibica, tra cui spopola il culto dei rude boys – giovani sottoproletari dal piglio gangsteristico perennemente in bilico tra disoccupazione e street hustling, le cui turbolente vicende biografiche si dipanano fra la strada e il dancefloor. La figura del rude boy, e la colonna sonora che lo accompagna dalle periferie di Kingston, dallo Ska fin soprattutto al Reggae, affascinano e trovano terreno fertile nelle periferie postcoloniali di Londra, in cui sembra fornire l’unica evasione a una quotidianità sempre più opprimente. Non è possibile, infatti, comprendere appieno alcune scelte dell’abbigliamento 2  La questione dell’abbigliamento meriterebbe un saggio a parte (vedi Knight 1982). È infatti paradossale come nell’immaginario comune (complice secondo alcuni protagonisti la deriva bonehead) gli skinhead siano ridotti a figurine trasandate, per cui una “boccia” e dei pantaloni militari sarebbero sufficienti. In realtà, il rapporto con lo stile e l’eleganza è sempre stato segnato da un’attenzione quasi maniacale e la descrizione che qui abbiamo superficialmente tratteggiato non rappresenta che una sintesi della tenuta giornaliera, prontamente trasformata nel caso delle serate. Un’attitudine che, come ricorda Phil Thornton (2004 [2003], 5), non caratterizzò solo questa sottocultura e che è espressione di uno dei tratti più duratori dell’etica proletaria tradizionale, attraversata da narcisismo ed edonismo sin dall’epoca Vittoriana in cui gli «scallywag del diciannovesimo secolo, gli scuttler e gli hooligan, cucinarono un marameo sartoriale alla faccia dei loro supposti superiori nella scala sociale».

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skinhead senza guardare anche ai pantaloni a mezza gamba, così come al taglio corto (il celebre skiffle), che spopolano tra i giovani di origine afrocaraibica, ed è nelle sale da ballo, tra l’alcol e qualche scazzottata, ritmate dalle musiche di Desmond Dekker, Derrick Morgan e Prince Buster, che si intrecciano, si tessono e, come vedremo, si disfaranno anche, i legami tra i kids e le culture giovanili. È nella convivenza quotidiana e nell’esposizione a pressioni per certi versi simili che bisogna rintracciare quella matrice black che abita la sottocultura e che consente di affermare, con le parole di Gary Bushell, che lo skinhead nasce «da un matrimonio misto tra la cultura jamaicana e la cultura della classe operaia bianca di Londra, la cultura cockney» (Don Letts 2015). Un sodalizio che prese forma, tuttavia, lungo una traiettoria tutt’altro che armoniosa e lineare. Tra i primi, approfondendo il solco di un cammino già iniziato dai mods, a rompere profondamente con alcune logiche di segregazione razziale, gli skinhead creano uno stile che vede fianco a fianco ragazzi working class bianchi e neri, che, allo stesso tempo, come racconta vividamente George Marshall (2019 [1991]), possono divertirsi a dare «un bel calcio in culo» ai compagni studenti che organizzano appelli ai lavoratori. Anche gli omosessuali, o comunque chiunque apparisse un po’ weird, possono tramutarsi in un passatempo divertente per riempire la noia del doin’ nothing (Corrigan 1979), così come, episodi immediatamente strumentalizzati dai mass-media, alcuni membri della comunità anglo-pakistana. Prima sottocultura giovanile meticcia e policulturale in senso stretto, essa ha quindi intrattenuto fin dalle sue origini una relazione estremamente ambivalente con il tema della razza: da un lato il costante richiamo alla cultura giamaicana e l’affratellamento con i rudies, dall’altro l’ossessione identitaria e la postura canzonatoria e prevaricatrice nei confronti di qualsivoglia espressione non gradita di alterità. Una dinamica su cui si accesero ben presto i riflettori dell’apparato mediatico e dell’opinione pubblica, che se da un lato concorsero ad alimentare le cicliche ondate di moral panic descritte dai ricercatori del cccs di Birmingham nel seminale Policing the Crisis (1978), dall’altro contribuirono anche a consolidare un’immagine semplicistica e banalizzante del fenomeno, schiacciandolo su una rappresentazione stereotipata e spesso stigmatizzante, disconoscendone l’intrinseca complessità. In ogni caso, sarà proprio il decennio successivo a mostrare come, di fronte alla diversità di tutte queste pulsioni, la sola pratica realmente efficace sia quella che si dipana lungo il percorso dello street-level e che, lontana dalle diatribe morali e moralistiche, ha familiarità con chi contraddittoriamente lo attraversa. 59

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3. Babilonia brucia. Periferie insorgenti nel cuore dell’Impero Come hanno accuratamente mostrato Paul Gilroy ed Errol Lawrence nel saggio Two-Tone Britain (1982), è solo tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta che le tensioni che avevano fin qui percorso in maniera per così dire “sotterranea” l’inquieta relazione storica tra le sottoculture giovanili e i temi dell’identità e della razza divennero chiaramente visibili all’interno della sfera pubblica. Benché l’interesse e la preoccupazione mostrati dalla società civile per le pratiche culturali e gli stili di vita dei giovani della classe operaia inglese costituissero un fenomeno tutt’altro che recente, le più o meno variegate e radicali forme di conflittualità di cui questi si erano fatti portatori erano state tematizzate, fino alla seconda metà del Novecento, in termini astrattamente “generazionali”, piuttosto che propriamente socioculturali. In questo modo, anche se indubbiamente a partire dagli scontri razziali di Notting Hill del 1958 imprese e malefatte dei kids cominciarono a occupare sempre più spazio sulla stampa e nei notiziari locali, lungi dall’essere percepite come una minaccia all’ordine sociale, potevano essere ancora derubricate come «un generico problema di cattivi genitori e figli indisciplinati» (Gilroy, Lawrence 1982), più che come «una minaccia allo stato, all’ordine e alle leggi» (Clarke, Hall et al. 1975). Un immaginario destinato tuttavia ad andare in frantumi con la più generale crisi dell’egemonia del capitalismo britannico post-bellico e dell’ordine del discorso che questo aveva contribuito a consolidare. Con il declino – economico, ma anche politico, sociale e culturale – che l’Impero Britannico avrebbe conosciuto dalla fine degli anni Settanta, il repertorio lessicale e retorico attraverso il quale, nel discorso pubblico, venivano tradizionalmente evocate le questioni del disagio e della violenza giovanile andò incontro a una brusca trasformazione, riorganizzandosi intorno ai temi della classe e della razza. Se in un clima di pace sociale e crescita economica l’indolenza e l’arroganza dei giovani della working class potevano essere rappresentate come problematiche la cui gestione era deputata alle famiglie e alle altre agenzie del controllo sociale informale, infatti, in un’atmosfera di recessione e sfaldamento dei legami comunitari queste si trasformarono rapidamente nell’allarmante sintomo di una più generale crisi del patto sociale britannico e della British way of life (Cohen 1982). Una crisi destinata a tradursi in un repentino spostamento a destra del senso comune, ma anche – come si è visto – nella graduale emersione di nuove pratiche e modelli culturali, frutto della contaminazione tra forme della socialità, identità e stili di vita del proletariato giovanile bianco e di quello afrocarai60

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bico. In questo contesto, se la progressiva razzializzazione del discorso sulle sottoculture si configura come il “naturale” corollario di un più articolato ed esteso processo di trasformazione dell’immaginario collettivo, dall’altro deve essere letta anche come l’esito di una strategia discorsiva finalizzata al governo dei processi di ristrutturazione economica e sociale che il Paese sta attraversando. Paradigmatico, da questo punto di vista, è proprio il caso del “fenomeno” skinhead e della singolare traiettoria che le sue rappresentazioni avrebbero conosciuto nell’arco del decennio che va dalla sua nascita – fatta risalire dai suoi cultori al mitico anno 1969 – fino al revival della fine degli anni Settanta. Lungi dal configurarsi come il semplice risultato di una lettura sociologicamente ingenua, questa rappresentazione si è rivelata in realtà densa di implicazioni problematiche che hanno condizionato in profondità il discorso e le pratiche dell’antirazzismo contemporaneo e la sua relazione con le culture e le politiche giovanili. La razzializzazione del discorso sulle sottoculture e, in particolar modo, della rappresentazione del movimento skinhead, interviene infatti in una congiuntura storica estremamente concitata e convulsa, durante la quale la società britannica si trova al crocevia di fondamentali trasformazioni, segnate dal declino dei tradizionali modelli di regolazione e pianificazione di matrice fordista e dall’irruzione di un nuovo paradigma organizzativo nelle relazioni tra Stato, mercato e società civile. Sono gli anni che condurranno alla contro-rivoluzione liberale thatcheriana, nel corso dei quali il crescente senso di insicurezza e precarietà che comincerà a pervadere sempre più estesi strati del proletariato inglese sarà incanalato verso una nostalgia dell’Impero che non di rado assumerà le forme del risentimento e della violenza razzista. Una violenza di cui i pur frequenti attacchi dei giovani skinheads ai membri della comunità asiatica e delle altre “minoranze”, costituiscono indubbiamente una delle espressioni più clamorose e plateali, ma certamente non quella dal più devastante impatto sociale. Pestaggi, aggressioni e altre manifestazioni di quello che potremmo definire come razzismo “di strada”, infatti, si sommavano alla repressione poliziesca, alla carcerazione di massa, alla segregazione scolastica e abitativa e ad altre consuetudinarie esibizioni di un non meno brutale razzismo “della vita quotidiana” di matrice sociale e istituzionale. Articolazioni diverse di un medesimo dispositivo razzializzante di governo delle popolazioni che mostrano la sostanziale continuità tra le molteplici forme che il razzismo può concretamente assumere, ma che allo stesso tempo non si sono sempre rivelate in grado di generare la medesima risonanza e gli stessi effetti sul piano del discorso pubblico. Al contrario, la costante spettacolarizzazione della violenza dei giovani dalla testa rasata 61

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attuata dagli apparati mediatici ha piuttosto favorito una dinamica inversa, che proprio a partire dalla rappresentazione dello skinhead come folk devil razzista ha proceduto alla sistematica ripartizione tra «una sua forma rozza e una sua forma rispettabile» (Cohen 1982). La prima (oggetto di attenzione pubblica e panico morale) fondata sulla mitologia identitaria (e proletaria) della comunità e del territorio, la seconda incentrata sul registro liberal-democratico della proprietà privata e dello Stato di diritto. L’una riconducibile al carattere intrinsecamente violento e deviante delle forme delle socialità sottoculturali giovanili, l’altra giuridicamente imposta e moralmente giustificata dalle ragioni del law and order. Mentre nell’immaginario collettivo prende forma e si consolida una rappresentazione che tende alla semplicistica equazione tra sottocultura skinhead e violenza razzista, in modo solo apparentemente paradossale, questa stessa rappresentazione viene quindi messa contestualmente al lavoro all’interno del discorso dominante per sancire una legittimazione democratica delle nuove politiche razziali dell’ordine pubblico e del controllo sociale che il Regno Unito avrebbe sperimentato a partire dall’elezione di Margaret Thatcher nel 1979. Abbiamo osservato come i contesti e i riferimenti da cui prende forma il culto skinhead siano l’effetto diretto di una quotidianità meticcia e policulturale e come, allo stesso tempo, ogni disconoscimento di tali dimensioni equivalga allora a prestarsi a una forma di “sbiancamento” della storia. Si tratta dunque di comprendere quanto tali semplificazioni mediatiche, strumentalizzando le contraddizioni esistenti, abbiano partecipato a una più generale strategia di esternalizzazione del razzismo, proiettandone l’origine nella figura stereotipata del barbaro proletario. Il processo di vera e propria criminalizzazione degli adolescenti dalla testa rasata – e, più in generale, di tutto un vasto ventaglio di pratiche sociali a essi più o meno direttamente riconducibili – se da un lato culminerà in una narrazione tesa a fare dello skinhead una sorta di idealtipo fascio-razzista, dall’altro contribuirà alla progressiva normalizzazione di un everyday popular racism destinato negli anni a venire a determinare la quotidianità del proletariato giovanile nero e asiatico. Un discorso comodo alla stessa sinistra istituzionale che ebbe in questo modo l’occasione di esimersi dal «compito di esaminare, per non dire contestare» (Gilroy, Lawrence p.142) la coestensività del razzismo alla stessa struttura politico-economico nazionale. D’altronde, come sottolineato da Paul Gilroy (1987), un approccio di questo tipo si è rivelato utile non solo a relegare il razzismo ai comportamenti eccezionali di alcuni fanatici del fascismo, ma a castrare quello stesso protagonismo di cui gli skinhead erano solo uno tra i molteplici attori. Le cronache e le analisi del 62

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periodo ci raccontano infatti di come le più efficaci risposte al tentativo del National Front di fare proselitismo, esaltando la declinazione più nazionalista e xenofoba delle pulsioni di alcune frange di kids, sono da ritrovarsi proprio nelle sperimentazioni e nel ribellismo di quello stesso proletariato giovanile. Una politica di strada, una quotidianità insorgente, che, capace di difendersi e rispondere alla violenza fisica, attraverso la musica, le fanzine e la presa di parola in prima persona, creava culture, multirazziali, giovanili, di classe, che contestavano le radici stesse del mito nazionale. La storia “dal basso” del decennio degli anni Settanta ci restituisce quindi un racconto che rifiuta le semplificazioni e le dicotomie statiche attraverso cui ancora oggi si tende a filtrare gli eventi. Se la pratica del paki-bashing è stata oggetto di grande attenzione, molto meno lo sono state le risposte della comunità anglopakistana che, lungi dal sacrificarsi al ruolo di vittima inerte bisognosa di aiuto a cui spesso viene confinata, si organizzava e autonomamente ribatteva “colpo su colpo”. Sfogliare alcune ricerche etnografiche del periodo permette così non solo di riallacciarsi a una tradizione globale di lotta che pone al proprio centro l’autodifesa come strumento di soggettivazione politica (Dorlin, 2020), ma anche di riflettere su come sia solo nelle narrazioni dominanti (bianche) che il subalterno appare muto e incapace di parola (Spivak 2010). Ed è a partire da una politicizzazione della vita quotidiana, fuori dai linguaggi angusti e istituzionali delle organizzazioni partitiche, che si sono date le possibilità dei molteplici incontri, musicali, culturali, amicali, che hanno portato a esperienze come quella della 2-Tone Records e di Rock Against Racism. In fondo, è proprio una storia di incontri riusciti e incontri mancati, quella che si dipana nelle cronache di quegli anni, tra cacciate di fascisti da concerti, come quello di Hatfield nel 1979, in cui si misura la forza di resistenza delle culture antirazziste conviviali (Gilroy 2004), ed episodi tristemente celebri come quello dell’Hamborough Tavern, in cui il Southall Youth Movement e i giovani e meno giovani angloasiatici del quartiere, assaltano gli skinhead giunti per un concerto Oi!, esito (forse) inevitabile anche delle dosi di veleno instillate da una propaganda mediatica massiva. Se da allora le strade divergeranno e faticheranno a ricongiungersi, i riots che da Brixton hanno infiammato l’intera Gran Bretagna proprio nel 1981, rimangono a ricordarci le potenzialità e le possibilità che attraversano il sottosuolo di Babilonia e rendono forse meno ingenua e astratta l’(in)attualità del grido di Jimmy Pursey, quel If the kids are united che, più di una semplice canzone, voleva essere una prospettiva. 63

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4. «Kids on the streets» Lungo l’inquieta traiettoria storica che dal secondo dopoguerra porta fino ai giorni nostri, fenomeni come il two-tone e la sottocultura skinhead, pur esaurendo progressivamente la propria spinta popolare e il proprio carattere “di massa”, non sono mai scomparsi del tutto dall’orizzonte delle culture giovanili, sopravvivendo nel tempo benché spesso all’interno di piccole “nicchie” identitarie. Oggi, a oltre quarant’anni di distanza dal loro esordio, gruppi come Specials, Selecter e Madness calcano ancora – con alterne fortune – i palchi di tutto il mondo, etichette discografiche leggendarie come la Trojan Records e la Studio One continuano a ristampare vecchi classici ska e rocksteady e oggetti cult come il giubbotto Harrington e gli anfibi Dr. Martens sono ancora parte integrante della “divisa d’ordinanza” di migliaia di kids. Tuttavia, piuttosto che limitarsi a uno sguardo romantico verso un periodo di dirompente creatività culturale, tornare a quel momento può rivelarsi produttivo soprattutto per imparare da delle esperienze che hanno radicalmente messo in crisi il rapporto rigido e dogmatico con cui partiti, intellettuali e, più in generale, la sinistra militante quotidianamente interpretavano l’impegno politico. Se da un lato, infatti, il terremoto sottoculturale che scosse il Regno Unito negli anni dell’austerità thatcheriana sembra ricordarci, citando stavolta gli Angelic Upstarts, la leggerezza sovversiva dei kids on the streets – all you kids black and white together we are dynamite –, dall’altro esso mostra anche che quest’unità non può considerarsi naturale o spontanea, né tantomeno costituisce il punto di approdo di un processo di soggettivazione lineare e progressivo che attraverso l’incubatore del partito o dell’organizzazione militante produce il “Soggetto” antirazzista. Al contrario, la “bizzarra alleanza” che a partire della seconda metà degli anni Settanta cominciò a prendere forma tra cultura cockney e cultura giamaicana dovrebbe essere pensata come l’esito di un percorso estremamente tortuoso e non privo di contraddizioni, lungo il quale legami e relazioni si tessevano (e si disfacevano) lungo la linea degli immaginari, degli stili di vita e delle pratiche culturali, prima ancora che lungo quella – come ricorda Gilroy (1987), tradizionalmente ritenuta prioritaria a sinistra – della classe. Particolarmente significativa, da questo punto di vista, è a nostro avviso la singolare parabola del movimento skinhead, la cui immediata stigmatizzazione da parte degli apparati mediatici e istituzionali, se da un lato si risolse in una comprensione sostanzialmente semplicistica e banalizzante del fenomeno, dall’altro finì con il compromettere la stessa capacità analitica e organizzativa della sinistra marxista, che per lungo tempo si rifiutò 64

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di riconoscere l’essenzialità dei temi della razza, dell’identità e della cultura nel contesto di una progettualità politica operaia e “di classe”. Assecondando la narrazione dominante in base alla quale il razzismo rappresentava sostanzialmente un problema di ignoranza e inciviltà riguardante gli strati più marginali della società – di cui gli adolescenti dalle teste rasate rappresentavano naturalmente il paradigma – le tradizionali organizzazioni della sinistra comunista e socialista non solo rinunciarono ad articolare un’approfondita serie di analisi del razzismo strutturale che attraversava la società britannica, ma finirono anche con l’ignorare per lungo tempo la centralità di quelle stesse sottoculture giovanili nella sperimentazione di nuove pratiche culturali e nuove forme di aggregazione meticce e popolari sul terreno della lotta antirazzista.3 In un’intervista effettuata da George Marshall (2020 [1996]), Alex, uno skin berlinese ha affermato: «I media deresponsabilizzano la gente del proprio razzismo, scaricandolo su di noi»; ci sembra che, lungi dall’essere scomparsi, simili procedimenti retorici e legislativi continuino a incidere sul presente, non solo britannico. Si tratta di comprendere fino a che punto l’emersione della questione post-coloniale oggi in Italia, e la contestuale, per così dire, “crisi dell’italianità” che l’accompagna, sia segnata dal tentativo di rigettarne i sintomi al di fuori della sua storia, delle sue istituzioni e della sua economia, in un modo tale da preservarne l’innocenza (bianca). Relegando continuamente il razzismo al problema di alcuni barbari autoctoni a risultare continuamente invisibilizzata è, per così dire, la stessa genealogia razziale delle democrazie occidentali e, inoltre, è così possibile continuare a spostare l’attuale crisi su di un terreno essenzialmente morale. Con questo non intendiamo sorvolare o minimizzare su quanto le pulsioni razziste attraversino trasversalmente la società italiana,4 ma piuttosto sottolineare i vicoli ciechi di sempre più sterili posture didattiche e di un agire politico che, riprendendo le parole di Stuart Hall (2006 [1988], 216), non fa che postulare un referente 3  Benché i media mainstream tendessero a dare pressoché esclusivo risalto ai numerosi eventi di violenza razzista che vedevano protagonisti i giovani della classe operaia bianca, non mancarono in realtà le occasioni in cui questi ultimi – in particolar modo punk e skinhead – si trovarono a fronteggiare la polizia e i nazisti del nf al fianco dei propri coetanei appartenenti alle comunità afrocaraibiche e asiatiche locali. Episodi del genere si verificano ad Hatfield nel 1979 e nel 1981, prima durante i riots di Brixton e successivamente a Leeds, Bolton e Halifax. È quanto emerge da un’inchiesta svolta nel 1981 dal swp nelle aree urbane interessate dai riots, in seguito ripresa da Chris Harman sulle pagine dell’International Socialism. 4  Non c’è bisogno di ricordare quanto tali argomenti possano assumere più o meno importanza a seconda del punto d’osservazione da cui si parla. Per citare Gary Bushell (2010), «a fine distinction to be made after you’d just been clobbered over the head with a half-brick to be sure, but an important one nonetheless».

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immaginario, «il proletario con il suo “corretto” pensiero rivoluzionario» sorto miracolosamente immacolato dalle rovine economiche e sociali del presente. Un terreno sul quale rischia di rimanere impantanato l’attivismo che, proprio rinunciando a muoversi tra le incoerenze, le incomprensioni e i conflitti del quotidiano, sembra sempre più perso tra canoni linguistici, purezze ideologiche e modelli identitari. Sono dei limiti che proprio l’ostinato e concreto protagonismo dei kids contribuì a superare, dando forma a un antirazzismo “della vita quotidiana”, prodotto a partire dall’immediatezza di prassi ordinarie (il divertimento, la musica, la birra, una serata) e che si rivelò il miglior antidoto tanto contro le molteplici forme che il razzismo – dalla strada agli scranni del parlamento – cominciava ad assumere nella società britannica degli anni Settanta, quanto contro ogni forma di antirazzismo “dottrinale”, con i suoi astratti schematismi e le sue rassicuranti semplificazioni. Ed è proprio questo spirito che ci propone una delle scene più potenti di This Is England (2006), il film culto che descrive la Gran Bretagna thatcheriana attraverso gli occhi di Shane, un giovanissimo skinhead. Di ritorno con i suoi amici da un meeting del National Front, tanto grigio quanto il paesaggio che avvolge le periferie in cui crescono, Pukey – uno dei componenti più sfacciati e irriverenti del gruppo – rompe gli indugi e rivolgendosi a Combo domanda: «Do you really believe in all that shit, Combo?». Non di certo una discussione militante su ciò che si è ascoltato o sulla propaganda del partito, e tuttavia capace di provocare la reazione spropositata di Combo e di spazzare via in un sol colpo la cortina fumogena delle strumentalizzazioni di cui erano oggetto i kids. Un antirazzismo senza manuali ma, proprio per questo, più efficace di qualsiasi convegno.

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«do you really believe in that shit, combo?» sottoculture giovanili, antirazzismo e vita quotidiana

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le strade della teppa

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in piazza. etnografia musicale delle piazze nel rap milanese di Fabio Bertoni e Lorenzo De Vidovich

Ma io sto in piazza; vi aspetto in piazza; quanto odio sta piazza; la cosa più triste è che è l’unico posto che posso chiamare casa. (Trauma, 20090)

1. Introduzione: lo studio del rap, oggi Persona di Marracash, Famoso di Sfera Ebbasta, 23 6451 di Tha Supreme, dna di Ghali e Mr. Fini di Guè Pequeno. La sequenza riporta i cinque album più venduti in Italia nel 2020,1 un anno privo di eventi dal vivo (dai concerti alle presentazioni in store) e dove le vendite complessive delle copie fisiche hanno registrato un -27,8% rispetto all’anno precedente. Ciononostante, la classifica finale per questo anno di riferimento, si popola solo di artisti italiani, anche estendendo il ranking alle prime dieci posizioni. I cinque titoli sopracitati appartengono tutti al genere musicale del rap/hip-hop italiano. Due di questi cinque (Persona e 23 6451) risalgono addirittura al 2019, e rappresentano due progetti diametralmente opposti: il primo ha sancito il ritorno a un album da solista per un artista navigato, il secondo è invece il prodotto d’esordio di un giovane rapper e produttore nato nel 2001, capace di raggiungere la vetta di tutte le classifiche di streaming al momento dell’uscita. Oggi, confrontarsi con questo genere implica una riflessione attorno a un prodotto di ampia fruizione, soprattutto fra le generazioni più giovani.2 Il rap (e i suoi generi derivati) ha avuto un portato come prodotto culturale, come forma di leisure e di espressione e, più in generale, come immaginario e lifestyle, tale da aver attratto l’attenzione di numerosi studiosi e ricercatori. In particolare, da più di un decennio negli Stati Uniti sussiste il tentativo di 1  Classifica fimi (Federazione Industria Musicale Italiana) e gfk (Growth for Knowledge): https://www.fimi. it/news/top-of-the-music-2020-persona-di-marracash-e-l-album-piu-venduto.kl 2  Sulla configurazione generazionale degli ascoltatori di rap, si rimanda a una recente lecture di Emanuele Belotti, Birds in the trap. Classi subalterne e industria culturale in Italia: https://youtu.be/Vs8W-SFvmzM

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costruire un campo di sapere relativamente autonomo, che abbia come proprio oggetto e nodo centrale la relazione tra hip hop e società. I cosiddetti hip hop studies hanno il loro momento fondativo con la pubblicazione per Routledge di That’s the Joint!, il primo manuale che colleziona ricerche sul tema (Forman e Neal, 2004). Come accade nei lavori fondativi, il manoscritto risponde a un’esigenza di sistematizzare i lavori già presenti e, al contempo, di rendere visibile un dibattito in corso e una sensibilità che si stava manifestando tra dipartimenti di linguistica, scienze sociali e humanities e che, facendo dell’interdisciplinarietà la propria cifra stilistica, approfondiva dinamiche e trasformazioni culturali a partire dallo studio dell’hip hop e, contemporaneamente, si inserisce in un periodo in cui, a trent’anni dalla sua genesi, la cultura hip hop incontra un’esigenza di storicizzazione e di riconoscimento delle sue evoluzioni. La presenza di autrici e autori non accademici inoltre indica al tempo stesso una tensione. La ricchezza dei legami con il mondo hip hop (con diverse sue figure: giornalisti, produttori discografici, attivisti per i diritti, speaker radiofonici) evidenzia come il tentativo di costruire un campo di sapere vada oltre la dimensione puramente di ricerca, diventando parte di un lavoro di costruzione di reti e di relazioni con protagonisti della produzione culturale e politica, in un campo di ricerca che non si vuole sulla cultura, ma nella cultura. In più, pone un problema irrisolto: al di là della generosità di una serie di studiosi, le università e le scienze sociali continuano a non essere un luogo ricettivo per tali approcci e temi, riproducendo schemi e gerarchie incardinate su tradizioni di studio e, al tempo stesso, su dimensioni strutturali di accesso al mondo della ricerca. Nonostante l’interesse crescente emerso negli ultimi anni, anche a partire dal lavoro di Forman, tale limite dell’università statunitense non pare completamente risolto. Ancor di più, la questione si ripropone nelle università europee e, nello specifico in Italia, contesto che prendiamo in esame per la nostra trattazione. Scrivere di rap in Italia è, fino a oggi, un’attività esclusiva per diverse tipologie di “addetti ai lavori”: al di fuori da esperimenti biografici, spesso intrapresi da parte di numerosi esponenti della scena musicale (Club Dogo, Emis Killa, Gué Pequeno, Mondo Marcio, Fabri Fibra, Don Joe, Achille Lauro, Massimo Pericolo), pressoché l’intera attività editoriale sul genere ha come autori da un lato giornalisti di stampa musicale e di magazine di settore (senza pretesa di essere esaustivi: Damir Ivic; Michele Monina; Luca Bandirali; Matteo Villaci, ecc.), dall’altro professionisti dell’industria musicale (Fish, Paola Zukar, Antonio Dikele Distefano). Al di là dell’interesse che alcuni di questi titoli possono avere (menzioniamo ad esempio l’ottima ricostruzione storica fornita da Cegna e Villaci, 2015), complessivamente 70

in piazza. etnografia musicale delle piazze nel rap milanese

tali lavori tendono a essere meramente descrittivi e a dare una lettura rivolta esclusivamente all’interno della scena rap, delle sue dinamiche culturali e commerciali, del presente musicale. Un filone di ragionamento, molto recente, esterno a questa dinamica, riguarda studi che, comprendendo l’importanza del rap come linguaggio, forma di espressione, cultura con elementi di diy (Do-It-Yourself), ha iniziato a indagare il genere musicale come spazio sociale e terreno di produzione culturale attraversato da processi sociali interessanti. In particolare, negli ultimi anni una certa letteratura si sta sviluppando intorno al tema della partecipazione alla scena rap e trap da parte di giovani «italiani senza cittadinanza» (cfr. Ferrari, 2018; Giubilaro e Pecorelli, 2019). Questi lavori, capaci di cogliere a fondo come il rap sia canale di espressione di identità, rivendicazioni, esistenze al di fuori dai modi e dagli spazi “tradizionali” della politica si caratterizzano però in una lettura metodologicamente strumentale del rap, dove la musica è intesa principalmente come un medium di espressione di soggettività e questioni sociali. Inoltre, tale scarsità di lavori pone anche una questione teorica rilevante: quale dialogo porre con una letteratura tendenzialmente statunitense, in cui l’hip hop si è sviluppato su geografie urbane, sociali e di razza del tutto differenti rispetto a un contesto italiano o ‒ come in questo contributo ‒ milanese? In che modo l’hip hop può essere letto come un suono e una cultura globale, e quali sono invece le sue specifiche modalità di radicamento territoriale e le trasformazioni che vengono agite nella traduzione? In altri termini, più generali, quali sono le specificità che rendono il rap italiano un percorso autonomo, culturalmente definito e socialmente situato all’interno di un linguaggio che è al tempo stesso statunitense e globale (Mitchell, 2001)? Come si evolve il linguaggio in questo equilibrio tra influenza e specificità? Se la questione è rilevante per ogni tipo di cultura espressiva in un contesto di connessione translocale, con il rap assume un particolare rilievo, sia per la dimensione tipicamente spazializzata e urbana che attraversa, in modi e sensi diversi, pressoché ogni sua corrente e tendenza, sia per la specificità sociale (Gilroy, 1993). Conseguentemente, il punto non è solo chiedersi con quali elementi (musicali, culturali, sociali) il rap come genere sia stato trasformato dal passaggio usa all’Italia (a riguardo, si segnala Androutsopulos e Shultz, 2003), ma anche, più complesso, in quale modo si è mantenuto quel rapporto tra città, società e musica che è fondante dell’hip hop. In questo contributo, si intende evidenziare in particolare la dimensione viva e situata del rap nel tessuto sociale e urbano, riconoscendone uno strumento di comprensione e di indagine della città stessa. 71

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2. Rap e caratteri urbani: un excursus concettuale In primo luogo, il rap è più o meno direttamente espressione di un ambiente urbano, i cui contenuti forme e linguaggi sono definiti nella relazione con lo spazio e con la città, rispondendo a specifiche configurazioni socio-spaziali. In tal senso, il rap può essere pensato come un «documento di vita» di un mondo urbano (Barron, 2013) visto con gli occhi di chi vive quel dato ambiente sociale che viene raccontato e che ne sa disvelare la vita quotidiana, assumendo il punto di vista dell’insider. Non si sta assumendo che ogni mc («maestro di cerimonia», termine con cui si definisce il rapper nel linguaggio culturale di riferimento) racconti necessariamente quanto vive, né che ogni rima di un brano rap sia una cronaca fedele di quanto succeda: al contrario, metafore, trasposizioni letterarie, iperboli sono elementi fondamentali del linguaggio di un genere che fa dell’autocelebrazione un elemento fondante. Il punto risponde piuttosto, in modo molto prossimo al racconto etnografico (Beer, 2014), a una credibilità ed efficacia nel racconto e nell’interpretazione di mondi che altrimenti non trovano espressione, proponendo una profondità di lettura che vada al di là dell’affermazione esplicitata, che può essere così definita anche semplicemente per cifra stilistica o esigenze metriche, di incastri e rime. L’idea di essere “vero” non va quindi interpretata in senso letterale e stringente, con uno sguardo giudiziario di fedeltà ai fatti (Kubrin e Nielson 2014). Al contrario, “il vero” corrisponde a essere credibile: quanto è raccontato deve al tempo stesso essere qualcosa in cui ritrovarsi e detto da una posizione che è adeguata alla figura di chi parla. In tal senso, il racconto diventa tanto più vero, tanto più persone nel sentirlo riescono a rivedere la propria quotidianità, il proprio vivere e le proprie aspirazioni nel racconto che viene proposto, e tanto più il rapper riesce a incarnare i personaggi che vivono i luoghi e attraversano gli eventi di cui parla. Nel riuscire a essere autentico nel suo racconto, il rap diventa un dispositivo di visibilità culturale: attraverso il linguaggio dei suoi testi, soggetti, pratiche e composizioni spaziali trovano una forma di espressione di una propria narrativa: epopea di strada, il rap è espressione di uno spaccato sociale e della sua prospettiva. Lo spazio tra il raccontare “il vero” e il più fedele, ma anche riduttivo, “riportare la verità” diventa nel rap lo spazio narrativo in cui inserire esercizi di stile, autocelebrazione, richiami culturali. Questo punto è saliente tanto nel momento in cui la presa in considerazione dell’hip hop e delle sue derivazioni si fonda nei suoi contesti originari e di avanguardia (come ha evidenziato Tabb Powell 1991), quanto nelle sue traslocazioni in altri contesti, in cui questa dinamica di significazione entra, in 72

in piazza. etnografia musicale delle piazze nel rap milanese

maniera creativa e produttiva anche una dimensione di traduzione e ricontestualizzazione di un linguaggio culturale translocale. Conseguentemente, studiando il rap e dandone tale importanza, il legame tra produzione culturale, biografie, ambiente sociale lo rende uno standpoint di interpretazione del mondo più profondo, pur nelle ambiguità e nelle fratture che l’immersione nel contesto porta. Il tentativo, comune alle ricerche di Dimitriadis (2015), è anche quello di superare una lettura individuale e individualizzata che si dà in uno studio del tutto immerso nella dimensione letterale del testo e del prodotto musicale, a favore di una prospettiva sociale e politica della produzione culturale dell’hip hop. In questo contributo, partendo da una individuazione del rap e hip-hop italiano come prodotti culturali, l’obiettivo è quello di analizzare, criticare e interpretare le identity politics, le relazioni di potere, i saperi, le esperienze che, nell’espressione linguistica del rap, danno sostanza e forma a una serie di vissuti che, per vari motivi, non trovano voce in altri spazi di espressione. Le e i giovani, sono, un soggetto che usualmente viene più evocato che ascoltato, in una società che si configura come adultocentrica (Delgado e Staples 2007; Vasquez 2013) nella sua organizzazione, negli spazi di parola formali e nelle configurazioni pubbliche: si parla sui giovani, spesso contro di loro (e contro le loro pratiche, le loro espressioni, i loro valori, i loro conflitti, attraverso forme educative, normalizzanti o repressive), talvolta per i giovani; quasi mai con i giovani, e non nella loro composizione composita e variegata. Questo tratto analitico, in una prospettiva intersezionale, è tanto più vero tanto più entrano altri elementi di marginalità accanto alla generazione, e diventa particolarmente evidente nel pensare il discorso pubblico sui giovani dei quartieri popolari e delle periferie metropolitane. Questo aspetto è ben descritto da Valerio Marchi (1994; 1998) quando evidenzia come, al contrario, ci sia una costruzione plurale di saperi esperti che, a partire da come i giovani esprimono conflitto, costruisce il panico morale e fa dei giovani e delle loro stesse pratiche il punto di «controffensiva» normalizzante e civilizzatrice; allo stesso modo, chi si ritrova, per ricerca, per attivismo, per linee biografiche immerso in certi contesti sa che il medesimo pensiero, in modo più emotivo e immediato, è espresso dal distacco e dalla diffidenza che mostrano quando commentano ciò che si dice di loro, o quando si distaccano dalle visioni che vengono fatte su di loro, come ben esemplificato dal ritornello di una delle prime canzoni di Marracash, risalente al 2005: «[…] qua è diverso / non è la sociologia, i film, i libri o un testo, / il mio rapporto, fra’, è diretto». L’urban literacy (Parmar 2010) ci consente dunque di parlare del rap milanese come un modo per vedere da uno sguardo informato, interno e prota73

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gonista dei contesti sociali e generazionali di cui ci interessa parlare, come nesso nel rapporto tra giovani, prodotti culturali e spazio urbano. Banalmente, si propone un ragionamento sul rap alla luce del fatto che è stato per noi un genere musicale “liminale”, di cui abbiamo ampiamente esperito la sua costituzione culturale più recente. Il fatto stesso di concentrarsi su Milano risponde a questa dimensione: radicare il nostro contributo in una città, con le sue composizioni e le sue specificità, diventa il modo per “prendere sul serio” quel racconto della città che emerge dal rap, e valorizzando la sostanzialità delle relazioni, dei contesti, delle esperienze e delle costruzioni di senso costruite nelle piazze milanesi, incorporato in uno spaccato generazionale e che trova espressione attraverso tracce sonore e testuali nella musica. Al tempo stesso, assumere il rap milanese come punto di osservazione non è una scelta casuale. Milano è generalmente riconosciuta come una dei centri urbani più rilevanti per le scene musicali legate al rap e, non a torto, considerata da molti la capitale del rap italiano: tale primato è sostenibile prima di tutto per una capacità attrattiva, dovuta anche alla concentrazione della filiera discografica, della produzione, dei management e dei vari aspetti connessi al prodotto musicale, e della conseguente facilità in città di creare relazioni, avviare percorsi, costruire connessioni e reti. Inoltre, è una città che ha sempre, sin dagli albori dell’hip hop fino a oggi, mostrato una grande continuità in termini di scena, con una continuità nei passaggi di generazione, sia in termini di quantità e diffusione, sia di rappresentatività. Inoltre, Milano e i suoi quartieri si sono mostrati particolarmente produttivi per gli stessi immaginari del rap cittadino e nazionale: non solo ambiente e contesto florido per lo sviluppo e le trasformazioni di un genere musicale, ma anche costruzione spaziale a partire dal linguaggio del rap e, al tempo stesso, linea di sviluppo e di caratterizzazione di un genere in una differenziazione rispetto alla mera traduzione di suoni e stili globali. Questo vale per i luoghi specifici (per fare due esempi, il muretto, come luogo di aggregazione “icona” per tutte le arti dell’hip hop in città; le serate dello Show Off a inizio Duemila), capaci di costruire, per rilevanza specifica, per i processi che hanno avviato e per la capacità anche simbolica di rappresentare un movimento più ampio e capillare; allo stesso modo, la città stessa diventa un luogo del rap, nella sua metropolitana e nelle linee di superficie più citate, nei quartieri di edilizia popolare, nei bar di quartiere e nei club notturni, nel suo cielo bianco, poche città hanno dato una descrizione vivida, complessa, strutturata e stratificata temporalmente, capace di diventare moda e punto di riferimento. 74

in piazza. etnografia musicale delle piazze nel rap milanese

«Chiedi in via Anfossi di Enzo, in Barona di Marra» dice Nerone in Emme I. Ed è così che Barona, San Siro, Calvairate, Bonola non sono semplicemente zone “note” agli appassionati del rap perché nominate in qualche brano. Gli stessi rapper ne hanno fornito descrizioni e immaginari, condividendo storie del quartiere reali o comunque credibili: chi ascolta il rap milanese, anche senza essere mai stato a Milano ha una rappresentazione delle zone e dei vissuti di chi li vive, che a loro volta hanno un riferimento conosciuto, un immaginario popolare, un linguaggio con cui raccontare una quotidianità e una comunità. In questa configurazione urbana, la piazza assume un significato rilevante, anche da una prospettiva analitica scandita da una certa frequenza, da parte degli artisti, a menzionarla nei loro testi, immaginari e racconti, anche al di fuori della componente lirica, tracciandone la centralità anche in interviste e videointerviste. A tal proposito, sconfinando momentaneamente dal perimetro milanese, è interessante notare il forte immaginario costruito dal primo Achille Lauro, quando fece dal razionalismo architettonico di alcune periferie romane e del substrato che abita tali edifici (ad esempio, il complesso di Corviale) il medium narrativo di alcuni singoli e dell’album autoprodotto Ragazzi Madre, prima di approdare al mercato mainstream con forti mutamenti e con dichiarazioni personali che legittimavano come molti dei racconti sulle periferie fossero opera d’invenzione intrecciate a esperienze di età giovanile, volutamente caricate di esagerazioni narrative. Le immagini della piazza, spesso e volentieri ricondotte a contesti urbani periferici o semi-periferici senza condizioni di esclusività, ricorrono, arrivando a essere quasi un cliché dello street rap, in una persistenza che è comprensibile nel momento in cui si osserva la piazza nella sua specificità: in questo contributo la piazza è considerata in prima istanza come un evento, un momento situato e contestuale che tiene insieme al tempo stesso lo spazio fisico urbano e i momenti e le pratiche che animano e permettono la socialità che in tali spazi si danno.

3. La dimensione sociale e spaziale della “piazza”. Una riflessione su Milano Muovendoci analiticamente in queste coordinate di metodo, che intendono tenere insieme da un lato, una “presa sul serio” del rap come linguaggio proprio di determinati contesti urbani e, dall’altro, una lettura spazialista delle produzioni culturali, è dunque possibile partire dalle narrative come 75

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un contesto sociale viene raccontato, per poter accedere a determinate configurazioni sociali. In particolare, il modo in cui la piazza si inserisce tra spazio urbano, culture giovanili e dinamiche collettive di organizzazione dell’esperienza quotidiana, permette di accedere a uno spaccato generazionale e metropolitano. Come momento sociale, la piazza è il luogo di ritrovo e dove trovare occasioni per passare il tempo, nella costruzione di un momento per pensare e costruirsi un tempo al di fuori dagli spazi “dati”, che siano familiari, scolastici (o lavorativi), connessi ad attività specifiche e funzionali. La piazza diventa così il posto in cui si va per andarci, senza aver nulla da fare, e in cui proprio per questo diventa un laboratorio per fare, potenzialmente, tutto. Siamo ancora in zona frate sì, come da sbarbi Solo che gli sbatti ora sono un po’ più grandi. (Sfera Ebbasta, Tutti Scemi)

Parlare di piazza vuol dire, inevitabilmente, concentrarsi su una serie di pratiche con una forte connotazione generazionale: stare in piazza è una pratica che riguarda i giovani già dal periodo adolescenziale, caratterizzandosi nel suo avvicinamento e nella possibilità di «viverla» come un momento di passaggio e di crescita, oltre che come passatempo, almeno fino a quando le responsabilità e i ritmi della vita quotidiana consentono (ancora) di «perder tempo». I vari aspetti che saranno analiticamente presi in considerazione passano attraverso un livello generazionale, in cui da un lato la legittimità dello stare in piazza, e in certi contesti e momenti della piazza nello specifico, richiedono una certa maturità e crescita, al tempo stesso, rimanere in piazza anche quando si cresce (e aumentano gli impegni e i problemi) è un passaggio che non è scontato. Anche la «compagnia» è parte di questa sperimentazione attraverso il tempo libero: in piazza si va in primo luogo con e per i propri amici, ma al contempo si è consapevoli che si incontreranno altre compagnie, altre persone della zona, altri “giri”, altri motorini di passaggio. La piazza è allora la declinazione di una street corner politics, in cui è nello stesso stare insieme ritrovandosi che, contemporaneamente, si riproducono processi culturali e sociali, portandoli nella costruzione di una comunità e di uno spaccato generazionale attraverso una costruzione di senso subculturale (Dedman 2011). Al tempo stesso, l’uso e il racconto della piazza non hanno molto a che vedere con l’enfasi sullo spazio pubblico e con la connessa epica 76

in piazza. etnografia musicale delle piazze nel rap milanese

dell’agora come luogo della politica: la piazza e la strada hanno a che fare con aspetti che sembrano in tono minore per la loro quotidianità, e al tempo stesso con una maggiore concretezza e materialità. Ho ancora quella tuta bianca Sporca con i segni della panca, quella dei Novanta Scopa in piazza, in bocca una canna tanta scooter in verticale, su una ruota tutto il viale. (Club Dogo, Ragazzo della piazza)

Le panchine come arredi della piazza, il vestirsi sportivo, le forme di evasione trasgressiva (dalle canne al consumo di alcool), i motorini Booster, gli scherzi e i passatempi (talvolta improvvisati) sono aspetti che, se presi singolarmente, possono essere considerati irrilevanti e pochi significativi, così come stare in piazza è un’esperienza che, di per sé, non richiede particolare enfasi e attenzione: al contrario, la piazza assume significato nel complesso, nel momento in cui i ragazzi sono sempre in piazza, le esperienze non valgono di per sé, ma nel momento in cui, nel tempo e con le varie compagnie, si è fatto un po’ di tutto, dal flirt al consumo di sostanze, dalle impennate alla rissa. Complessivamente, la piazza è caratterizzata da quanto descritto da Corrigan in Resistance through Rituals (Corrigan 1975), e si presenta in continuità con una pratica tra le più diffuse e comuni nelle culture giovanili e popolari: il «fare niente». Quanto, da uno sguardo esterno e da prospettive egemoni è tempo del tutto improduttivo e, in quanto tale, perso e vuoto di significato, nella prospettiva dei ragazzi è riempito da «weird ideas» che differenziano il far nulla in una pluralità di occasioni e situazioni, nate per noia e dalla noia, ma che nel momento in cui vengono realizzate si concretizzano in vie di fuga. Le piazze si presentano come una pluralità di contatti, relazioni, interazioni, azioni che complessivamente appaiono come un fare nulla durante la giornata o la serata, proprio perché appartengono a modi di stare e fare che si discostano da quello che dovrebbe un ragazzo fare nel proprio tempo libero, e che invece viene impiegato dallo stare in piazza. Leggere, studiare, fare sport, avere cura dei propri spazi, coltivare hobby, riposarsi sono tutte attività di leisure che partecipano alla dimensione produttiva dello studente, dell’universitario e del giovane lavoratore: queste attività sono utili e civili, al contrario delle trovate e delle quotidianità di chi sta in piazza. 77

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Così gira a mi, le pastiglie e l’md Le botte coi buttafuori e le botte sul cd I pappa sul tt, le zoccole in tv I blocchi dove non entro, un morto al giorno al tg Le più fighe in Ticinese che le vedi e strippi Le manifeste in piazza quando aumentano gli affitti Le teste calde in piazza che passano e tutti zitti Gli sputapalle in strada che ti chiedono se pippi Gli zarri sopra il Fifty, i minchioni sullo Scarabeo I sottoni che aspettano solo il cicileo. (Emis Killa, Milano male)

La piazza, tanto nella sua accezione spaziale, quanto nella dimensione culturale, è uno spazio pubblico «interstiziale» (Lévesque 2013). L’idea liberale di spazio pubblico si presenta in una dimensione di autonomia, isolamento e distanziamento gerarchico rispetto agli spazi del privato, siano essi domestici, di consumo, della produzione, ricalcando concettualizzazioni che, accanto al primato del politico, pongono l’emergenza di un soggetto che per genere, età, classe, razza è ben definito all’interno di assi di privilegio. Al contrario, la piazza è reinventata come luogo pubblico nel momento in cui non è isolata e distaccata dalle vite, dai contesti, dalle dinamiche che i ragazzi che la vivono la attraversano, e il loro modo di stare in piazza contribuisce ulteriormente a far saltare distinzioni dualistiche e nette. La piazza, come lo spazio urbano, si configura come aperta, affollata, diversificata, incompleta, disordinata (Amin 2008). Il suo rapporto con la civicness è presente, ma nel momento in cui lo spazio politico è dato da contaminazione con il sociale e non come suo distacco. Per certi versi, su questo punto, il rap è il naturale mezzo per raccontare la piazza: non perché necessariamente sia il genere prediletto da chi frequenta la piazza stessa (questo vale probabilmente più oggi di quanto potesse essere fino a dieci anni fa, quando i riferimenti musicali erano maggiormente orientati verso certe sonorità pop e melodiche da un lato, verso la dance e la techno dall’altro), ma proprio perché lo street rap, almeno in Italia, si è caratterizzato per un distacco dalle scene politiche, in particolare dall’antagonismo e dal milieu culturale tipico delle «posse» (Anselmi 2002), col fine di raccontare la politica attraverso la quotidianità dei vissuti, privilegiando la vita del quartiere e dei contesti abitati nel vivo, con tutti gli spazi di ambiguità, costruendo e inventando una quotidianità (de Certeau 1980) esplicata poi attraverso il mezzo musicale del rap. 78

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Sono creativo, bello reattivo da piazza E non son nato cattivo, ma so imitarne la faccia. (Nerone, La piazza è mia)

Il rapporto unico che si delinea tra la piazza come spazio di ritrovo e come momento di socialità, e i ragazzi che la vivono, si definisce anche in una forma di «incorporamento» (Crossley 2001) della piazza in disposizioni, modi di stare, posture al tempo stesso fisiche e morali nei comportamenti e nelle espressioni. Anche per questo aspetto il rap presenta un’immagine particolarmente vivida: descrivere i modi con cui si sta in strada, la capacità di mantenere un’attitudine anche dopo il successo o semplicemente dopo anni, il tratto distintivo della «faccia da piazza» sono passaggi narrativi che non sembrano tramontare neanche con i cambi di generazione e che, in una retorica di strada, attraversano i vari (sotto)generi musicali e di scrittura, forti anche della facilità nel ripresentare e ricontestualizzare immaginari e tendenze provenienti prevalentemente dagli States, dalla Francia e dal Regno Unito. In piazza viene espressa una fisicità, che passa anche attraverso il sentirsi in un luogo proprio e nella dimensione di svago e socialità, attraverso posture, modi di parlare e di scherzare, movimenti che in altri contesti sarebbero meno tollerati e fraintesi, schiacciandoli attraverso un razionale «legalista» sul comportamento deviante se non criminale (Fatsis 2019). In questo quadro, prende parte anche una certa fisicità nei rapporti amicali, così come, al contrario, una grammatica degli sguardi e il potenziale ricorso a reazioni «violente», non è fuori dalla logica della piazza risolvere un dissidio anche ricorrendo alle mani. Così erano le piazze nei novanta, piene di canne e bianca Avevo le tasche gonfie ma un cazzo in banca Erba da chi tornava dall’Olanda «Sono venti al grammo». «Quale venti al grammo, zio manda!». (Jake la Furia e Emi lo zio, Italia Novanta)

Parte di questa performatività passa attraverso la questione del consumo e della (piccola) vendita di sostanze e in particolare, di «canne e bianca». Per quanto sia ancora difficile, in sociologia così come più ampiamente nel dibattito pubblico (Petrilli 2021), considerare le sostanze al di fuori da discorsi di marginalità e di devianza, il loro uso è ampiamente diffuso e trasversale come fenomeno di massa. La piazza, in quanto luogo di incontro tra compagnie 79

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differenti, di svago e di socialità in uno spazio che è pubblico ma al tempo stesso intimo, è sicuramente un luogo in cui è immediato che possa diventare anche luogo di circolazione e scambio. Allo stesso tempo, per un ragazzo un piccolo giro di compravendita diventa un modo per poter guadagnare autonomamente dei soldi fuori dalla rendicontazione familiare e concedersi qualche spesa non concessa, al pari di altre “gabole” e piccoli reati. Al tempo stesso, la quotidianità del consumo e della vendita riceve nella performatività di piazza una certa enfasi, poi di molto accentuata nella sua trasposizione lirica nel rap, come forma di protagonismo nel contesto e, attraverso quella pratica, vengono riassunte le caratteristiche della piazza e dello stile di chi la vive. In particolare, la cocaina nei suoi stessi effetti replica e amplifica la valenza simbolica e posturale dell’aggressività e della reattività. Inoltre, l’illegalità di certe pratiche permette di orientare queste disposizioni, inserendo nella piazza elementi di diffidenza verso istituzioni di controllo (polizia, ma non solo) e rafforzano intorno a un «vivere di strada» anche immaginari e storie: il mito per certe figure della ligera e della mala (Lutring e Vallanzasca come eroi popolari) da un lato, l’immaginario banlieusard, il parlar furbesco e il «riocontra» (un linguaggio tipicamente milanese che ricompone le parole in senso anagrammatico, ponendo l’ultima sillaba del vocabolo all’inizio del neologismo) permettono in questi contesti di tenersi insieme e, al tempo stesso, di raccoglierne l’eredità attraverso l’azione. In sintesi, la piazza prevede una certa performatività che mette in gioco quelle disposizioni che Valerio Marchi aveva perfettamente inquadrato nel suo primo lavoro, Stile Maschio Violento (1994): l’appartenenza di classe, sia riguardante un lumpen proletariat metropolitano, sia che risponda a un impoverimento e precarizzazione di famiglie di classe media, passa per i più giovani attraverso la piazza e per i suoi modi di fare, che da una prospettiva esterna appaiono incivili, grezzi, violenti, spropositati. Questi aspetti sono immediatamente riconducibili a una performatività che oltre a caratterizzare uno spazio attraverso un taglio di classe, hanno una immediata ricaduta sulla performatività di genere (Butler 1993). Lo stile della piazza è uno stile tendenzialmente maschile, e che richiama simbolicamente aspetti incorporati di una mascolinità agita attraverso la propensione all’azione, il protagonismo e l’avventatezza, l’irascibilità, l’esibizione della muscolarità, la propensione per il rischio, non di rado accompagnati da espressioni e modi di fare che riconducono ed esplicitano una norma eterosessuale della piazza (a cavallo tra primo e secondo decennio del Duemila, ogni gesto di affetto nei confronti di un amico veniva accompagnata dalla sottolineatura «no homo»). 80

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L’intersezione tra classe e genere in questa performatività di strada è senz’altro problematica. Il primo livello riguarda i processi di riproduzione di linee di dominio e di subordinazione che si danno anche all’interno di espressioni e disposizioni proprie di classi subalterne (Stefani 2021) dando vita a una mascolinità sub-egemonica (Beasley 2008). Il modo in cui la piazza sia attraversata e attraversabile da giovani, permettendo loro di ritagliarsi uno spazio sociale al di fuori dalle forme e dai disciplinamenti adultocentrici (Vasquez 2013) e, al contempo, di come sia luogo di incontro diversificato in termini di composizione di piazza, in cui hanno luogo e possibilità di espressione anche pratiche proprie di strati popolari, non esclude e anzi, incoraggia, la riproduzione di aspetti maschilisti e omofobi. Al contempo, come Marchi ben evidenzia, determinate pratiche ricevono enorme visibilità, perché danno facilmente l’occasione di mostrare il folk devil (Cohen 1972) e, indicando la performatività della piazza (e il suo richiamo nei testi rap), invisibilizza (e di conseguenza, produce) le dimensioni strutturali della violenza di genere. Come ben hanno evidenziato, le prospettive femministe all’interno dei cultural studies (McRobbie e Garber 1975; McRobbie 1991; Harris 2008), la scarsa attenzione nella comprensione delle culture urbane e degli stili di strada alla presenza e alla connotazione femminile rispecchia il fatto che, in maniera strutturale, l’accesso, l’abitabilità e la visibilità nello spazio urbano e nelle strade è diseguale in base al genere (Borghi 2010). Contemporaneamente, e di conseguenza, il rap riflette e riproduce questa dimensione, caratterizzandosi come un genere e una scena tendenzialmente maschile e mascolino. La questione non riguarda, esclusivamente, vedere quante siano le donne che facciano rap, producano o ascoltino street rap, o quanto aperta sia la scena a una presenza non maschile. Seguendo la connessione tra rappresentazione nel rap e produttività sociale dello spazio della piazza, è interessante evidenziare come l’immaginario femminile sia, anche in casi di artiste in via di affermazione, differente, e di come la dimensione della piazza e della strada sia pressoché assente, a favore di una spazialità più privata e di una dimensione più intimista dei testi. Con l’esplosione in termini di popolarità del rap, non stanno mancando però spunti relativi a cambiamenti in corso, anche a livello globale (Oware 2018): una suggestione a riguardo, la offre Chadia Rodriguez: il richiamo alla performatività della piazza è nel suo immaginario è un aspetto importante, dove il parlare esplicito, la violenza, l’aggressività è modo di espressione e forma di agency femminile (Emerson 2002). Al tempo stesso, nei suoi pezzi la piazza sembra il punto di arrivo dopo il rispetto meritatosi 81

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con il rap e non, come nella retorica generale dei rapper maschi, il punto di partenza: parafrasandola, pur «nata in quartieri sbagliati, buoni non siamo mai stati», il racconto delle origini e degli inizi è privato, «cresciuta da sola», ed essere in piazza, avere le ragazze che la proteggono, con le persone che la suonano le sue canzoni sotto i palazzoni è frutto di un percorso che la legittima pubblicamente.

4. Conclusioni In conclusione, sembra necessario riprendere gli obiettivi e le questioni aperte che questo contributo ha iniziato ad affrontare. Il primo nodo riguarda la possibilità di affrontare, dentro e attraverso un genere (o se si preferisce, una pluralità di generi che hanno una radice comune) lo svilupparsi di un racconto di una serie di contesti sociali e di eventi che, nel nostro caso specifico, girano intorno a quanto viene fatto in piazza. La questione non è banale, tantopiù in un momento in cui il rap ha avuto una proclamazione e una diffusione impensabile fino a cinque anni fa. Da un lato, il pubblico ha visto un allargamento tale da essere, per almeno uno spaccato generazionale, genere musicale contemporaneo, come certificato anche dalle classifiche di vendita e streaming. Dall’altro, l’interesse anche nella produzione culturale e musicale non può più in alcun modo ignorare, come per anni è stato fatto, il rap e i suoi generi correlati, dandone passaggi in radio, collaborazioni nel pop, partecipazioni a colonne sonore televisive e cinematografiche. Questo successo mette in atto delle trasformazioni che, oltre a potenzialità, porta un cambio di prospettiva: il rap oggi pone uno scarto rispetto all’hip hop e alla capacità culturale di dare letture comuni, prospettive e codici condivisi. Inoltre, viene a mancare quell’elemento che definisce propriamente la scena (Bennett e Peterson, 2004), con una continuità e una prossimità tra le varie figure della produzione musicale (i rapper e i producer, così come i lavoratori dell’industria discografica e di tutti i mondi connessi) e i pubblici intorno a luoghi, spazi, pratiche ed eventi comuni. Se l’hip hop faceva della rappresentazione simultanea di una città, una comunità e uno stile di vita un suo punto cardine, per quanto rimanga un approccio possibile (a volte parte delle prospettive e del modo di intendere il proprio lavoro anche da rapper e trapper molto lontani dalla cosiddetta old school), assumere la rappresentazione come assunto necessario solleva un problema prospettico. L’entità con cui si rivela solido il rapporto tra rap, piazza come spazio e i ragazzi che la animano, non va dunque ricondotta 82

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al solo atto di riportare musicalmente determinati contesti sociali con le loro peculiarità. Lo sforzo, più che rappresentazionale, è quello di considerare elementi di “verità”, che siano situazioni realmente accadute e traslitterate nel testo o situazioni verosimili nella credibilità, e trasformare tali situazioni in immaginario. Per dirla con Chambers (2020), nel rapporto diretto che c’è tra musica, spazi, corpi e biografie, si instaura un rapporto diretto tra produzione musicale e produttività del sociale che dalla musica viene a svilupparsi. Il rap milanese prende in considerazione la quotidianità delle piazze della propria città, ne riconosce e racconta le situazioni e le linee di tendenza più significative per potenza evocativa o che rilegge in una chiave narrativa l’esperienza soggettiva e i suoi aspetti al tempo stesso più crudi e (stressando il termine) romantici. Nel farlo, il contesto socio-spaziale che racconta, ovvero la piazza, viene trasformata, prima ancora che raccontata, viene arricchita di immaginari e di storie che si uniscono e confondono con quelle “non registrate” dei ragazzi, e i modi di stare in piazza diventano quelli del rap, quanto il rap è la lingua di chi è o è stato in quella piazza stessa. Questo lavoro non è a somma zero, e il prodotto è la soggettività degli stessi ragazzi della piazza, in una postura che è al tempo stesso resistente e ambigua. Per i ragazzi delle piazze, avere il rap e i suoi più autorevoli protagonisti che raccontano storie che si sentono proprie e in cui riconoscersi diventa un momento di affermazione e di presa di posizione in una quotidianità. “Ritrovarsi” nei pezzi e nei linguaggi di un genere musicale dà la possibilità di esercitare una rottura e di svincolarsi dalle immagini di Milano più ricorrenti ed egemoni, che difficilmente raccontano la loro vita. La dimensione peculiare di Milano, sempre più identificata come metropoli d’eccellenza e città globale italiana, porta infatti a rappresentazioni forti, differenti ma contigue: da un lato il mito della città europea interprete e punta di diamante italiana del neoliberismo e delle sue tendenze urbane, sia in termini di urbanscapes, sia nella urbanità della vita; dall’altro l’immagine più umana e progressista di città contemporanea, al passo coi tempi, accogliente e integrata, rispettosa e arricchita dalle diversità (siano esse di razza, di genere, di orientamento sessuale). In entrambi i casi, ne emerge una città pacificata, senza fratture, «cannibale» (Giuliani 2019) rispetto alle alterità e ai margini. Il rap produce una soggettività attraverso una contro-visualità (Mirzoeff 2011), mettendo in evidenza le fratture della città: da un punto di vista generazionale in primis, con ragazzi indisponibili a essere ridotti ai soli ruoli, spazi e contesti destinati loro da una società adultocentrica, da una generazione precaria che non può, non riesce (e non è detto voglia) entrare nel irreggimentazione del giovane smart, flessibile, sempre online, creativo, 83

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raccontando altre forme di vita e di (non) lavoro; un contesto che è quotidianamente interrazziale e meticcio, in cui però le identità si mescolano, si rivendicano, si mostrano in modi e traiettorie differenti, intersecate e non riconducibili necessariamente alla sintesi dell’integrazione; che vivono quartieri popolari che non sono “cool” nel loro essere nuove centralità, né che sono già state raggiunte dalle riqualificazioni e dagli interventi urbanistici. Il racconto dei rapper dà spazi a frammenti di questa soggettività e alle differenti posizioni e soggetti che li attraversano, e che non possono essere schiacciate su un piano di fragilità sociale e strettamente di classi popolari, ma che accomunano ragazze e ragazzi che non trovano spazi e riconoscimenti in altri racconti e storytelling. Al tempo stesso, e proprio a partire da questa prospettiva alternativa delle fratture sociali, il rap e il suo linguaggio viene frainteso e semplificato da chi non riconosce codici culturali. La durezza del linguaggio viene messa in evidenza e isolata dal contesto. Senza cogliere i punti effettivamente problematici dei rapporti di dominio e potere che si pongono nella città e nelle vite, i rapper vengono ancora designati al ruolo di folk devils, simbolo della deriva morale e della incivile postura di una generazione. Gli elementi più caricaturali, esempi decontestualizzati e parossistici vengono presi come “prove” e come esempi di un’intera produzione culturale, e ogni gesto di violenza e a ogni comportamento asociale giornalisti e analisti iniziano allora a scandagliare le playlist e gli ascolti. Proprio gli elementi che permettono ai ragazzi di riconoscersi nel rap sono gli aspetti che vengono scomposti, ricontestualizzati e deformati. Ecco che la piazza e chi la vive diventa allora lo scenario di questo continuo movimento tra riconoscimento e resistenza da una parte, normalizzazione e marginalizzazione dei conflitti giovanili (Marchi 1998): nonostante le classifiche, i dischi d’oro e di platino, le collaborazioni e le partecipazioni, il rap continua così a essere la musica della teppa.

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#brnbq le estetiche della teppa urbana nella «piazza digitale» di instagram di Giulia Giorgi e Alessandro Gerosa

Bravi ragazzi nei brutti quartieri Fumano e parlano lingue diverse Però non ci parlano ai carabinieri Fanno le cose che è meglio non dire Fanno le cose che è meglio non fare Bravi ragazzi nei brutti quartieri. Sfera Ebbasta, brnbq Fors sbagliamm e mod Ma nu sbagliamm a mod Trasimm nda gelera Legea, Zeus e Givova. Speranza, givova

1. Introduzione In questo capitolo ci proponiamo di contribuire alla letteratura sulla nuova «teppa urbana»1 attraverso un’analisi empirica dell’estetica dei suoi membri. In particolare, ci proponiamo di analizzare come la «teppa» si autorappresenti esteticamente nella sfera digitale di Instagram, impiegando tecniche di Digital Methods. Per raggiungere un simile scopo, nell’apparente assenza di hashtags riconosciuti usati dalla teppa urbana per identificarsi e riconoscersi su Instagram e sui social networks, abbiamo optato per usare come base di partenza il titolo di una delle canzoni più famose di Sfera 1  In questo capitolo impiegheremo estensivamente il vocabolo «teppa» per riferirci al nostro oggetto di studio, in coerenza con la tradizione del pensiero di Marchi e con l’impianto complessivo dell’attuale volume. Come Marchi illustra nel proprio volume, è la società «per bene» a rappresentare e definire lungo la storia le culture giovanili ribelli o devianti come teppa (urbana) in modo dispregiativo. Tuttavia, come lo stesso Marchi dimostra nel proprio volume (in linea anche con numerosi altri fenomeni simili) può accadere che coloro che vengono rappresentati come «teppa» assumano questa stessa definizione: in questo caso il termine diventa strumento identitario e rivendicativo di uno status marginale e conflittuale. È a quest’ultimo significato che si rifà il nostro uso nel presente capitolo, giacché il nostro caso di studio analizza precisamente come individui facenti parte della cosiddetta cultura di strada giovanile si autorappresentino sui social network come «bravi ragazzi nei brutti quartieri» attraverso e grazie a una canzone trap.

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Ebbasta, brnbq (acronimo di «bravi ragazzi nei brutti quartieri»), che è diventato anche un hashtag ampiamente usato su Instagram da giovani utenti. L’ipotesi di partenza dello studio, dunque, è che i giovani usino l’hashtag non solo per parlare della canzone o dell’autore, ma anche per autorappresentarsi identificandosi con i «bravi ragazzi nei brutti quartieri» raccontati nella canzone. Per condurre l’indagine, in coerenza con gli obiettivi preposti e i metodi adottati, è stato prima operato lo scraping di tutti i post di Instagram contenenti gli hashtags #brnbq e #Braviragazzineibruttiquartieri. Successivamente è stata effettuata una hashtag network analysis dei post così ottenuti, in modo da ottenere un quadro dettagliato dei post e degli argomenti affrontati in essi. Sulla base del lavoro di hashtag network analysis, è stata definito il criterio di selezione di un sottoinsieme di post oggetto della visual analysis vera e propria, finalizzata ad analizzare gli stilemi dell’estetica della teppa. Dunque, il capitolo si sviluppa come segue. Inizialmente verrà definita la teppa online come o oggetto d’indagine, passando in rassegna anche le analisi emergenti sulla musica trap e la letteratura su teppa e social media. Successivamente verrà illustrata la metodologia e le tecniche di analisi impiegate. I risultati della ricerca verranno esposti nei due paragrafi successivi, in cui si analizzeranno prima gli hashtag usati nel dataset dei post di Instagram e poi l’estetica della teppa così come emerge dalle foto selezionate. Infine, nella conclusione verranno sintetizzati i principali risultati della ricerca.

2. L’estetica della teppa urbana Per compiere l’analisi che ci siamo proposti, è innanzitutto necessario partire da una definizione di quella «nuova teppa giovanile» che si intende analizzare. La letteratura accademica italiana sembra fornire ben poco aiuto a riguardo: il miglior riconoscimento dell’attualità dei lavori di Valerio Marchi (Teppa e La sindrome di Andy Capp in particolare) è la paucità di altri lavori italiani che tematizzano e analizzano le culture di strada e la «teppa urbana» in Italia, che sembra completamente rimossa dal dibattito accademico, con la felice eccezione di una recente tavola rotonda pubblicata su Studi Culturali nondimeno connessa con la presente collettanea (Bertoni et. al 2021) e con gli altri contributi di questa collettanea (vedi in particolare Saitta 2022). D’altra parte, la giovane teppa italiana sembra una categoria rimossa anche dal dibattito pubblico nel nostro paese, a eccezione delle 88

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cicliche ondate di moral panic (Marchi 1998) in cui essa viene additata come una massa di vandali, responsabili del degrado delle città.2 Per contestualizzare meglio il fenomeno è necessario dunque rivolgere il nostro sguardo altrove. In particolare, piuttosto fertile è la letteratura di matrice anglosassone dedicata ai Chavs (o Neds nella variante scozzese), i coatti.3 Ai Chavs, evidenzia Jones (2011), viene associato tutto lo spettro dei comportamenti socialmente devianti come violenza, pigrizia, gravidanze in età adolescenziale, razzismo, ubriacatura, ecc. Piuttosto che coincidere con la working class, i Chavs sono il frutto del processo di distinzione, operato dalla classe media e i suoi apparati istituzionali e mediatici, tra una classe operaia “rispettabile” e capace di integrarsi nella società e una irriducibilmente «deviante» (Nayak 2006). Quello del Chav è un termine infamante nei confronti di una comunità discriminata che tuttavia diviene ‒ al pari di tanti suoi corrispettivi ‒ rivendicata anche in termini positivi e orgogliosi. Questo fenomeno di identificazione avviene non solo da parte di chi appartiene strettamente alla working o underclass, ma anche da chi pur proveniente da altri background attua comportamenti considerati devianti dalla società “rispettabile” e rifiuta le sue istituzioni e carriere prestabilite, come il valore dell’educazione e la scuola (Young 2012; Marchi 2004, 1994). Al Chav si associa anche un determinato stile subculturale (Martin 2009; McCulloch et al. 2006), che si concretizza in uno specifico regime estetico di consumo (Smith Maguire 2018). Come accaduto a molti altri stili subculturali, anche la cultura della strada e il regime estetico associato sono stati sfruttati consumisticamente per la creazione di un marketplace myth (Arsel & Thompson 2011), un mito di consumo finalizzato alla commercializzazione dell’estetica della teppa attraverso la promozione di stereotipi banalizzati e banalizzanti di essa (Johnson 2008). L’estetica della teppa, dunque, vive e si evolve sulla base delle precarie riconfigurazioni risultanti dal continuo conflitto fra tre diverse tendenze: le istanze di autorappresentazione della teppa urbana, la commercializzazione ed 2  Un esempio emblematico della persistenza dei cicli di moral panic è avvenuta durante l’estate 2020 segnata dal lockdown, in un editoriale del «Corriere della Sera» a firma di Ernesto Galli della Loggia dove i giovani delle periferie sono descritti come i nuovi untori portatori di un conflitto che: «Si manifesta nell’occupazione selvaggia degli spazi pubblici, nel raid violento, nel vandalismo ai danni delle scuole, della segnaletica stradale o dei mezzi di trasporto. [...] Li muove, si direbbe, quasi il torbido proposito di seminare il contagio, d’infettare la società “per bene” insieme ai posti che essa abita. Di distruggere quanto non possono avere» (Della Loggia, 2020). 3  Sebbene sia indubbio che ai Chavs inglesi corrisponda una categoria sociale eguale in Italia, è molto più complesso dare a essa una denominazione soddisfacente. Nella traduzione di Chav Solidarity di D. Hunter edita da Edizioni Alegre, la scelta è ricaduta sul termine coatto. Sebbene ci sembra presenti diversi limiti, adottiamo anche noi questa denominazione considerandola la più efficace fra quelle disponibili.

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le strade della teppa

estetizzazione ‒ dunque neutralizzazione ‒ capitalistica di quelle istanze e la stigmatizzazione sociale ed estetica di essa come rozza e pacchiana da parte della cultura e delle classi «rispettabili». Coerentemente con la letteratura analizzata e con il focus analitico, dunque, in questo capitolo quando ci riferiremo alla «teppa urbana» intenderemo le e i giovani che a vario titolo e in varie forme si riconoscono nella cultura di strada e rivendicano gli stili associati al connesso regime estetico. Questa scelta non intende negare l’importanza della componente socioeconomica della teppa urbana, ma è piuttosto legata alla peculiare natura della nostra indagine empirica, che muove i suoi passi dalle auto-rappresentazioni concettuali e visive operate dai «Bravi ragazzi nei brutti quartieri» di Instagram. In altre parole, in questa sede non ci interessa distinguere fra una teppa autentica e una poser, e non avremmo a ogni modo gli strumenti per indagare una tale distinzione. Il nostro interesse sarà piuttosto rivolto a esplorare il regime estetico della teppa nella sua totalità, definire le caratteristiche fondamentali in comune e gli stilemi prevalenti e osservare come si strutturano al suo interno le tre tendenze osservate precedentemente.

3. La Trap, la nuova musica dei bravi ragazzi nei brutti quartieri italiani Le culture della strada si sono sempre caratterizzate per un legame molto stretto e intenso con consumi musicali specifici, tanto che in diversi casi è impossibile distinguere fra cultura e genere musicale di riferimento. Coerentemente con questa tradizione, nella presente ricerca abbiamo scelto la musica trap ‒ e in particolare una canzone di Sfera Ebbasta ‒ come porta d’accesso verso il mondo dell’estetica della nuova teppa urbana. Abbiamo compiuto questa scelta sulla base della convinzione che la musica trap sia diventata l’odierna colonna sonora delle vite dei giovani di strada. La Trap è caratterizzata oggi da un apparente paradosso: è uno dei generi musicali di maggiore successo a livello globale ma allo stesso tempo è ancora generalmente considerato un sottogenere della musica rap, appartenente all’alveo della cultura hip hop. Questo l’ha portata a una evidente sottorappresentazione nella letteratura scientifica e nelle statistiche, dovuta alla difficoltà di definire precisamente e univocamente i confini musicali, stilistici e autoriali. Le origini della trap come noto sono legate alla scena di Atlanta e alle omonime trap houses negli anni Novanta, ma è a partire dagli anni Duemila e in particolare negli anni Dieci del nuovo millennio che la musica trap esplode a livello commerciale a livello di classifiche, diventando 90

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pienamente mainstream e contaminando la stessa musica pop. La Trap, sorta da una costola del rap, è diventata la musica di accompagnamento perfetta della società tardo capitalista grazie alla propria combinazione di edonismo, nichilismo, tempi veloci e produzioni effimere (ufpt 2020; Kaluža 2018) non dissimilmente da come la musica punk, sorta dal rock, lo diventò del capitalismo fordista sulla via del tramonto.4 Anche in Italia la musica Trap è arrivata, con il consueto slittamento temporale rispetto al mondo anglosassone. Anche in questo caso il linguaggio, il vocabolario e gli stili della musica trap, tanto distanti da essere incomprensibili dalle generazioni dei genitori, hanno comportato un’ondata di moral panic diffusa.5 Nonostante il suo arrivo recente e la limitatezza della scena autoriale trap italiana comparata a molte scene estere, anche in Italia la trap ha prodotto una Nuova Scuola di giovani artisti particolarmente influenti capaci di dominare la scena rap recente e i consumi musicali giovanili.

4. La rappresentazione della teppa urbana sui social media Tradizionalmente, l’esistenza e le attività della teppa sono state legate a specifici e delimitati spazi fisici, come gli angoli delle periferie urbane (Whyte 1955; Storrod and Denseley 2017). Negli ultimi anni, tuttavia, in risposta alla crescente popolarità di Internet e dei social media (Boyd e Ellison 2007), i membri delle gang urbane hanno cominciato a occupare anche le «strade digitali» (Patton et al. 2013). Gli studi sulla convergenza tra spazi fisici e online evidenziano i modi in cui le nuove tecnologie favoriscono la fruizione e la gestione degli spazi urbani: si pensi ad esempio a come gli smartphone aiutino gli utenti a orientarsi, trovando servizi e attrazioni di loro interesse (De Souza e Silva and Sheller 2015). In questo senso, i social media svolgerebbero per la teppa urbana un ruolo strumentale (cfr. Decker and Pyrooz 2013), sarebbero cioè usati principalmente per regolare i traffici e le attività del gruppo e gestire i conflitti tra bande rivali o all’interno delle stesse (cfr. Patton et al 2013; Irwin-Rogers et al. 2018; Stuart 2020), promuovendo nuove forme di violenza online (e.g. l’Internet 4  Si veda ad esempio il documentario cult sulla scena punk americana The Decline of Western Civilization, significativo già dal titolo. 5  Il picco simbolico del moral panic contro la trap può essere considerata l’iscrizione nel registro degli indagati di Sfera Ebbasta nel gennaio 2019 per istigazione all’uso di sostanze stupefacenti, a seguito di un esposto da parte di due senatori. Poco prima aveva avuto luogo la cosiddetta strage di Corigliano, dove sei persone erano decedute per il crollo di una discoteca in cui Sfera Ebbasta si sarebbe dovuto esibire.

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le strade della teppa

banging teorizzato da Patton e i suoi colleghi). I dati forniti dal National Gang Intelligence Center (2015) sembrano confermare la funzione strumentale della rete, sostenendo che attività quali la compravendita della droga e il reclutamento di nuovi membri hanno spesso luogo online. Tuttavia, Pyrooz et al. (2013) sostengono che la teppa urbana sfrutti i mezzi e la visibilità offerti dalla rete anche e soprattutto per scopi espressivi. Nello specifico, i social media sarebbero usati per rafforzare l’identità collettiva, nonché definire e promuovere i canoni della «cultura della strada» (Morselli e Décary-Hétu 2013). La vetrina digitale è anche il luogo privilegiato dalle nuove bande e da chi vorrebbe entrare a far parte di una gang (i cosiddetti wannabe, cfr. Dance 2002) per acquisire notorietà ed elevare il proprio status (Décary-Hétu e Morselli 2011). Le intuizioni di Pyrooz et al. (2013) sono di grande rilevanza per il presente lavoro, in quanto ci permettono di agganciare il discorso sulle modalità di espressione identitaria alla creazione del canone estetico della nuova teppa giovanile in rete. Decker and Pyrooz (2009) notano come la diffusione dello stile di vita della gang della strada in Europa ‒ già ampiamente veicolato dalla televisione, i film e la musica ‒ sia stata ulteriormente favorita dalla trasmissione dei suoi valori attraverso la rete. Oltre a ciò, è interessante notare come i canoni che caratterizzano la cultura della strada non siano fissi, ma variano a seconda del contesto socioculturale, storico e geografico nel quale si osserva il fenomeno. In questo senso, è utile sottolineare il valore euristico del concetto di generef così come è inteso da Cohen (1986), ovvero una categoria aperta, inerentemente fluida e instabile. Questa concezione storica del genere permette di rendere conto delle recenti evoluzioni dell’estetica della teppa urbana sullo sfondo del continuo cambiamento dei gusti culturali (cfr. Bourdieu 1984). Seguendo Honig e MacDowall (2016), quindi, il genere non è definito tanto dal contenuto della produzione culturale quanto dalla risposta degli utenti e dai meccanismi di negoziazione dell’identità collettiva. La produzione culturale sui social media funziona dunque da catalizzatore per la formazione di spazi digitali popolati da utenti che condividono i canoni della teppa urbana. Il processo di omogeneizzazione culturale proposto da Décary-Hétu e Morselli (2011) implica l’utilizzo di segnali da parte dei membri delle bande per attirare l’attenzione di utenti con simili valori, gusti e stili di vita. La musica costituisce uno dei più potenti aggregatori sociali (Loersch e Arbuckle 2013; Tarr, Launay, e Dunbar 2014) e ha un alto valore psicosociale per le gang urbane in quanto viene usata in rituali di manifestazione di potere (anche a scopi intimidatori) e come forma di social bonding. Essa favorisce inoltre la trasmissione e glorificazione dello stile di vita da gangster (Pawelz e Elvers 2018), di cui la cultura della teppa urbana si nutre. In particolare, la cosid92

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detta «problem music» (North e Hargreaves 2008), che comprende i generi hip-hop, rap e trap, contribuisce a creare e rinforzare gli stilemi della teppa urbana, giocando sulle iperboliche rappresentazioni del mito del gangster (cfr. Gambetta 1993; Storrods 2016) e dei suoi stilemi: la violenza, il consumo di droga, le armi, il sesso e l’oggettificazione sessuale della donna.

5. Metodologia Considerato il valore della musica nella creazione e nell’espressione del canone culturale analizzato, il nostro studio adotta un brano trap quale porta d’accesso verso lo studio dell’estetica della teppa urbana: si tratta della canzone brnbq (sigla che sta per «Bravi ragazzi nei brutti quartieri») di Sfera Ebbasta, pubblicata l’11 Maggio 2016. Nello specifico, la canzone di Sfera Ebbasta è il gancio con cui si intende intercettare la teppa urbana e le sue autorappresentazioni estetiche nella sfera digitale, in particolare attraverso il medium di Instagram. Dal punto di vista metodologico, la scelta è stata dunque quella di bypassare l’api di Instagram (Bainotti et al. 2020) utilizzando uno scraper apposito. Nel nostro caso, lo scraper è stato impiegato per scaricare tutti i post Instagram contenenti gli hashtag #brnbq o #braviragazzineibruttiquartieri, ottenendo un dataset totale composto da 4.966 post. I post sono stati pubblicati tra Maggio 2016, il mese di uscita della canzone, e Giugno 2020, mese in cui è stato operato lo scraping. Il suddetto dataset è stato alla base sia della hashtag network analysis che della visual analysis. Una notazione metodologica importante è che le riflessioni contenute nelle prossime sezioni si basano, come detto, sull’esplorazione dell’estetica della teppa nella sfera digitale. Per evitare facili quanto erronee generalizzazioni, occorre ricordare che l’analisi è stata effettuata su una serie di autorappresentazioni visuali prodotte da un campione ristretto di soggetti, che dunque non restituiscono un quadro completo rispetto al fenomeno osservato. Soprattutto, tali rappresentazioni non sono neutre ma riflettono una molteplicità di significati in cui entrano in gioco una varietà di dinamiche soggettive e oggettive. Citando Walker-Rettberg (2017), le autorappresentazioni sui social media sono costruzioni socioculturali che riflettono specifiche istanze tra cui figurano aspirazioni personali, identità collettive e logiche della piattaforma. Questa breve premessa epistemologica, sebbene possa apparire scontata, risulta quanto mai necessaria per non incorrere in pericolose feticizzazioni dell’estetica della teppa e per conferire ai risultati la giusta rilevanza all’interno del contesto e alle dinamiche analizzate. 93

le strade della teppa

6. Gli hashtags della teppa Il grafo totale degli hashtag usati nei post analizzati è composto da 11.533 diversi nodi. L’operazione di community detection ha individuato 30 cluster con un indice di modularità di 0,445, dunque sufficiente per poter considerare valida la suddivisione in cluster (Blondel et al. 2008). I cluster principali sono stati poi analizzati singolarmente nei loro hashtag più significativi, in modo da poter attribuirgli un significato (laddove esso emergesse). La tabella 1 riporta l’elenco dei primi 10 cluster, la quantità di hashtag appartenenti al cluster e la somma delle frequenze di tutti gli hashtag appartenenti al cluster, impiegato come misura indicativa della sua rilevanza. Tabella 1. Elenco dei 10 principali cluster con argomento ricavato dall’analisi degli hashtag, numero di hashtag contenuti, frequenza aggregata e hashtags più rappresentativi (l’ID del Cluster è casuale) Cluster ID

Argomento

Tot hashtags

Freq hashtags

Hashtags rappresentativi

20

Sferaebbasta e musica trap

1894

19155

#sferaebbasta, #trap, #bhmg, #sfera, #gang

10

Amicizia

1647

9485

#friendship, #brotherhood, #friend, #brothers, #crew, #bestfriends, #streetstyle, #badboys, #fratello, #fratm, #fratellanza,

12

Miscellaneo

1776

6645

#brnbq, #badboy, #bisca, #goodfellas, #boyzndahood

6

Vita vissuta

571

1477

#braviragazzineibruttiquartieri, #trash, #quartierispagnoli, #quartieriromani, #criminal

0

Vita vissuta, droghe

550

1353

#squad, #swag, #weed

2

Foto a persone

322

1280

#streetwear, #picture, #art, #portrait

21

Vita di gruppo

478

1124

#braviragazzi, #amici, #fratelli

94

#brnbq le estetiche della teppa urbana nella «piazza digitale» di instagram

15

Miscellaneo

510

1008

23

Miscellaneo

312

988

14

Il quartiere

410

922

#ghetto, #quartieri, #blocco, #gangsta, #streetart, #fra, #graffiti, #bronx, #hood, #quartiere, #streetlife

L’analisi dei cluster appena esposti permette di trarre diversi risultati di rilievo. Se appare del tutto naturale che il primo cluster per numero di hashtags e rilevanza sia chiaramente legato a Sfera Ebbasta e alla musica trap, i cluster successivi permettono di validare l’ipotesi di partenza del presente studio, ovvero che gli hashtags #brnbq e #braviragazzineibruttiquartieri siano usati in modo massiccio anche da parte di utenti che li usano per autorappresentarsi come «bravi ragazzi nei brutti quartieri» nella piazza digitale di Instagram. Se passati in rassegna, difatti, i cluster successivi a eccezione di quelli miscellanei (ovvero quelli a cui non può essere attribuito un significato preciso) riguardano tutti situazioni, temi, scene o luoghi di vita degli utenti autori dei post. Un’altra importante conferma per le premesse della nostra ricerca arriva dal fatto che non sembra effettivamente emergere dall’analisi un altro singolo hashtag predominante, impiegato dagli autori dei post per autorappresentarsi, che sia riconducibile allo stesso significato di «bravo ragazzo nei brutti quartieri». A parte #brnbq, #braviragazzineibruttiquartieri e gli hashtags relativi a Sfera Ebbasta e alla trap, il grafo è dominato da una costellazione di hashtag ciascuno assai poco rilevante se preso singolarmente. Questo corrobora la nostra scelta di impiegare il titolo di una canzone come base per l’esplorazione dell’estetica della teppa. Per quanto riguarda invece i singoli cluster, appare molto significativo il cluster n. 20, dominato dal tema dell’amicizia e della fratellanza fra bravi ragazzi nei brutti quartieri, che riporta a una dimensione di rappresentazione collettiva della teppa urbana. Anche i cluster 6 e 0 richiamano la dimensione di situazioni di vita vissuta e il tema del consumo di droghe (marijuana). Il cluster 21 raccoglie anch’esso hashtags relativi alla vita di gruppo. Molto significativo è anche il cluster 14 che raccoglie hashtags relativi al quartiere, rappresentato come ghetto o blocco, ai graffiti e alla vita di strada in esso. 95

le strade della teppa

7. L’estetica della teppa In questa sezione presentiamo i risultati ottenuti dall’analisi visuale, condotta su un campione di 929 immagini contenenti almeno uno degli hashtag selezionati. Attraverso l’analisi è stato possibile suddividere il corpus in sei macrocategorie: 1. Il primo gruppo, rinominato «Bellacumpa», comprende 576 post raffiguranti la dimensione amicale e gregaria, in cui si esalta lo stare insieme e le attività di gruppo. La rilevanza di questo cluster deriva dalle scelte metodologiche prese in fase di campionamento: il dataset per l’analisi visuale comprende infatti principalmente gli hashtag più rappresentativi del cluster «Amicizia», che, come abbiamo evidenziato, costituisce il secondo cluster per numero e frequenza di hashtag. In «Bellacumpa» sono state inserite le immagini che raffigurano più soggetti (es. tramite l’utilizzo di hashtag quali #friends, #bro, #fratm, #squad) e in cui l’amicizia emerge come tema principale. Al suo interno si evidenziano tre sottocategorie, ovvero «Fratm» (278), «Vita da branco» (172) e «Occasione» (126). La principale differenza tra queste risiede nell’uso degli hashtag, che sono stati scelti come principale discriminante tra i sottogruppi: nel dettaglio, in «Fratm» si sottolinea l’importanza dell’amicizia e il profondo sentimento di fratellanza che unisce gli appartenenti al gruppo; in «Vita da branco» si trovano immagini che mostrano il gruppo di amici al completo, hashtag relativi a esso e allo stare insieme (es. #squad, #gang, #420); infine «Occasione» riunisce i post e le foto prodotte in specifiche occasioni, in cui gli hashtag fanno riferimento a ricorrenze precise (es. feste di compleanno) o serate particolari. Per l’analisi sono state considerate 30 immagini, dieci per ogni sottocategoria di «Bellacumpa». 2. Il gruppo «Solo» (145) comprende le immagini in cui è presente solo una persona, tipicamente l’utente proprietario del profilo Instagram. Si tratta di selfie o foto scattate da terzi, accompagnate da hashtag o frasi di autoriflessione. 3. I post contenuti nei gruppi «Luoghi» (54) e «Cose» (28) ritraggono rispettivamente paesaggi ‒ urbani e non ‒ e oggetti che tipicamente hanno un valore identitario o affettivo per chi ha pubblicato l’immagine, talvolta specificato nella didascalia del post. 4. Il gruppo «Sfera» (109) contiene immagini di e con il cantante Sfera Ebbasta, incluse foto con i fan, pubblicità dei concerti e copertine 96

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di album. Non sono state incluse foto in cui era presente solo il tag al cantante. 5. Infine, «Scritte» (17) riunisce i post con solo frasi e nessuna immagine. Di norma si tratta di brani di canzoni, frasi motivazionali, pensieri e riflessioni inserite su uno sfondo monocolore. Anche i meme sono stati inseriti in questo gruppo. Passiamo dunque ad analizzare nel dettaglio il contenuto e i messaggi espressi dai post selezionati per ognuna delle categorie individuate.

8. Bellacumpa A livello di contenuti, si nota che i soggetti rappresentati sono tutti giovani e indicativamente coetanei. È inoltre interessante notare che le foto ritraggono principalmente individui dello stesso sesso e che la componente maschile prevale su quella femminile. In particolare, sembra valere la regola per cui se nell’immagine sono presenti poche persone, queste sono tipicamente tutti o ragazzi (ed è la variante più numerosa) o ragazze. Nelle foto in cui compare un numero maggiore di soggetti aumentano invece le possibilità di riscontrare configurazioni più eterogenee. Sottocategoria «Fratm». L’immagine prototipica di questa sottocategoria raffigura due o tre soggetti, tipicamente dello stesso sesso, in atteggiamento fraterno. Si prediligono inquadrature a mezzobusto, anche selfie, in cui a scattare la foto è talvolta l’utente proprietario dell’account. I setting sono vari: in casa, al parco, al mare o in auto. Un elemento che accomuna le immagini è la vicinanza e il contatto fisico: i soggetti ritratti si trovano l’uno accanto agli altri, abbracciati o con un braccio intorno alle spalle (fig. 1). È spesso presente anche la gestualità stereotipata, sebbene non sia prerogativa di questa sottocategoria ma ricorra anche nelle altre due. Tra i segni principali si trovano: la lettera c formata con indice e pollice (verosimilmente una citazione della canzone Ciny dello stesso Sfera Ebbasta, come indicato dagli hashtag), la linguaccia, le dita a v, il pollice o il dito medio alzati (fig. 2), lo shaka (pollice e mignolo alzati) e lo shocker (dito anulare e pollice piegati verso il palmo della mano, le altre dita alzate). Tranne pochi casi isolati, l’esegesi di tale segnaletica gestuale è molto difficile: anche se spesso si tratta di gesti ripetuti dallo stesso cantante, è difficile decidere se la loro replica nelle foto sia da interpretare come una forma di emulazione di Sfera Ebbasta o abbia un significato diverso. 97

le strade della teppa

Fig. 1

Fig 2

L’elemento distintivo di questa sottocategoria, come già anticipato, si trova nella descrizione che accompagna l’immagine. Si tratta di hashtag, citazioni o vere e proprie dediche indirizzate al soggetto (o ai soggetti) presenti nella foto assieme all’autore del post, che mirano a sottolineare l’unicità e la profondità del legame che li unisce. È interessante notare come, tra gli hashtag più menzionati i termini relativi all’amicizia (#frate, #friends, #friendship) si mescolino a quelli di parentela (#bro, #brother, #fratello, #fratellanza). La stessa tendenza è ravvisabile anche nelle didascalie, dove oltre al paragone amici-fratelli («T chiamm frat perché re cumpagn nun m fid », post del 98

#brnbq le estetiche della teppa urbana nella «piazza digitale» di instagram

30 agosto 2017), si sottolinea l’importanza della condivisione di esperienze e soprattutto il ruolo degli amici nel superare le difficoltà della vita («Gli amici sono quelle persone che anche nei momenti più brutti ti rimangono accanto! », post del 17 novembre 2016). In sintesi, si può affermare che nei post appartenenti alla categoria «Fratm» il focus principale sia la dimensione intima dell’amicizia, descritto come un legame unico e inscindibile con gli altri membri della squadra o, più spesso, con un ristretto sottogruppo. Da notare come questo messaggio non venga veicolato tanto dalle immagini, i cui stilemi sono largamente ripresi anche dalle altre due categorie, ma soprattutto dal testo e dagli hashtag che le accompagnano. Sottocategoria «Vita da branco». L’estetica di questa sottocategoria è simile alle immagini della sottocategoria “Fratm”, con una maggiore propensione per i gruppi numerosi. Si tratta ancora una volta di soggetti prevalentemente maschili, che si ritraggono in compagnia della squadra come a volersi presentare pubblicamente. Al contrario delle foto in “Fratm”, qui le pose e i setting sembrano infatti meno casuali e spontanei, e traspare una certa riflessione per ottenere un effetto visivo e un’immagine studiata in partenza. Il branco si fotografa in luoghi ben precisi e/o in atteggiamenti da gang di strada, spesso rinforzati dall’espressione seria dei soggetti, dalla loro accentuata e variegata gestualità, nonché dall’abbigliamento sportivo e uniformato (fig. 3).

Fig 3

Quanto al setting, sono emblematiche le immagini in cui appare un’auto sullo sfondo e, specialmente, quelle in cui i soggetti si posizionano intorno, dentro e sopra al veicolo (fig. 4). L’auto in questi casi simboleggia uno status economico e sociale («Siamo Esagerati sulla Maserati # #Maserati 99

le strade della teppa

#BadBoys #Guè #BMLuxuryRentCar #SempreLive #SoloSerieA #CarPorn #brnbq» post del 29 aprile 2018) ma è anche un elemento chiave della vita della gang per come i suoi membri la intendono rappresentare e ostentare sul social network: una quotidianità fatta di attività spesso illecite che prediligono la strada, i quartieri popolari e si svolgono prevalentemente di notte (non a caso quasi tutte le foto sono in notturna, vedi fig. 5).

Fig 4

Fig 5

Gli hashtag e le descrizioni sotto ai post corroborano questa idea di vita spericolata e ai limiti della legalità, citando brani della canzone brnbq, tra cui «Mamma non preoccuparti, esco solo a fare un giro coi bravi ragazzi», ma anche «Fanno le cose che è meglio non dire, fanno le cose che è meglio non fare» e «Fuori quando il blocco dorme». Non mancano ovviamente espliciti riferimenti al gruppo («Lo squad spacca testa», «è una parte della #squad», «ragazzi del Vicolo»), che in alcuni casi ha persino un nome («la blandinocrew sul tetto del mondo», post del 12 settembre 2017). Interessanti anche le descrizioni che richiamano la dimensione spaziale offline, ovvero i luoghi in cui il gruppo è solito ritrovarsi: in questi casi la città diventa un terreno di conquista («Sta città, ci apparterrà», post del 14 agosto 2018) o più spesso un luogo della memoria («Queste scale sono il nostro trono, parlano la lingua che parliamo noi», citazione da brnbq). Uno dei messaggi più interessanti che emerge dai post di “Vita da branco” (e non solo) è quello del riscatto sociale. La squadra ‒ al pari degli amici ‒ non offre solo supporto morale ai suoi membri per superare le difficoltà poste dalla vita, siano esse di natura personale o socioeconomica: le attività del branco, e soprattutto quelle illegali come lo spaccio, sono infatti il mezzo attraverso cui raggiungere il prestigio sociale e il benessere economico simboleggiato da beni di lusso, tra cui la già citata auto (v. sottocategoria “Cose”). 100

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Sottocategoria “occasione”. Come accennato, la categoria “occasione” non presenta sostanziali differenze con le altre due a livello di contenuti: si tratta ancora una volta di immagini che raffigurano gruppi più o meno numerosi di amici nell’atto di divertirsi insieme. Anche nelle descrizioni che corredano le immagini troviamo spesso hashtag e frasi che insistono sul legame di amicizia, fratellanza e sulla vita e i momenti condivisi dal gruppo. L’elemento caratterizzante in questo caso riguarda l’occasione in cui è stata scattata la foto, che costituisce il focus primario dell’intero post. Si tratta di eventi di varia natura, che comprendono celebrazioni (feste di compleanno, matrimoni, lauree), ritrovi informali (grigliate, feste in spiaggia), vacanze, cene fuori e serate in discoteca o in giro per locali (figg. 6 e 7). L’estetica delle immagini, in particolare il setting e l’abbigliamento dei soggetti, è naturalmente eterogenea e cambia in base al tipo di occasione in cui la foto è stata scattata. Oltre gli hashtag esplicativi (#bday, #18, #venerdisera, #saturdaynight, #wedding), le foto di questa categoria presentano alcuni elementi distintivi, tra cui torte di compleanno (Immagine 6), drink in mano e filigrana con il logo del locale o della discoteca.

Fig 6

Fig 7

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le strade della teppa

8.1. Solo I post contenuti nella categoria “Solo” formano il secondo cluster per numero di post del dataset analizzato. Esso comprende foto che raffigurano un solo soggetto, che è sempre l’utente proprietario dell’account Instagram sul quale vengono pubblicate. Nonostante l’apparente semplicità del tema, le immagini presentano una grande varietà di stilemi. Una prima distinzione può essere operata, a livello di estetica, tra selfie e foto scattate da terze persone.

Fig. 8

Tra i primi si riscontrano foto in primo piano intere, parziali o allo specchio (figg. 8, 9 e 10), mentre nelle immagini della seconda tipologia il soggetto è raffigurato in atteggiamento riflessivo in un ambiente (fig. 11), in sella a un motorino (figg. 12 e 13) oppure si tratta di foto artistiche (fig. 14).

Fig. 9

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Fig. 10

Fig 11

In ogni caso, il soggetto decide di mostrare la faccia o meno, e in caso guardare dritto in camera oppure altrove. Anche lo stile di abbigliamento è piuttosto vario e spazia dal casual all’elegante. Lo stile, espresso dai vestiti e dagli accessori indossati, sembra ricoprire un ruolo centrale nell’economia di questi post, com’è confermato sia dalla presenza di hashtag quali #mystyle, #elegance, #fashion, #swag, #nike, #ricchidentrofashion103

le strade della teppa

community e #outfit, sia da didascalie dedicate («E il diavolo è vestito bene.», «Vestiti bene in quartieri di merda.», «Dalle panchine ai sedili di pelle del Benz »).

Fig. 12

Fig. 13

Ritorna quindi il tema del riscatto e dell’ascesa sociale, già evidenziato nel precedente cluster, e dell’ostentazione di beni di lusso materiali. Sempre in linea con le immagini delle altre categorie, si trovano accenni ad attività illegali tipiche delle gang urbane, tra cui il consumo e lo spaccio di droga (#420, #weednight, #highlife, #ganja, #weeda, «Luci blu: vuo104

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le dire solo “corri”, non farti prendere dal panico quando li incontri» cit. da Visiera a Becco di Sfera Ebbasta. «Fumo dieci grammi e mi scordo chi sei te» cit. da Tutti Scemi di Sfera Ebbasta). Ancora in continuità con quanto rilevato nelle altre categorie è il tema della città e dei luoghi che hanno un valore personale per gli autori dei post, richiamati nelle descrizioni da hashtag e frasi come: «Le palazzine, il Bronx di san Pietro. #bronx #bassifondi #bruttiquartieri» (post del 19 dicembre 2017); «In da #ghetto » (post del 14 giugno 2016) e «Il mare di notte è la cosa più bella che esista» (post del 28 dicembre 2017).

Fig. 14

In “Solo” entra infine la dimensione privata della solitudine e della riflessione personale, in cui l’autore esprime ‒ spesso citando brani del cantante Sfera Ebbasta ‒ come la vita di strada abbia influenzato il suo percorso di crescita e lo abbia aiutato a superare i momenti bui («Essere soli non vuol dire arrendersi... essere solo vuol dire lotta e fai capire a tutti che non hai bisogno di nessuno» post del 21 maggio 2017; «La strada mi chiama, non voglio sentirla, mi chiama più forte. » cit. da ognt di Sfera Ebbasta in post del 15 agosto 2016, «La vita mi ha steso al tappeto più volte, io mi son sempre rialzato più forte» cit. da Più Forte di Sfera Ebbasta in post del 18 settembre 2016). Si tratta quasi sempre di storie di vite difficili, in cui tuttavia si intravede la speranza o la concretezza di un riscatto (« Ho solo cambiato strada, non sono scappato… volevo una chance pure io » cit. da Equilibrio di Sfera Ebbasta in post del 1° febbraio 2018).

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8.2 Luoghi Le immagini che costituiscono la categoria “luoghi” raffigurano principalmente i luoghi tipici in cui si svolge la vita della teppa urbana di cui parlava già Whyte (1955). Si tratta, nello specifico, di scorci di quartieri degradati (fig. 15), case popolari dai muri scrostati (fig.16), angoli bui (fig.17) e sottopassaggi pieni di graffiti (fig.18).

Fig. 15

Fig. 16

Spesso le immagini, già poco luminose e dai toni tetri, sembrano essere state ulteriormente modificate da filtri che aumentano la desaturazione dei colori, contribuendo a rendere l’atmosfera ancora più cupa. Le foto sono inoltre corredate da hashtag che rimandano agli spazi urbani, alla street art o al legame affettivo che unisce le persone a determinati luoghi (#ghetto, #streetart, #graffiti, #lamiabovisa, #Bronx, #pallazzialti, #palazzine).

Fig. 17

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Fig. 18

Similmente, le didascalie insistono sul tema della memoria e dell’importanza del ricordare le proprie origini (« Bolognina nel cuore il mio quartiere », post del 28 dicembre 2018, «Tra delle vecchie mura in un corridoio di pensieri, non sperare, erano solo dei sogni, mica fatti veri» post del 6 febbraio 2017, «Dove cazzo vai se non sai da dove vieni?» post del 6 febbraio 2017). Un minor numero di foto raffigura luoghi di vacanze: qui viene meno l’elemento di degrado urbano ma rimane prioritaria la rievocazione dei momenti trascorsi e le emozioni legate a un determinato spazio fisico («Gite nei quartieri, pioggia a dirotto, camminate senza fine, viste uniche, fame perenne e divertimento tanto con i miei amici lazzari», post del 9 marzo 2018).

8.3. Cose L’ultima categoria racchiude immagini che raffigurano principalmente oggetti e accessori di valore. Tra questi, spicca sicuramente l’auto (figg. 19 e 20), elemento già ricorrente in altre categorie come simbolo della vita di strada, ma anche oggetto di lusso da ostentare.

Fig. 19

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Fig. 20

Accanto a essa, si trovano foto di capi di abbigliamento (tra cui scarpe e cappelli, vedi Immagine 21), attraverso i quali si esprimono i canoni stilistici della teppa urbana, ossia composto principalmente da indumenti sportivi ma firmati e quindi costosi. Le marche degli abiti sono bene in vista nella foto, ma vengono anche riprese dagli hashtag e dalle didascalie («L’unica cosa che cambia col tempo è la tipa che scopi e i modelli di Nike! » cit da Lingerie di Tedua).

Fig. 21

Fig. 22

Un piccolo gruppo di immagini ritrae infine alcuni degli oggetti tipici nella autorappresentazione della (mala)vita della teppa, ossia l’alcol (fig. 22), il fumo o la droga (figg. 23 e 24) e bombolette spray per graffiti. Ancora una volta, le didascalie restituiscono scene di vita vissuta, spesso attraverso stralci di brani musicali («Sempre pieno il mio bicchiere, la primizia è sempre verde, la bottiglia è sempre purple, il mio umore sale e scende.» Citazione da Blunt&Sprite di Sfera Ebbasta, post del 28 giugno 2016). 108

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Fig. 23

Fig. 24

9. Conclusioni Dall’analisi emerge che la maggior parte della produzione intorno ai due hashtag selezionati (#brnbq e #braviragazzineibruttiquartieri) raffigura gruppi più o meno numerosi di soggetti giovani e di sesso maschile. A livello di contenuto, la tematica preponderante dell’amicizia e dei momenti di gruppo si interseca a quella della vita di strada, richiamata dalle tematiche della legalità e dei luoghi urbani marginali (es. i quartieri degradati delle periferie). Più in generale, le immagini analizzate restituiscono una narrazione egemonica che presenta poche varianti: i protagonisti si rappresentano come giovani di bassa estrazione sociale, nati e cresciuti nei bassifondi della città, che affrontano da soli o più spesso in gruppo le difficoltà della vita nella speranza di un futuro migliore. È proprio la squadra che offre il sostegno morale e talvolta materiale (grazie ad attività non sempre legali) per superare lo svantaggio socioeconomico e raggiungere l’agognato riscatto sociale, simboleggiato da beni di lusso emblematici come auto e vestiti firmati. La narrazione raccontata attraverso le immagini è ulteriormente rinforzata dalle didascalie, che spesso citano brani di Sfera Ebbasta e, in minor numero, 109

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di altri cantanti trap. Un tema ambiguo e superficialmente trattato nei post è quello dell’illegalità: la droga, ad esempio, è sia vista come una fonte di guadagno utile a uscire dalla condizione di povertà, sia come elemento costitutivo dell’identità della teppa urbana (v. sezione «Cose»). Talvolta emerge l’idea della necessità delle attività illegali e la frustrazione di questi individui nel sentirsi abbandonati e non tutelati dalla legge; in molti casi, tuttavia, la vena drammatica della lotta sociale è totalmente assente. Dalle immagini e le tematiche analizzate è possibile avanzare alcune riflessioni significative in merito alla autorappresentazione delle e dei giovani di periferia. Dall’analisi, infatti, emerge come i giovani attraverso l’identificazione in «bravi ragazzi nei brutti quartieri» operano una soggettivazione atta a ridefinire il proprio status. Il ribaltamento dell’etichetta di cattivi ragazzi in bravi ragazzi avviene attraverso la rivendicazione in positivo degli stessi elementi usati dalla «brigata appendili e frustali» (Marchi, 1998) per stigmatizzare socialmente la teppa. Sfera Ebbasta e altri autori trap sembrano assumere in questo contesto un ruolo fondamentale: essi diventano dei «cantori» della teppa urbana, che fornendone una rappresentazione positiva ed esteticizzata nei propri pezzi di successo forniscono ai membri della stessa degli strumenti per operare questa soggettivazione rivendicativa. Un’altra componente importante nella soggettivazione della teppa è rappresentato dall’altra metà del titolo della canzone di Sfera Ebbasta, ovvero il quartiere. Qui, la retorica del degrado dei quartieri popolari particolarmente cara alla brigata appendili e frustali viene ribaltata in un simbolismo che esalta (anche visivamente attraverso dei filtri) la cupezza e la rozzezza dei luoghi, i segni della cultura di strada che li identificano e il loro significato profondamente simbolico con gli abitanti. L’estetica della teppa nel suo complesso diventa così lo strumento di definizione e rivendicazione di un’identità deviante e ribelle alle norme (sociali o letterali) della società. Allo stesso tempo, l’unica strada di riscatto che emerge rimane ingabbiata nelle maglie di questa stessa estetica, assumendo una dimensione di pura ascesa economica individuale (o del gruppo), cristallizzando in qualche forma quella stessa condizione deviante e marginale. Il presente capitolo ha permesso di avanzare una serie di spunti interessanti per riconsiderare il rapporto tra la «teppa online» rappresentata nel nostro dataset e la «teppa urbana» che effettivamente si organizza e opera negli spazi digitali e non e formulare una prima analisi della estetica delle culture giovanili di strada. Parafrasando provocatoriamente il titolo del celebre saggio di Spivak (Morris 2010), abbiamo mostrato come la teppa «parli» e si rappresenti eloquentemente anche negli spazi pubblici digitali. Il nodo diventa piuttosto se e soprattutto come la teppa 110

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possa essere ascoltata (cfr Maggio 2007): il nostro studio rappresenta un primo esperimento in tal senso, almeno nella sfera digitale, in cui l’ascolto e l’analisi delle rappresentazioni delle culture di strada giovanili è potuto avvenire solamente adottandone i codici e cercando nelle maglie della sua estetica le parole d’ordine, adottate dal suo cantore trap, che abilitano il loro processo di soggettivazione. Naturalmente il presente studio possiede dei limiti, rappresentati dal nostro dataset e dalle logiche di piattaforma. Riteniamo che il legame della teppa online analizzata con quella “vera” non sia lineare: nella sfera digitale avviene una commistione fra categorie che appartengono a tutto tondo alle controculture giovanili di strada e categorie che in modo più o meno ampio si limitano a riappropriarsi di questa estetica, per la sua attrattività sociale. Futuri studi in questa direzione potrebbero approfondire la natura di questo legame, espandendo il campo di ricerca ad altri spazi digitali e indagando il complesso tema ‒ qui solo abbozzato ‒ del riscatto sociale.

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«si scrive torino, si legge far west» teoria e critica della colonizzazione notturna torinese1 di Enrico Petrilli

È rabbia che cova, ma quando esplode vedrai La mia città non l’hai fermata e non la fermerai mai È ancora dritto dal cuore, calore che brucia gli Hi-Fi Era black city ed è black city. Onemic – Black city

Una delle poche certezze confermate da questi primi anni pandemici è come la notte sia ancora un territorio conflittuale, con le sorti della nazione che sono sembrate dipendere totalmente dalle inciviltà notturne dei (presunti) giovani.2 Un’ansia sociale nei confronti del divertimento notturno ricorrente nel nostro paese, come dimostrano le cosiddette «stragi del sabato sera» degli anni Novanta e l’emersione del fenomeno della movida nel primo ventennio del xxi secolo, con il disturbo della quiete pubblica e il “degrado” notturno oggetto di reportage giornalistici, delle lamentele dei comitati di residenti, delle ordinanze dei sindaci come dell’attività parlamentare. Pertanto, all’interno di un libro interessato a muoversi tra le nuove strade percorse della teppa e in cui sono esplorati i nuovi spazi del conflitto contemporaneo, mi sembra opportuno sollecitare una riflessione critica sulla notte e sul divertimento notturno. L’obiettivo del presente capitolo è andare oltre a posizioni semplicistiche di ridicolizzazione della «kultura della notte» – romanzate da Maurizio Pagliassotti (2014: 101) o di denuncia della «cultura della movida»,3 tacciata di 1  Desidero ringraziare Lorenzo Busacca, Andra “Passenger” Di Maggio, Mariella Lazzarin, Fabrizio Mastello, Luca Merlone, Sabino Pace, Valentina Pantano, Marco Petrilli e Sbrock per avermi aiutato a raccogliere diversi “pezzi” della storia musicale di Torino. Giacomo Bottà e Alberto Vanolo per aver letto il capitolo e per i loro preziosi feedback. 2  La definizione di movida del vocabolario memetico Dizionario Devoto ‒ Ai Padroni rende in maniera accurata il controsenso del periodo: «Causa di assembramento e dunque di trasmissione del covid-19; attività illegale e perseguibile. Fortunatamente non sussiste in luoghi chiusi come fabbriche, uffici e ristoranti». 3  «La Stampa», 13/09/20, La violenza nella cultura della movida.

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essere fondata su «quattro pilastri, in ordine sparso: alcol, cocaina, scopare, violenza»,4 per esplorare la complessità del fenomeno, mostrando come al suo interno siano presenti contraddizioni e molteplici livelli di analisi, scontri tra soggetti in posizione di potere asimmetriche e siano sperimentati innovativi dispositivi di sorveglianza e controllo. Parlare di notte e divertimento notturno da una prospettiva del genere, permette quindi di socializzare il lettore ad alcuni concetti e riflessioni utili per potersi orientare all’interno di questo campo, nonché di vagliare criticamente una delle sue teorie principali, quella della cosiddetta colonizzazione della notte (Melbin 1988; Shaw 2018). Per raggiunge questo scopo, è stata realizzata una ricerca documentale sulla storia del divertimento notturno di Torino, dagli anni Ottanta dello scorso secolo al periodo pre-pandemico.5 Un percorso in cui si intrecciano e sono messi in comunicazione diversi saperi: la letteratura nazionale su securitizzazione e degrado, le pubblicazioni internazionali afferenti ai night studies, i risultati dei pochi studi condotti sulla notte torinese e i frammenti di vita lasciati in canzoni, libri, locandine e così via delle soggettività sub e post-subculturali, le quali l’hanno attraversata, restituendo spesso un vissuto non-allineato alla narrazione egemonica della città.

1. Crescere nella noia, vivo in una città morta (gli anni Ottanta)6 Il decennio inizia all’insegna della fiat e delle barricate: da un lato, operai e sindacati confederali, impegnati in trentacinque giorni in proteste e 4  Ivi. 5  Non rientra nei fini del testo e pertanto merita di essere segnalato solo in nota, ma un primato torinese permette di rivedere la storia ufficiale della night-time economy. Come è noto Franco Bianchini (1995: 124) riconduce l’idea e il termine di economia notturna al lavoro compiuto a Roma da Renato Nicolini che dal 1977 al 1985 grazie agli eventi dell’Estate Romana rivitalizzò la città e riportò molti romani a usufruire dei suoi spazi pubblici. Sarà lo stesso Bianchini, attraverso il suo coinvolgimento nella think-tank Comedia, a esportare in Inghilterra questo modello per «raddoppiare l’economia dell[e] città», come vedremo più dettagliatamente nella sezione del testo dedicata agli anni Novanta. Tuttavia, a essere meno noto nel dibattito internazionale è che a sua volta Renato Nicolini si ispirò all’opera di Giorgio Balmas, il primo assessore alla Cultura di Torino («la Repubblica», 07/06/07, Quando Torino inventò l’estate). Dal 1976 al 1984 Balmas organizzò i Punti verdi, una serie di concerti e spettacoli serali nei parchi cittadini, «un momento di svolta e un’innovazione assoluta» per il giornalista Gabriele Ferraris (Gabo su Torino, 17/06/18, Digli cos’erano i punti verdi) perché grazie all’originalità del progetto e alla qualità del suo cartellone riuscì a «portar fuori la gente, farle scoprire angoli urbani sconosciuti o ritrovarli in una veste nuova», secondo le parole dello stesso Balmas («la Repubblica», 02/07/05,Com’erano belli i miei Punti verdi…). 6  Per ricostruire la storia del divertimento notturno torinese prima degli anni Ottanta si rimanda alle tesi magistrali di Elisabetta Bordone, Luoghi di svago a Torino tra le due guerre (1918-1940). Le sale da ballo, e di Valeria Montemagni, Dalle sale da ballo alle discoteche a Torino.

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picchetti, una delle vertenze industriali più lunghe, accese e accanite dal dopoguerra; dall’altro, i quadri e gli impiegati dell’azienda scendono in strada nella cosiddetta marcia dei quarantamila per schiararsi contro i sindacati e difendere i privilegi della classe media (Baldissera 1984). Tuttavia, Giovanni Agnelli intervistato da Eugenio Scalfari nel 1982 mette in secondo piano queste conflittualità, per esaltare l’etica calvinista della città e segnare un confine tra la laboriosità sabauda e la «mollezza» del resto del paese: «Siamo una gente montanara, Torino ricorda le antiche città di guarnigione, i doveri stanno prima dei diritti, […] l’aria è fredda e la gente si sveglia presto e va a letto presto».7 Le parole dell’avvocato mettono in scena perfettamente l’immaginario dominante della città e, di conseguenza, della sua notte. La Torino degli anni Ottanta si considera ancora (nonostante la crisi economica del decennio precedente) una città fordista, una città costruita attorno alla produzione industriale, progettata in base ai tempi e ai ritmi della fabbrica (Bagnasco 1986). Se per Bauman (2002: 54) la fabbrica fordista è stato un «cantiere epistemologico su cui poggiava un’intera visione del mondo», questa implicava anche una netta divisione gerarchica tra i tempi della giornata: il giorno come momento del lavoro e la notte come momento del riposo. La vita notturna è “oscurata”, non sembra esistere, nonostante le fatiche degli operai impegnati nell’ultimo turno e i grandi concerti con ospiti nazionali e internazionali come Bob Marley nel 1980, i Dire Straits nel 1981 e i Rolling Stones nel 1982, è relegata a essere un semplice. Quando si godono i benefici di questo regime (disciplinare) diurno è scontato tesserne le lodi, come fa l’avvocato, però è altrettanto naturale che non tutti la pensino allo stesso modo. Una delle voci (stonata e) fuori dal coro è quella dei giovani della galassia punk, i quali iniziano a muoversi per la città per riunirsi al bar/caffè Roberto8 e al Fire, l’unico locale in tutta Torino che accetta di farli suonare (Bernelli 2003). L’orizzonte esistenziale della città è messo a nudo dai Rough, gruppo oi! che proprio nel 1982 pubblica il primo disco punk sabaudo. La title track diventa presto il (contro)inno della città: «Crescer nella noia, senza sapere cosa fare / Crescer nella noia, senza un futuro in cui sperare / In una città, dove non succede mai niente / Torino è la mia città». Torino, però, non è semplicemente una città triste, è anche una città martoriata, prima, dall’industrializzazione e, poi, dal suo fallimento e canzoni come Vivo in una città morta (uscita nel 1983 nella compilation 7  «la Repubblica», 25/11/82, La cura Agnelli per l’Italia. 8  Il nome cambia in base alla fonte, è bar Roberto per Bernelli (2006) e Bottà (2020), mentre è caffè Roberto per De Sario (2009) e Lazzarin (2020).

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Torino 198X) dei Blue Vomit e A sud di Torino (pubblicata nel 1984 nello split con i Franti) dei Contrazione mettono in scena gli effetti sul territorio urbano e umano della laboriosità decantata da Agnelli: per i primi Torino è «risorta con il più grande sfruttamento» per diventare «l’avanguardia della disumanizzazione», mentre i secondi raccontano il destino dei quartieri dormitorio con la chiusura delle fabbriche e i licenziamenti di massa, «Macerie! Muri scrostati, quartieri deserti […] Depresso! Agglomerato urbano anti-funzionale». Se di giorno Torino è grigia e disperata, di notte – secondo la testimonianza di un membro dei Contrazione raccolta da Giacomo Bottà (2020) – è in un perenne stato di coprifuoco, alle 19:30 chiude ogni sorta di attività e la gente ha paura di uscire di casa. Per Silvio Bernelli (2003: 35) – bassista di Declino e Indigesti – la situazione si aggrava ulteriormente con l’incendio del Cinema Statuto nel 1983, a cui le autorità locali rispondono con una stretta securitaria e «cinema, discoteche, ristoranti e locali chiusero uno dopo l’altro». «Il lungo sonno di Torino» (ivi: 182) continua per tutto il decennio e i giovani alternativi – non solo i punk, ma anche i new waver come Gigi Restagno9 e i mods di Piazza Statuto10 – sono tra i pochi a esplorare questa «terra incognita» (Schivelbusch 1994: 140) che è la notte torinese, grazie ai centri d’incontro delle Circoscrizioni,11 alle punte in Piazza Statuto, alle occupazioni (quella storica del «né centro, né sociale»12 El Paso è del 1987) e ai locali notturni come Metro, Studio Due, Tuxedo e Big Club (Bottà 2020; Lazzarin 2020). Le avventure di questi giovani antieroi romantico-subculturali13 rientrano a pieno titolo nella storia della trasgressione di Bryan Palmer (2000), dopotutto i loro sono «viaggi nella notte» come quelli dei contadini eretici, dei pirati e dei rivoluzionari. Secondo lo storico canadese, l’oscurità ha rappresentato per tutte queste soggettività uno spazio di possibilità per 9  Si rimanda al documentario dedicatogli, Beautiful “Loser” – Una vita apparentemente normale di Diego Amodio. Per conoscere il sound torinese di quegli anni si consigliano le compilation: Ti Dico Demo, uscita per la TD nel 1985, e 391 | Vol. 2 Piemonte - Voyage Through The Deep 80s Underground In Italy, uscita per la Spittle Records nel 2015. 10  Si rimanda al libro Rabbia e stile. Storie di mods e degli Statuto di Oskar Giammarinaro, uscito per Milieu edizioni, con prefazione di Valerio Marchi. 11  Un’altra iniziativa della giunta del sindaco Diego Novelli dopo i Punti verdi. I centri d’incontro hanno avuto un ruolo fondamentale nell’aggregare i primi punk torinesi (Bottà 2020). 12  La definizione dello spazio da parte dei suoi occupanti è anche il titolo di una canzone del gruppo hardcore Mucopus. 13  Tra i primi avventurieri notturni rientrano anche i soggetti lgbtq, di cui Marco La Rocca (2018) ricostruisce le geografie omoerotiche tra i bar Motta e Noni’s, il Cinema Milano, i bagni pubblici di Piazza del Municipio, il Parco del Valentino, le Porte Palatine e, infine, il Penny club.

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atti di brutale terrore o di totale libertà. Nel caso dei giovani punk, il vuoto della notte torinese ha permesso di generare un terrore sonico – per Bottà (2020: 126) il suono di Torino è «dominato da disperazione e tristezza» – necessario ad affrancarsi dal claustrofobico fallimento economico e sociale della città.

2. Non esistono di giorno (gli anni Novanta) La prima volta che ho suonato a Torino invece è stata alla Lega dei Furiosi. Li è successo di tutto, vedevi le macchine che finivano nel Po! Una roba ben diversa da quella a cui ero abituato dalle mie parti [nel bresciano, n.d.r.] che se fumi una sigaretta in disparte le guardie vengono a controllarti. Poi mi ricordo che si organizzavano party anche al Prinz Eugen o in altri posti occupati. Andavo a suonare nel nord est o a Milano per lavoro, ma quando venivo a Torino finiva il discorso soldi e iniziava il discorso musica! (Pippo, intervistato da Pablito el Drito, 2018: 30)

Per una one company town come Torino, la crisi della Fiat dei primi anni Novanta ha comportato molteplici conseguenze: dalla cassa integrazione di massa alla crescita dei tassi di povertà, oltre a un picco di morti per overdose da oppiacei14 (Faggiano et al. 2002; Vanolo 2015). I problemi economici e sociali della città hanno anche generato una proliferazione di spazi in disuso, una miriade di edifici, fabbriche e magazzini abbandonati di cui i giovani hanno preso presto possesso per stabilirci centri sociali, case occupate e rave temporanei o, ancora, ristrutturandoli per far nascere nuovi esercizi commerciali, spesso notturni. Partendo dal primo punto, l’occupazione de El Paso alla fine degli anni Ottanta mette in moto «uno tsunami di felicità»15 e nel decennio successivo crescono gli spazi liberati per incontrarsi, suonare e fare politica dal basso (Berzano et al., 2002). Barocchio, Prinz Eugen, Delta House, Kinoz, Alcova e Rosalia, l’Albero e Isabella (per citarne alcuni) invadono e sporcano tutto il territorio cittadino a «macchia di leopardo»16 e attorno a queste occupazioni inizia a coagular14  Per approfondire la storia dell’eroina a Torino si rimanda allo studio di Vincenzo Ruggiero (1992) e al romanzo autobiografico di Bruno Panebarco, Fedeli alla roba: romanzo di un naufragio generazionale. 15  Citazione di un membro dei Rotten Brain, tratta dal documentario Torino Hardcore di Andrea Spinelli. 16  Ivi.

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si un numero sempre più grande di giovani che attraverso Radio Blackout (radio libera e indipendente fondata nel 1992), fanzine e dischi autoprodotti danno vita a una scena hardcore «che ci invidia il mondo».17 È «uno sciame di gente»18 che si muove da uno squat all’altro del capoluogo piemontese, senza fare distinzione tra centro e periferia. D’altro canto «Torino si prestava bene per i rave», secondo Davich intervistato da Pablito el Drito (2018: 36), grazie ai suoi capannoni abbandonati e ai negozi di dischi sempre molto forniti. Infatti, già all’inizio degli anni Novanta crew come Dance Enforcement Agency (dea) e Acid Drops organizzano feste in città, prima dell’arrivo della Spiral Tribe in Italia (che a Torino fece due rave nel 1995). La scena nascente dei free party è “imparentata” (non senza screzi coi punk più datati) con quella antagonista delle case occupate e di Radio Blackout perché condividono la stessa «politica intesa come riappropriazione degli spazi» (Cybele, intervistato da Pablito el Drito, 2018: 46); mentre, naturalmente, si oppone a quella delle discoteche commerciali (come Naxus e Le Palace) perché ai rave «chi organizza si diverte» e la festa non è concepita «come macchina per fare soldi». (DEA Tribe 1996: 35). Oltre agli eventi negli squat o ai benefit della radio, i primi raver sabaudi si incontrano di giorno al Parco del Valentino o in Piazza Statuto, mentre di notte il meeting point è di frequente il parcheggio dell’ex zoo abbandonato di Parco Michelotti, per poi disperdersi nella notte, in direzione di magazzini o fabbriche occupati il tempo di un rave (Pablito el Drito 2018). Acconto a queste occupazioni e liberazioni temporanee sparse per tutta la città, negli spazi lasciati vuoti dalla ritirata industriale si coagulano i primi due poli dell’economia notturna torinese: i Murazzi, il lungofiume al centro della città, e i Docks Dora, un ex area di stoccaggio nella periferia nord. Ai Muri, ci sono gli storici19 Doctor Sax e Circolo amici del fiume, meglio noto come Giancarlo, a cui si aggiungono, prima, dal 1989 il Centro Sociale Autogestito (csa)20 e poi nel corso degli anni Novanta tutta una serie di esercizi come Jammin e Alcatraz.21 L’offerta dei Muraz17  Saverio di Woptime e Concrete Block, in Torino Hardcore. 18  Alfo di Arturo e Redrum, in Torino Hardcore. 19  Sono entrambi citati in un articolo de «La Stampa» (Per chi vuol bere una birra in riva al Po, 05/07/1983) dove sono presentati cinque locali (non solo notturni) per svagarsi sulle rive del Po, da Corso San Maurizio a Corso Sicilia, un’area estesa ben oltre i limiti convenzionali dei Murazzi. 20  Come per i centri d’incontro delle Circoscrizioni, anche in questo caso deve essere evidenziato l’azione positiva degli amministratori locali, con la giunta guidata dalla socialista Maria Magnani Noya che sceglie di destinare al Collettivo spazi metropolitani le arcate che ospiteranno il csa (Crivello, 2018). 21  Già nel 1988 era segnalata, in un articolo de «La Stampa» (Sul Po caverne o cattedrali? «Mettiamoci gli artisti», 9/9/1988), l’idea innovativa del consigliere Ferdinando Abbà di ripulire i Murazzi

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zi è variegata trattandosi di spazi molto diversi, con i concerti del csa, le chiacchiere fino a mattina da Gianca e gli after al Sax. Ai Docks, invece, i vecchi magazzini e le ghiacciaie sotterranee sono convertite in locali notturni come Bordello, Cafè Blue, Docks home e Reddocks, nei quali inizia ad affacciarsi la nascente scena di clubbing cittadina, votata a sonorità drum’n’bass, house e techno.22 Non c’è una ripartizione netta delle diverse scene musicali tra Muri e Docks, ma la notorietà dei primi deriva anche dall’essere il palcoscenico di band meno elettroniche, ma non per questo meno dedite alle sperimentazioni. Come i Mau Mau,23 gruppo folk dalle infinite influenze, in grado di mischiare cantato in piemontese, ritmi africani e sonorità balcaniche, o i Subsonica che fondendo rock e suoni futuristici arrivano a un successo commerciale mai raggiunto da musicisti del capoluogo. Questi e molti altri gruppi vivono la notte dei Murazzi e la mettano in scena24 nelle proprie canzoni, così gli Africa Unite in Subacqueo evocano Giancarlo («l’uomo con cappello ha un giradischi per cannone») assieme all’atmosfera frizzante e anticonformista dei Muri («selvatico euforico Piemonte»). Sorge la cosiddetta Libera repubblica dei Murazzi, descritta da Ferraris come una «comunità» fatta da «geni» e «cretini»25, guidata dal presidente (autoproclamato) Peppo Parolini26 e dal papa Giancarlo. Una piccola istituzione notturna – «i murazzi […] non esistono di giorno»27 per il suo presidente – capace di attirare artisti, sbandati e curiosi ben oltre i confini cittadini, come testimonia il Tanco del murazzo di Vinicio Capossela, in cui un forestiero li racconta tra «kebab arrosto e folla a grappoli in parata» e «l’anfe che sale, caldo a fiotti, nervi tesi […] ondeggiano sulle ginocchia tutti uguale». Per non limitarsi a una narrazione agiografica, si devono puntare i riflettori anche sui «cretini» citati poc’anzi. I Muri sono considerati off-limits per molti torinesi, essendo una zona di spaccio e teatro di risse tra ultras, buttafuori e immigrati. Nel giro di pochi anni due eventi tragici28 segnaper farli diventare «cattedrali dell’espressione giovanile». 22  Il corriere di Barriera, 01/11/12, Docks Dora: quando Barriera aveva un cuore underground. 23  Due dei componenti della band, militavano nei Loschi Dezi che nel 1991 pubblicarono la canzone Movida, termine allora avanguardistico e dal sapore esotico che nei decenni a venire sarebbe diventato l’incubo dei torinesi. 24  Oppure la scelgono come location per la copertina di un 7’’, come fanno gli Statuto. 25  Dal documentario Murazzi, una storia vera di Gianluca Saiu. 26  Per approfondire la figura poliedrica di questo pittore, musicista jazz, primo (orgogliosamente) processato per stupefacenti a Torino e animatore di rivolte in diversi penitenziari della penisola, si rimanda a Dal basso dei cieli, libro e documentario di Marilena Moretti. 27  Da Murazzi, una storia vera. 28  Non sembrano lasciare traccia nelle canzoni della band torinesi, ma a ricordarli ci pensano Ar-

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lano i problemi della città, non solo nella gestione della vita notturna, ma anche nell’integrare la nuova popolazione immigrata e nell’invisibilizzare il razzismo dei suoi cittadini. Il primo, nel 1995, è una «notte di guerra ai Murazzi»,29 inizia con una manganellata in faccia di un vigilantes ai danni di un ragazzo, colpevole di essersi seduto su una aiuola, e continua con una rissa tra un giovane marocchino, Khalid Moufaguid, e un gruppo di buttafuori e “teste rasate”. L’intervento della polizia30 non sembra risolvere la situazione, dato che il giovane si getta nel fiume, nonostante una profonda ferita al braccio e le manette che gli impediscono di nuotare. Immediatamente si scatena una guerriglia ai danni della polizia, mentre nei giorni seguenti la comunità immigrata è sconvolta e organizza una marcia funebre da San Salvario ai Murazzi, in ricordo del ragazzo e per manifestare contro razzismo e spaccio. Purtroppo, la situazione non sembra migliorare, dato che due anni dopo Abdellah Doumi muore annegato in circostanze ancora più drammatiche: è accerchiato e picchiato da un gruppo di italiani che lo gettano nel Po e iniziano un «tiro al bersaglio [anche con un aspirapolvere, n.d.r.] sul marocchino»31, mentre lo insultano e ridono di lui32. Un «gioco crudele di alcuni studenti che festeggiavano la fine dell’anno scolastico»33 è il racconto – edulcorato – dei giornali e «il razzismo non c’entra»34 secondo la questura, ma la sentenza di primo grado dichiarerà il contrario.35 Anche per Doumi si organizza una manifestazione/corteo funebre, da piazza Castello al Po. Tirando le fila di quanto avvenuto questo decennio sotto il profilo dell’economia notturna (lasciando quindi da parte squat e rave), per la prima volta nella storia della città iniziano a delinearsi dei night districts, ovvero delle porzioni specifiche di territorio in cui si raccolgono un numero elevato di locali notturni. Questo avviene in centro, dove i Murazzi, non sono solo più percepiti come «uno spazio “altro”, di nicchia, apparentemente inospitale, teatro di microcriminalità» (Crivello 2018: 58), e in periferia, con i Docks a riscrivere la geografia della città, perché permetmando Ceste nel mediometraggio Abdellah e i suoi fratelli, Pierluigi Sullo nel libro-reportage Guerre minime. Come Khalid annegò ai Murazzi di Torino e Enrico Remmert nel suo racconto La guerra dei Murazzi. 29  «La Stampa», 18/6/1995, Notte di guerra ai Murazzi. 30  Il comunicato del circolo multietnico Kafila non lascia spazio a interpretazione: «Khalid si è gettato in acqua per sfuggire ai colpi di mazza, alle coltellate, ai calci che gli venivano inferiti davanti alla polizia dalle squadre di buttafuori e dai loro complici skin di alcuni locali dei Murazzi». 31  «La Stampa», 20/7/97, Tiro al bersaglio sul marocchino che annega. 32  «La Stampa», 20/7/97, «Stava annegando e loro lo colpivano». 33  «La Stampa», 20/7/97, Tiro al bersaglio sul marocchino che annega. 34  «La Stampa», 21/7/97, Il marocchino colpito e spinto nel Po. 35  «La Stampa», 18/4/99, «Un delitto favorito dal razzismo».

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tono anche ad un quartiere dimenticato come Barriera di Milano di avere «un cuore underground».36 La notte torinese degli anni Novanta smette di essere una terra incognita attraversata quasi esclusivamente delle frange più spettacolari delle subculture giovanili – con i raver come ultimo avamposto di questa venerabile tradizione (D’Onofrio 2018) – perché Docks e Muri sono invasi da una popolazione più variegata, difficilmente categorizzabile attraverso delle etichette stilistiche e appartenenze uniche: «Gira[va]no tutti, dal miliardario libertino, al[la] travestit[a], al punkabbestia, c’è tutto dentro e tutto si parifica».37 In questo decennio Torino inizia a sviluppare una propria cultura del divertimento notturno, ossia quella forma specifica di cultura influenzata dalle connotazioni simboliche e dalle caratteristiche materiali della notte come l’oscurità, il rischio, il senso di libertà, i nuovi incontri, le gioie e i piaceri (Eldrige e Nofre 2018; van Aalst 2019). Prima di passare oltre, uno sguardo comparativo permette di comprendere meglio quanto avvenuto in questo decennio. Nello stesso periodo, i governi locali in Gran Bretagna sviluppano innovative politiche economiciste di governance della notte per arginare la suburbanizzazione e la crisi delle high street dovute al fallimento dell’industria fordista (Bianchini 1995; Lovatt e O’Connor 1995). La deregolamentazione delle licenze, l’ampliamento dei servizi di trasporto pubblico, la riforma degli orari di apertura, le tassazioni agevolate sono tutte strategie implementate per attrarre investitori privati, soprattutto dell’industria del divertimento, con l’obiettivo di attuare processi di rivitalizzazione e rigenerazione urbana (Shaw 2018; Van Liempt et al. 2015). A Torino, come in tutta Italia dal resto, non succede niente del genere: la scoperta della notte come spazio di espressione culturale ed espansione economica non è promossa da piani urbanistici e azioni pubbliche, ma sembra essere un processo bottom-up promosso dall’azione di singoli artisti e imprenditori della notte: per Ferraris, la genesi dei Murazzi non è dovuta a «una progettazione, un piano quinquennale o un piano regolatore, ma semplicemente per una sera di circostante e coincidenze».38

36  Il «Corriere di Barriera», 01/11/12, Docks Dora: quando Barriera aveva un cuore underground. 37  Gambo, in Murazzi, una storia vera. 38  Da Murazzi, una storia vera.

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3. Pacification by apericena (gli anni Duemila) Alcuni avvenimenti segnano l’inizio del nuovo secolo e sono indicativi delle trasformazioni in corso a Torino: sono state sgomberate numerose occupazioni, in centro (Alcova e Rosalia) come in periferia (Cascina La Marchesa e Delta house), in vista delle Olimpiadi invernali del 2006 ed è stato chiuso ogni locale notturno dei Docks Dora. Quando tramonta questo fulcro dell’economia notturna è già entrato in scena il Quadrilatero Romano. Una zona considerata, fino a pochi anni prima, molto pericolosa (di giorno come di notte), inizia a essere frequentata da un numero sempre più considerevole di torinesi – descritti da Giovanni Semi (2004: 83) come «giovan[i di] classe media dai gusti cosmopoliti» – e diventa un «fulgido esempio di vita notturna sostenibile» perché non sacrifica «sicurezza e vivibilità del quartiere»39 alla movida. Due differenze balzano subito agli occhi tra Docks e Quadrilatero: la posizione e l’offerta, con il secondo quartiere situato nel centro storico della città che diventa presto un regno di aperitivi e cene in locali dal design ricercato e ristoranti etnici, in cui quindi dominano attività ed esercizi serali a discapito dei loisirs notturni (Semi 2004; La Rocca 2018). Inoltre, i contributi di Semi (2004: 93) e La Rocca segnalano criticamente la capacità del quartiere di mettere a profitto quelle che un tempo erano percepite come popolazioni liminali e problematiche. All’interno dei ristoranti etnici, con il loro esotismo stereotipizzato messo in scena a favore di consumatori curiosi in cerca di autenticità, come nei bar gay-friendly, dove baristi e camerieri lgbtq sono assunti per migliorare l’immagine del locale (mentre è scomparso quasi ogni luogo della geografia omoerotica citata precedentemente in nota), avviene «“un consumo della differenza” [etnica e sessuale, n.d.r.], un modo per “gustare” l’Altro più che per entrare in relazione con esso». I Murazzi sembrano resiste al cambiamento, almeno all’inizio del decennio, quando rappresentano ancora un simbolo dell’incontro e della diversità, con i Subsonica che nel 2002 registrano Gente tranquilla assieme a Rachid Sannane, «rapper marocchino e compagno delle nostre nottate torinesi».40 Un legame quello tra la band e Rachid che esemplifica la capacità dei Muri di riunire soggettività eterogenee e lasciare spazio a chi altrove ha meno possibilità di esprimersi, se non per vendere qualcosa ai consumatori ricercati del Quadrilatero (Semi, 2004). Il caso più significativo è probabilmente quello di Nassara Love, musicista camerunense che (sempre) nel 2002 pubblica il disco Ai murazzi, in cui canta della «nostra città, che amiamo tutti 39  «Mole24», 20/09/17, Buon compleanno Quadrilatero Romano! 40  Dal sito della band, http://www.subsonica.it/messaggio.asp?id=1376784

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quanti».41 La title-track è un affresco sonico della vitalità dei Muri e delle attenzioni che ricevono, anche dai chi non li conosce d’avvero: c’è chi ci va a ballare, «stranieri che vendono sigarette, carne alla brace, bibite e erba»,42 i residenti che non riescono a dormire, gli studenti affascinati che ne discutono a scuola e «anche i politici si riuniscono per parlarne. Ma questo posto esiste!». Tuttavia, con il passare degli anni le arcate sono coinvolte da una «progressiva normalizzazione e assimilazione» (Crivello 2018: 67), con l’apertura di locali come Pier, Jam Club e Olè Madrid, frequentati fin dall’aperitivo da una popolazione distante da quella che affollava Doctor Sax, Giancarlo e csa negli anni Novanta. A dimostrare, poi, come l’aura alternativa del waterfront sia ormai un ricordo lontano c’è l’evento-simbolo ospitato dai Muri nel 2007, la spettacolare festa di presentazione della nuova fiat 500, tra giochi d’acqua, fuochi d’artificio e apparizioni di Gianni Agnelli sui maxischermi (Pagliassotti 2013). Riassumendo, negli anni Duemila la nightlife cittadina è interessata da un movimento centripeto e, contemporaneamente, da un processo di commercializzazione. Nonostante al di fuori del centro siano ancora presenti diverse istituzioni dell’underground43 come l’Hiroshima mon Amour e se ne insedino di nuove come lo Spazio 211, nel 2008 la periferia torinese conta un limitato numero di locali serali e notturni, per lo più di tipo residuale,44 mentre il 62% di tutti gli esercizi è collocato in solo due quartieri, il centro storico e San Salvario (Crivello, 2009). Inoltre, nelle due zone appena citate sono presenti il 93% dei locali mainstream45 di Torino, con questi due quartieri centrali sempre più affollati da attività con «servizi “allargati” che vanno dal cibo, alla musica, al design, a prodotti ad altro contenuto e un certo tipo di atmosfera trendy» (ivi: 109). Se Sharon Zukin (1995) formula l’espressione pacification by cappuccino per descrivere i processi di regolazione delle città diurne, compiuti grazie a quegli esercizi commerciali (es. i caffè) che con i loro avventori middle class allontanano soggetti indesiderati come senza fissa dimora, spacciatori e consumatori problematici di droghe, in questo decennio la notte del capoluogo piemontese è interessata da una pacification 41  Dal video di presentazione del disco, reperibile a questo indirizzo: https://www.youtube.com/ watch?v=SW6yOG3MKM8 42  Ringrazio il musicista per la traduzione della canzone. 43  Locali di nicchia, frequentati principalmente da un pubblico specifico, connesso a stili giovanili di matrice subculturale o a identità di genere. Per esempio, locali di musica live o gay bar. 44  Locali generici, scarsamente differenziati gli uni dagli altri. Per esempio, bar e le birrerie di quartiere. 45  Locali ad “alta riconoscibilità” grazie alla propria offerta e alla loro fama, almeno a livello cittadino. Per esempio, i wine bar opposti alle tradizionali cantine.

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by apericena perché Murazzi e Quadrilatero sono “ripuliti” grazie all’insediamento di locali mainstream, capaci di attirare un pubblico generalista fin dalle prime ore della sera. A cantare l’effetto di questo addomesticamento urbano in Piazza Vittorio (la piazza che si affaccia sui Murazzi) ci penserà, nel 2014, Bea Zanin: «Plaza victoire, mi hanno detto che ci sono molti bar/ plaza victoire, una volta ci compravi da fumar». Una canzone significativa di questo decennio è, invece, Lei della Banda Del Rione, il racconto di una città orgogliosa e forte – «Torino puttana piegarla non si può» – ancora segnata dalle ferite del proprio passato – tra «piazze testimoni di proletari e lotte» e «lontane ciminiere sputano ancora fuoco» – in cui però sono già evidenti delle novità, almeno sotto il profilo notturno. La notte del capoluogo non è più un polo oscuro in preda al terrore sonico dei punk o alle derive urbane dei raver, ma è diventata ordinaria e patinata grazie al potere pacificante delle apericene: «Di giorno sporca e infame / di notte come una sposa / Torino legge di strada / Torino romanzo rosa». Detto altrimenti, non è più un territorio sconosciuto attraversato solo da avventurieri notturni, ma inizia a ospitare con maggiore frequenza eventi per tutta la popolazione – come dimostrano le tre notti bianche dell’anno olimpico (Albano, 2014) – e la movida diventa sinonimo di tempo libero “notturno” per i torinesi che affollano le vie del centro, passando da un locale all’altro, come canta il duo rapper atpc (Alta Tensione Produzioni Clandestine) nel singolo Movida (pubblicato nel 2004, lo stesso anno della traccia che apre il capoverso): «Bacco tabacco e venere / e a ogni battito pulsa el my corazon / all night long […] lo sai che stare in piedi in questa torçida / un po’ mi costa fatica / ma fa che sia movida toda la vida». La laboriosità sabauda decantata da Gianni Agnelli, con la sua rigida organizzazione dei tempi di vita, è ormai un ricordo lontano, la notte ha smesso di essere un’ausiliaria del giorno e il tempo liber(at)o (dal lavoro) assume sempre più significato nelle biografie personali. Per comprendere la normalizzazione della nightlife si deve guardare ai più generali e complessi cambiamenti che hanno interessato la città, a seguito della già citata crisi della fiat degli anni Novanta. Come altre metropoli post-industriali, Torino smette di essere pensata e progettata attorno alla fabbrica e supera la propria monocultura automobilistica attraverso una differenziazione del suo profilo economico (Vanolo 2015). In particolare, la creazione del brand «la città di Torino» è il simbolo di questa rinascita per Alberto Vanolo (ivi: 71; corsivo non presente nell’originale) perché con esso Torino prova a dimostrare al mondo che «non è più un’oscura città industriale, ma piuttosto è una “nuova” città vibrante, cosmopolita e cultu126

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rale». All’interno di questo processo di restyling, Silvia Crivello (2019: 104) evidenzia la nuova centralità dell’economia notturna che diventata «una parte trainante dello sviluppo urbano», con il divertimento notturno per la prima volta sfruttato a scopo promozionale. Le feste sulle rive del Po e le apericene al Quadrilatero fanno la loro comparsa nelle brochure pubblicitarie di Turismo Torino e Provincia che recitano slogan “accattivanti” come «Aperitivo sotto la mole», «Torino è l’aperitivo» e «La notte – dal tramonto all’alba» (Crivello 2009). Tuttavia, la stessa Crivello (ivi: 104) evidenzia come questo mutato interesse (economico) nei confronti della notte debba essere letto congiuntamente all’atteggiamento «ambiguo e controverso» degli amministratori locali. Diversamente da altre esperienze internazionali, il capoluogo sabaudo si distingue per posizionare la notte, con i suoi pericoli e possibilità, ancora come tema marginale all’interno dell’agenda politica (nonostante il crescente numero di lamentele da parte dei residenti). A dimostrarlo è il ritardo della città (in linea con il resto d’Italia) nell’istituire una figura dedicata al governo di questa porzione specifica della giornata, come, invece, hanno fatto dal 2003 Amsterdam con il sindaco della notte, Londra con lo zar e New York con l’ambasciatore46 (Seijas e Gelders 2019). Quindi, la centralizzazione e la commercializzazione della nightlife avvenuta nel corso di questo decennio non dipende da politiche notturne precise e pianificate, ma sono la conseguenza non attesa di una più generale pianificazione urbana, come insegnano i cambiamenti avvenuti nel Quadrilatero e ai Murazzi, esiti di massicci piani di riqualificazione urbana (vendita di edifici pubblici, concessione delle licenze, partnership con attori privati e aumento della presenza delle forze dell’ordine) che a partire dalla fine degli anni Novanta hanno interessato il centro cittadino (Crivello 2009).

4. Torino è morta: il funerale dei Murazzi (prima metà degli anni Dieci) La politica cosa non ha fatto: diciamo che [prima] non ha controllato e ha lasciato che tutto andasse. Nel momento in cui decidi di entrare, entri facendo la mossa più sbagliata del mondo, perché dal tenere una situazione 46  A fine del 2018, sono 40 le città al mondo con un sindaco della notte o con una figura simile, nessuna di esse è italiana. Nelle campagne elettorali amministrative degli ultimi anni ci sono delle proposte in questo senso anche nel nostro paese, ma da parte di compagini poi risultate sconfitte alle elezioni (Cibin 2019).

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al limite della legalità e passare alla chiusura, in mezzo [c’è]: «Ci incontriamo, cerchiamo di capire, vi diamo dei tempi per mettervi a posto». In tutto questo, non si sono mai fatti vedere, perché quando c’erano dei problemi giù, le forze dell’ordine non scendevano; quando cercavi di avere un tavolo di confronto, non esisteva. (Gambo)47

L’euforia e le speranze della città-cenerentola che si scopre capitale della cultura e del turismo non durano a lungo. Torino si risveglia dalla ciucca collettiva delle olimpiadi (e dalla crisi finanziaria del 2008, l’ennesima crisi economica di questo racconto notturno) con dei postumi importanti e prova a risolvere la situazione invertendo la rotta, come chi in hangover promette di non toccare mai più alcol. I problemi di quella che ormai è chiamata “malamovida” non sono più lasciati sullo sfondo ed è abbondonato il laissez-faire del passato. Nonostante il decreto sulle liberalizzazioni, il cosiddetto Decreto cresci Italia (D.L. 1/2012), promosso dal Governo Monti faciliti l’apertura di imprese in ogni settore, compreso quello del divertimento, si assiste a una svolta securitaria nella governance notturna cittadina. Un cambiamento favorito dalle proteste dei residenti e dell’opinione pubblica, con le edizioni locali dei quotidiani nazionali che attraverso toni apocalittici si fanno portatori delle preoccupazioni dei cittadini perbene, oscurando ad altri punti di vista. La vita notturna torinese è battezzata «movida armata»48 ed è descritta come «una guerra che non trova soluzioni».49 Come avvenuto nel contesto anglosassone, la night-time economy porta con sé una preoccupazione crescente per i disordini notturni, con l’attenzione mediatica spostata dalle potenzialità economiche agli effetti negativi della nightlife come binge drinking, il disturbo della quiete pubblica, violenze e vandalismo (Crawford e Flint 2009). Si direbbe che qualcosa sia andato storto con la pacificazione da apericena. Il primo a farne le spese è il luogo più celebre della città. Nel 2010 un’ordinanza50 del sindaco Chiamparino vieta “qualsiasi intrattenimento musicale, ovvero altra forma di diffusione sonora” nelle aree esterne dei locali dei Murazzi (ordinanza n. 2983), ma la vera “condanna” avviene nel 2012: un procedimento penale promosso dai residenti contro il rumore e il degrado 47  Dal documentario Murazzi, una storia vera. 48  «la Repubblica», 18/07/14, Le folli notti della movida italiana. 49  «La Stampa», 15/07/12, Movida, una guerra che non trova soluzioni. 50  Il Pacchetto Maroni (di cui si parlerà a breve nel testo) mette in moto una «devoluzione securitaria» (Molteni, 2015: 16) che ha visto numerosi sindaci promulgare ordinanze dirette a colpire i nuovi «pericoli che minacciano il tessuto urbano e sociale delle città» (ivi: 31). Per un approfondimento si rimanda al contributo di Ruggiu (2010).

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notturno,51 un’indagine sugli abusi edilizi e un’inchiesta giudiziaria sulle licenze dei locali ai danni di proprietari ed ex-dirigenti comunali portano alla chiusura di quasi ogni club sulle rive del Po (Crivello, 2018). Nonostante il processo di normalizzazione iniziato il decennio precedente abbia radicalmente mutato i Muri e la cultura alternativa, un tempo bandiera della Libera repubblica dei Murazzi, sia ormai un ricordo lontano, perché «gli ultimi anni, a detta di sostanzialmente tutti, si era trasformato in un luogo di chupiterie»,52 gli abitanti sfrattati di questa utopia notturna decidono di celebrarne il ricordo. Il 24 novembre 2012 si tiene il funerale dei Murazzi, 15 anni dopo quelli di Moufaguid e Doumi, questa volta però è una processione carnevalesca con la Banda degli 88 folli, Giancarlo in abito talare e una bara contenente le spoglie esamini della nightlife sabauda, trasportata dall’imbarco dei battelli sul Po fino a Piazza Castello, davanti alla prefettura. Come riporta il manifesto funebre: «I Murazzi sono morti, lunga vita ai Murazzi. […] Lasciate a casa ogni atteggiamento negativo, sarà una festa!». Dopo la prima estate senza Muri, quella del 2013,53 musicisti, associazioni, imprenditori, lavoratori e creature della notte si mobilitano per far risorgere la Libera repubblica. Prima, con la petizione «Rivogliamo i Murazzi, quelli veri, creativi, che hanno acceso scintille di trasformazione, contribuendo a cambiare il volto di Torino», firmata da più di 5000 sostenitori, e, poi, con una giornata di attività sulle rive del Po conclusasi con un concertone finale in piazza Vittorio, in cui si esibiscono tutte le star locali.54 Iniziative supportate anche dalla stampa di settore – con Soundwall che pubblica un articolo dal titolo: «La morte dei Murazzi: una stupidità tutta italiana»55 – ma che non sono ascoltate dalla politica cittadina. 51  Congiuntamente con l’esposto in procura, prende forma il coordinamento delle associazioni anti-movida cittadine che unisce i comitati di piazza Vittorio, San Salvario, Centro e Quadrilatero Romano. 52  Paolo Tessarin, nel documentario Murazzi, una storia vera. 53  Non per gli occupanti del csa che il 22 giugno 2013 si riprendono lo spazio «e adesso, tutti quanti dentro! Riprendiamoci la notte di Torino! Riprendiamoci la voglia di fare festa al centro sociale Murazzi» (tratto dal video «csa Murazzi, Rioccupazione, 22 giugno 2013: I sogni non si sequestrano!» reperibile su YouTube). 54  Puntuale la critica sollevata da Paolo Tessarin sul blog Zetablue: «[il mega-evento] Presentava la stessa scaletta del mio primo concerto da alternativo di quasi vent’anni fa […]. Sul palco si discetta di mondo culturale in fermento, di generi musicali eterogenei che crescono e si confrontano, di Murazzi come culla di gruppi esordienti in procinto di sfondare, senza nemmeno accorgersi che stanno narcisisticamente specchiando se stessi nelle acque del Po. Se i Murazzi fossero stati davvero quella miscela esplosiva di fermento e crescita culturale, di libertà e possibilità di crescita per i giovani artisti, ieri sera su quel palco ci sarebbero stati nomi diversi». 55  «Soundwall», 07/02/14, La morte dei Murazzi: una stupidità tutta italiana.

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[continua dell’estratto precedente] La città si sta impegnando a diventare un polo universitario non da poco, abbiamo il Politecnico che sta funzionando tanto, il nuovo campus. Noi siamo accogliendo migliaia di studenti e stiamo chiudendo i locali. E in più ci lamentiamo che i giovani vanno a occupare [fa il segno “tra virgolette” con le dita, n.d.r.] spazi residenziali. (Gambo)

Il simbolo della notte torinese è dichiarato clinicamente morto (e non si riesce a farlo risorgere), ma imprenditori e avventori si sono già trasferiti da tempo altrove: San Salvario, quartiere nelle vicinanze del centro storico cittadino, tra la stazione di Porta Nuova e il Parco del Valentino. Negli anni Novanta era un caso eclatante di crisi urbana, per la sua microcriminalità, per i conflitti tra vecchi residenti italiani e nuovi stranieri, per l’incuria degli edifici e il fallimento di attività commerciali; mentre dalla metà degli anni Duemila diventa un esempio positivo di ripresa, grazie al suo associazionismo e al protagonismo della società civile (Bolzoni 2018). Come avvenuto in passato al Quadrilatero, il cosmopolitismo e l’atmosfera autentica del quartiere mette in moto un processo di gentrificazione che presto attrae la movida e Sansa – apparentemente – ripudia il proprio passato diurno, con negozi e botteghe chiusi in favore di bar e ristoranti, le strade invase da nightgoers e i dehors dei locali pieni (Bolzoni, 2016). Tuttavia, c’è anche chi non apprezza la svolta notturna: un gruppo di residenti forma il comitato Rispettiamo San Salvario per combattere l’inquinamento acustico e il degrado della movida, e nell’estate del 2012 (quella della chiusura dei Murazzi) mette in atto una protesta silenziosa, addobbando il quartiere con striscioni con scritto: «dormire, sì grazie», «dormire è un bisogno», «dormire è salute» (Bolzoni 2018). La prima risposta del nuovo sindaco Piero Fassino arriva nel 2013 con l’emanazione di un’ordinanza (n. 3653) che vieta dalle 19:30 alle 07:00 nelle zone interessate dalla movida la vendita, il consumo e la detenzione di bottiglie di vetro e di lattine sigillate, perché sono una «pregiudizievole dell’incolumità delle persone e del decoro urbano». La prima di una serie di ordinanze firmate ogni estate dai sindaci (indipendentemente dal partito di afferenza) nel tentativo di regolare il divertimento notturno cittadino. Nell’estate 2014 il sorvegliato speciale è il quartiere di San Salvario, il quale “gode” di iniziative ad hoc a seguito della lettera di Mauro Guzzinati pubblicata su «la Repubblica»,56 in cui il farmacista denuncia l’impotenza della polizia locale e la protezione offertagli dai pusher a seguito di una rapina. 56  «la Repubblica», 06/07/14, San Salvario, denuncia choc di un farmacista: “Mi proteggono i pusher”.

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L’ordinanza n. 2888 impone la chiusura a mezzanotte di minimarket e altri esercizi che vendono alcolici da asporto, mentre gli altri locali devono smantellare i dehors dalle 2:00 di notte e dotarsi di steward per vigilare l’esterno del locale a partire da mezzanotte. Inoltre, è introdotta una nuova strategia di controllo: una pattuglia speciale interforze (carabinieri, poliziotti, vigili urbani e finanzieri) è assegnata al quartiere, con il compito di fermare l’azione degli spacciatori e per produrre un «effetto “calmante”, richiamando qualche ragazzo alticcio o troppo rumoroso, o qualcuno che gira con bottiglie di vetro».57 La fine dei Murazzi, sintetizza Gambo,58 «ha segnato la fine di un’era» perché con il passaggio dai Muri a Sansa sono portati a compimento alcuni dei processi iniziati nel decennio precedente. Dopo i Docks, ha chiuso un altro epicentro della nightlife torinese, un altro agglomerato di locali e club dove assistere alle performance di artisti e passare la notte a ballare; mentre l’offerta dei quartieri della movida come il Quadrilatero Romano e San Salvario (a cui seguirà Vanchiglia) è di tutt’altro genere, essendo incentrata sul consumo di cibo e bevande in enoteche, chupiterie, trattorie, tapas bar e via discorrendo. Detto altrimenti, si assiste a una progressiva «diurnificazione» (Gwiazdzinski 2005) della vita notturna, con la drastica diminuzione dell’offerta di locali propriamente notturni e il baricentro del divertimento spostato dalla notte inoltrata sui dancefloor alla sera nei dehors. Oltre a questo, la foodification aggrava la centralizzazione dei loisirs citata in precedenza, perché «il cibo si è mangiato» (Perucca e Tessarin 2022) il centro città con i suoi fast food, pasticcerie, ristoranti italiani ed etnici, ma non si può dire lo stesso delle zone periferiche, dove l’offerta rimane scarsa e poco diversificata (Crivello 2019). L’abisso che spera il centro dalla periferia è uno dei temi principali di Torino Bounce del rapper Doggy: la prima è «la Torino per bene», «tra aperitivi chic e tipe da copertina», che «vestiti a festa fanno serate e spendono quello che un operaio medio guadagna in un mese intero»; mentre la seconda è la Torino «dei pazzi e sclero», tra sex worker, «lavavetri e pusher», «posti di blocco e blitz» e «di chi passa le serata a fumare e bere, tanto domani dorme e lo Stato non fa il suo dovere». Anche per i Bull Brigade in Motorcity la notte sabauda non è festa e movida, ma è la disperazione di chi non riesce a dormire perché «scura la notte ti divora / è un mostro la città!».

57  «La Stampa», 13/07/14, Il pattuglione debutta alla movida, un freno a spaccio e schiamazzi. 58  Dal documentario Murazzi, una storia vera.

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5. Torino è morta: una città fantasma (seconda metà degli anni Dieci) La campagna elettorale del 2016 vede, per la prima volta, la vita notturna tra i temi più dibattuti. Fassino incontra varie associazioni di residenti e promette di combattere i problemi della movida, estendendo anche agli altri quartieri le misure innovative adottate in San Salvario, come l’installazione di «telecamere con le “orecchie”» per registrare le azioni e i rumori «della movida fracassona».59 Inoltre, in qualità di presidente dell’Anci, collabora con il ministro Angelino Alfano su un nuovo disegno di legge a tema sicurezza, per fornire ai sindaci nuovi strumenti per combattere il degrado della movida. A tal proposito le edizioni locali dei giornali nazionali segnalano l’incontro tra il sindaco uscente e la celebre “pasionaria anti-movida”, Simonetta Chierici. I due discutono della notte torinese, ma anche del pacchetto sicurezza in cantiere, siccome Chierici è anche la coordinatrice nazionale di No degrado e malamovida, rete in cui confluiscono i comitati di 31 città italiane. A segnalare la fama e l’investitura informale di cui gode la “lady anti-movida” come portavoce dei cittadini del centro è anche l’incontro, avvenuto qualche mese prima, con i rappresentanti del Movimento 5 Stelle, interessati ad ascoltare il punto di vista dei residenti per formulare una «proposta anti-malamovida che entrerà a far parte del programma elettorale 5Stelle».60 In quegli anni c’è ancora chi prova a ravvivare la città, provando a ricordare che il divertimento notturno non è solo rumore e conflitto, come il duo Stump Valley che nel 2015 pubblica l’ep, dal titolo evocativo, Magica Movida. Tuttavia, la campagna elettorale è tutta incentrata sulle lamentele dei residenti perbene e dalla volontà dei politici locali di ristabilire l’ordine.61 Le ordinanze citate in precedenza e il disegno di legge (mai portato a complimento) si inseriscono all’interno della «stagione dell’emergenza continua» (Gargiulo e Avidano 2018: 8), inaugurata dal d.l. 92 del 2008, il cosiddetto Pacchetto Maroni, e dal seguente d.m. del 5 agosto 2008. Due decreti che aggiornano l’articolo 54 del Tuel, il Testo unico sull’ordinamento degli enti locali (d.lgs. 267/2000), concentrandolo sul tema della sicurezza urbana ed estendendo la possibilità dei sindaci a emettere ordinanze «anche contingibili e urgenti».62 Provvedimenti 59  «la Repubblica», 26/05/16, Torino, telecamere con le “orecchie” contro la movida fracassona. 60  «la Repubblica», 10/03/16, Torino, patto anti-movida tra comitati e Movimento 5 stelle. 61  Si distingue la lista Torino in comune che in un comunicato redatto da Massimo Lapolla, oltre a riprende temi classici della notte urbana come l’offerta culturale e il profitto economico, rifiuta le politiche repressive di governance e propone la figura del sindaco della notte. Il comunicato è consultabile a questo indirizzo: http://www.torinoincomune.com/il-sindaco-della-notte. 62  Questa estensione del dispositivo dell’ordinanza anche per provvedimenti ordinari è stata giudica illegittima dalla Corte costituzionale (sentenza n. 115 del 2011).

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accusati da più parti «di genericità, vaghezza e indeterminatezza» (Ruggiu 2010: 300), con il concetto di sicurezza urbana definito in maniera tautologica e altri termini come pubblica decenza, vita civile, decoro e degrado semplicemente citati, senza fornire ulteriori delucidazioni (Pitch 2013). All’interno di questo quadro – non soltanto legislativo, ma anche discorsivo – la vita notturna è sempre meno intesa come fenomeno culturale o risorsa economica e sempre più vissuta come problema, fonte di insicurezza urbana e degrado. Detto altrimenti, l’«estetica del decoro» (Pisanello 2017: 75, corsivo dell’autrice) si impone sulla vita notturna, con tutto il suo carico normativo normalizzante, per governarla «senza addentrarsi nelle problematiche economico-politiche che lacerano il tessuto sociale» (ivi). L’escalation securitaria continua nella seconda metà del decennio e raggiunge il proprio culmine nell’estate del 2017.63 Il 3 giugno, ci sono trentacinquemila persone in piazza San Carlo ad assistere sui maxischermi alla finale di Champions League tra Juventus e Real Madrid, quando si scatena il panico la piazza si trasforma in «una pentola a pressione su un tappeto di vetro».64 Il giorno dopo si contano un morto e più di millecinquecento feriti. Il 7 giugno, un’ordinanza65 (n. 46) della sindaca Chiara Appendino vieta nelle zone della movida la vendita ad asporto delle bevande alcoliche e superalcoliche, indipendentemente dal contenitore, dalle ore 20:00 fino alle 6:00. L’ordinanza acuisce le tensioni scatenate dal trauma di piazza San Carlo che esplodono quando la polizia si presenta, in assetto antisommossa, in piazza Santa Giulia (a Vanchiglia) per far rispettare il divieto alcolico. Dodici anni dopo la «notte di guerra ai Murazzi»66 del 1995, è la volta della «battaglia della movida»,67 in cui rimangono feriti una decina di persone. Piazza Santa Giulia è, assieme a Largo Saluzzo in San Salvario, il fulcro della movida più giovane e indisciplinata, quella che non accalca i dehor dei locali, ma invade le piazze del centro portandosi da bere da casa o comprandolo d’asporto (Beccaria et al., 2022). L’ordinanza anti-alcol e l’azione delle forze 63  Il 2017 è anche l’anno di inizio del SoundCity Project Monica che vedrà Torino impegnata nella sperimentazione di tecnologie per il controllo e la gestione del rumore a San Salvario e al Kappa FutureFestival. 64  Dal servizio Quella notte a Piazza San Carlo del programma sportivo Antidoping di Rai Due. 65  All’interno della stagione dell’emergenza continua citata in precedenza, si osservano qui gli effetti del d.l. 14 del 2017, il cosiddetto Pacchetto Minniti, in cui è esteso il diritto di ordinanza sindacale oltre la necessità e l’urgenza (Gargiulo e Avidano, 2018). In particolare, il nuovo comma 7-bis dell’art. 50 del Tuel permette al sindaco di limitare orari di vendita e somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche “al fine di assicurare il soddisfacimento delle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti”. 66  «La Stampa», 18/6/95, Notte di guerra ai Murazzi. 67  «La Stampa», 24/6/17, La battaglia della movida, feriti in piazza Santa Giulia.

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dell’ordine sono dirette principalmente verso questi giovani (i quali, assieme ad altri soggetti meno abbienti come immigrati e senza fissa dimora sono gli acquirenti principali dei minimarket), mentre non vanno a intaccare i consumi e i comportamenti di chi si serve altrove. È un effetto della sopracitata estetica del decoro, un appello alla conformità che tranquillizza i residenti perbene, privilegia gli interessi degli imprenditori della notte e i desideri degli avventori più facoltosi, mentre il segnale «ai ragazzi e alle ragazze (quelli e quelle con minori risorse economiche, beninteso) [è] che se ne devono stare a casa, a scuola o, se ce l’hanno, al lavoro e che qualsiasi segno di “esuberanza” non solo è intollerabile, ma indica disturbi psichici o disagi familiari» (Pitch 2013: 66). La gravità e la drammaticità della condizione in cui versa il capoluogo piemontese (non solo sul versante notturno) è ormai evidente a molti. Nel 2016, dopo lo spostamento in Olanda della holding finanziaria Exor, controllata dalla famiglia Agnelli, e l’annuncio del trasferimento (poi scampato) del Salone internazionale del libro a Milano, Chierici scrive un articolo-necrologio dal titolo Torino è morta, in cui lascia poche speranze a una città che è descritta come «davvero morta, finita, inesistente, una città sprecata rispetto alle sue vere potenzialità» per colpa di «decenni di amministrazioni ignoranti e incapaci di valorizzare ciò che potrebbe testimoniare davvero la sua cultura e la sua storia davanti al mondo».68 Probabilmente non è la cultura a cui fa riferimento la “pasionaria anti-movida”, ma nel 2018 il malcontento di molti cittadini è espresso attraverso una seconda petizione,69 dopo quella dei Murazzi: #sostorino – La fine del modello Torino? (firmata da 8.007 persone). Una delle questioni principali della petizione è la situazione tragica in cui versano discoteche e locali notturni, a causa dei controlli sempre più stretti ai danni di questi esercizi. In «una delle città che ha fatto la storia del club culture in Italia»70 molti locali hanno chiuso o sono costretti ad attese estenuanti per i permessi. Il risultato è che la notte sembra tornare in vita «solo durante le grandi epifanie festivaliere»71 del Kappa FuturFestival, Movement, Club To Club, TOdays Festival e Jazz:Re:Found,72 mentre la scena (che vorrebbe 68  «LoSpiffero», 20/09/16, Torino è morta. 69  In anni più recenti si avranno anche petizioni dei residenti, nell’estate del 2019 se ne contano ben due: una richiede l’istituzione di un assessorato dedicato alla movida; l’altra la riduzione degli orari di apertura dei locali (mezzanotte in settimana, l’una nel weekend). 70  «Soundwall», 19/06/18, Salvate Torino: quanto sta accadendo è triste, è folle. 71  Ivi. 72  Una trama della notte torinese che non è riuscita a trovare collocazione nel testo è quella dei grandi festival musicali che hanno preceduto storicamente quelli appena menzionati, come il Festival Pellerossa o il Traffic Festival.

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essere) attiva tutto l’anno è «falcidiat[a] senza pietà».73 Al popolo74 della notte restano solo i ricordi (amari), come per i Cibo che in Murazzi lato DX tornano nel 2017 ai Muri «pensa[ndo] che qui c’era una festa» e, invece, «è il buco del culo». Ancora, nella presentazione del video, i Murazzi sono descritti come «un luogo nostalgico, un contenitore funebre per tutto ciò che era fascinoso e musicale». La petizione #sostorino non si limita al mondo della notte, ma è sollevato un problema di ordine più ampio: deve essere presa coscienza del fallimento delle pretese culturali della città – «le manifestazioni, i festival e le rassegne sono decimate»75 hanno chiuso o si sono trasferite altrove – e si segnala l’opinione diffusa tra cittadini e imprenditori che a «Torino non si possa più pianificare nulla».76 Queste paure trovano spazio nella stampa specializzata, il già citato articolo su Soundwall ha un titolo eloquente – Salvate Torino: quanto sta accadendo è triste, è folle – e si conclude con una sentenza altrettanto esplicita: «Torino che torna città-dormitorio proprio per scelta sistemica è una sconfitta per tutti». Su «ArTribune» si parla di una città provinciale per colpa di «un genocidio delle idee, degli spunti, della voglia, del merito, della spinta, del rischio, dell’atmosfera».77 La situazione è tanto grave che i luoghi più frequentati sono le due stazioni, di Porta Nuova e Porta Susa, «dove la classe creativa (sic!) si assiepa per raggiungere il capoluogo lombardo». Siamo alla fine nel nostro percorso e si direbbe un ritorno al passato, nella città morta cantata dai Blue Vomit negli anni Ottanta. Non a caso il requiem lo suona una band storica come gli Statuto (assieme a Zulù dei 99Posse), quando all’inizio del 2020 pubblica una cover di Ghost town dei The Special. Il video non nasconde la desolazione e il ritrovato grigiore della città (fanno capolino anche i Murazzi avvolti dalla nebbia), mentre il testo della canzone è il suo ennesimo necrologio: «Questa è una città fantasma / troppi club hanno chiuso ormai / spenta, buia anche di giorno / non si accende più / comm’ a nu cor ca nun sbatt». 73  Ivi. 74  Si utilizza il termine al singolare solo per convenzione linguistica, ma sarebbe più accurato parlare di “popoli della notte”. 75  Per leggere il testo della petizione completa, si rimanda a https://www.change.org/p/comune-di-torino-aiutiamo-i-locali-storici-di-torino-a-riaprire. 76  Al riguardo, l’inaugurazione del centro culturale ogr nel 2017 e dell’ostello multifunzionale Combo nel 2020 sembrano indicare una nuova direzione dell’economia notturna torinese, in cui gli eventi musicali sono inglobati in spazi di consumo a più ampio respiro, risultato di interventi immobiliari a scopo ricreativo-commerciale che possono essere sostenuti solo da “big players” come la Fondazione crt per le ogr e l’holding finanziaria Finde per Combo. 77  «Artribune», 11/07/18, Torino, Roma e la cultura.

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6. Conclusioni Questa storia del divertimento notturno torinese inizia negli anni Ottanta, quando il sogno industriale della città è al tramonto e nell’immaginario dominate la notte è ancora trattata come una «terra incognita» (Schivelbusch 1994: 140), una landa sconosciuta e pericolosa, una fase della giornata marginale perché avviene poco di socialmente ed economicamente rilevante. Tra gli avventurieri intenti a esplorare questo territorio ci sono i giovani antieroi subculturali, i quali fanno da apripista alle occupazioni, ai rave e agli esercizi commerciali che nel decennio successivo formano i primi insediamenti di questo far west oscuro. Con il passaggio di secolo, la frontiera notturna si direbbe definitivamente conquistata, perché la pacificazione da apericena ha “ripulito” zone problematiche e la notte non è più solo attraversata dalle tribù giovanili, ma ospita eventi per tutta la popolazione: le «notti (diventano) bianche». Gli aperitivi e i locali notturni fanno capolino nelle brochure pubblicitarie della città e la night-time economy è un simbolo della sua metamorfosi, da grigia one company town a spettacolare città del loisir. Per queste ragioni quando si scrive Torino, si legge far west, come recita un graffito su Corso Palermo. Torino è, infatti, un caso paradigmatico di colonizzazione della notte, un tema centrale nei night studies fin da quando Murray Melbin (1988) ha applicato la metafora spaziale della frontiera alla sfera temporale della notte per analizzare i cambiamenti avvenuti al calar del sole nelle società moderne. In esse, la volontà del capitalismo diurno di incrementare la sua necessità di controllo e profitto a tutte le ore del giorno ha fatto della notte l’ultima frontiera conquistata dalla cosiddetta civiltà occidentale. Detto altrimenti: la città diurna, nel suo essere «funzionale, ordinata, disciplinata, visibile e intellegibile» (Adorni e Magagnoli 2015: 13), ha sottomesso la città notturna «dell’insicurezza e della trasgressione, invisibile e misteriosa» (ibidem). Riprendendo la nostra storia del divertimento notturno torinese, la sua colonizzazione non si è arrestata e negli anni Dieci un’escalation securitaria ne altera radicalmente pratiche, spazi e ritmi. La vita notturna è sempre meno vissuta come risorsa culturale ed economica, ed è sempre più approcciata come un problema di ordine pubblico. Si tratta di un evidente taglio con il passato, rispetto a quando gli amministratori locali erano riusciti a stimolare il divertimento notturno con alcune iniziative di successo (i Punti verdi, i centri d’incontro delle Circoscrizioni, la riqualifica dei Murazzi per renderli “cattedrali dell’espressione giovanile”, l’assegnazione di un’arcata degli stessi al Collettivo spazi metropolitani). Adottando la terminologia 136

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elaborata da Luc Gwiazdzinski (2005) si è parlato di una diurnificazione della vita notturna perché ai distretti notturni come Docks Dora e Muri succedono i quartieri serali della movida come Quadrilatero, Sansa e Vanchiglia. Zone in cui, da un lato, ristoranti, wine, cocktail e tapas bar prendono il posto di discoteche e altri locali notturni e, dall’altro, sono sperimentati nuovi dispositivi di controllo (come la pattuglia interforze e l’ordinanza anti-alcol) diretti principalmente ai giovani avventori delle piazze della movida. Una espansione della produttività e della disciplina diurna di cui il dibattito internazionale in materia evidenzia con sempre maggiore frequenza i rischi: la notte sta perdendo i propri connotati positivi, con la vitalità e diversità del divertimento notturno minacciate da «nuove forme di esclusione, gentrificazione, commercializzazione e turismo di massa» (Eldridge e Nofre 2018: 2). «Era black city ed è black city» è la citazione dei Onemic posta in apertura al capitolo, scelta perché materializza la forma ciclica che ha assunto il nostro percorso: dal Vivo in una città morta dei Blue Vomit al Torino è morta della “pasionaria anti-movida” che va a braccetto in una metaforica marcia funebre con la Ghost town degli Statuto. La struttura senza capo né coda di questa storia ci mette in guardia rispetto alla metafora della frontiera evocata in precedenza, perché è radicalmente opposta alla sua concezione dell’espansione diurna come movimento lineare e progressivo. Il lavoro di Robert Shaw (2015; 2018) è illuminante in tal senso perché – oltre a decostruire il gaze eurocentrico e l’ontologia dicotomica sottesi nel concetto di frontiera – si spinge oltre la contrapposizione tra città diurna e città notturna, mostrando come la notte non sia mai stata realmente un polo altro rispetto ai processi di espansione economica e controllo del giorno, ma piuttosto era e continua a essere un territorio conflittuale e frammentato, caratterizzato da molteplici ritmi e temporalità. Il caso studio sabaudo è esemplificativo anche in questo senso: la notte torinese è sempre più frammentata, dato che dalla chiusura dei Docks Dora in poi la voragine tra centro e periferia ha continuato ad aprirsi, con la prima zona teatro delle gioie (e dei dolori) dell’economia notturna e la seconda relegata per lo più al rango di dormitorio; la notte torinese è sempre più conflittuale, dato che nell’ultimo decennio si è assistito ad un aumento esponenziale dei problemi di ordine pubblico nel centro cittadino, con le piazze della movida diventate delle arene di «conflitti temporali» (Mallet, 2014: 14) ovvero quegli scontri prodotti da pratiche simultanee e di ordine opposto all’interno di uno stesso spazio (ad es. i pic-nic alcolici dei giovani vs il riposo dei residenti). Preso atto dei limiti del concetto di frontiera notturna, Shaw (2015: 639) invita i night scholars a «rivelare la molteplicità della notte» per criticare i 137

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discorsi dominanti che la descrivono come asservita totalmente al capitalismo diurno, andando a esplorare «quegli spazi e quei momenti in cui persiste l’oscurità della notte» (Shaw 2018: 27). Questo significa muoversi nella coltre funebre che nell’ultimo decennio è tornata ad avvolgere Torino per individuare quelle soggettività che con i propri gesti e parole resistono alla diurnificazione della notte (e al destino funesto della città), proprio come i punk negli anni Ottanta eludevano il lavorismo e la nictofobia cittadina. Un caso già citato è quello dei ragazzə che ogni week-end inondano le piazze della movida come Largo Saluzzo e Piazza Santa Giulia, rifiutando la compostezza e l’ordine richiesto per consumare nei dehor frequentati, invece, da famiglie e «giovan[i di] classe media dai gusti cosmopoliti» (Semi, 2004: 83). Un altro è la nuova scena di giovanissimi (t)rapper di Barriera di Milano che non cercano rifugio nelle vie patinate del centro, ma dedicano canzoni e relativi video al proprio quartiere (tra gli infiniti riferimenti e paragoni, il più riuscito è «AK47 Corso Giulio c’est La Haine» di Zeta Cooper e Yunes LaGrintaa in AK47), e si ostinano a raccontare la “vita violenta” dei ragazzi di periferia («barriera la zona è calda, faccio i soldi da una panca [...] bimbi in strada che fanno i dindi» canta Vandal Barriera in Barriera Freestyle 2 o Zeta Cooper in Fame I: «Pericoli di strada passaggi in corso Novara / vada come vada qui si rischia oppure nada […] Questa vita sai ti fotte, mala vita mala sorte») nonostante il resto della città si ricorda di loro solo quando nottetempo distruggono le vetrine del centro.78 E, ancora, il collettivo rwa (Riderz With Attitude) che mostra l’altro lato dell’economia notturna, sonorizzando la vita e le proteste dei rider: cavalieri danzanti tra il traffico 24/7, «con il sole, con la pioggia, con il Corona-V», di quella che è diventata una città-fogna, «Torino è un gran cesso perché siamo nella merda» (cit. da Nomadi). Negli anni Ottanta il suono di Torino era «dominato da disperazione e tristezza» (Bottà 2020: 126), oggi i rwa creano in Cavalier dansant un assemblaggio ritmico che sovrappone i rumori del loro lavoro e i riti del divertimento notturno con i sentimenti e i gesti di chi continua a lottare: «Torino ha un suono che fa: / Pum la camera d’aria / Bum bum la tequila / Bum bum bum la rabbia proletaria / quando arriva? Bum bum bum bum / oggi come prima la mia gang è in strada / suona la marimba sulla tua v€tr/n@». In una città che non riesce a risanare il proprio debito pubblico di 3 milardi, che nel 2016 ha toccato il picco del 49% di disoccupati tra i giovani dai 15 ai 24 anni, che sotto il profilo della governance notturna ha assistito, in meno di dieci anni, alla chiusura dei Murazzi e di numerosi locali, alle ordinanze anti-alcol, alle pattuglie interforze e alla 78  «il Giornale», 09/03/21, «Volevano instaurare il terrore». Maxi retata tra figli di immigrati.

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celere nelle piazze della movida, tornano nuovamente attuali – in fede alla forma ciclica di questo racconto – le parole di Gigio dei c.o.v. (Church Of Violence) sulla black city tra la fine anni Ottanta e inizio anni Novanta: Sicuramente a Torino c’era molto più fermento [rispetto alle altre città italiane], c’era più paranoia, c’erano le fabbriche, c’erano una costrizione che... prendi un pitbull lo metti in un sacco, gli dai le botte, quando esce – sicuramente – qualcuno ti morde.79

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«bisogna cantà semper» alcune note sulla logica sociale del canto ultras nel gruppo brescia 1911 di Davide Tidoni e Lorenzo Pedrini

Mi ricordo una vecchia canzone che cantavano sempre gli ultras non ricordo le vere parole ma faceva la la la la la la la la la la la la la la la la la la la la la la la la la…

1. L’etnografia sonora del Brescia 1911 Artista e ricercatore con un percorso incentrato sul suono e l’ascolto, Davide non ha mai nutrito particolare passione per il calcio giocato e ancora oggi, nonostante gli anni trascorsi allo stadio Rigamonti di Brescia, i successi come i fallimenti sportivi del club della sua città natale non lo smuovono più di tanto. La sua prima volta al Rigamonti risale all’agosto del 2001, per assistere – con un biglietto pagato dal padre – a una sentitissima partita di Coppa uefa contro un avversario blasonato come il Paris St. Germain. Dopo essere rimasto colpito dall’impatto sonoro della protesta messa in scena dal Brescia 1911, Davide ha deciso di approcciare questo gruppo ultras, in quel periodo collettivo di riferimento della Curva Nord.1 1  Nel 1999, dopo lo scioglimento degli Ultras Brescia e lo spostamento in gradinata del Commando Ultras, il gruppo Paesà decise di farsi carico della riorganizzazione della Curva Nord dietro lo striscione unitario Brescia 1911. A Brescia vs Paris St. Germain Davide assistette stando in Curva Sud, al tempo settore che ospitava curiosi e spettatori non organizzati. La protesta coordinata dal gruppo 1911 consistette in venti minuti di sciopero del tifo supportato da tutti i gruppi della Curva e condiviso dai circa 10000 tifosi presenti. Allo scattare del ventunesimo minuto del primo tempo, la Curva Nord cessava lo sciopero dando inizio al canto. Lo scopo della protesta era dare una risposta agli «atteggiamenti ricattatori» della società Brescia Calcio. Infatti, qualche settimana prima della prestigiosa finale di coppa Intertoto la società propose al Brescia 1911 la gestione privilegiata del marketing societario, in cambio della rimozione dalla curva dello striscione, indirizzato al presidente del club, «Corioni Vattene». A questo seguiva l’offerta di biglietti e abbonamenti gratis per il 1911 e l’istituzione, dietro compenso, di un servizio d’ordine interno allo stadio diretto dagli ultras. Come risposta al netto rifiuto del 1911, il presidente Corioni intimò che avrebbe sgomberato il magazzino situato sotto la Curva Nord, dove da sempre la tifoseria riponeva gli strumenti del tifo.

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Pensandoci retrospettivamente, all’epoca l’avvicinamento allo stadio – e al 1911 in particolare – rispondeva al bisogno personale di approfondire il legame con le proprie origini, reso complicato dallo sradicamento dalla provincia bresciana dovuto a ragioni di studio e lavoro. Si trattava di un impulso già nutrito dal fascino per la lingua dialettale e la musica popolare, viste come concrete espressioni della realtà di provenienza. In aggiunta, come aveva potuto intuire fin da quel lontano agosto, ciò che lo stadio gli sembrava offrire era l’opportunità di un’esperienza sensoriale altamente coinvolgente. Registrare in ambienti di vita quotidiana è un’attività nella quale Davide si diletta fin da bambino; per cui non c’è voluto molto prima che si entusiasmasse per la Curva Nord e cominciasse a raccoglierne i suoni. Le registrazioni sono proseguite per oltre quindici anni, sempre con l’impiego di un equipaggiamento leggero – registratori a cassette, minidisc, telefoni cellulari. Durante tutto questo periodo l’uso di una strumentazione non ingombrante gli ha permesso di muoversi all’interno del Brescia 1911 con disinvoltura, senza creare barriere comunicative e intimidire i compagni della tifoseria.2 Non esercitando alcun controllo sulla situazione, e non sapendo in anticipo cosa avrebbe catturato la sua curiosità, il registratore restava acceso per molte ore: «Vivevo l’attimo cercando di mediare tra la pulsione a partecipare e il piacere per ciò che avrei voluto registrare, orientandomi verso una sorgente sonora sulla base del mio gusto». Di fatto, il genuino desiderio di appartenenza ha reso possibile approcciare i ragazzi del 1911 non come oggetti di uno studio, bensì come simili con cui esperire una comunione d’intenti che prosegue ancora oggi. Solo con il passare del tempo, e grazie al confronto con diversi colleghi, amici e conoscenti Davide si è reso conto della potenzialità del materiale audio catalogato nella prospettiva di condurre un’etnografia sonora: «Allora ho iniziato a essere più sistematico, mi sono messo a leggere saggi di antropologia del suono e musicologia, a prendere nota delle mie esperienze, a collezionare volantini e fotografie, a stimolare conversazioni sul canto con il 1911, a discutere con altri studiosi». Dal 2015 si sono materializzati i primi esiti della ricerca in progetti artistici e pubblicazioni. Contemporaneamente, in virtù di un’amicizia che ci lega fin dall’infanzia, abbiamo intavolato un dialogo sintonizzando la partecipaNel giro di poche ore, sotto gli occhi della digos, il Brescia 1911 fu costretto a liberare il magazzino onde evitare che il materiale andasse distrutto: https://19biesse11.files.wordpress.com/2017/03/ mazzone_comunicato_sfatiamo_un_mito_marzo171.pdf 2  L’origine dalla passione di Davide per la registrazione risale all’età preadolescenziale, sotto l’influenza paterna, il quale era solito registrare i comizi politici e catalogare la documentazione raccolta (Tidoni e Carlyle 2012).

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zione e le informazioni di Davide con il background di Lorenzo, alla luce dei suoi interessi per la sociologia dei movimenti collettivi.3 Nelle pagine che seguono intendiamo presentare alcune riflessioni condivise incentrate sulla dimensione relazionale e simbolica del canto ultras. Per quel che riguarda il dibattito attorno al tifo organizzato, ci sembra che un simile sguardo possa offrire un duplice contributo conoscitivo. Anzitutto, il nostro primo obiettivo consiste nel fornire dati etnografici originali capaci di mettere a fuoco il canto come un tratto caratteristico della «sfera comportamentale del tifoso»: un aspetto centrale della cultura ultras, ma al quale finora sono state dedicate solamente alcune fugaci considerazioni.4 Di qui il secondo contributo del saggio – preludio in direzione di una teorizzazione futura – che consiste nel definire e trattare il canto alla stregua di una prassi costitutiva del tifo stesso. Infatti, nell’ambito del movimento ultras il canto non si limita a fare musica; piuttosto, crediamo sia un modo per fare l’azione. In altre parole, tifo e canto risultano inscindibili. Si tratta cioè di due pratiche che stanno in un rapporto di mutua dipendenza e influenza: l’una, con i suoi principi organizzativi e le sue logiche immanenti, definisce l’altra e viceversa. Questo per dire che non può esserci tifo senza canto. Ed è proprio il canto, a nostro avviso, la grande discriminante tra le due principali popolazioni degli stadi: gli spettatori e i tifosi. Di conseguenza, la logica sociale del canto ultras può essere afferrata non solo nelle sue particolarità formali – rispetto alla vocalità, le melodie, il ritmo – ma nel modo in cui cantare posiziona i tifosi ultras dentro un sistema di relazioni e rapporti di forza storicamente situati, consentendo loro di rivendicare l’importanza del proprio ruolo di custodi del patrimonio sociale e simbolico della squadra cittadina.5 Abbracciare una simile ipotesi comporta quindi un’importante implicazione sul piano analitico, in quanto apre la possibilità di considerare il canto 3  Rispetto al nostro percorso di ricerca, l’output più compiuto del lavoro di Davide è l’ibrido libro/ dvd The sound of normalisation (Tidoni 2018), in cui sono riprodotte 30 registrazioni che documentano la cultura sonora del gruppo Brescia 1911. Per un approfondimento e l’ascolto si rimanda alla sezione dedicata del sito personale: http://www.davidetidoni.name/category/football-works/. 4  Il tifo organizzato italiano, in particolare ultras, è stato oggetto di numerose ricerche alimentando sia l’interesse delle scienze sociali sia l’immaginario dei tifosi (Corte et al. 2019). Per circoscrivere le indagini realizzate alla cornice degli studi culturali – dentro cui si colloca il presente saggio – non mancano affatto interpretazioni brillanti su quella che Valerio Marchi (2015, p. 139) chiama la «sfera comportamentale del tifoso». Tuttavia, ad aver ottenuto particolare attenzione sono stati l’atto aggressivo, gli slogan e le coreografie. Il canto è stato toccato marginalmente, senza peraltro andare troppo oltre le sue componenti espressive (Dal Lago 1990; Ferreri 2008; Scandurra 2016; Louis 2019; Doidge et al. 2020). 5  Il nostro punto di partenza teorico ri-articola le argomentazioni del sociologo William Roy (2010, p. 2), studioso della produzione dei generi musicali nell’ambito dei movimenti politici.

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una finestra privilegiata per osservare processi che, a vari livelli, attraversano il tifo organizzato: come le specificità della cultura ultras e le sue evoluzioni; la configurazione del «calcio moderno»; la rigenerazione urbana e, non da ultimo, la concezione dominante della cittadinanza.6 Consapevoli della portata di un’operazione che non può essere esaurita in un breve saggio, i prossimi paragrafi si concentrano sul canto da stadio come «tecnologia del collettivo»; vale a dire, una risorsa per la costruzione della tifoseria, sia sul versante della sua composizione fisica sia sul versante dei riferimenti di senso che ne orientano l’azione. In altri termini, ci proponiamo di prendere in esame il rapporto tra performance canore sugli spalti e organizzazione del tifo.7 Il testo che presentiamo è a prevalenza narrativa: reputiamo sia il modo migliore per sviluppare un ragionamento analitico che non disdegna di far trasparire la nostra vicinanza al gruppo e il nostro punto di vista critico su alcune trasformazioni di sistema. Le testimonianze che riportiamo riferiscono ai ragazzi attivi da più tempo. Li nominiamo indistintamente con la dicitura «1911» per rappresentarli come portavoce di un certo approccio al canto e al tifo. Solo il nome di Davide non è modificato, a sottolineare il doppio statuto della sua presenza, come membro del collettivo e interprete. Usiamo il corsivo per le parole in dialetto bresciano, per le parole straniere e per porre enfasi su alcuni termini. Quando è stato possibile risalire alla melodia originale dei cori, titolo e autore del brano sono riportati tra parentesi. La scelta ci permette di evidenziare i riferimenti culturali da cui, più o meno consapevolmente, gli ultras attingono attraverso delle operazioni di appropriazione e bricolage. Inoltre, vogliamo dare a chi legge la possibilità di dilettarsi a intonare i canti. In chiusura di questa introduzione ribadiamo che l’approfondimento proposto è solo un piccolo passo verso una più compiuta interpretazione della logica sociale del canto ultras: oltre ad aiutarci a comprendere la fenomenologia del tifo, siamo convinti possa dirci molto della vita nelle nostre città e possa metterci in guardia rispetto agli effetti della governance neoliberale sulle libertà di associazione di cui, oggigiorno, concretamente disponiamo. 6  Quando parliamo di calcio moderno intendiamo, con il vocabolario in uso tra gli stessi ultras, «una serie di trasformazioni provocate dal massiccio ingresso di nuovi capitali e strategie commerciali nel calcio professionistico avviate nella penisola poco prima dei Mondiali del 1990» (Giudici 2019, p. 55) e intensificatesi nel nuovo millennio. 7  Il concetto di tecnologia del collettivo è ripreso dalla ricerca di Hanckock e Lorr (2012, p. 321) sulla «musica in azione» nella scena punk hardcore di Chicago.

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Fig. 1. Il 1911 in trasferta, 2017 (Fonte: Brescia 1911)

2. Cantare allo stadio: una tecnologia del collettivo Dopo oltre quarant’anni di radicamento del tifo calcistico nella società italiana, non sarebbe azzardato ritenere il canto ultras, anche noto come canto da stadio, o più semplicemente coro da stadio, una forma di «canto sociale»; forse una delle ultime superstiti in una società globalizzata, cosmopolita e ipertecnologica come quella attuale.8 Grazie anche all’esposizione mediatica riservata ai tifosi, la popolarità del canto ultras è tale da aver colonizzato i rituali comunicativi della gran parte dei movimenti apparsi sulla scena politica nelle ultime due decadi. Le parole stesse canto/coro da stadio vengono ormai impiegate nel linguaggio comune facendo implicito riferimento a delle performance canore molto specifiche. Dal lato formale, il canto ultras presenta infatti alcune particolarità che possiamo sintetizzare così: •

• •

Il canto ultras si innesta su linee melodiche preesistenti, attingendo a vari generi musicali e/o alla cultura di massa: dalle hit pop ai jingle pubblicitari, dai canti tradizionali all’opera teatrale per fare alcuni esempi; L’accompagnamento strumentale si avvale di alcune e poco sofisticate tecniche di percussione: il suono dei tamburi se disponibili e il battito delle mani; Le strofe intonate, solitamente, sono composte da pochi versi che tendono a ripetersi, cosicché il messaggio dei cori possa essere

8 Canto sociale è un concetto piuttosto ampio, essenzialmente fa riferimento alle pratiche musicali delle culture popolari. In Italia, lo studio del canto sociale ha avuto notevole impulso, soprattutto rispetto ai mondi del lavoro e della lotta politica (Bermani 1997; Fanelli 2017).

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veicolato in modo tanto più diretto quanto più partecipato (non va dimenticato che il canto ultras è una performance collettiva). A questo si deve aggiungere che il mondo ultras possiede un proprio repertorio composto da parole, melodie e cellule ritmiche conosciute nell’ambiente e tramandate per via orale. Ma soprattutto, per quanto riguarda il contesto degli stadi di calcio, è attorno alla gestione del tifo che si struttura una sorta di «società della domenica», al fulcro della quale si trovano proprio le figure preposte a orchestrare i canti: i lancia-cori; i tamburisti; e chi si muove tra i presenti spronando a partecipare alle performance. Si tratta di alcune delle personalità più esposte, le stesse che compongono il direttivo essendo le più operose che si danno parecchio da fare anche in settimana: gestendo la produzione e la vendita del materiale del gruppo, l’organizzazione delle trasferte e delle coreografie, le pubbliche relazioni, nonché la pianificazione delle iniziative in città.9 Per comprendere in che modo il canto da stadio costituisca una tecnologia del collettivo, può essere utile fare riferimento alla scelta dei canti operata dai lancia-cori. Dando le spalle al match, spetta infatti a loro il compito di coordinare la voce della tifoseria avvalendosi delle doti personali, come carisma e sensibilità, e della capacità di «leggere la partita»; un savoir faire, quest’ultimo, che consiste nel «far partire» il coro più adatto in base al momento del match e allo stato emotivo dei presenti.

2.1 Poetica del tifo e identità collettiva Davide — Come funziona la capacità di leggere la partita? 191110 — Abbiamo dei cori che sono quelli classici, tipo «quando entreremo…», sai che sono da fare all’inizio della partita. Poi ci sono i cori che van 9  La razionalizzazione dei rituali del tifo ultras – da cui dipende la formazione di quella che Louis (2019, p. 60) chiama «società della domenica» per rimarcare il rapporto tra intrattenimento e gerarchie dei gruppi – si consolida negli anni Ottanta, periodo di maggiore splendore delle curve italiane, capaci di attrarre consistenti masse giovanili (Dal Lago 1990; Doidge et al. 2020). 10  A prendere parola a nome del 1911 sono cinque tifosi che vantano un lungo trascorso nel gruppo avendo ricoperto ruoli di rilievo nel direttivo e, appunto, anche nell’organizzazione del canto allo stadio. Le conversazioni con Davide da cui sono tratte le citazioni sono state effettuate in diversi momenti e tutte quante registrare: alcune conversazioni sono state condotte appositamente per la composizione del saggio; altre sono avvenute in anni precedenti per la realizzazione di progetti artistici e di ricerca – i principali consultabili all’indirizzo internet http://www.davidetidoni.name/category/ football-works/– altre ancora sono state realizzate per l’interesse personale di Davide nel comprendere meglio il mondo ultras.

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sempre fatti: per il Brescia, per il gruppo, per gli ultras… cioè dei cori che vanno fatti in determinati momenti: quando la squadra sta attaccando e sta lottando bisogna pensare alla squadra; poi ci sono momenti in cui fare dei cori ultras, o contro gli avversari, o magari goliardici. Però ci sono momenti della partita in cui la gente si sente coinvolta e travolta dall’agonismo in campo, quindi devi fare dei cori di conseguenza. Non puoi spaccare questa complicità, questa empatia che si crea, devi alimentarla. È da lì che parte tutto, è da lì che cresce. Non puoi andare allo stadio con una scaletta, non siamo a teatro, non è un concerto uno-due-tre-via, prima faccio questa poi questa... la scaletta la devi vivere. Davide — C’è qualcuno che guarda più di altri la partita per dare suggerimenti sul coro, no? 1911 — Quelle cose lì le vedi… anche se stai seguendo il tifo lo vedi quando una squadra sta lottando, quando ha bisogno, quando attacca… Davide — Anche con le spalle girate? 1911 — Se non lo vedi lo percepisci vedendo le reazioni del pubblico, so mia… lo vedi quando un momento è calmo o che la gente ha voglia di cantare e puoi trascinare chi è in parte. Lo vedi se siamo fiacchi. Davide — Si ma non è che decide tutto il lancia-cori, è una cosa in sintonia, anche quelli intorno suggeriscono, è sempre una questione d’intesa e di scambio. Poi a volte magari parte anche qualcun altro che non lo tieni e che si lancia. 1911 — Non c’è nulla di improvvisato, però ci sono dei momenti in cui la spontaneità regna. Chiaramente se parte un coro che non c’entra un cazzo, che non fa parte del repertorio, che è offensivo, lo fermi, lo si blocca. Ma se c’è altro allora diventano protagonisti i ragazzi. A volte devi avere la sensibilità di seguire gli altri.

Dunque, se il compito primario del canto ultras è quello di esprimere la passione verso la «maglia» e la squadra seguendo l’andamento della partita, per sua natura imprevedibile, la scelta dei canti non è mai totalmente libera. Nel senso che l’interpretazione del «momento» e la capacità di «percepire le reazioni del pubblico» non sembra poter prescindere dall’intento di eseguire certi cori, ad esempio, «per il gruppo» e «per gli ultras». Potremmo anche dire che il Brescia 1911 possiede una propria poetica del tifo: regolarmente, oltreché per la squadra si canta contro la squadra se i giocatori non dimostrano di onorare la maglia lottando su ogni pallone; si canta contro le tifoserie rivali; si canta per i diffidati colpiti dal daspo; si canta per gli amici scomparsi; si canta contro l’arma. Si canta anche con149

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tro il rincaro del prezzo dei biglietti, contro il potere delle tv, il presidente, la dirigenza, i giornalisti, il progetto del nuovo «stadio centro commerciale», e contro l’impunità riservata agli agenti di polizia che abusano della divisa. In casi estremi, il direttivo pianifica il silenzio, quello che in gergo è noto come «sciopero del tifo», lasciando gli spalti vuoti o assistendo alla partita senza organizzare il canto. In questo modo, gli ultras usano lo stadio come una piazza dalla quale veicolare messaggi e rivendicazioni che vanno oltre l’attaccamento al Brescia, e che contraddistinguono la tifoseria nel suo complesso. Per quel che riguarda il Brescia 1911, il canto fornisce quindi una certa rappresentazione della collettività, del suo ethos impegnato. 30 settembre 2001 Stadio Rigamonti (Brescia vs Atalanta) Il lancia-cori incita con il megafono: «Dai anche sopra, bisogna cantà fino ala fì. Alura? Dai oh! Dai che ne facciamo una secca. Facciam venire giù tutto qua. Dai però anche li sopra! Dai porco dio! Dai che facciamo forza Brescia olè». Forza Brescia olé Lancia-cori: «Ooooh, porco diooo!», interrompe per nulla soddisfatto dell’energia del canto. Rilancia gridando con ancora più forza: «Forza Brescia olé». Non mollare perché c’è una curva che canta per te O oo oo oo oo oo o (coro da stadio per incitare i giocatori; sopra le note di The entertainer, brano ragtime di Scott Joplin)

Ma lo spirito impegnato del 1911 si può riscontrare anche nei canti indirizzati alla squadra, soprattutto se si pone attenzione allo stile comunicativo dei lancia-cori. Il dialetto, la blasfemia, la richiesta di cantare energicamente novanta minuti – fino ala fi – una semantica che riferisce costantemente alla sfera della morale – «non mollare perché…/ fuori i coglioni…/ noi vogliamo undici leoni» per citare altri cori – sono i segni più evidenti dello spirito combattivo della collettività. L’ardore che viene messo nel canto serve a definire il carattere della tifoseria bresciana differenziandola dalle tifoserie di altre piazze. 150

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Leonessa lo sai che noi non molliam mai leonessa lo sai che noi non molliam mai perché noi siamo i bresciani lottiamo e combattiamo noi siamo i bresciani e non molliamo mai (coro da stadio per motivarsi al tifo; sopra le note di Birichinata, dalla colonna sonora del film Le avventure di Pinocchio)

A sostegno dell’interpretazione sul rapporto tra poetica del tifo e identità collettiva possiamo spendere qualche parola sul canto lontano dallo stadio. Cantare è nel dna ultras. Si canta al bar, prima e dopo le riunioni, sui bus in trasferta. Quando il 1911 agisce collettivamente fuori dallo stadio, perfino in quel caso assume un profilo impegnato con l’adozione di un repertorio «di contestazione» e di protesta: per criticare la società al campo di allenamento o alla sede del club; per fare pressioni sull’amministrazione locale sotto al municipio; per cantare attorno al carcere.11 Invece, quando gli ultras sono distanti dalla ribalta della vita civile dove si interfacciano con altri tifosi, club, polizia o media, i cori del Brescia 1911 non vengono imbeccati soltanto dal direttivo. Ma soprattutto, i contenuti proposti dai ragazzi, non essendo riferiti a istanze sociali di qualche tipo, sono molto più vari e disimpegnati. Esempi di canti performati fuori dallo stadio in assenza di pubblico. • Per i singoli: A-b A-b A-b matusalem conquista la Iolanda strappale la mutanda sventolala per noi (coro sulle vicende sentimentali di un membro del gruppo)

• Sfottò tra sottogruppi di paese: Noi abbiamo il vino con le bollicine voi le aché e la merda 11  Da diversi anni a questa parte, concluso l’ultimo match casalingo prima di Natale, il gruppo raggiunge Canton Mombello per portare gli auguri ai detenuti e ribadire l’ostilità nei confronti dell’istituzionale penale (Tidoni 2018).

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Noter hul che aché e doma boasé voi le Porte Franche (cori tra ragazzi della Franciacorta e della Valle Camonica; sopra le note di Sotto questo sole dei Ladri di Biciclette)

• Contro il gruppo stesso: Voi siete un pullman di amorfi c’avete rotto i coglioni veniamo coi bastoni veniamo coi bastoni (coro sul bus della trasferta, in momenti di stanca qualcuno rompe il silenzio e provoca i presenti; sopra le note di La mula di Parenzo di autori anonimi)

• Parodia dei canti per la squadra: Allo stadio

Fuori dallo stadio

Passeranno le sconfitte Passeranno le vittorie passeranno le sconfitte passeranno le sconfitte passeranno le sconfitte noi saremo sempre qua è sperom de paregià perché noi siamo gli ultrà del Brescia (coro ironico in merito ai fallimenti sportivi del Brescia)

• Esaltazione delle bravate: Furtogrill furtogrill furtogrill furtogrill furtogrill furtogrill (coro che inneggia all’esproprio di beni; sopra le note della marcia militare americana Stars and Stripes Forever di John Philip Sousa)

• Sfregio all’intelligence italiana: Mi è caduta una bottiglia dalle dita o o o mi è caduta sulla testa di Giovita o o o molotov la la la la molotov la la la la (coro per un digossino conosciuto; sopra le note di Jesahel dei Delirium) 152

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• Canzoni licenziose: Eeeeeeee tiremel dè fò pètel sol comò fal deentà bordò basemèl èn ponta la canzone che dedico a te Ho comprato la villa al Tonale l’ho comprata soltanto per te ma da quando non mi dai la canale la villa al Tonale la tengo per me (coro allusivo alle fantasie sessuali maschili; sopra le note del brano goliardico Ho comprato di autori anonimi)

Cori del genere vengono eseguiti in assenza di un controllo stringente da parte delle figure del direttivo. In queste occasioni i ragazzi si prendono gioco l’uno con l’altro, esprimono in musica l’allegria dell’aggregazione e le sfaccettature scanzonate e trasgressive del movimento, riconoscendo la connotazione prettamente maschile del collettivo. In breve, cantare senza un referente pubblico conferma l’appartenenza a una più generica cultura ultras nella quale ci si identifica; al contempo suggella il legame complice tra i singoli, indispensabile per esibirsi coesi sugli spalti.12

Fig 2. Scritta in cima a un ingresso alla curva nord del Rigamonti, 2007 (Fonte: Davide Tidoni)

12  Sul controllo del direttivo è doveroso precisare che lontano dallo stadio non si esegue qualsiasi canto. Qualche anno fa, sul pullman durante una trasferta, Davide ricorda che uno dei giovani intonò un coro accattivante appreso da YouTube, reso famoso dai tifosi napoletani, storici rivali dei bresciani. Un ragazzo del direttivo reagì bloccando il coro sul nascere, senza lesinarsi nel prendere a cinghiate lo sprovveduto con la cintura dei pantaloni. L’aneddoto può essere preso ad esempio di come anche le performance canore meno pubbliche rinviano al cleavage amico/nemico attorno cui si impernia il mondo ultras (Marchi 2015; Scandurra 2016).

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3. Cantare allo stadio: le funzioni organizzative Scrive Marchi: Diversamente dall’ultrà inglese, il quale «tende ad aggregarsi soprattutto intorno allo scontro fisico […] manifestando la propria natura prettamente sottoculturale nell’assenza di forme evolute di coordinamento, di organizzazione e promozione di attività di curva», per i curvaroli italiani «l’atto aggressivo rappresenta invece una delle opzioni del gruppo, che può affidare il proprio senso di comunità anche ad altre manifestazioni».13

Per continuare con il nostro ragionamento, che la pratica del canto rientri tra queste manifestazioni è ben risaputo da chi, tra le fila del 1911, si fa depositario del senso comune ultras che dovrebbe orientare le condotte di coloro che penetrano nel territorio presidiato dal gruppo. Oltreché performare l’identità, coordinare il canto allo stadio assurge quindi a diverse funzioni strategiche per l’organizzazione della tifoseria. Le tre principali, sulla base della nostra ricerca, riguardano rispettivamente a) la creazione di un corpo collettivo, b) il contatto con l’eccitamento e l’esperienza estetica, c) l’educazione ad un certo modo di fare ed essere ultras, con decisive ripercussioni proprio sui comportamenti aggressivi e il conflitto fisico.

3.1 Fare corpo töcc ensèma 1911 – Quando ho iniziato ad andare al Rigamonti a metà degli anni Ottanta non c’erano gruppi organizzati come quelli di oggi. Il tifo non era così articolato. Le canzoni pur essendo molto spontanee non sempre seguivano il corso della partita, non sempre erano adatte. C’erano quelle canzoni e si facevano quelle canzoni. Non si riusciva a coinvolgere tutta la tifoseria tutta la curva, ma perché non c’erano neanche i mezzi, ci si limitava ad alcuni megafoni. Grazie a dio c’erano i tamburi, quelli ce ne potevano essere anche 13  In una delle sue interpretazioni più convincenti, Marchi (2005; 2015, pp. 142-145) delinea «due modelli ultrà», quello inglese e quello italiano: il primo – propriamente hooligan – contiguo alle forme aggregative street e rough dei giovani maschi appartenenti alla working class britannica; il secondo – sviluppatosi dopo il Sessantotto a partire dai grandi centri urbani – mutuato dalle forme dell’autogestione e dallo stile «duro» della militanza politica extra-istituzionale. Le due tradizioni possono essere considerate la matrice originaria dei movimenti del tifo oggi sbocciati negli stadi di tutto il mondo, non solo di calcio.

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dieci o venti. Però poi c’erano dei momenti in cui si sentivano solo i tamburi e la gente cantava poco, anche perché allora cantare per novanta minuti era un’utopia, non c’era ancora la consapevolezza che il tifo della curva potesse fare la differenza, potesse essere il dodicesimo uomo in campo.

Di fatto, cantare è ciò che permette al tifo di diventare una forza capace d’intervenire nel match. La categoria di pensiero del «dodicesimo uomo», così consolidata tra gli ultras, fa implicito riferimento a un’entità trascendente i singoli in grado di influire sul corso degli eventi. In questo senso, potremmo generalizzare sostenendo che una delle funzioni del canto ultras è quella di trasformare la folla indistinta dei tifosi in un corpo collettivo che agisce perseguendo una meta comune.14 1911 – Quando riesci a coinvolgere migliaia di persone ti dà la soddisfazione di riuscire a creare un’atmosfera, un ambiente unico e la consapevolezza, comunque, di spingere i giocatori in campo a fare la differenza. A parte questo, ti fa capire comunque che ci sono tante persone in sintonia con te, persone di ogni estrazione sociale, magari anche molto diverse da te che però in quel momento lì riescono a condividere un obiettivo comune. Quello che scaturisce dalla condivisione dei cori, dal canto, penso che sia qualcosa di unico.

Per «coinvolgere» e «fare la differenza» la strumentazione ricopre un’importanza notevole. L’uso degli altoparlanti e la percussione dei tamburi, essenziale a potenziare il suono, scandire il ritmo e ordinare i gesti dei singoli, sono i mezzi principali attraverso i quali molteplici voci si uniscono a formare un coro unitario.15 Lo si può evincere dal racconto di uno dei tamburisti del 1911 riguardo all’installazione del sistema di amplificazione della curva nord. Dalle sue parole viene inoltre a galla un modo di vivere lo stadio che oramai appartiene al passato. Davide – Ti ricordi quando hanno messo gli altoparlanti in curva? 14  Come sostiene anche Back (2003, 311), l’agency dei tifosi sta nella capacità di produrre dei suoni ordinati: «Dentro gli stadi è in particolare con i canti e il rumoreggiare coordinato che si produce una struttura di sentimenti» e viene esercitata un’azione sul gioco (Tidoni, Pedrini 2021). Va anche detto che, a differenza della terrace culture, in generale il tifo ultras italiano si avvale dei tamburi, anche se qualche collettivo, in certe curve, ha optato per emulare lo stile britannico cantando senza percussioni. 15  Secondo Drott (2018) una delle funzioni principali delle percussioni nel contesto dei movimenti collettivi consiste nel creare un’unione psichica ordinando i corpi ad agire collettivamente.

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1911 – Lo abbiam fatto noi un sabato, siamo andati lì col martello pneumatico, avevam fatto le canaline... avevamo staccato i gradoni di cemento, avevam fatto passare i fili sottoterra dentro i muretti dello stadio con le prese che arrivavano sopra dove si lanciavano i cori, dopo avevamo ri-cementato e avevamo rimesso i gradoni, tutto noi. Davide – Si potevano far le cose senza chiedere, era aperto li? 1911 – Sabato era sempre aperto. Lo pulivano, sistemavano le cose i magazzinieri, preparavano le cose per la partita e noi entravamo dalla tribuna con il furgone e tutto. Davide – Che anno era? 1911 – Era il 2000. Mi ricordo che prima c’era un megafono, poi c’era un impianto con una batteria grande in un armadietto, ma costavan tanto le batterie e duravan poco. Allora abbiamo deciso di fare un impianto con le prese. Avevamo le aste dove attaccavamo gli altoparlanti grossi così, ne avevamo otto: otto altoparlanti ad asta lunga, li scocciavamo, avevano la loro presa, accendevamo sto impianto e da lì col microfono si sentiva dagli altoparlanti”. Davide – Prima c’era solo il megafono? 1911 – Sì. Davide – Tu hai sentito una differenza? 1911 – Si figa! Ciao! Con questo impianto sentivano tutti, anche quelli in fondo. Una volta i cori partivano centrali e si allargavano ai lati, ma non c’era mai quella potenza di fuoco. Invece con il nostro impianto ai lati sentivi bene e partivano tutti subito.

Con l’accelerata securizzazione degli stadi post-2007– anno della morte dell’agente Raciti e del tifoso laziale Sandri – sono state fortificate delle nuove barriere di accesso. L’architettura delle curve è stata ridisegnata e sono state introdotte più stringenti modalità di sorveglianza. Per i tifosi la possibilità di abitare gli spalti in forme autogestite si è assottigliata drammaticamente. Inoltre, assieme all’uso dei fumogeni è stato bandito l’impiego degli striscioni, degli impianti di amplificazione e dei tamburi; questi ultimi reintrodotti dal 2015 ma solo con il benestare delle questure locali.16 16  La riduzione della libertà di autogestione del tifo ha reso gli ultras, potremmo dire, disoccupati. La messa in scena delle coreografie, la distribuzione dei comunicati, la salita in ringhiera, l’accompagnamento strumentale e lo sventolamento dei bandieroni hanno sempre occupato il tempo della partita dando agli ultras un ruolo di primo piano dentro lo spettacolo, una responsabilità. Nel momento in cui tutto ciò è proibito, per diversi tifosi la ragion d’essere della partecipazione viene meno. Gli spalti passano così da essere uno spazio abitato e vissuto ad uno spazio asettico, mero orpello di folklore utile alla mediatizzazione del prodotto calcio.

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C’è una merda giù in città che il tamburo non fa entrare questo coro canterò di disprezzo contro te chi non canta digos è. (coro da stadio sul divieto di utilizzo autogestito dei tamburi)

Il divieto di adoperare gli strumenti del canto ha causato un vero e proprio annichilimento del protagonismo ultras, in favore di un tifo più passivo. I tamburi e i sistemi di amplificazione, infatti, generano uno stato di effervescenza che galvanizza i corpi facendoli vibrare all’unisono; mentre senza l’impiego degli strumenti si crea una separazione più netta tra i tifosi presenti nella stessa porzione di spazio, con la conseguenza di rendere i collettivi confinati in se stessi.

3.2 Il contatto con l’eccitamento e l’estetica 1911 – A Cagliari, quel dududu dududu dudu l’abbiamo inventato lì, è stato fatto lì, tra l’altro in un momento dove non giocavano neanche. Eravamo dentro allo stadio e questo ritmo qui ha portato allegria, quello me lo ricordo bene fes, quel dududu dududu dudu, e poi dududu / eh / dududu / eh. Ma è partito così dal niente, eravamo fermi col tamburo, stavamo aspettando. Forse era già finita la partita e lì seduto ho cominciato tin tin tin tutum, così, spontaneo. Poi insomma lo sai anche te Davide: se avevi il tamburo rimbombava di più, e lia piö bel. Davide – Una volta eravamo a Modena e non c’era più il tamburo perché non lo facevano portare. Però avevamo dei battecchi e gli davamo sui seggiolini, eravamo io e il Civi e io ho sentito una roba… cioè... mistica figa, di sballo. 1911 – Non mi ricordo. Forse sarà che te col tuo lavoro ci fai più caso a certe cose. Però diciamo che le sensazioni che provi non le trovi da nessun’altra parte, perché il canto di così tante persone assieme oltre allo stadio dove è che lo trovi?!

Uno dei principali motivi che han fatto rimanere Davide allo stadio per così tanti anni è, senza ombra di dubbio, l’eccitamento innescato dal canto ultras. Allo stadio i tifosi trovano un momento di profonda comunione. Ci si traveste di bianco e blu, si sventolano i bandieroni con i colori del gruppo. 157

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Il canto è accompagnato dal consumo di sostanze euforizzanti, si emettono grida eccedendo nell’impiego di un linguaggio sboccato e di una fisicità esasperata – pacche sulle spalle, spintoni, gesti sessuali e di scherno. In questo modo, cantare allo stadio permette a singoli disparati di stringere un contatto con l’esperienza estetica. Di ritorno da una trasferta a Pisa (2009): 1911 - Io oggi non ho niente ma niente da rimpiangere. Sai cos’ho di giusto oggi? Ho detto: s-cec, quando vado a Pisa fó mia sito. Ada, voe tirà töc aanti e voe cantà, dio porco! Sono lì, figa, e voglio essere lì! Ieri sera cosa ho fatto? Non ho bevuto, sono rimasto a casa e questa mattina alle sette e mezza in piedi. Ho aspettato un momento e poi bam: sono partito. Eh, sie là che südae come un cà, tirae zo töcc. Però dio cane… ada Davide, mi son divertito.

Nella logica del tifo ultras, grazie al canto viene soddisfatta quell’«attesa di partecipazione» all’evento sportivo che sta agli antipodi della postura contemplativa degli spettatori, per i quali la fonte del piacere risiede nell’ammirazione delle gesta atletiche dei calciatori.17 Il contatto – a un tempo individuale e collettivo – con l’eccitamento e l’esperienza estetica raggiunge l’apoteosi nelle trasferte, in quelle circostanze che Dal Lago definisce di «curva in movimento».18 In primo luogo, è in particolare durante le trasferte che viene alimentato il repertorio canoro. Solitamente, per dare espressione ai sentimenti provati, sopra melodie di canti già in uso alcuni presenti intonano delle nuove strofe. Se i versi riferiscono a eventi che il gruppo reputa significativi, il canto viene provato finché non raggiunge una forma compiuta. Una volta riproposto allo stadio, il coro entra così a far parte dell’immaginario collettivo. 1911 - I cori migliori nascono in trasferta: perché si è in tanti, è più facile farli conoscere, c’è più entusiasmo, c’è l’atmosfera giusta. E poi... questa cosa 17  L’esperienza estetica resa accessibile dal canto ultras è un’estetica propriamente popolare, nel senso attribuito a questo termine da Pierre Bourdieu (2001. p. 32). Secondo lo studioso francese, l’«estetica popolare» sarebbe infatti riconducibile a una postura verso i prodotti dello spirito che si sostanzia nel principio della «continuità tra arte e vita», o, volendo, nel rifiuto del «distacco» che sembra essere la cifra caratteristica dell’estetica borghese, di cui la spettatorialità contemplativa è una delle sue manifestazioni concrete. Al contrario, «lo spettacolo popolare è quello che produce in modo inseparabile la partecipazione individuale dello spettatore allo spettacolo e la partecipazione collettiva alla festa di cui lo spettacolo costituisce l’occasione». 18  Dal Lago (1990) introduce il concetto di «curva in movimento» per sottolineare come i gruppi ultras tendano a riprodurre alcuni modi di agire della curva al di fuori degli stadi, lungo il territorio che attraversano in trasferta.

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non sono mai riuscito a spiegarmela: perché magari in trasferta in cento la imparano tutti e magicamente la settimana dopo ti trovi in casa e la sanno già tutti nel tuo settore. Magari una canzone nuova partita da zero. Ed è una cosa fantastica, perché dici: «Casso adesso mi ci vorrà un’ora per fargliela conoscere!». E invece la conoscono già. Ed è capitato un sacco di volte. La magia del tifo è anche questa.

In secondo luogo, il significato del canto allo stadio non dipende solo dalle parole espresse, ma ha a che vedere con le emozioni vissute e la memoria del gruppo. Cantando uno a fianco all’altro ci si esalta anche perché riaffiorano alla mente le avventure della trasferta, come le soste in autogrill, l’arrivo nella città avversaria, il tragitto verso il match, gli smacchi alla polizia. Il particolarissimo intreccio tra eccitamento e estetica mediato dal canto è decisivo nel nutrire la creatività del gruppo e tenere in vita l’affiatamento della tifoseria. Non capisco perché aspettan tutti me a Milano alle 3 Stom en giro tre dé. (coro nato durante il ritorno da una trasferta a Crotone (2006). Dopo essersi scontrato con altri ultras bresciani, il 1911 decide di ritardare l’arrivo a Milano onde evitare di incontrare la polizia in attesa dei tifosi).

La tessera del tifoso introdotta nel 2009, e il relativo divieto di molte trasferte per i gruppi che hanno optato per non sottoscriverla, ha reso sempre più difficile vivere l’esperienza della curva in movimento. Per il Brescia 1911 questo ha comportato maggiori difficoltà ad ampliare il repertorio e aggregare nuovi giovani. A lungo andare, senza la trasferta il patrimonio dei canti e la mitologia che incarna finisce per inaridire, con la conseguenza che l’entusiasmo della partecipazione popolare sugli spalti si affievolisce. Ma dopotutto, sotto il vessillo del benessere nazionale qualunque tentativo di raffreddare gli animi delle tifoserie non può che mettere d’accordo tutte le forze politiche – a destra come a sinistra – e ricevere il consenso dell’opinione pubblica, mai sufficiente paga del grado di pace sociale raggiunta in materia di ultras.

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3.3 «Diffondi la brescianità, inculca la mentalità!» A mani nude venite a mani nude a mani nude venite a mani nude (coro da stadio per rivolgere una sfida agli ultras rivali; sopra le note di Guantanamera).

Parlare di tifo organizzato evoca immediatamente l’incubo della violenza che imperversa sugli spalti come nelle strade, e la minaccia all’ordine costituito che questa comporta. D’altro canto, quando se ne interessano, media e politica approcciano la teppa ultras esclusivamente nei termini di un problema sociale: una sorgente di inquietudini barbariche ora da criminalizzare – com’è d’uso da parte della stampa nelle sue periodiche campagne di panico morale – ora da reprimere – come dimostra la legislazione implementata a partire dal 1989, quando a pochi mesi dalla vetrina di Italia ‘90, con l’obiettivo di allontanare dagli stadi le frange più esagitate, viene emanato il daspo a inaugurare la stagione di gestione dei conflitti nel calcio in oggi siamo immersi più che mai.19 A dire il vero, nonostante le normative messe in atto, nel corso dei decenni né gli scontri tra i tifosi né gli atti di teppismo urbano hanno ottenuto una diminuzione significativa per effetto immediato delle politiche repressive. Il cambiamento o meno di certi comportamenti è risultato piuttosto dalle forme di regolazione delle condotte adottate dagli stessi ultras.20 1911– Quando siamo subentrati in curva come gruppo abbiamo cercato di continuare le tradizioni della tifoseria bresciana, preservando quelle caratteristiche tra virgolette sanguigne, aggiungendo però un po’ di disciplina, chiamiamola così. Noi abbiamo ereditato la fama di teppisti, di violenti, di gente che andava a devastare la città spesso e volentieri. Quando ci si river19  L’evoluzione delle politiche ordine pubblico in materia di calcio è stata delineata in modo coinciso e convincente nei già citati testi di Marchi (2005) e Giudici (2019). 20  Ciò detto, non neghiamo che la repressione ultras funzioni, anzi (Bifulco 2018). Più semplicemente, intendiamo sottolineare che il contesto politico delimita vincoli e opportunità di azione; ma in ultima battuta sta a chi fa parte dell’ambiente organizzativo recepire ed elaborare i parametri dettati dall’alto. Per quanto riguarda l’aggressività ultras, poi, bisogna considerare la metamorfosi della violenza a livello sistemico, in relazione cioè al «processo di civilizzazione» che investe le maniere e le regole di etichetta nel vivere civile nel suo complesso, finendo per rispecchiarsi perfino nella sensibilità dei tifosi organizzati (Elias, Dunning 1989).

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sava in curva sud, quando non si riusciva a raggiungere i tifosi ospiti, il più delle volte la rabbia si scatenava su tutto quello che c’era intorno: sulle macchine, sulle pensiline. Cose che io ho sempre odiato e ho sempre osteggiato. Non mi è mai piaciuto questa cosa e abbiamo cercato di cambiare questa abitudine con la mentalità. Il fatto di spingere così tanto sul canto, sul tifo, ci è servito ad uscire anche da questa situazione di impasse. Tra l’altro venivano arrestati ragazzi molto giovani che non capivano nemmeno il senso di quello che stavano facendo. Il canto per quello è servito moltissimo anche, concedimi questo termine, a educare i ragazzi a un certo comportamento. Detto questo la rivalità tra le tifoserie è sacra. Nel nostro mondo c’è anche una parte di violenza, quella non l’abbiamo mai rinnegata.

Negli anni Novanta, l’autorità dei gruppi ultras storici inizia a essere messa in discussione, l’unità delle tifoserie si sfalda. La morte di Vincenzo Spagnolo – tifoso genoano accoltellato prima di Genoa-Milan del 29 gennaio 1995 – apre delle spaccature nel movimento, a partire dalla questione della violenza, ed emergono diverse correnti ultra. In seno alla corrente del tifo che si avvale di un approccio militante teso a indirizzare il tifo prende forma la filosofia della «mentalità»: un modo di fare ed essere tifosi che si professa apolitico, ma fortemente critico nei confronti del calcio moderno, e che rimette la rivalità tra tifoserie ad un corpus di valori e ideali ritenuto appannaggio della tradizione delle curve italiane. Il conflitto fisico, in particolare, viene sì legittimato, ma nel rispetto di una correttezza di fondo in accordo alla quale lo scontro è ammesso solo tra ultras che si equivalgono numericamente, se motivato da regolamenti di conti – lasciando quindi perdere gruppi organizzati e spettatori che nulla hanno a che vedere con il movimento – e senza l’utilizzo di armi di sorta per evitare escalation letali. Perché perché ci domandano se noi siamo i bresciani lo dovrebbero capire dalle mani perché perché se ci incontri lo capisci pure te (coro da stadio sulla mentalità bresciana allo scontro; sopra le note di La partita di pallone di Rita Pavone).

Anche l’organizzazione del canto allo stadio diventa allora una tecnica per inculcare la mentalità. Lo fa, anzitutto, inducendo chi vive gli stadi a focalizzare 161

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tutte le energie in corpo e le pulsioni sul tifo, sulle performance canore, anziché su altre pratiche. Inoltre, riannodando i fili con quanto detto in precedenza, lo fa attraverso la poetica: diffondendo la mentalità attraverso cosa e come cantare. 1911 – Mi viene da ridere quando sento gruppi che fanno i cori contro la tifoseria avversaria che non c’è. È ridicolo: non hai di fronte l’avversario e lo insulti? Non ha senso. Non fai i cori contro un avversario che non c’è, o quando un avversario è in estrema difficoltà che sai quelli che del direttivo son tutti diffidati. Se non lo sai va bene, ma se lo sai… proprio in quel momento lì che il gruppo non c’è fai i cori contro?

Quella della mentalità è una filosofia che include tutti gli aspetti dell’azione collettiva intrapresa dai tifosi. Assieme all’approccio allo scontro fisico, la filosofia abbraccia la visione dello stadio come bene comune, l’autonomia ultras dalla società sportiva e dalle forze dell’ordine, il punto di vista sulla politica dei club e sulle tv, le rivalità come anche le campagne da intraprendere con altre tifoserie, la lucidità necessaria ad affrontare le trasferte. Attorno alla pratica del canto si innescano dunque dei processi di produzione morale che discriminano ciò che è lecito da ciò che non lo è, delineando i comportamenti vincolanti dentro al collettivo – questo vale soprattutto per le cerchie più attive. Lo sosteniamo anche perché uno di noi, a contatto con il 1911, sa che i cori da intonare sono oggetto di una negoziazione perenne. In ringhiera, i componenti del direttivo indirizzano il canto interpretando al volo il contesto con il filtro della mentalità. Ma non così di rado, la scelta di cosa e come cantare può essere discussa in anticipo, talvolta poco prima di entrare allo stadio, talvolta in settimana se si tratta di dare una risposta pubblica ad alcuni avvenimenti recenti, oppure per sancire affinità o differenze rispetto ad altri ultras concittadini. Proprio per questo motivo, nel 2010, riconosciuta l’incompatibilità tra differenti filosofie ultras presenti al Rigamonti e l’impossibilità di poter guidare ancora la tifoseria bresciana, il 1911 ha lasciato la curva per spostarsi in gradinata, restando così una voce fuori coro ben distinguibile da altri tifosi organizzati: una distanza spirituale, prima ancora che fisica, simboleggiata anche dalla modifica del nome ufficiale del gruppo in «ultras Brescia 1911 ex-curva nord».

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Fig 3. Comunicato del gruppo, 2013 (Fonte: Brescia 1911)

4. Per concludere. Verso un tifo normalizzato? In chiusura vorremmo sottolineare che i cambiamenti in corso nel calcio moderno hanno acuito ulteriormente le spaccature all’interno del mondo ultras, tra una componente engagé e una poco incline a criticare il nuovo ordine che si sta stabilendo. Gli spalti sono diventati luoghi sempre meno ospitali per una certa tradizione del tifo popolare, ritenuta da chi ha il potere di definire le regole del gioco – club, media, figc, grossi investitori, Stato, amministratori locali, associazioni dei calciatori e degli arbitri – poco docile e del tutto non conforme al paradigma neoliberale che auspica di convertire gli stadi in cattedrali del consumo pacificate, sempre più integrate nel tessuto economico e simbolico cittadino.21 Nell’ottica di favorire un ritorno di pubblico negli stadi – quantomeno fino all’arrivo del Covid-19 – con la sottoscrizione di un protocollo di intesa dal titolo Il rilancio della gestione tra partecipazione e semplificazione, a partire dal 2017 la tessera del tifoso è in via di abolizione. A questa apparente riapertura al tifo ultras ha fatto tuttavia da contraltare, sempre nel 2017 con il decreto Minniti, una repressione a ben vedere ancora più esacerbata con l’estensione del daspo su scala urbana. In nome del dogma dei giorni nostri del decoro, con il daspo urbano è stato così messo a punto 21  Una ricostruzione critica del discorso dominante sui nuovi stadi di calcio «integrati» si trova nel volume del sociologo Simone Tosi (2018), a cui rimandiamo per ulteriori approfondimenti.

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un dispositivo amministrativo orientato a rimuovere dallo spazio pubblico la sgradevole presenza delle popolazioni marginali e delle popolazioni auto-organizzate che esprimono il proprio dissenso rispetto allo status quo. E poco importa non vengano commessi illeciti. Lo dimostra il fatto che di recente diversi ragazzi del 1911 sono stati colpiti dal daspo semplicemente per aver fatto sentire la propria voce in strada, intonando cori e mostrando striscioni di fronte alla sede del Brescia Calcio e all’esterno degli studi dell’emittente televisiva locale Teletutto. Nella stessa ottica, e in aggiunta alla sorveglianza e alle sanzioni dello Stato, i club di serie A e serie B hanno adottato un apposito codice etico e dei nuovi regolamenti d’uso dello stadio nel caso delle squadre che giocano in spazi comunali. Tra gli scopi dei codici e dei regolamenti rientra la limitazione delle esternazioni del tifo ritenute incivili poiché comportano «offesa», «denigrazione» e «inneggiamento a comportamenti discriminatori» – per citare il regolamento del Rigamonti – pena l’allontanamento dei singoli dallo stadio e il rifiuto dei botteghini di vendere i biglietti d’ingresso; due operazioni a totale discrezione delle società sportive. Il che spiega anche la decisione del collettivo di utilizzare il piazzale antistante allo stadio di casa per cantare liberamente con l’ausilio dei tamburi, senza dover scendere a patti con la questura.22 Nonostante la pandemia globale, i campionati 2020-2021 delle massime serie hanno proceduto spediti nel rispetto degli interessi dello show business. Mentre in tutta Europa le partite si sono giocate a porte chiuse, il Brescia 1911 è sceso in piazza per denunciare una gestione autoritaria della crisi sociosanitaria, realizzata a suon di decreti, chiusure forzate e privazioni delle 22  In un agile testo, Bukowski (2019) delinea bene come la categoria del decoro sia divenuta parte del senso comune dei potenti influenzando la governance dello spazio pubblico locale. Come spiega il saggio, si tratterebbe di un governo tutto teso all’ideale della «cittadinanza di merito» – incarnata dalla classe media consumatrice – e che, nella pratica, si sostanzia in numerose procedure di espulsione dalle «città vetrina» di chi esibisce di collocarsi ai margini della società: vuoi per condizione, come mendicanti e senza fissa dimora, vuoi per convinzione, come artisti di strada, attivisti politici e, il passo è breve, gruppi ultras. Possono bastare alcuni stralci del codice etico del Brescia Calcio per farsi un’idea dell’applicazione del principio del decoro alla categoria del tifoso modello. Si legge nel codice: «Il tifoso rispetta il risultato sportivo conseguito dalla propria squadra sul campo. È consapevole che l’avversario persegue lo stesso obiettivo della conquista della vittoria e condivide con lui le gioie per i successi e le sofferenze per le sconfitte con senso civico, passione sportiva e rispetto»; e ancora, il tifoso «può manifestare il proprio disappunto per i risultati sportivi negativi della squadra in modo civile e costruttivo […] deve dare sostegno e incitamento ai tifosi della propria squadra, e non si lascia coinvolgere dalle eventuali provocazioni che possono provenire da teppisti e delinquenti». Del resto, commenta ironicamente il 1911, «chi non sognava un derby come Brescia vs Atalanta oppure Brescia vs Verona con cori di apprezzamento da entrambe le parti?». https://19biesse11. files.wordpress.com/2018/07/comunicato_codice_etico_c_c3a8_chi_dice_no_lug18.pdf.

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«bisogna cantà semper»alcune note sulla logica sociale del canto ultras nel gruppo brescia 1911

libertà che hanno esacerbato le diseguaglianze esistenti. Alcuni dei ragazzi si sono mobilitati dentro i programmi cittadini di welfare dal basso. Lontani dallo stadio è giunto il momento di fare bilanci e tratteggiare gli scenari del futuro, con lo spauracchio di un’emergenza che si normalizza. Durante una giornata di distribuzione di generi alimentari nell’ambito dell’iniziativa «cibopertutti» (dicembre 2020): Davide – Il controllo spirituale dello stadio secondo me, dall’idea che mi sono fatto, è che dipende da come un gruppo riesce a coinvolgere le persone, a farle cantare. 1991 – Più il gruppo è coeso e più si espande verso gli altri sperando di trovare terreno fertile. Per quello dovremmo andare in curva sud, forse lì ci sono maggiori potenzialità. Hai visto che tipo di settore è diventato la gradinata?! Fino a prima era un settore popolare. Adesso è una specie di distinti, con gente più fighetta che vuole vedersi la partita. Poi c’è gente di altre tifoserie infiltrata, e noi? È un casino andare là, tirare via la gente, mandarli via e non farli entrare con noi. Chiaro che se hai un settore con tanti giovani che han voglia di cantare più canti e più trasmetti uno con l’altro. Quando vedo gente seduta, imborghesita, dico: che cazzo venite allo stadio? State a baita! Davide – Lì in gradinata non riusciamo a espandere il canto… 1911 – Non so se hai fatto caso al cambiamento che c’è stato in gradinata tra due anni fa e l’anno scorso?! Adesso c’è gente completamente diversa come modo di fare. Mentre l’ultimo anno in serie B nonostante era gente di gradinata era gente più contenta. Ogni tanto coi cori riuscivi a coinvolgerli; quando cantavamo «fino alla fine forza ragazzi». Hai sentito in serie A fare «fino alla fine?!». E c’era lì il triplo della gente dell’anno prima… non lo facevano. È gente che viene a vedere la partita, magari neanche a vedere il Brescia, ma a vedere la partita. Non so, è un modo di andare allo stadio oggi che io non condivido, non mi appartiene, non mi rispecchio. Piuttosto che andare così io mi sparo figa! Davide – Non è che c’hanno lasciato molto margine. Infatti, io mi chiedo se ci converrebbe smettere di andare. Solo che se smetti rimangono solo gli altri… 1911 – Il mondo ultras è fuori dallo stadio. O riusciamo a dare una svolta, o il mondo ultras è fuori dallo stadio. Non ci sarà ancora molto tempo dentro lo stadio per essere ultras come intendiamo noi. Ci saranno ultras complici, quelli che si adeguano a tutto, ai permessi, alle tessere, a nuove normative. Adesso con sta cosa del Covid vuoi che non s’inventino di nuovo qualcosa?! Inizieranno a fare entrare solo qualcuno, quindi uno sgabello sì e uno no, senza poterti alzare, fanno 3-4-5 mesi con la gente seduta così li abituano. 165

le strade della teppa

Davide – Secondo te cosa diventiamo in futuro se gli ultras saranno in giro e non allo stadio? 1911 – Andiamo avanti a fare «cibopertutti». Davide - Eh dai, non è una brutta alternativa, almeno facciamo qualcosa. 1911 – Non lo so sai, non saprei prevedere, andremo avanti nel sociale finché riusciamo, finché non ci disgreghiamo, finché riusciamo a tenere botta… lo stadio comunque è il collante. Perché ognuno ha la sua cosa politica, lo sai bene anche te. Invece allo stadio non c’è distinzione. Ognuno ha la sua vita, ognuno ha il suo lavoro. In curva non c’è distinzione, c’è gente che non si sarebbe conosciuta se non fosse stato per lo stadio.

Fig. 4. Striscione esposto al castello di Brescia per la ripartenza del campionato in tempo di covid. Sebbene le partite fossero giocate a porte chiuse, i diffidati avevano comunque l’obbligo di recarsi in caserma a certificare la loro lontananza dagli spalti, 2020 (Fonte: Brescia 1911).

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teppa in galera culture del penitenziario nel carcere frammentato di Luca Sterchele

Anything goes behind the line We are the outcasts of our time The animals of public life (GG Allin, My prison walls)

Il sapere criminologico – o, perlomeno, l’area egemone di tale sapere, che trova ampi spazi di espressione in accademia e nella comunicazione mass-mediatica – è costitutivamente integrato nelle fila della Brigata Appendili e Frustali.1 Questa domina il dibattito relativo al vasto insieme di pratiche e fenomeni che potrebbero a diverso titolo essere riconducibili alla «questione criminale», rispetto alla quale il criminologo si pone come “esperto”, decodificatore di comportamenti «disfunzionali» e «patologici» che il suo sapere, opportunamente supportato dall’intervento concreto delle agenzie del controllo, sarebbe in grado di disinnescare. In rapporto a questo sapere «poliziale», la criminologia critica – o più eloquentemente l’anti-criminologia, per usare la definizione di Vincenzo Ruggiero (1999) – si pone come istanza critica e radicalmente oppositiva, rifiutando il riferimento a-problematico a quell’«orizzonte artificiale» impostole dal diritto e immaginando al suo posto nuovi metodi per ridefinire dal basso i contorni del suo campo di studi, al di fuori dei dogmi legalitaristici del law and order. Il passaggio che si viene così a compiere è radicale, e si attua attraverso un netto ribaltamento di prospettiva: ad assumere centralità nell’analisi anti-criminologica non sono tanto i fattori che influiscono sulla possibile messa in atto di comportamenti criminali, quanto piuttosto i processi attraverso i quali le categorie stesse di deviante e criminale vengono formulate e applicate selettivamente in seno ai gruppi sociali e istituzionali. Mescolando alcuni elementi della tradizione marxiana con gli assunti alla base dell’interazionismo simbolico, la criminologia critica sposta l’asse di interesse dalle cause della criminalità 1  Appellativo spesso utilizzato da Marchi, preso in prestito dal poeta e scrittore Garry Johnson, figura di riferimento nella scena Oi! britannica.

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alle articolazioni della criminalizzazione, processo sfaccettato che opera su più livelli, snodandosi su quelle che sono le ben note geometrie integrate del potere: gli effetti di questo assemblaggio si traducono in una marcata selettività sia al livello della produzione legislativa, che crea dei distinguo entro la confusa «galassia degli illegalismi», determinando quali comportamenti siano da ritenersi “illegali” e pertanto meritevoli di intervento; sia su quello delle pratiche di sorveglianza e sanzione messe in atto dalle agenzie del controllo, in primis polizia e magistratura, le quali mettono in campo strategie di azione dirette in via prioritaria verso corpi che si discostano dalla norma (sia questa classista, razzista, patriarcale, abilista) e aree urbane identificate come problematiche. Questa “postura” di ricerca propria dell’approccio criminologico critico, qui abbozzata in maniera sbrigativa, vede molti punti di contatto con quella che è stata l’attitude di Marchi nei confronti dei fenomeni sottoculturali che ha studiato nel corso degli anni. In primo luogo, si può facilmente notare come, in entrambi i casi, vi sia un’attenzione marcata nei confronti della «reazione sociale»: a fare da filo conduttore dei lavori di Marchi vi sono non soltanto le espressioni e le pratiche proprie delle sottoculture giovanili, ma anche la relazione che queste intrattengono con la «cultura dominante». È in questo rapporto che si gioca infatti l’individuazione e la costruzione di panico morale nei confronti dell’«atto teppistico», ed è qui che viene decretata la maggiore o minore «accettabilità» delle stesse attraverso continui processi di classificazione, regolamentazione e – talvolta – neutralizzazione delle pratiche e di chi le performa. In secondo luogo, l’affinità tra l’autore romano e i vari studi riconducibili al campo della criminologia critica si produce su un versante più contenutistico, nell’attenzione che viene posta a un’istituzione – quella carceraria – non di rado centrale nelle traiettorie biografiche dei giovani teppisti che praticano «un’infrazione continuata dei canoni del “contratto sociale”». Il carcere, istituzione archetipica del controllo disciplinare, si situa con una certa frequenza al termine dell’intricato percorso lungo il quale si snodano i processi di criminalizzazione e di costruzione del folk devil, costituendosi sia come dispositivo simbolico rilevante nella risposta auto-alimentantesi del panico morale che come snodo significativo nella solidificazione e riproduzione delle identità «devianti» e delle «classi pericolose» (Irwin 1970). In particolare, nel leggere i libri di Marchi è possibile individuare delle topografie che si costruiscono principalmente su due versanti: da un lato vi sono piazze, vicoli, slums, stadi, pub e altri contesti socio-spaziali che costituiscono i teatri entro i quali vengono performate le pratiche sotto-culturali 170

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proprie della teppa; dall’altro vi sono i luoghi del controllo, le istituzioni ove il giovane teppista viene a contatto con i dogmi della cultura egemone e si trova a farvi i conti confrontandosi con quelli che sono i suoi obiettivi pedagogici e disciplinari. Le ricerche di Marchi offrono indubbiamente numerosi spunti nella lettura delle prime, mentre le seconde vengono parzialmente relegate a un secondo piano sul quale soltanto raramente vengono tentate delle esplicite incursioni. Eppure, gli strumenti analitici elaborati da Marchi nella lettura delle pratiche sottoculturali della Teppa “fuori” potrebbero costituire degli attrezzi interessanti per contribuire a un’analisi delle riconfigurazioni che queste vengono poi ad assumere “dentro”. In questo contributo si cercheranno quindi di riprendere in mano tali strumenti, provando a calarli su di un terreno – quello carcerario – che nell’opera di Marchi ricopre una silenziosa centralità, determinata proprio dalla sua nebulosa presenza nelle traiettorie di vita dei giovani teppisti (e, seppur in misura minore, delle giovani teppiste). L’obiettivo, certamente ambizioso e scivoloso, è quello di indagare le possibilità di questo sottotesto, provando a recuperarne le potenzialità per declinarle su di un campo che è di indubbio interesse nello studio della Teppa.

1. Teppa nella teppa Nelle numerose visite a diversi istituti penitenziari del Nord Italia che ho avuto modo di effettuare negli ultimi anni come ricercatore e come attivista, sono stato spesso esposto a una sorta di allarme sventolato dagli operatori carcerari e sanitari che erano in servizio presso di essi: questo aveva e ha tutt’ora a che fare con un preoccupante aumento del numero di detenuti descrittimi come “problematici” o “psichiatrici”. Le etichette utilizzate, per quanto tecnicamente diverse nell’orizzonte simbolico e professionale al quale fanno riferimento, venivano messe in campo in maniera intercambiabile da agenti di polizia penitenziaria, educatori, medici e altre figure centrali del penitenziario per denotare una corposa fetta della popolazione detenuta che – a detta di chi mi segnalava il problema – poneva serie difficoltà nella gestione della quotidianità detentiva da parte degli operatori, mettendo in essere comportamenti che minavano l’ordine interno e minacciavano la tenuta complessiva della vita dentro l’istituzione. Aggressioni al personale e ad altri detenuti, incendi di suppellettili, assunzione massiccia e “impropria” di farmaci, sono tutti elementi attribuiti a questa nuova categoria di reclusi, a fronte dei quali l’amministrazione si vede costretta a mettere in atto 171

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strategie di regolazione e governo di carattere ordinario (isolamento disciplinare, esclusione dalle attività in comune, allocazione in sezioni specifiche del carcere) o straordinario (trasferimento presso altre carceri o nei reparti psichiatrici ospedalieri, negazione dei permessi premio o di altri benefici, applicazione di articoli di sorveglianza speciale). Un prolungato periodo di osservazione partecipante2 all’interno di tre istituti penitenziari a prevalenza maschile negli anni 2018 e 2019, ha permesso di andare a fondo nella comprensione del fenomeno, rendendo possibile una parziale decostruzione dell’“allarme” e una rilettura delle caratteristiche e dei processi che portavano gli operatori ad applicare su alcuni reclusi le etichette di “detenuto problematico” o “psichiatrico”. La questione è profondamente complessa e sfaccettata, legata a processi in parte divergenti che finiscono per incontrarsi tra le mura del penitenziario. Pur esponendo il fianco al rischio di un’eccessiva semplificazione, il fenomeno può essere considerato su due versanti: da un lato, prendendo per buono il dato relativo alla massiccia presenza di detenuti psichiatrici, si può ragionare sugli “effetti di importazione” di una popolazione particolarmente fragile dal punto di vista della salute come effetto diretto della selettività dei processi di criminalizzazione, i quali si intersecano con i ben noti tratti “disabilizzanti” di una macchina penitenziaria che – al netto delle riforme susseguitesi negli anni – non ha mai abbandonato un certo gradiente di afflittività nell’esecuzione della pena. Dall’altro si può invece mettere in discussione la consistenza stessa di questo “allarme”, andando a vedere come i processi di categorizzazione che portano alla formulazione e applicazione delle etichette menzionate siano fortemente innestati nei processi culturali propri dell’istituzione: in questo senso, la figura del detenuto “problematico” o “psichiatrico” emergerebbe come l’emblema di quel detenuto che mal si adatta (perché non vuole o perché non riesce) alle forme di regolamentazione formale e informale che disciplinano la vita quotidiana del penitenziario, configurandosi in qualche modo – dato l’allarme che provoca e i tentativi di “inquadramento” a esso conseguenti – come l’analogo intramurario di quello che fuori potrebbe esser individuato e collocato nei quadri della teppa. 2  Il periodo di osservazione è durato circa sei mesi. In questo periodo ho potuto assistere in maniera diretta alla quotidianità lavorativa di numerosi operatori dei comparti sanitari interni al penitenziario ricoprendo perlopiù un ruolo di ricercatore, ma anche, seppur più sporadicamente, di attivista. La partecipazione alla vita quotidiana del carcere è stata vissuta con un certo distacco rispetto a quella che potrebbe esser considerata una vera e propria “immersione” nel campo, anche alla luce delle numerose limitazioni che caratterizzano l’attività di ricerca in ambito penitenziario (Ferreccio e Vianello 2015).

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teppa in galeraculture del penitenziario nel carcere frammentato

Seguendo questa seconda ipotesi analitica, si può notare come la maggiore o minore conformità ai codici comportamentali sia declinata in riferimento ai due grandi gruppi che attraversano e vivono il penitenziario, con alcune significative sovrapposizioni tra di essi su alcuni versanti: da un lato, l’inadeguatezza del detenuto è rilevata, nominata e sanzionata dal personale (sanitario o penitenziario che sia), il quale registra uno scostamento di alcuni reclusi dalle norme formali e informali che disciplinano la vita intramuraria, procedendo quindi alla classificazione di tali soggetti come “problematici” o “psichiatrici”; dall’altro, i medesimi processi prendono forma anche sul livello di supposta orizzontalità che caratterizzerebbe il gruppo stesso dei detenuti, il quale, lungi dal rappresentare un insieme coeso e appunto orizzontale, vede al suo interno il crearsi di dinamiche di stratificazione che si sviluppano a partire sia dalle “identità” riconosciute a ciascun recluso, sia, ancora una volta, dall’“adeguatezza” del compagno di detenzione nei confronti di quello che è considerabile come un “codice del detenuto” (la cui unicità, anche in questo caso, è da mettere seriamente in discussione). In riferimento a questo secondo versante, il tema delle sottoculture carcerarie emerge come punto di interesse centrale sin dai primi lavori nell’ambito dei prison studies. Nel suo The prison community, Donald Clemmer (1940) evidenziava con chiarezza la pregnanza di un «codice del detenuto» dalla valenza presumibilmente trasversale, al quale il «nuovo giunto» avrebbe dovuto adattarsi al fine di situarsi in una posizione di «adeguatezza» rispetto a quello che sarebbe stato da allora il suo gruppo sociale di riferimento per un lasso di tempo più o meno prolungato. Questo codice si configura esattamente come un quadro normativo non scritto ma ben presente nell’orizzonte simbolico del recluso, che prevede prescrizioni alla condotta («mai aiutare il personale», «dare una mano ai compagni detenuti») e sanzioni nei confronti della sua infrazione. La performance del soggetto nei confronti di tale codice determina l’instaurarsi di evidenti gerarchie interne alla popolazione detenuta, con l’esaltazione della figura del «vero uomo» che sa «farsi la galera» – mostrandosi perfettamente adeguato alla norma informale e garantendosi quindi il riconoscimento di uno status di prestigio – e la marginalizzazione delle figure del «topo», del «crumiro», del «tossico», i quali non hanno voluto (o, ancora una volta, non sono riusciti) ad agire in conformità con le medesime prescrizioni normative. Chiaramente, neanche in questa visione para-funzionalista della sottocultura egemone e del codice condiviso si presuppone una stabilità della posizione sociale nel corso della detenzione. Lo stesso Clemmer descrive infatti con chiarezza i processi di 173

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mobilità sociale che possono portare i membri dell’«élite» o della «middle class» a ritrovarsi tra i «crumiri»: È possibile che un uomo facente parte del “middle group” si innalzi all’élite attraverso un comportamento al quale sia garantita l’approvazione degli altri detenuti, come ad esempio l’aggressione ad un agente o il rifiuto di fornire informazioni alle autorità, per quanto questo gli comporti delle punizioni. Similmente, un membro dell’élite potrebbe perdere status e non essere più trattato alla pari dai suoi precedenti compagni nel momento in cui pone in essere comportamenti che si discostano dal codice. (Clemmer, op. cit., 108; traduzione mia)

L’idea relativa all’esistenza di una sottocultura del detenuto è stata in seguito messa in discussione da alcune ricerche che abbandonando l’ipotesi consensualista sottolineano la molteplicità, non di rado conflittuale, delle forme di aggregazione intramuraria. Irwin e Cressey (1962) esprimono al proposito dei dubbi relativamente alla genesi «endogena» del codice del detenuto, supportando al contrario il configurarsi di un «modello dell’importazione» secondo il quale le gerarchie e le aggregazioni gruppali all’interno rispecchierebbero quelle già presenti nei mondi criminali e nelle rispettive sottoculture all’esterno. La distinzione interna alla popolazione detenuta non viene a prodursi solamente a partire dalle valutazioni degli operatori penitenziari, ma viene a ricrearsi e rafforzarsi all’interno della popolazione detenuta stessa, in riferimento a dei meccanismi di identificazione che investono al contempo le identità riconosciute a ciascun recluso e le pratiche che questi mette in atto in rapporto alle aspettative normative previste dal convict code. In questo senso, la dinamica del conflitto infra-gruppale emerge così come una costante nella vita detentiva, dove il working class men non fraternizza in alcun modo con quelli che vengono identificati come dope fiend o disorganized criminals: «Nella vita fuori [il primo] ha incontrato ed evitato queste persone per molti anni, e solitamente continua a evitarle quando è dentro» (Irwin, 1970: 75). Tale meccanismo di differenziazione tra il detenuto riconducibile alle “classi operose” e quello appartenente all’underclass pericolosa emerge in maniera significativa dalla nota che segue: Sto aspettando Sandro [psicologo] quando arriva un detenuto che, portando con sé una scopa e una paletta, si affaccia nell’ufficio a fianco a quello dello psicologo: l’ufficio preposti. Lo “scopino” (per riprendere l’infantilizzan174

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te gergo penitenziario comunemente usato per indicare il detenuto che si occupa della pulizia delle aree comuni) si ferma all’ingresso della stanza e, rivolgendosi a un assistente, gli dice che non può continuare a fare pulizia a locali che versano in quelle condizioni: «C’è la merda, ma per davvero, le faccio vedere, c’è la merda». Chiede poi all’agente di essere spostato di sezione: «Io non posso stare più lì alla prima, c’ho quattro anni da fare, mica posso restare lì». La sezione in questione pare essere quella in cui vi è una maggior concentrazione di soggetti in situazione di forte marginalità: il detenuto, infatti, si lamenta perché «quando passa il vitto ci tocca spingerci e lottare per riuscire a prenderci un pezzo di carne, ma dove siamo?». L’agente si mostra comprensivo e riconduce il problema, in primis, all’apertura delle celle: «Guarda che quando le celle erano chiuse non succedeva mica così, si andava meglio, e non lo dico per me, sono i detenuti a dire che era meglio». L’altro sembra concordare e risponde con un «eh sì, ha ragione assistente, era meglio quando era peggio». L’assistente però continua, riportando in maniera spregiativa quella che secondo lui è un’altra causa di questo disordine: «E c’è anche poi il fatto che lì ci son proprio tutti quelli che non hanno nessun obiettivo, che se li fai uscire un giorno prima o un giorno dopo a loro non gli cambia niente… non hanno dei progetti, mica vogliono farsi una famiglia quelli, pensano solo a spacciare e a farsi… ma non è neanche che spacciano per costruirsi qualcosa, gli interessa solo prendere quei cento euro per pagare l’affitto di un appartamento condiviso, quei cento euro per mangiare e quei cinquanta per farsi, e basta… e quelli son così perché non gli cambia niente uscire un giorno prima o un giorno dopo, tanto poi escono e non hanno niente, puntano solo a tornare a drogarsi». Il lavorante si dice d’accordo, riconoscendosi ovviamente dalla parte opposta, quella dei “buoni” che si vogliono redimere. Dice che farà una domandina per il cambio di sezione, e dopo aver salutato e ringraziato se ne va. (Diario Etnografico, Casa Circondariale di Maurilia, 2019)

La differenza tra «detenuto buono» e «detenuto cattivo», che emerge dalla nota come fattore di distinzione condiviso tra il personale penitenziario e una parte della popolazione reclusa, ha a che fare in primo luogo con le variabili di status che interessano quest’ultima. La situazione di estrema marginalità nella quale versano alcuni detenuti determina l’assenza (perlomeno apparente) di un quadro di “progettualità” orientato al futuro post-carcerazione, determinando un disinteresse verso le dinamiche che permeano la vita intramuraria e favorendo una scelta di alienazione nei confronti di tutto ciò che succede in carcere. Per quanto gli elemen175

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ti di razzializzazione e patologizzazione non emergano qui in maniera esplicita, l’attraversamento degli spazi penitenziari consente di notare con immediatezza come tale differenziazione si rifletta direttamente nella spazialità del carcere, ove le cosiddette sezioni “ghetto” (quale quella a cui si fa evidentemente riferimento nella nota) si articolano seguendo una linea del colore ben visibile, la quale si interseca a sua volta con dei criteri di discernimento che vedono nello stato di salute psico-fisica un elemento centrale nella suddivisione della popolazione reclusa: l’intreccio che ne deriva si traduce immediatamente in una strategia di segmentazione degli spazi penitenziari, dove alcune sezioni vengono a essere dedicate in maniera quasi esclusiva (e del tutto informale) a tali soggettività inquadrate come “problematiche”. Ai noti meccanismi di affiliazione di «classe» – o, parallelamente, per «sottocultura criminale» preesistente – si affiancano quindi dei sistemi di formazione gruppale che vanno a coinvolgere altri tratti “identitari”, quali la provenienza nazionale, l’orientamento sessuale, la salute psico-fisica. La collocazione all’interno delle gerarchie penitenziarie, pur presentando alcune specificità propriamente localistiche, finisce così per strutturarsi e riconfigurarsi lungo gli assi del potere più tradizionali, riproducendo anche su questo versante divisioni e conflitti «importati» dall’esterno. In questo modo, come riportato da Sbraccia e Vianello, «la linea del colore frammenta il quadro delle prescrizioni solidaristiche tipiche del convict code (omertà, supporto materiale al detenuto indigente), introduce una chiave distintiva ambivalente nelle dinamiche di gestione delle prigioni disarticolando il corpo dei detenuti come potenziale fronte compatto del conflitto e, introducendo al contempo elementi conflittuali non semplici da amministrare (Sbraccia 2004, 2011), fa la differenza – in termini di competenze linguistiche, capacità di accedere alle risorse interne (istruzione, lavoro, attività culturali), legami esterni di riferimento – nella quotidianità penitenziaria e nel delicato passaggio dal carcere alla libertà» (Sbraccia e Vianello 2016: p. 187; si veda anche Santorso 2016). Se la «linea del colore» appare come il criterio di demarcazione più evidente nella frammentazione dei gruppi e degli spazi del penitenziario, è evidente come essa non rappresenti l’unico fattore di divisione: classe, identità di genere, orientamento sessuale, stato di salute e “abilità” sono altrettanti assi attorno ai quali si articolano le dinamiche di aggregazione e, di converso, quelle di esclusione all’interno del carcere, portando alla creazione di sacche di marginalità nella già marginalizzata popolazione reclusa (Sbraccia 2017; cfr. Vianello et al. 2018). 176

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2. «Nulla da perdere». I “nuovi barbari” e il fallimento dei dispositivi governamentali della prigione I fattori di differenziazione fin qui delineati, per quanto pregnanti nel tracciare i contorni dei processi di frammentazione della “comunità detenuta”, non sono da considerarsi in alcun modo esaurienti. Lungi dall’articolarsi in maniera autonoma, infatti, questi elementi “identitari” vengono a integrarsi con una dimensione più prettamente performativa delle culture carcerarie, entrando in dialogo con le considerazioni circa la maggiore o minore “adeguatezza” del detenuto al contesto penitenziario. Come evidenziato nella nota precedentemente riportata, ad assumere una posizione di centralità in questo quadro vi è certamente il detenuto «che non ha nulla da perdere», il quale, orientando le proprie strategie di adattamento all’istituzione in un’ottica no future, desta sospetti e preoccupazioni tra il personale e la popolazione reclusa, ponendo entrambi i gruppi di fronte alla fallibilità dei dispositivi normativi formali e informali che regolano la quotidianità tra le mura. In particolare, la mancanza di “progetti” per il futuro e l’estraneazione da qualsivoglia attività proposta dall’équipe penitenziaria sembra mettere in crisi i tradizionali dispositivi di governo della popolazione reclusa: La direttrice fa poi un commento sulla popolazione detenuta, riflettendo sulla questione del disturbo psichiatrico: «Questa è una considerazione personale/professionale… ci arrivano sempre più soggetti che non hanno nulla da perdere, che sono in situazioni di forte marginalità… e queste sono persone che hanno dei problemi, se non psichiatrici, perlomeno dei disturbi comportamentali». Continua: «Perché se hai la prospettiva di accedere a una misura alternativa o a benefici di questo tipo magari ti comporti in un certo modo…se invece non hai niente da perdere è chiaro che…». (Diario Etnografico, Casa Circondariale di Maurilia, 2018)

Lo stralcio riportato mostra in maniera evidente come la non-adeguatezza di una parte sempre più consistente della popolazione detenuta si venga a determinare non solo a partire dalle variabili di status riconosciute a ciascun recluso, ma anche come diretta conseguenza del parziale fallimento di alcuni meccanismi governamentali che regolano la quotidianità detentiva e le “carriere” carcerarie ormai da diversi anni. Con la ristrutturazione del regime disciplinare in chiave «premiale» che ha seguito la cosiddetta «svolta trattamentale» del 1975 (De Vito 2009; Mosconi e Pavarini 1993), i meccanismi di sorveglianza si sono direzionati 177

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in misura sempre più consistente verso una promozione delle dimensioni di auto-governo del sé da parte della popolazione detenuta, la quale è incentivata ad agire in conformità ai codici normativi istituzionali (più o meno formalizzati) al fine di ottenere – o di evitare di vedersi preclusi – i benefici di legge previsti. In questo senso, chi riesce a mantenere un comportamento adeguato agli assetti regolativi propri dell’istituzione potrà vedersi accordati alcuni “privilegi” sul piano formale e informale: tra i primi rientrano le possibilità di ottenere un fine pena anticipato o un accesso a misure alternative alla detenzione, mentre tra i secondi vi sono le opportunità di essere allocati in sezioni del carcere complessivamente più vivibili, di accedere al lavoro o ad altre attività o, in breve, a tutte quelle dimensioni che consentono di rendere la quotidianità detentiva più sopportabile. A fare da contraltare a queste possibilità vi è tuttavia un altrettanto ampio quadro di sanzioni che si articola in maniera speculare: il detenuto che non mostra una condotta adeguata rischierà di vedersi escluso dalla possibilità di accedere ai benefici di legge, scontando la sua pena in sezioni “ghetto” fortemente connotate in senso punitivo o disciplinare e vedendo talvolta ridimensionata la stessa esigibilità di alcuni diritti che gli sarebbero formalmente riconosciuti, i quali a loro volta vengono a trasformarsi in «benefici» (cfr. Salle e Chantraine 2009; Sarzotti 2010; Vianello 2018). Le situazioni di forte marginalità che segnano le biografie di una consistente fetta della popolazione reclusa sembrano tuttavia determinare una loro esclusione “a priori” rispetto alla possibilità di accedere ad alcuni diritti, la quale è subordinata al possesso di alcune caratteristiche socio-anagrafiche, economiche e relazionali. In questo senso, né la promessa di un “premio” che appare essere irraggiungibile già in partenza, né la minaccia di una punizione percepita come presenza già costante nell’esperienza detentiva sembrano sortire effetti disciplinanti nei confronti di queste soggettività «che non hanno nulla da perdere». Il diffuso richiamo al sistema normativo informale del convict code da parte di detenuti e operatori viene quindi a configurarsi come meccanismo regolatore centrale della vita sociale intramuraria, garantendo il formarsi di sottoculture detenute che se da un lato offrono delle risorse di protezione nei confronti della sofferenza connaturata alla vita penitenziaria (favorendo la creazione di rapporti solidaristici e di mutuo supporto), dall’altro risultano essere altresì funzionali al controllo istituzionale e al mantenimento dell’ordine interno al carcere in chiave auto-regolativa (Sykes 1971). Il codice del detenuto si configura infatti come istanza ordinatrice efficace nell’assicurare il rispetto della massima – assolutamente condivisa da tutti gli attori che vivono il carcere, 178

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siano questi i detenuti, il personale di sorveglianza e quello sanitario, i volontari, fino ad arrivare alla direzione – secondo la quale «una buona giornata è una giornata nella quale non succede niente» (Torrente 2018). L’ambivalenza tra funzioni di supporto e di controllo connaturata a questo codice di condotta informale si svela soprattutto nel momento in cui è l’amministrazione stessa – o altri operatori che ne condividono parzialmente gli obiettivi di ordine e sicurezza – a richiamarne gli elementi prescrittivi: Sono in uno degli uffici con Gabriele e Sandro, i due psicologi che lavorano in carcere da diversi anni. Mentre parliamo di alcune questioni legate alla formulazione delle diagnosi di tossicodipendenza, Gabriele mi riporta del tentativo “strumentale” da parte di molti detenuti di dichiararsi tossicodipendenti per poter avere accesso a benefici: egli, guardando Sandro, nota infatti come la situazione si sia poi ulteriormente complicata con la questione della dipendenza da gioco d’azzardo, la quale è «difficilmente sondabile tramite dei test». Tuttavia, mi dice con una certa fierezza, Sandro ha sviluppato una strategia efficace per “beccarli”: essendo infatti che uno dei sintomi della ludopatia è il rubare agli altri per procurarsi i soldi per il gioco, Sandro chiede a chi si dichiara ludopatico: «Ma allora anche qui in carcere ruba agli altri?». In questo modo sa bene che tutti gli dicono di no, perché «così fai leva sul codice dei detenuti, per cui rubare agli altri è un gesto estremamente deprecabile». (Diario Etnografico, Casa Circondariale di Maurilia, 2019)

Nel caso riportato in nota, il richiamo al codice del detenuto per “smascherare” il paziente simulatore diventa una strategia di controllo rilevante per impedire a questi di «lavorarsi il sistema», interloquendo direttamente con il sistema di benefici (offerti dal quadro normativo e implementabili nel rapporto tra amministrazione penitenziaria e servizi) e sanzioni (messe in atto, in questo caso, sul livello orizzontale interno alla popolazione detenuta stessa). Nel caso riportato si nota come, a fronte della possibilità di avere (forse) accesso a determinati benefici di legge previsti per chi ha assegnata una diagnosi di tossicodipendenza, alcuni detenuti rifiutino di spingersi tanto in là da ammettere una violazione particolarmente riprovevole al sistema valoriale che si vorrebbe proprio della comunità reclusa, timorosi forse di essere poi etichettati come “topi” e rischiando di trovarsi esposti ai meccanismi autoregolativi del gruppo di riferimento. Poco importa in questo caso che il paziente possa essere davvero “dipendente”: il sospetto della simulazione è talmente trasversale e pregnante da indurre anche gli operatori sanitari a sventare la possibile mascherata, costi quel che costi. 179

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La presunta efficacia di tale strategia non può comunque essere data per scontata a priori, poiché – per quanto gli operatori sembrino essere caduti nel tranello funzionalista che vorrebbe l’esistenza di una cultura condivisa tra tutti i detenuti – quello dei reclusi non è affatto un gruppo omogeneo e uniforme. La posizione sociale ricoperta dal detenuto all’interno della comunità reclusa dipende come si è visto in precedenza da fattori che sono al contempo acquisiti e performativi, legati sia alle variabili “identitarie” riconosciute a ciascun recluso, sia al grado di adesione di questo a quelli che sono ritenuti essere i criteri di rispettabilità e prestigio sociale all’interno della subcultura carceraria. In questo senso, il fronte che si presupporrebbe compatto della popolazione detenuta si trova radicalmente scomposto dalle direttrici di potere che lo attraversano, le quali investono i corpi incarcerati portando ad una frammentazione della “comunità detenuta” che si riflette a sua volta nella scomposizione spaziale dello spazio penitenziario: le sezioni informali per “magrebini”, “africani”, “tossici” e “psichiatrici” testimoniano di un insieme sociale che – se mai è esistito – è da considerarsi definitivamente frantumato nell’azione congiunta dei molteplici dispositivi normativi. A esacerbare la catastrofe, la mutazione “antropologica” che sembra aver interessato la popolazione detenuta negli ultimi vent’anni sembra aver compromesso non solo le forme regolative incentrate sul dispositivo della premialità – il quale si trova a essere fortemente depotenziato a fronte delle esperienze biografiche di estrema marginalità di molti reclusi – ma anche la cogenza del carattere prescrittivo del convict code. Se è vero, infatti, che questo si è mostrato nel tempo funzionale alla massimizzazione di alcune strategie di controllo implementate in chiave strumentale dall’amministrazione penitenziaria, il discorso relativo all’aumento dei detenuti “problematici” sembra mostrare come gli operatori stessi si stiano rendendo conto della sua crescente dissoluzione: Sandro mi racconta di un detenuto che, insofferente alla vita quotidiana del braccio in cui si trovava, ha chiesto di essere trasferito nella sezione Taurus, dove il regime ordinario prevede le celle chiuse. A partire da questo episodio, mi propone alcune riflessioni sulla diffusione del regime ordinario a celle aperte: «È vero che ora si possono muovere di più, ma i detenuti oggi temono i furti – elemento che fino a dieci anni fa era considerato come un’enorme infamia, se facevi un furto in carcere eri fottuto – per cui a uno dei due tocca sempre stare in cella per tenere d’occhio la propria roba». (Diario Etnografico, Casa Circondariale di Maurilia, 2019) 180

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A essere rimpianto dallo psicologo non è soltanto un periodo storico recente in cui la gestione quotidiana della popolazione reclusa era facilitata da un generale regime detentivo a celle chiuse, ma anche – e soprattutto – un’“età dell’oro” in cui il codice del detenuto si mostrava abbastanza pregnante e condiviso da impedire il verificarsi di incidenti che potrebbero portare a conflitti e disordini tra la popolazione reclusa, garantendo un andamento “liscio” della giornata in carcere. Ora invece, sembra dire tra le righe, il vecchio codice d’onore non esiste più, ci sono detenuti disposti a fare i “topi” e a commettere furti nei confronti degli altri fregandosene di quello che era fino a qualche anno fa un sistema di valori condiviso, in uno schema che vede proprio nel richiamo all’“età dell’oro” un elemento centrale nella creazione del moral panic nei confronti del nuovo diavolo penitenziario, oggi «più cattivo di ieri e meno di domani» (Marchi 2014). Questo “allarme” nei confronti di queste nuove soggettività che «non hanno niente da perdere» si produce quindi in un movimento bidirezionale che interessa tanto l’area dell’amministrazione e degli operatori sanitari quanto quella della popolazione detenuta, destando preoccupazione in entrambi i gruppi non solo per la minaccia all’ordine che le pratiche da queste messe in atto comportano, ma anche per il rischio di contaminazione che i “detenuti cattivi” pongono nei confronti dei “detenuti buoni”. Sono in ufficio con Sandro quando un detenuto – un italiano sui 50 anni – si affaccia alla porta e si lamenta del fatto di essere in attesa di un colloquio ormai da diverso tempo. Sandro gli dice che non ha alcuna prenotazione segnata a nome suo, ma lo invita comunque ad accomodarsi: l’uomo pare essere piuttosto scocciato e mostra il suo disappunto in maniera esplicita. Esordisce dicendo: «Io non ce la faccio più, so’ stanco, qua non ce sta più niente da fare...sono un relitto. Dopo la scuola torniamo su e siamo degli zombie che camminano per il corridoio…». Comincia poi a esporre quello che è il suo problema principale, che ha a che fare con il rifiuto da parte del SerD di una sua richiesta di ottenere l’affidamento in prova a causa di un precedente abbandono del percorso terapeutico. Ora è molto scocciato, perché dice che – nonostante abbia fatto due anni di percorso senza mai lamentarsi – si ritrova a rischiare di perdere tutto quello che aveva precedentemente conquistato: la situazione in sezione, dice, «è molto degradante, c’è quello che se taglia, che s’imbriaca, quello che se prende le pastiglie… io non so’ così, ho fatto un percorso e ora rischio di perdere tutto». (Diario Etnografico, Casa Circondariale di Maurilia, 2019) 181

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Le preoccupazioni espresse dal detenuto citato in nota si situano in diretta continuità con la minaccia del “contagio” posta in essere da quella che Marchi individuava come la sindrome di Andy Capp: l’immoralità e la problematicità delle pratiche sottoculturali poste in essere dalla Teppa risultano infatti allarmanti non tanto (o non solo) per il loro gradiente di minaccia che presentano all’ordine costituito, quanto piuttosto per il rischio di contaminazione che esse pongono nei confronti della cultura dominante propria della “gente perbene”, la quale rischia di vedersi coinvolta in questi stessi modi di vivere “incivili” finendo a sua volta per riprodurli e renderli diffusi. In continuità con tali considerazioni, se l’allarme relativo all’aumento dei detenuti “problematici” si produce in virtù delle criticità che pone di fronte all’amministrazione nella gestione di queste soggettività irredimibili, esso è rafforzato proprio dalla preoccupazione circa la possibile estendibilità di tale fenomeno, il quale potrebbe finire per coinvolgere anche quei “buoni detenuti” che si dimostrano ancora bendisposti – o perlomeno adeguati – nei confronti degli assetti normativi consolidati.

3. Conclusioni La “società dei detenuti” appare essere percorsa da forti vettori di instabilità, i quali si riproducono sia nelle mutevoli e scomposte forme di aggregazione gruppale poste in essere dalla comunità reclusa, sia nelle strategie governamentali implementate dall’amministrazione. Il credo condiviso nei confronti dell’efficacia del convict code come meccanismo autoregolatore in grado di rafforzare le strategie di mantenimento dell’ordine interno si viene così a scontrare con la complessa molteplicità che caratterizza il mondo penitenziario. Come sostiene Mathiesen (1965), la società detenuta si rivela essere una “società frammentata”, all’interno della quale la distinzione tra il “buon detenuto” e il “detenuto senza speranza” è continuamente prodotta e riprodotta nell’intrecciarsi dei processi normativi formali e informali propri dell’istituzione. La figura del detenuto “problematico” o “psichiatrico” assume in questo senso la valenza del vero e proprio folk devil all’interno di un sistema istituzionale che si trova faccia a faccia con la fallibilità dei meccanismi regolativi che ne hanno segnato il funzionamento nel corso degli anni. A fronte di una innegabile trasformazione nella composizione della popolazione detenuta verificatasi negli ultimi trent’anni – con un aumento significativo della componente straniera a fronte di un gruppo di reclusi che era perlopiù 182

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autoctono – le dinamiche evidenziate sono da ritenersi ormai ben consolidate nel sistema penitenziario. L’elemento di “novità” che è parte costitutiva di questa retorica allarmistica, quindi, non risponde tanto a un criterio di effettiva trasformazione delle soggettività e delle dinamiche che le coinvolgono, quanto piuttosto a uno stilema classico della produzione del panico morale: come ben evidenziato da Marchi, «l’eterno richiamarsi a una pre-esistente – e inesistente – “età dell’oro” rappresenta uno degli elementi ricorrenti delle giaculatorie Law & Order con cui di norma si affrontano le manifestazioni di turbolenza giovanile: ogni generazione di teppisti è, secondo questa visuale, peggiore di quella che la precede, e ogni “manifestazione teppistica” è tanto più agghiacciante quando è o appare “nuova”» (Marchi, 2014: 18). Nello specifico del caso in questione, l’individuazione del “nuovo” folk devil è immediata: laddove la posizione di estrema marginalità socio-relazionale agisce in chiave ostativa rispetto a un possibile ottenimento di qualsivoglia beneficio, queste «nuove» figure che «non hanno nulla da perdere» scardinano quel meccanismo di razionalità che si suppone essere alla base del sistema premio-sanzione, ponendo in essere strategie di adattamento alla vita istituzionale che creano tensione nell’andamento della quotidianità detentiva. In riferimento a tali detenuti, le classiche tipologie di adattamento alla situazione elaborate da Goffman risultano insufficienti a spiegare il rapporto che si viene a delineare tra questi e l’istituzione: se siamo sicuramente lontani da dinamiche di «conversione» o di «colonizzazione», anche la cosiddetta «linea intransigente» appare inadeguata a descrivere un conflitto che assume tratti spontaneistici e fortemente disorganizzati. Allo stesso modo, per quanto l’istanza di «ritiro dalla situazione» sia fortemente presente e delucidata dall’assunzione quanto più possibile consistente di psicofarmaci per passare il tempo «annullandosi» (Sterchele 2021), l’attuazione di questa stessa strategia di «ritiro» passa attraverso una continua conflittualità con operatori e compagni di detenzione per ottenere quelle sostanze che consentirebbero la «fuga», per quanto circostanziata, dalla violenta monotonia della giornata in carcere. Come accade ne Il signore delle mosche, al gruppo del fuoco, motivato prioritariamente dalla speranza della salvezza e proiettato verso l’esterno, si contrappone il gruppo della caccia, che, preso atto della nuova situazione, elabora nuovi codici e strategie di sopravvivenza per far fronte alla situazione che si trova a vivere, in un progressivo distacco dal futuro oltre l’isola (o, in questo caso, oltre il carcere). Il nichilismo no future viene qui a configurarsi nella pervasività di micro-conflitti quotidiani, i quali vengono spesso sotto183

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posti a istanze di patologizzazione che rendano possibile un inquadramento di questa supposta “irrazionalità” all’interno di quadri che ne forniscano una stigmatizzante intelligibilità: il detenuto “psichiatrico” si situa proprio al centro di un doppio movimento nel quale i saperi medici si incrociano con gli orizzonti simbolici propri del penitenziario, arrivando a delineare in chiave clinico-disciplinare delle soggettività refrattarie a inserirsi negli schemi di condotta che si vorrebbero propri del “buon detenuto”, assumendo così i tratti di una “teppa teppa” irriducibile e irredimibile all’interno del già criminalizzato quadro della popolazione penitenziaria. In riferimento a tali soggettività, si potrebbe notare, usando le parole dello stesso Marchi, che «si è bravi se si muore per gli interessi di chi decide lo stato di guerra; si è bravi se si accettano senza fiatare e con gratitudine le paghe da fame destinate alle donne, ai giovani e ai bambini; si è bravi se si è muta carne da macello o stolide braccia da aratro, da telaio, da opificio; si è bravi se si accettano i diktat della produttività in fabbrica, se si è buoni soldati in caserma, buoni alunni a scuola»…e, potremmo aggiungere, “buoni detenuti” in carcere (p. 24).

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dal campo alla casa tra identità e mobilità dei romà di cagliari di Norma Baldino

1. Introduzione L’Italia è il Paese europeo con il più alto livello di antiziganismo (Pew Research Center 2014; Meneghini e Fattori 2016). Istituzioni e immaginario collettivo ritraggono i rom come persone marginali e pericolose, che hanno bisogno di essere assistite o controllate, rieducate e confinate perché considerate una minaccia alla sicurezza pubblica. In particolare, dal 2008, quando in Italia e in Europa ha iniziato a emergere “il problema zingari”, l’interesse degli studiosi si è concentrato nella forte discriminazione nei confronti dei gruppi rom e nel panico morale in termini di presunta minaccia all’ordine pubblico, alla salute pubblica, ai sistemi di sicurezza sociale e alla sicurezza nazionale (Aradau 2015, Parker 2012, Van Baar 2011). Gli effetti di disumanizzazione e discriminazione dei processi di etichettamento dei rom sono spesso stati oggetto di numerosi studi (Nicolae 2006, Pontrandolfo e Solimene 2018; Grill 2017; McGarry 2017). Recentemente si è sviluppato un dibattito sulla costruzione della categorizzazione zingari - nomadi - rom che si pone come prospettiva particolarmente stimolante nell’affrontare il potere di etichettare l’Altro (Pontrandolfo 2018). In quanto nomadi, vengono identificati come coloro senza luogo, incivili, esotici e continuamente mobili; sono considerati una presenza illecita e una minaccia al mantenimento dei confini nazionali (Williams 2011). Come rom o zingari, invece, arretrati, inferiori, pericolosi, criminali e, quindi, associati a una deviazione naturale da ciò che è normale, regolare, naturale (Van Baar 2015b). La discriminazione contraddistingue molti aspetti della loro vita: l’accesso all’alloggio, le inadeguate condizioni abitative, la segregazione e gli sgomberi forzati (si veda FRA 2009). Relegati ai margini dello stato di diritto (Agamben 2005), i rom vengono anche ciclicamente trasformati in non persone in termini sociali (Dal Lago 2004). 187

le strade della teppa

Etichette e politiche repressive si focalizzano sul contenimento dei rom attraverso soluzioni abitative che fanno riferimento alla biopolitica dell’alterità (Fassin 2001). Per il discorso politico e il senso comune, in Italia i rom sono coloro che vivono nei campi nomadi. Questa convinzione esercita una forte influenza sulle politiche abitative rivolte a questa popolazione. Basandosi su ampie generalizzazioni connesse alla presunta propensione delle comunità rom alla criminalità, alla devianza, al nomadismo, i discorsi pubblici hanno creato e veicolato l’immagine della minoranza rom come un gruppo che si vuole auto-emarginare (Sigona 2005, 2011, 2015) e che quindi vuole vivere nei campi nomadi (Hepworth 2014). Per l’adozione di strategie abitative segregatorie e la creazione dei “campi nomadi”, l’Italia si è distinta infatti a livello internazionale come campland in uno storico rapporto della Commissione Europea che denunciava queste politiche come una violazione dei diritti umani (errc 2000). È stato spesso menzionato come i “campi nomadi” italiani rappresentano spazi di imposizione sociale (Saletti Salza 2003). In particolare, Sigona ha sottolineato l’ambiguità insita nella politica per la risoluzione del “problema zingaro” così come quella radicata nelle leggi regionali per la «salvaguardia della cultura zingara / rom / nomade», e la centralità del ruolo dell’identità (Sigona 2011). Sigona invita a de-eccezionalizzare il campo secondo la concezione di Agamben e le esperienze dei suoi residenti e propone il concetto di campzenship per catturare la forma specifica e situata di appartenenza politica prodotta nel e dal campo (Sigona 2014). Ne consegue una forma di «cittadinanza senza alloggio» (Pontrandolfo 2018) definita da Appadurai «cittadinanza nuda» data da condizioni di vita instabili come frequenti sgomberi che ostacolano o impediscono, sia formalmente che sostanzialmente, l’accesso ai diritti dei cittadini (Appadurai 2013). In questo scenario è interessante osservare come la reazione ai processi di esclusione e l’adeguato riconoscimento della propria differenza diventi un requisito fondamentale per il pieno sviluppo di se stessi (Colombo 2007). A tal proposito, stigmatizzazione e razzializzazione risultano fortemente connessi con la costante mobilitazione e proliferazione di diversi gruppi rom che lottano per il riconoscimento delle loro variegate identità (Taylor 1994; Solimene 2013). Le loro migrazioni ‒ generalmente dovute a ragioni economiche e politiche ‒ sottolineano la flessibilità della propria identità. Nel corso del tempo, mentre pratiche di deportazione hanno causato mobilità forzata dei rom e circolazione a livello europeo a causa delle discriminazioni subite, le pratiche di ghettizzazione si associano a continui sgomberi e segregazioni che hanno portato a situazioni che più si avvicinano, al contrario, 188

dal campo alla casatra identità e mobilità dei romà di cagliari

alla limitata produzione di località (Appadurai 1996). Avvicinarsi al campo e ai suoi abitanti attraverso l’adozione di uno sguardo etnografico permette di cogliere i significati di uno spazio emblematico per la costruzione della propria identità, dove i diritti, valori e norme vengono rimodellati, piegati, adattati da e attraverso le interazioni quotidiane. Lo scopo di questo articolo è pertanto analizzare attraverso uno sguardo etnografico, la connessione tra l’antiziganismo locale e le pratiche di rappresentazione e riconoscimento di una famiglia Xoraxané Romá1 a Cagliari. Esamina come gli spazi abitativi attribuiti dai non rom, sulla base di politiche di inclusione abitativa, rappresentino per i Romá2 sia l’adattamento che la definizione della loro identità. Le prime pagine ricostruiscono la storia della comunità Xoraxanè Romá a Cagliari; successivamente, il focus è su tre temi chiave: il legame tra i processi di riconoscimento nello spazio del campo nomadi prima, e in una casa dopo lo sgombero del campo poi e, infine, la visibilità/invisibilità della loro mobilità a seguito delle politiche di inclusione locale.

2. I Xoraxané Romá a Cagliari In Sardegna vivono differenti gruppi rom: da fonti non ufficiali e dalla ricostruzione delle famiglie con cui sono venuta in contatto, si calcolano circa mille persone sparse tra Cagliari, Carbonia, Selargius, Quartu, Oristano, Olbia, Sassari e Porto Torres. Questo contributo attinge ai materiali raccolti durante il mio lavoro sul campo etnografico con una famiglia allargata di Romá bosniaci tra gennaio 2010 e novembre 2015 a Cagliari per il mio dottorato in Sociologia.3 L’esperienza etnografica è stata costruita giorno dopo giorno, secondo le inaspettate scoperte della serendipity (Merton 1949) che hanno segnato e orientato il lavoro sul campo. Costruire la fiducia con i Romá mi ha guidato costantemente nel mio lungo viaggio etnografico e permesso di affrontare alcuni ostacoli. Dalle mie prime osservazioni, ho capito che le differenze di genere e la mia giovinezza non avrebbero agevolato i miei movimenti e le 1  Questo articolo riguarda esclusivamente i Xoraxané Romá bosniaci che ho frequentato a Cagliari nel rispetto della complessità culturale degli universi rom ampiamente definiti dalla letteratura (Piasere 1999). 2  A partire da questo momento nel testo si utilizzerà il termine Romà in riferimento al gruppo dei Romà Xoraxanè, e rom per intendere i gruppi rom in generale. 3  La ricerca era finalizzata al conseguimento del dottorato di ricerca in Sociologia presso l’Università Complutense di Madrid dal 2012 al 2017.

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interazioni con il gruppo. Le difficoltà però sono state fondamentali e hanno accompagnato le mie scelte. Le prime interazioni sono avvenute con i bambini che mi hanno accettato tra loro come figura di supporto per studiare e fare i compiti. Questo ha consentito che la mia presenza fosse riconosciuta quotidianamente nel campo da tutte le famiglie, permettendomi di conoscere prima i giovani e poi le donne. Con le donne è nato un rapporto interessante e stimolante: mi scrutavano costantemente, ma, allo stesso tempo, mi offrivano ciò che loro definivano i “veri” consigli di vita. Mi hanno insegnato a cucinare, a fare il caffè secondo le loro tradizioni e a scegliere attentamente un futuro marito. Solo dopo alcuni mesi dal mio primo ingresso al campo, iniziai a essere accettata anche dagli uomini e non essere più percepita come un’intrusione o un pericolo. L’interazione con gli adulti è stata una sorta di ponte con la società gagè.4 Leggevo la posta consegnata al campo, le sentenze dei tribunali, o gli articoli di giornale che riguardavano il futuro del campo nomadi. Il tempo è stato fondamentale per sviluppare un rapporto privilegiato basato sulla fiducia con Diamante, il mio interlocutore chiave. Quando l’ho incontrato per la prima volta aveva 17 anni e viveva da solo in una roulotte situata accanto a suo padre. Non era sposato; ha abbandonato la scuola presto prima di conseguire la licenza media. La sua curiosità e la mia perseveranza hanno permesso di costruire un rapporto secondo il quale, per la prima volta nel mio lavoro sul campo, io (una non rom) ero l’insegnante e lui (un rom) l’allievo. Ogni giorno ci ritagliavamo spazi per studiare dai miei vecchi testi scolastici che gli avevo regalato. Ha conseguito la licenza media e questo obiettivo è stato una sorta di scambio culturale che ha dato al nostro rapporto una tale fiducia che mi ha portato a stabilire un legame con lui e poi, dopo 3 anni, con sua moglie. Ho trascorso questo periodo immersa nella quotidianità rom. Ho vissuto la routine quotidiana prima in un campo nomadi e successivamente negli spazi abitativi assegnati ai rom dopo lo sgombero del campo: questo mi ha dato la possibilità di osservare i cambiamenti nella gestione degli spazi domestici. Ho avuto modo, inoltre, di osservare le interazioni dei rom negli spazi pubblici, i loro spostamenti e la mobilità nell’area metropolitana. L’intensità dell’immersione etnografica, mi ha permesso di accedere fino alle loro pratiche di Mangel (elemosina) nel Mercato Municipale di Cagliari e di essere accolta in spazi di intimità per comprendere aspetti della vita rom solitamente stigmatizzati e inesplorati. Il mio primo ingresso nel campo nomadi, risale al gennaio del 2010. Conoscevo il mondo romanì soltanto per ciò che avevo letto sull’urbanistica del disprezzo (Brunello 1996). Sapevo che i primi cosiddetti gruppi zingari 4  I gagè sono i non rom.

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erano arrivati a Cagliari alla fine degli anni Settanta dalla Bosnia, dal Montenegro e dalla Krajina, e che si erano stabiliti in diversi insediamenti abusivi all’ingresso della città, più precisamente a Cornalias, San Simeone, Simeto, e per le strade di San Paolo poiché l’amministrazione locale e le forze dell’ordine non riconobbero il loro diritto all’alloggio. I primi campi spontanei erano qualcosa di diverso da quelli attuali: i rom che vi abitavano erano per lo più stranieri o apolidi, generalmente impegnati in attività itineranti, sia annuali che stagionali. Il gruppo più numeroso e visibile era accampato nella zona di San Paolo divenne presto un problema di decoro urbano a causa della sua vicinanza all’aeroporto e della visibilità all’ingresso della città. Nel 1995 l’Amministrazione Regionale ha ideato e realizzato il campo regolamentato chiamato 554, dal nome della strada statale che circoscrive l’area metropolitana. Il campo si basava sulla Legge Regionale n. 9 del 1988, nota come Legge Tiziana (dal nome di una bambina morta di broncopolmonite in uno dei primi campi in via San Paolo). Conforme a quanto stava accadendo contemporaneamente nelle altre regioni italiane, la legge si basava sul riconoscimento del nomadismo come elemento specifico della cultura rom. Cioè, la costruzione del campo nomadi a Cagliari trovava giustificazione nella tutela del diritto al girovagare come tratto caratterizzante tutti i gruppi rom presenti nell’area urbana, e allo stesso tempo consentiva di controllarli e concentrare la loro presenza in un unico spazio. La legge regionale, pensata per tutelare i gruppi itineranti, ha finito però per implicare tutte le comunità zingare in un’unica identità nomade. Tale riferimento normativo, oltre ad aver formalizzato spazi di esclusione spesso paragonati a ghetti (Wacquant 2004, Agier 2012) ha acceso, sul piano delle interazioni tra la società cagliaritana e il gruppo rom, diverse tensioni, lasciando spazi a una molteplicità di contestazioni locali. Costruire la differenza, e proporre allo stesso tempo un’adeguata soluzione, è diventa così una preoccupazione costante per la politica locale. Dopo l’inaugurazione del campo, nel giro di pochi mesi, gli 800 rom residenti al suo interno si ridussero a meno della metà. Le condizioni di vita e di igiene nel campo formalizzato non migliorarono certamente rispetto ai primi spazi informali che le politiche locali volevano contrastare. Il campo 554 era una discarica a cielo aperto di 9000 mq, senza servizi né collegamenti con il centro cittadino. Formalmente, il progetto prevedeva bagni con servizi igienici e docce in comune, un centro polifunzionale, un laboratorio artigianale e una sala espositiva. In realtà questi spazi non sono mai stati utilizzati perché subito distrutti dai rom che cercavano di decostruire quegli spazi costruiti secondo un immaginario stereotipato gagè. Ripensare e ridefinire lo 191

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spazio può essere interpretato come una modalità di auto-identificazione e di costruzione della propria identità Romá. Se da un lato però rimodellare lo spazio abitativo è una espressione di auto-rappresentazione Romá, dall’altra distruggerlo materialmente è una pratica attraverso la quale i gagé identificano e categorizzano tutti i rom come devianti, non civilizzati, e non degni di avere accesso a una casa. Ciò che è interessante notare è come attraverso l’uso di pratiche stigmatizzate e l’orgoglio della propria differenza, ri-organizzare lo spazio diviene un requisito fondamentale per un riconoscimento identitario (Colombo, 2002). Vivevano in baracche e roulotte autocostruite e i litigi per l’appropriazione degli spazi erano frequenti. L’area del campo nomadi era divisa in due parti: una per i rom presumibilmente insediati in modo stabile (poi occupata dalle famiglie bosniache musulmane) e l’altra per i nomadi che transitavano (occupata poi dalle famiglie serbo ortodosse). Questa divisione separava simbolicamente e fisicamente due famiglie allargate che non avevano legami economici o parentali. La loro diversità culturale non è mai stata considerata dall’amministrazione comunale che ha costretto le famiglie a convivere per oltre quindici anni, riducendo così tutta la complessità del «mondo di mondi» rom di cui ha ampiamento parlato e definito Piasere (1999) a un unico gruppo che condivide gli stessi presunti tratti socioculturali. Nel 2012 il campo è stato sgomberato dopo che il Comune di Cagliari ha approvato un progetto di inclusione abitativa basato su un’idea di superamento del campo. La decisione si colloca in sintonia con la Strategia Nazionale di inclusione dei Rom, Sinti e Caminanti5 (unar, 2011) il cui obiettivo è quello di guidare nel corso di quasi un decennio (2012-2020) una concreta attività di inclusione delle popolazioni rom superando definitivamente la fase emergenziale che ha giustificato l’adozione di campi nomadi nelle grandi aree urbane. Tra la costruzione e lo sgombero del campo la popolazione rom che vive a Cagliari è notevolmente cambiata: sono aumentate le nascite e gli arrivi di rom stranieri soprattutto dall’ ex-Jugoslavia e, dal 2007, dalla Romania. Oggi, più della metà dei 150 rom sgomberati dal campo che ancora vivono nell’area vasta cagliaritana, è nata a Cagliari e ha acquisito la cittadinanza italiana. Si tratta di un dettaglio da non sottovalutare in quanto rafforza sia l’idea di insediamento stabile che di isolamento territoriale e culturale. Gli altri (per lo più serbi e bosniaci) hanno regolari permessi di soggiorno, così come i rom rumeni che vivono in campi informali. Alcuni 5  La Strategia rsc è stata presentata il 24 febbraio 2012 in attuazione della Comunicazione della Commissione dell’Unione Europea n.173 del 4 aprile 2011, in cui gli Stati membri venivano sollecitati a elaborare strategie nazionali di inclusione delle popolazioni romanì.

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rom sono ancora privi di documenti e sconosciuti per l’anagrafe cittadina. Dopo quasi dieci anni dall’attivazione del Piano di inclusione comunale, la sussistenza delle famiglie rom di Cagliari è ancora legata a un’economia basata essenzialmente sull’utilizzo delle risorse assistenziali (richiesta di aiuto ad associazioni di volontariato, servizio sociale comunale, chiese), sul lavoro occasionale e sottopagato o su attività irregolare.

3. Il campo nomadi: una lettura dello spazio e delle rappresentazioni identitarie L’osservazione etnografica si è concentrata su un gruppo omogeneo di famiglie musulmane bosniache. Si tratta di famiglie che non hanno né una tradizione itinerante né una tendenza a viaggiare per via delle pratiche quotidiane acquisite nel corso della vita nel campo. Per loro andarsene da Cagliari dopo lo sgombero del campo avrebbe significato perdere il diritto alla casa. Nella ricerca antropologica sui rom in cui si parla di parentela, vari gruppi sono stati descritti alcuni come patrilineari, altri come matrilineari o matriarcali. Cozannet si concentra sull’ordine sociale degli zingari: sottolinea costantemente che sono organizzati in modo matrilineare (Cozannet 1977). Altri trovano tracce del matriarcato (Scotti 1978). Il successo di questa idea è dovuto all’importanza della donna anziana tra i rom, e anche all’influenza della ricerca di Thompson (1923), che ha affrontato il problema della matrilinearità tra i rom. Piasere ci propone una rilettura dei concetti usati dall’antropologo inglese e mostra che la matrilinearità rom non è stata provata. Contrariamente alla matrilinearità citata da Cozannet e influenzata da Thompson, Liègeois e Piasere affermano che, in generale, i rom sono patrilineari (Liègeois 1987 e Piasere 1991). Questo articolo non intende spiegare le origini del sistema di parentela Xoraxanè Romá, ma analizzare il significato dello spazio all’interno del campo nomadi a partire dalle relazioni di parentela. Considerando la vicinanza come fattore di coesione di un gruppo (Fabietti 2004), ho concentrato l’osservazione dello spazio sulla famiglia allargata di residenza di Diamante; cioè il gruppo formato dai suoi parenti con i quali condivideva la residenza. Dalle storie dei Romá e dall’attenta osservazione dello spazio ho capito che una nuova coppia generalmente si stabilisce con i genitori dello sposo nei primi anni di matrimonio. A causa dello spazio limitato delle baracche e tra le piazzole assegnate a ogni nucleo familiare, i Romá erano soliti acquistare una roulotte che veniva sempre posizionata vicino a quella del suocero. In 193

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questo modo, entrambi i gruppi familiari potevano condividere lo stesso spazio esterno. La patrilocalità era temporanea ed esisteva solo in relazione alla famiglia allargata: dopo un certo periodo di tempo ‒ che spesso coincideva con la nascita del primo figlio ‒ la coppia si allontanava per dare spazio a un fratello sposato. I genitori dello sposo aiutavano a crescere la nuova famiglia, anche con un sostegno finanziario. La famiglia allargata di residenza che ho frequentato era composta dai genitori anziani, dalla famiglia coniugale del figlio più giovane e tutti gli altri figli non sposati. La lettura dello spazio è stato un tentativo di visualizzare i legami di parentela reciproca dei membri che vivevano nel campo 554 e ha mostrato come le relazioni di parentela siano visibili dalla disposizione spaziale delle case. La tendenza era organizzare le baracche in modo che il gruppo familiare condividesse la stessa area esterna. I Romá di Cagliari sono essenzialmente commercianti che preferiscono scambiare metalli; lavorano in famiglie con le quali condividono gli stessi cantieri. La costruzione di cortili nel campo, spesso circolarmente delimitati da abitazioni, rendeva visibile la collaborazione tra nuclei familiari e indicava sia la vicinanza parentale che le forme di associazionismo confermando quanto già osservato da Zatta (1988). Quei cortili erano utilizzati come base di lavoro, per accumulare metalli come una sorta di officina. Le distanze tra le famiglie riflettevano i legami strutturali di parentela. Come osservato da Piasere per altri gruppi Xoraxanè (Piasere 1999), anche per la famiglia allargata di Diamante esisteva una sorta di ordine gerarchico nei vincoli di prossimità che era rispettato anche nella disposizione spaziale. Diamante considerava innanzitutto i rapporti con il suo nucleo familiare; i rapporti con i parenti, a partire dai genitori fino a quelli più lontani, considerati più importanti rispetto ai non parenti. La lettura dello spazio, infatti, conferma che la distanza tra la famiglia bosniaca e la famiglia serba all’estremo opposto del campo sottintendeva una mancanza di rapporti di sangue oltre che legami culturali. Si trattava di un legame marginale che si rifletteva perfettamente nella disposizione del campo, del tutto inosservato dalle istituzioni locali. La ri-appropriazione degli spazi pensati dai gagè non era contrassegnata da oggetti fisici ma da limiti psicologici e simbolici non visibili agli estranei del campo. Ogni spazio abitato, roulotte o baracca, rappresentava un’unità abitativa in cui poteva vivere solo una coppia sposata. Non ho mai notato due coppie vivere nella stessa casa. Il rapporto tra marito e moglie è sempre stato della massima riservatezza anche nella poca intimità del campo. I rapporti sessuali sono considerati impuri: non se ne parla, così come della verginità, se non per rimarcare il fatto che si tratta di una condizione essen194

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ziale per sposarsi. La purezza assume un connotato di sacralità, così come mi disse la moglie di Diamante durante una conversazione molto intima: Verginità significa: «Ciéjahà! Puro! Mai toccato. Santa! Come la Madonna. Perché perdere la verginità è un disonore e così diventi impuro!». Il fattore di residenza prevale sulla prole. La formazione di gruppi gerarchici è impossibile: una famiglia non può dominarne un’altra. La gerarchia esiste solo all’interno del gruppo familiare, dove il marito/padre esercita piena autorità sui figli e su sua moglie; fratelli o sorelle; sulla nuora, oltre che la suocera sulla nuora. In quanto istituzione all’interno della società rom, la suocera ha molto potere e autorità: può rimproverare sua nuora o anche suo genero. Il suo ruolo è riconosciuto da tutti i Romá: «È sempre la suocera che ti dà gli esempi, ti dà i giusti consigli. Al contrario, un uomo non può farlo, non può consigliarti. La donna è portatrice di consigli, perché lei stessa è stata nuora e può dire come si possono migliorare le cose» ‒ mi disse Sveva, la moglie di Diamante. Ma al di fuori della sfera familiare, tutti i rom sono uguali.

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4. Dal campo alla vita in appartamento: il progetto di inclusione abitativa Il progetto triennale (2012-2015) è stato promosso dal Comune di Cagliari al fine di garantire ai rom l’accesso all’alloggio, all’istruzione e ai servizi sanitari. La chiusura del campo era perciò associata a un programma che, sulla carta, mirava a migliorare le condizioni di vita dei rom superando l’esclusione sociale e la politica dei campi. La strategia abitativa consisteva nell’attribuire a ciascuna famiglia proveniente dal campo nomadi una casa in affitto attraverso la mediazione della Caritas diocesana tra locatori e locatari rom. Il provvedimento ebbe una visibilità mediatica molto ampia sulla stampa locale, e le proteste dei cittadini furono alimentate ulteriormente da titoli dei quotidiani locali e nazionali che scrivevano «agli zingari le case con piscina!»6 che gridavano allo scandalo. Una domanda da porsi è: quali famiglie? Nucleari o allargate? Estese o di residenza?7 Diversità, identità e riconoscimento si ritrovano nella quotidianità dei rom che rappresenta la complessità e varietà inesplorata dalle politiche locali. L’attenta osservazione delle dinamiche di parentela nel campo nomadi permette di cogliere modalità nelle quali si sono sperimentate pratiche di convivenza che superano e ricostituiscono confini e barriere sociali, smentiscono o confermano pregiudizi che rischiano di sfociare in meccanismi di razzismo istituzionale che hanno radici nell’antiziganismo (Piasere 2015). Sin dall’inizio, si sono manifestati una serie di problemi nel trovare disponibilità di case ampie per ospitare famiglie molto numerose, abbattere forti stereotipi e scontrarsi con la mancanza di fiducia nella comunità rom. L’effetto immediato di una simile incertezza si è tradotto in una rapida dispersione nel territorio delle famiglie a seguito della frammentazione delle loro pratiche di riconoscimento sia nello spazio campo che nei rapporti con la comunità. Vivevo quotidianamente le difficoltà di Diamante e sua moglie Sveva. Le vicende legate alla casa sono state innumerevoli: il primo periodo lontano dal campo lo hanno trascorso in una zona periferica di Monserrato, ospiti nella baracca abusiva del padre insieme ai dodici fratelli di Diamante, nel rispetto della regola di patrilocalità osservata nel campo. Non avevano acqua, elettricità, servizi igienici o fonti di riscaldamento: «Una bottiglia d’acqua ci bastava per lavare tutti i piatti e sciacquarli. Non c’era acqua e luce perché era staccato tutto perché non avevamo i soldi: il Comune l’ha 6  L’articolo de «il Giornale» pubblicato l’11/08/2012 è disponibile al link https://www.ilgiornale. it/news/cronache/cagliari-comune-paga-casa-ai-rom-piscina-idromassaggio-e-829202.html 7  Sull’importanza dei vincoli spaziali di parentela si rimanda al paragrafo precedente.

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pagato un anno, ma quando è scaduto un anno nessuno ci ha avvisato e quindi hanno staccato tutto» ‒ disse Sveva nel raccontarmi quei momenti delicati. ‒ «Abbiamo preferito comprare un pacco di bottiglie d’acqua al giorno per lavarci, camminando dal supermercato al campeggio, che era molto lontano. Ma almeno era un po’ meglio, perché non vivevo così con i miei genitori, io non ci ero abituata». Nel 2013 nacque la loro figlia Joy: la sua nascita ha spinto la giovane coppia a cercare una soluzione abitativa più dignitosa, anche per paura di un intervento dei servizi sociali. Per questo motivo decisero di aderire al progetto di inclusione abitativa promosso dal Comune. Nell’attesa di trovare un appartamento si trasferirono a casa di un’amica cagliaritana, ma la convivenza si rivelò fin da subito infruttuosa a causa di alcune difficoltà principalmente legata alla gestione degli spazi domestici. Per un breve periodo (tra ottobre e dicembre 2014) Diamante, Sveva e Joy tornarono dal padre di Diamante, che nel frattempo si era già trasferito abusivamente in un’altra zona periferica dell’hinterland cagliaritano chiamata San Lorenzo. Un dettaglio che merita attenzione riguarda la scelta dei luoghi in cui hanno deciso di spostarsi e stabilirsi con le proprie roulotte: si tratta di spazi sempre adiacenti alla strada 554. Ciò appare interessante se collegato a quanto osservato da Solimene sui Cergarja dalla Bosnia confermando che i Xoraxané Romá mostrano con orgoglio un’identità basata sul «vivere roaming» (Solimene 2013). Significa vagare, vivere al di fuori dalle case consentite, scelte e pensate esclusivamente per nomadi e spostarsi tra spazi urbani vuoti scarsamente controllati dalle autorità. Ma «vivere roaming» significa spostarsi in base all’individuazione di nicchie economiche o di schemi valoriali certamente lontani dal nomadismo così come interpretato dai fautori dei provvedimenti abitativi a tutela di una cultura rom etero-definita e gagizzata. Il disagio abitativo e le inadeguate condizioni igieniche hanno portato i servizi sociali a consigliare a Diamante di lasciare la baracca senza farne parola con il padre. Così, la famiglia nucleare di Diamante si trasferì a Cagliari, mentre suo padre perdeva la potestà genitoriale sui suoi figli. Diamante e Sveva, dopo aver regolarizzato i permessi di soggiorno e chiesto la cittadinanza italiana, presero possesso di un appartamento nel centralissimo quartiere Villanova, nel dicembre del 2014. La convivenza nel centro storico durò solo quattro mesi: le continue lamentele a sfondo razzista dei vicini spinsero la coppia a cercare una nuova casa. A seguito di questa esperienza scelsero di allontanarsi dal centro e cercare alloggio nelle zone periferiche «meno visibile ai cagliaritani e ai negozianti» – mi spiegò Diamante. I pregiudizi nei confronti della famiglia furono confermati anche da chi si 197

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occupava della ricerca delle case per i rom: «Purtroppo per i pregiudizi che ancora esistono, i vicini hanno riconosciuto che si trattava di rom per via delle gonne che indossavano e li hanno fatto pressioni affinché lasciassero definitivamente la casa e il circondario». Finalmente, nell’aprile 2015, trovarono casa nella zona di Is Mirrionis, uno dei quartieri più densamente popolati di Cagliari, dove abitarono per più di un anno. Frequentare il loro alloggio per un periodo di tempo abbastanza lungo mi diede la possibilità di osservare come sarebbe potuta cambiare la loro vita in un appartamento, a partire da una differente percezione degli spazi. Notai in primo luogo che, a differenza del campo, non erano ammesse intromissioni oltre alla famiglia nucleare. Per la prima volta il condominio rappresentava una dimensione di condivisione di spazi e regole completamente diversa, sia dal campo nomadi che dalle precedenti soluzioni abitative. Vivere in un quartiere popolare, inoltre, significava per Diamante potersi ri-immergere in una dimensione subculturale fatta di nuove relazioni con il vicinato. Per Sveva, invece, traslocare, significava seguire le scelte e l’autorevolezza del marito: «Il centro è molto meglio, io stavo benissimo in centro, e poi la casa mi piaceva molto, ma se lui vuole andarsene, vuole andare a vivere qui? Cosa posso fare io? Andarci!». Apprezzavano la vita in appartamento per la sua dimensione privata e la possibilità di gestire i problemi domestici senza dover mediare continuamente con le altre famiglie. Ma rimpiangevano il campo per l’opportunità di condividere spazi e tempo libero con la famiglia allargata. Adattarsi alla dimensione gagè non è stato facile: «Sai qual è stata la difficoltà maggiore? Il primo giorno. Il primo giorno non riuscivo proprio a dormire la notte, perché pensavo: ma se questa casa ora è disponibile, vuol dire che chi ci abitava è morto. E così, lo spirito dei morti è qui in mezzo a noi, e forse non vuole la nostra presenza». Si trattava infatti di una novità assoluta: nel campo la morte era sempre accompagnata dall’eliminazione fisica di ogni oggetto (compresa la baracca) appartenente al defunto. Da quanto avevo osservato, al campo nessuno nominava mai i morti: i morti sono da dimenticare e non si possono nominare per non ostacolare il loro viaggio verso la pace eterna. Nella lettura delle dinamiche spaziali si conferma invece quanto analizzato nel campo nomadi: anche nell’appartamento i Romá hanno spogliato lo spazio di tutti i tratti culturali gagè. La disposizione dei mobili del soggiorno è stato uno dei dettagli che più mi ha sorpreso. Hanno ricreato un grande spazio centrale ricoperto da cuscini colorati e tappeti che richiamavano la funzione dei cortili del campo nomadi. 198

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Ogni giorno trovavo una disposizione della casa differente sia nell’aspetto che nei colori utilizzati. Spostavano continuamente i mobili durante la notte e questo fu senza dubbio un motivo di malumori con il vicinato. Nel rispetto delle dinamiche che avevo già osservato nel campo, la camera da letto continuava a essere il luogo privato della coppia: era composta solo da un grande armadio, un letto matrimoniale coperto da un telo colorato e una serie di cuscini. Il letto di Joy era in soggiorno, lontano dal luogo privato della coppia. Una differenza invece sostanziale rispetto al campo nomadi nello spazio domestico è stata la presenza di un bagno. Il bagno se pensato come parte di una dimensione di percezione di pericolo connessa a ciò che è sporco/pulito, puro/impuro così come intesa da Mary Douglas (1991) merita una particolare attenzione. Al fine di preservarne la purezza, l’uso del bagno era riservato ai soli parenti consanguinei che facevano visita alla famiglia, mentre veniva negato ad altri ospiti. Inoltre, nonostante la presenza di servizi e nuovi elettrodomestici come la lavatrice, ho sempre visto Sveva lavare i panni più volte al giorno in una grande vasca fuori casa, nel vialetto davanti alla porta. Mi disse che preferiva conservare la tradizione di ciò che aveva appreso al campo: «La lavatrice non lava come facciamo noi. Non mi fido e anche se il vicinato mi guarda stupito, preferisco lavarli così. Così è più pulito». Questo è un ulteriore elemento che 199

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conferma la volontà dei Romá di mantenere una sorta di continuità con lo spazio e le dinamiche costruite e apprese nel campo nomadi. Infine, la presenza della cucina non ha migliorato l’igiene alimentare e l’attenzione per uno stile alimentare sano dei Romá: hanno continuato a mangiare in qualsiasi momento, consumando cibo spazzatura e cibo confezionato acquistato al distributore di snack vicino a casa, così come erano soliti fare anche nel campo. Si tratta di elementi che per quanto non strettamente associati agli stereotipi riferiti ai rom, continuano ad alimentare processi di costruzione della devianza e di incompleta civilizzazione (Elias 1982, Marchi 2014) per la quale i rom subiscono una doppia identificazione: di classe e di etnia. Oggi dopo quasi dieci anni dall’avvio del progetto comunale, il suo destino è ancora avvolto dal silenzio istituzionale. Anche l’attenzione dei media non è più concentrata sui rom: la loro dispersione sul territorio ha reso la loro presenza meno percettibile alla popolazione locale. L’intento inclusivo è lontano dall’essere raggiunto. Oggi le famiglie continuano a vivere in forti condizioni di esclusione sociale. Tutti vivono fuori città; nemmeno un nucleo familiare vive a Cagliari. Pochissime famiglie nucleari vivono in appartamenti nei Comuni della area vasta intorno alla città. Oggi Diamante e Sveva insieme a Joy e un altro figlio vivono a Quartu, la seconda città più popolata dell’area metropolitana. Nonostante le politiche mirassero al superamento dei campi, la riproduzione di campi informali è in costante sviluppo. Le famiglie che vivono in appartamento temono l’impossibilità di non riuscire a sostenere i canoni di locazione. Riferiscono di preferire un terreno acquistabile in cui costruire la propria abitazione; ciò permetterebbe di superare sia l’utilizzo di risorse assistenziali che le pratiche di stigmatizzazione e di esclusione che li vede legati al circuito di assistenza. Attualmente molte famiglie hanno preferito costruirsi autonomamente le baracche con materiali di riciclo riappropriandosi di spazi che soddisfano le loro esigenze. La legge Tiziana è ancora in vigore e continua a essere la fonte istituzionale dalla quale attingere i fondi destinati alla minoranza rom. Ma se fino a qualche anno fa il nomadismo rappresentava il visibile tratto culturale su cui si sono saldamente costruite le politiche di esclusione dei campi nomadi, oggi sembra essere una invisibile conseguenza delle (mancate) politiche abitative di inclusione a conferma della grande capacità di adattamento dei rom e del loro grande orgoglio basato sulla diversità.

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5. Conclusioni Lo studio degli spazi abitati da una famiglia di Romà e la lettura delle loro pratiche di riconoscimento in esso è stato l’esito di una relazione privilegiata che si è mantenuta stabile nel corso di un lungo percorso etnografico. A partire dal pensiero di Goffman (1963) i processi di stigmatizzazione rappresentano la chiave interpretativa delle pratiche di identificazione dei rom: rielaborare gli spazi abitativi sembra rispondere al bisogno del riconoscimento della propria differenza e del loro orgoglio identitario. Sin dal loro arrivo in Sardegna, i Romá hanno sempre sviluppato strategie di resistenza per autodeterminare la propria quotidianità. Il campo nomadi in cui hanno vissuto dal 1995 al 2012 è stato un luogo segregante, costruito sulla visibilità del pericolo da arginare e delimitato da netti confini non riconosciuti dai Romá. Fin dalla costruzione del campo 554, i Romà hanno sempre reagito ai processi di categorizzazione in rom/nomadi/zingari attraverso pratiche di de gagizzazione di uno spazio pensato dai gagè per soddisfare il loro bisogno di protezione dai rom. L’osservazione del campo nomadi ha permesso di ricostruire le pratiche di riconoscimento spaziale: il rispetto della regola della patrilocalità nella disposizione delle abitazioni consente la formazione di cortili esterni simbolo di coesione e socialità Romá. Lo spazio del campo viene in questo modo ridisegnato secondo confini simbolici dettati dai legami sia parentali che economici tra le famiglie. Il risultato è una lettura di una gerarchia spaziale non visibile all’occhio esterno (soprattutto istituzionale) ma ben definita e rispettata dal gruppo. Il campo diventa così l’unione di più gruppi riconosciuti attraverso la condivisione di uno spazio che è il simbolo della collaborazione e condivisione familiare. L’ordine Romá appare un incontro di differenze (Piasere 1999). Lo spazio evidenzia la solidità dell’organizzazione familiare dove l’autorità viene rappresentata in modo gerarchico rispettando i legami di parentela così come già osservato da Piasere (1991). Tuttavia, all’interno di questo spazio condiviso, la baracca o la roulotte è sempre il simbolo dell’intimità di coppia e rappresenta l’unità abitativa della famiglia nucleare. Lo sgombero del campo costringe i Romá a ripensare le loro dinamiche spaziali rimodellando non soltanto i legami familiari ma anche quelli economici costruiti in città. Stare fuori dal campo significa sia perdere l’ordine gerarchico stabilito al suo interno, sia una dimensione urbana fatta di reti di fiducia costruite con la popolazione locale nel corso degli anni. Al susseguirsi di processi che li vede costantemente relegati al controllo, l’identità Romá si costruisce in uno spazio liminale che passa sempre tra la visibilità e l’invi201

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sibilità. Se l’assegnazione delle case ha alimentato l’attenzione mediatica locale, proprio la vita negli appartamenti ha fatto sì che fossero meno visibili al controllo della popolazione. Dopo i primi tre anni del progetto di inclusione comunale, nel silenzio istituzionale la dispersione territoriale provoca la scomparsa di «relazioni dense» (Hannerz 1980) creando vari mutamenti nella quotidianità della famiglia Romá su cui si è focalizzata l’attenzione etnografica. I confini fisici del campo sono stati sostituiti da nuove barriere culturali che hanno causato la perdita di rapporti basati sulla fiducia creati con i servizi sanitari, la rete di assistenza e, soprattutto, le economie informali svolte all’interno dell’area urbana. Questa dispersione territoriale, inoltre, si traduce nella persistenza di precarie condizioni igieniche e abitative, di pregiudizi e razzismo, scarso accesso al mercato del lavoro e alti livelli di dispersione scolastica. In questo contesto, la degagizzazione si conferma criterio essenziale per eleggere la vivibilità di un luogo per un rom. Il vivere girovagando diventa così un nuovo simbolo di riconoscimento sviluppando un nomadismo di famiglie che nomadi non sono mai state (Solimene 2013). La vicinanza con la strada statale, la possibilità di movimento e il rifiuto della staticità domestica diventano requisiti funzionali alla nuova ricerca di un’area in cui sostare. Il desiderio di continuità con il campo nomadi è confermato anche nell’esperienza domestica di Diamante e Sveva. La pulizia profonda della casa, il continuo spostamento dei mobili che disturba i vicini, la cura e la pulizia dei panni secondo la tradizione appresa al campo, il rifiuto dei servizi domestici e di uno stile alimentare «sano» conferma una dimensione del puro/impuro (Douglas 1991) pulito/sporco, rom/gagè. Questi tratti, inoltre, si confermano come elementi stereotipati che, per quanto non strettamente connessi al senso comune che vede i rom come una minaccia per la sicurezza urbana, li relega in un mancato processo di interiorizzazione delle norme della cultura dominante tramite una doppia categorizzazione (di etnia e di classe) che meriterebbe un’attenzione particolare nello studio degli spazi domestici e meccanismi di costruzione della devianza. La dinamicità e la flessibilità di un’identità che ribalta e supera i processi di stigmatizzazione, che si ri-adatta ai codici non rom, non è mai stata presa in considerazione delle politiche locali (Piasere 1991, 1999, 2004). I nomadi sono stati esclusi dall’essere inclusi nei campi nomadi, che sono dispositivi biopolitici che etichettano i loro abitanti come rifiuti della società, del progresso, della civiltà, (Clough Marinaro 2009, Piasere 2006); dall’altro, oggi i nomadi sono inclusi attraverso pratiche esclusive di rifiuto diretto. In altri termini, l’imposizione di modelli di inclusione basati su processi di etero 202

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riconoscimento non rom si riflettono in nuove pratiche di esclusione che sostituiscono i campi nomadi con nuove soluzioni abitative e che, d’altra parte, incoraggiano un’attenta risposta di quelle che sono state spesso chiamate «sottoculture di resistenza» (Hebdige 1979). Simili modelli comportano l’invisibilità sia del razzismo che della marginalità dei rom, e allo stesso tempo contribuiscono al mantenimento e al rafforzamento delle divisioni etno-razziali. Il risultato finale sembra una nuova forma di esclusione: in questo modo si afferma una separazione che non passa più dal contenimento fisico di un campo nomadi ma opera attraverso nuove forme di razzismo istituzionale (Powell e van Baar 2019).

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le femministe e i nuovi nemici interni: il ragazzo arabo e la ragazza “beurette”1 di Nacira Guénif-Souilamas

Prefazione all’edizione italiana Nel 1980, quando ero studente di sociologia, ho visitato l’Italia per la prima volta e ho attraversato la penisola da Napoli a Venezia sotto un sole primaverile che quasi niente poteva oscurare. Non parlavo italiano – e oggi non va molto meglio – ma le immagini, i segni, i gesti, i corpi parlavano una lingua che capivo. Assorbivo tutto e associavo i suoni in modo casuale, senza sforzarmi troppo di dar loro priorità o di associarli a norme culturali che non conoscevo. Durante un soggiorno prolungato a Firenze, ho scoperto la magnificenza dell’antica città-stato mentre si svolgevano una serie di manifestazioni per il 500° anniversario del Rinascimento. Tutti i musei e i palazzi importanti della città erano occupati da mostre in cui risaltava l’abbagliante patrimonio della città, facendo capire come, nel cuore del xv secolo, la città avesse dato impulso a un movimento artistico guidato dalla volontà di potere di una famiglia, i Medici, e dalla sua imponente fortuna, diventando così l’epicentro del Rinascimento, un’epoca storica con risonanze ed esplosioni che attraversarono i secoli, anche se solo in Europa. Lo stupore c’è ancora e, più che il ricordo preciso di questa o quell’opera, visto che ce n’erano tante da ammirare, conservo l’impressione di un vertiginoso tour de force per rendere manifesta la potenza di Firenze, allora come oggi, senza dubbio per ricordarci meglio il rango che stava assumendo in Italia e nel mondo alla fine del Medioevo. Tuttavia, altri ricordi si impongono con altrettanta, se non maggiore, chiarezza. Mentre passeggiavo instancabilmente per la città con un’amica, 1  Il testo è la traduzione di parte dell’opera Les Féministes et le Garçon Arabe, scritto dall’autrice con Eric Macé, nel 2004, con introduzione originale dell’autrice per la nostra edizione. Il lavoro di traduzione è da attribuire ad Andrea Caroselli.

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abbiamo incrociato un certo numero di giovani in Piazza della Signoria, allineati lungo il marciapiede di fronte alla statua equestre di Cosimo I de’ Medici, a Palazzo Vecchio e più in là, la Loggia dei Lanzi. Non c’era niente di marziale in questo schieramento di giovani corpi: belle facce, capelli biondi ricci o sapientemente acconciati, tutti vestiti con abiti tipici dell’eleganza fiorentina. Piuttosto, c’era la forte impressione che questi corpi si stessero offrendo al nostro sguardo, che stessero aspettando il nostro apprezzamento, il nostro assenso, che stessero sperando in qualche segno che li convincesse che li avremmo accompagnati volentieri a bere qualcosa in uno dei caffè dietro di loro. Più ancora di questo cenno da parte nostra, che non sarebbe arrivato, diventava chiara l’impressione che stessero diventando più languidi mentre li guardavamo con curiosità, come se stessimo scoprendo un rituale segreto di questa città, una specie di balletto immobile che probabilmente si ripete ogni tardo pomeriggio, che non avremmo cercato di verificare. Poiché volevano solo offrirsi al nostro sguardo, non c’era forse un desiderio profondo che noi li prendessimo per quello che erano o tentavano di essere, nello spazio di una sessione di posa, sostenuti dalla loro virilità tutta manifesta nella loro bella eleganza? Come suggerisce l’etimologia della parola – esporre, mettere davanti – non è forse una forma di prostituzione che si sta affermando in questo modo? Così, come può fare una statua, per trovare un acquirente a cui vendersi, per trovare il proprio padrone o la propria amante? Statue effimere di fronte ad altre statue eterne, questi giovani si vendono al nostro sguardo, e più dell’affinità, la transazione è tanto inclusa nella scenografia quanto in ciò che il nostro sguardo e la nostra fugace vicinanza possono provocare. L’erezione, chissà, che li coglie, percorre i loro corpi con un brivido, si fa sentire senza apparire, ricordando loro che sono i degni eredi di quei potenti uomini impressi nel marmo che popolano la piazza giustamente chiamata [della, n.d.t.] Signoria. Così, è sempre necessario avere lo sguardo dell’altro per esistere? Della signora per il signore, di chi si offre per chi si vuole offrire? In questo, questi giovani fiorentini non sono così diversi da altri indigeni il cui nome è carico di oppressione e appropriazione. Le foto “pittoresche”, circolate indisturbate negli ambienti cosiddetti colti per tutto il Novecento, attestano che queste posture suggestive imposte a giovani ragazzi, sudditi dell’impero coloniale, per soddisfare la ricerca orientalista di europei predatori, possono continuare a ispirare emulatori a queste latitudini, consenzienti, vestiti, determinati, ma nonostante tutto preoccupati del desiderio che suscitano, perfino in Piazza della Signoria. Questo è anche ciò che rende Firenze e il suo mondo 208

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così magnificente, e un’altra scena non lontano da lì lo avrebbe confermato senz’ombra di dubbio. Il nostro hotel, più simile a una pensione, era vicino alla stazione: per comodità e per prezzo che ci soddisfava, non abbiamo cercato altro. Queste due giovani ragazze che tornavano da sole a tarda notte dopo aver goduto della vista della città illuminata attiravano l’attenzione, gli sguardi ci seguivano mentre ci avvicinavamo al nostro alloggio, che era comunque a pochi minuti dal centro storico. Non ci vuole molto a capire che, come in qualsiasi stazione di una grande città, vi si concentrano dei cliché e che questi si incarnano in altrettanti corpi che nessuno vuole incontrare e nemmeno vedere. Non ho difficoltà a riconoscerli, sono miei simili, dell’altro sesso. Se vogliamo attenerci a facili etichette: arabi. Sono quelli che chi ci osservava teme di incontrare. E così accadde a noi, li abbiamo incrociati ogni notte, e non è successo niente. Ripartimmo sane e salve... non senza aver notato l’insistenza dei corpi offerti dai giovani fiorentini, e senza temere che i corpi degli arabi ci costringessero. Alcuni rimangono padroni della loro prostituzione e si espongono con maestà, mentre gli altri sono ridotti all’oscenità, confinati vicino alla stazione, dietro il palco legittimo, dove devono sfuggire allo sguardo sprezzante di questi abitanti della città innamorati della loro raffinatezza. Anni dopo, di nuovo in Italia con la mia famiglia, alcuni vicini di casa con cui avevamo fatto amicizia ci misero in guardia sui cattivi incontri da evitare a Firenze, dove avevamo intenzione di trascorrere i nostri ultimi giorni di vacanza. Insistono sul fatto che dobbiamo stare attenti ai «marocchini» che imperversano intorno alla stazione. Era la prima volta che sentivo la parola, ma l’ho riconosciuta subito. Così come quasi due decenni prima avevo riconosciuto coloro che questa parola designa, avrei riconosciuto i loro successori anche questa volta. Perché li avrei rivisti di sicuro se ci fossimo allontanate verso la stazione, intorno alla quale non c’è decisamente nulla di interessante da visitare. Il cliché è tenace. Questi italiani ben intenzionati non si sono resi conto che avvertendoci in questo modo, stavano dando uno schiaffo a noi, i turisti benestanti con cui condividevano pasti e bevande, fingendo di non sapere che fossimo arabi, o credendo che noi, quantomeno, non eravamo come gli altri. Lì come altrove, la loro reputazione è quella, niente sembra poterla annullare. Senza dubbio occupano ancora l’immaginario transnazionale con il loro sesso affilato come un coltello, che l’episodio alla stazione di Colonia, l’ennesimo, farà rivivere. In attesa della prossima occasione per essere messi alla gogna benpensante di un Occidente che si crede l’unico dotato della giusta sessualità e l’unico capace di praticarla. Il 209

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picco potrebbe arrivare prima di quanto pensiamo, se consideriamo la frenesia identitaria che sta scuotendo vaste aree d’Europa in questi tempi, alla ricerca di un’autenticità che si è dissipata nei decenni successivi alla colonia. In Francia, mentre scrivo, è il disastro in Afghanistan che potrebbe scatenare una nuova crociata femminista prendendo in ostaggio le donne afgane che sono stanche di lottare per la loro sovranità e la fine di ogni tutela, che sia tribale od occidentale. La traduzione di «marocchini» dall’arabo ha catturato la mia attenzione non appena ho letto la traduzione italiana del romanzo di Céline. Ringrazio sinceramente Fabio, Andrea e Luca per aver risvegliato questo testo, che ora dorme, in attesa di essere ripubblicato un giorno in francese. Intanto, la sua pubblicazione in italiano mi sembra un modo felice di ricollegarsi, per farci definitivamente i conti, a quelle due circostanze in cui i marocchini mi sono apparsi in tutta la loro crudezza. Così, «marocchino» sembra essere come in italiano ci si riferisce agli arabi. È perché costituiscono la principale immigrazione dal sud del Mediterraneo e popolano i quartieri dove nessuno vuole più vivere? È un riferimento storico più lontano che ancora non conosco? L’ambizione coloniale dell’Italia non si è giocata su quel lato, Mussolini l’ha brevemente realizzata nel Corno d’Africa, e l’ha chiamata col pomposo nome di Africa Orientale Italiana. Allora, cos’è che risuona nei marocchini e li rende l’esatta incarnazione di un reietto in Italia? E come risuona con quello che dico su questa figura in Francia? «Arabo» non vuol dire la stessa cosa di «arabe», in francese? A meno che il luogo dove sto scrivendo questa prefazione non fornisca una spiegazione. Arabo-normanno, un’improbabile associazione di arabi e normanni, o anche arabo-musulmano: l’influenza araba in Italia è presente e visibile, anche se non viene sempre ammessa, né quindi enfatizzata o studiata. Usando il termine marocchino, più recente e più facile da connotare in senso peggiorativo, si tratta forse di tenere a distanza i nuovi arrivati, laddove la presenza araba e musulmana in Campania, Puglia e, soprattutto, in Sicilia, ha un significato più intimo, tangibile, più radicato nella storia e nella memoria italiana. Non spetta a me decidere di questa scelta di traduzione, ma ovviamente parla al senso comune in Italia e agli episodi eclatanti in cui ho scoperto l’esistenza e la percezione dei marocchini. Detto questo, in Francia l’arabo continua a fornire tutti gli usi: i più vili così come i più ricercati, allo stesso modo della figura del ragazzo arabo, desiderato e odiato. Prima che maturasse l’idea di consegnare questo testo a un pubblico italiano, Andrea, Fabio e Luca mi avevano parlato della contiguità tra il ragazzo arabo e la teppa, la racaille in francese, figura emblematica del ragazzo 210

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incivile, rappresentata in particolare in tutta la sua pienezza e vulnerabilità da Pasolini. Se l’estratto di Céline è stato violentemente vitale per me per scrivere questo testo quasi venti anni fa, penso che la teppa troverà la sua risonanza in italiano per chiunque la legga. Céline sta indubbiamente parlando di arabi, al plurale, in questo passaggio stridente, sottolineando come siano già troppi in questo caffè di un sobborgo tetro, e troppo intraprendenti, due rimproveri che li seguono tuttora in Francia e ben oltre. E se non sono loro, sono il loro alter ego, il loro doppio: il musulmano. È sotto questa figura che hanno preso un posto di rilievo nel dibattito sull’alterità interna o sulla minaccia in Italia. Come ovunque in Europa, e in tutto il mondo, il musulmano è diventato ancora una volta la minaccia che l’orientalismo ha costruito e che Said ha decostruito nel suo libro liminale. Se il business continua a crescere, se lo sfruttamento simbolico e politico della demografia musulmana e della minaccia terroristica islamista non finisce mai, è perché assicura comodi dividendi e dispensa da qualsiasi esame di coscienza sul ruolo dell’Occidente nel pantano che si estende ogni giorno di più. Designare i colpevoli per rimanere ignari della propria responsabilità, alimentare l’innocenza bianca per perpetuare l’arroganza d’avere ragione, a qualunque costo. Ecco a cosa serve fedelmente l’invenzione di un nemico arabo e musulmano. La conferma che anche in Italia si sta raggiungendo questo obiettivo mi è venuta quando, passeggiando per Milano di recente, mi sono imbattuta in una piccola e fresca piazza alberata, costellata di giochi per bambini, il cui nome mi ha sorpreso: Oriana Fallaci. La targa all’ingresso garantisce il ricordo della crociata intrapresa dalla donna che, con innegabile successo, non ha mai smesso di mettere i musulmani alla testa dei nemici di tutte le donne, della nazione italiana e dell’Occidente. E cosa importa se altri movimenti, anch’essi italiani, più lucidi e meno compiacenti, cercano di sventare il processo e le trappole tese a un’Italia dove il razzismo (e il sessismo?) prospera. Visto dalla Francia, dove l’islamofobia si avvia a diventare una vocazione di Stato, nulla di buono può venire da una tale determinazione a forgiare un nemico immaginario. Fornirà le ragioni perché arrivi a incarnarsi proprio nella forma più mostruosa possibile. Così come è avvenuto nel caso dell’assassinio di un insegnante di scuola secondaria, Samuel Paty, impegnato a insegnare il discernimento di fronte alle caricature del profeta dell’Islam, e che si è trovato in mezzo tra ciò che voleva trasmettere ai suoi alunni e ciò che ideologi irresponsabili promuovono come una visione (caricaturale) della religione e dei suoi seguaci, instillata nella mente di un giovane musulmano esaltato: risentimento, odio, infine l’atto. 211

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Non ultima dei protagonisti di questo ballo maledetto, la beurette non ha cessato di acquisire notorietà. Dall’epoca in cui venivo chiamata così da uomini che pensavano di adularmi, fino a quando il termine non ha più trovato il favore di coloro che intendeva controllare, agli ultimi anni in cui la sua continua presenza in cima alle ricerche sui siti porno è stata sulla bocca di tutti, si è affermata la posterità del termine. La sua ubiquità su siti e su social network ha provocato una forte risposta da parte di coloro che continua a designare come oggetti sessuali di cui appropriarsi a volontà. In definitiva, questo percorso illustra perfettamente il successo che si voleva ottenere con questo nome controllato, quando è stato coniato invertendo due volte le sillabe della parola araba e femminilizzandole con questo suffisso che segna la minorazione e lo svilimento: a-ra-be, re-beu, be-ur, beur-ette. Con un nome del genere, non c’è dubbio che le ragazze e le giovani donne in questione avevano buone possibilità di finire su siti pornografici. Già nel 2000, quando il libro basato sulla mia tesi è stato pubblicato, il suo titolo era già diffuso in mezzo a questi siti. E con il tempo, si è solo intensificato. Al di là della routine dei siti che riciclano le ossessioni orientaliste per il consumo sessuale dei predatori visivi, cosa ci dice la s/fortuna di questa parola? Rivela come la cooptazione sia un’ingiunzione a cui è difficile resistere, come racconta il calamitoso episodio del movimento npns2 in questo testo. Ci dice anche che i suoi oggetti sono ormai soggetti politici e che non vogliono più essere ridotti a un oggetto di consumo pulsionale e scopico in rete, o addirittura in carne e ossa. Parla di un successo e di un fallimento. Di successo, quello di un desiderio, bianco, di prendere e mantenere l’ascendente su queste donne per farle entrare nel mercato sessuale, amoroso e matrimoniale, e controllare così gli uteri che partoriscono i francesi di ieri, oggi e domani. Un fallimento, la mancata consapevolezza che un oggetto sessuale e partoriente non è una vita, anche se è avvolta da complimenti velenosi. Per alcune, la parola beurette significa un mercato succulento, un destino pregiato, un futuro radioso... ma per molte altre, è il marchio che deve essere rimosso, proibendo che la parola sia associata a loro, perché è un insulto, un attacco alla loro integrità di donne, e una negazione della loro piena capacità di parlare a proprio nome e agire per il proprio bene. Se c’è qualche dubbio sulla tossicità del termine, la sua presenza sui siti porno ne è la prova, e l’incredulità del mondo bianco maggioritario non può farci nulla. 2  L’autrice si riferisce a Ni Putes Ni Soumises, movimento femminista francese dei primi anni Duemila, di cui parlerà approfonditamente nel testo che segue.

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Dalla pubblicazione del piccolo libro da cui è tratto questo breve testo, che spero sia sempre incisivo, le figure e le parole che evidenzia e utilizza hanno continuato ad avere una vita propria, ad alimentare polemiche e panico morale, ma anche a nutrire le coscienze e le volontà di non sottomettersi più al diktat di un Occidente che va verso il disastro se rifiuta di aprire gli occhi sulle devastazioni che ha inflitto al mondo e alle sue creature più strane, con il pretesto di volerle addomesticare. Questo tempo è finito, e questo è ciò di cui voglio essere testimone. Cefalù, 2 settembre 2021

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«Allora bevono niente quelli lì... Non hanno ancora l’abitudine... Bisognerebbe che avessi dei polacchi. Quello Dottore, quel che bevono i polacchi, si può ben dirlo... […] Questi qui i marocchini, è mica bere che gli interessa, è piuttosto inc... è proibito bere nella loro religione a quel che sembra, ma è mica proibito inc...». Li disprezzava Martrodin, i marocchini. «Degli sporcaccioni insomma! Pare perfino che fanno quello alla mia cameriera!... Sono degli scalmanati eh? Che idee, eh? Dottore? le pare?» […] Gli arabi si alzarono per seguirla. Non avevano per niente l’aria sfacciata. Sévérine li guardava comunque un po’ di storto per via della stanchezza. «Io, non ho le stesse idee del padrone, preferisco i marocchini io! Non sono brutali come i polacchi gli arabi, ma sono viziosi... Niente da dire son viziosi...» L.F Céline, Viaggio al termine della notte

In questo passaggio di Viaggio al termine della notte, che Céline avrebbe voluto fosse un viaggio «dall’altro lato della vita», gli arabi sono lì. Già lì, saremmo tentati di dire: dei figuranti colti in una breve immagine, furtiva e radicalmente violenta. L’essenza della violenza, perdurante, penetrante, che fissa gli esseri in una smorfia sociale, che fa eco a quella che troviamo oggi nei giornali che titolano sui “plan tassepé” e con formule seducenti, «gli stupri collettivi in banlieue», nelle trasmissioni televisive per adolescenti e adulti. La violenza di quelle righe indica un continuum, riattivato oggi nella figura del giovane arabo dei quartieri, individuo incivile, non-civilizzato, geneticamente votato a restare al di qua della civilizzazione. All’inizio, durante l’epoca gloriosa del centenario dell’Impero coloniale, gli arabi erano già visti come dei perversi, la cui perversione era tollerata dalla loro religione e iscritta nei loro costumi, trasmessa ed ereditata. L’arabo avrebbe saputo padroneggiare la sua bestialità mutandola in perversità, situandosi sin dall’inizio nel registro della devianza. Ciò è più inaccettabile dell’essere in uno stato di natura, grezzo, in attesa di un Pigmalione. Egli è l’artefice della sua stessa perversione, si dà forma e si vuole perverso. Così, fugge da qualsiasi progetto civilizzatore, formula empatica per ogni impresa di conformazione. Questa figura classica unisce l’ossessione del rigetto degli arabi (musulmani) fuori dall’Europa e il trattamento stigmatizzante e avvilente dello straniero sgradito, venuto a imporsi tra di noi, e permette di tenerlo al di fuori della naturalità dei rapporti civilizzati. I lettori di Céline sanno quale sorte riserva all’umanità nella sua opera e nelle sue opinioni, alimentando una confusione inquietante tra le due; senza dubbio è possibile leggerci un’espressione minore del suo antisemitismo (gli arabi sono anch’essi semiti) e la traduzione di 214

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uno stato reale delle mentalità dell’epoca rimasto sconosciuto. La forza delle parole è accresciuta dal trattamento razzista simmetrico: polacchi e arabi si rispondono, e attraverso il loro avvilimento reciproco servono a convalidare le frasi del barista. La persistenza del sessismo lascia le sue tracce poiché la Puttana è già là, anche lei, nella persona della cameriera-prostituta che fa gli straordinari, a meno che non sia un’inclinazione personale quella che soddisfa seguendo i suoi clienti nella notte fetida di questa banlieue premonitrice dei nostri quartieri perduti. Quasi tre generazioni dopo, niente o quasi niente è cambiato: gli arabi in Francia, condannati a restare giovani, sono sempre perversi, sodomiti, e ora sono divenuti stupratori, in gruppo e, se possibile, seriali. Inoltre, essi sono votati a incarnare senza falle il ruolo altrettanto inquietante del ladro, in un doppio registro dell’infrazione: quella dei corpi e quella dei luoghi. Questi trasgressori multirecidivi dei costumi civilizzati sono i degni eredi degli arabi dei tempi delle colonie. Come i loro predecessori, ugualmente prigionieri della loro reputazione, vengono guardati con sospetto dagli adulti che incontrano: insegnanti, educatori, poliziotti, giornalisti, politici. L’ironia vuole che i soli con cui condividono la stessa religione d’una eterosessualità «virilista», che vale anche per le donne che fingono di farne parte, siano gli uomini politici. Ai due estremi, ecco le due figure che tradiscono l’esistenza di un regime diseguale dell’erezione, inscritto in uno stesso stretto involucro. Di fronte alla virilità come sopravvivenza sociale, miserabile quindi riprovevole, che si vede infatti, laggiù, fuori portata e ben in vista, ci sono gli uomini phallus, eretti in capi, sollevati, in qualsiasi eiaculazione verbale, tribuni autosufficienti che dicono precisamente tutto ciò che di male pensano dei piccoli ragazzi che se la credono a torto, informandoli, in fin dei conti, che non possono competere, che sono degli impotenti in confronto alla potenza esorbitante accordata dal verdetto delle urne. Non c’è bisogno di dire che le donne che volessero, anch’esse, salire sulla tribuna non devono far altro che tenersi… erette.

La reclusione virile e la sua recluta naturale: il ragazzo arabo Non si tratta qui di vittimizzare o d’assolvere degli individui tra cui troppi si compiacciono nel loro ruolo di “macho”, di cui una minoranza imita le pratiche secolari, che siano contadine o borghesi, commettendo stupri o adottando una sessualità violenta, ma di comprendere la genesi sociale di una figura che persiste e procura una formula magica, «non sono civilizzati», un lasciapassare che autorizza tutte le detenzioni, tutte le messe 215

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all’indice. Che ne è di questa genesi sociale e di quelli che ne sostengono o ne assumono la funzione stigmatizzante? La chiusura finale in un’identità ridotta al suo solo involucro corporeo, alla sua sola dimensione virile, alla sua espressione più gretta: il sesso, sostituto fisico dell’impotenza sociale, eretto in frontiera di civiltà? Attraverso una lenta decomposizione dei rapporti sociali ai margini della città, i figli di immigrati arabi hanno perduto qualsiasi attributo, hanno vissuto il restringimento progressivo del loro orizzonte sociale, vedendo allo stesso tempo marcire il loro repertorio di definizione identitaria, fino a non essere più che dei corpi ridotti al loro sesso, falli minaccianti e osceni per il nostro immaginario collettivo. Questo restringimento identitario non avviene su un terreno neutro, ma piuttosto testimonia di due movimenti congiunti e contrari. Viviamo nell’epoca delle frontiere porose, dell’attenuazione delle differenziazioni sociali tra i sessi, sotto il segno di una eufemizzazione delle differenze biologiche, sessuate, persistenti, o addirittura di una confusione dei generi: tutti processi attivati, catalizzati dalla denuncia della dominazione millenaria degli uomini sulle donne, di una clinica precisa delle sue forme e della sua intensità. In questo contesto, i ragazzi arabi – e i loro accoliti, Neri e «petits Blancs» di contesti popolari – sembrano essere votati a un machismo atemporale, banditi da questi luoghi della riconciliazione tra i sessi che pretendiamo pacificati, rigettati ai confini di questo inedito processo di trasformazione sociale delle identità sessuate, impediti di parteciparvi ma tenuti a servirlo assumendo il ruolo del contro-esempio, dell’inadatto. Tutto avviene come se il segno di distinzione, costituito dal diritto di disfarsi degli attributi machisti e della reclusione sessuata, fosse rifiutato a certi uomini, che, in quanto operai, sono stati assegnati a una dominazione di classe e all’affermazione franca della loro fierezza virile, oppure che, colonizzati, hanno subito la dominazione coloniale, che riflettono sulle loro donne. Tracciare la genesi di questa figura della reclusione virilista, comporta anche misurare l’efficacia dialettica di questa postura. A prima vista, i ragazzi “vittime” di questa reclusione ne sono anche gli istigatori o addirittura i promotori, non foss’altro che rispondendo con tanta diligenza all’ingiunzione virilista che da ogni dove converge verso loro. Lo zelo impiegato per essere credibile nel ruolo del «petit mec arabe» confonde, tanto è verosimile; che facciano troppo o non abbastanza, sono più che realistici. Ancora un po’ e li crederemmo angelici o ingenui talmente si compiacciono in un’attitudine alienante, non solamente fisica ma anche mentale e sociale, che gli attira tuttavia molti problemi e pochi profitti, che sia nei confronti dell’altro sesso 216

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al quale passano affianco nell’incomprensione o che feriscono quando si dedicano a una condotta a rischio, o allo sguardo di altri “Galli” che non hanno più alcuna circostanza attenuante da concedergli. Aver così poca «cura di sé», quindi dell’altro, merita una riflessione, per rintracciarne i motivi e le conseguenze. Molte ipotesi potrebbero essere formulate, ma da parte mia non seguirò che un solo percorso, circolare come i limiti invisibili e tangibili di una chiusura sociale interamente contenuta nell’involucro corporale dei ragazzi dei quartieri, un solco che, sorgendo dal passato, ritorna perdendovisi per averlo ignorato.

Strade perdute È ancora necessario situarsi in un passato da esplorare. Intravedo qualche segno, tra i quali il frammento che si trova in esergo a questo testo, ma altri potrebbero aggiungersi. Si tratta di entrare in risonanza per meglio cogliere i corpi maschili e femminili, la loro storia polisemica nei mondi arabi e musulmani in cui non si sono solamente incrociati; il loro snaturamento occidentale, al fine di sottomettere spiriti e corpi; infine, la loro degradazione in una visione sporca e ripugnante di una sessualità «contro natura», per meglio addomesticare coloro i quali ne sono posseduti. Restando in ascolto di questa polisemia, diventa possibile restituire al racconto maschile, arabo e musulmano, quello che gli è stato tolto: le sue radici in quella che Foucault definisce come una ars erotica, dalla quale non cesserà di attingere accanto al racconto femminile. La valorizzazione del piacere e la sua ricerca discorsiva ed esistenziale, l’erotismo come arte elaborata, codificata e trasmessa secondo regole di cooptazione e d’elezione élitarie, la tolleranza e la familiarità con l’omosessualità, pratica sfiorata da tutti, tollerata fintanto che non minaccia la riproduzione della specie, ne sono i tratti principali. Il segno distintivo che costituisce la padronanza dell’ars erotica segna sia l’importanza del piacere sessuale e della sua ricerca nella gerarchia dei costumi arabo-musulmani, sia la sua diffusione concorrenziale di fronte ai costumi patriarcali che prevalgono nell’ordine sociale cittadino e contadino. Più vicina a noi, la letteratura di Gide e di Genet, da L’Immoraliste a Notre-Dame des fleurs, ha reso, senza confessarlo, a degli uomini fluidi la parte di grazia che li ha ispirati. Altre rappresentazioni più allucinate, come quella del Pasto nudo di William Burroughs, restituiscono la parte dilaniata di una sessualità che riduce l’altro, interpretato da un giovane arabo, all’oggetto di una libido perseguitata dalla distruzione. Ognuna di queste rappresentazioni ricolloca il giovane 217

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uomo arabo nella sua propria genealogia mediterranea, quella di una omosessualità a lungo considerata come la forma più alta d’amore, che fosse o meno platonico, e comunque come un’arte né blasfema né condannabile, che affianca o completa un’eterosessualità altrettanto necessaria. Proiettare le nostre ossessioni contemporanee su questi letterati ci condurrebbe a denunciarne troppo facilmente la pedofilia manifesta, senza considerare la potente denuncia delle nostre ipocrisie che essi inaugurano. Alcuni risalirebbero al periodo preislamico durante il quale la virilità non è l’unica virtù degli uomini, e nemmeno una loro esclusiva, e in cui non può essere virtuosa se non nel caso in cui riconosca la sua parte androgina, omosessuale o bisessuale. All’epoca, la poesia araba galante declamata da uomini in occasione di gare oratorie non riguardava solo le donne, tutt’altro; le più vibranti poesie erano indirizzate a degli uomini che non potevano essere nominati senza rischiare di incrinare la loro reputazione o d’attirare le rappresaglie di amanti gelosi. Più tardi, le Mille et Une Nuits offrono dei racconti in cui il desiderio si riveste di diverse intensità e sposa multipli volti. La sottigliezza della lingua autorizza delle metriche audaci che non possono sostituire i gesti, per quanto pudici. Il mondo arabo intrattiene una familiarità con le diverse espressioni dell’attrazione sessuale e amorosa, a cui il mondo musulmano si adatterà per molto tempo, molto prima e più durevolmente dell’Occidente cristiano. D’altro canto, lì come nelle società gerarchizzate, gli ambienti contadini non sono quelli che invitano alla scoperta dell’ars erotica ma quelli che le forniscono alcuni personaggi, e resteranno prigionieri di usi consuetudinari paesani, lasciando tuttavia degli spazi di tolleranza. Ma in generale, come degni eredi delle loro radici mediterranee, gli arabi accettano molto più facilmente, rispetto ai loro contemporanei cristiani, le “inversioni” che erodono la frontiera tra i sessi. Queer ante-litteram, forse, premuniti contro l’amnesia sicuramente. Un’amnesia che si dispiegherà sulle società del Nordafrica con i Lumi del colonialismo e i suoi seguiti migratori.

Padri fuori-luogo Il secondo episodio dell’amputazione della memoria si gioca qui, in Francia, nella persona dei padri e nella repressione delle loro abitudini fuori-luogo. Essi saranno l’oggetto di un mercato truffaldino di scambio di pratiche culturali, come prezzo da pagare per il trapianto e l’acculturazione che l’accompagna. Questo scambio, imposto a degli uomini a lungo giudicati e malgiudicati dal colonizzatore e poi dal padrone, figure simmetriche 218

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di una stessa dominazione, sarà poi dimenticato dai loro figli, gli arabi di banlieue. Immaginiamo per un istante la reazione di un caposquadra o di un collega francese alla vista di operai che arrivano il mattino alla catena di montaggio e si salutano con un abbraccio inframezzato da baci: come non ripensare all’ambiguo disgusto del caffettiere di Céline al pensiero di questi gesti “fuori-luogo”. Gli uomini moderni si sono convinti d’aver guadagnato faticosamente la loro autonomia attraverso il diritto di mettere il corpo dell’altro a distanza, per meglio poter scegliere quelli con cui intratterranno relazioni elettive, simbolizzate da una stretta di mano virile (tutta la letteratura e il cinema sono ricolmi di esempi di questi gesti che istituiscono la partizione dei sessi e delle età). L’intrusione d’altri usi nel santuario operaio maschile non può che essere rigettato ai margini, sanzionando la violazione di questa frontiera corporale, soprattutto quando è trasgredita da degli uomini ascrivibili all’indigenato arabo-musulmano, sospetto più che mai. Gli uomini che incarnano la parte dominata della modernità industriale, tenuti a osservare le regole della virilità operaia, non possono che guardare con inquietudine e spavento questi abbracci che rifiutano di comprendere e classificano comodamente al rango di sopravvivenze rozze, situate vicino alle tendenze inconfessabili. Lungo il corso dei decenni e dell’usura operaia, i «lavoratori immigrati maghrebini» hanno appreso la stretta di mano, la comodità relazionale che procura, allentando la morsa del sospetto e del rigetto, orientando la loro hexis corporale dal lato occidentale, per scacciare la disapprovazione. Questi nuovi gesti di civiltà se li sono in seguito imposti a vicenda, stringendosi la mano nel mondo “civilizzato” e pubblico del lavoro e riservando gli abbracci agli incontri nello spazio privatizzato del quartiere e nelle grandi occasioni private: riunioni in sala di preghiera, feste familiari o rituali. Hanno così applicato il dogma virilista ai gesti più incorporati, quelli del saluto mutuale. In questa occidentalizzazione delle posture, il virilismo non è dalla parte che solitamente si crede, è decisamente a ovest, in un Occidente cristiano eterosessuato. L’aspetto del tutto inatteso di questa occidentalizzazione è vedere oggi quella parte di musulmani oscillanti tra integralismo e fondamentalismo predicare la stretta di mano non solo tra sessi ma anche tra fedeli. La perdita dell’abbraccio è il frutto di un contatto asimmetrico tra questi due mondi eredi di uno stesso passato mediterraneo e tuttavia resi stranieri l’uno all’altro dall’episodio coloniale. Incorporando lo stesso ritegno dei loro padri, cercando di inventare i loro propri codici di saluto, i figli di questi operai non hanno riscoperto i gesti abbandonati e si sono spostati dalla parte della gestualità dei ghetti neri americani, infondendogli una tonalità araba, in cui la mano sul cuore infra219

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mezza la stretta di mano, gradita in un contesto in cui la fine degli usi sociali ereditati dal mondo operaio esige l’invenzione di nuovi codici che non rinneghino il principio virilista occidentale fin nella sua versione violenta. Ma da dove viene la deriva che li porta alla chiusura? Gli adolescenti non si danno il bacetto al contrario delle adolescenti. Sono fedeli ai costumi del gruppo di pari più che a quelli dei loro ascendenti arabi. Se il restringimento del loro registro comportamentale non è direttamente ereditato dalle sopravvivenze fragili di una tradizione incerta, da dove viene?

I figli confinati nel rifugio di una eterosessualità violenta [Tale restringimento viene, n.d.t.] Dalla prima modernità – non quella che si interroga sui suoi limiti, le sue derive e la sua legittimità – ma quella che intendeva trionfare su tutti gli arcaismi, tra i quali hanno avuto un posto preminente l’inversione e l’indeterminazione sessuata, espressioni della forma più sospetta di dipendenza in contrasto con lo sforzo d’autonomia. Se la prossimità dei corpi maschili ritrova oggi tutto il suo prestigio, fino al punto d’essere un nuovo segno di distinzione e d’elezione, tra uomini illuminati che sanno discernere tra affetto e perversione, tra rimozione e ritegno, i ragazzi dei quartieri sono condannati a strafare sul registro della virilità brutale, in fin dei conti sconfitta. Mentre i discendenti dei migranti del Nordafrica, arabi ed ebrei, in ascensione sociale, diffondono usi che non hanno dimenticato e si dedicano ai riti di amicizie virili liberatrici, eufemizzate e mediatizzate (chi oserebbe offendersi a vedere due uomini famosi baciarsi per salutarsi in città o in televisione?), altri, assegnati a residenza nei loro quartieri, sono diventati i sorveglianti del loro stesso corpo, gli assedianti del loro sesso. Erigono in insulto supremo il fatto d’essere omosessuali (a parità con la mancanza di rispetto verso «tua madre») mentre i loro congeneri ben in vista o «di buona famiglia» si guardano bene dal farne un insulto (salvo che per alimentare la macchina dello spettacolo). Laddove il coming out autorizza, addirittura preconizza, l’espressione singolare della propria sessualità, fintanto che rimane educata e rispetta le convenzioni della decenza, i giovani dei quartieri sono tenuti a schiacciare le loro pulsioni, rinchiudendole in una sessualità violenta, per prevenire il rischio di tradire una omosessualità vergognosa. Banditi dagli spazi pacificati del riconoscimento asessuato, della promozione della mixité dove, al contrario che nei quartieri, non è bon ton proferire insulti omofobi, i ragazzi arabi sono gli ultimi bravi allievi di un machismo obsoleto. Per essere all’altezza del compito, era meglio dimen220

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ticare il passato dei loro padri, i cui abbracci possono venir usati contro di loro. Dimenticano così che lungo il corso dei secoli, tali abbracci non sono stati esposti alla condanna, ma hanno invece tradotto la coesistenza di una tolleranza discorsiva ed espressiva delle diverse tendenze sessuali con la loro repressione ufficiale. Notiamo a tal proposito che la recente tendenza di eseguire processi agli omosessuali nel mondo musulmano (in Egitto ancora recentemente) coincide con una forma di revisionismo storico, fondato su una matrice coranica privata di ogni esegesi umanista, che permette l’amnesia volontaria e nega la pluralità delle fonti culturali e religiose dei paesi del bacino mediterraneo, l’intensità e la ricchezza dei loro scambi all’interno di uno spazio braudéliano. Per riprendere l’espressione d’Olivier Roy, questi giudizi denotano «paradossalmente un segno d’occidentalizzazione» e non fanno che «riutilizzare le categorie dell’altro, anche se per assegnarne un segno negativo». Ed è proprio lì il paradosso dei figli degli immigrati arabi di Francia: aver assunto le rappresentazioni residuali di un mondo operaio al quale non vogliono più appartenere. Se queste hanno in passato cementato i destini operai e compensato l’impotenza a scalare la gerarchia sociale, esse servono oggi a negare i segni identitari dei loro genitori assunti al rango di caratteri “ambigui”, viziosi. Così, contrariamente alla visione manichea compiacentemente educata, i ragazzi dei quartieri non sono geneticamente votati a una eterosessualità violenta: ci fu addirittura un tempo in cui l’omosessualità, praticata o latente, faceva parte del paesaggio dei costumi, senza disgustare i loro antenati. Non si tratta qui di cedere a un angelismo ingenuo ma di ristabilire la complessità di una realtà occultata da quelli che non hanno voluto leggerla nelle opere letterarie per non vederla nel mondo. La modernità occidentale, quella che si propone d’essere univoca, ha cancellato questi usi secolari perché appartenevano a un altrove che bisognava squalificare per sottometterlo. Con la relegazione virilista, amputazione della parte femminile, ecco a cosa i piccoli macho delle banlieue sono destinati: a essere bannati e maledetti. Confinati nella gabbia di una eterosessualità violenta da coloro che li disprezzano, ci rimangono volontariamente, terrorizzati dal rischio di lasciar apparire una qualsiasi tendenza all’effeminato. Eccoli, impegnati a rimuovere tutti i segni d’affetto e d’attaccamento che altri, più attenti, si sono adoperati per prendere in prestito dal mondo arabo e mediterraneo, che ne siano discendenti o meno, per farne l’espressione più compiuta e più inseguita dell’emancipazione dal “regime vittoriano”. Queste dita incrociate, queste mani nelle mani, questi abbracci calorosi, questi baci su guance rugose o imberbi, su fronti venerabili e rispettate, questi intrecci misurati o energici, altrettanti gesti che legano e rilegano i corpi maschili 221

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nel mondo arabo, annodano e snodano maschile e femminile. Altrettanti prestiti, copiosamente e visibilmente praticati da uomini occidentali impegnati a dimostrare una mascolinità dai contorni sfumati, emancipata dalla sua rigidità fallica, felice d’esprimere una sensualità allusiva, di dare spazio a una affettività per troppo tempo e ingiustamente riservata alle donne. Messi al margine di questa illusione festiva, i ragazzi dei quartieri sono ridotti al machismo mimetico, trito, obsoleto, e ai suoi attributi: i contatti limitati alle mani, a una gestualità ibrida, spazio d’inventività troppo spesso misconosciuto, o alla stretta necessità dello scontro, del gioco sportivo, allo sputo (sembra di sentire il tfou, il segno del disgusto), risorsa inesauribile per adolescenti che tentano di mostrarsi, immagine sublimata dell’eiaculazione, il rapporto amoroso e la stima di sé distrutti al momento dell’entrata per effrazione nel corpo della donna desiderata.

Condotte a rischio e assenza di cura di sé Senza dubbio è necessario vedere, in queste modeste risorse, quale sia il sostrato che autorizza a etichettarli come incivili, quando sono innanzitutto dominati e alienati. Le conoscenze erudite dei costumi sessuali nell’islam e della loro espressione discorsiva e letteraria ci avvicinano a una civiltà dei costumi e ci allontanano da una bestialità precivile i cui tratti perdurerebbero ancor oggi nelle fibre dei ragazzi delle banlieue. Questo controsenso cristallizzato negli stereotipi prima coloniali e successivamente borghesi permette il dominio, l’addomesticamento e, dunque, il confinamento dei ragazzi arabi dei quartieri in un paralizzante involucro virilista. Tagliati fuori da un passato ricco e complesso, eccoli ridotti ai ghigni del vizioso e del macho, costretti a conformarsi a una sessualità esacerbata che non può che attirargli riprovazione e dei seri problemi legali. Il virilismo, espressione oltranzista di una mascolinità contenuta entro i suoi più stretti limiti sessuali, offre infatti il vantaggio d’illustrare la prossimità ideologica, già sottolineata da Foucault, tra perversione e delinquenza, entrambe ugualmente praticate, si sa, dagli arabi delle cité. Questi conglomerati di devianza sono dunque doppiamente riprovevoli rispetto alle regole della civiltà, organizzate intorno alla correttezza sessuale. Una disapprovazione confortata dalla promozione, tardiva nelle nostre società, di una retorica della tolleranza sessuale fondata sul rispetto del consenso, apparentemente estranea ai costumi dei giovani arabi dei quartieri. Essi alimentano l’equivoco essendo altamente realistici nel loro disprezzo per le donne e gli omosessuali. Deliziando i loro contesta222

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tori, ravvivano docilmente la rappresentazione omofoba del mondo che ha per tanto tempo prevalso nell’Occidente cattolico, proprio quando diviene politicamente scorretta, senza accorgersi che tradiscono il loro passato e si relegano in un presente senza futuro. Esagerando la divisione eterosessuale, i giovani arabi delle cité non fanno che alienarsi ancor più a una cultura dominante, lasciandosi così dettare chi devono odiare e distruggere: all’occorrenza, loro stessi. Odio e distruzione che si comunicano anche nel silenzio, nel mutismo nel quale si intrattengono a vicenda: alla legge del silenzio obbediscono la frustrazione e la sofferenza dei sensi. Privati di complessità sessuale, sono anche privati della parola per dirla e dire la sua assenza. Come per le ragazze velate, tutti parlano al posto dei ragazzi arabi. Quando essi prendono parola, è per tenersi nel registro atteso della confessione, della denuncia e della minaccia, venendo contenuti nella clandestinità di voci deformate da artifici mediatici, e per restare senza volto, silhouette sfocate sullo schermo del nostro immaginario televisivo. Quale sarebbe la loro parola se gli fosse accordato il diritto di parlare? Saprebbero, come l’amante di lady Chatterley, parlare al loro sesso come al complice di tutti i piaceri ritrovati e come all’oggetto della loro liberazione, e non come al corpo del delitto che è diventato sulle pagine di cronaca? L’assenza di cura di sé procede innanzitutto da una propensione a perdere di vista l’altro e a una impossibilità di ritrovarlo, in sé come davanti a sé. L’altro omosessuale, l’altro femminile, l’altro in tutta la sua differenza e somiglianza. I giovani delle cité sentono spesso una grossa difficoltà a accettare la complessità della loro identità sessuale e a riconoscere questa stessa complessità alle ragazze che avvicinano. Nessuno spazio per l’androginia o per le sfumature delle frontiere sessuali: è sufficiente ascoltare gli educatori specializzati parlare della sofferenza identitaria degli adolescenti che censurano i loro dubbi o i loro desideri per non subire l’esclusione del gruppo di pari. Rinunciando all’alterità, sono condannati a fare il gioco di un’illusione: credere che la violenza sia una risposta alla loro sofferenza. Esercitandola su altri, se l’infliggono. Lo stupro non è solo un abuso di potere, un crimine vigliacco, è anche l’abolizione dell’umanità di chi lo commette. Ogni violenza, soprattutto se conforme allo stereotipo diffuso, segna l’impossibile accesso all’altro. La relegazione nel virilismo conduce i giovani dei quartieri, interamente occupati a salvare un onore che ha da molto tempo lasciato il suo involucro femminile, a rinviare la loro brutalità sulle più dominate e più vulnerabili di loro: le ragazze dei quartieri. Il sessismo sfrenato, col suo appello alla cara, vecchia misoginia, rimane così l’unica risorsa per ragazzi che si ritrovano a essere prigionieri di un virilismo alienante. Resta loro la 223

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strada stretta della predazione sessuale, del riportare le ragazze allo status di oggetto sessuale, trasformando la loro femminilità in condotta rischiosa. Contrariamente alle apparenze, il rischio è condiviso, potenziato dal mutuo confinamento che conduce a una distruzione subita e restituita. Ma in questo gioco pericoloso non è il ragazzo arabo a correre più rischi. Se i rapporti sessuali violenti sono una condotta a rischio per uomini e donne, impongono un costo esorbitante per quest’ultime. Innanzitutto, perché il semplice fatto di rivendicare la propria femminilità, la propria féminitude, è una condotta a rischio e espone quelle che non vogliono sottostarvi, nel migliore dei casi, alle tute o all’imitazione della violenza verbale e fisica dei ragazzi, nel peggiore dei casi a delle “transazioni” forzate. Inoltre, essendo intrappolate negli stessi problemi identitari dei loro predatori, non sono nella posizione migliore per proteggersene e introdurre un’alternativa pacificata a relazioni troppo intime e vicine, in particolare a causa della segregazione spaziale. Le solitudini parallele non facilitano affatto una situazione così complessa. Così, mentre la dilatazione del sé (un altro modo di perdere di vista l’altro) è di moda negli ambienti protetti, la contrazione identitaria è d’obbligo nei quartieri esposti a ogni insicurezza. Se la confusione dei generi si prende gioco di ogni tabù nelle cerchie cosmopolite, è invece fortemente proibita in certe riserve indigene.

Strade senza uscita? È dell’indigeno e della violenza generalizzata che ne ha accompagnato le sue metamorfosi ciò di cui si parla: i quartieri periferici sono diventati quelle riserve che non sono più le colonie indipendenti. I figli degli indigeni d’allora non hanno avuto grosse difficoltà a entrare nella pelle dell’eterno immigrato, asservito nel suo stesso corpo, disfatto nella sua sessualità, costretto a esercitarla nella maniera più alienante che esista: rinforzando i pregiudizi occidentali sulla natura degli “Arabi”. Perché gli arabi delle cité sono sicuramente più prigionieri del proprio involucro corporale di quanto lo siano concretamente dei muri delle loro cité isolate. È partendo da questa costatazione che l’analisi della sconfitta dei quartieri può infine sfuggire alla seducente assonanza, «uscirne per cavarsela».3 Questa affermazione, docile erede dell’individualismo metodologico, fa pesare la responsabilità esclusiva della riuscita o del fallimento sui giovani e scagiona allo stesso tempo le istituzioni dai loro obblighi e dalla loro obsolescenza. Questo tipo 3  «Sortir pour s’en sortir».

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d’enunciato può vantaggiosamente essere rimpiazzato da quello di Proust che parodia Amleto, «esserci o non esserci», ricordato dai critici queer della letteratura francese. È d’obbligo constatare che se le rivendicazioni identitarie minoritarie si incentrano sulla religione, la razza, la lingua e altri tratti culturali ed etnici, sono lontane dall’aver incluso le questioni sessuali, ancor più gli effetti disastrosi della reclusione virilista. Si fatica a sentire un dibattito sui sessi e i loro rapporti, il femminismo e la sua possibile mixité. Constatando la sua assenza, possiamo sbrigativamente concludere che gli arabi dei quartieri siano incapaci di impegnarsi in questo dibattito politico. Ciò accrediterebbe d’altronde l’idea di una incapacità identitaria che intralcia la loro comprensione e ne fa dei premoderni. È probabile che questo terreno non gli sia stato mai aperto e che, al contrario, sia diventato la riserva di caccia d’intellettuali universalisti. Forti di questo invito a tenersi a distanza da questioni ben troppo sottili per i loro spiriti bruti, si sono dispensati dal porre le domande giuste, pronti in uno stesso movimento a diventare carcerieri per loro stessi e per le «loro» donne. Tuttavia, quest’ultime sono le promotrici di due eccezioni significative. Una proviene dalle ragazze che rivendicano l’islam – alcune portando il velo – in tal modo instaurando uno spazio “sacro” in cui è vietata la predazione sessuale e che le permette – ed è cosa che non si privano di fare – di contestare delle pratiche patriarcali in nome di una lettura situata dei precetti coranici. L’altra si trova inscritta nelle premesse del manifesto npns4 scritto da una “quadra” araba che, dopo essersi impegnata nella «marche des Beurs» del 1983 e aver atteso il «grande giorno», s’è arresa all’evidenza dell’abbandono delle donne delle cité e denuncia tutti gli aspetti umilianti e disperanti d’una vita in esilio condivisa da due generazioni di donne migranti e non. Queste premesse sono state dirottate in seguito in un movimento in cui si combinano opportunismo politico e sottomissione a una religione civile repubblicana. Tuttavia, nel tanto svalutato contesto popolare, una salutare confusione dei generi potrebbe prendere il posto di un ripiegamento su identità sessuate e su una loro asimmetria durevole. I fremiti sono ancora poco visibili; guadagnerebbero in audacia se fossero riconoscibili quando si presentano nascosti all’ombra di stereotipi confortevoli. L’altro percorso che riannoderebbe i fili della memoria ci viene da questo passato dimenticato e dalla sua risonanza nella Francia di oggi. Recuperare la memoria, la memoria del proprio corpo, lottare contro l’amnesia come si lotta contro un sonno che potrebbe diventare di piombo, ridarebbe senza dubbio 4  Ni Putes Ni Soumises, Né Puttane Né Sottomesse.

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ai figli degli immigrati arabi in Francia la parte maledetta che gli manca, come un arto amputato che causa dolore: la loro parte femminile, che essi non cessano di scrutare in un faccia a faccia aspro e solitario con le sorelle che non conoscono e con le donne che desiderano; la loro parte maschile pacificata, che non cessano di pesare e soppesare in un colloquio miserabile con i loro amici, concorrenti, complici. Quanto alla loro parte androgina, questa omosessualità che pretendono assente, ma che un passato polisemico rivela nella sua latenza, sono disgustati dall’idea di accettarla. Tuttavia, se a questo rimosso non viene restituito il suo giusto posto, i ragazzi potrebbero esservi riportati nella peggior maniera che ci sia, come troppi giovani di cité che si prostituiscono e cumulano l’umiliazione di essere una merce con quella d’essere obbligati a una sessualità che odiano, ultimo ricordo ghignante della loro amnesia, d’un rifiuto che pagano a caro prezzo.

La deriva naturalista e la sua icona, la ragazza ribelle Se gli echi che provengono dall’arena politica francese rendono perplessi, non è solo perché il 2003 è stato investito dal rumore e dal furore di un dibattito sulla laicità che cominciamo appena a decifrare e i cui effetti si faranno sentire per molto tempo. È senza dubbio più perché gli utili idioti di questo dibattito sono ormai legione e al primo posto da una parte ci sono le “beurette”, nuove figure della ribellione, risuscitate dal movimento reazionario npns, e dall’altra i loro doppi: i ragazzi arabi. Perché contrariamente a quello che la geometria del razzismo virtuoso descrive, le “ribelli” non erano destinate a giocare il ruolo di vestali di una repubblica, innalzata a delle altezze inaccessibili, a cui bisogna consegnare dei capri espiatori. Senza questi ultimi, npns non sarebbe stata consacrata sul frontone dell’Assemblea nazionale o insignita del premio, consegnato dai deputati, per il miglior libro politico. Senza di loro [npns, n.d.t.] forse non avrebbe scelto la facile via della vittimizzazione. Come per i loro fratelli nemici, si rende necessaria una breve genealogia delle ragioni della deriva. npns è una emanazione dell’ordine morale universalista astratto eterosessuale. Si tratta di una curiosità antropologica, perché i membri del movimento sono, per la maggior parte, dei discendenti di migranti postcoloniali e/o dei discendenti d’operai, ora portati a incorporare tardivamente la retorica del dominante, quella dell’emancipazione attraverso 226

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l’uguaglianza. Il movimento sarebbe dunque l’ultimo supplemento di una vulgata essenzialista eterosessuale che ha spazio nelle pagine di dibattito del magazine «Elle». Per il mantenimento dell’ortodossia, il carattere binario, essenzializzato, asimmetrico e concorrenziale dei rapporti donne/ uomini dei quartieri è determinante, e permette di comprendere come i due stereotipi all’inizio circoscritti hanno potuto disseminarsi nell’insieme della società francese. L’acme è stato raggiunto quando il velo islamico, è stato considerato come rivelatore della correttezza del messaggio più di coloro che lo portano. Parlo appositamente di messaggio, nel senso che la magia delle parole e dei segni ha saturato lo spazio pubblico, facendo di ognuno un fedele o un eretico, disegnando le volute indecifrabili di percezioni irrazionali, eludendo la democrazia, diventata prigioniera della dottrina dello scontro di civiltà. npns non è pensabile e possibile che in un mondo eterosessuale, è prodotto e produce a sua volta una visione culturalista e ri-naturalizzata di ragazze e ragazzi che rinforza la divisione dei ruoli e il capovolgimento, iniziato da due decenni, nella gerarchia tra donna e uomo, migranti postcoloniali, e tra i loro discendenti. È allora che si mette in moto un regime concorrenziale in cui si svolge l’ultimo atto per cui le donne migranti e le loro figlie devono vincere, anche senza mezzi, contro i loro uomini. Per comprendere come il movimento sia diventato centrale nell’organizzazione dei rapporti di forza sessuali e politici, bisogna tornare a due momenti. In un primo tempo, una presa di parola inedita, durante gli stati generali delle donne delle cité tenutosi a La Sorbona nel gennaio 2002, viene a concludere un periodo di inchiesta e di individuazione dei problemi sul territorio redatti in un “libro bianco”. Molto velocemente, sarà redatto un manifesto, poi un appello da firmare, ospitato sul sito della Federazione nazionale delle maisons des potes, emanazione di sos Racisme, vicino al partito socialista, poi pubblicato sul «Nouvel Observateur»: è l’inaugurazione di una campagna mediatica e il lancio di una sigla controllata – Ni putes, ni soumises. Il ribaltamento di questa presa di parola che si presenta come democratica inizia dopo l’8 marzo 2003, data dell’arrivo a Parigi di una marcia delle donne dei quartieri che ha attraversato la Francia attirando l’attenzione dei media. Da allora, la strumentalizzazione del manifesto servirà alla promozione di persone e parole d’ordine. Tutti si precipitano sul logo rosa per portarlo al collo, riducendo l’obiettivo iniziale a una campagna ideologica che non s’è per nulla attenuata da allora e che, dimensione assolutamente centrale, designa il responsabile, lo Stato, e i colpevoli, i ragazzi arabi. 227

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Per comprenderne la forza federatrice, fermiamoci un momento sullo slogan, perché già annuncia il capovolgimento. Anche se questa interpretazione è respinta dai membri del movimento, le parole “né puttane, né sottomesse” s’indirizzano agli uomini dei quartieri e non a tutti i sessisti. Non pretendono di denunciare l’incuria delle politiche pubbliche che ha lasciato crescere i ghetti, ma il comportamento machista, violento, incivile degli uomini con cui le donne sono costrette a convivere. È d’altronde proprio così che lo capiscono i detrattori (donne e uomini), per nulla scioccati dalle parole, ma dall’obiettivo riduttore della parola d’ordine. Per molti, il movimento si propone di svolgere, al posto degli attori politici, il lavoro sporco della designazione dei colpevoli. Gli Arabi parlano agli Arabi, ascoltate i disalienati che parlano agli alienati… L’associazione costituitasi a partire da una marcia ambigua, tra trionfo mediatico e critica locale durante accesi dibattiti, occulta velocemente la prima marcia del genere, quella per l’uguaglianza dei diritti del 1983. Ottiene dallo Stato, oltre a delle sovvenzioni fino ad allora raramente accordate a delle associazioni operanti da lunga data nel campo dei diritti delle donne o della pianificazione familiare, anche un riconoscimento opportunista, giunto fino alla manipolazione dei simboli repubblicani. Così è per la campagna delle Marianne dei quartieri affissa sul frontone dell’Assemblea nazionale, in cui i volti stereotipati di giovani donne devono enunciare la diversità della repubblica, visione che contrasta con le ultime descrizioni di una repubblica ridotta a una bomba sessuale. Del resto, questa campagna avrebbe potuto essere una buona notizia se i suoi promotori non si fossero premurati di prendere sul serio l’idea che Marianne fosse una donna e non un’allegoria: per loro, il massimo dell’audacia consiste a dare oggi a Marianne un genere, quello femminile, una carnagione scura o nera, un esotismo che ricorda le donne indigene, già un tempo rappresentazione della generosità della repubblica e della ricchezza dell’impero. Con le donne così impegnate in questo esercizio di immaginazione di una Marianne paradossalmente essenzializzata, non è allora possibile pensare di darle dei tratti maschili, di uno dei militanti di npns per esempio. Ai colpevoli, i ragazzi arabi, utilizzati senza sosta e messi in scena mediaticamente nel ruolo del cattivo, il movimento, ormai adornato delle virtù più eroiche, può estorcere delle compensazioni simboliche infinite, il pagamento di un riscatto. Perché più sono veri nel loro ruolo di “ragazzi arabi”, al quale, non cadiamo nell’angelismo, una minoranza di ragazzi dei quartieri squalificati s’applica senza ritegno, più contribuiscono a rinforzare la credibilità e il prestigio di npns, e pagano caramente, fino 228

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all’ultimo centesimo, il loro ruolo di comparse attive. Oltre agli stupri collettivi, una forma di sessualità deviante presente da sempre ai margini di tutti gli ambienti maschili e che, per la magia del clamore mediatico, sono diventati la prerogativa, se non l’esclusiva, degli arabi delle banlieue, la condanna dei raggruppamenti nelle hall dei palazzi segna il prezzo da pagare a quelli che sono i nemici naturali delle “ribelli” e dei loro numerosi alleati. Il faccia a faccia, così riprodotto, rinnova la messa in concorrenza delle ragazze e dei ragazzi in regime di segregazione urbana, d’ineguaglianza, prodotto dell’individualizzazione dei rischi sociali e delle discriminazioni incrociate.

Docilità, femminilità, cecità Da vent’anni, come vuole la gestione dell’eredità femminista, l’inerzia è in favore delle ragazze. Ma perché ne traggano vantaggio, devono accettare l’assegnazione alla differenza che ne è il corollario, e dunque assumere un’identità sessuale essenzializzata. Poiché è contenuta nel loro sesso, l’origine le predetermina, indifferente alle lotte e ai dibattiti più recenti e più sovversivi. Un femminismo per la-donna in cui l’eredità coloniale non è là dove l’attendiamo: non nella denuncia delle conseguenze della dominazione coloniale, che era anche una dominazione dei corpi delle donne indigene, né nel rifiuto delle rivendicazioni complesse dei discendenti d’immigrati ex-colonizzati, ma nella commemorazione rispettosa delle “veterane” del femminismo, che sono prese come modello di accesso all’universale, garanzia di purezza in questi tempi di doppia stigmatizzazione. Insieme alle “femministe storiche”, tra cui alcune militano per procura, intendono dimostrare il ritardo accumulato nelle banlieue in fatto di uguaglianza di diritti e di libertà, ultimi bastioni del sottosviluppo sociale, ma certo non ultima sopravvivenza di mondi postcoloniali intrecciati coi mondi immigrati e operai. Esse sostengono dunque una causa specifica, quella delle donne dei quartieri, e non è allora sorprendente che il movimento abbia raccolto una eco particolarmente favorevole tra le madri migranti, le più grandi, quelle per le quali risuonano le questioni di reclusione e di distanza con la società d’accoglienza. Tutto avviene come se l’adeguatezza del movimento si producesse con uno scarto generazionale: ricevendo favori dalle madri e dalle immigrate recenti, potendo infine prendere parola vicino a delle archeo-femministe che rifiutano di abbandonare una vulgata la cui efficacia è tuttavia contestata dalle giovani generazioni di uomini e donne. La denuncia dello status particolare, 229

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retrogrado e violento, riservato alle donne e il sostegno senza condizioni che gli è garantito, dispensano dall’interrogare le forme contemporanee di dominazione e i mezzi sottili che mobilitano: dominare le donne attraverso degli uomini anch’essi sottomessi. Senza dubbio è così che si comprendono le resistenze manifestatesi qua e là. Di fronte all’inaugurazione di uffici locali di npns e alle reazioni d’indignazione, un collettivo misto, «Ni proxo, ni macho», s’oppone al messaggio dominante di demonizzazione. Di fronte al molle consenso alla proibizione del foulard islamico, il collettivo «Una scuola per tutti e tutte» propone un uguale accesso all’educazione e denuncia l’uniformizzazione degli alunni a scuola. Infatti, l’urgenza è altrove, dove la coesione della società francese in cerca di un’identità post-nazionale in un’Europa a venire necessita che si rimettano in riga i bravi piccoli soldati e soldatesse d’un repubblicanesimo in cerca di una nuova trascendenza, la laicità non-questionabile, e un universalismo astratto pronto a stringere una alleanza “contro natura” con la femminilità. Perché la Francia lo val bene. Gli esempi d’icone del femminismo politicamente corrette abbondano e si rispondono. Ad esempio, quando la presidente del movimento npns, Fadela Amara riceve un premio per la lotta in favore delle donne, conferito da Eve Ensler, autrice dei Monologhi della vagina. In occasione di questo incontro ai microfoni di una radio, la “ribelle” scopre il testo e il suo impatto planetario ed è portata, senza indugi, a lanciarsi in una rivendicazione performativa del diritto per tutte le donne dei quartieri a parlare della loro vagina, con l’organo sessuale e i suoi usi che si mostrano attraverso la ripetizione ad libitum della parola, insistendo su come niente di tutto ciò fosse possibile fino ad allora e affermando senza distinzione alcuna come la sessualità e la sua enunciazione siano bandite da quei luoghi. Ma la performance di genere di Fadela Amara raggiunge i suoi limiti discorsivi e normativi, perché non consiste a liberare la parola e l’organo per risignificarlo, significa invece il trionfo della femminilità che ricorda i suoi attributi naturali. L’enunciato riveste un carattere trasgressivo se si considera la denuncia delle porte chiuse donne/ragazzi, ma attraverso la sua naturalizzazione dell’organo, circoscrive i limiti ragionevoli della trasgressione. La femminilità ritrovata in tutta la sua pienezza attraverso la presa di parola non è in nessun momento decostruita e ricostruita, sfigurata e riconfigurata: la norma eterosessuale della procreazione non è messa in discussione nelle sue fondamenta. Ciò che avrebbe permesso un elogio improvvisato e sostenuto della clitoride. Più in generale, adoperandosi così bene a rivendicare ciò che rende donna, arrivando fino a «ma230

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trocinare» una campagna di scoperta di ragazze, stiliste in erba, lanciata da «Elle», il movimento, attraverso la voce della sua presidente, assegna le donne in nome delle quali pretende di parlare a una natura intangibile che bisogna aiutare a esistere senza intralci machisti. Questo obiettivo non intende contestare l’ordine eterosessuale binario e inasprisce i tratti, simmetricamente naturalizzati, dell’oppressore che impedisce alle donne di sperimentare la loro femminilità: il ragazzo arabo.

Richiamo all’ordine naturale Si leggono qua e là altri esempi di assegnazione a una femminilità inderogabile che sarebbe il terreno delle donne dei quartieri. Essendo la femminilità una condotta letteralmente a rischio, così come il suo abbandono verso delle identità più complicate, e allo stesso tempo il miglior vantaggio in un mondo diviso tra femministe e machisti, non è sempre facile distinguere le une dalle altre. Ad esempio, la trasmissione televisiva si chiama Tout le monde en parle e l’invitata è Diam’s, rapper francese di madre cipriota e aperta sostenitrice di npns. Dopo averla presentata raccontando senza remore e a suo nome la sua storia, offrendo un esempio calzante di come operi la confisca della parola, e insistendo particolarmente sui momenti in cui “ha fatto la caillera (teppista, n.d.t.)”, prendendo in prestito e esagerando dei comportamenti maschili, l’animatore Thierry Ardisson conclude con questa domanda che suona come un richiamo all’ordine: «Allora adesso, Diam’s, assumete la vostra femminilità?» La sua risposta è stata… «Sì!» Senza commento? Certo, perché si tratta di un discorso machista tenuto in un regime protetto e esposto, la televisione, da un uomo al di sopra di ogni sospetto, almeno credo fino a un certo punto, che vuole chiaramente richiamare a un ordine di posizioni e a una partizione sessuale che non soffra di alcuno scarto performativo. La risposta docile che contrasta con i testi della giovane rapper risuona con l’analisi che Marie-Hélène Bourcier ci offre della performance di genere di Samira Bellil, così come la racconta nel suo libro. Bourcier spiega che Samira Bellil ha trasgredito sin dalla sua prima adolescenza (segnata da una figura materna ambivalente) le frontiere sessuali dedicandosi alle scenate, all’insulto, alle volgarità, alla seduzione e al furto, tutte attività conosciute come proprie del mondo maschile. Prenderle in prestito confina con l’aggressione sessuale, con l’incursione su un territorio inedito e accresce il disagio di ragazzi pesantemente sottomessi dall’assegnazione a residenza e da un’identità delimitata dai 231

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mondi istituzionali (scolastico, familiare, poliziesco). Ciò che è percepito come una concorrenza sleale delle ragazze potrebbe allora condurre a scontri la cui violenza è proporzionale alle forme di confinamento subite. La simmetria è stabilita dalla trasgressione e deve essere annullata. Lo stupro è allora il richiamo brutale delle ragazze alla natura femminile da cui provengono e contribuisce al loro controllo sociale da parte di ragazzi minacciati da questa incursione angosciante. Lungi dall’essere un semplice atto di sottomissione del sesso che deve rimanere debole, l’eterosessualità violenta e la sessualità esacerbata che l’esprime sono anche la conseguenza di una concorrenza selvaggia di ragazze e ragazzi di classe popolare in un regime di scarsità di risorse. Il film L’Esquive, di Adbellatif Kechiche, contraddice queste visioni binarie illustrando, tra finzione e documentario, i prestiti e gli usi imprevisti di attributi sessuali tra ragazze e ragazzi, molto più frequenti di quanto non lo lasci intendere la retorica vittimizzante dominante. Quando la ragazza araba, stufa dell’aggressività verbale e umiliata dalla violenza fisica di un adolescente arabo, gli dice per chiudere la conversazione: atai (in arabo frocio, letteralmente, colui che si dà), lo tocca là dove sa che fa male. Quest’ultimo, distrutto, non può d’altronde neanche risponderle, e se ne va, dandole le spalle, umiliato. Ultimo esempio in cui la realtà supera ciò che già non è più solo finzione: il match legalista tra Sarkozy (Nicolas) e Ramadan (Tariq), due uomini che sanno parlare alle donne… per conquistare la palma del femminismo. Il movimento reazionario npns ha arruolato delle nuove reclute inattese e ha reso Nicolas Sarkozy un femminista improbabile e zelante. Durante tutto il suo regno a place Beauvau (Ministero degli Interni, n.d.t.), si è prestato al gioco, ergendosi in ogni circostanza come il difensore delle donne minacciate, che siano violate o velate. Non l’ha fatto solo attraverso un arsenale giuridico proibizionista che ha per obiettivo di criminalizzare, d’un lato, la «caillera» che terrorizza le ragazze nei quartieri fermandosi nelle hall degli immobili (sic!) dove i ragazzi stazionano da tanto tempo e, dall’altro, condannando l’adescamento passivo, facendo d’uomini e donne ugualmente stereotipati degli alleati oggettivi. L’ha anche lasciato intendere e vedere, mettendo in scena mediaticamente i suoi tentennamenti sull’opportunità di una legge che vieti il porto del velo. Vi ha insistito in ogni occasione, senza esitare a presentarsi come l’eroe delle donne oppresse e minacciate, rinnovando, siamo portati a credere, il gesto tipicamente francese del cavalier servante. È praticamente certo che il ministro dell’Interno sia un uomo e, in ogni caso, è d’obbligo constatare che prende sul serio il fatto d’esserlo, d’essere convinto e convincente in questo ruolo. È senza dubbio 232

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in quanto ministro e uomo che si è premurato di richiamare all’ordine repubblicano le ragazze velate davanti ai loro uomini, a meno che non si rivolgesse direttamente a quest’ultimi. Viene quindi ripresa la regola dello svelamento delle donne sulle foto d’identità, che ha tuttavia subito molte eccezioni (religiose cattoliche, madri immigrate in fichu5), ripetizione di un passato che reminiscenze potenti iscrivono nella nostra memoria collettiva: gli indigeni, donne e uomini, obbligati a svelarsi e scoprirsi per essere fotografati negli ultimi anni della colonizzazione in Algeria; quegli anni in cui Soustelle (governatore d’Algeria) tentò di riabilitare la dottrina dell’integrazione per assimilazione. Venne allora introdotta la schedatura, in vista della consegna di carte d’identità di Francesi musulmani, che li avrebbero resi dei “veri” cittadini, e procedette senza saperlo a un autentico sbranamento della loro identità. Balbettio della storia, perché non contento di risvegliare dei ricordi dolorosi, Sarkozy contribuisce, attraverso la sua dichiarazione di Bourget, a “minorizzare” le donne che mette in guardia. Si rifà a un diritto consuetudinario, che giustifica la minorità delle donne, messo in discussione nelle società dei loro antenati, «20 anni barakat», ora basta, come si è detto nell’Algeria post-guerra civile, salvo poi essere invalidato dalle riforme di certi Stati musulmani così impegnati a voler dare l’esempio a quelli che si son creduti i più progressisti [Sarkozy, N.d.T.]. Si fa senza saperlo l’alleato dei più reazionari o sa quello che fa quando chiarisce ancor più il punto pretendendo di fare la predica a Tariq Ramadan? Anche là, il destino delle donne e il loro abbigliamento sono nelle mani di retori che prendono sul serio il fatto di essere uomini e di parlare a loro nome. Sono proprio due uomini che dibattono su come devono andare in giro le donne e se bisogna lapidarle quando non si comportano bene. Minorazione del sesso senza dubbio giudicato troppo debole per dibattere di queste questioni altamente politiche, confisca della sua parola, ecco a cosa si risolve uno scambio con l’obiettivo di incastrare Ramadan che, dall’alto della sua posizione di leader musulmano, non ha evitato la trappola mobilitando un’argomentazione più dialettica. Quest’ultimo avrebbe potuto rifiutare i termini del dibattito e soprattutto affermare di non doversi pronunciare al posto delle musulmane, che sono abbastanza grandi e dotate degli strumenti per prendere le decisioni che le riguardano e combattere quelle che le opprimono, appoggiandosi in caso su una perfetta conoscenza del Corano. Piuttosto di indossare l’abito del femminista a buon mercato, recentemente convertito, questi uomini che si prendono sul serio farebbero bene a riflettere sulle virtù ancora nascoste ai loro occhi 5  Fazzoletto, scialle.

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della mixité democratica. Non è senza ironia che si osserva, dopo questo episodio che incendierà il dibattito confiscato sull’applicazione del principio di laicità, lo zelo con cui le voci di npns si faranno sentire per approvare e farsi portavoce, con una rigidità tutta repubblicana, dell’ingiunzione di Sarkozy a svelarsi. Grazie alle donne, velate o meno, che si scontrano sotto lo sguardo di falsa disapprovazione di musulmani troppo prigionieri della loro virilità per rinunciare a sottometterle, almeno in parole, ecco un ministro dotato di un brevetto di femminismo inossidabile. Queste diverse situazioni e i loro eco discorsivi o cinematografici dicono, se necessario, che il mondo al quale appartengono queste icone è fortemente sessuato per restare binario. Così, le omosessualità non esistono o, almeno, non hanno niente a che fare con il campo d’azione delle npns. Non possono pronunciarsi sul matrimonio omosessuale o sull’omo-parentalità, né sul riconoscimento del diritto dei e delle transessuali, tutte questioni che lasciano al loro tutore, produttore esclusivo di norme simboliche. Le npns si tengono docilmente nel perimetro di sicurezza retorico che gli è stato impartito, quello della «guerra dei sessi». Tutti sono convinti che in Francia questa guerra non c’è stata e non ci sarà, salvo che in un’enclave ben circoscritta geograficamente e mentalmente, quella dei e delle discendenti di migranti ex-colonizzati. Il commercio dei sessi, così caratteristico dell’eredità universalista dell’Illuminismo non può, non ancora, aver luogo tra dei giovani così poco civilizzati. E se le ragazze sono per forza migliori allieve, i ragazzi sono per conto loro gli asini o gli indomabili che bisogna condurre alla ragione con qualunque mezzo.

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indice

Pag. 7 le strade della teppa. pratiche, spazi e soggettivazioni delle culture di strada di Fabio Bertoni, Andrea Caroselli e Luca Sterchele 19 la “teppa” oltre la classe. ordine ed evasione nell’età dell’incertezza strutturale di Pietro Saitta 37 “la santa teppa”. le bande giovanili nell’immaginario del neofascismo italiano di Elia Rosati 53 «do you really believe in that shit, combo?». sottoculture giovanili, antirazzismo e vita quotidiana di Andrea Caroselli e Pasquale Schiano 69 in piazza. etnografia musicale delle piazze nel rap milanese di Fabio Bertoni e Lorenzo De Vidovich 87 #brnbq. le estetiche della teppa urbana nella «piazza digitale» di instagram di Giulia Giorgi e Alessandro Gerosa 115 «si scrive torino, si legge far west». Teoria e critica della colonizzazione notturna torinese di Enrico Petrilli 143 «bisogna cantà semper». alcune note sulla logica sociale del canto ultras nel gruppo brescia 1911 di Davide Tidoni e Lorenzo Pedrini

169 teppa in galera. culture del penitenziario nel carcere frammentato di Luca Sterchele 187 dal campo alla casa. tra identità e mobilità dei romà di cagliari di Norma Baldino 207 le femministe e i nuovi nemici interni: il ragazzo arabo e la ragazza “beurette” di Nacira Guénif-Souilamas