Le rivoluzioni non cadono dal cielo. Pietro Secchia, una vita di parte 8858110153, 9788858110157

Questa è la storia di un uomo che avrebbe voluto fare la rivoluzione e che, sconfitto, fini per vivere il proprio ruolo

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Italian Pages 242 [249] Year 2014

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Le rivoluzioni non cadono dal cielo. Pietro Secchia, una vita di parte
 8858110153, 9788858110157

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Storia e Società

Marco Albeltaro

Le rivoluzioni non cadono dal cielo Pietro Secchia, una vita di parte

Editori Laterza

Storia e Società

Marco Albeltaro

Le rivoluzioni non cadono dal cielo Pietro Secchia, una vita di parte

Editori Laterza

© 2014, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione febbraio 2014

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Anno 2014 2015 2016 2017 2018 2019

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-1015-7

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Introduzione La storia raccontata in queste pagine sembra lontana anni luce. Anzi, per molti aspetti, è lontana anni luce. Si tratta della biografia di un rivoluzionario professionale novecentesco. E se l’attenzione del lettore, forse inevitabilmente, cade soprattutto sul termine «rivoluzionario», in realtà lo sforzo interpretativo si è concentrato maggiormente su ciò che significa «novecentesco». Perché il Novecento non è stato soltanto un arco temporale imprigionato fra due date, fra un inizio e una fine. È stato molto di più, come del resto lo sono stati anche gli altri secoli, ma, se possibile, con maggiore intensità, con un profilo più definito e riconoscibile. Questa storia sembra lontana anni luce in particolare per la mia generazione. Per una generazione nata all’inizio degli anni Ottanta e cresciuta in un panorama desertificato: politicamente e socialmente. Chi è nato quattro anni dopo il rapimento Moro, due anni dopo la sconfitta operaia alla Fiat, sette anni prima dell’89 è nato in una fase di crisi, ossia in un periodo, per dirla con Gramsci, in cui il vecchio è morto ma il nuovo stenta a nascere. In quel torno di tempo che va dal 1980 al 1992-94, in Italia viene sventrata quella che, con una formula progressivamente svuotata di significato, si definiva la «Repubblica nata dalla Resistenza». Guardando poi con maggiore attenzione alla «democrazia dei partiti», il biennio 1992-94 ha rappresentato un vero e proprio terremoto, uno tzunami che ha raso al suolo un edificio costruito nei precedenti cinquant’anni. In un lasso temporale brevissimo il partito di Pietro Secchia, quello di Alcide De Gasperi, quello di Pietro Nenni, solo per citare due personaggi che, oltre al «biografato», sono presenti nelle pagine che seguono, cessarono di esistere, così come cessò di esistere il terreno politico in cui le sinistre e le destre si erano date battaglia nel nostro Paese, ossia la Guerra fredda, con le sue estreme, asfitti-

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che propaggini che si sono allungate sul panorama geopolitico fino al 1989-91. Nemmeno i miti di cui si era alimentata quella battaglia lunghissima ed estenuante hanno retto; primo fra tutti quello dell’Unione Sovietica, che non era soltanto uno Stato per i rivoluzionari della generazione di Secchia, ma molto di più: era un modello, un sogno, un rifugio ideale e politico. La mia generazione non ha conosciuto – se non in segmenti ristretti e minoritari – nessuno dei sogni in cui ha sperato la generazione dei rivoluzionari professionali novecenteschi. Non ha vissuto questi sogni proprio perché è una generazione post-novecentesca, nata senza nessuna delle coordinate politiche, sociali, esistenziali e, oserei dire, antropologiche del Novecento. Questa situazione generazionale, se per molti aspetti è desolante, costituisce però un privilegio sul piano conoscitivo, perché consente di riflettere su quella stagione e sulle figure che l’hanno attraversata, senza il bisogno di dare torto a una parte e ragione all’altra – sebbene il fatto che la storia dia torto o ragione, come canta Francesco De Gregori, sia pressoché inevitabile –, senza la necessità politica di ascrivere il proprio lavoro storiografico a un «campo» oppure a un altro: quei «campi» non esistono più e provare a ricostruirli oggi sarebbe un’opzione conoscitiva perdente, il che non esclude tuttavia che si possa intendere il fare storia – che è soprattutto la ricostruzione di ciò che è veramente accaduto – in modo «militante»1.

Ringraziamenti Vorrei ringraziare tutti i componenti del Collegio dei docenti del dottorato in Storia delle società contemporanee dell’Università di Torino. Un grazie particolare a chi ha seguito più da vicino il mio lavoro: Aldo Agosti, Giovanni De Luna e Gianni Perona. A Giovanni De Luna devo alcune fondamentali suggestioni interpretative che hanno molto influito sul mio modo di leggere la storia di un rivoluzionario professionale novecentesco. A Gianni Perona sono debitore di lunghe e appassionate discussioni che mi hanno permesso di affrontare molti snodi cruciali. Ad

1  A. d’Orsi, L’adunata dei refrattari, ovvero: «Histoire ou barbarie», in «Historia Magistra. Rivista di storia critica», I, 2009, 1, pp. 7-11.

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Aldo Agosti devo un ringraziamento particolare perché, come sempre e più di tutti, non mi ha mai fatto mancare consigli, incoraggiamenti e critiche, oltre alla sua amicizia. Grazie al personale delle numerose istituzioni presso cui ho svolto le ricerche: la Fondazione Istituto Gramsci di Roma e in particolare Giovanna Bosman, Giuseppe Vacca, Francesco Giasi e Maria Luisa Righi; la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli di Milano dove David Bidussa e Chiara Daniele mi hanno permesso ricerche altrove impossibili; la Fondazione Istituto Gramsci di Torino dove ho potuto avvalermi della professionalità di Matteo D’Ambrosio; il Centro di documentazione della Camera del Lavoro di Biella, in particolare la sua presidente Simonetta Vella; l’Archivio storico del Comune di Occhieppo Inferiore; l’Archivio Centrale dello Stato di Roma e i molti archivi di Stato periferici dove ho studiato, oltre alle biblioteche Gioele Solari e Giovanni Tabacco di Torino e alle biblioteche civiche di Biella e Novara. Grazie anche a Martino Seniga, Anita Galliussi Seniga (che purtroppo non potrà leggere questo libro) e Maria Antonietta Serci. Molti mi hanno dato aiuto e incoraggiamento in questi anni: Gianni Alasia, Gian Mario Bravo, Alberto Burgio, Aurelia Camparini, Marina Cassi, Armando Cossutta, Angelo d’Orsi, Aldo Giannuli, Alexander Höbel, Laurana Lajolo, Brunello Mantelli, Alfio Panella, Italo Poma, Claudio Rabaglino. Grazie ad Alfredo, Antonietta e Clelia Varano con cui ho condiviso i soggiorni calabresi, di cui penso si sia giovato anche il libro, oltre naturalmente all’autore. Un ringraziamento particolare, come sempre, va a Francesca Varano senza la quale non saprei fare nulla. Questo libro è dedicato ai miei genitori, con affetto.

Le rivoluzioni non cadono dal cielo Pietro Secchia, una vita di parte

I Primi passi 1. La scintilla Pietro Secchia nasce il 19 dicembre 1903 a Occhieppo Superiore, un paesino vicino a Biella. La sua è una famiglia che vive del proprio lavoro: la madre, Maria Negro, è un’operaia tessile e il padre, Giovanni Battista (ma che tutti chiamavano Giobatta), è un contadino. La vita dei genitori è dura, e Secchia, in quel suo «promemoria autobiografico» scritto con un occhio alla posterità e uno alla costruzione della propria mitologia, la descrive con toni forti. Ma è una famiglia allegra, tenuta in piedi con tenacia, in un clima domestico attraversato dai tratti caratteristici del piemontesismo tardo-ottocentesco e primo-novecentesco: la lettura della «Stampa» «due volte alla settimana», la stima per Giolitti e poi il lavoro, tanto lavoro in quel Biellese un po’ calvinista1. Sarà la guerra a rimescolare le carte della vita del giovane Secchia. Le rimescolerà sul piano privato, ma non solo. Secchia, infatti, vive la Prima guerra mondiale in una famiglia che la subisce come una iattura, come una mannaia, e in un territorio, il Biellese, che può vantare uno dei movimenti antimilitaristi più radicali d’Italia. 1  P. Secchia, Primi passi, p. 6, in Fondazione Giangiacomo Feltrinelli (FGF), Fondo Pietro Secchia (FPS), Serie Quaderni, Contenitore 2. Si tratta di un quaderno manoscritto databile ai primi anni del secondo dopoguerra: E. Collotti, Introduzione, in Archivio Pietro Secchia 1945-1973, a cura di E. Collotti, «Annali» della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, XIX, 1978, Feltrinelli, Milano 1979, p. 7, nota 2. Sebbene usato da Collotti per il citato volume degli «Annali» Feltrinelli, il quaderno è inedito. D’ora in avanti si farà riferimento a questo documento con la dicitura Primi passi.

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Pietro era andato a scuola, aveva frequentato le elementari e poi era stato mandato dai genitori al ginnasio dai preti, evidentemente all’interno di un progetto di promozione sociale. Ma la partenza del padre per il fronte l’aveva costretto a lasciare la scuola e a trovarsi un lavoro, come impiegato, in una fabbrica di cinghie di cuoio. È durante l’assenza del padre – al fronte convinto di partecipare a una guerra-lampo: «è questione di tre mesi»2, aveva assicurato – che la vita domestica di Pietro viene sconvolta. Al ritorno di Giobatta, di quella famiglia allegra in cui si chiamavano i polli coi nomi dei politici – «domani facciamo la festa a Sonnino»3, annunciava ironico Giobatta – non c’è più traccia. La madre era morta nel 1918, «uccisa dal male, dal dolore e dalla fatica»4, Pietro non abitava più in casa perché era stato mandato da una «vecchia buona e colta signora»5 presso cui la zia prestava servizio e si era così salvato dall’estrema povertà in cui vivevano sua madre e suo fratello Matteo, costretti perfino a sostituire il petrolio per la lampada con un composto a base di urina, e i terreni che prima venivano coltivati erano stati abbandonati. La guerra che Secchia vive invece fuori casa è in un Biellese che registra da un lato gli scandalosi arricchimenti degli industriali, grazie alle commesse belliche, e dall’altro un movimento operaio forte e antimilitarista, animato, in particolare, dalle donne e dai giovani6. C’è un altro elemento che si inserisce nella formazione di Pietro e su cui poi, nelle ricostruzioni autobiografiche, calcherà molto la mano: la fabbrica, dove entra a tredici anni come impiegato. Pietro è un ragazzino intelligente, brillante, che a casa legge anche testi impegnativi (Rousseau, Vico, Beccaria, ma anche l’allora di moda   Primi passi, p. 3.   Ivi, p. 2. 4  Ivi, p. 5. 5  Ivi, p. 6. 6  Si vedano: P. Secchia, Capitalismo e lotta di classe nel centro laniero d’Italia, Editori Riuniti, Roma 1960, p. 296 (d’ora in avanti questo volume sarà citato come Capitalismo); A. Roasio, Figlio della classe operaia, Vangelista, Milano 1977, p. 11; M. Neiretti, Dalle origini alla fine della prima guerra mondiale, in L’altra storia. Sindacato e lotte nel Biellese. Contributi per una storia sociale, prefazione di F. Bertinotti, Ediesse, Roma 1987, p. 58; L. Moranino, Le donne socialiste nel Biellese (1900-1918), Istituto storico della Resistenza in provincia di Vercelli, Borgosesia 1984; P. Ferraris, Sviluppo industriale e lotta di classe nel Biellese, Musolini, Torino 1972. Si veda inoltre L. Moranino, La casa del popolo di Crocemosso, Leone & Griffa, Pollone 1992, pp. 57-57. 2 3

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Oriani)7 e che si trova catapultato in un mondo che descriverà con toni efficaci, soprattutto nelle sue note autobiografiche. C’è il suo ambiente di lavoro, quello impiegatizio, che non gli piace, che non sopporta e in cui vede la meschinità piccolo-borghese, il pettegolezzo, e poi ci sono gli operai, che divengono nel suo racconto delle figure mitiche8. Non possiamo sapere se la ripulsa per gli impiegati e la fascinazione verso gli operai siano state davvero così dirompenti come Secchia ci ha tramandato nelle sue memorie9, ciò non toglie che gli operai li frequentò davvero e che questa frequentazione ebbe un peso importante nella costruzione della sua identità. Questo legame, dapprima allacciato per curiosità e istinto, col tempo diverrà saldo grazie a consonanze politiche e a una vera e propria empatia che nasce dalle vicende che vedranno Secchia sperimentare il conflitto. È proprio fra il ritorno del padre dal fronte e il 1919 che in Pietro succede qualcosa. È ancora patriota, mentre Giobatta il patriottismo l’aveva lasciato in trincea, ma inizia a sfogliare «l’Avanti!», probabilmente su suggerimento dei suoi amici operai. E, proprio nel ’19, decide di prendere posizione: si iscrive al sindacato, con un gesto di tenacia perché è l’unico impiegato della sua fabbrica a farlo, e a nulla erano valsi i tentativi di dissuaderlo da parte della famiglia e degli altri impiegati. È questo il momento in cui, per usare le sue stesse parole, Secchia rompe il ghiaccio con la politica10. Socialismo e patriottismo sono a quell’epoca i punti cardinali che lo orientano politicamente. Capirà però la loro reciproca incompatibilità quando, alla sua prima manifestazione socialista, il 1° maggio 1919, verrà strattonato perché all’occhiello portava un nastrino tricolore11; e lo capirà ancora meglio durante le discussioni con alcuni militanti amici del padre, che gli ripetevano «che la patria c’è solo per i signori»12, e con i suoi amici operai. Non è facile abbandonare l’amor di patria, anche perché Pietro, a quella tanto osannata patria, ha sacrificato la sua famiglia. Ed è pro-

7  P. Secchia, Promemoria per una narrazione della mia attività, in Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 135. D’ora in avanti il testo sarà citato come Promemoria. 8  Primi passi, p. 9. 9  Ivi, pp. 9-11. 10  Ivi, p. 22. 11  Promemoria, p. 136. 12  Primi passi, p. 29.

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prio la guerra l’argomento che i socialisti impiegano per convincerlo: «Finalmente dopo un’ultima discussione durata quasi un’intera notte, tema cruciale: la guerra, sono convinto»13. È la scintilla, scoppiata a partire da un tema nel quale non vi è soltanto la partecipazione politica ma anche personale e sentimentale. Guerra e fabbrica sono dunque il viatico di Secchia verso il socialismo14. Da quel giorno la sua vita cambia. E la politica è il terreno in cui raggiungerà la maturità. 2. Militante Pietro diventa subito un militante attivissimo. Fonda un circolo giovanile socialista nel suo villaggio15, per intercettare «quei giovani [...] che prima andavano dal prete»16; entra nel Comitato federale, inizia a girare tutta la provincia, a piedi e in bicicletta, per organizzare i giovani e scrive sul «Corriere Biellese», il giornale del Psi di Biella17. Finalmente ha trovato uno spazio nel quale incanalare il suo attivismo ed è come se la politica riuscisse a mettere ordine nei suoi sentimenti, permettendogli di esprimere in modo costruttivo la voglia di fare. È una militanza intensa, quella di Secchia, che lo fa stare spesso fuori casa, senza vedere il padre, anche per settimane. Giobatta, per provare a intercettarlo, gli lasciava dei biglietti sul tavolo della cucina, suscitando l’ironia dei figli per quella sua scrittura grossa, tipica di chi è più abituato a maneggiare la vanga che la penna, eppure

  Promemoria, p. 126.   Collotti, Introduzione, in Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 8. 15  Primi passi, p. 35. 16  Promemoria, p. 136. 17  Il primo articolo è: Fuoco che arde, Risveglio socialista, in «Corriere Biellese», 23 aprile 1920, p. 4. Per lo scioglimento degli pseudonimi si veda Promemoria, pp. 136-137. La maggior parte degli articoli vengono firmati come Fuoco che arde o Wando; durante la clandestinità Secchia sceglierà lo pseudonimo Bottecchia o Botte; in altre occasioni userà i nomi Pietro Negro, Valenti o Vineis. Nel fascicolo di Secchia del Casellario politico centrale vengono catalogati come suoi anche gli pseudonimi Bianchi Pietro, Santini Pietro, Neri Enrico, Rossetti Pietro, Pierre Negro: Archivio Centrale dello Stato (ACS), Casellario Politico Centrale (CPC), b. 4724, f. Secchia Pietro, copertina. 13 14

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così simile – dicevano Pietro e Matteo – a quella dei proclami di D’Annunzio18. Per Pietro, in quella prima fase di attivismo, «la lotta era la vita, era tutto»19, ed era anche il modo per sentirsi adulto, fuori di casa. Essere socialisti nel 1920 non è però facile. E Secchia lo sperimenterà sulla propria pelle, subendo diversi licenziamenti20. Ma la sua tenacia non gli farà abbandonare la militanza e il lavoro diventerà soprattutto un modo per venire a contatto con gli operai e parlare con loro di politica. Siamo in un periodo di fibrillazioni e l’occupazione delle fabbriche arriverà presto anche nel Biellese. Per Secchia si tratta di un momento importante, nel quale mettere a frutto concretamente le idee raccolte in quei mesi. E ci investe molto, sia in termini di energie che di speranze. Sarà però la prima, bruciante delusione: «Avevo creduto seriamente che con i padroni sarebbe stata finita e che l’occupazione delle fabbriche si sarebbe conclusa con la rivoluzione e la conquista del potere da parte dei lavoratori. [...] Dovevo ancora apprendere che le rivoluzioni non cadono dal cielo e neppure sono dei treni che arrivano più o meno in orario»21. Da questo momento l’irritazione di Secchia verso il riformismo del Psi, al quale attribuisce (e lo farà poi anche in sede storiografica) la colpa per il fallimento del movimento, si fa sempre più presente. Ma i socialisti a Biella sono ancora forti: riescono a eleggere il sindaco e a fronteggiare l’attacco delle camicie nere proprio durante un comizio del neoeletto primo cittadino. E Pietro è fra loro, a fare a botte22. La sua militanza trova anche un altro modo per esprimersi, oltre all’organizzazione. Si tratta, come si è fatto cenno, dell’attività di giornalista, in questi anni molto assidua. Pietro ha 17 anni e riversa il suo spirito ribelle in articoli che se da un lato mettono in luce la sua verve polemica che spesso si risolve in alcune sapide stoccate ai danni dell’avversario di turno, dall’altro evidenziano anche le sue incertezze, in particolare sul piano ideologico. Vi è, infatti, un tentativo costante, che sfocia spesso in rigidità e schematismi, di incasel  Primi passi, pp. 41-42.   Ivi, p. 42. 20  Ivi, pp. 46, 51. 21  Ivi, pp. 52-53. 22  Ivi, p. 55. 18 19

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lare gli eventi in una griglia interpretativa che abbia nel marxismo il suo orizzonte. Un marxismo ingenuo, disorganicamente assorbito dalle letture che Pietro va conducendo voracemente, oppure assimilato durante le discussioni di partito e in qualche conferenza che ha ascoltato. Ma è l’anticlericalismo la vera cifra del giornalismo di Secchia in questo primo periodo, in linea con la tradizione del movimento operaio biellese. I suoi articoli si scagliano contro quelle «anim[e] ner[e] unit[e] ad alcuni corvi spennacchiati, furenti dalla rabbia, causa l’ormai sempre crescente falange rossa»23, contro i «pipistrelli notturni» che «con arte maligna ed oscura, piena di sotterfugi, cercano di scompaginare le nostre file credendo di poter sgretolare ciò che è duro macigno che sempre più si rafforza»24. Per un giovane militante come Secchia, la politica non è solo uno strumento di libertà, è anche divertimento. In particolare per chi come lui ha la possibilità – e la capacità – di scrivere, la lotta è anche un mezzo per ridere, mettendo in ridicolo il prete o le suore del proprio paese, bacchettando i piccoli potenti locali, oppure saldando qualche conto in sospeso. L’irruenza dell’adolescenza spesso prende il sopravvento su quel rigore che egli vorrebbe fare proprio, nel tentativo di assumere in tutto e per tutto le sembianze del rivoluzionario professionale. Il meccanismo che sta alla base della militanza nella quale Secchia costruisce la propria identità assomiglia a una catena nella quale gli anelli si saldano gradualmente l’uno all’altro. Il materiale di cui è fatta la catena è l’entusiasmo per la politica, nato, in Secchia, da una serie di concause (guerra e fabbrica principalmente) e di incontri, mentre gli anelli, ognuno di eguale valore, non sono necessariamente tutti politici. C’è la passione per la polemica certo, ma anche la voglia di diventare adulto staccandosi dalla routine della vita familiare; c’è la ricerca della possibilità di esprimere liberamente la propria irritazione, ma c’è anche il rapporto con quegli amici operai, coi loro racconti pieni di sconfitte e di soprusi e, quindi, la voglia di rappresentare pubblicamente quella condizione, rispondendo, magari con qualche articolo, alle loro sollecitazioni. Non v’è nulla di 23  Fuoco che arde, Segni di reazione bianca, in «Corriere Biellese», 8 giugno 1920, p. 4. 24  Ibid.

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mitico, nonostante l’autorappresentazione memorialistica, nell’avvicinamento di Pietro alla politica, come pure di molti suoi coetanei. C’è uno stratificarsi di ragioni e di sentimenti che vengono incanalati sia per scelta consapevole che per casi fortuiti. Ciò non toglie che col trascorrere del tempo in Secchia la fisionomia del rivoluzionario professionale vada profilandosi con maggiore nettezza, lasciandosi alle spalle gradualmente istinti e improvvisazioni a favore di un copione più rigido il cui autore è il partito. 3. Comunista Quello in cui Secchia si forma è un periodo di transizione: il suo primo approdo politico è il Psi, ma soltanto dopo la scissione del gennaio 1921 si sentirà pienamente a suo agio, nel nuovo partito, il Partito comunista d’Italia. Vista dalla periferia, la scissione appare a Secchia il naturale approdo della sua esperienza politica e l’occasione per lasciarsi alle spalle la zavorra del riformismo. Per Secchia il congresso in cui matura la scissione è anche l’occasione per incontrare Antonio Gramsci, giunto a Biella in rappresentanza della frazione comunista. E proprio il discorso di Gramsci appare – scriverà Secchia anni dopo – «una rivelazione per tutti»25. Non soltanto per l’autorevolezza del relatore, ma perché nel suo intervento Gramsci aveva toccato un nervo scoperto per la generazione di Secchia, quello dell’appena passato biennio rosso, e aveva criticato la Fiom, colpevole di aver spinto «gli operai a condurre una lotta fuori della legalità senza pensare ad armarli»26. Se Gramsci è la figura che rappresenta per Secchia il nuovo partito, la sua rivista, «L’Ordine Nuovo», è il viatico di quell’adesione, sebbene impastato col bordighismo. Per il comunista biellese il congresso non rappresenta però una cesura. La scissione che avrebbe dato vita al PCd’I è, infatti, soltanto la ratifica di una linea che Secchia, come pure tutta la gioventù socialista biellese, stava portando avanti da tempo. Si tratta di un momento di chiarezza, di un colpo di reni col quale i rivoluzionari   Primi passi, p. 56.   Congresso circondariale, in «Corriere Biellese», 7 dicembre 1920, p. 1; cit. in Secchia, Capitalismo, p. 356. Si veda anche A. Lepre, Il prigioniero. Vita di Antonio Gramsci, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 30. 25 26

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si scrollano di dosso la prudenza del Psi. Il fatto stesso che la grandissima parte dei giovani socialisti biellesi aderisca al nuovo partito sottolinea questo clima di continuità in cui Pietro si trova a lavorare. Anche nei suoi articoli post-scissione gli argomenti trattati sono sempre gli stessi, con la differenza che ora ha qualche nemico in più a cui assestare le sue stoccate: i socialisti. Secchia vive la sua militanza ancora all’interno di spazi geografici ben definiti che non vanno oltre il Biellese e all’interno di confini politici prettamente locali anche nei temi, sebbene le escursioni extra moenia non manchino. E in quei confini così ristretti la scissione produce una sorta di resa dei conti. Da un lato i socialisti punzecchieranno il giovane comunista indicandolo come l’«esponente massimo del comunismo locale»27, dall’altro Secchia riempirà il suo microcosmo politico con una vera e propria guerriglia giornalistica contro i suoi vecchi compagni sfruttando le colonne del neonato organo locale di informazione dei comunisti, «Il Bolscevico». Sulla scena politica i militanti sono però costretti a fare i conti con la crescente presenza dei fascisti. E tocca anche a Secchia: «I fascisti davano la caccia al ‘Bolscevico’ ed ai suoi redattori. Per un certo tempo il nostro giornale ebbe una redazione ambulante, i suoi uffici avevano la sede sulle panchine dei giardini pubblici»28. È un’autorappresentazione eroica quella che Secchia consegna ai suoi diari, così come è la rivendicazione dell’integrità del suo essere rivoluzionario che egli sottolinea ricordando alcuni episodi nei quali gli si è parata davanti la scelta se rimanere o no «bolscevico», in cambio di condizioni più facili di vita o di lavoro. Ma Pietro è un giovane rivoluzionario tutto d’un pezzo che pensa alla rivoluzione come allo strumento per la «redenzione completa del proletariato»29, obiettivo per il quale è disposto a sopportare «sacrifici gravi, fors’anche dolorosi»30. È all’interno di questa dedizione totale alla causa del comunismo che la durezza verso gli avversari assume toni estremi, fino a tacciare di fascismo tutto ciò che non è comunista.

27  Uno che osserva i vostri passi, All’esponente massimo del comunismo locale, in «Corriere Biellese», 8 aprile 1921, p. 4. 28  Primi passi, p. 60. 29  Wando, Avanti i giovani! Fatal... combinazione, in «Il Bolscevico», 16 giugno 1921, p. 2. 30  Ibid.

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Il fascismo pone a Secchia, nella sua militanza quotidiana, la necessità di difendersi e questa necessità viene trasposta dal piano personale a quello politico avviando una riflessione sulla lotta militare che lo accompagnerà poi per anni. Per ora si tratta di enunciazioni generali, sollecitate anche dalle letture che fa in questo periodo31, su come «trasformare l’esercito borghese in proletario»32, ma col trascorrere del tempo la riflessione sul «problema militare» sarà qualcosa di più articolato. Nel territorio politico di Secchia i fascisti divengono, infine, il più ingombrante e arrogante fra gli avversari, determinando una situazione inedita, quasi una guerra civile33 nella quale la lotta politica si tradurrà ben presto in scontro fisico, con tutte le implicazioni politiche e personali: botte, fughe, aggressioni subìte e perpetrate. E quella zia a casa, che ormai si era sostituita alla madre morta, che «accendeva frequentemente delle candele alla madonna perché [...] salvasse dalle legnate fasciste» il nipote «bolscevico»34. È in un quaderno di memorie, scritto nella seconda metà degli anni Quaranta, in un tempo in cui ancora bruciavano le ferite lasciate aperte dal «tradimento» della Resistenza, che Secchia afferma che «se ad ogni colpo fascista si fosse risposto con le stesse armi, con forza e con audacia, i fascisti si sarebbero rotti i denti o comunque avrebbero trovato molti ostacoli nella strada della loro teatrale, ma pur tragica per il Paese, Marcia su Roma»35. C’è, in Secchia, la critica verso quella socialdemocrazia tanto odiata, accusata di predicare «la pazienza, la rassegnazione, [...] il ‘coraggio della viltà’»36, ma c’è anche l’autocritica: «Anche noi comunisti mancavamo di decisione e di audacia. È vero che eravamo una piccola minoranza, con scarso seguito tra le masse. Ma i lavoratori avrebbero certamente seguito

  Promemoria, p. 137.   Wando, Antimilitarismo, in «Il Bolscevico», 29 settembre 1921, p. 1. 33  F. Fabbri, Le origini della guerra civile. L’Italia dalla Grande Guerra al fascismo (1918-1921), Utet, Torino 2009. 34  Primi passi, p. 67. 35  Ivi, p. 68. 36  Secchia si riferisce a un’espressione di Giacomo Matteotti che suggeriva ai suoi seguaci del Polesine di opporre «il coraggio della viltà» alla violenza fascista: A. Leonetti, Prefazione alla prima edizione, in C. Bermani, La battaglia di Novara. 9-24 luglio 1922. L’ultima occasione di una riscossa antifascista (1972), DeriveApprodi, Roma 2010, p. 23. 31 32

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chi si fosse messo decisamente alla loro testa, guidandoli alla lotta armata»37. In queste considerazioni si ritrova tutto il Secchia in formazione, ma è anche possibile individuare alcuni dei tratti che conserverà nella maturità: la grande fiducia nel movimento operaio, caricato di una responsabilità storica congenita alla sua essenza rivoluzionaria, così come una fiducia nel partito, inteso come avanguardia organizzata, frutto di una visione novecentesca che tiene insieme e fonde l’esperienza della Rivoluzione d’ottobre con la catarsi prodotta dalla Resistenza. La critica al PCd’I che, secondo Secchia, avrebbe preferito «l’arma della critica» alla «critica delle armi»38 è argomentata sulla base di questi due elementi. E, se nei suoi diciott’anni l’ottobre sovietico la fa ancora da padrone nel rafforzare questa convinzione, negli anni della maturità sarà la lettura classista della Resistenza ad alimentare la sua visione storiografica. Non si tratta di «sognare la lotta armata»39, quanto piuttosto di trovare una risposta alle sconfitte che non metta in dubbio il ruolo storico del rivoluzionario professionale. In questo periodo Secchia assorbe come una spugna ogni stimolo che gli proviene dall’ambiente nel quale ha scelto di vivere. Si tratta di letture, incontri, dibattiti, polemiche che vengono impastati in un’identità ancora in formazione ma i cui connotati stanno via via chiarendosi, e proprio gli articoli che scrive ci permettono di individuarne alcuni tratti: una forte spinta pedagogica, un richiamo continuo e martellante alla radicalità e alla nettezza, l’ansia di dare un’interpretazione al dispiegarsi della storia che gli scorre davanti agli occhi. A questi tratti si somma anche l’arroganza di chi è fideisticamente persuaso della propria ragione. I socialisti diventano quindi «socialcretinisti»40, attrazioni da circo Barnum41, mandarini42 e via dicendo, mentre i comunisti sono descritti come parte di una diversa antropologia e come militanti disposti a sacrificarsi per la propria causa: «non più pagliacciate sulle piazze o nei congressi, football e

  Primi passi, pp. 69-70.   Ivi, p. 71. 39  M. Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata. La storia di Pietro Secchia, Rizzoli, Milano 1984. 40  Wando, Semplicità patriottica, in «Il Bolscevico», 22 dicembre 1921, p. 1. 41  Id., Un nuovo postulato, in «Il Bolscevico», 18 maggio 1922, p. 3. 42  Id., Le quattro classi del proletariato, in «Il Bolscevico», 22 giugno 1922, p. 2. 37 38

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filodrammatiche, non più cultura a base di asinerie podrecchiane, di panciafichismo zibordiano e verbalismo rivoluzionario serratiano; ma salda preparazione rivoluzionaria cioè disciplina, inquadramento, rafforzamento materiale e intellettuale»43. Intanto il suo attivismo viene notato nel partito: Secchia diventa segretario della Federazione giovanile comunista della sua provincia e i suoi rapporti politici vanno gradualmente espandendosi oltre la dimensione locale. È molto affascinato da Bordiga, come del resto la maggior parte dei giovani dirigenti dell’epoca, sebbene il suo bordighismo sia introiettato in una cultura politica che avverte anche il significato dell’ordinovismo. Bordiga è però per Secchia l’immagine del rivoluzionario intransigente da cui attingere per costruire un paradigma identitario che renda diversi dai socialisti. Ma in quella che pare una convinzione monolitica della superiorità dei comunisti rispetto ai socialisti si inseriscono talvolta dei dubbi, dovuti all’esperienza personale. In occasione del primo raduno fascista di Biella, nel giugno del 1922, comunisti e socialisti avevano allertato i propri militanti per fronteggiare eventuali aggressioni alle loro sedi. Quella volta, ricorda Secchia, fra le file socialiste vi erano anche i deputati e i dirigenti riformisti. «Mi fece una certa impressione», annoterà anni dopo, «erano riformisti, sì, ma nel momento del pericolo non erano mancati, si trovavano al loro posto»44. Ciò non gli impedisce però di affermare, proprio in un articolo del giugno 1922: «Povero socialismo, in che mani sei caduto!»45. 4. Una scelta irrevocabile Già prima della Marcia su Roma, quello in cui Secchia e i suoi compagni fanno politica è uno scenario militarizzato. Si tratta di una militarizzazione frustrante perché, accuserà Secchia nelle sue memorie, alla violenza fascista le organizzazioni del movimento operaio non avevano risposto con altrettanta determinazione, per  Id., Avanti i giovani! Soffermiamoci..., in «Il Bolscevico», 22 dicembre 1921,

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p. 3.

  Primi passi, p. 77.   Wando, Socialismo e carabinieri, in «Il Bolscevico», 22 giugno 1922, p. 2.

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dendo così un’occasione di rivincita. Dopo la Marcia su Roma, lo scenario cambierà a causa della criminalizzazione della militanza antifascista. È in questo clima che a Secchia arriva la prima denuncia, per detenzione abusiva di munizioni da pistola, e la prima condanna, nel marzo 1923, a tre mesi di reclusione46. Non si tratta però di un deterrente per il comunista, anzi, per certi versi la condanna è una sorta di riconoscimento del suo antifascismo, del suo essere un rivoluzionario: «Sembrava che gli avessero dato la medaglia d’oro», dirà un compagno47. L’arresto è un punto di non ritorno. È il sigillo del rivoluzionario professionale, con tutto il suo corredo di conseguenze: noto alle forze dell’ordine, Secchia viene tenuto sotto controllo e il fatto di essere stato condannato gli impedisce di trovare un lavoro nel Biellese. La militanza, dunque, finisce per essere l’elemento che determina tutte le sue scelte, come un binario obbligato sul quale far scorrere la vita. Gli strumenti a cui Secchia guarda per la sua lotta contro il fascismo sono sostanzialmente due: la guerriglia e la satira. La prima soltanto congetturata, la seconda invece praticata. Satirico è, infatti, il giornaletto che pubblica, «L’Uomo che ride», che farà infuriare i fascisti locali: «I fascisti mi avevano una sera sequestrato in una sala da ballo dicendomi: ‘uomo che ride’ adesso ti faremo piangere. Ma la bastonatura fu di lieve entità»48. Ormai noto sia alla polizia che ai fascisti biellesi, Secchia decide di spostarsi a Milano, dove ha stretto rapporti con alcuni compagni, primo fra tutti Luigi Longo. Ma nemmeno a Milano sarà facile trovare un impiego: «Dopo alcuni vani tentativi di trovare lavoro come impiegato, dopo alcuni giorni mi adatto a cercarne come operaio»49. In quel «mi adatto» ci sono ancora tutti gli echi del progetto di promozione sociale auspicato dalla sua famiglia che lo aveva mandato a scuola dai preti. Ma ormai il lavoro altro non è che un aspetto marginale della sua vita, interamente fagocitata dalla politica. 46  ACS, CPC, b. 4724, f. Secchia Pietro, Riservata della Prefettura di Novara, Cenno biografico al 10 febbraio 1924, p. 2. 47  Promemoria, p. 138. 48  Ibid. 49  Ibid.

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A Milano dirige la Fgci e lavora con Longo a un periodico, «La voce della gioventù»50, dove mette a frutto le sue letture scegliendo i brani letterari da pubblicare51. Proprio mentre sta a Milano, smette di essere soltanto un dirigente di organizzazioni periferiche e viene chiamato a far parte del Comitato centrale della Fgci52. Ma quella milanese è soltanto una parentesi, e nel dicembre del 1923 Secchia emigra in Francia per sfuggire agli effetti della condanna subita per detenzione di munizioni. Anche qui non abbandona la militanza, ha contatti col Pcf e segue le vicende italiane attraverso i giornali, si trova un lavoro e prova a farcela da solo, come ci tiene a specificare nelle sue memorie: «Il 25 dicembre mi trovo a Parigi senza un soldo, disoccupato, ma non vado a elemosinare al Soccorso rosso. Mi arrangio»53. Rivoluzionario professionale per vocazione, lo diventa per investitura ufficiale quando riceve un telegramma di Longo che lo richiama in Italia per partecipare come delegato al IV Congresso dell’Internazionale giovanile comunista e al V dell’Internazionale comunista54. Da quel momento la vita di Secchia non sarà più scandita soltanto dai ritmi quotidiani della militanza, ma anche da quella componente di imprevedibilità a cui sono sottoposti i quadri e i dirigenti, risucchiati dalle esigenze di quel partito che, nel caso di Secchia, lo «richiamerà» e lo «invierà» per i prossimi cinquant’anni della sua vita. Pietro è un ventenne, comunista di provincia, che guarda all’Unione Sovietica come al luogo della rivoluzione vittoriosa, al paradiso in terra. E la sua emozione per quel viaggio, ancora a distanza di molti anni, pervade il racconto che ne fa nelle sue memorie. Un viaggio mitico, su una nave mercantile sovietica, dove l’idillio del «clima rivoluzionario» che si respira, fra riunioni, discussioni e «rap-

50  L. Longo, C. Salinari, Tra reazione e rivoluzione. Ricordi e riflessioni sui primi anni di vita del Pci, Teti-Edizioni del Calendario, Milano 1972, p. 276. 51  Come si può dedurre collazionando l’elenco delle letture di Secchia contenuto nel Promemoria con i testi pubblicati sulla «Voce della gioventù». 52  Altrove Secchia data il suo ingresso negli organismi dirigenti nazionali al 1924: I giovani dalla formazione del P.C.I. alla Resistenza cit., p. 153. Si tenga presente che, dopo l’arresto del gruppo dirigente comunista nel gennaio-febbraio 1923, il centro dirigente si era spostato a Milano. 53  Promemoria, p. 138. 54  Ibid. Sul V Congresso si veda A. Agosti, La Terza Internazionale. Storia documentaria, vol. II, 1924-1928, 1, Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 67-96.

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porti fraterni tra ufficiali e marinai»55, viene interrotto dalla notizia dell’assassinio di Matteotti. Al congresso Secchia lavora nella commissione che si occupa della fusione fra i comunisti italiani e la frazione terzinternazionalista del Psi, ma non sappiamo nulla del suo ruolo specifico. Abbiamo solo notizia del fatto che fu chiamato a far parte del Comitato esecutivo dell’Internazionale giovanile, senza però occupare mai quel posto. Questo congresso è per Secchia il momento in cui la sua militanza viene notata dai vertici del PCd’I producendo un’accelerazione nel suo passaggio da militante a dirigente. Paradossalmente la sua ascesa nel partito inizia quando le posizioni a cui fa riferimento vengono messe maggiormente alla prova. Pietro è, infatti, bordighista, e proprio a seguito del V Congresso del Comintern il Comitato centrale del PCd’I verrà rinnovato escludendo i seguaci del rivoluzionario napoletano a favore delle altre componenti, ritenute più fedeli all’Internazionale. E proprio all’organizzazione di Secchia, la Fgci, toccherà subire anche la reprimenda dell’Internazionale giovanile per il suo estremismo56. Probabilmente è questo uno dei momenti più critici per Secchia e per i suoi compagni. Ne scriverà nelle sue memorie, sempre con quell’attenzione a mettere in luce la propria determinazione: «Ci venne posta l’alternativa di adeguarci alla linea del partito e dell’IC [Internazionale comunista], oppure ci avrebbero sostituiti nell’apparato. Dozza si mise a piangere. Io risposi: sono venuto qui che facevo il manovale, ritornerò a fare il manovale»57. Questo atteggiamento dei giovani dovette infastidire molto Togliatti, che avrebbe poi definito «pessimo»58 il comportamento di Dozza al congresso, ma si può legittimamente supporre che tale giudizio investisse anche gli altri giovani. Sono questi i frangenti in cui Secchia si barcamena fra il suo estremismo bordighista e la linea che il partito sta gradualmente impostan-

  Promemoria, p. 139.   Per una ricostruzione delle vicende dell’Internazionale comunista della gioventù (Kim) in quegli anni, si veda E.H. Carr, Il socialismo in un solo paese, II, La politica estera (1924-1926), Einaudi, Torino 1975, pp. 934-944. 57  Promemoria, p. 140. 58  Cit. in E. Dundovich, Tra esilio e castigo. Il Komintern, il Pci e la repressione degli antifascisti italiani in Urss (1936-1938), Carocci, Roma 1998, p. 86. Si veda anche L. Lama, Giuseppe Dozza. Storia di un sindaco comunista, Aliberti, Reggio Emilia 2007, p. 39. 55 56

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do. E questo processo viene favorito da una serie di legami personali che gli capita di costruire: ad esempio, quello con Serrati. 5. Ufficialmente clandestino Tornato in Italia, anche il lavoro diventa qualcosa che è il partito a scegliere. Secchia è, infatti, mandato a Torino, a lavorare alla Fiat, per provare a organizzare gli operai del suo stabilimento. Ma presto lascerà questo lavoro per diventare un funzionario di partito: la rivoluzione diventa il suo mestiere. E poco dopo viene trasferito nella sua Biella a fare il segretario della federazione. È qui che viene fermato dagli agenti della Milizia con dei volantini «sovversivi» e quindi condannato a tre mesi di carcere e a una multa, col beneficio della sospensione. Risale a questo periodo un efficace ritratto di Secchia che ci giunge dai documenti di polizia: «Continua la vita irrequieta a cui è dedito da qualche anno, viaggiando spesso fra Milano e Torino, e aggirandosi nei paesi di quel Circondario certamente per svolgere opera di propaganda e di organizzazione per conto del partito comunista»59. Anche in un’altra nota di polizia, che precede di circa un anno l’arresto, abbiamo un ritratto del giovane rivoluzionario dipinto con le tinte fosche a cui ci ha abituati il linguaggio dei questurini: Nella pubblica opinione riscuote pessima fama. È di carattere impulsivo, educazione scarsa, intelligenza pronta. Ha frequentato il Ginnasio inferiore ed ha una cultura discreta. Ha tendenza all’ozio, e vive colle prebende che gli frutta la propaganda comunista. In famiglia si comporta male sotto tutti i riguardi. Non ha mai coperto cariche amministrative e politiche60. Appartiene al partito comunista di cui è seguace fanatico. [...] Nell’ambiente politico ha abbastanza influenza, ed è capace di estenderla anche fuori del luogo di residenza. Non risulta abbia corrispondenza palese con comunisti del Regno. Attualmente trovasi in Francia, ove si è rifugiato dopo l’avvento del fascismo, e fa propaganda comunista tra gli operai italiani emigrati. [...] Verso le autorità tiene un contegno indiffe-

  ACS, CPC, b. 4724, f. Secchia Pietro, Elenco condanne subite cit.   In realtà, come sappiamo, Secchia aveva già ricoperto diversi incarichi nel partito: Promemoria, pp. 136-138. 59 60

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rente. Per il colore delle sue idee e la eccitabilità del suo carattere egli è ritenuto pericoloso e capace di incitare i compagni ad atti inconsulti61.

In questo rapporto non appaiono soltanto tutti i fattori che innervano la militanza di Secchia; vi è anche rappresentata la distanza lessicale – che testimonia orizzonti politici ed esistenziali inconciliabili – fra due mondi che si studiano a vicenda, il primo intento a rincorrere il secondo per reprimerlo, mentre questo operava sotterraneamente per scavarsi una via d’uscita. È così che il «carattere impulsivo» che la polizia sottolinea con la sua «antilingua»62 diventa coraggio e determinazione nell’autorappresentazione che Secchia ci consegna nelle sue memorie; allo stesso modo il «contegno indifferente» verso l’autorità si trasforma nel disprezzo che Secchia tiene spesso a sottolineare verso quegli uomini che descrive come piccoli e patetici, al servizio di un potere sbagliato; il fanatismo citato dal poliziotto viene invece esaltato come spirito di sacrificio e fiducia assoluta nell’avvento della rivoluzione, mentre l’«ozio» è il travestimento sotto il quale celare l’attivismo. Il «fermo», ovviamente, non cambia lo stile di vita di Secchia. In questo periodo il tema che tiene banco nei dibattiti del partito lo riguarda da vicino. Si tratta di quella sorta di resa dei conti col bordighismo che si apre all’indomani dell’annuncio sull’«Unità» della costituzione, su iniziativa proprio di Bordiga, del «Comitato d’intesa tra gli elementi della sinistra»63. Come noterà Luigi Longo anni 61  ACS, CPC, b. 4724, f. Secchia Pietro, Riservata della Prefettura di Novara, Cenno biografico al 10 febbraio 1924, pp. 1-2; cit. in Collotti, Introduzione, in Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 14. 62  I. Calvino, Per ora sommersi dall’antilingua, in «Il Giorno», 3 febbraio 1965, ora in La nuova questione della lingua, a cura di O. Parlangeli, Paideia, Brescia 1979, pp. 171-175; cit. in N. Binazzi, È la lingua che ci fa diversi. La costruzione della devianza politica nelle schede toscane del Casellario politico centrale, in «Italia contemporanea», 2008, 252-253, p. 387. Sul linguaggio della polizia si vedano: G. De Luna, Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana 1922-1939, Bollati Boringhieri, Torino 1995, pp. 12-14; la prefazione di A. Agosti, in Sotto stretta sorveglianza. Giuseppe Di Vittorio nel Casellario politico centrale (1911-1943), a cura di F. Giasi, F. Loreto, M.L. Righi, «Annali» della Fondazione Giuseppe Di Vittorio, 2008-2009, Ediesse, Roma 2011. 63  Si veda la lettera Al compagno X... in data 22 maggio 1925 oltre a due altre lettere, una indirizzata al Comitato esecutivo del partito in data 1° giugno 1925 e una circolare (personale) datata aprile 1925, tutte in «l’Unità», 7 giugno 1925, p. 2. Si vedano anche: la lettera di Bordiga per l’esplicita adesione ai Comitati, Lettera

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dopo, «il momento scelto per il pronunciamento frazionistico non poteva essere peggiore. Di fronte alle violenze fasciste e all’offensiva poliziesca c’era estremo bisogno di unità e di fiducia reciproca»64. Secchia, come Longo, è bordighista e tutte le sue battaglie, da ultima quella di Torino contro la direzione di Negarville, si ­ispirano alle posizioni del rivoluzionario napoletano, ma al Comitato non aderisce e non partecipa mai alle sue riunioni65. Ciò non toglie che, proprio in quelle settimane, verrà rimosso da segretario della federa­ zione di Biella per «far parte dell’organismo centrale della Fgci e del suo apparato centrale»66. È lo stesso Secchia a chiedersi se quell’operazione fosse dovuta a ragioni politiche – egli ancora era in odore di «sinistrismo» – oppure fosse dettata da semplici necessità organizzative. La Fgci è diretta da Luigi Longo, col quale ormai il giovane dirigente ha un legame che dura da tempo, ed è certamente Longo a chiamarlo a Roma. È in quel periodo che la Fgci, come ricorderà lo stesso Secchia, «prende aperta posizione per il partito e si stacca dal bordi­ghismo»67. Certo, la posizione assunta dal partito in seguito alla costituzione del Comitato d’intesa segna per giovani come Secchia, Longo e Dozza la rottura con Bordiga; nessuno di loro ha però raccontato come questa rottura sia maturata nel tempo. Le parole di Scoccimarro durante un Comitato centrale – «dopo la critica e l’autocritica [...] ogni voce dissenziente deve tacere»68 – dovettero sì impressionare e preoccupare i giovani comunisti facendo capire loro che quello era il momento di compattare il partito, con il fascismo che ormai stava tracimando oltre gli ultimi argini eretti dall’opposizione legale, spazzandoli via; ma, in fondo, quelle parole dovettero far loro piacere, dato che soddisfacevano quella sete di radicalità e di nettezza che prima aveva trovato appagamento con Bordiga. E poi vi era stata un’oggettiva

aperta alla centrale del partito, ivi, 18 giugno 1925, p. 2; gli articoli di Gramsci (attribuiti) in risposta I documenti frazionisti, ivi, 23 giugno 1925, p. 2 e I documenti frazionisti, ivi, 25 giugno 1925, p. 3; F. Lussana, «L’Unità» 1924-1939. Un giornale «nazionale» e «popolare», Edizioni dell’Orso, Alessandria 2002, pp. 85-86. 64  Longo, Salinari, Tra reazione e rivoluzione cit., p. 333. Pur essendo ancora bordighista, Longo non partecipò al Comitato. 65  Promemoria, p. 142. 66  Ibid. 67  Ibid. 68  Cit. in Lama, Giuseppe Dozza. Storia di un sindaco comunista cit., p. 41.

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accelerazione del dibattito, dal convegno di Como dell’anno precedente, che ancora aveva visto la maggior parte dei presenti sostenere Bordiga, all’estate del 1925 quando Gramsci è certo di poter contare, per il congresso, su «una maggioranza schiacciante»69. Sono mesi difficili. Il fascismo intensifica l’azione della sua macchina repressiva dopo l’attentato Zamboni, i giornali vengono «fascistizzati», il Psi si dissolve e il resto dell’opposizione viene messo a tacere senza troppa fatica. La militanza assume quindi sempre più i tratti della clandestinità, ma di una clandestinità che ancora deve essere collaudata. E, infatti, Secchia cade proprio nella rete della polizia fascista. Un po’ per caso, ma ci cade. Siamo nel novembre del 1925, e durante uno dei suoi tanti viaggi per mantenere i contatti con le ramificazioni del partito Secchia viene arrestato a Trieste perché trovato in possesso del solito materiale «sovversivo»70. Non viene fermato né per una soffiata e nemmeno perché pedinato, ma semplicemente perché scambiato per un contrabbandiere, solo che al posto delle sigaret­te nella sua valigia era stato trovato materiale di propaganda antifascista. La condanna sarà piuttosto dura: nove mesi e dieci giorni di carcere71. A 22 anni, Secchia vive dunque una sorta di pausa forzata nella quale però non rimane con le mani in mano. Legge, in carcere. E legge moltissimo: 250 libri in meno di dieci mesi. Non si tratta di un passatempo, quanto piuttosto di un lavoro di studio organizzato, supportato da una disciplina che sembra fare dello studio uno dei tanti modi in cui un rivoluzionario professionale prova a continuare la propria militanza anche dietro le sbarre, esorcizzando la temporanea sconfitta72. Liberato nell’agosto 1926, riprende subito il ritmo serrato della militanza. Durante la sua carcerazione si è svolto il Congresso di Lione, nel quale è avvenuta una vera e propria rifondazione della linea politica del PCd’I, con la definitiva vittoria del cosiddetto «centro» gramsciano, in particolare sulle istanze della sinistra bordighista. 69  Lettera di Gramsci a Julca, [Roma] 12 luglio 1925, in A. Gramsci, Forse rimarrai lontana... Lettere a Julca, a cura di M. Paulesu Quercioli, Editori Riuniti, Roma 1988, p. 128. 70  Promemoria, p. 142. 71  ACS, CPC, b. 4724, f. Secchia Pietro, Elenco condanne subite cit. Si veda inoltre il verbale dell’interrogatorio a Secchia, datato 24 novembre 1925, ivi. 72  Si veda il quaderno di appunti che Secchia ha tenuto in carcere in FGF, FPS, Serie Corrispondenza, Contenitore 6, f. 1, Lettere dal carcere.

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Ma quello uscito da Lione è un partito destinato a rimanere presto orfano dei suoi più autorevoli dirigenti: Togliatti di lì a poco sarà inviato a Mosca come rappresentante del PCd’I nell’Internazionale, e Gramsci, Terracini e Scoccimarro finiranno in carcere quello stesso anno. Per il partito si aprirono mesi particolarmente duri a causa dell’inasprirsi della repressione fascista, che troverà nelle leggi eccezionali del novembre 1926 la sua codificazione legislativa. Dopo aver trascorso un’altra settimana in carcere per e­ ssere ­stato scoperto dalla polizia durante una riunione di partito73, Sec­chia lascia Biella e si reca di nuovo a Milano. È nel capoluogo lombardo che, il 31 ottobre, festeggia insieme ad altri compagni la notizia dell’attentato a Mussolini74, senza poter immaginare che quell’evento sarà preso a pretesto dal Duce per varare quelle leggi eccezionali che faranno «cadere» (come si diceva all’epoca con un eufemismo) uno dopo l’altro i dirigenti del PCd’I, permettendo alla repressione di sferrare un colpo durissimo all’organizzazione comunista. Con le leggi eccezionali viene formalizzato in un quadro normativo ciò che i fascisti stavano facendo da tempo. Insomma, si mette il sigillo ministeriale sullo squadrismo. La repressione è qualcosa di estremamente concreto, che entra ancor più prepotentemente di prima nella vita dei militanti. E la sconvolge75. L’ufficializzazione della clandestinità della militanza antifascista incontra uno scenario politico desertificato da un lungo periodo di violenze, alle quali soltanto i comunisti erano riusciti a resistere, ma con mille difficoltà. Anche in sede di ricostruzione storiografica, Secchia rifletterà sull’impreparazione del partito e sulle sue disastrose conseguenze76. La decapitazione del nucleo dirigente del partito (alla fine del 1926 circa un terzo degli «effettivi» del PCd’I si trova in carcere77) avrà nella vita di Secchia l’immediato effetto di uno sdoppiamento.   ACS, CPC, b. 4724, f. Secchia Pietro, Elenco condanne subite cit.   Promemoria, p. 143. 75  P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, II, Gli anni della clandestinità, Einaudi, Torino 1969, p. 64. 76  P. Secchia, L’azione svolta dal partito comunista in Italia durante il fascismo 1926-1932. Ricordi, documenti inediti e testimonianze, «Annali» dell’Istituto Giangiacomo Feltrinelli, XI, 1969, Feltrinelli, Milano 1970, p. 5 (d’ora in avanti questo volume sarà citato come L’azione). 77  Spriano, Storia del Partito comunista italiano, II cit., p. 63. 73 74

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Continua, infatti, a lavorare nel «Centro interno» della Fgci col compito di girare in lungo e in largo l’Italia per mantenere vivi i contatti coi vari «regionali», ma deve anche dedicarsi al partito occupandosi della «sezione militare» con Gastone Sozzi e Camilla Ravera78, dove opera come «corriere»79. Nella periodizzazione che Secchia fornisce, sempre in chiave storiografica, della vicenda del gruppo dirigente del PCd’I, appare significativo che egli anticipi la decisione di dividere la struttura illegale in «Centro interno» e «Centro estero» alla fine del 1926: in realtà, quella scelta fu formalizzata, dopo un lungo dibattito, nella seduta dell’Ufficio politico del 28 febbraio 192780. Si tratta di una sorta di conferma del fatto che il partito operava già secondo quelle norme di clandestinità ben prima della ratifica formale81 e che Secchia di questa struttura era già parte integrante, con un ruolo dirigente82. Ma la batosta delle leggi eccezionali farà vacillare anche la fede dei comunisti nella lotta, tanto da far decidere ai dirigenti sfuggiti all’arresto, proprio in una riunione tra l’8 e il 10 novembre 1926, la liquidazione del partito83. Sono Camilla Ravera e un non identificato rappresentante dell’Internazionale a impedire che la decisione presa in quell’incontro vada in porto. Il PCd’I, unico fra i partiti antifascisti, rimane quindi sulla scena politica, sebbene in modo carsico. Se si fosse dato seguito al «rompete le righe» della riunione del novembre 1926, la storia di Pietro Secchia – così come quella di altre centinaia, se non migliaia di militanti e dirigenti comunisti – sarebbe stata un’altra, con connotati, proprio perché si tratta di rivoluzionari professionali, che è difficile perfino congetturare.   Collotti, Introduzione, in Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 20.   Secchia, L’azione, pp. 24-25. 80  La Risoluzione dell’Up del Pci sulla costituzione del centro estero, 28 febbraio è pubblicata dallo stesso Secchia, ivi, p. 23. 81  Collotti, Introduzione, in Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 20, nota 24. 82   Il Centro estero del partito, che all’inizio avrà sede fra Basilea e Lugano, sarà formato da Togliatti, Longo, Grieco, Tasca e D’Onofrio, ai quali si aggiungeranno in seguito Camilla Ravera e Leonetti. Si veda Spriano, Storia del partito comunista italiano, II cit., cap. IV. 83   Ivi, pp. 67-68. 78 79

II La maturazione di un rivoluzionario 1. Una lotta fatta di carta e inchiostro «Per un anno intero ho dormito tre notti alla settimana in treno»1. Il lavoro di Secchia consiste nel girare gran parte dell’Italia per tenere insieme l’ossatura clandestina del partito, non solo politicamente, ma praticamente. Egli si occupa, infatti, di tutto: dall’insegnare a stampare documenti falsi, al costruire piccole tipografie per pubblicare volantini e giornali. È grazie al lavoro suo e dei suoi compagni che, come verrà riconosciuto anni dopo, «il partito comunista italiano restò solo sulla breccia, a bandiere spiegate, bello di ardire e di eroismo»2. Ma una simile attività non poteva passare inosservata alla polizia che, come sappiamo, contava su una vasta ramificazione territoriale oltre che su un buon numero di infiltrati anche nel PCd’I. E, infatti, il provvedimento che farà di Secchia un latitante non tarderà ad arrivare. Si tratta di un mandato di cattura emesso nell’ottobre del 19273. Le accuse che gli si muovono comprendono l’intero catalogo dei reati politici: diffusione di stampati incitanti all’odio di classe, oltraggio a Mussolini attraverso la stampa, istigazione ai militari a disobbedire agli ordini e a violare il giuramento alla patria, ricostruzione del partito comunista e cospirazione per «far sorgere in armi gli abitanti del Regno contro i Poteri dello Stato e a suscitare la guerra civile»4.   Promemoria, p. 144.   Così nell’opuscolo Secchia, una vita al servizio del popolo, Federazione comunista biellese e valsesiana, Biella 1954, p. 144. 3  ACS, CPC, b. 4724, f. Secchia Pietro, Copia del mandato di cattura emesso dal Tribunale del corpo d’armata territoriale di Milano il 3 ottobre 1927. 4  Ibid. 1 2

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Sulla testa di Secchia pende già una condanna a cinque anni di confino emessa nel novembre 19265, ma la sua militanza non accenna a diminuire. E le sue armi sono tutte cartacee: giornali, documenti, riviste. Proprio i giornali sono una vera e propria ossessione per il giovane comunista. Perfino il suo svago consiste in una pubblicazione satirica che scrive assieme a Ferruccio Rigamonti. Si tratta del «Galletto rosso», un’«Avanguardia di umorismo proletario» che prende in giro il regime in modo piuttosto volgare, ma che permette, a chi lo scrive, di prendersi una pausa dal grigiore della clandestinità: «Dopo quattro o cinque ore di intenso lavoro io e Rigamonti eravamo neri, sporchi d’inchiostro [...], sudati. Una buona lavata e poi a cena in una di quelle osterie romane col vinello dei Castelli, spesso pranzavamo in ristoranti accanto al Viminale. Nessuno avrebbe detto che quei due giovani così allegri e spensierati erano dei ‘terribili’ rivoluzionari ricercati in tutta Italia»6. Forse Secchia calca un po’ la mano sulla storia del «Galletto rosso» e soprattutto sul clima di gioco e di allegria nel quale il giornale veniva prodotto, sempre con quell’intento di costruire un’immagine della sua personalità diversa da quella dell’uomo d’apparato grigio e serioso. Spesso nel suo Promemoria autobiografico, oltre al racconto degli eroismi, funzionale al consolidamento di una mitologia da tramandare, c’è infatti molta attenzione a costruire una rappresentazione del suo carattere come quello di un ragazzo spiritoso, vivace e perfino scanzonato. Si tratta di un’autorappresentazione che però si incaglia nelle testimonianze che altri militanti hanno lasciato. Pensiamo a Iside Viana, biellese, stessa generazione di Secchia, che nell’estate del 1927 viene mandata dal partito a Milano, a lavorare alle sue dirette dipendenze7. La sua vita a stretto contatto col conterraneo sembra fatta di solo lavoro e di quel clima oppressivo che il carattere di Secchia contribuisce ad accentuare. Niente svaghi in compagnia di quel rivoluzionario col quale divide ogni giorno l’ufficio: «Una sola sera e

5  ACS, Confinati Politici, b. 937, Secchia Pietro, Legione territoriale dei carabinieri del Lazio, Cenno biografico al 23 settembre 1941. Si vedano anche: ivi, Proposta per l’invio al confino di polizia, 24 novembre 1926 e un rapporto dei Carabinieri di Biella del 19 novembre 1926 ivi conservato. 6  Promemoria, p. 146. 7  Si veda il profilo di Iside Viana tracciato in De Luna, Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana 1922-1939 cit., p. 313.

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precisamente l’indomani del mio arrivo mi recai a teatro in galleria al Manzoni con Bottecchia»8. Sembra anche questo, nel racconto che ne fa Iside, un’incombenza burocratica che Secchia svolge come uno dei suoi tanti compiti: portare a teatro la nuova arrivata come gesto di benvenuto del partito. Il 1927 è forse l’anno più duro della storia del Partito comunista italiano, ed è anche l’anno più frustrante per i suoi militanti sopravvissuti alle leggi eccezionali. Si era scelto – come noterà poi Secchia – di adottare «la tattica di Cadorna»9 anche perché «la cruda realtà vista e raccontata da certi compagni era definita disfattismo»10. E questa situazione provocava una crescente frustrazione nella base: «Il malcontento cominciava a manifestarsi nella formula: i fessi sono in Italia a lavorare, i furbi sono fuori»11. In chiave storiografica Secchia interpreterà queste frustrazioni della base, che egli dovette sicuramente incontrare personalmente nei suoi contatti con i militanti, come il prodotto della politica del partito che, ancora nella seconda metà del 1926, nutriva un’immotivata fiducia nella possibilità di operare all’interno di una sorta di «legalità costituzionale»12, senza dare troppo peso al possibile aggravarsi della situazione in una «dittatura totalitaria»13. Sappiamo anche che per Secchia lotta clandestina e preparazione militare sono le due facce della stessa medaglia: «Un regime che si regge con la forza delle armi può essere abbattuto soltanto con la forza delle armi»14. Ma in questa fase la lotta clandestina è fatta soprattutto di carta e inchiostro: «Negli anni 1927-28 eravamo talmente occupati a stampare e a diffondere volantini e giornaletti che trascurammo lo studio e l’impiego di altri mezzi di lotta, quasi che la stampa potesse servire a tutto»15.

  Ivi, p. 316.   Intervento di Botte (Secchia) al Comitato centrale dell’8 giugno 1928, in Fondazione Istituto Gramsci, Archivio del Partito Comunista Italiano (d’ora in avanti APC), f. 653, p. 2. 10  Secchia, L’azione, p. 7. 11  Intervento di Botte (Secchia) al Comitato centrale dell’8 giugno 1928 cit., p. 2. 12  Secchia, L’azione, p. 7. 13  Ibid. 14  Ibid. 15  Ivi, p. 28. 8 9

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Secchia è pienamente immerso in questo clima, tanto che proprio nel 1927 apre una dura polemica col partito riguardo i giornali. Si tratta di una vicenda che coinvolgerà anche l’Internazionale e che riguarda la decisione del partito di fondere in un unico giornale i fogli giovanili d’officina e quelli del partito16. Apparentemente si tratterebbe di un aspetto marginale, in particolare se si tiene conto di qual è lo scenario in cui si svolge questa polemica – un Paese in cui tutte le libertà sono state cancellate, un partito che da solo o quasi combatte la dittatura, centinaia di militanti arrestati e pestati –, ma Secchia e i suoi compagni della Fgci caricano questa vicenda di un peso esorbitante. In fondo si tratta della doppia testimonianza degli effetti della clandestinità: da un lato l’avvitarsi su se stessi di molti problemi, che finiscono per essere amplificati all’inverosimile, determina fratture difficili da ricomporre nei gruppi dirigenti; dall’altro la chiusura a riccio della comunità dei militanti, per certi versi inevitabile in una situazione dittatoriale, provoca una sorta di sfasamento nel quale ogni singola questione viene caricata di un’importanza spropositata, finendo per mettere sul medesimo piano tanto i grandi temi dell’analisi politica quanto le questioni s­ econdarie. Ma qui c’è anche la testimonianza di come alcuni giovani poco più che ventenni agissero con una determinazione fortissima, con una carica di passione sincera che nasceva certo da quell’impazienza che abbiamo visto, ma anche da un «sinistrismo» politico che nemmeno il Congresso di Lione era riuscito ad archiviare. Questa polemica è soltanto la prima di un lungo inanellarsi di tensioni che coinvolgerà partito e Fgci almeno fino al 1929. Sempre nel 1927 Longo criticherà, a nome di una parte del gruppo dirigente della Fgci (Secchia compreso), la parola d’ordine del­ l’Assemblea repubblicana sulla base dei comitati operai e contadini, e con essa l’idea che, tra la caduta del fascismo e l’instaurazione di un regime socialista, ci sarebbe stata una fase di transizione nella quale i comunisti avrebbero dovuto fare propri degli obiettivi «democratici». Si tratta in realtà di una critica alla linea del partito,

16  Si veda lettera di Bottecchia e Marcucci [Davide Maggioni] al CE dell’IGC, 28 marzo 1927, in APC, 1927, f. 603/2; lettera del CE dell’ICJ al CC del PCd’I, 8 aprile 1927, ivi.

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ritenuta ambigua e sorpassata17, che esplicita la richiesta di passare a contenuti radicali, come quelli della parola d’ordine «Governo operaio e contadino»18. C’è voglia di radicalità, fra i giovani, ma anche, come ha scritto Spriano, un semplicismo di fondo che si rifiuta di tenere conto delle «necessarie fasi intermedie attraverso cui deve passare il processo rivoluzionario, e quindi l’alleanza con le forze politiche e sociali non proletarie»19. Togliatti, conscio che queste polemiche avrebbero potuto minare l’unità del PCd’I, proverà a ricomporre i dissensi chiedendo ai giovani di entrare a far parte degli organismi dirigenti del partito per partecipare alle discussioni sulla «linea»20. Si tratta di una proposta che nasce anche dalla consapevolezza che la Fgci, almeno coi suoi più autorevoli dirigenti, è stretta attorno a Longo, come testimonia anche la lettera di solidarietà al loro segretario scritta da Secchia e Maggioni il 3 aprile21. È un documento dai toni aspri, che lascia intravedere gli strascichi di una discussione che si deve essere protratta nelle settimane precedenti: «il compagno Bottecchia non si era e non si è affatto convinto [delle posizioni del partito]»22, scrive Secchia in quel documento. Le polemiche tra partito e giovani, in cui Secchia ha un ruolo primario, riguarderanno sempre il tema del radicamento del partito nella società, un radicamento che, per i dirigenti della Fgci, sarebbe dovuto avvenire diffondendo una linea più netta23, ma anche avendo ben chiaro che, data la forza della repressione, i comunisti non

17  La lettera è in APC, 1927, f. 604. Solo Grieco, fra i dirigenti del partito, ammetterà l’ambiguità della formula: relazione in data 2 maggio 1927, in APC, 1927, f. 580. 18  Si veda il verbale della riunione del Comitato direttivo della Fgci, 14 maggio 1927, in APC, 1927, f. 605. Si ricordi che il V Congresso del Comintern aveva sostenuto l’identità fra la formula del Governo operaio e contadino e la dittatura del proletariato. 19  Spriano, Storia del Partito comunista italiano, II cit., p. 107. 20  Si veda la lettera dell’Ufficio estero del PCd’I in data 13 aprile 1927 con correzioni a mano di Togliatti, in APC, 1927, f. 604. Si veda anche l’Allegato A alla lettera, senza data. 21  Lettera di M[arcucci] e B[ottecchia] ad 1, 3 aprile 1927, in APC, 1927, f. 604. 22  Ivi, p. 1. 23  Si veda la polemica sul sindacato nel verbale del Comitato centrale del 2-3 marzo 1927 in Secchia, L’azione, pp. 33 sgg.

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avrebbero dovuto perder tempo in generiche dichiarazioni antifasciste, ma avanzare proposte più concrete e precise24. Per Secchia non si deve troppo indugiare su proposte transitorie o difensive, e prova addirittura a mettere in piedi un’azione eclatante (che poi non andrà in porto): «Io, Gastone Sozzi, Globo (il fratello della Ravera) ed alcuni altri stiamo invece pensando che sarebbe bene organizzare in piena Milano un tentativo di rivolta armata antifascista (di questo però non parlavamo con il Centro estero e neppure con i dirigenti del Centro interno, sicuri che se avessimo avanzato la proposta non se ne sarebbe fatto più nulla)»25. Si procura fucili, pistole, bombe e li nasconde in un magazzino. Proprio riguardo a quel magazzino Secchia ci lascia un’efficace istantanea della sua vita clandestina in cui si mescolano i toni dell’eroismo e del romanticismo, in una dimensione quasi catacombale dell’antifascismo e della clandestinità: «Quando avevo una mezza giornata di ‘respiro’, il che accadeva di rado, la trascorrevo in quel magazzino, ‘sancta sanctorum’, a sfogliare Marx ed Engels, ad aprire quelle casse piene dell’ambita letteratura marxista e nello stesso tempo a sistemare quelle poche armi che eravamo riusciti ad avere e che aumentavano un po’ lentamente»26. Ma è un periodo frustrante per Secchia: «Noi a tessere e ritessere la tela della nostra organizzazione, l’ovra a romperla ogni giorno»27. E gli arresti sono forse la più dolorosa spina nel fianco del partito. Una spina che pungerà anche lui. Egli vive a Torino, in piazza Statuto e la polizia lo sa benissimo, grazie alla «cantata» di un compagno28, ma non sa esattamente quali siano l’indirizzo e il falso nome di Secchia. Questo episodio dell’agosto del ’27 ci consegna ancora una volta uno scorcio della vita clandestina del comunista: La polizia fece fare un ingrandimento della mia fotografia e con quella passò casa per casa in tutte le portinerie di piazza Statuto e [sic] chiedere se abitava lì l’individuo della fotografia. Difatti trovarono così il mio   Promemoria, p. 148.   Ivi, p. 149. 26  Ivi, p. 150. 27  Ivi, p. 147. 28  ACS, Tribunale speciale per la difesa dello Stato (d’ora in poi TSDS), Fascicoli Processuali, f. 1782, I, Rapporto della Questura di Torino, Gabinetto, al Procuratore di Torino, 11 agosto 1927, p. 2. Copia del documento in Archivio di Stato di Torino, Prefettura, Gabinetto, I versamento, b. 645/1. 24 25

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portinaio che rispose di sì: abita al quarto piano, è un commerciante, un bravo giovane (io abitavo e viaggiavo sempre come un commerciante e con nella valigia campionari, cataloghi, ecc., talvolta andavo anche a vendere sul serio, era ciò che noi chiamavamo «la copertura»). I poliziotti si precipitarono di corsa al quarto piano, bussarono violentemente alla porta. Il compagno Gaddi [...] non senza aver prima tolto il segno di segnalazione che stava alla finestra (fuori dalla finestra c’era sempre uno straccio, quando suonavano alla porta, prima di andare ad aprire si toglieva lo straccio; quando lo straccio non era alla finestra significava che non si poteva venire in casa perché era successo qualche cosa), andò ad aprire. Alla richiesta del commissario se vi abitasse Secchia, Gaddi senza scomporsi rispose di sì dicendo: prego, si accomodino. Fatti entrare i poliziotti, richiuse la porta dietro di sé e fuggì velocemente per le scale29.

Gaddi verrà comunque intercettato e deferito al Tribunale speciale30, mentre Secchia riuscirà a essere informato e a sfuggire alla cattura, ma quello nel quale i poliziotti erano entrati non era solo l’appartamento di Gaddi e Secchia, ma anche la centrale della Fgci. La polizia vi trova un’enorme quantità di materiale: «In una credenza a muro nei cassettoni dei comò, sulla toilette, dovunque sparsi libri sovversivi e documenti vari. A terra un poligrafo e un moltiplicatore per riproduzione di foglietti volanti e sui tavoli e per terra mucchi di manifesti sovversivi già tirati. Inoltre un’abbondante provvista di carta bianca, da macchina e da decalco. Alla spalliera del letto un cinturone con pistola e relativa provvista di cartucce»31. Questo l’interno domestico in cui Secchia vive, descritto da un poliziotto. 2. Tra polemiche e organizzazione Nel settembre del 1927 Angelo Tasca propone che Secchia venga mandato a Mosca per seguire un corso di formazione politica: «Botte

29  Promemoria, p. 147. Secchia data la vicenda al settembre 1927 mentre sappiamo che essa si svolse in agosto. 30  Si vedano: A. Casellato, Giuseppe Gaddi. Storia di un rivoluzionario disciplinato, Cierre, Verona 2004, p. 20; G. Gaddi, Ogni giorno tutti i giorni, Vangelista, Milano 1973, p. 34, oltre al documento in ACS, TSDS, Fascicoli Processuali, f. 1782, I, Rapporto della Questura di Torino, Gabinetto, al Procuratore di Torino, 11 agosto 1927 cit. 31  Si veda il documento cit. dell’11 agosto 1927.

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ha bisogno di formarsi: nel lavoro corrente non potrà farlo, reagisce sempre un po’ improvvisando. Due anni di scuola lo potrebbero portare molto avanti, mentre il lavoro pratico può arrestarlo o addirittura portarlo indietro»32. È un giudizio piuttosto duro che sicuramente rappresenta il pensiero non soltanto di Tasca ma del gruppo dirigente del partito. In fondo si tratta della fotografia scattata a un giovane autodidatta che, fagocitato dalla lotta quotidiana, perde di vista la complessità della situazione e, così come abbiamo visto in occasione della polemica sui giornalini d’officina, tende a dilatare la propria percezione di un tassello della situazione fino a proiettarla in una visione generale viziata dalla testimonianza personale. Secchia non andrà a Mosca, e le polemiche tra Fgci e partito non accenneranno a placarsi. Non ci sono solo questioni di linea politica, sembra infatti che Secchia e i suoi si sentano abbandonati in Italia da un Centro estero che sentono lontano, disattento e lento33. Le polemiche riprendono con una lettera firmata da Longo ma condivisa da Secchia34 nella quale si accusa il partito di avere una linea politica che non mette nel dovuto rapporto la lotta antifascista col tema della conquista del potere35. È una critica aspra, che accusa il partito di non essere in grado di dare una giusta lettura della situazione e di indugiare ancora su parole d’ordine intermedie come quella dell’Assemblea repubblicana, mentre invece ci sarebbe bisogno di radicalità: niente «illusioni democratiche»36 ma «lotta» e «organizzazione»37 a partire dal livello più basso, quello dell’oppo-

32  APC, 1927, f. 645, Nota di Serra (Tasca) all’UP di Mosca con osservazioni e proposte sull’utilizzazione dei compagni, 17/09/1927, p. 2. Come sappiamo Secchia non frequentò la scuola di Mosca: Secchia, Post scriptum all’Introduzione, in L’azione, p. xxiii. 33  L. Cortesi, Pietro Secchia da Livorno alla Resistenza, in «Belfagor», XLI, 1986, 6, p. 636 e nota 4. 34  Ibid. 35  Lettera della Segreteria della Federazione giovanile comunista a firma Gallo [Luigi Longo] indirizzata all’Ufficio politico del PCd’I, 20 ottobre 1927. Il documento è in I primi dieci anni di vita del Partito Comunista Italiano. Documenti inediti dell’Archivio Tasca, a cura di G. Berti, «Annali» dell’Istituto Giangiacomo Feltrinelli, VIII, 1966, Feltrinelli, Milano 1966, pp. 368-381. Alcuni brani anche in Secchia, L’azione, pp. 67-68. 36  I primi dieci anni di vita del Partito Comunista Italiano cit., p. 375. 37  Ibid.

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sizione ai podestà, che bisogna mandare via «solo a scapaccioni»38, per approdare a quello più alto che deve affermare che «il potere sia in mano agli operai e ai contadini»39. Si tratta insomma di rompere «la legalità fascista»40. In questa fase, dunque, come ha scritto Joan Urban, i giovani formulano una critica che mette in discussione la linea del partito ma non il suo gruppo dirigente. E proprio questo dato è probabilmente la ragione principale per la quale Longo e Secchia non verranno isolati ma, al contrario, saranno integrati nella direzione centrale41. Secchia, infatti, dopo poco sarà nominato responsabile dell’organizzazione del partito. È il 9 aprile 192842. Si tratta, come hanno notato Flores e Gallerano, non soltanto di un successo personale di Secchia, quanto di un riconoscimento delle istanze politiche della Fgci43. Questo successo della Fgci non è però tutto da attribuire alla sua forza politica. Vi è infatti, a partire dalla seconda metà dell’ottobre 1928, una serie di «pressioni e di condizionamenti indiretti»44 da parte dell’Internazionale sul PCd’I affinché operi una sterzata a sinistra. Si tratta di un’accelerazione che però non combacia del tutto con le istanze dei giovani. Infatti nel gennaio dell’anno precedente il Presidium del Comintern aveva riaffermato che in Italia la rivoluzione non avrebbe avuto necessariamente un immediato carattere proletario ma, al contrario, sarebbe passata per una fase di transizione «democratica»45. È ancora una volta Longo, a Mosca, a criticare questa visione. E a Togliatti diventa sempre più chiaro che la protesta della Fgci intende «sottoporre a una revisione fondamentale tutta la linea che il Partito   Ibid.   Ivi, p. 369. 40  Ivi, p. 376. 41  J. Barth Urban, Moscow and the Italian Communist Party. From Togliatti to Berlinguer, Tauris, London 1986, p. 51. 42  Si vedano i verbali della Segreteria del 9 aprile 1928, in APC, 1928, f. 662. 43  M. Flores, N. Gallerano, Sul Pci. Un’interpretazione storica, il Mulino, Bologna 1992, pp. 48-49. 44  A. Agosti, La Terza Internazionale. Storia documentaria, III, 1928-1943, 1, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 21. 45  Si veda la Risoluzione del Presidium sulla situazione economica e politica dell’Italia e sui compiti del PCd’I, 28 gennaio 1927, in «Lo Stato Operaio», I, 1927, 1 (marzo), pp. 91-102, ora in A. Agosti, La Terza Internazionale. Storia documentaria, II, 1924-1928, 2, Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 701-710. 38 39

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ha seguito dal mese di novembre» fino a quel momento46. C’è nelle parole di Togliatti quella che Agosti ha definito «un’accusa appena velata di bordighismo»47. Se Agosti inserisce il dissenso fra la Fgci e il partito nell’ampio quadro del dibattito internazionale, Miriam Mafai interpreta questi dissensi come la nascita di quei dissidi fra Secchia e Togliatti che, secondo la giornalista, sarebbero poi stati per un trentennio la cifra dei rapporti fra i due48. In realtà questa interpretazione non coglie il significato del dibat­ tito del 1927. Secchia è certo una figura di primissimo piano in questa aspra dialettica ma non è l’unico sostenitore di una posizione alternativa a quella del gruppo dirigente del PCd’I. Non è una lotta personale, quella aperta dalla lettera del 20 ottobre, che peraltro è firmata da Longo e non da Secchia, ma una battaglia politica che vede su fronti opposti la Fgci e l’Ufficio politico del partito49. 3. L’organizzatore Ancor prima di divenire responsabile dell’organizzazione, Secchia aveva dato prova delle sue doti preparando la Seconda conferenza nazionale di organizzazione, tenuta a Basilea, in Svizzera, dal 22 al 25 gennaio 192850. Per Secchia è un momento importante della sua biografia: ha appena compiuto ventiquattro anni, ha alle spalle quasi un decennio

46  Documento firmato Ercoli di risposta e di commento alla lettera dei «giovani» in I primi dieci anni di vista del Partito Comunista Italiano cit., pp. 381-400, la cit. è a p. 381. 47  A. Agosti, Togliatti. Un uomo di frontiera, Utet, Torino 2003, p. 108. 48  Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata cit., pp. 21-22. 49  F. Livorsi, Tra estremismo e stalinismo. Luigi Longo e la «svolta» del 1929, in Luigi Longo. La politica e l’azione, Premessa di G. Vacca, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 139-158, in part. pp. 144-145. 50  Per una ricostruzione del dibattito e in particolare delle posizioni di Secchia si farà riferimento a La seconda conferenza del Partito comunista d’Italia (Resoconto stenografico), La seconda conferenza della F.G.C.I. (Resoconto sommario), Edizioni del Partito comunista d’Italia, Parigi (giugno) 1928. I verbali sono stati collazionati con gli originali conservati in APC, 1928, f. 646. Si vedano anche i documenti pubblicati in I primi dieci anni di vita del Partito Comunista Italiano cit. Importanti anche P. Secchia, Appunti e ricordi (L’Archivio Tasca sul Pci), in «Critica Marxista», V, 1967, 3, pp. 100-138; Id., L’azione, pp. 100-122.

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di militanza e la sua formazione si è intrecciata con alcune delle fasi più drammatiche del movimento operaio italiano. La sua identità di rivoluzionario professionale si è definita attraverso un’adesione alle ragioni del proletariato veicolata dall’ideologia più che dall’esperienza personale (nonostante l’autorappresentazio­ne che ci ha consegnato), scompaginando i piani della sua famiglia che avrebbe voluto farlo studiare e sistemarlo in qualche ufficio, come impiegato. Progressivamente la sua vita è stata invece fagocitata da una militanza totalizzante, a cui ha aperto le porte della sua esistenza concedendo al fiume in piena del comunismo novecentesco di entrare nella sua quotidianità, rompendo gli argini fra il privato e il pubblico, fra la vita e la politica. È così che la sua dimensione privata si è messa in connessione con la storia, in una continua ridefinizione del suo ruolo dettata dai cambiamenti politici, dall’avvento del fascismo, innanzitutto, e dalla conseguente clandestinità. Una clandestinità che non soltanto ha determinato con prepotenza le coordinate dell’esistenza quotidiana, ma è arrivata perfino a mettere un’ipoteca sull’elemento che più esprime l’identità di una persona: il nome. Per anni Pietro Secchia non esisterà più, almeno pubblicamente. Ci saranno di volta in volta Vineis, Mario Negro, Bottecchia, Botte, Ranieri: pseudonimi che in molti casi accompagneranno la vita dei militanti per sempre, sia come tributo a un eroismo giovanile, sia come àncora a un passato che nel breve volgere di alcuni anni ha dato senso a un’intera esistenza. La conferenza di Basilea è un momento di tregua nelle battaglie interne al partito ed è anche un momento di effettiva democrazia51. Una democrazia che non riesce però a squarciare quell’incomunicabilità che separa i giovani dal partito. Secchia e Longo s­ embrano parlare un linguaggio diverso da quello di Togliatti e del resto dell’Ufficio politico. Ciò appare chiaramente se si comparano le parole dei due dirigenti con la ricezione delle stesse da parte del partito. Togliatti, infatti, accusa i giovani di essere troppo ottimisti, di non leggere tutta la drammaticità della situazione. In realtà, come ha notato Collotti, proprio il pessimismo è una delle cifre della posizione della Fgci ed è per questo che Secchia e Longo intravvedono la possibilità di una radicalizzazione del conflitto di classe e quindi reputano ina-

  Agosti, Togliatti. Un uomo di frontiera cit., p. 119.

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datto l’uso di parole d’ordine che non richiamino direttamente alla lotta di classe contro il fascismo52. Il modello organizzativo che Secchia propone prevede una partecipazione dei militanti a ogni possibile agitazione, per minu­scola che essa sia. E poi c’è ancora la questione della stampa di partito. Secondo il comunista biellese non soltanto si deve partecipare ad «ogni agitazione»53, ma si deve anche essere in grado di rendere pubblica la partecipazione dei comunisti ai movimenti rivendicativi attraverso, appunto, la stampa. Ed è proprio con la stampa, afferma Secchia, che si può formare la base, farla crescere politicamente. È in questo progetto di forte attivismo che Secchia, ancora una volta, ritorna con il tema delle parole d’ordine che, afferma, devono essere chiare e comprensibili da tutti54. Uno dei fuochi del suo intervento sta nel rapporto fra lotta politica e violenza55. «Cosa si intende per terrorismo?», si chiede Secchia. «Nessuno pensa agli atti individuali, colpi di rivoltella, uccisione di un fascista: ma si pensa alla possibilità di far scoppiare le agitazioni dove vi è del fermento e si pensa alla possibilità di allargarle, di portarle più avanti dove esse sono già scoppiate»56. Il tema della violenza si intreccia nuovamente col ruolo delle avanguardie, in una concezione della politica tipicamente novecentesca nella quale il partito non soltanto si fa carico delle istanze politiche delle masse ma le suscita. Nelle parole di Secchia c’è infatti tutta la convinzione di una superiore intelligenza di cui il partito sarebbe depositario. Un’intelligenza che gestisce le masse con un atteggiamento paternalistico ma che lo fa all’interno di una mitologia che ruota attorno all’idea che il proletariato sia antropologicamente superiore. Nella proposta di Secchia c’è tutta l’esperienza di chi ha sempre lavorato in Italia, subendo lo stress della clandestinità e, in particolare, di chi si è occupato di mantenere in vita i rapporti con le singole realtà del partito sparse nel Paese. E Secchia sembra affermare, come ha scritto Collotti, che la propaganda non basta a dare sostegno

  Collotti, Introduzione a Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 25.   La seconda conferenza del Partito comunista d’Italia cit., p. 93. 54  Ivi, p. 96. 55  Si veda, per un inquadramento del tema, M. Albeltaro, Italian communism and violence, 1921-48, in «Twentieth Century Communism», II, 2010, pp. 92-113. 56  La seconda conferenza del Partito comunista d’Italia cit., p. 97. 52 53

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ai militanti, che occorre qualcosa di più efficace, immediato, come può esserlo l’appoggio, anche armato, a rivendicazioni che nascono spontaneamente. Per Secchia, come egli stesso confermerà nelle sue ricostruzioni storiografiche, non c’è contraddizione fra l’impiego di mezzi, per così dire, legali e l’uso della violenza in determinate situazioni57. Proprio le caratteristiche della dittatura fascista, che tiene assieme un apparato repressivo «legale» – stabilito per legge – con tutta una costellazione di azioni violente improvvisate, coperte da tacite complicità o promosse da occulti funzionari, sembrano essere speculari all’idea che Secchia ha della lotta contro il regime. Se nel dibattito di Basilea le tensioni fra giovani e partito sono sotto traccia è anche perché il partito decide, di fatto, di aprirsi alla Fgci e alle sue istanze. E proprio dopo la Conferenza Secchia diventa segretario dell’organizzazione giovanile, succedendo a Longo58. Secchia non farà però rientro in Italia in ragione di un avvicendamento fra i compagni che hanno fino a quel momento lavorato in patria. A dirigere il Centro interno verrà invece mandato Girolamo Li Causi, «il famigerato prof.» Li Causi, come lo chiama un rapporto di polizia59. Tutto il nuovo Centro interno sarà però spazzato via dall’ondata di arresti seguiti all’attentato di piazzale Giulio Cesare del 12 aprile 1928, nel quale morirono 18 persone. Soltanto Longo scamperà all’arresto. I comunisti pagarono a duro prezzo un attentato, fatto a Milano durante l’inaugurazione della Fiera campionaria alla quale partecipava anche Vittorio Emanuele III, la cui paternità, pare ormai assodato, deve attribuirsi all’antifascismo di matrice repubblicana60. Quella campagna di arresti segna, per impiegare le parole dello stesso Secchia, «il colpo più duro e per il momento ‘conclusivo’»61 assestato dal regime ai comunisti.   Secchia, L’azione, p. 106.   Collotti, Introduzione a Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 26. Si veda anche Secchia, L’azione, p. 119. 59  Rapporto del Questore di Torino del 26 maggio 1928, in ACS, Ministero dell’Interno, Direzione generale di PS, A.g.e r., 1928, K I, b. 176, f. «Torino». 60  G. Sedita, Storia di un’indagine 1928-1943. La strage di piazzale Giulio Cesare e la stagione terroristica milanese, in «Storia e problemi contemporanei», 2006, 43, pp. 105-121. 61  Secchia, L’azione, p. 137. 57 58

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4. «Abbiamo fatto come l’ubriacone...» Il PCd’I sta conducendo, in questi frangenti, una politica improntata a un programma «minimalista»62 che prova a barcamenarsi fra i condizionamenti del Comintern e i tentativi, portati avanti in particolare da Togliatti, di ricavarsi un minimo di autonomia che permetta, soprattutto nella lettura del fenomeno fascista, di non rinunciare a un’analisi più complessa di quella formulata da Mosca, ancorata alla completa identificazione fra fascismo e capitalismo. La linea prevede di continuare con le agitazioni, laddove possibile, anche nel quadro di legalità concesso dai sindacati fascisti, proponendo ancora parole d’ordine parziali di ispirazione democratica e cercando di pagare il minor prezzo possibile alla repressione. La tattica togliattiana affonda le radici nella consapevolezza, come aveva affermato il segretario a Basilea, che «non c’è prospettiva rivoluzionaria ma una situazione reazionaria»63. Intanto sul piano internazionale il Comintern stava elaborando quella sterzata a sinistra che avrebbe portato i comunisti in un «beato isolamento politico»64. È l’epoca della parola d’ordine «classe contro classe» (IX Plenum, febbraio ’28). La scelta di campo del Comintern trova il suo fondamento in una lotta senza quartiere alla socialdemocrazia che non viene più vista come la costola destra del movimento operaio, ma come una forza politica del tutto omogenea alla borghesia e quindi da colpire con eguale, se non maggiore forza65. Si è aperta dunque, con la formula «classe contro classe» e con la negazione di ogni prospettiva di fronte unico66, la via verso la definizione di «socialfascismo» che si sarebbe abbozzata al VI Congresso del Comintern per poi essere ribadita con più forza al X Plenum dell’Esecutivo, nel luglio del 192967.   Spriano, Storia del partito comunista italiano, II cit., p. 143.   La seconda conferenza del partito comunista d’Italia cit., p. 73. Si veda anche Spriano, Storia del partito comunista italiano, II cit., p. 143 e nota 3. 64  Ivi, p. 144. 65  Si vedano: A. Agosti, Le internazionali operaie, Loescher, Torino 1973, p. 111; K. McDermott, Comintern, in Dizionario del comunismo nel XX secolo, I, a cura di S. Pons e R. Service, Einaudi, Torino 2006, p. 174. 66  A. Agosti, Bandiere rosse. Un profilo storico dei comunismi europei, Editori Riuniti, Roma 1999, p. 69. 67  K. McDermott, Socialfascismo, in Dizionario del comunismo nel XX secolo, II, 62 63

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Il quadro internazionale sembra dunque dare sempre più ragione alla Fgci, al suo radicalismo, alla sua impazienza e al desiderio di stabilire dei confini identitari netti. Il dibattito all’interno del PCd’I continua con quel ping-pong tra il partito e la federazione giovanile. Ma in questi frangenti le discussioni sulla linea, sull’interpretazione del fascismo e sulle parole d’ordine si infrangono sugli scogli della realtà. Una realtà durissima, che vede un partito che parla dell’Italia avendo perso quasi ogni legame con essa. Per Secchia, in questi mesi, il problema dei legami è quindi centrale: legami politici, di assistenza, che incoraggino a non mollare. Ma soprattutto legami fra centro e periferia, fra la politica e chi la deve realizzare: legami che responsabilizzino e che permettano di non sentirsi soli. Il partito, per Secchia, deve avere una struttura capace di resistere sia alla repressione poliziesca che si svolge alla luce del sole, sia a quella più subdola che opera attraverso infiltrati e «provocatori». Quindi da un lato è necessario dare l’«esempio» nella repressione delle spie68, dall’altro strutturare il partito a compartimenti stagni, in modo che la «caduta» di un funzionario non comporti una reazione a catena nel resto dell’apparato. Sebbene Secchia sia ora responsabile dell’organizzazione, e si possa quindi considerare parte integrante – e con un ruolo di primissimo piano – del gruppo dirigente del PCd’I, il suo atteggiamento polemico non cambia, sia in virtù della linea politica del Comintern, che sembra dare ragione alla sua richiesta di radicalità, sia per quella insaziabile voglia di militanza che ha in comune con Longo. Il «processone», che aveva condannato a pene pesantissime i dirigenti comunisti arrestati, fra cui Gramsci, si era da poco chiuso69 e il partito faticava a lasciarsi alle spalle gli arresti. Il problema dei «pro-

a cura di S. Pons e R. Service, Einaudi, Torino 2007, pp. 407-408. Si veda anche K. McDermott, J. Agnew, The Comintern. A History of International Communism from Lenin to Stalin, MacMillan, London 1996, pp. 98-119. 68  Si veda l’intervento di Botte al Comitato centrale del 22 marzo 1928, in APC, 1928, f. 653, p. 11. 69  Si vedano: Il processone. Gramsci e i dirigenti comunisti dinanzi al tribunale speciale, a cura di D. Zucaro, Editori Riuniti, Roma 1961; D. Zucaro, L’organizzazione di base del Partito comunista d’Italia avanti al Tribunale speciale (1926-29), in «Studi storici», I, 1959-60, 5; L.P. D’Alessandro, I dirigenti comunisti davanti al Tribunale Speciale, ivi, L, 2009, 2.

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vocatori» è quindi all’ordine del giorno e viene vissuto con particolare ansia da chi come Secchia deve occuparsi dell’organizzazione. Ancora molti anni dopo Secchia sosterrà che «la campagna contro i provocatori e le spie era fatta con ritardo [...] [ed] era condotta soltanto con i metodi della denuncia e dell’agitazione sulla stampa», senza porsi il problema di dare una volta per tutte l’«esempio», attraverso l’impiego del pugno di ferro70. Ma questo non è l’unico elemento su cui si concentra la critica della Fgci. Continuano, infatti, a confrontarsi due visioni della fase che sono anche due diversi approcci alla politica. Se da un lato Togliatti ribadisce la validità della linea scaturita dal III Congresso e suggerisce che il partito debba «riuscire a condurre un’agitazione tra le masse anche nascondendosi come partito per risorgere come classe operaia in movimento»71, dall’altro i giovani sostengono, attraverso Longo, la necessità di non perdere di vista il programma «massimo» nemmeno nelle fasi più dure perché non c’è da augurarsi nessuna fase di transizione fra la caduta del fascismo e l’avvento del socialismo, in particolare in una situazione come quella in corso che viene definita preinsurrezionale. Se il gruppo dirigente proverà a fare dei distinguo fra Longo, ritenuto più critico, e Secchia, in realtà sappiamo che questi la pensava esattamente come il suo sodale. Per Secchia l’idea che il partito potesse trarre vantaggio mimetizzandosi nel resto del movimento operaio è lontanissima dalla sua cultura politica, per la quale il partito rappresenta quasi naturalmente una calamita per la classe ope­ raia72 e il fatto che Secchia concentri le sue osservazioni più sul piano organizzativo che su quello ideologico non significa che la sua critica non sia decisa73. Ancora una volta quella di Secchia è una critica complessiva che muove dall’atteggiamento «strafottente»74 tenuto dal partito di fronte alle leggi eccezionali, passa per un’autocritica del comportamento dei giovani durante la polemica sui giornali d’officina, che pure na-

  Secchia, L’azione, p. 141.   Ivi, p. 142. 72  Si veda il verbale della seduta allargata del Comitato centrale dell’8 giugno 1928, in APC, 1928, f. 653, p. 118. 73  Si veda l’intervento scritto di Secchia allegato al Verbale cit., p. 1. 74  Ibid. 70 71

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sceva da una sottovalutazione del fascismo, per poi approdare alle questioni sul piatto. Secchia, sebbene nelle sue memorie affermerà di aver condiviso le posizioni di Longo, in realtà non aveva lesinato una ­critica nemmeno a lui. Per Secchia, che in quella fase sembra voler assu­mere agli occhi del partito un maggiore credito, la sconfitta del PCd’I non doveva, infatti, essere semplicemente letta come l’esito di scelte ideo­logiche sbagliate, ma come il riflesso di una politica organizzativa miope che aveva deciso di impiegare contro il fascismo tutte le sue risorse, consegnando, di fatto, alla polizia un enorme numero di militanti75 e ritrovandosi poi a dover far fronte a una situazione ormai drammatica: «abbiamo fatto come l’ubriacone che si propone di fare economia nel momento che non ha più soldi»76. In Secchia, nonostante la forte determinazione nel ribadire gli elementi di dissenso, vi è, in questa fase, anche una sorta di senso di responsabilità che lo porta a trovare nell’autocritica lo strumento per dare credito alle sue proposte. È un tipico atteggiamento terzinternazionalista che ha ormai introiettato in anni di militanza. La strategia dell’entrismo, abbozzata da Togliatti, affiora in Secchia come uno dei tasselli della lotta antifascista nella nuova fase. Per il comunista è infatti necessario «sfruttare quelle organizzazioni che esistono legalmente anche se sono dirette e controllate dai fascisti»77 per svolgere un’azione di massa. Secondo Secchia gli operai comunisti dovrebbero quindi intervenire nelle assemblee del sindacato fascista, ad esempio, portando là le loro posizioni, in modo da provocare qualche dubbio che, potenzialmente, avrebbe potuto fare breccia nella scorza dell’omogeneità del regime. Organizzare il sindacato comunista dentro quello fascista è dunque il compito che egli attribuisce al partito78. L’organizzazione che propone Secchia è quella di un partito d’avanguardia militarizzato: «piccoli nuclei fidati, ristretti, in ogni città. Composti da buoni compagni»79. Anche sul terreno della vio-

  Ibid.   Ibid. 77  Ivi, p. 7. 78  Si veda su questo punto anche P. Secchia, I giovani dalla fondazione del P.C.I. alla Resistenza, in Id., Lotta antifascista e giovani generazioni, La Pietra, Milano 1973, p. 170. 79  Intervento scritto allegato al Verbale cit., p. 11. 75 76

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lenza Secchia afferma il bisogno di dare una scossa al partito e se è convinto che non sia il momento di organizzare gruppi armati e mettersi a costruire bombe, «dal far questo al non far nulla qualche cosa di mezzo ci potrebbe essere»80: una posizione che poi negli anni avrebbe ripetuto molte volte, in particolare nel secondo dopoguerra. Secchia, dunque, si discosta un po’ da Longo, con una ­critica che prova a tenere insieme più elementi di complessità. Ciò comunque non gli impedisce di astenersi, ancora una volta, sul documento formulato dalla Segreteria. Non è evidentemente cosa grave, vista la sua nomina nella delegazione che parteciperà al VI Congresso dell’Internazionale81. È Secchia il giovane su cui il gruppo dirigente, pur con tutte le riserve per la sua intransigenza, ha deciso di puntare. E Secchia, infatti, va al VI Congresso forte del suo ruolo di segretario della Fgci e di responsabile dell’organizzazione del partito. È un dirigente maturo, ma è anche un ragazzo che, in un impasto caratteriale talvolta imperscrutabile, unisce alle asprezze del rivoluzionario professionale quel gusto per la satira che ha coltivato ai tempi del «Galletto rosso». E proprio a Mosca, nel clima teso di quel congresso, egli trova il tempo per rispolverare le «Edizioni del ‘Galletto rosso’» e improvvisare un «Giornale murale della Delegazione italiana»82. In questo foglio scritto a mano si prendono in giro Turati, Grieco ma anche Longo, a cui Secchia riserva un divertente «Foglio di congedo temporaneo, rilasciato al Guardiano di sinistra Luigi Longo di Amadeo83 e di Ortensia Rompiscatole nato a Bordighiera il 20 gennaio 1900». Nel documento «si dichiara che detto guardiano di sinistra ha servito fedelmente il partito nel reparto difesa dalle incursioni e deviazioni di destra, e viene congedato temporaneamente per l’inesistenza di tale pericolo e per mancanza di lavoro. Gli si rilascia il ‘passo vestiario’ e l’indennità di servizio», firmato: «Il comandante di reggimento Ercoli» e «L’aiutante maggiore» Grieco. E poi segue una postilla: «Il reparto, numeroso anzichenò, viene da oggi sciolto. S’invitano i guardiani di sinistra a voler passare in   Ivi, p. 13.   Promemoria, p. 153. 82  Una bozza è conservata in APC, 1928, f. 645. Il giornale non è firmato ma il nome dell’«editore» e lo stile fanno pensare senza dubbio a Secchia. 83  Il riferimento è a Bordiga. 80 81

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fureria per il ritiro del congedo e annessi»84. Il nome della tipografia, apposto in calce al giornalino, è una degna chiusa: «Tipografia del marxismo ortodosso-Via della ‘giusta’ linea n. 69». Il VI Congresso di Secchia, tuttavia, non è condensato nel «Giornale murale». Si tratta di un momento importante, soprattutto per chi da mesi sta conducendo una battaglia all’interno del proprio partito. Il congresso sarà estenuante: aperto a Mosca il 17 luglio 1928, a quasi due anni di distanza dall’ultima riunione realmente rappresentativa, verrà chiuso 47 giorni dopo85. È in quell’assise che si «esaspera la lotta contro la socialdemocrazia»86, approdando alla formula del «socialfascismo», una categoria interpretativa che già aleggiava tra i comunisti dal precedente congresso e che sarà definita in modo conclusivo al X Plenum dell’Ekki attraverso l’idea della «fascistizzazione della socialdemocrazia». L’oggettivo spostamento a destra delle socialdemocrazie con l’intensificarsi di un sentimento antibolscevico e l’acuirsi delle lotte interne al Pcus, che vedono il gruppo dirigente raccolto attorno a Stalin deciso a spazzare via le opposizioni, sono i due elementi che più contribuiscono a inasprire un clima congressuale caratterizzato da «un diffuso disagio, alimentato da una ridda di voci incontrollate, da manovre di corridoio, da riunioni separate degli esponenti delle opposte fazioni russe con i rispettivi simpatizzanti nelle delegazioni straniere»87. In quella sede Togliatti pronuncia «un discorso coraggioso e non conformista»88 che tiene assieme la critica alla socialdemocrazia con la sottolineatura del pericolo fascista, la richiesta di una maggiore democrazia interna nei partiti comunisti con la rivendicazione alla maggioranza del PCd’I del merito di aver fatto collaborare la destra interna alla propria linea senza dover ricorrere a provvedimenti disciplinari.   «Il giornale murale della Delegazione italiana al VI Congresso» (bozza) cit.,

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p. 7.

85  Agosti, La Terza Internazionale. Storia documentaria, II, 1924-1928, 2 cit., pp. 879-880. La riunione precedente a cui si fa riferimento è l’Esecutivo allargato del novembre-dicembre 1926. 86  Spriano, Storia del partito comunista italiano, II cit., p. 163 87  Agosti, La Terza Internazionale. Storia documentaria, II, 1924-1928, 2 cit., p. 881. 88  Agosti, Togliatti. Un uomo di frontiera cit., p. 113.

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Per Secchia il VI Congresso è soprattutto l’occasione per incontrare alcuni dei più importanti dirigenti del movimento comunista internazionale: Molotov, Bucharin, Thälmann, Kuusinen e Krup­ skaja, con cui riesce anche a scambiare qualche parola89. Non sappiamo nulla del suo ruolo al congresso, mentre è possibile sapere qualcosa di più sulla sua attività al Congresso dell’Internazionale giovanile, che si svolge in contemporanea a quello del Comintern90. Secchia non è soddisfatto di quell’assise, lamenta una discussione «affrettatissima»91 e sente tutta la frustrazione per un organismo che avverte lontano, disattento alle reali situazioni dei vari Paesi e dell’Italia in particolare92. Ma ciò che gli piace del Congresso dell’Internazionale giovanile è la forza con cui si sta conducendo la lotta contro la socialdemocrazia93, così come la strategia per conquistare nuovi giovani volta a scrollare di dosso alle federazioni giovanili dei vari Paesi quel «carattere troppo pesante» che aveva indotto i giovani a preferire le organizzazioni ricreative borghesi94. Tutte queste discussioni devono però fare i conti con una realtà che è sempre più dura. E tutti i ragionamenti sulla situazione italiana rimangono confinati in un limbo di astrattezza perché in questi frangenti il PCd’I non può contare su una base in Italia in grado di fare politica attivamente. La riorganizzazione di una presenza comunista in Italia è dunque il tema che più sta a cuore a Secchia. Non si tratta soltanto di soluzioni tecniche ma politiche. E Secchia riesce a muoversi con una certa autonomia sui binari della linea togliattiana, imbastendo un discorso che prova a prevenire le critiche affermando la validità della linea del partito, per poi formulare una serie di proposte che si discostano da essa tanto quanto basta per non sganciarsi definitivamente.

  Promemoria, p. 153.   Si veda la relazione di Secchia sul V Congresso del Kim presentata durante il Comitato centrale dell’ottobre 1928, in APC, 1928, f. 653, pp. 26-31. Si veda anche il rapporto di Secchia sul V Congresso del Kim nel Verbale del Comitato centrale della Fgci del 25-27 ottobre 1928, in APC, 1928, f. 508, pp. 1-5. 91  Verbale CC ottobre 1928 cit., p. 26. 92  Si veda la lettera di Botte a Gallo e Lovera, 7 ottobre 1928, in APC, 1928, f. 704. 93  Si veda il verbale della riunione del Comitato centrale della Fgcd’I, 16 settembre 1928, in APC, 1928, f. 508, p. 8. 94  Ibid. 89 90

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«Prevediamo noi che l’attuale situazione italiana stia per avere uno sbocco definitivo tra alcuni mesi? Nessuno di noi crede questo»95. E ancora: «Crediamo noi di poter solo col nostro lavoro e con le nostre forze cambiare la situazione? [...] Abbiamo visto e provato che i movimenti non si creano solo con i manifestini e le parole d’ordine, e neppure organizzando delle piccole minoranze di operai»96. La drammaticità della situazione spinge Secchia a proporre un modello organizzativo nuovo, che non provi più soltanto a ­«prendere dei collegamenti», perché ora «si tratta di andare a ricostruire il partito non solo come organizzazione, ma come uomini»97. Per fare ciò propone che contemporaneamente alla ricostruzione dell’apparato, il partito si impegni a organizzare delle agitazioni in modo da riconnettersi con le masse, provando a rompere quell’isolamento in cui i comunisti si sono cacciati, chiudendosi in un lavoro soltanto burocratico. Si tratta di guardare la situazione in faccia, sostiene Secchia, in tutte le sue componenti e, prima di tutte, quella umana: «Ogni compagno fa dei sacrifici in quanto è convinto della necessità di questi sacrifici, ogni compagno ricerca nel suo lavoro una ‘soddisfazione’ che non è data da interessi materiali, ma dai risultati delle ripercussioni del suo lavoro»98 perché «la fede, l’ideale, se non si basano su qualche cosa di reale, contano poco»99. Per ridare fiducia ai militanti, secondo Secchia, bisogna smettere di imporre loro di «ripetere pappagallescamente alcune direttive»100, è invece necessario lasciar loro un certo margine di libertà, responsabilizzandoli. È in questa sede che egli propone una riorganizzazione territoriale sulla base dei segretariati interregionali101. Il piano di Secchia è strutturato: ogni segretario dovrà andare a vivere all’estero nei luoghi dove è più concentrata l’emigrazione proveniente dalle zone sotto la sua responsabilità, in modo da bilanciare la presenza in Italia con la creazione di un bacino di militanza di riserva all’estero; la direzione politica dovrà mantenere stretti rapporti

  Ivi, p. 2.   Ibid. 97  Ibid. 98  Ivi, pp. 5-6. 99  Ivi, p. 6. 100  Ibid. 101  Ivi, p. 7. 95 96

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col territorio attraverso la creazione di macroaree geografiche piuttosto omogenee con una militanza capillare. In questa fase Secchia lavora febbrilmente per rimettere in piedi l’organizzazione e prova a cercare tutti i difetti che nei mesi passati l’hanno impedito102. Per Secchia, non mettere in atto un nuovo metodo di lavoro significherebbe esporre i compagni a inutili atti di «eroismo», mentre sarebbe fondamentale fare in modo «che il lavoro costi meno caro» in termini di arresti103. Ma nel piano che il dirigente ha in mente non ci sono soltanto delle misure organizzative, c’è una strategia di incoraggiamento dei compagni impegnati in Italia. Secondo Secchia non bisogna infatti permettere che chi pratica direttamente la lotta antifascista si senta solo. Per questo sottolinea l’importanza di sensibilizzare i compagni dell’emigrazione sul ruolo dei militanti in Italia, sui loro sacrifici, sulla durezza della lotta che essi conducono104. La riorganizzazione che Secchia tenta sembra voler ripartire da zero per lasciarsi alle spalle, quasi per esorcizzarlo, un passato di arresti, di crisi, di difficoltà. E il suo piano parte dall’inizio: dalla formazione dei compagni. Quando si riducono le forze è necessario riqualificarle, non ha senso avere militanti che sanno «solo portare dei pacchi: ‘Corriere’ è stato sino ad oggi, se non sinonimo di fesso, la qualifica dell’elemento di ultimo grado»105. Proprio per ovviare a un eccessivo gap fra dirigenti e funzionari, Secchia propone di istituire una scuola che serva a dare una formazione adeguata a chi verrà mandato in Italia. Il progetto organizzativo di Secchia si fonda sulla consapevolezza delle ridotte disponibilità di militanti su cui il partito può contare e prova anche a mettere in piedi una struttura che consenta di esporre al rischio dell’arresto il minor numero di funzionari possibile: all’apice dell’organizzazione deve esserci un dirigente, coadiuvato da un «aiuto» che mantenga i contatti fra il vertice «e gli altri», poi alcuni compagni «viaggiatori» che «mantengono i contatti con i corrieri e

102  Si veda il verbale della riunione dell’Ufficio politico del 20 novembre 1928, in APC, 1928, f. 659, p. 3. 103  Verbale della riunione dell’Ufficio politico del 21 novembre 1928, ivi, p. 1. 104  Si veda il Verbale della riunione dell’Ufficio politico del 22 novembre 1928, ivi, p. 3. 105  Bottecchia, Appunti per la costituzione dell’apparato tecnico, 16 maggio 1918, in APC, 1928, f. 665, pp. 6-7.

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ne verifica[no] l’operato» e, infine, «quattro corrieri: uno per ogni zona d’Italia» a cui spetta di visitare le singole federazioni una volta ogni due settimane e che dovranno avere con sé poco materiale, in modo da non dover organizzare dei depositi clandestini e da rendere minimi i rischi di arresti e sequestri106. Un’altra disposizione organizzativa a cui Secchia sembra tenere in modo particolare riguarda la lotta armata. Secondo il dirigente comunista, conscio delle scarse possibilità di addestrare i compagni all’uso delle armi, la Fgci avrebbe dovuto mandare i propri militanti nell’esercito, in modo che questi imparassero le tecniche militari da impiegare poi al momento dell’insurrezione107. Del resto il tema della preparazione alla lotta armata si fa più pressante in un clima incupito dalla prima condanna a morte inflitta dal regime, il 15 maggio 1928: si tratta di Michele Della Maggiora, un bracciante comunista che aveva ucciso due squadristi e ne aveva ferito un terzo. È un momento di cesura che determina una nuova fase. È un evento simbolico che certo dovette impensierire quei dirigenti che, come Secchia, avevano riflettuto molto sull’impiego della violenza sia in chiave offensiva che difensiva. Ma il partito è in questi mesi fagocitato da mille altri problemi che determinano lunghe ed estenuanti discussioni nelle quali, come dei convitati di pietra, si inseriscono le direttive del Comintern. 5. Dibattendo Nel luglio 1929 Secchia è di nuovo a Mosca per il X Plenum del Comintern. È qui che gli si presenta un’occasione importante per mostrare a Togliatti che, nonostante le polemiche, lui è uno di cui ci si può fidare. In quest’assise il PCd’I è sotto accusa. Togliatti, in ­particolare, viene duramente criticato per avere tenuto una linea troppo morbida verso chi dissentiva con l’Internazionale, e in particolare con Angelo 106  Per tutte le citazioni: ivi, p. 8. Simili provvedimenti erano già stati illustrati da Secchia nel suo Programma per un nuovo piano di funzionamento dell’apparato organizzativo della Federazione giovanile, 27 aprile 1928, in APC, 1928, f. 710. 107  Si veda il Verbale della riunione del Comitato centrale del 25-27 novembre 1928, in APC, 1928, f. 508, p. 6.

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Tasca che ormai aveva posizioni inconciliabili con la linea del partito e del Comintern. È in questo clima che a Secchia viene chiesto di intervenire per criticare «le posizioni opportunistiche non di Tasca, ma di chi aveva inviato a Mosca Tasca a rappresentare il partito conoscendone le sue posizioni politiche e tollerandole»108. A Secchia viene chiesto, dunque, di schierarsi con l’Internazionale contro la politica del partito. È ovvio che i dirigenti dell’Internazionale credono di poter contare su di lui in ragione delle sue posizioni critiche verso alcuni aspetti della politica del PCd’I, per mettere in stato d’accusa il gruppo dirigente raccolto attorno a Togliatti. Ma Secchia si rifiuta. Nelle sue memorie, sottolineando la sua fedeltà al partito, racconterà della gratitudine di Togliatti per quel gesto di coerenza109. Se Togliatti esce dal X Plenum indebolito, Secchia e Longo ne escono rafforzati. La critica che aveva investito la politica del PCd’I non riguardava, infatti, soltanto la vicenda di Tasca ma tutte quelle posizioni contro cui i giovani avevano iniziato a polemizzare fin dal 1927. Durante la riunione della Commissione italiana, la politica del partito era stata messa sotto accusa dai dirigenti dell’Internazionale110 partendo dal periodo della direzione gramsciana. Le accuse comprendono un catalogo variegato che, in fondo, è lo stesso che Secchia e Longo vanno sciorinando da tempo: dalla sopravvalutazione di parole d’ordine transitorie fino all’eccessiva tolleranza verso le «deviazioni». In sostanza, per impiegare le parole di Grieco, «con la lettura di dieci righe e un discorso di quaranta minuti» veniva chiesto di abiurare la condotta politica di anni111. Le critiche ricevute a Mosca avranno l’effetto di un’accelerazione sulla vicenda di Angelo Tasca, dopo che questi si era rifiutato di ritrattare le sue posizioni112. Secchia, a distanza di molti anni, tornerà su

  Promemoria, pp. 155-156.   Ivi, p. 156. Si veda anche Secchia, L’azione, p. 233. 110  Si vedano i verbali pubblicati da E. Ragionieri in Togliatti, Grieco e Di Vittorio alla Commissione italiana del X Plenum dell’Internazionale comunista, in «Studi Storici», XII, 1971, 1, pp. 108-170. La presentazione di Ragionieri è ora in Id., La Terza Internazionale e il Partito comunista italiano. Saggi e discussioni, presentazione di F. Marek, Einaudi, Torino 1978, pp. 315-335. 111  Ivi, p. 326. Si vedano inoltre: Agosti, La Terza Internazionale. Storia documentaria, III, 1928-1943, 1 cit., p. 44; Id., Togliatti. Un uomo di frontiera cit., p. 127. 112  Si veda la lettera di Tasca al Comitato centrale del PCd’I, 30 agosto 1929, in I primi dieci anni di vita del Partito Comunista Italiano cit., pp. 965-967. 108 109

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quelle vicende senza nessuna autocritica: «Tasca aveva torto nel non vedere la necessità di accentuare la lotta contro la socialdemocrazia ed in particolare contro i dirigenti socialdemocratici tedeschi che, con una politica di capitolazione, stavano aprendo al fascismo la strada del potere. Anche se», continua il comunista, «[...] era certamente errata la generalizzazione di un processo e la caratterizzazione che ne aveva fatta l’Ic (‘socialdemocrazia che si fascistizza’) con i conseguenti errori che ne derivarono»113. Secchia non ha dubbi sulla linea dell’Internazionale, in particolare sulla cosiddetta svolta, ossia su quel cambio di rotta che sanciva il bisogno di radicalizzare la politica dei comunisti in ragione dell’avvento di un imminente «terzo periodo» rivoluzionario e che, per il Pci, avrà l’effetto di intensificare la presenza del partito in Italia. Ed è ovvio: la sua visione, che ha innervato la polemica col partito, era stata svoltista ante litteram. Da un lato, egli vede nell’Internazionale una capacità d’analisi straordinaria, in particolare per aver ammonito sui pericoli di una nuova guerra mondiale dieci anni prima del suo scoppio, tema sul quale anche lui aveva scritto un articolo114; dall’altro, l’idea di combattere le destre interne ai partiti comunisti per ridare incisività a una politica autenticamente di classe è uno dei pilastri su cui poggia quella sua visione che si alimenta di nettezza e di radicalità. Quando si deve discutere una volta per tutte l’espulsione di Tasca, durante il Comitato centrale di settembre, Secchia è presente ma non interviene. È una riunione molto tesa ma a tratti surreale, nella quale si mischiano la sbrigatività e il dogmatismo. «Ma tu cosa credi: che la democrazia non si fascistizza?»115 aveva chiesto a Tasca, con involontaria comicità, il rappresentante dell’Internazionale. E questi aveva risposto con una sicurezza che non ammetteva appello: «Escludo che si possa impiegare seriamente una simile espressione»116, controfirmando così la propria espulsione117.   Secchia, L’azione, p. 225.   P. Negro, Tutto il mondo si arma, in «lo Stato Operaio», III, 1929, 6, pp. 494-506. 115  Verbali del Comitato centrale del settembre 1929, in APC, 1929, f. 735, p. 332. 116  Ibid. Si vedano anche: S. Soave, Senza tradirsi. Senza tradire. Silone e Tasca dal comunismo al socialismo cristiano (1900-1940), Aragno, Torino 2005, pp. 129136; Spriano, Storia del partito comunista italiano, II cit., pp. 223-229. 117  Si veda il Comunicato del CC sull’espulsione di Tasca, in «lo Stato Operaio», III, 1929, 7, ora in Secchia, L’azione, pp. 250-251. 113 114

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A testimonianza di come il X Plenum abbia rafforzato le posizioni dei giovani c’è il reintegro di Longo in segreteria che favorisce, assieme al contributo di Secchia, l’avvio di quel riposizionamento del PCd’I, condotto a suon di parziali autocritiche, che prelude al 1930118. Forte del nuovo orizzonte che si è andato prospettando, è lo stesso Secchia a invitare i compagni a non assumere un atteggiamento «opportunista» e a riconoscere apertamente gli errori del passato119. È una vittoria gustata in pieno, con soddisfazione. Ma nel clima dell’Internazionale la soddisfazione per una vittoria politica molte volte non ha lunga durata. Durante il P ­ lenum dell’Internazionale giovanile è infatti Secchia a essere messo sotto accusa perché a Mosca si ritiene che la Fgci non abbia lottato con sufficiente forza contro «l’opportunismo di destra» e contro Tasca120. Si tratta di una situazione inedita per il giovane comunista. Proprio lui che aveva ingaggiato una polemica col PCd’I lunga due anni, che aveva sempre visto nel radicalismo dell’Internazionale un appiglio per la sua battaglia in seno al partito, ora si trova sul banco degli imputati. E la cosa non gli va giù. Secchia rivendica la sua battaglia e, ancora molti anni dopo, affermerà che i giovani comunisti italiani non erano stati in quell’occasione «disposti ad incassare delle critiche ingiuste soltanto perché sotto la sferza della ‘svolta’ i dirigenti dell’Igc s’erano svegliati con due anni di ritardo ed erano alla caccia di errori che in parte noi avevamo denunciato due anni prima»121. Secchia è cosciente che la Fgci nei fatti ha anticipato la svolta, nonostante ci fossero «compagni come Serra [Tasca], [...], che nel 1927, sia pure in modo velato, dicevano che eravamo dei pazzi a fare quello che facevamo, che noi avremmo dovuto ritirarci [...] e attendere una situazione migliore»122. Nella sua risposta alle critiche dell’Internazionale giovanile Secchia è molto sicuro di sé. E non elude i punti principali della po118  Si veda l’articolo A proposito di una parola d’ordine, in «lo Stato Operaio», III, 1929, 8 col quale viene (auto)criticata la parola d’ordine dell’Assemblea repubblicana. Si vedano anche: Promemoria, p. 156, e ivi l’Introduzione di Collotti, p. 30; Longo, Salinari, Dal socialfascismo alla guerra di Spagna cit., pp. 158-161. 119  Stralci del verbale della riunione dell’Ufficio Politico del 28-29 agosto 1929 sono in Secchia, L’azione, pp. 235-250, la cit. è a p. 243. 120  Ivi, p. 269. 121  Ivi, pp. 269-270. 122  Ivi, p. 270.

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lemica, rivendicando alla Fgci un lavoro di primo piano, in linea con la politica degli organismi internazionali, in particolare riguardo alla svolta che, afferma Secchia, per la Fgci significa «innanzi tutto, riprendere l’attività politica a carattere giovanile e in modo indipendente dal partito»123. Secchia avoca alla Fgci alcuni degli aspetti più delicati della lotta antifascista, fra cui l’infiltrazione nelle organizzazioni fasciste124. Ma la sua non è soltanto una difesa vigorosa, è anche un atto d’accusa contro l’Internazionale giovanile che ha lasciato soli i compagni italiani durante le loro battaglie125. Il nuovo equilibrio politico internazionale cambia il clima all’interno del PCd’I. Forse è esagerato parlare di un inedito asse politico che lega i dirigenti della Fgci a Togliatti, ciò non toglie che la nuova situazione varata dal Comintern faccia sì che fra Longo, Secchia e Togliatti non siano più le polemiche a farla da padrone ma una nuova unità di direzione. Ed è proprio in un Comitato centrale della Fgci, l’8 gennaio 1930, che Togliatti pronuncia un discorso che avvia l’applicazione della svolta126. Per Secchia la svolta significa il potenziamento dell’attività in Italia per «svolgere una larga attività di conquista della gioventù lavoratrice»127, ma anche una lotta serrata contro quella destra interna che insidia l’unità dei comunisti128. Infiltrazioni, lavoro fra i militari (bisogna «dire ai militari di usare le armi contro i loro ufficiali»129), organizzazione di conferenze d’officina, apertura di cellule in tutti i possibili luoghi di lavoro, a partire dalle grandi fabbriche del Nord, sono i primi obiettivi che Secchia dà alla Fgci. Togliatti pronuncia un discorso che per i dirigenti della Fgci rappresenta una vittoria. Il leader comunista calca perfino la mano,

  Ivi, p. 271.   Ibid. Si veda anche l’Intervento del compagno Botte alla seduta plenaria del 24-11-29, in APC, 1929, f. 795. Una copia è anche in APC, 1930, f. 898. 125  Ivi, p. 273. 126  Secchia, L’azione, p. 274. Il discorso di Togliatti è ora in Opere, III, 1929-1935, 1, a cura di E. Ragionieri, Editori Riuniti, Roma 1973, pp. 129-143. Agosti ha definito questo discorso come «il vero e proprio manifesto della ‘svolta’»: Agosti, Togliatti. Un uomo di frontiera cit., p. 135. Il Verbale del CC della Fgci è in APC, 1930, f. 899. 127  Verbale del Comitato centrale della Fgci, 8 gennaio 1930 cit., pp. 2-3. 128  Ivi, pp. 3-4. 129  Ivi, p. 8. 123 124

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assumendo a tratti un tono «grottesco»130, come quando parla dei «riformisti» e li dipinge come i soliti opportunisti inetti e venduti, «cugini» di Mussolini131. C’è in Togliatti un vero e proprio «rovesciamento» di posizioni132 che arriva a comprendere anche il delicato nodo delle possibili fasi di transizione fra la dittatura e la rivoluzione socialista. Ercoli è deciso nel dichiarare che la situazione è prossima a precipitare, che l’insurrezione è imminente e che, quindi, qualsiasi illusione di fasi transitorie va abbandonata. È forse questo il punto più significativo sul quale si salda l’alleanza fra Togliatti e i dirigenti della Fgci. Un’alleanza che non è frutto di una mediazione ma di un marcato riposizionamento di Togliatti stesso. E alla base di questa nuova proposta non c’è tanto uno spregiudicato tentativo di rimanere in sella e di continuare a dirigere il PCd’I, quanto quello che Aldo Agosti ha definito «un meccanismo psicologico che lo spinge ad ingigantire l’importanza di ogni segnale che suoni a conferma della nuova posizione assunta, e per contro a accantonare ogni indicazione che vada nel senso contrario»133. Il ruolo di primo piano che Secchia ha assunto negli organismi dirigenti e la nuova situazione aperta dalla svolta gli offrono la possibilità di ricoprire un ruolo primario nel PCd’I. Come responsabile dell’organizzazione egli ha infatti un ampio margine di autonomia nel declinare in chiave italiana le direttive del Comintern. Un margine che gli deriva, in fondo, dal fatto di essere stato, con Longo, svoltista quando la svolta non era nemmeno nell’aria. Infiltrarsi nelle organizzazioni giovanili fasciste per «strappar[e]» i «giovani proletari» «dalle unghie dei loro nemici di classe»134 è uno dei compiti più urgenti che il partito e la federazione giovanile devono assumersi. Contemporaneamente all’infiltrazione, per Secchia è fondamentale che si costituisca il maggior numero possibile di cellule d’officina e che si metta in piedi un massiccio lavoro nell’esercito perché «senza l’esercito o contro l’esercito noi non faremo   Agosti, Togliatti. Un uomo di frontiera cit., p. 135.   Secchia, L’azione, p. 277. 132  Agosti, Togliatti. Un uomo di frontiera cit., p. 136. 133  Ibid. 134  Botte, Una svolta storica nel movimento comunista internazionale, in «lo Stato operaio», IV, 1930, 2, p. 99. Questo articolo sarebbe poi stato impiegato come testo di studio della Scuola leninista: APC, 1933, f. 1572. Si veda anche Come si realizza la svolta. La lotta sui due fronti, in «Gioventù Comunista», II, 1930, 5, pp. 187-194. 130 131

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la rivoluzione» così come «senza dare l’esempio, senza guidare e trascinare alla lotta larghe masse della gioventù proletaria, noi non abbatteremo il fascismo»135. Un piano di lavoro steso da Longo è il perno attorno al quale ruoterà una discussione estenuante e lacerante. Il 10 gennaio 1930 l’Ufficio politico è chiamato a pronunciarsi definitivamente su di esso. Sono favorevoli Togliatti, Camilla Ravera, Longo e Secchia; contrari Tresso, Leonetti e Ravazzoli (i cosiddetti «tre»). È una spaccatura insanabile, che aveva coinvolto anche Grieco (favorevole) e Silone (contrario) che stavano all’estero136. È grazie al voto di Secchia che il progetto di Longo passa. Ma sulla validità del voto del giovane dirigente si aprirà una querelle, fomentata proprio dai «tre». In realtà il voto del rappresentante della Fgci in seno all’Ufficio politico era, secondo lo statuto e altre deliberazioni, parificato a quello dei membri del partito e, dunque, valido a tutti gli effetti137, come più tardi riconosceranno anche Tresso, Leonetti e Ravazzoli138. Ma i dissensi fra il partito e i «tre» si acuiranno sempre più, in particolare per le accuse di «opportunismo» lanciate di continuo contro Togliatti. L’espulsione non arriverà però subito. Si dovrà aspettare il 9 giugno139, mentre all’altro dissidente, Ignazio Silone, To-

  Botte, Una svolta storica nel movimento comunista internazionale cit., p. 100.   Si veda il Verbale dell’Ufficio politico del 10 gennaio 1930, in APC, 1930, f. 837. 137  Si veda la lettera di Botte a nome della segreteria della Fgci, 23 gennaio 1930, in APC, 1930, f. 837. Copia della lettera in APC, 1930, f. 902. Per una ricostruzione delle vicende si vedano: A. Azzaroni, Blasco. La riabilitazione di un militante rivoluzionario, prefazione di I. Silone, Edizioni di Azione comune, Milano 1962; Notizie sull’attività di Pietro Tresso, a cura di E. Franzin, in «Movimento operaio e socialista», 1965, 1-2; N. Gallerano, Blasco (Pietro Tresso): un comunista contro Stalin e Togliatti, in «Soviet», 1978, 17-18; A. Pian, Le chemin de Tresso vers l’Opposition de gauche, in «Cahiers Leon Trotsky», 1987, 29; P. Broué, R. Vacheron, Assassinii nel Maquis. La tragica morte di Pietro Tresso, Prospettiva, Roma 1996. 138  Si veda il Verbale della riunione dell’Ufficio politico del 23 gennaio 1930, in APC, 1930, f. 837, p. 1. Si veda anche Spriano, Storia del partito comunista italiano, II cit., pp. 240-241. 139  Si veda il Verbale del Comitato centrale allargato, 9 giugno 1930, in APC, 1930, f. 830. Si vedano anche: Spriano, Storia del partito comunista italiano, II cit., pp. 259-260; E. Francescangeli, L’incudine e il martello: aspetti pubblici e privati del trockismo italiano fra antifascismo e antistalinismo (1929-1939), prefazione di G. Vecchio, Morlacchi, Perugia 2005, pp. 67-89. 135

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gliatti riserverà «un riguardo particolare»140 e proverà più volte a farlo ritornare sui suoi passi: verrà espulso soltanto nel giugno del 1931141. Nella sua foga di organizzatore, Secchia non tralascia uno dei temi che fin dall’inizio della sua militanza aveva ritenuto di primaria importanza: l’azione armata contro il regime. Si tratta di un problema spinoso col quale Secchia non ha però paura di misurarsi e questa volta lo fa, infatti, pubblicamente sul bollettino della Fgci «Gioventù comunista»142. La sua proposta è di istituire i «Giovani arditi antifascisti», dei gruppi armati pronti a compiere degli atti terroristici ma anche a difendere i militanti e le loro organizzazioni dagli attacchi fascisti143. A distanza di molti anni Secchia si riannoda esplicitamente a quanto aveva detto sugli Arditi del popolo. La sua proposta rimarrà però soltanto sulla carta a causa di «una manovra piuttosto oscura ordita a Mosca da uno dei rappresentanti della Fgci [Davide Maggioni], non trattenuto in tempo dal rappresentante del partito che forse lo avrebbe potuto fare»144. Agli occhi di Secchia il conflitto di classe sta divenendo via via più aspro e violento: una sorta di preludio a un’insurrezione che gli pare imminente. Dalla sua posizione escono allo scoperto almeno due fattori che recano la traccia del suo approccio alla politica. Da un lato la proposta dei Giovani arditi antifascisti nasce da una concezione della lotta che ha al centro il ruolo delle avanguardie organizzate. Per Secchia laddove le avanguardie non si producono naturalmente durante la lotta, spetta al partito costruirle e inventarle, ponendole alla testa delle agitazioni. Dall’altro c’è un meccanismo psicologico di autodifesa dalle frustrazioni. Questa continua sottolineatura dell’urgenza di agire, il costante richiamo a un’imminente precipitazione della crisi del regime sembra divenire una sorta di strumento psicologico di auto-protezione dalla frustrazione che prova chi lavora per anni senza vedere uno sbocco vittorioso della propria lotta. Secchia, per continuare la lotta antifascista, vuole vedere all’orizzonte un’in-

  Agosti, Togliatti. Un uomo di frontiera cit., p. 141.   Si vedano: Spriano, Storia del partito comunista italiano, II cit., pp. 322-324; Soave, Senza tradirsi. Senza tradire cit., pp. 180-197. 142  Botte, I giovani arditi antifascisti, in «Gioventù comunista», II, 1930, 2-3, pp. 73-81. 143  Secchia, L’azione, p. 339. 144  Ibid. 140 141

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surrezione imminente e deve quindi interpretare la fase politica con uno sguardo che talvolta trascuri gli effettivi equilibri per dare un peso esorbitante a quegli avvenimenti che alimentano la sua fiducia. L’articolo di Secchia non piacerà all’Internazionale che in questa fase è particolarmente attenta alle vicende del PCd’I ed ha verso di esse un occhio molto critico. È lo stesso Secchia a ricordare il contenuto di un dialogo con Togliatti riguardo alle critiche moscovite alla sua proposta, nel quale il segretario gli aveva suggerito di turarsi il naso, di incassare le critiche: «poi in Italia faremo quel che riterremo giusto e tutto quanto ci sarà possibile fare per dare vita e fare agire le squadre di difesa»145. Il vero e proprio dibattito sulla proposta di Secchia avverrà a Parigi durante una riunione del Comitato centrale della Fgci alla quale prenderà parte anche Raymond Guyot, rappresentante dell’Internazionale giovanile che, come ricorderà ancora una volta Secchia stesso, sarà «a dire il vero [...] piuttosto imbarazzato e blando nella critica»146. Secchia, in quell’occasione, presenta un rapporto sull’applicazione della svolta in Italia che è tutto una rivendicazione del lavoro di organizzazione dei mesi precedenti, impastata con un’autocritica che assume le sembianze della strumentalità proprio perché riguarda la vicenda dei Giovani arditi antifascisti. Nella sua analisi lo sforamento estremistico che aveva riguardato la lotta armata viene giustificato con uno schema collaudato: si riconosce l’eccesso ma si rivendicano i problemi oggettivi che quell’eccesso aveva tentato di affrontare. Il tema della lotta armata viene così declinato in una chiave di lettura che ha nell’organizzazione di un fronte unico di lotta, strettamente legato alle masse, il suo fuoco: «Senza fronte unico sulle rivendicazioni immediate della gioventù non vi può essere fronte unico sul terreno della lotta armata, della difesa degli scioperi e delle manifestazioni di strada, non vi potrà essere fronte unico domani sul terreno della lotta decisiva contro il regime fascista»147.

145  Ivi, nota 28. Si veda anche Agosti, Togliatti. Un uomo di frontiera cit., p. 140; Promemoria, p. 159. 146  Secchia, L’azione, p. 340. Si tratta della seduta del Comitato centrale della Fgci del 17 maggio 1930 i cui verbali sono in APC, 1930, f. 899. 147  Secchia, L’azione, p. 344. Si veda anche il comunicato di autocritica della Fgci in «Gioventù comunista», II, 1930, 5. Per una critica a Secchia si veda R. Grie­ co, I compiti immediati del Pci, in «L’Internationale communiste», 1930, 19-20.

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Per Secchia la scelta di abbandonare l’ipotesi di organizzare i Giovani arditi antifascisti rimarrà sempre «un grosso errore»148. L’autocritica talvolta diventa uno strumento per evitare delle lacerazioni piuttosto che per cambiare davvero linea. Ma se la posizione di Secchia sulla lotta armata poteva essere facilmente inglobata, con le necessarie modifiche, in una strategia generale per la quale il PCd’I stava lavorando, altre posizioni invece, ­come quelle dei «tre», nel momento in cui si discostavano troppo dalla linea non potevano, secondo Secchia, essere tollerate senza ipotecare l’unità del partito. E in un articolo su «lo Stato operaio» egli rivendica l’impiego di misure disciplinari decisive per tutti coloro che con il loro comportamento non consentivano al partito di lavorare compatto149. «La lotta per la linea giusta»150 diventa quindi il fondamento della lotta politica in generale e «la linea giusta» è la migliore arma, secondo il comunista biellese, per attrarre al partito quelle masse senza le quali l’azione antifascista non avrebbe avuto alcun senso.   Secchia, L’azione, p. 347.   Botte, Le cause di una crisi e la formazione del Centro estero del partito, in «lo Stato operaio», IV, 1930, 9. 150   Ivi, p. 585. 148 149

III Prigioniero 1. L’arresto dopo la vittoria Secchia è uno dei più convinti sostenitori della svolta perché pensa che essa si ponga in diretta continuità con la scelta, compiuta dai comunisti italiani all’indomani delle leggi eccezionali, di non sciogliere il partito1. Come ha scritto Ragionieri, si tratta in realtà di una visione forzata se si guarda alla storia del partito, mentre può essere valida se si considera la storia della Fgci2. Ciò non toglie che l’interpretazione di Secchia in sede storiografica nasca proprio dalle spinte politiche ed esistenziali che stanno alla base della sua scelta di militante. Per Secchia la scelta di andare oltre il 1926 esorcizzando la crisi del partito è non soltanto politica ma una scelta di vita, di dignità. Secchia e Longo erano stati i più convinti sostenitori della svolta fra gli anni Venti e Trenta, e ne saranno i più strenui difensori in chiave storiografica3. Per Secchia, negli anni, la difesa della svolta e dell’autonomia con la quale il PCd’I la applicò diventerà una vera

1  Secchia, L’azione, p. 490. Così anche in Id., Le nostre scelte, in C. Salinari, I comunisti raccontano, I, 1919-1945, Teti, Milano 1975, p. 116. 2  E. Ragionieri, Il partito della svolta e la politica di massa, in Id., La Terza Internazionale e il partito comunista italiano cit., pp. 294-297. 3  È Longo a ribattere polemicamente a Terracini all’indomani della pubblicazione del suo carteggio contro la svolta, rivendicando quello che Collotti ha definito il suo «carattere autoctono»: Collotti, Introduzione a Archivio Pietro Secchia 19451973 cit., p. 38. Si veda l’articolo di Longo pubblicato in due puntate su «l’Unità» del 10 e dell’11 dicembre 1975, p. 3 e la risposta di Terracini ivi, 23 dicembre 1975, p. 3.

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e propria ossessione. Contro Berti, contro Terracini e le loro interpretazioni che calcano la mano sul ruolo impositivo del Comintern. Contemporaneamente egli sottolineerà sempre la dimensione epica e corale della svolta4 e il suo valore rifondativo sul piano identitario: è «la riaffermazione della funzione insostituibile del partito comunista»5, scriverà. Per Secchia la storia del Pci è, infatti, un monolite nel quale si fondono, in un’unica continuità interpretativa, la scissione di Livorno, la decisione di non sciogliere il partito nel 1926, la svolta e la Resistenza. È una visione che traspone alla storia del partito l’esperienza biografica di chi la scrive. Per Secchia, per la sua biografia, per il suo groviglio identitario, tutto il periodo che va dal 1921 al 1945, e che poi si estende fino alla metà degli anni Cinquanta (quando verrà escluso dal gruppo dirigente del partito), rappresenta un unico blocco cronologico nel quale si dispiega la sua attività di rivoluzionario professionale. La storia del partito è invece più frastagliata, piena di andirivieni, di discontinuità, di mutamenti al vertice e alla base. Leggere la storia del Pci attraverso la propria biografia per rafforzare la propria rappresentazione è cosa comune ai dirigenti comunisti: lo fa Terracini, lo fa Berti, solo per citare due personaggi che proprio della svolta hanno dato un’interpretazione diametralmente opposta a quella di Secchia. Per Secchia quindi, la svolta rimarrà sempre la base politica su cui poi avrebbe poggiato la Resistenza. Si tratta di un’interpretazione forzata, ma c’è un fondo di verità in questa visione: la svolta ha favorito, infatti, la crescita di una nuova generazione di rivoluzionari professionali che si è incanalata nella Resistenza. E in Italia l’applicazione della svolta ha avuto una sua originalità proprio grazie a quel lavoro svoltista ante litteram che la Fgci (e in particolare Secchia e Longo) aveva condotto per quasi un triennio. Ciò non toglie che la nuova linea del PCd’I costerà molti, moltissimi arresti. Fra i quali spicca proprio quello di Secchia. Rientrato in Italia il 1° gennaio 1931, egli è il responsabile del Centro interno del partito e mantiene anche il suo ruolo nella Fgci. Il suo principale compito è organizzare il IV Congresso che si terrà in 4  Secchia, Le nostre scelte cit. Si veda anche Id., I motivi del dissenso, in «Rinascita», 31 dicembre 1966, pp. 15-16. 5  Id., Le nostre scelte cit., p. 116.

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Germania, a Colonia: deve ricuperare i contatti coi compagni rimasti in Italia, organizzarne l’espatrio clandestino e fare il lavoro precongressuale. Si tratta di un’attività sfibrante, fatta di viaggi, riunioni e fughe dalla polizia. Anni dopo Togliatti riconoscerà pubblicamente questo lavoro durante il V Congresso del Pci, il primo dell’Italia liberata6. Secchia rimane in Italia, a parte una breve parentesi a Zurigo per discutere con Togliatti del congresso, fino al giorno del suo arresto, il 3 aprile. Secchia aveva lasciato Parigi la notte di capodanno e con un falso passaporto belga aveva raggiunto Milano, la sua città preferita «per il lavoro clandestino, per il suo dinamismo e le sue fabbriche»7. Nel capoluogo lombardo veste di nuovo i panni di copertura del rappresentante di commercio. In poco tempo riesce a rimettere in piedi un’organizzazione con basi a Torino, Bologna, Padova e Roma. Ma i militanti sono braccati. Secchia partecipa comunque ai congressi provinciali: Torino, Alessandria, Modena, La Spezia, Milano. A fine marzo tutti i congressi locali sono conclusi e molti delegati sono già espatriati, con in mano il kit predisposto da Secchia: le indicazioni pratiche per l’espatrio, un passaporto falso, del denaro e l’indirizzo di Parigi, Lione o Zurigo dove recarsi prima di raggiungere Colonia. Per riconoscersi l’un l’altro veniva usato il «metodo della cartolina» o il «metodo della banconota»: si consegnava al delegato mezza cartolina o mezza banconota da dieci lire, chi si fosse presentato con l’altra metà sarebbe stato il contatto col partito8. Tra la metà di marzo e l’inizio di aprile la polizia intensifica i controlli e gli arresti, in particolare a Torino dove arresta Angelino e Paolo Baroncini, due funzionari coi quali Secchia aveva frequenti rapporti. È proprio in occasione di un incontro coi due compagni che un poliziotto si era accorto della presenza di Secchia, iniziando così a seguirlo. 6  P. Togliatti, Rapporto al V Congresso, in Id., Opere, V, 1944-1955, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, Roma 1984, pp. 174-223; il passo è citato anche in Secchia, L’azione, p. 383. 7  Ivi, p. 377, nota 4. 8  Armando Cossutta nelle sue memorie (con G. Montesano, Una storia comunista, Rizzoli, Milano 2004, pp. 66-67) racconta che il metodo della cartolina era usato dal Pci ancora nel secondo dopoguerra per recuperare denaro e documenti riservati conservati in casa di compagni fidati e insospettabili.

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Il 1° aprile viene arrestato Celso Ghini, stretto collaboratore del comunista biellese. Nonostante l’accerchiamento, Secchia decide comunque di andare a Torino per organizzare l’espatrio di alcuni delegati9. Il suo ultimo giorno di libertà lo trascorre incontrando dei compagni ma ha l’impressione che a Torino sia successo «qualcosa di grave» perché i giovani comunisti della città avevano perso da una settimana i contatti con il partito. L’ultimo appuntamento della giornata è con un gruppo di compagni siciliani: «Diedi a loro del denaro perché andassero ad acquistare dei vestiti migliori di quelli che indossavano e perché andassero a farsi fare delle fotografie. Diedi loro un appuntamento per la sera stessa in un’osteria all’ora di cena, dove avrebbero dovuto portarmi le fotografie onde preparare i documenti per il loro espatrio»10. Ma Secchia all’appuntamento non ci andrà perché all’ora di cena si trova già in carcere. La storia dell’arresto di Secchia è una delle tante storie di arresti che si susseguono incessanti in una memoria di parte affollata di eroismi e di «cedimenti», di integrità e di «delazioni». Proprio per un «cedimento» da parte di Giovanni Avanzato, segretario della Federazione di Torino, Secchia finisce in manette, non s­ enza tentare la fuga, subito riacchiappato da un commissario che, scrive Secchia, «si limitò a gridare, digrignando i denti: ‘Tu vuoi fuggire a me, tisicone di un tisicone, fuggire a me che sono un capitano degli arditi’. Così dicendo mi puntò la rivoltella e mi fece salire su una di quelle macchine della polizia che stavano lì in attesa e che dovevano sapere che arrestavano un individuo che essi ritenevano ‘importante’»11. In realtà, al momento dell’arresto, i poliziotti non avevano idea di aver fatto cadere nella loro rete uno dei più importanti dirigenti comunisti. L’arresto di Secchia è raccontato anche in una lettera firmata D, forse scritta da un compagno – uno studente rumeno – con cui Secchia si era incontrato nelle sue ultime ore di libertà12. Si tratta di una lettera nella quale è riversata tutta l’ammirazione per il dirigente

  Secchia, L’azione, p. 380.   FGF, FPS, Serie documenti, Contenitore 11, f. 6, Autobiografia (1954) e altri documenti e appunti su Pietro Secchia, Rapporto sul mio arresto del 3 aprile 1931, 24 aprile 1943, p. 12. Si veda anche Secchia, L’azione, pp. 381-382. 11  Rapporto sul mio arresto cit., p. 14. 12  APC, 1932, f. 1071, Lettera di D, 4 giugno 1932. 9

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catturato: «In quelle poche ore di conversazione [...] ho imparato più che tutto il tempo e ebbi l’occasione di vedere qual è il tipo e l’altezza del militante rivoluzionario»13. Essere arrestati dopo anni di militanza antifascista significa essere improvvisamente travolti dal proprio passato giudiziario. Secchia, latitante ormai da tempo, deve quindi fare i conti con tutte le condanne subite14. La polizia gli sequestrerà le poche cose che troverà nel suo appartamento, precedentemente svuotato delle carte compromettenti da altri compagni15. Il verbale che elenca gli effetti personali di Secchia ci cala nel grigiore della clandestinità: un «cappello tarlato», un taglio di stoffa, qualche vestito vecchio, pantaloni, poche camicie e tanti colletti di ricambio, un cuscinetto per quell’ernia che lo tormenterà durante tutta la sua vicenda carceraria16. Addosso a Secchia erano invece stati trovati alcuni foglietti di carta scritti a matita, probabilmente delle tracce per discorsi, nei quali si rincorrono le minacce «di una guerra antisovietica», i «riflessi dell’edificazione Socialista nei paesi capitalisti» e i «motivi della guerra antisovietica»17. Il 14 giugno Secchia viene interrogato e «confessa di aver svolto attività comunista in Italia anche dopo la pubblicazione delle leggi che vietavano tale attività»18. Parla di sé, senza mettere in mezzo altri, se non Ghini, che era già stato arrestato. Lo fa, come dirà anni dopo, perché negare l’evidenza non avrebbe avuto alcun senso e poi per una ragione politica: «Uscivamo da una lotta dura contro i tre opportunisti. Costoro ci accusavano di mandare in Italia i compagni a farsi arrestare mentre noi dirigenti ce ne stavamo, essi dicevano, tranquillamente al sicuro a Parigi»19. Secchia rivendica le sue responsabilità in un clima nel quale la preoccupazione principale è ancora collocata in una dimensione tutta interna alla lotta politica nel partito.

  Ivi, p. 1.   ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 347, f. 3389, Elenco processi a carico di Secchia Pietro. 15  Secchia, L’azione, p. 382. 16  ACS, TSDS, Fascicoli processuali, b. 347, f. 3389, Verbale di verifica di corpi di reato, 12 gennaio 1932. 17  Ivi, Documenti rinvenuti nella perquisizione personale dell’imputato Secchia Pietro. 18  Ivi, Processo verbale dell’imputato, Torino, 14 giugno 1931, p. 1. 19  Rapporto sul mio arresto cit., p. 45. 13 14

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Dal carcere scrive al partito e ai famigliari20. Al partito scrive affermando di voler rimanere in costante contatto col Centro perché «l’opinione che quando si è in carcere si deve restare tranquilli è un’opinione opportunista e per quelli che son fuori è anche un bel modo per evitare di tenere dei collegamenti»21. Secchia è in prigione ma non si rassegna, e continua a comportarsi da dirigente, dando direttive: bisogna lavorare a «compartimenti stagni», prestare attenzione ai pedinamenti, portare in Italia un nucleo dirigente attivo e un gruppo di compagni che possano fare il lavoro di corriere senza costringere i dirigenti a rischi inutili. «Svoltista irriducibile», così Terracini definì Secchia22, ed è vero, soprattutto se si considera quello che dice dopo essere stato arrestato: «Bisogna insomma che nella testa di tutti entri il principio che si può e si deve piantare le tende in Italia (non solo in carcere) ma tra la massa, nelle nostre organizzazioni, nella fabbrica»23. Ai famigliari scrive di altro, ovviamente. La monotonia della vita carceraria, lo studio: «Sto studiando il tedesco e mi pare che vada abbastanza. Ho sempre creduto fosse più difficile. È anche vero che qui, non avendo altro da fare, è più facile dedicarsi ad un determinato studio» anche se «la bocca mastica tedesco, ma il pensiero se ne va spesso per conto suo, per cui accade frequentemente che dopo un’ora che ripeto ad alta voce delle frasi tedesche, mi trovo con la gola arsa e senza aver imparato niente, senza nemmeno sapere cosa avevo letto»24. Al fratello chiede libri e riviste, mentre alla zia scrive per consolarla, ostentando ottimismo. Sono lettere intime, nelle quali Secchia vuole farla sorridere, ricordarle i tempi passati e darle fiducia nell’avvenire. Così il carcere diventa la «mia abitazione, quella attuale»25 e la piccola cella in cui è rinchiuso viene trasformata

20  Nonostante le ricerche in archivio le uniche lettere rinvenute sono quelle già pubblicate da Collotti nella sua Introduzione a Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., pp. 45-57. Collotti afferma (ivi, p. 44, nota 86) che le lettere contenute in fotocopia nel Fondo Secchia presso la Fondazione Feltrinelli di Milano «dovrebbero trovarsi nell’Archivio del Pci». In effetti gli originali sono stati da noi rinvenuti in APC, 1931, f. 981. 21  Lettera di Secchia, 1° ottobre 1931, in Collotti, Introduzione a Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 45. 22  Collotti, Introduzione a Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 44. 23  Ivi, p. 48. 24  Lettera di Secchia al fratello Matteo, Torino, 9 giugno 1932, ivi, p. 50. 25  Lettera alla zia, Torino, 21 luglio 1931, ivi, p. 53.

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nel racconto in una stanza comoda e accogliente. E scommette di rivedersi presto fuori dal carcere: «Io scommetto dodici quadretti di zucchero e tu scommetti dodici di quelle bistecche di cui ti ho parlato. Vedrai che guadagnerò io»26. Nel gennaio 1932 inizia il processo. Un resoconto giudiziario ci consegna un’istantanea del contegno di Secchia: «Stamane nell’aula del Tribunale Speciale l’imputato [...] interrogato dal presidente ha dichiarato in tono altezzoso di essere rivoluzionario di professione ed orgoglioso di aver spiegato tutta la propria attività a favore del comunismo e contro il Fascismo. [...] Alle ore 12 il Secchia ha anche dato del pagliaccio all’avvocato Antocci, mentre costui prendeva la parola in difesa di altro imputato e, ammonito dal presidente, gridava ‘Evviva il Comunismo’. Il Secchia è stato subito allontanato dall’aula e rinchiuso in camera di sicurezza insieme con l’imputato Pacquola, che aveva emesso lo stesso grido sedizioso»27. Del processo Secchia racconterà molti anni dopo in una lettera a Terracini: Al processo feci questa dichiarazione: «Come membro del C.C. del P.C.I. dichiaro di assumermi completamente la responsabilità dell’attività svolta in Italia dal P.C. dal momento delle leggi eccezionali, novembre 1926, ad oggi. Personalmente ho partecipato a tale attività nel modo più largo che mi è stato possibile, lottando con tutte le mie forze per l’abbattimento del regime fascista-capitalista»28.

Il Pubblico ministero chiederà il massimo della pena29, e la sentenza sarà dura: 17 anni e nove mesi di reclusione, ventimila lire di multa, l’interdizione perpetua dei pubblici uffici e 6 anni di libertà vigilata per insurrezione contro i poteri dello Stato30. È il 28 gen  Ibid.   ACS, CPC, b. 4724, f. Secchia Pietro, Ministero dell’Interno, Fonogramma in arrivo dalla R. Questura di Roma, 28 gennaio 1932. 28  FGF, FPS, Serie documenti, Contenitore 1, f. 3, Dati biografici e autobiografici, Lettera di Secchia a Terracini, 9 ottobre 1953, p. 1. 29  Ivi, p. 2. Si veda inoltre P. Secchia, Il Partito comunista italiano e la guerra di Liberazione 1943-1945. Ricordi, documenti inediti e testimonianze, «Annali» dell’Istituto Giangiacomo Feltrinelli, XIII, 1971, Feltrinelli, Milano 1973, pp. 2-3. D’ora in avanti il volume sarà citato come Il Partito comunista. 30  A. Dal Pont, S. Carolini, L’Italia dissidente e antifascista. Le Ordinanze, le Sentenze istruttorie e le Sentenze in Camera di consiglio emesse dal Tribunale speciale fascista contro gli imputati di antifascismo dall’anno 1927 al 1943, prefazione di S. Pertini, 26 27

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naio 1932: «A sera, in furgone cellulare, fummo portati a Regina Coeli dove rientrammo soddisfatti come fossimo reduci decorati sul campo»31. Nei primi giorni di carcere, con Battista Santhià ed Eugenio Reale, Secchia riuscirà perfino a redigere un numero clandestino dell’«Unità» sul Congresso di Colonia, e pochi giorni dopo riusciranno a pubblicarne un altro32. 2. «Consideravamo la nostra prigionia come una scelta» «Dall’aprile 1931 sino al 18 agosto 1943 fui prigioniero del fa­ scismo»33. Con questa formula asciutta Secchia racchiude dodici anni della sua vita, passati fra carcere e confino. Da un giorno all’altro, così come molti altri rivoluzionari di professione, Secchia si trova catapultato in una situazione surreale: dalla frenesia della militanza clandestina all’inattività forzata. Sappiamo come la maggior parte degli antifascisti abbia impiegato gli anni di prigionia in modo militante, quasi per elaborare un lutto e per mettere a frutto per il futuro tutto quel tempo altrimenti svuotato di significato. Un futuro nel quale la rivoluzione da fare, il nuovo Stato socialista da costruire, sarebbero stati i primi appuntamenti a cui presentarsi puntuali dopo essersi lasciati alle spalle la tetra quotidianità fascista. Il carcere e il confino sono una terra di mezzo, uno spazio vuoto da riempire di senso, un’intercapedine fra un prima e un dopo. Superata un’iniziale fase di spaesamento che in verità dura poco – perché per molti il carcere non era una novità – il tempo viene riempito con una normalità artefatta: studio, lavoro, discussioni. I primi mesi di detenzione Secchia li trascorre da solo, in una cella di isolamento nelle carceri di Torino34. Come durante gli altri I, 1927-1931, La Pietra, Milano 1980, p. 550. In questo volume si trovano tracce dei numerosi stralci dei processi precedenti: ivi, pp. 167, 317, 318, 330, 364. La sentenza citata a p. 550 è quella di rinvio al Tribunale speciale. La sentenza definitiva (n. 4 del 28 gennaio 1932) è pubblicata in A. Dal Pont, A. Leonetti, P. Maiello, L. Zocchi, Aula IV. Tutti i processi del Tribunale speciale fascista, Anppia, Roma 1961, p. 219. 31  Secchia, Il Partito comunista, p. 3. 32  Ivi, pp. 3-4. 33  Secchia, L’azione, p. 383. 34  Promemoria, p. 162.

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periodi trascorsi in prigione legge e studia quello che la biblioteca del penitenziario gli offre. A dicembre viene trasferito a Regina Coeli, a Roma, dove rimane fino al processo. E continua, come abbiamo accennato, la militanza scrivendo con Battista Santhià due numeri dell’«Unità» dedicati al IV Congresso del PCd’I da diffondere fra i carcerati35. È un atto di determinazione: «Forse l’iniziativa era superflua, ma pensammo che poteva servire a dimostrare a quei giovani, in attesa di giudizio, che il partito era forte ed anche in carcere eravamo in grado di pubblicare l’Unità»36. Nel febbraio del 1932 viene inviato a Lucca, dove trascorre alcuni mesi, per poi essere trasferito a Civitavecchia, luogo in cui si trova buona parte dei dirigenti comunisti arrestati. La sua prima preoccupazione, fin dall’inizio della carcerazione a Torino, è di non perdere i contatti col partito. Una volta arrestato, il rivoluzionario non smette di essere tale e continua, infatti, con tutti i mezzi a sua disposizione a lavorare nel partito. Ma non è cosa facile: Io contavo anche dal carcere di poter continuare ad essere informato e dare un certo contributo alla linea politica del partito. Ma il Centro del partito era contrario e mi rispose che stessi tranquillo, che pensassi a studiare, a stare in salute e non mi preoccupassi di altro. Posizione che io non ritenni mai giusta, perché se è vero che dal carcere mancano molti elementi di conoscenza della situazione reale, tuttavia un contributo entro certi limiti era possibile darlo ed io non penso che un dirigente del partito cessi del tutto di essere tale soltanto perché è stato arrestato37.

È Leo Valiani a consegnarci un bel ritratto di Secchia in carcere, che sembra la fotocopia di quello del Secchia militante libero: Botte tracciava il programma di vita per tutti. Era molto semplice: appena si erano finiti gli anni di carcere, si ricominciava a combattere. Chi ritorna in libertà, prende il posto di chi è arrestato. Si forma così una catena circolare, che il fascismo non riuscirà mai a spezzare. Un giorno o l’altro, il fascismo si troverà in crisi, per ragioni internazionali 35  Ibid. Uno dei due numeri fu trovato in possesso di un altro carcerato e questa scoperta costò a Secchia tre mesi di isolamento che avrebbe poi scontato a Lucca. 36  Secchia, Il Partito comunista, p. 3. 37  Promemoria, pp. 162-163.

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o economiche. Quel giorno la nostra catena lo paralizzerà, lo serrerà alla gola. Erano le stesse cose che avevo appreso da Rosselli nel 1926, ma Rosselli ne faceva una teoria di élite [...]. Botte ne faceva la norma di vita di migliaia di giovani operai, impiegati, contadini. I pochi, che con lui non andavano d’accordo, dicevano che era settario. Avevano ragione; era settario, e all’occorrenza acido e aspro. Ma la sua setta era vastissima38.

Secchia vuole mettere a frutto il tempo da trascorrere in carcere. Da dirigente, da organizzatore, non concepisce lo studio in prigione come una necessità personale ma come un’attività politica da condurre con gli altri compagni. Non abbiamo molti documenti di questo periodo che riguardino direttamente Secchia. Fra quelli disponibili i più interessanti sono le lettere che egli scrive. Quella del 1° ottobre 1931, come si è detto, è al partito. C’è un bel po’ di asprezza polemica nello scritto di Secchia ma c’è anche tutta la paura di rimanere bloccati in un limbo di isolamento mentre fuori dal carcere le cose vanno avanti. C’è la paura di vivere la storia da spettatori. E c’è tutta la rabbia di essere stato arrestato proprio quando il suo progetto politico aveva trovato concretamento nella svolta. La mentalità cospirativa di Secchia ha però modo di concretizzarsi anche in carcere: lettere scritte col succo di limone, cifrature e altri stratagemmi sono gli strumenti che, come gli altri compagni, impiegherà per provare a tenere qualche collegamento. Altro è invece il tono delle lettere ai famigliari, sebbene anche in questo caso vi sia una marcata differenza fra quelle scritte al fratello, che è anche un compagno di lotta, e quelle alla zia, di cui se ne è conservata soltanto una. L’esigenza di ricevere libri è posta al fratello Matteo con chiarezza e senza il bisogno di spiegazioni, data la doppia complicità che lega Pietro a Matteo: quella del parente e quella del compagno di partito. Riviste e libri sono ciò che Secchia chiede e nelle sue lettere non c’è nulla che mascheri i contorni della sua vita da carcerato.

38  L. Valiani, Tutte le strade conducono a Roma, La nuova Italia, Firenze 1947, pp. 60-61. Si vedano anche: Collotti, Introduzione a Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 42; A. Ricciardi, Leo Valiani. Gli anni della formazione. Tra socialismo, comunismo e rivoluzione democratica, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 140-141.

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Nella lettera alla zia, invece, Secchia si preoccupa di rassicurarla, di farla sorridere, con una semplicità di sentimenti commovente. Dopo un colloquio le scrive: «Ho pensato per tutta quella sera a voi che stavate ritornando sul veloce tuf-tuf. E ho pensato in verità anche a quel povero pollo arrosto che in ossequio al nuovo regolamento è stato costretto anche da morto a fare un viaggio di andata e ritorno Biella-Torino. Si vede che quella povera bestia era già stata tanto in ‘capponera’ da viva che proprio non si sentiva di venire a fare compagnia a me anche dopo esser stata arrostita. E non aveva torto»39. Secchia rincuora la zia: «Tu dunque hai paura che non ci vedremo più? Come lo vedi brutto tu il mondo. Scaccia via queste malinconie. Io ti assicuro che ci vedremo presto. Tra qualche anno, una bella sera mi sentirai salire le tue scale, dirò come al solito ‘son qui’ e verrò a cenare con voi, al piccolo tavolo, verrò a mangiare quella tal minestra al riso con il prezzemolo. Tu sai che per tanti Paesi io abbia girato e tante cose io abbia gustato, non sono mai riuscito a trovare due cose così buone e fatte così bene come le fai tu. Queste due cose sono la minestra al riso con il prezzemolo e sedano e la non meno buona bistecca ai ferri come la fai tu. Due cose che ho cercato invano dappertutto. Credo che al mondo non esistano»40. I ricordi della vita in famiglia, la semplicità dei sentimenti, l’affetto per la zia, la voglia di non farla preoccupare troppo spingono Secchia a continuare nella lettera con descrizioni rassicuranti, come quella della sua cella: Adesso ti voglio parlare della mia abitazione, quella attuale. Il posto dove tu sei venuta a colloquio con me era così buio che forse ti avrà lasciato cattiva impressione. Ma quel posto è solo per il colloquio. La mia cella è invece molto migliore. La mia cella è lunga circa quattro metri e larga due metri e mezzo circa. Vi è una finestra abbastanza grande e senza cassoni davanti. Molta luce. Il sole tutto il giorno. A esser soli non c’è tutto da perdere. Ho una cella tutta per me, mentre gli altri sono in tre per ogni cella della stessa grandezza della mia. Il mobilio consiste in una branda, un pagliericcio, un tavolo e sgabello. Una brocca per l’acqua, un

39  Lettera alla zia Caterina Negro, Torino, 21 luglio 1931, in Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., pp. 52-53. 40  Ivi, p. 53.

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catino, una grande scodella per la minestra (detta anche «cupun»), una grande tazza per il vino o l’acqua (a seconda del tempo) ed una tazza più piccola, il tutto di terracotta. Poi un cucchiaio di legno. Ed è tutto. Dimenticavo: c’è anche una scopa. Adesso che fa caldo, per due ore al giorno tengono aperto un piccolo sportello intagliato nella porta, così che vi resta la corrente d’aria41.

E poi via di seguito la descrizione della vita carceraria, il tutto immerso nel tentativo di rassicurare ma anche in quello di rappresen­ tarsi come un uomo che non teme certo le privazioni carcerarie. Autoironico («Probabilmente andrò a Roma verso l’ottobre. Così m’abituo veramente alla vita signorile. Estate: villeggiatura a Torino. Inverno: gli ozi e i divertimenti romani»42), determinato nello studio, curioso di ciò accade fuori dal carcere, dello sport («Beh, chi ha vinto il giro di Francia? Tu credi forse che le tue notizie sportive non mi interessino?»43), capace di autocontrollo, come nel caso delle sigarette, un vizio lasciato da parte per usare il denaro per «comperare qualche giornale illustrato»44, questo è Secchia in carcere. Diversa è la lettera che Pietro manda a Matteo da ­Civitavecchia il 27 settembre 1932. Si tratta, infatti, di una cifrata, la cui chiave di lettura sta nel suo numero di matricola carceraria: 5849. In una lettera banale, se si leggono prima la quinta parola, poi l’ottava, la quarta, la nona e così via, si trova un messaggio per il fratello: «Ricevuto tutti i libri. Interessa ora avere opere Mehring, Plechanov, Kautsky storia materialismo, Lapidus, Pokrovski. Attenzione sempre alla perfezione delle truccate. I libri devono essere in tedesco. Nella rilegatura puoi celare informazioni. Ci interessa conoscere come va situazione in Germania. Conferma ricevuta rapporto nostro, mandato altra via»45. Il tentativo di rimanere in contatto col partito è costante. Purtroppo si sono conservati pochi documenti che lo testimoniano, finiti impigliati nelle maglie della censura. Il carcere di Civitavecchia è quello dove è rinchiusa la maggior parte dei dirigenti comunisti. La scelta di concentrarli tutti lì era l’e  Ibid.   Lettera al fratello, Torino, 28 luglio 1931, ivi, p. 54. 43  Lettera al fratello, Torino, 8 agosto 1931, ivi, p. 55. 44  Ivi, p. 56. 45  La lettera è in Lettere di antifascisti dal carcere e dal confino, prefazione di G. Pajetta, II, Editori Riuniti, Roma 1962, pp. 316-317. 41 42

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sito del tentativo di controllarli meglio, visti gli infiniti escamotage per ingannare la sorveglianza messi in atto nelle altre carceri, che consentivano scambi di notizie col partito e una circolazione di testi clandestini piuttosto regolare46. Come ricorda Secchia stesso, la direzione del penitenziario separava i dirigenti dai militanti, in modo da evitare la costituzione di scuole di partito fra i detenuti47. La politica continua però a rimanere l’orizzonte esistenziale primario anche a Civitavecchia. Ovunque vengano inviati i comunisti arrestati, la loro prima preoccupazione è di fare politica, di discutere e di organizzarsi. La discussione con Terracini sulla svolta, ad esempio, è la testimonianza di come anche in prigione Secchia si consideri parte del gruppo dirigente del partito e quindi avverta l’obbligo di convincere chi la pensa diversamente della bontà della linea politica48. Un’altra discussione che infuoca gli animi dei detenuti avviene in occasione dell’amnistia del decennale. Per celebrare i dieci anni dalla Marcia su Roma, Mussolini aveva deciso di concedere un’amnistia che avrebbe permesso a molti detenuti comunisti di ritornare in libertà. È Secchia stesso a rappresentare il clima in cui si svolge la discussione: Corse [...] voce che l’amnistia era condizionata all’impegno che ognuno avrebbe dovuto sottoscrivere di non occuparsi più di politica. Discussione se accettare l’amnistia condizionata, se firmare o no. Io con altri sostenevo che non avremmo dovuto accettare un’amnistia condizionata. Anche soltanto l’impegno di non occuparci più di politica, se richiesto a tutti noi, quale condizione per ottenere l’amnistia, avrebbe avuto un significato politico che noi consideravamo di capitolazione49.

Anche in questa discussione si riproduce lo schema del dibattito fra gli svoltisti e gli anti-svoltisti. Secchia e Terracini sono, infatti, i due poli attorno ai quali si coagulano le diverse posizioni. Ma questa lacerazione, così come molte altre di quelle che si sarebbero pro  Secchia, Il Partito comunista, p. 7.   Promemoria, p. 163. 48  Ibid. Si vedano anche: U. Terracini, Sulla svolta. Carteggio clandestino dal carcere 1930-31-32, a cura di A. Colletti, La Pietra, Milano 1975; M. Giovana, Umberto Terracini e il dissenso con il partito, in La coerenza della ragione. Per una biografia politica di Umberto Terracini, a cura di A. Agosti, Carocci, Roma 1998, pp. 87-97. 49  Promemoria, p. 163. 46 47

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dotte in carcere e al confino, finirà in nulla perché l’amnistia verrà concessa a tutti, senza il bisogno di abiure. La discussione, o meglio il bisogno di discutere, è l’esito del desiderio di vivere, perché, come ha scritto Secchia, «in carcere e al confino abbiamo tuttavia ‘vissuto’ e nei limiti impostici dalla situazione, abbiamo cercato di fare il massimo possibile per seguire l’azione che il Pci andava sviluppando in Italia e all’estero, per portarvi anzi un, sia pure modesto, contributo»50. Nel suo volume sull’attività del Pci durante la Resistenza, Secchia dipingerà il clima di quegli anni come un’epopea affollata di rifiuti a collaborare col regime, a tradire e di disprezzo per l’autorità: «Ritornavamo [dai processi] al carcere nel pomeriggio, verso sera, allegri, come da una festa, con sulle spalle da dieci a venti anni di reclusione ciascuno»51. Il racconto della durezza della vita carceraria, in particolare a Civitavecchia, Secchia l’ha consegnato a pagine molto dettagliate nelle quali si scontrano, come due mondi distanti anni-luce, le vessazioni dei carcerieri con i tentativi dei detenuti di auto-organizzarsi secondo ritmi non del tutto diversi da quelli della libertà: scuole, riunioni politiche, scrittura e altre attività ordinarie, condotte però in un clima opprimente e pericoloso52. Il collettivo del carcere funge, infatti, da organismo del partito all’interno della prigione e dei luoghi di confino: ascolta i rapporti dei nuovi arrivati sulla situazione della zona da cui provengono, dà consigli, fa «rilevare eventuali errori commessi nel corso del lavoro svolto»53 e giudica i «traditori». Scriverà Secchia: Eravamo dei prigionieri nelle mani di un nemico senza scrupoli, che utilizzava tutte le armi dalle promesse alle lusinghe alla concessione della grazia alla tortura alla corruzione, nel tentativo di fare capitolare gli antifascisti, di piegare gli avversari del regime, di costringere alla resa i rivoluzionari e ridurli a degli stracci. [...] Se non avessimo assunto un atteggiamento di rigorosa condanna e di disprezzo nei confronti di co-

  Secchia, Il Partito comunista, p. 1.   Ivi, p. 2. 52  Ivi, pp. 7 sgg. 53  Ivi, p. 11. 50 51

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loro che si piegavano al fascismo, che firmavano atti di sottomissione e domande di grazia (per non parlare delle più gravi forme di tradimento) avremmo favorito l’azione del nemico54.

La disciplina politica si traduce in una vita quotidiana in cui la maggior parte del tempo è dedicata allo studio: lingue, storia, letteratura, economia sono le materie su cui i carcerati organizzano dei veri e propri corsi, con i vetri delle finestre come lavagne, senza carta, senza penne e coi libri trovati o con quelli che riuscivano a passare attraverso le maglie dei controlli carcerari. Alcune di quelle lezioni sarebbero poi diventate dei libri importanti come La questione agraria nella rinascita nazionale italiana di Emilio Sereni55 e Il capitale finanziario italiano di Pietro Grifone56. La discussione politica è l’intermezzo fra i momenti di studio. Il periodo in cui Secchia rimane a Civitavecchia non è però caratterizzato da particolari momenti di rottura. Certo, le discussioni ci sono, talvolta anche aspre ma Secchia ci tiene molto a sottolineare, anche per rispondere a ricostruzioni che lo hanno dipinto come il più duro fra i duri, che nonostante esistessero punti di vista diversi «non ci furono mai rotture, esclusioni, isolamenti dal ‘collettivo’»57. Nell’autorappresentazione secchiana, il carcere diventa una tappa come un’altra nel percorso lineare di una vita dedicata alla lotta. Anzi, viene descritto come una sorta di permanenza in un collegio, con una disciplina durissima e assurda, ma pur sempre come in un collegio nel quale studiare, in un isolamento dal mondo che costantemente si prova ad aggirare: «Così, con le letture, lo studio, le discussioni, trascorsero abbastanza rapidamente i cinque anni, gli altri erano stati cancellati dalle amnistie e dagli indulti»58. E poi, ancora in un’autorappresentazione eroica, che non è però soltanto individuale ma generazionale, Secchia ci tiene a sottolineare: «A qualcuno   Ibid.   E. Sereni, La questione agraria nella rinascita nazionale italiana, Einaudi, Torino 1946. 56  Ivi, 1945, 1971. 57  Secchia, Il Partito comunista, p. 17. Secchia cita nelle sue memorie il volume di G. Braccialarghe, Nelle spire di Urlavento. Il confino di Ventotene, Club degli autori, Firenze 1970 che lo descriveva come l’esempio più alto di intransigenza e di chiusura. 58  Secchia, Il Partito comunista, p. 23. 54 55

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la mia troppo sommaria descrizione delle nostre vicende carcerarie potrà apparire piuttosto rosea, una vita, se non idilliaca, abbastanza sopportabile. Gli è che noi comunisti non amiamo i piagnistei e le lamentazioni»59. Il ritratto che Secchia darà di sé e dei suoi compagni nel volume sul Pci durante la Resistenza è interessante: Eravamo giovani, di carattere, abituati ai disagi, gente allegra, sapevamo scherzare e ironizzare su tutto, anche sui soprusi e sui rigori disciplinari. Non mancavano le giornate nere, soprattutto in segregazione o durante i mesi di isolamento per punizione, ma per lo più regnava l’allegria. Consideravamo la nostra prigionia come una scelta. In carcere c’eravamo andati volontariamente e ci restavamo perché volevamo restarci (la maggior parte dei politici con una domanda di grazia avrebbe potuto riacquistare la libertà quando voleva), fedeli a un ideale al quale crediamo ed a «non mollare»60.

Certo, in carcere ci sono i compagni, un pezzo di vita esterna che aiuta a non considerarsi in un deserto, ma in realtà è il «tempo che separa dalla liberazione» quello che aiuta a tenere in vita la speranza e la determinazione dei comunisti incarcerati. Una fiducia incrollabile nella capacità del partito di mettersi «alla testa delle masse» per liberare il Paese da Mussolini e dai suoi. Alla fine del marzo 1936 la pena di Secchia è scaduta e i carabinieri lo prelevano da Civitavecchia per riportarlo a Occhieppo Superiore. È evidente agli occhi del carcerato che il suo futuro non sarà da uomo libero, ma da confinato. E, puntuale, il provvedimento arriva e il 14 aprile 1936 viene fermato dai carabinieri e inviato al confino. Ma un po’ di libertà Secchia la assapora. «Purché non svolga attività politica, le sue idee se le può tenere», gli aveva detto un commissario prima di farlo tradurre a Biella e da lì a Occhieppo61. Il rientro a casa era stato una festa: «Non passò un’ora che la mia casa era piena di compagni ai quali tuttavia raccomandai una certa prudenza. Da mia zia seppi che c’era già stato alcuni giorni prima

  Ibid.   Ibid. 61  Ivi, p. 24. 59 60

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un funzionario di partito, erano stati presi gli accordi e una mia fotografia, e lei avrebbe dovuto ricevere, e l’aveva ricevuta, una cartolina con scritto: ‘la gallina ha fatto l’uovo’ a significare che tutto era pronto e che sarebbe venuta una persona a portarmi il passaporto»62. Ma il piano verrà scompaginato dalla solerzia burocratica e, di notte, i carabinieri si presenteranno per dare seguito a un nuovo ordine di arresto. Questa volta la destinazione sarà Ponza63. «Molti mi salutarono con gioia, come si trattasse di una festa»64, questa l’accoglienza che al confino i compagni riservarono a Botte, il capo dell’organizzazione del partito, il teorico della clandestinità, come Secchia stesso annoterà amaramente, finito di nuovo «nelle mani del nemico» proprio per le carenze di quell’apparato che affannosamente aveva provato a rendere blindato65. L’invio al confino di Secchia è uno di quei classici casi in cui la burocrazia poliziesca non riesce a stare dietro alla rapidità dell’arbitrio dei funzionari ministeriali. Secchia non era infatti stato giudicato da nessuna commissione per il confino, era stato semplicemente prelevato e mandato a Ponza senza che i funzionari dell’isola sapessero quanto lungo sarebbe dovuto essere il suo periodo di confino66. Anche a Ponza, così come a Civitavecchia, la vita di Secchia si fonderà con quella del collettivo comunista. I più ampi margini di libertà che il confino offre rispetto al carcere vengono infatti occupati dai detenuti attraverso l’autorganizzazione: mense, lavoro, studio, discussione sono anche qui le attività che i comunisti, e con loro gli altri confinati politici, svolgono durante il giorno. Al confino il partito è organizzato con una struttura a tela di ragno, basata sui contatti dei vari funzionari con piccoli nuclei di compagni che a loro volta mantenevano i rapporti con altri militanti confinati, fino a inquadrare in un’unica struttura tutti i confinati comunisti. Ogni dieci giorni il Comitato direttivo svolgeva un rapporto   Ivi, p. 25.   Il racconto del nuovo arresto è ivi, pp. 25-26. 64  Ivi, p. 27. 65  Ivi, p. 26. Del clima di festa nel quale venivano accolti i confinati parla anche Camilla Ravera in una testimonianza citata in A. Gobetti, Camilla Ravera. Vita in carcere e al confino con lettere e documenti, presentazione di N. Bobbio, Guanda, Parma 1969, p. 90. 66  Secchia parla di questa vicenda sia nel suo Il Partito comunista, p. 27, sia nel Promemoria, p. 164. 62 63

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sulla situazione politica italiana e internazionale che poi ogni funzionario avrebbe diffuso ai suoi contatti, che a loro volta ne avrebbero socializzato il contenuto. Se i militanti più fidati erano inquadrati in questa struttura tentacolare, quelli meno conosciuti e dei quali ancora non ci si poteva fidare del tutto erano incasellati in una struttura parallela che funzionava allo stesso modo di quella del partito67. Tutta l’attività politica, che occupava pressoché l’intera vita dei confinati, si svolgeva sotto lo sguardo della polizia che provava a intercettare i discorsi dei detenuti in una situazione surreale: «Ogni dieci giorni improvvisamente si vedevano alcune decine di confinati camminare a gruppetti di tre o quattro, con uno in mezzo e gli altri che ascoltavano: anche il più stupido dei poliziotti capiva che era il giorno del rapporto politico»68. Tutta la vita del confino si gioca nel camuffamento dell’illegalità: dai discorsi ai libri, dalle lettere alle lezioni. In particolare, rispetto al carcere, l’organizzazione comunista è in grado di far pervenire con regolarità, attraverso le visite dei parenti, «l’Unità», «lo Stato operaio», opuscoli e letteratura marxista, ovviamente camuffati69. Quei giornali, quegli opuscoli, sono per i confinati una boccata d’ossigeno e rappresentano il contatto col mondo esterno, col partito, con la politica. Dalla stampa di partito si apprendeva la linea, poi la si diffondeva attraverso la tela di ragno del collettivo e infine si discuteva. Il distacco fra il confino e la vita di partito ha spesso l’effetto di provocare una lunga catena di discussioni, come nel caso, ricordato ancora una volta da Secchia, dell’appello Per la salvezza dell’Italia e la riconciliazione del popolo italiano giunto a Ponza nell’autunno del 193670. Il direttivo dei confinati aveva deciso di inviare al Centro del partito una serie di osservazioni critiche. Vi è un passaggio dell’appello che rappresenta una ferita identitaria per i confinati. Si tratta della rivendicazione da parte del PCd’I della bontà del programma fascista del 1919, il celebre appello «ai fratelli in camicia nera»: «Il

  Secchia, Il Partito comunista, pp. 28-29.   Ivi, p. 29. 69  Ivi, p. 30. 70  L’appello era stato pubblicato nel numero di agosto dello «Stato operaio» (si è soliti citare questo documento come Appello ai fratelli in camicia nera). Si veda L. Canfora, Gramsci in carcere e il fascismo, Salerno Editrice, Roma 2012, cap. VI. 67 68

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programma fascista del 1919 non è stato realizzato! Noi comunisti facciamo nostro il programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori e vi diciamo: Lottiamo uniti per la realizzazione di questo programma». Anche su questo punto, come su molti altri, Secchia non muterà opinione nel tempo. Se al confino quelle parole dovettero sembrargli, anche dopo i mutamenti sanciti dal VII Congresso del Comintern, come un pugno nello stomaco, nella sua riflessione a metà fra la storiografia e l’autobiografia, affermerà: Il problema avrebbe dovuto essere posto con maggiore serietà e senza tali sbandamenti che anziché unire servivano a creare confusione ed a fare apparire le nostre posizioni puramente strumentali. Un partito, e per di più un partito comunista, non può mai, a meno di voler fare una politica senza principi, far proprio il programma del partito suo diretto antagonista71.

Per Secchia, se prima il partito era incappato nell’errore di teo­ rizzare una completa identità fra capitalismo e fascismo, la svolta del VII Congresso del Comintern aveva avuto l’effetto di far cadere il PCd’I nell’errore opposto, «quello di considerare i fascisti come massa compatta, mentre al contrario molte erano le stratificazioni»72. Queste le critiche che i confinati avevano mosso all’appello del partito, ricevendo in risposta una cifrata nella quale si assicurava che anche «il vecchio», ossia Togliatti, che peraltro ignorava l’appello sebbene Grieco avesse apposto anche la sua firma in calce al testo, era d’accordo73. Il VII Congresso aveva rovesciato completamente la politica precedente del Comintern: niente più «classe contro classe», abbandonata la formula del «socialfascismo», archiviato l’odio per la socialdemocrazia, si apriva la strada al «fronte unico»74 spingendosi perfino a congetturare un futuro «partito unico di massa della classe operaia»75.

  Secchia, Il Partito comunista, p. 33.   Ivi, p. 33. 73  Ivi, p. 34. Si veda anche P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, III, I fronti popolari, Stalin, la guerra, Einaudi, Torino 1970, p. 100. 74  Spriano, Storia del Partito comunista italiano, III cit., cap. II. 75  Ivi, p. 27. 71 72

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L’organizzazione politica del confino, come ricorderà Secchia, aveva anche una finalità importante per la vita del Centro interno del partito. Ogni volta che arrivava un nuovo confinato comunista il collettivo lo interrogava sulla situazione della sua zona, raccogliendo informazioni da inviare, sempre clandestinamente, al Centro interno del partito. In non pochi casi era lo stesso collettivo dei confinati che inviava direttive e materiali nelle zone del Paese che ne erano sprovviste. Gli echi dei processi moscoviti, che dall’agosto del 1936 sarebbero stati sempre più frequenti e con esiti così sanguinosi da azzerare la «vecchia guardia» bolscevica, cadono come un macigno sul dibattito dei confinati. A chi, come Secchia, fa il dirigente del partito anche a Ponza, e deve dunque spiegare e giustificare il comportamento di Stalin e della sua cerchia, si pone un problema cruciale: «Come spiegare che i migliori compagni, quelli che erano stati alla testa della Rivoluzione russa e che occupavano i più alti posti di responsabilità fossero delle spie, dei traditori al diretto servizio di potenze straniere?»76. Ma anche: «Come pensare si trattasse soltanto di compagni dissidenti, facenti parte dei gruppi di opposizione di destra o di sinistra, dei ‘trotskisti’, dei ‘buchariniani’ e pertanto accusati innocentemente dei delitti più infamanti?»77. La «fiducia nel partito» è l’àncora a cui si aggrappa la maggior parte dei confinati. È un appiglio che permette alla ferita che comporterebbe la ridefinizione della propria identità di rivoluzionari professionali di non aprirsi. Per buona parte dei comunisti arrestati è impossibile inserire un ostacolo in un percorso esistenziale che pervicacemente si vuole che sia lineare, senza rotture. Un rivoluzionario professionale non può avere oscillazioni, deve anzi lasciare da parte i dubbi e continuare a lottare, nonostante le incertezze, nonostante se stesso, talvolta nonostante la realtà. Secchia è di questa categoria politica un «caso» perfetto: «Prevalse in noi e nella grande maggioranza dei compagni la fiducia nel partito, nell’Internazionale comunista e nell’Unione sovietica, fiducia che ci faceva non dico credere nell’assurdo, ma accettare ciò che aveva dell’assurdo, come si accetta un dogma senza comprenderne il mistero»78.   Secchia, Il Partito comunista, p. 37.   Ibid. 78  Ivi, p. 38. 76 77

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Secchia nella sua ricostruzione autobiografica parla sinceramente del suo tormento e della sua dimensione «dimezzata». Da un lato il militante coi dubbi e le incertezze di tutti, dall’altro il dirigente che si fa grancassa della linea: «Le domande le più naturali sorgevano dalla coscienza e dal cervello di ogni compagno. Ed era difficile trovare risposte che appagassero noi stessi; eppure dovevamo in primo luogo convincere, persuadere tutti i compagni del ‘collettivo’, dare a loro degli argomenti, prepararli a rispondere ai critici, agli oppositori, alle obiezioni che venivano portate avanti dai confinati appartenenti agli altri partiti antifascisti»79. Si tratta di uno sforzo drammatico, di una tensione a tratti lacerante che Secchia nelle sue ricostruzioni autobiografiche riuscirà a rendere meglio di altri protagonisti, probabilmente perché la sua figura è quella più sovrapponibile all’idealtipo del rivoluzionario professionale novecentesco. Se Secchia cerca sempre di far posare lo sguardo del lettore più sugli aspetti di discussione che sulle rigidità, alcuni dei protagonisti di quelle diatribe hanno sottolineato come le rotture slittassero spesso dal terreno politico a quello personale. In principio l’ac­ cettazione del dissenso è una regola istituita per non rompere il collettivo, ma presto l’intolleranza prenderà il sopravvento, come testimonia in particolare la vicenda di Terracini sul finire degli anni Trenta80. Anche il caso di Altiero Spinelli è significativo. Proprio Secchia sostiene all’inizio che, nonostante i dissensi espressi sui processi di Mosca del ’36, Spinelli debba rimanere «un compagno da rispettare»81. È al momento della sua espulsione dal partito che le cose cambiano: «Il giorno stesso in cui l’espulsione fu decisa e comunicata a tutti attraverso la rete capillare dell’organizzazione, accadde una cosa stupefacente. Di colpo, quasi tutti non solo mi tolsero il saluto, ma riuscivano anche a comportarsi, quando i loro occhi cadevano su di me, come se nemmeno mi vedessero, come se al mio posto ci fosse l’aria»82. Nel caso di Spinelli l’astio si stempererà fino a divenire   Ibid.   Spriano, Storia del Partito comunista italiano, III cit., pp. 168-169. 81  La testimonianza di Spinelli citata è ivi, p. 169. 82  Ibid. Si veda anche A. Spinelli, Contributo a una storia del P.C.I., in «Il Mulino», XIX, 1970, 209, pp. 425 79 80

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«formale reciproco rispetto»83. Ma i ponti sono tagliati e il collettivo difficilmente riprende con sé chi ha espulso. Il collettivo, di cui Secchia è il leader, non si limita all’ordinaria amministrazione della vita quotidiana. Uno dei progetti su cui il direttivo lavora nel 1937 è l’organizzazione della fuga di alcuni compagni indicati dal Centro del partito: Scoccimarro, Terracini e Secchia84. Ma così come i comunisti si organizzavano per svolgere attività politica, allo stesso modo la polizia fascista si era dotata di informatori e spie. E, all’indomani della decisione di tentare la fuga, Secchia e Terracini si erano trovati pedinati «passo passo da un milite fascista»85. Quel tentativo non andrà in porto, così come fallirà quello messo in piedi da Secchia stesso nel 1939. Autorizzato a operarsi di ernia, deve recarsi a Napoli, dove proverà ad attuare il suo piano: Nelle suole delle scarpe avevo dei pezzi di sega per segare le infer­ riate, una certa somma di danaro (per non destare sospetti in tasca bisognava tenere poco danaro), in alcuni barattoli di marmellata confezionati con doppio fondo vi erano pochi metri di corda accuratamente intrecciata per calarmi dalla finestra del quarto piano dell’ospedale. Un compagno che appositamente si era fatto ricoverare all’ospedale prima di me aveva studiato con esattezza l’ubicazione del reparto, l’altezza della finestra da cui avrei dovuto calarmi, la strada in cui mi sarei trovato. Disponevo di un indirizzo di Napoli presso cui rifugiarmi nel caso la fuga fosse riuscita. Ma tutti i conti erano stati fatti senza l’oste della polizia. Il giorno in cui partii da Ventotene mi accompagnarono a Napoli tre poliziotti invece di uno o due come avveniva di solito. Giunti a Napoli, prima di portarmi all’ospedale accettarono di accompagnarmi a fare colazione in un ristorante (la sosta in un luogo affollato poteva offrire l’occasione per la fuga), ma non mi mollarono un attimo e rifiutarono, dopo pranzo, la mia richiesta di fare una visita alle «zie». «So che ad altri avete acconsentito, siamo uomini, sono otto anni che non vedo una donna»86. «Sì è vero, con altri acconsentiamo, ma con voi non

  Spinelli, Contributo a una storia del P.C.I. cit., p. 426.   Secchia, Il Partito comunista, p. 41. 85  Ibid. Si veda anche Promemoria, p. 171 86  È strano questo riferimento che Secchia fa alla sua sessualità. Egli infatti in tutte le sue memorie non parla mai né di amori, né di passioni, né di relazioni sentimentali. Sembrerebbe dunque una sorta di excusatio non petita, per sottolineare 83 84

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è possibile, ci hanno dato ordini severissimi, ché se voi doveste fuggire, o accadesse un incidente, perderemmo il posto e andremmo sotto processo». Non valsero le insistenze e il dare la mia parola d’onore. Furono irremovibili87.

Poi in corsia arrivò il questore in persona: la sorveglianza fu costante e della fuga non se ne fece più nulla. Questo è soltanto uno spaccato della vita del confinato politico Secchia. Ma è anche uno spaccato del regime, del suo timore verso le potenzialità politiche dei dirigenti comunisti, della sua ansia di mostrare all’esterno il pugno di ferro con cui venivano trattati i dissidenti. L’attività politica al confino costerà a Secchia dei provvedimenti disciplinari. Il 1938 è, come ricorda lo stesso comunista, un anno particolarmente duro, passato «per due terzi in carcere»88: sei mesi per avergli trovato un libro di Labriola e due per essere stato visto scrivere un rapporto per il Centro estero del partito89. Lo scioglimento della colonia penitenziaria di Ponza, ormai divenuta permeabile ai rapporti politici dei confinati con l’esterno, provoca un trasloco di massa a Ventotene così rapido da non permettere ai confinati di recuperare tutto il materiale clandestino nascosto nell’isola: libri, documenti, appunti, un vero e proprio tesoro per i membri del collettivo90. Ventotene è per i confinati «l’isola del diavolo», un luogo inospitale: continuare le attività di studio e di discussione è più difficile che a Ponza a causa di una sorveglianza ancora più occhiuta. È per questo che il collettivo comunista spingerà i confinati a non studiare soltanto ma a dedicarsi anche a qualche attività materiale, per ricavare un po’ di quattrini. Alcuni confinati organizzeranno un’orchestra, altri si daranno all’agricoltura, alla falegnameria, qualcuno farà il sarto, il fabbro o il rilegatore. un elemento di «normalità» sessuale dopo le molte insinuazioni che si erano fatte, a metà degli anni Cinquanta, riguardo una sua presunta omosessualità e riguardo un’altrettanto presunta relazione col suo più stretto collaboratore Giulio Seniga. Si tenga infatti conto che il volume di Secchia in cui è contenuta questa citazione viene pubblicato nel 1973. 87  Secchia, Il Partito comunista, p. 42. Si veda anche Promemoria, pp. 172-173. 88  Id., Il Partito comunista, p. 42. 89  Ivi, pp. 42-43. 90  Ivi, p. 43. Si veda anche Promemoria, p. 170.

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Secchia metterà a frutto una certa predisposizione per la pittura, aprendo con un compagno napoletano una bottega d’arte91. I quadri di Secchia non sono grandi prove pittoriche ma dipinti sinceri, in cui si nota l’influenza dell’insegnante e, dunque, della pittura napoletana dell’epoca, mediata attraverso qualche rimando molto semplice a uno stile che si vorrebbe vicino al cosiddetto «rea­ lismo socialista». Non si è salvato molto della produzione pittorica di Secchia, ma si tratta comunque della testimonianza di un pezzetto della sua vita92. Anche nel lavoro i confinati applicavano il metodo del collettivo: la metà dei guadagni finiva, infatti, in una cassa comune dalla quale venivano prelevati i soldi per le spese del gruppo. Lo studio della tattica militare, con l’arrivo al confino nel periodo che va dall’occupazione della Francia al 1942 dei combattenti della Guerra di Spagna, diventerà un’altra delle occupazioni di Secchia. Sappiamo della sua attenzione ai problemi della lotta armata fin dalla gioventù. Ora si tratta di qualcosa di più concreto, sia perché i garibaldini di Spagna avevano combattuto una vera e propria guerriglia, sia perché l’abbattimento del fascismo con metodi violenti non è più un’opzione minoritaria. Sentire parlare di guerriglia, di armi, di tecniche d’assalto, doveva certo essere per i confinati comunisti una boccata d’ossigeno, uno studio direttamente finalizzato alla rivoluzione. Come ricorderà Secchia, non è certo grazie a quegli studi che nascerà la Resistenza «ma anche quelle lezioni servirono se non altro ad insegnare a centinaia di giovani le tradizioni di lotta dei patrioti, le azioni dei partigiani di altri tempi, i successi o gli insuccessi di un certo numero di insurrezioni popolari»93. Dagli appunti di Secchia si può notare una grandissima attenzione verso Clausewitz, di cui legge Della guerra trascrivendone moltissime citazioni94.   Ivi, p. 171.   A quanto è dato sapere gli unici dipinti giunti fino a noi sono quattro olii di piccole dimensioni che fanno parte della collezione del pronipote di Secchia, Alfio Panella, figlio della sorellastra di Secchia, nata dal secondo matrimonio del padre. 93  Secchia, Il Partito comunista, p. 48. 94  FGF, Fondo Secchia, Serie Quaderni, Contenitore 1, Quaderni confino, Quaderno 1, pp. 21 e ss.; 32 e ss. Ma tutto il quaderno è pieno di citazioni da altri manuali di guerra. 91

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Gli studi di Secchia non si limitano però all’arte militare nemmeno in questo periodo. Legge Cartesio, Leibniz, Pascal, Kant, Rousseau, insomma tutto quello che gli capita fra le mani e la censura consente95. Abbozza anche uno Studio su alcuni romanzi di Emilio Zola96. Fra le sue carte è poi conservato un quaderno intitolato Appunti e note per uno studio sul Biellese. Si tratta di una bozza di quel saggio che poi pubblicherà col titolo Capitalismo e classe operaia nel centro laniero d’Italia97. Tutti questi quaderni sono compilati con una scrittura fittissima e ordinatissima, con tanto di indici nelle ultime pagine. Si vede che non si tratta di appunti occasionali, ma di un lavoro di studio organizzato e costante. Uno studio onnivoro, disomogeneo ma disciplinato. Con i garibaldini di Spagna era arrivato a Ventotene anche il vecchio sodale di Secchia, Luigi Longo. Col suo arrivo Secchia e Scoccimarro perdevano il loro ruolo di unici dirigenti dei confinati: «Noi tutti riconoscevamo in Longo il nostro dirigente, il primo di quelli che eravamo a Ventotene, e quindi il ‘responsabile’ diventava lui, anche se il ‘comitato’ decideva collegialmente»98. Con Longo la vicenda che riguarda i dissensi di Terracini ha un’improvvisa accelerazione. Si tratta di una storia che si protrae da tempo e che nasce con i dissensi sulla svolta del ’29-’31 per poi acutizzarsi in occasione del patto tedesco-sovietico. Longo vuole chiudere la faccenda e convince Secchia: «Senti, Terracini continua a conservare tutti i suoi punti di vista, non vuole riconoscere alcun errore, il che significa praticamente che egli si rifiuta di riconoscere la nostra autorità»99. Longo tenderà poi, nella sua ricostruzione autobiografica, a non mettere in connessione i dissensi di Terracini sulla svolta con quelli dei primissimi anni Quaranta100, ciò non toglie che le posizioni del futuro presidente della Costituente abbiano rappresentato una spina nel fianco per la comunità dei confinati comunisti per un decennio. Nel dissenso di Terracini si innesta si-

  FGF, Fondo Secchia, Serie Quaderni, Contenitore 1, Quaderni confino.   Ivi, Quaderno 1, pp. 29 sgg. 97  Sul Biellese ci sono anche molti appunti ivi. Il quaderno Appunti e note per uno studio sul Biellese è in FGF, Serie Varia, Contenitore 8, f. 1. 98  Promemoria, p. 166. 99  Ibid. 100  Longo, Salinari, Dal socialfascismo alla guerra di Spagna cit., pp. 349-350. 95 96

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curamente un ulteriore aspetto, su cui Longo calca molto la mano: il fatto che Terracini non riconoscesse nel gruppo dirigente creatosi al confino l’autorevolezza e l’autorità del partito101. Il discorso di Longo persuase Secchia e sfondò con Scoccimarro una porta aperta dato che «Scoccimarro non attendeva altro, se fosse dipeso da lui l’avrebbe già espulso sette anni prima»102. L’arrivo di Longo al confino non rappresenta soltanto un cambio della guardia negli organismi di direzione del collettivo comunista. Longo è anche un portatore di notizie, un punto di riferimento per chi vuole sapere davvero cosa sia successo nei dibattiti del partito e dell’Internazionale negli anni precedenti. E lo è anche per Secchia che vuole provare a capire qualcosa di più su quelle fucilazioni del 1936 che aveva dovuto difendere senza troppa convinzione: «Longo non aveva argomenti convincenti per rispondermi, tuttavia non mi diceva che gli stessi dubbi aveva anche lui. Al contrario, cercava di persuadermi con dei ragionamenti psicologici, che non potevo ragionare come ragionavamo noi al Tribunale speciale. [...] L’argomentazione non persuadeva e soltanto quindici anni dopo dovevamo avere tragica conferma che avevamo ragione di dubitare di quelle confessioni e di quei processi»103. È ciò che accade in Unione Sovietica che costringe i confinati a dibattere fra loro col terrore di mettere in discussione la propria identità. C’è una sorta di soglia, oltrepassata la quale si è fuori: fuori dal partito, fuori dal collettivo, fuori da quella rete di solidarietà che permette di sopravvivere con meno fatica, ma soprattutto fuori dalla propria vita di rivoluzionario professionale. Secchia non oltrepasserà mai quella soglia. Ciò non toglie che egli viva le contraddizioni del dibattito politico in seno all’Internazionale e al partito con sofferenza e, talvolta, con sconcerto. Uno sconcerto che viene messo da parte aggrappandosi con le unghie alla propria identità. Alcune osservazioni in questo senso si possono fare sugli appunti che Secchia verga leggendo il Breve corso di storia del PC(B) dell’URSS. Avuto fortunosamente il volume tra la fine del ’39 e l’inizio del ’40, questo libro diviene presto un testo di studio fondamen  Ibid.   Promemoria, p. 167. 103  Ivi, p. 169. 101 102

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tale per i confinati. Secchia, in un quaderno di appunti, camuffa le sue osservazioni sul Breve corso sotto il titolo «Appunti sulla ‘Storia della Russia’ di Henderstrom, Corticelli Editore, Milano». In quella sorta di recensione egli riversa tutti i suoi dubbi. Se da un lato, come scriverà poi, quella recensione testimonia che il culto della personalità di Stalin almeno fra i comunisti detenuti in carcere o al confino non aveva ancora raggiunto i livelli degli anni successivi104, dall’altro può rappresentare un saggio di ciò che Secchia e molti altri suoi compagni si sarebbero aspettati di trovare nel Breve corso, rimanendo però insoddisfatti. In particolare nelle prime righe appare tutta la delusione di fronte al carattere didascalico della pubblicazione: «Pregio: la semplicità che è pure un notevole difetto del libro, per voler essere troppo semplice cade nel semplicismo. Un catechismo dalle risposte pronte; chi vi ha creato? – Mi ha creato Iddio – risposta che non può appagare chi sa di aver avuto più modesti natali; risposte che fanno porre all’uomo pensante un’altra quantità di domande alle quali si cercherebbe invano qualsiasi tentativo di risposta all’infuori della giaculatoria con la quale terminano i salmi»105. Si tratta di una critica mossa con un linguaggio aspro, al quale Secchia ci ha abituati. Ma è un linguaggio che testimonia anche l’irritazione per un’occasione persa, in particolare al confino, dove la voglia di leggere e di studiare è tanta e sempre finalizzata all’educazione e alla formazione politica per il futuro. Il complesso di critiche che Secchia muove al Breve corso sembra animato dall’accusa di aver tralasciato l’ortodossia del metodo storico marxista-leninista. Il titolo del primo paragrafo è di per sé esplicito: Le idee non cadono dal cielo106. In particolare Secchia nota come nel Breve corso non vi sia alcuna attenzione alla «base materiale» che produce le idee. È una critica sensata che affonda però le radici, nel caso di Secchia, in quella tendenza – di cui si è già detto riflettendo sugli articoli giovanili – a incasellare ogni avvenimento all’interno della griglia interpretativa del marxismo-leninismo come se si trattasse di una tabella fissa, in grado di decodificare ogni fatto. Secchia è a tratti sprezzante, critica il semplicismo, sottolinea le parole troppo nette e non sopporta il carattere catechetico del  Secchia, Il Partito comunista, p. 50.   Il documento è ivi, pp. 51-56. La cit. è a p. 51. 106  Ivi, p. 51. 104 105

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la prosa. Così come non si rassegna alle semplificazioni: «Da una parte il part.[ito] dei duri, dall’altra sempre tutti i partiti contrastanti visti come se fossero un blocco unico. Sia alla vigilia del 1905 che in seguito vi è un esame insufficiente dei diversi movim. [enti] e partiti, dei loro diversi programmi e diversi atteggiamenti sui problemi concreti. Si incontrano ad un certo punto cadetti ed ottobristi senza sapere da dove provengono»107. Fra le critiche di Secchia ve n’è anche una che ha un immediato risvolto politico per un dirigente al confino che deve far fronte da un lato alla formazione dei compagni e dall’altro ai problemi della discussione e del dissenso. Se Secchia non trova nel Breve corso la riflessione storica che va cercando, non vi trova nemmeno gli strumenti da impiegare per la formazione dei quadri sui temi cruciali dell’identità comunista: «Ad esempio è del tutto insufficiente la trattazione del centralismo democratico. Si dice: il partito dev’essere diretto col criterio del centr. democ. il che significa sottomissione della minoranza alla maggioranza, disciplina, elezione di tutte le cariche. Troppo poco. [...] Che cosa s’intende per sottomissione? È possibile una sottomissione, una disciplina nell’azione se non c’è unità, omogeneità ideologica? Qual è la spiegazione filosofica della necessità del centr. democr.? Perché questo è il migliore criterio di direzione per il p.?»108. Secchia riversa sulla pagina tutte le domande (presenti, ma anche future) che i compagni gli pongono. C’è l’ansia del rivoluzionario di trovare le risposte agli interrogativi più frequenti e c’è la frustrazione del dirigente che non le ha trovate nemmeno in quella Bibbia laica arrivata dall’Urss. Si è detto ampiamente del ruolo che per i comunisti rivestì lo studio nei periodi di carcere e di confino. Si è fatta anche, da più parti, molta retorica sull’«università del carcere», sia in chiave celebrativa che auto-celebrativa. Ma quella parentesi nella lotta quotidiana aiutò davvero molti militanti che non avevano quasi per nulla avuto la possibilità di studiare, a costruirsi una cultura che avrebbe poi consentito loro di divenire la classe dirigente della sinistra nell’Italia repubblicana.

  Ivi, p. 52.   Ivi, p. 53.

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III. Prigioniero

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Queste riflessioni di Secchia si collocano cronologicamente fra la fine del ’39 e l’inizio del ’40, quando la comunità politica dei confinati viene travolta dallo scoppio della guerra. Nelle sue ricostruzioni autobiografiche Secchia pone l’accento sulla compattezza dei confinati, schierati con l’Internazionale e con l’Unione Sovietica109. In realtà il clima non era affatto pacificato e le lacerazioni ci furono, e furono profonde. A dire la verità Secchia accenna al dissenso e alle rotture, parlando in particolare della durezza applicata verso Terracini e, involontariamente, scrive una frasetta nella quale è contenuta tutta l’antropologia del rivoluzionario professionale: «Tutti ne eravamo dispiaciuti ed addolorati, ma la ragion di partito prevaleva su tutto e su tutti»110. Ma non c’è solo la rappresentazione della scala valoriale del rivoluzionario, in questa parte delle memorie di Secchia, c’è anche un saggio della sua autorappresentazione. Sempre parlando di Terracini, Secchia scrive infatti: «Ho spesso apprezzato chi esamina i problemi seriamente, con spirito critico; il conformismo mi ha sempre infastidito, convinto come sono che è assai più facile dire di sì, essere subito ‘pienamente’ d’accordo con la maggioranza, seguendo la corrente, che non sostenere il proprio punto di vista quando si è soli o in minoranza»111. Le asprezze hanno in molti casi un’origine caratteriale ma c’è anche il clima del confino a inserirsi prepotentemente in una situazione già di per sé complicata per discutere: un regime forte, un partito ridotto al lumicino, una guerra inedita, questo è il fondale di una scenografia che impedisce allo sguardo di andare oltre. Secchia non tace la durezza degli scontri, tanto da citare anche l’intervista a Terracini nella quale questi aveva affermato che «l’espulsione, la condanna e – a Ventotene – con Camilla Ravera l’isolamento fra i compagni, l’ostilità di molti, [fu] una cosa terribile. Molto, molto peggio della segregazione in carcere»112, ma vuole sottolineare come si sia trattato di casi isolati e di situazioni di dissenso irrecuperabili.   Ivi, p. 57.   Ibid. 111  Ibid. 112  La costanza della ragione, intervista a U. Terracini di E. Nasti, in «Paese Sera», 16 febbraio 1970 cit. in Secchia, Il Partito comunista, p. 58. 109 110

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L’ultimo periodo al confino fu il più duro. Fu un periodo di fame: «Chi ne soffrì furono i cani e i gatti dell’isola, vittime innocenti della situazione di forza maggiore, che finirono tutti nelle pentole delle nostre mense. Compreso il cane poliziotto del […] direttore della colonia. L’avevamo lasciato per ultimo ben sapendo che la sua scomparsa avrebbe mandato sulle furie il solerte funzionario dell’ovra»113. Poi arrivò, come un fulmine da un cielo tempestoso, il 25 luglio 1943.   Ivi, p. 61.

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IV Organizzare «un’improvvisata». Come la spontaneità cambia un organizzatore 1. Organizzare la libertà «Il 25 luglio fu un’improvvisata per tutti»1. Con queste parole Secchia apre le pagine del suo Promemoria autobiografico sulla caduta del fascismo. «Tutti lo attendevamo [‘un’ 25 luglio], ma non si sapeva né come né quando sarebbe avvenuto, e nessuno era preparato ad un crollo così clamoroso (quasi un castello di carta che si sfascia) del partito e del regime fascista»2. E al confino la fine politica di Mussolini si proietta sulla vita dei confinati e dei fascisti provocando un capovolgimento dei ruoli: gioia dei detenuti, pianti del direttore della colonia e ira dei poliziotti. Ora sono i confinati a dettare le condizioni: «1) ritiro in caserma dei militi fascisti e degli agenti carogne. [...] 2) abolizione delle restrizioni disciplinari, degli appelli durante la giornata; togliere tutti i militi che accompagnavano ad un metro un certo numero di confinati; rimuovere dagli uffici e dal paese insegne, busti e quadri del fascismo e dei fascisti; 3) poter inviare a Badoglio un telegramma così concepito: ‘Confinati politici Ventotene domandano liberazione immediata’»3. Il telegramma fu inviato4 ma non ebbe risposta. Seguì un altro tentativo, dal tono più fermo e deciso5. Ma nonostante una tempesta

  Promemoria, p. 174.   Secchia, Il Partito comunista, p. 74. 3  Promemoria, p. 174; Secchia, Il Partito comunista, p. 62. 4  Ibid. (testo integrale). 5  Ivi, p. 63. 1 2

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di telegrammi invada il governo e le autorità locali, come annoterà Secchia, «Badoglio e la sua corte non [avevano] alcuna intenzione di liberare i comunisti»6. Prima saranno infatti lasciati liberi, come noterà Secchia con una punta di sarcasmo, i giellisti, i socialisti, gli antifascisti «democratici»: «Mancavano tre settimane all’8 settembre, ma per il governo Badoglio i nemici erano sempre i comunisti»7. Quando poi arriverà l’ordine di liberare anche loro, non ci saranno i mezzi per riportarli sulla terraferma. Secchia partirà per Roma con Longo e Scoccimarro soltanto dopo la metà di agosto8. Nella capitale il primo incontro di Secchia è con Roveda, poi vedrà anche Amendola, «col suo esuberante ottimismo e in piena attività»9. E Antonio Giolitti, a casa del quale potrà togliere i panni «laceri e stinti del confino» e mettersi dei vestiti puliti10: «Non è che con quelli regalatici fossimo eccessivamente eleganti, Longo aveva un estivo color caffè che lo faceva sembrare un frate, anche se l’abito non fa il monaco, a me era toccato pure un estivo color pepe e sale, forse ora si direbbe sottobosco»11. L’intermezzo romano durerà pochissimo: il tempo di incontrare qualche altro compagno e poi ognuno a casa propria. Secchia andrà a Biella in treno, passando per «la Torino bombardata e triste»12. Giunto a casa dopo anni, con l’idea di fermarsi una settimana, arriverà dopo appena un giorno la chiamata del partito che lo vuole a Milano13. Lì Secchia incontra dei vecchi compagni: Amendola, Roasio, Negarville, Novella, Roveda, che costituiscono il Centro interno, dopo che quello estero si è praticamente sciolto14. Secchia e gli altri dirigenti del confino si erano preoccupati, ancor prima che la liberazione da Ventotene arrivasse, di diramare a tutti

  Ibid.   Ivi, p. 65. 8  Oltre agli scritti autobiografici di Secchia si veda P. Spriano, Storia del Partito co­ munista italiano, V, La Resistenza. Togliatti e il partito nuovo, Einaudi, Torino 1975, p. 57. 9  Secchia, Il Partito comunista, p. 73. 10  Promemoria, p. 176. 11  Ibid. Si veda anche Secchia, Il Partito comunista, p. 73. 12  Promemoria, p. 176. 13  Secchia, Il Partito comunista, p. 73. 14  Ibid. 6 7

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i compagni dell’isola delle direttive precise: andare a casa, prendere i contatti coi comunisti del luogo e ricostruire l’organizzazione del partito. Come ha notato Secchia stesso, se si tiene conto che i comunisti detenuti a Ventotene il 25 luglio 1943 erano circa 800, il Pci, pochi giorni dopo la liberazione dell’ultimo confinato, poteva già contare su una rete piuttosto ampia di contatti, sebbene concentrati quasi esclusivamente nel Centro-Nord oltre che a Roma e Napoli15. Il Secchia delle ultime ore al confino è quindi il dirigente di sempre, che si preoccupa di organizzare come un’avanguardia il gruppo di militanti che ha a disposizione, di plasmarne l’azione come aveva fatto per anni prima di essere incarcerato. Secchia, dunque, prima di venire a contatto con le necessità della lotta partigiana, applica quel metodo organizzativo già sperimentato, nel quale al centro c’è il partito e la spontaneità è una variabile che non viene pressoché considerata. È Novella a proporre a Secchia, in una fase in cui la direzione del Pci era nel caos, di assumere il ruolo di «responsabile della direzione del partito esistente nel Paese»16. Stando alla sua ricostruzione, Secchia in quell’occasione avrebbe suggerito di fare la medesima proposta a Longo, da lui ritenuto «superiore». Ciò che più importa, e che in qualche modo consente di capire come si volesse marcare una continuità fra l’organizzazione comunista al confino e quella post-25 luglio, sono le motivazioni impiegate da Novella per convincere Secchia: «Come, al confino non eri tu il responsabile?»17. Secchia ci tiene molto a sottolineare come egli vedesse in Longo un proprio dirigente, un compagno dotato di migliori capacità e quindi la persona più adatta a ricoprire quella carica. Ma il discorso fu lasciato cadere e la direzione rimase ancora senza un responsabile ufficiale. Il precipitare dei fatti coglie Secchia a Roma, proprio nelle ore in cui viene reso pubblico l’armistizio. Le memorie di Secchia rendono bene la concitazione di quei momenti: una riunione della direzione immediatamente convocata, i contatti coi territori da riprendere, tre autocarri di armi che arrivano grazie al generale Carboni e poi Longo che, qualche ora dopo, consegnerà a ogni dirigente una rivoltella e «Roveda [che] rivoltava tra le mani quella pistola come si guarda un   Promemoria, p. 176.   Ivi, p. 177. 17  Ibid. 15 16

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oggetto strano e sconosciuto» e alla fine chiede: «Adesso insegnatemi come si fa a caricarla e ad adoperarla»18. È dopo l’ingresso dei tedeschi nella capitale che la direzione del Pci decide di dividersi in due, fra Milano e Roma. Secchia viene inserito nella direzione del Nord e quindi Milano è la sua destinazione. Il viaggio di Secchia verso Milano, in un treno pieno di soldati sbandati, è spezzato dalle riunioni per ricostruire, strada facendo, l’organizzazione del partito: Firenze e Bologna sono infatti due tappe importanti per organizzare i compagni e dare loro le prime direttive per la lotta armata19. Giunto a Milano, Secchia si sposta subito a Torino, poi a Genova e a Padova per arrivare, infine, a Borgosesia dove ha appuntamento con Cino Moscatelli, il suo vecchio amico, sul quale «correvano voci strane»20. Ma di Moscatelli e del suo rapporto con Secchia diremo in seguito. Il compito di Secchia, ora, sta nel mettere in pratica ciò che ossessivamente ha studiato per anni in carcere, al confino e, ancora prima, da ragazzo. Per un rivoluzionario professionale lo studio è infatti una delle componenti fondamentali del suo groviglio identitario. Ma lo studio non avrebbe avuto alcun senso senza una traduzione pratica. La Resistenza è per Secchia il mare in cui sfocia l’impetuoso fiume che per molti anni è stato costretto dal fascismo in spessi e invalicabili argini. Non si tratta di un momento di rottura e non è, come è stato scritto ad esempio per gli azionisti, l’apice di un’esistenza: non lo è nemmeno nella rappresentazione delle ricostruzioni autobiografiche che Secchia non ci ha fatto mancare. Se vogliamo trovare un momento apicale nell’autobiografia di Secchia e della sua generazione, dobbiamo estendere i confini di questo apice ideale, dilatarlo fino a ricomprendere tutto il ventennio di lotta antifascista, di cui la Resistenza, almeno nell’autorappresentazione di Secchia e di molti suoi coetanei, non è che un passaggio, un esito. Paolo Spriano ha scritto che per molti militanti «l’impegno nella Resistenza è come l’epilogo, o il riepilogo, di una lunga carriera di rivoluzionari»21. Forse questa osservazione può valere anche per   Ivi, p. 177.   Ivi, p. 179. 20  Ivi, p. 178. 21  Spriano, Storia del Partito comunista italiano, V cit., p. 66. Si vedano al riguardo le osservazioni di A. Agosti e G. Sapelli nell’introduzione a Dalla clandestinità 18 19

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Secchia, a patto che si stabilisca una marcata linea di continuità fra la ventennale lotta clandestina antifascista e la lotta armata del 194345. Secchia narra infatti le vicende dell’antifascismo pre-25 luglio e quelle dell’antifascismo post-25 luglio col medesimo tono epico, quasi a voler sottolineare come nei militanti comunisti vi sia stata una sorta di diritto di prelazione nella ricostruzione memoriale delle vicende dell’antifascismo proprio perché coinvolti in una lotta ventennale e non soltanto nei mesi della Resistenza. C’è in questa posizione storiografica, che è prima di tutto una scelta politica, una volontà di autorappresentazione che non coinvolge soltanto la propria dimensione personale ma che si estende a quella collettiva del Pci, ossia al tentativo – riuscitissimo – di erigere un’impalcatura fatta di simboli, di figure e di storia in grado di sorreggere e di rafforzare un progetto politico che voleva rappresentarsi come l’unico a essere sempre stato dalla parte giusta. La Resistenza, se gli equilibri della politica internazionale avessero preso un altro indirizzo, avrebbe potuto non essere ciò che poi è stata nella realtà. Ciò non toglie che, per Secchia e per molti suoi compagni di fede, essa fu lo strumento per abbattere il fascismo che da anni andavano sognando. Non ha alcuna importanza qui tutta quella costruzione eretta ex post, i cui pilastri sono la «rivoluzione mancata» e la «Resistenza tradita». Ciò che conta, almeno dal punto di osservazione che qui si è scelto, è cosa la Resistenza abbia rappresentato nel percorso esistenziale di Pietro Secchia, prima, durante e dopo quei cruciali venti mesi. E soprattutto quale sia stata l’influenza della Resistenza, con tutta la sua ovvia componente di spontaneità, nella forma mentis di un organizzatore terzinternazionalista come Secchia. Secchia, che presto si troverà a dirigere l’organizzazione del partito durante la Resistenza in un territorio vastissimo che va dal Piemonte alle Marche22, inizia, una volta giunto a Roma, un’attività intensissima. Il 14 settembre è atteso a Milano, ma trova il tempo per raggiungere a Borgosesia Cino Moscatelli, che si era già messo in moto per organizzare le sue bande armate, dopo la riunione del 9 settembre nella quale si era costituito il Comitato di liberazione alla lotta armata. Diario di Luigi Capriolo, dirigente comunista (26 luglio-16 ottobre 1943), a cura di A. Agosti e G. Sapelli, Musolini, Torino 1976, p. v. 22  Spriano, Storia del Partito comunista italiano, V cit., p. 57.

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valsesiano23. Secchia aveva conosciuto Moscatelli nel 1927 a Milano e aveva avuto modo di lavorare con lui in Italia e a Parigi nel biennio 1930-31. Si erano poi ritrovati in carcere a Civitavecchia nel 1932 da dove sarebbero entrambi usciti nel 1936. È Secchia a chiedere di Moscatelli nelle quarantotto ore trascorse a Biella dopo la liberazione dal confino. E Moscatelli è uno dei primi vecchi compagni biellesi che incontra a Milano il 3 settembre, divenendo l’anello centrale di una catena organizzativa che Secchia metterà in piedi. Le maglie di questa catena saranno proprio quei biellesi con cui Secchia aveva vissuto la sua precedente militanza. Il caso di Moscatelli è in questo senso esemplare24. Espulso dal PCd’I per aver acconsentito a scrivere una lettera nella quale ripudiava il comunismo pur di essere scarcerato, viene reintegrato nelle file del partito della Resistenza proprio in ragione della fiducia che Secchia riponeva in lui. Nulla vale di più di un vecchio legame costruito in clandestinità, nemmeno un atto che per un rivoluzionario professionale come Secchia significa il cedimento più infamante: l’aver misconosciuto pubblicamente il partito. Secchia farà sempre affidamento sui compagni biellesi che, infatti, troviamo sparpagliati nei luoghi più importanti di direzione della guerra partigiana: Roasio sarà commissario in Veneto ed Emilia, Benvenuto Santus sarà triumviro in Veneto con un altro biellese, Stefano Schiapparelli, soltanto per citare tre casi fra i più significativi. Si tratta di un modello organizzativo fortemente accentratore, in cui il partito è ancora una piccola comunità politica, un’avanguardia, in cui i compagni si conoscono tutti e in cui la fiducia viene concessa più facilmente a chi si conosce da più tempo e a cui lega anche la provenienza dalla stessa terra. I primi giorni dopo l’armistizio scorrono all’insegna dell’improvvisazione fra sedi da rendere efficienti, organismi politici da inventare e proclami che genericamente esortano: «Alle armi»25. Nel periodo resistenziale, il ruolo di Secchia ai vertici delle Brigate Garibaldi si fonderà con quello di dirigente di partito, così come 23  P. Secchia, C. Moscatelli, Il Monte Rosa è sceso a Milano. La resistenza nel Biellese, nella Valsesia e nella Valdossola, Einaudi, Torino 1958, p. 53. 24  M. Albeltaro, Moscatelli, Vincenzo, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 77, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2012. 25  Proclama del Cln, 9 settembre 1943 in Secchia, Il Partito comunista, p. 103.

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si identificheranno gli organismi di direzione del Pci con quelli delle Garibaldi26. La storia del Partito comunista italiano durante la Resistenza è stata in gran parte scritta, così come il ruolo svolto da Secchia durante la lotta partigiana è stato ampiamente affrontato: tracciarne qui una pur sommaria ricostruzione significherebbe scrivere un libro nel libro, oppure limitarsi a una rassegna che nulla toglierebbe e nulla aggiungerebbe alla conoscenza dei fatti. Ciò che qui interessa è capire cosa abbia rappresentato la Resistenza nella storia di Secchia più che vedere cosa abbia rappresentato Secchia nella storia della Resistenza. 2. Spontaneità e organizzazione L’elemento della spontaneità è quello che fa nascere le prime bande di resistenti nelle vallate piemontesi, sui confini nord-orientali, nell’Appennino e nell’alto Lazio27. Ma la Resistenza non sarebbe stata ciò che è stata senza l’innesto, in questo clima di spontaneismo e di ribellione, della matrice politica, che funge anche da elemento di organizzazione. Un’organizzazione che fin da subito diventa un obbligo per superare lo iato fra le intenzioni e la realtà. Fin dall’inizio il Cln, nato dopo le tragiche giornate di Roma nel settembre ’43, si comporta come un vero e proprio «governo di guerra»28, pensando non solo all’approvvigionamento delle bande, ma anche alla costruzione di organi di stampa e al reperimento di denaro. Il suo effettivo ruolo di direzione rimane all’inizio soltanto sulla carta e si scontra con le difficoltà di una realtà a macchia di leopardo che è difficile tenere unita. Come ha scritto Santo Peli, «né ciò deve meravigliare, tenuto conto delle fragili risorse di un esiguo numero di persone, sottoposte a una caccia incessante, che tentano di inventare di sana pianta, in territorio occupato, strutture operative in grado di dirigere e alimentare, in senso non solo figurato, la 26  Si vedano: Id., Il Partito comunista, p. 109; S. Peli, Storia della Resistenza in Italia, Einaudi, Torino 2004, p. 44. 27  Ivi, pp. 34-35. 28  R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, 8 settembre 1943-25 aprile 1945, Einaudi, Torino 1964, p. 203.

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lotta armata»29. In quei frangenti, a Secchia come a tanti altri dirigenti, tutte quelle letture di Clausewitz e di tecnica militare dovettero sembrare più degli esercizi accademici che non un allenamento per la lotta. Il 20 ottobre Secchia diventa commissario politico del comando generale delle brigate Garibaldi e si trova, ancora una volta, a lavorare a fianco del suo vecchio sodale Luigi Longo che ne è invece nominato comandante30. Sono dunque Longo e Secchia, proprio per quell’identità che c’è fra partito e brigate Garibaldi, a dirigere il Pci in questa fase. E il lavoro che spetta loro, e che certo non è estraneo alla loro cultura politica, non si limita all’organizzazione concreta della guerra partigiana. Ciò che infatti è in gioco è l’egemonia sui Cln che ogni forza politica tenta di esercitare con gli strumenti che ha a disposizione. Ciò alimenta tensioni, che talvolta escono allo scoperto. È Secchia stesso, ad esempio, a scrivere in un articolo che l’«attesismo si fa strada e ha inquinato certe correnti del Comitato di liberazione nazionale»31. Nelle sue ricostruzioni storiografiche Secchia tenderà sempre a sottolineare una netta preminenza dell’organizzazione rispetto alla spontaneità, fin dagli esordi della Resistenza32. In realtà sappiamo come all’indomani dell’8 settembre le prime azioni partigiane siano state il frutto, almeno nella maggior parte dei casi, di un’improvvisazione. Solo in un secondo tempo, sebbene non molto lontano, le forze politiche, e il Pci in questo caso, sarebbero riuscite a dare un’organizzazione al movimento. E il fatto che Secchia eluda questo problema storiografico mostra in filigrana una mentalità ancorata all’idea di un partito totalizzante che preferisce rivendicare la capacità di creare un movimento, piuttosto che quella di egemonizzarlo e di guidarlo. In realtà il capolavoro politico di Secchia – e del Pci più in generale – sta proprio nell’essere stato in grado di omogeneizzare le istanze del movimento resistenziale incanalandole verso un unico bacino politico, e in questa operazione ha giocato un ruolo fonda-

  Peli, Storia della Resistenza in Italia cit., p. 42.   Secchia, Il Partito comunista, p. 108. 31  L’articolo di Secchia, intitolato L’attesismo: una insidia da sventare, è in «l’Unità», 31 ottobre 1943, poi in Id., I comunisti e l’insurrezione, Editori Riuniti, Roma 1973 (1954), p. 59. 32  Id., Il Partito comunista, p. 111. 29 30

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mentale proprio la capacità egemonica del partito, che è cresciuta contemporaneamente al crescere del consenso e del numero dei militanti organizzati. Se è vero che «la Resistenza non fu né un miracolo, né un fenomeno spontaneo» e che «dovette essere organizzata»33 è altrettanto vero che proprio l’organizzazione della spontaneità è ciò che a Secchia riuscì meglio in questo periodo. E il germoglio da cui era nata la resistenza armata al fascismo aveva avuto nel lavoro clandestino del Pci durante gli anni della dittatura un ottimo concime, in grado di preparare un terreno fertile per la nascita di un movimento che ebbe nella spontaneità una caratteristica naturale, piuttosto che una scelta ideologica. Soprattutto se si guarda alla periferia, la ricostruzione storiografica di Secchia sembra distante anni-luce dalla sua attività in quella fase. Perché se combattere «l’attesismo»34 è una delle sue ossessioni, altrettanto pressante sarà il bisogno di contenere quegli scoppi spontanei che avrebbero potuto avere conseguenze negative. La stessa osservazione di Secchia, secondo cui «fummo sempre insoddisfatti del numero di iscritti al partito che riuscivamo ogni mese ad inviare nelle formazioni dei partigiani combattenti»35, testimonia una strategia volta a egemonizzare le formazioni attraverso l’invio di compagni fidati dove già esisteva qualcosa che il partito non aveva creato, ma che piuttosto doveva organizzare. Anche la decisione di avviare da subito, dall’ottobre 1943, la pubblicazione di un periodico come «La Nostra Lotta»36 se da un lato mostra una linea di continuità con l’attenzione del Pci per i giornali, dall’altro rappresenta anche la risposta al bisogno di avere uno strumento per diffondere delle direttive in grado di influire in un clima in cui l’improvvisazione la faceva da padrona. Sarà lo stesso Secchia ad ammettere che in nessun movimento come nella Resistenza i protagonisti furono centinaia e centinaia di uomini con le loro iniziative audaci, con le loro batta-

  Ibid.   Si veda l’articolo cit. del 31 ottobre 1943. 35  Secchia, Il Partito comunista, p. 112. 36  Si veda il reprint La Nostra Lotta. Organo del Partito comunista italiano 19431945, prefazione di A. Colombi, Edizioni del Calendario, Milano 1970. Si veda anche Spriano, Storia del Partito comunista italiano, V cit., p. 188. 33 34

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glie che rispondevano sì a direttive generali orientatrici, le quali però non potevano andare e non andavano al di là, per difficoltà dei collegamenti e la lontananza dei comandi generali dalle zone delle operazioni37.

Secchia e Longo animano da soli i primi numeri della «Nostra Lotta», prima che Curiel ne assuma la direzione. La rivista è un vero e proprio bollettino di partito nel quale si susseguono tentativi di analisi e direttive. C’è insomma il bisogno di dare ai combattenti e ai militanti delle direttive precise, senza troppi giri di parole. Secchia è cosciente di questo bisogno, tanto da accusare «l’Unità» di Roma di non pubblicare «nessun articolo che indichi ai compagni i compiti immediati di oggi che spettano a loro e cioè condurre la guerra, e che diano ad essi direttive in questo senso»38. Nel primo numero della «Nostra Lotta» appare la concezione della guerra partigiana di Secchia, che affonda le radici nella sua formazione politica e che è stata rafforzata dagli studi militari fatti in carcere e al confino. Ma essa ancora non ha fatto i conti con la realtà del movimento partigiano e quindi, col trascorrere del tempo, sarà costretta a mutare. Nell’articolo intitolato Due svolte39 emerge infatti una visione della guerra partigiana marcatamente avanguardistica, di una lotta animata dai migliori: «I deboli, i paurosi, gli inetti, tutti coloro che non danno sufficiente garanzia di fermezza nella lotta devono essere decisamente eliminati dalle nostre file»40. E ancora: «Ricordiamoci che, soprattutto nelle ore difficili, la forza è data in primo luogo dalla qualità. Nelle ore decisive è necessario stringere le file, serrare i ranghi. Nelle ore decisive al fuoco occorrono i migliori, i più arditi combattenti, ed alla testa i comandanti più fermi e provati»41. La concezione del partito come avanguardia dei migliori sarà costretta

  Secchia, Il Partito comunista, p. 115.   Lettera di Secchia, Milano, 19 novembre 1943, in L. Longo, I centri dirigenti del Pci nella Resistenza, Editori Riuniti, Roma 1973, pp. 129-130. Si veda anche C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 166. 39  L’articolo è pubblicato in «La Nostra Lotta», I, 1943, 1, pp. 14-19 (poi ripreso in Secchia, I comunisti e l’insurrezione cit.). Si citerà sempre dal reprint delle Edizioni del Calendario. 40  Ivi, p. 16. 41  Ivi, p. 17. 37 38

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a fare i conti con la dimensione di massa che il Pci assumerà di lì a pochi anni: «Rivedere gli iscritti non significa sprangare ermeticamente le porte del partito, come ieri, al 25 luglio ‘fare un largo reclutamento’ non significa spalancare ambedue i battenti a tutte le ‘code’ che premevano per entrare»42. In un articolo del novembre 1943, Secchia parla invece al cuore del lettore e rivendica il coraggio degli italiani, pensando già al futuro bilancio della lotta antifascista: «Ma il giorno in cui saranno noti i sacrifici sopportati dalla classe operaia, dalla sua avanguardia e dai figli più generosi del popolo italiano nella lotta a morte contro la dittatura fascista, nelle condizioni della più disperata inferiorità, il giorno in cui onoreremo la schiera infinita di martiri e degli eroi della lotta antifascista, delle migliaia e migliaia di prigionieri e di deportati, da quel giorno a nessuno potrà più venire in mente di lanciare contro il popolo italiano l’accusa di viltà»43. E rivendica al Pci un ruolo che ancora non gli è del tutto proprio, quello di «guida cosciente, ferma, eroica» della lotta partigiana44. Si tratta più che altro di intendimenti, come quelli che riguardano il compito storico del partito: «Dobbiamo essere gli araldi che chiamano a raccolta, che reclutano, che organizzano, che inquadrano, che accompagnano e fanno pervenire sulle montagne, nelle località ove già esistono i partigiani, i nuovi combattenti reclutati»45. Sullo stesso numero della rivista Secchia ritorna sul tema della necessità della lotta con un articolo dal titolo esplicito: Perché dobbiamo agire subito46. Anche in questo caso si tratta di un catalogo di indicazioni precise sul lavoro da fare contro i tedeschi e i fascisti. Non si deve rinunciare all’azione per il timore delle reazioni tedesche, per la paura di essere pochi e ancora disorganizzati, per l’ansia dovuta alla debolezza di un movimento che non può contare su grandi ar-

  Ivi, p. 18.   P. Secchia, Il popolo italiano sa battersi, ivi, 3-4 (novembre), p. 13, ripubblicato col titolo Il popolo italiano si batte, in Id., I comunisti e l’insurrezione cit., pp. 54-57. 44  Ibid. 45  P. Secchia, La mobilitazione nazionale per la guerra di liberazione nazionale, ivi, 2 (ottobre), p. 11 ripubblicato col titolo La mobilitazione generale in Id., I comunisti e l’insurrezione cit., pp. 42-48, in part. p. 43. 46  In «La Nostra Lotta», 3-4 (novembre), pp. 20-21. Ripubblicato col titolo Agire subito, in Id., I comunisti e l’insurrezione cit., pp. 63-70. 42 43

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senali: «È necessario agire subito e ampiamente contro i tedeschi e contro i fascisti, contro le cose e le persone, è necessario lottare con tutti i mezzi»47. Per Secchia è necessario insomma «pass[are] subito all’attacco»48 e non pensare alla lotta come a una semplice resistenza contro i tedeschi in attesa che la guerra finisca, come invece alcune tendenze dei Cln immaginano. Ma in questo articolo non ci sono soltanto le indicazioni ai militanti e le stoccate ai dirigenti di altri partiti, c’è anche un saggio dell’idea organizzativa di Secchia, che prova a misurarsi con le difficoltà che le condizioni di lavoro, unite agli spontaneismi delle periferie, provocano: «Infine è necessario agire subito [...] perché la nostra organizzazione si consolida e si sviluppa, nell’azione. Non è vero che prima bisogna organizzarsi e poi agire [...]. Se noi abbiamo delle organizzazioni a carattere militare che non agiscono, queste in breve tempo si disgregheranno e si scioglieranno. Invece l’azione addestrerà queste organizzazioni militari, le temprerà nella lotta, l’esperienza le rafforzerà e svilupperà»49. Nella cultura politica di Secchia convivono, come abbiamo visto, la fredda razionalità e la volontà di lottare, il raziocinio e il desiderio di militanza attiva, ma in questo caso, nel suo animo politico si innesta anche il bisogno di organizzare quella che è e rimarrà a lungo «un’improvvisata», una lotta a macchia di leopardo, condotta da persone diversissime per estrazione sociale e politica, per condizione generazionale e per visione del futuro. Questo elemento, che si fa strada nella monolitica personalità politica di Secchia, contribuirà a riposizionare i confini della sua cultura politica e della sua visione del ruolo del partito. La «disciplina», o almeno il richiamo alla disciplina, è uno dei pochi strumenti che Secchia ha spesso a disposizione per provare ad aggiustare ciò che nell’organizzazione della Resistenza gli pare zoppicante. A titolo di esempio vale la pena di citare la lettera che egli scrive, nel dicembre 1943, dopo un’ispezione alle formazioni garibaldine delle valli di Lanzo. Il tono del commissario Vineis è perentorio: Manca, nelle vostre formazioni, il senso della disciplina e, quindi, il senso della gravità dei compiti che attendono le vostre formazioni e gli   Ivi, p. 20.   Ivi, p. 21. 49  Ibid. 47 48

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uomini che le compongono. Nessun segno, anche esteriore, del carattere militare che le formazioni debbono avere, nessun segno di cosciente subordinazione fra soldati e comandanti. Quello che lega gli uomini è piuttosto un semplice spirito di cameratismo e di amicizia, non penetrato da una superiore concezione del dovere dei soldati di una stessa causa. [...] Un famigliarismo, una amichevole confidenza, caratterizzano tutta la vita di questo gruppo il quale, più che di soldati, si direbbe composto di buoni amici che si ritrovano e si concentrano animati unicamente dal piacere di trovarsi assieme50.

E ancora: «la disciplina, del resto, non esclude l’amicizia. Ma è un’amicizia che si trasforma in affiatamento, in comunità di intenti, in coesione e unione di volontà tese allo stesso scopo, un vincolo che si crea in un’atmosfera particolare che stimola all’emulazione tendente all’affermazione del migliore: tanto che i più amici, veri amici, sono i migliori»51. C’è durezza nelle parole di Secchia, ma c’è soprattutto l’idea che i comunisti siano uomini superiori agli altri, quasi antropologicamente, e dunque debbano comportarsi non come uomini «qualsiasi», ma conducendo una vita che in tutti i suoi aspetti, anche in quelli che riguardano i sentimenti, le paure, le ansie sia quella degli «uomini nuovi» che il comunismo vuole formare. È per questo che egli è durissimo con la commistione fra sentimenti privati e comportamenti collettivi che in qualche modo, nella sua visione, costituisce un ostacolo alla fredda razionalità dell’organizzazione. Secchia lavora quindi su due fronti: da un lato il partito e le brigate Garibaldi, dall’altro il Cln e i rapporti con le altre componenti della Resistenza. Sono proprio i rapporti di forza all’interno del Cln che spingono Secchia a una visione nella quale l’unità politica delle forze del Comitato è un valore irrinunciabile. Allo stesso modo, se una scissione dal Cln delle forze di sinistra non è per lui nemmeno ipotizzabile, non lo è neanche l’ipotesi che il Pci si annulli del tutto all’interno 50  Il commissario generale, Vineis, al Comando militare delle Valli di Lanzo, 21 dicembre 1943, in Le brigate Garibaldi nella Resistenza. Documenti, I, Agosto 1943Maggio 1944, a cura di G. Carocci e G. Grassi, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 173-174. Si vedano anche le osservazioni di Pavone, Una guerra civile cit., pp. 526-527. 51  Il commissario generale, Vineis, al Comando militare delle Valli di Lanzo cit., p. 174.

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dell’organismo unitario. Il partito, insomma, non deve stare in silenzio pur di non creare discussioni, perché «far conoscere alle larghe masse qual è la politica, quali sono gli obiettivi del nostro partito» rimane un obbligo52. Appare qui tutta quella visione dei due tempi che caratterizzerà la politica comunista per lunghi anni: Gli OBIETTIVI IMMEDIATI per i quali noi oggi lottiamo, e per i quali chiamiamo alla lotta tutti gli italiani, sono una cosa; gli obiettivi programmatici generali del nostro Partito, sono un’altra cosa, e noi dobbiamo poter essere in grado in ogni occasione di spiegare al popolo qual è il programma dei comunisti; chi sono e cosa vogliono i comunisti. Dobbiamo essere in grado di spiegare come lottando per gli obiettivi immediati di oggi non solo non siamo in contraddizione col nostro programma, ma svolgiamo quella azione che sola ci permetterà domani gli ulteriori sviluppi, sulla via degli obiettivi più avanzati, sulla via del progresso e di una più alta civiltà53.

La necessità di rivendicare al partito comunista un progetto egemonico fa il paio col bisogno di escludere dal novero delle forze in grado di dare un’alternativa al Paese quelle formazioni che vorrebbero posizionarsi alla sinistra del Pci. Secchia scrive su quest’argomento quello che Pavone ha chiamato un «infelice articolo»54 dal titolo violento: Il «sinistrismo» maschera della Gestapo55. In questo scritto Secchia accusa esplicitamente fogli come «Bandiera rossa», «Prometeo» e «Stella rossa» di essere degli strumenti al servizio dei nazisti, il cui unico fine sarebbe annullare la forza della Resistenza così come organizzata dal Cln. Secchia si scaglia contro questi «luridi fogli»56 accusandoli di «una vigliaccheria inqualificabile»57, di essere frutto della propaganda nazista perché criticano il Pci, di essere degli 52  P. Secchia, Politica da seguire-Errori da evitare, in «La Nostra Lotta», I, 1943, 5 (dicembre), p. 13. Ripubblicato col titolo Il partito e i C.L.N., in Id., I comunisti e l’insurrezione cit., pp. 71-75. 53  Ivi, pp. 13-14. 54  Pavone, Una guerra civile cit., p. 368. 55  In «La Nostra Lotta», I, 1943, 6 (dicembre), pp. 16-19. L’articolo sarà poi ristampato in I comunisti e l’insurrezione cit., pp. 76-82, depurato però dei capoversi dedicati a Bandiera Rossa. Si veda anche S. Sala, Un mito disciplinato: Moscatelli «eroe comunista», in «l’Impegno», XXX, 2010, 2, pp. 10-11. 56  Il «sinistrismo» maschera della Gestapo cit., p. 16. 57  Ivi, p. 17.

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«sciocchi servitorelli di Hitler»58. Ripercorrendo quelle parole con lo sguardo dello storico, Secchia le inserirà nel contesto della durezza della lotta in quella fase cruciale. Non lo farà per scusarsi di quella ferocia, quanto piuttosto per contestualizzarla: È facile oggi sentenziare sulle asprezze, sulle forzature dei giudizi di allora, sottolineare le frasi «crudeli», «feroci», non salottiere. Ma in quel momento noi scrivevamo sul fuoco della lotta, ed era un fuoco non metaforico. Si scriveva mentre i nostri migliori compagni sparavano e cadevano. Ogni giorno arrivavano a noi le notizie di perdite dolorose, di compagni e amici nostri torturati, impiccati, fucilati. Pretendere che in tale situazione la nostra polemica fosse tenera, garbata, al latte e miele, significa dimenticare che anche i combattenti sono uomini di carne ed ossa59.

Questo articolo, in cui è condensato un saggio del settarismo di cui Secchia è capace, è anche la testimonianza di un altro tratto del suo carattere: l’ansia. Un sentimento che nel futuro diventerà impazienza politica, irritazione per le mediazioni, e che in questa fase esce allo scoperto con nettezza. Si tratta dell’ansia di controllare gli sviluppi del movimento partigiano, di non farsi sfuggire nulla, di neutralizzare quegli elementi che avrebbero potuto ostacolare un piano organizzativo tutt’altro che controllabile. L’ansia, insomma, che qualche gruppo di autonomi, o meglio di «non Pci», si mettesse a complicare ulteriormente, con le sue posizioni, ciò che certo non aveva bisogno di essere complicato. Alla fine del 1943 il problema dei continui dissidi fra il centro dirigente del Pci che lavora a Milano e quello romano, ben testimoniati dalla corrispondenza raccolta da Secchia e Longo nel volume I centri dirigenti del Pci nella Resistenza, viene preso per le corna con una lettera firmata oltre che da Secchia e da Longo anche da Li Causi60. Il destinatario della missiva è Mauro Scoccimarro, per il quale Secchia ha una particolare antipatia, che si sarebbe accentuata col passare degli anni61. Il nodo che si vuole risolvere è la pretesa da

  Ibid.   Secchia, Il Partito comunista, p. 171. 60  Il documento è ora in Longo, I centri dirigenti del Pci nella Resistenza cit., pp. 215-220. 61  Si vedano alcune osservazioni del Promemoria, pp. 180-181. 58 59

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parte dei compagni di Roma di proporsi come unico centro dirigente del partito, al quale aggregare i dirigenti milanesi. La proposta di Scoccimarro in realtà sembra voglia mettere in mora la segreteria di Togliatti che, trovandosi ancora a Mosca, verrebbe aggirata nei fatti dal nuovo organismo. Il centro dirigente milanese è assai netto: «A M. [Mosca] esiste una direzione del partito alla testa della quale vi è Ercoli [...]. In effetti, la nostra direzione, pur chiamandosi direzione, non è che una delegazione rispetto a quella di M. [Mosca]»62. Sono, questi, alcuni dei dissidi che Secchia poi descriverà come i segnali di una diversità di cultura politica fra il Pci del Nord, più battagliero e partigiano, e quello di Roma, più burocratico e «ministeriale». Una diversità che, nel tempo, si paleserà nel dibattito sul peso da attribuire alle organizzazioni della Resistenza, in particolare ai Cln, la cui centralità sarà rivendicata dal partito del Nord, mentre il resto del gruppo dirigente guarderà più al ruolo dei governi di unità nazionale, attribuendo ai Cln e al Clnai la funzione più ridotta di organizzatori della lotta armata contro i nazifascisti63. È a partire dal marzo ’44 che il protagonismo popolare si salda con la direzione politica del Pci64, che riesce finalmente a coinvolgere anche le altre forze del Cln nell’organizzazione degli scioperi del 1°-8 marzo. Si tratta di un evento che sancisce una «saldatura fra lotte sociali e lotta armata» e che «conferma [...] [il] ruolo trainante del Partito comunista su entrambi i fronti»65, così come dà l’avvio alle «battaglie offensive partigiane di primavera»66. Secchia interpreterà prontamente gli avvenimenti del marzo ’44 come il segnale del fatto che la classe operaia diveniva ufficialmente la guida della Resistenza, la sua avanguardia più politicizzata67, come all’indomani degli scioperi di Torino68. Ha invece ragione Santo Peli ad affermare che questa visione di Secchia è il frutto più di un desiderio che di

  Longo, I centri dirigenti del Pci nella Resistenza cit., p. 217.   Si veda anche più avanti il dibattito delle cinque lettere. 64  Peli, Storia della Resistenza in Italia cit., p. 61. 65  Ibid. 66  Secchia, Il Partito comunista, p. 297. 67  Id., I comunisti e l’insurrezione cit., p. 124. 68  Si vedano: Id., La battaglia degli operai torinesi, in «La Nostra Lotta», I, 1943, 6 (dicembre), pp. 1-2; Id., Gli scioperi nelle fabbriche, in «l’Unità», 5 dicembre 1943 ora in Id., I comunisti e l’insurrezione cit., pp. 91-93, 94-97. Si veda inoltre ciò che Secchia scrive nel suo Il Partito comunista, pp. 201 e ss. 62 63

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una realtà, dato che «fino alla vigilia dell’insurrezione finale, non vi fu un passaggio di operai dalle fabbriche alle formazioni armate così consistente da giustificare dichiarazioni tanto perentorie»69. Si tratta però anche del tentativo di iniettare un po’ di fiducia nel partito dopo il pesante inverno del ’4370. L’egemonia che il Pci sta guadagnando nella lotta di Liberazione è conquistata sul campo sia attraverso un’operazione politica animata da Secchia in prima persona, con un modello di lotta armata che ha molti punti di contatto con quello della guerriglia jugoslava71, sia grazie alla capacità di mobilitare la classe operaia che è propria soltanto del Pci72. In questo clima viene dato fuoco alla miccia di quella «guerra inespiabile» che secondo Parri inizia proprio nella primavera del 194473. Nel marzo del ’44 Secchia pubblica su «La Nostra Lotta» un articolo intitolato Organizzazione e spontaneità74 che riguarda lo sciopero che si è svolto a Genova nel mese di gennaio. Si tratta di un pezzo nel quale Secchia ripercorre gli errori della Federazione comunista di Genova nella gestione dello sciopero. Se egli rivendica per i comunisti genovesi un ruolo dirigente nello sciopero, non lesina però un catalogo di osservazioni sulle loro carenze organizzative. Per Secchia, nel mese di gennaio, «non si era [...] fatto un sufficiente lavoro per convincere le masse operaie che specialmente oggi, di fronte all’‘organizzazione’ delle forze reazionarie nazi-fasciste, gli scioperi non devono essere improvvisati, essi devono essere minutamente e accuratamente organizzati»75. Secchia avrebbe voluto vedere il partito dare il via allo sciopero. Non è infatti per lui accettabile che la scintilla si sia innescata spontaneamente: «La parola d’ordine dell’inizio dello sciopero deve essere data dal C. di Agitazione Sindacale, allo sciopero non si deve arrivare solo per iniziativa di singoli operai,   Peli, Storia della Resistenza in Italia cit., p. 62.   Si veda la lettera di Secchia, Milano, 6 marzo 1944, in Longo, I centri dirigenti del Pci nella Resistenza cit., pp. 365-367. 71  Secchia, Il Partito comunista, pp. 320-365. 72  Peli, Storia della Resistenza in Italia cit., p. 65. 73  F. Parri, Scritti 1915-1975, Feltrinelli, Milano 1976, p. 558. 74  In «La Nostra Lotta», II, 1944, 4 (marzo), pp. 14-16. Ripubblicato in Secchia, I comunisti e l’insurrezione cit., pp. 106-109. 75  Ivi, pp. 14-15. 69 70

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senza che i Comitati responsabili abbiano potuto procedere al necessario lavoro di preparazione e di organizzazione»76. Per Secchia il fatto che gli operai abbiano dichiarato spontaneamente lo sciopero – mettendo in mora la sua affermazione per cui «la maggior parte degli scioperi e delle agitazioni fu organizzata»77 – rappresenta un grosso problema per il partito che, come afferma nell’articolo, ancora non era pronto per dirigerlo. La sua mentalità terzinternazionalista lo porta a costruire un modello della realtà nella quale il perno è il partito; un partito che rappresenta una sorta di entità in grado di sistematizzare e portare a sintesi tutto ciò che accade sul terreno delle lotte sociali. Appare quindi paradossale un’affermazione secondo cui «il movimento è scoppiato [...] prima che noi avessimo potuto ultimare il nostro lavoro di preparazione»78, perché è evidente che se qualcosa avviene prima di essere «preparata» significa che in realtà era già pronta per succedere. C’è una disperata volontà di tenere tutto sotto controllo. Una volontà che ha radici sincere e che, se talvolta sconta i limiti di una formazione rigidamente inquadrata in schemi molte volte predefiniti, si pone continuamente l’obiettivo di superare gli inconvenienti e di risolvere i problemi pratici e politici dell’organizzazione. Secchia vuole davvero fare in modo che l’incisività politica sia ai massimi livelli e prova a cercare delle soluzioni rovistando all’interno della sua cultura politica. Proprio per questo, nel commentare gli scioperi del marzo ’44 potrà essere soddisfatto e sottolineare la saldatura fra il proletariato e il Pci79, così come quella fra il movimento operaio e i GAP. Per Secchia l’elemento determinante per il successo dello sciopero è l’organizzazione, che questa volta è riuscita a incanalare la spontaneità. Siamo alla vigilia della «svolta di Salerno» che, come è noto, archivierà la pregiudiziale antimonarchica avviando una strategia di «unità nazionale» nella lotta contro il fascismo80. Questa scelta unita  Ivi, p. 15.   Id., Il Partito comunista, p. 203. 78  Id., Organizzazione e spontaneità cit., p. 15. 79  P. Secchia, Considerazioni ed esperienze da trarre dal grande sciopero generale del 1-8 marzo 1944, in «La Nostra Lotta», II, 1944, 5-6 (marzo), pp. 25-33. Ripubblicato in Id., I comunisti e l’insurrezione cit., pp. 110-124 col titolo Lo sciopero generale del marzo 1944. 80  Si vedano: Spriano, Storia del Partito comunista italiano, V cit., cap. XII; A. 76 77

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ria non avrà però un effetto automatico sull’organizzazione concreta della Resistenza, che ancora deve fare i conti con quella distanza fra centro e periferia che provoca contraddizioni e tortuosità nell’applicazione della linea politica. Il clima di quei mesi, come aveva affermato ancora una volta Parri, è infatti quello in cui «è facile, o possibile mantenere cordialità al centro. Ma da noi è la periferia che conta»81. E proprio in periferia gli scontri fra le diverse componenti per garantirsi l’egemonia politica del movimento non sono affatto acqua passata: «Nella concretezza della vita delle bande, Salerno e poi Roma, sono davvero lontane»82. Secchia, tutto assorbito dal suo ruolo di dirigente, scrive subito un articolo su questa nuova svolta83, nel quale afferma che «è dunque alla classe operaia ed alla sua avanguardia, il Partito Comunista, che spetta il compito di realizzare una unità larga e solida di tutte le forze nazionali per la guerra di liberazione»84. Secchia declina dunque in chiave organizzativa la linea di Togliatti con una serie di indicazioni ai Cln locali su come realizzare concretamente l’unità delle forze antifasciste per dare vita a «un potente Esercito Partigiano, espressione di tutto il popolo italiano, espressione della Patria in lotta per la sua salvezza ed indipendenza»85. Non sembra davvero lo stesso Secchia che aveva scritto contro il «sinistrismo maschera della Gestapo» quello che afferma che «ogni formazione militare che lotta effettivamente contri i tedeschi ed i fascisti, qualunque siano le opinioni politiche o religiose che animano i suoi componenti deve sentirsi parte di un tutto, deve sentirsi una unità del grande Esercito Partigiano che lotta per la liberazione e l’indipendenza della nostra Patria»86. A Secchia la svolta di Salerno sembra, per impiegare le sue stesse

Lepre, La svolta di Salerno, Editori Riuniti, Roma 1966; L. Cortesi, Alle origini dell’Italia di oggi: la «svolta di Salerno», in «Studi e ricerche di storia contemporanea», 1975, 6; E. Di Nolfo, La svolta di Salerno come problema internazionale, in 1944. Salerno capitale: istituzioni e società, a cura di A. Placanica, Esi, Napoli 1986. 81  Lettera di Parri a La Malfa, in Parri, Scritti 1915-1975 cit., pp. 114-115. 82  Peli, Storia della Resistenza in Italia cit., p. 80. 83  P. Secchia, Fronte unico di tutte le forze nazionali, in «La Nostra Lotta», II, 1944, 7-8 (aprile), pp. 19-22. Ripubblicato in Id., I comunisti e l’insurrezione cit., pp. 148-154. 84  Ivi, p. 19. 85  Ivi, p. 20. 86  Ibid.

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parole, «una specie di colpo di fulmine che inceneriva il passato»87. È il suo ruolo di dirigente che gli impone sterzate e cambi di rotta, ma soprattutto che lo obbliga, come già gli era accaduto al confino, a lasciare da parte i dubbi per farsi grancassa della linea del partito. È in questa fase – come ha scritto Collotti – che Secchia mostra di avere, rispetto a Togliatti, una diversa concezione del ruolo del Clnai: «Secchia ne interpreta la funzione come protagonista principale del rinnovamento del Paese e della società italiana, l’anticipazione del nuovo potere destinato a realizzare la ‘democrazia di tipo nuovo’», mentre Togliatti «ne restringe il compito alla lotta armata contro il nazifascismo restando saldamente ancorato alla direzione politica del sud, alla piattaforma dei governi di unità nazionale»88. La nuova linea sancita dalla svolta di Salerno immette, nel già complesso quadro dei rapporti fra il centro dirigente delle brigate Garibaldi – e quindi del Pci – e le formazioni partigiane sparpagliate nell’Italia occupata, un ulteriore elemento di complessità. Si tratta, per stare alla nostra griglia interpretativa, di un nuovo fattore che può produrre della spontaneità da organizzare. Per Secchia, nel maggio 1944, «si nota una certa incomprensione della funzione e dei compiti dei comunisti in seno alle unità partigiane»89. Secchia ne ridefinisce quindi il ruolo. Non si tratta più di fare egemonia a tutti i costi, di provare con ogni mezzo a conquistare i partigiani alla causa del Pci, non si tratta di lavorare, afferma il comunista, come si farebbe in una cellula d’officina perché «l’officina è diretta dai capitalisti; l’unità militare invece è diretta da comandanti e commissari che, qualunque siano le loro idee politiche e religiose, sono dei patrioti, dei combattenti partigiani»90. Ed è perfino più esplicito quando dice che «dev’essere bandito dal nostro animo ogni spirito di concorrenza»91. L’effetto politico più visibile della svolta di Salerno è, nell’imme  Id., Il Partito comunista, p. 389.   Collotti, Introduzione a Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 74. Si veda anche P. Secchia, I Cln al potere in un dibattito della sinistra, in «Critica Marxista», III, 1965, 2. 89  P. Secchia, I compiti dei comunisti nelle unità partigiane, in «La Nostra Lotta», II, 1944, 9 (maggio), p. 19. Ripubblicato anche in Id., I comunisti e l’insurrezione cit., pp. 155-158, la cit. è a p. 155. 90  Ibid. 91  Ibid. 87 88

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diato, la costituzione, nel giugno del 1944, del comando generale del Corpo volontari della libertà, a cui il Pci affianca i Triumvirati insurrezionali92 la cui funzione è sia di preparare l’insurrezione, sia di lavorare per la costruzione del «partito nuovo»93. Il primo comando è formato da Longo per il Pci, Argenton per i liberali, Bignotti (che verrà presto sostituito da Mattei) per la Dc, Mosna per il Psiup e Parri per il Partito d’Azione. La collaborazione fra azionisti e comunisti, fino a qualche tempo prima difficilissima, è sancita ora dal ruolo paritetico che Longo e Parri ricoprono. Il ruolo dei Triumvirati insurrezionali, un’invenzione di Secchia e Longo, non è soltanto organizzativo ma politico e simbolico. Con la loro nascita la parola d’ordine dell’insurrezione94, declinata nelle sue varianti, fra cui la più famosa è quella dello sciopero insurrezionale, diventa l’unica parola d’ordine che anima il movimento partigiano. Si tratta infatti di un simbolo, di un orizzonte, di un punto d’arrivo che in qualche modo riesce a superare l’impasse politica in cui la Resistenza si trova e riesce soprattutto a colmare quei vuoti che altre parole d’ordine meno nette avrebbero potuto lasciare. L’insurrezione diventa così l’obiettivo netto, incontrovertibile, attorno al quale far condensare ogni aspetto politico e militare della lotta. È l’insurrezione, dunque, ciò per cui la classe operaia – «la parte migliore del nostro popolo»95 – deve lottare, senza pensare che essa si caratterizzi come una sorta di «ora X», ma piuttosto come un processo, un crescendo di azioni, «come una guerriglia che deve colpire permanentemente e con tutte le armi il nemico, ovunque si trovi»96. Secchia è ancora più esplicito: «Sarebbe errato pensare l’insurrezione nazionale come un’azione che debba aver luogo simultaneamente

92  Sui triumvirati, sulla loro organizzazione e sul loro ruolo, si veda Id., Il partito comunista, pp. 625 sgg. 93  L’insurrezione e il partito. Documenti per la storia dei Triumvirati insurrezionali del Partito comunista e Atti del Triumvirato veneto (giugno 1944-aprile 1945), a cura di C. Saonara, Neri Pozza, Vicenza 1998, p. 3. 94  Sul dibattito storiografico sull’insurrezione si veda G. De Luna, L’insurrezione nella Resistenza italiana, in L’insurrezione in Piemonte, Franco Angeli, Milano 1987, pp. 60-77. 95  APC, Direzione del Nord, 1943-1945, Direttive per la lotta contro la deportazione, 27 giugno 1944. 96  Così le direttive della Direzione del Pci, 30 gennaio 1945, in Secchia, Il Partito comunista, p. 845.

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in tutte le città e regioni d’Italia. È assai probabile che l’insurrezione popolare a carattere nazionale avvenga prima nelle regioni o province ove avrà luogo la lotta armata degli alleati contro i tedeschi»97. E la parola d’ordine dell’insurrezione coagulerà attorno a sé il consenso di tutti i partiti del Cln98. Nuovi avvenimenti, quali il raggruppamento di molte brigate in divisioni, la liberazione di Roma, così come lo sbarco alleato in Normandia, spingono molti giovani a salire in montagna rendendo così concreta la possibilità di dare vita a un vero e proprio esercito partigiano. L’estate del ’44 è, infatti, sia quella del grande ottimismo che quella cruenta «del martirio delle popolazioni civili»99. Il fatto, inoltre, che la guerra abbia ormai un esito quasi scontato induce i tedeschi a incrementare la violenza, scagliandosi contro le popolazioni civili. Ma proprio l’impressione diffusa che la lotta di liberazione volga a favore del movimento resistenziale provoca una diminuzione del coinvolgimento attivo nel movimento partigiano, in base a un’idea che a Secchia sembra diffusa nella classe operaia: «Siamo alla fine, a che vale fare delle inutili vittime, tanto i tedeschi se ne vanno lo stesso»100. Se non avviene ancora lo spostamento di numeri consistenti di operai verso la montagna, nell’estate del 1944 la lotta armata vive però un incremento costante, fino alla sua massima espansione, in settembre, che vedrà coinvolti circa 80-100.000 uomini101 (sebbene questo incremento verrà quasi azzerato dalla durezza della repressione tedesca del successivo autunno-inverno). È proprio in questa fase che la componente di spontaneità della Resistenza lascia sempre più il passo all’organizzazione, nel quadro di un vero e proprio «processo di istituzionalizzazione»102. È un’istituzionalizzazione che deve però fare i conti con le difficoltà organizzative che ancora sono in campo, soprattutto per quanto concerne la creazione di un apparato veramente efficiente per elaborare e diramare ordini e direttive in tutto il 97  Lettera di Secchia, 5 giugno 1944, in Le Brigate Garibaldi nella Resistenza, II cit., p. 15. 98  De Luna, L’insurrezione nella Resistenza italiana cit., pp. 61-62. 99  Peli, Storia della Resistenza in Italia cit., p. 83. 100  Lettera di Secchia, 8 settembre 1944, in G. Amendola, Lettere a Milano. Ricordi e documenti 1939-1945, Editori Riuniti, Roma 1973, pp. 415-416. 101  Peli, Storia della Resistenza in Italia cit., p. 86. 102  Ibid.

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territorio della guerriglia e per verificarne l’applicazione. Né le Garibaldi, né le brigate azioniste sono infatti dotate di strutture con queste potenzialità103. In questa fase di riposizionamento politico gioca un ruolo fondamentale la volontà dei partiti, che nell’estate del ’44 si afferma prepotentemente, di controllare la lotta armata dal centro, per superare una volta per tutte il divario fra centro e periferia104. La parola d’ordine dell’insurrezione diventa martellante, così come il tentativo di coniugarla con quella dell’unità della lotta di liberazione105. È una posizione che appare nel rapporto di Secchia alla Conferenza dei triumvirati insurrezionali106 e nel Saluto ai partigiani107 pronunciato nella medesima occasione: «Dappertutto avete battuto il nemico, dappertutto ritornerete per farla finita con i boia e con gli impiccatori, per liberare ogni nostra contrada dalle orde nazifasciste. Sì, in pianura, nelle nostre città, i partigiani scendono ogni giorno, ma non per capitolare, bensì per potenziare, in collaborazione con i G.A.P., coi patrioti tutti, l’insurrezione nazionale»108. In questa fase, nel dirigente comunista, si sentono gli echi dell’avvio di quello che poi verrà definito «dibattito delle cinque lettere». Il tema dell’insurrezione è infatti fra i più importanti di quelli presi in esame dalla lettera del Pd’A che avvia il dibattito109. Come scriverà anni dopo Secchia, la tempestiva risposta del Pci mostra come la lettera degli azionisti «non avesse colto di sorpresa» il partito comunista, il quale anzi era soddisfatto «per il fatto che un altro partito di sinistra [...] si fosse persuaso dell’urgente necessità di porre apertamente problemi e soluzioni che eravamo andati maturando da mesi»110. In realtà questo dibattito, che avrebbe coinvolto anche le altre   Pavone, Una guerra civile cit., p. 150.   Peli, Storia della Resistenza in Italia cit., p. 89. 105  Si vedano: P. Secchia, L’unità, garanzia della vittoria, in «La Nostra Lotta», II, 1944, 14 (agosto), pp. 13-15; Id., Con audacia verso l’insurrezione, in «Il Combattente», 1944, 15 (settembre). Entrambi gli articoli sono ora in Id., I comunisti e l’insurrezione cit., pp. 188-192 e 202-204. 106  Pubblicato in «La Nostra Lotta», II, 1944, 19-20 (novembre) e riproposto in Secchia, I comunisti e l’insurrezione cit., pp. 234-255. 107  Saluto ai partigiani, in «La Nostra Lotta», II, 1944, 19-20 (novembre), poi in Secchia, I comunisti e l’insurrezione cit., pp. 256-264. 108  Secchia, Saluto ai partigiani cit. 109  Le lettere sono in Secchia, I Cln al potere in un dibattito della sinistra cit., pp. 48-75. 110  Ivi, p. 41. 103 104

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forze del Clnai protraendosi fino all’inizio del 1945, mette in luce quelle divisioni e contraddizioni che dopo la Liberazione sarebbero esplose determinando la rottura dell’unità delle forze antifasciste che, in fondo, si consuma attorno al peso da attribuire agli organismi della Resistenza nella ricostruzione. E questo è uno dei punti su cui Secchia insisterà di più nelle sue successive ricostruzioni storiografiche111. Con l’avvicinarsi della primavera del 1945 gli appelli all’unità112, alla mobilitazione, alla «leva dell’insurrezione» si fanno sempre più carichi di speranza e di ostentata sicurezza nel rapido epilogo della guerra. In realtà il tema dell’unità, in particolare dell’unità dei comunisti coi socialisti, perseguita anche attraverso un’ipotesi di fusione fra il Pci e il Psiup, è un tema sul quale Secchia riflette solo nel momento in cui esso è posto con insistenza all’ordine del giorno. Dopo aspre polemiche e divisioni che avevano investito Pci e Psiup, nell’agosto del 1944 una riunione congiunta delle direzioni dei due partiti aveva stabilito i criteri per la collaborazione futura113. Si era trattato di una dichiarazione d’intenti che poi avrebbe avuto esito concreto non soltanto nei rapporti fra i vertici dei partiti, ma anche nelle loro ramificazioni periferiche. È infatti il 1° ottobre 1944 che, in una riunione congiunta delle direzioni comunista e socialista per l’Alta Italia, si era stabilito di dare vita a un’effettiva collaborazione fra i militanti dei due partiti per l’«organizzazione concreta della insurrezione nazionale»114. Quanto sarebbe stato difficile questo processo unitario lo avrebbe dimostrato di lì a poco la crisi del governo Bonomi, che aveva visto socialisti e comunisti attestarsi su posizioni diverse. Ma la strada dell’unità sarà percorsa con ostinazione, tanto che durante la riunione della direzione allargata del Pci per l’Italia occupata dell’11-12 marzo 1945 verrà posta in discussione la fusione. Nella relazione di Longo c’è tutta l’urgenza di questa fusione tanto da prospettarne modi e tempi, così   Ivi, p. 47.   Si veda, fra i documenti di questo periodo, la lettera di Aldo (Secchia) al Triumvirato insurrezionale della Liguria e per conoscenza ai Triumvirati insurrezionali e alle Commissioni di Partito per il lavoro nei CLI e ai responsabili di Partito nei Cln, 18 febbraio 1945, pubblicata in L’insurrezione e il partito cit., pp. 161-164. 113  E. Ragionieri, I comunisti, in L. Valiani, G. Bianchi, E. Ragionieri, Azionisti cattolici e comunisti nella Resistenza, Franco Angeli, Milano 1971, p. 418. 114  Dal verbale della direzione cit. ivi, p. 420. 111 112

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come nella relazione organizzativa di Secchia, come ha scritto Ragionieri, viene trasferita «tutta la problematica del ‘partito nuovo’ nella costruzione del partito unico della classe operaia»115. Nel suo intervento Secchia dà prova di aver assimilato pienamente il contenuto della proposta del «partito nuovo» formulata da Togliatti. Secondo Secchia, per impiegare ancora le parole di Ragionieri, «la fusione tra i due partiti non doveva essere concepita soltanto come una somma numerica degli iscritti, ma come la formazione di un grande centro di attrazione sociale e politica»116. Si tratta di una visione del «partito nuovo» come partito unico della classe operaia che fa il paio con la concezione dei Cln come organismi unitari del popolo in armi che Secchia, dopo le asprezze del passato, sostiene da mesi. Ciò che si vuole fare è infatti trovare una soluzione politica più che militare al procrastinarsi del momento insurrezionale. È come se ci fosse il bisogno di continuare ad alimentare un fuoco che rischia di spegnersi, attraverso nuove immissioni di ossigeno. Tentare la via dell’unità, di un’unità organica e il più possibile strutturata nei luoghi della lotta armata, è ciò che i comunisti mettono in campo per ridare smalto al movimento resistenziale e alla campagna per l’insurrezione. Se l’unità fra socialisti e comunisti si rivelerà un miraggio, l’insurrezione sarà invece una prospettiva concreta, che avrà una sua realtà effettiva. Come è stato scritto117, l’insurrezione aveva infatti il significato di stabilire una rottura evidente, palese e violenta col passato fascista, per marcare una discontinuità senza la quale, come ha sostenuto Secchia, il 25 aprile «sarebbe stato la ripetizione del 25 luglio, il trapasso pacifico, quasi la consegna delle nostre città dai tedeschi agli anglo-americani»118. Secchia è sia un protagonista che uno storico della Resistenza. Quello che appare evidente, innanzitutto, è una forte divaricazione fra ciò che Secchia fa come dirigente della Resistenza e ciò che scriverà come storico. Come ha notato Spriano, l’interpretazione che Secchia dà della Resistenza si fonda su due assunti forti: la Resistenza fu caratterizzata «1) non [da] un ‘popolo in armi’ ma [da] avanguar  Ivi, pp. 421-422.   Ivi, p. 422. 117  De Luna, L’insurrezione nella Resistenza italiana cit., p. 73. 118  Lettera di Secchia a Cicalini, Roma, 15 dicembre 1953, in Secchia, Il Partito comunista, p. 448. 115 116

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die che seppero muovere masse anche grandi e chiamare a raccolta decine di migliaia di giovani combattenti; 2) non [da] un’esplosione spontanea di rivolta ma [da] un rapporto di continuità con le esperienze, le prospettive, i programmi dell’antifascismo organizzato»119. Se la prima osservazione non crea problemi interpretativi, sia perché effettivamente la Resistenza non fu un movimento di massa quanto un movimento che ha goduto di un consenso che progressivamente è divenuto di massa, la seconda in realtà impone una riflessione. Abbiamo provato a mostrare come Secchia sia stato sempre impegnatissimo a correggere e a istradare gli spontaneismi che nascevano via via dai territori: ispezioni, lettere, direttive, ordini, sono gli strumenti che impiega per mettere ordine nelle file del movimento partigiano. Sul piano più politico abbiamo visto come egli sia stato anche attento a costruire, in particolare durante i primi mesi della Resistenza, un’egemonia dei comunisti sul maggior numero possibile di bande partigiane: in moltissimi casi esistevano gruppi di combattenti ancor prima che il Pci li organizzasse, ma Secchia, come storico, porrà l’accento sul ruolo organizzativo svolto dai comunisti. Secchia anticiperà quindi la cronologia in modo da garantire al partito una sorta di primogenitura nella nascita del movimento resistenziale. E questa visione si aggancia alla rivendicazione della correttezza della linea politica sancita dalla svolta del 1929-31 e al filo rosso con cui Secchia annoda la ripresa della militanza del Pci in Italia, che nella sua visione aveva consentito al partito di mantenere dei legami saldi in patria fino alla caduta del fascismo, con la Resistenza. In realtà a noi pare che nulla si tolga al ruolo straordinario svolto dal Pci durante la lotta di Liberazione e al ruolo altrettanto straordinario svolto da Secchia in quei frangenti, affermando ciò che la storiografia ormai ha riconosciuto120, ossia che Secchia riuscì a organizzare ciò che per sua intrinseca natura era spontaneo: egli, insomma, riuscì a incanalare politicamente un movimento che altrimenti

119  Spriano, Storia del Partito comunista italiano, V cit., p. 59. Si veda questo breve elenco bibliografico su cui si basa Spriano: P. Secchia, Perché la Resistenza non ha dato di più, in «La città futura», 1965, 9; Id., La Resistenza: organizzazione o spontaneità, in «Movimento di Liberazione in Italia», 1955, 55; Id., La Resistenza italiana: Nord e Sud, in «Nuovi Argomenti», 1962, 55-56; Id., La Resistenza: grandezza e limiti oggettivi, in «Rinascita», 19 febbraio 1971. 120  Si vedano ancora una volta gli studi cit. di S. Peli.

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avrebbe corso il rischio di disperdersi in mille rivoli. E in questa operazione non gli servirono tanto le letture di Clausewitz quanto i rapporti tessuti in carcere e al confino con centinaia di compagni provenienti da tutt’Italia e la ripresa dei rapporti con quei compagni biellesi coi quali era cresciuto nei primi anni della sua militanza. Secchia è dunque un rivoluzionario professionale terzinternazionalista che, dovendo affrontare una situazione del tutto nuova, cerca e ricerca il modo per risolvere i problemi che di volta in volta gli si pongono davanti. E il ferreo organizzatore deve così prendere atto che non sempre le direttive sono sufficienti a cambiare l’andamento delle cose, perché nel dispiegarsi quotidiano della storia il ruolo delle soggettività riveste un peso cruciale. Nella scorza da rivoluzionario professionale che riveste la personalità politica di Secchia, con la Resistenza si aprono delle fessure che lasceranno uscire allo scoperto, in anni che ancora sono lontani, una sensibilità altrimenti inspiegabile. Forse il momento in cui ciò avverrà in modo più evidente è durante il Sessantotto, quando Secchia guarderà al movimento giovanile con un’attenzione e una sensibilità che lascerebbero sconcertati se non si interpretassero, appunto, come il prodotto di un riposizionamento identitario innescato proprio dall’esperienza resistenziale.

V Un liberatore dopo la Liberazione 1. Il dirigente partigiano Secchia vive la Liberazione a Milano1, dal suo quartier generale. Non è probabilmente possibile tematizzare in chiave storiografica la gioia che i partigiani, dall’ultima staffetta fino ai dirigenti più importanti, dovettero provare il 25 aprile 1945. Si tratta di un sentimento la cui interpretazione si può tentare soltanto impiegando come fonti le immagini che le moltissime fotografie di quei giorni ci hanno tramandato2. Ci sono due foto che parlano due diversi linguaggi della gioia e che rendono la straordinarietà del clima della Liberazione. Una è del 26 aprile 1945 e vede schierati mentre marciano fra due ali di folla, l’uno accanto all’altro, Aniasi, Taglioretti, Moscatelli, Secchia, Longo e Cascella con sullo sfondo un camion col cassone stracarico di partigiani3. Secchia, avvolto in un vecchio doppiopetto tagliato male e troppo largo, guarda dritto davanti a sé come il comandante di un manipolo di vittoriosi. C’è qualcosa di involontariamente epico in questa immagine, che rimanda all’iconografia con la quale vengono rappresentati i condottieri, in particolare quei condottieri che finalmente calpestano il suolo che hanno liberato. C’è anche

1  Si veda, dello stesso Secchia, Aldo dice 26x1. Cronistoria del 25 aprile 1945, Feltrinelli, Milano 1963. 2  Storia fotografica della Resistenza, a cura di A. Mignemi, presentazione di C. Pavone, Bollati Boringhieri, Torino 1995. 3  La fotografia, pubblicata molte volte, è l’illustrazione 24 del volume di Secchia e Moscatelli, Il Monte Rosa è sceso a Milano cit.

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qualcosa di militaresco, ma allo stesso tempo aleggia un clima di improvvisazione che alleggerisce la rigidità della parata. L’altra immagine, altrettanto famosa, vede Togliatti, Secchia e Moscatelli a Biella, portati in corteo su un’automobile4. Togliatti immobile al centro dell’auto ha quasi un’aria ascetica, mentre Secchia sfodera il suo largo sorriso, col fazzoletto da partigiano annodato al collo. Tutto intorno è un tripudio di bandiere e di folla, di cartelli e di fiori. È una foto semplice, che non testimonia più solo la gioia per la Liberazione, per la vittoria della Resistenza, ma anche, per Secchia, la felicità di poter festeggiare nella sua città d’origine, dopo tanti anni di assenza. È una foto in cui la gioia ha un aspetto domestico, intimo, soggettivo. Il 25 aprile 1945 Secchia e i suoi compagni dovevano dunque sentirsi al settimo cielo. Dopo vent’anni di fascismo e dopo venti mesi di lotta armata la vittoria è finalmente loro. Ma il 25 aprile non è la fine di una lotta. In quel 25 aprile si aggrovigliano in un’unica matassa la storia e la percezione individuale, che si tradurrà per Secchia in una posizione storiografica. Così chiuderà la sua Storia della Resistenza pubblicata con Filippo Frassati: «La Resistenza non fu soltanto un punto di arrivo, ma [...] un punto di partenza, la spinta decisiva all’avvenire da conquistare»5. Il 25 aprile non è quindi un epilogo; è piuttosto un nuovo cambio di prospettiva politica in quel continuum che nella biografia di Secchia è rappresentato dall’arco temporale che racchiude il suo periodo di più intensa militanza rivoluzionaria (1921-54). Si tratta ora, per il dirigente, di riprendere in mano il partito e la sua organizzazione per riplasmarne ancora una volta la struttura. Non è la prima volta che gli capita. L’aveva fatto dopo la trasformazione del fascismo in regime, cercando in tutti i modi di occultare quel partito che doveva piantare le radici in clandestinità; ora si tratta di elaborare una strategia per compiere il percorso inverso. Il primo problema che gli si pone è dare un ruolo alla direzione del partito «per l’Italia occupata» e progettare la nascita di una nuova direzione in grado di unificare i due organismi, quelli di Milano e 4  La fotografia è in P. Secchia, F. Frassati, Storia della Resistenza. La guerra di liberazione in Italia 1943-1945, II, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 1004. 5  Ivi, p. 1024.

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Roma, e contemporaneamente di farvi confluire quei compagni che erano emersi per le loro doti durante la guerra di Liberazione6. In una lettera del 3 maggio inviata dalla direzione di Milano a quella di Roma il progetto è esplicitato con chiarezza. Si chiede insomma che Longo, Secchia, Roveda, Amendola, Colombi e Grassi vengano integrati nella direzione di Roma assieme a quei compagni che «per il loro passato di partito, e per la loro preparazione, e per le responsabilità avute nell’organizzazione e nella direzione dell’insurrezione, e per i soddisfacenti risultati ottenuti, sono ben degni di far parte della direzione del nostro partito»7. Questi compagni sono Alberganti, Barontini, Dozza, Lampredi, Moscatelli, Pajetta, Parodi, Pratolongo, Scappini, Scotti e Sereni. Questo elenco di nomi, nella cui redazione il ruolo di Longo e Secchia è stato sicuramente primario, testimonia tutta la voglia di far arrivare anche nella capitale quel «vento del Nord» che sta spirando nelle città dell’insurrezione. Per Secchia la Liberazione è un inizio: in un articolo che pubblica il 30 aprile sull’«Unità»8 afferma che il fascismo non si può considerare sconfitto dalla vittoria dell’insurrezione perché ancora sono vivi e operativi quei «grandi plutocrati che hanno dato vita al fascismo, che per vent’anni lo hanno sostenuto nei suoi delitti, nelle sue guerre di rapina, nelle sue infamie»9. Si tratta di un richiamo implicito all’epurazione e al bisogno di continuare lo spirito della Resistenza anche in tempo di pace. Non si deve pensare alla vendetta, afferma il comunista, ma alla giustizia. È con questo spirito che Secchia pensa alla nuova Italia. Si potrebbe dire che quella mitologia della Resistenza che il Pci alimenterà negli anni del dopoguerra poggerà le sue basi sulle speranze che i dirigenti del Nord vedranno presto fagocitate da quella burocrazia

6  Il tema della direzione unica è anche nell’intervento di Secchia alla riunione della segreteria del 18 novembre 1945 il cui verbale è in APC, Fondo Mosca, Verbali segreteria 1945, mf. 271, p. 26. Si veda anche Martinelli, Storia del Partito comunista italiano, VI, Il «partito nuovo» dalla Liberazione al 18 aprile, Einaudi, Torino 1995, pp. 11 sgg. 7  La lettera è pubblicata in Promemoria, pp. 186-187, la cit. è a p. 186. 8  P. Secchia (Botte), Il significato politico della lotta di liberazione, in «l’Unità», edizione piemontese, 30 aprile 1945, p. 1. Si veda anche M. Albeltaro, La parentesi antifascista. Giornali e giornalisti a Torino (1945-1948), prefazione di A. Agosti, Seb 27, Torino 2011, pp. 50 sgg. 9  Secchia (Botte), Il significato politico della lotta di liberazione cit.

V. Un liberatore dopo la Liberazione

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romana che Rodolfo Morandi descriverà come l’«ovatta putrida che [...] smorza e consuma miseramente le energie»10. Secchia rende bene quel clima di attesa: «Il rinnovamento che noi chiediamo non deve limitarsi ad un semplice e ordinario rimaneggiamento ministeriale, [...], deve voler dire governo del popolo, governo delle forze che sono state l’anima e la forza della nostra insurrezione nazionale»11. Il Secchia dei primi mesi dopo la Liberazione è ancora in tutto e per tutto un partigiano. Basta pensare a ciò che avviene all’arrivo a Milano, il 17 maggio, di una delegazione del governo e dei partiti. Secchia va all’aeroporto ad attendere l’aereo «con una brigata di garibaldini» coi quali combina «uno scherzetto»12: «Nessun’altra formazione partigiana e gruppi di lavoratori e di popolo è presente all’arrivo. Nessuno grida qualche evviva in direzione dei membri del governo arrivati all’aereoporto. Il solo grido è quello emesso in coro dai nostri partigiani: ‘Viva Togliatti’. La delegazione di governo e dei partiti arrivata da Roma è abbastanza contrariata e, passando tra le due ali della brigata garibaldina schierata, quasi a calmarci ci gridano: ‘Verrà, verrà, anche Togliatti’. È stato il primo saluto del vento del Nord, un’accoglienza simile non se l’aspettavano»13. Per Secchia, nei primi giorni dopo la Liberazione, si tratta di godersi quel bagno di folla che lo mette di buon umore e gli fa sperare in bene. Va a prendere Togliatti a Bologna e il 18 maggio lo porta a Milano; ma in ogni città dove passano, il segretario del Pci è «costretto a tenere un discorso» nell’entusiasmo generale14. I giorni che Secchia trascorre con Togliatti sono tutto un susseguirsi di riunioni e di comizi, fino a quello di Biella, il 23 maggio, dove Secchia parla «dopo ventitré anni di assenza»15. Tutte quelle persone accorse a festeggiare i comunisti sono un’iniezione di fiducia nella possibilità di rinnovare l’Italia, di cambiare davvero. Come dirà ai comunisti di Genova, «è evidente che non

10  A. Galante Garrone, Questa repubblica ostaggio del passato, in «La Stampa», 2 dicembre 1995. 11  Promemoria, p. 187. 12  Ivi, p. 188, entrambe le citazioni. 13  Ibid. 14  Ibid. 15  Ivi, p. 189.

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si può ricostruire una casa servendosi del vecchio putrido materiale che l’ha fatta crollare e degli stessi impresari che l’avevano costruita male»16. È durante questo giro di incontri con i comunisti del Nord che Togliatti pone a Secchia la necessità di trasferirsi a Roma per prendere le redini dell’organizzazione del partito. Egli è ormai l’organizzatore per eccellenza: in clandestinità, nella Resistenza e, ora, nel progetto di un «partito nuovo» in un’Italia nuova. Per Secchia non è facile lasciare Milano e «l’atmosfera ardente ed entusiasmante della liberazione. Ma Togliatti fu irremovibile, disse: ‘Tu non puoi limitarti ad essere l’organizzatore nel Nord, devi oggi metterti alla testa di tutta l’organizzazione del partito’. 13 o 14 giugno: lascio Milano accompagnato da Moscatelli e da cinque o sei macchine di suoi partigiani, è il suo stato maggiore»17. In realtà la cronologia proposta da Secchia non combacia con quella dei documenti. Sappiamo infatti che la prima riunione della segreteria a cui partecipa si tiene l’11 giugno e che durante la riunione del 13-14 giugno viene approvato che faccia parte della segreteria assumendo la responsabilità dell’organizzazione del partito18. Nel suo ruolo di organizzatore Secchia è un uomo concreto: «meno riu­ nioni generali e maggiore sveltezza» è ciò che chiede in segreteria il 27 giugno19. Ma è a disagio a Roma. Gli manca quel clima di fermento che aveva respirato nelle settimane dopo la Liberazione: A Roma si viveva in un’altra Italia e si capiva subito perché qui non era stata possibile l’insurrezione popolare [...]. Gli «alleati» erano i veri padroni, il governo italiano contava poco, eppure era tutto un indaffararsi di carattere governativo-parlamentare ed anche i nostri da un anno erano ormai inseriti in questo lavoro ministeriale-parlamentare, nei mercati delle vacche e in tutti gli intrighi e le cucine dei diversi ministeri e relativi sottobanchi, tutti volti a problemi ben diversi da quelli che costituivano l’attività quotidiana nel Nord20.   Ibid.   Ivi, p. 191. 18  Si vedano i verbali delle due riunioni in APC, Fondo Mosca, Verbali Segreteria (1944-1948), mf. 271. 19  Verbali segreteria del 27 giugno 1945, ivi. 20  Promemoria, p. 192. 16 17

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L’amarezza di Secchia è profonda: «Qui nessuno parlava più dei Cln, di ciò che era stata la Resistenza, e il movimento partigiano veniva fortemente sottovalutato. [...] Fui assai amareggiato da questa situazione. Compresi che per la seconda volta eravamo stati fregati»21. Per Secchia essere «stati fregati» non significa non aver trasformato la Resistenza in una rivoluzione socialista. Significa non essere stati in grado di far soffiare fino a Roma il vento del Nord. Significa non essere stati capaci di tradurre lo spirito della Resistenza in una nuova Italia e significa anche, per il Pci, non essere stato in grado di organizzare le masse affinché ciò avvenisse. Secchia nelle sue memorie sarà esplicito: «Non penso affatto che nel 1945 si potesse fare la ‘rivoluzione’. [...] Condivido l’analisi fatta dal partito in quel periodo e le conclusioni cui è giunto. Ma si trattava di puntare di più sui movimenti di massa, di difendere maggiormente certe posizioni e certi organismi sorti durante la Resistenza, di fare qualche cosa di serio e di positivo quando eravamo al governo»22. Secchia si butta a capofitto nell’organizzazione lasciando un po’ da parte, come egli stesso ammetterà, le questioni politico-istituzionali. Non si tratta di una distrazione, ma di una condizione di fatto che farà di Secchia un uomo d’apparato più che un politico pubblico, sebbene non gli mancassero le responsabilità istituzionali. Il suo mondo è, infatti, il partito, quel suo ufficio dal quale, come durante la Resistenza, partono e arrivano direttive, rapporti, ordini e che funge da centro di controllo di un’organizzazione capillare. Secchia con la nomina a responsabile dell’organizzazione, anche nel partito dell’Italia liberata, riceve il riconoscimento del ruolo avuto durante la clandestinità e la Resistenza, ma viene anche assecondato nelle sue predisposizioni personali. Egli diventa così parte di quel meccanismo che poi criticherà proprio per la netta distinzione fra un pezzo dell’apparato di partito, tutto votato verso l’esterno e verso l’attività politico-istituzionale, e un altro pezzo, intento a costruire fisicamente il partito, a radicarlo nelle masse e nei territori: «Allora vi era una certa divisione, alcuni compagni si occupavano quasi esclusivamente dell’attività di governo, altri dell’attività di partito. Fu questa una divisione troppo netta, unitamente al senso di amarezza che provavo

  Ibid.   Ibid.

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per come le cose erano andate, che forse, sia pure senza accorgermi, mi fecero rivolgere l’attenzione esclusivamente al partito lasciando che altri facesse ciò che voleva sul piano dell’attività governativa, tanto per quella strada non si sarebbe concluso nulla di buono. Ma ritengo che qui ci sia stato un errore»23. Il governo è per Secchia un’istituzione che prosciuga il partito di energie e ciò lo irrita: la «direzione è oggi debole perché i migliori compagni sono impegnati al governo»24 e chiederà che la segreteria funzioni «indipendentemente dalle esigenze di governo»25. Secchia comunque avrà sempre un piede nelle istituzioni, a partire dalla Consulta26, un organismo che a lui e ai comunisti non piace un granché perché da un lato appare poco democratico e dall’altro ritarda la convocazione di una vera e propria assemblea costituente27. Il momento più importante durante i primi mesi dalla Liberazione è per Secchia il V Congresso del partito che si tiene a Roma dal 29 dicembre 1945 al 5 gennaio 194628. Sono passati quattordici anni dal congresso precedente, quello di Colonia, per organizzare il quale era stato arrestato. È passata un’era politica che per Secchia ha significato anche un’era personale: al momento dell’arresto non aveva ancora ventotto anni; ora ne ha quarantadue ed è un uomo che di questi quarantadue anni ne ha ormai dedicati più di venticinque alla politica, in cerca della rivoluzione. Poco prima dell’inizio del congresso, Secchia aveva pubblicato su «Rinascita» un articolo che è una sorta di manifesto programmatico della sua concezione dell’organizzazione29. Lo scopo è mostrare come anche «la migliore delle linee politiche può essere destinata all’insuccesso, se un partito non dispone di un’organizzazione capa-

  Ivi, p. 193.   Verbale della segreteria del 26 agosto 1945, in APC, Fondo Mosca, Verbali Segreteria (1944-1948), mf. 271. 25  Ibid. 26  Verbale della segreteria del 19 luglio 1945, in APC, Fondo Mosca, Verbali Segreteria (1944-1948), mf. 271. 27  P. Secchia, Che cos’è la Consulta, Biella, s.d. (ma 1945) poi ripreso in Id., La resistenza accusa (1945-1973), Mazzotta, Milano 1973, pp. 19-32. 28  Sul congresso si veda Martinelli, Storia del Partito comunista italiano cit., cap. I. 29  P. Secchia, L’arte dell’organizzazione, in «Rinascita», dicembre 1945, pp. 267269. 23 24

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ce di applicarla e di realizzarla»30. La fusione fra politica e organizzazione è il perno attorno al quale ruota tutto l’articolo. Si tratta di un sunto, con forte finalità pedagogica, di cosa debba essere l’organizzazione: rigore ma non schematismo, niente conservatorismo ma nemmeno niente nuovismi esasperati e poi la centralità dell’elemento umano che va educato e al quale va prestata sempre la massima attenzione. Si tratta di temi che troviamo anche nell’intervento di Secchia al V Congresso31. Secchia in quell’occasione dichiara di volersi soffermare soltanto sui «difetti» del partito e lo fa sempre all’interno di quello schema finalizzato a organizzare la spontaneità. Egli nota infatti come dopo la Liberazione siano approdate al Pci in modo «spontaneo [...] decine di migliaia di nuovi compagni [...], ma non possiamo affermare di aver reclutato secondo un piano, col proposito di riuscire a reclutare in determinati settori piuttosto che in altri e cioè a fare in alcune direzioni un maggior sforzo»32. Il piano di reclutamento a cui pensa Secchia vuole concretizzare lo slogan che egli stesso ha creato: «per ogni campanile una sezione comunista»33. Tutto l’intervento di Secchia è un invito alla militanza, al lavoro politico e organizzativo, alla discussione della linea affinché essa venga applicata poi nel miglior modo possibile, a «lavorare più collettivamente e meno individualmente»34 e, soprattutto, a «lavorare con metodo e con un piano»: «Noi amiamo lavorare con metodo, noi amiamo i piani di lavoro, perché essi costringono chi li fa a rispettarli e ad adempierli, perché impongono ad ognuno di noi un dovere preciso, perché se non riusciamo a realizzarli dobbiamo renderne conto ai compagni ed al partito»35. Secchia spinge al lavoro facendo leva sulla moralità rivoluzionaria e su un’idea del partito come comunità di individui che si sottopone al giudizio dei compagni e giudica il lavoro dei compagni, che dirige ed è diretta; una comunità di costruttori, insomma.   Ivi, p. 267.   Ampi stralci del rapporto di Secchia sono in Da Gramsci a Berlinguer. La via italiana al socialismo attraverso i congressi del Partito comunista italiano, II, 1944-1955, a cura di S. Bertolissi e L. Sestan, Edizioni del Calendario, Milano 1985, pp. 139-146. 32  Ivi, p. 139. 33  Ivi, p. 140. 34  Ivi, p. 146. 35  Ibid. 30 31

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Al congresso Secchia verrà eletto nel Comitato centrale, in direzione e poi nominato in segreteria con Togliatti, Longo, Scoccimarro e Massola, mantenendo la responsabilità dell’organizzazione. Si tratta di un incarico di grande importanza, il che, come ha notato Collotti, pone ai biografi di Secchia un problema metodologico rilevante, se sia possibile, cioè, affrontare la biografia di Secchia senza fare una riflessione complessiva sulla storia del Pci: «Porre questo problema significa automaticamente dare una risposta negativa nel senso che è impossibile isolare l’opera di un dirigente, per eminente che egli sia stato, dal contesto del partito nel quale egli operò e lavorò e che contribuì come pochi, è vero, a formare, ma che alle vicende del partito fu indissolubilmente legato fino probabilmente ad annullare nel lavoro di partito se stesso»36. Si tratta di un tema cruciale, che non è possibile eludere. Ciò che non faremo, scrivendo della vita di Secchia nel periodo 1945-54/55 è costruire una storia del Pci attraverso gli occhi di Secchia e nemmeno raccontare semplicemente quale fu il ruolo di Secchia nel partito. Collotti parla di contesto: il contesto nel quale vorremmo inserire la biografia di Secchia, anche per questo periodo, è il suo stesso contesto esistenziale. Il suo annullarsi nel partito è, infatti, un tema da indagare non tanto con gli occhi dello storico politico, quanto piuttosto attraverso lo scavo in una personalità, nei suoi modi di pensare, di vedere il mondo, di concepire se stesso nella lotta politica, nel suo modo, insomma, di fare il rivoluzionario senza la rivoluzione. 2. La dura prova dei fatti Durante i primi mesi del 1946 Secchia è impegnato nell’organizzare la campagna elettorale per il referendum di giugno37. Non si risparmia: scrive articoli, organizza la campagna elettorale, i comizi e tutto quello che può servire a portare voti alla repubblica; ma ci sono anche le elezioni politiche, che Secchia considera perfino più importanti. Va ricordato che il primo appuntamento elettorale al quale il   Collotti, Introduzione a Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 78.   P. Pombeni, Questione istituzionale e battaglia per il potere nella campagna per le elezioni del 2 giugno 1946, in Costituente e lotta politica. La stampa e le scelte costituzionali, a cura di R. Ruffilli, Vallecchi, Firenze 1978. 36 37

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Pci si era presentato erano state le elezioni amministrative. Secchia valuterà positivamente il risultato ottenuto dal partito38. Ma non si tratta soltanto di una valutazione del voto ma anche di quanto l’unità con i socialisti abbia rafforzato l’esito elettorale. Secchia, durante una riunione della direzione, è netto: «Vedremo dopo in che modo potremo differenziarci dai socialisti nella campagna politica, ma io credo che in questa campagna è stato provato che non avremmo potuto far meglio se ci fossimo presentati da soli»39. Per Secchia ciò che appare dall’esito elettorale è che il Pci «è ancora essenzialmente il partito degli operai e dei braccianti e non è ancora il partito nuovo che volevamo creare, cioè un partito che possa avere una influenza che vada al di là degli operai e dei salariati»40. Se ritiene anche che vi sia stata una sottovalutazione delle «forze degli avversari»41, ciò che comunque sottolinea è che il partito ha ottenuto un migliore risultato laddove poteva contare su un’organizzazione più efficiente mentre i risultati meno soddisfacenti arrivavano da zone nelle quali l’organizzazione era meno radicata42. La lunga discussione politica che seguirà al rapporto di Secchia, se lo soddisferà dal punto di vista dei contenuti, non lo soddisferà invece sul piano del lavoro politico concreto. Il Secchia uomo d’azione esce allo scoperto chiudendo il dibattito della riunione del 10 aprile, chiedendo concretezza: «Io mi sto accorgendo che dopo aver fatto una buona discussione di carattere politico, i compagni membri della direzione del partito non si occupano più di niente»43. Quello di Secchia è un richiamo alla disciplina, che si fa ancora più esplicito quando parla delle candidature, ed esce allo scoperto la sua insofferenza: «Un tempo, nessuno avrebbe osato porre il problema della sua candidatura o di quella di un altro»44.

38  Si veda l’intervento di Secchia alla riunione della direzione del 9 aprile 1946 in La politica del Partito comunista italiano nel periodo costituente. I verbali della direzione tra il V e il VI Congresso 1946-1948, a cura di R. Martinelli e M.L. Righi, «Annali» della Fondazione Istituto Gramsci, 1990, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 125-137. 39  Ivi, p. 127. 40  Ivi, p. 133. 41  Ibid. 42  Ivi, p. 135. 43  Ivi, p. 206. 44  Ivi, p. 208.

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Nell’aria iniziano, dunque, a esserci alcuni di quei segni di «cedimento borghese» che a Secchia proprio non piacciono. Si tratta perciò di intervenire con durezza per ristabilire una disciplina rivoluzionaria adatta a un partito rivoluzionario, perché questo è il Pci che Secchia vuole organizzare. Nel ripercorrere con la memoria le vicende delle elezioni per la Costituente Secchia scriverà: I risultati [...] avrebbero potuto essere migliori se la campagna elettorale [...] non fosse stata contrassegnata da una serie di errori e di debolezze: I. Il partito aveva concentrato i suoi sforzi nella lotta per la repubblica, tralasciando di condurre una adeguata agitazione sul contenuto che volevamo dare alla repubblica. Finimmo così per non differenziarci dagli altri partiti repubblicani e in modo particolare dal Psi. II. Si condusse una campagna difensiva nei confronti dell’anticomunismo e degli attacchi all’Unione Sovietica45.

Ma le delusioni, per un dirigente come Secchia, vanno tenute per sé e all’esterno, ai militanti bisogna sempre mostrarsi vincitori. È così che in un discorso dell’11 giugno 1946 tenuto ai segretari delle sezioni novaresi Secchia afferma che il Pci ha vinto sia perché ha ottenuto la Repubblica, sia perché è riuscito a eleggere un numero di costituenti tale da affermarsi «tra i tre più grandi partiti»46. Per Secchia c’è anche bisogno di traghettare i compagni dalla mentalità partigiana a quella che definisce «democratica», sia per il miglior funzionamento del partito che per dare all’esterno un’immagine nuova, che non si presti ad attacchi che già fioccano numerosi: I sistemi partigiani, i metodi sbrigativi sono una necessità di guerra, ma non vanno bene in tempo di pace. È necessario non solo dire di lottare per la democrazia, ma essere veramente democratici. Il «mitra» è spesso sulla bocca di certi compagni ed è diventato una specie di toccasana, si dice: «Ah! Quei tempi in cui col mitra si risolveva tutto». Certi atteggiamenti di certi nostri compagni servono ad avallare le calunnie che vengono lanciate contro di noi, che noi non saremmo un partito democratico47.   Promemoria, p. 192.   Alcuni brani sono in Promemoria, pp. 198-199 (198). 47  Ibid. Notazioni simili sono nel rapporto di Secchia sulle elezioni amministrative durante la direzione del 9 aprile 1946. Si veda il verbale cit., p. 135. 45 46

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In direzione Secchia parlerà dei risultati con più franchezza. Egli sostiene in quell’occasione che è stato sbagliato attribuire l’esito elettorale soltanto alla campagna elettorale. Non è un’accusa verso la linea politica che è ritenuta giusta, quanto piuttosto una costatazione del fatto che questa linea ancora non è stata assimilata «non solo dai compagni ma da larghi strati di lavoratori». E ciò poiché, continua Secchia, il partito si è illuso di godere di una maggiore influenza rispetto al Psi: «Con questo voglio dire che i fatti ci dimostrano come l’influenza tra le masse non la si conquista con un mese di campagna elettorale od anche coi ventuno mesi di lotta clandestina [...], ma l’influenza la si conquista nel corso di lunghi anni di lavoro»48. Molti operai, afferma poi Secchia, non avevano votato per il Pci perché dopo la Liberazione non avevano visto migliorare né le loro condizioni soggettive, né quelle del Paese. E la conclusione è realista: «Se noi non sappiamo fare meglio degli altri, se noi non sappiamo risolvere certe situazioni meglio di quanto non lo sappiano fare gli altri, gli elettori rimangono attaccati ai partiti tradizionali»49. L’analisi che Secchia fa tiene assieme la complessità della situazione politica coi compiti che un partito comunista deve assumersi. Si tratta soprattutto di un richiamo alla funzione pedagogica che il partito deve avere. Bisogna educare i compagni alla democrazia, sradicare i danni che «vent’anni di educazione sbagliata» hanno fatto anche tra le file della classe operaia50 e bisogna lasciar perdere quegli atteggiamenti di verbosità estremistica che possono spaventare gli elettori. Contemporaneamente, afferma Secchia, bisogna radicarsi nei luoghi di lavoro con un’azione sindacale che effettivamente risponda ai bisogni degli operai, così come è necessario fare breccia nei ceti medi. In questo quadro si inserisce l’urgenza di formare nuovi quadri per consentire al Pci di assumere verso l’esterno una fisionomia chiara che si deve fondare sul perseguimento di una linea politica volta a «costruire in Italia una repubblica veramente democratica, [...] [a] dare al popolo italiano una Costituzione libera, democratica, che garantisca gli eguali diritti politici, economici e 48  La sintesi dell’intervento di Secchia è in appendice a La politica del Partito comunista italiano nel periodo costituente cit., pp. 568-579, in part. p. 570. 49  Ivi, p. 571. 50  Ivi, p. 572.

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sociali a tutti gli italiani»51. Ma Secchia è un organizzatore, e chiude il suo intervento con uno sguardo al partito: Dobbiamo dedicarci ad epurare il partito dagli elementi indesiderabili e nocivi, perché moralmente non sani: ubriaconi, violenti, elementi che vivono di espedienti e risorse non chiare e comunque con una condotta non morale. [...] Non si tratta di fare la politica dei pochi ma buoni. Dobbiamo essere invece molti, ma buoni. Epurare il partito dal marcio e reclutare invece molti elementi onesti che vi sono al di fuori52.

Una delle operazioni politico-organizzative di cui Secchia è protagonista, volta proprio a realizzare quel radicamento e quell’educazione dei militanti di cui parla nell’intervento, è la pubblicazione del «Quaderno dell’attivista»53, un periodico col quale il partito diffonde non soltanto la propria linea in termini semplici, ma tutto un catalogo di prescrizioni pratiche e di informazioni che riguardano la militanza degli iscritti. Il primo numero del «Quaderno» si apre con un’illustrazione degli scopi della pubblicazione che, in sintesi, si può condensare nell’affermazione: «Dire cose giuste e dirle nel modo migliore»54. La rivista insegna come fare propaganda, come discutere con gli indecisi, con gli avversari – ci sono dei veri e propri schemi di conversazione –, come votare e come insegnare a votare; riporta una serie di «esempi di parole d’ordine» da usare nella propaganda55, ma anche la sintesi di programmi e progetti politici. Il «Quaderno dell’attivista» è lo strumento a cui il partito assegna il compito di creare una massa militante compatta e omogenea sul territorio nazionale, un piccolo tentativo di nazionalizzazione del corpo militante comunista. Certo può apparire una pubblicazione semplice se non semplicistica, attraversata da picchi retorici, ma non può essere ignorato il suo ruolo di strumento di educazione e di crescita culturale e politica di grandi masse proletarie.

  Ivi, pp. 575-576.   Ivi, pp. 578-579. 53  Il «Quaderno dell’attivista». Ideologia, organizzazione e propaganda nel Pci degli Anni Cinquanta, a cura di M. Flores, Mazzotta, Milano 1976. 54  «Quaderno dell’attivista», I, 1946, 1, p. 2. 55  Ivi, p. 10. 51 52

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Secchia si impegna in prima persona nella pubblicazione del «Quaderno» scrivendo articoli sui principali nodi della politica comunista. Non si tratta di testi di particolare importanza e sui quali valga la pena di soffermarsi. La tensione formativa che Secchia mette nel comporre questi pezzi è, infatti, una delle tante facce che assume il suo lavoro di organizzatore. Un lavoro che si plasma quotidianamente in rapporto a una situazione nuova, quella di un grande partito che in pochi mesi si è trasformato da avanguardia a organizzazione di massa, in un Paese che in un tempo altrettanto breve è passato dalla dittatura alla libertà. L’attività politica di Secchia dopo la Liberazione è quindi un percorso che nell’analisi biografica potrebbe essere rappresentato come un lungo processo unitario nel quale si alternano momenti di ordinarietà ed eventi che costituiscono dei picchi. Questi picchi biografici sono quelli su cui serve ragionare per leggere il percorso politico-esistenziale di un rivoluzionario professionale novecentesco. Non va però dimenticato qual è il ruolo di Secchia nel Pci e quali sono i suoi compiti. Secchia non diventa vicesegretario contestualmente alla sua nomina a responsabile dell’organizzazione ma in un secondo tempo, all’inizio del 1948. Il 1947 è per lui un anno importante. E lo sarà anche riguardo alla rappresentazione di sé che ci consegnerà in occasione del «caso Seniga». L’anno si apre con la Conferenza d’organizzazione a Firenze e si chiude col viaggio a Mosca durante il quale incontrerà, fra gli altri, Stalin. La Conferenza di Firenze è «una sorta di congresso intermedio», importante anche per due altri avvenimenti: la scissione socialista e il viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti56. Il tema sul tappeto è di cruciale importanza: come fare in modo che il Pci diventi contemporaneamente un partito di quadri e un partito di massa. Secchia nel suo rapporto impiega lo stesso metodo dell’intervento al V Congresso. Si concentra sulle lacune del partito ed in particolare «sullo squilibrio tra la [sua] forza organizzata [...] e la sua capacità politica»57. Per lui si tratta di mettere in campo so-

  Martinelli, Storia del Partito comunista italiano cit., p. 159.   Ivi, p. 163.

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luzioni sia organizzative – è di questo periodo la scelta di istituire i comitati regionali – sia più pienamente politiche, con la formazione di nuovi quadri e di nuovi dirigenti58. Secchia è cosciente che il partito per divenire davvero «nuovo» deve mettere mano a un’organizzazione che è ancora tagliata su misura per un partito di quadri. Dalla Conferenza, come ha scritto Martinelli, si riuscirà a far uscire il progetto «di un’organizzazione ampia, variegata, complessa, capace di muoversi su piani diversi»59. A Firenze non si blocca, come è stato scritto, la svolta di Salerno60 e non si delinea nemmeno una linea più radicale di quella del V Congresso – una sterzata che sarebbe ovviamente da imputare a Secchia –, si tratta piuttosto di un passo in avanti nella costruzione del partito nuovo, declinata attraverso degli aggiustamenti organizzativi necessari per dare un avvio concreto alla nuova linea61. Sul piano politico la Conferenza ha un ruolo determinante nel «ribadire la strategia democratica», ma soprattutto nel «farla penetrare nel partito, ancorandola al suo stesso modo d’essere»62. La proposta contenuta nell’intervento di Secchia sembra finalizzata a costruire un partito che, pur avendo definitivamente fatto la scelta democratica, non archivia però definitivamente l’ipotesi di una possibile precipitazione traumatica degli eventi. Sembra quasi che nelle parole di Secchia si vogliano prevenire le critiche che giungeranno alla fine del mese di settembre dal neonato Cominform63. A febbraio, dopo il viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti e dopo le dimissioni del suo governo, si costituisce il nuovo gabinetto, sempre guidato dallo statista democristiano. E Secchia ha una sua piccola vittoria personale. Una di quelle vittorie che danno sfogo a quella componente del suo carattere che ama giocare qualche tiro mancino agli avversari. Così annota nel suo diario: Riesco a fare includere nella lista dei sottosegretari Moscatelli, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e Moranino alla Difesa. È un ro-

58  P. Secchia, Il partito della rinascita (Rapporto alla Conferenza Nazionale d’organizzazione del Partito comunista italiano), Roma 1947. 59  Martinelli, Storia del Partito comunista italiano cit., p. 171. 60  Così si legge nel volume Da Gramsci a Berlinguer, II cit., p. 228. 61  Martinelli, Storia del Partito comunista italiano cit., pp. 172-173. 62  Ivi, p. 172. 63  Ivi, pp. 239 sgg.

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spo da trangugiare per De Gasperi. Naturalmente devo insistere perché di fronte alla resistenza di De Gasperi, Togliatti era orientato a cedere [...] E poi proprio perché De Gasperi non li vuole, li dobbiamo volere noi. E la cosa passò64.

Secchia, sul finire dell’anno, viene inviato dal partito a Mosca «per comprendere meglio, in una situazione così incerta e complessa, il punto di vista dei sovietici, ma [il viaggio] aveva anche lo scopo di ottenere un determinato aiuto finanziario in vista delle prossime elezioni»65. Nelle sue memorie Secchia sarà molto sbrigativo su questo suo viaggio66. In realtà si tratta di un momento importante, per lui e per il partito, forse, come ha scritto Silvio Pons, «il momento più significativo del dopo Cominform»67. Una delle ragioni del viaggio di Secchia è, come si è detto, l’approvvigionamento di fondi per il Pci68. Al partito servono circa 600 mila dollari per far fronte alla prossima campagna elettorale. Ma nel colloquio tra Secchia e Ždanov non si parla soltanto di soldi. Si intravede, infatti, nel freddo linguaggio burocratico della verbalizzazione, tutta la portata dei temi politici che Secchia espone al dirigente sovietico. Il contenuto del dialogo appare più chiaramente da altri documenti, ma anche qui si può notare quale sia la rappresentazione della situazione italiana che Secchia vuole fornire: da un lato vuole mettere in evidenza quanto le masse siano combattive e impazienti di lottare, dall’altro come il partito tenda a sottovalutare l’importanza di una più incisiva azione di agitazione69. Un documento interessante è la Relazione sulla situazione italiana presentata a Mosca nel dicembre 194770. Si tratta di un testo nel quale Secchia condensa la cosiddetta «analisi della fase» e le prospettive   Promemoria, p. 204.   Martinelli, Storia del Partito comunista italiano cit., p. 312. 66  Promemoria, p. 211. 67  S. Pons, L’impossibile egemonia. L’Urss, il Pci e le origini della guerra fredda (1943-1948), Carocci, Roma 1999, p. 211. 68  Si veda il Resoconto del colloquio tra Ždanov e Secchia, 12 dicembre 1947, in Dagli Archivi di Mosca. L’URSS, il Cominform e il Pci (1943-1951), a cura di F. Gori e S. Pons, «Annali» della Fondazione Istituto Gramsci, VII, 1995, Carocci, Roma 1998, pp. 276-281. 69  Ivi, p. 280. 70  Il documento è pubblicato in Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., pp. 611-627. 64 65

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del partito. Nella sua relazione egli inserisce tutti i suoi interrogativi sulla linea e tutti i suoi dubbi su quella che gli appare una timidezza di fondo. Enzo Collotti ha sostenuto che nel Rapporto di Secchia si palesa finalmente quella «divaricazione che già allora si stava operando tra il modo di concepire la linea politica da parte di Secchia da un lato e da parte di Togliatti dall’altro»71. Non si tratta, infatti, di una differente linea politica ma di un diverso modo di condurre la lotta politica all’interno della medesima linea. Secchia non mette infatti in dubbio l’obiettivo di giungere a una vera «democrazia progressiva»72. Hanno dunque ragione anche Flores e Gallerano quando scrivono che Togliatti e Secchia «non sono portatori di due strategie diverse ma di diverse versioni della stessa strategia»73. E proprio dal documento del 1947 ciò appare chiaramente. Non si tratta di cambiare obiettivo finale, si deve piuttosto cercare di raggiungere questo obiettivo in modo più risoluto: «Orientarci a lotte più dure e più ampie e più decisive non significa rinunciare alla politica delle alleanze. Anche se nel prossimo avvenire dovessimo essere impegnati in una lotta diversa da quella legalitaria, in una lotta violenta contro i gruppi reazionari, affinché tale lotta possa avere successo dovrà essere condotta con ampie azioni unitarie, con le più larghe alleanze delle forze democratiche»74. Se Secchia, che nel dibattito del partito si era tenuto piuttosto defilato nell’ottobre-novembre del 194775, aveva però sperato di trovare un appoggio da parte dei sovietici a questa sua proposta di intensificare la lotta per evitare di rimanere impantanati nella palude parlamentare, dovrà ricredersi. Stalin stesso gli dirà esplicitamente: «Oggi non è possibile»76. A Ždanov, col quale   Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 610.   Il passaggio più esplicito nella Relazione è a p. 626: «Ripeto, non propongo di abbandonare la nostra prospettiva di lotta per uno sviluppo democratico, dobbiamo però avere coscienza che questa lotta diventa più difficile, sarà sempre più difficile il creare un blocco di forze democratiche in grado di rovesciare l’attuale situazione». 73  Flores, Gallerano, Sul Pci cit., p. 127. Dello stesso avviso è Martinelli nella sua Storia del Partito comunista italiano cit., p. 313. 74  Secchia, Relazione sulla situazione italiana presentata a Mosca nel dicembre del 1947 cit., p. 626. 75  S. Pons, La politica estera dell’Urss, il Cominform e il Pci (1947-1948), in «Studi Storici», XXXV, 1994, 4, p. 1137. Si veda inoltre A. Agosti, Il Pci e la svolta del 1947, ivi, XXXII, 1991, 1. 76  P. Secchia, Quaderno n. 4. 1957, 1958 (e storia memoriale), in Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 426. 71 72

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Secchia si era incontrato prima di vedere Stalin, aveva chiesto quale fosse il parere dei sovietici su una prospettiva insurrezionale e sullo scoppio di una guerra civile in Italia, riportando anche il pensiero di Togliatti che si rifiutava di porre l’alternativa fra un’ipotesi insurrezionale e un «pacifico sviluppo parlamentare»77. Secchia chiede lumi ai sovietici sulla prospettiva insurrezionale, quasi volesse togliersi un dubbio e mettersi l’anima in pace. Per lui la linea del partito non è da mettere in discussione ma ha dei dubbi, che si coagulano in una serie di interrogativi che egli non può non porre. Se nella risposta dei sovietici c’è il rifiuto di qualsiasi prospettiva insurrezionale, c’è invece il richiamo a organizzarsi nel caso sia «il nemico» ad attaccare78. Secchia non pone soltanto domande proprie, ma interrogativi che il partito gli aveva chiesto di formulare e riporta anche il giudizio di Togliatti, che all’opzione insurrezionale non crede per nulla. Certo egli non è uno strenuo sostenitore dell’insurrezione a tutti i costi, ma vorrebbe una lotta più determinata perché, come dirà, dal non fare nulla al fare l’insurrezione ce ne corre79. Secchia ha in testa da tempo le domande che avrebbe poi posto ai sovietici. Alla direzione dell’8 ottobre 1947 aveva notato la debolezza della politica del partito «non tanto adesso, io credo, quanto nel 1945, fino al due giugno e anche dopo, quando avevamo una notevole posizione di forza che forse non abbiamo sfruttato»80. Pons ha dato un’interessante interpretazione dell’incontro fra Secchia e Ždanov. Egli ha individuato in Secchia l’autore di un memorandum anonimo sulla situazione italiana nel quale viene posta una questione cruciale: se i sovietici ritengano «che adesso la situazione internazionale sia tale che si debba evitare nel momento attuale di trasformare la lotta in guerra civile» o che «nella presente situazione internazionale, una lotta decisa, in Italia, sia utile e necessaria»81. L’identificazione di Secchia con l’autore del memorandum consente di capire meglio quel passo dei suoi diari in cui dice che «da

  Pons, La politica estera dell’Urss, il Cominform e il Pci cit., p. 1139.   Ibid. 79  Secchia, Quaderno n. 4 cit., p. 627. 80  Pons, L’impossibile egemonia cit., p. 212. Si veda anche Dagli Archivi di Mosca cit., pp. 287-288. 81  Pons, L’impossibile egemonia cit., p. 214. Il documento è pubblicato in Dagli Archivi di Mosca cit., pp. 282-288. 77 78

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quella conversazione risultò evidente che io avevo espresso delle opinioni che a chi ascoltava dovevano certo apparire un po’ di suono diverso dalla campana di Togliatti»82. Il memorandum, che pare davvero opera di Secchia, potrebbe essere impiegato come prova contro la posizione storiografica che vede in Secchia il propugnatore non già di una linea politica alternativa a quella di Togliatti, ma il sostenitore di una diversa declinazione della medesima proposta politica. In realtà ci pare che quel documento testimoni altro. Ossia come in quell’occasione il confine fra una diversa linea politica e un differente modo di intendere la medesima linea diventi assai labile; allo stesso tempo però non si può non tenere in conto ciò che lo stesso Secchia sosterrà anni dopo nelle sue memorie, così come non si può non considerare la particolarità della situazione in cui viene a inserirsi il memorandum: Secchia è finalmente davanti ai sovietici e può liberamente esprimere loro il proprio pensiero. E non sempre ciò che si fa è esattamente ciò che si pensa di fare: se Secchia non va a Mosca con il deliberato intento di proporre a Stalin una linea politica diversa da quella di Togliatti, è però vero che egli, in quell’occasione, spinge le proprie critiche oltre i confini all’interno dei quali le ha fino a quel momento contenute, apparendo così più in dissenso di quanto non lo sia in realtà. Se questi documenti mostrano che la proposta politica di Secchia è informata a una maggiore radicalità nell’azione di quella di Togliatti, mostrano anche che i sovietici, pur propendendo per la linea di Togliatti, non sconfessano affatto Secchia, e che Secchia stesso non aveva inteso tanto andare dai russi per chiedere il consenso a fare la rivoluzione, come alcuni commentatori hanno sentenziato – fra tutti Aga Rossi e Zaslavsky83 –, quanto piuttosto per consultarsi e per avere chiara, una volta per tutte, la linea del Cominform. Sostenere che Secchia sia andato a Mosca per scalzare Togliatti dalla guida del partito, oppure per chiedere di appoggiare l’insurrezione in Italia, significherebbe non considerare ciò che Secchia ha scritto sull’incontro del dicembre 1947 in tutte le sue ricostruzioni memorialistiche, anche in quelle più private e intime, e nei documenti ufficiali. Significherebbe, dunque, doversi far carico di dimostrare che   Secchia, Quaderno n. 4 cit., p. 446.   E. Aga Rossi, V. Zaslavsky, Togliatti e Stalin. Il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, il Mulino, Bologna 2007 (nuova edizione del testo del 1997). 82 83

V. Un liberatore dopo la Liberazione

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Secchia non è una fonte attendibile nemmeno per la ricostruzione della sua stessa biografia. Ciò non toglie che negli incontri che egli ha svolto a Mosca, ma in particolare nel memorandum, ci sia una sorta di ambiguità di fondo: Secchia sembra volersi barcamenare per non sconfessare apertamente la linea del Pci e di Togliatti ma allo stesso tempo prova a lanciare un amo ai sovietici per verificare davvero quali siano le loro posizioni rispetto all’Italia. Secchia non intende apparire agli occhi dei compagni russi come un dissidente, ma vuole allo stesso tempo evidenziare la presenza all’interno del Pci di sfumature diverse, di differenti anime e di visioni della lotta non sempre perfettamente sovrapponibili alla ingombrante direzione togliattiana. Il resoconto dell’incontro fra Secchia e Stalin contiene le risposte a tutte le domande che il dirigente del Pci aveva posto: Togliatti ha ragione, la situazione italiana non è pronta per l’insurrezione, i comunisti devono però stare attenti alla reazione e organizzarsi nel caso venissero attaccati, perciò devono recuperare delle armi da tenere in serbo per la difesa e costituire un proprio apparato di spionaggio84. L’ultimo documento sul viaggio di Secchia a Mosca è il testo della «Comunicazione di Secchia alla Sezione di Politica estera del CC del VKP(b)» del 16 dicembre 194785. Si tratta di un intervento equilibrato, nel quale le lotte di massa vengono inquadrate nella più ampia cornice della lotta istituzionale, delle alleanze coi partiti democratici e dell’attività parlamentare che, comunque, si dice, da sola non basta per cambiare i rapporti di forza nel Paese. È stato sostenuto che questo intervento riproduce «tutta l’ambiguità» della posizione di Secchia; in realtà ne mostra la complessità86. L’immagine che Secchia vuole dare del Pci è di un partito unito e coeso, nel quale le deviazioni vengono corrette grazie al centralismo democratico, ma anche di un partito che discute, articolato e non un unico coro di voci dirette da quella più forte di Togliatti. Molte teorie accompagnano questo viaggio di Secchia a Mosca: si ritiene soprattutto che la sua nomina a vicesegretario del partito ne sia l’esito e che rappresenti il modo col quale i sovietici, imponendo 84  Resoconto del colloquio tra Secchia e Stalin, 14 dicembre 1947, in Dagli Archivi di Mosca cit., pp. 289-293, in particolare p. 289. 85  Anche questo documento è pubblicato ivi, pp. 294-307. 86  Pons, L’impossibile egemonia cit., p. 216.

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un altro vicesegretario assieme a Longo, stabiliscono una sorta di rapporto privilegiato con Secchia, fino a farlo divenire «l’uomo di Mosca» all’interno del Pci87. La vicenda della nomina di Secchia a vicesegretario, dopo il congresso del partito, è invece assai più lineare e sembra non nascondere nessuna strategia occulta o particolari legami fra la sua nomina e le imposizioni di Stalin. Lo stesso Secchia, in un passo autobiografico nel quale afferma che «nel dicembre 1947, quando fui a Mosca feci, credo, su Stalin ottima impressione; forse anche perché egli aveva i suoi scopi, da quel momento mi appoggiò»88, riflette sulla possibilità che la sua nomina a vicesegretario sia avvenuta anche su sollecitazione sovietica. Ma nota anche un altro fatto che assume una particolare rilevanza: Qualche settimana dopo il VI Congresso, su proposta di Longo venivo nominato vicesegretario del partito. È vero che la cosa potrebbe non avere avuto alcun legame con il colloquio di Mosca, perché in realtà Togliatti desiderava avere una sistemazione degli organismi tale da poter giustificare le decisioni prese da tre persone: lui, Louis e io. [...] Quindi ammesso (non so se ci fu) ci sia stato un consiglio, una «raccomandazione» dall’alto, quel consiglio corrispondeva allora perfettamente anche alle intenzioni di Togliatti89.

Dai documenti appare chiaramente che è proprio Longo a chiedere di essere affiancato da un altro vicesegretario, con una lettera del 21 gennaio 1948, nella quale scrive che «non potendo presenziare alla riunione della Direzione, in cui, credo, si procederà alla nomina della Segretaria, faccio formale proposta di nominare il compagno Pietro Secchia vice segretario generale del Partito»90. Sarà Togliatti stesso a domandare a tutti i membri del Comitato centrale di esprimersi per iscritto sulla proposta di Longo. E Secchia verrà eletto all’unanimità91.

  Ibid.   Secchia, Quaderno n. 4 cit., p. 445. 89  Ivi, pp. 445-446. 90  Lettera di Longo alla Direzione, Roma, 21 gennaio 1948, allegato al verbale della direzione dell’11 febbraio 1948, in APC, Direzione, 1948, mf. 199. Si tratta sia dell’originale manoscritto di Longo che di una copia dattilografata. 91  Cfr. i «Voti scritti per l’elezione del II Vice-Segretario Generale del P.», ibid. 87 88

VI Una parabola discendente 1. La responsabilità del comando Il 1948 si apre, dunque, col VI Congresso del Pci. Sullo scenario politico il partito è ormai passato all’opposizione e prova a fondere in un’unica linea il radicalismo che quella collocazione implica col bisogno di controllare le punte estremistiche della base, che si erano palesate in modo esplosivo in occasione dell’occupazione della prefettura di Milano con un anacronistico colpo di mano guidato da Giancarlo Pajetta1. Secchia è saldamente collocato ai vertici di Botteghe Oscure e la sua autorevolezza è riconosciuta da tutti. E in questo clima di fermento, di grandi movimenti sociali e di una lotta di classe che sembra essere ritornata all’ordine del giorno, si sente pienamente a suo agio. Sul piatto c’è anche il tema dell’unità con i socialisti che per il Pci non è soltanto un escamotage elettorale ma «uno strumento permanente di organizzazione e di lotta di massa»2. Il rapporto di Togliatti al congresso contiene, come noterà lo stesso Secchia anni dopo, un’autocritica che comprende alcune delle perplessità che proprio Secchia aveva manifestato ai sovietici nel dicembre dell’anno prima. E ciò rafforza l’idea che fra le posizioni di Secchia e quelle di Togliatti non vi fosse quell’abisso che poi si è voluto rappresentare. Secchia nelle sue memorie ricorderà con soddisfazione le autocritiche di Togliatti, ma lo farà con quel tono sarcastico che fa pensare   Si veda Martinelli, Storia del Partito comunista italiano cit., cap. VII.   Ivi, p. 316.

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che quelle pagine siano state scritte dopo il 1955, quando l’esclusione dalla vita di partito l’ha catapultato in uno stato di amarezza perenne. «Più forti i quadri migliore l’organizzazione»3, questo è il cardine su cui poggia l’intervento di Secchia4. Secondo il comunista il Pci deve far fronte, con un mutamento organizzativo, alla sua nuova condizione di partito di massa: «Siamo diventati un grande partito di massa, ma dobbiamo oggi far acquistare al partito tutte le qualità di un partito di quadri»5. Secchia propone sia di rafforzare il partito, omogeneizzandolo sul territorio nazionale (andando a ricuperare iscritti dove meno ce ne sono), sia di costruire un’organizzazione di compagni formati ideologicamente, educati alla lotta per divenire dei quadri efficienti6. Nel suo discorso Secchia tenta di far convivere la nuova situazione del Pci – un partito con più di due milioni di iscritti – con la vecchia e rassicurante dimensione del partito di avanguardia. Il suo obiettivo è proprio di creare all’interno di un’organizzazione di massa un’avanguardia di compagni «più avanzati» che, contando sull’appoggio di larghi strati di proletariato organizzato, possa imprimere al Pci il proprio segno7. Il Pci a cui pensa Secchia è un «partito nuovo», ma è anche un partito rigidamente classista, proletario, ad alta densità di militanza: «Appartiene veramente al partito e alla classe operaia solo colui, sia esso intellettuale od operaio, che non limita la sua adesione a un atto formale, a un generico consenso ideologico»8. Il 1948 è un anno così carico di avvenimenti da relegare il VI Congresso in secondo piano: ci sono le elezioni del 18 aprile e l’attentato a Togliatti del 14 luglio. Due fatti che nella biografia di Secchia rivestono un peso assai significativo. Secchia lavora alla campagna elettorale, organizza le manifestazioni, la distribuzione della propaganda e non si risparmia nei comizi. Il clima di quelle elezioni è noto, e non serve qui soffermarsi sullo scontro dai toni più che accesi che andò in scena fra il blocco

  P. Secchia, Più forti i quadri, migliore l’organizzazione, Roma 1948.   Stralci del discorso di Secchia in Da Gramsci a Berlinguer, II cit., pp. 358-363. 5  Ivi, p. 358. 6  Ivi, pp. 359-360. 7  Ivi, p. 360. 8  Ibid. 3 4

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democristiano e il Fronte popolare9. Per i comunisti fu «una sconfitta non inattesa»10, ma comunque una sconfitta di grosse proporzioni la cui entità appare chiaramente paragonando i risultati ottenuti dal Pci e dal Psiup nelle lezioni della Costituente con quelli del 18 aprile: 9 punti separano le due percentuali. Nelle sue memorie Secchia scriverà: «I risultati del 18 aprile furono quelli che furono. Dopo i risultati, le solite critiche e autocritiche»11. Nel suo intervento in direzione Secchia osserva, con un forte tono critico, come le ragioni della sconfitta non vadano ricercate soltanto nei difetti del lavoro di partito, quanto nei difetti della politica del partito12: «La nostra politica di Fronte non è stata una politica di Fronte, la nostra propaganda ha avuto più il carattere social comunista che non di fronte democratico. [...] Noi dobbiamo dare al partito la prospettiva della lotta per la realizzazione del programma del Fronte, la lotta per le riforme di struttura attraverso la lotta delle masse»13. Fra le elezioni e l’attentato a Togliatti Secchia accompagna il segretario comunista a Bucarest alla riunione del Cominform in cui si sancirà quella rottura fra Stalin e Tito che è già nell’aria da tempo. Togliatti e Secchia si allineeranno senza fare problemi e, a quanto pare, in modo piuttosto convinto alla linea del Cominform14. Del resto la sconfessione di Tito consentiva al Pci di uscire dall’imbarazzo per la questione di Trieste che aveva visto Togliatti impegnato per trovare una soluzione che non cancellasse l’«italianità» della città e contemporaneamente non scontentasse troppo Tito15. Ma il momento in cui Secchia è davvero in prima linea, durante questo travagliatissimo 1948, è il 14 luglio, quando Antonio Pallante

9  E. Novelli, Le elezioni del Quarantotto. Storia, strategie e immagini della prima campagna elettorale repubblicana, Donzelli, Roma 2008. 10  Agosti, Togliatti. Un uomo di frontiera cit., pp. 355 sgg. 11  Promemoria, p. 213. 12  Si veda lo stralcio dell’intervento di Secchia pubblicato ivi, p. 214. 13  Ibid. Si vedano anche le osservazioni sul ritardo della campagna elettorale svolte da Secchia durante la riunione della Direzione dell’11 febbraio 1948, in APC, Fondo Mosca, Direzione, 1948, mf. 213. 14  Agosti, Togliatti. Un uomo di frontiera cit., pp. 357-359. 15  Si vedano su tutta la vicenda: M. Galeazzi, Togliatti e Tito. Tra identità nazionale e internazionalismo, Carocci, Roma 2005; Id., Togliatti fra Tito e Stalin, in Id. (a cura di), Roma-Belgrado. Gli anni della guerra fredda, Ravenna 1995.

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spara a Togliatti16. Anche in questo caso Secchia deve organizzare la spontaneità della protesta popolare che si propaga nei principali centri industriali italiani con scioperi e manifestazioni in cui quelle armi tenute nascoste dopo il 25 aprile riaffioravano dai fienili e dalle fosse dove molti le avevano conservate con cura, ben oliate. Sono fucili e pistole che erano stati tenuti in serbo per l’«ora x», aspettando la quale si era alimentata una speranza che aiutava a continuare la militanza anche dopo il fallimento delle partecipazioni al governo e l’archiviazione del vento del Nord, presto imbottigliato nelle dinamiche di corridoio delle aule parlamentari. A Botteghe Oscure Secchia e Longo provano a rispondere alla domanda che al quarto piano continua a echeggiare, mentre Togliatti viene portato all’ospedale: «E adesso che si fa?». Il lavoro è febbrile: un’edizione straordinaria dell’«Unità» da preparare, un appello della direzione da scrivere e poi un movimento da organizzare in modo da evitare sbavature, colpi di testa. Del resto lo aveva detto anche Togliatti dopo l’attentato che bisognava stare calmi e non fare stupidaggini. Per tenere tutto sotto controllo i membri della direzione vengono immediatamente sparpagliati per l’Italia, ciascuno nella propria regione, per monitorare la situazione e dare le direttive. Secchia fa la spola fra Botteghe Oscure, il Policlinico e casa, dove ha la moglie in convalescenza per dei gravi problemi circolatori17. Anche la notte va spesso all’ospedale a verificare le condizioni di Togliatti. L’Italia gradualmente si paralizza, bloccata da uno sciopero generale destinato a durare quarantotto ore. Adesso è Secchia l’uomo al comando del partito. C’è anche l’altro vicesegretario, Longo, ma il doppio ruolo di Secchia – vicesegretario e capo dell’organizzazione – fa sì che sia lui a dirigere quelle giornate. E l’ipotesi insurrezionale non appare mai. Del resto Stalin era stato chiaro nel dicembre 1947 e la presenza di Scelba al Ministero degli Interni dava garanzia

16  Si vedano: W. Tobagi, La rivoluzione impossibile. L’attentato a Togliatti: violenza politica e reazione popolare, il Saggiatore, Milano 1978; M. Caprara, L’attentato a Togliatti. 14 luglio 1948: il Pci tra insurrezione e programma democratico, Marsilio, Venezia 1978; G. Gozzini, Hanno sparato a Togliatti. L’Italia del 1948, il Saggiatore, Milano 1998. 17  Promemoria, p. 215.

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di una pronta e brutale repressione di qualsiasi movimento radicale. Scriverà Secchia: So che alcuni anni dopo circoleranno delle voci in Italia secondo le quali io in quell’occasione avrei cercato di spingere le cose in avanti per vedere se fosse possibile farle sboccare in un movimento insurrezionale per la conquista del potere. È assolutamente falso. Non solo, ma in quell’occasione ebbi una posizione ben chiara, precisa e ferma sul carattere che il movimento doveva avere perché a mio giudizio la situazione interna del Paese e la situazione internazionale erano tali da non offrire alcuna possibilità di successo ad un movimento che si fosse proposto la conquista del potere18.

E, ancora, adducendo un ulteriore elemento per rafforzare l’autodifesa: «È verissimo che in altre occasioni io cercai di spingere avanti determinati movimenti, ma non nel luglio 1948. Ad esempio negli anni 1945-47, senza aver mai pensato ad inesistenti possibilità insurrezionali, ritenevo possibile dare maggior slancio e maggiore ampiezza ai movimenti di massa»19. Lo sciopero scoppierà spontaneo e l’Italia si paralizzerà gradualmente20. In questo clima avviene la riunione della direzione: l’incertezza è assoluta, sia per le condizioni di Togliatti, sia per quello che sta accadendo nel Paese. Nessuno si pronuncia per l’insurrezione21. I comunisti perdono però di vista l’obiettivo immediato e perdono la possibilità di ottenere le dimissioni di Scelba attaccando frontalmente e domandando le dimissioni dell’intero governo. È l’esito di una   Ivi, p. 217.   Ibid. 20  L. Longo, Quel 14 luglio 1948, in «Rinascita», 14 luglio 1978. Si veda anche G. Amendola, Il Pci all’opposizione. La lotta contro lo scelbismo, in Problemi di storia del Pci, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 119. Si veda inoltre G. Gozzini, R. Martinelli, Storia del Partito comunista italiano, VII, Dall’attentato a Togliatti all’VIII Congresso, Einaudi, Torino 1998, p. 25. 21  Ivi, p. 26. Per un’analisi di Secchia del «grande successo» dello sciopero, la cui continuazione sarebbe stata «pericolosa» perché la «situazione italiana non è oggi prerivoluzionaria né insurrezionale», si veda il verbale della Direzione del 6 agosto 1948, in APC, Fondo Mosca, Direzione, 1948, mf. 199, p. 20. Si tratta di una prudenza che Secchia aveva già rivendicato nel mese di maggio: «Voglio però far presente che se noi avessimo scatenato delle grandi lotte nazionali subito dopo le elezioni avremmo sfasciato il Fronte e saremmo andati incontro, forse, a delle sorprese» (APC, Fondo Mosca, Direzione, 1948, Verbale del 24-25 maggio 1948, mf. 199, p. 8). 18 19

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grande emozione che fa perdere le staffe anche ai politici più navigati. Lo noterà anche Togliatti, come ricorda Nilde Iotti: «Quando gli fu permesso di scorrere i giornali, Togliatti volle leggersi le cronache dell’attentato che aveva subito. Lo colpì proprio sull’‘Unità’ un rigone a nove colonne: ‘via il governo della guerra civile’. Ricordo il suo commento: ‘Se avessero scritto ‘Via il Ministro dell’Interno’, questa sì che sarebbe stata una richiesta non solo plausibile ma anche accettabile’»22. Secchia, al fianco di Longo, se si escludono gli accenti aspri delle richieste di dimissioni del governo, gestisce la situazione con fermezza ed equilibrio. Non ci sono dubbi sulla sua determinazione a portare il movimento all’interno degli argini democratici. La stessa decisione della Cgil di interrompere lo sciopero sarà considerata da Secchia giusta, proprio per quel vincolo democratico a cui dovevano attenersi le mobilitazioni23. Se Secchia non lavora per l’insurrezione durante le tumultuose giornate del luglio 1948, è comunque evidente che per il vicesegretario del Pci l’ipotesi insurrezionale non è accantonata del tutto. Saldamente ancorato alla sua concezione organizzativa e politica, Secchia scarta l’ipotesi insurrezionale hic et nunc, senza chiudere la porta a un momento futuro, in cui la situazione sarà più favorevole. C’è ancora speranza in Secchia, ma c’è anche la consapevolezza che le forzature, che il motto on s’engage et puis on voit, nell’Italia del 1948 non hanno cittadinanza. Non è quindi vero, come del resto ha rilevato Collotti24, ciò che ha scritto Caprara, ossia che «Secchia compie un’operazione in codice: critica lo sciopero del 14 luglio per quello che è stato, ma in funzione di quello che avrebbe potuto e dovuto essere»25. Il 14 luglio dovette però rincuorare Secchia, per almeno due ragioni. La prima è che il Pci si era dimostrato capace di esercitare la propria influenza sulle masse, dirigendole; la seconda era dovuta al fatto che il grande movimento successivo all’attentato a Togliatti aveva mostrato l’esistenza della disponibilità, piuttosto diffusa fra 22  G. Corbi, Nilde, Rizzoli, Milano 1993, p. 96; L. Lama, Nilde Iotti. Una storia politica al femminile, introduzione di L. Turco, Donzelli, Roma 2013, pp. 123 sgg. 23  Promemoria, p. 218. 24  Collotti, Introduzione a Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 104. 25  Caprara, L’attentato a Togliatti cit., p. 140.

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le masse, a percorrere «una alternativa non necessariamente pacifica di conquista del potere, non come ipotesi immediata, ma come prospettiva più o meno lontana»26. Tra l’altro, come insiste Collotti, la diffidenza di Secchia verso gli spontaneismi aveva giocato, nella gestione del 14 luglio, un ruolo di non poco conto27. La vicenda dell’attentato a Togliatti ebbe, ovviamente, un’eco internazionale. E dalla grande «famiglia comunista» non arrivarono soltanto affetto e partecipazione, ma anche una dura critica al Pci formulata da Stalin in persona. La critica ha la forma di un telegramma, che si chiude con una precisa accusa: «Il Comitato centrale del partito comunista (bolscevico) è contristato del fatto che gli amici del compagno Togliatti non siano riusciti a difenderlo dal vile attacco a tradimento. A nome del CC del PC (b) dell’Unione Sovietica: Giuseppe Stalin»28. È un’accusa diretta ai compagni italiani di non essere stati in grado di proteggere il loro capo. E Secchia si sente chiamato in causa direttamente, per il suo ruolo nell’organizzazione e nella vigilanza29. Ma Stalin non poteva sapere quanto fosse difficile controllare Togliatti, sempre alla ricerca di uno spazio di libertà, così divertito nell’eludere la sorveglianza del suo autista, quell’Armandino che anche il giorno dell’attentato lo stava aspettando davanti a Montecitorio mentre lui sgattaiolava da un’uscita secondaria per andare a prendere un gelato30. Il periodo dal 1949 al 1951 è caratterizzato, nella biografia di Secchia, dall’intreccio fra le questioni internazionali e le loro ricadute sul Pci e dalla difesa della Resistenza. Antifascismo militante e internazionalismo si saldano in Secchia in un’unica opzione di lotta, che ha nella dimensione internazionale la sua prospettiva più ampia e nell’antifascismo il suo ancoraggio alla realtà italiana. La campagna per la pace, contro il patto Atlantico, è uno dei terreni sul quale   Collotti, Introduzione a Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 105.   Ibid. 28  Il testo del telegramma è riportato in Promemoria, p. 221. 29  Sul problema della vigilanza si veda la discussione in Segreteria del 6 agosto 1948, in APC, Fondo Mosca, Verbali Segreteria (1944-1948), mf. 199. 30  Dopo l’attentato furono implementate le misure per la sicurezza di Togliatti. Secchia e il segretario comunista, con le rispettive famiglie, sarebbero andati anche ad abitare nella stessa villetta. Si tratta, nonostante le congetture (Secchia che voleva spiare Togliatti, ecc.), di uno dei provvedimenti adottati per proteggere Togliatti. 26 27

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si fondono meglio questi due aspetti dell’attività di Secchia. Ed è forse in questo periodo che la sua attività parlamentare assume per la prima volta un qualche rilievo, non soltanto per il valore delle sue prese di posizione a difesa della Resistenza, ma anche perché finalmente egli inserisce la lotta parlamentare fra gli strumenti con i quali lottare. A fronte di una veemente campagna antiproletaria e antiresistenziale, Secchia diviene il baluardo della memoria politica della Resistenza. Una memoria che non si lascia però imbalsamare in un pantheon statico, ma che vuole essere attiva e propulsiva. C’è un discorso importante di questo periodo, che è poi divenuto il simbolo della difesa dei valori della Resistenza. Si tratta dell’intervento che Secchia pronuncia in Senato il 28 ottobre 1949, divenuto famoso col titolo La Resistenza accusa. Quella che Secchia rappresenta in quell’occasione è «la voce stessa – severa e ammonitrice – della Resistenza»31. L’incipit dell’intervento è di per sé una dichiarazione programmatica: «Parlerò della politica di persecuzione dei partigiani, politica perseguita con metodo, pervicacemente da ormai due anni e in modo particolare dal 18 aprile ad oggi, e che costituisce parte essenziale del bilancio del Ministero dell’Interno e dell’attività dei suoi organi di polizia»32. Secchia non esita a definire quello democristiano un regime, e proprio come il fascismo questo regime, denuncia il senatore comunista, sommerge le Camere con lunghi elenchi di strade, ponti, fognature costruiti, tralasciando invece di illustrare come la democrazia e la repubblica siano state consolidate o meno: «Quanti passi avanti si sono fatti per debellare i residui del fascismo, quanti passi avanti si sono fatti nel consolidamento della Repubbli­ ca [...]?»33. La risposta di Secchia è sottintesa: nessuno. Anzi, ciò che più accende l’animo del comunista è la denuncia degli arresti a cui migliaia di partigiani sono stati sottoposti negli ultimi mesi.

31  Così nella premessa editoriale all’opuscolo che raccoglie il discorso (Anpi, Roma 1949). Si veda, sugli stessi temi, la prima parte dell’intervento di Secchia al Comitato centrale del Pci del 25 luglio 1949 poi pubblicato in opuscolo (La stampa moderna, Roma s.d. ma 1949) col titolo Il partito forza decisiva per fare avanzare la democrazia. 32  Secchia, La Resistenza accusa cit., p. 7. 33  Ivi, p. 9.

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Quella che Secchia pronuncia è una vera e propria requisitoria, un atto di accusa circostanziato e veemente contro Scelba ma anche contro quanti, pur avendo rivestito un ruolo dirigente nella lotta di Liberazione, tacciono ora di fronte ai metodi antidemocratici del Ministro degli Interni. L’impegno antifascista di Secchia si salda con la sua lotta contro gli eccidi che, in una cronologia martellante, si inseguono sul calendario. Sono mesi durissimi, quelli che hanno il loro drammatico picco nell’eccidio di Modena del 9 gennaio 1950. Secchia è netto in questa fase e in un discorso tenuto a Roma il 22 gennaio 1950 afferma senza mezze misure: «Dobbiamo riuscire a realizzare un possente fronte unico dal basso su questa questione: la difesa della vita dei lavoratori»34. Questo atteggiamento combattivo provocherà una certa tensione durante la riunione della Direzione del 24-25 gennaio ma Togliatti in questa occasione preferirà «tenere sotto controllo la situazione»35, senza rispondere con troppa durezza a chi reclamava una maggiore radicalità36. Nel commentare le sue stesse parole anni dopo, Secchia rivendicherà la propria coerenza di politico dell’organizzazione: «Fare corrispondere alle parole i fatti, questo è stato sempre il mio indirizzo, forse ingenuo, perché in politica molti sono abituati a dire delle cose che hanno il valore della giornata e poi non ci pensano più e così non si conseguono risultati»37. Il 1950 è per Secchia un anno delicato anche per un’altra ragione. In seguito a un incidente automobilistico avuto tempo prima38, Togliatti aveva dovuto sottoporsi a un’operazione chirurgica per rimuovere due ematomi al cervello. L’incidente, che aveva particolarmente inquietato Togliatti tanto da indurlo a invitare Secchia a indagare «su tutti, nessuno escluso»39, è l’occasione per un nuovo dibattito sulla sicurezza del segretario. Se già la direzione del 12 luglio, quindi prima dell’incidente, aveva ritenuto che, nonostante il pericolo di una guerra imperialista, la situazione non fosse ancora

  Un brano del discorso è citato in Promemoria, p. 225.   Agosti, Togliatti. Un uomo di frontiera cit., p. 379. 36  Verbale della riunione in APC, Fondo Mosca, Direzione, 1950, mf. 190. 37  Promemoria, p. 225. 38  Agosti, Togliatti. Un uomo di frontiera cit., p. 384. 39  Promemoria, p. 229. 34 35

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così grave da costringere Togliatti ad allontanarsi dall’Italia40, il problema della sua sicurezza ritorna all’ordine del giorno dopo il mese di agosto. Sebbene sia evidente che l’incidente non è dovuto a un fatto doloso, come ha scritto Aldo Agosti, «il clima politico è a tal punto teso che dietro ogni circostanza è facile immaginare le trame del nemico»41 e dunque Colombi, in direzione, punterà il dito su quei compagni che avrebbero dovuto occuparsi della sicurezza di Togliatti dimostrando di non essere in grado di farlo. Durante una riunione del Cominform, nel novembre dello stesso anno, alla quale partecipa per il Pci D’Onofrio, viene prospettata la possibilità che Togliatti vada ad assumere proprio la direzione del Cominform. Di questa richiesta sarà lo stesso D’Onofrio a informare Togliatti, mentre questi si trovava in convalescenza a Sorrento. Dopo questo primo periodo di riposo, a metà dicembre Togliatti si era recato a Mosca per proseguire la convalescenza. Convocato al Cremlino, sarà Stalin in persona a formalizzargli la proposta di cui già gli aveva fatto cenno D’Onofrio. Togliatti temporeggia, ma dopo qualche giorno scrive una lettera a Stalin nella quale declina l’invito proponendo allo stesso tempo di invitare a Mosca, in modo da avere anche un’opinione del partito, un compagno della segreteria, magari Secchia, che, infatti, arriverà nella capitale sovietica, di lì a poco, accompagnato da Longo42. È in quell’occasione che Togliatti dirà a Secchia e a Longo della proposta che gli era stata fatta e del suo rifiuto. Le motivazioni addotte dai sovietici andavano dalla necessità di rafforzare un’organizzazione internazionale dei comunisti ai rischi di un’imminente guerra imperialista che avrebbe visto Togliatti, se rimasto in Italia, esposto al rischio di cadere «prigioniero nelle mani del nemico»43, fino alla necessità di creare un Centro estero del Pci. Secchia, nelle sue memorie, ha ipotizzato che oltre alle ragioni esplicitate dai sovietici ce ne potessero essere anche altre occulte, prima fra tutte la non completa coincidenza della linea togliattiana con quella di Stalin, oltre a una prudenza di fondo che, forse, avrebbe potuto rappresentare un limite a una politica più radicale dei comunisti italiani contro il Patto atlantico. È evidente che qui Secchia   Agosti, Togliatti. Un uomo di frontiera cit., p. 384.   Ibid. 42  Promemoria, p. 229. 43  Ibid. 40 41

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ricostruisce i fatti da un lato per proteggersi, evitando l’accusa di aver tramato direttamente contro Togliatti, dall’altro attribuendo ai sovietici dei dubbi sulla linea del segretario che invece sono più suoi. Togliatti non vuole assolutamente abbandonare il Pci, e Secchia e Longo provano a prendere tempo sostenendo che una simile decisione spettava alla direzione del partito e non soltanto ai due vicesegretari e all’interessato. È un modo per temporeggiare che Togliatti legge come un escamotage per lasciarsi alle spalle questa proposta e ritornare in Italia, una volta conclusa la convalescenza, come se niente fosse accaduto. Il piano di Togliatti deve però fare i conti con la direzione del Pci. Rientrati in Italia, Longo e Secchia avevano, infatti, deciso di informare davvero la direzione della proposta di Stalin chiedendole di pronunciarsi44. E la sorpresa sarà l’ampia maggioranza con cui viene approvato che Togliatti si rechi in Cecoslovacchia per assumere il nuovo incarico. Il verbale di questa riunione non è stato ancora ritrovato, ma le testimonianze dei partecipanti ci restituiscono un clima di unanimità dal quale si erano discostati soltanto Terracini e forse Di Vittorio, Teresa Noce e Giancarlo Pajetta45. Longo si astiene, ma soltanto per ragioni diplomatiche, essendo lui il più probabile successore alla carica di segretario. Sul voto della direzione c’è sicuramente l’ombra ingombrante di Stalin, quella sua autorevolezza a cui è impossibile dire di no. Ma c’è anche l’ombra di una serie di dissensi interni, di malumori che ormai sono nell’aria da tempo, come testimonia il verbale di un dialogo fra Secchia e Longo trascritto dal primo. È significativo notare, prima di illustrare meglio questo dialogo, che Secchia ne trascriva il contenuto nei frangenti in cui si consumava la drammatica vicenda del caso Seniga. È, infatti, proprio il voto della direzione del 1951 che Secchia individua come il momento di rottura più netta fra lui e Togliatti. Di fatto Secchia, ponendo così tanta attenzione a quella vicenda, sembra indirettamente riconoscere di avere giocato un qualche ruolo nel tentativo di mandare Togliatti a Praga e vuole coinvolgere anche Longo, in modo da non apparire come una sorta di cospiratore solitario. Anzi, dal verbale redatto da Secchia, sembra quasi che sia Longo a preme-

  Ivi, p. 230.   Agosti, Togliatti. Un uomo di frontiera cit., p. 386.

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re: «L. mi chiese: ‘Tu credi che non ce la caveremmo?’ ‘Ce la siamo cavata da soli durante la guerra di Liberazione’»46. Scrive Secchia, riguardo a questo colloquio: Qualcuno negli anni scorsi insinuò che io e Lo[ngo] avevamo interesse personale, eravamo mossi dall’ambizione a ricoprire quei posti. Per quanto mi riguardava qualunque sia il giudizio che si possa dare di me, la supposizione non regge perché in mancanza di T. io sarei rimasto vice segret. posto che già occupavo con T. Per mè [sic] non c’era dunque alcun avanzamento in vista, anzi semmai il contrario perché Lo[ngo] avendo bisogno di essere appoggiato da qualche compagno con qualità parlamentari ed esterne, con ogni probabilità si sarebbe profilata la necessità di creare una segreteria con L. segret. e due vicesegret. (forse io e Pajetta, o io ed amendol. ma in quel momento la propensione era più per Pajetta). Ma dei calcoli così grettamente personali non c’erano in me, e credo di poter escludere ci fossero anche in L. C’erano invece, anche se non ne parlavamo, evidentemente delle considerazioni politiche. Tanto io che L. sentivamo che con t. il p. si sarebbe andato sviluppando come un p. socialdem. Non era dal 1951 che ne avevamo la sensazione, ma fin dal 1945. Giugno 1945 nostro colloquio girando attorno al colosseo. Caro l. [Longo] ancora una volta siamo rimasti fregati; qui il governo conta un cazzo, ma è la sola cosa di cui si occupa t. [Togliatti] la Resistenza è svalutata, i C.L.N. li vogliono smobilitare. «In parte dipende anche dal fatto che non si sono trovati loro al nord (alludeva a nenni e a t.). Se ci fossero stati loro ed altri dei grandi che oggi governano forse ci sarebbe una maggiore valorizzazione della Resistenza». «Tra quelli che votarono a favore perché T. andasse a Praga ci fu amendol. (Pajetta si astenne o votò contro spiegando poi che tanto, così egli pensava, non se ne sarebbe fatto nulla. La Noce votò contro. Di Vitt. non c’era)»47.

Spetta a Secchia e a Colombi andare a Mosca a comunicare a Togliatti la decisione della direzione. I due dirigenti lo trovano «indignatissimo [...]. Egli volle innanzitutto conoscere i nomi dei compagni che avevano votato a favore»48. 46  FGF, Fondo Secchia, Serie documenti, Contenitore 14, f. 7, Affare S., Appunti di Secchia, s.d., p. 1. 47  Ivi, p. 2. Si veda anche Secchia, Quaderno n. 4 cit., p. 437. 48  Promemoria, p. 231.

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Togliatti si sente tradito dai compagni della direzione e Secchia e Colombi si trovano davanti un muro di gomma. Non c’è argomentazione che tenga, Togliatti è risoluto. E scaltro: egli, infatti, dirà ai sovietici di dover ritornare in Italia per organizzare il congresso del partito e che però, una volta conclusa l’assise, si sarebbe trasferito all’estero per il nuovo incarico. Tutti, compresi i sovietici, sanno che si tratta di un trucco. Togliatti se la prenderà molto con Secchia: «Tu che conoscevi quanto sono sempre stato contrario a restare all’estero alla direzione di organismi internazionali non avresti dovuto votare a favore di una tale decisione»49. E da questo momento i rapporti fra i due saranno definitivamente compromessi: «Togliatti non perdonò mai a me di aver allora aderito a quella proposta che egli considerava diretta contro di lui. Non so in che misura l’abbia perdonato a Longo. So che con D’Onofrio ce l’aveva in modo particolare perché riteneva che D’Onofrio fosse stato il primo ad averla favorita»50. La questione dalla direzione non verrà più affrontata e le braci del risentimento verso Secchia coveranno sotto la cenere dei normali rapporti di partito, fino a incendiarsi in occasione del caso Seniga col quale sarà offerta a Togliatti, su un piatto d’argento, la possibilità di fare i conti, una volta per tutte, col suo vice. Il VII Congresso del Pci si apre il 3 aprile 1951. Ma al congresso della federazione di Milano Togliatti aveva già anticipato la proposta più dirompente del congresso: aveva affermato che il Pci avrebbe rinunciato all’opposizione in Parlamento e nel Paese nel caso il governo avesse modificato la propria politica estera, lavorando per impedire all’Italia di essere «trascinata nel vortice di una nuova guerra»51. Il netto cambiamento a cui pensa Togliatti è niente meno che l’uscita dell’Italia dalla Nato, un’ipotesi che nemmeno il più ottimista dei comunisti poteva ritenere all’ordine del giorno L’alternativa guerra-pace è al centro della riflessione togliattiana di questo periodo, e pervade il suo rapporto al congresso. Quella che Togliatti fa al VII Congresso è una proposta «tanto moderata e mini  Ibid.   Ivi, p. 232. Della vicenda si veda anche la ricostruzione di Giorgio Bocca nel suo Palmiro Togliatti, Laterza, Roma-Bari 1973, pp. 547 sgg. 51  Agosti, Togliatti. Un uomo di frontiera cit., p. 389. 49 50

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malista da lasciare agli avversari il sospetto che nasconda un qualche machiavellico disegno di sovversione»52. Si tratta di una posizione che mal si concilia con quella di Secchia, che proprio al congresso sottolineerà, ancora una volta, la necessità di ricostruire un partito in cui i quadri fossero al centro dell’organizzazione. Nel suo intervento Secchia, riprendendo alcuni temi del rapporto di Togliatti e altri già formulati durante la riunione del Comitato centrale dell’ottobre del 195053, afferma, infatti, che sebbene il partito abbia incrementato il numero degli iscritti, non conta «ancora nella vita del Paese per quello che potrebbe contare»54. Se i numeri, argomenta Secchia, possono rendere l’idea dell’entità dell’aumento degli iscritti, essi non riescono però a fornire una risposta all’interrogativo: «Che cosa fanno ogni giorno i 2.500.000 comunisti» nel Paese?55 Ciò che per Secchia è più urgente fare è esaminare «non i problemi della struttura del Partito, ma il lavoro degli uomini», ossia «qual è l’attività che i comunisti sviluppano, fuori del Partito; nelle organizzazioni democratiche di massa di cui fanno parte, nei sindacati, nelle cooperative, nei circoli popolari»56. Secchia immagina dunque un maggiore coinvolgimento degli iscritti nelle organizzazioni di massa e un’azione del partito fra i ­lavoratori non organizzati. Il modello per cui lavora il vicesegretario è articolato, perché prova a strutturare l’influenza del partito con una sorta di meccanismo delle scatole cinesi. Al centro c’è il partito con le sue sezioni e le sue cellule, poi ci sono le organizzazioni di massa nelle quali gli iscritti al Pci devono esercitare la propria influenza, avendo a disposizione strati più ampi di lavoratori organizzati. Ma il vero problema che si inserisce nel modello organizzativo secchiano è rappresentato dai non organizzati che egli ritiene di poter intercettare attraverso le Commissioni interne, il tutto mediato dall’attività del sindacato che deve provare, afferma   Ivi, p. 390.   P. Secchia, Migliorare l’attività del Partito per rafforzare l’unità, le lotte e le organizzazioni dei lavoratori, in Verso il VII Congresso del Partito Comunista Italiano, Supplemento 4 del «Quaderno dell’Attivista», Roma 1950, pp. 73-99. 54  P. Secchia, Organizzare il popolo per conquistare la pace. Intervento al VII congresso nazionale del Partito comunista italiano, Edizioni di cultura sociale, Roma 1951, p. 5. 55  Ivi, p. 6. 56  Ivi, pp. 7-8. 52 53

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Secchia, a coinvolgere i non organizzati, per mostrare loro «l’importanza dell’organizzazione»57. Il fuoco a cui il ragionamento di Secchia vuole arrivare è quello della democrazia interna, della partecipazione degli operai alle scelte politiche: «La tendenza di certi dirigenti di qualche Camera del Lavoro o di qualche sindacato a decidere tutto dall’alto è una tendenza socialdemocratica, è un residuo delle tradizioni riformiste»58. Ma quello della democrazia non è l’unico perno attorno al quale ruota il ragionamento di Secchia, c’è anche – e forse soprattutto – il ruolo dei quadri: «Per aumentare il numero dei compagni attivi nel partito [...] noi dobbiamo aumentare il numero dei quadri del partito e soprattutto la solidità del quadro sul quale il partito si appoggia»59. Non sembra essere cambiato nulla dal VI Congresso, il partito a cui pensa Secchia è sempre lo stesso, buono per qualsiasi periodo, in qualunque temperie politica. Un partito che, nella sua visione organizzativa, sa essere flessibile proprio perché rigidamente organizzato. E la riattivazione del partito, per Secchia, passa attraverso il ruolo dei capigruppo, così come era stato stabilito al VI Congresso. Secchia cita infatti il dispositivo dell’assise precedente, ribadendone la piena validità: «Occorre dare al capo gruppo [...] una funzione non solo amministrativa, ma anche politica e suddividere tutti i compagni componenti una cellula in gruppi di otto o dieci». Per Secchia il capogruppo deve occuparsi di tutti gli aspetti che riguardano l’azione dei militanti, da quelli pratici a quelli ideologici, fino a «controllare se i compagni leggono la stampa di partito, pagano le quote, se studiano, se sono attivi nel sindacato e nelle organizzazioni di massa»60. Il capogruppo a cui pensa Secchia è l’attivista migliore, il più impegnato, il più dinamico. In questa proposta di Secchia si fondono almeno due elementi. Da un lato la sua esperienza di organizzatore di un partito d’avanguardia durante la lotta antifascista imprime al capogruppo un ruolo di organizzatore di avanguardie ristrette che devono essere omogeneizzate sia nella militanza che nella cultura politica. Dall’altro appare un riferimento implicito al ruolo svolto dagli ispettori e   Ivi, p. 15.   Ibid. 59  Ivi, p. 51. 60  Ivi, pp. 52-53. 57 58

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dai commissari politici durante la Resistenza. Il capogruppo sembra infatti una figura il cui scopo è educare alla militanza stabilendo i confini all’interno dei quali si devono muovere gli iscritti al partito; un educatore che deve essere in grado di incanalare l’attività degli iscritti verso un obiettivo comune contribuendo così, dal basso, alla costruzione di un partito numericamente di massa ma culturalmente di avanguardia, come nella Resistenza. 2. Sotto osservazione Dopo il voto della direzione a favore dell’invio di Togliatti a dirigere il Cominform, i rapporti fra Secchia e il segretario del Pci si guastano definitivamente. Avviene un cortocircuito, probabilmente non del tutto spiegabile. In fondo Secchia è stato soltanto uno di coloro che hanno votato a favore, assieme a Longo e ad Amendola, per citare due dirigenti destinati a rafforzarsi nel periodo fra il VII e l’VIII Congresso. In questa vicenda si sono infatti sommate questioni diverse: da un lato ci sono le divergenze fra Togliatti e Secchia che, sottovalutate dal secondo, sono invece caricate di particolare significato dal primo; dall’altro c’è Togliatti, che prima vedeva in Secchia un dirigente in grado di fare la scelta giusta al momento giusto e che ora è rimasto ferito dal fatto che questi non sia riuscito, o non abbia voluto, instradare il voto della direzione in modo a lui favorevole. Sebbene l’autorità di Secchia nel partito non sia ancora messa in discussione in alcun modo – almeno ufficialmente – possiamo dire che dopo il 1951 egli è sotto osservazione. La precarietà della sua posizione gli sarà chiara quando Spallone, il medico di Togliatti, lo metterà in guardia su un suo possibile allontanamento dai ruoli ricoperti. L’occasione è un viaggio di Secchia a Mosca, che Spallone gli sconsiglia di fare. Secchia, durante una lite con Leonida Roncagli, membro della commissione di organizzazione, circa la decisione di «impiantare dei microfoni nella casa di X [Togliatti?]», aveva avuto un infarto. Siamo alla fine del 1951, il 5 dicembre61. Che si tratti davvero di un infarto non è certo ma a Secchia viene comunque consigliato di   Promemoria, p. 233.

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prendersi un periodo di riposo, ovviamente in Unione Sovietica. È qui che entra in gioco Spallone, che gli sconsiglia di andare in Urss: «Mi consigliò di non andarci, facendomi chiaramente capire che io venivo mandato là con un pretesto, ma in realtà per trattenermi colà per lungo tempo onde sostituirmi in Italia. E cioè si approfittava per vendicarsi»62. Non ci sono in campo soltanto le congetture di Spallone, è anche Longo a mettere la pulce nell’orecchio di Secchia: «Prima che partissi [...], Longo mi aveva larvatamente accennato alla possibilità, nel caso che io dovessi restare sempre ‘menomato’ dal presunto infarto, di chiamare Pessi63 alla direzione della sezione di organizzazione, pur lasciando a me la carica di responsabile dell’organizzazione, ecc., ecc. Naturalmente poi non se ne fece nulla perché io non rimasi affatto ‘menomato’»64. Secchia ritornerà in Italia e non sarà dunque estromesso dal suo ruolo di vicesegretario e nemmeno da quello di responsabile dell’organizzazione, ma il fatto stesso che Longo avesse ventilato una sua sostituzione, anche se formalmente motivata da ragioni di salute, gli aveva fatto capire che il clima non era più lo stesso del 1945 o del 1946. Politicamente Secchia continua a ribadire, ogni volta che ne ha l’occasione, ciò che ormai va sostenendo da tempo: l’unità della classe operaia è una condizione fondamentale per la politica del Pci; la democrazia interna è lo strumento su cui deve poggiare l’attività sindacale; il Pci non deve avere sogni di autosufficienza ma piuttosto lavorare per mettersi alla testa di un movimento il più ampio possibile65. Il momento in cui questa unità, per il comunista, deve dare prova della sua incisività è la lotta contro la cosiddetta «legge truffa». In questa fase, così come durante la denuncia della repressione di Scelba, quello parlamentare non è più, per Secchia, uno strumento secondario. Secchia non aveva mai avuto molta fiducia, come ha scritto Collotti, «nella possibilità di realizzare trasformazioni decisive soltanto

  Ibid.   Si tratta di Secondo Pessi, destinato a divenire dirigente dell’organizzazione e membro della segreteria della Cgil. 64  Promemoria, p. 233. 65  Si veda, ad esempio, l’intervento di Secchia al Comitato centrale del giugno 1952 riassunto ivi, p. 234. 62 63

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con lo strumento parlamentare»66, ma in questa fase il Parlamento diventa per lui un luogo di denuncia. In particolare il comunista punta il dito contro le trame reazionarie delle quali si sostanzia la legge truffa. Ancora per impiegare le parole di Collotti, riguardo alla verbosità di Secchia, «se nelle sue parole [...] riecheggiava l’ipotesi di una alternativa rivoluzionaria era perché dall’altra parte si faceva pendere la minaccia di un arresto forse definitivo dell’espansione del movimento popolare in Italia»67. C’è un testo importante di questo periodo. Si tratta dell’intervento pronunciato in Senato il 13 marzo 1953, poi dato alle stampe col titolo La nostra lotta per la libertà, la pace e la Costituzione68, nel quale è condensata la posizione di Secchia sul ruolo del partito nella lotta contro la legge truffa. Secchia usa il Parlamento, anche in questo caso, come un megafono puntato sulla società: «noi diciamo oggi anche da questa tribuna agli operai, ai contadini, ai lavoratori, agli intellettuali d’avanguardia, a tutti i democratici: manifestate, lottate, protestate, scioperate contro il progetto di legge truffa, accentuate la vostra azione, fate sentire il peso della vostra volontà perché solo la lotta ampia, larga, unita, compatta di tutti i democratici può impedire ai dirigenti clericali di proseguire su quella strada che ci riporta alla dittatura»69. Il clima che Secchia dipinge è di una gravità quasi senza precedenti. Per il comunista sono in gioco «la soppressione del suffragio universale e l’annullamento della Costituzione repubblicana»70. Per questo sottolinea come l’opposizione alla legge truffa debba essere particolarmente determinata e capace di andare oltre i discorsi in Parlamento. Essa, afferma Secchia, ha un carattere diverso dall’opposizione fino a quel momento condotta dai comunisti su altri temi. È un’opposizione radicale che «ha un carattere ben diverso che nel passato» perché volta a chiamare a raccolta «i lavoratori tutti [...] in difesa del   Collotti, Introduzione a Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 106.   Ibid. 68  P. Secchia, La nostra lotta per la libertà, la pace e la Costituzione, discorso pronunciato al Senato il 13 marzo 1953, Roma, 1953. Si veda anche Id., Le lotte del popolo per il suffragio universale. Discorso tenuto il 18 gennaio 1953 al Cinema Impero di Biella, Sateb, s.l. 1953. 69  Secchia, La nostra lotta per la libertà, la pace e la Costituzione cit., p. 20. 70  Ivi, p. 21. 66 67

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diritto di voto eguale, in difesa del Parlamento, in difesa della Costituzione repubblicana»71. Il compito che spetta ai comunisti, afferma Secchia, è di organizzare una vera e propria resistenza contro chi, attraverso la legge truffa, attenta alle istituzioni democratiche, alla «legalità repubblicana, viola[ndo] la Costituzione»72. Secchia, in questo suo discorso, offre un saggio della sua visione del Parlamento. Egli, infatti, pur con tutta l’insofferenza per un’assise paludata e burocratica, spesso avvitata in un’inerte autoreferenzialità, la sfrutta non per polemiche istituzionali, per scaramucce o per intrighi, ma per portare nelle aule parlamentari la voce delle masse lavoratrici. I discorsi che pronuncia in aula sono infatti sempre indirizzati in eguale misura alla compagine istituzionale delle forze politiche così come a quello che si può definire il «Paese reale». Secchia parla in Parlamento come parlerebbe in una piazza affollata, proprio perché non concepisce una divisione fra l’attività istituzionale e l’attività di massa. Abbiamo detto di quanto egli preferisca impegnarsi nel lavoro di partito piuttosto che in quello parlamentare, ciò non toglie che in alcune fasi egli si impegni proprio per lanciare nell’agone istituzionale temi che altrimenti ne rimarrebbero esclusi. È un discorso importante, quello di Secchia, non soltanto perché fa conoscere chiaramente qual è il suo orientamento rispetto a una strategia di lotta ma anche perché ebbe un’amplissima diffusione nelle fabbriche, e perché divenne il manifesto del Pci contro la legge truffa73. È proprio la battaglia contro la legge truffa, ormai approvata dalla Camera e in discussione al Senato, che impedirà a Secchia di andare a Mosca per partecipare ai funerali di Stalin74. Nel suo promemoria autobiografico, il comunista dedica soltanto una riga alla morte di Stalin. Si tratta di una scelta: egli sa benissimo di essere considerato uno degli stalinisti più stalinisti che ci siano nel Pci, e sa anche che questo suo Promemoria potrà un giorno finire pubblicato da qualche parte e dunque preferisce tenersi un po’ de  Ivi, p. 22.   Ivi, p. 23. 73  F. Onofri, Classe operaia e partito, Laterza, Bari 1957. Si veda anche Promemoria, pp. 236-237. 74  Ibid. 71 72

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filato, spostando piuttosto l’attenzione sui discorsi commemorativi di Togliatti e di Nenni e sulla decisione della Cgil di interrompere il lavoro nelle fabbriche il giorno dei funerali del dittatore sovietico. In occasione del dibattito al Senato sulla legge truffa, la linea fortemente aggressiva, almeno a parole, proposta da Secchia, se piacerà alla base del partito, darà invece qualche preoccupazione a Togliatti che vedrà nella proposta di Secchia di non entrare più in Senato fino a quando non ne sarà sostituito il presidente, il rischio di provocare una «guerra civile»: «Siamo in regime parlamentare – egli [Togliatti] mi disse – se noi ci rifiutiamo di entrare in Parlamento ciò significa portare la lotta su di un altro terreno». Ribadisco che non si tratta di questo: vi è una incompatibilità, è il presidente del Senato che ha violato tutti i regolamenti, quel presidente non può più essere il presidente del Senato. O lo cacciano via o noi non mettiamo più piede in quell’aula75.

Per Secchia questa discussione col segretario rivelerebbe proprio il principale snodo del dissenso fra lui e Togliatti in quella fase, ossia il ruolo delle masse: Ancora una volta si manifestava la concezione parlamentaristica che Togliatti ha della lotta politica, per cui di fronte ad un rischio (che c’è sempre in ogni lotta) si finisce per cedere sul terreno della lotta di massa, di limitarla, di contenerla, comunque si finisce per scegliere la strada che ci pone ben al sicuro dentro la «legalità»76.

La Cgil proclamerà poi lo sciopero generale, e le Camere verranno sciolte di lì a poco, eliminando così il motivo di dissenso fra Togliatti e Secchia. Ciò non toglie che in questa fase il lavoro politico svolto dal dirigente comunista sia stato di grande importanza, sia rispetto all’orientamento del partito, sia nel rapporto fra il partito e le masse. Quella contro la legge truffa è l’ultima grande battaglia politica che vede Secchia ricoprire un ruolo di primo piano. Se i rapporti fra Secchia e Togliatti non sono più idilliaci, la fiducia del segretario verso il suo vice non sembra però essere venuta meno   Ibid.   Ibid.

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del tutto. È per questo che in luglio sarà lo stesso Togliatti a inviare Secchia in Unione Sovietica, per ricevere delle comunicazioni importanti: «In fondo sei il solo di cui mi possa fidare», gli avrebbe detto Togliatti77. È un momento importante nella storia del comunismo internazionale. Stalin è morto, Beria è stato arrestato, la destalinizzazione sta muovendo i suoi primi e contraddittori passi. E Secchia, di fronte a quel Krusciov di cui certo ricordava le parole al XIX Congresso del Pcus (ottobre 1952) quando si era rivolto al «nostro amato capo e maestro compagno Stalin»78, è attonito: «Sono sconvolto, è chiarissimo che non può non esserci in tutto quello la responsabilità di Stalin e di chi con lui stava alla testa del partito e dello Stato. Le accuse contro Beria hanno l’aria della montatura, sembrano non stare in piedi. Può darsi benissimo abbia cercato di ‘prendere il potere’ ma è difficile credere alla solita cosa, che egli fosse ‘al servizio degli imperialisti’, ecc., ecc.»79. Il contenuto del dialogo fra Secchia e i sovietici ci è stato tramandato da un resoconto scritto dallo stesso Secchia e trafugato poi da Giulio Seniga in occasione della sua fuga. In questo resoconto, lasciando da parte le considerazioni sulla fase politica, molta parte è dedicata a Beria e alle accuse dei sovietici al loro ex Ministro degli Interni80. Ma il caso Beria – e ciò appare anche dagli appunti di Secchia – è l’occasione per parlare di altro. In particolare delle «serie irregolarità apparse negli ultimi anni nella vita del Partito e nei metodi di direzione del Partito»81. È evidente, e lo fu anche a Secchia, come sotto le quiete sembianze del richiamo all’unità del partito e alla direzione collegiale, si nascondesse molto di più di ciò che si poteva racchiudere nella laconica formula «serie irregolarità apparse negli ultimi anni nella

  Ivi, p. 239.   L. Canfora, Da Stalin a Gorbačëv: come finisce un impero, in D. Losurdo, Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci, Roma 2008, p. 317. 79  Promemoria, p. 240. Si veda anche la relazione che Secchia svolge in Direzione il 17 luglio 1953, in APC, Fondo Mosca, Direzione, 1953, mf. 131, in particolare pp. 2-4. 80  Il documento è pubblicato in G. Seniga, Togliatti e Stalin. Contributo alla storia del Pci con il testo integrale nella stesura autografa di Pietro Secchia del documento che anticipa di tre anni la svolta del Rapporto Kruscev, SugarCo, Milano 1978, pp. 53-68. Il rilievo dato da Seniga a questo documento è evidente anche dal fatto che un’immagine degli appunti autografi di Secchia è riprodotta in copertina. 81  Ivi, p. 63. 77 78

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vita del Partito». È il passaggio da un’era all’altra, un passaggio che metterà anche i «partiti fratelli» di fronte alla necessità di cambiare. Al suo rientro in Italia, Secchia comunica soltanto alla direzione quanto appreso a Mosca, senza troppi particolari: ma «l’essenziale lo riferii», dirà82. Secchia viene incaricato da Togliatti di scrivere un articolo per «Rinascita»: «è il solo articolo che ho scritto sulle fucilazioni», annoterà, a scanso di equivoci, nel suo diario83. L’articolo di Secchia, intitolato Insegnamenti del caso Beria, viene pubblicato nella prima pagina della rivista del Pci, con grande risalto84. Secchia è assai prudente85 ma concentra l’attenzione su un aspetto che poi, col trascorrere del tempo, caricherà di particolare significato, soprattutto rispetto alla direzione togliattiana. Si tratta del tema della direzione collegiale, che è inestricabilmente intrecciato a quello del «culto della personalità»86. Il caso Beria offre sia a Secchia, sia a Togliatti alcune armi per criticarsi a vicenda. Fra i due ormai il dissenso si è acutizzato, e il fatto più recente sul quale aveva avuto occasione di uscire allo scoperto erano state le dichiarazioni del nuovo presidente del consiglio Pella. Il fatto che questi non avesse assunto le solite posizioni ferocemente anticomuniste della Dc e avesse mostrato la volontà di non asservirsi del tutto alla politica estera statunitense aveva indotto Togliatti a pronunciarsi per una sorta di opposizione morbida87. Secchia invece non era affatto convinto della sincerità delle parole di Pella, che giudicava «vaghe, generiche ed anche contraddittorie»88, e pensava che Togliatti fosse eccessivamente fiducioso89.   Promemoria, p. 240.   Ibid. 84  P. Secchia, Insegnamenti del caso Beria, in «Rinascita», luglio 1953, pp. 393397. 85  Agosti, Togliatti. Un uomo di frontiera cit., p. 413. 86  Secchia, Insegnamenti del caso Beria cit., p. 397. 87  Agosti, Togliatti. Un uomo di frontiera cit., pp. 410-412. 88  P. Secchia, Le parole e i fatti del governo Pella. Discorso pronunciato al Senato della Repubblica nella seduta del 21 agosto 1953, Tipografia del Senato, Roma 1953, p. 16. Si veda anche l’intervento di Secchia alla Direzione del 5 novembre 1953 in APC, Fondo Mosca, Direzione, 1953, mf. 131, p. 7 nel quale afferma che «la stanchezza che si nota nel partito deriva dalle incertezze politiche sulla nostra posizione verso il Governo Pella». 89  Promemoria, p. 240. 82 83

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Dunque Secchia capisce bene che la leva della direzione collegiale, la richiesta di una maggiore democrazia interna e la critica al culto della personalità – che nel Pci significa culto della personalità di Togliatti – possono tornargli utili per provare a intervenire su una linea che ora davvero gli pare troppo timida. Ma, allo stesso tempo, anche Togliatti vede nella richiesta di maggiore democrazia interna una possibilità di mettere mano all’apparato organizzativo che Secchia gestisce da accentratore. Come ha scritto Agosti, «tutta la polemica è indiretta, cifrata, ed è difficile dire quanto sia compresa non solo dalla base, ma dagli stessi quadri intermedi del partito: sta di fatto che il conflitto fra Togliatti e Secchia, per quanto sotterraneo, si inasprisce e si avvia a un punto di non ritorno»90. Secchia, ritornando con la memoria a questi passaggi, sottolineerà molto la sua determinazione nel porre «il problema della discussione politica e della direzione collettiva»91 ma l’incisività dei suoi interventi e dei suoi scritti viene in qualche misura attenuata da due elementi non marginali: da un lato Secchia ha sempre partecipato attivamente alla creazione del culto della personalità di Togliatti92, dall’altro il suo modo di gestire la commissione di organizzazione si basa su metodi fortemente accentratori. Secchia, quindi, nel duello cifrato con Togliatti è sicuramente in una posizione di svantaggio rispetto al suo antagonista. E dunque prova a rafforzarsi rendendo pubbliche, oltre i confini del gruppo dirigente del partito, le sue critiche, ma sempre in modo piuttosto velato. È il caso dell’intervento al Comitato centrale di dicembre, che verrà pubblicato sull’«Unità» il 9 e che Secchia stesso commenterà anni dopo notando come «è chiaro che l’accento indica che vi è sempre più una differenziazione tra l’indirizzo che imprime Togliatti e quello che vorrei imprimere io al partito»93. Qualche spiegazione in più merita l’impronta data da Secchia all’organizzazione del partito, perché essa rappresenta sia il suo 90  Agosti, Togliatti. Un uomo di frontiera cit., p. 413. Si veda anche M. Lazar, Unité et crises des PC ouest européens 1947-1960, in «Communisme», 1991, 29-31. 91  Promemoria, p. 241. 92  Si veda, ad esempio, P. Secchia, Il nostro dovere, pubblicato sull’«Unità» del 18 luglio 1948. Si vedano anche le osservazioni in merito di F. Andreucci, Falce e martello. Identità e linguaggi dei comunisti italiani fra stalinismo e guerra fredda, Bononia University Press, Bologna 2005, p. 183. 93  Promemoria, p. 242.

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contributo più importante al Pci, sia l’elemento che potrà far sì che la sua estromissione dal gruppo dirigente del partito non venga motivata col solo «caso Seniga» ma anche come una scelta politica, compiuta per imprimere al Pci una sorta di nuovo corso, più adatto ai tempi. È stato proprio Secchia a sottolineare come politica e organizzazione non siano due ambiti separati ma due facce della medesima medaglia94. È quindi opportuno prendere in esame il modello organizzativo secchiano come se si trattasse delle fondamenta sulle quali poggia un modello politico. Marcello Flores, molti anni fa, aveva messo in discussione il fatto che Secchia fosse portatore di una linea politica alternativa a quella di Togliatti95. Si tratta di un giudizio non episodico, che poi il medesimo studioso avrebbe confermato anni dopo in modo più complesso e articolato96. I punti fermi a cui è necessario ancorare un’interpretazione della posizione politico-organizzativa di Secchia sono pochi ma di fondamentale importanza. Da un lato vi è la proposta di una democrazia progressiva che non viene mai messa in discussione, né in pubblico né in privato; dall’altro vi è un rispetto non formale per le regole della democrazia repubblicana, una democrazia che anzi viene difesa attivamente da Secchia attraverso l’attività parlamentare e di massa in favore dell’applicazione della Costituzione. Vi è infine una sincera adesione alla prospettiva di unità della classe operaia, a una politica frontista che ha come scopo quello di massimizzare i risultati dell’azione delle classi subalterne senza troppi arroccamenti identitari. All’interno del territorio politico recintato da questi valori, Secchia struttura una sua posizione, così come avviene e avverrà per altri dirigenti: da Amendola a Ingrao, da Berlinguer a Cossutta. Ciò che si tratta di verificare è se la visione politica di Secchia fosse in contrasto con quella di Togliatti su elementi strutturali oppure su questioni marginali. Se, insomma, Togliatti e Secchia fossero, in particolare nella fase più aspra di dissenso, portatori di due linee al-

  Secchia, L’arte dell’organizzazione cit.   Flores, Introduzione a Il «Quaderno dell’attivista» cit., pp. 24-25. 96  Flores, Gallerano, Sul Pci cit. Si veda anche Collotti, Introduzione a Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 101. Utile ed equilibrato anche B. Groppo, Les divergences entre Togliatti et Secchia et l’évolution politique du Parti communiste italien, 1944-1954, in «Communisme», 1986, 9, pp. 35-51. 94 95

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ternative oppure semplicemente di due modi diversi di concepire la stessa linea. Di questo si discuterà più ampiamente in un altro punto di questa biografia. Per ora cerchiamo di capire, dopo aver enunciato quali sono le mura che recintano la posizione politica di Secchia, quali sono le tramezze interne, ossia le peculiarità che hanno portato a parlare di una linea togliattiana e una secchiana (la prima a parlare di «secchiani» e «togliattiani» è Marcella Ferrara nel 1954, in occasione delle indagini sulla fuga di Seniga)97. Se il giudizio di Flores del 1976 è per certi versi schematico, per altri è assai utile. Lo storico elenca infatti con molta chiarezza quali sono le specificità della concezione secchiana della lotta politica: «Il carattere democratico e costituzionale del processo che dovrebbe portare al socialismo in Italia non è mai stato messo in dubbio: caso mai si propone una organizzazione più attenta e militante, capace di pesare maggiormente in un momento di crisi, interna o internazionale, che però, come dimostrano le agitazioni successive all’attentato a Togliatti, non può di per sé presentarsi come una strategia differente»98. C’è però dell’altro. Secchia chiede radicalità e lavora per la radicalità all’insegna di un atteggiamento che si fonda sull’idea che tra il non fare nulla e il fare la rivoluzione ci sia tutto un tratto politico da percorrere. E poi c’è la questione del Parlamento, nel quale Secchia, in linea con una tradizione antiparlamentare di cui subì il fascino in giovinezza, ha sempre avuto poca fiducia. Il Senato, la Camera, sono soltanto due dei luoghi nei quali condurre la lotta politica, e fra tutti i luoghi a disposizione non sono certo fra quelli più importanti. Secchia è un teorico della lotta di massa, della battaglia nei luoghi di lavoro, nelle organizzazioni collaterali, nel sindacato. E quando interviene al Senato, come abbiamo visto, lo fa per spalancare le porte di quell’assemblea grigia e paludata, per farvi entrare i rumori della piazza, le istanze di chi sta fuori. Se da un lato egli impiega il Senato per portare all’attenzione del governo i problemi del suo territorio, dall’altro usa il suo mandato facendone cassa di risonanza di istanze che provengono dal mondo delle classi subalterne. Come ha scritto Collotti, «spingere al massimo» è una delle espressioni che Secchia impiega per esprimere la propria concezio97  Interrogatorio a Marcella Ferrara, in APC, Caso S, mf. 021, v. II, f. 6, Interrogatori (Appunti Scoccimarro), p. 430. 98  Flores, Introduzione a Il «Quaderno dell’attivista» cit., p. 24.

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ne della lotta99. E Secchia prova a «spingere al massimo» all’interno di confini ben definiti che non intende mettere in discussione. Per il dirigente comunista il Pci, per ottenere il massimo possibile dalla propria azione, deve essere organizzato fondendo in sé tutti gli aspetti positivi del partito di quadri con quelli del partito di massa. Una massa di quadri, si potrebbe dire, è quella che Secchia ha in mente quando punta sul ruolo dei collettori, dei capigruppo, dei dirigenti periferici, così come quando spinge per la formazione ideologica, per quella che in un’occasione definisce «sicurezza ideologica»100, senza la quale è impossibile impostare una politica coerente e incisiva. Se dopo le elezioni del 1953, che non fecero scattare il premio di maggioranza della legge truffa vanificandone gli effetti, le critiche di Secchia tendono a uscire sempre più allo scoperto, egli non organizza però una fronda interna contro Togliatti. Sa di essere sotto osservazione – glielo avevano fatto capire Spallone e Longo – ma è anche cosciente del fatto che a Togliatti lo lega quel vincolo di reciproca fiducia che il segretario gli ha dimostrato l’ultima volta quando lo ha inviato a Mosca per sentire quelle comunicazioni che avrebbero fatto da preludio al XX Congresso, ed è inoltre cosciente del ruolo importante svolto nel partito, in Parlamento e fra le masse, nella lotta contro la legge truffa. Non è quindi questo un periodo in cui Secchia sia particolarmente debole, nonostante i mutamenti che sono nell’aria. Nelle sue Memorie perché si sappia la verità scriverà: «Chiunque con i suoi atteggiamenti favorisce l’indebolimento della classe operaia e della sua avanguardia coscientemente o no aiuta il nemico. Ecco perché non potevo e non dovevo fare nulla che potesse indebolire l’unità del partito o essere comunque di danno alla sua compattezza, alla sua capacità di lotta»101. Ha ragione Collotti a interpretare questa posizione «come parte di quell’etica politica nella quale egli [Secchia] si riconosceva e in funzione della quale egli orientò tutto il suo agire politico»102. È stato testimoniato in diverse

  Collotti, Introduzione a Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 101.   Così in un articolo intitolato Invito ai compagni per lo studio individuale pubblicato sull’«Unità» del 19 febbraio 1950. Si veda Andreucci, Falce e martello cit., p. 126. 101  Secchia, Quaderno n. 4 cit., p. 416. 102  Collotti, Introduzione a Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 100. 99

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occasioni, proprio da chi avrebbe voluto vedere in Secchia l’organizzatore di una fronda interna al Pci, come il comunista biellese non abbia mai accettato questo ruolo. Se Bruno Fortichiari esclude che Secchia sia stato il capo di una «opposizione interna» al Pci103, Angiolo Gracci racconta di un episodio del settembre 1966, quando si era recato da Secchia per proporgli di assumere la guida del Partito comunista d’Italia (marxista-leninista), un’organizzazione di fuoriusciti dal Pci. Ma Secchia aveva fatto fallire la «missione» di Gracci senza nemmeno dargli modo di esplicitare la proposta104. Il Pci, per Secchia, è infatti l’unico luogo politico nel quale possono avere cittadinanza delle speranze di cambiamento, l’unico agente politico che ha la ragionevole speranza di mutare gli equilibri di potere in Italia, l’unico vero e autentico rappresentante e catalizzatore delle istanze della classe operaia. E, soprattutto, l’unica forza politica che ha la possibilità di divenire maggioritaria nel Paese. È per questo che anche negli anni più tristi e duri, dopo la sua esclusione dal gruppo dirigente fra 1954 e il 1955, egli non si scaglia mai contro il partito ma contro di «loro», contro un «loro» nel quale ricomprende tutti quei dirigenti che gli hanno remato contro, che lo hanno «fatto fuori».

103  B. Fortichiari, Comunismo e revisionismo in Italia. Testimonianza di un militante rivoluzionario, prefazione di L. Cortesi, Tennerello, Torino 1978, pp. 183-184. 104  A. Gracci, Prefazione a F. Dubla, Secchia, il Pci e il ’68, Datanews, Roma 1998, pp. 10-15.

VII Il «caso S.» Il 27 luglio 1954 Secchia finisce seppellito sotto i calcinacci del suo mondo che, improvvisamente, si sgretola. È un giorno di svolta nella sua vita. Un giorno la cui memoria lo tormenterà per i successivi 19 anni. Fino alla morte. Il rivoluzionario professionale, sempre in prima linea a dare battaglia, improvvisamente viene depredato del suo ruolo e si ritrova finito. La sua impalcatura perfetta, quell’organizzazione fatta di depositi segreti di documenti e di denaro, di una rete di compagni fidatissimi per il «lavoro riservato», di rapporti costruiti in anni di militanza, quell’universo di punti di riferimento, tutto d’un tratto si affloscia e lo lascia solo davanti all’ineluttabilità dei fatti. Il suo più stretto collaboratore, Giulio Seniga, il 25 luglio decide di andarsene da Roma portando con sé un’enorme somma di denaro, sottratta dai fondi di riserva del Pci, e qualche documento. Quel 25 luglio è per Secchia una giornata come tante altre, con in più un comizio da tenere a Torino per l’anniversario della caduta di Mussolini. A Roma è solo col figlio Vladimiro e col fidato Seniga mentre la moglie Alba se n’era andata in campagna per sfuggire alla calura della capitale1. Seniga avrebbe dovuto accompagnare Secchia a Torino quel sabato, ma un improvviso attacco di ulcera (probabilmente inventato ad arte) lo aveva costretto a rimanere a Roma.

1  Si veda la ricostruzione di quella giornata fatta da Miriam Mafai nel suo L’uomo che sognava la lotta armata cit., p. 114. Una ricostruzione piuttosto accurata si trova anche in M. Caprara, Lavoro riservato. I cassetti segreti del Pci, Feltrinelli, Milano 1997, cap. 33.

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La domenica Seniga propone a Vladimiro di andare al cinema: lo accompagna, gli paga il biglietto e poi gli promette di passare a riprenderlo alla fine dello spettacolo. Ma a prendere Vladimiro Seniga non ci andrà, scomparendo nel nulla2. Rientrato a Roma lunedì, Secchia trova il figlio da solo. Inizia così per il vicesegretario del Pci un’infilata di giorni da dimenticare. Secchia riceverà di lì a poco una lettera3 alla quale Seniga ha affidato le ragioni della sua fuga. Nello scritto Seniga accusa Secchia e accusa il partito4: scrive che «il movimento operaio italiano è stato un’altra volta imbarcato su una strada in fondo alla quale non ci sarà che il fallimento completo»5. E chiama in causa Secchia: «A differenza di te io però non sono persuaso che ormai non c’è più niente da fare e quindi non ci resta che aspettare – ‘siediti sulla riva...’ – che arrivino quelli. Sono convinto invece che qualcosa di più e di meglio di [sic] può ancora fare, anche se il tempo ed il terreno perduto in questi 9 anni non sono cosa da poco»6. E poi ancora: «Per questo ho deciso dopo lunga ponderazione di fare questo passo estremo al solo scopo di contribuire a richiamare alla realtà, al buon senso e a maggiore senso di responsabilità chi si è assunto il compito di mettersi alla testa del Partito. Non credo di aver agito alla leggera e soprattutto sono convinto che ciò gioverà a rompere quel costume di omertà politica e morale che tanto danno ha portato a noi in Italia e ovunque si è manifestato»7. La lettera di Seniga sembra scritta apposta per mettere Secchia in difficoltà non soltanto per l’azione che il mittente sta compiendo ma, se così si può dire, su un piano più pienamente politico. Seniga infatti insinua, scrive lasciando messaggi fra le righe e scrive soprat  Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata cit., p. 114.   La lettera fu scritta da Seniga a Milano, a casa del giornalista Gianni Brera, poi inviata alla moglie Anita Galliussi e da questa mandata a Secchia: M.A. Serci, Introduzione a G. Seniga, Credevo nel partito, a cura di M.A. Serci e M. Seniga, BFS, Pisa 2011, p. 23. Nella ricostruzione delle vicende connesse al rapporto fra Seniga e Secchia mi sono stati utili alcuni colloqui avuti a Roma con Maria Antonietta Serci che ha curato il riordino dell’archivio di Giulio Seniga, con Anita Galliussi Seniga e con Martino Seniga. L’archivio di Giulio Seniga, depositato da tempo presso la Camera dei Deputati, nel momento in cui scriviamo ancora attende di essere reso accessibile agli studiosi. 4  La lettera è in APC, Caso S, mf. 021, f. 1, Lettera e documenti. 5  Ivi, p. 2. 6  Ibid. 7  Ibid. 2 3

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tutto sapendo che la sua lettera è destinata a finire nelle mani del partito. Probabilmente il suo intento è screditare Secchia agli occhi della direzione del Pci, spingendolo magari a rompere anche lui con Botteghe Oscure. In un passo della lettera si legge: «Interiormente – anche se non sempre ti poteva apparire – non ho mai approvato il tuo operato personale e politico. È vero che una parte delle tue posizioni – quelle di finto sinistrismo [–] mi interessavano ed anche ci credevo perché sentivo e pensavo che a qualcosa servissero. Ma poi ho visto che anche ciò era una farsa»8. E poi ancora, sul piano più intimo e personale: «Non ho mai avuto dubbi sul tuo passato fino a quando tu non mi hai dato modo di riflettere ed anche di dubitare. Comunque se hai dei torti o delle colpe, ritirati e dedicati sul serio alla casa e alla tua prospettiva famigliare (i mezzi non ti mancano) e continua l’opera bella – anche se piena di difetti – verso quei due figlioli. Se invece sei a posto in tutti i sensi (e tu solo lo sai) allora battiti in seno al Partito per affermare i giusti principi ed il giusto costume»9. Seniga ci tiene a sottolineare come egli abbia agito da solo: «Ti prego di credere che in tutta questa faccenda non sono stato consigliato, né spinto da alcuno, e di conseguenza non sono legato a nessuno né direttamente né indirettamente. Se cercherò un aggancio o un legame lo farò solo verso quei gruppi avanzati della classe operaia che isolatamente e in forme diverse e non organizzate hanno sempre manifestato sfiducia e scetticismo verso la politica accomodante del Partito»10. Seniga scrive rivendicando la natura tutta politica della sua operazione e si rivolge a Secchia in modo perfino sprezzante: «Se vuoi andare in ferie, senza dire nulla a loro, fallo pure: non sarò io a provocare il ritorno. Se invece vuoi approfittare per dare battaglia onde evitare di essere aggredito da chi lo farebbe volentieri, vedi tu. Digli anche che l’irreparabile l’hanno provocato loro con tutte le loro Iotti, Magnani e porcherie del genere»11. Seniga afferma nella lettera di voler stare a guardare per verificare se «la lezione vi è servita e qualcosa cambierà» e soltanto in quel caso, dice, avrebbe fatto ritorno «con armi e bagagli»12.   Ibid.   Ibid. I due figlioli sono il figlio Vladimiro e il nipote Alfio Panella. 10  Ivi, pp. 2-3. 11  Ivi, p. 3. 12  Ibid. 8 9

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Le «armi e bagagli» di Seniga sono soprattutto soldi, molti soldi, provenienti da quei «fondi di riserva» che il Pci ha conservato in contanti, provenienti dal finanziamento costante che i sovietici facevano giungere attraverso la loro ambasciata in Italia. Si tratta di fondi illegali per il sistema di finanziamento della politica. Un’illegalità che mette Seniga al riparo da eventuali denunce per furto che il partito non può fare per non palesare l’esistenza di questo canale di approvvigionamento finanziario. Secchia non andrà in vacanza, e non lascerà nemmeno passare un po’ di tempo prima di mettersi sulle tracce di Seniga che da quel momento, nei suoi scritti e nei documenti di partito, diventa soltanto «S.». Secchia è sconvolto, lo coglie un collasso nervoso e la sua condizione appare ai compagni a lui più vicini talmente difficile da indurre Moscatelli a nascondergli la pistola, onde evitare gesti estremi13. Giulio Seniga, di Cremona, è un ex operaio dell’Alfa Romeo che aveva fatto la Resistenza con Moscatelli. Questi probabilmente è il tramite attraverso cui Seniga giunge nel 1947 a Roma, all’ufficio di Secchia14. Diventa vice-responsabile della commissione di vigilanza e il partito gli fa anche prendere il brevetto di volo per essere in grado di pilotare un aereo pronto a portare all’estero i dirigenti del Pci in caso di pericolo. In breve diviene il più stretto collaboratore di Secchia e gli vengono affidati incarichi delicati, fra cui quello di distribuire in luoghi sicuri i cosiddetti «fondi di riserva del partito». Sveglio, attraente, con un’aria così diversa dal grigiore dei funzionari del Pci, sempre con la pistola tenuta ostentatamente in una fondina sotto il braccio, Seniga è un personaggio da film, più che da partito politico. A Secchia lo legherà un rapporto di amicizia, oltre che di collaborazione. Un rapporto che verrà scandagliato, fin nelle sue pieghe più nascoste, quando si indagherà sulla sua fuga, ma comunque un legame stretto sul quale Secchia contava e che quindi gli rende ancora più dura l’accettazione di quello che è accaduto. Dal partito verrà nominata una «commissione per le indagini preliminari» sulla fuga di Seniga composta da Platone e Amadesi e   Bocca, Palmiro Togliatti cit., p. 574.   Verbale riunione della Commissione di organizzazione del 28-29 gennaio 1947 allegato a Verbale Segreteria del 9 febbraio 1947, in APC, Fondo Mosca, Verbali segreteria (1944-1948), mf. 268. 13 14

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presieduta da Scoccimarro15. E la commissione metterà in piedi una vera e propria indagine, fatta di interrogatori (una settantina), lettere, documenti, verbali che vale la pena di ripercorrere con una certa attenzione sia per restituire il clima del Pci negli anni Cinquanta, sia per mettere ordine in una vicenda intricatissima. Si sa, da un manoscritto in cui Togliatti relaziona su un incontro avuto col cognato di Seniga, che il collaboratore di Secchia «partito da Roma, si recò dalla Silvia e a mezzo questa avvertì la famiglia. Tina, moglie di Giacomo [il cognato di Seniga], al sentire la notizia avrebbe avuto un mezzo accidente, per cui sarebbe stata alcuni giorni malata. Parla dei viaggi di Locarno, Lugano, in Francia (qualcuno, forse la Silvia, ma non sono riuscito a farglielo dire con precisione, lo avrebbe accompagnato alla frontiera francese). La Silvia avrebbe visto una valigia dove il S. avrebbe i ‘documenti’, ma non ne avrebbe visto il contenuto»16. Da questo rapporto esce un aspetto interessante che riguarda il denaro che Seniga ha rubato e che può aiutare a quantificarne l’entità. Togliatti scrive: «Circa l’entità del fatto, gli ho detto che il furto del S. riguarda una somma accantonata per fare la tipografia dell’Unità. A noi interessa recuperarla e per questo – ho aggiunto – se vi sarà la restituzione non infieriremo contro il S.»17. Da questo appunto si intravede l’entità della somma di cui Seniga si è appropriato: una somma enorme che è stata quantificata in circa un milione di dollari dell’epoca18, ossia 620 milioni di lire che, attualizzati secondo i tassi di rivalutazione, sono pari a più di 9 milioni di euro di oggi19.

15  Verbale scritto a mano da Togliatti della riunione di Segreteria del 1° settembre 1954, ivi, p. 12. 16  Ivi, pp. 20-21. 17  Ivi, p. 22. 18  I. Montanelli, M. Cervi, L’Italia del miracolo economico, Rizzoli, Milano 1987, p. 293. Di circa 600 milioni di lire parla anche un documento dei servizi segreti del 25 settembre 1970, in Archivio DCPP, f. cat. Z, Secchia Pietro. Il documento mi è stato messo a disposizione da Aldo Giannuli. Miriam Mafai, che poteva contare sulla testimonianza diretta del marito Giancarlo Pajetta, afferma che la cifra sottratta da Seniga era «superiore al mezzo miliardo di allora»: Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata cit., p. 115. Anche G. Cervetti afferma che si trattava di 600 milioni di lire nel suo L’oro di Mosca. La verità sui finanziamenti sovietici al Pci raccontata dal diretto protagonista, Baldini & Castoldi, Milano 1999 (1993), p. 31. 19  Altrove la somma viene quantificata in 421 mila dollari: C. Feltrinelli, Senior service, Feltrinelli, Milano 1999, p. 65.

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Data l’entità del furto si capisce l’ansia in cui sono i dirigenti del partito. E il dubbio che Seniga abbia agito in contatto con i servizi segreti di qualche Paese straniero. L’ipotesi che circola di più è quella dei rapporti di Seniga con i servizi inglesi. È lo stesso Secchia a sondare questo terreno, come scrive in un appunto per Togliatti, ma non ne cava nulla20. Un’altra nota, anonima, afferma che Seniga «era in stretti rapporti [...] con quelli che lavoravano alle strette dipendenze dello Strategic Services Unit che, a Lugano era rappresentato da tale capi[tano] Jonson con frequenti visite di Allan Dulles, fratello di Forster»21. Secchia stilerà una cronologia dei movimenti di Seniga a partire dal 24 luglio, quasi per voler trovare fra le righe dei suoi spostamenti la vera ragione di quello che per lui sarà sempre un vero e proprio «tradimento»22. Il 24 luglio Seniga «faceva i preparativi (visto uscire di casa alle ore 20 con valigia), alle ore 12 era stato da bundanzia», il 25 «va in diversi posti tra cui al campo d’aviazione con una donna», il 27, scrive Secchia, «ricerco il bundanzia (Oddino De Leurentis)»23, il 28 al mattino alle ore 8 trovo la prima fregatura, dal bundanzia ha portato via tutto, e poi tutte le altre. In ogni posto andai accompagnato da Valli per avere un testimone sulle somme che ritrovavamo oppure se tutto era scomparso. Al quale proposito deve essere detto che egli non riuscì ad andare nell’appartamento di G. Giacomo e nell’abitazione di Turchi ed in questi due posti si trovò tutte le somme depositate. Dall’appartamento della giuseppina [sic] non portò via gli assegni. Dall’appartamento di panza24 (grifone) non portò via tutto, ma lasciò 50 mila d. (per le citazioni ha scritto nella lettera). Portò via tutto dal bundanzia (De Laurentis) e dal padre dei Marchini.

Il 28, continua Secchia nella sua ricostruzione, «cercai Tog. era alla Camera», poi «alle ore 14 andai da Togliatti nella sua abitazio-

20  Nota di Secchia a Togliatti, 27 settembre 1954, in APC, Caso S, mf. 021, f. 1, Lettere e documenti, p. 40. 21  Note, non firmate, su soggiorno S. in Svizzera, 29 ottobre 1954, pp. 50-52 (50). 22  Cronologia del 25 luglio 1954 in FGF, Fondo Secchia, Serie documenti, Contenitore 14, f. 7, Affare S. 23  Si tratta di un iscritto al Pci, commerciante abruzzese, nella cui abitazione era una delle casseforti dove venivano conservati i fondi segreti del partito. 24  Si tratta di Pietro Grifone.

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ne» e «alle 16-17 ricevei la sua lettera che lessi in presenza di Valli e la passai a Tog. all’indomani mattina»25. I giorni successivi sono tutti dedicati alle ricerche dei soldi nei vari depositi segreti in casa di compagni fidati. La notte del 31 luglio Secchia parte alla volta di Milano e il 1° agosto si reca ad Azzanello dove una sorella di Seniga gli dà l’indirizzo di un’altra sorella a Milano; si sposta quindi a Milano, da dove riparte immediatamente per Craveggia – «qui dicono che l’altra sorella ha accompagnato giovedì il fratello a Lugano per andare a Ginevra»26. Il 2 agosto, continua Secchia, «arriviamo a Ginevra dai Borel (vediamo delle valigie nell’anticamera) ci dissero che da loro non si trovava, di aver ricevuto alcuni giorni prima un telegramma in cui diceva che non andava più»27. Intanto entra in scena anche Moscatelli, col quale Seniga ha provato a collegarsi. Il 3 Secchia rientra a Roma dopo essere passato da Lugano, Varese e, di nuovo, da Milano. Il 4 continua le ricerche a Roma fino a quando «alle 16 arriva a Mosc.[atelli] il telegramma annunciante che le cose si mettono bene»28. La stessa sera Secchia riparte e il 5 arriva a Lugano dove gli viene confermato che Seniga era stato lì la mattina del mercoledì precedente. Dispone così con i compagni di Lugano «le diverse ricerche in Svizzera nei diversi posti dove può recarsi» e poi rientra a Milano29. Il 6 è di nuovo a Lugano, richiamato da Moscatelli che in serata gli annuncia «che è stata trovata a Locarno la casa dove si trova o dove deve esserci stato»30. Il 7 è invece a Milano da dove invia Giovanni Pesce a Varese. Intanto Secchia va ad Aosta «dove Tog. se n’è andato in ferie»31; nel primo pomeriggio dell’8 agosto ritorna a Roma dove riceve la telefonata di Moscatelli che gli «comunica di aver parlato al telefono con lui. Gli ha telefonato da Milano dicendogli che doveva partire per Genova»32. Allora Secchia invia Valli a Genova. Qui finisce questo racconto incalzante che rende bene, nella sua estrema concitazione, l’ansia di Secchia in quei pochi giorni. Il cor  Cronologia del 25 luglio 1954 cit., p. 1.   Ibid. 27  Ivi, p. 2. 28  Ibid. 29  Ibid. 30  Ibid. 31  Ibid. 32  Ibid. 25 26

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rere da una parte all’altra del Paese, i colloqui con i compagni, il tentativo di riacchiappare Seniga sguinzagliando i suoi uomini più fidati (Moscatelli, Pesce), quella malcelata irritazione per le vacanze in montagna di Togliatti in un momento per lui così delicato. Sul rapporto fra Secchia e Seniga ha fatto spesso capolino, in particolare in ragione di alcune insinuazioni giornalistiche, l’ipotesi di una relazione sentimentale fra i due. Su questo aspetto le testimonianze e i documenti non consentono di dare una risposta univoca, vale però la pena di dare conto di ciò che si è potuto ricostruire. In una lettera di Sante Turra, un usciere di Botteghe Oscure, si legge che Anita Galliussi, moglie di Seniga, si era in passato lamentata affermando: «Non è giusto che il compagno Secchia avesse a tenere il compagno [Seniga] suo autista così sacrificato, cercando di distoglierlo dal matrimonio, facendogli fare obbligatoriamente le ferie assieme a lui»33. Anche questa pista è percorsa dal partito. In una delle «relazioni Maretti» si riferisce del racconto di un conoscente di Seniga che avrebbe affermato che, ai tempi in cui erano stati insieme in collegio, Seniga era stato «sorpreso in un gabinetto con un suo coetaneo che faceva la parte dell’invertito»34. Sempre nella stessa relazione, nella quale si stratificano tutti i pregiudizi e il moralismo della società italiana degli anni Cinquanta, si afferma anche: «L’episodio del collegio mi è stato confermato indirettamente dallo stesso [Seniga] quando si discuteva in comitiva, tra giovani di 20-30 anni, dell’ambiente depravato degli [illeggibile, recte: omosessuali] egli non faceva commenti e spesse volte arrossiva ogni qual volta io entravo in discussione»35. E poi si afferma che Seniga non avrebbe mostrato interesse per le donne «fino al settembre 1940»36. La vita di Seniga viene scandagliata in ogni sua piega, probabilmente per costruire, oltre a un catalogo di accuse politiche, anche uno di accuse morali. Non c’è solo l’immoralità dell’omosessualità che gli si vuole addebitare ma anche quella di essere un Don Giovanni. In alcune pagine di «appunti per il compagno Scoccimarro», scritte da un 33  Lettera di Turra Sante alla Direzione, 30 settembre 1954, in APC, Caso S, mf. 021, f. 1, Lettere e documenti, pp. 43-44 (43). 34  Relazione s.d., ivi, f. 2, Relazioni Maretti, pp. 55-63 (57). 35  Ibid. 36  Ivi, p. 58.

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militante che ha lavorato con Seniga dal marzo 1948 al novembre 1950, si legge che Seniga era abituato a usare l’auto del partito per faccende personali e intime, col conseguente reclamo del suo compagno di lavoro: «La mattina trovavo la macchina sporca di cose innominabili, ricordo una volta trovai sulla macchina dei preservativi»37. Nella relazione si legge che Seniga era solito frequentare prostitute a tarda notte nella zona di Villa Borghese e che spesso aveva cerca­to anche di coinvolgere l’anonimo compagno di lavoro che in precedenza aveva già provato a far partecipare ad uno scambio di coppie38. E poi ancora un’insinuazione che però non avrà spiegazione ulteriore: «Per una serie di ragioni che dirò inseguito [sic] io ho avuto l’impressione che lui volesse rimanere per forza vicino al compagno Secchia»39. E ancora, in un altro documento, si dice che la confidenza fra Secchia e Seniga «non poteva che stupire e i compagni ne parlavano»40. La «vita privata anormale»41 di Seniga diventa dunque un altro dei tasselli di cui si compone l’impianto accusatorio del partito contro di lui ma anche contro Secchia: «Seniga può fare rivelazioni speciali su Secch.: quali ripercussioni sul Partito [?]»42. Che Secchia e Seniga fossero anche amanti non è possibile affermarlo. Certo è che un rapporto così stretto fra i due stupisce. Soprattutto considerando che la rete di rapporti più intimi di Secchia era costituita in gran parte da compagni che egli conosceva da una vita e con cui era cresciuto politicamente. Il fatto che egli avesse attribuito a Seniga, che conosceva da relativamente pochi anni, responsabilità così ingombranti e che tollerasse l’atteggiamento spavaldo del suo collaboratore può quindi instillare qualche dubbio, fino a far pensare all’esistenza di una relazione fra i due. Ma si tratta di congetture, delle quali però è opportuno dare conto, soprattutto per rappresentare la complessità degli elementi che sono in gioco in questa vicenda. 37  Appunti per il compagno Scoccimarro, senza data né firma, ivi, f. 3, Lettere e documenti senza data, pp. 42-154 (145). 38  Ibid. 39  Ivi, p. 147. 40  Lettera di Clemente Azzini, ivi, pp. 167-172 (170). 41  Interrogatorio ad Aglietto, ivi, v. II, f. 6, Interrogatori (Appunti Scoccimarro), p. 287. 42  [Relazione su] Sec., ivi, f. 8, Cause (Appunti Scoccimarro su indagini svolte), p. 609.

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I documenti che riguardano la fuga di Seniga ci consegnano un clima da romanzo poliziesco, fra spiate, viaggi, pedinamenti e compagni che origliano «dal finestrino del cesso»43. Si racconta poi di un incontro fra Seniga, Secchia e Moscatelli avvenuto alla Federazione di Cremona durante il quale Seniga aveva ribadito le sue ragioni politiche. Secchia proverà a incontrarlo di nuovo al funerale del padre, nel suo paese vicino a Cremona, ma invano. Ormai le loro strade si sono definitivamente separate. Fra le carte che riguardano il «caso S.» vi è un ritratto, stilato da Scoccimarro, nel quale viene tracciato una sorta di profilo antropologico di Seniga: La causa prima la troviamo in lui stesso, nella sua personalità. Figura contraddittoria: anormale, squilibrato, cinismo – presunzione di sé – ambizione e vanità nello stesso tempo slanci di generosità verso amici bisognosi di aiuto reazioni politiche sincere, schiette – anche se sbagliate. Non era intelligente: era furbo – agiva con scaltrezza – questo dava impressione di sue particolari capacità che non esistevano. Politicamente: non è comunista. Ribelle anarcoide, estraneo alla ideologia comunista ed alla attività pratica del partito [...] Lavora in tutti i sensi per rafforzare ed elevare posizione Secc. nel partito, perché così rafforza la sua posizione. [...] Secchia si serve di S. S. si serve di Secchia44.

Fra le carte di Secchia c’è invece un appunto nervoso, pieno di errori e di sgrammaticature che Secchia probabilmente scrisse provando per l’ennesima volta, a distanza di anni, a mettere ordine nell’intricata matassa del caso Seniga: Non ho mai avuto voglia di parlare di questo sporo [sic] affare, non ho mai risposto né agli scritti suoi, né agli attacchi della stampa borghese, come nessuno, credo ha voglia di parlare di cose sporche, amare, disgustose, carignesche [sic]. Dopo i primi mesi in cui ho cercato di capire di cosa si trattava perché nei primi tempi mi sembrava impossibile un tradimento così ignominioso nei miei confrobti [sic] e lo consideravo un caso patologico, magari

43  FGF, Fondo Secchia, Serie documenti, Contenitore 14, f. 7, Affare S., Rapporto al compagno Roncagli del 25/8/54, p. 1. 44  Appunti Scoccimarro su indagini svolte, in APC, Caso S., vol. III, f. 8, p. 590.

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a sfondo politico che non un caso di «banditismo» o di provocazione poliziesca, quando le cose furono chiare non mi sono più occupato di lui. Anche nei primi mesi quando mi occupai di lui, inizialmente cercando di incontrarlo (il che avvenne a Cremona) e poi incontrandomi con compagni a lui legati come Luciano Raimondi, lo fece [sic] sempre d’accordo col partito e con Togliatti personalmente, il quale riteneva si dovesse fare il possibile per tentare di «recuperare almeno una parte della somma», per influenzarlo se fosse stato possibile, farlo recedere dalla sua azione, comunque per riuscire a controllare la sua azione ed i suoi legami. Non mi sono mai stupito che certa stampa abbia utilizzato il suo «caso» perché certi giornali tutto quanto serve a fare una campagna contro il P.C.I. deve essere utilizzato e fa brodo. Mi sono sorpreso, ma non troppo, anche giornali cosiddetti «seri» abbiano pubblicato cose sue, ben sapendo con chi avevano a che fare. Ma è proprio vero che in una società dei consumi, in cui il denaro è tutto quando uno è ricco o lo diviene (anche rubando) diventa una persona rispettosa e rispettata, nessubo [sic] gli chiede come abbia fatto e dove abbia preso il denaro. Anche se si tratta di una mediocrità diventa qualcuno. [...] Ma non ritengo affatto che per scrivere o fare scrivere la storia del P.C.I. o di un movimento politico sia proprio necessario parlare di costui. Alcuni storici seri quando hanno dovuto accennare a quel periodo hanno al massimo parlato di un «caso» e si sono guardati bene dal citare il suo nome, è rimasto un’innominato [sic]. Si sno [sic] semmai soffermati sui protagonisti di quel periodo accennando che qualcuno di essi poté essere colpito per «un caso» sopravvenuto. Né credo si troverà nessuno dei molti che ormai hanno avuto prove schiaccianti sula [sic] sua compa [sic], che voglia fornire pubbliche prove sulla sua colpa, che voglia fornire pubbliche prove proprio per non trovarsi invischiato in faccende che possono procurare soltanto noie, senza alcun utile alcuno. Che non si tratti di un uomo in buona fede, né di una azione politica, chi ha voluto capire l’ha capito. Quell’individuo ha rotto improvvisamente col partito ed ha portato via il «malloppo» (e soltanto dei denari, non altro) assumendo una posizione di estrema sinistra, ma collegandosi sin dal primo momento e forse lo era già prima con i socialdemocratici italiani (Vigorelli, Silone, ecc.) ed anche con i socialdemocratici svizzeri (Canevascini). Per cui la fondazione da parte sua di un movimento di sinistra non era che una farsa. Il suo rifiuto a sottoporre a controllo amministrativo, ecc., la «pecunia», gli valse la sua esclusione da «Azione Comunista» e cioè da parte dei suoi stessi compagni che avevano creduto al suo estremismo.

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Smascherato nella sua azione, dopo avere bazzicato con gli anarchici uomini che prima aveva sempre dimostrato di disprezzare45.

Secchia viene giudicato per le sue responsabilità sulla «mancata vigilanza» verso Seniga, ma è evidente che il partito, e Scoccimarro, presidente della commissione d’inchiesta in primis, vogliono verificare quanto siano fondate le affermazioni di Seniga sulle critiche di Secchia alla direzione del partito. Questo sembra lo scopo di un incontro fra Secchia e Cicalini (che egli chiama «il mago»). Si prova a lanciare l’amo per vedere se Secchia abbocca. «Il mago» dice a Secchia che vorrebbe andare a parlare con Togliatti per dirgli: «tu hai fatto molto, sei qui, sei là ma è il metodo che non va. Il metodo è assolutamente di direzione personale. La tua personalità schiaccia. Tutte le questioni si risolvono con degli espedienti. I quadri si spostano senza dire loro i veri motivi. Quando uno fallisce in un posto, invece di dirglielo lo si promuove. La stessa comorga è formata in parte dai falliti nelle federaz.»46, poi sempre parlando di Togliatti prova a stuzzicare Secchia con una critica netta al segretario: «Inoltre ormai [Togliatti] è invecchiato, non ha più la prontezza di prima, la vivezza, si sente che alle volte certe parti dei suoi discorsi sono confusi e pasticciati [sic]»47. Ma Secchia non ci casca e annota: «Ho reagito dicendo che a me non consta, non ho quest’impressione. Egli è sempre di gran lunga il più capace, il più pronto, ecc.»48. La fuga di Seniga ha su Secchia un effetto devastante. Gli distrugge la carriera politica, gli distrugge la reputazione fra i dirigenti del partito ma soprattutto gli distrugge l’identità. O meglio, lo costringe a mettere in discussione la propria identità e perfino la propria scelta di vita. Si tratta di un momento cruciale della sua vicenda biografica, l’unica vera cesura nel suo percorso lineare di rivoluzionario professionale. Il 1954 è davvero un momento periodizzante, più della sua ascesa ai vertici del partito, più del fascismo, più del carcere, più dell’8 settembre, più della Resistenza, più della Liberazione. Nel giro di

45  Nota di Secchia, s.d., FGF, Fondo Secchia, Serie documenti, Contenitore 14, f. 7, Affare S. 46  Resoconto colloquio di Secchia col «mago», 11 novembre 1954, ivi, p. 1. 47  Ivi, p. 2. 48  Ibid.

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poche ore Secchia si accorge che per lui nulla è destinato a essere più come prima e la sua identità di rivoluzionario professionale diventa quasi una prigione: imprigionato in un ruolo che il partito non gli riconosce più, dovrà ricavarsi con estrema fatica uno spazio per continuare a essere ciò che era sempre stato. Nei suoi diari Secchia arriva a scrivere un appunto drammatico nel quale emerge tutto il suo sconforto, la paura e la solitudine: «Ero tagliato io per la vita politica?», si chiede il comunista. E la risposta è la più impensabile: Non lo credo, perché odio l’intrigo, perché devo dire apertamente ciò che penso, perché non posso sopportare che vi siano cose «che si possono dire soltanto tra di noi», altre che tutt’al più si possono pensare, ma non dire (non mi riferisco naturalmente ai «segreti» nel periodo cospirativo o di lotta partigiana e neppure mi riferisco a «segreti» di qualsiasi natura che potrebbero giovane al nemico). Mi riferisco alle questioni politiche. [...] Ma torniamo alla prima domanda: ero tagliato per la vita politica? Non lo credo perché odio tutto ciò che è «diplomatico», convenzionalità, formalismo, perché non riesco a concepire che vi debba essere tutto un «protocollo», un «rito», una etichetta per il modo di comportarsi nelle riunioni, specialmente dei dirigenti, e questo protocollo non può, non deve essere violato. [...] E allora perché hai intrapreso la «carriera» politica? Ma io non ho intrapreso nessuna «carriera» ed anche oggi non concepisco il lavoro che svolgo come una carriera ma come una lotta politica da condurre contro i nemici dei lavoratori. Mi sono buttato nella lotta politica trentasei anni or sono, quando per organizzare gli scioperi perdevo l’impiego e da impiegato, per non piegare, per sostenere le mie idee, diventavo operaio, manovale; mi sono buttato nella lotta quando, per difendere le nostre idee (l’ideale del socialismo) si doveva fare a pugni con i fascisti, farsi rompere la testa, mettere ogni giorno a repentaglio la vita. Mi sono buttato nella lotta politica quando questo significava vivere pericolosamente, rompere con la famiglia, con gli amici, vivere male, fare la fame, essere clandestino, braccato dai fascisti e dalla polizia, quando significava affrontare il Tribunale speciale, lunghi anni di carcere e di confino, quando la lotta per quanto condotta da un’avanguardia piccola, debole, in certi momenti isolata dalle grandi masse, era la lotta che costava rischi, sacrifici, era la lotta per «il potere», per abbattere il predominio di una classe, dei gruppi più reazionari: il fascismo49.   Quaderno n. 1. 1954-1956, in Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 290.

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In queste righe il risentimento e lo sconforto divengono disgusto per come la dimensione della militanza rivoluzionaria si sia istituzionalizzata in pratiche politiche che rendono, agli occhi di Secchia, i metodi del Pci non tanto diversi da quelli della politica borghese. È il ricordo della lotta dura che lo inorgoglisce: Allora volli essere «rivoluzionario professionale», ma oggi sino a quale punto siamo tali? La stessa parola, oggi, suona male, infatti non viene mai impiegata. Si può essere rivoluzionari professionali quando la «rivoluzione» non è nella nostra prospettiva immediata e neppure in quella che può essere considerata vicina? Semplicemente non se ne parla più, non se ne parla mai, al contrario vi è qualcuno (non io) che addirittura scrive apertamente che un trapasso in Italia dal regime capitalista al regime socialista può avvenire così, per vie di progresso, di riforme, senza urti. Sarà, ma non ci credo50.

Il punto su cui Secchia si arrovella è di cruciale importanza: come si fa a essere rivoluzionari senza la rivoluzione? La brusca interruzione della sua febbrile militanza lo conduce, infatti, a riflettere sul complesso della sua esperienza esistenziale. A fare un bilancio. Un bilancio che sembrerebbe destinato a condurlo fuori dalla vita politica, ma così non sarà. Dopo il tempo dello sconforto, Secchia riprenderà a «fare il comunista» senza comunismo, a fare il rivoluzionario senza rivoluzione. Ma in quei frangenti, quando tutto il suo mondo gli crolla addosso, quando da numero due del più grande partito comunista occidentale diventa un militante mal tollerato e isolato, vuole capire, e scava senza pietà dentro di sé. Ciò che tiene in vita l’identità di rivoluzionario professionale di Secchia è, ancora una volta, la prospettiva della lotta: Insomma, io mi sono buttato nella mischia e ho dato tutto me stesso e continuerò a dare tutto me stesso perché la vita la concepivo e la concepisco come lotta attiva, come lotta per la «conquista del potere da parte del proletariato» (non ha importanza se questa conquista del potere non era una prospettiva immediata, né di facile realizzazione), ciò che per me importava è che tale fosse la prospettiva. Con questa prospettiva era con entusiasmo che lottavo, che mi sono buttato a fare «il rivoluzionario professionale». Se la prospettiva fosse   Ivi, pp. 291.

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stata un’altra, quella «dello sviluppo lento, graduale e pacifico» e quindi fare il rivoluzionario professionale avesse significato fare il deputato, il senatore, «l’uomo politico», no, questo forse non l’avrei fatto perché credo di non averne le attitudini. Giunto a questo punto mi chiedo: che cosa sono queste melanconie? Si tratta forse di un testamento? (anche Morandi ha fatto un testamento). No, non ho intenzione alcuna di fare testamento, a che serve? Si tratta forse di scoraggiamento? E chi non ha dei minuti di scoraggiamento?, dice Lenin51.

In Secchia si sommano in questi frangenti le delusioni dovute a come sono andate le cose dopo la Liberazione, le delusioni per una politica del partito ritenuta spesso troppo timida e le delusioni personali «che ti può dare un amico nel quale fidavi»52. In questo percorso che Secchia si impone, quasi per autoanalisi, non mancano i temi politici che si stratificano con quelli personali e caratteriali. Il perno a cui Secchia aggrappa i suoi ragionamenti è il 1947. «È noto», scrive Secchia, «che nel dicembre 1947 io posi a Zdan.[ov] e poi a Stalin ed altri una questione che forse nessuno avrebbe osato porre. Il fatto stesso di porla e per iscritto indicava non solo il mio orientamento, ma anche un certo coraggio. Non potevo certo pensare che T. non sarebbe venuto a saperlo. Prima di partire ne avevo parlato con Luigi [Longo] chiedendogli consiglio. Mi rispose che era d’accordo, mi disse: se fossi io chiamato ad andare a mosca [sic], la questione la porrei. La risposta che mi diede St.[alin] fu negativa, ma al tempo stesso ci diede delle indicazioni che noi non seguimmo mai, in parte con ragione e in parte a torto»53. La politica si fonde con la sua storia personale e soprattutto con la storia di «quei giorni» in cui Seniga fuggì: «Tog. in quei giorni alle mie lamentele ed alle rimostranze per il fatto che non ero soltanto io il responsabile di certi errori, mi rispose: lo so, è vero, ma quando accadono certe cose, bisogna che ci sia uno che paga per tutti»54. Quella di Secchia sul 25 luglio 1954 è una memoria lacerata e inquieta. Quella invece di Seniga è una memoria orgogliosa: non sembra

  Ibid.   Ibid. 53  Resoconto colloquio di Secchia col «mago», 11 novembre 1954 cit., p. 6. 54  Ivi, p. 7. 51 52

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però una memoria altrettanto sincera. Nella sua ricostruzione Seniga, spiega di aver deciso di scappare con il denaro del partito perché quel 25 luglio «l’Unità» non aveva dedicato nemmeno una riga all’anniversario della destituzione di Mussolini55. Le motivazioni che Seniga adduce nelle sue scarne memorie sono tutte politiche e sono le stesse contenute nella lettera a Secchia. Si tratta di quella che egli stesso rappresenterà come «una ribellione cosciente e determinata sotto ogni aspetto politico e organizzativo»56. Il figlio di Seniga, Martino, ha prospettato due possibili interpretazioni dell’operazione condotta dal padre. La prima ipotesi è che Seniga sperasse «di obbligare Secchia ad opporsi apertamente a Togliatti anche a costo di uscire dal partito comunista» e la seconda che Seniga avesse «capito che Secchia non intendeva ribellarsi all’apparato di partito e ave[sse] deciso di dotarsi dei mezzi (denaro e documenti) necessari per costruire un movimento politico militante ed operaista»57. A noi pare impossibile che Seniga, conoscendo Secchia, abbia potuto anche solo immaginare che questi avrebbe lasciato il partito per imbarcarsi in un’avventura politica destinata a rimanere minoritaria. Sembra un’opzione lontana anni-luce dalla cultura politica di Secchia e dalla sua «concezione del partito al di sopra di tutto»58. La seconda ipotesi sembra quella più credibile, sebbene la mole di denaro trafugata da Seniga appaia comunque esorbitante soprattutto se commisurata alla necessità di costituire, come afferma suo figlio, non tanto un partito alla sinistra del Pci – del resto Seniga non si dimette ufficialmente dal Pci – ma un semplice «movimento di opinione [...] in grado di condizionare, in senso operaista e classista, la politica del Partito comunista italiano»59. Tutta la vicenda di Seniga risulta, infatti, inevitabilmente fagocitata dal furto del denaro. Ci sono troppi soldi di mezzo per consi-

55  Seniga, Quel 25 luglio, in Id., Credevo nel partito cit., p. 120. È vero che il 25 luglio il quotidiano del Pci non diede alcun rilievo all’anniversario della caduta di Mussolini. 56  G. Seniga, Nota dell’autore alla terza edizione, in Id., Togliatti e Stalin, SugarCo, Milano 1978, p. 13. 57  M. Seniga, Il coraggio della verità. Dieci domande su mio padre, in Seniga, Credevo nel partito cit., p. 189. 58  Lettera di Secchia a Ernesto De Martino, 21 aprile 1957, in Compagni e amici. Lettere di Ernesto De Martino e Pietro Secchia, a cura di R. Di Donato, La Nuova Italia, Firenze 1993, p. 70. 59  Seniga, Il coraggio della verità cit., p. 197.

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derare convincente la storia del rivoluzionario senza paura e senza macchia che abbandona un partito visto ormai come corrotto e incapace. La sua azione avrebbe forse potuto avere una legittimazione politica soltanto se Seniga avesse restituito i soldi rubati al Pci, come del resto gli aveva suggerito di fare Leo Valiani60. L’epilogo è noto. Secchia sarà costretto dalla direzione del partito a fare un’autocritica durissima ed estenuante. La direzione si riunisce per la prima volta per discutere della vicenda a ottobre, lasciando passare molto tempo dalla fuga di Seniga. E Amendola in quei mesi aveva già, di fatto, gradualmente sostituito Secchia al quarto piano di Botteghe Oscure. Secchia vorrebbe una decisione rapida, questo clima di insicurezza lo sfibra: «Non posso restare dei mesi nella situazione attuale», dice in direzione61. Durante quella riunione a Secchia viene ritualmente ribadita la fiducia che il partito ha in lui ma gli viene assegnato un periodo di riposo di due o tre mesi. L’attacco che gli arriva dai compagni della direzione sembra avere lo scopo di far venire alla luce una volta per tutte il suo dissenso con Togliatti, mentre lui aveva provato a spostare l’asse del ragionamento sui difetti dell’organizzazione del partito che avevano prodotto un caso come quello di Seniga. Secchia si rivolgerà poi a Togliatti con una lunga lettera privata. In questo documento vuota il sacco, e sembra volersi rivolgere a Togliatti con una franchezza inedita: «Non ho mai negato di aver discusso con lui [con Seniga] su questioni politiche generali e particolari. Sin dal primo giorno dell’accaduto, a casa tua, alla domanda che mi facesti se io discutevo con costui, ti risposi di sì ed aggiunsi: in questo momento non stiamo discutendo delle responsabilità, ma quando ne discuteremo, è evidente che le mie sono pesanti. Ho riconosciuto anche di avere condiviso osservazioni e critiche che non toccavano la linea del partito»62. Secchia affronta poi alcuni snodi politici. Il primo è quello dei «metodi di direzione»63. E parla subito del 1950, alludendo alla richiesta di Stalin di far trasferire Togliatti a Mosca e   Testimonianza di Leo Valiani in Bocca, Palmiro Togliatti cit., p. 570.   APC, Direzione, Verbali della riunione di direzione del 13-14 ottobre 1954. 62  Lettera di Secchia a Togliatti, Roma, 16 novembre 1954, in Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 671. 63  Ibid. 60 61

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al voto favorevole della direzione: «Vi è, è vero, l’episodio del 1950, che senza dubbio portò del turbamento nei nostri rapporti, ma tu sai bene da che cosa fu allora motivato il nostro atteggiamento. Allora sarebbe forse stato meglio dopo il ‘fatto’ (fosse stato o meno un errore quello da noi commesso) discuterne apertamente in direzione; in quel momento la discussione sarebbe stata penosa ma sarebbe servita a dissipare ogni malinteso ed a ristabilire rapporti normali di piena fiducia. È questo metodo di liquidare le questioni con degli espedienti, aggirandole, che alla lunga lascia delle conseguenze»64. Secchia scrive a Togliatti con grande sincerità e caricando le parole di affetto, per il capo e per un grande dirigente, ma non elude i temi: «La timidezza non consiste nell’imbarazzo a parlare con te, [...] ma l’imbarazzo nasce quando si vuole sostenere una posizione che non concorda in tutto od in parte col tuo punto di vista. La tua grande capacità, la tua autorità e la tua personalità sono tali che il tuo pensiero s’impone a tutti»65. Secchia è deciso: «Possiamo dire in coscienza che negli organismi dirigenti del partito la discussione è condotta in modo da utilizzare le diverse esperienze possedute dagli uomini che compongono questi organismi, possiamo veramente dire che le decisioni sulle più importanti questioni sono frutto della discussione collettiva? No, assai raramente è così»66. Questa lettera di Secchia non è uno sfogo, quanto piuttosto il tentativo di illustrare a Togliatti quale sia il suo punto di vista e quale sia l’orizzonte all’interno del quale collocare le sue responsabilità rispetto al caso Seniga. Secchia infatti non dà ancora per perse tutte le speranze di poter uscire dignitosamente da questa vicenda. È probabilmente con questa speranza che il comunista si sottopone all’umiliazione di scrivere e riscrivere la lettera alla direzione nella quale esprime la propria autocritica. Si tratta di tre lettere, le prime due respinte dalla direzione e la terza accettata il 15 gennaio 1955. Enzo Collotti, nella sua introduzione all’Archivio Pietro Secchia ha pubblicato tutti e tre i documenti67. Secchia scrive dopo aver preso visione della Risoluzione della direzione del 17 novembre. La critica espressa nel documento è durissima. Non si tratta soltanto di   Ivi, p. 672.   Ibid. 66  Ivi, p. 673. 67  Collotti, Introduzione a Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., pp. 114-120. 64 65

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una denuncia degli errori «di natura tecnica (violazione di norme cospirative circa il modo di organizzare archivi e accedere ad essi, modo di conservare i documenti, chiavi, ecc.)», commessi da Secchia. Il documento condanna un’intera gamma di comportamenti di cui Secchia era responsabile: «di aver stabilito e tollerato che rapporti di amicizia personale e di familiarità si sostituissero, tra lui e N.S., ai rapporti normali di collaborazione e direzione politica e organizzativa, di aver tollerato che N.S. venisse sottratto ad un serio controllo organizzativo e politico e prendesse nell’apparato una posizione tale che impediva l’esercizio di questo controllo da parte degli organismi normali e nelle forme normali». Senza tralasciare le «responsabilità più direttamente politiche»: Per aver violato nei rapporti con N.S. e nel suo ambiente familiare, il segreto di partito, riferendo fatti, circostanze, decisioni, discussioni ecc. e per di più in modo da contribuire a creare e mantenere un ambiente di irresponsabile pettegolezzo che favorì la degenerazione politica di N.S.; per aver trascurato, tollerato e almeno oggettivamente anche contribuito con la sua condotta a che in N.S. maturassero e venissero apertamente espresse opinioni politiche che non solo erano errate, in contrasto con la linea del partito, ma a poco a poco, radicandosi, portarono N.S. ad una posizione di aperta ostilità e diffamazione della politica seguita dai comunisti e dal centro dirigente del nostro partito; per non essersi accorto e, se accortosene, non essersi opposto a che, ad opera di N.S., e probabilmente anche di altri suoi collaboratori, si creasse, sulla base di informazioni errate e di pettegolezzi, una artificiale e falsa contrapposizione tra lui stesso e gli altri dirigenti del partito, in modo che minava l’unità del centro dirigente di fronte ai collaboratori del centro stesso68.

A Secchia viene riconosciuto come attenuante «il fatto che troppi incarichi di lavoro anche pratico erano a lui affidati, il che lo spinse a utilizzare sempre più la capacità di N.S. di adempiere sollecitamente incarichi di questa natura e quindi a trascurare l’azione di controllo e di guida politica e organizzativa su questo suo collaboratore»69. È in questa circostanza che è chiesto a Secchia «di rendersi conto   Si cita dalla risoluzione: ivi, p. 113.   Risoluzione della Direzione, 17 novembre 1954, in APC, Caso S., vol. III, f. 8, p. 747. 68 69

VII. Il «caso S.»

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in modo completo delle sue responsabilità»70 e, con l’occasione, la direzione, evidentemente per non polarizzare tutta l’attenzione sul solo Secchia, mette mano a una ridefinizione dei ruoli nel partito da discutere alla prossima Conferenza d’organizzazione. Secchia scriverà dunque le lettere di autocritica. Nella prima, datata 1° gennaio, egli accetta tutte le osservazioni contenute nel documento della direzione e rivendica di aver sempre condiviso la linea del partito. La lettera viene respinta e Secchia invitato a sottolineare con maggiore chiarezza la sua condivisione della linea non soltanto per il passato ma anche per il futuro, vincolandosi così perennemente, come ha notato Collotti, alla politica del partito71. Ciò che più colpisce invece della seconda lettera è la scomparsa del capoverso nel quale Secchia invita a interrogare i «segretari regionali, segretari federali, tutti i compagni con i quali avevo rapporti di attività e non si troverà uno solo che possa sostenere che io abbia tenuto con lui o con chicchessia un discorso, una conversazione che non fossero in armonia con la linea politica del partito e del suo centro dirigente. Ciò che io penso sulle questioni politiche, organizzative, sul nostro lavoro, sui nostri metodi di direzione sta scritto in decine e decine di documenti ufficiali del partito, in risoluzioni, articoli, discorsi ed in ogni caso dev’essere esposto a me e ricavato dal mio lavoro e non può essere supposto sulla base delle diffamazioni, delle porcherie, delle cretinerie e delle manovre ricattatorie di un traditore»72. Proprio attorno al tema della linea del partito ruota la richiesta di autocritica che la direzione fa a Secchia. Il 7 gennaio, in particolare, Secchia esce allo scoperto e parla proprio di uno snodo importante: «Riconosco che nella seconda metà del 1947 ho avuto seri dubbi non soltanto su talune questioni, ma sulla linea politica nel suo complesso ed ebbi il timore che quelli [i sovietici] non conoscessero la reale situazione italiana. Esposi quei dubbi nella forma più franca, correndo anche il rischio che sempre si corre in tali occasioni. Abbiamo rinunciato a fare il salto e scelta l’altra linea»73. Secchia rivendica una schiettezza che gli viene imputato di non avere avuto. E non è un atto scontato data la sua   Ibid.   Collotti, Introduzione a Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 116. 72  La lettera è pubblicata ivi, p. 115. 73  Ivi, p. 117. 70 71

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situazione. È il canto del cigno, l’ultima rivendicazione delle sue posizioni politiche. La lettera dell’8 gennaio 1955, finalmente approvata dalla direzione, non conterrà più alcuna rivendicazione delle sue convinzioni e del ruolo rivestito nel partito. Secchia si è piegato completamente alla direzione. Si è umiliato, ma ha anche giurato una fedeltà incondizionata, probabilmente sperando di potersi ricavare uno spazio a Botteghe Oscure. La Conferenza d’Organizzazione sancirà il ricambio nell’ufficio più importante del Pci: Amendola, il compagno più lontano politicamente da Secchia, diventa responsabile dell’organizzazione e Secchia non viene più eletto vicesegretario74. Rimane in direzione, ma non per molto. Verrà inviato in Lombardia, a fare il segretario regionale, l’antiMontini, come dirà qualcuno75 per indorare la pillola. A bocce ferme, quando ormai Amendola siede ufficialmente al quarto piano di Botteghe Oscure e Secchia è pronto a trasferirsi a Milano, Togliatti, che aveva anche la preoccupazione di mettere a tacere «le chiacchiere della stampa borghese»76, dirà al suo ex vice: «Sarai contento, no? È andato tutto bene, tu resti nella direzione e vai a fare un lavoro importantissimo. Non ti sembra che avremmo dovuto prendere questa decisione anche se non fosse accaduto l’affare Seniga?». Ma «in quel momento», dirà poi Secchia, «capii di essere spacciato»77.

74   Si veda APC, Direzione, Verbale direzione 18 gennaio 1955, mf. 117. Si veda, inoltre, l’ampio risalto dato a questo fatto dai giornali, in particolare su «La Stampa» del 19 e 20 gennaio 1955. Il 20 Vittorio Gorresio pubblica, ivi, p. 5, un caustico Profilo di Pietro Secchia. 75   M. Pirani, Poteva andare peggio. Mezzo secolo di ragionevoli illusioni, Mondadori, Milano 2010, p. 230. 76   APC, Direzione, Verbale direzione 18 gennaio 1955, mf. 117, p. 5. 77   Testimonianza di Secchia cit. in Bocca, Palmiro Togliatti cit., p. 574.

VIII Strategie di sopravvivenza 1. La ricerca di uno spazio, il risentimento Dopo la cesura del caso Seniga inizia per Secchia una nuova fase della sua vita di rivoluzionario professionale. E inizia a tenere un diario, per sé e per il futuro, «perché si sappia la verità». Secchia pone come incipit del suo «Quaderno n. 1» una citazione di Voltaire: «Chi dice il segreto degli altri è un traditore, chi dice il proprio è uno sciocco». Siamo nel dicembre 1954: Non ho mai, nel corso della mia vita, tenuto dei diari. Ho sempre pensato soltanto ad agire, a lottare. Ciò che conta è la lotta, altri se vorranno potranno scriverne i risultati. Non ce n’è d’altronde alcun bisogno. L’azione stessa crea, costruisce, lascia tracce. Nella mia vita comincia ora un periodo nuovo, in cui mi sarà progressivamente impedito di lottare, di agire, di portare un contributo sia pure modesto da una posizione dirigente. Avrò quindi maggior possibilità, un po’ di tempo per scrivere. Tuttavia non terrò un diario, non saranno le mie delle annotazioni quotidiane, ma piuttosto delle osservazioni scritte saltuariamente, degli appunti, delle riflessioni su fatti, avvenimenti, letture, discussioni che avranno attirato di più la mia attenzione1.

Sono pagine piene di amarezza le prime che Secchia scrive. Sono gli appunti di un depresso, di un uomo a cui è franato il mondo sotto i piedi: «Vi è un modo di dire: occorrono nove mesi per fare un uomo e un giorno solo per ucciderlo. No, per fare un uomo non ci vogliono

  Secchia, Quaderno n. 1 cit., p. 258.

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nove mesi, ci vogliono cinquant’anni, cinquant’anni di sacrifici, di lotta, di volontà, di rinunce, di tante cose. E quando quest’uomo è fatto, quando crede di essere un uomo, una canaglia qualsiasi lo può distruggere, uccidere moralmente, politicamente e fisicamente, lo può distruggere in pochi secondi»2. E poi trascrive una citazione di Goethe: «Qui mi sembra tu abbia torto poiché consideri il suicidio, che è l’argomento di cui si parlava, come una grande azione; mentre invece non lo si può giudicare nient’altro che una debolezza. Senza dubbio è più facile morire che sopportare coraggiosamente una vita tormentata»3. Sono pagine dure, piene di risentimento e di rabbia, che dicono in forma privata quello che Secchia avrebbe voglia di gridare ai quattro venti. Egli sa di avere sbagliato. Ma non ne parla esplicitamente e preferisce puntare l’attenzione sul «tradimento». Solo in alcuni casi pensa ai propri errori. Una volta lo fa riportando una citazione di Lamartine: «Mai le debolezze provocarono alla svelta gli errori, gli errori i delitti, i delitti il castigo»4. Quali sono le debolezze di cui parla Secchia? Quelle di un’organizzazione che non è riuscito a strutturare in modo tale che fughe come quella di Seniga non potessero avvenire, oppure si tratta delle sue debolezze personali, l’aver concesso troppa fiducia a un amico, che magari era stato più di un amico, e aver così messo il partito in pericolo? Secchia è distrutto e sa benissimo cosa lo attende: «Si apre un nuovo periodo della mia attività di rivoluzionario professionale», scrive nel gennaio del 19555. L’ex vicesegretario non è vecchio. Ha 52 anni e si sente ancora nel pieno delle forze, fisiche e intellettuali. Si sente in grado di dare ancora molto al partito, a quel partito che ha contribuito a tenere in vita durante il fascismo, che ha reso il grande partito della Resistenza, che è divenuto il «più grande partito comunista dell’Occidente capitalista». Secchia passerà il resto della vita a tentare di ricavarsi un ruolo, per rimanere un rivoluzionario professionale.

2  Ivi, p. 259. Una citazione simile è scritta da Secchia nell’aprile 1942: FGF, Fondo Secchia, Serie Quaderni, Contenitore 1, Quaderni confino, Quaderno 2, p. 1. 3  Secchia, Quaderno n. 1 cit., p. 259. 4  Ibid. 5  Ibid.

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Anche l’attività di storico che Secchia si inventerà, apportando un contributo non certo marginale agli studi sull’antifascismo e sulla Resistenza, è un modo per continuare a fare politica. In un appunto scriverà: «Nei libri, negli articoli, nei saggi che noi scriviamo, nella richiesta di poter lavorare per il partito c’è il tentativo tenace, qualche volta ingenuo, di essere ancora qualcosa nel mondo del partito, di agire ancora, di ‘contare’ insomma [...] Eppure sembra alle volte che anche oggi ci siano dei carcerieri e che sia ancor più difficile che non allora essere ancora qualcuno, contare ancora qualche cosa, non essere soltanto il n. 552108 che sta scritto sulla mia tessera»6. Inizia in questo periodo a profilarsi un mutamento nel linguaggio di Secchia, almeno nella prosa intima dei diari. Sempre più si fa strada un «loro» nel quale egli ricomprenderà tutti quelli che secondo lui erano stati responsabili della sua esclusione. «Loro» sono Togliatti, Amendola, Scoccimarro ma anche il compagno che per decenni gli era stato politicamente più vicino, Longo. E il risentimento diverrà gradualmente la cifra della sua riflessione autobiografica, così come l’ossessione per quello che è accaduto il 25 luglio 1954, nella giornata più brutta della sua vita. Ne raccoglierà ogni traccia, fino a riempire di ritagli di giornali, italiani e stranieri, una cartella del suo archivio sulla cui copertina scriverà, con amara autoironia: «Romanzo Secchia-S.»7. Avrebbe potuto resistere alle decisioni del partito? Alla scelta di allontanarlo dalla Segreteria? Secchia non ha dubbi: «Un atteggiamento di resistenza avrebbe rapidamente portato ad una conclusione di rottura con conseguenze dannose per il partito senza la più piccola utilità per il movimento operaio»8. E ancora: «Un vero rivoluzionario deve essere capace di vincere personalismi e risentimenti, deve essere capace di mettere al di sopra della sua ‘personalità’, del suo io, del suo orgoglio che alle volte si scambia per prestigio, l’interesse

6  P. Secchia, Quaderno n. 5. 1962,1963, in Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 462. 7  FGF, Fondo Secchia, Serie varia, Contenitore 28, f. 2, Romanzo Secchia-S. Si tratta di una raccolta di articoli di giornali e riviste che parlano del caso Seniga e dell’estromissione di Secchia dal gruppo dirigente del Pci e copre un arco cronologico fino al 1956. 8  Secchia, Quaderno n. 1 cit., p. 259.

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del partito e della causa del socialismo»9. C’è molta autorappresentazione in queste parole di Secchia, ma c’è anche tutta la forma mentis del rivoluzionario professionale novecentesco, di quell’etica del sacrificio che sta alla base della scelta di dedicare tutta la propria vita alla rivoluzione, al comunismo. Secchia ripercorre maniacalmente tutti quei momenti che possono avergli creato attriti con il resto del gruppo dirigente del partito: dal viaggio a Mosca del ’47, alla lotta contro la legge truffa, alla differente lettura del successo elettorale del 7 giugno. Lo fa con ansia, quasi con la speranza che ripensandoci, scrivendo di quei fatti, gli possa apparire ciò che non aveva tenuto nella giusta considerazione. Ma lo fa anche con lo sguardo volto alla posterità, per costruirsi un ritratto di impeccabile correttezza, di rigore, di trasparenza. Nel diario di Secchia c’è infatti anche la rivendicazione del lavoro svolto: «Per i miei errori ho arrecato un danno finanziario, ma non si è tenuto conto (avrei dovuto precisare anche questo?) che avevo contribuito in modo decisivo a tali entrate? Li avevo guadagnati io»10. Da questo momento, i diari di Secchia sono pieni di critiche, di dissensi, di frustrazioni. Critica Togliatti per avere, durante un discorso sulla Resistenza, idealizzato e piegato la lotta di Liberazione alle necessità politiche contingenti, di aver calcato troppo la mano sul carattere unitario e patriottico del movimento partigiano11; poi se la prende con l’analisi che il partito fa del crollo della Cgil alle elezioni delle commissioni interne («Nel passato la colpa fu dei riformisti, ed ora?»12), poi con l’atteggiamento troppo conciliatorio dei gruppi parlamentari comunisti in occasione dell’elezione di Gronchi alla presidenza della Repubblica13 e via seguitando in un catalogo di recriminazioni in cui il risentimento prende il sopravvento sulla lucidità. Quando Secchia scrive queste pagine è segretario del Comitato regionale lombardo del Pci. Il comunista biellese ritorna dopo dieci anni in quella Milano che lo aveva visto alla testa della Resistenza.   Ivi, p. 260, nota 3.   Ivi, p. 263. 11  Ivi, pp. 265-266. Secchia fa riferimento al discorso tenuto da Togliatti a Milano il 17 aprile 1955 in occasione dei dieci anni dalla Liberazione: P. Togliatti, Il contributo dei comunisti alla resistenza italiana. Discorso pronunciato al Vigorelli di Milano il 17 aprile 1955, Roma s.d. (ma 1955). 12  Quaderno n. 1 cit., p. 265. 13  Ivi, pp. 266-267. 9

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Non ci torna, checché ne dicano, come l’anti-Montini: ci torna da esiliato, da epurato. Non ci rimarrà molto: alla fine del 1956, dopo l’VIII Congresso, la sua epurazione sarà infatti perfezionata con l’esclusione anche dalla direzione del partito e, quindi, dal nuovo incarico milanese. Giorgio Amendola, che è proprio colui che aveva proposto a Secchia quell’incarico, darà un giudizio molto negativo14 sul suo periodo a Milano. Anche Togliatti, nel marzo 1956, gli scrive una lettera molto critica che afferma che in Lombardia non solo è mancato il lavoro di organizzazione delle masse, ma si è anche mostrato di non avere nemmeno «l’orientamento giusto»15, ossia di non essere stato capace di imprimere al partito la giusta linea. È una critica, insomma, che prelude a un’altra esclusione. Quello milanese è per la biografia di Secchia un intermezzo incolore, piatto, in cui la sua attività politica non ha particolari punti significativi. A Milano egli ritrova i compagni di un tempo e stringe anche qualche legame nuovo, come quello con Giangiacomo Feltrinelli. Un rapporto discusso, quello con l’editore milanese, in particolare per le scelte che Feltrinelli farà e per le sue simpatie per la lotta armata. Si tratta però di un rapporto sincero, che Secchia manterrà anche dopo l’allontanamento dell’editore dal Pci, un’uscita «a destra», come la definisce il figlio Carlo16. Si tratta di un rapporto schietto, ma non della testimonianza di una condivisione da parte del dirigente comunista dei sogni rivoluzionari di Feltrinelli, in particolare dei modi con cui Feltrinelli insegue questi sogni. Il punto di contatto ideale fra i due, come sostiene Carlo Feltrinelli, è la preoccupazione per una involuzione autoritaria del sistema italiano che Secchia descrive bene nel suo discorso Colpo di stato e legge di pubblica sicurezza, che proprio l’editore pubblica nel 1967. Ciò che però li divide è il diverso approccio alla lotta politica: l’uno, quello di Secchia, ancorato a un bagaglio di esperienze tipiche del movimento

14  G. Amendola, Il rinnovamento del Pci, intervista di R. Nicolai, Editori Riuniti, Roma 1978, p. 72. Sul Pci a Milano, si veda G. Petrillo, Il problema di Milano. Il Partito comunista milanese, 1921-1975, in «Storia in Lombardia», 2011, 1, pp. 20-83, in part. pp. 67-68, dove si fa cenno anche all’attività di Secchia. 15  Lettera di Togliatti a Secchia, Roma, 19 marzo 1956, in Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 681. 16  Feltrinelli, Senior service cit., p. 214.

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comunista internazionale e di impronta terzinternazionalista; l’altro, quello di Giangiacomo Feltrinelli, impastato di suggestioni terzomondiste e guevariane, mediate dall’esperienza gappista italiana. Il rapporto di Secchia con Feltrinelli è più del rapporto fra un editore e un suo autore, ma non è, in particolare nell’ultimo periodo di Feltrinelli, un sodalizio politico. C’è però affetto e Secchia lo riversa nella lettera che scrive a Del Bo dopo la notizia della morte di Feltrinelli. Secchia è convinto che si tratti di un omicidio17: «Altre volte ho avuto occasione di scrivere che non si possono certo condividere tutte le scelte e le opinioni politiche di G.G. Feltrinelli e nessuno nega gli squilibri, i complessi, le contraddizioni della sua vita difficile e travagliata; ma in questa esistenza travagliata vi hanno gran parte le opere positive che non possono esser né taciute né dimenticate»18. Del resto Feltrinelli, come editore, aveva ridato a Secchia un minimo di visibilità pubblica, pubblicando alcuni dei suoi libri più importanti. È nel partito che i rapporti con i compagni diventano sempre più difficili, giorno dopo giorno. Se fino a non molto tempo prima Secchia aveva mantenuto con Longo un rapporto assai diverso da quello che aveva con Togliatti, sia per la comune militanza giovanile, sia per l’esperienza fianco a fianco nella direzione della Resistenza, dopo il 1955 anche Longo rientra in quel «loro», fra i compagni che hanno avvelenato la sua vita. Nei diari Secchia non risparmia il comunista di Fubine e gli riserva quasi un tono più sprezzante di quello con cui parla degli altri. Forse perché sa che Longo è il dirigente a lui politicamente più vicino e quindi il suo atteggiamento gli pare viziato da un opportunismo che gli risulta insopportabile. In una nota che si può datare al 1959, intitolata «Massime contadine del ‘maresciallo’ di Fub. [Fubine]», Secchia scrive: «Bisogna sempre essere d’accordo col partito. Ho costatato che l’interesse personale coincide sempre con l’interesse del partito. 1941-42. Ventotene19 e poi anche nel 1953. Che cosa vuoi? È chiaro che la nostra funzione non è altro che quella dei diaconi che tengono su la coda al vescovo. 1952-53. 17  P. Secchia, Quaderno n. 12. Cile, in Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 602. 18  Lettera di Secchia a Del Bo, Roma, 20 marzo 1972, ivi, p. 602, nota 11. 19  Secchia si riferisce certamente alla gestione del caso Terracini da parte di Longo.

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All’osservazione mia: dobbiamo fare attenzione alla provenienza del denaro; se un grande capitalista dà è perché ha il suo tornaconto. Risposta: Io non chiedo da dove viene il denaro, lo prendo da chiunque ce lo dia. 1954-58. Alle mie osservazioni sul culto della personalità di Stalin – discussioni a Ventotene – [...] rispose: Anch’io un tempo avevo quest’opinione e ritenevo che noi eravamo gli esseri più servili verso Stalin e verso l’Urss, ma poi mi convinsi che era giusto così»20. Secchia è durissimo con Longo, anche se qualche speranza di ritornare in pista ce l’avrà quando il suo antico sodale verrà eletto segretario. L’VIII Congresso21 è per Secchia l’epilogo della sua vicenda di dirigente. Già c’era stata la Conferenza d’organizzazione, l’anno prima, in cui il suo ruolo era stato ridimensionato, ma almeno rimaneva nella direzione, conservando una parvenza di autorevolezza. L’VIII Congresso è però soprattutto il momento in cui vengono a galla le contraddizioni della direzione togliattiana. E lo snodo attorno a cui queste contraddizioni si coagulano è la critica al culto della personalità. Secchia ora cerca di chiamarsi fuori da un meccanismo che aveva ampiamente contribuito a creare attorno alla figura di Togliatti. Le sue considerazioni sull’VIII Congresso e su tutto ciò che sul piano politico e ideologico gli ruota attorno sono fra le più irritate. C’è però qualcosa che indebolisce, all’occhio dell’osservatore, queste critiche. Ed è proprio il fatto che Secchia si chiami fuori da un clima politico di cui è stato protagonista; il fatto, insomma, che egli pronunci una critica ma non un’autocritica. Il Secchia che si indigna per l’affermazione di Longo sui «diaconi che tengono su la coda al vescovo»22 è infatti lo stesso Secchia che nel 1953 esprimeva la riconoscenza verso il segretario «per tutto ciò che egli, sulla base degli insegnamenti e della dottrina di Marx, di Engels, di Lenin e di   Secchia, Quaderno n. 1 cit., p. 299.   Sull’VIII congresso si veda VIII congresso del Partito comunista italiano. Atti e risoluzioni, Roma, 1957. Sul piano interpretativo si veda il X capitolo di Gozzini, Martinelli, Storia del Partito comunista italiano cit. Si vedano anche i documenti contenuti in Quel terribile 1956. I verbali della Direzione comunista tra il XX Congresso del Pcus e l’VIII Congresso del Pci, a cura di M.L. Righi, Editori Riuniti, Roma 1996 e Il Pci e il 1956. Scritti e documenti dal XX Congresso del PCUS ai fatti di Ungheria, a cura di A. Höbel, La Città del Sole, Napoli 2006. 22  Ibid. 20 21

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Stalin, ha fatto e fa per noi, per la classe operaia, per il suo partito e per il popolo italiano»23. Il tema del culto della personalità viene legato da Secchia a quello della mancata discussione interna al Pcus24. Ovviamente egli pensa al Pci, e non lo nasconde: «Il metodo con il quale si è realizzata la ‘grande svolta’, il ‘disgelo’ è ancora quello di prima, e cioè la decisione è venuta improvvisamente e dall’alto. Sì, improvvisamente perché anche se da tre anni si parlava di direzione collettiva e di critica al culto della personalità il XX [Congresso del Pcus] pose ben altri problemi (rapporti con la socialdemocrazia, via parlamentare, maggiore democrazia nel partito ecc.) e pose in modo assai diverso anche la critica a Stalin (rapporto Krusciov)»25. E ancora: Se prima della morte di Stalin, se prima che cominciassero la critica e l’autocritica sui metodi di direzione, luglio 1953, vi erano senza dubbio difetti seri anche da noi, dopo il «disgelo» non mi sono accorto che la situazione sia sostanzialmente modificata, se non in certi aspetti esteriori che non sono tutti positivi, i fotografi vengono a romperci le scatole qui dentro nelle nostre riunioni. Ma significa questo maggior democrazia? Si danno ai giornalisti borghesi maggiori informazioni sulle cose nostre. Ma se qualcosa dobbiamo correggere è innanzitutto migliorare i rapporti tra di noi e non con i giornalisti borghesi. Orbene, tra di noi le cose non procedono bene. Si ha l’impressione che la direzione del partito abbia cessato di funzionare26.

Secchia in questa fase esprime la sua critica molto apertamente, nel Comitato centrale ad esempio, come nel mese di giugno, quando censura il fatto che una posizione politica come quella espressa da Togliatti nella celebre intervista a «Nuovi Argomenti» non fosse stata oggetto di una preventiva discussione collettiva27, e in direzione, dove ribadisce spesso ciò che poi annota nel diario28. Il tono auto-

23  P. Secchia, Palmiro Togliatti, capo del partito comunista e dei lavoratori italiani, in «Rinascita», marzo 1953. Si veda anche M. Degl’Innocenti, Il mito di Stalin. Comunisti e socialisti nell’Italia del dopoguerra, Lacaita, Manduria-Bari-Roma 2005, pp. 58-59. 24  Secchia, Quaderno n. 1 cit., p. 304. 25  Ivi, p. 295. 26  Ivi, p. 305. 27  Ibid. 28  Si veda, ad esempio, l’intervento di Secchia alla direzione del 29 marzo 1956, in Quel terribile 1956 cit., pp. 14-15.

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critico che Togliatti assume nel rapporto al Comitato centrale del giugno 1956, riflettendo sul XX Congresso del Pcus, non convince Secchia, che rivendica infatti il diritto a dubitare delle rivelazioni fatte dai sovietici dopo la morte di Stalin. Ai suoi occhi si tratta infatti di rivelazioni che sembrano ancor più incredibili per il fatto che vengano ora pronunciate da quanti fino a poco tempo prima erano stati impegnati a elogiare sperticatamente Stalin: Perché non possiamo se non credere? [...] Quegli stessi uomini che attestarono con i loro discorsi, con i loro scritti, con i loro colloqui che quei fatti erano veri e quelle prove autentiche, oggi ci vengono a dire che quei fatti erano falsi, inesistenti, che quelle prove erano dei falsi, che le pretese confessioni erano strappate con la violenza, messe assieme con l’invenzione, la frode, l’inganno. [...] Perché chi ha mentito, e in modo così sfacciato e continuato, per lungo tempo, non potrebbe mentire ancora sia pure per altri motivi, anch’essi di ordine superiore, se non giustificabili, almeno spiegabilissimi?29

Secchia dice una cosa ragionevole, si interroga sul fatto che i principali accusatori di Stalin sono stati in un recente passato i suoi più entusiasti sostenitori. È anche evidente, però, il meccanismo psicologico che scatta nel dirigente comunista. Egli deve cercare un appiglio che gli consenta di non rendersi conto in modo brutale che il sogno in cui ha creduto per quarant’anni in realtà, per un tratto non insignificante della sua storia, è stato un incubo. Prendere atto di ciò implicherebbe una ridefinizione del proprio ruolo di comunista e di appartenente a una comune famiglia politica internazionale. Secchia non si nasconde le corresponsabilità dei comunisti italiani nel clima staliniano, sottolineando, anzi, quanto esse siano più profonde di quanto sostenuto da Togliatti30; cerca piuttosto un rifugio nel dubbio che le «rivelazioni» kruscioviane esagerino i misfatti di Stalin per una qualche ragione di lotta interna al Pcus. Egli salva così la propria identità, come scrive a Ernesto De Martino: «In Russia può accadere tutto ciò che si vuole, compreso il diluvio universale, ma io un socialdemocratico o un democristiano, o un liberale non

29  P. Secchia, Quaderno n. 2. 1956 ,1957, in Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., pp. 312-313. 30  Ivi, p. 313.

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lo diventerò mai perché sono un comunista, ho cioè un’ideologia diversa»31. Nel suo intervento al congresso32, Secchia punta l’attenzione sul tema della via italiana al socialismo e lo connette con quello delle alleanze ma con una piccola dose di polemica: «Via italiana al socialismo significa renderci conto – ed ho avuto l’impressione, da alcuni congressi ai quali ho partecipato, che non tutti i compagni se ne rendono pienamente conto – che gli obiettivi che poniamo a noi stessi ed al popolo italiano non li possiamo realizzare da soli; quegli obiettivi non possono essere realizzati senza di noi [...] ma anche noi comunisti da soli, senza una più forte unità della classe operaia ed il concorso attivo di altre forze democratiche, non potremo fare grandi passi sulla strada del rinnovamento e del socialismo»33. Un altro argomento che Secchia tratta è quello del rapporto con gli intellettuali – tema particolarmente spinoso nel 1956, dopo il XX Congresso e i fatti di Ungheria34 – e lo connette con una critica all’operaismo, definito come un’opzione politica anacronistica, in particolare per un partito che intende saldare un’alleanza fra classe operaia e ceti medi35. In particolare dopo il XX Congresso e dopo i 31  Lettera di Secchia a De Martino, 17 marzo 1957, in Compagni e amici. Lettere di Ernesto De Martino e Pietro Secchia, a cura di R. Di Donato, La Nuova Italia, Scandicci 1993, pp. 53-54. 32  In VIII congresso del Partito comunista italiano. Atti e risoluzioni, Editori Riuniti, Roma 1957, pp. 339-346. 33  Ivi, p. 340. 34  Sui fatti di Ungheria Secchia si esprime con molta sincerità, ancora una volta in una lettera a De Martino. Si tratta di una lettera nella quale Secchia discute il volume di A. Giolitti, Riforme e rivoluzione, Einaudi, Torino 1957. Lettera di Secchia a De Martino, 20 aprile 1957, in Compagni e amici cit., p. 61: «Sono d’accordo quando si parla di errori precedenti che hanno senz’altro contribuito in modo notevole a creare quella situazione; ma sono nettamente in disaccordo quando egli [Antonio Giolitti] considera la rivolta come rivoluzionaria e socialista e quando condanna l’intervento sovietico». Si veda anche l’intervento di Secchia alla direzione del 30 ottobre 1956, in Quel terribile 1956 cit., pp. 225-226. 35  VIII congresso del Partito comunista italiano. Atti e risoluzioni cit., p. 344. Sul fatto che alcuni abbiano visto in questa critica di Secchia all’operaismo una sorta di autocritica, si veda la lettera di Secchia a Ernesto De Martino, 18 dicembre 1956, in Compagni e amici cit., p. 21, nella quale Secchia afferma che si tratta soltanto «di puro pettegolezzo, e di un misero tentativo di alcuni amici miei di giustificare il loro poco coraggioso silenzio nel momento in cui non venni incluso nella nuova direzione del partito». Per quanto riguarda la posizione di Secchia sugli intellettuali è utile anche la lettera, sempre a De Martino, s.d. ma dei primi mesi del 1957, ivi, pp. 39-47.

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«tragici fatti ungheresi»36, alcuni intellettuali, afferma Secchia, hanno avuto dei dubbi, degli sbandamenti che soltanto l’unità ideologica del partito può aiutare a superare, per evitare di finire «come certi amici nostri che ad un certo momento non hanno più saputo distinguere da quale parte stava la reazione e da quale parte, sia pure con i suoi errori e le sue colpe, stava il socialismo»37. Secchia afferma che il coinvolgimento degli intellettuali nelle istanze del partito deve essere attuato attraverso una nuova democratizzazione della vita del Pci, una democratizzazione che deve passare attraverso la riforma dello statuto, a cui proprio il congresso sta lavorando. Nel suo diario Secchia ha parole dure verso il nuovo statuto e verso la discussione intorno a esso: «Si è parlato molto di democrazia, in realtà si sono fatte delle parole e nient’altro, sostanzialmente non è modificato proprio nulla. La riforma dello statuto non ha ingannato nessuno. [...] Ogni decisione importante è lasciata alla facoltà di chi ha nelle mani il partito»38. L’VIII Congresso è il capolinea di Secchia. Quasi per rendere la sua esclusione dalla direzione ancora più amara sarà Longo a comunicargliela39: Sul momento non obiettai una sola parola perché in quelle condizioni, su due piedi, nel corridoio, mentre la riunione stava per riprendere non era possibile fare una qualsiasi discussione che d’altronde sarebbe stata completamente inutile, come furono inutili le obiezioni mosse da alcuni compagni durante la riunione del CC. La sentenza era stata pronunciata e basta. Tu stesso non mi chiedesti neppure che cosa ne pensavo. La sola cosa che ti dissi è: «quando finirà questa storia?», perché non mi sembra giusto che la si consideri sempre come una questione aperta e che ogni volta lo si ritiene opportuno si tirino fuori i miei errori circa l’affare Seniga. Mi hai risposto che adesso posso considerare la cosa finita. Sarà vero? Due anni fa mi si disse la stessa cosa40.   VIII congresso del Partito comunista italiano. Atti e risoluzioni cit., p. 345.   Ibid. 38  Secchia, Quaderno n. 2 cit., p. 340. Sui difficili rapporti con gli intellettuali si veda uno stralcio del diario del secondo segretario dell’ambasciata sovietica a Roma nel quale viene sintetizzato il contenuto di un incontro con Matteo Secchia avvenuto nell’agosto del 1957 cit. in Feltrinelli, Senior service cit., p. 115. 39  Lettera di Secchia a Longo, Milano, 23 dicembre 1956, in Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., pp. 691-692. 40  Ivi, p. 691. 36 37

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Queste righe di Secchia fanno apparire quanto sia drammatica la sua condizione. Si tratta di un uomo ormai rassegnato, che lascia da parte ogni voglia di lotta politica pur di chiudere una volta per tutte quel «caso» che gli ha rovinato la vita. Secchia vuole voltare pagina, ma non può farlo fino a quando l’ombra di Seniga, della sua fuga, del denaro sottratto non verrà archiviata una volta per tutte. Ma se il gruppo dirigente togliattiano impiega i fatti del luglio 1954 come un’arma sempre pronta per ricacciare Secchia nel suo angolo, allo stesso tempo è lo stesso Secchia a rivivere quotidianamente quel tradimento come l’origine della sua disgrazia politica, come una sorta di passato che si vorrebbe lasciare alle spalle ma che non riesce invece a dimenticare. Come un lutto impossibile da elaborare41. Sono in pochi a votare contro l’esclusione di Secchia dalla direzione: Mario Montagnana, Paolo Robotti, Giovanni Brambilla, Pietro Vergani, Giuseppe Alberganti, Enrico Bonazzi e altri tre compagni. Il clima di quella votazione è nelle parole di Alessandro Vaia: «Un gruppo numeroso di compagni si oppone a questa faziosa proposta, ma Amendola reagisce con la sua voce roboante e con tono veemente pronuncia la frase ‘ecco il fronte dei conservatori’»42. Conservatori, dunque. Questa è l’accusa che viene mossa a chi, per salvare Secchia, sembra opporsi a un rinnovamento che, pur con mille contraddizioni, viene tentato davvero. Secchia, polemicamente, scriverà nel suo diario: «A fatti, la lotta è stata condotta esclusivamente contro il cosiddetto settarismo, [...] in realtà, si lotta soltanto contro coloro che vengono definiti conservatori soltanto perché vorrebbero conservare al partito comunista 41  Si veda, a titolo d’esempio, tutta la vicenda legata alla novella pubblicata da Maurizio Ferrara nel settembre del 1957 su «Rinascita» e al carteggio intercorso fra Secchia e Togliatti. Si tratta del breve racconto intitolato La Gran caccia alle Antille, pubblicato sotto lo pseudonimo Little Bald, nel quale si fa una caricatura della destalinizzazione. Secchia si risentì molto perché si sentì chiamato in causa e preso in giro. Si veda l’articolo di Ferrara su «Rinascita» del settembre 1957, pp. 471-473 e il carteggio fra Secchia e Togliatti in Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., pp. 355-356, nota 16. La novella di Ferrara rispondeva a un racconto di Calvino pubblicato su «Città Futura» in cui il bersaglio era l’immobilismo di Togliatti. La firma usata, Little Bald, letteralmente significa «piccolo calvo», ossia Calvino. Si veda la ricostruzione di N. Ajello, Intellettuali e Pci. 1944-1958, Laterza, Roma-Bari 1979, pp. 440-442. 42  A. Vaia, Da galeotto a generale, La Pietra, Milano 1977, p. 243. Si veda anche G. Gozzini, R. Martinelli, Storia del Partito comunista italiano cit., p. 629.

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le caratteristiche di un partito comunista»43. Secchia ovviamente si sente preso di mira direttamente. In realtà, si può tranquillamente affermare che il ricambio al vertice di Botteghe Oscure, in particolare nell’ufficio di organizzazione, sarebbe avvenuto anche senza il caso Seniga, che certo si era rivelato un’ottima occasione per iniziare in anticipo un processo di avvicendamento nei luoghi di potere del Pci che sarebbe avvenuto in tempi diversi, probabilmente si sarebbe verificato non nel 1954-55 ma nel 1956-57, ma sarebbe avvenuto. Il destino di Secchia va infatti incontro alla scure del rinnovamento generazionale che in poco tempo avrebbe tagliato fuori la cosiddetta «vecchia guardia» (con Secchia usciranno dalla Direzione anche, fra gli altri, Negarville, Roveda, D’Onofrio) in favore di quella generazione intermedia che ha in Amendola il più autorevole esponente: una generazione non tanto determinata cronologicamente, ma coagulatasi piuttosto su basi culturali ben diverse da quelle della generazione dei dirigenti terzinternazionalisti. Secchia non coglie la portata del XX Congresso del Pcus e nemmeno dell’VIII Congresso del Pci. Ne vede le contraddizioni ma non riesce a tematizzarle in chiave pienamente politica perché il suo sguardo è offuscato da fattori che ne limitano la lucidità: la depressione, il risentimento e la rabbia sono soltanto tre degli elementi che si stratificano in una tendenza a non collocare più i fatti in una griglia interpretativa complessa e articolata ma piuttosto a leggerli in rapporto a ciò che gli è accaduto, alla sua storia personale recente. Secchia pensa al culto della personalità, ma lo fa guardando soltanto a Togliatti e non a un clima generale di cui era imbevuto tutto il partito, dal centro alle periferie; riflette sul tema della direzione collegiale e lo fa ancora una volta guardando alla segreteria del partito, come se quella segreteria non fosse stata a lungo il luogo principale della sua azione politica. Secchia assume l’atteggiamento dello spettatore. Ma quello che guarda è uno spettacolo di cui, per anni, ha contribuito in modo determinante a scrivere la sceneggiatura. Dopo l’VIII Congresso e dopo la sua sostituzione al regionale lombardo Secchia verrà mandato a lavorare come responsabile dell’attività editoriale del partito. E il suo entusiasmo non è certo alle

  Secchia, Quaderno n. 2 cit., p. 340.

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stelle: «Ho avuto un colloquio con L.L. [Longo] in seguito alla lettera che io gli scrissi. Mi ha spiegato di che genere sarà il lavoro che mi viene affidato. Non ci ho capito granché. Prospettive: egli dice che è un problema da non porsi. Oggi come oggi dovei pormi una sola prospettiva: fare bene il lavoro che mi viene affidato e curare il mio collegio»44. A Secchia viene in sostanza chiesto di mettersi in un angolo a svolgere il suo lavoro senza pensare al passato, ma senza pensare nemmeno al futuro. E non c’è nulla di più lontano dalla sua mentalità. Scrive infatti nel suo diario, con riferimento all’incontro con Longo: Gli ho detto chiaro che non si può andare avanti a fare l’uomo politico se si sa che non c’è più alcuna prospettiva politica, perché almeno da tale punto di vista mi si considera liquidato. Gli ho anche detto che sapevo che sarei stato colpito un poco alla volta, alle spalle; ma naturalmente un uomo ha sempre della speranza. Egli dice che oggi mi devo rifare la pelle. Si tratta del solito consiglio di starmene cheto, cheto... di farmi dimenticare, poi le cose cambieranno. Ma mentre io me ne sto tranquillo per rifarmi la pelle, gli altri mi possono comodamente fare la pelle! Farmi dimenticare! Non chiedono altro, perché quando sarò dimenticato un problema non esisterà più. Mi potranno far fuori quando vogliono. In realtà non si può lavorare senza avere una prospettiva. [...] Una prospettiva ogni uomo la deve avere. Devo essere un uomo politico o un impiegato? Ecco la questione45.

Il modo che Secchia si inventa per non ridursi a fare l’impiegato è la riflessione storica. Una riflessione che egli conduce con occhio politico, prima che storiografico: «Alcuni giorni prima dell’inizio del congresso nazionale del Pci è uscito il mio libro Capitalismo e classe operaia, così avrò modo di farmi sentire ‘presente’, seppure parlando di cose vecchie»46. E poi ci sono i viaggi, molti viaggi: nell’autunno 1959 è in Cina con una delegazione del Pci invitata a partecipare alle celebrazioni del decimo anniversario della rivoluzione. La Cina interessa molto a Secchia: «È stato per me un viaggio di sommo inte  Ivi, p. 343.   Ibid. 46  P. Secchia, Quaderno n. 3. 1957, 1958, 1959, 1960, 1961, in Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 368. 44 45

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resse, anche se troppo rapido. [...] In Cina il culto della personalità è senza dubbio forte. Osservano scrupolosamente un cerimoniale secondo il quale ognuno (anche gli stranieri) ha sempre la precedenza, le attenzioni, l’alloggio, la macchina, in rapporto alla funzione, al grado che ricopre»47. C’è tutta la tensione internazionalista di Secchia nella preoccupazione che egli mostra per i difficili rapporti fra la Cina e l’Urss. Per Secchia, come ha notato Collotti, non sono in gioco soltanto «i rapporti tra i due partiti ma l’esistenza o no di una unità internazionale dei lavoratori»48. L’attivismo sul piano internazionale, con cui Secchia cerca di sconfiggere l’isolamento in cui si trova, si può interpretare da un lato come l’effetto del tempo libero che gli incarichi di partito, sempre più marginali, gli lasciano, dall’altro come il prodotto di quella sua fiducia incrollabile nell’internazionalismo proletario. Una fiducia che alimenta la passione per i viaggi, la curiosità di capire, anche se pure in questo caso Secchia subisce un declassamento. Egli non va più a incontrare i principali dirigenti del movimento comunista internazionale come figura di punta del Pci, partecipando a riunioni politiche riservate alle quali non tutti sono ammessi: anzi, egli è proprio uno dei «non ammessi». Secchia accetta però questo ruolo di secondo piano pur di avere la possibilità di andare a vedere con i suoi occhi cosa sta succedendo nel mondo e diventa così un viaggiatore frenetico. Oltre alla Cina visiterà Cuba, la Palestina, il Vietnam, l’Egitto, la Siria, la Giordania, l’Algeria, la Bulgaria, il Giappone, la Grecia49. E dei temi dell’internazionalismo proletario è tessuta la trama dell’intervento che Secchia pronuncia nel 1961, durante la riunione del Comitato centrale convocata per discutere dei risultati del XXII Congresso del Pcus50. Secchia si concentra in particolare sugli effetti che una sbagliata concezione dell’internazionalismo ha avuto sul Pci. Si tratta in realtà di un unanimismo che spesso è stato, secondo   Ivi, p. 366.   Premessa di Collotti a P. Secchia, Relazione sul viaggio in Cina, settembreottobre 1959, in Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 635. Si veda anche P. Secchia, Appunti sulle questioni cinesi, luglio 1963, ivi, pp. 651-652. 49  Sui viaggi di Secchia si vedano i suoi appunti nei quaderni pubblicati in Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit. In particolare, pp. 527-532, 565-580, 627-666. 50  Il Pci e lo stalinismo. Un dibattito del 1961, a cura di M.L. Righi, Introduzione di R. Martinelli, Editori Riuniti, Roma 2007. 47 48

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il comunista, celato sotto il velo dell’internazionalismo: «Nel giugno 1956 discutendo di questi problemi, riconoscemmo apertamente [...] la nostra corresponsabilità nell’aver accettato senza critiche determinate teorie, e di avere introdotto nella nostra propaganda il culto della personalità di Stalin. La nostra corresponsabilità è più ampia e consiste, ad esempio, nel costume che da quel culto era derivato di non avanzare mai alcuna riserva [...] su determinate questioni (sulle quali magari riserve c’erano)»51. Secchia si riferisce alla Jugoslavia: «Quando si trattò ad esempio di condannare il Partito comunista jugoslavo, ci dichiarammo pienamente d’accordo. In seguito, quando i compagni sovietici riconobbero che quello era stato uno dei più gravi errori commessi da Stalin, anche noi concordammo pienamente con tale riconoscimento»52. Secchia, come avviene anche in altre occasioni, parla dell’internazionalismo, del Pcus, dell’Urss ma ha sempre lo sguardo indirizzato verso il Pci. E il tema della democrazia interna e del ruolo del dibattito politico, così presente nella discussione sul XXII Congresso, gli serve per lanciare qualche frecciata a Togliatti e al suo gruppo dirigente. Lo fa velatamente, ma con decisione: «Il male nell’Urss non cominciò negli anni 1936-38, ma assai prima, forse dieci anni prima, quando divenne difficile, poi impossibile alle minoranze sostenere apertamente le loro opinioni nel partito [...], quando venne introdotto nel Pcus il costume della unanimità, quando coloro che restavano minoranza, anche se disciplinati e attivi nell’applicare la linea politica, venivano tolti da tutti gli organismi dirigenti»53. E che Secchia parli del Pci, e anche della sua vicenda, è chiaro quando richiama il bisogno di «ricreare un costume nuovo, una mentalità nuova» perché «la coscienza democratica deve esprimersi nelle norme statutarie di partito, ma la dobbiamo soprattutto portare dentro di noi»54. Anche in questo caso, come in altre occasioni, la critica di Secchia è il prodotto di diversi fattori che si fondono: c’è l’irritazione per i

  Intervento di Secchia, ivi, p. 242.   Ibid. 53  Ivi, p. 245. 54  Ivi, p. 246. Per un giudizio di Secchia sul Comitato centrale, particolarmente critico verso la relazione di Togliatti, si veda Secchia, Quaderno n. 3 cit., pp. 398-399. 51 52

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metodi con i quali si è condotta la critica allo stalinismo (metodi che Secchia, pur senza affermarlo esplicitamente, sembra ritenere «borghesi»); affiora poi lo sconcerto per un atteggiamento che vuole far piazza pulita del passato, quasi per ricreare una sorta di verginità politica al gruppo dirigente del Pci. Ma soprattutto, ancora una volta, c’è il rancore provato da chi si sente un capro espiatorio, una vittima sacrificale sull’altare del rinnovamento. Ma queste critiche vengono depotenziate inevitabilmente proprio dall’atteggiamento dello stesso Secchia, che non riesce a tenere a freno la rabbia per la sua esclusione e che finisce per impancarsi a giudice di metodi politici che certo non sono estranei alla sua cultura e che, del resto, aveva sempre impiegato nel suo lavoro di dirigente. 2. Due diverse speranze: Longo e il Sessantotto Nel 1962 Secchia è rassegnato. E sembra voler pensare soltanto più alla sua posterità: «Penso che nel 1963 se si chiuderà la mia vita politica attiva dovrei pubblicare subito, anche prima degli ‘anni di vita’ una raccolta di alcuni miei discorsi e scritti dei vent’anni, 19431963»55. L’ex numero due del Pci si sente sempre più emarginato: quando nell’aprile 1962 il Comitato centrale aveva votato la commissione per la preparazione delle tesi congressuali né Secchia, né molti altri compagni della «vecchia guardia» erano stati nominati. Saranno poi inseriti dopo, a seguito delle proteste di qualcuno, ma il loro contributo sarà pressoché inutile e ignorato. Il lavoro a cui Secchia si dedica più attivamente è quello nell’Anpi, di cui è divenuto vicepresidente e nei rapporti con i «partiti fratelli» per l’attività editoriale del partito. Non lo appassionano nemmeno più i congressi, tanto che al X, nel dicembre del 1962, non interviene nemmeno: «Non ho preso la parola non soltanto perché non sono stato sollecitato (al contrario, erano molto desiderosi ‘loro’ che io non parlassi e se avessi chiesto di parlare forse non mi avrebbero dato la parola come hanno fatto al IX Congresso) ma perché ciò faceva comodo a me. Se avessi parlato

55  P. Secchia, Quaderno n. 5. 1962-1963, in Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 449.

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avrei al massimo potuto fare delle critiche marginali, qualche ricamo, e avrei dovuto dire o dimostrare di essere fondamentalmente d’accordo con la politica del partito»56. Alla fine del 1962 Ingrao comunica a Secchia la possibilità di essere sostituito alla guida delle edizioni del partito e gli propone, di fatto, di dedicarsi soltanto più al lavoro parlamentare e al coordinamento delle attività dei gruppi comunisti alla Camera e al Senato57: «Non mossi obiezioni, non protestai, primo perché me l’aspettavo, secondo perché il lavoro editoriale che facevo era una presa in giro, non avevo alcun potere, avrei dovuto andarmene io prima»58. Lo sconforto di Secchia è sempre più forte. Nel gennaio 1963 scrive sul suo diario: Può giungere un momento in cui all’interno del partito non si possa assolutamente più né fare né dire nulla. A quel punto anche il restare dentro non serve più a niente se non a fare onore ad una firma che si era posta su ben altri programmi e in altre condizioni. Sino a quando è possibile sia pur limitatamente agire e parlare all’interno del partito, meglio restare all’interno perché è il solo modo per dare un contributo alla lotta, per influire nella direzione che si ritiene giusta. Quando all’interno si fosse privati di ogni possibilità di fare e di dire allora non si sarebbe altro che un cane in chiesa. I cani in chiesa non ci possono stare così come non «ci si può stare a dispetto dei santi». Se continua di questo passo temo che arriverò a quel punto. Per ora mi trovo ancora nella situazione in cui ci vuole molto coraggio per «vivere», per restare ingoiando i rospi; però per ora qualche cosa posso ancora fare e dire, ed ho ancora una certa possibilità di esprimere delle opinioni e fare circolare delle idee. Possibilità limitate, ma ne ho ancora59.

È davvero un’opzione che Secchia prende in esame quella di lasciare tutto? O si tratta dell’ennesimo sfogo, dopo aver ricevuto l’incarico di dedicarsi soltanto alla cosa che lo annoia di più, il lavoro

56  Ivi, p. 459. Sul IX congresso si veda il volume IX Congresso del Partito comunista italiano. Atti e risoluzioni, 2 tomi, Editori Riuniti, Roma 1960; sul X: X Congresso del partito comunista italiano. Atti e risoluzioni, ivi, 1963. 57  Secchia, Quaderno n. 5 cit., pp. 460-461. 58  Ivi, p. 461. 59  Ivi, p. 464.

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parlamentare? Si possono individuare degli elementi che possono aver indotto Secchia ad archiviare definitivamente l’ipotesi di lasciare il partito? Il primo fattore che si può presumere abbia un po’ rincuorato Secchia, almeno per ciò che questo avvenimento avrebbe rappresentato nella sua dimensione pubblica, è l’elezione a vicepresidente del Senato, nel maggio del 1963. In realtà si tratta di una carica che Secchia non desiderava e che avrebbe scambiato volentieri con la vicepresidenza del gruppo parlamentare comunista, con un ruolo, insomma, più politico e meno istituzionale60. Secchia tiene duro, a lungo rifiuta di candidarsi per la carica che gli viene proposta ma alla fine deve cedere61. E si interroga: «Perché questa designazione? Non credo per rivalorizzarmi. Certo non mi hanno dato un pugno. La carica è di prestigio e molti l’avrebbero ambita»62. Il prestigio della carica, sembra affermare Secchia, è il risarcimento che gli viene concesso per essere stato praticamente sepolto in Parlamento: Nella loro decisione c’è entrato, assieme alla volontà di «rinnovare», forse il calcolo politico di togliermi definitivamente dagli incarichi di lavoro di partito, di dare un contentino ad una parte del partito (alla sinistra), di insabbiarmi in un lavoro che mi inchioda e mi lega proprio perché inadatto per me, e mi impedisce così di applicarmi all’attività della storia del partito (scrivere libri); forse ha voluto essere anche un mezzo per darmi una certa «soddisfazione» e impedire (nei loro calcoli) che io mi allontanassi in un certo senso e cioè per impedire che io accentui le mie critiche, ecc. [...] Fatto sta che io mi trovo da dieci giorni nella situazione di aver perso la mia pace, di essere pieno di apprensioni e rammaricato di non poter più proseguire con la stessa tranquillità e con lo stesso ritmo i miei studi e i miei lavori di pubblicista. Avevo iniziato il libro sul Centro interno con vero entusiasmo, ed ora devo perdermi a studiare il regolamento del Senato! Il destino è veramente cinico e baro come dice Saragat!63

Nel 1963 il tono dei diari di Secchia è forse fra i più aspri di tutto il suo percorso autobiografico. Critica lo svuotamento di poteri del   Ivi, p. 467.   La descrizione della lunga vicenda è ivi, pp. 467-468. 62  Ivi, p. 468. 63  Ivi, p. 469. Il riferimento al volume che Secchia sta scrivendo è a L’azione. 60 61

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Comitato centrale64, le «sviolinature» in occasione dell’agonia di Giovanni XXIII65, per poi ritornare al tema della destalinizzazione e al comportamento di Togliatti: «Così pure è assurdo che Togliatti possa credere di potersi giustificare sul periodo staliniano dicendo: ‘Noi non sapevamo nulla. Io ignoravo, ecc.’ Tra l’altro questo argomento non vale per le teorie di Stalin oggi criticate. [...] Bisognerebbe dire: ‘Noi ci ritenevamo dei grandi marxisti ed abbiamo ritenuto giuste ed esaltate certe teorie di Stalin [...] che erano profondamente errate, solo perché ubriacati dal culto della personalità’. Ammissione che potrebbe essere assai pericolosa perché qualcuno potrebbe chiedere se l’annebbiamento, l’ubriacatura c’è stata ieri o è in corso oggi»66. Tutta l’irritazione di Secchia sfocia nell’intervento al Comitato centrale del mese di luglio. Si tratta di un intervento che, come dirà lo stesso Secchia, provoca «l’incazzatura di Togliatti»67. Il tema sul tappeto riguarda le relazioni cino-sovietiche. Secchia interviene con un lungo discorso che pare quasi una controrelazione. Il tono è duro: verso il relatore, verso il Pc cinese e verso i sovietici, ma anche verso il Pci68. Secchia sottolinea l’insufficienza della relazione di Pajetta, alla quale imputa di aver tralasciato molti aspetti del problema del conflitto ideologico fra Urss e Cina. Innanzitutto egli sottolinea l’inedita gravità della rottura in seno al movimento comunista internazionale, e la sottovalutazione da parte del Pci di questo problema: «Se prendiamo anche alcuni articoli o riassunti di interventi di compagni dirigenti del nostro partito, apparsi in questi ultimi giorni sul nostro quotidiano, io non trovo che in essi il problema della necessità assoluta di mantenere l’unità del movimento comunista e operaio internazionale sia posto con forza, ampiezza adeguate ed abbia il peso che dovrebbe avere»69. Nemmeno i «due grandi partiti», ossia il partito cinese e quello sovietico, afferma Secchia, sembrano avere coscienza dell’irrinunciabilità dell’unità70. Egli critica infatti sia i sovietici che i cinesi per aver sempre sventolato la bandiera dell’internazionalismo

  Ivi, pp. 469-470.   Ivi, p. 471. 66  Ivi, p. 475. 67  Ivi, p. 482. 68  L’intervento di Secchia pronunciato il 26 luglio 1963 è ivi, pp. 494-504. 69  Ivi, p. 497. 70  Ivi, p. 499. 64 65

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per poi arroccarsi su posizioni fatte apposta per dividere. E di fronte a questa situazione, continua Secchia, il Pci non può stare a guardare: «Essere per l’unità non significa esprimere un augurio, un desiderio, ma impegnarsi a fare tutti gli sforzi ed a prendere le necessarie iniziative per mantenere l’unità e per rimediare alla rottura nella misura in cui è in atto»71. Il Pci, dunque, dovrebbe farsi carico di organizzare un momento di confronto internazionale nel quale affrontare il tema dell’unità dei partiti comunisti, costringendo così i sovietici e i cinesi a confrontarsi senza nascondersi dietro a rotture che sembrano nascere, agli occhi di Secchia, soltanto da discussioni ideologiche. Secchia sa che il suo intervento provocherà delle reazioni: «avevo detto ad alcuni prima di parlare: vado a cercarmi dei guai»72. Lo stesso Togliatti si vedrà costretto a intervenire, ma di questa polemica fra il segretario e Secchia non c’è traccia nel resoconto del Comitato centrale pubblicato sull’«Unità»73. È lo stesso Secchia a trascrivere sul suo diario ciò che Togliatti avrebbe detto: Sono costretto ad intervenire dopo l’intervento del compagno Secchia che è sbagliato nel contenuto e nella forma. Per la forma egli ha fatto un discorso che letto normalmente sarebbe durato un’ora e mezzo, quasi fosse un correlatore. Poi l’intervento era preparato prima, scritto a macchina senza dubbio per poterne conservare copia negli archivi di casa, ma dove vanno poi a finire questi archivi? Dal punto di vista del contenuto il discorso del compagno Secchia era soltanto un discorso agitatorio sull’unità privo di qualsiasi argomentazione. Il nostro Comitato centrale deve respingere il discorso del compagno Secchia per la forma e per il contenuto74.

In quest’occasione viene allo scoperto una rabbia reciproca che ormai covava da tempo. Secchia non sopporta più i metodi della direzione togliattiana, che ritiene autoritaria, moderata e spesso incapace di formulare delle posizioni nette. E Togliatti, dal canto suo, non sopporta più l’atteggiamento di Secchia che ora si impanca a critico di un sistema di direzione che aveva contribuito a creare e

  Ivi, p. 501.   Ivi, p. 481. 73  «l’Unità», 25-27 luglio 1963. 74  Secchia, Quaderno n. 5 cit., p. 482. 71 72

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che continua a sottolineare, quasi con un fare da primo della classe, le insufficienze delle analisi del partito. Si scontrano quindi due persone reciprocamente irritate, il cui rapporto si è andato logorando lentamente e irrimediabilmente. C’è un altro elemento, fino ad allora rimasto in secondo piano. Nonostante i dissensi, Togliatti aveva mostrato di fidarsi ancora di Secchia, almeno fino al 1953, quando lo aveva mandato a Mosca a parlare con Molotov. Ora, di quel residuo di fiducia non c’è più traccia. L’accusa sul suo archivio e sul relativo destino è pesante, ed è soprattutto la testimonianza di un cortocircuito vero e proprio. Secchia scriverà in proposito: «[Togliatti] ha dimostrato di avere una paura terribile del ‘mio archivio’. Non è solo il dove va a finire, ma Togliatti non vorrebbe che rimanesse traccia di certe posizioni sue e di altri non d’accordo con lui. Lui sa benissimo che la scure non può cancellare ciò che la penna scrive»75. Con la sua replica Togliatti ha violato la tacita regola di polemizzare senza trascendere. Infatti, annota Secchia, il suo intervento aveva suscitato «penosa impressione» anche fra i suoi più accesi sostenitori76. Ma del resto anche Secchia aveva dato al proprio discorso un taglio esageratamente aspro, con un palese intento polemico. Il suo isolamento, infatti, è ormai tale da spingerlo a rendersi conto che «tutto si riduce da parte mia a prendere di volta in volta posizione sulla questione, appagandomi di dire quello che penso. Dixi et salvavi animam meam»77. Questo scontro è destinato a chiudersi di lì a breve, con la morte di Togliatti, avvenuta il 21 agosto 1964 a Yalta. Oltre all’elezione a vicepresidente del Senato, carica che lo non entusiasma ma che gli consente di avere una certa visibilità pubblica e che comunque gli dà prestigio, c’è un altro fattore che tiene Secchia inchiodato al partito pur con tutte le sue criticità. Si tratta di un avvenimento che gli ridà per un po’ una piccola iniezione di fiducia. 75  Ibid. Sul risentimento di Secchia per le parole di Togliatti si veda anche la lettera a Pellegrini, Varallo, 19 agosto 1963, in FGF, Fondo Secchia, Serie Corrispondenza, Contenitore 1, f. 2, Lettere politiche diverse, 1966-1971 nella quale Secchia afferma di voler andare da Togliatti per chiarire che il suo non è un archivio segreto con documenti di partito ma una semplice raccolta dei documenti che ha impiegato per le ricerche storiche e dei suoi interventi nelle diverse istanze di partito. 76  Secchia, Quaderno n. 5 cit., p. 482. 77  Ivi, p. 483.

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Non è la morte di Togliatti ma è con essa collegato: l’elezione di Longo a segretario del Pci. Andiamo per gradi. La morte di Togliatti colpisce Secchia che, nel suo diario, ne scrive sinceramente: «Impossibile in questo momento trovare le parole giuste per dire di lui e dell’opera sua in modo adeguato, per una valutazione degna ed obiettiva. Troppi pensieri e troppi ricordi si affollano, fanno ressa, si fondono e si confondono col dolore, la commozione e con i sentimenti che ognuno prova in questi giorni. Con Togliatti scompare una delle più eminenti, capaci e dotate figure di dirigenti comunisti e del movimento operaio italiano e internazionale»78. Secchia loda Togliatti lasciando da parte il risentimento degli ultimi anni: «È stato senza dubbio il più capace capo partito e uomo di Stato che l’Italia abbia avuto nel corso degli ultimi trent’anni, il più capace e influente dirigente comunista che i paesi capitalistici abbiano avuto in questo periodo di tempo»79. L’irritazione di Secchia torna però a galla quando si tratta del rituale funebre. In particolare non sopporta che vi sia una gerarchia fra i compagni che ricevono il feretro di Togliatti all’aeroporto: «Vi sono compagni che furono per quaranta anni compagni di lotta di Togliatti, che con lui diressero il partito per molti anni nelle condizioni più dure e difficili, [...] ma se non portano oggi i galloni dell’attuale direzione non hanno il diritto di avvicinarsi di un passo all’area riservata agli ‘eletti’»80. Non gli piacciono, insomma, le «confusioni di questi momenti, piccinerie e meschinità degni di una confraternita di gesuiti»81. Così come non lo convincerà il clamore – «grande sfoggio di luci, flashes, riprese fotografiche e filmate»82 – attorno all’elezione di Longo a segretario. Col cambio al vertice di Botteghe Oscure, Secchia si sforza di vedere dei segnali di mutamento, delle aperture nei suoi confronti. È ciò che accade quando gli viene chiesto di far parte della delegazione inviata al Congresso della Lega dei comunisti jugoslavi, nel dicem-

78  P. Secchia, Quaderno n. 7. La morte di Togliatti, in Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 546. 79  Ibid. 80  Ivi, p. 547. 81  Ibid. 82  Ivi, p. 548.

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bre del 1964. È Secchia stesso a interrogarsi sul significato di questa insperata occasione: «Perché dopo tanto tempo abbiano pensato di includermi in questa delegazione del partito non lo so. È forse per far vedere che le delegazioni le compongono mettendovi dentro anche compagni che sono orientati in altro modo, che hanno posizioni diverse da quelle del gruppo dirigente. È forse per la necessità in questo momento di realizzare una maggiore unità nel partito? È forse un indice di un qualche mutamento se non di linea, almeno di atteggiamento verso di me o verso i ‘vecchi’ compagni?»83. Ma il rapporto di Secchia con il segretario Longo non sarà affatto facile. Ci sono di mezzo gli equilibri di partito, l’ingombrante proposta di Amendola – un vero e proprio fulmine a ciel sereno – sull’unificazione coi socialisti e l’atteggiamento di Longo, la cui linea a Secchia pare la stessa di Amendola, «posta forse meglio, senza le ‘sortite’ e la franchezza di Amendola»84. Longo, secondo il comunista biellese, è ambiguo: Dopo la morte di Togliatti egli dice di cercare di utilizzare i vecchi compagni. Vi sono – dice – delle difficoltà, non è cosa facile, ha l’aria di promettermi l’ingresso in direzione. Non lo dice esplicitamente, ma lo fa capire. [...] Longo chiede di essere appoggiato, aver fiducia in lui. Ma non si può appoggiarlo soltanto per amicizia. [...] Se Longo avesse una propria politica senz’altro si dovrebbe appoggiarlo [...]. Ma in realtà egli non ha una sua linea politica. [...] In cambio dell’appoggio non offre nulla se non il far balenare l’eventuale inclusione in organismi dirigenti, il che può essere un inganno, una di quelle presunte furberie da monferrino che inganna soltanto gli sciocchi. Comunque, anche se fosse sincero non ci starei, perché non sono disposto a sostenere una politica alla quale non credo soltanto per avere un posto in direzione85.

Sul tappeto c’è la posizione di Amendola che, come scrive Secchia stesso, susciterà grande sensazione nel partito, così come lo stupirà il fatto «che tale articolo sia stato pubblicato senza una nota, senza una riserva, senza un commento»86. 83  Secchia, Quaderno n. 6. 1964-1970, in Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 513. Si veda anche Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata cit., pp. 149-152. 84  Ivi, p. 520. 85  Ibid. 86  Ivi, p. 512.

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L’articolo di Amendola propone, con inedita franchezza e senza mezzi termini, la «necessità e possibilità della formazione di un partito unico della classe operaia»87. Nell’intento di Amendola, si sarebbe dovuto trattare di «un partito nuovo, capace di elaborare una strategia nuova e una politica nuova della lotta per il socialismo nel nostro Paese»88. Secchia subito si arma di penna e risponde con un articolo che però Pajetta, direttore di «Rinascita», non vuole pubblicare come prima replica: «Tu passi per uno stalinista, se pubblico subito la tua risposta si dirà: ecco gli stalinisti, la vecchia guardia che subito si fa viva»89. Verrà quindi pubblicata prima una risposta di Romano Ledda nella quale si critica l’opzione amendoliana e «la sua proposta di un partito unificato che nasca dall’abbandono del riformismo e del leninismo, o dal loro incontro a mezza strada, o anche dal loro superamento»90. Il turno di Secchia arriva finalmente la settimana dopo, quando il dissenso della base si è già fatto sentire91. Il comunista non si risparmia e pubblica un lungo articolo che ruota attorno al tema dell’unità della classe operaia per la trasformazione socialista della società. Secchia critica infatti anche la replica di Ledda, nella quale comunismo e socialdemocrazia venivano dipinti come due diverse strade per raggiungere la medesima meta: il socialismo. Secchia è netto: «La socialdemocrazia non si propone affatto la trasformazione socialista della società»92. Allo stesso modo rifiuta l’opzione teorica per cui un partito che non raggiunge il proprio obiettivo in cinquant’anni deve per forza

87  G. Amendola, Ipotesi sulla riunificazione, in «Rinascita», 28 novembre 1966, p. 8. Sullo stesso tema Amendola era già intervenuto sul settimanale del Pci il 7 novembre, con un articolo intitolato Il socialismo in Occidente. Su questi passaggi e sul costante richiamo di Amendola a una politica unitaria si vedano: D. Sassoon, Togliatti e la via italiana al socialismo. Il Pci dal 1944 al 1964, Einaudi, Torino 1980, pp. 294, 314 sgg.; Martinelli, Storia del Partito comunista italiano cit., pp. 69, 82; G. Cerchia, Giorgio Amendola. Gli anni della Repubblica (1945-1980), Cerabona, Torino 2009, p. 294; A. Höbel, Il Pci di Luigi Longo (1964-1969), prefazione di F. Barbagallo, Esi, Napoli 2010, pp. 86 sgg. 88  Amendola, Ipotesi sulla riunificazione cit., p. 8. 89  Secchia, Quaderno n. 6 cit., pp. 512-513. 90  R. Ledda, La riunificazione: come e per che cosa, in «Rinascita», 5 dicembre 1966, p. 8. 91  Höbel, Il Pci di Luigi Longo (1964-1969) cit., p. 87. 92  P. Secchia, La questione essenziale è l’unità della classe operaia, in «Rinascita», 12 dicembre 1966, p. 5.

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cambiare. Per Secchia si tratta di una soluzione politica che sottende un esito teorico: l’abbandono del marxismo-leninismo. Ciò che secondo Secchia è invece necessario fare è lavorare per l’unità della classe operaia senza accelerazioni, puntando «intanto a realizzare un’intesa più larga, una maggiore collaborazione, a operare delle scelte e sul piano sindacale e sul piano politico, sulla politica interna e sulla politica estera, che pongano sulla stessa piattaforma, fianco a fianco, almeno sui problemi fondamentali, i partiti della sinistra democratica»93. Ritorna in Secchia la concezione dell’unificazione socialista, intesa non come mera fusione di due partiti, che già aveva sostenuto durante la Resistenza94 e che aveva continuato a sostenere negli anni successivi. Amendola replicherà ancora, in una noticina al fondo dello scritto, accusando Secchia di usare le citazioni di altri come delle «stampelle»95, quasi come risposta all’ironia con la quale l’ex vicesegretario aveva commentato «l’impegno e il coraggio del compagno Amendola nell’esprimere chiaramente le sue opinioni e nell’esprimerle in modo incisivo»96. Longo risponderà alla proposta di Amendola con grande prudenza e ciò certamente dovette lasciare Secchia insoddisfatto97. Infatti egli si sarebbe atteso dal suo vecchio compagno di lotte un tono più netto, riguardo a una proposta, come quella amendoliana, che la storiografia ormai tende a riconoscere almeno come «poco realistica»98. Ma ancora non siamo arrivati ai toni davvero aspri che Secchia riserverà a Longo di lì a non molto. Si tratta del commento a un’intervista rilasciata dal segretario a «Der Spiegel», nel quale il comunista biellese riversa una durezza inaudita. A dire la verità il contenuto dell’intervista è oltremodo prudente, a tratti contraddittorio, in particolare per quanto riguarda   Ivi, p. 6.   E. Ragionieri, Il partito comunista, in Valiani, Bianchi, Ragionieri, Azionisti, cattolici e comunisti nella Resistenza cit., p. 422. 95  G. Amendola, Battaglia unitaria per il socialismo, in «Rinascita», 12 dicembre 1966, p. 8. 96  Secchia, La questione essenziale è l’unità della classe operaia cit., p. 5. 97  Höbel, Il Pci di Luigi Longo (1964-1969) cit., pp. 88-89. 98  R. Gualtieri, Giorgio Amendola dirigente del Pci, in «Passato e Presente», 2006, 67, p. 35. 93 94

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il tema della distribuzione della proprietà in una futura società socialista, e i giornalisti del settimanale tedesco l’hanno confezionata ad arte, un po’ per ridicolizzare il Pci e il suo segretario. Anche la «ripresa» dell’intervista da parte dell’«Unità» non riesce a nascondere il tono generale del colloquio che pare una sorta di interrogatorio a un imputato piuttosto imbarazzato99. Secchia commenta: «È un capolavoro di pacchiano revisionismo e di idiozie politiche condite da una assoluta mancanza di principi e di dignità personale. I redattori di ‘Der Spiegel’, che sono degli autentici mascalzoni, lo hanno sfacciatamente preso in giro». A Secchia non piacciono «le solite sviolinate ai cattolici» e le «affermazioni sulla proprietà privata da far sbalordire il più socialdemocratico dei socialdemocratici»100. Se le speranze di ritornare sulla breccia, almeno nella vita interna di partito, non si tramuteranno in nulla di concreto, c’è però un altro elemento che aiuta Secchia a sperare. Non si tratta più di una speranza nella quale gioca un qualche ruolo l’aspettativa di rivincita personale, è qualcosa di più ampio e di meno legato alle dinamiche interne al partito. È il Sessantotto che dà speranza a Secchia. Lo scoppio delle agitazioni studentesche in Italia avvenne contro un provvedimento che il Pci aveva duramente osteggiato nelle sedi parlamentari: il disegno di legge 2314 per la riforma dell’Università voluto dal ministro Gui. Ciò non toglie che il Pci fu colto di sorpresa dalla radicalità e dall’ampiezza che queste lotte andarono assumendo tra il 1967 e il 1968101. Fu il tono di queste lotte, almeno all’inizio, ciò che rese difficile il rapporto tra il partito e il movimento degli studenti. Un rapporto che però nemmeno nei momenti di maggiore frizione venne meno proprio per volontà del Pci, spesso messo sotto accusa dal movimento poiché visto come «partito d’ordine» moderato e non rivoluzionario102.

  Un’intervista di Longo a «Der Spiegel», in «l’Unità», 30 agosto 1966, p. 3.   Tutte le citazioni sono in Secchia, Quaderno n. 6 cit., p. 525. 101  Significativa è l’affermazione a caldo di Pietro Ingrao: «Il partito è stato colto in contropiede, si è creata una nuova forza rivoluzionaria al di fuori del nostro controllo, senza che ce ne fossimo accorti». La citazione è in G. Piazzesi, I gendarmi della protesta, in «Corriere della Sera», 18 luglio 1968 cit. in G.C. Marino, Biografia del Sessantotto. Utopie, conquiste, sbandamenti, prefazione di N. Tranfaglia, Bompiani, Milano 2004, pp. 332-333. 102  A. Agosti, Storia del Partito comunista italiano. 1921-1991, Laterza, RomaBari 1999, p. 101. 99

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Un continuo confronto-scontro caratterizzerà il dialogo tra il Pci e il Sessantotto degli studenti. Se, infatti, nel ’69 il partito comunista diventerà il principale interlocutore del movimento operaio raccogliendone e traducendone in chiave istituzionale gran parte delle istanze, grazie anche al beneficio tratto in sede elettorale103, ciò non avviene per il Sessantotto studentesco anche a causa della presenza di due diversi orizzonti concettuali che si confrontano senza capirsi104. Il Sessantotto, «la prima grande rivolta di matrice interamente generazionale affacciatasi sulla ribalta della storia mondiale»105, vede quindi il Pci alle prese col tentativo di comprendere, seguire e sostenere l’azione degli studenti senza riceverne in cambio una legittimazione a farlo. Scrive Hobsbawm sulla questione generazionale che «la gioventù, in quanto gruppo autoconsapevole che si estendeva dalla pubertà [...] fino ai venticinque anni circa, diventò un agente sociale indipendente»106. È ancora Hobsbawm a riflettere su questo tema: Il carattere essenzialmente antinomico della nuova cultura giovanile si manifestò con chiarezza quando trovò espressione intellettuale, come accadde nei manifesti del maggio parigino del 1968, che divennero subito famosi: si pensi allo slogan «È vietato vietare», e al detto del cantante pop americano di idee radicali Jerry Rubin, secondo il quale non ci si deve mai fidare di chi non abbia passato almeno un po’ di tempo in galera. Contrariamente all’apparenza, queste non erano affermazioni politiche nel senso tradizionale, neppure nel senso più ristretto di espressioni miranti 103  Ivi, pp. 102-103; Id., Partito comunista in Italia, in Dizionario del comunismo nel XX secolo, a cura di S. Pons e R. Service, II, M-Z, Einaudi,Torino 2007, p. 179. Si veda inoltre Id., Bandiere rosse cit., pp. 257-258. 104  M. Albeltaro, Pietro Secchia e il Sessantotto. Appunti a uno scritto inedito, in «le classi, la storia», 2009, autunno-inverno, pp. 43-58. Si veda inoltre A. Petrini, La lunga eredità del Sessantotto. Per una critica della contestazione giovanile, in Id., Dentro il Novecento. Un secolo che non abbiamo alle spalle. Frammenti di storia della cultura e dello spettacolo, Zona, Arezzo 2006. 105  Si vedano: G. De Luna, «L’eterna giovinezza»: il sortilegio del ’68, in Il sogno di cambiare la vita (fra gabbiani ipotetici e uccelli di rapina). Modelli sociali, educativi e artistici del ’68, a cura di R. Alonge, Carocci, Roma 2004, p. 43; Id., Il 1968, in Enciclopedia della sinistra europea nel XX secolo, diretta da A. Agosti, Editori Riuniti, Roma 2000, p. 771. Utile anche D. Giachetti, Un Sessantotto e tre conflitti. Generazione, genere, classe, Bfs, Pisa 2008. 106  E.J. Hobsbawm, Il secolo breve 1914-1991, Rizzoli, Milano 2000, p. 381.

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ad abolire leggi repressive. Non era questo il loro obiettivo. Erano invece pubbliche proclamazioni di desideri e sentimenti privati107.

Anche per l’Italia vale lo stesso. Questo intreccio tra privato e pubblico si risolverà nel lungo periodo in una netta vittoria del primo ambito sul secondo. Le premesse di questa vittoria sono quelle che hanno reso impossibile un’unità d’azione tra il Pci (agente politico di sintesi delle istanze di mutamento della società) e il movimento degli studenti (sommatoria di individui che declinano la politica come strumento di coesione generazionale e di ribellione contro tutte le strutture del presente e del passato). Il Pci fu seriamente interessato a un confronto, che portò avanti per convinzione del suo segretario Luigi Longo108 il quale, tra l’altro, si espose per questo a non poche critiche, ma non si intese fino in fondo con l’interlocutore. Ciò non toglie che gli scritti di Longo sul movimento studentesco segnino una tappa fondamentale e rivestano una grande importanza nella storia del rapporto tra la sinistra italiana e il Sessantotto, così come il confronto col movimento andò a influire molto sulla concezione politica del segretario comunista e ciò appare dalla sua più compiuta e articolata sintesi: il rapporto al XII Congresso (1969)109. Che un rivoluzionario professionale come Secchia, figlio della Terza internazionale, si sia riempito di speranza di fronte al movimento studentesco, potrebbe stupire. In realtà la sua apertura verso il Sessantotto è l’estrema testimonianza di tutti i mutamenti di fisionomia caratteriale e politica che egli ha subito durante l’arco della sua vita. Ma di questo diremo in conclusione. Secchia nell’aprile del 1968 era intervenuto su «Baita», il giornale dei comunisti biellesi, ragionando intorno a un tema cruciale: «Cosa vogliono i giovani?»110. Fin dall’incipit è chiaro che Secchia ha ben inteso la portata delle rivendicazioni del movimento studentesco: non si tratta, afferma, di richieste inerenti la sola organizzazione della scuola

107  Ivi, pp. 390-391. Si veda Petrini, La lunga eredità del Sessantotto cit., pp. 150-152. 108  Si veda su questo punto A. Ballone, L’anno degli studenti e l’autunno caldo, in Luigi Longo. La politica e l’azione, Premessa di G. Vacca, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 283-318. Si veda anche Flores, Gallerano, Sul Pci cit., p. 190. 109  Höbel, Il Pci di Luigi Longo (1964-1969) cit., cap. XV. 110  P. Secchia, Cosa vogliono i giovani?, in «Baita», 18 aprile 1968, p. 3.

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e dell’università, si tratta invece di «assai di più»111. Scrive Secchia che «le proteste dei giovani non sono solo un rifiuto del vecchio, del passato e del presente, ma hanno una possente carica positiva: guardano all’avvenire. La loro non è soltanto una protesta, una negazione, ma alla vecchia società ne contrappongo una nuova. Le loro grida Viva Ho Chi Min, Evviva il Vietnam, così come il loro entusiasmo per l’esempio lasciato da Che Guevara, dicono tutto. Dicono che non si tratta, come qualcuno vorrebbe, di un conflitto di generazioni»112. Per Secchia «il contrasto fondamentale dell’epoca nostra non è un contrasto tra generazioni (anche se elementi del genere sono presenti, differenze di età, di bisogni, di cultura, di modi di sentire), ma è il contrasto tra il capitalismo con le sue vecchie strutture che rappresenta il passato e il socialismo che rappresenta l’avvenire»113. Secchia ha la forma mentis del rivoluzionario terzinternazionalista, ragiona all’interno di uno schema interpretativo classico in cui la gerarchia di valori ha al suo apice la lotta di classe. Una lotta di classe, per così dire, pura, la cui efficacia discende proprio dal non essere contaminata da altri elementi. Egli guarda con attenzione al Sessantotto perché vi vede – e vuole vedervi – un fenomeno di lotta di classe. Riconoscerà poi l’esistenza di una matrice generazionale, ma lo farà interpretando questo elemento come marginale, secondario, rispetto al fattore che più appassiona un comunista della sua generazione. Anche per questo egli sottolinea l’importanza di una saldatura fra lotte studentesche e lotte operaie, e invita gli studenti a «marciare sempre più fianco a fianco con i giovani operai (le forti e ripetute agitazioni della Fiat di questi giorni sono di buon auspicio) e con le masse lavoratrici di ogni età»114. Nei suoi diari scriverà senza mezzi termini: «Sugli studenti e la loro lotta avanzata in tutti i paesi è mia opinione che si tratti [del] più possente movimento rivoluzionario di questi anni»115. Il Sessantotto appassiona Secchia per almeno tre ragioni: è un movimento radicale, coinvolge i giovani ed è un fenomeno plane-

  Ibid.   Ibid. 113  Ibid. 114  Ibid. La citazione è anche in Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., p. 534, nota 72. 115  Id., Quaderno n. 6 cit., p. 534. 111 112

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tario, in cui davvero l’internazionalismo sembra concretarsi non soltanto per la simultaneità delle proteste ma per gli scambi che avvengono fra i movimenti dei diversi paesi. Secchia vuole a tutti i costi scorgere nel Sessantotto la prevalenza dell’elemento di classe su tutti gli altri. Ciò lo conduce inevitabilmente a occuparsi di quello che Paolo Spriano riteneva invece una sorta di «falso problema»116. In realtà il tentativo di ricondurre un fenomeno nuovo come quello della contestazione sessantottina entro schemi di analisi marxisti classici rappresenta proprio il tentativo più sincero da parte di Secchia, in questo caso, ma più in generale da parte del Pci, di comprendere a fondo il movimento per dare alla protesta uno sbocco politico più organico e strutturato. C’è anche qualcosa di autobiografico, nella lettura secchiana del Sessantotto. C’è un riconoscersi nella voglia di militanza dei giovani, nella loro radicalità; una voglia di militanza e una radicalità che avevano caratterizzato l’attività politica di Secchia durante la sua giovinezza. Egli richiama infatti spesso la ribellione della sua generazione contro il fascismo, provando a fare un paragone: Secchia tenta infatti un dialogo con i giovani proprio attraverso la comunanza che si può stabilire tra due differenti generazioni di rivoluzionari che in tempi diversi e con metodi ancor più diversi hanno tentato di mutare il loro presente. Ma nella riflessione di Secchia al centro c’è sempre il partito. In un testo inviato a Elvo Tempia, un dirigente della Federazione comunista di Biella, scrive, ancora riguardo la possibilità di fondare un partito unico della classe operaia: Ai giovani dobbiamo andare non solo con la radio trasmittente, ma anche con quella ricevente. Il dialogo non può essere condotto da una parte sola. Guai se ci presentassimo come i detentori della verità assoluta dicendo loro: qui avete il P.C.I. qui trovate già pronto il vostro partito, con tutto quello che cercate, con tutti i vostri problemi già risolti o meglio con le soluzioni pronte per i vostri problemi. Voler imporre alle nuove generazioni vecchi schemi e le stesse tradizionali strutture di partiti che hanno oltre mezzo secolo od anche un secolo di vita significa ignorare la forza creativa di ogni generazione. In tutte le epoche i giovani hanno sempre voluto essere gli artefici della loro vita e del loro avvenire117.

  P. Spriano, Gli studenti oggi, in «l’Unità», 3 marzo 1968, p. 3.   P. Secchia, [Appunti sui giovani], pp. 2-3, in Archivio del Centro di docu-

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Secchia mostra un’apertura verso i giovani che è anche un tentativo di riforma della linea politica del partito. Se le sue insofferenze per una linea troppo morbida sono ormai una costante, il Sessantotto diventa un’occasione per fare entrare a Botteghe Oscure una radicalità che non è più soltanto un’opzione politica e teorica ma una realtà che si sta dispiegando nella società con un’inedita intensità. Il partito diventa dunque contemporaneamente il luogo della coerenza ideologica e quello delle aperture, della rigidità organizzativa e della contaminazione. In un appunto proprio del 1968 Secchia scrive: «Mia moglie dice che io sono sempre stato fedele alla mia idea. È vero e mi piace. Differenza tra partito e ideale. Il partito è uno strumento per realizzare un ideale, non va confuso con l’ideale stesso. Il comunismo è una concezione ideale della società»118. Il Sessantotto è per Secchia un banco di prova. Per il partito e per sé. È un momento di cui al Pci toccherà far tesoro e metterne a profitto l’onda lunga. Per Secchia è un evento che immette nuova linfa nelle sue vene di dirigente ormai da tempo emarginato. Si tratta, infatti, di un vecchio dirigente che troverà nel dialogo col movimento una stampella alla sua idea dell’impegno politico come strategia della militanza concreta. È infatti immutata nel comunista l’adesione mostrata negli anni della gioventù a quell’idea di mobilitazione permanente che deve caratterizzare la militanza comunista. Quello stato di perenne tensione verso l’azione che se da un lato produce talvolta svarioni nell’analisi, dall’altro finisce sempre per depositare un mattone, per quanto piccolo, per la costruzione dell’edificio politico sperato, strappandone l’immagine dall’ambito dell’utopia e collocandola in quello della trasformazione rivoluzionaria. Una trasformazione a cui, secondo Secchia, «il sussulto delle nuove generazioni»119 avrebbe potuto imprimere un’accelerazione decisa. Il Sessantotto è quindi per Secchia una boccata d’ossigeno che lo mentazione sindacale della Camera del lavoro di Biella, Fondo Elvo Tempia, b. non catalogata, f. Corrispondenza con il sen. Pietro Secchia e l’on. Giovanni Serbandini (Bini). Questo testo riprende in larga parte la lettera di Secchia a Longo del 28 giugno 1968 pubblicata in Id., Corrispondenza con Longo, in Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., pp. 705-709, in part. p. 708. Alcuni di questi temi sono anche in Id., Quaderno n. 6 cit., p. 535. 118  Secchia, Quaderno n. 6 cit., p. 535. 119  Secchia, Lotta antifascista e giovani generazioni cit., p. 138. Si veda Albeltaro, Pietro Secchia, i giovani e il valore dell’esempio nell’esperienza formativa cit., pp. 66-68.

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inebria al punto da sfasarne l’analisi fino a portarlo a riporre nel movimento fiducie poi smentite o, comunque, di molto ridimensionate e a vedere in esso elementi di classe in realtà del tutto trascurabili. Ciò non toglie che Secchia in questa occasione mostri un forte senso di laicità politica e opponga al dogmatismo un più impegnativo tentativo di comprensione come sempre saldamente ancorato al metodo storico-dialettico. C’è l’impronta della Resistenza nell’apertura di Secchia verso il Sessantotto. C’è quel rapporto con la spontaneità che ha cambiato la forma mentis di un organizzatore e c’è la capacità di lavorare oltre gli steccati del partito mantenendo però i piedi ben piantati all’interno del partito. Da dirigente della Resistenza Secchia ha imparato a organizzare la spontaneità, a modificare continuamente i suoi schemi per far fronte all’affollarsi di situazioni che la lotta di Liberazione produceva quotidianamente. È in fondo per questo che Secchia non si ferma davanti ai tratti impolitici del Sessantotto, perché pensa che le contraddizioni siano superabili senza piegare il movimento agli interessi di partito ma attraverso una reciproca contaminazione.

IX Ultimi libri, ultimi viaggi, estremi rancori Negli ultimi anni della vita di Secchia sembrano condensarsi tutti gli elementi che ne hanno caratterizzato l’esperienza dopo l’estromissione dal gruppo dirigente del Pci. C’è la battaglia contro il neofascismo, la tensione internazionalista e la ricerca storica. L’attività di storico dell’antifascismo e della Resistenza non è per Secchia soltanto un rifugio, un modo per dire ancora la sua opinione, almeno su fatti del passato, è infatti uno strumento per rimettere ordine nella memoria del comunismo italiano rivendicando il proprio ruolo in momenti cruciali e per condurre un’attività pienamente politica. L’ha scritto Gianfranco Petrillo: «Per i comunisti italiani, riflessione storica e azione politica andavano di pari passo, anzi erano un tutt’uno»1, vi è infatti un continuo intreccio fra interpretazione del passato e sguardo sul presente, fra ricerca e necessità di lotta politica, interna ed esterna al partito. Tutta la ricostruzione storica di Secchia è in realtà una ricostruzione autobiografica, rivendicata, anche per prudenza metodologica, nel sottotitolo dei suoi più importanti volumi: Ricordi, documenti inediti e testimonianze è la dicitura che campeggia in copertina sia di L’azione svolta dal Partito comunista in Italia durante il fascismo (1970), sia di Il Partito comunista italiano e la guerra di Liberazione (1973)2. 1  G. Petrillo, Da una svolta all’altra. Luigi Longo, Pietro Secchia e Giorgio Amendola fra autobiografia, storia di partito e storia nazionale, in «l’Impegno», XXI, 2001, 1, p. 1. 2  Per una sintetica ma bella rassegna del lavoro di Secchia come storico si veda P. Cooke, The Legacy of the Italian Resistance, Palgrave-Mac Millan, New York 2011, pp. 96-97.

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Secchia non inizia però a scrivere di storia dopo la sua estromissione dal gruppo dirigente del partito. Il suo primo volume, in realtà una raccolta di scritti del periodo resistenziale, pubblicato in concomitanza con un omologo libro di Longo, era uscito infatti nel 1954 (I comunisti e l’insurrezione, Edizioni di cultura sociale, Roma). Ma è dopo il ’55 che la sua produzione si intensifica. Nel 1958 Einaudi stampa Il Monte Rosa è sceso a Milano, una storia della Resistenza nel Biellese, Vercellese e Valdossola, scritta con Moscatelli, nella quale Secchia mette a frutto, in modo piuttosto sommario, una buona mole di documenti. Un metodo questo, come ha notato ancora una volta Petrillo, che costituisce uno dei cardini su cui poggiano i lavori del comunista: si tratta della «prassi della documentazione diretta di documenti a sostegno della tesi sostenuta per motivi di polemica politica»3 che trova il più alto esempio nel volume, pubblicato con Filippo Frassati nel ’62 da Feltrinelli, La Resistenza e gli alleati, che peraltro apre il filone storiografico sul dissenso fra la Resistenza e gli alleati e che impiega i documenti per far emergere la tesi dell’autore, piuttosto che per dichiararla esplicitamente. In questo caso l’obiettivo politico di Secchia è sottolineare, in polemica con le forze di governo, quanto le formazioni garibaldine siano state vittime di una discriminazione negli aiuti da parte degli alleati. Nel ’60 Secchia aveva invece pubblicato Capitalismo e classe operaia nel centro laniero d’Italia (Editori Riuniti), una storia del movimento operaio biellese nella quale aveva ripreso gli studi del confino, nei quali peraltro aveva già scritto una prima, sommaria versione di questa ricerca. Ci sono altri lavori, che si accavallano negli anni e nei quali la voglia di divulgare viene travolta dallo schematismo ideologico, come nella Storia della Resistenza pubblicata, sempre con Frassati, dapprima in fascicoli e poi in due volumi dagli Editori Riuniti nel ’65, o come nella grande Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza di cui Secchia dirige soltanto i primi due volumi (La Pietra, 1969 e 1971); se lo schematismo è ben presente, i lavori di Secchia sono però sempre fondati su una ricerca documentaria appassionata. Il lavoro più impegnativo di questi anni è l’«Annale» dell’Istituto Feltrinelli L’azione svolta dal Partito comunista in Italia durante

  Petrillo, Da una svolta all’altra cit., p. 3.

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il fascismo che esce nel ’70. È proprio questo un volume nel quale sono i documenti a parlare, collegati fra loro dai commenti di Secchia. Una storia fatta in archivio, molto lontana, per esempio, dal metodo di Amendola che spesso preferiva sostituire l’autobiografia alla ricerca archivistica4. Lo stesso Amendola avrebbe però poi pubblicato nel ’73 un ponderoso volume con le lettere da lui scritte a Longo e a Secchia tra il ’43 e il ’45 (Lettere a Milano. Ricordi e documenti 1939-1945, Editori Riuniti, Roma 1973), in cui il sottotitolo – «Ricordi e documenti» – fa pensare ai lavori di Secchia e in qualche modo, come è stato sostenuto, sembra proprio finalizzato a togliergli il ruolo di unico – o quasi – ‘editore’ di documenti di partito5. Amendola, probabilmente sentendosi messo da parte nelle ricostruzioni secchiane, sembra infatti voler sottolineare il proprio ruolo nella storia del Pci e «iniziare l’erezione del proprio monumento autobiografico»6. L’elemento autobiografico in realtà sorregge tutte le ricostruzioni dei dirigenti comunisti, senza troppi scrupoli metodologici e con una tendenza a trascegliere i documenti per puntellare la propria autorappresentazione. Ormai, come scrive Secchia a Longo, «ognuno si è messo a pubblicare quello che ritiene interessante pubblicare»7. Ognuno pubblica, insomma, per le proprie ragioni, più politiche che culturali in senso stretto. Il volume di Secchia sul Pci durante il fascismo è infatti una rivendicazione del ruolo svolto dalla Fgci, della correttezza delle posizioni sue e dei suoi dirigenti. Il libro di Secchia fu oggetto sia di una discussione seria, sia di una ridda di pettegolezzi. Ernesto Ragionieri pubblicò su «Critica Marxista» una lunga recensione che ne metteva in evidenza luci e ombre, compreso il risentimento verso Togliatti che lo storico intravedeva in non pochi passaggi del volume8. Del resto Secchia aveva aggiunto all’introduzione un significativo post scriptum: «Sono 4  G. Amendola, Intervista sull’antifascismo, a cura di P. Melograni, Laterza, Roma-Bari 1976, p. 23. 5  Si veda Petrillo, Da una svolta all’altra cit., p. 4. 6  Ibid. 7  Lettera di Secchia a Longo, 26 giugno 1972, in APC, Carte Longo, b. 3539, f. 1 cit. anche in Petrillo, Da una svolta all’altra cit., p. 5. 8  Ragionieri, Il partito della svolta e la politica di massa cit., in part. pp. 301-302. Si veda anche la lettera di Secchia, non spedita, nella quale discute le osservazioni di Ragionieri in Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., pp. 723-729.

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stato presentato dalla grande stampa di disinformazione come lo ‘stalinista’ per eccellenza, il ‘conservatore’, l’ultrasovietico, ecc. Gli uomini non possono essere giudicati da ciò che pensano di se stessi, ma neppure dalle caricature interessate tratteggiate dagli avversari e talvolta non soltanto dagli avversari. Non sempre le etichette, facilmente applicabili, corrispondono alla qualità del vino»9. E poi puntualizza sui suoi rapporti con l’Urss e con Stalin: Conobbi personalmente Stalin, per la prima volta, soltanto nel dicembre 1947; lo incontrai qualche altra volta negli anni successivi. L’ultimo colloquio lo ebbi poco tempo prima della sua morte. Non ho mai scritto un solo articolo di esaltazione dei processi e delle fucilazioni che a partire da un certo periodo avvennero nell’Unione Sovietica, e non soltanto negli anni in cui tali articoli non avrei potuto scrivere perché con altri compagni godevo del privilegio di trovarmi in carcere, ma neppure dopo il 1945 quando ricoprivo posti di alta responsabilità nel partito. Il solo articolo di approvazione di una fucilazione lo scrissi per Rinascita nell’agosto del 1953 in occasione dell’avvenuta fucilazione di Beria10.

Non si tratta di una excusatio non petita, quanto di uno scatto d’orgoglio dovuto alla voglia di imprimere un determinato segno alla propria autorappresentazione: «Il vino nuovo, si disse all’epoca dell’VIII Congresso del Pci, non può essere versato nelle botti vecchie. E sia, anche se fra tante botti io non ero certo la più vecchia, né avevo mai stagionato nelle cantine di Stalin»11. Di tono ben diverso dalla recensione di Ragionieri è un articolo che appare su «Il Borghese» nel maggio 1970. Già il titolo è esplicito: Sarà espulso Secchia dal Pci?12. Si tratta di uno dei soliti presunti scoop anticomunisti, infarcito di sciocchezze e volgarità. Ciò che più si prende in esame è il post scriptum. Secondo l’articolista si tratterebbe di un colpo sferzato da Secchia ai suoi compagni nella lotta intestina per la successione a Longo. I toni dell’articolo sono quelli del romanzo giallo poco informato – la possibilità che Secchia possa aspirare a divenire segretario dopo Longo è pura fantascienza – che   P. Secchia, Post scriptum all’Introduzione a Id., L’azione, p. xxiii.   Ivi, pp. xxiii-xxiv. 11  Ivi, p. xxvi. 12  Ivanovic-Koba, Sarà espulso Secchia dal Pci?, in «Il Borghese», 3 maggio 1970, pp. 17-20. 9

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prova a mettere in ridicolo il Pci e i suoi dirigenti. Ma il fatto che si fantastichi di un’espulsione di Secchia può rendere l’idea di quanto quel post scriptum avesse infastidito molti a Botteghe Oscure e di quanto la notizia di questa irritazione si fosse diffusa negli ambienti giornalistici, fino ad arrivare all’amplificazione del «Borghese». Si è detto di come Secchia pensi che «ognuno pubblica per le proprie ragioni»; ma evidentemente non era l’unico a pensarlo date le congetture che si sono susseguite attorno a un libretto come quello che il comunista aveva dato alle stampe nel ’69. Si tratta di La guerriglia in Italia, edito da Feltrinelli, nel quale sono raccolti, con un’introduzione di Secchia, «Documenti della resistenza militare italiana». Miriam Mafai ne ha visto, inopinatamente13, sia il prodotto del «massimo di collaborazione, non soltanto intellettuale, tra il vecchio dirigente comunista e il giovane Feltrinelli»14, sia un frutto del malcelato intento di dare istruzioni militari ai gruppi dell’articolata galassia extraparlamentare: «Sarebbe davvero troppo ingenuo», sermoneggia Mafai, «pensare che quelle direttive del Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà avessero in quel momento solo il valore d’archivio. È fin troppo facile immaginare con che animo quelle direttive venissero lette dai tanti giovani studenti e operai che in quei mesi percorrevano le strade delle più grandi città d’Italia inneggiando alla prossima Rivoluzione»15. Congetture a parte, se questo volumetto fosse uscito in un altro momento e magari anche da un altro editore, nessuno avrebbe gridato, a posteriori, allo scandalo. Certo i frangenti in cui Secchia pubblica il libro sono a dir poco tesi e Feltrinelli è un rivoluzionario impaziente che – lui sì – sogna la lotta armata. Va però anche notato che i documenti che Secchia pubblica sono stati trascelti da volumi che lui stesso o altri avevano dato alle stampe negli anni precedenti. Ad esempio, gli Elementi di tattica partigiana sono trascritti dal libro di Longo Sulla via della insurrezione nazionale: si può forse affermare dunque che

13  Inopinatamente perché «il massimo di collaborazione fra i due», se si vuole stare alla «lettera» dei fatti, non può essere individuato nella pubblicazione di un volumetto di 180 pagine, quanto nella pubblicazione di due lavori assi più impegnativi – per l’autore e per l’editore – come i due «Annali» Feltrinelli che usciranno nel 1970 e nel 1973 (l’ultimo quando Feltrinelli è già morto). 14  Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata cit., p. 160. 15  Ibid.

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Longo nel ’54 sognasse la lotta armata? Se si lasciano da parte le supposizioni, si può notare come questo volume, che fa il paio con un articolo intitolato Lenin e la scienza militare pubblicato sul «Calendario del popolo» l’anno successivo16, possa essere inserito fra i prodotti degli studi intrapresi da Secchia per il volume sul ruolo del Pci nella Resistenza che pubblicherà da Feltrinelli nel ’73. Che poi quel libro possa essere piaciuto a chi stava riflettendo sulla guerriglia è cosa ben diversa dall’imputare all’autore la volontà di scrivere un vero e proprio manuale per insegnare ai giovani come diventare dei guerriglieri. Altri sono i libri che negli anni Secchia scrive per rivolgersi ai giovani. In particolare si tratta delle due raccolte di saggi e articoli uscite postume, ma anche di un libretto tutto dedicato alla lotta contro il fascismo e il neofascismo17. In questo volume, uscito nel ’71, Secchia afferma, in una introduzione «da leggere», di aver condensato in poche pagine una storia del fascismo a uso dei giovani18, infatti proprio nell’introduzione analizza i rigurgiti neofascisti e afferma il bisogno di intraprendere una lotta di massa contro di essi19. La tensione antifascista di Secchia infatti si era già dispiegata sia come denuncia dei metodi scelbiani e nella richiesta di scioglimento del Msi, sia rispetto, ad esempio, al progetto di riforma della legge di pubblica sicurezza proposto da Taviani20, ma anche con interventi come quello tenuto al Congresso dell’Anpi del giugno ’69, intitolato poi in modo molto significativo Lottare contro il fascismo. Democratizzare le forze armate21. E proprio questa tensione antifascista militante è uno dei fattori che aveva contribuito a costruire il suo rapporto con una parte del movimento studentesco. In questi anni di lavoro si alternano in Secchia l’entusiasmo per la scrittura e il riemergere del rancore per il suo isolamento, il tutto in una dimensione privata che contribuisce ad abbatterlo.   In «Il Calendario del popolo», 1970, 306.   P. Secchia, Le armi del fascismo (1921-1971), Feltrinelli, Milano 1971. Si veda la recensione di P. Spriano, Le armi del fascismo, in «Rinascita», 15 ottobre 1971, p. 23. Si veda, sempre riguardo al neofascismo, la lettera di Secchia ad Arrigo Boldrini, Roma, 15 marzo 1973, in Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., pp. 733-736. 18  Secchia, Le armi del fascismo cit., pp. 1-2. 19  Ivi, p. 34. 20  Secchia, Colpo di Stato e legge di Pubblica Sicurezza, Feltrinelli, Milano 1967. 21  Poi pubblicato in Secchia, La Resistenza accusa 1945-1973 cit., pp. 527-535. 16 17

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La morte della moglie Alba, avvenuta il 17 luglio 1970, lo segnerà molto. Per un periodo le sue attività politiche rimangono in un limbo e anche la stesura del diario si interrompe. Ma Secchia non si sente finito, almeno in politica. C’è un’immagine efficace, raccontata da Miriam Mafai: «Un pomeriggio, poco dopo la morte di Alba, Vladimiro lo sorprese, sul terrazzo di casa, mentre guardava come sovrappensiero l’orizzonte. ‘Perché non provi a dipingere?’ gli chiese affettuosamente. Si girò e irritato: ‘Dipingere? E perché? Non sono mica finito, sai...’»22. È però tempo di bilanci, per Secchia: «Non sono e non sono mai stato un uomo politico nel senso che comunemente si dà a questa parola e cioè del professionista della politica. Perché ho sempre creduto a ciò che pensavo e mi è sempre piaciuto lottare e dire la verità per spiacevole che potesse essere per amici o avversari, senza troppo badare alle conseguenze personali. ‘Dire la verità è rivoluzionario’, non può essere soltanto una frase da citarsi nei discorsi, e dirla soprattutto alle masse lavoratrici»23. Come in tutte le biografie, anche quella di Secchia è caratterizzata da alcuni eventi «ultimi»: si tratta di un ultimo libro e di un ultimo viaggio. Non c’è una cronologia fissa per questi due avvenimenti, perché si intrecciano. L’ultimo suo libro di cui vedrà l’uscita, Il Partito comunista italiano e la guerra di Liberazione, appare nella primavera del 197324, ma è il prodotto di ricerche lunghe che l’hanno impegnato non poco. È un tomo di più di 1100 pagine, nel quale è raccolta una mole quasi impressionante di documenti sulla guerra di Liberazione, sull’azione del Pci in quel periodo, sul ruolo della Direzione del Nord, sui contrasti fra Roma e Milano, sulle Brigate Garibaldi. Nel libro di Secchia c’è però soprattutto un’attenzione non solo all’opera dei dirigenti ma a quella dei militanti di base. In realtà questo non è l’ultimo libro di Secchia: ne usciranno infatti altri due, poco dopo la sua morte. L’ultimo viaggio è invece alla volta del Cile, per partecipare, in

  Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata cit., p. 167.   Secchia, Quaderno n. 6 cit., p. 541. 24  Si veda la recensione di P. Spriano, Il Pci nella Resistenza, in «l’Unità», 30 maggio 1973, p. 3, nella quale lo storico afferma che Secchia è «divenuto – bisogna pure che se lo senta dire – uno dei maggiori storici della Resistenza, con una coerenza di interpretazione che è esemplare». 22 23

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rappresentanza del Pci, alle celebrazioni del cinquantesimo anniversario del Pc cileno25. Il Cile era infatti un esperimento a cui il Pci guardava con grande interesse, soprattutto perché il progetto di Allende – costruire il socialismo attraverso una via democratica – non poteva non interessare i comunisti italiani, che di quella opzione politica avevano fatto da anni il loro cavallo di battaglia26. Secchia non dedica molte pagine del suo diario a questo viaggio. Lo colpiscono l’«applicazione creativa del marxismo leninismo», la difesa dell’Urss e gli sforzi internazionalisti27, così come l’ottimismo dei cileni, che non ritengono che il problema di un colpo di Stato sia all’ordine del giorno28, nonostante l’ostilità statunitense e l’azione antigovernativa che i gruppi conservatori stavano svolgendo nel Paese. Si tratta di un viaggio come tanti, se non fosse per ciò che avviene al rientro in Italia. Arrivato a Roma il 10 gennaio, dopo pochi giorni, il 13, Secchia si sente male. Il 16 viene ricoverato: «All’inizio sembra trattarsi di broncopolmonite e una influenza, poi si rivela trattarsi di una intossicazione»29. È il parassitologo Biocca a parlare per primo dell’ipotesi di un avvelenamento: «Biocca sostiene esser certo trattarsi di veleno preparato in laboratorio ad alto livello e naturalmente lui dice che si tratta di un attentato della Cia. Spallone dice che loro medici italiani concordano tutti nel ritenere si tratti di intossicazione, prodotta da veleno preparato in laboratorio»30. I medici che sostengono la diagnosi dell’avvelenamento sono tredici, «tra i più quotati di Roma», afferma Secchia; soltanto uno – un francese – pensa che si possa trattare di una vecchia cirrosi rimasta nascosta per molti anni e poi uscita esplosivamente allo scoperto31. Uno dei medici che aveva avuto modo di studiare i sintomi della malattia è Giuseppe Giunchi, professore all’Istituto di malattie infettive dell’Università di Roma. E sarà proprio Giunchi a scrivere a 25  P. Secchia, Quaderno n. 12. Cile, in Archivio Pietro Secchia 1945-1973 cit., pp. 595-602. 26  A. Santoni, Il Pci e i giorni del Cile. Alle origini di un mito politico, Carocci, Roma 2008. 27  Secchia, Quaderno n. 12 cit., pp. 598-599. 28  Ivi, p. 600. 29  Ivi, p. 601. 30  Ibid. 31  Ibid.

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Secchia una lettera importante sulle sue condizioni cliniche, probabilmente su sollecitazione dello stesso paziente32: Sento il dovere di chiarirle il mio pensiero, interpretativo sul piano clinico dei fenomeni morbosi gravissimi, che l’hanno tenuta per un mese tra la vita e la morte e l’hanno costretta a letto per molti mesi, ancora nell’anno passato. Si è trattato di una singolare malattia, nel decorso della quale sono stati colpiti in maniera improvvisa, violenta e gravissima il fegato, onde la grave itterizia – il rene – e quindi l’altissima azotemia ed il sistema nervoso – da cui il delirio protratto e lo stato amenziale. Se per quest’ultima sintomatologia si poteva supporre che fosse secondaria all’intossicazione, derivante dalla grave disfunzione del fegato e del rene, per questi due organi invece non vi è dubbio alcuno che la malattia si sia insediata in essi primariamente. Esclusa una epatite virale, la quale decorre con un quadro clinico ben diverso e la sintome epatorenale della leptospirosi, la cui presenza è stata ripetutamente ricercata presso i laboratori dell’Istituto Superiore di Sanità con esito negativo, l’unica interpretazione attendibile, circa i fattori causali della sua malattia, resta quella di una gravissima intossicazione. Ritengo che ella abbia ricevuto una buona dose di un potente veleno e di certo sarebbe deceduto, se non fossero intervenute con molta prontezza tutte le intense cure, alle quali è stato sottoposto [...]. Ho sentito la necessità di farle presente questo mio convincimento, del quale non potevo parlarle, mentre lei lottava tra la vita e la morte. Ora che, quasi miracolosamente, è guarito, mi sembra doveroso ch’Ella sappia ciò che le è capitato33.

Nessuno pubblicamente vuole però parlare di avvelenamento. E ciò fa uscire di nuovo allo scoperto la frustrazione di Secchia: «Il partito lo sa ma ritiene sia opportuno tacere e non spargere la voce. A Bufalini che chiedeva: Perché proprio a lui? Biocca avrebbe risposto: Questo lo dovreste sapere voi, in ogni caso può essere un avvertimento e gli ha fatto una lezione su come agisce la Cia e su come sia ingenuo sottovalutare. Io ritengo che il partito non ama

32  Questa è la tesi che sostiene Miriam Mafai nel suo L’uomo che sognava la lotta armata cit., p. 178, pubblicando uno stralcio del documento. 33  Lettera del prof. Giuseppe Giunchi, in FGF, Fondo Secchia, Contenitore 3, f. 3, Corrispondenza 1972-1973, pp. 1-2.

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che si sappia per non fare a me una gratuita pubblicità. Se si fosse trattato di qualcuno di loro ne sarebbe nato uno scandalo. L’‘Unità’ avrebbe avuto i titoli grossi»34. Nemmeno i medici se la sentono di rilasciare dichiarazioni, perché sono convinti che si tratti di veleno, ma di un veleno che non ha lasciato tracce, forse anche a causa di una massiccia terapia antibiotica. Tutta questa vicenda è avvolta da un alone di dubbio. Secchia non è più una figura di primo piano nel Pci, è ormai emarginato e non ha più altro ruolo che qualche carica onorifica all’Anpi e all’Istituto per la storia del movimento di liberazione, non è nemmeno più vicepresidente del Senato, sebbene ancora mantenga il suo posto in Parlamento. Certo è un periodo teso, sul piano internazionale. Il viaggio di Secchia in Cile avviene però più di un anno e mezzo prima del golpe del settembre ’73, ma il fatto che Secchia possa essere venuto in contatto con altri esponenti del socialismo latinoamericano, primi fra tutti i cubani, avrebbe potuto destare qualche sospetto nei servizi segreti statunitensi. Un altro fatto viene in mente, vagliando quest’ipotesi dell’avvelenamento: la morte di Giangiacomo Feltrinelli, che proprio Secchia ipotizza possa essere collegata al suo avvelenamento35. Ma sulla morte di Feltrinelli sono molti gli elementi che ormai fanno propendere per un fatale incidente, sebbene lo stesso magistrato che se ne è occupato sostenga ancora oggi che essa «rimane un mistero»36. (La morte di Feltrinelli avviene, peraltro, mentre si sta svolgendo il congresso37 che incoronerà Berlinguer segretario del Pci; quel Berlinguer al cui confronto, aveva scritto Secchia, «Amendola diventa uno di sinistra»38.) Miriam Mafai, che ha potuto attingere da testimonianze dirette, ha scritto che «alle Botteghe Oscure nessuno diede credito a questa versione della malattia; anzi, la convinzione di Secchia di essere stato avvelenato venne considerata un’ulteriore prova del suo decadimento, un’altra manifestazione di quella mania di persecuzione di cui si

  Secchia, Quaderno n. 12 cit., p. 601.   «Può darsi che se si tratta della CIA un collegamento ci sia. Chissà che cosa hanno pensato io andassi a fare in Cile»: Secchia, Quaderno n. 12 cit., p. 602. 36  Feltrinelli, Senior service cit., p. 426. 37  XIII Congresso del Partito comunista italiano. Atti e risoluzioni, Editori Riuniti, Roma 1972. 38  Secchia, Quaderno n. 6 cit., p. 545. 34 35

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erano avuti già nel passato alcuni segni»39. È difficile pensare davvero che Secchia sia stato avvelenato, ma allo stesso tempo le diagnosi dei medici, non soltanto quelle tramandateci da Secchia nei diari, ma anche quella di Giunchi qui pubblicata, sembrano non lasciare spazio a dubbi. Dunque è possibile sostenere che se l’avvelenamento da parte della Cia è un’opzione da scartare per ragioni storiche e geopolitiche, essa non può essere del tutto accantonata se non affermando che la medicina non fu in grado di diagnosticare una malattia dai sintomi difficilmente interpretabili. Secchia, dopo alcuni giorni di delirio – «Ho parlato per 32 ore di seguito» scriverà in una lettera40 – che lo tengono fra la vita e la morte – «Sono arrivati a darmi due ore di vita e nella clinica avevano già preparato la camera mortuaria, ordinate le corone»41 – si riprenderà, e dopo due mesi di degenza verrà dimesso. Nell’ultimo periodo della sua vita mette in cantiere altre due raccolte di scritti. Entrambe usciranno postume, a breve distanza l’una dall’altra: La Pietra pubblicherà Lotta antifascista e giovani generazioni, mentre Mazzotta darà alle stampe La Resistenza accusa 1945-1973. Si tratta di due volumi che Secchia ha certamente pensato per lasciare di sé l’immagine dell’uomo d’azione, del rivoluzionario, dell’antifascista militante. I testi raccolti nei due volumi sono infatti da un lato scritti di lotta (interventi, discorsi, articoli), dall’altro riflessioni sui giovani, sulla loro attività militante nella storia del movimento operaio, sul loro essere rivoluzionari, insomma. C’è infatti in Secchia la volontà di rivolgersi proprio a quei giovani con cui aveva stretto un legame durante il fermento del Sessantotto e a cui vorrebbe che i libri fossero destinati. È lo stesso editore di La Resistenza accusa 1945-1973, in una premessa al volume, a raccontare dell’ultimo incontro con Secchia, alla metà di giugno del 1973: «Rileggendoci a voce alcuni brani insisteva [...] sull’uso del libro per i più giovani, anche ufficialmente nelle scuole – diceva – laddove possibile. Ci raccomandò di tenere il prezzo basso»42.   Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata cit., pp. 175-176.   Lettera di Secchia «a Maria», Roma, 4 dicembre 1972, in FGF, Fondo Secchia, Contenitore 3, f. 3, Corrispondenza 1972-1973. 41  Ibid. 42  Premessa dell’Editore, in Secchia, La Resistenza accusa 1945-1973 cit., p. i. 39 40

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Secchia vuole dunque spronare i giovani ad agire, a essere radicali, a militare in modo rivoluzionario, sottolineando l’esempio da seguire delle generazioni precedenti, della sua generazione, insomma43. Dopo aver consegnato all’editore Mazzotta il manoscritto del suo ultimo libro, Secchia si sente male, di nuovo con i sintomi di una forte epatite e viene quindi ricoverato. Muore pochi giorni dopo, il 7 luglio 1973. L’annuncio della morte viene dato l’8 luglio sulla prima pagina dell’«Unità» con grande risalto. Come da protocollo sono il Comitato centrale e la Commissione centrale di controllo ad annunciare «con profondo dolore ai compagni, a tutti i lavoratori, agli antifascisti, la morte del compagno Pietro Secchia»44. Secchia viene dipinto come un grande rivoluzionario, «una delle più eminenti personalità, non solo del Partito comunista italiano, ma anche di tutto il movimento democratico e antifascista»45. La ricostruzione della sua biografia mette in risalto tutti i passaggi della sua militanza, dall’opera di organizzatore antifascista a quella alla testa della Resistenza, fino al «contributo enorme delle sue qualità di organizzatore e di realizzatore, nella costruzione del ‘Partito di tipo nuovo’»46. A Secchia non sarebbe forse piaciuto un granché questo ricordo, perché insisteva troppo sulle sue doti di organizzatore e lasciava da parte quelle politiche, come del resto non gli era piaciuto per lo stesso motivo l’articolo di Longo per i suoi sessant’anni47. Il 9 luglio il quotidiano comunista dedica ancora molto spazio in prima pagina al «Cordoglio per la morte del compagno Secchia»48 e pubblica in terza uno stralcio dal suo volume sul Pci nella Resistenza, col titolo Il vero carattere della Resistenza. Anche il 10 la cronaca dei funerali occupa parte della prima pagina dell’«Unità» accanto a un riassunto del discorso funebre pronunciato da Pajetta49. Al funerale

43  Si veda Albeltaro, Pietro Secchia, i giovani e il valore dell’esempio nell’esperienza formativa cit. 44  È morto il compagno Pietro Secchia, in «l’Unità», 8 luglio 1973, p. 1. 45  Ibid. 46  Ivi, p. 3. 47  Si vedano Secchia, Quaderno n. 5 cit., p. 490, e la lettera a Longo riprodotta ivi, pp. 491-492. Il riferimento è a L. Longo, I sessant’anni di Pietro Secchia, in «l’Unità», 19 dicembre 1963. 48  Così il titolo in prima pagina. 49  Commosso saluto al compagno Pietro Secchia, in «l’Unità», 10 luglio 1973,

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Le rivoluzioni non cadono dal cielo. Pietro Secchia, una vita di parte

aveva partecipato «una grande folla», che aveva accompagnato la salma di Secchia in piazza della Consolazione dove Pajetta aveva tenuto il discorso funebre nel quale erano stati ricordati sia i giorni esaltanti della lotta che «la durezza degli anni difficili e anche l’amarezza dell’errore e il turbamento che provocano e che lasciano il loro segno»50. Toccherà poi a Paolo Spriano tracciare un profilo di Secchia, sincero e appassionato, su «Rinascita» del 13 luglio51. La morte di Secchia verrà commentata anche da altri giornali. C’è chi indicherà in lui «il duro» del comunismo italiano52, chi lo descriverà come l’«oppositore mancato»53 e chi, come Leo Valiani, lo dipingerà come il «faro vivente del disinteresse personale»54. Anche i giornali di chi sta a sinistra del Pci parlano di Secchia. Lo fa «Lotta Continua» che nella vita di Secchia riconosce «una testimonianza di coraggio e di fede politica» ma anche il segno del fallimento del tentativo di una elaborazione autonoma nel partito di massa togliattiano55. «Avanguardia Operaia» coglie invece l’occasione per polemizzare col Pci che, a dire del settimanale, nelle commemorazioni si è preoccupato di occultare i dissensi di Secchia sulla linea del partito56. Diverso è il tono del «Manifesto» che, con empatia, racconta la storia di chi è stato «sbrana[to] senza pietà, [dai] giovani leoni dell’apparato che, in nome di un nuovo stile di vita del partito» hanno esautorato la vecchia guardia affinché «cambiando tutto niente mutasse»57. Lo vorranno ricordare anche gli studenti della Statale di Milano, con una manifestazione e un discorso di Mario Capanna58.

pp. 1-2; «La vita di un militante comunista», ivi; Il profondo cordoglio della sua terra, ivi, p. 2. 50  «La vita di un militante comunista» cit., p. 2. 51  P. Spriano, Pietro Secchia. Un protagonista della battaglia proletaria, in «Rinascita», 13 luglio 1973, pp. 5-6. Si veda anche il ricordo di Secchia pubblicato da Collotti in «Il movimento di liberazione in Italia», 1973, 112. 52  V. Gorresio, Morto Secchia, il «duro» del Pci, in «La Stampa», 8 luglio 1973, p. 2. 53  G. Pansa, Secchia l’oppositore mancato, in «Corriere della Sera», 10 luglio 1973, p. 11. 54  L. Valiani, Che cos’è un rivoluzionario, in «L’Espresso», 15 luglio 1973, p. 2. 55  Il compagno Pietro Secchia, in «Lotta Continua», 10 luglio 1973, p. 2. 56  Pietro Secchia: fedele al partito e al revisionismo, in «Avanguardia Operaia», 20 luglio 1973, pp. 10-11. 57  G. Vermicelli, Ricordo di Pietro Secchia, in «il manifesto», 10 luglio 1973, p. 1. 58  Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata cit., p. 181.

IX. Ultimi libri, ultimi viaggi, estremi rancori

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L’ultimo sgarbo a Secchia arriverà invece proprio dal compagno con cui aveva avuto uno stretto sodalizio, che si era poi sfilacciato negli ingranaggi della storia politica del Pci, Luigi Longo. Nel 1973 esce infatti un volume firmato dal solo Longo intitolato I centri dirigenti del Pci nella Resistenza. Le annotazioni ai documenti sono di Longo, ma la scelta degli stessi era stata fatta da Secchia. Sarebbe stato dunque ovvio affiancare il nome del comunista appena morto a quello di Longo, invece Secchia viene liquidato in appena un paio di righe nella premessa. Come ha sostenuto Gianni Perona, quella è stata una vera e propria, estrema, «damnatio nominis di stampo cominternista»59. Si tratta però di uno sgarro a cui Secchia aveva preventivamente risposto con una sorta di lettera-testamento, indirizzata al figlio Vladimiro nella quale aveva dato disposizioni, tra l’altro, riguardo il suo archivio personale. Secchia non vuole che tutto finisca al partito ed è chiaro con Vladimiro: Di fronte ad un’eventuale domanda perché non consegni loro tutto. Devi rispondere chiaramente: perché voi metterete tutto in cantina o brucerete tutto, comunque seppellirete tutto. E tutto finirà con lui nella tomba. Ora questo non deve avvenire. Non crediate che di lui non se ne parlerà più. Di lui se ne parlerà ancora come si parlerà delle lotte da lui combattute, dell’azione da lui compiuta, delle sue posizioni rivoluzionarie, del contributo che egli ha dato alla fondazione del P.C.I. ed a fare di questo partito un grande partito. Diverso certo da quello che ne avete fatto voi in questi anni60.

  Petrillo, Da una svolta all’altra cit., p. 4.   Lettera a Vladimiro, Roma, 24 agosto 1972, in APC, Fondo Luigi Longo, Corrispondenza, Generale, b. 12, p. 4. Si vedano anche: Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata cit., p. 179; lo stralcio della lettera citato da Ambrogio Donini nell’intervista di G. Corbi, Quando denunciai Togliatti a Stalin, in «L’Espresso», 19 febbraio 1973, p. 24 e quello citato sempre dallo stesso Donini nella sua introduzione a P. Secchia, Chi sono i comunisti. Partito e masse nella vita nazionale (1948-1970), a cura e con prefazione di A. Donini, Mazzotta, Milano 1977, pp. 13-14. L’interesse del partito per l’archivio di Secchia è testimoniato dalla disponibilità ad acquistarlo, espressa da Cossutta al figlio Vladimiro: L. Cortesi, L’«Archivio Pietro Secchia 1945-1973», ovvero Pietro Secchia archiviato, in «Belfagor», XXXIV, 1979, 5, p. 528. Sulle polemiche seguite alla pubblicazione dell’«Annale» Feltrinelli con una scelta dei documenti dell’archivio di Secchia si veda oltre all’appena citato articolo di Cortesi anche la replica di Collotti in «Belfagor», XXXV, 1980, 2, pp. 209-219. 59

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Le rivoluzioni non cadono dal cielo. Pietro Secchia, una vita di parte

C’è la rivendicazione del proprio ruolo e delle proprie idee: So di aver dato un contributo di primo piano alla costruzione di un grande Partito, a mantenerlo attivo e in azione negli anni della illegalità, so di aver dato un notevole contributo all’organizzazione ed al successo della Resistenza in Italia, ed anche nel dopoguerra a sostenere un determinato indirizzo in seno al P.C.I. Sono convinto che se le mie posizioni fossero state seguite, noi non ci troveremmo nelle condizioni di oggi. Non dico che si sarebbe potuto fare la rivoluzione. Ma certo si poteva fare molto di più, mantenendo il carattere rivoluzionario al partito, per sostenere, difendere e portare avanti certe posizioni che avevamo conquistate61.

Secchia vuole anche che il figlio si impegni a continuare a raccogliere i suoi scritti e a pubblicarli: È ciò che io vado facendo mentre sono vivo, ma poiché la vita può terminare da un momento all’altro, desidererei che qualche cosa sia fatto anche dopo. Ciò servirà a dare delle idee, degli orientamenti, delle speranze ai giovani. Servirà a dimostrare che per tutta la mia vita pur essendo sempre stato un comunista e un rivoluzionario ed avendo lottato soprattutto contro il capitalismo, per la rivoluzione socialista, non ho mancato di lottare anche in seno al mio partito per sostenere e fare trionfare certe posizioni contro il revisionismo e contro l’opportunismo di ogni sorta62.

Si tratta dell’ultimo colpo di reni di un rivoluzionario di professione che ha attraversato a muso duro il tratto più drammatico ed esaltante del secolo più drammatico ed esaltante della storia.   Lettera a Vladimiro cit., p. 5.   Ibid.

61 62

Indici

Indice dei nomi Aga Rossi, Elena, 130 e n. Agnew, Jeremy, 37n. Agosti, Aldo, vi-vii, 15n, 18n, 31n, 32 e n, 33n, 36n, 41n, 46n, 49n, 50 e n, 52n, 53n, 67n, 88n, 89n, 114n, 128n, 135n, 141n, 142 e n, 143n, 145n, 154n, 155 e n, 207n, 208n. Alasia, Gianni, vii. Albeltaro, Marco, 34n, 90n, 114n, 208n, 212n, 225n. Alberganti, Giuseppe, 114, 192. Allende, Salvador, 221. Alonge, Roberto, 208n. Amadesi, Luigi (Lovera), 42n, 163. Amendola, Giorgio, 86, 106n, 114, 137n, 148, 156, 176, 180, 183, 185 e n, 192193, 204, 205 e n, 206 e n, 216 e n, 223. Andreucci, Franco, 155n, 158n. Aniasi, Aldo, 112. Argenton, Mario, 105. Avanzato, Giovanni, 58. Azzaroni, Alfredo, 51n. Azzini, Clemente, 168n Badoglio, Pietro, 85-86. Ballone, Alessandro, 209n. Barbagallo, Francesco, 205n. Baroncini, Angelino, 57. Baroncini, Paolo, 57. Barth Urban, Joan, 31 e n. Battaglia, Roberto, 91n. Beccaria, Cesare, 4. Beria, Lavrentij Pavlovič, 153-154, 217. Berlinguer, Enrico, 156, 223. Bermani, Cesare, 11n. Berti, Giuseppe, 30n, 56. Bertinotti, Fausto, 4n. Bertolissi, Sergio, 119n.

Bianchi, Gianfranco, 108n, 206n. Bidussa, David, vii. Bignotti, Luigi, 105. Binazzi, Neri, 18n. Biocca, Ettore, 221-222. Bobbio, Norberto, 71n. Bocca, Giorgio, 145n, 163n, 176n, 180n. Boldrini, Arrigo, 219n. Bonazzi, Enrico, 192. Bonomi, Ivanoe, 108. Bordiga, Amadeo, 13, 18 e n, 19-20, 40n. Borel (famiglia), 166. Bosman, Giovanna, vii. Braccialarghe, Giorgio, 69n. Brambilla, Giovanni, 192. Bravo, Gian Mario, vii. Broué, Pierre, 51n. Bucharin, Nikolàj Ivanovič, 42. Bufalini, Paolo, 222. Burgio, Alberto, vii. Cadorna, Luigi, 25. Calvino, Italo, 18n, 192n. Camparini, Aurelia, vii. Canevascini, Guglielmo, 170. Canfora, Luciano, 72n, 153n. Capanna, Mario, 226. Caprara, Massimo, 136n, 138 e n. Caprara, Maurizio, 160n. Carboni, Giacomo, 87. Carocci, Giampiero, 97n. Carolini, Simonetta, 61n. Carr, Edward Hallett, 16n. Cartesio (pseud. di René Descartes), 79. Cascella, Andrea, 112. Casellato, Alessandro, 29n. Cassi, Marina, vii. Cerchia, Giovanni, 205n.

­232 Cervetti, Gianni, 164n. Cervi, Mario, 164n. Cicalini, Antonio, 171. Clausewitz, Carl Philip Gottlieb von, 78, 92, 111. Colletti, Alessandro, 67n. Collotti, Enzo, 3n, 6n, 18n, 22n, 33, 34 e n, 35n, 48n, 55n, 60n, 64n, 104 e n, 120 e n, 128, 138 e n, 139 e n, 149n, 150 e n, 156n, 157, 158 e n, 177 e n, 179 e n, 195 e n, 226n, 227n. Colombi, Arturo, 93n, 114, 142, 144-145. Cooke, Philip, 214n. Corbi, Gianni, 138n, 227n. Cortesi, Luigi, 30n, 103n, 159n, 227n. Cossutta, Armando, vii, 57n. Curiel, Eugenio, 94. D’Alessandro, Leonardo Pompeo, 37n. D’Ambrosio, Matteo, vii. D’Annunzio, Gabriele, 7. D’Onofrio, Edoardo, 22, 142, 145, 193. D’Orsi, Angelo, vin, vii. Dal Pont, Angelo, 61n, 62n. Daniele, Chiara, vii. De Gasperi, Alcide, v, 125-127. De Gregori, Francesco, vi. De Laurentis, Oddino, 165. De Luna, Giovanni, vi, 18n, 24n, 105n, 109n, 208n. De Martino, Ernesto, 175n, 189, 191n. Degl’Innocenti, Maurizio, 188n. Del Bo, Giuseppe, 186 e n. Della Maggiora, Michele, 45. Di Donato, Riccardo, 175n. Di Vittorio, Giuseppe, 143-144. Donini, Ambrogio, 227. Dozza, Giuseppe, 16, 19, 114. Dubla, Ferdinando, 159n. Dulles, Allen, 165. Dulles, John Foster, 165. Dundovich, Elena, 16n. Engels, Friedrich, 28, 187. Fabbri, Fabio, 11n. Feltrinelli, Carlo, 164n, 185 e n, 191n, 223n. Feltrinelli, Giangiacomo, 165, 185-186, 218 e n, 223.

Indice dei nomi Ferrara, Marcella, 157 e n. Ferrara, Maurizio, 192n. Ferraris, Pino, 4n. Flores, Marcello, 31 e n, 124n, 128 e n, 156 e n, 157 e n, 209n. Fortichiari, Bruno, 159 e n. Francescangeli, Eros, 51n. Franzin, Elio, 51n. Frassati, Filippo, 113 e n, 215. Gaddi, Giuseppe, 29 e n. Galante Garrone, Alessandro, 115. Galeazzi, Marco, 135n. Gallerano, Nicola, 31 e n, 51n, 128 e n, 156n, 209n. Galliussi Seniga, Anita, vii, 161n, 167. Ghini, Celso, 58-59. Giachetti, Diego, 208n. Giannuli, Aldo, vii, 164n. Giasi, Francesco, vii, 18n. Giolitti, Antonio, 86 e n, 190n. Giolitti, Giovanni, 3. Giovana, Mario, 67n. Giovanni XXIII (papa), 200. Giunchi, Giuseppe, 221, 222n, 224. Gobetti, Ada, 71n. Gori, Francesca, 127n. Gorresio, Vittorio, 180n, 226n. Gozzini, Giovanni, 136n, 137n, 187n, 192n. Gracci, Angiolo, 159 e n. Gramsci, Antonio, v, 9, 19n, 20 e n, 21, 37. Grassi, Gaetano, 97n. Grassi, Luigi, 114. Grieco, Ruggiero, 22n, 27n, 40, 46, 51, 53n, 73. Grifone, Pietro, 69, 165 e n. Gronchi, Giovanni, 184. Groppo, Bruno, 156n. Gruppi, Luciano, 57n. Gualtieri, Roberto, 206n. Guevara, Ernesto (Che), 210. Gui, Luigi, 207 Guyot, Raymond, 53. Ho Chi Minh, 210. Höbel, Alexander, vii, 187n, 205n, 206n, 209n. Hobsbawm, Eric J., 208 e n.

233

Indice dei nomi Ingrao, Pietro, 156, 198, 207n. Iotti, Nilde, 138, 162. Kant, Immanuel, 79. Kautsky, Karl, 66. Krupskaja, Nadežda Konstantinovna, 42. Krusciov, Nikita Sergeevič, 188. Kuusinen, Otto Wilhelm, 42. La Malfa, Ugo, 103n. Labriola, Antonio, 77. Lajolo, Laurana, vii. Lama, Luisa. 17n, 19n, 138n. Lamartine, Alphonse de, 182. Lampredi, Aldo, 114. Lapidus, Josif Abramovič, 66. Lazar, Marc, 155n. Ledda, Romano, 205 e n. Leibniz, Gottfried Wilhelm von, 79. Lenin (pseud. di Vladimir Il’ič Ul’janov), 174, 187. Leonetti, Alfonso, 11n, 22n, 51, 62n. Lepre, Aurelio, 9n, 103n. Li Causi, Girolamo, 35, 99. Livorsi, Franco, 32n. Longo, Luigi (Gallo), 14, 15 e n, 18, 19 e n, 22n, 26-27, 30 e n, 31-33, 35, 37-40, 42n, 46, 48 e n, 49-51, 55 e n, 56, 79 e n, 80, 86-87, 92, 94 e n, 99 e n, 100n, 101n, 105, 108, 112, 114, 120, 132 e n, 136, 137n, 138, 142-145, 148-149, 158, 174, 183, 186 e n, 187, 191 e n, 194, 203-204, 206, 209, 212n, 215, 216 e n, 217-219, 225 e n, 227. Loreto, Fabrizio, 18n. Losurdo, Domenico, 153n. Lussana, Fiamma, 19n. Mafai, Miriam, 12n, 32 e n, 160n, 161n, 164n, 204n, 218 e n, 220 e n, 222n, 223, 224n, 226n, 227n. Maggioni, Davide (Marcucci), 26n, 27 e n, 52. Magnani, Valdo, 162. Maiello, Pasquale, 62n. Mantelli, Brunello, vii. Marchini (famiglia), 165. Marek, Franz, 46n Maretti, Carlo, 167.

Marino, Giuseppe Carlo, 207n. Martinelli, Renzo, 114n, 118n, 121n, 125n, 126 e n, 127n, 128n, 133n, 137n, 187n, 192n, 195n, 205n. Marx, Karl, 28, 187. Massola, Umberto, 120. Mattei, Enrico, 105. Matteotti, Giacomo, 11n, 16. McDermott, Kevin, 36n, 37n. Mehring, Franz, 66. Melograni, Piero, 216n. Mignemi, Adolfo, 112. Molotov, Vjačeslav Michajlovič, 42, 202. Montagnana, Mario, 192. Montanelli, Indro, 164n. Montesano, Gianni, 57n. Montini, Giovanni Battista, 180, 185. Morandi, Rodolfo, 115, 174. Moranino, Francesco, 126. Moranino, Luigi, 4n. Moro, Aldo, v. Moscatelli, Vincenzo (detto Cino), 88-89, 90 e n, 112 e n, 113-114, 116, 126, 163, 166-167, 169, 215. Mosna, Guido, 105. Mussolini, Benito, 21, 23, 50, 67, 70, 85, 160, 175 e n. Negarville, Celeste, 19, 86, 193. Negro, Caterina, 65n. Negro, Maria, 3. Neiretti, Marco, 4n. Nenni, Pietro, v, 144, 152. Noce, Teresa, 143-144. Novella, Agostino, 86-87. Novelli, Edoardo, 135n. Onofri, Fabrizio, 151n. Oriani, Alfredo, 5. Pacquola, Giordano, 61. Pajetta, Giancarlo, 66n, 114, 133, 143144, 164n, 200, 205, 225-226. Pallante, Antonio, 135. Panella, Alfio, vii, 78n, 162n. Pansa, Giampaolo, 226n. Parlangeli, Oronzo, 18n. Parodi, Giovanni, 114. Parri, Ferruccio, 101 e n, 103 e n, 105. Pascal, Blaise, 79.

­234 Paulesu Quercioli, Mimma, 20n. Pavone, Claudio, 94n, 97n, 98 e n, 107n, 112n. Peli, Santo, 91 e n, 92n, 100 e n, 101n, 103n, 106n, 107n, 110n. Pella, Giuseppe, 154 e n. Pellegrini, Giacomo, 202n. Perona, Gianni, vi, 227. Pertini, Sandro, 61n. Pesce, Giovanni, 166-167. Pessi, Secondo, 149 e n. Petrillo, Gianfranco, 185n, 214 e n, 215 e n, 216n, 227n. Petrini, Armando, 208n, 209n. Pian, Alberto, 51n. Piazzesi, Gianfranco, 207n. Pirani, Mario, 180n. Placanica, Augusto, 103. Platone, Felice, 163. Plechanov, Georgij Valentinovič, 66. Pokrovski, Mikhail Nikolayevič, 66. Poma, Italo, vii. Pombeni, Paolo, 120n. Pons, Silvio, 36n, 37n, 127 e n, 128n, 129 e n, 131n, 208n. Pratolongo, Giordano, 114. Rabaglino, Claudio, vii. Ragionieri, Ernesto, 46n, 49n, 55 e n, 108n, 109, 206n, 216 e n, 217. Raimondi, Luciano, 170. Ravazzoli, Paolo, 51. Ravera, Camilla, 22 e n, 28, 51, 71n, 83. Reale, Eugenio, 62. Ricciardi, Andrea, 64n. Rigamonti, Ferruccio, 24. Righi, Maria Luisa, vii, 18n, 121n, 187n, 195n. Roasio, Antonio, 4n, 86, 90. Robotti, Paolo, 192. Roncagli, Leonida, 150, 169n. Rousseau, Jean-Jacques, 4, 79. Roveda, Giovanni, 86-87, 114, 193. Rubin, Jerry, 208. Ruffilli, Roberto, 120n. Sala, Stefano, 98n. Salinari, Carlo, 15n, 19n, 48n, 55n, 79n. Santhià, Battista, 62-63. Santoni, Alessandro, 221n.

Indice dei nomi Santus, Benvenuto, 90. Saonara, Chiara, 105n. Sapelli, Giulio, 88n, 89n. Sassoon, Donald, 205n. Scappini, Remo, 114. Scelba, Mario, 136-137, 141, 149. Schiapparelli, Stefano, 90. Schucht, Julca, 20n. Scoccimarro, Mauro, 19, 21, 76, 79-80, 86, 99-100, 120, 157n, 164, 167, 168n, 169 e n, 171, 183. Scotti, Francesco, 114. Secchia, Alba, 161, 220. Secchia, Giovanni Battista (detto Giobatta), 3-6. Secchia, Matteo, 4, 7, 60n, 64, 66, 191n. Secchia, Vladimiro, 160-161, 162n, 220, 227 e n, 228n. Sedita, Giovanni, 35n. Seniga, Giulio, 77n, 125, 143, 145, 153 e n, 156-157, 160-179, 180 e n, 181-182, 183n, 191-193. Seniga, Martino, vii, 161n, 163n, 175 e n. Serci, Maria Antonietta, vii, 161n. Sereni, Emilio, 69 e n, 114. Serrati, Giacinto Menotti, 17. Service, Robert, 36n, 37n, 208n. Sestan, Lapo, 119n. Silone, Ignazio, 51 e n, 170, 172. Soave, Sergio, 47n, 52n. Sonnino, Sidney, 4. Sozzi, Gastone, 22, 28. Spallone, Mario, 148-149, 158, 221. Spinelli, Altiero, 75 e n, 76n. Spriano, Paolo, 21n, 23n, 27 e n, 36n, 41n, 47n, 51n, 52n, 73n, 75n, 86n, 88 e n, 89n, 93n, 102n, 109, 110n, 211 e n, 219n, 220n, 226 e n. Stalin (pseud. di Iosif Vissarionovič Džugašvili), 41, 74, 81, 125, 128-130, 131 e n, 132, 135-136, 139, 142-143, 151, 153, 174, 176, 187-189, 196, 200, 217. Taglioretti, Jean, 112. Tasca, Angelo (Serra), 22n, 29, 30 e n, 46 e n, 47-48. Taviani, Paolo Emilio, 219. Tempia, Elvo, 211. Terracini, Umberto, 21, 55n, 56, 60, 61

Indice dei nomi e n, 67 e n, 75-76, 79, 80, 83 e n, 143, 186n. Thälmann, Ernst, 42. Tito (pseud. di Josip Broz), 135. Tobagi, Walter, 136n. Togliatti, Palmiro (Ercole Ercoli), 16, 21, 22n, 27 e n, 31-33, 36, 38-39, 41, 45-46, 49 e n, 50-51, 53, 57 e n, 73, 100, 103104, 109, 113, 115-116, 120, 127-138, 139 e n, 141-146, 148, 152-158, 164 e n, 165, 166 e n, 167, 170-171, 175, 176 e n, 177, 180, 183, 184 e n, 185 e n, 186-189, 192n, 193, 196 e n, 200-201, 202 e n, 203-204, 216. Tranfaglia, Nicola, 207n. Tresso, Pietro, 51. Turco, Livia, 138n. Turra, Sante, 167 e n. Vacca, Giuseppe, vii, 32n, 209n Vacheron, Raymond, 51n. Vaia, Alessandro, 192 e n.

235 Valiani, Leo, 63, 64n, 108n, 176 e n, 206n, 226 e n. Valli, Arcangelo, 165-166. Varano, Alfredo, vii. Varano, Antonietta, vii. Varano, Clelia, vii. Varano, Francesca, vii. Vecchio, Giorgio, 51n. Vella, Simonetta, vii. Vergani, Pietro, 192. Vermicelli, Gino, 226n. Viana, Iside, 24 e n, 25. Vico, Giambattista, 4. Vigorelli, Giancarlo, 170. Vittorio Emanuele III, 35. Zamboni, Anteo, 20. Zaslavsky, Victor, 130 e n. Ždanov, Andrej Aleksandrovič, 127 e n, 128-129, 174. Zocchi, Lino, 62n. Zucaro, Domenico, 37n.

Indice del volume Introduzione

v

I.

3

Primi passi 1. La scintilla, p. 3 - 2. Militante, p. 6 - 3. Comunista, p. 9 - 4. Una scelta irrevocabile, p. 13 - 5. Ufficialmente clandestino, p. 17

II.

La maturazione di un rivoluzionario

23

1. Una lotta fatta di carta e inchiostro, p. 23 - 2. Tra polemiche e organizzazione, p. 29 - 3. L’organizzatore, p. 32 - 4. «Abbiamo fatto come l’ubriacone...», p. 36 - 5. Dibattendo, p. 45

III. Prigioniero

55

1. L’arresto dopo la vittoria, p. 55 - 2. «Consideravamo la nostra prigionia come una scelta», p. 62

IV. Organizzare «un’improvvisata». Come la spontaneità cambia un organizzatore

85

1. Organizzare la libertà, p. 85 - 2. Spontaneità e organizzazione, p. 91

V. Un liberatore dopo la Liberazione

112

1. Il dirigente partigiano, p. 112 - 2. La dura prova dei fatti, p. 120

VI. Una parabola discendente

133

1. La responsabilità del comando, p. 133 - 2. Sotto osservazione, p. 148

VII. Il «caso S.»

160

VIII. Strategie di sopravvivenza

181

1. La ricerca di uno spazio, il risentimento, p. 181 - 2. Due diverse speranze: Longo e il Sessantotto, p. 197

IX. Ultimi libri, ultimi viaggi, estremi rancori

214

Indice dei nomi 231