Le parole del delirio. Immagini in migrazione, riflessioni sui frantumi
 9788869480492, 8869480496

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Culture / 160

Federica Sossi

Le parole del delirio Immagini in migrazione, riflessioni sui frantumi

ombre corte

Realizzato con il contributo del Dipartimento di Lettere, Filosofia, Comunicazione dell’Università degli studi di Bergamo

Prima edizione: novembre 2016 © ombre corte Via Alessandro Poerio 9, 37124 Verona Tel./fax: 0458301735; mail: [email protected] www.ombrecorte.it Progetto grafico copertina e impaginazione: ombre corte Immagine di copertina: 22 settembre 2015, Opatovac, Croazia. Foto di David Ramos (Gettyimages) ISBN: 9788869480492

Indice

7 Premesse

Parte prima: Frantumi 11

Riflessioni a partire dai frantumi

55 Sezione fotografica: settembre 2015 Parte seconda: Parole 69 “Je suis”; “Vertici”; “Paesi terzi sicuri”; “Lesbo”; “Solidarietà”; “Ragazze dell’Europa”; “Naufragi”; “Giungle”; “Sophia?”

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Conclusioni



Frantumi di conclusioni; Parole mancanti

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Ringraziamenti

A Insaf, Manar e “Fiona”



Premesse

Solo alcuni avvertimenti, o alcune istruzioni per l’uso, dal momento che la lunghezza di quella che avrebbe dovuto essere un’Introduzione mi ha fatto decidere di farla diventare la “Prima parte” di questo libro. Le date. Da molti anni, scrivendo di migrazioni, ho preso l’abitudine di apporre una data alla fine della scrittura. I libri, infatti, o gli articoli, escono sempre a mesi di distanza rispetto al momento in cui sono stati scritti e gli avvenimenti rispetto alle migrazioni possono, nel frattempo, aver cambiato l’orizzonte di cui si sta parlando. In questo caso, però, in un libro così a ridosso dell’attualità e dei suoi vorticosi avvenimenti, la pratica di un’unica data non sarebbe stata sufficiente. Nel libro appaiono, dunque, diverse datazioni. Tanto nella prima parte, quanto nella seconda, ho sempre inserito nel testo la data del momento in cui stavo scrivendo. Spero che questo possa servire a non trovare strane e inadeguate alcune pagine di questo lavoro. Uno o due esempi: ho scritto sulla Turchia prima del tentato golpe e della repressione che ne è seguita; ho scritto qualcosa sugli attentati in Europa fermandomi all’attentato di Nizza, l’ultimo ad essere stato compiuto mentre stavo scrivendo. Tutte le parti di questo lavoro, tranne queste “Premesse” e i “Ringraziamenti”, sono state scritte tra aprile e luglio 2016. Alla fine di queste “Premesse” riporterò anche la data di oggi. Riflessioni. Provo semplicemente a riflettere su quello che sta accadendo intorno a me, nel mondo, con la necessaria selezione dovuta alla mia sensibilità e al luogo in cui abito (Milano, Italia, Unione europea). Non c’è alcuna pretesa di una “enciclopedia della realtà” perché non ne sarei capace, ma anche perché ho sempre diffidato di ogni forma di saper enciclopedico.

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Immagini. La parte iconografica del libro sarebbe stata molto diversa se non ci fossero stati i problemi di copyright e dell’alta risoluzione delle fotografie, necessaria per pubblicarle in un libro a stampa; se avessi, semplicemente, potuto ricopiare le infinità di immagini online nel cui orrore mi sono persa negli ultimi due anni, su cui il libro cerca di riflettere. Riferimenti bibliografici. Per la mia carriera all’Università non ho più bisogno di render conto di che cosa e di quanto legga durante le mie giornate. Trascorro, inoltre, il mio tempo facendo spesso anche altre cose: “leggendo” il mondo o, possibilmente, vivendolo. I riferimenti bibliografici dopo ogni sezione saranno solo quelli essenziali perché citati nel corso della scrittura. Questo vale soprattutto per gli articoli di giornali, di riviste, o per le mail e descrizioni di luoghi di migrazione letti online nel corso di questi anni, tanti, davvero tanti, che sono presenti perché hanno contribuito a formare la mia opinione, ma non citati perché farlo avrebbe appesantito lo stile di questo lavoro. Milano, 3 agosto 2016



Parte prima Frantumi

Riflessioni a partire dai frantumi

4 aprile 2016. Alla vigilia di questa data, tra le numerose mail che arrivano al mio indirizzo di posta elettronica una è la traduzione inglese di un articolo comparso su un giornale greco. Una notizia da Lesbo, l’isola più fotografata degli ultimi mesi, l’isola degli arrivi, l’isola dei naufragi, l’isola del pianto dei bambini, l’isola dei padri che si precipitano verso la spiaggia con le braccia alzate verso il cielo, stringendo un neonato infagottato, l’isola dei giubbotti salvagente abbandonati dopo la traversata, l’isola degli abbracci dei nuclei familiari subito dopo aver toccato terra, l’isola del volto di alcune donne, perso in un dolore che si lascia immaginare. Più che una notizia, la mail contiene solo un elenco, quello del piano delle deportazioni dei migranti verso la Turchia previsto per la data di oggi, di domani e dopodomani. Lunedì 4 aprile, martedì 5 e mercoledì 6 aprile 2016. È l’elenco delle deportazioni previste per nave. E suona così: “L’agenzia di informazione Ampe ha reso noto il piano di deportazione dei migranti previsto per lunedì 4, martedì 5 e mercoledì 6 aprile dal porto di Mitilene a Dikili. Frontex ha noleggiato due navi turche. Ogni migrante sarà accompagnato da un agente di polizia. La nave Nazli Zale della compagnia navale Zalem trasporterà 200 persone (100 migranti e 100 poliziotti), la nave Lesvos della compagnia Turyol trasporterà una volta al giorno 100 persone (50 migranti e 50 poliziotti di Frontex). Durante i tre giorni si prevede di deportare in Turchia 750 persone, secondo l’accordo Ue-Turchia. Ai viaggiatori verranno offerti panini e succhi di frutta. La prima nave partirà lunedì alle dieci dal porto, dove i migranti saranno portati con gli autobus. Per questo, nelle prossime ore a Mitilene sono attesi molti agenti Frontex, per i quali da domenica sono state prenotate molte stanze negli Hotel sia in città che nei dintorni”.

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4 aprile 2016. In tarda mattina cominciano a comparire le prime immagini. Da quelle di alcuni giornali italiani e soprattutto dai video, l’operazione sembra procedere con ordine, per ora nessuna protesta, se non quella di pochi attivisti che ai porti delle due isole greche da cui ha preso inizio il piano di trasferimento, Lesbo e Chio, ricordano che si tratta di una deportazione e chiedono all’Europa di svegliarsi, quasi un’entità geografica potesse dormire, “Wake up Europe!”. Sembrano calmi, invece, i diretti interessati, migranti provenienti dall’Afghanistan, dal Pakistan, dall’Iraq e da altri paesi, come si apprende dagli articoli a commento delle immagini. Da una foto che mi arriva per mail la loro calma si lascia forse dedurre da quello che già il piano delle deportazioni prevedeva: un poliziotto, o meglio, un agente dell’agenzia Frontex, l’agenzia per il controllo delle frontiere esterne dell’Ue, per ogni migrante. Stanno tutti seduti sui sedili dell’imbarcazione, di cui si vedono i finestrini, e sono tutti uomini: quattro sedili, quattro uomini, i due migranti nel mezzo, gli agenti con la pettorina di Frontex e la mascherina sul volto ai loro fianchi. Accompagnati in tal modo, difficile immaginare che gli uomini privi di mascherina possano esprimere un desiderio che differisca da quella che è stata imposta come loro volontà. Nell’articolo della “Repubblica”, infatti, si può leggere anche un commento dei portavoce della Commissione europea che assicurano che i ritorni in Turchia sono “tutti volontari”. Ovvero di persone che – scrive la redazione del giornale che non appone una firma all’articolo e riapre subito dopo il virgolettato dei portavoce anonimi – “ritengono che presentare una domanda di asilo in Europa non fosse la miglior strada” per loro. Come “la Repubblica”, altri giornali italiani online riportano anche le parole ufficiali di Margaritis Schinas, capo del Servizio stampa della Commissione, il quale afferma che l’intento di questa operazione “è quello di sostituire i flussi disordinati, disorganizzati e illegali con percorsi legali e coerenti con le norme Ue e internazionali”. 4 aprile 2016. Alla vigilia dell’inizio dell’operazione di trasferimento dei migranti dalla Grecia verso la Turchia, che per l’occasione è stata fatta funzionare come un “paese terzo sicuro”, un gruppo di manifestanti “No Borders” è stato attaccato dalle forze dell’ordine austriache al confine con il Brennero con gas urticanti. L’Austria, che nei mesi scorsi aveva già ripristinato i controlli alle frontiere, tutte interne all’Ue e allo spazio Schengen, dispiegando ulteriori forze dell’ordine, qualche giorno fa ha ipotizzato l’utilizzo dell’esercito per impedire

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il passaggio dei migranti, e il gruppo “No Borders” ha indetto una manifestazione di protesta. I commenti online dei lettori della “Repubblica” inneggiano tutti alla grande determinazione dei poliziotti austriaci. Un coro unanime di approvazione. Qualcuno critica la polizia italiana incapace di agire con altrettanto coraggio. 4 aprile 2016. Apro le pagine online dei giornali già al primo mattino, in attesa di notizie sulle deportazioni. Non ce ne sono ancora e mi soffermo su un’intervista a Elena Ferrante che, rimanendo incognita e scrittrice-fantasma, si è nuovamente lasciata intervistare attraverso la modalità di domande e risposte inviate per mail già inaugurata un mese fa su un altro giornale. Come tante e tanti ho divorato i quattro volumi dell’Amica geniale, una sorta di sofisticata scrittura-novela che intreccia anni di storia italiana a partire dai corpi di due amiche, dalle “smarginature” di Lila tra i quartieri di Napoli all’arte della composizione e spesso della scomposizione di Elena. Perciò mi soffermo a leggere le sue parole. Dice cose abbastanza geniali, come per esempio questa, riferita ai quartieri poveri e affollati di Napoli da cui la quadrilogia prende inizio e verso cui continuamente ritorna: “Si imparava prestissimo ad avere la massima concentrazione nel massimo disturbo. L’idea che ogni io è, in gran parte, fatto di altri e dall’altro non era una conquista teorica, ma una realtà”. “Noi siamo la ressa degli altri”, continua Ferrante, impregnando con il tocco della concretezza un’idea teorica che mi piace e che ho continuato a seguire in vari autori e autrici nel corso degli anni, “gli altri nell’accezione più ampia, come dicevo, ci urtano di continuo e noi facciamo lo stesso con loro. La nostra singolarità, la nostra unicità, la nostra identità si crepano senza sosta. Quando alla fine di una giornata esclamiamo: mi sento a pezzi, non c’è niente di più letteralmente vero”. Cito la sua intervista, però, per un’altra frase, quasi un manifesto del suo lavoro e del ritegno a svelare la propria identità, e, certo, riferita alla sua scrittura letteraria, quel magico lavoro di creazione di storie che potrebbero essere vere ma che sono storie inventate e che lei svolge con particolare maestria. “Scrivere è un atto di superbia”, scrive Ferrante, che riferendo l’aneddoto di Jane Austen pronta a nascondere subito i propri fogli nel caso in cui qualcuno fosse entrato nella sua stanza continua così: “è una reazione che conosco, ci si vergogna della propria presunzione, perché non c’è niente che riesca a giustificarla, nemmeno il successo. Comunque io la metta, resta sempre il fatto che mi sono arrogata il diritto di impri-

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gionare gli altri dentro ciò che a me pare di vedere, sentire, pensare, immaginare, sapere”. 5 aprile 2016. “Scrivere è un atto di superbia”. Provo a ricominciare da qui. A differenza di Elena Ferrante, non possiedo la maestria di inventare storie, quando ho provato a raccontarne alcune, erano storie di vita reale che mi erano state narrate da chi le aveva vissute, e che io avevo sottratto loro per metterle tra qualche pagina, di un libro o di un sito, nella convinzione che il racconto di quei vissuti potesse intrecciarsi con le azioni di denuncia a cui a quel tempo partecipavo. Una sorta di credo, con qualche dubbio, certo, ma comunque un credo nella capacità di azione del discorso, nella sua funzione performativa. Una convinzione, soprattutto, rispetto alla capacità di trasformazione della denuncia, o alla sua capacità di interruzione o di scomposizione, di frammentazione dei discorsi e dei sentiti egemonici. Erano, comunque, tempi diversi, sembra un secolo fa, come direi parlando a un’amica, per quanto si tratti di pochi anni, dieci, quindici al massimo. Era l’epoca in cui Lampedusa cominciava ad apparire sulle pagine dei giornali o tra le notizie televisive per l’arrivo di qualche migrante, gli anni della costruzione dei primi centri di detenzione, ancora occultati, il tempo in cui un grande naufragio, con centinaia di morti e pochi sopravvissuti, poteva rimanere per anni un evento fantasma. Sembrava, allora, non solo a me, ma a molti/e altri e altre con me, che dire e raccontare equivalesse a disvelare e che disvelare potesse in parte equivalere a far cambiare. Faccio parte, in fondo, della generazione che è succeduta a quella che si è giustificata dicendo di “non aver saputo”, e per quanto abbia imparato negli anni attraverso le letture e le narrazioni dirette a scomporre le ambiguità di quel “non sapere”, insieme alla mia generazione ho continuato ad attribuire una certa forza salvifica, debole, forse, o controversa, al sapere. C’era, dunque, una sorta di “superbia” quasi priva di vergogna nel raccontare, o nello scrivere teorico, oppure, quando ho provato a far confluire nella mia scrittura quei vissuti sottratti alle vite delle/degli altre/i, nella frantumazione dello scrivere teorico – necessario per poter svolgere il mio lavoro di ricercatrice universitaria – attraverso il racconto. C’era pure, al di là della superbia, un piacere, grande, a cui vorrei provare a fare riferimento senza necessariamente scadere in un insensato narcisismo. Certo, un po’ di narcisismo nel dire di sé e nel metterlo sullo schermo di un computer, immaginando che poi quello schermo riempito di parole diventi un file da mandare a un editore, è

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del tutto inevitabile. Ma a differenza della scrittrice fantasma che con il riferimento alla scrittura come atto di superbia mi sta permettendo di mettere in successione qualche segno nero sullo sfondo bianco di questo file che ho nominato “LIBRO”, non sono Elena Ferrante. “Elena Ferrante non sono io”, Elena Ferrante, o chi per lei, nel senso, molto banale, che, a differenza di una grande scrittrice o di un grande scrittore, sono stata e sono più semplicemente una ricercatrice o una docente universitaria. Ho scritto libri, certo, perché fa parte del mio mestiere il tentativo di intrecciare parole e pensieri e pubblicarli; da qualche anno, è addirittura un lavoro che ha un peso, ci dicono, quantitativo, che deve essere continuamente valutato come “prodotto” e che si traduce in fondi versati dal ministero dell’Istruzione all’ateneo di appartenenza. Ho scritto libri, dunque, alcuni in sintonia con il lavoro e lo stile accademico, altri in opposizione o in contestazione, o meglio, indifferenti rispetto a quella modalità di lavoro, ma, come un’infinità d’altri “prodotti” dell’accademia, sono libri inessenziali che stanno lì, tra gli scaffali della mia libreria, a complemento del mio CV, senza il quale non avrei potuto presentarmi ai concorsi che hanno permesso la mia carriera. Scriverli, però, ha comportato quel piacere, un tempo di gioia e di prova con me stessa e di astrazione dal mondo, uno spazio e un tempo altri da quelli della quotidianità, un luogo a sé, circondato dalle mura delle stanze in cui di volta in volta ho scritto, dal fumo delle sigarette, dal silenzio del mondo circostante a cui facevo ritorno, tranquilla e ricomposta, solo alla fine di quelle ore di fuga, per quanto a volte cercassi di far entrare parte del mondo tra le mie parole. Agosto 2014. Non so datare con precisione il giorno perché sto scrivendo a distanza di quasi due anni. Diversamente dalla mia abitudine di lavoro, non sto seguendo un piano di scrittura, accanto al mio computer ci sono i soliti fogli scritti a penna, ma non contengono una scaletta, solo poche note e alcune delle “parole del delirio” che qualche mese fa ho provato a individuare. Sono fogli quasi bianchi, che più che rassicurare incutono un leggero senso di timore. Insomma, scrivo improvvisando, avendo in mente, in modo del tutto vago e confuso, solo quello che sto pensando da lungo tempo, il progetto di un libro frantumato, che provi a render conto del frantumarsi della possibilità di parola dinanzi alla frantumazione della realtà. Non credo che sarò capace di “render conto”, sto provando comunque a scrivere e insieme alle frantumazioni dello spazio della scrittura vorrei far appa-

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rire anche una frantumazione temporale. Ci sarà dunque un oggi della scrittura, in questo caso ancora “oggi, 5 aprile 2016”, e, in alcuni casi, una data del passato, come ora, agosto 2014. Scriverò mantenendo a volte i tempi verbali al presente, risucchiando il passato nel presente del momento della scrittura, non tanto per un vezzo teorico, ma per facilitare il fluire delle parole. Così: agosto 2014. Ci stiamo tenendo per mano da più di un’ora, siamo già alla stazione centrale in attesa del loro treno per la Germania e lei sussurra l’unica parola comprensibile e condivisa tra di noi: “Ice cream”. Non ricordo più il suo nome, all’epoca l’avevo annotato da qualche parte, uno dei soliti quadernetti che infilo nella mia borsetta quando andando in giro per i luoghi dei migranti penso di lavorare, potrei anche cercarlo e probabilmente trovarlo, ma non ne sono certa, come invece è mia abitudine, perché è con lei e con i giardinetti in cui l’ho incontrata che ha iniziato a frantumarsi la mia capacità di parola, presupposto indispensabile per l’atto di superbia della scrittura, e può darsi che anche il quaderno di quell’estate sia andato perduto. Forse “Fiona”, o qualcosa di simile. Prima che la prendessi per mano stava seduta sul muricciolo dei giardinetti di Porta Venezia, lo sguardo perso, come quello della madre, strano comunque in una bambina di all’incirca quattro o cinque anni. Se ne stava lì, tranquilla, probabilmente da qualche ora, perché non l’avevo proprio notata nel pomeriggio, mentre sulla scalinata cercavo di capire con altri che cosa volesse sua madre distesa a terra con un bambino in braccio che ogni tanto appoggiava sulla ghiaia accanto a lei. “Ice cream” è rimasta l’unica parola su cui ci siamo immediatamente capite nell’intricato spazio pubblicitario che è la stazione centrale di Milano passando accanto a un gigantesco cono di fragola e cioccolato che ci è venuto incontro da uno dei cartelli. Continuando a tenerci per mano ci dirigiamo verso uno dei tanti negozi in cui vendono anche gelati, lei osserva il frigo, io lo apro e lei ne prende uno, ma rimane lì davanti, esitante, più indecisa nella scelta del secondo gelato cercando di farmi capire che ne vuole un altro per il fratello. Dopo il gelato è la volta di una breve sosta ai tavolini di uno dei caffè dell’atrio della stazione, senza la madre, che ci aspetta fuori, ma con il fratello. Non è interessata a nulla di quello che si vende al bar, vuole semplicemente sedersi al tavolino e per farmelo capire dice in italiano “signora”. Vengono dall’Eritrea, dove nella lingua di tutti è rimasto qualche suono italiano, e nei suoi suoni italiani “signora” sta per “sedersi” e sedersi a un tavolino ad aspettare un cameriere. Ne arriva uno per dirci che se non ordiniamo nulla non

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possiamo rimanere lì, per quanto i tavolini siano tanti e tutti vuoti. Prendo al banco un pacchetto di cracker di cui né lei né il fratello sembrano molto entusiasti. Alla partenza del loro treno manca ancora un po’ di tempo, la madre cerca un posto per sedersi tra le sedie accanto ai cartelloni che annunciano gli arrivi e le partenze, rovista tra i due sacchi che trascina con sé, ne estrae calze, qualche maglia, un succo di frutta che fa condividere ai due bambini. Mette le calze alla figlia che ora gioca con il fratello trascinando le sue infradito troppo grandi con ancor maggiore difficoltà. Mi accorgo che non hanno cibo e dico alla madre di aspettarmi lì e provo ad andare a cercarlo al mezzanino della stazione dove sostano i profughi siriani e gli operatori del Comune di Milano insieme ai volontari dell’operazione “Emergenza Siria”. La bambina mi segue, pacifica, e la riprendo per mano. È quasi sera, al mezzanino gli operatori del Comune stanno chiudendo i loro punti di incontro e nei sacchi dietro ai tavolini sono rimaste poche cose, mi danno qualche bottiglia d’acqua, dei cracker, pane e formaggio. Nel frattempo perdo di vista la bambina che aveva abbandonato la mia mano per lasciarmi mettere il cibo in un sacchetto di plastica trovato a stento dietro ai tavolini. Scomparsa. Non è più al mezzanino. Osservo intorno a me, agitata, al mezzanino c’è una scala mobile che scende al piano terra e temo che l’abbia presa. Per fortuna scorgo quasi subito i suoi riccioli neri poco più in là, nel corridoio che porta verso il piano superiore, con lo sguardo di desiderio davanti ai giochi appesi all’espositore girevole di un’edicola. Riprendo la sua mano e la trascino con me, non ho molti soldi e vorrei prenderle invece delle scarpe, i negozi stanno chiudendo e c’è poco tempo. Lei non protesta, non dice nulla, e riprende a camminare al mio fianco. Nell’unico negozio in cui riusciamo ad entrare prima della chiusura non ci sono scarpe della sua misura, le commesse aspettano la nostra uscita per tirare giù la saracinesca. Ritorniamo dove ci attendono la madre e il fratello, cominciamo ad avviarci ai binari, un altro gruppo di eritrei si incammina insieme a noi, sono tutti un po’ timorosi di capire se i controllori li lasceranno salire, ma hanno i biglietti e i controllori non dicono nulla, salgo sul treno con loro, scrivo su un foglio strappato dal mio quaderno il mio nome e numero di telefono, aggiungo anche quello di un italo eritreo che come me sta spesso ai giardinetti, lo porgo alla madre, nel caso in cui trovassero qualche problema alla frontiera. Le saluto, intenta nel suo presente di patatine che sta mangiando con il fratello lei non fa più attenzione a me, come sua madre, proiettata verso la loro nuova vita in Germania, al mio biglietto con i numeri di

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telefono. Scendo dal treno. È tardi, mi dirigo verso casa rifacendo il percorso che alla stazione avevo fatto con lei, davanti all’edicola osservo i giochi che l’avevano affascinata e che pensando alle sue infradito troppo grandi non ho saputo regalarle. Maggio, giugno, luglio, agosto 2014. Prima che i giardinetti di Porta Venezia diventassero il luogo di incontro degli “eritrei” in arrivo dalla Libia e recuperati in mare dall’operazione “Mare nostrum”, c’era stato un altro punto di incontro. A poca distanza dai bastioni, nel giardino di una chiesa, ma sempre nello stesso quartiere, da decenni frequentato e abitato dagli eritrei milanesi, un po’ alla volta avevano cominciato a incontrarsi tutti i “profughi” che non rientravano nell’operazione “Emergenza Siria”, gestita dal Comune di Milano in accordo con la Prefettura e per la quale era previsto un primo punto di accoglienza e di smistamento al mezzanino della stazione. I mesi caldi del 2014 sono stati, infatti, quelli dei primi grandi arrivi e delle nuove categorizzazioni, annunciati già, in parte, dagli arrivi dell’inverno. Milano, divenuta punto di snodo per i viaggi verso il Nord, era attraversata in alcuni punti, le stazioni, i giardini, il tram della linea 9, alcuni autobus serali, da bambini con volti scottati dal sole delle traversate, donne sfinite, uomini che cercavano di ricomporsi per proseguire il loro viaggio. E mentre al mezzanino il sistema “Emergenza Siria”, con un po’ di lentezza, cominciava a diventare un sistema rodato, amministrato dal Comune insieme alle Ong a cui era stato dato l’appalto e che non lasciava più spazio per alcuna presenza spontanea non catturata in quella modalità di gestione, a pochi chilometri dalla stazione avevano iniziato a incontrarsi i “profughi di serie B”, eritrei, per la maggior parte, ma anche etiopi, somali, qualche sudanese. Verso sera, oltre ai profughi arrivavano alcuni eritrei appartenenti alla comunità milanese e qualche volontario italiano, distribuivano cibo e cercavano di capire quanti posti letto erano disponibili nei dormitori comunali, chi ci dovesse andare e chi dovesse rimanere a dormire per strada. Alla chiesa ci sono arrivata una sera di maggio, perché nei giorni precedenti avevo trascorso parte del mio tempo al mezzanino, quando il sistema “Emergenza Siria” non era a pieno regime e stare lì, in mezzo ai profughi siriani, aveva ancora un minimo senso, quello, per esempio, di indicare loro i modi per fare i biglietti senza dover pagare tasse alle agenzie di viaggio o alle agenzie informali di passeurs improvvisati che chiedevano piccole tangenti per ogni suggerimento.

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Quel giorno, un po’ in disparte dai gruppi di siriani, c’era una donna nera con tre bambini, il più grande già un ragazzino che andava e veniva dal luogo in cui stava seduta la madre e seguito nel suo andirivieni da un bambino di 8, 9 anni, dalla pelle più chiara, il volto sporco e una maglietta lacerata. Stavano lì da due giorni, come poi ho saputo, ad aspettare qualcuno che non arrivava e che avrebbe dovuto accompagnarli verso la loro nuova destinazione. Non-siriani, ma sudanesi, non erano contemplati nei piani dell’Emergenza Siria, perciò non erano rientrati nel programma di smistamento verso i dormitori previsto dal Comune e avevano ricevuto solo qualche panino e qualche bottiglia d’acqua, non il pasto completo, come spettava ai siriani. Venivano da Choucha, il campo allestito dalla Tunisia a pochi chilometri dalla Libia quando con la guerra della coalizione Nato erano iniziati i bombardamenti a Gheddafi e rimasto poi abbandonato, ma ancora abitato dai “rifugiati rifiutati”, perché l’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, in accordo con le autorità tunisine, aveva decretato la fine della propria missione lasciando al campo circa 200 persone a cui non aveva riconosciuto lo status di rifugiati. Lei, con i suoi due bambini, era vissuta lì, in quel deserto di tende ormai bucate, per qualche mese ancora, si era poi spostata in Libia per intraprendere il viaggio verso l’Europa e ora stava lì ad aspettare, con quei tre bambini, uno dei quali non suo. Non riusciamo a capirci, il ragazzino parla qualche parola d’inglese, ma non gli servono per capire che nel mio inglese elementare sto chiedendo loro se vogliono che li aiuti a cercare un posto dove dormire. Dopo un po’, accanto a lei si siede una donna con un’enorme valigia e un neonato che le sbuca al fianco da una fascia. Immagino che siano insieme e che il bambino dalla pelle più chiara sia il suo. Ma non è così, perché il bambino scompare. Provo a cercarlo, avviso un amico di “Save the Children” che, come me, sta spesso al mezzanino in modo informale perché la sua organizzazione non ha ancora la convenzione con il Comune, continuiamo a cercarlo senza riuscire a capire dove sia finito, lei mi fa cenno che non lo conosce, la donna con il neonato rimane indifferente, evidentemente non è la madre. Dopo un po’ arriva un uomo, dice di conoscermi e di avermi vista a Choucha, è lui che mi spiega che anche lei proviene da lì. Guardo nuovamente il suo volto: è giovane, bella, con una sciarpa marrone che le copre in parte i capelli, troppo calda per la temperatura già estiva di quella giornata, è seduta da ore sulla panchina del mezzanino, tra piccioni e sacchi disfatti, aspetta e non si muove da lì. Non ho

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alcun ricordo di lei al campo di Choucha e nemmeno dell’uomo, ma faccio finta di riconoscerlo per vincere la vergogna che provo ogni volta che, immersa in situazioni collettive, non osservo bene i volti di chi mi sta intorno per provare a imprimerli nella memoria nel caso in cui mi capiti di rincontrarli. Sentendo che provengono da Choucha, provo comunque uno strano senso di familiarità con loro e una certa commozione, forse perché conosco e non ho bisogno di immaginare le loro vite, i modi di organizzare le loro sopravvivenze, i loro sussulti di respiro e di quotidianità negli interstizi di uno dei tanti luoghi murati del mondo. Commozione, per loro e per Choucha, per quella distesa di tende in abbandono, lacerate dalle tempeste di sabbia ma in cui si potevano ancora scorgere le insegne dell’Unhcr, per quel luogo di disperata follia impresso sui volti dei rifugiati rifiutati, rimasti lì, al campo, senza più l’allacciatura elettrica e a chiedere bottiglie d’acqua e briciole di cibo alle automobili sfreccianti verso la Libia. Forse lei, così alta e bella, è una delle donne della “tenda delle donne” a cui qualcuno ci aveva portato per farci vedere in quali condizioni vivessero le donne e i bambini e per parlare con loro, durante la mia ultima visita al campo, nell’estate del 2013, con una compagna di viaggio. Ma continuo a non ricordare di lei e nemmeno dell’uomo; lui vuole partire con il treno della sera, non è suo marito, solo un compagno di Choucha con cui forse ha fatto parte del viaggio e che ora mi chiede se posso trovare un posto dove far dormire lei e i bambini, in attesa che si presenti la persona che lei sta aspettando. È così che ho conosciuto il primo luogo di incontro degli “eritrei”. Arrivando con lei, con i suoi due bambini, lasciando al suo destino di “minore non accompagnato” il bambino dalla pelle più chiara e trascinando con noi l’enorme valigia della donna con il neonato, insieme alla donna e al neonato che ci seguivano a una certa distanza. Milano era questo durante i mesi della primavera e dell’estate 2014, era un po’ Choucha, un po’ tempesta di sabbia e un po’ guerra, era dittatura eritrea, era bambini con le bolle sul volto, donne con sguardi nel vuoto, indifferenti al pianto dei figli, era bambini che avevano imparato a non piangere più, era mani adulte con la scabbia, era persone da accompagnare all’ospedale per la malaria, era ambulanze da chiamare al giardino, era sacchi o valige da trascinare, era valanghe di infradito lacerate, improvvisi arrivi di gruppi di “eritrei” ai giardini, di centinaia di siriani al mezzanino, naufraghi che cercavano altri naufraghi, donne con mariti caduti in mare, mariti con donne lasciate in Siria, madri con figli lasciati in Libia, e un enorme silenzio, perché nessuno

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aveva molta voglia di raccontare e … chiedere… chiedere ed ascoltare non avrebbe avuto più alcun senso. Per qualche giorno ho anche continuato a farlo, ai giardinetti degli “eritrei”, per una sorta di inerzia, con l’idea di raccontare nuovamente l’orrore dei loro viaggi attraverso la Libia che nel frattempo erano diventati sempre più agghiaccianti rispetto a quelli che avevo già ascoltato e narrato o che avevo letto negli anni passati. Ma poi anche l’inerzia è riuscita a spezzarsi tra i loro silenzi perché i loro viaggi erano impressi sui volti, si vedevano, stavano accanto a me sui sedili del tram mentre li accompagnavo alla stazione centrale per aiutarli a fare i biglietti, erano scritti nello sguardo di quella bambina mentre stava seduta sul muricciolo, forse “Fiona” a cui non ho saputo regalare un gioco, erano stampati sulla follia della donna dalla valigia pesantissima e con il neonato sempre più in bilico tra i lembi della fascia annodata al suo fianco e anche il mio solito quadernetto nella borsetta è diventato via via più sottile, con i fogli strappati per indicare loro gli orari dei treni sicuri, quelli serali, verso la Germania, la Danimarca, la Svizzera per i più poveri, o la Francia per coloro che immaginavano di trovare qualcuno a Calais capace di nasconderli per portarli in Gran Bretagna. Non solo scrivere, ma ancor prima chiedere e annotare sarebbe stato un atto di insensata superbia, fuori luogo, perché nulla di quello che era impresso sui loro corpi, quella stanchezza, quel vuoto, quei tentativi di ricomporsi, quell’ansia di arrivare in un qualsiasi altrove, quelle delusioni dopo i respingimenti alle frontiere, quell’indagare l’Europa e i suoi pochi interstizi di esistenza ancora previsti per loro dagli schermi dei cellulari, nulla di tutto questo avrebbe potuto essere confinato dentro alla presunzione delle mie parole. Così, ho smesso di arrogarmi quel diritto “di imprigionare gli altri” dentro ciò che a me pareva “di vedere, sentire, pensare, immaginare, sapere”, lasciandomi catturare dal loro silenzio e dai gesti più essenziali di quelli necessari alla scrittura: versare dalle bottiglie l’acqua nei bicchieri mentre erano in fila per i pasti, aprire i cellofan con i piatti e le forchette di plastica, portare da casa o da casa di qualche amica maglioni, giacche e sciarpe per i loro viaggi al Nord, recuperare qualche vestito per i bambini, scrivere sui fogli strappati dal mio quaderno gli orari dei treni, accompagnarli alla stazione, organizzarmi a casa cercando su internet o tra le mie mail e stampare le agende dei possibili viaggi, con i costi dei biglietti e le ultime notizie sui respingimenti alle frontiere, sulle vie di passaggio che man mano si chiudevano, sui luoghi imbuto verso cui non conveniva andare. Fare due, tre, quattro volte al giorno la strada

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dai giardinetti alla stazione, dalla stazione ai giardinetti, sul tram della linea 9, entrare nelle agenzie, comperare i biglietti, aspettare con loro ai binari, cercare di convincerli, senza mai riuscirci, che l’Italia non era la Libia e che quei gesti avrebbero potuto farli da soli: entrare in un’agenzia di viaggio, comperare il biglietto, salire con le scale mobili ai binari, guardare sul display l’orario e il binario di partenza, aspettare l’arrivo del treno, salirci sopra e partire. Muovendomi con loro, mi rendevo conto di come la stazione centrale fosse una sorta di labirinto, di quanto quei gesti che io compio automaticamente nella mia vita da pendolare richiedessero un sapere completamente diverso da quello che loro avevano acquisito nei loro viaggi con i passeurs, tra navi, deserti, mari, detenzioni, hangar dove stare ammassati al buio e in silenzio per non farsi scoprire da una delle tante milizie libiche. Dal loro stupore quando cercavo di spiegargli che un’agenzia di viaggio è un luogo in cui si può entrare, comperare un biglietto e tranquillamente uscire con il biglietto in mano, provavo a recuperare in me l’immaginazione di un senso di libertà per me scontato e che loro assaporavano e apprezzavano con sorpresa e quasi riconoscenti per quella città che concedeva loro la puzza di pipì dei giardinetti, la polvere della ghiaia, il caldo umido dei mesi estivi milanesi e l’incertezza di trovare un posto dove dormire per qualche notte e riprendere fiato. Non la vergogna per la superbia della scrittura, ho provato durante quell’estate, ma una vergogna diversa dinanzi a sorrisi e parole di riconoscenza per quella scrittura minimale che porgevo loro, stampata al computer o scritta a mano quando terminavano le fotocopie, contenente orari di partenza e prezzi dei biglietti, senza un sovraprezzo per l’informazione. E la vergogna dinanzi a “Fiona”, all’avarizia di una decisione che ha stabilito l’essenzialità di un paio di scarpe ai piedi e non quella di lasciarla essere e riconoscerla bambina. 8 aprile 2016. Dopo quasi due anni in cui, talvolta, ho immaginato di continuare a tenerla per mano o l’ho pensata a camminare per le strade e a giocare nei parchi di qualche città tedesca, alla fine ho imprigionato il suo abbagliato sussurro, “Ice cream”, tra le parole di uno schermo. Non sono contenta di come l’ho fatto, perché per lei e il dolore di quei giardinetti ci vorrebbe un’immensa maestria, capace di recuperare parola e senso nel comunicarla a qualcuno. “Fiona”, invece, così come quel dolore, “Fiona”, Aylan, i bambini intrappolati tra i fili spinati delle frontiere europee, i giubbotti salvagente sulle spiagge di Lesbo, le pettorine di Frontex sulle braccia degli agenti delle deporta-

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zioni, le navi Nato dispiegate davanti alle coste della Turchia, la flotta di Eunavfor Med dinanzi alle coste libiche, con i militari delle marine europee a immaginarsi passeurs da arrestare sui barconi, sono parola frantumata, insensatezza, delirio iperbolico. Realtà silenziante dinanzi a cui nemmeno la più grande maestria potrebbe ritrovare senso e parola, discorso di spiegazione, provare a articolare una sensatezza, una possibilità di comprensione. Cosa scrivere, allora, e come scrivere, dinanzi a una realtà che sbriciola sul nascere il senso di ogni possibile ricomposizione di parola? E perché scrivere, o provare a interrogarsi su come farlo, su come mettere alla prova la propria inadeguatezza e sulla possibilità di concedersi ancora il diritto al proprio piacere? Probabilmente, è soprattutto l’eco di un’abitudine, la consuetudine a pensare di rispondere agli orrori della realtà anche con parole e discorsi, a farmi stare qui, ora, davanti a questo schermo a mettere in successione, stentatamente, le mie parole, anziché a cercare e a divorare notizie e inviarle alla mia casella di posta elettronica come ho fatto quasi automaticamente nel corso di questi due anni, mentre il senso della capacità di ogni possibilità di azione, di un far fronte, di una minima contestazione, si sbriciolava giorno dopo giorno, negli assalti di questi anni di immagini, immagine dopo immagine, filo spinato dopo filo spinato, naufragio dopo naufragio, barriera dopo barriera. Ho pensato spesso a come ritrovare quell’eco, ma anche al senso di quell’atto di superbia nel credere di poter imprigionare ancora gli altri in ciò che ci “pare di vedere, sentire, pensare, immaginare, sapere”, mentre ciò che accadeva “fuori”, nel mondo, sfuggiva sempre più ad ogni possibile atto di cattura, diventava realtà debordante qualsiasi possibilità di intelligibilità. Un regime del delirio, che non può trovare parola di comprensione e che quando ha trovato risposta è stata quella di uno specchio altrettanto delirante delle parole di coloro che per l’arroganza della professione hanno in gran parte contribuito a instaurarlo. Vertice dopo vertice, molti in stato d’emergenza sull’immigrazione, da questa parte del mondo in cui alcuni sono cittadini europei, abbiamo così assorbito l’urto della realtà attraverso quelle “parole del delirio” che hanno avvolto fili spinati, eserciti alle frontiere, agenti delle deportazioni, marine militari dispiegate a sbarrare anche gli ultimi interstizi di sopravvivenza, di un’aura di necessità con cui l’Europa lascia ormai affluire in superficie il suo lato oscuro e mostruoso, incurante di produrre retoriche d’abbellimento o facendolo per puro senso di inerzia, scadendo, però, inevitabilmente, nella più totale assurdità.

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9 aprile 2016. I giornali di oggi riportano la notizia di un naufragio, cinque superstiti, cinque morti, quattro donne e un bambino, nello stesso tratto di mare in cui ieri sono riprese le deportazioni. Centoquaranta, questa volta, le persone deportate dalle solite isole verso cui era diretto anche il gommone naufragato. Facendo un calcolo di sole ventiquattro ore, un morto per ogni ventotto persone deportate. L’Unione europea, tramite la Grecia, con costi a proprio carico, porta indietro persone sopravvissute alla traversata, e la Turchia, tramite la complicità del mare e la distrazione delle flotte delle agenzie europee troppo impegnate a deportare, restituisce morti, con costi a carico di quest’ultimi: potrebbe essere riassunto anche così uno dei taciti punti dell’accordo raggiunto a grande fatica il 18 marzo 2016 tra l’Ue e la Turchia, con assoluto rispetto dei valori fondanti dell’Europa, come affermato da uno dei premier europei durante la conferenza stampa alla fine degli ultimi due giorni di negoziato. Per giungere a questa soluzione si sono prodigati per mesi quasi al completo tutti i vertici dell’Unione europea, premier degli stati membri, ministri degli Interni, commissari, presidenti e vicepresidenti della Commissione e del Consiglio Ue, indicandola, già prima dell’inizio dei negoziati, come soluzione finale della “crisi dei rifugiati”. Per tutti loro, infatti, mentre nel corso dei mesi si innalzavano barriere sulle vie del passaggio, e mentre donne, bambini, uomini ostinatamente inventavano pertugi per continuare a passare, era naturale, una sorta di credo privo di alcun dubbio, che il problema fosse proprio il passaggio e l’ideazione di un modo per interromperlo definitivamente. Che in Europa non si debba arrivare, è stato questo il valore fondante, l’integralismo europeo, che ha dato il via ai difficili negoziati di quell’accordo. L’idea, ora, è quella di smaltire i resti di quei corpi ostinati, escogitando legalità mostruose e dispiegando eserciti di operatori dello smaltimento. Si accordano allora a uno stato quale la Turchia, noto per la salvaguardia dei diritti umani dei suoi stessi cittadini, patenti di categorie già in precedenza inventate per restringere lo statuto dell’asilo e respingere i rifugiati nei paesi di transito, come quelle di “paese di primo asilo” o “paese terzo sicuro”; si invita uno stato membro, la Grecia, a cambiare la propria normativa in materia, pena l’uscita da Schengen, e a prevedere procedure spedite per il vaglio delle domande; ci si appella agli stati membri per inviare frotte di agenti a implementare gli effettivi delle agenzie europee già di stanza in Grecia, Frontex, Easo (European Asylum Support Office), Europol (Ufficio europeo di polizia); si mandano agenti di polizia greca in Turchia, si

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accolgono agenti di polizia turca in Grecia; si stabilisce una deadline per i sopravvissuti alla traversata, il 20 marzo, salvi dalla minaccia delle deportazioni, e si immagina di poter deportare tutti gli altri, uno ad uno, un corpo e un agente europeo, un altro corpo e un altro agente europeo; si ipotizza per ogni “corpo indocile” siriano, esclusivamente siriano, che abbia varcato il confine greco dopo il 20 marzo e sia stato riportato indietro in Turchia, di reinsediare un altro “corpo siriano”, esclusivamente siriano, in uno degli stati membri, specificando che sarà accordata priorità a coloro “che precedentemente non siano entrati o non abbiano tentato di entrare nell’Ue in modo irregolare”. Si decreta grazie a una spiccata facoltà di immaginazione condivisa che i flussi di una delle rotte si sono esauriti (“Dichiarazione dei capi di Stato e di governo dell’Ue”, 8 marzo 2016) e ci si auto elogia per il proprio coraggio: “I capi di Stato e di governo hanno convenuto che sono necessarie iniziative coraggiose per chiudere le rotte del traffico di esseri umani, smantellare il modello di attività dei trafficanti, proteggere le nostre frontiere esterne e porre fine alla crisi migratoria in Europa” (ivi). Ci si stringe la mano, soddisfatti, con i propri omologhi turchi, e, forse consapevoli, con un estremo barlume di coscienza, che nulla andrà come previsto, con il pensiero fisso all’altro fronte nella battaglia che l’accordo con la Turchia contribuirà sicuramente a inasprire – il Canale di Sicilia e le coste libiche – ci si prepara a “iniziative altrettanto coraggiose”, sapendo che su quel fronte si potrà contare solo sui frantumi di alcune “milizie terze sicure”. 10 aprile 2016. Prima di iniziare a scrivere cerco su “Google maps” Idomeni, dove, stando dall’altra parte della barriera di filo spinato, la polizia macedone questa mattina ha lanciato gas lacrimogeni contro i migranti che cercavano di forzare la frontiera. Poi, per essere certa di quello che pensavo di scrivere, cerco una mappa dello spazio Schengen, per controllare che effettivamente la Grecia sia l’unico paese appartenente a quello spazio a confinare unicamente con stati membri che non ne fanno parte, come la Bulgaria, o con frontiere esterne all’Unione, come nel caso della Macedonia. Per uscire dall’imbuto greco, i 51.000 migranti arrivati dalla Turchia nei mesi scorsi e ancora presenti sulle isole o sul continente greco hanno, dunque, le seguenti possibilità: ritornare in Turchia di propria spontanea volontà, chiedendo magari di essere deportati per evitare di riprendere un gommone in senso contrario, come i portavoce anonimi della Commissione europea hanno assicurato nel caso dei due uomini siriani

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deportati il 4 aprile, e permettendo così ad altri siriani di essere reinstallati in uno stato Ue, secondo lo scambio “un reinstallato al prezzo di un deportato” stabilito dal testo dell’accordo; dirigersi verso la Bulgaria, per entrare in uno spazio Ue ma uscendo da Schengen, e rischiare quindi di rimanere intrappolati a vita in uno dei magnifici campi bulgari; fare la strada verso l’Albania, come qualcuno tra i più “facoltosi” sta già facendo, o puntare verso la Macedonia, come in molti hanno fatto trovandosi così nell’imbuto di Idomeni dopo l’innalzamento dell’ennesima barriera, e, in entrambi i casi, uscire sia da Schengen sia dall’Ue, sperando di potervi rientrare. Prima di cercare le mappe, pensavo di scrivere qualcosa su quell’imbuto di tende tra il fango, Idomeni, ma lo farò forse in un altro momento: Idomeni, infatti, è una delle “parole del delirio” annotate a penna sui fogli quasi interamente bianchi che stanno accanto al mio computer. Cercando la mappa dello spazio Schengen, ho aperto il primo link che è apparso sullo schermo del computer e mi sono imbattuta in una brochure della Commissione europea dal titolo Un’Europa senza frontiere. Lo spazio Schengen. C’è un elenco degli stati che ne fanno parte, una mappa con diversi colori, una legenda che spiega i colori e che suona così: “Stati dell’UE che aderiscono allo spazio Schengen; Stati dell’UE che non aderiscono allo spazio Schengen; Stati che non fanno parte dell’UE, ma che aderiscono allo spazio Schengen”. Sugli intrichi di Schengen, così come sulle frontiere in espansione dell’Unione europea, sono stati ormai scritti mari di inchiostro, e non vale più la pena soffermarvisi. Riporto solo una frase di Dimitris Avramopoulos, Commissario Ue per la Migrazione, gli affari interni e la cittadinanza, recentemente fotografato mentre si trovava in visita a Idomeni e dove ha rilasciato la seguente dichiarazione: “La situazione qui è tragica ma queste persone devono capire che devono ascoltare le autorità. E seguire vie legali per raggiungere il loro obiettivo”. Persone che devono ascoltare le autorità, corpi docili che non abbiano tentato la traversata: dalle dichiarazioni dei suoi commissari ai testi dei suoi accordi, l’Europa non si smentisce e ritrova la sua vocazione all’ammaestramento coloniale persino in questa occasione, promettendo il contentino del reinsediamento in uno stato membro di sua scelta solo a coloro che si saranno piegati alle sue volontà, salvo poi non essere in grado, come si è già verificato, di mantenere le promesse. Ma è la frase che il Commissario scrive nella brochure per descrivere quell’Europa senza frontiere, mai davvero esistita se non per la categoria di serie A dei suoi residenti, e ora del tutto

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vanificata, che vale la pena riportare, senza bisogno di aggiungere alcun commento: “Dopo due guerre mondiali devastanti, ci sono voluti molti anni per abolire le frontiere, garantire la sicurezza e rafforzare la fiducia. La creazione dello spazio Schengen costituisce una delle principali realizzazioni dell’UE ed è un processo irreversibile. Oggi la libera circolazione ridimensiona l’Europa e unisce tutti noi. Fruite di questo diritto e fatene tesoro. Salite su un treno, saltate in macchina e andate a visitare i vostri vicini. Tutto ciò senza dover pensare alle frontiere. Buon viaggio! Dimitris Avramopoulos, Commissario per la Migrazione, gli affari interni e la cittadinanza”. È sera e le notizie da Idomeni diventano più precise, compaiono le gallerie fotografiche, i video: quasi 300 feriti tra i migranti per i gas lacrimogeni e le pallottole di gomma sparati dalla polizia macedone al di là della frontiera. In una delle foto, alcuni operatori di “Medici senza frontiere” soccorrono una bambina con una maschera d’ossigeno e un limone. È piccola, tre anni al massimo, indossa una maglietta rosa con una scritta, ha riccioli biondi, un orecchino d’oro al lobo dell’orecchio, sta riversa a terra, sul prato, mentre le praticano la respirazione artificiale e cercano di tenerle aperti gli occhi. Senza data, nel corso del tempo. Klemperer, Benjamin, Arendt, sono stati gli autori e l’autrice a cui ho continuato a pensare, come risorse di parole e discorsi, mentre cercavo di capire come provare a uscire dall’impasse rispetto alla scrittura mantenendo il tono di un silenzioso disorientamento sempre più condiviso come sentimento, in parte, collettivo. Erano autori e un’autrice che avevo a lungo frequentato in anni passati, a uno dei quali, Benjamin, ho continuato anche in questi anni a dedicare i miei corsi, e le cui parole e idee riaffioravano ora come appigli da cui provare a ricominciare, lasciandomi un qualche sconcerto per la vicinanza del loro tempo con quello attuale. Certo, che la storia non si ripeta è addirittura un detto del senso comune, e nessuno studioso o nessuna studiosa, storico/a, filosofo/a, letterato/a, o altro, potrebbe mai ragionare per identità, ma oltre ai collegamenti carsici tra alcuni periodi storici, oltre agli automatismi di ripetizione nelle risposte degli esseri umani agli eventi, oltre al peso della tradizione, ci sono, quasi abbaglianti, improvvise assonanze, inaspettate sovrapposizioni tra parti di ciò che è stato e l’attuale. Può darsi, pure, che ciò sia una modalità generale dell’accadere storico, come pensava Benjamin mentre tentava di frammentare l’idea del corso della storia e la sua continuità, ma faccio troppo parte della mia generazione, di chi

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è cresciuto leggendo libri di decostruzione su ogni idea di essenzialità, per credere di poter pronunciare parole definitive su come sono le cose. Può darsi, dunque, molto più probabilmente, che il continuo ritornare sulle parole spesso enigmatiche di un autore che mi piace abbia alla fine modellato il mio modo di sentire ciò che accade intorno a me, resta il fatto che vivo ora, in questo presente, nel presente degli ultimi due anni, con lo stupore per quelle corrispondenze. E con lo stupore per un senso di impotenza dinanzi agli eventi simile al loro, o addirittura più radicale, perché, non Klemperer, rimasto in Germania, ma Benjamin sicuramente, nel suo esilio parigino e persino poco prima del suo suicidio, pensava di avere ancora qualcosa da contrapporre all’impotenza, e Arendt, in fondo, era mossa nella sua scrittura del dopo da una certa confidenza nella facoltà della comprensione. “Metodo di questo lavoro: montaggio letterario. Non ho nulla da dire. Solo da mostrare” (“Methode dieser Arbeit: literarische Montage. Ich habe nichts zu sagen. Nur zu zeigen”). Scrive Benjamin in Teoria della conoscenza e del progresso che avrebbe dovuto costituire l’introduzione del suo lavoro sui Passages parigini rimasto incompiuto. Il montaggio letterario, trasposizione nell’ambito del discorso e della teoria di quello cinematografico, era, per Benjamin, il tentativo di abbozzare un concetto di storia che si rivolgesse agli “stracci e ai rifiuti” del passato per frantumare il racconto egemonico dell’accadere storico, e dare loro una chance di giustizia e salvezza. Strappare gli eventi dalla tradizione, che è sempre stata quella dei vincitori, attraverso l’attenzione sul piccolo momento, colto nella sua precisione, come nello scatto fotografico o nella pellicola di un film, che costruisce la continuità della narrazione a partire dal ritaglio, e illuminarlo nella sua attualità, nella sua assonanza con il presente, per far risuonare in entrambi, nel passato e nel presente, la possibilità della redenzione. Montaggi di immagini, dunque, non di storie, disfare, anzi, la storia, e la sua inevitabile continuità, interromperne il corso, rivoluzionandola, attraverso attimi di temporalità carichi di una chance rivoluzionaria. Vorrei/Avrei voluto provare a seguire quel metodo, non rispetto al passato, ma con uno sguardo fisso sul presente, a partire dalla particolarità dello spazio da cui lo guardo, isolando la citazione di Benjamin dal suo contesto, la ricerca di un concetto di temporalità in grado di vincere la partita della storia, perché non ho alcun concetto da contrapporre alla catastrofe, alcun appiglio da suggerire al fondo di un sentimento collettivo per una chance rivoluzionaria. Che citare sia un modo di strappare dal contesto, uno scippo, che le citazioni siano “de-

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linquenti di strada che perpetrano una rapina a mano armata”, è ancora un insegnamento di quest’autore, da lui stesso praticato con i testi della tradizione filosofica e letteraria, messi talvolta a esergo della sua scrittura come ritagli estrapolati con cui perpetrare la deformazione o la distruzione di quella stessa tradizione. Al lettore o alla lettrice di Benjamin rimangono allora in mano un Hegel materialista, una frase di Nietzsche al servizio “degli antenati asserviti”, un frammento delle rovine di quell’opera di demolizione da trascinarsi dietro consapevoli della sua necessità. Ma strappare la citazione benjaminiana dal suo contesto, per me, significa unicamente questo: seguire il metodo del montaggio con lo sguardo sulle rovine del presente, che non ha più da combattere contro ideologie del progresso perché emerge da un passato che ha già fatto l’esperienza, nell’accadere, della sua inanità, e che non ha concetti di temporalità volti alla redenzione da contrapporre alla catastrofe dell’attualità. Una rapina a mano armata, forse, dal testo di un autore, ma per ricavarne solo l’indicazione di un metodo da seguire, senza sapere bene che cosa possa significare e come farlo. Immaginando, però, che solo in tal modo la superbia della scrittura abbia un minimo senso, quello di restituire la povertà della frantumazione, e non la presunzione di una sua inutile e solitaria ricomposizione. Non ho nulla da dire, ma solo da mostrare, avrebbe potuto corrispondere, allora, a una sorta di diario dell’accadere, giorno dopo giorno, una rapina a mano armata nei confronti della realtà e della sua potenza silenziante ma senza nessuna pretesa di costruzione, e forse mi ritroverei ora sullo schermo del computer la profondità dell’attualità, una cronistoria del suo frantumarsi: dalla dichiarazione del Califfato, nel giugno del 2014, ai naufragi nel Mediterraneo, passando attraverso gli eventi selezionati di questi due anni, le improbabili grandi coalizioni di guerra, gli attentati, i “je suis”, i tentativi di installare in Libia un governo di unità nazionale per farsi chiedere l’intervento militare, la resistenza di Kobane, i lacrimogeni alle frontiere, i treni soppressi tra paesi Schengen, i profughi sugli scogli di Ventimiglia, l’evacuazione della baraccopoli di Calais, gli infiniti vertici per “salvare” l’Europa, il cammino dei migranti lungo il tunnel dei Balcani, gli aiuti dei bombardamenti americani alla resistenza di Kobane, le gerarchie tra le vittime degli attentati, i minuti di silenzio alle scuole elementari, le polemiche per lo “scandalo” del silenzio non rispettato, i morti di Parigi onorati come eroi combattenti alla spianata de Les Invalides, Bruxelles in stato d’assedio, frammenti della grande coalizione contrapposti nella guerra in Yemen, il corpo di Aylan riverso

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sulla spiaggia, la maglietta di un neonato appesa al filo spinato della frontiera dell’Ungheria, i cartelli con la foto di Aylan portati dai bambini sulla strada della Turchia verso la Grecia, un’indicibile alleanza curdo russa, i droni americani in partenza da Sigonella, la minaccia di far uscire la Grecia dallo spazio Schengen, il risorgere di Assad come interlocutore di pace, gli interventi-non interventi in Libia, o, meglio, i non-interventi interventi, l’effetto domino della chiusura delle frontiere, gli affari di una ditta spagnola produttrice di filo spinato, gli attentati in Tunisia, i progetti della Commissione europea per l’uso dei droni nella sua guerra ai migranti, l’Inno alla gioia nelle stazioni tedesche ad accogliere i migranti in marcia dall’Ungheria, gli attentati in Turchia, Arabia Saudita, Yemen, Nigeria, Mali, Libano, Iraq, Pakistan, Somalia, Costa d’Avorio, Kenya, Burkina Faso, i vertici spezzettati, l’Austria con i paesi dei Balcani, la Germania con la Turchia, i paesi del Nord con i paesi del Nord, 4+5, 2+3, 8-1, incontri a geometrie variabili per “far fronte” all’arrivo dei migranti, la Nato come barriera nel Mediterraneo orientale, le flotte europee nell’operazione “Sophia” dinanzi alle acque libiche, i rifugiati siriani riportati dalla Turchia in Siria. Non ho nulla da dire, solo da mostrare, o meglio ancora, solo da elencare, perché basta un elenco, nemmeno ordinato, a suscitare un senso di vertigine, ridare “profondità” all’attualità, recuperare il peso della sua silenziazione, per quanto, presa dalla nausea nella bulimia di notizie provenienti dal delirio del presente, quel lavoro diaristico io non l’abbia mai iniziato. Osservare e annotare, giorno dopo giorno, smettere di dire e soltanto mostrare, senza nemmeno la pretesa di un montaggio, è ciò che ha fatto Victor Klemperer, quando, ormai privo degli strumenti del suo lavoro di filologo, licenziato dall’Università, interdetto dalle biblioteche, persi i libri personali nei traslochi obbligatori, ha trovato in un minuzioso lavoro quotidiano di annotazione “l’asta” per reggersi in equilibrio dinanzi alla persecuzione del nazismo. Un suggerimento, a cui spesso ho pensato, non tanto per il bisogno di un’asta con cui reggermi in equilibrio, dal momento che la mia situazione non ha nulla a che vedere con la sua, ma per fissare nella memoria i passi successivi del rapido instaurarsi di un nuovo regime del delirio. Per rispondere attraverso la cronologia degli eventi a quelle stesse domande con cui, scrive Arendt nel giugno del 1966, nella Prefazione alla seconda edizione delle Origini del totalitarismo, la sua generazione era stata costretta a confrontarsi negli anni migliori della propria vita adulta e che ora cominciavano a risuonare anche per la mia e altre ge-

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nerazioni: “che cosa succedeva? Perché succedeva? Come era potuto succedere?”. “Cosa succede? perché succede? come è possibile che succeda?”, declinate non più al passato ma al presente, perché, a differenza di Arendt nel suo esilio americano, siamo tutte/i ancora invischiate/i nell’accadere e, per quanto mi riguarda, tuttora “con un senso di muta indignazione e orrore impotente”, sono le domande a cui certamente non ho risposta, implicite negli innumerevoli saggi, articoli, lavori di ricerca, libri sull’attualità, apparsi nel corso di questi anni, alcuni, i meno validi, scritti con la fretta e la superbia di sapere come rispondervi. Avrei voluto, nel caso in cui avessi seguito il suggerimento di Klemperer, annotare accanto agli eventi anche alcune di queste riflessioni, nella convinzione che, così come è stato per il passato a cui Arendt poneva quelle domande, per ognuna di esse ci siano mille possibili indicazioni, tutte altrettanto frammentarie come il frantumarsi della realtà. Lo farò forse ora, in questa scrittura improvvisata, per la quale non ho in mente, alla fine, alcuna struttura, probabilmente nemmeno quella del montaggio benjaminiano, perché devo confessare di non sapere bene che cosa possa significare scrivere un libro come si monta un film, ma anche perché non credo di poter “scoprire nell’analisi del piccolo momento particolare il cristallo dell’accadere totale”, né di poter illuminare il presente attraverso il presente, come Benjamin pensava per un secolo passato, il xix, attraverso il suo presente. Settembre 2015. Sono seduta alla scrivania davanti allo schermo del computer che dovrei riempire di appunti per fare una lezione a una “Summer school” che si terrà tra qualche giorno, già in autunno, a Grado. Avevo accettato l’invito prima dell’inizio dell’estate, perché giungeva da un ricercatore di Trieste che mi riportava ai tempi in cui ero studentessa in quell’Università e perché avrei dovuto parlare a un pubblico per me inconsueto, studenti delle scuole secondarie provenienti da alcuni licei della Regione. Ero tentata anche dall’idea di fare qualcosa vicino a “casa” e pure da quella di aggiungere qualche giorno alla mia permanenza da quelle parti che stavano diventando una delle possibili frontiere della “rotta dei Balcani”, per svolgere qualche intervista, andare a “vedere”. Sapevo, comunque, già accettando l’invito, che sarebbe arrivato il momento del vuoto e del panico, o più semplicemente della svogliatezza per non sapere che cosa dire. Ora, seduta al computer, provo a sfogliare le pagine di un mio articolo appena pubblicato, contenente però gli appunti di una confe-

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renza dell’anno precedente, del maggio del 2014, l’ultima a cui avevo partecipato prima di precipitare sempre di più in questo silenzioso senso di disorientamento. Non ho voglia di usarlo in questa occasione, rileggendolo, penso, anzi, all’assurdità della produzione del mondo accademico, soprattutto nel caso in cui la ricerca sia attenta all’attualità. Un anno, spesso molto di più, il tempo necessario per la pubblicazione di un articolo, tanto più “quotato” quanto più riletto e modificato in base alle indicazioni di alcuni revisori anonimi, spesso del tutto estranei al tema trattato, e per i quali gli autori o le autrici degli articoli su cui intervengono con i loro suggerimenti sono altrettanto anonimi. Per quanto mi riguarda, sono abbastanza vecchia per aver avuto la fortuna di non dover seguire questa modalità di lavoro e di disciplinamento del pensiero, sempre più imperante e del tutto insensata quando viene applicata anche alle ricerche sulle migrazioni, soprattutto quando quest’ultime sono il frutto di lavori che, con brutto gergo accademico, vengono chiamati “lavori sul campo”. Rispetto alle ricercatrici e ai ricercatori più giovani, ho pure il privilegio di avere un posto di lavoro, fisso, e per il quale sono pagata, certo, anche perché “produco ricerca”, ma soprattutto perché insegno qualcosa agli/alle studenti/esse. Un assoluto privilegio, in questo periodo, non solo per lo stipendio che viene versato con regolarità sul mio conto corrente, ma anche perché mi concede la libertà del ritiro, dello stare a guardare, del non dire nulla quando non si ha nulla o non c’è nulla da dire, continuando però a svolgere la parte essenziale del mio lavoro, quella dell’insegnamento. Si tratta, però, di una libertà sempre più esigua, perché gran parte delle accademie del mondo occidentale si stanno adeguando a un sistema egemonico che ha regole serrate, detta ritmi incalzanti alle “produzioni di ricerca”, valuta in continuazione, chiede ai propri addetti di essere procacciatori di finanziamenti, promotori di reti, connettori di improbabili internazionalizzazioni. Sottrarsi a tutto questo, provare ad opporre una minima forma di resistenza, significa non più, soltanto, scegliere i margini come il luogo della propria adeguatezza, a partire dal quale cercare insieme ad altri/e una diversa modalità nello scambio dei saperi, ma trovarsi imbarazzati in una sorta di solitudine sempre meno condivisa con i propri colleghi e le proprie colleghe. Produrre ricerca, possibilmente “sul campo”, procacciare finanziamenti, inventando in tal modo il proprio “autostipendio”, essere promotori di reti di altrettanti/e ricercatori e ricercatrici autostipendiati/e, è quanto si chiede anche nell’ambito delle ricerche

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sulle migrazioni, in vertiginoso aumento nel corso degli ultimi due decenni. Convegni, seminari, workshop, riviste, lezioni, conferenze, libri, saggi, articoli, insomma, sterminate produzioni di discorso, a volte persino critico, spesso finanziate da fondi provenienti da quelle stesse istituzioni che finanziano con maggiore facilità le ricerche sui droni, sui nuovi sensori termici, o su qualsiasi altra innovazione tecnologica per usarli poi sui corpi dei migranti finiti in qualche imbuto delle politiche migratorie, verso cui recarsi, da ricercatori o ricercatrici, nel caso in cui si voglia lavorare “sul campo”. Una sorta di orrore, un “orrore di mezzo” tra quello lasciato come strategia di esistenza alle vite di coloro per i quali si decreta l’impedimento dello spostamento e quello incessantemente reinventato, ma nella sostanza estremamente monotono, delle politiche di governo delle migrazioni. Anche questo orrore confluisce ora in parte nel senso di vuoto o di svogliatezza mentre sono seduta al computer, contribuendo ad alimentarlo. Dovrei tenere una lezione, produrre uno di quei discorsi, immaginare di ritornarvi in futuro, di sottoporlo poi alla lettura di qualche revisore anonimo e di essere contenta per la sua eventuale pubblicazione: un articolo in più tra i miei prodotti di ricerca. Settembre 2015. Immagini. La frase di Benjamin “non ho nulla da dire, solo da mostrare” giunge ora in mio soccorso per preparare la lezione. Provo, anzi, a prendere alla lettera il suo suggerimento, limitandomi a mostrare, perché davvero non ho nulla da dire e proverei un senso di assoluto scoramento nel pensare di commentare per l’ennesima volta le retoriche deliranti delle politiche migratorie. Comincio a guardare immagini già viste, cercando con accanimento di trovare alcune rimaste impresse nella memoria, scoprendone di nuove, selezionando solo quelle del mese di settembre dall’immenso archivio di immagini dei corpi dei migranti che ci hanno assalito lungo tutto il 2015. Le copio e le riproduco su un PowerPoint, inserisco una data e una breve didascalia sotto ogni immagine, e ne esce una sorta di estetica delle frontiere del disumano o delle frontiere della disumanizzazione. Le copio su una chiavetta e il giorno dopo parto per Grado, provando lungo il viaggio a pensare alla struttura di un libro attraverso il montaggio di queste immagini, immagine dopo immagine, giorno dopo giorno, seguendo, non per le parole, come Klemperer aveva fatto per la lingua del Terzo Reich, ma per le immagini, il suo suggerimento: annotare, ricopiare, riproducendo in un unico testo il mosaico del loro potere corrosivo, quell’arsenico visivo da cui nella quotidianità ci

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siamo lasciati abbagliare. “La lingua”, scrive Klemperer nel suo lavoro sulla LTI, Lingua Tertii Imperii, “non si limita a creare e pensare per me, dirige anche il mio sentire, indirizza tutto il mio essere spirituale quanto più naturalmente, più inconsciamente, mi abbandono a lei. [...] Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico”. Cito ora, 15 aprile 2016, la sua frase provando a pensare di sostituire i termini “lingua” o “parole” con i termini “immagine” o “immagini”, dal momento che quest’ultime costituiscono nel nostro presente una forma di lingua altrettanto consueta di quella formata dalle parole. Non sono sicura che, nel caso in cui questo file diventasse un libro da pubblicare, una casa editrice accetterebbe di inserire a questo punto le immagini del settembre 2015, quelle che avevo scelto per la lezione. Ci sarebbe sicuramente un problema di composizione grafica e altrettanto sicuramente un problema di costi, in grado di smontare anche questo piccolo montaggio. Provo allora a “mostrarle” nominandole, seguendo la cronologia di quel mese, saltando qualche giorno, affiancando, invece, per qualche altro giorno, due o tre immagini, a seconda di quanto accadeva tra le frontiere del disumano, come avevo fatto per il PowerPoint. Ecco qui l’elenco. 2 settembre 2015: foto numero 1, il corpo di Aylan tra le braccia di un soldato. 3 settembre 2015: foto numero 2, l’assalto ai treni alla stazione di Keleti, bambini passati tra mani adulte ai finestrini del treno, una macchina fotografica professionale tra i corpi all’assalto. 4 settembre 2015: foto numero 3, i migranti in una strada di Budapest in marcia verso la Germania; foto numero 4, la loro marcia lungo l’autostrada. 5 settembre 2015: foto numero 5, un gruppo di migranti in un prato, vicini ai binari della ferrovia, alzano in molti le mani in segno di vittoria, un ragazzo in primo piano si sta facendo un selfie, alcuni adulti si riposano sul prato, la didascalia del giornale che ha pubblicato la foto indica che hanno attraversato il confine della Germania. 9 settembre 2015: foto numero 6, stazione di Flensburg, Germania, sacchi ammucchiati di coperte, vestiti, pannolini, generi alimentari, due o tre persone sdraiate sbucano dai sacchi a pelo, una viaggiatrice trascina la sua valigia lungo lo spazio non occupato da quel mucchio di cose e persone.

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10 settembre 2015: foto numero 7, ancora i binari dei treni, ancora migranti che trascinano con sé sacchi e zaini, nella foto si vedono loro in piedi e la loro immagine riflessa in uno stagno, come luogo dello scatto la didascalia indica la frontiera tra la Grecia e la Macedonia. 13 settembre 2015: foto numero 8, traffico sull’autostrada, rallentato da alcuni uomini e donne con pettorine gialle e arancioni, la didascalia indica come luogo la Germania nel giorno in cui il governo tedesco ha deciso di reintrodurre i controlli alle frontiere; foto numero 9 e foto numero 10, due foto di un naufragio vicino a una delle spiagge di Lesbo, nella prima un uomo galleggia trascinando un salvagente con un neonato, nella seconda il gruppo di migranti cammina nell’acqua accanto a riva cercando di trascinare con sé chi sta ancora sul gommone in avaria. 14 settembre 2015: foto numero 11, una donna velata, due bambine con i loro zainetti, qualche uomo e alcuni poliziotti stanno sulla banchina della stazione di Salzburg, in Austria, il giorno in cui anche l’Austria, dopo l’Ungheria, ha interrotto il traffico ferroviario. 15 settembre 2015: foto numero 12, un altro naufragio, sempre nell’Egeo, nella foto spicca in primo piano l’immagine di un neonato con il giubbotto salvagente che un uomo sta passando a delle mani di donna; foto numero 13 e numero 14: due foto dall’Ungheria, nella prima un ragazzo con uno zaino e un sacchetto di plastica cammina vicino a un cartello appeso a un albero che riporta la scritta: “Border to Hungary closes at Midnight, 3 km”, nella seconda un bambino con uno zaino e una coperta in mano cammina lungo la barriera di filo spinato, è il giorno in cui dalla mezzanotte entra in vigore la nuova legge che prevede pene detentive per chiunque entri illegalmente sul territorio ungherese o danneggi la barriera di filo spinato eretta al confine con la Serbia. 16 settembre 2015: foto numero 15, fumo di gas lacrimogeni sparati dalla polizia ungherese contro i migranti alla frontiera di filo spinato con la Serbia; foto numero 16, poliziotti ungheresi caricano i migranti, in primo piano un uomo con il volto insanguinato tiene in braccio un bambino, altri migranti stanno a terra, uno viene trascinato da un poliziotto. 17 settembre 2015: foto numero 17, frontiera Serbia-Ungheria, ancora poliziotti e migranti; foto numero 18, frontiera con l’Ungheria, qualcuno ha appeso la tutina di un neonato sul filo spinato con le scritte a pennarello: “Strike. No food no water open this border”. 18 settembre 2015: foto numero 19, un gruppo di migranti a Edir-

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ne, in Turchia, sulla strada verso la Grecia, in primo piano dei bambini tengono in mano un lenzuolo con l’immagine di Aylan e la scritta in arabo “abiruna la akthar”, “attraversiamo, null’altro”; foto numero 20, Edirne, la polizia turca blocca i migranti in marcia verso la Grecia; foto numero 21, Serbia, un treno in partenza, un bambino aggrappato al finestrino, una donna sulla banchina lo spinge verso l’alto, alcuni uomini sul treno allungano le mani per farlo salire; foto numero 22, frontiera tra la Croazia e la Slovenia, 6 migranti cercano di guadare un fiume, tre uomini, una donna con in braccio un bambino, uno degli uomini con un bambino più grande sulle spalle. 19 settembre 2015: foto numero 23, autostrada Istanbul Edirne, un muro di poliziotti con scudi di plastica con la scritta “Polis”, dinanzi a loro una neonata che gattona; foto numero 24, un gommone con a bordo un gruppo di migranti viene soccorso nel canale di Sicilia. Foto numero 25, senza data, un’immagine dall’alto della barriera di filo spinato eretta dall’Ungheria alla frontiera con la Serbia e terminata il 12 settembre 2015. Foto numero 26, senza data, è un’immagine di Bansky, sullo sfondo blu del mare ruotano in cerchio i corpi di alcuni naufraghi, come le stelle in cerchio sullo sfondo blu della bandiera dell’Unione europea. 29 settembre 2015. Immagini. Bergamo. È il giorno d’inizio dei corsi all’Università. Ho quattro ore di lezione, due di “Estetica”, per la triennale, e due di “Estetiche e politiche dell’attualità”, come da quest’anno ho chiesto che si chiamasse il mio insegnamento alla magistrale. Nessuno dei due è un corso sulle migrazioni, decido però di usare il montaggio di “immagini che ci assalgono” (Butler) che avevo preparato per la lezione a Grado come momento introduttivo ai due diversi programmi, uno dedicato a Benjamin, l’altro alle immagini dell’attualità. Faccio scorrere rapidamente la sequenza di immagini, poi ricomincio dalla prima: il corpo di Aylan in braccio al poliziotto Turco. Chiedo loro chi non l’avesse vista, tra i/le 40 studenti/studentesse della triennale, uno alza la mano, tra i 15 della magistrale nessuno/a. Chiedo, prima durante un corso, poi nell’altro, di dirmi il nome del bambino, e qualcuno lo fa, chiedo di dirmi il suo cognome, non parla nessuno/a, agli/alle studenti/studentesse della triennale chiedo di dirmi in quale posto del mondo sia stata scattata la foto, una studentessa dice “in Grecia”, chiedo agli/alle altri/e, nessuno/a risponde, chiedo di dirmi da dove provenisse quel bambino e per quale motivo stesse lì, cadavere, tra le braccia di quel poliziotto, anziché sul-

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la spiaggia a giocare: assoluto silenzio alla triennale, due risposte con qualche dubbio da uno studente e una studentessa alla magistrale, chiedo a coloro che hanno risposto che cosa sanno di altre situazioni simili e capisco che si tratta di persone in vari modi già “impegnate” in contesti di movimento antirazzista. Un piccolo test, un senso di desolazione, che provo a comunicare, e un sentimento di vergogna per avere usato l’immagine di Aylan per iniziare a dire altro rispetto a lui. Ricomincio a parlare comunicando anche quel sentimento, e chiedo un silenzio interiore, di provare a immaginare il loro silenzio e il mio mentre mi ascolteranno, perché in quanto docente non posso rimanere muta. Supero una leggera commozione, sperando che non sia visibile, ma scorgo commozione anche in alcuni occhi intorno a me, e leggo loro l’articolo di Santiago Alba Rico, Il Bambino addormentato che non si sveglierà piangendo, che avevo letto qualche giorno prima sul sito “TunisiainRed”: “A Rousseau non piaceva il teatro, perché lo irritava l’idea di emozionarsi di fronte a situazioni sulle quali non si può intervenire. Ad Aristotele, invece, questa emozione sembrava già un modo di agire, almeno su se stessi. Il brutto della nostra reazione di fronte a Aylan, il bambino morto su una spiaggia turca, il bambino addormentato che non si risveglierà piangendo, non è che questa sia malata o insana: anzi, è moralmente ragionevole ed emotivamente adeguata allo stimolo. Il problema è che non siamo in teatro! Il problema è che il mondo stesso è diventato un teatro nel quale possiamo intervenire ‘poeticamente’ su noi stessi – per purificarci – ma nel quale non possiamo intervenire materialmente per cambiare qualcosa. Anche noi della sinistra indignata e accusatrice non sappiamo fare molto altro che sfoggiare ‘la buona coscienza’ su Facebook o su Twitter, in un modo non molto diverso da come altri sfoggiano i propri muscoli o i propri vestiti di marca. Il mondo è un teatro non perché si presenta in forma di immagini manipolate, né perché le nostre reazioni di fronte a quelle immagini siano sbagliate o impure, ma per la stessa ragione che faceva irritare Rousseau: quello che caratterizza il dramma rappresentato a un metro dal nostro naso, eppure su un palcoscenico irraggiungibile, è che non possiamo intervenire. Il mondo è un teatro perché, come in teatro, siamo tutti semplici spettatori. Quando parlo alla prima persona plurale, mi riferisco a tutti quelli (siriani normali, europei normali) i cui ruoli sono in realtà intercambiabili”. Rousseau, Aristotele, il teatro, l’essere spettatori, il palcoscenico irraggiungibile, il non poter intervenire. Riprendo brevemente questi

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temi, faccio altrettanto brevemente cenno agli autori che contestano l’idea riduttiva dell’essere spettatore, e ritorno alle altre immagini del montaggio consacrato al mese di settembre, spiegandole una ad una. Termino con le immagini e inizio a spiegare perché Aylan in quella foto non stia giocando sulla spiaggia. Due settimane di corso sul governo delle migrazioni e sulle politiche migratorie dell’Unione europea, che dico loro essere un’introduzione a Benjamin, l’attualizzazione di un autore che in vari modi si è interrogato sulla propria attualità, nel corso della triennale, e un’introduzione al tema “immagini dell’attualità”, nel corso della magistrale. “Immagini che ci assalgono” (Butler), “immagini che ci guardano” (Bredekamp): anche per quanto riguarda le migrazioni, nel corso degli anni, siamo entrati in un regime di immagini quotidiane che ci vengono incontro senza bisogno di una nostra volontà nell’andarle a cercare. Immagini online, immagini sulle prime pagine dei giornali, immagini alla televisione, non più rubate alla realtà con intento di denuncia, come negli anni passati, ma semplici cronofotografie di ciò che succede, sorte di specchi degli eventi, riflessi immediati di ciò che sta di fronte agli strumenti digitali di chi sta in mezzo al loro accadere. Difficile immaginarsi una critica di queste immagini, soffermarsi sulla loro costruzione, affrontarle con gli strumenti critici a cui eravamo abituati nel passato, se non scadendo in una ripetizione anacronistica, cieca dinanzi a ciò che è avvenuto nella quotidianità dell’universo visivo delle migrazioni. Che dire? Che le riprese sono fatte dall’alto? Non sempre è vero. Che i migranti sono ripresi in massa? Spesso è il contrario e spesso, comunque, quando viaggiano in quel percorso ad ostacoli che le politiche migratorie disegnano per loro, i migranti sono in massa, quando sono su una barca, per esempio, in un hangar, in un centro di detenzione, nel deserto, nei momenti dei loro arrivi, o durante i viaggi, tra i binari delle ferrovie di mezza Europa, al mezzanino della stazione centrale di Milano. Alcuni, nei loro saggi, continuano a sostenerlo, con l’effetto di un discorso che per il suo anacronismo perde qualsiasi capacità di analisi critica. Che dire, ancora? Soffermarsi sull’opportunità della loro pubblicazione? Persino per le due foto scattate da Nilufer Demir sulla spiaggia di Bodrum qualcuno l’ha fatto, ritrovandosi così a condividere una “scelta critica” con alcuni dei mezzi di comunicazione mainstream del mondo occidentale dinanzi alla scelta altrettanto “critica” degli innumerevoli altri mezzi di comunicazione mainstream del mondo occidentale che il 2 settembre 2015 hanno pubblicato i suoi scatti. Aylan Kurdi, comunque, “il bam-

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bino addormentato che non si sveglierà piangendo”, era riverso su quella spiaggia, portato a riva dalla risacca, fatto morire da coloro che pensano di governare le migrazioni. “Immagini che ci assalgono”, “immagini che ci guardano”. “Atti iconici” (Bredekamp), persino. Azioni di cui è impossibile verificare appieno gli effetti sulla realtà dal momento che si intrecciano con l’intangibilità del sentire individuale e collettivo. Uno studio dell’Università Sheffield, per esempio, sull’impatto delle foto di Aylan, analizzando i milioni di condivisioni online raggiunti in poche ore, mostra in un grafico come dal momento della loro pubblicazione i discorsi di commento abbiano abbandonato la parola “migranti” sostituendola con quella di “rifugiati”. Ma “rifugiati” al posto di “migranti”, o addirittura “siriani” – attualmente i “rifugiati” per eccellenza – al posto di “migranti”, sono parole che ricorrono anche nelle dichiarazioni individuali dei rappresentanti dell’Unione europea o nei testi collettivi alla fine dei loro vertici. Una nuova forma di sensibilità, non c’è dubbio. Accompagnata, però, da un inasprimento delle categorizzazioni, “rifugiati” versus “migranti”, dalla demonizzazione dei “migranti economici”, e affiancata dalle “iniziative coraggiose”, come l’accordo con la Turchia o quello che ora qualcuno auspica con il “governo Onu” della Libia, al fine di trovare “stati di concentramento” esterni, o persino interni all’Ue, come nel caso della Grecia, in cui risolvere “la crisi dei rifugiati” confinandoli. “Atti iconici”. Eppure, uscendo dall’aula universitaria di una città italiana, in un giorno di settembre 2015, dopo le migliaia di immagini provenienti da quella che è stata chiamata “la rotta dei Balcani” che, come me, hanno assalito i miei studenti e le mie studentesse, non posso che fare la seguente constatazione. In questi due anni, 2014-2015, da quando l’Unione europea si è vissuta e si è rappresentata come in preda a un assalto di popoli in cammino che ha del tutto contribuito a creare con le sue scelte politiche, nonostante il tema delle migrazioni, e dei rifugiati in particolare, abbia occupato ogni giorno la prima scena, è come se la massa di notizie, immagini, immagini-choc da cui siamo colpiti, la massa di resoconti delle decisioni politiche e di commenti di queste stesse decisioni, creassero una sorta di nube di non-comprensione generalizzata, in cui diventa sempre più difficile “comprendere” e rispondere a quelle domande indicateci da Arendt e che io riporto al presente: che cosa succede? perché succede? come è possibile che succeda?

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Senza data, nel corso del tempo. Come talvolta è sua abitudine, Foucault inizia il corso del 1980 al Collège de France descrivendo una scena. L’aveva già fatto con la follia di Giorgio III e la destituzione della sua sovranità attraverso il trattamento psichiatrico, lo rifarà l’anno successivo con la storia dell’elefante e delle sue abitudini sessuali, ma prima ancora c’erano stati il supplizio di Damiens in Sorvegliare e punire, la scena di “Las Meninas” nelle Parole e le cose, il matricidio di Pierre Rivière, e la “strana confessione” di Adélaïde Herculine Barbin. Nel corso dell’80, Du gouvernement des vivants, è la volta dell’imperatore romano Settimio Severo e della sua sala di giustizia. “Sul soffitto di questa sala, Settimio Severo aveva fatto dipingere una rappresentazione del cielo, del cielo stellato, ma quello che aveva rappresentato non era un cielo o delle stelle qualsiasi, o una posizione qualsiasi degli astri. Aveva fatto rappresentare esattamente il cielo al momento della sua nascita, la congiunzione astrale che aveva presieduto alla sua nascita e di conseguenza al suo destino” (G, p.13-14). È con questa immagine del “cielo stellato” sopra le sentenze di un imperatore che Foucault introduce i suoi ascoltatori e noi lettori all’argomento del corso, segnalando pure lo spostamento che la nozione di governo comporta rispetto alla coppia potere-sapere elaborata nella prima metà degli anni Settanta. “Sinora ho fatto questo, d’ora in poi vorrei fare quest’altro”, “prima avevo fatto questo, poi quello, e ora sto provando a fare un’altra cosa” sono, parafrasati, gli improvvisi résumés del suo lungo lavoro di riflessione, sorte di cartelli stradali, istantanee contrazioni rispetto alle migliaia di pagine già scritte con cui, altrettanto di consueto, Foucault avvisa che qualcosa, appunto, cambierà e che insieme a lui dovremo affrontare l’avventura di questo cambiamento. Lo si segue, così, nella nuova avventura, affascinati dalla maestria con cui ci aveva già condotti lungo le strade delle avventure precedenti, superando il primo momento di choc per quei riassunti in cui spesso non ci si ritrova e la propria frustrazione per aver letto quelle migliaia di pagine già scritte pensando che stesse facendo tutt’altro rispetto a quello che nell’improvvisa segnaletica ci dice d’aver fatto. Qui, la nuova avventura è quella della nozione di governo, già intrapresa, in realtà, stando allo stesso Foucault, nei corsi dei due anni precedenti, Sicurezza, territorio, popolazione e Nascita della biopolitica, quando, con le analisi della “ragione di stato” e di “popolazione”, nel corso del ’78, e del liberalismo e del liberalismo contemporaneo, in quello del ’79, aveva attuato un primo scarto rispetto al concetto di

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“potere” indicando con il concetto di “governo” “i meccanismi e le procedure destinati a condurre gli uomini, a dirigere la condotta degli uomini, a condurre la condotta degli uomini” (G, p. 24). Si tratterà, ora, nel corso sul Governo dei viventi, di fare la stessa operazione di spostamento dentro alla nozione di sapere-potere lavorando con quella di governo degli uomini attraverso la verità e la volta celeste di Settimio Severo serve a Foucault per iniziare quest’operazione, per cercare in un antico rituale di manifestazione della verità lo stretto rapporto che quest’ultima intrattiene con l’esercizio del potere. Aleturgia, è il neologismo che ci propone per questo rituale, la manifestazione di una verità non-economica, che non risponde a un bisogno di conoscenza di ciò che si governa, che eccede l’utilità dell’informazione e del sapere necessari al governo, e che è invece dell’ordine del supplemento, ma altrettanto necessaria affinché ci sia potere. “Là dove c’è potere, dove bisogna che ci sia potere, dove si vuole effettivamente mostrare che è lì che risiede il potere, bisogna che ci sia del vero” (G, p. 20-21). In realtà, se non fossimo così ben predisposti a seguirlo quando sul tavolo spariglia le carte delle sue nozioni precedenti, dovremmo, come lui stesso ci chiede di fare, avvisarlo della nostra, se non della sua, difficoltà a “sbarazzarci” della nozione di sapere-potere, e del nostro sospetto che in questo passo stia ancora concedendo quell’inevitabile indulgenza a tale nozione, come lui stesso confessa che farà nella pagina successiva. “Dicendo questo, tuttavia, sono un perfetto ipocrita, poiché è evidente che non ci si sbarazza di ciò che si è pensato in prima persona allo stesso modo in cui ci si sbarazza di ciò che hanno pensato gli altri” (G, p. 23). Ma non è alle indulgenze di Foucault rispetto a se stesso, o alle sue difficoltà nell’attuare gli spostamenti da una nozione a un’altra, e nemmeno all’intero contenuto di questo corso che sono interessata: la storia del rapporto tra verità e governo degli uomini, delle loro condotte, attraverso un direvero che riguarda se stessi, con cui Foucault ci consegna uno dei suoi punti di vista sulla storia del “governo dei viventi” dell’Occidente. È, piuttosto, sull’idea di manifestazione supplementare di verità, sul rituale, che vorrei, invece, soffermarmi, per interrogarlo al presente. Su quell’aura della manifestazione del vero che in Settimio Severo si dà in modo così poetico, il disegno di un cielo stellato sopra la sua testa e le sue sentenze, ben diverso dal cielo stellato naturale “sopra di me” a cui ci aveva abituati la modernità kantiana, poiché, anziché causa di sentimento di impotenza, è fonte indispensabile della sua potenza. Il rituale, dunque, ma al presente. Elicotteri, aerei privati o di

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linea, automobili blu, foto di gruppo con qualche signora, le porte chiuse alle proprie spalle quando prende inizio l’incontro, e poi altre foto, le conferenze stampa, le dichiarazioni orali e gli inevitabili testi scritti alla fine della riunione. Non proprio a una manifestazione della verità poetica e già evocativa, a un “cielo stellato” sopra di loro, se non a quello inquinato dal carburante dei velivoli che li conducono nei luoghi delle riunioni, è il rituale a cui ci hanno abituato nel corso degli ultimi due anni, a cadenze sempre più ravvicinate, i Settimio Severi dell’Unione europea. Il loro scopo: “governare alcuni viventi”, o meglio, “alcuni sopravviventi”, enunciando le loro sentenze di vita o di morte, di ricollocazione o di deportazione, su una parte sempre più consistente della popolazione mondiale. Un rituale, comunque, una manifestazione supplementare delle loro verità, anti economica per eccellenza, solo a pensare alle spese per i loro viaggi, al carburante, agli uomini di scorta, ai viaggi dei giornalisti, alle forze dell’ordine dispiegate nelle città scelte per gli incontri, alle misure di sicurezza antiterrorismo. Non-economica, però, anche nel senso indicato da Foucault, nel senso, cioè, di una manifestazione del vero che va “ben al di là di quanto sia semplicemente utile o necessario per governare bene” (G, p. 21), e che, nel loro caso, si dà come del tutto sconnessa ad ogni conoscenza e cognizione della realtà. Ne esce, quando sono già pronti ad abbandonare il loro rituale senza aver dimenticato di fissare la data del prossimo rito, un dire vero delirante, un regime del delirio, una “aleturgia del delirio” con cui, anziché portare “alla luce ciò che si pone come vero in opposizione al falso, al nascosto, all’indicibile, all’imprevedibile, all’oblio” (G, p. 19), come era il compito dell’aleturgia foucaultiana, si cerca di nascondere ciò che è palese, di rendere indicibile ciò che tutti dicono, di trasformare ciò che è prevedibile in imprevedibile, di far obliare la realtà. Un vortice di parole, a leggere i loro testi, dapprima in inglese e qualche giorno dopo in tutte le possibili lingue dell’Unione. Un cerchio, anche, di parole, a leggere le loro Conclusioni, le loro Dichiarazioni, le loro Raccomandazioni, le loro Lettere degli uni agli altri – scritte collettivamente ma forse tacitamente consapevoli di aver perso ogni facoltà di “governo sui sopravvissuti” – in cui in ogni testo successivo si “vedono” o si “considerano” tutte le Dichiarazioni, le Lettere, le Conclusioni, le Raccomandazioni, le Risoluzioni di quelli precedenti. Vertice dopo vertice, l’elenco delle Dichiarazioni e delle Risoluzioni da “vedere” prima di arrivare alle poche parole della nuova Conclusione si fa sempre più lungo, e sempre più sconnesso da quello che tra gli uomini, le donne,

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i bambini sopravvissuti, che le loro risoluzioni dovrebbero governare, accade nella realtà. Un vortice di “parole del delirio” che ci vengono scaraventate addosso attraverso le innumerevoli riprese mediatiche, e tramite le quali, in questo primo scorcio del xxi secolo, dinanzi all’evento nuovamente epocale della fuga sempre più di massa di bambini, uomini e donne da situazioni di invivibilità, ci troviamo a fare l’esperienza di un insondabile orizzonte comune tra politica e follia. Oltre al corso sul Governo dei viventi e alla sua scena inaugurale, faccio allora riferimento a un altro testo di Foucault, riportando anche in questo caso al presente le sue suggestioni, con un ulteriore atto di “rapina” non dissimile da quello già compiuto con la volta celeste dell’imperatore romano. Un passo indietro rispetto al Foucault dell’etica della cura di sé, un ritorno al Foucault della follia, che in una conferenza del 1963 ne indaga la stretta parentela con il linguaggio, immaginando che ognuno di noi, quando parla, faccia uso, “almeno in segreto, dell’assoluta libertà di essere folle” (GS, p. 40), e che, in quel gioco perpetuo con i segni che è la follia, scorge, come esperienza del xx secolo, la sua congiunzione segreta e profonda con la letteratura. I testi di Michel Leiris, di André Breton e, immancabile, il fulgore delle parole di Antonin Artaud, servono allora a Foucault da testimoni di una scrittura letteraria che “è già ai confini della follia” (GS, p. 41), in un’epoca in cui, finito il sogno di una libertà politica e di un uomo disalienato, sapendo che non si sarà felici, chi scrive lo fa “per prendere la misura di una libertà che non esiste più che nelle parole” (GS, p. 41). Ma Leiris, Breton, Artaud, a guardar bene, ipotizza Foucault, sono solo gli eredi di una lunga dinastia di “mistici del linguaggio”, “che hanno creduto al potere assoluto, originario e creatore del linguaggio e del linguaggio in quel che c’è di più materiale: nella parola, nella sillaba, nella lettera, persino nel suono” (GS, p. 44). “Mistici del linguaggio”: non so se a loro volta eredi di una lunga dinastia, ma anche gli imperatori del presente danno prova nelle loro aleturgie di credere “al potere assoluto, originario e creatore del linguaggio” (GS, p. 44), o di una fede dogmatica nel suo potere performativo. “Diciamo che è, ed è”, come, più che gli scrittori o i folli di Foucault, che cercavano di “prendere la misura” (GS, p. 41) di una libertà possibile unicamente tra le parole, solo Dio aveva fatto prima di loro. Con un’abissale differenza rispetto al potere divino. Perché l’esperienza con le “parole del delirio” è quella di una loro assoluta smentita da parte della realtà e di una loro diffidente ricezione persino da parte di quelle agenzie o organizzazioni – Oim, Unhcr – che, negli

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anni passati, erano diventate fedeli esecutrici nella realtà delle scelte politiche dell’Unione europea rispetto alle migrazioni. Così, aggirandosi come “grandi pastori sovrani” (GS, p. 44) attorno al gregge di tutte le loro parole passate e future, più che l’esperienza del potere performativo del linguaggio, è l’esperienza di una loro assoluta impotenza dinanzi all’accadere del mondo quella che tali “mistici” continuano a mettere in scena nei loro rituali, smentendo a loro volta le proprie stesse parole anche quando dipenderebbe esclusivamente dal loro impegno il renderle effettive nella realtà. Non dunque “diciamo che è, ed è”, ma “diciamo che faremo e non facciamo”. Al di là delle loro parole, ostinata, rimane la realtà, ad attestare che il mondo non è “un immenso gioco di parole” (GS, p. 46) come, senza però la pretesa di governare qualcosa al di fuori di quel gioco, avevano pensato i “mistici del linguaggio” che affascinavano Foucault. 18 aprile 2016. Oggi, in realtà, è il 25 aprile 2016, anniversario della liberazione dell’Italia dal fascismo, o della vittoria sui tedeschi da parte della Lazio, com’è convinzione del nipotino di una mia amica la quale mi manda le sue parole su WhatsApp. Come Tristram Shandy per la sua autobiografia, infatti, scrivendo non riesco a stare al passo con ciò che accade, perché il tempo della scrittura si insinua tra il qui e ora da cui emergono le parole e il succedersi degli eventi di quella realtà ostinata che continua a darsi sfuggendo a ogni possibile gioco di imprigionamento. Ma a differenza del protagonista di Laurence Sterne, il cui tempo di scrittura l’allontanava sempre di più dalla possibilità di ricongiungere il suo passato con il presente, non è mia preoccupazione far coincidere il qui e ora dello scrivere con il qui ed ora dell’accadere, riportando al presente l’infinità di ciò che è già accaduto. Scelgo, invece, la data del 18 aprile 2016 perché alcuni eventi di quel giorno corrispondono, già di per sé, alla vaga struttura del montaggio che ho ancora in mente mentre sto scrivendo: un naufragio, un vertice, un premio. “Un naufragio, un vertice straordinario”, o meglio, “un naufragio, un vertice straordinario e poi in coda un’infinità di altri vertici”, o meglio ancora, per essere più rispettosa nei confronti dell’ostinazione della realtà al di là di ogni possibile gioco con le parole, “l’enormità di un naufragio, con a capo o in coda tutti gli altri, e un vertice straordinario”, è una pratica a cui l’aleturgia dell’Unione europea ci aveva già abituati. Ma in differita. A inaugurare questo schema, il naufragio del 3 ottobre 2013 e il vertice straordinario del 24 e 25 ottobre dello stes-

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so anno, mentre, nel frattempo, l’enormità del naufragio dell’11 ottobre 2013 veniva lasciata accadere dall’omissione di soccorso dell’Italia e di Malta in uno dei loro ricorrenti litigi su chi dovesse salvare o non salvare nelle zone Sar (Search and rescue) dell’una o dell’altra. Che secondo i vari organismi dell’Unione europea questo schema funzionasse per un’idea del governo delle migrazioni, e, se non proprio per il governo dei viventi e dei sopravvissuti, almeno per il “rispetto” dei morti, lo si può intravedere ancora una volta leggendo i testi prodotti dopo i vertici o le riunioni del Parlamento, in cui, accanto ai “visto/ considerato” che fanno riferimento a tutte le risoluzioni o conclusioni precedenti, compare il riferimento a un sentimento di dolore dinanzi ai morti, di volta in volta sempre più numerosi. Il 18 aprile 2016, invece, la notizia dell’enormità di un naufragio, 500 o forse più “dispersi”, è arrivata in contemporanea alla riunione del Consiglio dei ministri degli Affari esteri in Lussemburgo prima ancora che i partecipanti si sedessero intorno al tavolo a considerare, tra gli altri punti all’ordine del giorno, anche la fattività del “Migration compact”, ennesima “parola del delirio” imbandita questa volta dal premier italiano, invidioso che l’accordo sugli “stati di concentramento” riguardasse solo la Turchia. In contemporanea, dunque, e non più in differita, quasi i vertici facessero accadere i naufragi e come se quegli uomini e quelle poche donne che governano l’Europa ed esternano il loro dolore dinanzi alle morti in mare, pensando così di governare le migrazioni, persa ogni capacità di governo, avessero in cambio recuperato una sovraumana o inumana capacità divinatoria: fissare un vertice sapendo che ci sarà un naufragio. Il 18 aprile 2016, però, era pure un tempo del calendario, come direbbe Benjamin, un giorno del ricordo, poiché era il primo anniversario del naufragio avvenuto nel Canale di Sicilia a seguito dell’impatto tra un’imbarcazione di migranti in avaria e il mercatile portoghese King Jacob, inviato dalle capitanerie di porto in loro soccorso. 700, 800, forse 900 persone, “morte di soccorso”, come i ricercatori del gruppo di lavoro “Forensic Oceanography” hanno recentemente chiamato le morti dei naufragi avvenuti dopo la fine dell’operazione “Mare Nostrum”, accaduti, come in questo caso, per l’inadeguatezza a soccorrere delle navi commerciali mandate a recuperare i migranti in mezzo al mare. Un primato, “il più grande naufragio avvenuto nel Mediterraneo dopo la Seconda guerra mondiale”, che succedeva “al più grande naufragio avvenuto nel Mediterraneo dopo la Seconda guerra mondiale” del 3 ottobre 2013, a sua volta un primato dopo “il più grande naufragio avvenuto nel

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Mediterraneo dopo la Seconda guerra mondiale” accanto a Portopalo nel 1996 e rimasto un “naufragio fantasma” sino al 2001. Una mise en abîme dei “più grandi naufragi avvenuti nel Mediterraneo dopo la Seconda guerra mondiale” con cui, di primato in primato, e considerando i naufragi “non primati” avvenuti tra gli uni e gli altri si rischia di dover elencare tutti i giorni dell’anno come giorni del ricordo, togliendo al tempo dei calendari quella funzione di interruzione che Benjamin indicava rispetto alla continuità del tempo degli orologi e alla previsione dei naufragi in vista dei vertici ogni possibile rimando a una residua capacità divinatoria. Scrivo oggi, 25 aprile 2016, sapendo, dunque, che dopo la prima notizia del naufragio arrivata il 18 aprile, dopo la conferma da parte della Somalia, l’impassibile non-conferma da parte dell’Egitto, dopo i soliti dubbi espressi qua e là tra mezzi di informazione, guardie costiere, rappresentanti vari, il naufragio è stato confermato il 20 aprile da un’équipe dell’Unhcr recatasi a Kalamáta, in Grecia, dove i 41 superstiti salvati da un cargo battente bandiera filippina sono stati portati dalla guardia costiera greca, allertata da quella italiana. Solo qualche giorno per la conferma. Un incredibile progresso, non c’è che dire, rispetto ai cinque anni in cui il naufragio di Portopalo, costato la vita a 283 persone, è rimasto un “naufragio fantasma” prima che il giornalista Giovanni Maria Bellu, contattato da Salvatore Lupo, un pescatore del luogo, pubblicasse sul quotidiano “la Repubblica” le immagini del relitto scattate da un robot subacqueo al largo di Capo Passero. Anche i superstiti di quel naufragio si erano ritrovati in Grecia, portati lì dalla nave che aveva speronato e poi abbandonato quella su cui erano rimasti i loro compagni di viaggio, e avevano cercato di testimoniare, non creduti dalle autorità greche e italiane. In effetti, era un altro tempo quello del primo “più grande naufragio del Mediterraneo avvenuto dopo la Seconda guerra mondiale”, un tempo non ancora affinato, com’è, invece, quello attuale, in cui, naufragio dopo naufragio, sono ora le équipe di “esperti” dell’Unhcr ad andare in giro per i porti dell’Europa a verificare la veridicità dei sopravvissuti, con la stessa puntigliosità, probabilmente, con cui verificano la veridicità delle storie dei richiedenti asilo per selezionare a chi concedere lo status di rifugiato. “Cosa fai nella vita?”. “Vado in giro per l’Europa a verificare la credibilità dei sopravvissuti ai naufragi”. Un bel lavoro, non c’è dubbio, o un “buon” lavoro, a cui è probabile che aspirino molti studenti e studentesse dei corsi universitari sui “diritti umani” o “scienze della cooperazione”, volontari del bene in questo mondo

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sommerso dal male. Un “buon lavoro”, su cui è inutile ironizzare, perché ce n’è sempre più bisogno, vertice dopo vertice, naufragio dopo naufragio. Un vertice, un naufragio, un premio. Aggiungo, infatti, al piccolo montaggio di notizie del 18 aprile 2016, quella dei vincitori del premio Pulitzer, perché mi permette di provare a dire qualcosa rispetto all’orrore del presente. Il premio per la categoria “Breaking news photography” è stato vinto quest’anno dai fotografi del “New York Times” e della “Thomson Reuters” per le loro immagini sulle migrazioni: l’arrivo dei migranti sulle isole greche, i giubbotti salvagente sulla spiaggia, i viaggi verso il Nord Europa, le frontiere sbarrate lungo la “rotta dei Balcani”, l’arrivo in Germania. Inutile soffermarsi sulla nota sicuramente stonata di una delle motivazione addotte dalla giuria per premiare i fotoreporter del “New York Times”, per le loro fotografie che “catturano la determinazione dei rifugiati, i pericoli dei loro viaggi” e lo “sforzo dei paesi ospitanti per riceverli (the struggle of host countries to take them in)” (sic!). Inutile, anche, soffermarsi sulla decostruzione di una o più immagini, come è stato fatto per una delle foto di Laszlo Balogh, mostrando che la donna caduta sui binari con in braccio un neonato era stata spinta dal marito o da un compagno di viaggio e che il poliziotto che nella foto sembrava colpirla o averla già colpita la stava in realtà aiutando a divincolarsi dall’uomo. Inutile, perché accanto a una foto decostruita nel suo messaggio di “non-verità”, o di parziale “non verità”, ci sono le infinità di altre foto, non solo quelle vincitrici del Pulitzer, ma le migliaia e migliaia di foto, tutte a loro volta e inevitabilmente ritagliate ma da una realtà delirante, ritagli-specchio di mari-cimitero, di bambini tra i fili spinati, di donne e uomini sui binari, ad arrancare verso utopici altrove sempre più murati. “Per il nostro futuro, in realtà, dovremmo studiare tutti come muratori”, mi dice mio nipote mentre cerco di convincerlo a non abbandonare l’Università. Ridiamo, lui perché sa di avere ragione e in parte i muri li vuole, io perché so che ha ragione, per quanto abbia provato ad opporre ai suoi e ai nostri muri l’attuale povertà di parole non murate. 26 aprile 2016. Immagini. Migliaia e migliaia di foto, tutte inevitabili ritagli, punti di vista, come è proprio di ogni scatto fotografico, ma ritagli e punti di vista su una realtà di per sé delirante che, messi in sequenza tra loro, restituiscono quel delirio. Specchi, dunque, di ciò che sta accadendo, una sorta di paradossale “grado zero” dell’acca-

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dere, di quei bambini tra fili spinati, di quegli uomini e quelle donne arrancanti, ormai nostri compagni nel quotidiano, mentre prendiamo un treno, fumiamo una sigaretta, chiacchieriamo con un’amica, facciamo la spesa, beviamo un caffè sedute o seduti al tavolino di un bar. Non più immagini denuncia, che fanno vedere ciò che non si vede, che non si vuole che sia visto o che non si vuole vedere. E nemmeno immagini virtuali, giochi di assenza su un reale reso evanescente mentre viene catturato e poi mostrato. Ma proprio, seguendo un’indicazione di Barthes, co-presenze, nel senso di una presenza del referente che ogni fotografia porta sempre con sé e che, più che un “reale allo stato passato”, come suggeriva Barthes, diventa, in questo caso, un inquietante reale allo stato presente. Perché, nel susseguirsi di quell’infinità di immagini, scatto dopo scatto, giorno dopo giorno, bambino o bambina dopo bambino o bambina, uomo dopo uomo, donna dopo donna, l’essere stato lì del referente di una singola foto si confonde con l’essere stato lì del referente di un’altra singola foto, in una catena priva di interruzione in cui l’essere stato diventa un essere ora e il lì un qui. Bambini, che stanno ora e qui tra il filo spinato mentre beviamo un caffè con un’amica, qui, al tavolino di questo bar, donne e uomini tra i binari, qui, mentre aspetto l’arrivo del treno, compagni del nostro quotidiano con cui non scambiamo alcuna parola perché non sappiamo quali parole potremmo dire. Certo, anche le fotografie del premio Pulitzer portano con sé qualcosa che è stato solo una volta e lo riproducono infinitamente (Barthes), certo, proprio per questo, anche su quelle fotografie si potrebbe scrivere qualcosa ed iniziare un discorso critico, decostruirle, persino, come per l’appunto qualcuno con la sapienza dello scoop ha pensato di fare. E con ancor maggior certezza potremmo constatare l’oscenità di un mondo in cui dei fotografi vengono premiati e festeggiati per aver catturato con uno scatto e averci fatto vedere bambini che saltano nel mare o vengono trascinati da qualche mano adulta tra il fango dell’Europa. C’è in ogni foto, diceva Barthes, una sorta di follia, perché a differenza di ogni altra raffigurazione la fotografia attesta il passato della cosa, in una nuova forma di allucinazione percettiva, che fornisce con immediata certezza l’essere stato di ciò che è fotografato. Una follia, continuava, che l’arte può addomesticare, quando il noema della fotografia, l’è stato che ogni scatto porta con sé, viene dimenticato. Scorrendo sullo schermo del computer le immagini vincitrici del Pulitzer 2016 e i sorrisi dei fotografi premiati, si può, in effetti, essere assaliti da una sorta di scoramento per la facilità, non necessa-

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riamente artistica, con cui tutto può essere addomesticato. Restano, però, le infinità di altre foto, incalzanti, e l’infinità di altri bambini, lì, trascinati tra il fango dell’Europa da qualche mano adulta e qui, tra le strade asfaltate di una qualsiasi città europea, trascinati nella nostra quotidianità dallo scatto di una foto, in una confusione spaziale e temporale che costringe ognuno a co-abitare con loro. Una co-abitazione non scelta, come Judith Butler chiama lo stare sulla terra di qualsiasi soggetto, la nostra condizione esistenziale, ma che in questo caso si dà sotto forma di immagini che confondono i posti di qualsiasi stare, facendo oscillare la stabilità dei corpi, che dovremmo a loro volta murare per ritrovare i confini delle loro individualità. Un disordine dello spazio, che sarebbe allora interessante mettere accanto alle “parole del delirio”, scuotimento dopo scuotimento, una foto o una successione di foto e una parola del delirio, un’altra foto o un’altra successione di foto e un’altra parola del delirio, per distanziarci definitivamente con l’effetto straniante di un simile montaggio dall’assurdità di quelle parole. Non basterebbe, però. Perché quando il “delirio delle parole” e il delirio della realtà stanno insieme, l’una di fronte all’altra, fosse pure sotto forma di delirio della realtà restituito dalla “follia” di quelle sequenze fotografiche, la sensazione che non basti più una critica del delirio delle parole diventa pressante e la consapevolezza che sia la realtà stessa a silenziare rischia di trasformarsi in pura afasia e in assoluta incapacità di azione. “I subalterni possono parlare?” era la domanda con cui Gayatri Chakravorty Spivak faceva irrompere sulla scena dell’episteme occidentale i corpi forclusi dei colonizzati, o delle subalterne dei subalterni, provando a spezzare con i loro silenzi il vocio arrogante della ragione coloniale e post-coloniale. Interrogando la possibilità di agency di quei silenzi, indicava, comunque, la tradizione perduta delle loro azione, lo spazio bianco nell’archivio, persino quando una di loro aveva scelto il proprio corpo come bersaglio per poter parlare. Coloniale o post-coloniale la ragione occidentale non si lascia così facilmente spezzare, per quanto il lavoro critico ci possa rendere consapevoli dei suoi contorni e delle sue violenze. È uno degli insegnamenti che mi sembra si possano trarre dalle riflessioni nei testi di Spivak, spesso indecifrabili. Afasici, non tanto rispetto a una ragione o a un episteme, ma a una realtà silenziante, con l’impressione che l’impotenza sia nuovamente diventata la maggiore esperienza della nostra vita, come Arendt indicava per la sua generazione, ci ritroviamo ora “subalterni all’accadere”, per quanto resti l’inerzia di una capacità critica in grado di indicare i

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contorni e la violenza dell’aleturgia delirante di quel “governo dei sopravvissuti” che contribuisce a farlo diventare sempre più allucinante. Ci ritroviamo ora “subalterni all’accadere”. “Noi”. Non vorrebbe essere una facile scorciatoia retorica, un inavvertito percorso di semplificazione offerto da un espediente linguistico così usuale nella scrittura. Ero partita dal mio sentimento di silenzioso disorientamento, quando, persa nell’idea dell’inutilità della scrittura, ho continuato comunque a immaginare la possibilità di un libro sulla frantumazione della parola dinanzi al frantumarsi della realtà. Senza l’arroganza di dire “noi” al posto di “io”, continuerò a dire “io”, avvertendo chiunque avrà voglia di leggere queste pagine che quel “ci ritroviamo ora subalterni all’accadere” non ha alcuna pretesa universalizzante. Alcuni e alcune, infatti, non si sentono tali, altri e altre, come ho cercato di dire sinora, pensano persino di poter governare l’accadere, ma in molte e molti di coloro con cui ho parlato nel corso di questi anni, e soprattutto in coloro che avevo già incontrato come compagne e compagni di opposizione dinanzi ai poteri, ho incontrato un analogo senso di disorientamento e lo sconforto per l’incapacità di non sapere inventare insieme nuove forme di opposizione. Un ultimo avvertimento, dopo questa lunghissima introduzione. “Je suis”, “Ice cream”, “giardinetti”, “vertici”, “guerre”, “salvare Schengen”, “frontiere”, “Libia”, “droni”, “rivoluzioni”, “fax”, “Aylan”, “naufragi”, “rifugiati/migranti economici”, “Turchia”, “Is”, “giungle”, “Idomeni”, “trafficanti/passeurs”. Sono “le parole del delirio” scritte a penna sui fogli che stanno accanto al mio computer e individuate in modo disordinato nel corso del lungo tempo che ho lasciato trascorrere prima di iniziare la scrittura. Non le svilupperò tutte, perché di alcune ho già parlato in questa introduzione, troppo lunga per essere ancora tale, altre perché forse non ne sarò capace, può darsi, invece, che aggiungerò nuove parole, se mi sembreranno significative. “Parole del delirio” è anche il modo in cui ho deciso di intitolare l’intero libro. Non mi riferisco, infatti, soltanto alle parole di quell’aleturgia delirante con cui il governo dell’Europa immagina di governare una parte sempre più consistente della popolazione mondiale, trasformata in corpi sopravvissuti, morti o “dispersi”, dalle sue stesse decisioni politiche. Anche se, è mia convinzione, le politiche migratorie dell’Unione europea hanno intrapreso già da lungo tempo la strada declinante verso il deliro, configurandosi come una sorta di “avanguardia” precorritrice dei tempi e si collocano ora in un punto di non ritorno. Ma “parole del delirio” o scene frammentate del deli-

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rio è, più in generale, il modo del darsi della realtà attuale, una sorta di frenesia degli eventi che sta frantumando in una specie di vortice dell’accadere quel sentimento di post-realtà che secondo alcuni regnava in questa parte del mondo negli anni passati. Ancora una postilla. Aleturgie del delirio, realtà deliranti, sequenze di immagini che portano con sé l’immediata certezza del delirare del presente. Ma sarebbe un elenco incompleto, se ai deliri delle parole e degli eventi non aggiungessi anche il mio. Un sentimento delirante, che si dà sotto forma di sconcerto per l’incapacità nel trovare le forze, non isolate, ma collettive, di opposizione e alternativa al regime del delirio instauratosi nel qui ed ora della nostra attualità. Milano, 4-26 aprile 2016 Riferimenti bibliografici Per non appesantire questo libro che non è stato pensato come un lavoro accademico, i riferimenti bibliografici di tutte le sezioni saranno solo quelli essenziali. Questo vale soprattutto per gli articoli di giornali online, siti, blog, a cui rinvierò soltanto nel caso in cui li citi direttamente nel testo con un virgolettato. Per gli articoli citati dei quotidiani “la Repubblica” e “La Stampa” sulle prime deportazioni verso la Turchia: http://www.repubblica.it/esteri/2016/04/04/news/grecia_i_primi_migranti_espulsi_verso_la_turchia136865557/?ref=HREC1-1; http://www.lastampa.it/2016/04/04/esteri/la-grecia-riporta-i-migranti-in-turchia-sVyjSrKk1ymmnpYaiwg7TK/pagina.html. Per l’intervista a Elena Ferrante, http://www.repubblica.it/cultura/2016/04/04/ news/_elena_ferrante_sono_io_nicola_lagioia_intervista_la_scrittrice_misteriosa-136855191/. Per l’accordo Ue-Turchia, sigillato il 18 marzo 2016 con il testo di una “Dichiarazione congiunta”, cfr. http://www.consilium.europa.eu/it/press/pressreleases/2016/03/18-eu-turkey-statement/. Per la “Dichiarazione dei capi di Stato e di governo dell’Ue”, dell’8 marzo 2016, http://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2016/03/07-eu-turkeymeeting-statement/. Per la brochure dell’Ue sullo spazio Schengen e le parole di invito ad attraversare le frontiere da parte di Dimitris Avramopoulos, http://ec.europa.eu/dgs/home-affairs/e-library/docs/schengen_brochure/schengen_brochure_dr3111126_ it.pdf. Per la dichiarazione di Dimitris Avramopoulos durante la sua visita a Idomeni, http://www.askanews.it/esteri/il-commissario-ue-avramopoulos-aidomeni-qui-situazione-tragica_711761447.htm. Per la foto della bambina colpita dai gas lacrimogeni sparati dalla polizia Macedone a Idomeni il 10 aprile 2016: http://www.huffingtonpost.it/2016/04/10/ idomeni-lacrimogeni-migranti_n_9654082.html.

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La riflessione di Benjamin sulla modalità del darsi della storia si trova soprattutto nel testo delle “Tesi” sul concetto di storia, a cui stava lavorando prima del suo suicidio, avvenuto a Portbou, il 26 settembre 1940, in seguito alla momentanea chiusura della frontiera tra la Francia e la Spagna mentre cercava di fuggire negli Stati Uniti. Cfr. Walter Benjamin, Sul concetto di storia, tr. it. a cura di G. Bonola e M. Richetti, Einaudi, Torino 1997. I lavori di Klemperer a cui faccio riferimento sono: Victor Klemperer, LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo (1947), tr. it. di P. Buscaglione, Giuntina, Firenze 1998 e Victor Klemperer, Testimoniare fino all’ultimo. Diari 1933-1945, tr. it. di A. Ruchat e P. Quadrelli, Mondadori, Milano 2000. Il riferimento a Arendt è soprattutto al suo lavoro iniziato nel suo esilio negli Stati Uniti già nel 1945 e terminato nel 1949, uscito poi nel 1951 e, in una seconda edizione, nel 1966. Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo (1951-1966), tr. it. di A. Guadagnin, Edizioni di Comunita, Torino 1999. Le domande “che cosa succedeva? Perché succedeva? Come era potuto succedere?” sono a p. lvi, così come la frase: “con un senso di muta indignazione e orrore impotente”. La citazione di Benjamin sul montaggio come metodo del suo lavoro, tratta dal frammento Teoria della conoscenza e del progresso si trova nell’opera a cui ha lavorato per lunghi anni, dal 1927 sino alla sua morte, e rimasta incompiuta e frammentaria. Walter Benjamin, Teoria della conoscenza e del progresso, in Parigi, Capitale del XIX secolo. I “Passages” di Parigi, tr. it. a cura di G. Agamben, Einaudi, Torino 1986, p. 595. La frase “scoprire nell’analisi del piccolo momento particolare il cristallo dell’accadere totale” è a p. 597. La frase di Klemperer sulle parole come “minime dosi di arsenico”, si trova in Klemperer, LTI. La lingua del Terzo Reich, cit., p. 32. Per quanto riguarda le foto che descrivo in questa parte, tranne la foto di Aylan, le altre non sono riprodotte nel libro. Mentre scrivevo, infatti, non ero ancora a conoscenza del fatto che le foto pubblicate online non sono riproducibili a stampa, oltre che per i problemi di copyright, anche per la bassa risoluzione. Alla fine di questa parte, ho comunque voluto inserire un breve “fotoracconto” del settembre 2015, le foto che ho scelto per la sezione sono dunque dello stesso periodo temporale e dello stesso spazio tra le frontiere dei Balcani, ma non sono le stesse di quelle elencate. L’articolo completo di Santiago Alba Rico, Il bambino addormentato che non si sveglierà piangendo, da cui è tratta la citazione, si trova a questo link: http:// www.tunisiainred.org/tir/?p=5721. Per il testo di Butler sulle “immagini che ci assalgono” cfr. soprattutto Judith Butler, Frames of War. When is Life Grievable?, Verso, London-New York 2009. “Immagini che ci guardano” e “atti iconici” sono invece espressioni elaborate da Horst Bredekamp, Immagini che ci guardano. Teoria dell’atto iconico (2010), tr. it. di S. Buttazzi, Cortina, Milano 2015. La ricerca dell’Università Sheffield a cui faccio riferimento, sull’impatto della pubblicazione della foto di Aylan, si trova al seguente link: https://www.sheffield.ac.uk/news/nr/aylan-kurdi-social-media-report-1.533951. Il corso di Foucault del 1980 è Michel Foucault, Del governo dei viventi, tr. it. di D. Borca e P.A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 2014. Dal momento che cito varie

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volte, in questo caso ho indicato tra parentesi le pagine da cui traggo le citazioni con la sigla G. Il testo di Foucault sulla follia e il linguaggio è: Michel Foucault, Il linguaggio in follia (1963), tr. it. di L. Cremonesi, in La grande straniera, tr. it. Cronopio, Napoli 2015. Anche in questo caso indico le pagine delle citazioni tra parentesi, precedute dalla sigla GS. Per l’evocazione del libro di Sterne, cfr. Laurence Sterne, La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo (1760-1767), tr. it. di A. Meo, Mondadori, Milano 1974. Per il riferimento al report Death by Rescue. The lethal effects of the Eu’s policies of non assistance at sea, di Charles Heller e Lorenzo Pezzani, nell’ambito del gruppo di ricerca “Forensic Oceanography”, cfr. https://deathbyrescue.org/. Al tempo dei calendari in opposizione al tempo degli orologi è dedicata la “Tesi xv” di Benjamin, Sul concetto di storia, cit. Per la ricostruzione della storia del naufragio di Portopalo cfr. Giovanni Maria Bellu, I fantasmi di Portopalo, Mondadori, Milano 2004. La frase relativa al premio Pulitzer 2016 si trova in http://www.pulitzer.org/ prize-winners-by-year/2016. Per la galleria delle fotografie premiate: http:// www.pulitzer.org/winners/photography-staff-reuters. La fotografia di Laszlo Balogh si trova a questo link: http://www.pulitzer.org/ winners/photography-staff-reuters. Per quanto riguarda la “non-verità” di questa foto, su cui ha speculato un articolo de “Il Giornale” (http://www.ilgiornale.it/news/mondo/verit-sulla-foto-pulitzer-limmigrato-getta-moglie-sui-binari-1250219.html) in realtà è solo una “non-verità” relativa, perché guardando interamente il video che smentirebbe la verità della foto di Balogh e la didascalia che accompagna la foto emerge la verità di un atto di disperazione diverso dalla “non verità” parziale su cui aveva speculato l’articolo. Per un altro tipo di decostruzione: https://www.debunking.it/2016/04/disinformazione-la-verita-sullafoto-del-pulitzer-limmigrato-getta-la-moglie-sui-binari/. Per il riferimento a Barthes, cfr. Roland Barthes, La camera chiara (1980), tr. it. di R. Guidieri, Einaudi, Torino 2003: “Si direbbe che la fotografia porti sempre il suo referente con sé”, p. 7, mentre l’espressione “reale allo stato passato” si trova a p. 83. Per le considerazione sul legame tra fotografia e follia p. 115 e sgg. Le riflessioni di Butler sulla co-abitazione non scelta si trovano in Judith Butler, Strade che divergono. Ebraicità e critica del sionismo (2012), tr. it. di F. De Leonardis, Raffaello Cortina, Milano 2013, cfr. soprattutto il capitolo “Dilemmi del plurale. Coabitazione e sovranità in Arendt”. Il saggio di Spivak a cui faccio riferimento è: Gayatri Chakravorty Spivak, Can the Subaltern Speak? (1988), http://www.bahaistudies.net/neurelitism/library/ subaltern_speak.pdf, poi rielaborato in Gayatri Chakravorty Spivak, Critica della ragione postcoloniale (1999), tr. it. di A. D’Ottavio, Meltemi, Roma 2004.

Sezione fotografica: settembre 2015



2 settembre 2015, Bodrum, Turchia. Foto di Nilufer Demir (Gettyimages).

3 settembre 2015, stazione di Keleti, Budapest, Ungheria. Foto di Peter Kohalmi (Gettyimages).

4 settembre 2015, migranti in marcia verso l’Austria. Foto di Arpad Kurucz (Gettyimages).

7 settembre 2015, arrivo a Monaco, Germania. Foto di Philipp Guelland (Gettyimages).

10 settembre 2015, frontiera Grecia Macedonia. Foto di Robert Atanasovski (Gettyimages).

10 settembre 2015, arrivo a Lesbo, Grecia. Foto di Ayhan Mehmet (Gettyimages).

14 settembre 2015, Ungheria, costruzione della barriera alla frontiera con la Serbia. Foto di Geovien So (Gettyimages).

14 settembre 2015, tra Serbia e Ungheria. Foto di Geovien So (Gettyimages).

15 settembre 2015, dimostrazione a Istanbul, Turchia. Foto di Yasin Akgul (Gettyimages).

16 settembre 2015, frontiera dell’Ungheria. Foto di Nikola Gligic (Gettyimages).

17 settembre 2015, frontiera Serbia Ungheria. Foto di Armend Niman (Gettyimages).

17 settembre 2015, migranti in marcia a Vukovar, Croazia. Foto di Mustafa Ozturk (Gettyimages).

17 settembre 2015, Brezice, Slovenia. Foto di Ales Beno (Gettyimages).

19 settembre 2015, Istanbul, Turchia. Foto di Basin Foto Ajansi (Gettyimages).

19 settembre 2015, Edirne, Turchia. Foto di Hakan Mehmet Sahin (Gettyimages).

28 settembre 2015, Lesbo, Grecia. Foto di Aris Messinis (Gettyimages).



Parte seconda Parole

“JE SUIS” – “Je pense, donc je suis”/“Penso, dunque sono”. È la frase che Cartesio pronuncia nel Discorso sul Metodo e che, con una leggera variazione, ritorna all’inizio della seconda giornata delle Meditazioni, per ridare stabilità a un soggetto caduto “in un’acqua molto profonda” dopo il vorticoso esercizio del dubbio che aveva fatto vacillare ogni certezza. È la formulazione di un tempo in cui, per esserci, l’io aveva bisogno di un “donc”, di un “dunque”, che gli permetteva di constatare la propria esistenza a partire dal pensiero. Per alcuni/e, soprattutto per i/le filosofi/e, è il gesto della modernità. Per Heidegger è quello che inaugura l’epoca dell’immagine del mondo, quella in cui l’uomo pone l’ente come una sua rappresentazione, contrapponendolo a sé come oggetto, diventando così il principio di ogni misura. Per Foucault è il gesto di una ragione che delimita precisamente il proprio territorio, escludendo da sé ogni possibilità di sragione, e riassume un’epoca a partire dalla quale povertà e follia, insieme ad altre figure dei margini, scompaiono dietro le mura del Grande Internamento. Per Arendt, invece, è il gesto di un’alienazione, quella del soggetto moderno allontanato per sempre dalla stabilità della realtà che ora risorge solo dal suo pensiero. Arriverà poi un poeta veggente che assisterà allo sbocciare del proprio pensiero non più come declinazione della propria esistenza, ma come esistenza altra, da ascoltare, guardare, potendo dire “io” ma non “sono”, e nemmeno “io penso” ma “mi si pensa”, “on me pense”, perché “Je est un autre”, “Io è un altro”. Sono passati più di due secoli dal “dunque” cartesiano quando Rimbaud lo comunica nella lettere a Georges Izambard e a Paul Demeny, nel maggio del 1871, scritte a due giorni di distanza l’una dall’altra. Lo fa come una cosa che gli appare evidente, che non ha bisogno di molte spiegazioni, o che non

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sa bene come spiegare, abbandonando “il pezzo di legno che si ritrova violino” o “l’ottone” che “si desta tromba” al loro destino, e se stesso, poeta, all’ascolto di quell’estraneità. “Infatti: Io è un altro. Se l’ottone si desta tromba, non è certo per colpa sua. La cosa mi pare ovvia: io assisto allo sbocciare del mio pensiero: lo guardo, lo ascolto: do un colpo di archetto: la sinfonia si agita nella profondità, oppure salta con un balzo sulla scena”. “Io è un altro” appartiene sicuramente a un altro tempo rispetto a quello della modernità cartesiana, al tempo di un soggetto scosso o abitato da un’alterità, che può darsi ancora sotto forma di pensiero, ma come qualcosa che arriva da fuori, non più fondamento di ogni possibilità di certezza, compresa quella della propria esistenza, ma forza estranea, da cui lasciarsi trascinare per approdare, forse, come Rimbaud sperava per se stesso in quanto poeta, all’ignoto. Qualche anno dopo la frase di Rimbaud, un’altra forma di estraneità faceva la sua comparsa sul palcoscenico dei testi occidentali, anche in questo caso per declinare l’Io e per dire chi era, ma sotto forma d’uccello, e con una modalità che stupisce l’etnologo che l’ascolta. Sono i Bororo della foresta Amazzonica che diventano arara dopo la morte, secondo le descrizioni etnografiche di Karl von den Steinen e poi di Claude Lévi-Strauss, a proporre questa nuova forma di identificazione. O meglio, è il racconto etnografico di Karl von den Steinen, compreso quello del suo stupore, a proporre questa nuova formulazione dell’identità ascritta ai Bororo, ripresa in più occasioni negli anni successivi da diversi autori per rimarcare la sua estraneità rispetto all’identità all’uomo occidentale. Per alcuni decenni queste due professioni di identità a partire da un’alterità seguiranno destini diversi, la prima a tracciare i sentieri poetici verso le possibilità dell’ignoto, l’altra a mettere dinanzi agli “uomini civilizzati” degli “uomini primitivi”, “selvaggi”, forse nemmeno capaci di sapersi uomini dal momento che sembra che si percepiscano come quei magnifici arara con le cui piume si adornano il capo. “Io sono un arara” e “Io è un altro” ricompariranno poi, insieme, in un testo di Jacques Lacan, la prima identificazione come una delle possibili declinazioni dell’altra, equivalente alla formulazione “Io sono medico” o “Io sono cittadino della Repubblica francese”, in cui, più che l’estraneità o la diversità tra culture, cercare solo le infinite declinazioni di quel gioco di indissociabile identificazione e estraneità che sta alla base della costituzione del soggetto a partire dalla propria immagine. Nulla di sorprendente, quindi, nel dirsi arara, medico

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o cittadino della Repubblica francese, perché in ogni caso “je suis”, “io sono”, qualsiasi cosa io sia, deve essere riportato sempre a quella prima verità enunciata dal poeta, così “evidente per lo sguardo dello psicoanalista”: “Je est un autre”. Che io sia arara, medico o cittadino della Repubblica francese, sono pur sempre io a partire da un altro, da quell’imago necessaria e al fondo di ogni possibilità di soggettività. Qualche difficoltà logica ulteriore, invece, suggerisce Lacan, dopo aver riportato così rapidamente i Bororo in un orizzonte comune con i medici e i cittadini francesi, si potrebbe riscontrare nell’affermazione “Io sono un uomo”, ma anche in questo caso, come con le altre professioni di identità, possiamo superare la sua oscurità facendo comparire accanto all’uomo quell’altro che si era intrufolato nella scena dell’Io a partire dalla formulazione di un poeta. “Io sono un uomo” dovrà allora essere tradotto così: “Io sono simile a colui che, per il fatto di riconoscerlo come uomo, fondo a riconoscermi come tale”. 7 gennaio 2015. Sono trascorse solo poche ore da quando un commando di due uomini mascherati e armati di kalashnikov ha fatto irruzione nella sede del settimanale satirico “Charlie Hebdo” e sul web appare la formula di un nuova identificazione. “Je suis Charlie”. Nel giro di poche ore diventa l’unica identità a cui potersi richiamare. Una professione di identità collettiva, dunque, a partire dall’individualità di un “je”/”io” in cui in molti e molte sembrano volersi identificare. Non so dire se si tratti della formulazione di un nuovo tempo, perché ho il sospetto che tutte le datazioni così generalizzanti ritaglino epoche e periodi storici dal continuo brusio dell’accadere con un gesto “colonizzante” rispetto alla molteplicità di ciò che avviene nel tempo “ritagliato”. Si illumina una parte della sezione di tempo ritagliata, scegliendo un evento, una frase, un gesto, e si oscura tutto il resto che, per quanto oscurato e non visto, continua comunque ad accadere. “Je suis Charlie”, in fondo, sulla scorta di Lacan, potrebbe essere solo un’ulteriore declinazione della formula di Rimbaud, per continuare a dire che “Io è un altro”. Equivalente, dunque, a quelle professioni di identità che fanno appello agli uccelli o ai cittadini francesi per dare un nome, proprio o comune, “Charlie”, “arara”, “cittadino della Repubblica francese” o “uomo”, a quell’altro/a che sono, per necessità di semplificazione. Tradotta con la stessa modalità con cui Lacan proponeva di tradurre l’enunciazione “Io sono un uomo”, “Je suis Charlie” suonerebbe allora così: “Io sono simile a colui che, per il fatto di riconoscerlo come Charlie, fondo a riconoscermi come tale”. “Charlie” si confonderebbe allora con l’imago a partire da cui il sog-

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getto si costituisce. E con l’ideale dell’Io, inoltre, perché era nel tentativo di spiegare che cosa fosse e come agisse l’ideale dell’Io che Lacan indicava come equivalenti la frase forse mai pronunciata dai Bororo, “Io sono un arara”, e quelle sicuramente enunciate da qualche medico o qualche cittadino francese: “Io sono medico”, “Io sono cittadino della Repubblica francese”. Ma uccelli, medici, cittadini francesi e il singolare collettivo “Charlie”, a guardar bene, forse costituzioni della soggettività o dell’ideale dell’Io, sono comunque semplificazioni rispetto all’enigmatica formulazione di Rimbaud da cui scompariva il “sono” e rimaneva un “io” bloccato sul precipizio di un “altro” privo di qualsiasi determinazione. Provo allora a ripartire da qui, da questa scorciatoia: “Je suis Charlie”. Senza datarla come epoca, ma avendone sentito tutta la violenza semplificatrice sin dal primo momento in cui, con quella rapidità che solo il web permette, è diventata realtà per milioni di persone. Lo slogan imperante di un’identificazione di massa, un vero e proprio delirio collettivo che gettava le basi per una comunità iper-identitaria, in cui sentirsi “io” e “noi”, al contempo, “nous sommes tous Charlie”/“noi siamo tutti Charlie”, contrapposti a un “loro” espulso per la sua assoluta estraneità. “Io” e “noi”, a partire dalla propria somiglianza, individuale e collettiva, con la dubbia libertà di espressione e provocazione di un giornale satirico per il quale la satira, nel corso del tempo, da irrispettosa presa in giro dei poteri e dei potenti, era diventata la reiterata capacità di offendere una parte gerarchicamente inferiorizzata e razzializzata della popolazione francese e sicuramente non egemonica dell’umanità. Qua e là, mentre persino un profeta morto da secoli veniva fatto risorgere imponendogli di pronunciare l’inevitabile identificazione, dapprima un po’ isolate e timide, a qualche giorno di distanza più insistenti, le prese di posizione di coloro che non si sentivano “Charlie”, che insinuano qualche dubbio sul gioco a un’identificazione che come tutte le identificazioni omologanti giocava anche all’espulsione e alla silenziazione. Un gioco che, scriveva un anonimo sul web, permetteva la rinascita di un’unità nazionale capace di fondarsi unicamente sulla caricatura satirica e offensiva degli “altri”. Ma non era unicamente l’unità nazionale ciò che si stava formando in quel momento. Certo, la sostituzione di “Je suis Charlie” a “Io sono cittadino della Repubblica francese” è stata promossa in vari modi, sociali e istituzionali. Educativi e polizieschi, persino, perché rispetto ai pochi e alle poche ragazzi/e che nelle scuole della nazione avevano avuto il coraggio di dimostrare un lieve momento di dubbio,

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non rispettando il minuto di silenzio in cui la comunità si raccoglieva per dirsi “FranceCharlie”, sono arrivate le sanzioni e le ideazioni di programmi alla rieducazione, in buon stile coloniale e del tutto “rispettoso” nei confronti di quella “libertà di espressione” che il nome “Charlie” simbolizzava. L’unità, o la “Charliecomunità” travalicava, comunque, i limiti della nazione, e, forse, due momenti dell’immensa manifestazione dell’11 gennaio permettono di avere un flash su quanto stava avvenendo. Due immagini: l’una raffigura i potenti del mondo ad apertura della manifestazione, l’altra uno degli innumerevoli cartelli “Je suis” che insieme a un fiume di persone hanno invaso le strade e le piazze di Parigi. Sulla prima foto, ovviamente, non sono mancati i commenti critici. Quelli che, per esempio, allargando il campo di visuale rispetto all’immagine più largamente diffusa, mostravano lo spazio vuoto tra quegli uomini e donne in nero e l’immensità della folla, a sottolineare la solitudine dei primi e la loro distanza rispetto alla collettività, eterogenea e omogenea al contempo, dei “Je suis Charlie”; o quelli che, numerosi e quasi immediati, a manifestazione ancora in corso, accanto ad alcuni dei nomi di quell’immagine presentavano l’elenco delle persone incarcerate nei paesi che quei nomi rappresentavano per aver espresso la loro opinione di dissenso rispetto alle loro politiche; infine, quelli che raccontavano i retroscena della presenza di Netanyahu al corteo, le ritrosie di Hollande e l’auto-imposizione della propria partecipazione da parte del premier israeliano. Restava, però, quell’immagine ad apertura del corteo. I potenti del mondo schierati l’uno accanto all’altro dinanzi a una folla di “je suis” che per quanto eterogenei tra loro e per quanto forse intimamente dissidenti rispetto ad alcuni/e o a tutti/e quegli uomini e quelle donne in prima fila confluivano con loro a formare la “Charliecomunità” in opposizione al terrorismo. Una “grande coalizione” globale che si ritrovava a dire “nous”/“noi” a partire da un “je”/“io” declinato con il nome singolare collettivo di “Charlie” e con le sue matite come armi, inevitabilmente affiancate alle armi di quell’altra “grande coalizione globale” che qualche mese prima aveva visto la nascita sopra i cieli del Califfato. “Je pense, donc je suis Charlie”/“Penso, dunque sono Charlie” è la seconda immagine. Quella con cui la contemporaneità comunitaria riproduceva il gesto della modernità cartesiana, limitando il pensiero e l’essere all’essere Charlie. Riproducendo così anche il gesto di un’espulsione: non più poveri, vagabondi, folli, sifilitici e prostitute confinati tra le mura del Grande Internamento, ma giovani o meno giovani

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con il kalashnikov in mano, foreign fighters, simpatizzanti dell’Is o di Al-Qaeda, combattenti del Califfato o di Al-Qaeda, giovani o meno giovani dissidenti rispetto alla libertà di espressione personificata da “Charlie”, le migliaia di persone che nelle varie piazze del mondo in diversi momenti avevano manifestato contro le immagini satiriche raffiguranti il profeta di Allah e tutti/e coloro che, pur non avendo manifestato, si collocavano comunque in opposizione rispetto a quella particolare declinazione della “libertà di espressione”, accomunati tutti/e dall’essere al di fuori della possibilità di pensiero. Un’espulsione su grande scala che con un tratto di penna, o di matita, ridisegnava lo spazio della razionalità. Una razionalità non più unicamente geopoliticamente situata, come quella della modernità, perché non partiva più solo da un centro collocato in uno spazio reale ma da un centro intrecciato con le infinite periferie di quello spazio virtuale imperante e ineludibile nell’attualità. “Je”, “Nous”. “Io”, “Noi”. Certo, si potrebbero indagare tutti i diversi gradini di questo slittamento dall’io al noi, vederne le contraddizioni, le difficoltà, rimarcare che per quanto collettivo si tratta di uno strano “noi”, composto da differenti individualità che, nel dirsi insieme ad altri, non rinunciano al proprio personale e particolare “io-Charlie”. Ma dinanzi a questa opposizione binaria capace di cancellare ogni libertà di espressione e di azione che non si schieri con la razionalità espressa dal “Je suis Charlie” e dalla parte delle grandi coalizioni armate di armi reali o/e simboliche, o che non si lasci risucchiare nel loro orizzonte, difficile o impossibile trovare un luogo di mezzo. Impossibile, per esempio, anche per i saperi critici più affinati, persino per quei pochi saperi che nel corso di questi due anni hanno cercato di contrastare le grandi semplificazioni mainstream sul “terrorismo”, sull’Is, sui foreign fighters, parlare da una posizione non già preliminarmente interna alla “razionalità globale” così ridisegnata. “Je”/”Nous”. “Io”/”Noi”. Forse è il segno di questo tempo, il fatto che il “noi” si componga a posteriori, attraverso il confluire dei rivoli degli “io”, dei “Je suis Charlie” cliccati all’infinito a partire dalla propria solitaria posizione dinanzi a uno schermo, sia quello del proprio computer, smartphone, o tablet. Un “noi” di scarto, raggiunto attraverso uno slittamento, non rivendicato e probabilmente non assunto sino in fondo da nessuno degli infiniti “Je suis Charlie”. Forse, però, è proprio per questo, perché né in quella piazza parigina, né sul web, è stata espressa la convinzione di un “noi”, se non a partire dai milioni di differenze individuali che l’hanno composto a poste-

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riori; forse, inoltre, è proprio perché anche le opposizioni al “Je suis Charlie” si sono espresse a partire dalla stessa solitudine, un eterogeneo e minoritario movimento di “Je ne suis pas Charlie”/“Io non sono Charlie” del tutto speculare al movimento maggioritario; forse è per la solitudine e l’ineluttabile alienazione contenuta già nella formulazione “Je est un autre”, che è diventato via via sempre più difficile, a partire dall’11 gennaio 2015 e dalla foto dei “potenti del mondo” accanto ai milioni di manifestanti, non lasciarsi catturare, volenti o nolenti, dalle armi, discorsive o materiali, dei loro poteri. Qualche mese dopo, celebrando nell’austero piazzale dell’Hôtel des Invalides i morti dell’attentato del 13 novembre 2015 e risvegliando l’Assemblea nazionale, la Francia intera e parte del mondo da un sonno dogmatico in cui quasi a tutti/e era sfuggito che non da quel momento, ma da anni ormai “nous sommes en guerre”/”siamo in guerra”, non sarà difficile a François Hollande sussumere tanto i morti quanto i vivi – per il loro stile di vita, per un aperitivo o una cena consumati sulla terrazza di un caffè, per la partecipazione a un concerto – come “combattenti amici”, fedeli alleati dei diversi fronti o, meglio, dei diversi “spazi indefiniti” di guerra. Riferimenti bibliografici Per il riferimento a Cartesio, Descartes, Discours sur la méthode e Méditations, in Oeuvres et lettres, Gallimard, Paris 1953, la citazione si trova a p. 274. Per l’interpretazione del “cogito” da parte di Heidegger, cfr. Martin Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo (1938), tr. it. di P. Chiodi, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1979. Per l’interpretazione da parte di Foucault, cfr. Michel Foucault, Storia della follia nell’età classica (1961), tr. it. di F. Ferrucci, Rizzoli, Milano 1976, il capitolo “Il Grande Internamento”. Per l’interpretazione di Arendt, cfr. Hannah Arendt, Vita Activa. La condizione umana (1959), tr. it. di S. Finzi, Bompiani, Milano 1988, soprattutto il capitolo “Il dubbio cartesiano”. Le due lettere di Rimbaud si trovano in Arthur Rimbaud, Ouevres/Opere, tr. it. di I. Margoni, Feltrinelli, Milano 1983, p. 141 e 333. La descrizione dei Bororo da parte di Karl von den Steinen si trova in Unter den Naturvölkern Zentral-Brasiliens, Berlino 1894, di cui rimando all’edizione digitale: http://www.deutschestextarchiv.de/book/view/steinen_naturvoelker _1894/?hl=Boror%C3%B3&p=17. Per Lévi-Strauss cfr. Claude Lévi-Strauss, Bororo, in Tristi tropici (1955), tr. it. di B. Garufi, Il Saggiatore, Milano 2008. Per il commento di questa forma di identificazione in Lacan, cfr. Jacques Lacan, L’aggressività in psicoanalisi, in Scritti, I, tr. it. a cura di G. Conti, Einaudi, Torino 1974, p. 112.

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VERTICI – È il 20 aprile 2015 quando Federica Mogherini, Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, rilascia la seguente dichiarazione: “Oggi abbiamo dato una risposta forte dell’Ue ai tragici eventi di questi ultimi giorni. Dobbiamo agire rapidamente e insieme”. I tragici eventi di questi ultimi giorni sono due enormi naufragi avvenuti nel giro di una settimana l’uno dall’altro: 400, probabilmente, i “dispersi” del primo naufragio, avvenuto il 12 aprile 2015, e tra i 700 e i 900 quelli del naufragio del 18 aprile 2015. Per quanto concisa, la frase contiene alcune parole chiave della “scrittura decisionale” con cui l’Unione europea reagirà nei giorni e nei mesi successivi. La risposta forte, l’azione comune, la sua rapidità, i tragici eventi. Nel testo della “Dichiarazione” che l’Alto rappresentante dell’Unione rende pubblico insieme al Commissario europeo per le Migrazioni, gli affari interni e la cittadinanza, Dimitris Avramopoulos, dopo la riunione dello stesso giorno dei ministri degli Esteri e dell’Interno, convocata d’urgenza dopo “i tragici eventi”, la risposta forte data dai ministri, seguendo la nuova struttura temporale brevettata dall’Ue che prevede una notevole dilazione della “rapidità”, una “rapidità non rapida”, consiste in una richiesta alla Commissione: quella di presentare entro maggio 2015 un piano d’azione che possa diventare un’azione comune. I punti dell’azione comune, comunque, iniziano a delinearsi già da questo primo incontro: rafforzare le missioni in mare dell’Agenzia per il controllo delle frontiere esterne, Frontex, già presente nel Mediterraneo orientale con la missione “Poseidon” e nel Mediterraneo centrale con “Triton”, dal novembre del 2014 succedaneo dell’operazione italiana “Mare nostrum”; rafforzare la capacità dei rimpatri, controllando che i paesi di primo arrivo compiano il loro lavoro di rilevamento delle impronte digitali di tutti i migranti arrivati, implicito riferimento alle “sviste” nei rilevamenti per cui l’Italia e la Grecia erano state rimproverate a più riprese dagli altri stati membri nel corso del 2014; intensificare i rapporti con i paesi di partenza, sulla scorta dei processi già avviati come quello di Khartum, e accerchiare via terra la Libia, mandando agenti migratori nei paesi africani come un tempo si mandavano gli agenti coloniali, questa volta per cercare di sbarrare il percorso dei migranti. Non ancora ben definite tra il “gregge delle parole passate e future” (Foucault, GS) dell’Unione, come sarà invece qualche giorno dopo nel Consiglio europeo straordinario, si delineano anche due novità. Nulla di nuovo, in realtà, nell’indicare che i responsabili, gli “unici responsabili” dei “tragici eventi” e del-

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le morti nel Mediterraneo siano i trafficanti, ma un’assoluta novità è l’idea di avviare un’operazione congiunta contro di essi, e se non proprio contro i trafficanti, “contro le imbarcazioni”. Altra novità, l’idea che sia necessario trovare un modo comune ai 28 paesi membri per alleviare gli stati di primo arrivo dai numeri sempre più consistenti di arrivi che sono il trend già dall’anno precedente. Tre giorni dopo, il 23 aprile, è la volta di un’altra riunione straordinaria, quella del Consiglio europeo, che trova le parole giuste per le due novità. “Identificare, catturare e distruggere” e “ricollocazione” (relocation). Prima di questo notevole sforzo di ideazione, attuato attraverso i suggerimenti della Commissione, i ministri riuniti fanno, comunque, una solenne dichiarazione: “La situazione nel Mediterraneo è drammatica. L’Unione europea si adopererà con ogni mezzo a sua disposizione per evitare ulteriori perdite di vite umane in mare e per affrontare le cause profonde dell’emergenza umana a cui stiamo assistendo, in cooperazione con i paesi di origine e di transito. La nostra priorità immediata è evitare altre morti in mare”. I morti per cui si sono riuniti in via straordinaria sono davvero tanti, 1200, circa, o 1300, in una sola settimana, troppi per non dire qualcosa in proposito, magari facendo un copia incolla di un altro testo, quello delle conclusioni di un’altra riunione, nel lontano 2013, dinanzi ai “tragici eventi” di Lampedusa: “Il Consiglio europeo esprime profonda tristezza per la recente e tragica morte di centinaia di persone nel Mediterraneo che ha sconvolto tutti gli europei. Sulla base dell’imperativo della prevenzione e della protezione e ispirandosi al principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità, occorre intraprendere un’azione decisa per prevenire la perdita di vite in mare e per evitare che tali tragedie umane si verifichino nuovamente”. Del resto, come i “tragici eventi” dopo i “tragici eventi di Lampedusa” dimostrano, “evitare ulteriori perdite di vite umane” è un compito davvero difficile, quasi impossibile, nonostante i vertici, il dolore, gli sconvolgimenti, le azioni decise e tutti i mezzi messi a disposizione. Anzi, del tutto impraticabile, nel caso in cui non ci si chieda come mai quelle persone si trovassero in mezzo al mare e fossero così disposte a lasciare che i “responsabili” delle loro morti mettessero “a repentaglio” le loro vite “per il proprio tornaconto economico”, per usare le espressioni della “Risoluzione” del Parlamento europeo del 29 aprile 2015, con la quale i “trafficanti di esseri umani” diventano “una seria minaccia per l’Unione europea e gli Stati membri”. Porre quella domanda, però, significherebbe ritornare su un piano di realtà, ricon-

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siderare le proprie linee politiche ormai decennali e impiegare altri mezzi a propria disposizione rispetto a quelli già impiegati nel tempo intercorso tra un “tragico evento” e quello successivo. Non una rivoluzione, un semplice passo indietro, troppo difficile, però, rispetto alla strada inclinata del delirio, così consueta e per questo tutta in discesa, sebbene verso un punto di non ritorno. Meglio, allora, se non si è in grado di porsi quella semplice domanda, continuare ad allontanarsi dalla realtà con la solita fede nel “potere assoluto, originario e creatore del linguaggio” (Foucault, GS), inventando nuove parole. È la Commissione, come al solito, a dare i suggerimenti. “Identificare, catturare e distruggere” e “ricollocazione” diventeranno allora i nuovi mantra per i mesi successivi. Insieme alla magica parola “Hotspot”, dove gli agenti di ben tre agenzie (Easo, Frontex, Europol), dovranno identificare e registrare i migranti in arrivo per “smistare” o “selezionare” i richiedenti asilo e potenziali rifugiati distinguendoli dagli altri migranti. “Identificare, catturare e distruggere”, chi o che cosa? Perché anche in questo caso sorge un problema. Capire chi identificare, catturare e distruggere sarebbe un compito semplice, quasi scontato, per quei “grandi pastori sovrani” (Foucault, GS) capaci di trasformare gli esseri umani in fuga, o semplicemente in movimento da differenti situazioni di invivibilità, in superstiti, morti o “dispersi” nel Mediterraneo, e convinti che gli unici veri responsabili dei “tragici eventi” siano i trafficanti. Il problema è che, per quanto forniti di tutti i più avanzati mezzi tecnologici volti all’identificazione, per identificare, sarebbe necessario prima catturare, e i trafficanti, è noto, sono un po’ restii a lasciare che lo si faccia con tanta semplicità. Quando nel corso dell’ultimo decennio hanno organizzato viaggi di imbarcazioni che prevedevano una guida esperta, l’hanno demandata a qualche pescatore della zona o all’ultimo anello della catena, spesso, invece, si sono serviti degli stessi passeggeri, offrendo loro un viaggio scontato o gratuito, o mettendo loro in mano un GPS, talvolta indicando semplicemente la rotta e lasciandoli al loro destino. Una cattura delle imbarcazioni, allora, si profilava come l’unica possibilità che corrispondesse degnamente o approssimativamente alla nuova invenzione. Nel passaggio dal “chi” al “che cosa” “identificare, catturare, distruggere”, si è così profilata la bizzarra idea di una flotta militare europea dispiegata nel Mediterraneo centro-meridionale per condurre una “guerra alla imbarcazioni”. “Eunavfor Med”, attivata dal Consiglio europeo del 18 maggio 2015, è stata inaugurata il 22 giugno dello stesso anno, per la

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sua prima fase: “le informazioni necessarie a comprendere appieno il modus operandi dei trafficanti e contrabbandieri di esseri umani per essere pronti, una volta iniziata la seconda fase, a contrastare la loro attività in mare”, come si può leggere sul sito della Marina militare italiana, designata per il comando dell’operazione. Già, perché per l’intera missione si individuavano tre fasi operative e per l’avallo di quelle successive alla prima era necessaria una risoluzione dell’Onu. In fondo, si stava parlando pur sempre di una guerra, per quanto alle imbarcazioni, e il “Mediterraneo centro-meridionale”, come il tratto di mare in cui dispiegare la flotta viene chiamato nel testo della “Decisione del Consiglio”, tradotto in termini geograficamente e soprattutto politicamente più precisi significa Libia. Così, nella ricerca affannosa della risoluzione Onu, “identificare, catturare, distruggere” si è trasformato in un più lieve “individuare, fermare e mettere fuori uso imbarcazioni e mezzi usati o sospettati di essere usati dai passatori o dai trafficanti”, e quello che per alcuni mesi i militari dei paesi membri hanno fatto in alto mare, durante la prima fase dell’operazione, è stato appunto cercare di capire come operassero i trafficanti. In alto mare, dove i trafficanti non operano, a cercar di capire, di “comprendere appieno” e a prepararsi per la seconda fase, dispiegando intanto le navi militari a poche miglia dalla Libia, a “soccorrere” migranti, un “soccorso in stato di guerra”, e sperando nell’arrivo della risoluzione. Sperando e negoziando. Negoziando. Con l’Onu, certo, ma non solo. O meglio, sempre con l’Onu, ma per una doppia operazione. Con l’Onu, per il passaggio alla seconda fase, che prevede “fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti, in alto mare o nelle acque territoriali e interne di tale Stato [lo stato costiero interessato], di imbarcazioni sospettate di essere usate per il traffico e la tratta di esseri umani”, e per l’eventuale passaggio alla terza, con la quale si prevede che la “guerra alle imbarcazioni” sia una guerra interna al territorio dello “stato costiero interessato”, tradotto Libia. E con l’Onu, ma, nello stesso tempo, con qualche uomo libico disposto ad avventurarsi nel non facile tentativo di instaurare un governo di unità nazionale in Libia, di modo che il passaggio alla terza fase potesse attuarsi attraverso una richiesta dello stesso governo libico, con una risoluzione Onu che permettesse appieno la guerra. Alle imbarcazioni, naturalmente. La risoluzione del Consiglio di sicurezza arriva con qualche mese di ritardo, il 9 ottobre del 2015, ma solo per il primo punto della seconda fase, quella in cui tutto si ferma in alto mare: “procedere a fermi, ispezioni, sequestri e dirottamenti in

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alto mare di imbarcazioni sospettate di essere usate per il traffico e la tratta di esseri umani”. Guerra alle imbarcazioni, guerra ai trafficanti degli esseri umani, guerra in Libia. “Identificare, catturare, distruggere”, “individuare, fermare e mettere fuori uso”. Oscillazioni e slittamenti, di parole e di azioni, di forme di guerra e altre forme di guerra. Tutto era partito, comunque, andrebbe ricordato, dall’esigenza di “evitare ulteriori perdite di vite umane”. A inizio ottobre 2015, felicitandosi per l’imminente avvio della nuova fase dell’operazione e per il suo nuovo nome, da “Eunavfor Med” a “Operazione Sophia”, dal nome di una neonata nata a bordo di una delle navi militari, Federica Mogherini rilascia la seguente dichiarazione: chiamarla Sophia “darebbe un segnale di speranza”. “Ricollocazione”, invece, il secondo mantra tra le nuove azioni escogitate nei vertici straordinari dopo i naufragi di aprile, è una parola che non ha subito variazioni. Ma prima di passare a questo, una breve parentesi. Sollecitata “con interesse” dal Consiglio, secondo la sua “Dichiarazione” del 23 aprile, invitata dalla “Risoluzione” del Parlamento del 29 aprile a “sviluppare e presentare un’agenda europea ambiziosa in materia”, la Commissione risponde in modo dettagliato il 13 maggio 2015 con un’Agenda europea sulla migrazione. Il testo dell’Agenda ha un’introduzione, con una frase iniziale che rimanda alla notte dei tempi: “Nella Storia l’uomo migra da sempre (Throughout history, people have migrated from one place to another)”. Non si tratta di una grande scoperta, e nemmeno di un’affermazione originale dal punto di vista storico per arrivare alla quale si debbano immaginare lunghi e pazienti lavori di ricerca negli archivi della storia dell’umanità. Più semplicemente, è la constatazione inconfutabile di una delle caratteristiche degli esseri umani, che forse saranno “animali politici”, o “animali razionali”, come li voleva Aristotele, ma che sicuramente, se non impediti da un problema corporeo o da un ostacolo esterno, usano il loro corpo per spostarsi nello spazio e a volte si spostano di vari chilometri. Dunque, gli esseri umani si spostano dalla notte dei tempi. Ma stando alla frase successiva a quella così pregnante con cui veniamo introdotti ai punti dell’Agenda europea sulla migrazione, sembrerebbe che da sempre gli esseri umani, la gente, alcune persone o popolazioni (people) si spostino, pardon migrino, facendolo nel modo in cui da ormai più di un decennio lo si vede fare da alcuni uomini, donne, bambini/e che per l’appunto fanno uso di una delle prerogative degli esseri umani. Spostarsi, muoversi, andare da un po-

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sto nello spazio a un altro posto nello spazio – come effettivamente dalla notte dei tempi gli esseri umani fanno nel caso in cui per ragioni naturali, sociali, politiche, economiche, culturali non siano soddisfatti dello spazio in cui si trovano inizialmente – ma approdando sulle rive dell’Europa, necessariamente le rive, dal momento che degli ostacoli politici posti sul loro cammino dall’Unione europea impedisce loro un’altra modalità di movimento. Ecco, dunque, la frase completa, che con un piccolo inganno introduce quell’ambiziosa Agenda che delinea le linee politiche future per “evitare la perdita di altre vite umane”: “Nella Storia l’uomo migra da sempre. L’approdo sulle rive dell’Europa (European shores) è un fine che le persone perseguono per motivi diversi e per vie diverse: cercando percorsi legali ma anche rischiando la vita, vogliono fuggire dall’oppressione politica, dalla guerra e dalla povertà oppure ricongiungersi con i familiari, fare impresa, acquisire conoscenze, studiare”. Tutto, dunque, è riportato alla notte dei tempi, il migrare degli esseri umani, l’approdo sulle rive dell’Europa, il rischiare la vita. Persino la ricerca di “percorsi legali”, o il “fare impresa”, termini sicuramente d’uso tra gli antenati della specie umana, homines erecti, sapiens o chi per loro. Un piccolo o grande inganno, o meglio ancora, l’uso di una costruzione retorica abbastanza complessa, perché mette insieme due momenti temporali ben diversi tra loro dimenticando la distanza che li separa, risucchiando il secondo tempo nel primo, e quest’ultimo in un “da sempre”, di per sé privo di specificazione temporale. Una costruzione retorica usata “da sempre” quando si vuole descrivere una situazione temporalmente situata come una situazione inevitabile, necessaria, non storicamente determinata, priva di alternative altrettanto storicamente determinate. Una costruzione retorica, non so se usata “da sempre”, perché mi mancano le conoscenze storiche di tutti i testi orali e scritti prodotti dagli esseri umani nel corso della loro lunga storia per poter usare quest’espressione, sicuramente usata, per esempio, nel caso della costruzione degli stati nazionali o in alcuni testi della tradizione antisemita volti alla risoluzione della “questione ebraica”, nella modernità e contemporaneità occidentali. E poiché è “da sempre” che gli esseri umani migrano rischiando la loro vita per approdare sulle rive dell’Europa, difficile immaginare che le cose possano cambiare, soprattutto difficile immaginare che tutti possano arrivare. Si tratterà allora di provare a salvare le vite, sapendo che qualche vita o molte vite, inevitabilmente, non saranno salvate. Del

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resto, “da sempre” gli uomini e pure le donne, persino i/le bambini/e, sono mortali. Inutile frapporsi al loro destino di esseri umani permettendo loro un respiro di vita ulteriore, di vedere “ancora una volta se il fiume è ancora fiume, se il porto è ancora porto” (Jacques Brel), immaginando di concedere loro di arrivare in Europa in altri modi e non approdando sulle sue rive o “disperdendosi” prima di arrivare. Ora: “Ricollocazione”. “Ricollocazione” (relocation) appare per la prima volta nel testo della “Dichiarazione” del Consiglio europeo straordinario del 23 aprile 2015, come uno dei punti su cui i ministri si impegnano solennemente per “affrontare le cause profonde dell’emergenza umana a cui stiamo assistendo”. È il punto o) che compare sotto il paragrafo dal titolo “Rafforzare la solidarietà e le responsabilità interne”: “Accrescere gli aiuti d’urgenza agli Stati membri in prima linea e considerare opzioni per l’organizzazione di una ricollocazione di emergenza fra tutti gli Stati membri su base volontaria”. Dopo la riunione straordinaria, il Consiglio dà mandato alla Commissione per individuare le modalità con cui la ricollocazione dovrà avvenire, altrettanto fa il Parlamento nell’Assemblea plenaria del 29 aprile, invitando però la Commissione a fissare una “quota vincolante”. Qui, infatti, non si tratta più di scongiurare ulteriori perdite di vite umane, di “salvare” vite inventandosi nuove forme di guerra impedendo alle vite che si vogliono salvare l’approdo sulle rive dell’Europa, si tratta invece di capire che cosa si vuole fare delle vite che si sono salvate da sole e che in Europa sono già arrivate. “Ricollocazione”, infatti, tra il vortice delle “parole del delirio” concepite dai “pastori europei” (Foucault, GS) indica l’operazione di spostamento dei rifugiati dai paesi di primo arrivo Ue, la Grecia e l’Italia, ribattezzati “paesi in prima linea”, in altri stati membri. Si tratta, dunque, di un “governo dei sopravvissuti” e, possibilmente, di un governo europeo dei sopravvissuti, per questo ci sarebbe bisogno di “solidarietà e responsabilità interne” che gli stati membri, però, stentano a dimostrare, di qui l’oscillazione tra il “volontario” e il “vincolante”. Vincerà il volontario e soprattutto vincerà la non-ricollocazione. Ma prima di arrivare a constatarlo, seguiamo l’ordine della discussione e delle riunioni straordinarie convocate d’urgenza per arrivare a questa grande strategia di non-azione. Quando la Commissione presenta la sua Agenda la parola “ricollocazione” appare sempre affiancata dall’esigenza della rapidità, per quanto, nel bisogno di equilibrare le azioni, rapidi devono essere anche i tempi di identificazione dei migranti irregolari, quei “migranti

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economici” a cui, come ai trafficanti, spettano le azioni di contrasto dell’Europa, perché non degni d’asilo e tanto meno di ricollocazione. Rapidi, allora, devono essere anche i loro rimpatri. È il 9 maggio 2015, e anticipando e commentando il testo della “Comunicazione” della Commissione al Consiglio e al Parlamento, Alberto D’Argenio, giornalista della “Repubblica”, scorge in atto una “rivoluzione nel segno della solidarietà”. Temporalità rapide e serrate e rivoluzioni, infatti, nel corso della storia, sono spesso andate insieme e, per lo meno nelle parole, se non proprio nei fatti, gli uomini e le donne di governo dell’Europa e i loro acritici portavoce mediatici non si smentiscono. Meno incline alle aspirazioni rivoluzionarie, gravato dalla sua responsabilità nelle politiche interne dei singoli stati membri, ci penserà comunque il Consiglio nelle sue riunioni “abituali-straordinarie” sulle migrazioni a trovare il tempo lento di quella rapidità. È nel testo delle “Conclusioni” del vertice del 25 e 26 giugno 2015 che, con enorme maestria, inventa la pratica di una “decisione ossimorica”, poiché adotta con “rapidità” una decisione sulla distribuzione delle ricollocazioni posticipando a fine luglio il raggiungimento di un accordo per consenso tra i rappresentanti di tutti gli stati membri. Una distribuzione, posticipata, d’accordo, ma di chi e di quanti? Sul chi distribuire non c’è dubbio, si tratta di quei viaggiatori “in buona fede” che già il testo della Commissione contrapponeva ai “migranti irregolari”, viaggiatori approdati sulle rive d’Europa trascinati da quella che implicitamente diventa la “cattiva fede” del bisogno economico. Si ricollocheranno, dunque, quei viaggiatori le cui richieste d’asilo saranno valutate come fondate e potranno così accedere allo status di rifugiato, rapidamente, ovviamente, nei “paesi di prima linea” già prima del ricollocamento. E per rispettare almeno questa rapidità, che prevede una notevole semplificazione nei compiti di selezione degli agenti Easo, Frontex e Europol, implementati e fatti confluire tutti insieme negli “Hotspot”, si stabilisce che tra i viaggiatori in “buona fede”, richiedenti asilo dalla domanda fondata e accettati come rifugiati, potranno essere ricollocati solo coloro che appartengono alle nazionalità che nel 2014 hanno raggiunto il 75 per cento delle concessioni dello status di rifugiato. Il tutto per evitare che uno stato membro si ritrovi tra i suoi ricollocati un “viaggiatore in cattiva fede” da dover “rapidamente” rimpatriare. Troppo complicato? No, di certo. O meglio, complicato, ma solo per chi non si “occupa di migrazioni” e si forma un’idea su chi siano i migranti, i rifugiati, i richiedenti asilo, in base alle immagini o alle

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“parole del delirio” dei governanti europei riportate sui media, ignaro delle finezze categoriali continuamente rinnovate che dalle persone in spostamento rispetto ai loro paesi di origine forgiano migranti, migranti economici, richiedenti asilo, rifugiati, rifugiati sicuri e rifugiati incerti, rifugiati rifiutati, rifugiati appartenenti alla categoria delle persone vulnerabili e rifugiati non appartenenti a tale categoria, rifugiati appartenenti alla categoria del 75 per cento dei riconoscimenti e rifugiati non appartenenti a tale categoria, rifugiati appartenenti alla categoria dei “minori non accompagnati”, “minori non accompagnati” non rifugiati... Aiuto, c’è da perdersi. E, infatti, molti si perdono, quasi tutti, non solo chi forse leggerà questa frase e io che la sto scrivendo, perché categoria dopo categoria si perdono soprattutto le persone che, essendosi spostate in buona o in cattiva fede dalle loro situazioni di invivibilità, sono riuscite a raggiungere le rive dell’Europa pensando che quello fosse un luogo d’approdo sicuro e non un labirinto di categorie dai mille rivoli da cui cercare ancora di salvarsi per non sentirsi soffocare. Comunque, io di migrazioni “mi occupo” e seguo quotidianamente tutte le finezze categoriali, quotidianamente, perché basta distrarsi per qualche giorno per dover poi recuperare a fatica l’enorme ritardo accumulato – sui testi prodotti, sui nuovi progetti, sulle nuove dichiarazioni, risoluzioni, comunicazioni, direttive e sulle pratiche effettive al di là delle dichiarazioni, comunicazioni, risoluzioni, direttive – e posso testimoniare, in totale “buona fede” e con assoluta certezza di non poter essere smentita, che tutto questo serve a un unico scopo: ritornare a quell’uomo che migra “da sempre”, e da solo, non accompagnato da amici o da amiche, che appare nella cattiva traduzione italiana del testo dell’Agenda europea sulla migrazione prodotta dalla Commissione e poi adottata dal Consiglio europeo. Certo, in un tempo in cui sono sempre più numerose le persone in fuga da guerre, come attestano i dati dell’Unhcr, arrivare dai numerosi “rifugiati” ad un unico rifugiato è abbastanza difficile, ma con l’ostinato impegno che i “signori dei vertici” hanno saputo dimostrare, nel lento trascorrere dei mesi e nel rapido susseguirsi delle riunioni, un po’ alla volta, ci sono quasi riusciti. Ripartiamo, dunque, da “quanti” ricollocare. 40.000 persone è la proposta della Commissione che aggiunge 20.000 persone da reinsediare. Già, perché oltre alle ricollocazioni ci sono anche i possibili reinsediamenti delle persone in fuga da guerre e “approdate” in paesi di altri continenti più ospitali di quello europeo. Secondo i dati aggiornati dell’Unhcr per la prima metà del 2015, guardando solo alla

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Siria, che per alcuni anni si è aggiudicata il primato del paese con la più alta “produzione” di rifugiati, la cifra delle persone che ne avevano varcato i confini ammontava a 4 milioni, concentrati per la grande maggioranza in Turchia (1.8 milioni), Libano (1.2 milioni) e Giordania (628.800). Proporre il reinsediamento di 20.000 rifugiati l’anno, sino al 2020, in una comunità di 507 milioni di abitanti, sembrava dunque una proposta del tutto ragionevole, secondo la sragione dilagante ai vertici dell’Unione europea, che infatti accettano senza batter ciglio la proposta della Commissione. Numeri irrisori per numeri irrisori, anche la cifra di 40.000 ricollocazioni si aggiudica l’approvazione e viene così ripartita: 24.000 saranno i ricollocati dall’Italia e 16.000 quelli dalla Grecia. 16.000, non è uno scherzo. Era fine maggio 2015 quando veniva individuata la cifra delle ripartizioni e alcune isole greche cominciavano già a dare immagine di sé attraverso le fotografie di monticcioli di giubbotti salvagente che nessuno sapeva come smaltire. Nel corso dei mesi estivi i monticcioli sarebbero diventati montagne, sulle cui vette provare ad arrampicarsi per poter ammirare lo “spettacolo sublime” dell’attualità. Non, come voleva Kant, quando rifletteva sullo spettacolo sublime come porta d’accesso alla razionalità, il sublime della “rozza natura”, ma quello di una natura marina attraversata da innumerevoli piccole imbarcazioni o gommoni, salpati dalle spiagge della Turchia per cercare di approdare su quelle greche grazie alle “fini politiche” dell’Unione europea. Inutile dire che oltre allo spettacolo dell’arrivo, spesso, la maggior parte degli spettatori avrebbe potuto assistere anche a quello dei naufragi. Davvero, c’è da rimanere sconcertati rileggendo i fiumi di “parole del delirio” prodotte dai vertici europei in quel periodo, se, per quanto situati nella nostra attualità, diffidenti, dunque, nei confronti di ogni razionalità moderna perché consapevoli delle sue violenze e delle sue esclusioni, si conserva ancora un barlume di buon senso. Vaneggiava persino di “frontiere intelligenti”, il testo dell’ambiziosa Agenda europea sulla migrazione, parlando dei valichi di frontiera da controllare, immaginando di supportarli nella loro ottusità di normali frontiere con l’aiuto di quelle tecnologie sempre più avanzate per rilevare l’attraversamento dei corpi, assolute divinità della nuova religione politeista dell’Unione al cui altare sacrificare somme via via più cospicue di denaro. Oppure, rifacendosi ai dati Frontex, nel testo del 27 maggio si citava la “rotta dei Balcani” come “un’altra importante rotta di immigrazione dell’Unione nel 2014”, tuttavia, continuava il

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testo, “la maggior parte dei migranti arrivati per la rotta balcanica – 51 per cento kosovari – non risultano prima facie aver bisogno di protezione internazionale”. Già allora sarebbe bastato andare a prendere un caffè con i propri vicini d’ufficio Eurostat, l’Ufficio di elaborazione statistica dell’Unione, per chiedere loro qualche informazione sui dati in corso di elaborazione del primo semestre 2015. Del tutto idioti, infatti, i valichi di frontiera dei Balcani avevano già iniziato a lasciar attraversare corpi di “viaggiatori in buona fede” in maggioranza rispetto ai “poveri” kosovari, e verso la fine dell’estate, del tutto travolti, nella loro idiozia avrebbero alla fine fatto ricorso a mezzi tecnologici meno avanzati come i rudi fili spinati. O meglio, le “concertinas”, prodotte in misura sempre crescente dalla ditta spagnola “European Security Fencing”, vincitrice già nel 2005 del “Premio Alas a la mejor empresa emprendedora Internacional”, come spiega sul suo sito, nel quale non sono riuscita a trovare il numero di “migranti economici” impiegati per la sua produzione. “Concertinas”. Certo, non il filo spinato usato dai coloni americani nella loro conquista del West verso la fine degli anni Settanta dell’Ottocento, quando fu brevettato e usato per la prima volta (Razac), non quello delle trincee della Prima guerra mondiale, e nemmeno quello dei campi di concentramento, un filo spinato tecnologicamente molto più avanzato e fatto scorrere tra i piloni di acciaio installati a grande velocità dai macchinari ad alta tecnologia della ditta italiana “Pauselli”. Ma pur sempre filo spinato, installato grazie a una rete imprenditoriale intereuropea capace di lavorare con una solidarietà molto più solerte rispetto a quella dimostrata dagli stati membri per le “ricollocazioni”. Meglio fermarsi qui, perché a riportare e a commentare tutte le prodezze dei deliri europei, vertice dopo vertice, si impiegherebbe una vita, accumulando sempre maggior ritardo nei confronti dell’ultimo incontro rispetto alla data in cui si scrive. In questo caso, 5 maggio 2016. Meglio fermarsi qui, ma non senza aggiungere qualcosa sul numero delle “ricollocazioni” effettuate. Stando ai dati di fine aprile 2016, 565 dall’Italia, 876 dalla Grecia. Insomma, una “manciata” di uomini e donne, con rispettivi/e figli e figlie, molto vicini per il loro numero a quell’unico uomo che faceva la sua comparsa nella traduzione italiana della frase iniziale dell’Agenda europea sulla migrazione e che, nella Storia, “migra da sempre”. Una “manciata” di uomini e donne, con rispettivi/e figli e figlie, che la Commissione suggeriva di “informare delle conseguenze dei movimenti successivi all’interno degli stati membri” affinché, come i colonizzati algerini di cui scriveva

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Fanon, sapessero rimanere “al loro posto” nello stato membro a loro assegnato. Quando poi, a frontiere travolte lungo la “rotta dei Balcani”, nella discussione del vertice del 22 settembre la cifra delle “ricollocazioni virtuali” si innalzava a 120.000, un barlume di buon senso dinanzi al delirio dei suoi colleghi appariva persino nelle dichiarazioni ai media di Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione: “120.000 rifugiati? Siamo ridicoli data la grandezza del problema, mi chiedo se i libanesi o i giordani capiscono quello di cui stiamo parlando”. Improvviso sussulto di ritorno a un piano di realtà in cui, prendendo atto per un instante del delirio dell’intera discussione, rovescia persino la secolare convinzione coloniale rispetto a dove collocare la misura della razionalità: non più in Europa, ma in Libano e in Giordania. Riferimenti bibliografici Per la dichiarazione di Federica Mogherini, http://www.consilium.europa.eu/ it/meetings/jha/2015/04/20/; per il testo della “Dichiarazione congiunta” di Federica Mogherini e di Dimitris Avramopoulos, http://europa.eu/rapid/pressrelease_IP-15-4813_fr.htm. Per il testo della “Dichiarazione” del Consiglio europeo del 23 aprile 2015, http://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2015/04/23-specialeuco-statement/. Per la frase simile presente nel testo delle “Conclusioni” della riunione del Consiglio europeo del 24 e 25 ottobre 2013: http://data.consilium. europa.eu/doc/document/ST-169-2013-INIT/it/pdf. Il testo della risoluzione del Parlamento europeo del 29 aprile 2015 si trova qui: http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP// TEXT+TA+P8-TA-2015-0176+0+DOC+XML+V0//IT. Le espressioni “gregge delle parole passate e future”, “potere assoluto, originario e creatore del linguaggio” e “grandi pastori sovrani”, sono le espressioni di Foucault a cui avevo già fatto riferimento nella “Prima Parte” del presente libro, cfr. Foucault, La grande straniera, cit. Per il testo della “Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni” del 13 maggio 2015, noto come Agenda europea sulla migrazione, cfr. http:// ec.europa.eu/dgs/home-affairs/what-we-do/policies/european-agenda-migration/background-information/docs/communication_on_the_european_agenda_on_migration_it.pdf. Per la missione “EUNAVFOR MED operation SOPHIA”, cfr. http://eeas.europa.eu/csdp/missions-and-operations/eunavfor-med/index_en.htm. L’operazione viene descritta anche sul sito della Marina militare italiana, http://www. marina.difesa.it/cosa-facciamo/operazioni-in-corso/Pagine/EUNAVFORMED. aspx. Per il testo della “Decisione del Consiglio” che istituisce l’operazione,

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il 18 maggio 2105, cfr. http://www.europarl.europa.eu/meetdocs/2014_2019/ documents/libe/dv/3_oj20150519_council_dec_eunavformed_/3_oj20150519_ council_dec_eunavformed_it.pdf. Per alcune considerazioni sull’operazione nel quadro più generale della “guerra ai migranti”, cfr. il blog di Antonio Mazzeo e in particolare: Le missioni anti-migranti di Frontex ed EUNAVFOR MED nel Mediterraneo, http://antoniomazzeoblog.blogspot.it/search?q=sophia. Alcuni post sulle diverse fasi dell’operazione si trovano anche sul blog di Fulvio Vassallo Paleologo, “Diritti e frontiere”, a cui rinvio, inoltre, per il prezioso lavoro di aggiornamento e di commento di quanto sta accadendo nell’ambito delle migrazioni: http://dirittiefrontiere.blogspot.it/. Per la “Risoluzione 2240”, con cui, il 9 ottobre 2015, il Consiglio di sicurezza autorizza il passaggio a un’ulteriore fase operativa della Operazione Eunavfor Med, cfr. http://www.un.org/press/en/2015/sc12072.doc.htm. Per la dichiarazione di Federica Mogherini sul fatto di rinominare l’operazione Eunavfor Med “Operazione Sophia”, http://www.onuitalia.com/2015/09/24/ mogherini-da-eunavfor-med-a-sofia-un-nome-che-dia-speranza/. Il riferimento alle parole di Jacques Brel è alla canzone J’arrive. Per l’articolo di Alberto D’Argenio a commento del testo dell’Agenda europea sulla migrazione della Commissione, http://www.repubblica.it/esteri/2015/05/09/news/migranti_la_svolta_dell_ue_tutti_gli_stati_membri_obbligati_ad_accoglierli_si_all_asilo_politico_europeo_-113912924/. Per testo del 27 maggio 2015 relativo alla “Proposta” per la ricollocazione dei rifugiati dall’Italia e dalla Grecia: http://ec.europa.eu/transparency/regdoc/ rep/1/2015/IT/1-2015-286-IT-F1-1.PDF. Per il testo delle “Conclusioni del consiglio europeo” del 25 e 26 giugno 2015, http://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2015/06/26-euco-conclusions/. Le considerazioni di Kant sul sublime della “rozza natura” si trovano in Immanuel Kant, Critica della facoltà del giudizio (1790), tr. it. di E. Garroni e H. Hohenegger, Einaudi, Torino 1999, § 28. Sull’industria della sicurezza nell’ambito delle politiche migratorie dell’Unione europea cfr. Claire Rodier, Xénophobie business. A’ quoi servent les contrôlles migratoires?, La Dècouverte, Paris 2012. Per i dati Eurostat sul secondo trimestre 2015: http://ec.europa.eu/eurostat/ documents/2995521/6996925/3-18092015-BP-EN.pdf/b0377f79-f06d-4263aa5b-cc9b4f6a838f. Il sito dell’European Security Fencing che fabbrica le “Concertinas” è: http:// concertina.es/en/. Per la storia del filo spinato cfr. il libro di Olivier Razac, Storia politica del filo spinato (2000), tr. it. di I. Bussoni e G. Morosato, ombre corte, Verona 2001. Per la ditta italiana “Pauselli”, specializzata nella produzione di macchine battipalo, http://www.pausellicostruzioni.com/home.asp. Per il riferimento a Fanon, cfr. Franz Fanon, I dannati della terra (1961), tr. it. di C. Cignetti, Edizioni di Comunità, Torino 2000. Per la frase di Jean-Claude Juncker a commento del vertice del 22 settembre 2015, cfr. http://ilmanifesto.info/accordo-fatto-ma-lue-e-divisa/.

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PAESI TERZI SICURI – “Paesi sicuri” o “Paesi non sicuri”? Ma che domanda è? si potrebbe subito obiettare, dipende dai punti di vista, che come al solito sono molteplici. Facciamo un esempio, a caso: la Tunisia. Chi parla? Chi la definisce tale? Un/una cittadino/a tunisino/a? Un/una cittadino/a tunisino/a che ha espresso qualche critica di troppo ai propri governi o alle forze dell’ordine sui propri blog o con qualche canzone di successo? Un/una cittadino/a tunisino/a che abita nelle periferie della capitale e che abbia fumato un po’ di hashish? O un/una residente non tunisino/a? E, in questo caso, un/una residente non tunisino/a ma originario/a di quale paese? Proveniente dall’Europa o da qualche altro paese africano? Non residente e rifugiato/a? Pardon – dal momento che la Tunisia non ha ancora una legge sull’asilo – non residente e non-rifugiato/a ma potenzialmente rifugiato/a? Riconosciuto/a come rifugiato/a da quell’organizzazione potenzialmente sovra-sovrana che è l’Unhcr, l’Alto commissariato per i rifugiati, a cui spetta il compito del riconoscimento dei rifugiati in alcune parti del mondo, o “rigettato/a” come rifugiato/a da questa stessa organizzazione? Ma no, ovviamente, se si parla di “paesi sicuri” o di “paesi nonsicuri” non è a chi abita in quel paese che spetta la definizione. Un’ovvietà non tanto ovvia, ma che si è imposta come del tutto ovvia nel dibattito recente e soprattutto in quello degli ultimi due anni. La definizione è uno sguardo che viene da fuori: si guarda un paese dall’esterno e si stabilisce se è sicuro. Ma chi guarda in questo modo? Se la Tunisia la guardassi io, per esempio, che non ci abito e che ho dunque uno sguardo dal di fuori, ma che la conosco abbastanza bene per averla frequentata spesso dopo la rivoluzione e che continuo a seguire quello che vi accade con un certo interesse, non sono del tutto “sicura” di come la definirei: sicura? non sicura? incertamente sicura? Se qualcuno me lo chiedesse, per rispondere ritornerei molto probabilmente a quei punti di vista molteplici, lasciando la Tunisia alla sue oscillazioni tra sicurezza e insicurezza ed elencando le situazioni di vivibilità o invivibilità per chi vi abita a seconda del luogo in cui risiede e della sua condizione. Se il criterio per stabilire la sicurezza di un luogo fosse, per esempio, quello dell’eventualità di essere arrestati e torturati, l’elenco che fornirei rispetto alla Tunisia potrebbe essere il seguente: tra le persone che conosco e che vi risiedono alcuni/e vivono delle esistenze abbastanza sicure, pur avendo manifestato forti opposizioni ai governi che si sono succeduti, come hanno fatto ad esempio le madri e le famiglie dei migranti tunisini dispersi; altri/e

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hanno vissuto l’esperienza del carcere post-rivoluzionario, non molto dissimile da quello pre-rivoluzionario per le condizioni di vita nelle sue celle e per le pratiche di tortura; altri/e hanno vissuto l’esperienza dei centri di detenzione per migranti e quella della deportazione verso l’Algeria; altri, che non ho conosciuto di persona ma che hanno conosciuto l’esperienza di deportazione verso l’Algeria insieme a qualcuno che conosco, sono morti durante la deportazione. Ma per quanto io abbia uno sguardo della Tunisia dall’esterno, nessuno, in realtà, mi chiede di definirla sicura o non-sicura. Ritorniamo, dunque, alla casella di partenza. “Paesi sicuri” o “nonsicuri”? E ricominciamo dai “fatti”, da quella ovvietà non-ovvia, imperante quando si parla di politiche migratorie dell’Unione europea, che ha articolato e forgiato nel suo insieme la percezione delle migrazioni anche di chi non governa e non ha alcuna pretesa o nessuna idea precisa di che cosa possa essere un governo delle migrazioni. Per tale ovvietà, allora, a stabilire se un paese sia o meno sicuro, con quello sguardo “del fuori”, dovrebbero essere delle entità statali o/e sovrastatali che, con altrettanta ovvietà, per coloro che imbastiscono le politiche migratorie dell’Ue corrispondono agli stati membri dell’Unione o/e all’Unione europea “in persona”. Riprendiamo, allora, l’esempio che avevo scelto, confesso non a caso, e non solo perché è un paese che conosco più di altri: la Tunisia. O Meglio, la Tunisia, il Marocco, l’Algeria. Non c’è dubbio, tutti e tre paesi del Nord Africa, ma con storie, anche recenti, molto diverse tra loro. E dal Nord Africa spostiamoci nuovamente in un luogo da cui quei paesi possano esseri visti con uno sguardo dall’esterno, ricordandoci che non può essere uno sguardo qualunque, ma che deve corrispondere allo sguardo su di essi da parte di un’entità statale o/e sovrastatale. Spostiamoci in Germania, per esempio. Anche questo un esempio scelto non a caso. Perché, all’interno dell’entità statale tedesca e tra chi la rappresenta, negli ultimi mesi c’è stato un intenso dibattito sulla possibilità di dichiarare la Tunisia, il Marocco, l’Algeria, presi tutti e tre insieme, come “paesi di origine sicura”. Alla fine, almeno per ora, 26 giugno 2016, ha vinto l’incertezza: Tunisia, Marocco, Algeria, sono “paesi incertamente sicuri”, dal momento che il Bundesrat (il Consiglio federale), nella riunione del 17 giugno, ha deciso di non decidere e di rimandare la decisone a data da destinarsi. Sì, “paesi incertamente sicuri”, perché, un mese prima di questo rinvio da parte del Consiglio federale – composto dai rappresentanti dei diversi Länder e dove, per la forte presenza del partito dei Grünen

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(Verdi), il governo non ha la maggioranza – si era già espresso, invece, a favore della loro “sicurezza”, il Bundestag tedesco, l’altro organo legislativo della Germania federale. Ma, forse, per capire bene il senso del dibattito, delle diverse decisioni e del rinvio, bisogna fare un passo indietro, e ritornare alla proposta del governo tedesco, avanzata per la prima volta nel gennaio 2016 sull’onda dei “fatti di Colonia”. Per stabilire che cosa siano stati quei “fatti” e soprattutto chi li abbia compiuti, dopo i fiumi di parole e di prese di posizione divergenti espresse subito dopo la notte di Capodanno, gli inquirenti e i tribunali della Germania stanno ancora lavorando. Ma non è questo ciò a cui volevo tornare con quel passo indietro, quanto, piuttosto, alle dichiarazioni di alcune/i rappresentanti del governo tedesco che, in seguito a quella notte e al sospetto che tra gli aggressori delle donne ci fossero dei rifugiati, hanno avanzato le prime proposte per una nuova legge più restrittiva in materia d’asilo, evocando il magico strumento dei “paesi di origine sicura”. Confluite in un “Asylpaket II”, le loro proposte sono poi diventate legge il 25 febbraio 2016, in un testo in cui i “paesi di origine sicura” rimangono ancora indeterminati. Sin dall’inizio della discussione, comunque, i tre paesi del Maghreb venivano indicati come possibili designazioni, dal momento che, stando alle prime indagini, tra gli autori delle aggressioni di Capodanno figuravano alcuni cittadini provenienti da quei paesi. Così, la situazione è ora la seguente: visti con lo sguardo esterno della Germania, la Tunisia, il Marocco, l’Algeria, con le loro storie, anche recenti, molto diverse tra loro, ma presi insieme come un’unica grande entità, con un gesto simile a quello hegeliano che designava il Nord Africa come entità “quasi europea” staccandolo con un colpo d’accetta dal resto dell’Africa, sono “paesi incertamente sicuri”. “Paesi sicuri” per il Bundestag, dove ad avere la maggioranza è la coalizione al governo, “paesi sospesi” rispetto alla loro sicurezza per il Bundesrat, dove il voto dei “Verdi” che li ritiene “non sicuri” conta di più. Ma per dettagliarla meglio, la situazione dovrebbe essere descritta così: per la Germania, per ora, dopo il rinvio della decisione da parte del Bundesrat e sino alla fine della nuova negoziazione tra il governo e l’opposizione, la Tunisia, il Marocco, l’Algeria, sono “paesi incertamente sicuri” non in base a quello che avviene al loro interno, alla sicurezza di vita dei/delle loro cittadini/e o/e dei/delle loro residenti, secondo dei criteri condivisi che stabiliscano cosa considerare “sicurezza di vita”, ma in base al comportamento che alcuni cittadini

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provenienti da quei paesi sono sospettati di aver tenuto rispetto ad alcune donne in una delle città tedesche durante la notte del Capodanno 2016. Tutto ok? Sì, ovviamente. Stiamo infatti parlando di una nozione fondamentale per le scelte politiche migratorie non solo della Germania, ma dell’Unione europea nel suo complesso – ad oggi, un po’ meno Unione dopo il referendum in Gran Bretagna e la vittoria della “Brexit” – e quando si parla di politiche migratorie va da sé che da qualche parte ci debba essere una piccola dose di “arsenico” con cui far passare inosservato il delirio, o, al contrario, una buona dose di delirio con cui far passare inosservato l’arsenico. Facciamo allora un ulteriore passo indietro, per cercare di non berci l’arsenico e non lasciar passare il delirio. “Paesi di origine sicura” e “paesi terzi sicuri” sono due nozioni che non compaiono improvvisamente nel gennaio del 2016, in seguito alle aggressioni di varia natura subite a Colonia durante la notte di Capodanno da diverse donne, ma che la Germania evoca, in quell’occasione, inserendosi così all’interno di un contesto più generale, quello dell’Unione, il cui problema, ovviamente, con la solita ovvietà di cui si diceva prima, è quello di trovare i modi per ridurre le possibilità da parte dei migranti arrivati in uno degli stati membri di fare domanda d’asilo e di vedersi riconoscere lo status di rifugiato. A partire dal 2015, con il forte incremento degli arrivi di persone che, stando ai criteri che l’Unione stessa e i suoi stati membri si erano dati in precedenza, e soprattutto stando alle normative internazionali, avrebbero potuto accedere a quello status, i concetti di “paesi di origine sicura” e di “paesi terzi sicuri” sono stati spesso all’ordine del giorno durante gli incontri sulle migrazioni, in vari modi, ma sempre con lo stesso intento. Nelle riunioni, della Commissione, del Consiglio, del Parlamento, si chiedeva all’Unione di stilare una lista comune dei “paesi di origine sicura”; si sollecitavano gli stati membri che ancora non ne erano provvisti, e soprattutto gli stati del Sud che segnano le frontiere esterne dell’Ue e dove gli arrivi dei rifugiati sono più consistenti, l’Italia e la Grecia, di stilare una lista nazionale; si premeva sulla Grecia, in vista dell’accordo dell’Ue con la Turchia e alle conseguenti deportazioni dei migranti verso quel “paese terzo”, affinché designasse la Turchia come “paese terzo sicuro”. Insomma, una massa di “sicurezza” che, a partire dal suo sguardo o/e dallo sguardo dei suoi stati membri, l’Unione europea irradiava nel mondo, o meglio, in parti del mondo, stando attenta che tra queste parti venissero ritagliate anche quelle più interessate alle partenze

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degli eventuali rifugiati. Certo, durante i lunghi mesi di discussione, nessuno ha mai osato pensare o proporre che tra i “pianeti sicuri” orbitanti intorno allo sguardo del “sistema Ue” ci potesse essere anche la Libia, da anni uno dei principali luoghi di partenza. Ma non si trattava di una dimenticanza, perché, per rendere sicura la Libia, o meglio, per rendere sicura l’Europa rispetto alle partenze dei migranti da quel pianeta incandescente, c’era comunque “Sophia”, la missione militare Ue che pattuglia quella zona di mare contro i trafficanti o le imbarcazioni. C’era anche, per spirito di completezza, una missione più clandestina, “Eubam Lybia”, attiva già dal lontano maggio 2013, con il mandato di aiutare le autorità libiche nella gestione delle loro frontiere terrestri, marittime, aeree, e con un budget di 26 milioni di euro annui, i cui agenti, molto ridotti, viste le ovvie ragioni di sicurezza, si devono essere confusi nel corso del tempo su quali autorità assistere e su quali frontiere aiutare a gestire, sino alla decisione finale di spostare il loro quartier generale a Tunisi, che solo negli intenti più remoti del Califfato potrebbe diventare una frontiera libica. Per quanto clandestina, la missione è stata comunque prorogata per altri sei mesi nel febbraio del 2016. Ma ritorniamo ai paesi sicuri, più sicuramente o più incertamente sicuri, e lasciamo la Libia alla sua indomita insicurezza. Per capire sino in fondo la questione, il passo indietro si deve spingere sino al testo del “Trattato sul funzionamento dell’Unione europea” e, di qui, alla “Direttiva Procedure” numero 32 del giugno 2013. Il testo del “Trattato”, rispetto all’asilo, non pone molti problemi, è un articolo breve, all’interno di un “Trattato” che riguarda l’intero funzionamento dell’Unione europea, per la quale, tra l’altro, concedere l’asilo non è mai stata una priorità. L’articolo 78 proclama che l’Unione “sviluppa una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea” conforme alla Convenzione di Ginevra del 1951 e al Protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati. Per questo, il Parlamento europeo e il Consiglio, “adottano le misure relative a un sistema europeo comune di asilo” che includa, tra l’altro, “d) procedure comuni per l’ottenimento e la perdita dello status uniforme in materia di asilo o di protezione sussidiaria”. “Procedure comuni”. Di qui le “Direttive procedure”, l’una del 2005, l’altra, più recente, del 2013, “Recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale”. E con i testi delle “Direttive” le cose si complicano. Si complicano, soprattutto, quando si tratta di stabilire come restringere in modo “comune” le possibilità

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della concessione dell’asilo accelerando le procedure di ammissibilità delle domande o considerandole inammissibili e/o prevedendo che possano essere espletate alle frontiere e in zone di transito. È qui, negli articoli che prevedono queste eventualità, che i paesi non sono più soltanto paesi, secondo un mappa geopolitica e mutabile nel tempo a seconda di ciò che accade nei singoli paesi o di ciò che accade tra i paesi, né sono più soltanto paesi di origine o soltanto paesi di transito, nel caso in cui si volesse complicare la mappa geopolitica più consueta con la considerazione degli spostamenti degli esseri umani all’interno della mappa o, meglio, con gli spostamenti di quegli esseri umani i cui spostamenti si immagina di dover governare e possibilmente ostacolare. Cominciano, invece, a suddividersi in diverse categorie: “paese di origine sicuro”, “paese terzo sicuro”, “paese terzo europeo sicuro”, “paese di primo asilo”. Anche in questo caso si tratta di una mappa geopolitica e mutabile nel tempo, ma completamente dipendete da quello “sguardo del fuori” che i singoli stati membri europei gettano sui paesi di origine o di transito dei migranti, e, tra l’altro, non necessariamente in modo concorde tra loro, dal momento che ogni stato membro può avere la sua lista di “paesi di origine sicura”. Una lista che, suggeriscono ora la Germania, o il governo e il Bundestag tedeschi, può variare persino a seconda del comportamento che uno o più cittadini di un “paese terzo” assumono mentre si trovano sul territorio di uno “stato membro”. Più che una mappa, allora, è un insieme intricato di molteplici mappe, talmente intricato, da sfiorare la “tenebra”. Infatti, come non ricordare Conrad? E la passione per le carte geografiche che il protagonista-narratore di Cuore di tenebra dice d’aver avuto sin da ragazzino? Una passione con cui ci permette, in poche frasi, di condividere la propria esperienza visiva sulla carta dell’Africa e la sua spartizione coloniale: da spazio vuoto e macchia bianca sulle carte della sua infanzia, a spazio segnato e “appropriato” con i vari colori dell’arcobaleno, nel momento in cui si reca negli uffici della Compagnia da cui cerca di farsi assumere per iniziare il suo viaggio lungo quel fiume enorme, “straordinariamente simile, sulla carta, a un serpente”, che l’aveva da sempre affascinato. La “tenebra” attuale, però, differisce per vari motivi dalla mappa multicolore di Conrad, e soprattutto per uno, in particolare: non si tratta più, infatti, di conquistare territori, ma di immaginare di governarli, almeno in parte, a distanza, potendo rispedire indietro i migranti/richiedenti asilo/rifugiati in quei paesi, sicuri, non sicuri, incertamente sicuri, di primo asilo, sicuri europei ma non

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stati membri dell’Ue, insomma, in breve, in tutti quei paesi comunque “terzi” rispetto agli stati dell’Unione e da cui partono i migranti. E per governarli meglio e in modo “comune”, dal settembre del 2015 c’è, da parte della Commissione, il testo della “Proposta di Regolamento del Parlamento e del Consiglio europei”, che suggerisce una lista europea di “paesi di origine sicuri”, da affiancare alle liste dei singoli stati membri, “in modo da migliorare l’efficienza complessiva dei loro sistemi di asilo per quanto riguarda le domande di protezione internazionale che hanno maggiore probabilità di essere infondate”. Così, dopo un elenco dei suoi informatori, trasformati dal testo in agenti segreti sparsi per il mondo a guardare i paesi dall’esterno (Easo, Unhcr, Seae (Servizio europeo per l’azione esterna), Consiglio d’Europa, e “altre pertinenti organizzazioni internazionali”), la Commissione redige la sua proposta dei “paesi di origine sicura”: Albania, Bosnia-Erzegovina, l’ex Repubblica jugoslava di Macedonia, Kosovo, Montenegro, Serbia e Turchia. Ricordando la storia un po’ meno recente, l’Ex-Jugoslavia, riunificata ora come “paese di origine sicuro” dal colpo d’occhio dell’Ue, dopo gli anni di guerra per potersi disintegrare. “Fate una guerra e state sicuri che diventerete sicuri”, sembra essere il suggerimento implicito nel dibattito dell’Ue e dei suoi stati membri, abituati entrambi, ormai da anni, a cercare “sicurezza” con le loro strategie di guerra permanente ai migranti. Ai margini di questo “nuovo paese”, l’Albania e la Turchia. Ai margini, ma non secondarie. La Turchia, soprattutto, che in base al testo dell’accordo del 18 marzo 2016, deve diventare il primo “stato concentramento” dell’Ue, con la deportazione di tutti i migranti, richiedenti asilo e non, arrivati in Grecia dopo il 20 marzo del 2016. Ops! C’era un problema. La “Proposta di Regolamento” era appunto una proposta, il Parlamento europeo non l’aveva ancora approvata e la Turchia non era ancora un “paese di origine sicura” da poter trasformare tranquillamente in “stato di concentramento” facendo partire il piano di deportazioni dalla Grecia, previsto a iniziare dalla data del 4 aprile 2016. Bisognava allora correre ai ripari, chiedere alla Grecia, al governo Tsipras, l’unico governo di uno stato membro di “sinistra radicale”, di cambiare rapidamente la sua legge e prevedere nella nuova legislazione sull’asilo quello “sguardo del fuori” con cui la Turchia poteva diventare un “paese terzo sicuro”. Di sinistra, forse radicale, il governo greco è comunque il governo di uno stato membro dell’Ue, e per rimanere tale deve spesso dimenticare la sua radicalità, pena, in questo caso, la minaccia della sua uscita da Schengen e il

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trasformarsi a sua volta, e al posto della Turchia, in primo “stato di concentramento dell’Ue”. Ma all’interno dell’Ue. Il Parlamento greco si riunisce, allora, il primo aprile 2016 e fa uscire dal suo cappello la nuova legislazione sull’asilo, con la piccola astuzia di uno “sguardo strabico” gettato su quel paese visibile da alcune delle sue coste, molto vicino, ma sicuramente “non-sicuro”. Per la nuova legge greca, infatti, la Turchia non è un “paese terzo sicuro”, ma le domande d’asilo vengono comunque dichiarate inammissibili se provenienti da richiedenti transitati da “paesi di primo asilo” per definire i quali si alleggeriscono i criteri stabiliti dalla “Direttiva Procedure” 2013/32 dell’Ue. “In particolare, gli Stati membri non dovrebbero essere tenuti a valutare il merito della domanda di protezione internazionale se il paese di primo asilo ha concesso al richiedente lo status di rifugiato o ha altrimenti concesso sufficiente protezione e il richiedente sarà riammesso in detto paese” suona il paragrafo 43 della “Direttiva”. Ma c’è poi l’articolo 35 della Terza sezione che definisce il concetto di “paese di primo asilo”: “Un paese può essere considerato paese di primo asilo di un particolare richiedente, qualora: a) quest’ultimo sia stato riconosciuto in detto paese quale rifugiato e possa ancora avvalersi di tale protezione; ovvero b) goda altrimenti di protezione sufficiente in detto paese, tra cui il fatto di beneficiare del principio di ‘non-refoulement’”. Non è il caso della Turchia, ma non importa. In fondo, non è nemmeno il caso di alcuni stati membri dell’Ue, ma questo importa ancor meno, perché, spedendo in quegli stati i rifugiati non si tratterebbe allora di deportazioni ma di quelle fantomatiche “ricollocazioni” di cui si continua a parlare, senza poi effettuarle, in tutti i vertici dell’Ue. Non è il caso della Turchia, ma non importa, davvero, perché basta tralasciare uno dei due criteri, o meglio, tutti e due contemporaneamente, e i richiedenti, qualsiasi cosa sia la Turchia, si potranno deportare. Si era rimasti a questo punto il primo aprile 2016, dopo il voto del Parlamento greco, con il suo “sguardo strabico” per quanto ravvicinato sulla Turchia, e con l’Ue che si dichiarava soddisfatta grazie a uno “sguardo cieco” sulle sue stesse “Direttive”. Ma ero uno scherzo. Dopo le prime deportazioni, sono iniziati, infatti, i problemi: i ricorsi di alcuni deportati e un’indocile Commissione d’appello della Grecia che il 20 maggio accoglie quello di un cittadino siriano sulla base del fatto che la Turchia non può essere considerata un “paese terzo sicuro”. Per l’appunto, lo sapevano tutti, ma si potevano trovare gli stratagemmi per non considerarla tale e continuare a deportare. L’Ue

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ha, invece, dovuto trovare uno stratagemma per cambiare la composizione della Commissione d’appello. Ma si sono messi a protestare, allora, persino alcuni agenti Easo (Ufficio europeo di sostegno per l’asilo): inviati in escursione in Turchia per farla diventare nel testo di un loro rapporto “paese di origine sicuro”, sono ritornati dalla piacevole gita chiedendosi se non si trattasse di un mutamento del loro mandato originario, di “sostegno per l’asilo”, per l’appunto, e non di una sua definitiva cancellazione. Un rapido riassunto per non continuare all’infinito? La Tunisia, il Marocco e l’Algeria, per lo sguardo esterno della Germania, sono a tutt’oggi “paesi incertamente sicuri”. La Turchia, per i diversi sguardi con cui è stata guardata – esterni, vicini, strabici, ciechi – e per i diversi soggetti a cui è stato chiesto di definirla – la Grecia, gli agenti Easo, la Commissione d’appello – resta un paese indefinibile, sicuramente né un “paese di origine sicuro”, né un “paese terzo sicuro”. Ma nemmeno questo sarebbe un problema per la Commissione; basterebbe, infatti, togliere il termine “paese” dai concetti di “paese di origine sicuro” e “paese terzo sicuro”, e resterebbe allora solo l’agognata sicurezza di poter deportare i richiedenti asilo lì transitati in uno spazio amorfo, una “macchia bianca” da ridisegnare a proprio piacimento come “campo di concentramento”. Resta il fatto che per lo sguardo interno che la Turchia continua a gettare su se stessa, sicura o non sicura, paese o non paese, si ritiene comunque sovrana del proprio territorio. Capace di ospitare quasi tre milioni di profughi siriani; di respingere, pardon, di “refouler” alla frontiera con la Siria quelli fuggiti da Aleppo negli ultimi mesi, come effetto secondario dell’accordo con l’Ue e per lasciare comunque un po’ di spazio agli eventuali deportati; di sparare contro i siriani che premono alle sue frontiere e, di tanto in tanto, di ucciderne qualcuno; di rinchiudere nei propri campi i deportati dalla Grecia e nelle proprie prigioni giornalisti e dissidenti; di continuare indisturbata nella consueta repressione dei curdi. Sarà pure uno “stato concentramento”, comunque uno stato, con le sue mille repressioni. Riferimenti bibliografici: Per un dossier sulle deportazioni dei migranti e dei rifugiati dalla Tunisia all’Algeria, cfr. Rifugiati in Tunisia: tra detenzione e deportazione (dossier a cura di Glenda Garelli, Federica Sossi, Martina Tazzioli, aprile 2015), http://www.storiemigranti.org/spip.php?article1079.

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Per la nuova legge sull’Asilo in Germania (“Asylpaket II”), cfr. Bundestag beschließt schnellere Asylverfahren, https://www.bundestag.de/dokumente/textarchiv/2016/kw08-de-asylverfahren/409490 La suddivisione dell’Africa che “consegna” il Nord Africa all’Europa si trova in G.W.F. Hegel, Lezioni di filosofia della storia, tr. it. di G. Bonacina e L. Sichirollo, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 80-81. Per la missione “Eubam Lybia”, cfr. http://eeas.europa.eu/csdp/missions-andoperations/eubam-libya/index_en.htm. La strategia dell’IS nei confronti della Tunisia e altri paesi arabi viene esplicitata sin dal primo periodo della proclamazione del Califfato, cfr. The Return of Khilafah, in “Dabiq”, 1. Sulla questione delle frontiere in Tunisia è interessante leggere il report dell’organizzazione “The International Crisis Group”, La Tunisie des frontières (II) : terrorisme et polarisation régionale, in “Crisis Group Briefing Moyen-Orient et Afrique du Nord”, N°41, 21 octobre 2014, http://www.crisisgroup.org/~/media/Files/ Middle%20East%20North%20Africa/North%20Africa/Tunisia/b041-tunisias-borders-II-terrorism-and-regional-polarisation-english.pdf Per il “Trattato di funzionamento dell’Unione europea”, cfr. http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=celex%3A12012E%2FTXT; per la “Direttiva procedure” numero 32 del 2013, cfr. http://eur-lex.europa.eu/legal-content/ IT/TXT/?uri=CELEX%3A32013L0032. Per la descrizione della carta della spartizione coloniale dell’Africa in Cuore di tenebra, cfr. Joseph Conrad, Cuore di tenebra (1899-1902), tr. it. di A. Rossi e G. Sertoli, Einaudi, Torino 1999, p. 19. Il testo della “Proposta di Regolamento del Parlamento e del Consiglio che istituisce un elenco comune dell’UE di paesi di origine sicuri ai fini della direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca della protezione internazionale e che modifica la direttiva 2013/32/UE” si trova a questo link: http://ec.europa. eu/dgs/home-affairs/what-we-do/policies/european-agenda-migration/proposal-implementation-package/docs/proposal_for_regulation_of_the_ep_and_ council_establishing_an_eu_common_list_of_safe_countries_of_origin_it.pdf.

LESBO – Gommoni, giubbotti salvagente, pianti sulla spiaggia, bambini scossi dal panico, in prevalenza uomini, ma anche qualche donna, che prima dell’arrivo si gettano in acqua e trascinano l’imbarcazione per assicurare l’arrivo degli altri, naufragi. Prima ancora che si diffondessero le immagini del cammino lungo le strade e i recinti dei Balcani, sono le immagini di Lesbo che hanno segnato e ferito gli occhi dell’Europa. Non sono stata a Lesbo nei lunghi mesi del 2015, né in altri luoghi di migrazione, perché da quando la città dove abito, Milano, a partire dal 2014, è diventata a sua volta luogo di arrivo, di passaggio, di sosta, un’isola non circondata dal mare, una Lampedusa o una Le-

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sbo dell’entroterra, e un luogo di frontiera, ho abbandonato la pratica del “turismo militante nei luoghi dei migranti”, di cui negli ultimi anni sentivo sempre di più l’assoluta contraddizione. Viaggi da turisti, come ricercatori, come militanti, turisti speciali, dunque, ma in luoghi in prevalenza belli, a volte magnifici, sempre comunque luoghi da “scoprire” come è consueto nell’idea che sta alla base del turismo, per incontrare chi invece è lì perché ostacolato nella sua possibilità di movimento. Per raccontare Lesbo e trovare qualche possibilità di parola da affiancare alle sue “cartoline del delirio”, faccio allora ricorso, ancora una volta, a un suggerimento benjaminiano. Citare, lasciar essere nel proprio testo le parole di altri/e, abbandonando le proprie pretese autoriali, e provare così una delle possibili pratiche del montaggio. Lo faccio, proponendo la traduzione italiana della trascrizione del discorso di Agnès Matrahji – da lei tenuto in occasione della serata organizzata dal quotidiano francese online “Mediapart”, “L’Europe face à la tragédie des réfugiés”, organizzata il 26 maggio 2016 al “Théâtre de la Ville” di Parigi – dopo aver chiesto il permesso alla redazione di “Mediapart” e aver ottenuto l’autorizzazione sia da parte del giornale che di Agnès. Si perdono nella trascrizione i suoi silenzi, le sue esitazioni, i suoi gesti, e soprattutto quell’emozione che attraversava le sue parole mentre le pronunciava, ma credo che valga ugualmente la pena leggerla, perché anche il testo scritto e tradotto mantiene la carica emotiva di una pratica di vita in opposizione al delirio dell’accadere. Ecco qui il testo di Agnès Matrahji, che in accordo con lei ho solo leggermente modificato nella traduzione, quando lo scritto non riusciva a render conto del fluire del discorso orale. Con una precisazione che Agnès mi ha fatto pervenire per mail quando le ho mandato la traduzione: quando parla di “pantofole” lo fa perché Edwy Plenel, uno dei direttori del giornale, evocando la frase di Max Frisch “Peggio del rumore degli stivali, il silenzio delle pantofole”, esortava tutti/e a spezzare il muro di indifferenza che ha avvolto l’Europa “uscendo dalle proprie pantofole”. “Sono venuta per parlare di un’isola. Un’isola blu e bianca? No, non è questo che dovete immaginarvi. Un’isola al nord-est della Grecia, la terza per grandezza, che ha 100.000, 120.000 abitanti, e la cui popolazione è talvolta raddoppiata dall’arrivo dei rifugiati. Vivo su quest’isola e da un anno abbiamo a che fare con i rifugiati che arrivano dalle coste turche, vicine, visibili, un tratto di mare che si chiama Mare Egeo e che per i rifugiati si chiama ‘la traversata della morte’.

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Su questa piccola isola ci abito, sono professoressa di francese, e lì ho incontrato i 500.000 rifugiati, migranti, provenienti dall’Afghanistan, quella afgana è la popolazione con il più alto numero di profughi al mondo, siriani… Mio marito lavora al pronto soccorso dell’isola, è un medico di origine siriana; come quello di tutti i medici in Grecia, ha uno stipendio di 1200 euro al mese, con questo stipendio cerchiamo di aiutare e lo facciamo dando le nostre pantofole. Oggi non sono venuta a chiedervi di cercare di mettere nel cassetto un’ennesima legge che impedisca a queste persone di passare, passeranno, né di chiudere il lucchetto della porta, loro sono dietro alla porta, la porta è greca, ma il catenaccio è tedesco, è francese… Non ho mai sentito un solo rifugiato dirmi che voleva venire in Francia, ho visto un rifugiato afgano con una grande torre Eiffel tatuata sul braccio, qualche mese fa, e mi ha detto ‘non aver paura, non verrò in Francia, non aver paura’. Ho provato vergogna, sono professoressa di francese, potrei insegnargli il francese, ora sono bloccati sull’isola, hanno diciassette anni, dodici anni e a Mitilene, che è il capoluogo di Lesbo, sono rinchiusi come detenuti. Sono dietro alle sbarre in una zona del campo di detenzione, sono doppiamente prigionieri in una prigione, ma non sono criminali e siccome ci dicono che è da cinquanta giorni che sono detenuti in questo modo noi cerchiamo di farli uscire di tanto in tanto da quel luogo. Con la mia associazione, che è un’associazione locale di greci del luogo, un’associazione di volontari, facciamo uscire per fare delle escursioni giovani afgani, pachistani, siriani, in bus, a volte li portiamo al porto, li portiamo ai ristoranti, ai musei, queste persone a volte non sanno scrivere, non sanno che cosa sia facebook, altri sono più connessi. Sull’isola ci sono due campi e quindi abbiamo dovuto dividere i migranti, dal momento che c’era una forte componente di migranti afgani e di tutte le nazionalità che arrivavano mentre nello stesso tempo arrivavano i siriani, che erano un po’ più ‘curati’... ‘Curati’ lo dico con un grande dolore... attualmente abbiamo un grande bisogno, un grande bisogno, inimmaginabile... ieri ho distribuito mille forbicine, una forbicina è una sciocchezza, è come distribuire mille coperte, ma quando arrivi a dare mille coperte in una notte e te ne manca una, e quella notte farà freddo... non dormi. È da quattro anni che c’è questa guerra in Siria ed è da quattro anni che non dormo, da quando so che ci sono persone che dormono sotto una tenda, ma una tenda Decathlon molto spesso, per terra, e fa freddo la notte, piove, c’è vento, rimango sveglia la notte, certo, rimango sveglia. E

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impossibile che i greci… la popolazione greca sta vivendo una grande crisi economica, siamo tutti in menopausa per la crisi economica, con delle vampate di calore, che ci svegliano la notte: ‘come riusciremo a pagare il gas, l’elettricità?’, ‘il latte, un euro e cinquanta’, ‘la benzina, un euro e settanta’, ‘come fare?’, e dietro alla nostra porta o quando andiamo al supermercato c’è un afgano che compera mezzo pollo, mezza baguette, e glieli paghiamo, perché ne abbiamo i mezzi, come voi, francesi, avete i mezzi per accoglierli. Siamo 500 milioni in Europa, non si può aver paura di una popolazione che è indebolita, che fugge il terrore. Quando le donne ti raccontano che hanno fame, che... Non si riesce più a dar da mangiare a... Sull’isola attualmente c’è un campo di siriani con mille persone, donne, bambini, e un campo che è stato costruito per 850 persone nel quale vivono 2000, 3000 persone, 8000 durante l’estate scorsa. Quando gli afgani sono su quest’isola che è greco-ortodossa al 99 per cento, e arrivano magari con dei veli e altre cose, e raccolgono i loro rifiuti, mi dicono... un giovane afgano mi ha detto: ‘Scusami se i miei compaesani lasciano dei rifiuti per terra, è che loro stessi si sentono così tanto dei rifiuti dell’umanità...’. Quindi, oggi, il greco che è per strada... si tratta di una Grecia provinciale, che a sua volta ha vissuto la migrazione, e aiuta i rifugiati, è una popolazione pregevole, ammirevole. Ammirevole perché il lavapiatti regala un’intera infornata, arriva e regala un’intera infornata di pane, perché il vecchietto regala tutti i frutti del suo albero, limoni, non vi nascondo, infatti, che i rifugiati a volte imbastiscono il loro pasto con i pesci che trovano al porto e i greci gli regalano i limoni prendendoli dagli alberi nei loro giardini. Sì, è vero, hanno fame; sì, è vero, non abbiamo abbastanza da dare loro. Una volta alla settimana la mia associazione prepara mille panini, mille panini, una banana, non è sufficiente, mancano delle cose, enormemente, e oggi quello che vi chiedo non è di regalare le vostre pantofole, ma di regalare, come me, la vostra camicia. Di regalarla, perché queste persone arriveranno in Europa, passeranno, per quanto lunghi siano i muri che vengono costruiti, per quanto profondi siano i fossati, passeranno, sono dietro la porta, il catenaccio sta per saltare. La Grecia ora sta per implodere, ci sono 56.000 rifugiati sul suolo greco, alcune città cercano di nasconderli, per esempio a Giannina li mettono a venti chilometri dalla città, sulle montagne, per non farli essere visibili ai turisti. L’accordo che è stato fatto il 18 marzo è stato congelato dai turchi,

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e a Mitilene vedo imbarcazioni che arrivano, domenica ne sono arrivate sei, le guardie costiere sono riuscite a respingerne cinque, una è arrivata, a bordo c’erano dei siriani, ovviamente, dei bambini, ovviamente, e quando vedi un’imbarcazione come tante che ho visto... nel mezzo si mettono le donne, i bambini, a volte l’imbarcazione non ha benzina a sufficienza, a volte le donne sono state violentate perché non volevano partire a causa delle onde troppo alte, a volte ci sono naufragi, quello che ho vissuto per esempio il 28 ottobre, era un naufragio con... una ventina di bambini, sette sono morti, subito. Negli ospedali pediatrici non ci sono mezzi a sufficienza, non ci sono medici a sufficienza, attualmente stanno aiutando dei bambini che hanno delle pallottole nel corpo, che hanno dei problemi alla colonna vertebrale, che sono sulla sedia a rotelle, e anche loro sono arrivati con la barca, in sedia a rotelle, con dei vecchi, o persone che possono essere... professori all’università, tutte queste persone sono arrivate sulla riva, quando arrivano a riva la prima parola che viene detta, la prima parola che sentono su questa costa europea dopo la loro traversata della morte è la parola più importante per la loro assimilazione, e questa parola per me è ‘benvenuti!’, ‘welcome!’, ‘ahlan wa sahlan!’, una parola di benvenuto, come priorità, dopo gli si può domandare di che cosa hanno bisogno, ma prima di tutto, prima di tutto bisogna dirgli ‘benvenuti!’. Un mese fa ho anche partecipato alla visita del Papa, al suo arrivo gli avevamo consegnato una lista di persone che poteva portare in Italia, ma quello che è successo al suo arrivo è che i sui rappresentanti non hanno tenuto conto di questa lista di persone sensibili, fragili, i rappresentanti del Papa sono andati al campo, hanno bussato ad alcune tende e hanno preso le persone che erano lì. I rifugiati sanno che il Papa ritornerà a prenderne ancora dodici, e mi domandano: ‘Posso andare in bagno? Non verrà proprio ora il Papa...’, perché... ci tengono a partire, ci tengono a partire. Tra le persone che sono partite c’è una donna che si chiama Nur, ha un bambino, Riad, di due anni mezzo, era a casa mia, piangeva, mi diceva che non avrebbe mai dovuto mettere al mondo un figlio durante la guerra, questo bambino è nato, non parlava più, e mentre era nella vasca da bagno con l’acqua calda si è messo finalmente a ridere, così la madre ha guadagnato il diritto all’esistenza di questo bambino, e di se stessa, ora è in Italia, ma parla francese, era stata studentessa di biologia a Montpellier, ma la Francia non l’accetta. Io stessa ho una figlia che è sposata con un siriano, hanno un bambino di tre anni, sono stati cacciati dall’Egitto, dalla Turchia, non accettati

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in Francia, il bambino ha tre anni, è apolide, suo padre è siriano, è un giovane universitario, non sanno dove andranno a vivere, la Grecia li ha accettati, perché la Grecia è un paese d’accoglienza, mia figlia si chiama France, lavora per i rifugiati, ma non è accettata in Francia, e nemmeno suo figlio e suo marito lo sono. Ora gli aiuti arrivano da tutte le parti, da tante persone, che siano toccate sulla loro pelle, come lo sono io... perché ho un nipote che mi dice in quattro lingue ‘mio padre vuole un visto’, ebbene, tutte le persone che sono in Grecia sono pregevoli, ammirevoli. Se ci fosse un premio Nobel per l’umanità io lo donerei alla popolazione della Grecia, ammirevole, perché queste persone hanno svuotato tutto quello che avevano nei loro armadi. Un mattino, ero in riva al mare e un vecchio è andato a cercare l’ultima coperta sul suo divano, ci ha avvolto dentro un neonato e ha ridato il bambino alla madre, era l’ultima coperta che aveva a casa, e non ha soldi per comperarsene un’altra. Come vedete, l’aiuto può essere fatto molto facilmente e volontariamente… sono i poveri che danno di più. C’è un’ultima cosa che tengo a dirvi, ed è che la situazione imploderà. Non ci aspettiamo un’estate radiosa, sappiamo che ci saranno ancora degli arrivi, sappiamo che siamo il bacino dell’Europa, sappiamo che voi avete paura di questi migranti che non sono terroristi, perché scappano dal terrore. Oggi, guardando questi migranti, mentre l’anno scorso vedevo ancora delle persone in buona salute dal punto di vista psicologico, ora vedo la follia, la violenza, la paura. Bisogna assolutamente aiutarli, dobbiamo assolutamente distruggere i nostri muri, e poi… offrire le nostre pantofole. ‘Coloro che vivono sono quelli che lottano’: Victor Hugo, I castighi. I castighi saranno forse per noi che siamo venuti meno alla nostra storia d’umanità? Grazie”. Riferimenti bibliografici Il testo di Agnès Matrahji è la traduzione del suo intervento alla serata “L’Europe face à la tragédie des réfugiés” organizzata dal giornale online francese “Madiapart” il 26 maggio 2016 al “Théâtre de la Ville” di Parigi. Ringrazio la redazione del giornale per avermi concesso la possibilità di pubblicare l’intervento e Carine Fouteau e Amélie Poinssot per avermi messa in contatto con Agnès Matrahji. Un grazie particolare a Agnès Matrahji per la sua collaborazione. Gli interventi della serata possono essere ascoltati al seguente link: https://www.mediapart.fr/journal/international/dossier/ dossier-leurope-face-la-tragedie-des-refugies

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SOLIDARIETÀ – “Welcome to Germany”, applausi, caramelle e peluches distribuiti ai bambini, bicchieri d’acqua o di thè agli adulti: è il video intitolato Migrant Crisis: First groups of refugees arrive in Munich, pubblicato dalla “Bbc” il 5 settembre 2015 e che ha raggiunto su facebook, ad oggi, 11 giugno 2016, quasi 23 milioni di visualizzazioni. Gesti di solidarietà, dopo la lunga marcia dei migranti dalla stazione di Budapest alla Germania, nei giorni in cui, dinanzi alla sospensione della circolazione dei treni alla stazione di Keleti, voluta dal premier ungherese Viktor Orbán, Angela Merkel annunciava che la Germania avrebbe accolto i rifugiati. Qualche mese prima, all’inizio di giugno, sebbene meno eclatante e spettacolare, quando il comune di Milano aveva fatto un appello ai residenti per portare beni di prima necessità alle migliaia di profughi in arrivo dalla Sicilia, anche in quel caso la risposta solidale si era immediatamente fatta sentire. Un “eccesso di solidarietà”, l’aveva chiamata l’assessore alle Politiche sociali del Comune di Milano che qualche giorno dopo il primo appello ne faceva un altro, per chiedere di non portare più nulla alla Stazione centrale e cercare di convogliare direttamente i pacchi di cibo e le montagne di vestiti che avevano invaso la stazione nei centri periferici in cui venivano alloggiati i migranti. Ci sono poi i limoni raccolti nei propri giardini dagli abitanti di Lesbo e offerti ai rifugiati al porto, di cui parla Agnès Matrahji raccontando l’arrivo dei migranti sull’isola, ci sono le tende portate a Idomeni, il corteo di macchine che dall’Austria e la Germania si è diretto verso i migranti in marcia dall’Ungheria, per abbreviare il percorso a piedi dei più affaticati, i pasti serviti a Calais, il campeggio di Ventimiglia, i sacchi a pelo portati alla stazione di Belgrado, le case-sosta aperte da alcune/i lungo la via dei Balcani, i furgoni carichi di vestiti e di cibo che da vari paesi d’Europa hanno raggiunto i migranti in uno degli innumerevoli luoghi-imbuto dinanzi alle frontiere di filo spinato. Ci sono le imbarcazioni-volontarie nel Mediterraneo, sempre più numerose a partire da “Moas”, a cui si sono affiancate le missioni di “Medici senza frontiere”, di “See Watch”, di “Sos Méditerranée”; ci sono, sparsi nel mondo, gli operatori e le operatrici del progetto “Alarm Phone”, ad attendere le telefonate dalle imbarcazioni nel Mediterraneo e controllare l’operato di salvataggio da parte delle guardie costiere; ci sono i progetti di adozione dei minori e i progetti di ospitalità nelle case private; c’è Nawal Soufi, “l’angelo dei profughi”, ad assistere in vari modi i profughi siriani nei loro viaggi, e ci sono diverse persone come lei, come Agnès Matrahji, la cui vita in questi anni è completamente cambiata.

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C’è, dunque, effettivamente, una parte dei residenti europei mobilitata, attiva, con gesti di solidarietà in dissidio con le politiche dell’Unione europea, disposta a cambiare il proprio modo di vivere e a far “entrare” nelle proprie giornate la quotidianità dell’incontro con le donne, i/le bambini/e, gli uomini in arrivo. Non si tratta di un volto nascosto dell’Europa, sotterraneo, invisibile, perché, anzi, si trova spesso descritto, elogiato, esaltato perfino, in innumerevoli articoli, video, immagini, interviste, racconti del discorso mainstream, insieme e a fianco alle parole e alle immagini consacrate agli arrivi dei migranti e alle politiche di “frontierizzazione” dell’Unione europea. Se provo ora a interrogare il profilo di questo volto, non lo faccio con intenzione critica, negativa, e non solo perché io stessa, soprattutto nei primi mesi degli arrivi, ne ho fatto parte, ma anche per l’ammirazione e spesso l’invidia che provo per coloro che hanno saputo immergersi sino in fondo in questa modalità del fare politico. Lo faccio, invece, perché credo valga la pena provare a interrogarsi non tanto sul senso di questo fare – poiché, direi, quel senso è quasi immediato, “banale”, come banale e immediato può essere il sentimento di opposizione a una gerarchia delle vite sempre più accentuata che impone l’affogare degli uni e/per lo stare degli altri – quanto piuttosto sulla sua capacità di incidenza, di scardinamento, sulla sua efficacia di opposizione a ciò che sta accadendo. Si tratta sicuramente, innanzitutto, di un modo di concepire il proprio fare politico molto diverso rispetto alle modalità consuete negli ultimi vent’anni ai movimenti dell’orizzonte antirazzista. Non più di opposizione diretta, non più di rivendicazione, pratiche, quest’ultime, ormai soltanto residuali dinanzi ai muri sempre più elevati e resistenti, indistruttibili, che le politiche migratorie dell’Unione europea hanno saputo erigere per ridisegnare le gerarchie tra le vite degli esseri umani. Quando, anzi, quelle pratiche un tempo consuete di opposizione si fanno ancora vedere, sono del tutto minoritarie, e, soprattutto, quando quelle rivendicazioni si fanno ancora sentire, sembrano parlare un linguaggio anacronistico, perché anacronistica è la loro immagine degli interlocutori a cui per una sorta di inerzia, priva di capacità di invenzione e innovazione, continuano ancora a rivolgersi. “Corridoi umanitari”, per esempio, è una delle parole d’ordine rivendicate negli ultimi anni. Ma a chi si chiedono? A quali soggetti? dal momento che l’Unione europea e i suoi stati membri hanno mostrato pienamente il loro lato mostruosamente murato e le agenzie e le organizzazioni internazionali, braccia esecutive delle politiche europee negli anni pas-

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sati, flebilmente più critiche rispetto alle scelte di chiusura degli ultimi anni, dipendono, comunque, da queste scelte? Certo, si potrebbe obiettare, rivendicare non vuol dire immediatamente e solamente ottenere. Per Judith Butler, per esempio, c’è un aspetto performativo nella rivendicazione, ma lo affermava quasi un decennio fa dinanzi ai milioni di “undocumented” che lungo le strade di Los Angeles, San Francisco e delle altre città degli Stati Uniti manifestavano il loro diritto ad esserci, a stare lì, e già allora l’esaltazione dell’atto performativo era possibile solo tralasciando lo scarto tra la rivendicazione del proprio diritto a manifestare e quella del proprio diritto al documento. Ma se già un permesso di soggiorno difficilmente si lascia performare, se non come succedaneo simbolico da esibire nel corso di una manifestazione, lasciando poi chi lo esibisce alla sua faticosa quotidianità di “sans papier”, un “corridoio umanitario”, un corridoio umano, un corridoio, implica attori internazionali, accordi tra stati, ambasciate, selezioni di chi far passare, scelte politiche da parte dei poteri e una volontà di attuazione di tali scelte che solo i poteri possono mettere in atto, quegli stessi poteri che nel corso di questi ultimi due anni hanno parlato all’unisono con quella lingua delirante il cui unico senso è proprio quello di non far passare. “Corridoio umanitario” resta, dunque, una parola testimoniale, e contraddittoria, persino nella sua testimonialità, perché evoca l’immaginario di un altro mondo sapendo che non sarà possibile, dal momento che per cominciare a costruirlo ci sarebbe bisogno di quegli stessi poteri che muro dopo muro e accordo dopo accordo ridisegnano il mondo reale privo di corridoi e ricco di cimiteri. Si tratta, in realtà, di una sorta di inganno, su cui non si ha voglia di interrogarsi sino in fondo, perché chiede all’Europa di essere diversa da quello che è, in modo ostinato, con il rischio che alla fine quel rivendicare sia “conservatore”, legato all’idea della possibilità di una “buona Europa” che si nasconderebbe chissà dove, pronta a riemergere, tra le fondamenta di una costruzione neoliberale e reazionaria che mostra sfacciatamente la sua fede fondamentalista in una nuova configurazione delle gerarchie tra gli esseri umani. Ho partecipato per molti anni a questa modalità del fare politico antirazzista, parlo dunque, parafrasando Peter Handke, “dall’esterno dell’interno”, e con un sentimento di amarezza, perché ne ho vissuto sino in fondo anche le fasi ormai evidentemente residuali, nell’incapacità collettiva di interrogarsi su che cosa stesse cambiando e su come modificare le proprie pratiche dinanzi al cambiamento. Come l’Eu-

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ropa, o meglio, come i poteri dell’Europa, anche “noi” – coloro cioè che facevano parte di quel movimento – in un certo senso, siamo stati travolti dall’arrivo dei migranti. O dalle nostre retoriche sull’arrivo dei migranti, sulla loro capacità di riconfigurare le cittadinanze, di spezzare le frontiere, di tratteggiare un nuovo paesaggio in opposizione sempre vincente rispetto alle politiche europee di governo delle migrazioni. Certo, non si trattava soltanto di retoriche, il paesaggio sociale, politico, economico europeo era effettivamente stato modificato dalle migrazioni, nel giro di qualche decennio, soprattutto nei paesi di scarsa tradizione migratoria come quelli del sud d’Europa, ma non solo; di mezzo, inoltre, c’erano state le “primavere arabe” e la loro travolgente capacità di sommuovere le configurazioni reazionarie e dittatoriali degli spazi, una capacità che era sconfinata anche verso l’Europa con i movimenti dei migranti tunisini. Ma così come stava accadendo nelle piazze delle rivoluzioni, dove antichi/nuovi attori di altre idee di “rivoluzione” guadagnavano i loro spazi di visibilità e agibilità, mentre alcuni degli attori dei primi grandi sussulti continuavano a ignorarli e a descrivere la ristagnazione del paesaggio politico come una “fase del processo rivoluzionario”, anche “noi” abbiamo ignorato qualcosa. Per esempio, che le persone in arrivo erano velocemente cambiate, che a trascinarle dalla Libia all’Italia dapprima, e un po’ alla volta anche dalla Turchia alla Grecia, non erano più i respiri delle rivoluzioni ma l’aria soffocante delle guerre e delle dittature, o quella altrettanto soffocante di spazi di invivibilità economica. Così come abbiamo in parte voluto ignorare che a intraprendere quei viaggi erano in tanti, sempre più numerosi, e che dinanzi alle scelte politiche dell’Unione europea non era più sufficiente, dunque, criticare le sue retoriche sui numeri e le false invasioni. Non perché si trattasse ora davvero di un’invasione: l’Unione europea non era cambiata, restava un insieme di 28 stati membri con i suoi 507 milioni di abitanti, con l’aggiunta dell’adesione della sola Croazia nel 2013. Ma perché arrivando in quel modo, grazie alle “lungimiranti concessioni” delle politiche migratorie che continuavano a produrre “naufraghi” – morti, “dispersi”, o sopravvissuti – al posto di esseri umani, i migranti, i profughi, i rifugiati, ponevano effettivamente un problema di gestione delle loro vite al momento dell’arrivo, così come nei mesi e negli anni successivi. Distribuire limoni, coperte, bottiglie d’acqua, abiti e un po’ di cibo tra i porti greci e siciliani, i giardini e la stazione di Milano, matite colorate e peluches per far giocare i bambini, portare tende

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nei luoghi-imbuto, proliferanti dinanzi alle barriere al passaggio che i singoli stati cominciavano a frapporre, erano i primi gesti politici, dapprima soltanto scoordinati, in una sorta di anarchica immediatezza, e solo nel corso del tempo via via sempre più organizzati, necessari dinanzi a quel cambiamento. A questi primi gesti di solidarietà, si sono poi affiancate iniziative che richiedevano una maggiore capacità di coordinazione, come l’Alarm Phone del network “WatchTheMed” e le costosissime missioni di alcuni soggetti privati o di alcune Ong nel Mediterraneo. Certo, dinanzi alla mostruosità sempre crescente di quel “governo dei sopravvissuti” che l’Unione europea ha messo in atto, quei gesti di solidarietà sono stati sempre, tutti, gesti di rottura, in dissidio rispetto all’orizzonte del disumano: la configurazione di un altro orizzonte, nel tentativo di ristabilire l’umano e riconoscere uomini, donne e bambini/e al posto di “sopravvissuti”. Un orizzonte, inoltre, che andrebbe maggiormente indagato anche nelle sue diversità interne, nelle sue capacità di maggiore o minore autonomia rispetto al “governo dei sopravvissuti” e nelle sue maggiori e minori compromissioni, o complicità, con esso. Complicità, compromissioni, autonomia. Complicità, sì, persino, o connivenza. Quando, per esempio, nei gesti di solidarietà si imitavano e ripetevano le pratiche più consuete al “governo dei sopravvissuti” piuttosto che al riconoscimento degli esseri umani. La richiesta di mettersi in fila prima di iniziare a distribuire qualche bicchiere d’acqua, una merendina, una banana, ai migranti/profughi/rifugiati in arrivo, come ho visto fare alla stazione di Milano. O i gesti “educativi” della distribuzione del cibo o dell’acqua solo dopo l’iscrizione alle liste dell’attribuzione dei posti-letto gestite dalle Ong che avevano l’appalto con il Comune di Milano. Continuo nell’elencazione facendo riferimento solo a Milano, perché è lì, prevalentemente, che ho partecipato alle pratiche di solidarietà. Il sospetto diffuso, tra i/le volontari/e, che alcuni migranti/profughi/ rifugiati chiedessero “troppo”, una merendina in più, due bottiglie d’acqua al posto di una, una seconda porzione di pane e formaggio, del tutto speculare al sospetto preliminare rispetto ai richiedenti asilo – sospettati tutti di essere i “questuanti” di uno status che non gli spetta – con cui le commissioni degli stati membri dell’Ue o l’Unhcr gestiscono le concessioni dello status di rifugiato. Il gesto, razzista e coloniale, di ordinare di mettersi in fila per uno davanti al banchetto della distribuzione a un gruppo di migranti eritrei e etiopi, uomini, e iniziare la distribuzione delle banane prendendo la mano del pri-

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mo, poggiandola sul tavolo e dandogli una “bacchettata di banana” prima di consegnargliela con una pacca sulla spalla, a rimarcare il proprio potere di “volontario amico” dopo il gesto punitivo e ammaestratore. Compromissioni, pure. Necessarie, in alcune circostanze, inevitabili, addirittura, in altre, come nel caso della risposta al nuovo appello fatto dal Comune di Milano nel settembre del 2015, quando decine di persone si sono recate al centro di via Corelli, ex-centro di detenzione, trasformato negli ultimi mesi del 2014 in Centro di accoglienza per fare spazio alla pressione dei migranti/profughi/rifugiati in transito a Milano, per portare lì, dinanzi all’architettura ancora detentiva dell’accoglienza, generi di prima necessità: un aiuto non solo alle persone in transito nel luogo, ma anche agli enti gestori del centro, tra cui la società francese Gepsa, specializzata nella gestione privata dei penitenziari francesi, permettendo loro di spuntare alcuni costi di gestione. E autonomia. Perché dopo i primi mesi di anarchica immediatezza, la solidarietà ha trovato, in alcuni casi e in alcuni luoghi, la capacità di coordinarsi con modalità di maggiore opposizione rispetto al “governo dei sopravvissuti”. Resta, comunque, il dubbio e la necessità di interrogarsi su un’autonomia pur sempre limitata, di “scarto”, per così dire, inevitabilmente interna all’orizzonte di quel governo. Le navi nel Mediterraneo che soccorrono i migranti, per esempio, si coordinano necessariamente con le varie operazioni europee, Frontex, Eunavfor Med, le guardie costiere. E rimangono così subalterne rispetto a quella cornice umanitaria e militare e sempre più in stato di guerra, senza riuscire a spezzarla, poiché salvano esseri umani già trasformati, comunque, in naufraghi e sopravvissuti. Gli operatori e le operatrici che agiscono quando dalle acque arriva una chiamata di soccorso, hanno uno spazio d’azione molto limitato: quello di chiamare a loro volta i mezzi dispiegati nel Mediterraneo dalle politiche europee responsabili della trasformazione di quel mare in cimitero. Forse non è un caso, allora, se i gesti di “solidarietà in dissidio” con le politiche dell’Ue si trovano ad essere raccontati, elogiati e talvolta esaltati non solo dal discorso mainstream ma persino dalle parole ufficiali dell’Unione europea accanto alle sue “parole del delirio”. Con il rapido gesto di una sussunzione in appoggio a quest’ultime: la delineazione del volto di una “buona Europa” che continua a non smentire se stessa, per quanto, invasa da quegli “umani sopravvissuti” debba escogitare modi “coraggiosi” per lasciare che vivano, soprav-

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vivano, muoiano altrove, al di là delle sue frontiere. Così, prese nelle pieghe di questo gesto di sussunzione, quelle “solidarietà in dissidio” rischiano di essere tutte complici, anziché dirompenti, della costruzione di una nuova narrazione europea, scritta sul solco della narrazione precedente, quando l’Europa era uscita dall’autodevastazione della Seconda guerra mondiale; una narrazione fatta non più, ora, dalle rovine delle città sotto un cielo di bombe, ma dalle rive dinanzi a un mare di corpi, morti, “dispersi”, sopravvissuti. Come tutte le narrazioni, anche quelle mitiche hanno i propri protagonisti e personaggi secondari. E in quella attuale, accanto alle figure dei “buoni soldati” in guerra con i trafficanti per salvare le “vittime” del traffico criminale, rischiano di apparire proprio quelle donne e uomini “in dissidio”, “buoni europei” armati di solidarietà. “Solidarietà in dissidio” le ho chiamate. Evocando una nozione filosofica ormai desueta e quasi dimenticata. È la nozione usata da Jean-François Lyotard, in un testo del 1983, in cui la nozione di “dissidio”/“différend”, che dava il titolo al libro, compariva all’interno di una riflessione sul linguaggio e veniva definita così: “Il dissidio è lo stato instabile e l’istante del linguaggio in cui qualcosa che deve poter essere messo in frasi non può ancora esserlo”. Provando a tratteggiare i rischi e le ambiguità delle politiche di solidarietà, infatti, non è mia intenzione distanziarmi da esse, in toto, con un gesto di supponenza che le lascia e le abbandona alla loro possibile/inevitabile sussunzione da parte delle politiche dell’Ue. “Nel dissidio”, continuava Lyotard, “qualcosa ‘chiede’ di essere messo in frasi e soffre del torto di non poterlo essere immediatamente”, e nel sentimento di pena che accompagna il silenzio, nella ricerca di un nuovo idioma per quel qualcosa che eccede il linguaggio disponibile, l’esperienza degli esseri umani è che è il linguaggio a “chiederli”, non loro che si servono di esso. Difficile immaginare quali potrebbero essere i nuovi idiomi, le nuove forme politiche, capaci di vincere il sentimento di pena che accompagna l’attuale silenzio. Ma credo sia solo attraverso questo sforzo immaginativo che ci viene “chiesto” non dal linguaggio, ma dal brusio delirante degli eventi, e interrogandosi sino in fondo sul proprio impegno solidale, riconoscendolo come forma insufficiente al silenzio, una forma attraversata dall’inevitabilità di quella sussunzione, che la nostra complicità con il “governo dei sopravvissuti” potrà essere evitata.

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Riferimenti bibliografici Il video Migrant Crisis: First groups of refugees arrive in Munich si trova a questo link: http://www.bbc.com/news/world-europe-34162844. Il libro su Nawal Soufi è di Daniele Biella, Nawal. L’angelo dei profughi, Edizioni Paoline, Pavia 2015. Il libro di Butler a cui faccio riferimento è Judith Butler e G. Chakravorty Spivak, Che fine ha fatto lo stato-nazione? (2007), tr. it. A. Pirri, Meltemi, Roma 2009. Il libro di Handke è Peter Handke, Il mondo interno dall’esterno dell’interno (1969), tr. it. di B. Bianchi, Feltrinelli, Milano 1980. Per le frasi sul dissidio, cfr. Jean-François Lyotard, Il Dissidio (1983), tr. it. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 1985, p. 30.

“RAGAZZE DELL’EUROPA” – Estate 2014. Hanno dormito nella stessa stanza, distese sul pavimento sopra a qualche telo e a qualche coperta, con pochi cuscini, non sufficienti per tutte. Fa caldo, già di primo mattino, e loro rimangono lì, ancora distese o sedute e iniziano a prepararsi con calma aspettando i lunghi minuti trascorsi in bagno a farsi la doccia da ognuna delle compagne. Si pettinano a lungo mentre io cerco di improvvisare una colazione, senza thè o caffè perché a casa non c’è lo zucchero e loro mi guardano incredule mentre sorseggio una tazza di thè non zuccherato. Ho qualche biscotto, un po’ di pane del giorno prima, del latte, yogurt che non bastano per tutte, ma alla fine preferiscono solo un bicchiere d’acqua. La panetteria sotto casa è chiusa, è un giorno d’agosto, inutile scendere a cercare di recuperare qualcosa. Con una riesco a scambiare qualche parola in inglese, le altre non ho capito bene che lingua parlino e da dove vengano. Pensavo fossero tutte eritree, e amiche, ma non deve essere così perché il prefisso segnato sul mio account skype la sera prima indicava il Sudan mentre una di loro parlava con la madre. Era la prima telefonata in cui si sentivano dei toni gentili e commossi dall’altra parte e in cui il volto della ragazza che chiamava aveva ritrovato dei tratti distesi, non preoccupati per le parole che sentiva pronunciare. Mentre l’osservavo a parlare con la madre, immaginavo che l’avesse chiamata proprio per questo, per sentire quella voce accogliente, dopo due o tre chiamate a cui nessuno aveva risposto e l’ultima in cui una voce assonnata esprimeva tutta la propria reticenza nel tono ancora dormiente con cui continuava a pronunciare le parole dopo aver sentito il nome di chi la stava chiamando. Era la voce di un uomo, in Svizzera, un parente,

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evidentemente, e con altrettanta evidenza non molto felice di sentirla e di saperla a pochi chilometri di distanza, pronta a partire il giorno dopo per raggiungerlo e installarsi almeno per un po’ a casa sua. In modo non molto diverso avevano risposto le voci alle chiamate fatte dalle altre. Alla fine di ogni chiamata ognuna comunicava la propria delusione alle amiche o alle compagne di viaggio, o, più semplicemente, alle compagne di coperta, lì, quella sera trascorsa a casa mia. La chiamata terminava e i piani cambiavano, le partenze venivano rinviate e l’Europa si ridisegnava velocemente nel loro immaginario di destinazione, non più la Svizzera, ma forse la Germania, non la Germania ma forse la Danimarca, non i parenti più prossimi, ma qualche parente lontano, non i parenti lontani ma forse qualche amico o amica in Olanda, o forse sole, spostando le pedine mentali su quella carta geografica aperta e vasta all’inizio, prima che io aprissi il computer permettendo loro di cercar di programmare le proprie esistenze con quelle chiamate skype, e più ristretta e limitata dopo aver comunicato il proprio arrivo a chi, evidentemente, non le aspettava. Ora, però, è mattino e sono intente alla cura del proprio corpo, una di loro estrae da un sacchetto di plastica una trousse di ombretti quasi sciolti e il resto di un rossetto che cerca di recuperare con le dita e inizia a spalmarselo sulle labbra. Le porgo uno specchio, contenta di poter offrire finalmente qualcosa di gradito a quelle cinque ragazze digiune che avevano appena rifiutato, con una smorfia di disgusto dopo il primo assaggio, anche le fette biscottate su cui avevo spalmato un po’ di philadelphia. Capisco allora che posso diventare ospitale in altro modo: niente cibo, niente bevande perché manca lo zucchero, niente letti perché a casa mia ce n’è uno solo, ma forse qualche borsetta che non uso molto, un paio di scarpe, delle magliette, qualche matita per gli occhi e persino un rossetto. Cominciano a guardare le cose che porto loro, a provare le scarpe, a indossare le magliette, a scambiarsele l’un l’altra e a togliersi quelle che indossavano prima mettendole in un sacchetto di plastica come rifiuti, ritorno nella stanza da letto e rovisto meglio nell’armadio, sono tante e mi metto a cercare anche tra le cose che uso abitualmente, per dare a ognuna qualcosa. Dopo questo rito di scarpe, magliette, pantaloni, matite e rossetti, sembrano essere quasi pronte e io dovrei riaccompagnarle ai giardinetti. Qualcuna è già in piedi e sta ripiegando le coperte. Chiedo alla ragazza che parla l’inglese se hanno bisogno di qualcosa prima di uscire definitivamente, si rivolge alle altre, riflettono insieme e poi mi chiede se ho dello smalto.

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Smalto! Hanno attraversato il deserto, sostato in Libia, solcato il Mediterraneo per arrivare a Lampedusa, ora sono qui a Milano senza alcun progetto preciso per il giorno dopo e per la loro esistenza futura, ma lo smalto per unghie è la cosa di cui hanno bisogno nel loro presente. Vado in bagno, prendo il mio smalto color ciclamino, lo porto nella stanza e loro si risiedono a terra e iniziano a dipingersi lentamente le dita delle unghie e dei piedi. Ma il contenuto della boccetta non basta per tutte. Usciamo. Ci avviamo verso i giardinetti di Porta Venezia, lungo corso Buenos Aires c’è un negozio della Kiko, entriamo, dico loro di scegliere una o due boccette di smalto, discutono insieme sui colori, ne scelgono uno verde e uno lilla, vado alla cassa, aggiungo un flacone di solvente e un sacchetto di cotone, perché, se lo smalto è essenziale, anche poter correggere gli errori dà un tocco di normalità alla propria esistenza. Usciamo dal negozio e ci dirigiamo verso un bar per fare colazione. La proprietaria del bar è eritrea, parla con loro mentre si dipingono le unghie, poi con me in italiano. Non sanno bene dove andare, resteranno ancora per qualche giorno ai giardinetti, solo tre sono amiche e hanno fatto il viaggio insieme, non tutte sono eritree. Hanno terminato di bere il cappuccino e di mangiare le brioches e si vede che hanno voglia di uscire, le saluto, lasciandole andare, i giardinetti sono vicini, conoscono la strada e io ho voglia di continuare a parlare con la proprietaria del bar e di leggere il giornale. La sera rivedo una di loro ai giardinetti, ha ai piedi i miei sandali viola che avevo comperato al suq della Medina di Tunisi e la mia borsetta a tracolla, ha l’aria meno affaticata della sera precedente, è truccata bene e ha trovato un posto dove dormire. Mi indica le sue due amiche, sedute sui gradini della scalinata, le riconosco per le cose familiari che indossano perché anche loro nel corso del pomeriggio si sono trasformate. Mi fanno un cenno di saluto, ma rimangono a chiacchierare con altri, non si avvicinano. Nei giorni successivi non le rivedo più, immagino che nonostante quelle telefonate skype a casa mia non abbiano “perso la strada” e siano riuscite comunque a trovare “un passaggio per andare più in là” (Gianna Nannini, Ragazzo dell’Europa). NAUFRAGI – Solitamente, dinanzi alla morte, quando qualcuno suppone che essa riguardi una certa collettività (altro è il caso del lento lavoro del lutto personale), si chiede collettivamente, in determinate circostanze, di rispettare il rito – più o meno retorico e più o meno

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neutralizzante – di un minuto di silenzio. Presuppongo, allora, alcuni minuti o una base di silenzio come sfondo del mio discorso: il silenzio per le salme e per i naufraghi di cui parlerò e a cui rinviano le immagini a cui faccio riferimento; il silenzio per i vivi a cui si impedisce l’accesso in Europa e che vengono rimbalzati tra le sue frontiere interne nel caso in cui siano riusciti a varcarne i confini; il silenzio per un certo “noi”, di cui voi ed io in questo momento facciamo parte, dal momento che dinanzi a certi accadimenti che evocherò nel mio discorso siamo stati, per ora, capaci di discorso, anzi di una proliferazione di discorsi (anche visivi, non solo di parole) ma non di azioni collettive consone a quel sentimento di urgenza che ci impone il presente. Naufragi. Per scrivere questa “parola del delirio”, la più delirante, scelgo di pubblicare un testo già uscito, che era a sua volta la rielaborazione di alcune riflessioni scritte per un seminario nel maggio del 2014, e che ripresento qui perché le domande che poneva conservano, almeno per me, la loro attualità. Lo faccio, aggiungendo una breve premessa rispetto all’utilizzo del “noi”. A quel “voi” e “io” che ho già lasciato che si insinuasse parlando del silenzio e che, a differenza di quello evocato nella prima parte di questo libro, non sono io a convocare attraverso la scrittura, ma è già lì, formato dalla diffusione di alcune immagini dei naufragi di cui tutte/i, o quasi tutte/i, almeno in Italia, siamo state/i spettatrici o spettatori. Immagini che ci “fanno vedere tutto” e con cui le attuali forme di potere in grado di riconfigurare come “solo naufraghi” degli esseri umani, in quanto non legittimati nei loro desideri o necessità di movimento, li consegnava a “noi”, spettatrici e spettatori sulla sponda, nel mentre del loro naufragare. Lo faccio, inoltre, con il sentimento che per questa “parola del delirio”, la più delirante, resta un fondo muto, al di là di tutti i silenzi che si possono evocare e chiedere di rispettare. Qualcosa di non trattabile, che ha iniziato a imporsi dai primi naufragi e che è via via cresciuto, che qui in Europa disegna come il profilo naturale delle sue frontiere, un “elemento naturale”, una sorta di respiro, un’aria che tutte/i “noi” respiriamo. Immagini. Non c’è immagine senza una “mediazione tecnica”, senza un apparecchio; ma l’apparecchio tecnico è condizionato da un apparato di potere, afferma Didi-Huberman in uno dei suoi numerosi testi dedicati al rapporto tra immagini e storia. Scelgo alcune immagini in cui questa considerazione è del tutto evidente per il semplice motivo che nessuno di noi avrebbe potuto produrre quelle immagini senza una previa autorizzazione istituzionale. E scelgo queste immagi-

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ni rispetto al naufragio del 3 ottobre 2013 perché è la data di un naufragio che, per le modalità in cui è avvenuto – centinaia di corpi che hanno sommerso la terra per la vicinanza in cui sono naufragati – ha rappresentato un elemento di cesura rispetto ai tanti e troppi naufragi del Mediterraneo, ma anche perché è la data di una cesura nella diffusione o nel “rilascio” di immagini che gli apparati di potere avevano sino allora prodotto e diffuso nei loro racconti delle migrazioni. Bare, una fila di bare nell’hangar dell’aeroporto di Lampedusa, per alcuni giorni (immagini 1, 2); il premier italiano Enrico Letta, in ginocchio davanti alle bare dei bambini, durante la visita a Lampedusa insieme ai rappresentanti delle istituzioni europee, il 9 ottobre 2013 (immagine 3); poi “un naufragio in diretta”, il naufragio dell’11 ottobre 2013, nel video diffuso dalla Marina militare qualche giorno dopo (link-video 1); e, da ultimo, pubblicato dal quotidiano “la Repubblica” nel maggio del 2014, il video dei corpi sommersi dal mare, dentro o vicini al relitto del naufragio del 3 ottobre 2013 (link-video 2). Oltre a questo gruppo di immagini farò riferimento a un’immagine che in Italia e in Europa si conosce meno: “donne fotografie” (immagine 4) che in Tunisia si sono imposte nella vita pubblica e politica del postrivoluzione e di cui dirò qualcosa soltanto alla fine. Immagini di due piani discorsivi diversi, che provo a mettere insieme per provare a fare alcune riflessioni.

1. Lampedusa, 5 ottobre 2013. Foto di Alberto Pizzoli (Gettyimages).

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2. Lampedusa, 5 ottobre 2013. Foto di Tullio M. Puglia (Gettyimages).

3. Lampedusa, 9 ottobre 2013. Fermo immagine. © Union européenne 2013. Fonte: CE – Service audiovisuel.

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4. Tunisi, manifestazione davanti all’Ambasciata italiana, 2013.

Partiamo dunque dal primo gruppo di immagini: le bare (immagini 1 e 2), le istituzioni europee nei loro massimi rappresentati dinanzi a quelle bare (in scala, i vertici dell’Europa, il vertice dell’Italia, il vertice dell’isola e il premier italiano in ginocchio) (immagine 3); il naufragio in diretta (link-video 1); i morti in fondo al mare (link-video 2). A partire da queste immagini alcune considerazioni. Vorrei richiamare l’attenzione, innanzitutto, sull’idea di “mai più” prodotta con queste immagini e dai commenti da cui sono state accompagnate, lo stesso piano dei discorsi più propriamente linguistici articolati dalle istituzioni, ma non solo, dopo il 3 ottobre 2013. Ovviamente, come ogni “mai più”, si tratta della rievocazione di un altro “mai più” che segna la costruzione della memoria collettiva europea dopo la Seconda guerra mondiale e la distruzione degli ebrei e dei rom d’Europa attraverso lo strumento dei campi di concentramento e sterminio. Una sorta di automatismo dell’evocazione della Shoah, o meglio, della reazione e anche della costruzione della reazione alla Shoah, quando un presente presenta – rispetto a una portata di violenza – un momento di scarto rispetto al piano di “normalità” della violenza. Dopo il 3 ottobre 2013, mi sembra che siano molti gli elementi che vanno in questa direzione anche per quanto riguarda il piano del-

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la produzione visiva. Proverei a indicarli in questo modo: 1) il proliferare di immagini, non saprei come chiamarle, di immagini-impatto, provo a chiamarle così, immagini-arresto; e rispetto a questo ricorderei che la Shoah segna nel Novecento il momento apice di questa costruzione del visivo-impatto o del visivo-arresto; 2) il modo in cui il potere istituzionale accompagnato da quello mediatico ha organizzato le proprie immagini: svelando l’orrore sino in fondo verso un piano di ammutolimento; e su questo richiamerei le molteplici riflessioni prodotte negli ultimi decenni sulla modalità con cui l’apparecchio tecnico – la fotografia, il cinema – è stato convocato dagli apparati di potere degli Alleati nella costruzione di uno svelamento dell’orrore della Shoah proprio in questa direzione. Producendo, in un certo senso, delle immagini intoccabili o eticamente non-commentabili e non a caso “decostruite” solo a distanza di anni; 3) il gesto del premier italiano, Enrico Letta, in ginocchio dinanzi alle bare, come il cancelliere Willy Brandt nel dicembre del 1970 dinanzi al monumento alla resistenza del ghetto di Varsavia; 4) la presentazione dell’operazione “Mare Nostrum” attraverso l’umanitario-militare, incancellabile rievocazione della guerra umanitaria contro la Serbia, nel 1999; quindi, in questo caso, una rievocazione al secondo livello, rievocazione di una rievocazione, dal momento che per mobilitare la guerra contro la Serbia già allora il ricordo e l’uso della Shoah avevano fatto la loro comparsa in Europa; 5) da ultimo, la richiesta, questa volta non istituzionale, ma fatta da un Comitato di persone che si sono riunite sotto la denominazione “Comitato 3 ottobre” e accolta da Letta mentre era ancora premier, di istituire il 3 ottobre come un giorno della memoria. E su questo ci sarebbe tutta una serie di considerazioni da fare sul modo in cui il 27 gennaio, data della liberazione del campo di Auschwitz da parte delle truppe sovietiche, sia stato istituito in Italia come primo giorno della memoria e sulle neutralizzazioni che nel corso degli anni esso ha comportato proprio rispetto all’evento che si propone di celebrare. Dopo questa prima considerazione, sull’articolazione del “mai più”, l’altra considerazione che vorrei proporre si riferisce ai due video, quelli del “naufragio in diretta” (link-video 1) e quello dei corpi morti in fondo al mare (link-video 2). Una considerazione, dunque, rispetto a quella che Susan Sontag, rispetto ad altre immagini, ha indicato come un’intimità con la morte a cui lo spettatore viene chiamato. L’ultimo video (link-video 2), in particolare, è un’immagine che pretende di trasmettere la violenza di ciò che è accaduto imponen-

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doci il silenzio. Cosa dire, infatti, dinanzi a quei corpi lì, in fondo mare? Immagini, però, che silenziandoci, silenziano, per così dire, anche ogni possibilità di commento critico non di ciò che si vede ma di come lo si vede e del perché lo si veda. Eppure, come ogni immagine, anche queste sono immagini costruite e quindi, dopo il silenzio, provo a porre alcune domande: che tipo di sguardo è quello che prima del nostro guarda e filma? Perché quello sguardo, o meglio, perché coloro che l’hanno prodotto decidono a un certo momento (a mesi di distanza) di farlo diventare sguardo collettivo, sguardo anche di altri/e, che certo non avrebbero potuto vedere nello stesso modo? Quali sono “gli/le altri/e presupposti/e” e quali sono “gli/le altri/e negati/e”, o non tenuti/e in considerazione, in questo gesto di condivisione? Con “altri/e presupposti/e” e “altri/e negati/e” nella scelta di condivisione delle immagini mi riferisco a questa constatazione: si può, infatti, discutere ed essere di diversi pareri rispetto alla scelta da parte della Guardia costiera e del quotidiano “la Repubblica” di pubblicare quel video, è evidente, però, se si considera come le immagini in possesso delle istituzioni vengano rese pubbliche in altri casi di morte, che nel mostrarle non si è tenuto conto dei parenti di quei morti e della loro volontà di vederle e di farle diventare pubbliche. È dunque un tipo di sguardo che, “irrealizzando” l’affetto dei loro parenti, “irrealizza” i morti anche dopo la loro morte, come se intorno ai migranti, alla loro vita e alla loro morte, ci fosse meno affetto di quello che generalmente si presuppone ci sia intorno ad altri esseri umani. Per il naufragio della Concordia, per esempio, non sono state pubblicate immagini dello stesso tipo. Dal che potremmo dedurre che nel caso dei migranti morti la cifra di esponibilità sia diversa per grado e quindi anche per qualità rispetto a quella di altri morti. Si è migranti, in un certo senso, anche da morti perché più esponibili alla visibilità in immagine, più fantasmabili e più soggetti allo sguardo degli altri. Più espropriati dal lavoro delle immagini della “proprietà” del proprio corpo, o più passibili di essere unicamente corpi di proprietà dello stato rispetto ad altri corpi morti, per i quali lo stato norma solitamente un’appartenenza condivisa tra stato e parenti. A chi appartiene il corpo di un morto, in questo caso? Attraverso questo gruppo di immagini, possibili, ripeto, solo come immagini istituzionali, “noi” possiamo sapere tutto di coloro che, esseri umani prodotti come migranti, incorrono in un naufragio: come annaspano nel mare mentre è in corso il naufragio, come arrivano e

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sbarcano dalle navi militari qualche giorno dopo, nel caso in cui siano sopravvissuti, quale sia la lenta procedura del prelievo di parti del corpo per l’eventuale test del Dna, come stanno in fondo al mare dopo essere morti e prima di essere recuperati dai sommozzatori. Attraverso queste immagini, dovremmo dire, i loro corpi ci appartengono, e dal 3 ottobre 2013 in misura esponenziale, quasi il potere che li fa morire volesse condividere con “noi” parte della responsabilità. Attraverso queste immagini, dovremmo dire, i loro corpi ci appartengono e appartengono più a “noi” che ai loro parenti, resi “migranti” rispetto ai loro affetti, fatti “migrare” dall’abituale condivisione del corpo morto con lo stato, resi anonimi, per “noi” e per lo stato, rispetto alla co-appartenenza dei loro corpi e delle loro persone con i corpi morti di coloro di cui sono madri, padri, sorelle, fratelli, mariti, mogli. De-istituzionalizzati rispetto all’abituale istituzionalizzazione dei rapporti famigliari. Un movimento di sottrazione, del corpo del proprio parente e del proprio essere co-implicati dallo stato nel corpo del proprio parente nel caso della sua morte, evidente nel caso delle immagini prodotte dallo sguardo del potere, meno evidente, e più sotterraneo, perché solitamente dopo la morte dei migranti pochi si interrogano su questo, nel caso della possibilità di stabilire che il corpo morto sia quello di un proprio parente. A tale proposito, unicamente un inciso: per cercare di risalire all’identità di quello che gli inquirenti hanno designato con l’appellativo di “ignoto uno”, nel caso dell’assassinio di Yara Gambirasio, nel corso degli anni sono stati eseguiti 18.000 profili e comparazioni del Dna; per procedere allo stesso confronto, anche nel caso dell’identificazione visiva da parte dei parenti, nel caso dei naufragi del 3 e dell’11 ottobre 2013, con molta lentezza la macchina istituzionale si è messa in moto. Inutile provare a immaginare, allora, quanti profili e confronti del Dna siano stati eseguiti prima del 3 ottobre 2013, nel corso degli anni in cui il Mediterraneo si è trasformato in quel cimitero marino che ormai tutti e tutte conosciamo. Ritorno, dunque, alla constatazione, ponendo ora un interrogativo: grazie all’uso condiviso dello sguardo che le politiche delle migrazioni hanno praticato dopo la data del 3 ottobre 2013, i morti di quel naufragio, così come i naufraghi dell’11 ottobre, ai quali nel caso in cui siano sopravvissuti al loro annaspare presuppongo non sia stato chiesto il loro parere sulla rappresentazione pubblica dei loro corpi in mezzo al mare, i corpi di tutti loro, morti e alcuni, pochi, forse vivi, sono più “nostri” che loro o dei loro parenti. Sono più nostri come corpi “in

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immagine”, sottoposti a quel contemporaneo effetto di riproducibilità, esponibilità ed espropriabilità che ogni immagine comporta. Sono più nostri come fantasmi, seguendo il suggerimento di Derrida per il quale il fantasma è un “chi”, non è un simulacro in generale, ha una specie di corpo, ma senza proprietà, senza diritto di proprietà “reale” o “personale”. Sono più nostri come fantasmi, simili nel loro elemento di fantasmaticità a molti altri esseri umani, tutti coloro che vengono prodotti come migranti dalle politiche di governo e controllo delle migrazioni grazie a un lavoro dentro alla fisicità dei loro corpi in direzione di una sottrazione della stessa. Rispetto alle tecnologie attraverso cui le politiche migratorie agiscono nella loro pretesa di frapporre ostacoli al movimento delle persone, infatti, si possono dire molte cose, il loro funzionamento ha però per così dire qualcosa di primario. Nel senso che, per quanto funzionino in modo diverso a seconda dei mezzi tecnici di volta in volta dispiegati, esse non tendono a produrre fisicità ma assenza di fisicità. Direi fantasmaticità. Insisto, però, sui fantasmi delle immagini a cui sto facendo riferimento. Sono più “nostri” e che cosa ce ne facciamo? In quale modo la loro fantasmaticità, ma in generale la fantasmaticità degli esseri umani prodotti come migranti dalle politiche migratorie, ha a che fare con quell’assenza di un senso comune, lo chiamerei così, di responsabilità collettiva, che si aggiunge all’abituale omissione dell’individuazione della colpa di qualcuno, nel caso dei morti del Mediterraneo? Prima di provare a rispondere, o meglio, prima di provare a porre altri interrogativi sulla “responsabilità collettiva”, mi soffermo per ora, un instante, sulla responsabilità individuale. Attraverso le immagini che lo sguardo istituzionale ha riprodotto nella sfera pubblica dopo il 3 ottobre 2013, infatti, la responsabilità individuale, consegnata in parte anche a “noi”, è diventata, contemporaneamente, “collettiva”. Una responsabilità individuale condivisa, dunque, in cui, grazie a un lavoro di costruzione del nostro orizzonte visivo, lo sguardo del potere istituzionale, produttore di corpi migrati dalla loro corporeità, produttore di “specie di corpi, ma senza proprietà” (Derrida), ha deciso di immetterci. Faccio allora riferimento ad alcune riflessioni di Benjamin, filtrate attraverso la loro riproposizione da parte di Derrida. Il quale propone in questo caso un’altra figura dello spettro, incarnata questa volta, e Derrida scriveva mentre la macchina di Schengen era ancora in fase di rodaggio, “da una polizia di frontiera in primo luogo, ma anche da una polizia senza frontiere” a partire da quella

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polizia “senza figura” e “senza forma” (gestaltlos), e per questo senza responsabilità, che Benjamin indicava come cifra di una polizia che “fa la legge” nel suo saggio sulla violenza. Ha a che fare con l’assenza di limiti, di forma, di figura, ha a che fare con la fantasmaticità di un corpo che, per quanto poliziesco, non è un corpo proprio, che quindi non è di nessuno, il fatto che per la produzione delle morti nel Mediterraneo non ci sia, né da parte del potere né da parte del senso comune rispetto al potere, alcuna indicazione di responsabilità? E, ancora, come veniamo implicati “noi” in questa responsabilità o in questa assenza di responsabilità? In questa responsabilità ancora in parte individuale, nel senso di eventualmente individuabile, imputabile, nel caso in cui si riuscisse ad attribuire una proprietà al suo corpo privo di forma, ma già in parte collettiva grazie a quella condivisione di sguardi sulla morte che ho cercato di descrivere. Quali possibilità di opposizione, quali capacità di azione abbiamo per non lasciarci trascinare in quel corpo poliziesco fantasmatico produttore della fantasmaticità dei migranti e dei migranti morti? Ci siamo accorti di questo trascinamento? Siamo stati in grado di reagire? O si tratta di un trascinamento sotterraneo, che avviene a nostra insaputa, che ci rende fantasmi a noi stessi, inconsapevoli del nostro essere tali, e che ci lascia per questo nell’illusione di pensarci solo spettatori/trici, magari buoni/e spettatori/trici con un sentimento di vergogna, di rabbia, forse tramutabile in azione, di fronte a quelle morti? Ora, gli altri interrogativi, rispetto a quella che, sulla scia in questo caso di Arendt, ho introdotto nominandola “responsabilità collettiva” ma senza ancora definirla. La definirò facendo ricorso ad Arendt, perché quello che dice proponendone una definizione mi permette di porre alcune domande, che sento come urgenti per una riflessione collettiva sullo spazio residuo dell’agency politica. In uno dei tanti saggi che compongono la raccolta di scritti Responsabilità e giudizio, Arendt traccia una linea di divisione tra la colpa, sempre individuale, e la responsabilità collettiva. Scrive: “A mio avviso, questo tipo di responsabilità, la responsabilità collettiva, è sempre politica, sia che l’intera comunità si assuma la responsabilità di ciò che ha fatto uno dei suoi membri, sia che una comunità venga ritenuta responsabile di ciò che è stato fatto in suo nome (…). Possiamo sfuggire a questa responsabilità politica e propriamente collettiva solo abbandonando la comunità, e dal momento che nessuno di noi può vivere senza appartenere a una comunità, ciò significa semplice-

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mente che si tratta di cambiare comunità e tipo di responsabilità. È vero che nel Novecento si è assistito alla creazione di una categoria di persone realmente esuli, che non appartenevano a nessuna comunità riconoscibile sul piano internazionale, parlo dei rifugiati e degli apolidi, che in effetti non si possono ritenere responsabili di alcunché. Da un punto di vista politico – individuale o collettivo – costoro sono assolutamente innocenti. Ed è precisamente questa assoluta innocenza che li condanna a restare fuori, per così dire, dell’umanità. [...] Questa forma di responsabilità per le cose che non abbiamo fatto, questo assumerci le conseguenze di atti che non abbiamo compiuto, è il prezzo che dobbiamo pagare per il fatto di vivere sempre le nostre vite, non per conto nostro, ma accanto ad altri, ed è dovuta in fondo al fatto che la facoltà dell’azione – la facoltà politica per eccellenza – può trovare un campo di attuazione solo nelle molte e variegate forme di comunità umana”. C’è, dunque, qualcosa che tocca sino in fondo il soggetto, lo chiama in causa insieme ad altri, in una dimensione di pluralità, e che pure non dipende da quel singolo soggetto, ma dalla sua condizione di abitante del mondo, o meglio, dalla sua condizione di appartenente a una comunità e più in generale alla comunità umana. Di, qui, appunto, per Arendt, la nozione di assoluta innocenza degli apolidi, già presente nel suo lungo lavoro sul totalitarismo, e il luogo che essa assegna loro: “al di fuori” della comunità umana che è contemporaneamente un “al di fuori” della possibilità dell’azione. Tralasciando, però, la problematicità del limbo di inazione in cui Arendt lascia, e sicuramente un po’ abbandona gli apolidi, vorrei soffermarmi solo su quei soggetti che, non “al di fuori” della comunità umana, sarebbero a suo avviso capaci di azione. C’è qui un movimento sottile che toglie al singolo il suo posto proprio, lì dove è chiamato in causa come parte della comunità umana. Una confusione delle singolarità, o meglio ancora una confusione dei pronomi tra il pronome di prima persona singolare e quello di prima persona plurale. C’è responsabilità collettiva perché c’è un ionoi e in fondo è questo ionoi che costituisce la comunità umana. Il prezzo da pagare per stare dentro alla comunità umana è quello di una responsabilità che ci permette di essere singoli ma contemporaneamente, se non superflui, nella confusione, nella compenetrazione, tra l’io e gli/le altri/e, al di fuori di questo c’è la vera linea della superfluità, quella dell’assoluta innocenza priva di azione. Lì, però, si apre un altro luogo, quello circondato dal filo spinato o, sempre con parole di Arendt, quello di un altro mondo.

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Ho un luogo, un mio posto nella comunità umana, si potrebbe continuare, assolutamente diverso da quello del campo, perché il mio posto è già quello dell’altro/a o il posto e il luogo dell’altro/a è già mio. In questo senso, il tentativo che da alcuni anni sta facendo Judith Butler verso un’ontologia, un’etica e una politica della “vulnerabilità” incontrano il pensiero arendtiano anche su questo punto: in una delle sue ultime conferenze, pronunciata in occasione del conferimento del premio Adorno, dove ripropone l’interrogativo morale di quest’ultimo rispetto al nostro presente e dove tra l’altro si pone in una posizione molto critica rispetto alla divisione arendtiana tra vita privata e vita pubblica, la risposta che Butler individua alla domanda “come vivere una vita buona in una vita cattiva” passa attraverso il riconoscimento di una forma di vita sociale in cui la vita di ognuno implica quella dell’altro/a. Per questo, perché si è sempre implicati insieme, perché, seguendo altre indicazioni di Butler in altri suoi scritti, non possiamo mai dare conto di noi se non implicando gli/le altri/e, anche la domanda etica sulla nostra vita, una buona vita, non può che incontrare la domanda politica sulle vite degli/delle altri/e, e sulle attuali forme con cui i poteri amministrano in maniera diversificata le vite umane. È la distribuzione politica del lutto, come è noto, quella che Butler da ormai più di un decennio sceglie per indicare la linea di confine tra vite e vite nella condizione politica della nostra contemporaneità. Dar conto di sé, si potrebbe dunque dire, o meglio, tener conto di sé, della propria vita, del modo o della forma della propria vita, buona/ cattiva, vera/falsa, giusta/ingiusta, significa anche tenere o dare conto degli/delle altri/e. E anche in questo caso è in questione il prezzo. “A quale prezzo ognuno di noi viene prodotto come soggetto?” è il modo in cui Butler riformula, infatti, la domanda che Foucault individuava al fondo di quell’attitudine critica che egli indicava nell’arte di non essere “talmente governati”, “così, in questo modo, a questo prezzo”. Una questione di prezzo, dunque, dove l’io incontra gli/le altri/e, si confonde con loro. Una questione di prezzo: il prezzo della responsabilità collettiva in Arendt, il prezzo del soggetto prodotto come degno di lutto a scapito di vite precarie più di altre o di soggetti non riconoscibili, disprodotti, in Butler. Una questione di prezzo che, soprattutto per Arendt, segna anche la linea di confine tra la possibilità dell’azione e quel “fuori-campo” dove in quanto non appartenente a nessuna comunità il soggetto assolutamente innocente è al di fuori anche dell’agire. Che cosa significa questo prezzo e come lo stiamo pagando rispetto al nostro presente? Che cos’è e in che senso diventa azione politica,

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dal momento che, per l’appunto, nella suggestione di Arendt, è proprio perché pagano tale prezzo che i soggetti “confusi”, ionoi, possono agire e, così, fare parte della comunità umana? Che ne è, però, di questi soggetti confusi, io e altri, ionoi, che stanno dentro alla comunità umana quando la responsabilità collettiva che è il prezzo che dovrebbero pagare per la loro appartenenza comune all’umanità non si lascia sentire? O meglio, poiché potrebbe sembrare improprio e arrogante stabilire quale sia il sentimento collettivo di una data comunità in un determinato momento, che ne è di questi soggetti che stanno dentro alla comunità umana quando non pagano il prezzo che pure dovrebbero pagare? Dove stanno? Quale è il loro luogo? Cosa diventa una comunità umana quando quest’ultima è composta da soggetti che non pagano il prezzo che pure dovrebbero pagare per farne parte? O ancora, abbandonando in parte Arendt e ritornando invece a quel sotterraneo movimento che ho cercato di descrivere con cui un apparato di potere privo di forma ci cattura nella sua “assenza” di responsabilità – facendoci condividere il suo sguardo, consegnandoci in immagine i corpi morti – che ne è di “noi”, “ionoi” a questo punto in parte indistinti rispetto a quell’apparato? In quale modo questo movimento di cattura erode tanto la nostra responsabilità collettiva, quanto la nostra capacità di azione, e, da ultimo, il luogo del nostro stare, tutti elementi indissolubilmente intrecciati tra loro secondo la suggestione arendtiana? Che ne è di “noi”, soggetti trascinati altrove dall’ionoi capace di azione, e, invece, produttori inconsapevoli, insieme al potere, della fantasmaticità degli/delle altri/e? Come possiamo fare qualcosa di questi corpi che ci appartengono più di quanto appartengano ai loro parenti, tener conto o dar conto di loro, se la nostra capacità di azione è erosa dal nostro stesso diventare fantasmi a noi stessi in quell’inconsapevole movimento di cattura in cui con un semplice sguardo veniamo trascinati? Possiamo opporci, nella volontà di resistere alla cattura e alla complicità con quell’apparato poliziesco fantasmatico, allo sguardo che esso ci consegna? Possiamo opporci chiudendo gli schermi, interrompendo la nostra capacità di visione? O producendo un altro sguardo, un contro-sguardo, scegliendo di diventare produttori/trici o spettatori/trici unicamente di quest’altro sguardo che pretenderebbe di consegnarci in altro modo i soggetti fantasmati dal potere e che come quest’ultimo ci consegna immagini, racconti, discorsi su di loro, rischiando di contribuire a bloccarci ancor di più in quel pantano della fantasmaticità effetto del potere? Mentre la prima opzione è del

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tutto impraticabile, la seconda è una strada seguita ormai in modo quasi compulsivo da molti di coloro che cercano di resistere a quel movimento di cattura. Si producono immagini, immagini, immagini: video immagini, fotografie immagini, racconti immagini. Flash di ciò che accade, tra una frontiera e un’altra, tra un centro di detenzione e un altro, tra un respingimento e un altro, tra un campo di pomodori e un altro, declinando in produzione di spettacolo le nostre residue possibilità di azione. Un’arte delle migrazioni, più o meno di buon livello, convinti che il contro-narrare sia implicito nel nostro narrare, e che la contro-narrazione sia sempre, oltre che articolazione di discorso, anche articolazione di azione e resistenza. È così? Non ne sono sicura. Certo, valutare gli effetti di quest’arte delle migrazioni è quasi impossibile, dal momento che come ogni arte e come ogni contemplazione essa comporta un differimento del tempo, un suo sdoppiamento: l’ora della contemplazione e il dopo della memoria, il dopo dell’archivio nella memoria individuale e collettiva. Ma frequentando i luoghi in cui quest’arte viene solitamente diffusa, fisici o virtuali, mi sembra piuttosto che essa sia in grado di creare uno “spazio a sé”, diverso da quello prodotto dalle immagini mainstream, e una sorta di “comunità a sé”, più consapevole, certo, o del tutto consapevole della violenza delle frontiere, dei respingimenti, dei campi di pomodori o dei campi di detenzione, ma distante dai luoghi della produzione di tale violenza e, per ora, non in grado di intaccarla. Immagini. C’è da ultimo l’immagine delle donne-fotografie (immagine 4) che non danno, né tengono conto, ma chiedono conto degli altri, figli partiti subito dopo la rivoluzione, giovani e meno giovani tunisini, in prevalenza uomini, parte di quel movimento con cui i migranti tunisini avevano declinato come libertà di movimento la libertà appena conquistata con la rivoluzione, rivoluzionando lo stesso spazio europeo e soprattutto quello incessantemente ridisegnato come spazio di imbrigliamento del muoversi delle persone da parte delle politiche migratorie. Muovendosi tra gli spazi sommossi dalle pratiche di rivoluzione e dalle pratiche di libertà di movimento, le madri, i padri, i fratelli e le sorelle, in alcuni casi le mogli, dei migranti “scomparsi”, senza auto-costituirsi in gruppo ma trovandosi necessariamente a essere tali per le strade di Tunisi o davanti alle sedi istituzionali maggiormente coinvolte – il ministero dell’Immigrazione tunisino, l’Ambasciata italiana, la sede dell’Ue a Tunisi – continuano a distanza di anni a chiedere che qualcuno dia conto di tale “scomparsa”. Una forma insolita di azione politica, quasi ossessiva, che ha fatto parlare di sé in

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vari modi – articoli sulla stampa, articoli e racconti di “movimento”, film, fotografie, documentari, installazioni artistiche – diventando una sorta di “contro-spettacolo” o il luogo d’elezione di un “contro-spettacolo” rispetto allo spettacolo e alla spettacolarizzazione necessari alla legittimazione delle politiche migratorie. Una forma insolita di azione politica che più che incontrare le forme solite delle politiche antirazziste si è scontrata con esse. Mi limito, comunque, solo a evocare questa “scena”, che smuove gli impossibili confini tra estetica, etica e politica, dissonante persino rispetto alle pratiche più o meno consuete o più o meno sperimentali di collettivi di donne, senza suggerire alcuna considerazione sui nodi e sulle domande che essa ci consegna. Lo faccio in modo diverso da quello in cui ho pensato e scritto di loro mentre facevo parte del loro movimento, attraverso il collettivo femminista “Le Venticinqueundici” che insieme a loro, per circa due anni, ha pensato parte delle nostre e loro iniziative tra le due sponde del Mediterraneo. Necessariamente diverso, perché è sull’opportunità o la non opportunità da parte di un collettivo di donne da questa parte del Mediterraneo di continuare a inseguire la loro dissonanza che il nostro collettivo si è dissolto. Lasciando così le donne con le loro fotografie al tempo lungo della loro ossessione e ritornando in tal modo alla nostra inevitabile, e forse non scongiurabile assonanza, con tutti e tutte coloro, molti/e, che nel corso degli anni in cui quelle donne e quegli uomini continuavano ad apparire per le strade di Tunisi tra gli interstizi delle fotografie dei figli si sono avvicinati/e a loro attraverso la distanza di uno scatto, di una sequenza video, di un racconto, catturati lì, nel presente della loro ossessione, per portarli poi altrove, nei presenti meno inquietanti di una contemplazione. Lo faccio, convinta che le loro pratiche di azione, così come la loro ossessione, abbiano qualcosa da insegnarci sul modo di una possibile sottrazione al movimento di cattura di cui ho parlato e rispetto alla possibilità di ritrovare lo spazio interstiziale della necessità e urgenza di azione. Lo faccio, inoltre, continuando a individuare in loro – nella loro visibilità e invisibilità, nel loro essere sulla strada, nel luogo pubblico, apparendo e scomparendo dietro alle fotografie dei figli, chiedendo conto ossessivamente di loro; nella loro visibilità nella penombra, che non dà conto di sé, né tiene conto degli/delle altri/e, ma che chiede conto di loro, dirompente rispetto alla tradizione della visibilità con cui in una certa tradizione si è pensato al politico – continuando a individuare in queste donne e famiglie fotografie, presenti attraverso

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la presenza di altri, che confondono i posti delle loro stesse fisicità portando in giro figli, lo spunto su cui riflettere in quella condizione di impasse in cui tutti e tutte ci troviamo da quando lo sguardo del potere ci ha consegnato corpi morti di esseri umani fantasmati più nostri che dei loro parenti, specie di corpi, “ma senza proprietà, senza diritto di proprietà ‘reale’ o ‘personale’” (Derrida). Fantasmi nostri di cui non sappiamo che fare. Fantasmi, dinanzi a cui non è possibile cercare il ritorno al proprio, all’illusione di un reale o di un personale, ma forse provare a cercare spunto in quel movimento di donne e famiglie fotografie che hanno in parte saputo ritorcere contro i poteri – ossessionandoli – la fantasmaticità dei loro figli, apparendo negli interstizi dello loro fotografie, agendo chiedendo unicamente conto di loro. Riferimenti bibliografici Per la versione già pubblicata, che qui ho in parte modificato, di questa “parola del delirio”, rinvio a Federica Sossi, Donne fotografie tra i fantasmi del Mediterraneo, in “Deportate, esuli e profughe”, luglio 2015, http://www.unive.it/ media/allegato/dep/n28-2015/16_Sossi.pdf. Didi-Huberman parla del rapporto tra apparecchio tecnico e potere in Georges Didi-Huberman, Peuples Exposés, peuples Figurants, L’oeil de l’Histoire, 4, Paris, Minuit 2012. Il naufragio del 3 ottobre 2013 è avvenuto in un tratto di mare molto vicino all’Isola dei conigli a Lampedusa. Nei giorni successivi sono stati recuperati 366 corpi, le cui salme venivano allineate sul modo del porto dell’isola. Venti, circa, in base alle testimonianze dei sopravvissuti, sarebbero invece i dispersi. I migranti provenivano in prevalenza dall’Eritrea. A pochi giorni di distanza, l’11 ottobre, perdono invece la vita per i ritardi dei soccorsi da parte dell’Italia e di Malta, 270 persone circa, tutte siriane, tra cui molti bambini. Sulle dinamiche di tale naufragio, ricostruite attraverso le testimonianze di alcuni sopravvissuti, cfr. l’indagine del giornalista Fabrizio Gatti: http://gatti.blogautore.espresso.repubblica.it/2014/01/24/italia-e-malta-litigano-sul-naufragio/ e il video Sorry for not drowning, http://www.storiemigranti.org/spip.php?article1069. Per un’analisi dei naufragi di migranti nel Mediterraneo nell’orizzonte delle necro-politiche dell’Unione europea, cfr. Glenda Garelli, Postcards from a Mediterranean Solid Sea: The Depths of “Migration Management” at the Blue Frontier (2013), in Thomas Simpson (ed), Noise in the Waters (A Play by Marco Martinelli), New York City, Bordighera Press, pp. 123-133. L’operazione “Mare Nostrum” è l’operazione “militare e umanitaria” che ha visto il dispiegamento dei mezzi della Marina militare italiana in un ampio tratto del Mediterraneo, a partire dalle coste italiane e sino a poche miglia da quelle libiche e tunisine, promossa dal governo italiano in seguito ai naufragi del 3 e dell’11 ottobre 2013. L’operazione ha preso avvio il 18 ottobre 2013 ed è termi-

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nata il primo novembre del 2014 (http://www.marina.difesa.it/cosa-facciamo/ operazioni-concluse/Pagine/mare-nostrum.aspx), sostituita dall’operazione europea “Triton”, guidata dall’agenzia Frontex (http://frontex.europa.eu/ feature-stories/operation-triton-winter-developments-qXDamY9). Per un’attenta ricostruzione critica della varie fasi di tale operazione cfr. il blog di Fulvio Vassallo Paleologo, “Diritti e frontiere”, http://dirittiefrontiere.blogspot. it/. Per un’analisi dell’operazione, cfr. Martina Tazzioli, The desultory politics of mobility and the humanitarian-military border in the Mediterranean. Mare Nostrum beyond the sea (http://www.scielo.br/scielo.php?script=sci_arttext&pid =S1980-85852015000100061). L’immagine numero 3, quella in cui durante la visita a Lampedusa e all’hangar dell’aeroporto il premier italiano, Enrico Letta, si inginocchia davanti alle bare, il 9 ottobre 2013, è un fermo immagine tratto da un video dell’Unione europea (© Union européenne 2013, Source CE - Service audiovisuel): http://ec.europa. eu/avservices/video/player.cfm?sitelang=fr&ref=I082282&videolang=INT. Per quanto riguarda l’immagine numero 4, si tratta di una delle numerose foto pubblicate dalla “Association la terre pour tous”, che riunisce alcune delle famiglie dei migranti tunisini dispersi, e il cui presidente è Imed Soltani (Pagina facebook: Association la terre pour tous). I video a cui faccio riferimento sono: link-video 1 (https://www.youtube. com/watch?v=tX46-lLM1xE); link-video 2 ( http://www.repubblica.it/cronaca/2014/05/15/news/morte_migranti-86184959/). Per quanto riguarda il modo in cui sono state prodotte le prime immagini della Shoah, Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto (2003), tr. it. di D. Tarizzo, Cortina, Milano 2005 e Remontages du temps subi, Minuit, Paris 2010. Il riferimento a Sontag è il seguente: Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri (2003), tr. it. P. Dilonardo, Mondadori, Milano 2003. Il naufragio della nave da crociera Costa Concordia è avvenuto in prossimità dell’isola del Giglio il 13 gennaio 2013 per un errore da parte del comandante che ha fatto urtare la nave contro uno scoglio. Il naufragio, durante il quale hanno perso la vita 32 persone, tra passeggeri e membri dell’equipaggio, in Italia ha avuto un’ampia copertura mediatica nel corso dei giorni e dei mesi successivi, come pure a distanza di anni tanto per il processo al comandante della nave quanto per le difficili operazioni di recupero e di traino della nave verso il porto di Genova. L’omicidio di Yara Gambirasio, una ragazza di 13 anni, è avvenuto nel novembre del 2010 in un comune in provincia di Bergamo. Si tratta di uno dei casi di cronaca nera più seguiti degli ultimi anni e che continua a suscitare l’attenzione nei media italiani per le sue diverse vicissitudini: la scomparsa della ragazza, la prima imputazione di un migrante marocchino, le reazioni razziste che l’ipotesi della sua colpevolezza aveva suscitato, il suo successivo rilascio, il ritrovamento del corpo della vittima, i lunghi anni di indagine a partire dalle tracce di Dna ritrovate sui suoi indumenti, appartenenti però a una persona defunta da anni, Giuseppe Guerinoni, e non equivalenti a quelle dei figli ancora in vita di tale persona. Il caso ha poi avuto una svolta nel giugno del 2014, quando è stato arrestato il presunto colpevole, ricercato per mesi come figlio illegittimo di Giu-

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seppe Guerinoni, denominato dagli inquirenti “ignoto uno”, e a cui si è risaliti attraverso gli innumerevoli profili genetici realizzati dalle forze dell’ordine tra i vari abitanti della zona. Giuseppe Bossetti è stato condannato all’ergastolo nella sentenza di primo grado del luglio 2016. Per quanto riguarda gli esami del Dna dei corpi dei migranti morti nei naufragi, posso riferire una vicenda di cui mi sono occupata di persona. Dopo il naufragio del 6 settembre 2012, avvenuto accanto allo scoglio di Lampione vicino all’isola di Lampedusa, e per il quale risultano tutt’ora disperse 79 persone, insieme alla “Association la terre pour tous” e all’avvocata Alba Ferretti ho provato a seguire le pratiche per il riconoscimento delle vittime chiedendo che venisse effettuato un confronto tra i profili genetici dei corpi recuperati in mare e quelli dei genitori in Tunisia. Inutile dire che il confronto non è ancora stato effettuato; segnalo soltanto, invece, che nel corso dell’indagine e dei necessari incontri con le autorità deputate mi sono spesso sentita dire che si trattava della prima volta che si trovavano di fronte a una simile richiesta, soprattutto rispetto all’eventuale riesumazione dei corpi ritrovati dopo il naufragio e seppelliti al cimitero di Lampedusa e di Linosa, e che proprio per questo non c’erano procedure stabilite da seguire ma solo pratiche da “inventare”. Sul fatto che ai migranti sopravvissuti non venga chiesto il loro parere sulla pubblicazione dei video del naufragio, non si tratta, in realtà, solo di una presupposizione. Ho conosciuto a Milano alcuni dei sopravvissuti al naufragio dell’11 ottobre 2013, con i quali, con il collettivo di donne “Le Venticinqueundici”, di cui facevo parte, abbiamo deciso di realizzare un video mentre la notizia dei ritardi dei soccorsi da parte dell’Italia e di Malta non era ancora diventata una notizia pubblica (http://leventicinqueundici.noblogs.org/?p=1647). La Marina militare, invece, aveva già reso pubblico il video del naufragio, per questo l’abbiamo riguardato insieme a loro, che non lo conoscevano, e che nel guardarlo erano intenti a riconoscere se stessi mentre annaspavano nell’acqua. Per la frase sui fantasmi come “specie di corpi, ma senza proprietà”, che riporto più volte, Jacques Derrida, Spettri di Marx (1993), tr. it. di G. Chiurazzi, Cortina, Milano 1994, p. 56. Per il discorso della fantasmaticità prodotta dalle tecnologie del controllo mi permetto di rinviare a due miei articoli: Federica Sossi, Luttes en migrations. Les phantasmes des “vérités”, in « Outis », 4, 2/2013; e Migrazione e narrazioni, in Sandro Mezzadra e Maurizio Ricciardi (a cura di), Movimenti indisciplinati. Migrazioni, migranti e discipline scientifiche, ombre corte, Verona 2013. Per le considerazioni di Derrida sulla “polizia senza frontiere”, Jacques Derrida, Cosmopoliti di tutti i paesi, ancora uno sforzo! (1997), tr. it. di B. Moroncini, Cronopio, Napoli 1997; il saggio sulla violenza di Benjamin è: Walter Benjamin, Per la critica della violenza (1920-1921), di cui si trova una traduzione italiana al seguente link: http://www.filosofia.it/images/download/argomenti/benjamin_critica_violenza.pdf. Le riflessioni di Arendt sulla “responsabilità collettiva” si trovano soprattutto in Hannah Arendt, Responsabilità collettiva (1968), in Responsabilità e giudizio (2003), tr. it. di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2004. La citazione è tratta da pp. 130-134.

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Sulle precise responsabilità delle politiche dell’Ue nella morte dei migranti in mare stanno conducendo da alcuni anni un attento lavoro di osservazione e documentazione i ricercatori del “Forensic Oceanography project” (http:// www.forensic-architecture.org/case/left-die-boat/). Cfr. alcuni degli articoli più recenti: Charles Heller e Lorenzo Pezzani, Death by rescue. The lethal effects of the Eu’s policies of non-assistance (https://deathbyrescue.org/) e Charles Heller e Lorenzo Pezzani, Mourning the dead while violating the living, 30 June 2016, https://opendemocracy.net/5050/charles-heller-lorenzo-pezzani/mourningdead-while-violating-living. Per l’assoluta innocenza degli apolidi, cfr. Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo (1951-1966), tr. it. di A. Guadagnin, Edizioni di comunità, Torino 1999. Un’indicazione diversa sulle possibilità di “azione” degli apolidi, proprio a partire da una ripresa critica delle indicazioni arendtiane, è quella sviluppata da Butler in Judith Butler e Gayatri Chakravorty Spivak, Che fine ha fatto lo stato-nazione? (2007), tr. it. di A. Pirri, Meltemi, Roma 2009. La conferenza di Butler in occasione del conferimento del Premio Adorno si trova in Judith Butler, Vita buona e vita cattiva (2012), in A chi spetta una buona vita?, tr. it. di N. Perugini, Nottetempo, Roma 2013. Un altro libro a cui rinviare è: Judith Butler, Critica della violenza etica (2005), tr. it. di F. Rahola, Feltrinelli, Milano 2006. Le domande di Foucault vengono formulate in Michel Foucault, Illuminismo e critica (1978), tr. it. di P. Napoli, Donzelli, Roma 1997. Per la loro riformulazione in Butler cfr. Judith Butler, New Scenes of Vulnerability, Agency and Plurality, An Interview with Judith Butler by Vikki Bell, in “Theory, Culture & Society 2010”, Vol. 27(1), 130-152; cfr. anche Vulnerabilità e resistenza, Intervista a Judith Butler di Federica Sossi e Martina Tazzioli, in “Materiali foucaultiani”, II, 4, http://www.materialifoucaultiani.org/images/03_butler_it.pdf. Sulla declinazione della rivoluzione tunisina in libertà di movimento e sulla conseguente sovversione degli spazi disegnati dalle politiche migratorie cfr. Federica Sossi (a cura di), Spazi in migrazione. Cartoline di una rivoluzione, ombre corte, Verona 2012. Cfr. anche Martina Tazzioli, Spaces of Governmentality. Autono������� mous Migration and the Arab Uprisings, Rowman and Littlefield, London 2014. Sul movimento delle madri e delle famiglie dei migranti tunisini dispersi avevo scritto alcuni articoli negli anni passati, mentre facevo parte del loro movimento attraverso il collettivo femminista “Le Venticinqueundici”. Federica Sossi, Inseguendo le leggi di Faten, in Spazi in migrazione. Cartoline di una rivoluzione, cit.; Migrazione e narrazioni, in Movimenti indisciplinati, cit.; Luttes en migrations. Les phantasmes des “vérités”, cit.; Migrations and militant research? Some brief considerations, in “Postcolonial Studies”, 16, 2013, pp. 269-278. Parte delle iniziative e dei documenti prodotti durante la campagna “Da una sponda all’altra: vite che contano” sono raccolti nella sezione con lo stesso titolo del blog del collettivo delle Venticinqueundici: http://leventicinqueundici.noblogs. org/?page_id=354.

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GIUNGLE – “Tanto tempo fa, viveva nel profondo della giungla una pantera nera di nome Bagheera. Un giorno, mentre stava su un albero, udì un insolito rumore: era un cucciolo d’uomo abbandonato”. È la frase d’inizio di una riduzione del Libro della giungla che ho comperato al supermercato qualche mese fa e poi infilato nella mia borsetta, in due o tre occasioni, per fare un po’ di esercizio con una bambina che sta imparando a leggere. Certo, è una giungla strana quella di Mowgli, con una mamma lupa che l’allatta, un orso che lo fa divertire e l’immancabile Bagheera che l’osserva a distanza per proteggerlo dai pericoli. Ma lui cresce standoci bene, amico degli animali e pronto a tutte le avventure, aperto, curioso, divertito, e abbandonandola solo alla fine per inseguire un’affascinate fanciulla che lo introduce così al villaggio degli uomini. Le giungle d’oggi di cui invece dovrei raccontare, altrettanto strane, sono già al “villaggio degli uomini”, spesso in qualche posto di frontiera, tra un “villaggio” e un altro, e i loro abitanti non sono orsi o pantere, lupi o re scimmie, ma esseri umani che vi sono rimasti incagliati, bloccati da muri materiali, artificiali e non, o da muri tecnologici, sensori termici, radar, satelliti, e da un esercito di altri esseri umani che li sorvegliano a distanza per impedirgli di inseguire affascinanti fanciulle che li portino nel “villaggio” al di là. Sono tante, già da vario tempo, ma sono cresciute in numero e in abitanti soprattutto negli ultimi due anni, sono a Calais, a Gorizia, a Idomeni, a Ventimiglia, a Como, al Porto del Pireo, a Belgrado, a Parigi. Piccoli insediamenti, o grandi tendopoli, di vite precarie, passate nel fango, in attesa di “scavalcare” una frontiera che non si apre, a volte ricostruite con maggiore precarietà dopo le evacuazioni delle polizie o degli eserciti degli stati, luoghi, quasi sempre, in cui la vita cerca di riorganizzarsi seguendo un miraggio di normalità, una normalità di sopravvivenza, e il sogno che il giorno successivo, il mese successivo, l’anno successivo si potrebbe trovare il passaggio per abbandonare l’incubo di quell’imbuto. Lascio che a descriverle siano delle immagini, quelle che ho chiesto a Sara Prestianni che da lungo tempo fotografa i luoghi imbuto, frontiera, ghetto, giungla, e che aveva iniziato a farlo dalle foreste marocchine accanto alle enclaves di Ceuta e Melilla, ma che ha ora una vasta possibilità di scelta tra le giungle europee, e quelle che mi sono state inviate da Livia Cozzolino, perché volevo che ci fossero anche le immagini di Ventimiglia, di quell’esperienza tra scogli, rivendicazioni, prove di autogestione, che ha caratterizzato l’estate del 2015.

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1. Ventimiglia, agosto 2015. Foto di Livia Cozzolino.

2. Ventimiglia, agosto 2015. Foto di Livia Cozzolino.

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3. Ventimiglia, agosto 2015. Foto di Livia Cozzolino.

4. Ventimiglia, agosto 2015. Foto di Livia Cozzolino.

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5. Ventimiglia, agosto 2015. Foto di Livia Cozzolino.

6. Ventimiglia, agosto 2015. Foto di Livia Cozzolino.

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7. Idomeni, 21 novembre 2015. Foto di Sara Prestianni.

8. Idomeni, 21 novembre 2015. Foto di Sara Prestianni.

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9. Calais, 11 dicembre 2015. Foto di Sara Prestianni.

10. Calais, 11 dicembre 2015. Foto di Sara Prestianni.

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11. Dunkerque, 11 dicembre 2015. Foto di Sara Prestianni.

12. Dunkerque, 11 dicembre 2015. Foto di Sara Prestianni.

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13. Calais, 21 febbraio 2016. Foto di Sara Prestianni.

14. Calais, 21 febbraio 2016. Foto di Sara Prestianni.

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15. Calais, 21 febbraio 2016. Foto di Sara Prestianni.

16. Grande-Synthe, 22 febbraio 2016. Foto di Sara Prestianni.

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17. Grande-Synthe, 22 febbraio 2016. Foto di Sara Prestianni.

18. Grande-Synthe, 22 febbraio 2016. Foto di Sara Prestianni.

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19. Grande-Synthe, 22 febbraio 2016. Foto di Sara Prestianni.

20. Grande-Synthe, 22 febbraio 2016. Foto di Sara Prestianni.

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21. Porto del Pireo, 20 marzo 2016. Foto di Sara Prestianni.

22. Porto del Pireo, 20 marzo 2016. Foto di Sara Prestianni.

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23. Porto del Pireo, 20 marzo 2016. Foto di Sara Prestianni.

24. Idomeni, 23 maggio 2016. Foto di Sara Prestianni.

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25. Informal camps around Idomeni, 31 maggio 2016. Foto di Sara Prestianni.

26. Informal camps around Idomeni, 31 maggio 2016. Foto di Sara Prestianni.

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SOPHIA? – Se si va indietro nel tempo, fino a quello antico della Grecia dei filosofi, “sophia”, come è noto, era la loro parola d’ordine, un oggetto di desiderio, d’amore, ma non erotico, un oggetto per il quale provare amicizia, “philia”, da cui deriva la parola filosofia. Un modo di vita, anche, capace di contraddistinguere chi riconosceva la “sophia” come oggetto d’amore o d’amicizia da tutti gli altri, insomma, una pratica da cui ricavare uno status, più alto e comunque diverso da quello degli uomini comuni, com’è abitudine dei filosofi greci, non molto propensi a confondersi con i loro simili solo umani. Per Socrate, nel Fedone, per esempio, quella scienza che è sapienza e conoscenza della causa di ogni cosa comporta persino il ritrarsi dall’insegnamento degli altri filosofi, e mutare modo di navigazione. Navigare in altro modo, senza l’aiuto di ciò che è stato già detto da altri, cercare nella solitudine e nell’incertezza la via giusta verso la verità. A guardar bene, poi, soffermandosi sui diversi luoghi della sua comparsa, nei filosofi presocratici o nei dialoghi platonici, così come, per esempio, nei diversi libri della Metafisica di Aristotele, nello stabilire che cosa sia questa scienza o sapienza c’è da rimanere confusi, o da perdersi nelle infinite possibilità degli innumerevoli commenti che da quel tempo antico, passando per la modernità, giungono sino al presente per dirci che cosa sia “sophia” per l’uno o l’altro dei filosofi che l’hanno evocata e nei diversi contesti in cui l’hanno fatto. Ma come al solito, mentre scrivo le pagine di questo libro, non sono interessata a tale genere di esercizio, tanto più in questo caso, poiché non sono una specialista dei tempi antichi, e se cito “sophia” è solo per ritornare con un salto vertiginoso al presente. Della “sophia” antica mi basta citare quello che fa un po’ parte del senso comune, il fatto che in Platone “sophia” e verità, e soprattutto “sophia” e giustizia siano legate tra loro, che nella Repubblica, per esempio, agire con giustizia sia possibile solo attraverso quella forma di sapienza la quale sovrintende l’azione giusta in cui si è signori e amici di se stessi. Della “sophia” di Aristotele, invece, mi interessa la confusione, che ci sia una “sophia” come conoscenza dei principi e delle cause prime, e una “sophia” che, invece, ha a suo oggetto un ente determinato, le “sostanze prime, eterne e divine”. Sapienza: dunque qualcosa che ha a che fare con la conoscenza, con la ricerca della verità. Giustizia, azione giusta: dunque qualcosa che ha a che fare con l’etica. E poi una possibile confusione su quale sia il vero oggetto di quella sapienza. Anche in tempi molto più recenti, più vicini a noi e ancora in corso, “Sophia” è il nome di una ricerca, abbastanza confusa sul reale

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oggetto da ricercare, ed è il nome di un’altra navigazione, diversa da quelle che l’avevano preceduta e che continuano comunque ad affiancarla, in acque che un tempo per il senso o la retorica comuni erano state la “culla della civiltà” e che ora al di fuori di ogni retorica sono per tutti/e un “cimitero marino”. Ma prima di essere il nuovo nome della missione “Eunavfor Med”, inaugurata nel giugno del 2015, e ribattezzata “Sophia” nell’ottobre dello stesso anno – l’operazione per cui le marine militari dei diversi stati membri dell’Ue solcano il Mediterraneo alla ricerca di... – “Sofia” è stato il nome di una bambina. “Sofia”, infatti, è il nome che una donna di origine somala, a bordo della nave militare tedesca “Schleswig Holstein” e recuperata con altri/e in mezzo al mare, ha deciso di dare a sua figlia, dopo un parto di fortuna avvenuto il 26 agosto 2015, con cui ha dato alla luce quella bambina “di origine marina”. Ci si potrebbe forse soffermare a interrogarsi su quale sia ora la nazionalità di “Sofia”, nata in mare, su una nave militare battente bandiera tedesca ma all’interno di un’operazione Ue guidata dall’Italia, e immaginare che, in fondo, quella bambina, priva di terra e territorialità il giorno della sua nascita, sia l’unica cittadina veramente europea, e se non l’unica, perché non è la sola ad aver visto la luce in mare, una delle poche cittadine veramente europee, la cui cittadinanza europea non derivi, cioè, come per le altre cittadine e gli altri cittadini europei, dalla cittadinanza di appartenenza a uno stato membro Ue. Ma, per quanto non possa assicurarlo al di fuori di ogni dubbio, immagino invece che, di madre somala e sopravvissuta alla traversata, a differenza di Favour, la bambina arrivata orfana a Lampedusa per aver perso la madre durante il viaggio e fatta diventare “necessariamente italiana” dalle parole del Presidente della Repubblica Mattarella, “Sofia” sia rimasta per ora “necessariamente somala”, dal momento che, ultimamente, se non c’è di mezzo la morte sembra molto difficile cambiare nazionalità. Somala e “di origine marina”, “Sofia” presta comunque il suo nome, inconsapevole, per la sua giovane età, a un’operazione di “guerra”, ultimamente prorogata sino a luglio 2017, con un rafforzamento del suo mandato originario, che era di ricerca e smantellamento delle navi con a bordo i migranti e di possibile ricerca e smantellamento delle reti di trafficanti. Di questa operazione nel Mediterraneo al largo delle coste libiche, dei suoi paradossi o delle sue aporie – termine più essenzialmente filosofico, visto che stiamo parlando pur sempre di “Sophia”/”sophia” – ho già parlato nella “parola del delirio” “Vertici”, evito, quindi, di ripetermi. Noto soltanto, ora, 10 luglio 2016, che

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la confusione su che cosa cercare e tra l’essere una operazione militare ma non di guerra e l’essere un’operazione prettamente di guerra è stata ulteriormente incrementata dai due mandati che si aggiungono a quelli precedenti: supportare e formare la Guardia costiera e la Marina libiche come richiesto dalle “legittime” autorità libiche, riconosciute per ora solo da alcune parti in conflitto tra loro; e implementare l’embargo sulle armi in base alla risoluzione 2292 del Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite, con la possibilità di ispezionare le navi sospette al largo delle coste libiche. Chissà, tra l’altro, se alle navi militari dei diversi stati membri Ue che partecipano all’operazione “Sophia”, tra le navi sospette, non capiterà di incontrare proprio un’imbarcazione battente bandiera di uno degli stati membri Ue e persino di qualcuno degli stati che prendono parte all’operazione, tra i più noti e importanti trafficanti di armi al mondo e soprattutto in direzione del Medio oriente. Ma lascio per ora gli stati membri alla loro vocazione di trafficanti d’armi, perché tanto non sono io a poterli fermare e dubito anche che sia l’operazione “Sophia” a volerlo fare, e ritorno a “Sophia”/“sophia”. All’assonanza dei nomi, alla confusione su quale sia l’oggetto da ricercare e a quell’elemento di “giustizia”, a quel piano etico, che si intrecciava un tempo con la ricerca della verità. “Sophia”/“sophia”. Ma è proprio un sofisma degno della migliore o della peggiore retorica, mi si potrebbe obiettare, di quell’arte consueta soprattutto tra i filosofi sofisti tacciati dalle altre scuole filosofiche di essere maestri solo di argomenti capziosi, il fatto di mettere insieme, per l’assonanza dei nomi, la “sophia” antica con l’operazione “Sophia” che solca le paludi della nostra attualità. E, in effetti, ammetto che per iniziare a scrivere questa voce ho trascorso vari giorni a saltare da un libro a un altro, da un film a un documentario per ritornare poi di nuovo a qualche altro libro, e sino a questa mattina non ero affatto sicura di avere qualcosa da dire per svilupparla. Prima di iniziare a riprendere in mano i libri e a rivedere i film, pensando a questa voce, ero molto più sicura di me, credevo di sapere quello che avrei voluto dire sull’etica e l’azione giusta del nostro tempo e sulla sua ristrettezza, o meglio ancora, sulla sua mostruosità. Ma partivo da un falso ricordo, o, per essere più precisa, dal reale ricordo di un docuweb presentato a episodi sul “Corriere della sera” nel settembre del 2014 e poi ritrasmesso da “Rai3” e di cui, all’epoca, avevo a lungo commentato il primo episodio con i miei studenti e le mie studentesse a lezione.

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La scelta di Catia – 80 miglia a sud di Lampedusa è il titolo del docuweb, che, per chi, come me, si sia occupato un po’ delle produzioni cinematografiche relative alla Shoah, oppure, più semplicemente, per chi abbia visto al cinema il film di Alan J. Pakula, non può che evocare nuovamente “sophia”, attraverso il titolo del film tratto dall’omonimo romanzo di William Styron La scelta di Sophie. Ma non si trattava soltanto di un’assonanza nei titoli, perché il richiamo, nell’episodio con cui era stato pubblicizzato il documentario prodotto da “H24” per “RaiFiction” in collaborazione con il “Corriere della Sera” e la Marina militare, anche nel contenuto evocava la ristrettezza o l’imbuto etico in cui si era trovata la protagonista del romanzo e del film, sulla banchina di Auschwitz, a dover scegliere se consegnare alla morte la figlia o il figlio per poter far sopravvivere uno dei due. Recuperare in mare i vivi e lasciare al loro destino i morti, erano, infatti, le immagini su cui si focalizzava quel primo episodio, presentato sul sito del “Corriere della sera” con un articolo di Marco Imarisio che rimarcava la difficoltà, ma anche la necessità di quella scelta e che invitava gli spettatori a fare a loro volta la scelta, “molto più facile”, di guardare “tutto, senza distogliere mai lo sguardo. Per capire, una volta per tutte”. Non era stato difficile all’epoca, a lezione, commentare quelle immagini che conoscevo bene per vari motivi e soffermarmi sull’intera operazione, sia dal punto di vista della scelta dei produttori nell’oscurare qualcosa proprio mentre veniva fatto vedere, sia dal punto di vista della “scelta di Catia”, come profilo di una scelta etica da esaltare evocando però la mostruosità dell’impossibile scelta di “Sophie”. Faccio, quindi, un passo indietro, come l’avevo fatto a lezione, per ridire quello che avevo pensato e comunicato allora, e che avrei voluto provare a scrivere qui immaginando la voce “Sophia?”, il cui contenuto, invece, si è un po’ vanificato durante questi giorni in cui ho riletto i libri a cui volevo fare riferimento e rivisto il documentario. La scelta di Catia – 80 miglia a sud di Lampedusa, infatti, nel frattempo, è diventato un film visibile nella sua interezza, dove le immagini relative alla “scelta” tra salvare i vivi o recuperare i morti compaiono brevemente all’inizio e poi più a lungo solo verso la fine. L’episodio diventa così uno dei tanti salvataggi in mare effettuati durante l’operazione “Mare nostrum”, compiuti in questo caso dalla nave della marina militare italiana “Libra” guidata dal suo comandante Catia Pellegrino, prima donna italiana a svolgere la funzione di comandante su una nave militare. La scelta di Catia, inoltre, è ora anche il titolo di un libro, scritto da Catia Pellegrino, per raccontare il suo diario di bordo durante

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l’anno in cui è stata comandante della nave “Libra”, dal giugno 2013 all’agosto 2014, e dove le scelte, come del resto nel film visto nella sua interezza, diventano plurali e non lasciano più alla “scelta di Catia/Sophie” la predominanza sulle altre. La “scelta di Catia”, infatti, diventa innanzitutto la scelta di una donna determinata, che azzarda nella sua giovinezza una carriera in un ambiente esclusivamente maschile e che riesce a diventare comandante di una delle navi più ambite della Marina militare; è, poi, la scelta di come intendere quel comando, il suo “stile” di comandante; è, inoltre, la scelta di compiere sempre sino in fondo il proprio dovere, di non tirarsi mai indietro e di identificarsi quasi con quella nave che sta comandando e con i diversi mandati della Marina militare. Certo, è poi anche la scelta di dare l’ordine di soccorrere i vivi e di lasciare al loro destino i morti, ma per ritrovare questo episodio in quella prima versione in cui “Catia” si confondeva con “Sophie”, e permetteva così di fare alcune riflessioni, ho dovuto ritornare agli appunti del corso del 2014, perché cercando su internet “La scelta di Catia” comparivano infiniti altri link, ma non quello, al punto che pensavo di essermi sbagliata e di aver inseguito “Sophia”/ “sophia”/“Sophie”/“Catia” in tutti questi giorni un po’ inutilmente. Il passo indietro è per proporre una considerazione sull’etica, sull’azione giusta e prima ancora sulla possibilità dell’azione, ritornando così a una delle trame originarie di “sophia”. Nelle pagine in cui riflette sul “regime totalitario” e sulla sua novità rispetto alle altre forme di dittatura conosciute nella storia, Hannah Arendt scorge il nuovo di quella forma di potere nella sua capacità di dominare completamente gli esseri umani forgiando al loro posto “cadaveri viventi”, manichini morti prima ancora di passare per le camere a gas. L’uccisione della personalità morale è, a suo avviso, uno dei passi fondamentali per giungere a quella forma di dominio, ed è il modo in cui “il terrore totalitario ottenne il suo più terribile trionfo”: il momento in cui contro l’attacco alla personalità morale nemmeno la scelta individuale estrema da parte del soggetto è più possibile, quella, per esempio, di scegliere la morte, perché le alternative non sono più tra il compiere il bene e compiere il male, ma tra male e male, senza alcuna possibilità di sottrazione. Per dirlo, Arendt cita un episodio raccontato da Albert Camus, nel testo della sua conferenza sulla Crisi dell’uomo tenuta a New York a un anno di distanza dalla fine della Seconda guerra mondiale. E scrive: “Chi potrebbe risolvere il dilemma morale della madre greca a cui i nazisti concessero di scegliere quale dei suoi tre figli doveva essere ucciso?”. Ma a differenza di Camus che faceva l’esempio della madre

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greca per richiamare alla coscienza l’assurdità in cui la sua generazione aveva vissuto, stritolata dalla storia, e che esaltava poi la scelta della rivolta come unica alternativa per non accettare quel mondo in cui “non era più possibile che essere vittime o carnefici”, Arendt ricorre allo stesso esempio per giungere a un’altra conclusione. “Mediante la creazione di condizioni in cui la coscienza non è più sufficiente e fare il bene diventa assolutamente impossibile, la complicità deliberatamente organizzata di tutti nei delitti del regime è estesa alle vittime e così resa veramente totale”. Arendt, infatti, sta parlando dei campi di concentramento e di sterminio, dove a suo avviso il potere totalitario è riuscito nel suo intento di uccidere l’individualità e la spontaneità umane per lasciare al loro posto null’altro “che sinistre marionette con volti umani [...] che si limitano a reagire”. Scelte, dunque, ma scelte impossibili, che come quella della madre greca, che nella descrizione di Camus sceglie di far vivere il figlio maggiore, o quella confessata da “Sophie” che sceglie di abbandonare alla morte la figlia, ci immettono in un orizzonte opposto rispetto a quello descritto da Platone quando parla di “sophia” come della scienza che dirige l’azione giusta, quella in cui l’intera personalità e carattere dell’individuo sono coinvolti e ciascun elemento e parte dell’anima esplicano la propria funzione. Che si tratti dell’esempio fornito da Camus e delle sue considerazione, dello stesso esempio in Arendt e delle sue considerazioni, che si tratti della madre greca o di “Sophie”, nessuno sta immaginando, infatti, come faceva, invece, Platone, uno stato ideale, ma descrivendo un tempo in cui un “male spaventoso si è messo a mordere il volto dell’Europa” (Camus) cercandone le cause più generali, o una “società di morenti” in quel “mondo spettrale” che è il mondo dei campi (Arendt). Strano, allora, che i produttori di un documentario in cui si vuole descrivere il profilo di una donna comandante in un corpo militare del presente, scelgano di farlo con un titolo così evocativo e che decidano di pubblicizzarlo attraverso un episodio in cui “la scelta di Catia” non può che rievocare quella di “Sophie”. Strano, anche, che il contesto in cui le due scelte confinano o sconfinano l’una nell’altra sia quello di un’apologia, del comandante Catia Pellegrino e della sua “scelta”, o delle sue scelte, di impegno nella Marina militare e, necessariamente, di soccorrere prima i sopravvissuti, quegli uomini, quelle donne e bambini/e ancora annaspanti e urlanti nell’acqua, separandoli dai morti nel caso in cui li trascinino ancora con sé. Strano? Forse non del tutto, visto che siamo dinanzi ad alcune immagini del nostro

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presente, riprese dalla Marina militare il giorno di quel naufragio e diffuse in parte qualche giorno dopo, con una scelta “di far vedere” che per la prima volta ci rendeva tutti/e spettatori/trici di un naufragio tra le acque del Mediterraneo. Le scelte, allora, sono molteplici non solo perché “la scelta di Catia” su chi soccorrere si intreccia con le altre sue scelte, relative alla propria vita e non alla vita o alla morte di quei corpi nell’acqua, ma anche perché “la scelta di Catia/Sophie”, proprio quella relativa al soccorso, si inserisce nel cerchio di una scelta che la precede: la scelta delle autorità italiane e maltesi tra intervenire o non intervenire dopo le prime telefonate di SOS giunte dal mare. Ciò che precede quel soccorso, infatti, di cui la Marina militare ha diffuso quasi subito le immagini, sono le lunghe ore di attesa trascorse dai migranti quando si trovavano ancora sulla loro imbarcazione, l’11 ottobre 2013, dopo le diverse telefonate con cui avvisavano le Guardie costiere italiane e maltesi dei problemi al motore e prima di diventare naufraghi e corpi urlanti o già morti in mezzo al mare. Dietro alla scena del soccorso, nelle immagini della Marina militare poi inserite nel documentario su Catia Pellegrino, c’è, dunque, la scena di un’omissione di soccorso. Certo, una scena non visibile, e ricostruita a parole e con difficoltà da chi ha creduto al racconto dei sopravvissuti, attraverso la raccolta delle loro testimonianze, attraverso i riscontri sui loro cellulari delle telefonate di richiesta d’aiuto, incorse nell’annoso rimbalzo tra l’Italia e Malta su chi debba soccorrere nelle acque Sar (Search and rescue) maltesi. 270, circa, i morti di quella giornata o di quella “scena” necessariamente invisibile al grande pubblico dal momento che, per molte ore dopo i primi SOS, nessun apparato tecnico di potere, militare o non, era presente per filmare e soccorrere, o per soccorrere e filmare, o per soccorrere filmando – dal momento che fa parte della procedura abituale della Marina militare il fatto di filmare ogni qualvolta venga dichiarato un “evento Sar” – e per “scegliere”, poi, chi recuperare, se prima i sopravvissuti o i corpi già morti. Ma osservando bene il piccolo raggio d’azione in cui agisce il comandante Catia Pellegrino, dalla “scelta di Catia/Sophie” il cerchio delle scelte che la precedono si allarga ancora, passando dalla scelta presa nella sala operativa della Guardia costiera, responsabile in Italia del coordinamento delle operazioni di soccorso in mare, alle scelte politiche dell’Ue, che determinano l’orizzonte per cui, per alcuni – in questo caso, profughi siriani – l’arrivo in Europa sia possibile soltanto “a nuoto”, secondo l’espressione di Giusi Nicolini, sindaca di Lampe-

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dusa. Infatti, solo ripercorrendo il raggio del cerchio in senso opposto si arriva alla “scelta di Catia”. Cerchio dopo cerchio, le opzioni tra cui scegliere diventano sempre più limitate, e, in fondo, a guardar bene, la “scelta di Catia” non è nemmeno più una scelta, ma una “reazione” alla scena che, a pochi giorni di distanza dal naufragio del 3 ottobre, Catia Pellegrino, comandante della nave militare “Libra”, e i membri del suo equipaggio preposti al soccorso si trovano dinanzi ai propri occhi – naturali e artificiali, supportati da tutti gli apparati tecnici di cui sono dotate le navi della Marina militare per guardare e captare a distanza – nel pomeriggio dell’11 ottobre 2013. Una “reazione”: ci sono dei sopravvissuti e si soccorrono. La nave “Libra”, in fondo, la più vicina al luogo del naufragio, nel lento risveglio del coordinamento delle operazioni di soccorso, era stata mandata lì proprio per quello. Ci sono dei sopravvissuti e si soccorrono, senza ombra di dubbio si “reagisce” alla scena che si ha davanti, non come tristi marionette nell’universo spettrale dei campi ma come comandante di una nave della Marina militare e membri del suo equipaggio mentre si sta navigando in mezzo al Mediterraneo. “Scegliere” il contrario, di recuperare prima i morti lasciando ad aspettare i sopravvissuti, avrebbe equivalso a un’omissione di soccorso, imputabile dal punto di vista giuridico. Posti anche “noi” in quanto spettatori e spettatrici “dentro” a quella scena, non ci poniamo alcun dubbio e “scegliamo” come Catia. A differenza di quanto accade con la madre greca nell’esempio di Camus e di Arendt, e alla “scelta di Sophie”, qui, infatti, non c’è alcun “dilemma morale”, nessuno chiede a nessuno di scegliere tra il male e il male. Non siamo, infatti, all’interno di un campo di concentramento o sterminio, né in Grecia durante il nazismo. Siamo in mezzo al mare, sentiamo le urla e vediamo i corpi annaspanti dei naufraghi dell’11 ottobre. E, per quanto in un sistema chiuso, che ha fatto essere lì e in quanto naufraghi quegli esseri umani, per quanto dentro “all’orrore del nostro presente umanitario”, non siamo nemmeno all’imbuto del “minore dei mali possibili”, quell’orizzonte ristretto che secondo Eyal Weizman caratterizza la condizione etica del nostro presente, in cui, senza contestare “chi mette sul tappeto il dilemma, le opzioni disponibili per la scelta”, si giustificano dei “mali necessari” come “mali minori” (Weizman). Qui, infatti, sono le stesse “opzioni disponibili per la scelta” ad essere venute meno, per quanto ristrette possano essere le opzioni dentro al contesto umanitario. Soccorrere dei naufraghi non è un “male necessario”, né un “male minore”, ma un obbligo

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normato giuridicamente per chi va per mare oltre che un evidente, forse non scritto, “obbligo morale”. Siamo in mezzo al mare. E, insieme al comandante Catia Pellegrino e ai membri del suo equipaggio, in un tempo in cui, forse non un “male spaventoso”, ma qualcosa di inosservato, oltre a mordere il volto dell’Europa, morde la possibilità d’azione, mettendoci tutti/e nell’imbuto di una “reazione”. Siamo in mezzo al mare, sempre più “dentro” alla scena, da quando i diversi “corpi operativi” dei soccorsi, umanitari e militari, hanno iniziato a rivaleggiare tra loro nella pubblicazione delle scene di soccorso, dopo il naufragio dell’11 ottobre 2013, ma soprattutto dopo l’inizio dell’operazione “Mare nostrum”, cominciata a pochi giorni di distanza, facendoci “vedere tutto” e inducendoci a legittimare di conseguenza la “scelta” di quell’operazione, imponendoci di scegliere il “soccorso”. Siamo in mezzo al mare, ma non “tristi marionette” in un “mondo spettrale”, né corpi di naufraghi. Spettatori e spettatrici, invece, partecipi della stessa visione di coloro che soccorrono/filmando, abbiamo ancora l’opzione di una scelta: provare ad allargare il nostro raggio di visione rispetto a quel tratto di mare cercando di vedere quello che non si vede in quanto spettatori e spettatrici delle scene di soccorso, o, al contrario, come hanno fatto i produttori del documentario La scelta di Catia – 80 miglia a sud di Lampedusa, evocare la “scelta di Sophie” dentro alla “scelta di Catia” ponendola all’interno di un orizzonte apologetico e non di irrisolvibile “dilemma morale”. Che basti questo per una “rivolta”? Non ne sono sicura, purtroppo. Ritornare, però, a riflettere sui testi in cui le scelte di Catia/Sophie/madre greca suscitavano in chi le evocava l’appello alla rivolta (Camus) o lo sconforto dinanzi a un potere che era riuscito a trovare nei campi lo spazio del proprio trionfo, annientando ogni possibilità d’azione, facendo partecipare nel proprio meccanismo infernale persino le vittime come complici (Arendt), potrebbe forse essere un piccolo vademecum necessario per cercare di andare in quella direzione. È poco, me ne rendo conto. Se fossi convinta del contrario non avrei scritto questo libro di parole frantumate sui frantumi della nostra attualità. È vero, sono docente di una materia che ha qualcosa a che fare con quell’antica “sophia” dei filosofi greci, e, almeno a mio avviso, con l’orizzonte dell’etica e della politica. Ma non ho mai creduto che le “navigazioni” solitarie, non fatte insieme agli/alle altri/e, potessero essere delle navigazioni alternative, cambiare il senso della rotta, o il modo di navigare, e non lo credo tanto più ora, in un tempo

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in cui le uniche navigazioni alternative – “Moas”, “Medici senza frontiere”, “See Watch”, “Sos Méditerranée” – sono dentro all’imbuto umanitario e militare di quel tratto di mare, affiancate tutte dalle navi da guerra dell’operazione “Sophia”. Riferimenti bibliografici Per i riferimenti a Platone: Fedone, Laterza, Roma-Bari 1988, (99, d); Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1987 (IV, 443, d-e). Sui due possibili oggetti della “sophia” nella Metafisica di Aristotele, cfr. Maddalena Bonelli, Alexandre d’Aphrodise et la philosophie première, in (a cura di M. Bonelli), Physique et méthaphysique chez Aristote, Vrin, Paris 2012. Sul Mediterraneo e la sua storia il primo riferimento è ovviamente a Fernand Braudel, Il Mediterraneo, tr. it. Bompiani, Milano 2002; ma anche a Predrag Matvejevic, Breviario mediterraneo, tr. it. S. Ferrari, Garzanti, Milano 2006 e a Iain Chambers, Le molte voci del Mediterraneo, Cortina, Milano 2007. Per la proroga di un anno e i nuovi compiti dell’Operazione Sophia, decisi dal Consiglio europeo il 20 giugno 2016, cfr. http://www.consilium.europa.eu/it/ press/press-releases/2016/06/20-fac-eunavfor-med-sophia/. Sulla vendita d’armi da parte degli stati membri dell’Ue, soprattutto in rapporto agli investimenti nei sistemi ad alta tecnologia per la securizzazione delle frontiere e, dunque, in rapporto alle politiche migratorie, cfr. Mark Akkerman, Border wars. The arms dealers profiting from Europe’s refugee tragedy, https://www.tni. org/files/publication-downloads/border-wars-report-web.pdf. Per quanto riguarda il docuweb La scelta di Catia – 80 miglia a sud di Lampedusa, da un’idea di Mauro Parissone, regia Roberto Burchielli, http://www. rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-2828a68f-12bd-405c-9300-dde3eeb31b23.html. Per l’episodio singolo a cui faccio riferimento, quello relativo alle riprese del naufragio dell’11 ottobre 2013, così come per il commento di Marco Imarisio, http://www.corriere.it/inchieste/scelta-catia-naufraghisalvare/4213bf52-4356-11e4-9734-3f5cd619d2f5.shtml. Per il libro: Catia Pellegrino, La scelta di Catia, Mondadori, Milano 2015. Il film La scelta di Sophie di Alan J. Pakula è uscito nel 1982, tratto dal romanzo di William Styron, La scelta di Sophie, tr. it. di E. Capriolo, Mondadori, Milano 1980. Per una ripresa della problematica etica relativa alla “scelta di Sofia” nell’ambito, invece, del lavoro di cura transnazionale cfr. Eva Feder Kittay, Il danno morale del lavoro di cura migrante: per un diritto globale alla cura, in “Società italiana di filosofia politica”, http://www.sifp.it/didattica/inediti/evafeder-kittay-il-danno-morale-del-lavoro-di, e Alessandra Sciurba, La cura servile, la cura che serve, Pacini, Pisa 2015. Le considerazioni di Arendt si trovano in Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 619, p. 623, p. 624. Il testo della conferenza di Camus tenuta alla Columbia University, si trova in Albert Camus, La crise de l’Homme, https:// www.nazioneindiana.com/wp-content/2013/10/la-crise-de-lhomme-camus.pdf.

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Sui ritardi nei soccorsi del naufragio dell’11 ottobre si vedano, qui, i riferimenti bibliografici della parola: “Naufragi”. Nel corso degli ultimi anni, per motivi di ricerca, ma anche per cercare di chiarire le dinamiche del naufragio avvenuto dinanzi allo scoglio di Lampione, vicino a Lampedusa, il 6 settembre 2012, il cui esito è stato di 79 migranti tunisini “dispersi”, e per dar corso alla denuncia di scomparsa da parte delle famiglie tunisine, ho svolto diverse interviste nelle varie sedi dei corpi militari che operano nelle acque del Mediterraneo. Dopo il naufragio del 3 ottobre 2013, nel periodo della missione “Mare Nostrum”, parte delle interviste riguardavano proprio le riprese delle immagini in mare e le decisioni rispetto alle loro pubblicazioni. Il fatto che le operazioni di un “evento Sar” debbano essere filmate dal cameraman presente a bordo della nave militare è un’informazione che mi è stata data durante un’intervista alla Marina militare svolta a Roma nel marzo del 2014. Sui sistemi di visione e sorveglianza all’opera nel Mediterraneo e la produzione di un’estetica delle frontiere volta al controllo delle migrazioni, sulle pratiche di visibilità e sulle zone grigie tra visibilità e invisibilità, cfr. Lorenzo Pezzani e Charles Heller, Forensic Oceanography. Uno sguardo disobbediente, http://www. lavoroculturale.org/sguardo-disobbediente-parte-prima/. Sui “mali necessari” presentati come “mali minori” nella condizione etica del presente e del presente umanitario, a partire tra l’altro da alcune considerazioni di Arendt, cfr. Eyal Weizman, Il minore dei mali possibili (2011), tr. it. di N. Perugini, Nottetempo, Roma 2013. Le espressioni “l’orrore del nostro presente umanitario” e quella relativa alla logica del male minore rispetto alle opzioni disponibili si trovano, rispettivamente, a p. 23 e 24. Per una riflessione sulla “ragione umanitaria” del presente, cfr. anche Didier Fassin, La raison humanitaire, Gallimard Seuil, Paris 2010. Per una riflessione sul Mediterraneo e la “frontiera dell’umanitario”, cfr. Glenda Garelli, The Humanitarian Frontier in the Mediterranean. Border Work and the Right to Presence, Phd Dissertetion, University of Illinois at Chicago, 2015.





Conclusioni

Frantumi di conclusioni – Frantumi, perché nella pratica delle “conclusioni”, d’abitudine, si sintetizza ciò che è già stato detto, dandogli un’altra forma, più sicura e decisa rispetto a quella descrittiva e analitica delle pagine che le hanno precedute. Per questo, il rito delle “conclusioni” è un rito che qui non mi sembra il caso di rispettare. C’è un resto, però, che rimane non detto perché non ho saputo trovare il modo e probabilmente nemmeno il coraggio per provare a dirlo, individuando la “parola del delirio” in cui poterlo fare. Forse, avrebbe potuto essere la parola “Rivoluzioni” a cui ho spesso pensato mentre stavo scrivendo le altre parole. Se l’avessi scritta, avrei iniziato sicuramente con le strade e le piazze della rivoluzione tunisina, prima e dopo la cacciata di Ben Ali, da quell’improvvisa capacità di rompere lo spazio dittatoriale per far essere i propri corpi, le proprie esistenze, i propri immaginari e i propri sogni tra i muri e l’asfalto delle periferie e dei centri delle città, da quell’irruzione di possibilità che in pochi mesi, a partire da Sidi Bouzid e dal gesto estremo di Mohamed Bouazizi, aveva saputo sconvolgere le geografie politiche consolidate, riempiendo di suoni, di segni, di murales e di parole, e della quotidianità delle proprie esistenze, lo spazio rivoluzionato. “Rivoluzioni”, però, non sarebbe stata una parola declinata al plurale solo per la rapida espansione, dal Maghreb al Mashreq, e, nell’altra direzione, dal Maghreb all’Europa, di quelle modalità d’azione con cui le esistenze che avevano deciso di contare hanno saputo trovare nella “presa dello spazio” la loro forza comune, imponendo una “geografia della liberazione”. “Rivoluzione”, infatti, è anche la parola che nel suo libro sull’Is, uscito qualche mese fa, Scott Atran usa per parlare proprio dello Stato islamico, attraverso un’analisi provocatoria e coraggiosa perché in assoluta opposizione nei confronti

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di tutti i discorsi che cercano di spiegarne la nascita, la costituzione e la sua capacità di attrazione, inquadrandolo in un orizzonte di nichilismo, privo di qualsiasi forma di razionalità e di strategia politica. Così, se l’avessi scritta, nella parola “Rivoluzioni” queste due forme di “rivoluzione” si sarebbero affiancate l’una all’altra, e forse intrecciate tra loro, perché, per quello che mi sembra di poter dire, avendo frequentato la Tunisia, tra i sogni di un’altra geografia, anch’essa della liberazione, sono comparsi, quasi subito dopo la fuga Ben Ali, anche quelli di uno spazio governato da un’altra legge, scritta come un dettato trascendente la scrittura umana. Non sono un’esperta, però, né ho frequentato i gruppi dell’islamismo politico e radicale in Tunisia o altrove. Inoltre, di che cosa sia stato il sogno di quell’altra rivoluzione e di un territorio governato dalla legge divina nei luoghi in cui ai primi sussulti rivoluzionari contro le dittature sono seguiti eterni momenti di guerre o di repressioni, ho conoscenza solo sotto forma di lettura, di articoli, libri, saggi, cercati qua e là per recuperare quel “ritardo” di conoscenza quasi costitutivo, in Europa, che non permette di cogliere ciò che sta accadendo se non con lo sguardo cieco di un’ignoranza diffusa non riconosciuta in quanto tale. Non sono nemmeno un’esperta della storia dell’Iraq e della sua invasione e devastazione ad opera di una delle tante “coalizioni dei volenterosi” che hanno visto la luce negli ultimi quindici anni di guerre permanenti e diffuse. Per questo, mi limito a dire qualcosa di frantumato alla fine di questo lavoro di scrittura, senza la “superbia” di una “parola del delirio” che dica l’intreccio, il contrasto, l’opposizione e l’affiancamento tra quelle due idee e pratiche di “rivoluzioni”: la delusione dinanzi alla stagnazione dell’una, la sua difficoltà o incapacità di progettare l’idea di un mondo, o almeno di una sua piccola porzione, retta da regole diverse da quelle delle stanche e declinanti democrazie rappresentative occidentali e dei loro credo neoliberisti, e la forza sempre più dirompente, per quanto minoritaria, dei sogni dell’altra. Parole frantumate, dunque, che si affiancano all’infinità di parole, di esperti, di pseudo-esperti, di non esperti, ma quasi tutte pronunciate dal proprio spazio solitario, che si affiancano, dunque, a quel brusio di parole che avvolge le nostre giornate, qui, in Europa, dopo ogni attentato che riguarda questo spazio geopolitico o che, in altri luoghi, coinvolga cittadini di questo spazio. Una sorta di “euroattentatismo” che reitera la buona tradizione dell’eurocentrismo, in un tempo in cui sembrano essere svaniti i “centri” e l’immaginario geografico e le no-

CONCLUSIONI 159

stre percezioni delle spazialità, più che intorno ai centri e alle periferie, si stanno riorientando intorno ai luoghi degli attentati e agli spazi di guerra. Scrivo oggi, 17 luglio 2016, a qualche giorno di distanza dall’attentato di Nizza. Ma non vorrei essere fraintesa. Non sto criticando in sé l’atto della presa di parola, né auspicando che esso si limiti alle opinioni degli esperti, perché, all’opposto, dinanzi alla rapida riconfigurazione della realtà di questi anni, esperti/e o non esperti/e, siamo stati/e colti/e tutti/e impreparati/e, come impreparati/e si è sempre dinanzi alle improvvise novità con cui si impongono alcuni eventi capaci di spezzare la configurazione dell’orizzonte consueto dell’accadere. Dinanzi alla proclamazione dello Stato islamico, inoltre, al di là di coloro che abitano all’interno del suo territorio, o di coloro che lo combattono sul terreno, al di là, ancora, di coloro che sono fuggiti dalle sue violenze, siamo tutte/i equiparati in una condizione di non-esperienza e di conoscenza soltanto indiretta, “in effige”, attraverso la produzione di immagini che provengono da quei territori, siano le immagini che il Califfato diffonde di se stesso, o quelle diffuse con non poche difficoltà dai suoi oppositori, o, ancora, quelle prese dall’alto dalla coalizione in guerra contro di esso. Non sto criticando, dunque, di per sé l’atto della presa di parola, perché, anzi, penso che cercare parole, briciole di parole, frammenti di comunicazione, sia del tutto necessario per provare a scuotere quelle trincee di quotidianità e finta normalità con cui nello spazio pubblico si sta “reagendo” a quanto accade, allontanandolo o rimuovendolo da quella stessa quotidianità. Sto solo avvertendo l’assoluta mancanza di parole collettive, discusse insieme, fossero pure unicamente frammenti di parole, o bisbigli in contrasto tra loro, a partire dai quali, però, cercare pratiche di azioni comuni, alternative alle pratiche di guerre dichiarate e praticate prima e dopo ogni attentato in spazi sempre meno delimitati, ma prendendo a pretesto le minacce ai propri cittadini attraverso quelle violenze improvvise. È un paradosso del nostro tempo: alcuni cittadini o residenti di lunga data in un paese colpiscono i cittadini/e o residenti di lunga o breve data di quel paese, insieme a qualche inevitabile turista, e si proclama uno “stato di guerra” contro un territorio distante che non si riconosce come entità statale se non, proprio, attraverso le proclamazioni di guerra che cercano di ristabilire il cuore, il nucleo, il centro, lo stato, da cui fingere che provenga direttamente la violenza. Seguono i riti del cordoglio, spontanei e impotenti, da un lato, isti-

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tuzionali e armati, dall’altro, nessuno spazio di mezzo tra quell’impotenza e le armi, se non quello delle parole disperse nello spazio pubblico a partire dalle proprie solitudini. Tra queste, predominano quelle che riconducono quelle azioni ormai cadenzate e ripetitive di improvvise e devastanti violenze a un orizzonte nichilista, a sua volta impotente, e quelle che, addirittura, riconducono l’incremento degli attentati a una difficoltà del Califfato, a una sua imminente sconfitta nei territori rapidamente conquistati subito dopo la sua proclamazione. Come se seminare il caos, la paura, il terrore e in ogni individuo l’idea che qualsiasi luogo dello spazio pubblico potrebbe essere quello della prossima devastazione non fosse un’azione riconducibile a una strategia politica, a un disegno di riconfigurazione del mondo, con una sua razionalità, una sua logica, quella, per esempio, di esportare/ importare la violenza devastatrice negli spazi di quegli stati da cui essa è stata esportata nei propri territori. Come se, tra l’altro, la razionalità e la logica politica della violenza devastatrice fosse possibile solo quando la violenza è stata programmata e proviene da questa parte del mondo e nell’orizzonte di quegli stati in guerra permanente di cui siamo cittadini e cittadine consueti, ormai, alla rimozione. Come se il Califfato non fosse anche un sogno, un progetto, il sogno di una riconfigurazione dei domini del mondo, capace di mobilitare proprio attraverso la forza dell’immaginario e dell’utopia, e di attrarre a sé alcune forme di desiderio di cambiamento radicale. Come se riuscire a mutare nell’intimo il modo di stare al mondo e nello spazio degli individui residenti in alcune zone del mondo e, in questo caso, per quanto concerne questa zona del mondo, consueti da vari decenni a una certa tranquillità nel loro stare nello spazio pubblico, non fosse una forza, una potenza diffusa, al di là di ogni imminente sconfitta territoriale. Riportare il Califfato e i suoi attentati alla pura irrazionalità, a un istinto cieco, a una follia, compresi quelli sortiti dal “bricolage” di qualche isolato o non del tutto isolato violento a cui l’orizzonte del Califfato permette il passaggio all’atto grazie all’iscrizione della propria azione devastatrice dentro alla dignità di quell’orizzonte, è solo il segno di una débâcle della comprensione, che provenga dalle parole solitarie di qualche esperto/a di gruppi jihadisti o da quelle altrettanto solitarie e sempre più declinanti verso un comune e profondo razzismo – soprattutto sotto forma di islamofobia – di tutti/e quelli/e che hanno ormai, a forza di attentati, e loro malgrado, il sapere dell’esperienza. Tra le parole che circolano nello spazio pubblico fa sentire con forza il suo frastuono anche quella secondo cui gli attentati attente-

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rebbero ai “nostri” valori. È una parola in gran parte istituzionale, che François Hollande, per esempio, ha pronunciato per ben quattro volte in diciotto mesi, riportando gli attentati francesi all’attacco ai valori della Francia e ai “diritti umani”, e quello di Bruxelles a un attacco all’Europa intera, “ai suoi valori, ai suoi principi”. Thomas de Maizière, ministro dell’interno tedesco, dopo l’attentato di Bruxelles ha dichiarato che, considerando i luoghi degli attentati, un aeroporto internazionale e una stazione del metrò, “questo sembra indicare che l’obiettivo degli attentati non è soltanto il Belgio, ma anche la nostra libertà di movimento, la nostra mobilità”. Una parola istituzionale e forse sempre più distaccata dal “sentire comune”, per quanto non abbia alcun senso praticare il vano esercizio di stabilire quale sia il “sentire comune”. Certo è, che, per quanto istituzionale, quella parola è stata del tutto supportata dalle parole non istituzionali, sin dall’alba del primo attentato, da quei milioni di “je suis Charlie” proiettati nello spazio pubblico mondiale, reale e virtuale, come un’arma di difesa di “Charlie Hebdo” e della sua “libertà di espressione” del tutto conforme all’espressione dominante. Proverò a dirlo con una battuta, sentita o letta da qualche parte, anche se non ricordo dove. Più che il paese dei “droits de l’homme”/“diritti dell’Uomo”, la Francia è il paese della “Déclaration des Droits de l’Homme”/“Dichiarazione dei diritti dell’Uomo”. Ed è inutile spingersi indietro sino al lontano 1789 e al testo di quella “Dichiarazione” con le sue aporie e contraddizioni, perché basta fermarsi al presente per cogliere tutta la dirompente verità di quella battuta. Ma non voglio limitarmi a una battuta. E provo a ritornare, allora, alla “scelta di Catia”, lì, dove essa non si confonde sino in fondo con quella di “Sophie”, perché, in mezzo al Mediterraneo, di fronte a un mare di corpi annaspanti, “reagisce” a quella scena dando l’ordine di cercare di salvare i corpi di chi ha ancora un respiro e un sussulto di vita. Guardando quella scena, attraverso le immagini diffuse dalla Marina militare qualche giorno dopo il naufragio e inserite nel docuweb prodotto da “RaiFiction” sul Comandante Catia Pellegrino, anche “noi” “reagiamo” nello stesso modo. Ma solo perché un orizzonte di scelte politiche ed estetiche ha fatto essere lì quei corpi e “noi” insieme a Catia Pellegrino e al suo equipaggio nell’imbuto di una “reazione”. Non molto più estesi e anch’essi ridotti a un imbuto sarebbero i limiti della “reazione” nel caso in cui dinanzi ai corpi che esplodono o che vengono falciati come birilli mentre prendono la metropolitana, attendono all’aeroporto, stanno sulla spiaggia, o passeggiano lungo

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una “Promenade”, si continuasse ad avallare l’idea della necessaria difesa dei “nostri” valori. Che fare? Non ho alcuna risposta e non credo nelle risposte solitarie. Provo, però, a dire qualche ultima parola frantumata o, infine, la mia “parola del delirio”. In fondo, il tempo attuale, che qualcuno caratterizza come il tempo del sentimento di un’impossibilità dell’azione, e di un’azione politica, è, contemporaneamente, per qualcun altro, che le studia e ne aggiorna l’elenco ogni giorno, il tempo di un’infinità di rivolte o sommosse (émeutes). Scrive Alain Bertho nel suo ultimo libro rispetto a una delle modalità che accomunano le diverse sommosse tra loro: “Non si osserva alcuna strategia insurrezionale nei rischi, a volte insensati, presi dai giovani o giovanissimi. Non c’è, evidentemente, nemmeno una briciola di speranza di poter vincere in questo faccia a faccia. Ma tutti condividono la stessa accanita volontà di ‘convocare’ il potere (e di conseguenza la sua polizia) per dirgli qualcosa che non può essere detto altrove e in altro modo”. “Convocare” il potere. Non sarà, evidentemente, continuando a identificarci con quelli che i poteri chiamano i “nostri valori” che si riuscirà a convocarli per dire loro qualcosa che non può essere detto altrove o in altro modo. È vero, gli attentati agli aeroporti o a alle metropolitane attentano anche alla libertà di movimento, così come un attentato a un bistrot o lungo una “Promenade” attentano alla possibilità di bere un caffè, di prendere un aperitivo o di passeggiare in un giorno di festa con tranquillità. Ma quello che per ora non si sta dicendo “in altro modo” è che quei gesti, prendere un aereo, la metropolitana, un treno, passeggiare tranquilli in un giorno di festa, si stagliano sullo sfondo di una gerarchia delle vite per cui è “normale” che alcuni/e muoiano o annaspino nel mare mentre altri/e si sentono attaccati nei propri valori di libertà di movimento, di prendere un aereo o il sole su una spiaggia, a pochi chilometri dall’annaspare degli/delle altri/e, dinanzi a un attentato. Sono, infatti, i “valori” di cui godono alcuni/e sullo sfondo della negazione di quegli stessi “valori” per gli/le altri. Per accorgersene, per vederlo, basterebbe affiancare le parole con cui Dimitris Avramopoulos descrive lo spazio Schengen, esortando i/le cittadini/e di quello spazio a esercitare la propria libertà di movimento – “salite su un treno, saltate in macchina e andate a visitare i vostri vicini. Tutto ciò senza dover pensare alle frontiere. Buon viaggio!” – e “i treni che erano in ritardo” alla stazione di Budapest, o meglio, senza alcuna evocazione letteraria, la circolazione dei treni soppressa a Budapest ma anche tra varie frontiere di alcuni

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stati membri durante il “mostruoso settembre” 2015. Così, di fronte al sogno o all’incubo di una riconfigurazione dei domini del mondo che attrae per la sua radicalità, capace di sbattere in faccia a tutti/e le violenze di questo mondo, continueremo a non trovare alcun altro sogno da sognare e “agire” nel caso in cui seguiteremo ad adeguarci ai “nostri” valori, senza trovare la modalità, non so se per “convocare”, o per “evadere” i poteri e dirgli, dicendoci, qualcosa che non può essere detto in altro modo. Riferimenti bibliografici Non è il caso, qui, di fare riferimento all’enorme quantità di libri sulla rivoluzione tunisina usciti con grande rapidità dopo la caduta di Ben Ali e poi nel corso degli anni. Mi limito a citare quelli a cui ho pensato mentre scrivevo queste pagine. Per un’analisi delle diverse rivoluzioni nel mondo arabo, Gilbert Achcar, Le peuple Veut. Une exploration radicale du soulèvement arabe, Sindbad-Actes Sud, Paris 2013. Sull’esperienza della rivoluzione come una nuova modalità di abitare lo spazio pubblico, soprattutto in collegamento con le pratiche artistiche nate in Tunisia prima, durante e dopo la rivoluzione, cfr. Paola Gandolfi, Rivolte in atto, Mimesis, Milano-Udine 2012 e Paola Gandolfi, Corpi in movimento, tra arte e realtà nella Tunisia in transizione, in “Etnografia e ricerca qualitativa”, 1, 2016. Sull’importanza dei corpi e sulle nuove forme di socialità nelle piazze delle rivoluzioni del 2011, soprattutto con riferimento all’esperienza di piazza Tahrir, cfr. Judith Butler, Bodily Vulnerability, Coalitions, and Street Politics, in “Critical Studies”, 37, 2014. Sull’esperienza dell’occupazione della Casbah a Tunisi, cfr. Fulvio Massarelli, La collera della Casbah, Agenzia X, Milano 2012. Sulla pratica del “darsi fuoco” cfr. Annamaria Rivera, Il fuoco della rivolta, Dedalo, Bari 2012. L’espressione “geografia della liberazione” riferita alle rivoluzioni del 2011 si trova in Hamid Dabashi, The Arab Spring. The end of Postcolonialism, Zed Books, London-New York 2012. Sul sentimento di delusione nella Tunisia postrivoluzionaria, cfr. Shiran Ben Abderrazak, Journal d’une défaite. Chroniques de Tunisie 2011-2013, Boussaa, Tunis 2015. Sullo spazio tunisino e le migrazioni, cfr. Glenda Garelli e Martina Tazzioli, Tunisia as a Revolutionized Space of Migration, Palgrave, New York 2016. Sulle rivoluzioni e la violenza in Medio Oriente, cfr. Hamid Bozarslan, Révolution et état de violence. Moyen-Orient 2011-2015, Cnrs Editions, Paris 2015. Una considerazione sulle rivoluzioni e l’Islam si trova in Tariq Ramadan, L’Islam et le reveil arabe, Presse du Châtelet, Paris 2011 e in Baudouin Dupret (sous la direction de), La Charia aujourd’hui, La Dècouverte, Paris 2012. Un sito che segue gli avvenimenti politici, sociali e culturali in Tunisia, con interessanti materiali di discussione e interviste è : Tunisia in red, http://www. tunisiainred.org/tir/index.php; per la sezione dedicata a un archivio di articoli sulla rivoluzione: http://www.tunisiainred.org/tir/?cat=7. Altri blog interessanti: Inkyfada, https://inkyfada.com/; Nawaat, http://nawaat.org/portail/; e quello di

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Habib Ayeb, soprattutto per quanto riguarda le condizioni ecologiche, economiche, politiche e sociali delle zone marginalizzate della Tunisia, https://habibayeb. wordpress.com/about/ Sull’Is come “rivoluzione”, Scott Atran, Isis is a revolution, Aeon, London 2015. Una ricostruzione della nascita dell’Is durante la Seconda guerra del Golfo si trova in Myriam Benraad, Irak, la revanche de l’histoire. De l’occupation étrangère à l’Etat islamique, Vendémiaire, Paris 2015. Sulla diffusione delle immagini da parte dello Stato islamico, a partire dalla sua proclamazione, sono comparsi in questi anni moltissimi articoli. Rinvio a quelli di Donatella Della Ratta, attenti anche ai video e alle immagini di organizzazione della vita nei territori del Califfato. Si possono trovare nel suo blog: https:// mediaoriente.com/ Una riflessione sul presente come orizzonte in cui l’agire politico “è sentito come qualcosa di impossibile”, cfr. Daniele Giglioli, Stato di minorità, Laterza, Roma-Bari 2015. Il libro di Bartho da cui è tratta la citazione è Alain Bertho, Les enfants du Chaos. Essai sur le temps des martyrs, La Découverte, Paris 2016, p. 51. Il sito in cui dà conto delle rivolte/sommosse del presente è: “Anthropologie du présent”, https://berthoalain.com/. La frase di Dimitris Avramopoulos, che ho già citato nella prima parte di questo lavoro, si trova a questo link: http://ec.europa.eu/dgs/home-affairs/e-library/ docs/schengen_brochure/schengen_brochure_dr3111126_it.pdf. L’espressione “i treni che erano in ritardo” è un voluto riferimento al romanzo di Heinrich Böll, Il treno era in orario (1949), tr. it. di A. Chiusano, Mondadori, Milano 1981, sconsolata descrizione di un altro periodo storico, quello del nazismo, e di un altro fronte di guerra.

Parole mancanti – Sì, perché mancano alcune parole. Non che siano andate perdute, e nemmeno che siano talmente evidenti agli occhi di tutte/i da non essere viste, come nel caso della famosa lettera rubata del racconto di Edgar Allan Poe poi ripreso da Lacan. Sono, più semplicemente, parole che non ho scritto. Per vari motivi. Uno di questi è che non ho mai avuto l’intenzione, pensando a questo libro, di inseguire un sapere enciclopedico sul presente, né di provare a “sistemare” il presente a partire da alcune povere parole scritte e pensate in solitudine, come a volte capita di intravedere in alcuni libri scritti con tali intenzioni. Non avevo nemmeno la pretesa di dire che cosa sia il presente, di fissarne i confini, di segnare un’epoca. Ma solo quella, come ho detto più volte, di stare di fronte alla realtà frantumata con qualche parola, nel tentativo di “elencarla”, di “rifletterla”, in una ricerca di comprensione o di scomposizione di alcuni suoi pezzi, ma con la consapevolezza che non tutto può essere capito, spiegato e sistemato.

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C’era pure un mio desiderio più personale, quello di ritrovare l’abitudine e anche il piacere della scrittura. E uno dei motivi per cui mancano alcune “parole del delirio” ha a che fare proprio con l’abitudine e il piacere ritrovati. La seconda parte di questo libro l’ho scritta in un periodo di malattia, un po’ prigioniera del mio corpo, a casa, ad aspettare di guarire. Cercare parole da mette in sequenza o da frantumare mi ha dato anche il piacere, oltre a quello dell’abitudine ritrovata, di spezzare almeno in parte lo stato di prigionia. Ma ora ho voglia di ritornare nel presente che abito e di smettere di “scriverlo”, di “elencarlo”, così, abbandono “le parole del delirio” del presente al loro delirio privo di elencazione, o, per lo meno, privo della mia elencazione, e concludo queste pagine con un breve e piccolo altro elenco. È l’elenco di alcune delle “parole del delirio” che si trovavano tra i miei appunti prima di iniziare la scrittura o di quelle a cui ho pensato mentre stavo scrivendo le altre e che poi ho tralasciato. Ecco qui, un po’ alla rinfusa: “Salvare Schengen”, “Rivoluzioni”, “Guerre”, “Solidarierà 2”, “Naufragi 2”, “Hotspot”, “Aylan”, “Droni”, “Libia”, “Trafficanti-passeurs”, “Rifugiati/migranti economici”. Alcune, in realtà, sono parole deliranti che si sono sbriciolate nel corso della scrittura, andando a confluire in modo frantumato tra le frasi di qualche altra parola, come la parola “Libia”, per esempio, insieme a “Trafficanti/passeurs” e “Rifugiati/migranti economici”. Se, invece, avessi dedicato a “Aylan” una parola, sarebbe stato solo per citare le parole del padre, Abdullah Kurdi, unico sopravvissuto della famiglia al naufragio, che in una recente intervista chiedeva di non chiamare così suo figlio, ridandogli il suo vero nome: “Alan”. “Solidarietà 2” manca perché è una parola in cui avrei cercato di descrivere le esperienze dell’essere con i migranti, con i rifugiati, i richiedenti asilo, che cercano di rompere gli schemi di quella “solidarietà in dissidio”, ma involontariamente complice, di cui ho scritto nella parola “Solidarietà”. Avrei desiderato anche attenuare un po’ ciò che affermo nelle pagine dedicate a quella parola, e dar conto di quelle esperienze di rottura o di tentativi di rottura con ogni forma di complicità, fosse pure non voluta, e per questo non “elogiate” ma spesso represse dalle varie polizie degli stati membri dell’Unione europea. Ma sono esperienze a cui non ho partecipato, per questo ho preferito non parlarne. Ed è così, anche per “Hotspot”, una parola fondante nelle politiche migratorie dell’Ue di quest’ultimo periodo, a tal punto che nei testi dell’Ue si parla ormai di un “approccio Hotspot” per caratterizzarle, ma di cui ho tralasciato la descrizione

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perché mi manca, non un’esperienza diretta, impossibile in quanto cittadina europea, ma, per così dire, una “visione diretta” di che cosa siano, quella visione fatta di interviste, di visite ai luoghi o di una prossimità agli stessi, di incontri con coloro che ne fanno l’esperienza, e che è bene avere quando si parla di migrazioni. “Hotspot”: quei luoghi un po’ fantomatici, all’inizio, quando erano apparsi nei primi testi e spuntavano continuamente sulle labbra dei “pastori europei” (Foucault) come la parola magica a cui affidarsi per trovare la soluzione finale della “crisi dei rifugiati”, ma a cui ognuno di loro dava un diverso significato. Gli “Hotspot”, si è chiarito nel corso del tempo, sarebbero stati luoghi di raccolta in cui procedere a una rapida divisione tra “richiedenti asilo” e “migranti economici”, per concedere eventualmente lo status di rifugiati ai primi, ricollocandoli nei paesi membri attraverso l’inesistente procedura delle “ricollocazioni”, e rimandare a “casa” i secondi. Insomma, luoghi di detenzione, per intenderci, come nella loro realizzazione sono diventati quelli istituiti in Italia e in Grecia. Se avessi scritto questa parola, avrei comunque iniziato con una citazione che riporto qui. Non quella di qualche mia amica o amico, ma quella dell’Alto commissario Onu per i diritti umani, Zeid Ra’ad Al Hussein, che il 13 giugno 2016, davanti al Consiglio per diritti umani a Ginevra, li chiama con il loro nome, definendoli “vaste zone di confinamento forzato”, e ammonisce l’Europa per questa nuova pratica detentiva con la quale imprigiona a lungo anche i/le bambini/e. “Naufragi 2”, invece, avrebbe potuto essere una parola interminabile. Avrei iniziato, infatti, da un lontano giorno di settembre, nel tardo pomeriggio, tra le acque di Lampedusa, accanto al piccolo scoglio di Lampione; da una telefonata che chiedeva soccorso e che si può ancora ascoltare su internet, poi dalle parole di un ragazzo, sopravvissuto a quel naufragio, che ho intervistato a Tunisi, a lungo, nel maggio del 2015, per cercare nuovamente di ricostruire la dinamica di quanto era accaduto, dopo aver provato a immaginarla con i pescatori di Lampedusa che avevano ritrovato in mare qualche corpo nei giorni successivi al naufragio, ed essere andata a cercare il relitto con un sommozzatore del posto e alcuni video-sommozzatori di Palermo, avere ascoltato le loro deduzioni mentre facevano le ricerche in mare e sulla barca il sole bruciava, ed essere ritornata a Lampedusa, insieme a loro, senza averlo trovato. Avrei raccontato degli incontri in Tunisia con i genitori dei migranti “dispersi” in quel naufragio, avrei raccontato dei tentativi di far riesumare i corpi ritrovati e seppelliti nel cimi-

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tero dell’isola, delle lungaggini burocratiche, delle autorità tunisine e del loro atteggiamento, sempre gentile dinanzi alle mie richieste e di ufficiale ringraziamento per la mia ricerca dei “loro cittadini”, a cui però non faceva seguito un atto preciso, indispensabile affinché quella riesumazione potesse avvenire. Un “fax” che per mesi e mesi, e a conti fatti per quasi due anni, non è stato spedito, con cui chiedere alle autorità italiane di riesumare quei corpi. Avrei raccontato, insomma, del naufragio del 6 settembre 2012, in cui risultano “dispersi” 79 migranti, compresi una donna e un bambino, e dei mesi e degli anni successivi perché un naufragio ha anche un dopo, lungo, estremamente lungo, fatto di affetti e di dolore, di attesa, di ricerche, come ho imparato in Tunisia. Avrei raccontato... Ma non l’ho fatto, perché sarebbe davvero un racconto infinito e alcune cose meglio aspettare per raccontarle. I corpi, comunque, a tutt’oggi, 22 luglio 2016, non sono ancora stati riesumati per procedere al loro riconoscimento tramite il confronto del Dna dei genitori. Avrei, inoltre, raccontato di cosa significhi la parola “dispersi”, che continuo a usare tra virgolette, perché ho conosciuto il significato di quella parola tra le foto e le vite delle madri e delle famiglie dei migranti tunisini “dispersi”, non solo dei “dispersi” di quel naufragio, ma anche di quelli di cui non si sa ancora dove e quando sia avvenuta la loro “dispersione”. In mare, forse? ma in quale zona del mare? In acque internazionali o vicino alla costa? dove i “dispersi” sostenevano di trovarsi nelle loro telefonate ai genitori durante il viaggio, quando erano ancora figli vivi e non fotografie da portare con sé per strada nelle proprie manifestazioni. Vicino alla costa di Lampedusa, per esempio, il giorno in cui Berlusconi era in visita sull’isola e le imbarcazioni non venivano fatte arrivare? Ma, per l’appunto, non ho scritto la “parola del delirio” “naufragi 2” e di tutte le reticenze delle autorità italiane e tunisine, degli ostacoli frapposti alle famiglie nel loro tentativo di trovare una verità, e non ha senso scriverla ora. “Salvare Schengen”, al contrario, è una parola a cui ho facilmente rinunciato, perché quel ritornello ripetuto e ripetuto da quegli stessi sovrani che chiudevano frontiere, sospendevano la circolazione dei treni, chiedevano mesi di proroga rispetto a quelli previsti nel “Trattato” e già trascorsi dopo la reintroduzione dei controlli sistematici alle frontiere interne, insomma, quel ritornello del tutto delirante, dal momento che Schengen era già stato affossato in vari modi, ha lasciato nel frattempo il posto a un ritornello più incalzante, dopo l’esito del referendum in Gran Bretagna, che abbandona lo spazio Schengen al

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suo destino e ci avvisa che ora è l’intera costruzione dell’Unione europea che si tratterebbe di salvare. Di “Rivoluzioni” ho già provato a dire in parte che cosa avrei scritto, se l’avessi fatto, in “Frantumi di conclusioni”. Qui aggiungo soltanto qualcosa. Non ho scritto questa parola perché non so farlo. Perché non sono una studiosa del mondo arabo, perché non conosco l’arabo, perché ho qualche conoscenza diretta e indiretta solo della rivoluzione tunisina, delle altre conosco solo le parole dei giornali, di qualche sito, di alcuni libri, troppo poco per concedersi la “superbia” di dirne qualcosa. E perché... perché non so dire perché quell’improvviso sommovimento dello spazio dei domini abituali, iniziato in Tunisia e che in poco tempo aveva saputo espandersi altrove, irradi ora la sua delusione e il sentimento di un’impasse globale nello stesso modo in cui a partire dal gennaio 2011 nei mesi e negli anni successivi aveva saputo irradiare stupore e ammirazione. Perché... perché non so dire se l’esperienza tunisina della stagnazione e della regressione, che molti chiamano e persino elogiano come “transizione”, aggiungendo l’aggettivo democratica come un pizzico di sale o di harissa per farla gustare meglio, abbia a che fare con alcuni errori di strategia politica da parte di alcuni/e dei/delle protagonisti/e della rivoluzione o sia lo specchio, del tutto trasparente, su scala ridotta, ma valido a livello globale, della mancanza di un progetto e di un sogno di un mondo alternativo a quello dell’orrore del mondo esistente. “Guerre” e “Droni” sono le due parole, per eccellenza, mancanti. Solo la parola “Guerre”, in realtà, perché i droni sono parte costitutiva dell’attuale modo di condurre e concepire le guerre. Negli appunti che avevo preso mentre continuavo a pensare a come scriverla, c’erano tre frasi che avrei voluto citare, e rimanevo indecisa su quale scegliere di mettere all’inizio. Provo a immaginare ora che sarebbe stata quella di Paul B. Preciado, scritta a commento della firma dell’accordo tra l’Ue e la Turchia, il 18 marzo del 2016: “Europa e Turchia dichiarano oggi guerra ai popoli migranti che potrebbero attraversare le loro frontiere. È questa la sensazione che si prova percorrendo le strade di Atene, tra gli edifici occupati dai profughi e le centinaia di persone che dormono nelle piazze: una guerra civile contro coloro che, dopo essere sfuggiti a un’altra guerra, cercano di sopravvivere”. Ma l’avrei fatto per retrodatare di alcuni anni la guerra che l’Europa sta conducendo contro i/le migranti, insieme, di volta in volta, ai diversi partner “volenterosi” di entrare nella coalizione. Alcune tappe di questa guerra. Ottobre 2004, da Lampedusa l’Italia deporta in Li-

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bia più di mille persone che la Libia deporta a sua volta verso le sue frontiere nel deserto; marzo 2005, da Lampedusa l’Italia ripete l’operazione di deportazione verso la Libia, dopo il successo di quella inaugurata ad ottobre: centinaia i morti tra i migranti deportati dalla Libia verso le sue frontiere nel deserto; settembre-ottobre 2005, è la volta del Marocco, insieme alla Spagna, che sparano sui migranti mentre cercano di oltrepassare in gruppo le barriere di Ceuta e Melilla, poi, alla fine della sparatoria e dell’uccisione di alcuni di loro, la Spagna deporta in Marocco i migranti che erano riusciti ad oltrepassare la barriera, il Marocco deporta verso l’Algeria e il deserto della Mauritania i migranti che gli vengono consegnati dalla Spagna e quelli rimasti sul suo territorio; dicembre 2005, la polizia egiziana spara su una folla di rifugiati accampati in protesta davanti alla sede dell’Unhcr, al Cairo. E i morti nel Mediterraneo? In quale orizzonte di “effetti collaterali” vanno computati? Ma non si tratta, in realtà, di “effetti collaterali”. La guerra ai migranti/“migranti economici”/rifugiati/richiedenti asilo/naufraghi/ morti/“dispersi”/fotografie non è, infatti, solo una delle tante guerre permanenti del nostro mostruoso presente e una delle loro possibili declinazioni che racchiude in sé alcune delle caratteristiche di tutte le altre: lo spazio indefinito; il tempo “permanente”; un nemico indistinto; il pretesto per la sperimentazione di tecnologie sempre più avanzate; un’azione di caccia, o di polizia, preventiva, e per questo costante, priva di inizio e priva di fine; la commistione di umanitario e militare e la legittimazione del militare attraverso l’umanitario. E, inoltre, la caratteristica di un’etica dell’irresponsabilità, per vari motivi: per l’uso dei droni, che cancella il corpo dei combattenti, da un lato e dall’altro, perché chi aziona il drone sta seduto nel proprio ufficio a chilometri di distanza dal luogo colpito, e perché chi ne subisce l’effetto non ha alcuna possibilità di risposta; perché in quanto condizione permanente e preventiva, la guerra non comporta una dichiarazione, né una procedura di deliberazione, e, per questo, tra l’altro, nessuna contestazione. La guerra ai migranti/“migranti economici”/rifugiati/ richiedenti asilo/naufraghi/morti/“dispersi”/fotografie è tutto questo, certo, ma è anche la punta più avanzata delle attuali forme di guerra: una guerra agli esseri umani, direttamente, i cui obiettivi o bersagli sono proprio quei corpi in movimento che si tratta di bloccare, deviare, controllare, prevenire, sospettare, selezionare, far passare. E far morire, per continuare a bloccare, deviare, controllare, prevenire, sospettare, selezionare, far passare.

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La punta più avanzata, sempre più intrecciata con le altre forme di guerra. 5 maggio 2016: si celebra un concerto a Palmira, appena riconquistata all’Is da parte della Russia; ad Aleppo è il primo giorno di tregua, negoziato da Russia e Stati Uniti con le altre parti in campo, le forze contro Assad e le forze governative; nella provincia di Idlib, alla frontiera con la Turchia, viene bombardato il campo di Al-Camouna, dove erano attendati i profughi fuggiti nelle settimane e nei mesi precedenti dalle province di Aleppo e Hama. Non una costellazione benjaminiana, in cui il presente si incontra con un’epoca anteriore, nel tempo-ora della loro conoscibilità, ma una costellazione unicamente del presente, in cui una forma di guerra si incontra con un’altra forma di guerra e la tregua dell’una affina le armi dell’altra. È la condizione del nostro tempo, ora, davanti agli occhi di tutte/i e forse proprio per questo, come la lettera rubata, può passare inosservata, anziché essere colta nella sua conoscibilità. Riferimenti bibliografici Il racconto di Poe si trova in Edgar Allan Poe, La lettera trafugata, in Racconti, tr. it. di G. Manganelli, Einaudi, Torino 1983. Per la ripresa del racconto di Poe in Lacan, cfr. Jacques Lacan, La lettera rubata, in Il Seminario, Libro ii (19541955), ed. it. a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1991. Per una riflessione interessante sulla suddivisione dei migranti in “rifugiati” e “migranti economici”, cfr. Karen Akoka, Du consulat des réfugiés à l’administration des demandeurs d’asile: la fabrique des réfugiés à l’Ofpra (1952-1992), in “Migrinter”, 11, 2013. Cfr. anche Didier Fassin, Carolina Kobelinsky, Comment on juge l’asile. L’institution comme agent moral, in “Revue française de sociologie”, 4 (53), 2012, p. 657-688; Didier Fassin, The Precarious Truth of Asylum, in “Public Culture”, 25, 2013; Alessandra Sciurba e Filippo Furri, Human Rights beyond Humanitarianism. The radical challenge of the right to asylum in the Mediterranean space, in corso di pubblicazione in “Antipode Journal”, Special Issue, Mediterranean movements, a cura di Glenda Garelli, Alessandra Sciurba, Martina Tazzioli. Per l’intervista a Abdullah Kurdi, http://www.repubblica.it/esteri/2016/05/30/ news/l_intervista_abullah_kurdi_la_foto_di_mio_figlio_sulla_spiaggia_di_ bodrum_e_un_simbolo_eppure_niente_e_cambiato_per_c-140891221/ Per le dichiarazioni di Zeid Ra’ad Al Hussein, Alto commissario Onu per i diritti umani, http://www.humanite.fr/migrants-lonu-compare-les-hotspots-europeen-des-zones-de-confinement-force-609434. Sul funzionamento del “sistema Hotspot”, con particolare riferimento all’Hotspot di Lampedusa, cfr. Glenda Garelli e Martina Tazzioli, The EU hotspot approach at Lampedusa, in “Open Democracy”, Febbraio 2016, https:// www.opendemocracy.net/can-europe-make-it/glenda-garelli-martina-tazzioli/

CONCLUSIONI 171

eu-hotspot-approach-at-lampedusa; e Alessandra Sciurba, Hotspot system as a new device of clandestinisation: view from Sicily, in “Open Democracy”, febbraio 2016, https://www.opendemocracy.net/can-europe-make-it/alessandrasciurba/hotspot-system-as-new-device-of-clandestinisation-view-from-si. Sulle implicazioni politiche, etiche, epistemologiche dell’utilizzo dei droni nelle nuove forme di guerra rinvio al libro di Grégoire Chamayou, Teoria del drone. Principi filosofici del diritto di uccidere (2013), tr. it. di M. Tarì, Derive Approdi, Roma 2014. Per frase di Paul B. Preciado, L’Europa ha creato una catastrofe umanitaria d’altri tempi, http://www.internazionale.it/opinione/beatriz-preciado/2016/05/17/ europa-migranti-turchia-accordo. Per una cronologia degli episodi di Ceuta e Melilla nel 2005, cfr. Guerre aux migrants - chronologie Ceuta-Melilla, automne 2005, http://www.migreurop.org/ article857.html?lang=fr. Benjamin parla della costellazione legata al concetto di “Jetztzeit”, “tempo ora” o “adesso”, in Walter Benjamin, Sul concetto di storia, cit., soprattutto tesi xvii e A.

Ringraziamenti

Far leggere e attendere i commenti dopo la lettura è sempre stato per me un momento di legittimazione della scrittura, parte, dunque, della possibilità del fluire delle parole. Provando a scrivere parole che sorgevano dopo la loro frantumazione ho avuto ancor più bisogno di questo momento essenziale. Tra le parole che ho scritto, di cui, ovviamente, sono la sola responsabile, ci sono, dunque, in modi diversi, le letture e i commenti di tutte coloro a cui ho consegnato parti di questo lavoro mentre era ancora in fase di stesura. A tutte loro il mio più sincero ringraziamento: Ilaria Scovazzi, Glenda Garelli, Maddalena Bonelli, Paola Gandolfi, Alexandra Von Bubnoff, Antonella Moscati, Daniela Pastor, Serena Boeri, Sara Vignali. Ci sono poi i preziosi suggerimenti di coloro con cui ho discusso della parte iconografica di questo lavoro e che mi hanno permesso di superare l’iniziale ignoranza per la quale una foto online era già una foto stampata. Cercare di “correre ai ripari”, dal momento che molte parti del libro erano già state scritte con la convinzione che stampare le fotografie commentate sarebbe stato abbastanza semplice, è diventato, invece, un compito particolarmente laborioso. Un grazie particolare a Gianfranco Morosato, l’editore, per le continue telefonate in cui ha cercato di farmi capire che cosa fosse un libro nella sua materialità; a Glenda Garelli per la sua idea, poi irrealizzabile per motivi di copyright, di “fotografare le foto”; a Ester Sparatore per le prove di “foto delle foto” che avrebbero permesso di pubblicare la foto delle madri tunisine trovata sulla pagina facebook della “Association la terre pour tous” e di cui Imed Soltani non è riuscito a ritrovare l’originale; a Imed Soltani, per l’intera giornata persa a cercare la fotografia che gli avevo indicato tra il suo enorme archivio iconografico di madri e famiglie tunisine in movimento tra le strade di Tunisi a chieder conto dei loro figli “dispersi”; a Denis Pitter, per la rielaborazione in bianco

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LE PAROLE DEL DELIRIO

e nero della stessa foto, quella poi pubblicata e per la realizzazione del fermo immagine di Enrico Letta in ginocchio davanti alle bare dei bambini del naufragio del 3 ottobre 2013; ad Andrea Mattone e a Cinzia Gubbini, per le loro spiegazioni sul funzionamento del mercato delle immagini online e per le richieste ad alcuni giornali e agenzie relative ad alcune delle foto che volevo pubblicare. Grazie a Sara Prestianni e a Livia Cozzolino per avermi concesso la pubblicazione delle loro immagini. Grazie a Agnès Matrahji che ha accettato di far parte di questo libro con le sue parole sull’isola di Lesbo.

Finito di stampare nel mese di novembre 2016 per conto di ombre corte presso Sprint Service - Città di Castello (Perugia)