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Italian Pages 212 Year 2006
LUCIANO GALLINO ITALIA IN FRANTUMI € Euitori Laterza
00029534
LILLA,
Flessibilità, modernizzazione
dell’industria e del sistema educativo,
riforma di tasse e pensioni, globalizzazione. Tradotte, vogliono dire precarietà, crisi dell'economia e del made in Italy, crisi della ricerca
e rischio di precarizzazione dell’istruzione superiore, estensione delle disuguaglianze su scala planetaria. Negli articoli raccolti in questo volume sfilano i frammenti di un quadro nazionale (e non solo) fatto di incertezze piccole e grandi, domande a cui ancora nessuno ha potuto o voluto trovare risposta. Sotto lo sguardo indagatore, caustico e tagliente del più brillante sociologo italiano, si ricompone
il puzzle di un'Italia destrutturata e in piena crisi.
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Di Luciano Gallino nelle nostre edizioni:
Il costo umano della flessibilità
Globalizzazione e disuguaglianze
Ha inoltre curato:
Disuguaglianze ed equità in Europa
Luciano Gallino
Italia in frantumi
Bedi Laterza
© 2006, Gius. Laterza & Figli
Prima edizione gennaio 2006 Seconda edizione febbraio 2006
Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari
Finito di stampare nel febbraio 2006 Poligrafico Dehoniano Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 88-420-7834-4
Indice
Introduzione
Il lavoro in frantumi Diario postumo di un flessibile, p. 3 - Una riforma che avvicina l’Italia al terzo mondo, p. 7 - Chi vuole spegnere la
VII
3
voce del sindacato, p. 9 - La vittoria del sommerso, p. 13 -
Cassintegrato offresi, p. 17 - Tutti inumeri del lavoro, p. 19Sos lavoro nero, p. 22 - Lavoro in frantumi — conflitti in aumento, p. 25 - Articolo 18, perché votare sì, p. 28 - L’occupazione usa e getta, p. 31 - Se per combattere la crisi si aumentassero i salari, p. 34 - Una vita peggiore, p. 37 - Il lavoro atipico che fa male alle aziende, p. 40 - Lavoro, pro-
fitti e produttività, p. 43 - Il realismo ha sconfitto l’ideologia: tre anni persi su un falso problema, p. 45 - Nuovo lavoro, problemi di sempre, p. 47 - Le donne precarie, p. 49
L'industria in declino e il caso Fiat L'effetto domino della crisi Fiat, p. 53 - La tragedia dell’auto nazionale, p. 55 - Il ritorno all’automobile, p. 59 - Da
55
operai a «esuberi», p. 62 - Tutti i rischi di una divisione,
p. 64 mila, ciaio, clino poste p. 87
- Scene da anni ’60, p. 66 - Una speranza per centop. 69 - La storia si ripete, p. 71 - La parabola dell’acp. 74 - Ma la scommessa è l’innovazione, p. 78 - Il deindustriale dell’Italia senza imprese, p. 80 - Tre procontro il declino, p. 83 - Azienda Italia in vendita, - Competitività: le responsabilità delle imprese, p. 89
Nuove sfide a scuola e università Quella scelta al buio tra scuola e lavoro, p. 93 - La logica dello «spoils system» e il giuramento dei professori, p. 96 Un ricatto sulle università, p. 100 - Docenti precari a vita,
p. 103 - L’università sfidata dalla Rete, p. 107 - La storia nella Rete, p. 110 - Fu l’anno di Marcuse, p. 114 - Pierre Bourdieu, sociologo contro, p. 117
93
Bilanci di famiglia
121
Pensioni libere, strada difficile, p. 121 - Le variabili nasco-
ste del dibattito sulle pensioni, p. 123 - Riforma delle pensioni: un dizionario minimo per orientarsi, p. 126 - Effetto carovita: il peso delle statistiche, p. 131 - Il paniere imperfetto, p. 135 - Ma le famiglie non sono tutte uguali, p. 138 - Fare come Bush: meno tasse per le famiglie ricche, p. 140 - Chi pagherà per l'equazione impossibile, p. 143 - Finita l'era delle sicurezze, p. 145 - Se scompare il week end, p. 148 Nessuno tocchi le ferie, p. 151 - Lo scandalo del paese sempre più povero, p. 154
La povertà della globalizzazione Quei poveri alle porte dell'Occidente, p. 157 - Le forze invisibili dietro l’immigrazione, p. 161 - L'altro mondo escluso dalla Rete, p. 164 - Com'è vulnerabile il mondo globalizzato, p. 168 - La lunga marcia dell’impresa irresponsabile, p. 171 - Azionisti in trappola, p. 176 - Un patto tra lavoratori e no-global, p. 179 - Nessuno risponde di nulla nell’economia globale, p. 183 - Più dazi o più diritti per commerciare con la Cina?, p. 185
Lod
Introduzione
I due temi principali trattati in questo volume sono la degradante frammentazione in corso dei rapporti di lavoro, e la irresponsabilità della globalizzazione. Tra l’uno e l’altro compaiono temi diversi: il declino industriale, le sofferenze dei bilanci familiari, il rischio di precarizzazione dell’istruzione superiore. Ma questi possono venire considerati come maglie
intermedie della catena che collega la produzione di globalità alla frammentazione dei rapporti di lavoro. In questa Introduzione mi soffermerò soprattutto sui due capi della catena. Il rapporto tra la persona che si presta a lavorare in cambio d’una retribuzione, e il singolo imprenditore o l’organizzazione che quella prestazione vuole utilizzare retribuendola, prende solitamente forma d’un contratto. Esso può risultare interamente esplicito o in parte implicito, ossia scritto specificando tutti gli elementi della prestazione oppure solo quelli essenziali. Tra questi rientrano di solito il contenuto del lavoro, il luogo in cui dovrà svolgersi, l'orario, l’ammontare della retribuzione, e soprattutto la durata del periodo in cui la persona deve considerarsi impegnata a rendere giorno per giorno quella data prestazione. Al momento del contratto si stabilisce se la sua durata è determinata oppure indeterminata. Senza che nessuno in genere si immagini, nel secon-
do caso, di venire assunto per l’eternità. Ora accade che da diversi anni nella maggior parte delle regioni italiane due terzi, in media, di coloro che cercano un
lavoro alle dipendenze di un'impresa o di un ente della pubblica amministrazione lo trovano soltanto se accettano un VI
contratto che non soltanto è di durata determinata, ma è so-
vente di durata breve, da pochi giorni ad alcuni mesi. Sono giovani in cerca di prima occupazione, in prevalenza, ma anche persone che vorrebbero trovare un lavoro dopo aver perduto il precedente. Tranne una minoranza che non ha problemi perché è in possesso di una qualificazione professionale che al momento ha un mercato favorevole — talora illudendosi che il favore del mercato duri lustri o decenni —, nessuno gradisce i contratti di pochi mesi o meno. Ma viene loro spiegato che la globalizzazione, e le sfide alla competitività che da essa provengono, esigono lavoratori flessibili, nel senso che debbono sapersi adattare alle esigenze delle imprese e dei loro mercati. Questi sono diventati imprevedibili: dunque le imprese debbono essere poste in condizione di prevedere con certezza che se la domanda sale esse possono assumere lavoratori senza paventare di doverli poi tenere a lungo sul libro paga, mentre se la medesima scende sono autorizzate a mandarli a casa nel giro di giorni o settimane. È questa la preminente funzione economica dei contratti di durata determinata, in special modo di quelli di durata breve o brevissima. I nomi delle varie tipologie di contratto esistenti in questo ambito potrebbero ormai dare corpo a un lessico nazionale del cosiddetto lavoro flessibile, che sotto forma di flessibilità
della prestazione esiste anche nel quadro dei contratti di durata indeterminata, e però nei fatti, nonché nella percezione di chi cerca lavoro visitando le agenzie per l’impiego, o inviando curricula vitae a raffica, si è venuto identificando con l'occupazione instabile o discontinua o precaria. C'è lo stage e il contratto di formazione e lavoro; l'associazione in compartecipazione e il lavoro a chiamata; la borsa di studio (postlaurea, o pre- e post-dottorato) e il lavoro interinale ovvero in somministrazione
(ambedue forme di lavoro in affitto); la
prestazione occasionale e il tirocinio formativo; la collaborazione continuativa e il lavoro a progetto; il tempo determinato e l’apprendistato; la consulenza e (nella scuola) l’incarico VII
annuale; l'assegno di ricerca o l'affidamento (negli atenei). A codesti tipi di contratto, e all’altra quarantina previsti dalla legislazione vigente, si possono aggiungere le partite Iva aperte non per convinta vocazione al lavoro autonomo, quanto perché il potenziale datore di lavoro ne fa una condizione al fine di concedere, sin quando lo riterrà utile, un’occupazio-
ne con tutti i crismi del lavoro dipendente. Si noti che la accennata proliferazione di tipologie contrattuali non è stata indotta esclusivamente dalla legge 30/ 2003 e dal suo decreto attuativo. Alcune di esse sono state introdotte dal «pacchetto Treu» del 1997, o da altre leggi, come la legge del 2001 sul tempo determinato. Molte altre risalgono assai più indietro, in specie nella pubblica amministrazione, che da decenni — contrariamente a quanto vorrebbero far credere le critiche canoniche del «posto fisso» — si è mostrata strenua competitrice delle imprese private nel crea-
re lavoro precario. Altre ancora sono state inventate nell’economia sommersa e recepite poi dalla legge. La legge 30, che peraltro non si applica al pubblico impiego, ha sussunto gran parte delle suddette tipologie in un singolo decreto attuativo, invertendo una vocazione secolare del diritto del lavoro: ha dato veste giuridica alla frammentazione pre-esistente dei rapporti di lavoro, piuttosto che mirare a ricomporli in un disegno di progressivo consolidamento dei diritti della persona al lavoro. Non è questa la minore delle ragioni per le quali andrebbe abolita. Il numero complessivo di persone occupate a un dato momento, loro malgrado, con contratti di breve durata è ignoto, poiché esso dipende dalla durata in giorni, mesi o anni non meno che dalla ricorrenza dei singoli contratti, un flusso complicato di cui non esiste alcuna rilevazione. Si stima comunque che tale numero si collochi fra i tre e i quattro milioni. Forse non abbastanza per poter parlare di una intera «generazione precaria». Ma abbastanza per poter dire che siamo dinanzi a una emergenza sociale di cui è stata sinora sottovalutata la gravità attuale come le conseguenze future. IX
Negli articoli qui raccolti ho ricordato alcuni dei costi che essa impone agli individui e alle famiglie. Costi umani che parevano scarsamente diffusi o esagerati quando su di essi provai ad attirare l’attenzione anni fa, ma di cui una miriade di
successive indagini e testimonianze personali hanno confermato il peso. Tra simili costi spicca la difficoltà di progettarsi una vita, perché un lavoro perennemente instabile non si addice a rapporti sociali stabili, né all’aver figli o al comprar casa. Ma anche la violazione di tutte le sicurezze che secondo la pur moderata Organizzazione Sociale del Lavoro definiscono il lavoro decente, a cominciare dalla sicurezza dell'occupazione, del reddito, della formazione professionale. La prolungata permanenza dei figli in famiglia, ultimo baluardo della sicurezza, sin quasi alla mezza età. Nonché il rischio di ricevere a suo tempo una pensione miseranda, causa la forzata scarsità dei contributi che si sono versati a un ente previdenziale o a un fondo pensione. Tuttavia al presente occorre, dopo che milioni di persone lo hanno sperimentato per lustri e decenni, menzionare altri costi umani del lavoro flessibile. Anzitutto, con il tempo si verifica nella persona una interiorizzazione dell’insicurezza socio-economica. L’imprevedibilità del domani, già vissuta entro la famiglia, viene assunta specialmente dai giovani, che non hanno mai conosciuto un mondo più stabile, quasi fosse una normale e inaggirabile condizione dell’esistenza. L’orizzonte temporale della persona si contrae come una sorta di adeguamento alla brevità e discontinuità del lavoro. Pensare a ciò che si farà fra cinque anni diventa un faticoso quanto immotivato nonsenso allorché non si può sapere ciò che si farà fra cinque settimane, a contratto di lavoro scaduto. Di conseguenza la rappresentazione del mondo si concentra sull’immediato, sulle contingenze, che di giorno in giorno inevitabilmente cambiano. Da tale fibrillazione di rappresentazioni contingenti la personalità ne risulta fragilizzata. Due strade le si aprono. Quella della resa all’esistente, alla convinzio-
ne che il mondo la società e il lavoro sono quel che sono e non c'è alcuna possibilità di sottrarvisi o di trasformarli. Oppure quella della violenza futile sulle persone, o in alternativa del vandalismo cieco — di cui sovente sono significativo bersaglio le scuole — cui si dedicano con crescente frequenza gli adolescenti del nostro come di altri paesi. Sono i figli e le figlie della precarietà. Intanto che la politica propone loro, quali temi particolarmente coinvolgenti, di discutere di riforme elettorali, o di durata del mandato del governatore della Banca d'Italia. L’emergenza del lavoro flessibile — inteso come incerto susseguirsi di rapporti lavorativi di breve durata — sarebbe meno critica se non si accompagnasse a una crescente insicu-
rezza dell'occupazione anche per coloro che godono d’un contratto di durata indeterminata. Si sa che le singole crisi aziendali, i cicli negativi dell'economia, il declino di interi set-
tori industriali a causa di mutamenti del mercato o della tecnologia sono sempre esistiti. Per uno o più di questi motivi è
regolarmente accaduto a tanti, nel tempo, di perdere il lavoro. Ciò che è nuovo e incomprensibile è, per tanti, la improvvisa perdita del lavoro che si verifica in imprese aventi i bilanci in forte attivo, in settori considerati all’avanguardia del mercato e della tecnologia, durante lunghi cicli positivi dell'economia. AI fine di spiegare l’incomprensibile, esperti di mercato del lavoro e direttori delle risorse umane hanno elaborato un altro apposito lessico, in cui ricorrono termini esotici quali «esubero», «reingegnerizzazione organizzativa», «piano sociale», «mobilità», «delocalizzazione», «politiche del lavoro
attivizzanti», «nuova ragionevolezza» (quella che il lavoratore dovrebbe dimostrare dinanzi alla proposta di andare a lavorare 30 chilometri più lontano, con salario ridotto del 20 per cento, o essere licenziato). E un lessico che vale a delimitare la fenomenologia dell’insicurezza dei contratti dianzi considerati un pegno di occupazione sicura, in quanto erano o sono di durata indeterminata. XI
S’è accennato sopra a qual è la condizione esistenziale dei figli nella società del lavoro a un tempo flessibile e insicuro. Non meno attenzione richiederebbe la frustrazione dei genitori dinanzi alle incognite che l’uno e l’altro genere di lavoro dischiudono loro. Per oltre una generazione gli italiani hanno sperimentato una tangibile mobilità sociale ascendente. I figli di milioni di contadini e di operai sono arrivati a svolgere un lavoro meno faticoso, più interessante e meglio retribuito di quello dei padri e delle madri. Principali strumenti di mobilità, nel quadro d’un paese in rapido sviluppo economico e sociale, sono stati il lavoro duro e coscienzioso dei genitori, e le scuole superiori o l’università per i loro discen-
denti. Le persone che tra gli anni ’50 e gli anni ‘70 hanno visto in qual modo lavoravano i genitori, e come la maggior scolarità abbia aiutato loro stesse a salire alcuni gradini della stratificazione sociale, si attendevano, guardando alla domestica sfera di cristallo, che lo stesso sarebbe accaduto ai pro-
pri figli. Oggi scoprono che la sfera di cristallo è andata in pezzi, oppure rappresentava uno scenario finto. Lavorare
con scrupolosa solerzia non basta più per conservare il lavoro, quando una società che ha sede, per dire, a Belo Horizonte e produce su commessa di un gruppo ispano-svedese decide che il tale stabilimento sito in Piemonte, nelle Marche o in Sardegna deve essere delocalizzato in Moldavia. Oppure, più semplicemente, chiuso in via definitiva, dovendo essa procedere a razionalizzare nel mondo la propria struttura produttiva. D'altra parte nemmeno una laurea in ingegneria aerospaziale o in biotecnologie o in informatica — per citare solo i sommi titoli di studio di cui la società della conoscenza, si so-
stiene, avrebbe spasmodico bisogno — basta più per trovarlo, un lavoro la cui probabilità di essere di durata indeterminata superi almeno il 50 per cento. Non più, quando il nuovo modello di impresa affermatosi con gli anni ’90 punta soprattutto a diventare grande in Borsa, e a tale scopo rimpicciolisce XII
via via il numero dei dipendenti effettivi, nel suo procedere a tappe forzate verso l’ideale di non averne pressoché nessuno. Sarebbe un grande tema politico, la frustrazione da sfera di cristallo spezzata ch'è ora patita da larghi strati medi, non foss’altro perché da processi analoghi sono derivati non pochi dei drammi che hanno distinto il secolo scorso. Volendo cercare di capire quali siano le cause profonde dell’odierna preferenza delle imprese per il lavoro saltuario, discontinuo, privo di orizzonti professionali e umani, ovvero suscettibile d’essere interrotto in qualsiasi momento — un modello di lavoro che a ben vedere non giova nemmeno alle imprese perché compromette la formazione del capitale umano — si può fare sintetico riferimento alla coppa di champagne. È questa la forma che assume, convertita in un grafico, la distribuzione del reddito pro capite per centesimi della popolazione mondiale, esaminata nel Rapporto 2005 sullo Sviluppo umano edito dalle Nazioni Unite. In alto, la larghezza della coppa sta a rappresentare i tre quarti del reddito mondiale che vanno al 20 per cento più ricco della popolazione. Lo stelo, già sottile nella parte superiore, è quanto mai esile nella parte mediana e inferiore. La sua sottigliezza sta a significare che il 40 per cento più povero della popolazione riceve il 5 per cento del reddito del mondo, e corrisponde ai due miliardi di persone che vivono con due dollari al giorno (misurati, si noti, col metodo della parità del potere d’acquisto, o Ppa). Mentre il 20 per cento più povero percepisce soltanto l’1,5 per cento del reddito mondiale. Se le suddette percentuali sembrano un po’ astratte, si può guardare ai valori assoluti. Secondo i dati della Banca Mondiale nel 2002 le dieci persone più ricche del mondo avevano un patrimonio complessivo di 220 miliardi di dollari, ossia 22 miliardi a testa. La Tanzania, con i suoi 35 milioni di abitan-
ti, faceva registrare un Pil di 10,2 miliardi di dollari. In altre parole una sola persona tra le dieci più ricche aveva un patrimonio pari al doppio del prodotto annuo generato da 35 milioni di tanzaniani. Oppure si può ricordare che il reddito pro XII
capite degli abitanti dei paesi più benestanti del mondo supera i 40.000 dollari, laddove quello dei paesi meno sviluppati non arriva a 100: un rapporto di 400 a 1, che diventa «soltanto» di 60 a 1 se i redditi sono ricalcolati in Ppa. L’immagine festosa della coppa rinvia dunque alla realtà d’una abissale disuguaglianza. Una disuguaglianza che si osserva tanto fra i paesi ricchi e quelli poveri del mondo, quanto all’interno della maggior parte dei paesi, fra gli strati che costituiscono il 10 per cento della popolazione ma detengono la metà della ricchezza in mano alle famiglie e il 50 per cento che ne possiede appena un decimo — giusto la distribuzione osservabile anche in Italia. Ancora, una disuguaglianza che in ambedue gli ambiti, nazionale e internazionale, appare destinata, con elevata probabilità, a durare per secoli. Ad esempio, con il suo elevatissimo tasso di sviluppo, l'India — si legge ancora nel Rapporto precitato — impiegherà almeno fino al 2106 per avvicinarsi al reddito pro capite medio degli europei o degli statunitensi. Gli abitanti dell'America Latina e dell’Africa dovranno aspettare un po’ più a lungo. Si prevede infatti che, ai tassi attuali del /oro sviluppo, il reddito pro capite dei latinoamericani raggiungerà quello degli europei e degli Usa verso il 2177, e quello degli africani verso il 2236. E ciò a una condizione il cui verificarsi è piuttosto improbabile: che i paesi ricchi abbiano per tutto il periodo una crescita uguale a zero. Altrimenti per la cosiddetta «convergenza» dei redditi pro capite, che i teorici neoliberali della globalizzazione garantiscono essere prossima, i latinoamericani e gli africani dovranno attendere il quarto millennio. Il nesso tra le pur enormi disuguaglianze globali e il degrado dei rapporti di lavoro nel nostro paese va dunque cercato nelle differenti manifestazioni d’un medesimo processo economico e politico, la cui caratteristica saliente è di essere volutamente cieco dinanzi alle proprie stesse conseguenze. Discu-
tendo di tecnologia e responsabilità, Hans Jonas ebbe a scrivere più di trent'anni fa che sono le immani dimensioni causali del potere della tecnologia, da noi stessi creato, a imporci di XIV
sapere che cosa stiamo facendo, e di scegliere in quale direzione vogliamo inoltrarci. Ai nostri giorni dovremmo sostituire «tecnologia» con «economia». Abbiamo creato un’economia globale che ha il potere di generare immense ricchezze, ma avendo noi rifiutato di sapere che cosa stiamo facendo, e di
scegliere in quale direzione inoltrarci, essa ha anzitutto in parte direttamente generato, in parte consolidato il permanere nella loro condizione di povertà estrema di oltre due miliardi di persone. In secondo luogo l'economia globale quale abbiamo costruito infligge alla maggioranza di coloro che quelle ricchezze producono i costi di un lavoro contraddistinto da crescenti fatiche, minori diritti e più stringenti angosce per il futuro. Nel nostro paese come in tutti i paesi sviluppati. L'estrema mobilità dei movimenti di capitale, di merci, di informazioni
esige una uguale mobilità nell’impiego di forza lavoro: in ciò risiede l’ultima ratio dei rapporti di lavoro discontinui. Come prevedeva Kurt Vonnegut in Piazo meccanico (1952), in atte-
sa di venire sostituiti da robot umanoidi, peraltro già in via di perfezionamento, gli esseri umani debbono prestarsi con nuova ragionevolezza a erogare la loro forza lavoro con la docilità dei robot. L'essere spinti sempre più verso il basso nella distribuzione del reddito è una anticipazione della loro imminente superfluità. Ancor più dell’ingiustizia del mondo che le disuguaglianze globali e la frammentazione dei rapporti di lavoro congiuntamente rispecchiano, dovrebbe indignare, e sollecitare a una
sua ravvicinata iscrizione nell’agenda politica nazionale e internazionale, il fatto che in realtà nessuno dei due eventi esiste
per necessità, poiché le risorse di cui oggi collettivamente dispongono i paesi sviluppati sarebbero sufficienti per superare in tempi non lunghi l’uno e l’altro. Se soltanto si volesse, e si riuscisse, a modificare in qualche misura il profilo della coppa di champagne, perché è da quel profilo che passa il futuro. Lar
Gli articoli qui ordinati per temi sono stati pubblicati in ordine sparso su «la Repubblica» tra il 2001 e il 2005. Sono grato al direttore Ezio Mauro per lo spazio di cui ho potuto fruire per esporre il mio pensiero. L’idea di raccoglierli in volume è dell'Editore, che ringrazio per aver creduto ne valesse la pena.
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Il lavoro in frantumi
DIARIO POSTUMO DI UN FLESSIBILE
Gli studi storici sulla civiltà italica del terzo millennio hanno fatto un importante passo avanti con la scoperta del diario d’uno sconosciuto vissuto nei primi decenni dell’epoca. Un esame preliminare dei suoi contenuti ci ha indotto a ritenerlo opera d’un «uomo flessibile», categoria numerosa a quei tempi.
In effetti disponevamo già d’una massa ragguardevole di documenti relativi al Culto della Flessibilità allora diffuso. Articoli, saggi, fossili di servizi tv, pergamene di accordi internazionali come quello famoso tra Italia e Gran Bretagna di inizio millennio, attestano come la venerazione della Flessi-
bilità fosse una delle occupazioni principali di quelle popolazioni. In ogni settore della vita sociale, culturale, politica, fi-
nanco economica, esse parevano anteporre tale Culto a ogni altro impegno o pensiero. Per la verità, i ricercatori non sono finora riusciti ad appurare se la Flessibilità fosse creduta essere, 0 si volesse far credere che fosse, spirito, sostanza, per-
sona, archetipo collettivo o logo pubblicitario. Questo diario d’un uomo che pare praticasse la Flessibilità, per convinzione o per obbligo, permette comunque di comprendere meglio quale incidenza essa avesse nella vita quotidiana. Il diario copre un arco di parecchi anni. Ne riportiamo alcuni brani. Ottobre 2001. A me la Flessibilità piace. Mi lascia libero di organizzare il mio tempo. Sono indipendente. E poi si incon-
trano facce nuove. Lavorare in aziende sempre diverse è una bella esperienza. Mi arricchisce la professionalità e mi permette anche di spenderla meglio. È vero che ogni tanto devo chiedere soldi ai miei per andare in discoteca, perché tra un lavoro e l’altro magari passa qualche mese. Ma insomma, se penso a loro che han passato tutta la vita nello stesso barboso posto, io sono molto più soddisfatto. Giugno 2005. La ditta in cui ho lavorato tre mesi m'ha rinnovato il contratto per altri sei. Giusto un paio di giorni prima che scadesse l’altro. Si vede che mi apprezzano. Certo che se me lo dicevano un po’ prima avrei gradito, perché mi risparmiavo di girare le agenzie e passare nottate in Internet
per vedere se trovavo un altro lavoro. Gennaio 2006. La mia compagna S. vorrebbe fare un figlio. Pure a me piacerebbe. Però è anche lei una flessibile — sta facendo un tempo parziale — e se dovesse capitare che restiamo tutti e due senza lavoro, tra un impiego e l’altro, non ce la faremmo. Dunque meglio aspettare. Siamo ancora giovani.
Marzo 2009. La ditta in cui lavoro da sei mesi m'ha rinnovato il contratto per altri tre. Il capo del personale dice che per adesso, in attesa del giudizio dei mercati sui loro prodotti, non possono fare di più. Ma invita ad avere fiducia. Altri hanno avuto prima o poi il tempo indeterminato. Visto che dove lavoro io siamo almeno duecento, gli domando quanti sono. Potrebbero essere addirittura il venti per cento, risponde, facendomi due o tre nomi. Maggio 2010. Insieme con S. sono andato in banca. Vor-
remmo comprarci un alloggetto. Anche se alla fine non lavoriamo in media più di otto o nove mesi all'anno, guadagniamo abbastanza. Però avremmo bisogno d’un prestito o d’un mutuo. L’impiegata sta a sentire, fa qualche domanda, poi dice che non si può. I prestiti o i mutui si concedono soltanto a chi ha un lavoro stabile. Per consolarci ci confida che nemmeno lei, impiegata di banca, potrebbe avere un mutuo. È una temporanea. Novembre 2014. Dopo sette rinnovi consecutivi di vari ti-
pi di contratto — un paio di interinali, tre o quattro a tempo determinato, altri due co.co.co., cioè di collaborazione coor-
dinata — la ditta mi ha proposto un contratto a tempo indeterminato. In cambio mi chiede soltanto, per via della Flessibilità, di rendermi disponibile al lavoro a turni, sei ore comprese in un qualsiasi intervallo tra le 7 e le 24, in qualunque giorno, sabato e domenica inclusi. Ogni settimana l’orario del turno può cambiare. Naturalmente loro si impegnano a farmi sapere quale sarà il mio orario con almeno due o tre giorni di anticipo. Naturalmente ho accettato. Gennaio 2015. Ho saputo da un biglietto di S. — adesso facciamo turni con orari diversi, così ci lasciamo messaggi sulla porta del frigorifero — che il medico le ha detto che se vuole avere un figlio dovrebbe sbrigarsi. A trentacinque anni una donna è anziana per avere un primo figlio. Lei però è ancora indecisa. Adesso ha un co.co.co, ma sta per scadere e
non ha ancora trovato altro. E se non lavora lei, non paghiamo l’affitto, altro che il latte in polvere e una tata. Ci vorrebbe una legge apposta, per le madri flessibili. Luglio 2016. Mia madre vorrebbe sapere con precisione quale lavoro faccio. Per dirlo ai parenti, agli amici che chiedono notizie. Sostiene che la mette a disagio non poter rispondere che suo figlio, per dire, fa l’elettricista, o l'impiegato all'anagrafe, o il disegnatore di dépliants. Vorrei risponderle, perché ormai ha l’aria proprio vecchia. Il fatto è che, dopo tanti lavori, non lo so nemmeno io chi sono, che cosa sono.
Da qualche tempo mi fa male la schiena. Ho prenotato una visita.
Luglio 2018. Dato che bisogna essere previdenti, ho chiesto a un’esperta a quanto potrebbe ammontare la mia pensione. M’ha parlato di ricongiungimenti, casse separate, regime contributivo, e dello sbaglio d’aver cambiato tante volte lavoro e azienda. Posso aspettarmi, in conclusione, una pensione pari a circa un terzo di quello che prendo al mese, quando lavoro. Ma con una pensione pari a un terzo dello stipendio mica si vive. Quindi le ho chiesto cosa dovrei fare per au-
mentarla. Dovresti investire almeno un terzo di quello che guadagni in un fondo integrativo, ha detto. Settembre 2018. Non sono ancora riuscito ad andare dal medico. Ogni volta che faccio la prenotazione, capita che sono di turno. Dicembre 2018. La ditta, di cui ho sentito che sta andan-
do benissimo, mi ha licenziato. Ho protestato, ricordando che il mio contratto era a tempo indeterminato. M’hanno spiegato gentilmente che da quando lo Statuto dei lavoratori è stato abolito, indeterminato significa soltanto che è l’azienda a decidere quando il contratto termina. (Mese illeggibile del 2022). Quest'anno sono riuscito a lavorare soltanto sei mesi. Le aziende mi fanno difficoltà perché, alla mia età, non ho abbastanza formazione. I giovani che arrivano adesso dalla scuola sono più preparati e flessibili. Per fortuna nell’azienda in cui lavoro adesso ho ritrovato F., ex compagno di scuola. È diventato capo settore, un uomo importante. Gli ho chiesto com'è riuscito a far carriera. Beh, dice, ho cercato di restare nella stessa azienda il più a lungo possibile. Se uno salta di qua e di là, da un posto all’altro, mica lo promuovono. Ti pare? Chiudiamo qui, per ora, il diario dell’uomo flessibile. Come ben sanno gli storici, le cause del rapido declino della civiltà italica del terzo millennio d.C. sono tuttora avvolte dal mistero. L'ipotesi d’un avvelenamento collettivo da piombo delle condotte d’acqua, già affacciata per spiegare il crollo d’una civiltà fiorita nello stesso territorio 15-20 secoli prima, va scartata in base alle indagini compiute con i nostri superspettrografi di massa. Ma sulla base di quest’ultimo ritrovamento, ci pare lecito ipotizzare che il Culto della Flessibilità, distraendo ipnoticamente i capi come le masse da ogni altro fine esistenziale, abbia avuto in tale declino un peso non lieve.
Le nostre ricerche su questo fascinoso tema proseguiranno. [20/02/2002]
UNA RIFORMA CHE AVVICINA L’ITALIA AL TERZO MONDO
Le modifiche all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori proposte dal governo, più la richiesta di delega per altri interventi sul mercato del lavoro, tipo l'introduzione dei lavori intermittenti, del lavoro a chiamata, della possibilità di affittare lavo-
ratori in gruppo, insieme con la moltiplicazione del tempo determinato e delle forme di tempo parziale, rappresentano uno strumento efficace per far arretrare il nostro mercato del lavoro. Lungi dal modernizzarlo, l'insieme degli interventi proposti contribuirebbe a rendere tale mercato via via più simile a quello dei paesi in via di sviluppo (Pvs). Un aspetto fondamentale del mercato del lavoro nei Pvs è, infatti, l’enor-
me estensione del cosiddetto «settore informale» dell’economia. Nei Pvs dell’ America Latina, dal Messico al Cile, circa il
60 per cento di tutti i lavori che si sono creati negli anni ’90 nel settore urbano, il più moderno dell'economia, sono lavo-
ri definiti ufficialmente «informali». In complesso questi lavori coinvolgono la metà e oltre di tutte le persone che risultano occupate. Valori simili si registrano in Africa, in molti Stati dell'India, nel Sudest asiatico, dalla Thailandia all’Indonesia.
Le definizioni internazionali dei lavori informali sono variabili. Alcune insistono sul livello minimo di investimenti che essi comportano. Altre sottolineano che si tratta per lo più di lavori a bassa tecnologia, sovente privi di luogo, come i milioni di vendedores de estrada del Messico. Alcune connotano i lavori informali in modo prevalentemente negativo, soprattutto per la loro scarsa produttività. Altre definizioni esaltano invece l’inventiva tecnica e organizzativa, la capacità
di sopravvivere che attraverso di essi esprimono milioni di persone dall’esistenza difficile. Su un punto, però, le tante definizioni dei lavori informali concordano: si tratta di lavori in merito ai quali la regolazione legislativa è praticamente inesistente. Nessuna regola stabilisce quali debbano essere gli orari o le condizioni di lavoro, il livello dei salari o il tipo di tu-
tela sindacale, lo stato dell’ambiente di lavoro o le situazioni
in cui un dipendente può venire licenziato. Sono dunque lavori che si possono chiamare appropriatamente informali perché sono di fatto privi d’ogni forma giuridica. Da decenni i lavori detti informali perché non possiedono forma giuridica sono in forte aumento nel mondo. Ovunque ne favoriscono la diffusione un paio di caratteristiche peculiari della odierna economia formale. La prima è la sua incapacità, nella maggior parte dei Pvs, di creare un numero adeguato di lavori decenti: cioè lavori passabilmente stabili, dignitosamente retribuiti, rispettosi dei diritti umani e delle libertà civili. Negli ultimi vent'anni, la quota dei lavori creati nel settore formale è stata appena un terzo di quelli che si sono creati nel settore informale. Una seconda caratteristica dell'economia contemporanea che genera lavori informali va vista nella frammentazione dei processi produttivi in lunghe catene di appalti e subappalti ad aziende terze. Al di là del primo 0 del secondo grado di subappalto, il lavoro finisce per perdere ogni forma giuridica. Come qualunque piccolo o medio imprenditore, se vuole, può esaurientemente spiegare. Non sappiamo se gli esperti e i politici che hanno escogitato le modifiche dell’art. 18 di cui si discute, insieme con gli altri interventi sul mercato del lavoro per i quali il governo chiede la delega, abbiano mai dato una scorsa alla letteratura relativa alla diffusione della ‘nformzalidad nei paesi dell’America Latina. Se lo facessero, potrebbero constatare che lo scenario che essi stanno disegnando per il nostro mercato del lavoro assomiglia molto allo scenario che si osserva attualmente laggiù. Uno scenario che preoccupa i governi di quei paesi e le organizzazioni internazionali che li assistono nelle politiche del lavoro, in primo luogo l'Organizzazione Internazionale del Lavoro. Organizzazioni che, d’intesa con i governi locali, diffondono rapporti in cui si sottolinea come il lavoro pressoché privo di forma, ossia di regolamentazione giuridica, si accompagni inesorabilmente all’assenza di protezione sociale. A sua volta questa favorisce l'insorgere di una
serie di problemi economici, sociali, culturali e politici. Di conseguenza quei governi mirano a fare il possibile per «formalizzare la informalità» del mercato del lavoro. Invece il governo italiano sembra puntare allo scopo contrario: informalizzare per quanto possibile un mondo del lavoro al quale è stata data con decenni di fatica e di lotte una consolidata forma giuridica. SI possono già intendere a questo punto due ovvie obiezioni. La prima: in un mondo del lavoro così robustamente strutturato dal punto di vista giuridico come quello italiano le modifiche proposte per l’art. 18 sono quisquilie. La seconda: il mondo del lavoro è talmente cambiato da richiedere ampie innovazioni legislative e contrattuali. La risposta alla prima obiezione è che il diritto del lavoro è come una diga, intesa a proteggere i più deboli dai più forti. E per far crollare una diga, si sa, può bastare praticare in essa un piccolo buco. Alla seconda è giocoforza rispondere che proprio i grandi mutamenti dei modi di lavorare, di cui non si possono ignorare, accanto a proprietà deteriori come la precarietà, i nuovi contenuti di autonomia, creatività, crescita professio-
nale e personale, richiedono innovazioni regolative e contrattuali profondamente originali. Ma per giungere a questo sarebbe preferibile inventare nuove forme per il lavoro, anziché cominciare a liquidare quelle che esistono. [27/11/2001]
CHI VUOLE SPEGNERE LA VOCE DEL SINDACATO
Come ogni sistema di governo ispirato al culto del capo, il berlusconismo, al fine di potersi radicare durevolmente nel paese, ha assoluto bisogno di indebolire il sindacato. Nel regime verso il quale il suo governo pare voler condurre il paese, nessuna forma di rapporto sociale organizzato si deve frapporre tra la persona del capo e gli individui. I partiti politici, intesi come sedi in cui si costruivano pressoché giorno per giorno
rapporti sociali profondi, quelli che all’occasione fan sentire la propria identità personale rinsaldata in una identità collettiva, sono andati in crisi per conto loro. La Chiesa, da questo specifico punto di vista, non sembra stia meglio, anche se un’im-
portante funzione sussidiaria continuano a svolgerla le associazioni cattoliche. Le organizzazioni non governative stanno
crescendo, ma esercitano una presa ancor debole nella società politica. Resta in prima fila, a impedire che i messaggi del capo arrivino direttamente alla mente e al cuore degli individui, il sindacato. Dunque è necessario ridurlo all’impotenza. Nell’attacco al sindacato le strategie adottate dal governo Berlusconi sono principalmente due. La prima, sviluppata in sintonia con i ceti sociali che lo sostengono, consiste nell’etichettarlo instancabilmente come residuo premoderno, istituzione démodé, struttura in ritardo irrimediabile sui tempi. È
una strategia che sin dagli anni ’80 è stata perseguita con successo in Gran Bretagna dai governi Thatcher e, con altrettanto fragore seppure finora con minor successo, in Francia, specie a opera dell’associazione padronale, la Medef. Il sindacato, predica tale strategia, è un ostacolo alla modernizzazione
del paese. Chi lo sostiene, compresi i lavoratori che ancora vi credono e che a esso si iscrivono, è un nemico della libertà e
del nuovo che si affaccia prepotentemente nel mondo. Da siffatta ideologia della modernità, ha scritto recentemente Laurent Joffrin, caporedattore del «Nouvel Observateur», in un graffiante saggio su Le gouvernement invisible (2001), discende che viene «reputato moderno ciò che risponde ai criteri dell'ideologia liberale libertaria. Tutto il resto si trova respinto nelle tenebre dell’arcaismo. Così, sotto la copertura della novità, della modernità, la scala dei valori è brutalmente cambiata: la libertà fa premio sull’eguaglianza, l’individuo sulla collettività, la società civile sulla società politica e il mercato sullo Stato». Non bastasse la poderosa offensiva del berlusconismo, le difficoltà per il sindacato italiano sono accresciute dal fatto che l'ideologia della modernità ha fatto presa anche su una 10
parte significativa della sinistra. Si veda quel che è accaduto in occasione del congresso 2001 dei Ds. La mozione in cui più chiaramente si parlava di questioni di interesse effettivo per la vita di tante persone, come le conseguenze della globalizzazione, le nuove povertà, l'occupazione, i salari che in ter-
mini reali sono fermi da oltre un decennio, era quella di Berlinguer. Essa fu sconfitta non da ultimo perché in molte sezioni del partito venne presentata dai dirigenti o dai segretari locali come un insieme di idee vecchie, superate, non all’altezza dei tempi. I tempi chiedono, essi assicuravano i presenti, che si proceda per la strada della modernizzazione. Che è un tema, a ben guardare e ricordare, ch’era di moda intorno agli anni ’60, e allora aveva sì dei contenuti reali e comprensibili per le persone. Nella misura — amplissima — in cui dette questioni hanno dei risvolti sindacali, la sconfitta della mozione Berlinguer, non tanto per la cosa in sé, ma per il modo in cui è stata costruita in nome dell’ideologia della modernità interpretata da sinistra, è stata una sconfitta anche per il sindacato. E non soltanto per la Cgil. L’altra strategia che il governo Berlusconi sta perseguendo allo scopo di ridurre drasticamente il peso del sindacato, è scritta in tre documenti, il «Libro bianco sul mercato del
lavoro in Italia» predisposto dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali; il documento in cui si propone la «Delega al governo in materia di mercato del lavoro», e la «Relazione di accompagnamento» alla proposta stessa. In tutto sono 137 pagine fitte di analisi, di misure da adottare, di programmi e di procedure da porre in essere. Sicuramente ben pensate e ben costruite. Dirette a uno scopo che, arrivati alla centotrentasettesima pagina, e dopo qualche rilettura, emerge con la massima chiarezza. Insieme con l'avvio della demolizione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, tale sco-
po si può compendiare in una sola frase: il regime che avanza punta tutto sulla individualizzazione dei rapporti di lavoro. Sul mercato del lavoro l'individuo, il lavoratore, deve essere e sentirsi solo. Con le sue competenze professionali, la 1l
sua voglia di fare, la sua disponibilità ad accettare — se disoccupato — qualsiasi lavoro e salario gli venga offerto. Messo dalla legge di fronte a una varietà di tipologie di lavoro tra cui scegliere ch'è semplicemente impressionante: lavoro a chiamata, temporaneo,
a progetto, occasionale, «in som-
ministrazione» (il nuovo nome del lavoro in affitto), acces-
sorio, intermittente, a prestazioni ripartite, a tempo parziale verticale od orizzontale. Oppure con contratto a tempo determinato che diventa indeterminato se l'impresa — grazie al-
le modifiche dell’art. 18 — acquista il diritto di porvi termine quando crede. Però un individuo che è sospinto sempre più lontano dalle tutele sindacali, grazie anche alla prevista riduzione della portata dei contratti nazionali a favore di quelli aziendali. Ciascuno per sé sul mercato del lavoro, sarebbe l'esito di queste riforme, e il capo del governo per tutti. Infatti soltanto un capo onnisciente e pressoché onnipotente può pensare, e riuscire a far credere, di poter assicurare un lavoro
decente, un futuro prevedibile, la possibilità di costruirsi una vita, a lavoratori che il sindacato non potrà più sostenere perché in una medesima azienda saranno presenti dieci tipologie di lavoro, venti aziende subappaltatrici differenti, centinaia di contratti individuali e un livello salariale minimo affidato non a un contratto nazionale, bensì al mercato del lavoro locale. La società non esiste, esistono soltanto gli individui, diceva vent'anni fa la signora Thatcher. Quello che ci viene proposto dal regime emergente, attraverso le modifiche che vuole introdurre in materia di mercato del lavoro, va dunque ben al di là di questo e della posizione del sindacato. È un modello di non-società nel quale gli innumeri fili della devozione di ciascun individuo nei confronti d’una personalità carismatica — della quale cioè si crede che sia dotata di poteri all'incirca sovrumani — sostituiscono la maggior parte delle strutture sociali intermedie, che hanno per generazioni conferito identità e dignità alle persone, e contribuito a trasformare la debolezza del singoLa
lo in una forza relativa, anche se pur sempre impari a confronto della controparte. Nel caso che un simile modello di convivenza si dovesse affermare, per di più — come risulta finora — con un ampio consenso popolare, gli storici del futuro avranno il loro da fare per comprendere un enigma: in che modo gli abitanti d’un grande paese abbiano potuto consegnarsi a tale modello, ciascuno descrivendolo con compiacimento all’altro come una genuina forma di progresso, rispetto alle bassure d’una democrazia che tra i suoi pilastri aveva anche il sindacato. [15/01/2002]
LA VITTORIA DEL SOMMERSO
Tra gli strepitosi successi conseguiti dal governo di centrodestra nel primo anno di attività, quali si sono potuti esemplarmente desumere durante la primavera 2002 dai nuovi tg pluralisti, sembra arduo includere pure l'emersione del sommerso. Da essa, come noto, si dovrebbero ricavare svariati
miliardi di euro da destinare alla riduzione del debito pubblico, elemento non marginale visto che anche sulle condi-
zioni di questo non circolano buone notizie. Di fatto, dopo due rinvii, le imprese che hanno presentato la dichiarazione di emersione erano fino a poche settimane fa meno di duecento, e i rispettivi lavoratori meno di mille. Se anche — miracolosamente — si moltiplicassero entro giugno per dieci o per venti, si tratta di cifre trascurabili rispetto alle migliaia di imprese, e alle centinaia di migliaia di lavoratori, che il governo prevedeva sarebbero corsi a mettersi in regola con il fisco e con gli istituti di previdenza. A fronte di cotanto flop, la scadenza per la presentazione delle dichiarazioni è stata da poco nuovamente rinviata: ora è fissata al novembre 2002. Le ragioni di simile inefficacia si possono certo ritrovare, in parte, nella specifica natura dei
provvedimenti di legge che hanno disegnato la nuova disci13
plina per l'emersione del sommerso (in particolare la legge n. 383/2001, la n. 409/2001, e la finanziaria n. 448/2001). Quel-
li introdotti dai governi di centro-sinistra avevano in effetti sortito risultati un po’ migliori. Ma il vizio di fondo dei provvedimenti antisommerso è quello di fondarsi su una immagine del tutto irrealistica del fenomeno, che a ben guardare nella percezione collettiva non è sommerso per niente. Milioni di persone fanno ogni giorno esperienza diretta dell’economia sommersa. Ogni giorno è normale per un potenziale cliente sentirsi chiedere dal carrozziere, dall’impresario che ristruttura l'alloggio, dal chirurgo che deve eseguire un’operazione in una struttura privata, dal progettista di siti Web, dal giardiniere del pratino condominiale, se vuole la fattura oppure no. Ovviamente otto o nove volte su dieci il potenziale cliente risponde di no, perché la differenza di costo a suo favore può toccare anche il 30 o il 40 per cento. Migliaia di imprenditori sono pronti ad affermare che nella loro impresa il sommerso non esiste, ma sono certi che tra i loro fornitori e colleghi ce n'è in abbondanza, sciorinando al riguardo dati precisi ed episodi certi. Decine di migliaia di tecnici e di altri lavoratori qualificati ricevono regolarmente in nero, ogni mese, un bonus dell’ordine del 25-30 per cento del loro salario netto, perché la loro impresa non può assolutamente permettersi di perderli, ma nessuna delle due parti si sentirebbe di sostenere gli oneri fiscali e contributivi derivanti da tale supplemento di retribuzione. In diverse regioni italiane decine di migliaia di famiglie — madri e figli, nonni e nipoti, cugine e cognati — lavorano in nero in numerosi set-
tori dell'industria a domicilio. Poi ci sono ovviamente i laboratori clandestini dove ragazze cinesi o siciliane confezionano capi d'abbigliamento per 10 o 15 euro al giorno, o le cooperative di lavoro i cui cosiddetti soci o socie sono di fatto dipendenti sottopagati. Come mai non si riesce a contrastare,
o quanto a meno a
regolare in qualche misura, un fenomeno che sta sotto gli occhi di tutti? Finora nessun paese, sia detto, ha mai trovato una
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soluzione efficace al problema dell’economia sommersa. Ma un primo passo necessario per cercare soluzioni consiste nel
riconoscere che, al presente, l’economia sommersa non è affatto un’economia parallela, estranea all'economia formal mente registrata e anzi, nei confronti di questa, illecitamente concorrenziale. Al presente l'economia sommersa è una componente intrinseca, organica, sistematica, strettamente com-
plementare dell'economia formale e perciò da questa del tutto inseparabile. In questo caso non soltanto la mano destra conosce benissimo quel che fa la sinistra; ma se provasse a tagliarla (a parte la sgradevolezza dell’operazione) si troverebbe, subito dopo, essa stessa paralizzata. I canali attraverso i quali flussi ininterrotti di merci e di servizi passano dall'economia formale a quella sommersa o informale (come molti ricercatori credono sarebbe meglio chiamare l'economia sommersa), e viceversa, sono molteplici. Il prin-
cipale è la progressiva frammentazione di ogni tipo di attività produttiva in segmenti sempre più corti e indipendenti, affidati tramite contratti di subappalto e sub-subappalto ad aziende sempre più piccole e specializzate. Essa è spinta dall’imperativo — che è poi lo stesso soggiacente a ogni richiesta di flessibilità- di usare soltanto la forza lavoro necessaria in quel momento. In un cantiere edile, ad esempio, non esistono praticamente più lavoratori dipendenti da una sola impresa che compiano tutte le operazioni richieste per costruire un edificio. Esiste un'impresa che fa lo scavo; una seconda che prepara le gabbie di tondino; una terza che mescola e getta il cemento; una quarta che si occupa della carpenteria del tetto e così via sino al compimento dell’opera. Conclusa la sua parte di lavoro, l’azienda subappaltante se ne va da un’altra parte — sperando di trovare un altro committente.
Modelli organizzativi analoghi si ritrovano nell'industria meccanica, nell’informatica, nell’editoria, nei lavori stradali
come in molti altri settori. Quanto più piccola l'azienda subappaltante, tanto più è probabile che ricorra alla sottofatturazione e all’impiego di lavoro irregolare. Non necessaria15
mente sottopagato: dipende dal livello di qualificazione dei lavoratori richiesti. L'impresa capocommessa può anche non saperne nulla (benché siano rari gli imprenditori così ingenui); ma se tutte le sue subappaltanti lasciassero cadere dall’oggi al domani la loro quota di economia sommersa o informale, l’impresa stessa sarebbe costretta a chiudere in quarantott’ore. Un altro canale di scambio tra i due comparti dell’economia è costituito dalla grande varietà di contratti di lavoro atipici, giusto quelli che la riforma del mercato del lavoro voluta dal governo vorrebbe ancora aumentare a dismisura. Allorché il lavoro diventa per contratto precario, malpagato, imprevedibile, difficilmente conciliabile con la vita familiare, perché mai sostenere anche i costi fiscali e previdenziali di quel contratto? Conviene decisamente farne a meno, pensano in tanti, e passare in tutto o in parte nel rango dei milioni di lavoratori irregolari. Va infine menzionato il fenomeno della competitività tra le aziende ricercata soprattutto nella compressione del costo del lavoro, più che nella produttività o nell’innovazione del prodotto o del servizio. Vi sono, ad esempio, enti locali che
avendo fatto delle gare per servizi di pulizia senza limiti al ribasso, si sono visti offrire detti servizi a 4,50 euro l’ora per ad-
detto. È pensabile che con tale livello di retribuzione qualcuno sia disposto a pagare pure l’imposta sui redditi, i contributi previdenziali, le addizionali regionali e simili? Le imprese contemporanee hanno sviluppato, nel nostro paese come in altri paesi avanzati, un sistema economico che
per sopravvivere ha bisogno come dell’ossigeno d’una grossa quota di economia sommersa, o informale o irregolare che dir si voglia. Per ragioni mille volte ricordate, in via di principio qualche iniziativa per contrastare il sommerso è necessaria. Ma se non si parte dal presupposto che non si tratta d’un altro pianeta, ma piuttosto di un’altra faccia — nemmeno tanto
nascosta — dell'economia che si è deliberatamente mirato a sviluppare negli ultimi lustri, la sua emersione, al netto di 16
quelli che decidono invece di immergersi, come avvenne su larga scala nei primi anni ’90, resterà una chimera. [20/05/2002]
CASSINTEGRATO OFFRESI
Atto primo. Il governo in carica fa approvare nel 2001 una legge per l'emersione dell'economia sommersa, gran parte della quale, si sa, è formata da lavoro nero. Essendo stata re-
datta in modo amatoriale, senza alcuna nozione dei rapporti reali che intercorrono tra economia regolare ed economia sommersa, la legge ha prodotto finora — nonostante tre proroghe — risultati insignificanti. Peraltro le sue intenzioni erano apprezzabili, perché il sommerso, che esiste pure in altri paesi, ha in Italia un peso particolarmente rilevante. Di certo non è l’ultimo dei fattori che ostacolano da noi la messa in opera di politiche efficaci per promuovere la crescita economica e l'occupazione, nonché l’equità fiscale. Atto secondo. Il capo di quello stesso governo all’inizio del 2002 prevede, o lascia intendere, o meglio sotto sotto suggerisce, che i dipendenti Fiat messi di recente in cassa integrazione potranno arrotondare l’assegno che riceveranno dallo Stato — a condizione, precisa, che siano volenterosi — svol-
gendo qualche lavoro «non ufficiale», cioè offrendosi come lavoratori in nero. Sommando tale reddito addizionale all’80 per cento del salario che comunque riceveranno per tutto il periodo della cassa integrazione, non se la passeranno poi troppo male. Prima di cercar di capire come sarà mai possibile cucire insieme i due atti della commedia, va detto che il capo del governo pare male informato circa i meccanismi della Cigs, la Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria, quella che si concede alle aziende per periodi molto lunghi; oppure pensa che siano male informati tutti quelli che lo ascoltano, ergo può raccontare loro qualunque storia. E vero infatti che la 17
Cigs prevede un assegno pari all’80 per cento della retribuzione, ma soltanto per un importo massimo mensile. Per il 2002 questo è fissato in 776,12 euro lordi per chiunque avesse una retribuzione mensile lorda non superiore a 1679,07 euro. Detratta una ritenuta fissa a fini previdenziali, più i normali oneri fiscali, l’importo netto erogato dalla Cigs si riduce a circa 650 euro al mese. Poiché la stragrande maggioranza dei metalmeccanici guadagna tra i 1000 e i 1200 euro netti al mese, ciò comporta una riduzione effettiva del reddito com-
presa tra il 35 e il 50 per cento. Altro che 80 per cento del «normale salario». A meno che, naturalmente, nel cuore della notte — come
ormai si suole — la normativa che regola la cassa integrazione non sia stata radicalmente modificata dalla maggioranza per favorire i lavoratori colpiti dalla crisi Fiat. Se così fosse, sarebbe bene farglielo sapere. Malainformazione a parte, non c'è dubbio che un simile taglio al reddito delle famiglie, in molte regioni italiane, favorirà il ricorso al lavoro nero, irregolare o sommerso che dir si voglia. È qui che si apre l’atto terzo della pièce. Come si comporteranno infatti i funzionari incaricati di verificare nelle aziende se esse occupano lavoratori in nero, in base alla legge sull’emersione del sommerso? Che procedure adotteranno in tali situazioni gli ispettori dell'Inps, i carabinieri, i funzionari del ministero del Lavoro, con tanto di testo della legge sott'occhio? Avverrà infatti, dopo la sortita di ieri, che i lavoratori irregolari si dividerannoin due categorie: quelli che svolgono un lavoro irregolare di testa propria, gli sconsiderati; e quelli che così fanno perché glielo ha suggerito il presidente del Consiglio. Ai primi, e agli imprenditori che li occupano, toccheranno i fulmini della legge. Ai secondi, e ancor più agli imprenditori che con gran piacere li avranno cercati e reclutati, gli addetti alle verifiche nelle aziende sospette potranno, al più, raccomandare di non esagerare. [08/12/2002] 18
TUTTI I NUMERI DEL LAVORO
Qualche giorno fa l'Istat ha reso noti i risultati dell’ultima rilevazione trimestrale del 2002 sulle forze di lavoro, condotta a
ottobre. Il relativo comunicato si colloca alla fine d’un anno in cui il dibattito sul mercato del lavoro è stato particolarmente acceso, per via della delega chiesta dal governo per riformare detta materia, e all’inizio d’un nuovo anno in cui forse lo sarà
ancora di più, a causa sia delle azioni che il governo deciderà una volta ottenuta la delega, sia del peggioramento della situazione occupazionale in settori critici dell'economia. Esso sollecita quindi ad alcune considerazioni sul rapporto tra le politiche del lavoro, e le informazioni sulla quantità e tipologia dell'occupazione di cui governo e parti sociali dispongono al fine di elaborare dette politiche. Pare ovvio che al fine di risultare efficaci queste ultime dovrebbero poter contare su una conoscenza relativamente esatta di quante sono, a un dato momento, le persone oc-
cupate. Almeno quelle che hanno un'occupazione regolare secondo la normativa vigente. Nonostante gli sforzi dell'Istat,
la cui professionalità è da tutti riconosciuta, tale condizione al presente non pare sussistere. Sono gli stessi documenti Istat che inducono a questa ipotesi. Allo scopo di stimare il numero e la condizione lavorativa delle persone occupate l’Istat produce infatti due serie di dati. La prima, più nota, è quella delle predette rilevazioni trimestrali. Esse vengono svolte intervistando ogni volta i componenti di circa 70.000 famiglie in 1400 comuni distribuiti su tutto il territorio nazionale. Tali rilevazioni presentano due limiti. Il primo è di essere campionarie: i dati sono ricavati da circa 200.000 persone, e
sono poi proiettati sull'universo della popolazione italiana mediante elaborati calcoli statistici. Un secondo limite, più serio, sta nella natura dell'intervista. Poiché l'esito dipende unicamente dal buon volere dell’intervistato, questa si limita a domande semplicissime: se ha un’attività lavorativa, anche 19
se non ha lavorato nella settimana di riferimento; se ha effettuato una o più ore di lavoro retribuite nello stesso periodo,
e anche se ha effettuato una o più ore di lavoro non retribuite presso un’impresa familiare. Per la stessa ragione la traccia di intervista evita di porre domande indiscrete, tipo chiedere se l'occupazione dichiarata sia regolare o no. Sia detto che codesti limiti non vanno addebitati all’Istat. Se questo non procedesse per indagini campionarie, non po-
trebbe mai rilevare l'andamento dell’occupazione e della disoccupazione quattro volte l’anno. E se facesse domande più complicate,
o meno discrete, il numero dei non rispondenti
o delle risposte inventate crescerebbe troppo. Sta il fatto che una cifra appuntita come 21.932.000 occupati (dato di ottobre 2002), per di più isolata dai media dal contesto dei documenti originari, finisce per trasmettere agli operatori economici, ai politici, e all’opinione pubblica, un'impressione mal fondata di esattezza. Quasi che gli occupati stessi fossero stati contati uno per uno, o i loro dati provenissero da inconfutabili archivi digitali. Mentre si tratta d’una stima fondata su un campione, per cui potrebbe variare di diverse migliaia di unità in più o in meno. Più ancora, è una cifra che assomma quote ignote di occupati regolari e irregolari, nonché di lavoratori che hanno lavorato occasionalmente un’ora o un giorno nella settimana di riferimento e altri che hanno invece un'occupazione stabile per più ore al giorno. Veniamo ora alla seconda serie di stime dell’occupazione di cui si diceva, quella inserita dall'Istat nelle stime di contabi-
lità nazionale conformi al Sec95 (Sistema Europeo dei Conti nazionali e regionali). In questo caso l’input di lavoro viene stimato non intervistando persone, bensì risalendo a esso a partire dai beni e dai servizi effettivamente prodotti nel paese. Poiché la quantità di lavoro necessaria, per dire, a produrre cento frigoriferi o stampare mille copie d’un libro è nota, sulla base della domanda di lavoro delle imprese, integrata con i dati demografici delle famiglie, l’Istat arriva a stime dettagliate dell'occupazione. La cui quantità e tipologia sono assai di20
verse da quelle ottenute con le rilevazioni trimestrali. Ad esempio nel 2000 le unità di lavoro totali — si noti: unità di lavoro equivalenti a lavori a tempo pieno, non persone fisiche — erano stimate con questo metodo in ben 23.494.000 (comunicato Istat del settembre 2002). Ciò a fronte dei 21.450.000 occupati rilevati mediante intervista e campionamento nell’ottobre 2000. Sono quasi due milioni in più. Se poi ci si riferisce alle posizioni lavorative effettivamente ricoperte, ossia al fatto che molte persone svolgono in via regolare o irregolare più di una attività lavorativa, il totale sale a 29,74 milioni. Inoltre nelle stime di contabilità nazionale
l’Istat perviene a distinguere tra unità di lavoro regolari e irregolari. Le prime erano stimate nel 2000 in 19,45 milioni — due milioni in meno rispetto agli occupati dichiarati dell’ultima rilevazione dell’anno — e le seconde in 3,55 milioni. In
questo modo gli occupati salgono a 23 milioni, uno e mezzo in più di quelli rilevati mediante campionamento sul terreno. Naturalmente, a chiunque è lecito obbiettare che se si cambia il metodo di indagine, questa porta a risultati differenti, pur in presenza del medesimo oggetto o situazione. Nondimeno gli operatori coinvolti nella elaborazione o nella critica di politiche del lavoro, o in trattative a esse connesse, sono in-
teressati in primo luogo a un singolo dato: quanti sono in un certo anno gli individui che hanno un’occupazione in Italia, e quanti erano uno, due o cinque anni prima. E dubbio che sarebbe loro d’aiuto il dire che, a seconda di come si guarda alle cose, gli occupati si possono stimare nello stesso anno in 19,45 milioni, oppure in 21,45, o se si vuole in 23, se non addirittura in 29,7 milioni.
D'altra parte sarebbe del tutto improprio chiedere in merito una soluzione all’Istat, che svolge dignitosamente il suo compito di produttore di stime sull’occupazione nella impervia situazione in cui si trova ad agire. Che è caratterizzata dall’assenza di un Sistema Informativo del Lavoro (Sil) funzionante a livello nazionale, in cui a ogni occupato o disoccupato corrisponda effettivamente una singola scheda e una soltanto, co21
stantemente aggiornata. Come avviene in altri paesi, ad esempio in Francia con l’Anpe (Agence National pour l’Emploi). In effetti il Sil esiste già — sulla carta. Concepito anni addietro, istituito formalmente da un dl di fine ’97, vittima di «cambiamen-
ti di strategia, problemi nel rapporto con gli enti locali, soluzioni inadeguate per quanto riguarda l'acquisizione dall’esterno di prodotti e servizi relativi alle tecnologie dell’intormazione e della comunicazione, continui cambiamenti organizzativi e di strategie politiche» (come dice una recente nota del ministero del Lavoro), il Sil si trova tuttora allo stadio del tavolo da disegno. Prima che decolli, ci vorranno presumibilmente, vista la sua complessità, parecchi altri anni. Ma se gli attori istituzionali delle politiche del lavoro si impegnassero concordemente al fine di tagliare i tempi (sempre che la devolution incombente non complichi anche su questo punto i rapporti tra le Regioni e lo Stato), potrebbe avvicinarsi il momento in cui essi disporranno infine d'un mezzo adeguato per valutare obbiettivamente gli effetti positivi o negativi di dette politiche sullo stato dell'occupazione. Ammesso che tutti gli attori coinvolti lo vogliano. Lasciare che si sappia quali sono gli effetti reali di una data politica del lavoro potrebbe avere conseguenze impreviste, non necessariamente positive per il governo in carica. [29/12/2002]
SOS LAVORO NERO
Tutti i paesi industriali avanzati sono uguali dinanzi al lavoro nero: ne utilizzano molto. L'Italia è un po’ più uguale degli altri: lo utilizza in misura ancora maggiore. Forse non nella misura di 10 punti percentuali in più, in termini di quota del Pil ascrivibile al lavoro nero, che vorrebbe dire oltre il 25 per cento rispetto al 13-17 per cento degli altri paesi, come a volte si legge. Tuttavia le ricerche disponibili convergono nell’assegnare al nostro paese questo poco decoroso primato. 22
Come confermano le indagini compiute nel 2002 dal nucleo carabinieri dell’Ispettorato del Lavoro, il lavoro nero
non ha confini. Seppure con differenze significative, lo si ritrova in ogni regione, in tutti i settori produttivi, in ogni professione, in tutte le fasce di età. È l’unico comparto dell’economia in cui un bimbo di otto anni e una signora di ottanta sono considerati occupabili senza problemi. È un pilastro dell'economia nazionale, giacché l’Istat stima il lavoro nero in
oltre tre milioni e mezzo di unità di lavoro a tempo pieno, equivalente a oltre sette milioni di persone fisiche con un lavoro a tempo parziale. Quali fattori favoriscono la diffusione del lavoro nero?
Perché i provvedimenti finora adottati per far emergere il sommerso han prodotto risultati che sono da considerarsi quasi irrilevanti? La risposta più comune rinvia la genesi del sommerso al peso che sarebbe troppo elevato dei prelievi fiscali e contributivi; alle rigidità del mercato del lavoro che in-
ducono le imprese ad aggirarle; ai costi aggiuntivi degli ambienti di lavoro gravanti sulle imprese che fanno tutto in chiaro. Imprese e lavoratori si troverebbero così d’accordo nel ricorrere al lavoro nero. Sennonché una simile risposta tradisce una cultura imprenditoriale dai tratti paleoindustriali. I grandi imprenditori del passato, come gli imprenditori più moderni del presente (che certo esistono, ma sembrano essere per lo più confluiti in una minoranza silenziosa), sapevano e sanno benissimo che lavoratori ben retribuiti, aventi un lavoro stabile, tu-
telati da un appropriato quadro giuridico, con un orizzonte di garanzie assistenziali e previdenziali, contribuiscono alla creazione collettiva di ricchezza in misura assai più rilevante che non i lavoratori che di tali beni sono del tutto privi. Come accade in generale ai lavoratori in nero. Una risposta meno corriva circa i fattori che incentivano il lavoro nero vede in essi anzitutto un processo strutturale, con-
naturato con l’organizzazione reticolare delle imprese contemporanee. La maggior parte della produzione di beni e ser23
vizi nasce oggi da una lunga catena di appalti e subappalti ad aziende terze, operanti all’esterno ma anche all’interno della prima committente. Al di là del secondo o del terzo anello di subappalto, la pressione sui prezzi della fornitura diventa talmente grande, e la capacità di resistenza di un'azienda così esigua, che il solo modo per sopravvivere consiste sovente nel passare al lavoro nero. In presenza di tale catena la capocommessa non ha praticamente alcuna possibilità — né, va detto, alcun interesse — di controllo circa il rispetto da parte di ciascun subappaltante della normativa sul lavoro. Un secondo fattore che favorisce il lavoro nero è l’ossessione tutta italiana per il costo del lavoro, anche quando esso
incide poco sul costo del prodotto finale. Dato che fanno poca ricerca, poca formazione del personale, e pensano alla innovazione di prodotto soltanto quando le vendite o il titolo in Borsa crollano, invece che nel momento in cui toccano il
picco, le imprese italiane finiscono per cercar di risparmiare fino all’ultimo euro sul costo del lavoro. Il modo più semplice per farlo consiste nello svolgere in nero almeno una parte della propria attività. Infine un peso sempre più rilevante nel favorire il lavoro nero va attribuito alla proliferazione dei contratti di lavoro atipici. Ne conta ormai oltre quaranta, la loro tipologia, con un tratto comune: una individualizzazione esasperata del rapporto di lavoro. A forza di rapporti individualizzati suggeriti proprio dalla legge, persone e imprese finiscono per trovare fuori da essa il più semplice e diretto dei rapporti di lavoro: quello in nero. Ha dunque ragione il capo dei carabinieri del nucleo ispettivo nel vedere in esso «un vero e proprio elemento strutturale dell'economia italiana». È da tale riconoscimento che bisognerebbe partire per affrontare sul serio il problema dell'economia sommersa. Senza farsi venire delle idee strane, cui fan pensare i dubbi espressi recentemente dal presidente del Consiglio sulla grandezza reale del nostro Pil. Quale sarebbe, ad esempio, quella
di rivalutare una seconda volta il Pil (la prima fu nel 1987: +17 24
per cento, volle Craxi), perché esso non terrebbe abbastanza conto del lavoro irregolare. A parte che il Pil viene da alcuni anni stimato con il Sistema Europeo dei Conti nazionali e regionali, il cosiddetto Sec95, che nessun membro della Ue può sognarsi di modificare di propria iniziativa, il lavoro irregolare è già abbondantemente presente nelle stime del Pil. Tanto che il totale delle unità di lavoro stimate dall’Istat in base alla produzione di beni e servizi supera di oltre 2 milioni il totale degli occupati dichiarati, che inoltre non sono tutti a tempo pieno. Piuttosto che aggiustandone le stime, il Pil sarebbe meglio aumentarlo facendo crescere la produzione reale di beni e servizi, puntando magari a diminuire la quota di lavoro irregolare che vi contribuisce. [16/01/2003]
LAVORO IN FRANTUMI - CONFLITTI IN AUMENTO
Lavoro in frantumi (1956) s’intitolava un libro del sociologo francese Georges Friedmann, pubblicato in Italia nel 1960. Il lavoro cui si riferiva Friedmann era quello ripetitivo, spezzettato in mansioni insignificanti, caratteristico dell’organizzazione tayloristica dell’epoca. Fosse ancor vivo, Friedmann ora potrebbe scrivere un nuovo libro dallo stesso titolo, guardando non più ai contenuti del lavoro, bensì ai rapporti tra lavoratori e datori di lavoro, quali sono prefigurati nella legge delega di riforma del mercato del lavoro appena approvata. In realtà le deleghe concesse al governo sono almeno sei, né è dato sapere quali sorprese riserberanno i dispositivi d’attuazione degli interventi sul mercato del lavoro che ognuna di esse prevede. Per ora le caratteristiche più evidenti della legge sono la spinta che essa eserciterà in direzione di una marcata individualizzazione dei rapporti di lavoro, e di un ulteriore ampliamento della già vastissima tipologia dei lavori atipici: quelli che per ora propongono al lavoratore una tren25
tina di tipi differenti di contratto, tranne quello a tempo indeterminato e a orario pieno. Dalla individualizzazione dei rapporti di lavoro, che in questa legge inizia moltiplicando i canali di avviamento al lavoro, potrà trarre qualche vantaggio la minoranza di coloro che sono molto giovani, e in possesso di capacità professionali scarse sul mercato del lavoro. Beninteso, fintanto che sono giovani, e finché dura il momento in cui quelle capacità sono scarse. Ne riceverà invece serio svantaggio la maggioranza di co-
loro che a causa dell’età o della qualifica ordinaria si trovano in condizioni di sostanziale debolezza contrattuale non solo nei confronti della grande impresa, ma anche dell’artigiano, del piccolo imprenditore, del commerciante. Fu per trastormare simile debolezza in una forza relativa che nacque storicamente il sindacato. Il quale da questa legge delega esce, in prospettiva, non poco indebolito. Da un lato, perché organizzare una miriade di lavoratori titolari di contratti individualizzati è molto più arduo che non organizzare una massa di persone che cercano protezione nella stipula di contratti collettivi. Dall’altro, perché la frantumazione dei rapporti di lavoro fa sì che fra la massa dei lavoratori si sviluppino interessi materiali e ideali profondamente divergenti e sovente conflittuali, che sarà sempre più difficile rappresentare su ampia scala al fine di stipulare con la controparte soddisfacenti contratti collettivi. Dalla parte dei lavoratori, è probabile che questa legge contribuisca nel breve periodo ad accrescere la quota dei lavoratori poveri, e, a lungo periodo, quella dei pensionati poveri. I lavoratori poveri sono coloro che pur lavorando una gran parte dell’anno, non guadagnano abbastanza per restare al disopra della linea della povertà. Essi sono in aumento in tutti i paesi avanzati, in forza di processi analoghi a quelli che vediamo attuarsi in Italia: la pressione per il contenimento dei salari, altrimenti l'impresa si trasferisce in Indonesia o in Moldavia, unita alla deregolazione del mercato del lavoro, che sta tramutando l'occupazione di durata indeter26
minata e a orario pieno in un privilegio riservato a una mi-
noranza. Quanto ai pensionati poveri, sono o saranno quelli che,
versando gli scarsi contributi che è possibile versare quando si passa anno dopo anno da un lavoro a termine all’altro, magari con ampi intervalli tra i due, potranno contare su una pensione corrispondente grosso modo al trenta per cento d’uno stipendio medio. Come ha ricordato pochi giorni fa il presidente dell’Inpdap, uno dei maggiori enti previdenziali italiani, sulla base di un ampio studio da esso commissionato. Servisse almeno, il lavoro in frantumi, ad accrescere la
competitività delle imprese. Ma neanche questo risultato è detto sia conseguibile in forza della legge in questione. Chi ha qualche pratica di organizzazione aziendale incontra sempre più spesso tecnici, quadri e dirigenti i quali cominciano a chiedersi se con il mercato del lavoro deregolato, che permette a un’azienda di impiegare al proprio interno anche dieci 0 dodici imprese terze, ciascuna delle quali utilizza lavoratori atipici ricorrendo a dieci o quindici tipi di contratto differenti, non si sia ormai andati al di là. delle buone pratiche organizzative. Con tanta varietà di aziende e di tipi di contratto, accade che il centro di controllo di un’impresa capofila non riesca più a controllare segmenti essenziali del processo produttivo. In tal modo la deregolazione del mercato del lavoro, interna-
lizzata nell’azienda, porta alla sregolazione dell’intera organizzazione.
Da questa legge, ovvero dai suoi provvedimenti attuativi, i lavoratori hanno pertanto parecchio da temere. Forse anche gli imprenditori, prima di rallegrarsi, dovrebbero riflettere su quello che potrebbe succedere nella struttura organizzativa delle loro aziende quando si utilizzassero spensieratamente quote sempre più ampie di lavoro in frantumi. [08/02/2003] 27
ARTICOLO 18, PERCHÉ VOTARE SÌ
Quando perfino ex sindacalisti e docenti di diritto del lavoro che hanno speso la vita per espandere i diritti dei lavoratori invitano a non partecipare al referendum sull’art. 18, chi pensava inizialmente di assumere una posizione diversa — andare a votare sì — non può fare a meno di sentirsi a disagio. Aveva già dovuto prendere atto che il proposito di astenersi al referendum ha ottenuto il consenso della maggioranza dei Ds, della totalità della Margherita, di due importanti sindacati come la Cisl e la Uil, di molti esperti del mercato del lavoro. Si aggiungano le dichiarazioni a favore del no di esponenti della destra diessina e di altre parti del centro-sinistra. Dinanzi a uno schieramento così ampio, le convinzioni di chi guardava al sì sull’art. 18 come un atto magari ingrato ma doveroso non possono che restarne scosse. La rivisitazione di
convinzioni che uno poteva credere prossime al comune sentire di tutti coloro che scorgono nel lavoro un valore centrale del processo democratico, mentre pare si stiano rivelando minoritarie, deve partire da una verifica delle ragioni indicate dai fautori dell’astensione. Di certo esse appaiono fondate. Non c’è dubbio che proporre il referendum sia stato uno sbaglio. Non ci sono nemmeno molti dubbi che tra i suoi proponenti alcuni mirassero, non meno che a estendere lo Statuto dei lavoratori alle microimprese, a crear problemi al sindacato e ai Ds. E anche fuor di discussione che il referendum — continua l'elenco delle ragioni contro — sia idoneo a risolvere alcun problema circa le condizioni di lavoro dei dipendenti delle imprese al di sotto dei sedici addetti. A tale fine sarebbe necessaria una legge apposita, di cui sono state già tracciate linee fondamentali sia nel manifesto programmatico dei Ds dell'aprile 2003, sia nelle proposte della Cgil per estendere diritti e tutele sorrette da cinque milioni di firme. Né si vede come si possa pensare di mettere sullo stesso piano, per cercare poi di proteggerli con il medesimo tetto dell'art. 18 debitamente esteso, l’aziendina di un idraulico 28
che ha due aiutanti e un cantiere navale; lo studio dentistico
con tre dipendenti e un’acciaieria; la fiorista che si fa aiutare da un parente e un’azienda di elettrodomestici. In una microimpresa, è stato giustamente sottolineato, le relazioni sociali particolaristiche che si stabiliscono tra il titolare e i dipendenti non sono assoggettabili alle stesse forme di regolazione dei licenziamenti che lo Statuto dei lavoratori prevede per le imprese medie e grandi. — Purtuttavia, una volta ripercorse le ragioni dell’astensione
dal voto sull’art. 18 e averle trovate ben fondate, quelle tali convinzioni di segno contrario sono ancora riluttanti ad abbandonare il campo. Il fatto è che sia il significato sia le conseguenze delle azioni che uno compie non dipendono solamente da ragionamenti ben costruiti e dai dati su cui si fondano. Ancor più dipendono dal quadro di riferimento in cui quelli si collocano. Nel caso del referendum sull’art. 18, rispetto al momento in cui esso fu promosso, a metà del 2002, il quadro di riferimento è cambiato in modi sufficienti ad attribuire un significato assai diverso a questa consultazione. All’epoca il quesito referendario si poteva ancora esprimere così (semplificando l’illeggibile testo in giuridichese che si troverà stampato sulla scheda): «Volete voi estendere l’applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori alle aziende con meno di 16 dipendenti, dal quale deriva l’obbligo per l'azienda di reintegrare — cioè riassumere — il lavoratore licenziato senza giusta causa, e il divieto di sostituire il reintegro con un risarcimento?». Al presente ciò che compare scrit-
to sulla scheda avrà invece questo esplicito significato: «Volete difendere il diritto del lavoro come strumento di giustizia sociale e di garanzia per il futuro vostro e dei vostri figli?». A modificare in profondità il significato del quesito referendario sono stati, a un tempo, gli atti legislativi degli ultimi mesi e la proliferazione dei lavori precari. La delega al governo in materia di occupazione e mercato del lavoro è diventata legge (n. 30 del 14/2/2003). Essa agevola il trasferimento da un soggetto giuridico a un altro «di imprese, di stabilimenti o 29
di parti di imprese o di stabilimenti», subordinandole unicamente al requisito «dell’autonomia funzionale». Inoltre moltiplica i soggetti pubblici e privati autorizzati a svolgere il ruolo di intermediari per la «somministrazione di manodopera», il che comporta la licenza di affittare lavoratori ad aziende terze non solo come singoli lavoratori, ma anche in gruppo. Nel frattempo procede per la sua strada il disegno di legge n. 848 bis, che delega il governo a sospendere per quattro anni l'art. 18 nelle aziende dove esso è vigente, prevedendo in alternativa alla riassunzione il risarcimento del lavoratore licenziato senza giusta causa.
L’insieme di tali dispositivi permetterà di sopprimere gli etfetti deterrenti dell’art. 18 contro i licenziamenti facili in molteaziende, e di aggirarlo in parecchie altre. Basterà infatti prendere un reparto con sessanta addetti e suddividerlo in quattro aziende con quindici dipendenti ciascuna, dimostrando beninteso che ciascuna di essa è «funzionalmente autonoma». Dopodiché ciascuna approfitterà delle nuove possibilità di affittare lavoro per allargarsi molto al di sopra della soglia dei quindici dipendenti, senza più l’impiccio dell'art. 18. Al progressivo sgretolamento per via normativa dell’art. 18 si è accompagnata, nell’ultimo anno, un’accelerata diffusione dei lavori precari in ogni settore d’attività, inclusa la pubblica amministrazione. Ormai in tutte le regioni italiane a quattro
giovani su cinque non si offrono altro che contratti di breve durata, e non solo al primo impiego; oppure la compartecipazione a cooperative dove è magari stabile il contratto, ma povera la paga. Con la proliferazione oggettiva di tali lavori si è approfondito il senso soggettivo di precarietà, di insicurezza della vita di lavoro che le persone avvertono per sé, i familiari, gli amici, la comunità in cui vivono. Tutto quanto si è richiamato sopra ha modificato il quadro di riferimento in cui si colloca il referendum, facendo ora apparire sfocata o non pertinente buona parte delle ragioni del non voto. Il 15 giugno 2003 non si tratta più di votare solamente per estendere alle imprese non individuali l'obbligo 30
di riassumere un dipendente licenziato senza giusta causa. Votando sì sull’art. 18, elettori ed elettrici esprimeranno in realtà la volontà di tenere in piedi l’edificio complessivo del diritto del lavoro, rendendo quanto meno più difficili le operazioni di smantellamento avviate da governo e Confindustria. Una volta che fosse espressa tale volontà, per restaurare e rendere più funzionale l’edificio alle esigenze attuali non mancheranno gli architetti. Mentre se cadesse l’art. 18 basterebbero le ruspe per portar via le macerie. [18/05/2003]
L'OCCUPAZIONE USA E GETTA
In Italia esistono attualmente una trentina di tipi di contratto di lavoro atipici. Il decreto di attuazione della legge delega in materia di occupazione e mercato del lavoro (la n. 30 del 14/2/2003) ne inventa qualcuno di interamente nuovo; ne complica altri in rilevante misura; infine applica una nuova vernice su alcuni contratti senza che la loro sostanza venga modificata. I risultati prevedibili saranno, per le persone, una maggiore offerta di lavoro tipo usa e getta. Mentre le imprese, gli esperti, gli enti locali, e lo stesso governo, si troveran-
no dinanzi a un mercato del lavoro sempre più incomprensibile e ingovernabile. Tra i nuovi tipi di contratto previsti dal decreto, quello che più si avvicina al prototipo del lavoro usa e getta è sicuramente il lavoro a chiamata. In base a esso un lavoratore garantisce nei confronti del datore di lavoro la propria disponibilità allo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo e intermittente. Se si impegna a rispondere prontamente a ogni e
qualsiasi chiamata, riceverà una «congrua indennità» (e sarà interessante seguire le interpretazioni del significato di «congrua»). Se non ha voglia di rispondere sempre e comunque alla chiamata, niente indennità. In Francia questo tipo di contratto esiste da tempo: viene chiamato «lavoro a squillo». Che 31
ormai è qualcosa di più di una sgradevole metafora. Per mezzo degli sms, in effetti, sarà uno squillo ad avvertire il lavoratore che entro tot ore o tot giorni avrà da lavorare per un certo periodo. Agevolato e complicato al di là di ogni misura dalla nuova legge è soprattutto il lavoro a tempo parziale. A esso sono estese «forme flessibili ed elastiche» di prestazione, anche quando si sia già in presenza di contratti a tempo determinato, e a prescindere dal fatto che il part-time sia orizzontale (quando il soggetto lavora, ad esempio, quattro ore tutti i giorni) oppure verticale (per dire, otto ore al giorno per tre giorni). Con queste complicazioni viene presumibilmente battuto il primato europeo del numero di elementi atipici contenuti all’interno di un singolo contratto di lavoro. Non molto più di una riverniciatura pare infine essere la trasformazione dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa in contratti di lavoro a progetto, i quali dovrebbero assicurare che si tratta realmente di prestazioni autonomamente prestate. Infatti chiunque abbia scorso un contratto di collaborazione coordinata redatto a norma di legge, ha potuto constatare che in esso è sempre chiaramente definito il tipo di opera da realizzare; si precisa che il titolare del contratto non ha alcun vincolo di orario; e si stabilisce — altrimenti che contratto sarebbe? — l'ammontare del compenso. Chiamare ora tutto ciò «lavoro a progetto» ingentilisce opportunamente la denominazione del contratto, ma dove stia la straordinaria innovazione vantata dal governo non è chiaro. Una simile proliferazione di contratti atipici fa compiere un ulteriore passo verso un mercato del lavoro sul quale la merce lavoro viene scambiata in modo il più possibile analogo a qualsiasi altra merce o materia prima, mentre le persone, i soggetti del lavoro scompaiono vieppiù nell'ombra, ciascuno in attesa del prossimo sms da cui saprà se ha, o non ha più, un'occupazione. Al tempo stesso, come si diceva, essa è
destinata a rendere il mercato del lavoro sempre meno com32
prensibile e gestibile, agli occhi degli esperti, delle imprese e dello stesso governo. Vi sono oggi imprese che hanno a che fare, sotto lo stesso tetto, con lavoratori inquadrati da una
dozzina di contratti atipici differenti. Ciò da un lato è fonte di continui conflitti d’ogni genere tra le persone: non c’è nulla di più irritante, in una qualsiasi organizzazione, che vedere o sapere che il mio vicino fa lo stesso lavoro che faccio io, ma guadagna di più, o fa un orario più comodo. Al tempo stesso, la proliferazione dei contratti atipici diventa un rilevante fattore di inefficienza organizzativa perché più nessuno capisce chi fa che cosa, e chi è responsabile di questo o quel segmento del processo produttivo. D'altra parte, che il mercato del lavoro stia diventando incomprensibile lo ha dimostrato lo stesso presidente del Consiglio, quando ha affermato che sono ben 750.000 i nuovi posti di lavoro creati da quando il suo governo è in carica. Per intanto non si vede da dove venga la cifra, poiché i soli dati su cui si può contare per stimare l'occupazione sono quelli delle rilevazioni trimestrali dell’Istat, ed essi sono inferiori al-
la cifra indicata. Ma anche se si prende la cifra per buona, ci si trova comunque dinanzi a un singolare paradosso. L’aumento vantato corrisponde infatti a un aumento del 3,5 per cento degli occupati in due anni, laddove nello stesso periodo il Pil è aumentato di meno dell’1 per cento. Un simile paradosso ha due sole spiegazioni. La prima è che i 750.000 nuovi occupati siano tutti membri di orchestre da camera, o parrucchieri, professioni la cui produttività è notoriamente costante nel tempo. Una spiegazione un po’
più plausibile è che gli occupati siano effettivamente aumentati, mentre le ore lavorate in media da ciascuno sono diminuite. Si sa che questo è un effetto tipico della diffusione dei lavori atipici. Lo stesso volume di lavoro viene distribuito tra un maggior numero di persone, ciascuna delle quali di-
sporrà pure, come conseguenza, d’un minor reddito. Chi l’avrebbe mai detto: guardando dietro ai lavori atipici, si possono cominciare a scorgere alcune cause della contrazione 53
dei consumi, a partire dalla riduzione del reddito pro capite, e dal declino complessivo dell'economia italiana, appesantita dalla stasi della domanda interna. [07/06/2003]
SE PER COMBATTERE LA CRISI SI AUMENTASSERO I SALARI
Intorno al 1915 Henry Ford pagava i suoi operai il doppio rispetto alla media dell'industria americana: 5 dollari al giorno invece di 2,50. Non intendeva far opera di beneficenza. Sapeva, e affermava esplicitamente, che con retribuzioni elevate quei lavoratori avrebbero potuto acquistare le merci che loro stessi producevano — in quel caso, automobili. Le imprese italiane non hanno mai amato molto l'equazione fordista— alti salari uguale alti consumi — e dai primi anni ’90 a 0ggi l'hanno decisamente ripudiata. Adesso scoprono che le famiglie comprano meno auto, meno mobili e meno capi d’abbigliamento, gridano alla crisi, e sollecitano il governo a fare presto qualcosa per superarla. A parte il dettaglio che come guida dell'economia il governo non ha finora dato prova di esistere, le imprese dovrebbero piuttosto riflettere sul contributo che esse stesse hanno dato per generare la crisi economica in atto. A comin-
ciare appunto dalle loro politiche del lavoro e delle retribuzioni. L'esito di queste si compendia, negli ultimi due o tre lustri, in una diminuzione di parecchi punti percentuali del peso dei redditi da lavoro dipendente sul Pil; in una sostanziale stagnazione delle retribuzioni lorde reali; in un forte aumento del numero delle persone in povertà facenti parte di famiglie il cui capofamiglia è occupato come operaio. Quale mezzo per ridurre la domanda interna, e preparare così la crisi attuale, non si poteva concepire nulla di più efficace. Senza voler ignorare, con tale sottolineatura, il peso che hanno avuto e hanno altri fattori interni e internazionali. I metodi utilizzati da centri di ricerca universitari, uffici studi sin-
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dacali e istituzioni quali la Banca d'Italia e il Cnel (Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro) per valutare l’incidenza dei redditi da lavoro dipendente sul Pil sono assai differenti, e
producono cifre diverse. Peraltro essi convergono nel valutare intorno al 6-7 per cento la diminuzione di tale incidenza a partire dagli anni ’90. Se si va più indietro nel tempo il dato peggiora. Ad esempio, secondo il rapporto Cnel 2002 sulla distribuzione del reddito in Europa, la quota dei redditi da lavoro dipendente sul Pil è scesa in Italia, dal 1972 al 2000, di 10
punti esatti, scendendo dal 50,6 al 40,6 per cento. Ciò che indica pure come il tasso annuo di riduzione di tale quota si sia accelerato nella seconda parte del periodo. Esso si potrebbe giustificare solo se nello stesso periodo si fosse verificata una forte espansione della quota di lavoratori autonomi sul totale degli occupati. In realtà tale quota è rimasta la stessa, un po’ meno del 30 per cento sul totale degli occupati. Perciò il minor peso dei redditi da lavoro dipendente sul Pil può essere ricondotto solamente alla stagnazione di questi, a fronte di un aumento dei profitti, delle rendite e dei
redditi da lavoro autonomo. Che i redditi da lavoro dipendente abbiano seguito nell’ultimo decennio una linea quasi piatta, mentre i redditi di altro genere si impennavano, è inoltre confermato dai dati sulle retribuzioni lorde reali (cioè depurate dal tasso di inflazione). Tra il 1991 e il 2001 esse sono cresciute, in totale, solo del 2 per cento. Tale cifra cor-
risponde ad appena un quarto dell'aumento fatto registrare in media in altri paesi Ue quali Francia, Germania e Regno Unito. In altre parole, se un nostro operaio o un’impiegata percepivano dieci anni fa 1000 euro lordi al mese, calcolati in moneta attuale, al presente sono arrivati a guadagnarne — a parte gli aumenti di merito o di anzianità, i premi di pro-
duzione e simili — ben 1020. Con tale cifra, al netto dei prelievi obbligatori, potrebbero andare al cinema un paio di volte in più al mese. In realtà non possono concedersi nemmeno questo lusso, poiché gli enti locali, ai quali il governo in carica ha bloccato i trasferimenti, hanno aumentato in mi35
sura assai maggiore il costo di servizi essenziali quali gli asili nido e le scuole materne, nonché le addizionali Irpef. Oltre che dal livello delle retribuzioni, la compressione dei redditi da lavoro dipendente deriva anche dalla quantità di ore lavorate. Se il salario è basso, e le ore lavorate su base an-
nua sono meno dell’orario pieno, come avviene per le tante occupazioni investite dalla flessibilità, il risultato può essere per il lavoratore o la lavoratrice l'ingresso nello strato sociale dei lavoratori poveri. Così definisce l’Ocse coloro che, pur lavorando in modo continuativo, percepiscono salari al di sotto dei due terzi del valore mediano dei redditi da lavoro dipendente. Essi costituivano il 7-8 per cento dei lavoratori dipendenti alla fine degli anni ’80, ma nel decennio successivo sono saliti sino a sfiorare il 15 per cento (dati Banca d'Italia). In parallelo aumentava la quota di persone che, facendo parte di famiglie dove il capofamiglia è un operaio, si collocano sotto la linea della povertà. Esse costituivano Y11,6 per
cento delle persone povere all’inizio degli anni ’80, mentre risultano superare il 19 per cento alla fine degli anni ’90. L’insieme di questi dati porta a concludere che nella battaglia per ridurre il peso sul Pil e sui bilanci aziendali (quelli veri) dei redditi da lavoro dipendente, le imprese italiane hanno conseguito buoni risultati, assai migliori delle loro consorelle dei maggiori paesi Ue. Però così facendo hanno contemporaneamente strozzato una quota rilevante del mercato interno, dal quale dipende la loro stessa esistenza. Ora che buon numero di esse sono davvero ridotte male, forse sarebbe intempestivo suggerire loro di scegliere la strada più semplice per rilanciare la domanda: procedere a un aumento immediato delle retribuzioni medio-basse. Ma per intanto esse potrebbero provare a chiedere al governo di invertire il segno degli interventi finora compiuti o promessi in tema di mercato del lavoro, di stato sociale e d’imposizione fiscale. Infatti codesti interventi vanno tutti nel senso d’un ulteriore peggioramento della posizione dei redditi da lavoro dipendente nel sistema economico e socia36
le, e con essi del reddito effettivamente disponibile a due terzi delle famiglie italiane. Che poi simili interventi siano stati pretesi negli ultimi anni dalle stesse imprese non ha particolare importanza. La necessità di trovare al più presto vie d'uscita dalla crisi che attanaglia un gran numero di imprese, e tanti cittadini con esse, val bene una contraddizione. [15/08/2003]
UNA VITA PEGGIORE
Con la proposta di sopprimere alcune festività al fine di rilanciare la produzione il presidente del Consiglio dimostra di essere un fine economista; ovvero di essere, in tema di economia,
ben consigliato. Un ponte in meno, ha detto, produce un incremento sensibile sul prodotto nazionale. Non c'è dubbio chele cifre gli diano ragione. Il Pilviene prodotto con poco più di 200 giornate lavorative, corrispondenti a 1620 ore effettivamente lavorate in media per occupato. Una media che combina gli orari più lunghi dell’industria e quelli un po’ più brevi del pubblico impiego, gli impieghi a tempo pieno e quelli a tempo parziale. In una giornata di lavoro si produce dunque un mezzo punto percentuale di Pil. Basterebbe allora sopprimere, per dire, sei giornate festive l’anno per incrementare di colpo la crescita del Pil del 3 per cento annuo. Se ci avessimo soltanto pensato prima, l'economia del paese non si troverebbe nella situazione critica che molti lamentano. O forse no. Perché nel ragionamento che suggerisce di lavorare di più per arricchirsi tutti c'è una piccola crepa. Esso implica infatti che l’intera produzione addizionale di beni e servizi eventualmente ottenuta con alcune giornate lavorative in più sia interamente venduta. Il che non sembra davvero realistico. Moltissime imprese faticano oggi a vendere le quantità di beni che producono con le giornate di lavoro attualmente effettuate. Sta qui la radice della crisi che le minaccia. In molti settori industriali esiste un eccesso di capacità produttiva: le 37
aziende potrebbero produrre cento, ma dato che riescono sì e no a vendere settanta, soltanto questo producono. E proprio per tale motivo che hanno chiesto, e prontamente ottenuto dal governo con la legge 30 e il relativo decreto attuativo del settembre 2003, nuovi tipi di contratto che permettono di occupare forza lavoro in maniera discontinua, come il lavoro in affitto (detto anche, pudicamente, «in somministrazione») e il lavoro intermittente. In modo da adattare l'occupazione in azienda all'andamento del proprio mercato. A fronte di queste situazioni, l'aggiunta di alcuni giorni lavorativi al calendario annuo genererebbe presumibilmente più disoccupazione, e più precarietà. D'altra parte la discussione sulla necessità di provare ad accrescere l'occupazione non già aumentando, bensì diminuendo gli orari di lavoro, va avanti da decenni in tutti i paesi europei, dal Portogallo alla Finlandia, dall’Irlanda alla Grecia. Da essa sono scaturiti con-
tratti collettivi e interventi legislativi che hanno portato a ridurre le ore annue effettivamente lavorate pro capite dalle 1800-2000 del 1970 alle 1330-1700 di inizio del XXI secolo, con un parallelo e sostanziale incremento di produttività. Il limite inferiore, nel suaccennato rango delle ore lavorate pro capite nel 2001, è segnato dall'Olanda, a causa della grande diffusione in tale paese del tempo parziale; mentre quello superiore tocca al Regno Unito. Con le sue 1620 ore l’anno l’Italia supera di circa 50 ore la Francia — nonostante le riduzioni d’orario realizzate in essa con la legge sulle 35 ore, che ha avuto effetti positivi sull'occupazione —, di 100 ore il Belgio, di 170 ore la Germania. Non siamo insomma i più
pigri tra gli europei. Ancora, è la riduzione degli orari di lavoro, non già il loro aumento, che ha permesso di superare crisi aziendali gravissime, come quella della Volkswagen alcuni anni fa. Per tacere di altri dati che possono lasciare indifferenti i fini economisti, ma ai quali i milioni di persone che svolgono altri ordinari mestieri attribuiscono una certa importanza. Nel 1970, quando in Italia si lavorava 1900 ore l’anno, si vi38
veva quasi dieci anni di meno. Più precisamente, l’età mediana dei morti era inferiore a quella odierna di circa dieci anni. Altri fattori hanno sicuramente contribuito a questo straordinario risultato, in primo luogo il sistema sanitario nazionale. Ma un fattore determinante sono stati l'aumento delle giornate di vacanza, degli svaghi, del riposo, delle cure per la persona, delle attività culturali, delle relazioni sociali, del
tempo dedicato ai figli. Il tutto reso possibile dalla riduzione di oltre 250 ore dell’orario annuo di lavoro. Proporre oggi di ricominciare a lavorare di più, significa quindi prospettare la possibilità — quali che siano le buone intenzioni del proponente — di ricominciare a vivere peggio, e forse anche meno a lungo. È possibile che il presidente del Consiglio, buttando lì l’idea di lavorare qualche giorno in più l’anno, avesse in mente il caso di qualche altro paese. Ad esempio, il caso della Corea del Sud, dove si lavora tuttora 2500 ore l’anno. Ma non sembra questo un paese adatto da prendere a modello per l’Italia, quando si pensi alle condizioni di lavoro, di ambiente, di tutele legislative, di rappresentanza sindacale in esso predominanti. O forse pensava agli Stati Uniti, dove in effetti le ore an-
nue realmente lavorate superano le 1800, con un considerevole aumento rispetto a un decennio fa. Ma gli americani non lavorano di più per amore del Pil. Lo fanno perché vi sono costretti dai bassi salari. In Usa il salario medio dei lavoratori dipendenti, al di sotto del livello di quadro o capo intermedio, è infatti tuttora inferiore, in termini reali, a quello del
1973, dopo una forte discesa durata quasi vent'anni, e un parziale recupero da metà degli anni ’90. Il salario basso obbliga a fare gli straordinari, a cercarsi due lavori, a lavorare in due
in famiglia anche se l’onere per essa è grave. Spinge anche, ovviamente, a fare meno giorni di vacanza e di riposo. Nem-
meno questo modello di lavoro e di vita sembra, in verità, particolarmente attraente. [29/03/2004] 39
IL LAVORO ATIPICO CHE FA MALE ALLE AZIENDE
Quarantotto. È una cifra che il neo presidente della Confindustria Luca Cordero di Montezemolo potrebbe trovar utile inserire tra i temi da discutere da un lato con le imprese, dall’altro con i sindacati. Quarantotto è il numero delle differenti modalità di lavoro atipico che l'Istat ha individuato nel nuovo quadro regolamentare emerso con l'approvazione della legge n. 30/2003 e del suo decreto attuativo n. 276. Ne parla il recente rapporto annuale sulla situazione del paese. Detto numero vien fuori combinando la maggiore o minore stabilità del contratto, la durata dell’orario di lavoro, la pre-
senza di diritti sociali pieni o ridotti. Dinanzi a una simile proliferazione dei lavori atipici sarebbe agevole riprendere le valutazioni negative che chi considera il lavoro un mezzo insostituibile di crescita professionale e civile, e di solidarietà collettiva per riequilibrare in
qualche misura il rapporto di forza altrimenti impari tra il lavoratore e l’impresa, da tempo avanza nei loro confronti. La precarietà del lavoro che diventa precarietà dell’esistenza. L’elevato rischio di entrare nel rango dei lavoratori e dei pensionati poveri. La individualizzazione dei rapporti di lavoro che rende ardua la rappresentanza sindacale; dopodiché si accusano i sindacati di non essere abbastanza rappresentativi del mondo dei nuovi lavori. Al momento, non v'è alcuna ragione oggettiva per affermare che il presidente della Confindustria debba essere particolarmente sensibile a siffatte valutazioni — anche se è dato supporre che Montezemolo lo sia in maggior misura del suo predecessore D'Amato. V'è però un fatto che può interessare il vertice di tale ente: un numero crescente di imprenditori e dirigenti cominciano a nutrire seri dubbi sulla razionalità economica e organizzativa della presenza in azienda di lavoratori e lavoratrici inquadrati da dozzine di rapporti di lavoro differenti, tutti diversi dal normale rapporto di durata indeterminata e orario pieno. 40
Alcuni imprenditori e dirigenti hanno preso a fare i conti per stabilire se e in qual misura convenga utilizzare contratti di lavoro atipici — sinonimo di occupazione flessibile o precaria. Scoprendo, ad esempio, che il ricorso al lavoro in affit-
to esteso a gruppi di lavoratori di qualsiasi dimensione, quello che il decreto attuativo della legge 30 chiama, con un termine dal vago sentore medico, «somministrazione di lavoro», può venire a costare assai caro. Infatti la fattura che l’impresa di somministrazione, dalla quale i lavoratori da affittare dipendono, presenterà all'impresa utilizzatrice sarà composta, salvo errore, dalle seguenti voci, siano esse esplicite o implicite: il costo dei lavoratori affittati, comprensivi degli oneri contributivi, previdenziali, assicurativi e assistenziali; il recu-
pero del costo della indennità di disponibilità che l’impresa somministratrice deve pagare ai dipendenti nei periodi in cui questi non sono impiegati presso un utilizzatore, stabilita dal ministero del Lavoro in 350 euro mensili, più i relativi oneri contributivi; il recupero del contributo del 4 per cento che detta impresa deve versare a un fondo bilaterale costituito tra le imprese di somministrazione di lavoro, destinato a misure di integrazione del reddito dei lavoratori; il recupero delle spese di gestione dell’impresa; più, ovviamente, un equo profitto sul capitale impegnato. Dall’insieme di queste voci si ricava che una fattura emessa dall'impresa somministratrice di lavoro a carico dell’impresa utilizzatrice potrebbe costare a quest’ultima, per ogni giornata o mese di lavoro/persona, in totale, tra il 50 e il 100
per cento in più del normale costo del lavoro. Ma ciò che comincia a preoccupare imprenditori e dirigenti non è soltanto la questione dei costi del lavoro atipico. V'è il rischio del caos organizzativo e gestionale che tende a nascere dalla compresenza nello stesso spazio lavorativo, sia quello d’una fabbrica o d’un palazzo uffici, di lavoratori inquadrati da dozzine di contratti di lavoro differenti. L’obiezione per cui un’azienda resta libera di scegliere d’impiegare lavoratori con un unico contratto non regge di-
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nanzi alla realtà dell’organizzazione contemporanea della produzione di beni e servizi. Per la maggior parte le imprese hanno realizzato una complessa divisione del lavoro che vede le loro attività produttive affidate per una quota rilevante ad aziende esterne, e per una quota parimenti rilevante ad aziende — i cosiddetti terzisti - che entrano all’interno dei suoi impianti e uffici per lavorare a fianco dei dipendenti dell'impresa motrice. Tra aziende esterne, terzisti operanti all’interno, e dipendenti diretti dell'impresa stessa, a fronte di una normativa che permette e incentiva quarantotto modalità di rapporto di lavoro differenti, è molto probabile che le modalità contrattuali compresenti entro lo stesso spazio, allo stesso momento, siano dozzine.
Da qui nasce un incubo per i direttori di produzione, i gestori del personale (o delle «risorse umane», come si dice 0ggi con un'espressione che Kant non approverebbe), i quadri. Aver a che fare con centinaia di persone che oltre a far capo a decine di aziende diverse sono anche titolari di dozzine di contratti di lavoro differenti, significa infatti aver a che fare con un'infinita varietà di interessi e di atteggiamenti, con conflitti interpersonali e intergruppo, con processi legati all’ininterrotto confronto tra il proprio trattamento retributivo e normativo e quello del vicino. In tale situazione, governare l’organizzazione d’impresa e i processi produttivi diventa un impegno che perfino Sisifo rifiuterebbe, trovando preferibile ilsuo. E risaputo che il proliferare del lavoro precario ha effetti negativi sulla qualità della vita. Nuoce pure alla salute: centinaia di medici e di operatori sociali se ne stanno occupando in varie città italiane. Se poi si scopre che nuoce anche alle aziende, si può intravedere un interessante tavolo di discussione e contrattazione tra i nuovi vertici di Confindustria, le
imprese e i sindacati. [05/06/2004]
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LAVORO, PROFITTI E PRODUTTIVITÀ
Ha ragione il vicepresidente degli industriali Alberto Bombassei quando lega la possibilità di aumentare i salari all’incremento della produttività del lavoro. In pratica sembra una strada obbligata. In verità un’altra strada ci sarebbe: modificare il rapporto tra il volume dei profitti e il monte salari, visto che negli ultimi lustri esso è peggiorato a danno del secondo. Ma questo è un problema da politica nazionale, che non si può onestamente chiedere alla Confindustria di risolvere in sede di trattative sindacali. In tale sede, invece, l’importante è intender-
si sul significato che si vuol dare all’espressione «produttività del lavoro». I manuali dicono che essa è il rapporto tra il volume della produzione, o meglio tra il valore che in essa viene aggiunto ai beni materiali o immateriali su cui si lavora, e la quantità di lavoro impiegata. Se il lavoratore A produce un valore aggiunto pari a 100 per ora lavorata, mentre B produce 120, si può affermare che la produttività di B è più elevata del 20 per cento. Tuttavia, affermando quanto sopra, si possono anche commettere una serie di errori di valutazione. È infatti possibile che B produca più valore di A per motivi assai differenti: perché lavora più svelto, o dispone di mezzi di produzione più moderni, o ha una migliore formazione professionale; 0, an-
cora, perché il prodotto su cui lavora è qualitativamente più ricco. Infine perché la triplice catena dei fornitori, delle aziende cui la sua impresa ha esternalizzato attività e servizi non pri-
mari, e di quelle cui ha affidato al proprio interno segmenti primari dell’attività produttiva, è in complesso più efficiente di quella in cui capita d’esser collocato il lavoratore A. Dalle varietà delle cause che concorrono alla produttività del lavoro ne deriva che chiedere al lavoratore A di aumentare la sua per portarla al livello di B è una richiesta tutta da definire. Alcuni aspetti di essa, inoltre, non solo vanno molto al di là della disponibilità di A; vanno anche oltre le possi43
bilità di azione e di contrattazione dei sindacati. Questi ultimi saranno certo orientati a rifiutare l’ipotesi di accelerare i ritmi di lavoro, perché essi sono già al presente troppo eleva-
ti. Per contro possono chiedere alle imprese maggiori investimenti nella formazione, o il rinnovo di mezzi di produzione obsoleti. E per aumentare il contenuto in valore del prodotto possono chiedere maggiore impegno nella Ricerca & Sviluppo. Un campo in cui sono gli industriali a poter far di più per aumentare la produttività dei loro dipendenti, mentre il sindacato non può fare granché, se non in linea generale, è l’organizzazione della triplice catena menzionata sopra: fornito-
ri, aziende operanti all’esterno dell’impresa e aziende chiamate a operare al suo interno. Più che una catena, una rete ben più ampia e complessa della cosiddetta «filiera» (dell’auto, del tessile, degli elettrodomestici ecc.), la quale comprende in pratica solo i fornitori, i fornitori dei fornitori, e via di seguito. Tale rete dai molteplici soggetti ha una forte componente territoriale (un aspetto che Bombassei pare sottovalutare), e presenta in Italia delle componenti strutturali di grande debolezza. Il nostro paese va fiero dei suoi distretti industriali, ma il loro livello di strutturazione come veri e propri «poli di competenza», nei quali si ritrovino strettamente integrati ricerca e sviluppo, formazione, grandi e piccole imprese, attività produttive e servizi alle imprese, appare tuttora embrionale. A paragone, ad esempio, della vicina Francia. Che la Confindustria abbia finalmente riconosciuto la necessità di aumentare i salari è un passo positivo per i lavoratori. Altri ne potranno seguire quando si scenderà nei dettagli della contrattazione sui molteplici aspetti della produttività del lavoro. Cominciando con lo stabilire che aumentarla non può voler dire soltanto chiedere ai dipendenti di correre di più, lavorando. [29/08/2004]
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IL REALISMO HA SCONFITTO L’IDEOLOGIA: TRE ANNI PERSI SU UN FALSO PROBLEMA
Trapela dal direttivo della Confindustria, riunito un giorno d’autunno del 2004 per preparare l’audizione sul disegno di legge delega 848 bis in materia di occupazione e mercato del lavoro, che un accantonamento delle modifiche all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, previste dal ddl, non la trovereb-
be contraria. Pare che Cisl e Uil, firmatarie nel luglio 2002 di un protocollo trilaterale con il governo e le associazioni imprenditoriali che recepiva integralmente (in allegato) tali modifiche, non solleverebbero obiezioni.
Proviamo allora a riepilogare. Nel novembre 2001 il governo presentava al Parlamento una proposta di delega sul mercato del lavoro, accompagnata da una dettagliata relazione. L’art. 10 della proposta conteneva la delega al governo per introdurre «in via sperimentale» una modifica dell’art. 18 della legge 300 del 1970, appunto il suddetto Statuto. Essa consisteva nella sostituzione di un risarcimento monetario
all’obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente licenziato senza giusta causa. Tale modifica era stata fortemente richiesta della Confindustria, secondo la quale l’art. 18 avrebbe costituito un freno allo sviluppo del paese, perché impediva alle imprese di superare il limite dei 15 dipendenti, oltre il quale si applica lo Statuto. A Cisl e Uil era sembrato un pedaggio inevitabile da pagare, firmando il protocollo detto anche «Patto per l’Italia», alle esigenze di flessibilità del lavoro imposte dalla globalizzazione. Restava decisamente contraria la Cgil e, si sarebbe detto dalle vastissime manifestazioni che si svolsero sino alla primavera del 2003, anche una larga parte dei lavoratori. A fronte del clamore suscitato, pure al di fuori degli ambienti sindacali e in una parte rilevante dell’opposizione, da tale attacco a un elemento centrale dello Statuto dei lavoratori, l’ar-
ticolo così congegnato veniva stralciato dal governo da quella che sarebbe diventata la legge 30 del febbraio 2003, e i suoi 45
contenuti riversati nell’art. 3 di un nuovo disegno di legge, appunto il numero 848 bis, tuttora in attesa di approvazione. Se ora la Confindustria confermerà che il suo interesse per la questione è ormai scemato, e lo stesso faranno Cisl e Uil, le modifiche all’art. 18 saranno molto probabilmente stralciate anche dall’848 bis. Forse per essere definitivamente accantonate, oppure per confluire in un 848 tris o quater. Ove si pon-
ga mente alle energie spese da una parte per modificare l'art. 18- in realtà per avviarne la soppressione — dall’altra per difenderlo; alle assemblee e ai cortei che hanno complessivamente visto la partecipazione di milioni di persone; alle tormentose vicende del referendum indetto per mettere in salvo l’art. 18, andato fallito per mancanza del quorum, ma al quale votarono «sì» dieci milioni e mezzo di cittadini, e al fiume di articoli tra il veemente e il dotto pubblicati sul tema, si resta stralunati dinanzi al costo sociale e umano che l’intera vicenda ha accollato al paese. Per arrivare a concludere, tre anni dopo, che l’art. 18 non è poi così importante, e che se qualcuno insiste proprio per tenerlo in vita non è il caso di prendersela. Sarebbe però un errore mettere da parte la questione solo con il rimpianto per il tempo perduto in un conflitto attorno ad aspetti marginali del lavoro e dell’impresa, una quisquilia rispetto ai grandi temi dello sviluppo e delle riforme. In primo luogo perché essa ha dimostrato che la realtà è più forte dell'ideologia, perfino di quella d’un governo di destra che al di fuori del suo cerchio di gesso, del suo privato «gioco del mondo», non sembra scorgere nessun elemento tangibile. La realtà dice che le imprese sapevano e sanno benissimo che cosa bisogna fare per diventare più grandi, e che non è la presenza dell’art. 18 a impedirglielo, così come non sarebbe la sua soppressione a facilitarle a tal fine. Diversamente dai suoi precedenti organi di governo, la Confindustria attuale sembra essersene resa conto, e aver quindi deciso di riporre nell’armadio degli oggetti dismessi la bandiera che tre anni addietro fu levata animosamente per sconfiggere lo Statuto dei lavoratori. 46
Ma un motivo forse più valido per non rimpiangere il tempo così perduto è la dimostrazione che a volte difendere i principi paga. Nel supponente tribunale della razionalità economica la difesa dell’art. 18 aveva tutto contro. Si affermava a ogni momento che esso interessava, in concreto, pochissi-
me persone. Veniva etichettato come un reperto polveroso della storia delle relazioni industriali. Perfino quelli che si impuntavano a suo favore stentavano a trovare buone ragioni per farlo. Sembra che oggi almeno una l'abbiano trovata. Si può anche ammettere che l’art. 18 non sia nulla più di un tassello di quel variegato mosaico di diritti che faticosamente cerca di rappresentare la dignità delle persone, sul lavoro e fuori. Però, se quel tassello fosse stato eliminato, l’intero mo-
saico avrebbe cominciato a disgregarsi. [14/10/2004]
NUOVO LAVORO, PROBLEMI DI SEMPRE
È presto per dire quale sarà l’effetto sul mercato del lavoro dell’introduzione del lavoro a progetto, definito dal decreto attuativo della legge 30/2003. Il termine che esso prevede per la trasformazione delle collaborazioni coordinate e continuative preesistenti in un contratto di lavoro a progetto, oppure in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, scade solo in questi giorni, a un anno esatto di distanza dalla sua emanazione. Ulteriori dilazioni sono possibili nell’ambito di accordi sindacali stipulati in sede aziendale. Di conseguenza il numero di contratti riferiti alla nuova tipologia è per ora limitato, e le rilevazioni finora compiute non molto indicative. Quanto si può invece cominciare a dire è che a mano a mano che si approfondiscono le questioni relative al suo inserimento nelle organizzazioni aziendali, il lavoro a progetto appare assai meno innovativo di come viene presentato. In pri-
mo luogo va ricordato che tale tipologia contrattuale non è applicabile per le pubbliche amministrazioni. Ciò significa
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escludere a priori almeno mezzo milione di persone dai benefici veri o presunti del contratto a progetto, equivalente alla metà se non più dei titolari di contratti di collaborazione occupati in reali attività produttive. Premute dalle ristrettezze di bilancio e dal blocco dei concorsi, le pubbliche amministrazioni utilizzano infatti largamente, da anni, i co.co.co. Per far fronte alle carenze di or-
ganico. In esse si sono così moltiplicati tecnici e impiegate, professoresse e funzionari assunti con contratti di collaborazione da uno a tre anni. Molti di loro svolgono in effetti un’attività da lavoratore dipendente. Per questo motivo potrebbero trarre vantaggio dal disposto dell’art. 69 del decreto attuativo, secondo il quale, se nei rapporti di co.co.co. non si individua uno specifico progetto, esso viene trasformato in un rapporto da lavoratore dipendente a tempo indeterminato. Perciò la loro esclusione dal campo di applicazione della legge 30 contrasta palesemente con uno degli scopi di questa più spesso reclamizzato: combattere la diffusione dei lavori che sono di fatto di tipo subordinato, ma sono stati finora camuffati con contratti da lavoratore autonomo. I veri punti dolenti del lavoro a progetto sono però altri. Esso dovrebbe essere riconducibile a «uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente» (art. 61 del decreto attuativo). Un primo inconveniente è che, dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro in azienda, la triade progetto-programma-fase vuol dire tutto e niente. Costruire la linea ferroviaria ad alta velocità Milano-Roma è sicuramente un progetto, che dura dieci anni e coinvolge migliaia di persone. Ma anche realizzare il sito Web di una piccola azienda è a suo modo un progetto, il quale si conclude in una settimana. Occorre dunque chiedersi se i due o tremila lavoratori addetti per un decennio alla linea Tav e l’informatico a settimana potranno pretendere tutti lo stesso tipo di contratto. Quanto al significato di «fase di lavoro», è lecito supporre che preparare una sezione di voci disciplinari d’un grande di48
zionario enciclopedico — un lavoro da titani — sia una fase della sua produzione. Peraltro da quando esiste l’industria l’espressione «fase di lavoro» significa anche montare in un minuto 0 due lo sportello d’una lavatrice, o il cruscotto di un’automobile, o magari — come illustrò Adam Smith oltre duecento anni fa — fare la punta a uno spillo. Stando alla formulazione del decreto in parola, tutte le fasi sopra indicate, dallo sterminato all’insignificante, potrebbero essere alla base di un contratto a progetto. Senza contare che l’espressione in parola non definisce di per sé, magicamente, un lavoro autonomo. Esiste infatti da decenni un metodo di gestione che si chiama «direzione per progetti». È l’arte di dirigere e coordinare risorse umane e materiali per raggiungere obbiettivi prestabiliti entro dati limiti di tempo, bilancio e qualità del risultato. È anche la definizione di un tipo di lavoro in cui tutti coloro che vi partecipano, dirigenti, quadri, tecnici e operai, sono dei lavoratori dipendenti. Il nuovissimo lavoro a progetto potrebbe dunque rientrare, a seconda di come lo si interpreta, in una tipologia di lavoro dipendente di cui si discuteva già negli anni ’60 del secolo scorso. Imprenditori e giudici del lavoro avranno il loro daffare. [25/10/2004]
LE DONNE PRECARIE
È noto da anni che i lavori precari ricadono soprattutto sulle donne. Tempo determinato, co.co.co., stages, part-time forzato (che la persona accetta perché non trova un tempo pieno), lavoro intermittente e simili: in complesso circa due ter-
zi dei lavori che prevedono un’occupazione e un reddito discontinui sono svolti da donne. Un recente decreto interministeriale accentua tale forma di discriminazione a loro danno. Esso prevede infatti che in tutte e venti le regioni italiane, non solo in quelle meno sviluppate, si possano offrire dei contratti di lavoro di durata compresa tra i 9 e i 18 mesi, non 49
rinnovabili, unicamente alle donne di qualsiasi età. A tutte le donne, si noti, per il mero fatto di appartenere a codesto genere. Viene così offerta a qualunque datore di lavoro, in caso
ve ne fosse bisogno, un’altra possibilità di proporre contratti di breve durata alle centinaia di migliaia di donne che ogni anno sono in cerca di occupazione. Quelle che si affacciano per la prima volta sul mercato del lavoro, come quelle che sono state licenziate o che vorrebbero cambiare posto. I passi compiuti dal legislatore per arrivare a peggiorare in tal modo le prospettive lavorative delle donne, quali che fossero le sue intenzioni, sono due. Primo passo: l'art. 54 del de-
creto legislativo n. 276, emanato nel settembre 2003 per dare attuazione alla legge 30 di riforma del mercato del lavoro, prevede un contratto definito «di inserimento». Questo tipo di contratto è un erede dei vecchi contratti di formazione e lavoro, diretto a realizzare l'inserimento d’un lavoratore nel
mercato del lavoro mediante un progetto individuale di adattamento delle sue competenze professionali. Il decreto precisa che esso è riservato ad alcune categorie di persone. Tra di esse figurano le donne di qualsiasi età residenti in un’area geografica in cui il tasso di occupazione femminile sia inferiore almeno del 20 per cento a quello maschile. Le aree in cui codesto tasso sussiste dovevano essere individuate in un altro decreto del ministro del Lavoro di concerto con il ministro dell'Economia. Si poteva pensare che le suddette aree sarebbero state identificate quasi esclusivamente nel Mezzogiorno, dove è pure possibile erogare incentivi economici alle imprese come previsto dalla Commissione Europea. È qui che interviene il secondo passo. Il ministero del Lavoro ha infatti scoperto ora, a distanza di un anno, un dato noto in realtà da decenni: il tasso di occupazione femminile è inferiore a quello maschile di almeno 20 punti in tutte indistintamente le regioni italiane.
Magari di pochi decimi di punto, come in Friuli-Venezia Giulia, dove lo scarto è di appena lo 0,1 per cento (51,7 per le femmine, 71,8 per i maschi), o in Piemonte, dove tocca lo 0,3 per 50
cento (51,6 contro il 71,9). Ma è comunque inferiore di al-
meno 20 punti. Lo dicono le rilevazioni Istat. Lo sottolinea la relazione tecnica che accompagna il decreto ministeriale, con tanto di tabella che calcola le aree secondo quanto previsto dal precedente decreto legge attuativo della riforma. Sulla base di tale tabella il ministro del Lavoro, di concerto con il mi-
nistro dell'Economia, ha quindi decretato che «le aree territoriali di cui all’art. 54 del dl 276/2003. sono identificate per gli anni 2004, 2005 e 2006 in tutte le Regioni e Province autonome». Decreto e relazione tecnica si possono leggere nel
sito del ministero. Il nuovo decreto ministeriale stabilisce che gli incentivi economici alle imprese previsti dalla legge del 2003 per i contratti di inserimento di lavoratrici si applicano solamente alle regioni del Mezzogiorno e delle Isole, più il Lazio. Ma non esclude l’estensione a tutte le regioni di un altro dispositivo di sicuro interesse per le imprese. Si tratta della possibilità di inquadrare chi venga assunto con un contratto d’inserimento anche due livelli al disotto della categoria che spetta alle mansioni corrispondenti a quelle cui è finalizzato il progetto di inserimento. Tramite questa via, alle donne di qualsiasi età,
che al momento significa un’età legalmente compresa tra i 15 e i 64 anni, si aprono opportunità invero straordinarie di oc-
cupazione in tutte le regioni italiane. Per il mero fatto di essere donne, esse possono ora venire assunte dovunque con contratti di inserimento della durata massima di 18 mesi, ed
essere inquadrate sotto il profilo professionale e retributivo appena due categorie più in basso di coloro che nell’ufficio o nel reparto di fianco fanno il loro stesso lavoro. Le impari opportunità sono così assicurate.
L’obiezione più trita che si possa fare ai suddetti rilievi è che il decreto ministeriale prefigura soltanto una possibilità, senza imporre nulla. In primo luogo va sottolineato che è l'occasione a rendere il lavoro precario. Si offra per legge agli enti pubblici economici, alle imprese e loro consorzi 0 gruppi, agli enti di ricerca pubblici e privati, come elenca punti31
gliosamente il decreto legislativo del 2003, l’occasione di stipulare in 20 regioni dei contratti aventi le caratteristiche sopra indicate, ed essi, anche per le difficoltà che molti attraversano, non mancheranno di approfittarne, a fronte della vastissima platea di donne che sono alla ricerca assillante di un lavoro. Ma soprattutto l’obiezione suddetta ignora l'offesa insita nell’etichettare l’intero universo femminile come uno strato sociale assoggettabile, per legge, a ulteriori discriminazioni sul mercato del lavoro. [8/12/2004]
L'industria in declino e il caso Fiat
L’EFFETTO DOMINO DELLA CRISI FIAT
Il nuovo piano di risanamento della Fiat inizia, usando quale anticamera la mobilità lunga, con 3000 prepensionamenti (si suppone in risposta alle pressanti richieste confindustriali di innalzamento dell’età pensionabile) e con 10.000 lavoratori in cassa integrazione. Poi si vedrà. Tutti si augurano naturalmente che Fiat Auto abbia successo nel suo programma di rilancio. Il quale in ogni caso non arriverà domani. Ma se anche questo domani fosse positivo per l’azienda torinese, forse converrebbe cominciare a prendere coscienza, al di là di esso, di vari processi legati alla vicenda Fiat che paiono ormai difficilmente reversibili. Un primo dato da considerare è che, comunque vadano le cose, i lavoratori addetti alla produzione di autoveicoli in Italia continueranno a diminuire. La produttività negli stabilimenti Fiat si aggira ormai su 75-80 vetture l’anno per addetto diretto. Ciò significa che per produrre un milione di vetture l’anno sono sufficienti circa 14.000 lavoratori sulle linee, oltre naturalmente a un numero superiore, ma non di molto, di indiretti, di impiegati e simili.
Ma la Fiat non produrrà mai più, in futuro, un milione di autoveicoli in Italia, perché la maggior parte della sua produzione si sta da tempo spostando all’estero. Non solo. E noto che tra due terzi e quattro quinti delle auto Fiat non sono più prodotti da dipendenti dell’azienda, secondo un modello organizzativo comune a tutta l'industria automobilistica. Molte lavorazioni, all’interno degli stessi stabilimenti Fiat, dalla la55
stratura alla verniciatura, sono affidate ad aziende terze. E la
maggior parte, in valore, delle parti che formano un'auto provengono dalle fabbriche della componentistica, di cui l’azienda torinese assorbe il 60 per cento del fatturato. In sintesi, per ogni posto di lavoro che scompare tra i dipendenti della Fiat Auto, potrebbe scomparirne almeno uno nelle aziende terze, e almeno due tra i produttori di componenti. Dunque una previsione non azzardata dice che se alla Fiat si dovessero perdere nel prossimo anno o due altri 10.000 posti di lavoro — foss’anche, si badi, non per effetto della crisi, ma bensì delle operazioni di risanamento e di aumento del-
la produttività che per ottenere il risanamento sarà imposto anche alle aziende terze e alle imprese della componentistica — altri 30.000 potrebbero seguirli in questi altri settori. Per il momento si può considerarlo solo un rischio; ma quando i rischi sono grandi, anziché gridare al pessimismo di chi li richiama, bisognerebbe pensare per tempo a costruire validi sistemi di sicurezza. Pur con la speranza di non doverli usare mai.
In una prospettiva più ampia, le vicende della Fiat Auto, ultimo gigante italiano dell'industria manifatturiera, possono esser viste come un aspetto del declino nei paesi sviluppati del lavoro fatto principalmente con le braccia e le mani, poiché questo appunto significa «manifattura». Vari fattori hanno concorso a tale declino. Anzitutto, si sa, nei paesi in via di
sviluppo il costo del lavoro è assai minore. L'industria europea si sposta quindi in Turchia, in Polonia, nel Sudest asiatico; quella americana — in specie proprio quella dell’auto — in Messico.
In secondo luogo, realizzare buoni profitti producendo oggetti complessi, che richiedono il lavoro coordinato di molte migliaia di persone, immensi mezzi di produzione, insieme con la movimentazione fisica e la lavorazione di montagne di materiali, richiede una scienza e una tecnica molto più difficile che non realizzare — anche solo per qualche tempo — profitti pari o superiori producendo servizi in cui si impiegano 54
un decimo di addetti e un centesimo di mezzi di produzione e di materiali. La diversificazione delle attività produttive di molte imprese europee nate come industrie manifatturiere e poi lanciatesi nel campo dei servizi, un percorso che anche il gruppo Fiat intraprese a suo tempo, è derivata tanto dai calcoli che i dirigenti fanno sui loro bilanci, quanto dalle pressioni su di loro esercitate al suddetto fine dai grandi investitori istituzionali. Perché mai fare una fatica d’inferno per realizzare, se tutto va bene, un 5 o 6 per cento di profitti netti
fabbricando automobili o altri manufatti, quando offrendo servizi intangibili dei più vari generi si possono conseguire profitti tre volte maggiori? Molti sostengono che così va l'economia contemporanea, che questa è semplicemente una delle facce della globalizzazione: ai paesi in sviluppo il lavoro manuale, a quelli sviluppati il lavoro intellettuale. Resta da notare che per questa strada rischia di perdersi, nel nostro paese come in altri, la secolare cultura del fare, del fabbricare in massa, per mezzo d’una
sapiente combinazione di braccia, intelligenza e tecnologia, prodotti materiali utili per migliorare la qualità della vita. Alla quale dobbiamo principalmente dei benefici da nulla: tipo il vivere oggi, in media, trenta o quaranta anni più a lungo che non un secolo fa, lavorando 1500 ore l’anno invece di 3000. [17/05/2002]
LA TRAGEDIA DELL’AUTO NAZIONALE
Qualora la Fiat Auto dovesse davvero esser costretta a chiudere, oppure diventasse un reparto di secondaria importanza della General Motors (o anche di un altro gruppo), si potreb-
be annunciare in via ufficiale che l’Italia è entrata a far parte dei paesi periferici dell'economia planetaria, la serie C del sistema mondo. Il secondo esito, la cessione alla General Mo-
tors, appare ovviamente preferibile al primo, perché almeno si salverebbero un certo numero di posti di lavoro. Ma la perDI
dita, per l’intero paese, resterebbe gravissima e irrimediabile. Anzitutto perché l’automobile è l’ultimo pezzo di grande industria manifatturiera che esista in Italia. La produzione di computer è stata lasciata affondare da politici e imprenditori negli anni ’60, l'industria aeronautica prima ancora, la side-
rurgia che primeggiava in Europa è oggi un settore secondario, l’elettronica di consumo un lontano ricordo. Se anche l’auto tramonta, è la «vera» industria che scompare, quella che
consiste nell’ideare oggetti complicati, utili a migliorare la vita, e dare loro forma partendo da materiali informi, minerali
e metalli, prodotti chimici e plastica. Organizzando sapientemente a tal fine il lavoro di migliaia di uomini e donne che riconosceranno fisicamente e idealmente, in quegli oggetti, il prodotto del loro lavoro. Ma l’automobile è anche molto di più, e in Italia più che in altri paesi. E al tempo stesso una delle manifatture più antiche — forse solo le costruzioni navali la battono in longevità — e delle più moderne. È nata più di cento anni fa, ed è molto probabile che tra cento anni esista ancora. È oggi alla vigilia d’una grande rivoluzione tecnologica, con il passaggio non lontano al motore a idrogeno o a biocarburante, un uso sempre più intensivo dell’elettronica per accrescere la sicurezza d’uso, l’impiego di nuovi materiali, lo sviluppo delle tecniche di riciclaggio di tutti i suoi componenti. Questo significa che attorno all’automobile hanno origine facoltà di ingegneria e corsi di informatica, alti studi di logistica, professioni tradizionali e nuove in decine di settori differenti. Ancora, l'auto è — specie in Italia — una delle maggiori espressioni del design industriale, della creatività tecno-estetica che nel corso del Novecento ha cambiato l'aspetto delle città come il contenuto visivo a breve raggio della nostra vita quotidiana. Molti paesi vi hanno contribuito, ma per quanto riguarda l’auto, quella che usano le famiglie, le vette del moderno design sono state toccate a Torino, Italia. L'auto, nel
nostro paese, ha anche voluto dire quattro generazioni di lavoratori, centinaia di migliaia di persone, in totale forse mi56
lioni, provenienti da molte parti della penisola, che attraverso la durezza e i conflitti di questa speciale industria hanno scoperto la solidarietà di classe, la disciplina del lavoro che fa soffrire ma anche scoprire in sé nuove identità, e che attraverso il sindacato hanno acquisito diritti di cittadinanza di cui erano prive.
Come una classe imprenditoriale, e una classe politica, possano vedere tutto ciò andare perduto — come da almeno un lustro era prevedibile e previsto — senza in fondo aver nemmeno l’aria di preoccuparsi troppo, non è tanto un mistero italiano, quanto un dato disperante della nostra storia recente. Che di perdita si tratti, non vi può essere dubbio. Se la General Motors assumesse il controllo della Fiat Auto, non avreb-
be alcun particolare interesse a mantenere a Torino, tutt’insieme, la progettazione dei motori, il design delle carrozzerie, gli studi sull’informatica applicata alla gestione del veicolo e del traffico, lo studio dei sistemi di alimentazione post-petrolio, poiché sarebbe irrazionale dal punto di vista gestionale tenere concentrate in un unico luogo attività che interesserebbero non più la sola Fiat bensì le sue diverse marche. Deciderà piuttosto di dislocare ciascuna di queste attività in questo o quello dei suoi numerosi centri di ricerca e sviluppo sparsi per il mondo, valutando quale di essi sia più baricentrico rispetto alle sue produzioni. Il numero dei lavoratori della Fiat targata General Motors sarebbe drasticamente ridotto, giacché in alcune regioni semplicemente sparirebbero, mentre a Mirafiori potrebbero restarne un paio di migliaia — sempre che la General Motors reputasse conveniente investi-
re miliardi di euro per ammodernare uno stabilimento seriamente invecchiato. Non è detto che si debba vivere male in un paese periferico, posto nella terza cerchia del sistema mondo, che vede
al centro i soli Usa, nella seconda cerchia Germania e Giappone, Francia e Gran Bretagna, e nella terza un largo nove-
ro di paesi in via di sviluppo o di sottosviluppo, come appunto l’Italia. Basta rassegnarsi al fatto che qualunque 0gDI
getto che vediamo e usiamo è stato pensato e costruito da altri, il che comporta che le loro idee e le loro azioni diven-
tano parte dei nostri gesti e della nostra mente. Che qualcuno si sveglia di malumore a Topeka, Kansas, o a Pallastun-
turi, Finlandia, e decide di chiudere uno stabilimento in Piemonte o in Basilicata mandando a casa qualche migliaio di lavoratori. E al tempo stesso prender nota del fatto che chi non è più in grado di dimostrare d’avere una posizione solida, se non all’avanguardia, in almeno qualcuno dei principali settori della moderna industria manifatturiera — con tanti saluti all'economia che si voleva fondata soltanto sul clic del mouse — può essere serenamente certo di avere acquisito un
peso politico insignificante nelle decisioni che toccano il mondo. Una volta dato tristemente per scontato il passaggio dell’Italia in serie C, vi sono soluzioni alternative, per mantenere in vita almeno parte della Fiat Auto, al di fuori della vendita del restante 80 per cento alla General Motors? Probabilmente no. Quando perfino le agenzie di r417g come Moody's fanno sapere che per mantenere la valutazione della sua affidabilità finanziaria al di sopra del livello jurk, in parole povere dei titolispazzatura, Fiat dovrà presumibilmente cedere le sue attività entro il 2004, ogni altra strada pare preclusa. Così stando le cose, recherebbe qualche sollievo almeno constatare che la dirigenza dell’azienda, gli enti e le forze politiche locali, il governo, le forze politiche di opposizione, sono pronte a ergersi come un sol uomo per pretendere sia con le vie della trattativa in senso lato «politica», sia con piani industriali innovativi e credibili, che la General Motors paghi, al caso, il prezzo più alto possibile per il patrimonio che potrebbe acquisire. Il prezzo più alto in termini di centri di ricerca e sviluppo che restano in Italia, di impegno a sostenere la componentistica nazionale (che oggi è in condizione di produrre per qualsiasi committente), di mantenimento del maggior numero possibile di posti di lavoro. Il mercato italiano dell’auto è il quarto del mondo, il che implica che la General Motors do58
vrebbe avere un notevole interesse a produrre in Italia. Ma senza un fronte unito di dirigenti e politici, di sindacati e di imprenditori — che per ora non si vede, ma forse non è tardi — G.M. potrebbe avere anche vita facile nel comprare Fiat Auto a prezzo di saldo. [09/10/2002]
IL RITORNO ALL’AUTOMOBILE
I problemi di fondo che da anni affliggono il Gruppo Fiat sono essenzialmente due. Il primo è la strategia di diversificazione orizzontale da esso perseguita per oltre due decenni, sino al 2002, che lo ha portato a impegnarsi in molteplici settori, dalle assicurazioni alla generazione e distribuzione di energia elettrica, del tutto estranei alla produzione automotoristica, che comprende insieme alle auto anche trattori, macchine
per il movimento terra, autocarri. Una strategia che ha sottratto a Fiat Auto e alle altre società del comparto preziose risorse economiche e manageriali.
Il secondo problema è il mancato raggiungimento dei volumi totali di produzione che lo stesso mzanagerzent Fiat considerava indispensabili, sin dai primi anni ’90, per sopravvivere sul mercato mondiale dell’auto: almeno tre milioni di unità all’anno. Il piano di rilancio presentato dai massimi dirigenti del Gruppo all’inizio dell'estate 2003 va quindi giudicato dall’apporto che esso pare offrire alla soluzione di ambedue i problemi. Rispetto al processo di diversificazione extra auto che ha caratterizzato la gestione Fiat degli ultimi lustri, l'inversione di tendenza sembra essere assai netta. Per la
prima volta il piano contiene un organigramma d’insieme in un cui la Fiat S.p.A., ovvero il Gruppo Fiat, viene presentato e denominato come un «gruppo automotoristico» concentrato sulla produzione di automobili (Fiat Auto), tratto-
ri, escavatrici e affini (Cnh), autocarri e veicoli commerciali (Iveco). Più la Ferrari. A esso si affiancano, in una nitida lo39.
gica di integrazione verticale, società che producono componenti e sistemi: Marelli, Comau, Teksid.
Un primo importante risultato di tale riorganizzazione del gruppo, a mano a mano che verrà tradotta in procedure e responsabilità organizzative, sarà di avere finalmente uno strato di dirigenti di alto livello il cui solo pensiero è come fabbricare e vendere dei buoni autoveicoli. Diventando così più simile a tutte le maggiori società dell’automotoristica mondiale. Per quanto riguarda invece il raggiungimento dei volumi produttivi critici al fine di restare da protagonisti sul mercato globale, il piano di rilancio offre indicazioni meno evidenti. Produrre milioni di unità all'anno è imperativo, nell’industria dell'automobile, sia perché gli investimenti per costruire e mettere in produzione un nuovo modello di auto, 0 anche solo un nuovo motore, sono enormi, dell’ordine di mi-
liardi di euro; sia perché l'eccesso di capacità produttiva a livello mondo, che si stima sia dell’ordine del 25 per cento, ha portato le case costruttrici a ingaggiare reciprocamente bat-
taglie distruttive sui prezzi di vendita. Combinati tra loro, i due fattori fanno sì che su ogni auto venduta il guadagno netto sia minimo; di qui la necessità di grandi volumi di produzione. Tre milioni di auto all’anno, si diceva, era il volume che il rzanagerzent Fiat indicava da tempo come necessario per sopravvivere. Nel 2003 Fiat prevede di produrre 1,9 milioni di unità. Come si colma il divario negli anni a venire? A questo proposito le cifre contenute nel piano di rilancio sembrano delineare una strategia che rinuncia a massimizzare le quantità prodotte, puntando invece ad aumentare i ricavi per ciascuna unità costruita. Di fatto le quote di mercato dell’auto che si prevede di acquisire, o di mantenere entro il 2006, sul mercato italiano, su quello europeo — Italia esclusa — e su quello brasiliano, il più importante dell'America Latina, mostrano variazioni minime: più 2,2 per cento in Italia, appena lo 0,1 in Europa, e meno 0,6 in
Brasile. Da tali previsioni di quote si ricava in sostanza che la Fiat prevede di produrre nel mondo, al 2006, circa 2 milioni 60
di auto. E non sarà il potenziamento della produzione in Turchia, Polonia, Russia e Cina, pure annunciato nel piano, a col-
mare lo scarto di un milione di pezzi prodotti tra le stime del passato e le previsioni per il prossimo futuro. Su quei circa 2 milioni di auto, tuttavia, Fiat potrebbe ri-
cominciare a guadagnare in misura apprezzabile. Lo si evince, tra l’altro, dal prospetto dell’evoluzione delle piattaforme, una delle componenti più grosse e costose di un’auto. Nel 2002 Fiat condivideva con altri partner una sola piattaforma. Al 2006 prevede di condividerne 5-7, e 6 al 2008 e anni successi-
vi. Inoltre per ciascuna piattaforma dovrebbero venire costruite dai diversi partner non più 167.000 auto all’anno, come nel 2002, ma ben 418.000, mentre il numero di veicoli Fiat
Auto per piattaforma dovrebbe salire dagli attuali 163.000 a oltre 230.000. Ciò dovrebbe consentire di realizzare, si legge nella presentazione del piano di rilancio, risparmi significativi sui costi di sviluppo per modello, sino a oltre il 30 per cento, e sugli investimenti per portarlo in produzione. Se ciò basti per realizzare un volume di ricavi netti sufficiente per compensare il permanere dei volumi produttivi Fiat assai al disotto dei maggiori costruttori europei, potrà dirlo solo l’esperienza. Il piano comporta dei tagli all’occupazione, connessi alla chiusura di 12 stabilimenti, di cui
però uno solo in Italia, con 250 addetti. Sui circa 169.000 occupati attuali del gruppo, perderanno il posto, v'è da temere presto, 9500 lavoratori all’estero, e 2800 in Italia, che
si aggiungono alle molte migliaia già licenziati o messi in mobilità negli ultimi anni. Sono perdite gravose per le famiglie e le comunità che dovranno subirle; anche se parzialmente compensate, ma solo entro il 2006, da un certo numero di
assunzioni. Dobbiamo augurarci che questo piano industriale — giacché, fatto insolito nel nostro paese, di un vero piano industriale sembra trattarsi, anche se occorrerà valutare come e con quali tempi verrà attuato — sia uno stru-
mento efficace, oltre che per risollevare l’ultimo pezzo di grande industria che rimane nel nostro paese, per far sì che 61
simili annunci da parte del Lingotto non abbiano più a ripetersi in futuro. [27/06/2003]
DA OPERAI A «ESUBERI»
Dalla fallita trattativa sulla annunciata riduzione del personale negli stabilimenti Fiat escono sconfitti in tre: l'azienda, il governo e il sindacato. Le conseguenze saranno onerose per tutti. L'azienda non può illudersi di portare a buon fine il suo piano industriale come se nulla di rilevante fosse accaduto. Per realizzare le parti propositive del piano stesso — il lancio di nuovi modelli, la ristrutturazione degli stabilimenti, gli incrementi di produttività — e possibilmente per migliorarlo, nel suo stesso interesse, essa avrebbe infatti bisogno sia del consenso, sia delle competenze del sindacato e dei lavoratori
che questo rappresenta. Perché non ci sono ordini o disegni calati dall’alto che tengano: la qualità del prodotto e l’andamento complessivo del flusso produttivo dipendono, all’inizio, dalla credibilità del piano industriale, che sarà tanto più credibile quanto più è condiviso dalle rappresentanze sindacali — la cui competenza economica e manageriale è in genere sottovalutata; ma, alla fine, dipendono dall’intelligenza e dalle mani delle singole persone. La Fiat ha avuto la meglio sul sindacato, ma al tempo stesso si è probabilmente costruita dinanzi, per i prossimi mesi e anni, un percorso a ostacoli in grado di sfiancare perfino soggetti al massimo della forma. Il che non sembra essere il caso dell’azienda torinese. Per parte sua il governo ha ignorato la crisi Fiat sino alle ultime settimane, quando essa era ormai evidente da almeno un anno. Da quando cioè vi sarebbe stato tempo e modo per avviare una discussione approfondita sulle alternative possibili per risanare la Fiat senza cadere nell’assistenzialismo di Stato, e coinvolgendo in essa — perché no? — anche la General Motors o altre case automobilistiche. Dopodiché ha pro62
ceduto con dichiarazioni in libertà di vari ministri, e propo-
ste cincischiate come sono inevitabilmente quelle buttate lì all'ultima ora, in specie da chi sembra avere un'idea piuttosto vaga di che cosa sia una grande industria manifatturiera. Che la politica economica non fosse il punto di forza di questo governo, alcuni avevano cominciato a capirlo da tempo. Adesso è forse cresciuto il numero di coloro che lo hanno capito a fondo. Quanto al sindacato, questa sconfitta sarà accolta con frustrazione e risentimento da decine di migliaia di lavoratori. Quelli che da lunedì perdono il lavoro, come quelli che avran
paura di perderlo, quale che sia il punto in cui sono collocati nella sterminata filiera della produzione automobilistica: dipendenti Fiat, terzisti, addetti alla componentistica, speciali-
sti di servizi per l'auto, conducenti di bisarche, meccanici, fino ai tipografi che stampano i manuali per l'azienda. Una massa di lavoratori frustrati e risentiti che saranno un po’ meno disponibili a riconoscersi rappresentati dal sindacato, e un po’ più disponibili a cercare altre modalità per far sentire la propria voce; oppure a rifugiarsi nell’astensionismo, o nella disperata ricerca di soluzioni individuali, quali che siano. Che è
precisamente il punto cui voleva condurli la politica imprenditoriale degli ultimi lustri, e del governo negli ultimi anni. Ci vorrà del tempo a tutto il sindacato per riparare questa ferita, e certo ancora più tempo perché imprenditori e go-
verno si rendano conto che un sindacato forte e rappresentativo — quello stesso, l’insieme delle tre confederazioni, su cui
oggi hanno calato il colpo — è uno strumento indispensabile per regolare i conflitti prima che essi si inaspriscano in modi non sempre prevedibili, specie in tempi come gli attuali di crisi diffusa. C'è però un soggetto individuale che, se possibile, ieri è stato sconfitto ancora più duramente dei soggetti collettivi sopra ricordati. Al tempo stesso figura simbolica e persona in carne e ossa, quest'altro sconfitto è l'operaio (od
operaia che sia). In realtà la sua sconfitta è cominciata molto tempo fa, quando una schiera di commentatori e studiosi, tra 63
i quali non pochi di sinistra, hanno preso a sostenere che nella nuova economia l’operaio non esisteva più. Se per caso se
ne vedeva ancora qualcuno in giro — evento non raro, visto che gli operai sono ancora più di sette milioni — si trattava di residui della rivoluzione industriale, assicurava la vulgata, nu-
meri ed entità di nessun conto. - È la liquidazione simbolica dell’operaio che ha permesso, in modo sempre più agevole, di compiere i passi successivi. Come considerare l’operaio un’entità marginale nel sistema economico, sostituibile a piacere con una macchina, o con
qualcun altro disposto a lavorare per un quinto o un decimo del suo salario. O, meglio ancora, da ridurre nelle condizio-
ni di oggetto superfluo, per il quale non esiste più alcun uso concepibile. In fondo, l’atroce termine di «esubero» significa esattamente questo. Se in futuro si vorranno evitare altre sconfitte come quelle molteplici e incrociate del caso Fiat, bisognerà pure ricominciare — tanto nei comportamenti delle imprese come negli studi e nei media — a restituire la dignità e il riconoscimento sociale che le spettano alla figura dell’operaio. [06/12/2002]
TUTTI I RISCHI DI UNA DIVISIONE
Dopo un anno di mutamenti e risultati positivi, quel che sta succedendo negli stabilimenti Fiat di Melfi e di Mirafiori trasmette nuovamente segnali preoccupanti sulla situazione del gruppo torinese. I lavoratori di Melfi sono in agitazione a causa delle condizioni di lavoro: turni massacranti, tempi di
lavoro sempre più stretti, disciplina ferrea, bassi salari. Ma non siamo dinanzi a una questione che riguardi unicamente le relazioni industriali. Se l'azienda insiste in maniera così ossessiva sull’impiego intensivo della forza lavoro in ogni ora della giornata, ciò significa presumibilmente che i suoi margini di utile, la differenza tra costi e ricavi per unità di pro64
dotto, sono esigui. E sono affidati non tanto alla superiorità del design, della tecnologia, delle prestazioni del prodotto rispetto alla concorrenza, quanto alla produttività materiale del lavoro. Di conseguenza ciò che più conta è aumentare di qualche frazione al mese, di alcune unità l’anno, il numero delle auto prodotte per ciascun dipendente, nel cui lavoro confluisce ovviamente la produttività di tutta la filiera della componentistica.
Negli stabilimenti della Peugeot in Francia, o della Volkswagen in Germania, gli operai non sono forse meno stressati dai ritmi produttivi che negli stabilimenti Fiat. Ma per intanto sono pagati di più. L'organizzazione del lavoro è discussa più approfonditamente con i sindacati. E soprattutto la competitività non è affidata prevalentemente alla compressione del costo del lavoro, quanto allo sviluppo a ritmo incessante di modelli innovativi. In altre parole, al valore aggiunto rappresentato dalla creatività dell'impresa. Quella che Fiat, dai predetti segni, sembra stentare a raggiungere.
A Mirafiori è invece accaduto — secondo segnale preoccupante — che migliaia di lavoratori siano stati messi in libertà perché dal distretto di Melfi, causa le agitazioni, non sono arrivate le componenti necessarie per completare l’assemblaggio di alcuni modelli, tra i quali la nuova Idea. Qui le ipotesi che è lecito formulare sono due. La prima è che si sia trattato d’un grave errore organizzativo. Tutta l'industria contemporanea pratica la tecnica del «giusto in tempo»: ogni pezzo che forma un prodotto deve arrivare nel punto in cui verrà utilizzato a un dato momento, né prima né dopo, in modo da eliminare magazzini (e magazzinieri), depositi, polmoni sulle linee. Produrre in massa gruppi di componenti auto in quel di Melfi, con il peso e le dimensioni che hanno, per farli arrivare giusto in tempo a Mirafiori, a novecento chilometri di distanza, sfida ogni logica della logistica. Nei giorni scorsi i pezzi non sono arrivati a causa degli scioperi in atto nella zona; domani potrebbero non arrivare a causa del maltempo, di un incidente sull’Autosole, d'un blocco stradale o ferroviario. A parte il co65
sto di trasportare molte centinaia di tonnellate al giorno di materiali su una distanza così lunga. La produzione «giusto in tempo» richiede in sostanza distretti relativamente vicini al luogo in cui i loro componenti, in specie quelli di maggiori dimensioni, vengono utilizzati dall'operatore finale. Dato che in Fiat non mancano dirigenti capaci, l'ipotesi che l’asfissia di Mirafiori sia stata generata da un errore così macroscopico appare quindi poco plausibile. Quella che sembra invece plausibile è l'ipotesi che produrre a Melfi componenti da utilizzare a Mirafiori sia semplicemente un preludio del momento in cui le auto oggi assemblate a Mirafiori se ne andranno là dove sono prodotti i componenti, a Melfi o in altre parti d’Italia. È l'ipotesi più temibile che si possa fare, per Mirafiori ma anche per la stessa Fiat. Perché oggi le automobili sono fabbricate in stretta cooperazione tra la casa madre e quelli che una volta erano meri fornitori, ma che stanno diventando nell’autoindustria mondiale veri e propri soggetti di co-progettazione. La progettazione Fiat non po-
trebbe restare a Torino mentre tutte le parti delle auto sono fabbricate e assemblate altrove. A periodo medio-lungo, la separazione tra la prima e le seconde genererebbe una situazione organizzativa e produttiva assai difficile da sostenere. [24/04/2004]
SCENE DA ANNI 60
Ma non erano scomparse le tute sporche di grasso o vernice, le file di facce stanche alla fine del turno di notte, le due ore in autobus per andare e tornare dal lavoro, le fasi di lavorazione di due minuti per prendere un pezzo dal cestello, azionare un meccanismo per fissarlo e ricominciare, 240 volte al giorno? Il lavoro non era diventato tutto camici bianchi e schermi di computer, macchine fruscianti che da sole costruiscono altre macchine, una passeggiata saltuaria lungo le linee per vedere che tutto funzioni bene? Le persone al lavoro non erano di66
ventate per l’azienda preziose «risorse umane», da formare e trattare con ogni riguardo al fine di farle sentire partecipi, ovvero responsabili, dell'intero processo produttivo? A dedurre da quel che sta accadendo in questi giorni negli impianti Fiat di Melfi, parrebbe proprio di no. Lo scenario di Melfi sembra uno spezzone di film sulle fabbriche e sui modi di lavorare degli anni ’60. Ci si ritrova quasi tutto, di quell'epoca, comprese le manganellate dei poliziotti sulle spalle degli operai. C'è il lavoro durissimo, i bassi salari, l’organizzazione del lavoro fondata su tempi e metodi imposti da uffici imperscrutabili (sostituiti oggi da computer parimenti imperscrutabili), il controllo opprimente dell’apparato aziendale su ogni istante della giornata lavorativa. Perfino le comunicazioni dei provvedimenti disciplinari — 2500 solo nell’ultimo anno — sono scritti nel linguaggio di allora, un ibrido di lessico dell'esercito piemontese e di pignoleria da burocrazia zarista. Continuando a proiettare quel vecchio film, la Fiat, con l’aiuto del governo, ha però ottenuto un risultato imprevisto: il ritorno della classe operaia, quanto meno di una delle sue frazioni storicamente più significative, quella dei metalmeccanici. Scriveva Max Weber che una classe sociale si definisce come una comunità di destino. E quello che hanno capito benissimo gli operai di Melfi. E quel destino che li accomuna non gli piace per niente. È un destino che promette soltanto fatica, lavoro usurante, difficoltà economi-
che, scarsa o nulla crescita professionale, rischio di emarginazione dal mercato del lavoro appena si superano i quaranta. Dieci anni fa i loro padri o fratelli o sorelle maggiori non avevano protestato più che tanto, di fronte alla fabbrica che portava posti di lavoro in aree ancora contrassegnate dal sottosviluppo. Le nuove leve non gradiscono, e lo fanno sapere, muovendosi insieme, solidalmente, cortocircuitando
le rappresentanze sindacali: come se appartenessero — fatto inaudito secondo la modernità vista da destra — a un’unica classe sociale. 67
Se i futuri sviluppi confermassero che il ritorno dei metalmeccanici come classe sociale non è un fatto contingente, la Fiat ha un problema, e i sindacati ne hanno un altro. Se vuole continuare a produrre mantenendo entro limiti tollerabili il livello di conflittualità in azienda — il cui aumento sarebbe particolarmente rischioso a causa dell’eccessiva interdipendenza tra produzione reticolare dei componenti e produzione finale concentrata che ha realizzato — deve forse innovare radicalmente il modello di relazioni industriali che applica nei suoi stabilimenti da oltre mezzo secolo. Al precetto base «voi lavorate, noi pensiamo», dovrebbe sostituire l’idea che più sono quelli che pensano, meglio va la produzione in ogni suo segmento. Dovrebbe aprirsi all'idea che trattare con i sindacati può portare a forme di organizzazione del lavoro non solo più umane, ma anche più utili a tutta la filiera produttiva. Dovrebbe provare a retribuire meglio i lavoratori, dividendo con essi i benefici degli aumenti di produttività. Soprattutto dovrebbe rendersi conto che il modello militar-burocratico di organizzazione aziendale è oggi perdente perché cinesi e indiani, russi e brasiliani lo sanno ormai applicare con ancora maggiore durezza, pagando salari ancora interiori. Per atfrontare la loro concorrenza bisogna puntare a mobilitare l’intelligenza e le capacità professionali dei lavoratori, piuttosto che accentuare lo sfruttamento della loro forza lavoro. Per i sindacati, ovviamente, il problema è quello della rappresentanza. Si è discusso a non finire, e con ragione, del fatto che il frazionamento delle imprese, la conseguente dispersione sul territorio delle forze di lavoro, la proliferazione delle tipologie contrattuali rendono sempre più difficoltoso il compito di rappresentare sul piano sindacale gli interessi reali e ideali dei lavoratori. Per contro il caso Melfi dimostra che vi sono tuttora larghi strati di lavoratori che non sono dispersi nello spazio, sono inquadrati da contratti simili e debbono far fronte a condizioni di lavoro analoghe. Hanno insomma un destino comune, e comuni speranze di migliorarle. Dinanzi a questo fatto l’unità sindacale, almeno su alcu68
ni punti essenziali, diventa un dovere non meno che una necessità.
Nell'ultimo anno le tre confederazioni hanno fatto passi importanti in tale direzione. Bisognerebbe trovare un percorso — accidentato quanto si vuole, costellato di compromessi e dispute aspre quanto occorre — affinché anche le federazioni dei meccanici procedano nello stesso senso. Grazie al maggior potere contrattuale che così otterrebbero potrebbero contribuire a farci finalmente vedere un film sull'industria davvero moderno, in luogo di uno degli anni ‘60, con un diverso modo di lavorare in fabbrica, e senza le scene della polizia che carica i dimostranti come ai tempi del ministro Scelba. [27/04/2004]
UNA SPERANZA PER CENTOMILA
Con la notizia che il Gruppo Fiat intende avvalersi comunque del diritto di vendere Fiat Auto alla General Motors, mentre questa non vuole assolutamente comprarla, almeno 100.000 persone hanno visto il loro orizzonte di lavoro e di vita diventare improvvisamente più buio. Sono i 30.000 lavoratori degli stabilimenti Fiat; i 60.000 della componentistica; i 10.000 e forse più dei terzisti. Ribadito il diritto di Fiat di vendere, queste persone hanno da parte loro il diritto di capire che cosa le aspetta. A tale scopo vi sono alcune cose che Fiat non dovrebbe tare, e altre invece in cui essa e il governo dovrebbero impegnarsi al più presto. La Fiat dovrebbe anzitutto guardarsi dall'idea di intraprendere una guerra legale con la General Motors dinanzi a un tribunale americano, e farlo sapere. Questo perché nel campo delle relazioni tra corporations la legislazione Usa è immensamente complicata. I tribunali sono tendenzialmente mal disposti verso le imprese estere. La General Motors può
mobilitare studi legali con centinaia di esperti, facendo durare la causa all’infinito. Con costi enormi per i due contenden(3°
ti. Sembra d’altra parte che qualche dirigente General Motors abbia già espresso tale intenzione. Né la Fiat può credere di rassicurare le persone che da essa materialmente dipendono presentando l'ennesimo piano industriale, seppure fosse più solido dei precedenti. Anche i migliori piani industriali promettono inevitabilmente lavoro e salari a qualche anno di distanza, mentre le persone in ansia hanno bisogno di sapere che cosa succederà nei prossimi mesi, in funzione di strade che l’azienda mostri di voler cominciare a percorrere nelle prossime settimane.
Tra queste strade almeno una dovrebbe comprendere l'esplorazione a breve termine della possibilità di alleanze, fusioni e acquisizioni di vario livello produttivo, purché di largo raggio, con altri costruttori. Europei o non europei. Di-
co vario livello, perché non è affatto detto che Fiat debba cedere per intero qualcuno dei suoi marchi, come talora si prospetta, o passare in blocco a un altro costruttore. Le automobili di oggi sono fatte come il lego. Quasi nessuno produce tutti i pezzi di cui sono formati i veicoli che vende. Il medesimo pianale viene prodotto da un costruttore e utilizzato da cinque o sei altri, che spesso sono in concorrenza tra loro. Lo stesso avviene per i motori, i cambi, le sospensioni. Fiat ha una certa esperienza in questo gioco del lego, visto che produce a Torino Mirafiori pianali e motori in partenariato proprio con la General Motors, e in Val di Sangro, nella Sevelsud, veicoli commerciali leggeri (80.000 l’anno) che sono poi commercializzati con i marchi Citroén, Fiat e Peugeot. Lungo tale strada potrebbe fare passi ben più decisi. E soprattutto nella esplorazione di alleanze a largo raggio che il governo dovrebbe intervenire. Si dice con ragione che nell'industria automobilistica europea non si muove foglia che i governi non vogliano. Tempo fa Renault e Peugeot-Citroén in Francia, Volkswagen in Germania non stavano bene. L’anno scorso le prime due hanno venduto nel mondo 5,7
milioni di veicoli, senza contare la Nissan in cui la Renault ha una robusta partecipazione; la Volkswagen 4,1 milioni, seb70
bene non fosse uno dei suoi periodi migliori. Le une come le altre si sono rimesse in salute, tornando a buoni profitti, gra-
zie alla politica industriale dei rispettivi governi. Che è fatta non soltanto di soldi, ma soprattutto di idee, competenze e grandi capacità organizzative. Se il governo italiano le ha, sarebbe il momento di tirarle fuori. Ci sono 100.000 persone che aspettano. [04/02/2005]
LA STORIA SI RIPETE
Pazienza non esser più capaci di produrre computer origina-
li, dopo essere stati tra i primi al mondo a progettarli e costruirli. O grandi aerei passeggeri. O telefoni cellulari. Ma se l'industria italiana si dimostrasse incapace di continuare a produrre con le proprie forze anche latticini e pomodori in scatola, biscotti e succhi di frutta, si dovrebbe prender atto che nelle cerchie concentriche in cui si esprime la gerarchia economica del sistema mondo, l’Italia si avvia a passare dalla semiperiferia in cui da qualche anno si barcamena, a ridosso dei grandi, alla periferia più lontana. Cioè, nella cerchia dei paesi che sotto il profilo industriale, nel mondo, non conta-
no nulla. Seppure rimangono attraenti come mercato, bacino di consumatori messo a disposizione delle multinazionali dei diversi settori. È vero che a prima vista le apparenze direbbero altrimenti. Con un fatturato di 92 miliardi di euro nel 2002, l'industria alimentare in senso stretto si è portata al secondo posto tra i principali settori industriali del paese, superando il tessile e avvicinandosi al metalmeccanico. Un segnale che parrebbe indicare un ottimo stato di salute del settore, con i suoi 270.000 addetti, oltre 6500 aziende che hanno in media circa 40 di-
pendenti ciascuna, ben al disopra della media dell'industria manifatturiera, e un export in crescita sostenuta. Tanto da po-
ter essere ottimisti — se non fosse per alcuni dettagli, come il 71
crollo improvviso, nel giro di pochi mesi, di due dei più importanti gruppi del settore, Cirio e Parmalat. Oppure il fatto che alle sue spalle l’industria alimentare italiana ha un’agricoltura, a essa ormai strettamente intrecciata, che produce all’incirca la metà degli alimenti primari che il paese consuma. Il che significa che quel che l’industria trasforma proviene per la metà dall’estero, con i limiti e icondizionamenti che ciò comporta. Oppure si veda il dato comparativo per cui l'avanzata da essa registrata nel 2002 a spese del settore metalmeccanico e del tessile è dovuta, oltre che ai meriti propri — più 3,3 per cento di fatturato sull'anno precedente — in misura ancor maggiore alla crisi che attanaglia tali settori. Il primo perché
il suo nucleo portante è l’auto, che ha avuto come noto nel 2002 uno dei suoi anni peggiori; il secondo perché da tempo incontra difficoltà crescenti a reggere alla concorrenza internazionale. Difficoltà che sono già costate, nei principali distretti del tessile, a partire dal Biellese, migliaia di posti di lavoro nei reparti di produzione. La storia, dicono alcuni, non si ripete- nemmeno quella in-
dustriale. Se però uno si mette d'impegno a cercare ragioni che siano sufficienti a escludere l’ipotesi che l'industria alimentare potrebbe finire per percorrere, a sua volta, la strada dei settori industriali che in Italia sono scomparsi negli ultimi lustri, oppure sono passati dalla prima fila alla terza o alla quarta, s'accorge che il compito è faticoso. Perché le analogie contendono il campo alle differenze. Per intanto, così come non è esistita di periodo in periodo una politica industriale di ampio respiro per la produzione di computer, né per l’elettronica di consumo, né per l'aeronautica civile o perla chimica, così non sembra esistere al presente una politica per l'industria alimentare. Se fosse esistita essa avrebbe comportato negli anni scorsi ilsapertavorire certi processi di fusioni e acquisizioni in luogo di altri, insieme con il saper dire sì alla cessione di certe imprese nazionali a multinazionali straniere, e saper invece dire no in altri casi — come fanno oculatamente i paesi nostri vicini. #2
Se poi fosse stata concepita una politica industriale, fatta di scelte, di promozione di determinate iniziative e scoraggiamento di altre, di investimenti mirati in ricerca e sviluppo, essa non avrebbe comunque trovato, a livello di istituzioni statali e di governo, il braccio organizzativo capace di attuarla. Si può infatti osservare che le competenze e i poteri che sarebbero necessari a realizzare una politica efficace riguardo all’industria manifatturiera sono frammentate tra almeno quattro ministeri — Economia, Attività produttive, Università e Ricerca, Innovazione tecnologica — mentre negli altri paesi sono concentrati al massimo in due. Simile frammentazione rientra tra i fattori non ultimi del progressivo sgretolamento dell’Italia industriale. Ma nel caso dell’industria alimentare i ministeri interessati salgono addirittura a sei o sette, poiché ai precedenti bisogna almeno aggiungere — ovviamente — il ministero delle Politiche agricole e quello della Sanità. A parte il suddetto deficit di idee e di strutture istituzionali che le accomuna, vi sono tra i settori industriali disastra-
ti nel recente passato e l’industria alimentare altre analogie non propriamente tranquillizzanti. Si incontrano infatti, a ripassare la storia degli uni e dell’altra, errori catastrofici delle strategie di produzione e di mercato. Per dire, nel fraintendere posizione sociale, bisogni e desideri dei potenziali consumatori, la decisione della Parmalat di produrre e cercar di vendere latte in polvere nei paesi dell'America Latina, dove il latte fresco scorre a fiumi, non fu radicalmente diversa da quella della vecchia dirigenza Fiat di produrre anni prima, negli stessi paesi, automobili rustiche di basso costo, al fine di captare la domanda delle classi medie emergenti. I cui componenti avevano però in testa solamente vetture di gam-
ma alta, tipo Bmw o Mercedes. AI di là dei comportamenti personali più o meno corretti si ritrova altresì, nell'industria alimentare come in quelle manifatturiere del recente passato, la convinzione che non vi sia problema di organizzazione o di produzione che non si possa affrontare e risolvere con strumenti finanziari, pro73
gettando mirabolanti architetture geopolitiche di gruppi d’aziende contenuti entro gruppi che contengono gruppi terzi e quarti distribuiti in vari continenti, sino al punto in cui nemmeno il progettista architetto arriva più a comprendere come si reggano in piedi. Tanto che, all’improvviso, crollano. Il caso Parmalat è di ieri, simboleggiato in tv dai finanzieri che trasportano dozzine di faldoni, nei quali potrebbero essere contenute — sperano i giudici — le planimetrie del fantasioso castello finanziario costruito dal suo mzanagerzent. A dieci anni fa risale invece il congedo del gruppo FerruzziMontedison dalla grande chimica, a fronte dei debiti che, costruendo pur esso castelli finanziari, aveva contratto con
ben trecentoundici banche italiane ed estere. Sarà dunque vero che la storia economica, come la storia senza aggettivi, non si ripete. Ma se imprenditori e manager delle grandi imprese italiane continuano a manifestare simili coazioni a ripetersi, anche tale grano di saggezza, e di speranza per il paese, potrebbe essere invalidato. [30/12/2003]
LA PARABOLA DELL’ACCIAIO
Verso il 1950 l'industria siderurgica italiana produceva circa 2 milioni di tonnellate di acciaio grezzo l’anno, una quantità quasi uguale a venticinque anni prima. Lo stesso livello produttivo era stato raggiunto dall'Inghilterra con un secolo di anticipo. I venticinque anni successivi avrebbero fatto emergere uno scenario ben diverso. Nel 1975 l’Italia arriverà a produrre 24 milioni di tonnellate di acciaio, per mantenersi poi negli anni successivi sui 26-27 milioni. La produzione inglese viene non solo raggiunta, ma surclassata: da tempo essa corrisponde a meno della metà di quella italiana. Come produttore d’acciaio l’Italia occupa stabilmente il secondo posto nella Ue, subito dietro la Germania. 74
Ciò non sarebbe avvenuto se nell’immediato dopoguerra il parere di un dirigente del settore pubblico, Oscar Sinigaglia, non avesse avuto la meglio su quello d’un imprenditore privato, Giovanni Falck. Questi sosteneva che la siderurgia in Italia non aveva futuro. In ogni caso avrebbe dovuto essere mantenuta su un piano modesto. Per contro l’ingegner Sinigaglia, presidente dell’Ilva negli anni ’30, poi della neo-costituita Finsider, prevedeva che lo sviluppo delle industrie meccaniche avrebbe richiesto grandi quantità di acciaio, e che doveva essere il nostro paese a produrle, per evitare di dover dipendere dalle importazioni. Il governo diede retta al suo dirigente piuttosto che all’imprenditore, e approvò il piano Sinigaglia per lo sviluppo dell’industria siderurgica. Esso portò in pochi anni alla ristrutturazione degli impianti di Bagnoli e di Piombino, alla costruzione di un nuovo grande centro siderurgico a Genova Cornigliano, e al progetto di costruire quanto prima nel Sud uno stabilimento di grandi dimensioni. Scomparso nel 1953, Sinigaglia non vide il successo del suo piano. Ma i governi dell’epoca continuarono ad applicarne le linee ispiratrici: dare corpo a un'industria siderurgica capace di sostenere i consumi in forte espansione dei pro-
dotti meccanici (auto, elettrodomestici). Nel 1959 venne deciso di costruire uno stabilimento a Taranto, legando a esso anche le speranze di modernizzazione del Mezzogiorno. Nel 1968 lo stabilimento fu ampliato per portarne la capacità a 4,5 milioni di tonnellate. Appena due anni dopo fu deciso il raddoppio dello stabilimento, puntando a una produzione di 10 milioni di tonnellate/anno. Pertanto gli anni ‘70 videro la siderurgia pubblica produrre da sola circa 19 milioni di tonnellate di acciaio l’anno, e dare occupazione a oltre 100.000 persone. In ogni automobile prodotta in Italia da un’impresa privata, in ogni lavatrice e frigorifero, c'erano larghi pezzi di pubblica lamiera d’acciaio. Il successo della siderurgia pubblica italiana si dissolse con gli anni ’80, a causa di una serie di fattori negativi convergenti. Tutte le imprese siderurgiche della Comunità Europea ave15)
vano costruito troppi impianti di grandi dimensioni; quindi si ritrovarono quasi di colpo con un enorme eccesso di capacità produttiva, complice anche il rallentamento della crescita economica. Paesi come la Russia, la Cina, l'India, il Brasile presero a lanciare sui mercati grandi quantità di acciaio a prezzi competitivi rispetto a quelli europei. Per motivi tecnici ed eco-
nomici insieme, la domanda da parte delle industrie metalmeccaniche subì una forte riduzione. Inoltre esse cominciarono a chiedere acciai di qualità, che gli impianti Finsider producevano in misura insufficiente. Come non bastasse, quest’ultima si era svenata a causa degli investimenti effettuati per il raddoppio di Taranto. A metà degli anni ‘80 essa fu dunque costretta a ridurre di circa un quarto la propria capacità produttiva, e a una riduzione an-
cora maggiore dell'occupazione, dato che la ristrutturazione aveva generato rilevanti aumenti di produttività. Si stima che tra il 1980 e i primi anni ’90 la siderurgia pubblica abbia perso per tali vie circa 30.000 miliardi di lire. A fronte del disastroso bilancio della Finsider, nel 1988 viene costituita l’Ilva, ancora in ambito Iri, alla quale sono trasmesse gran parte delle società facenti parte della ormai ex Finsider. In breve tempo, nondimeno, anche il bilancio dell’Ilva non appare più saldo di quello della progenitrice, vuoi perché si era lanciata in una campagna mal riuscita di acquisizioni, vuoi perché alla fine produceva gli stessi prodotti di media qualità che il mercato assorbiva sempre più a stento. La decisione di privatizzare tutto a questo punto parve ob-
bligata. Venne attuata in pochissimi anni, tra il 1992 e il 1996. Il gruppo Riva si prende l’Ilva, con gli impianti di Cornigliano e di Taranto, la Krupp (che poco più tardi diventa ThyssenKrupp) acquisisce la Ast (Acciai Speciali Terni) di Terni, la Dalmine passa sotto la Techint, altri impianti vengono ceduti alla Lucchini. La siderurgia pubblica non esiste più. I livelli produttivi sono stati invece mantenuti: anche nel 2002 si sono aggirati sui 26.000.000 di tonnellate di acciaio grezzo. La produttività è salita dalle 260 tonnellate/uomo del 76
1980, sul complesso dell'industria, a 670: un primato europeo. Il tutto però con un risultato drammatico per l’occupazione: i 100.000 occupati del 1980 sono diventati oggi 38.000. Sul piano della produzione e del mercato, può dirsi che al roveto spinoso della siderurgia pubblica siano subentrati, con le privatizzazioni, soltanto prati fioriti? A un primo esame parrebbe di sì. Come s'è detto l’Italia è il secondo produttore di acciaio nella Ue, con una quota doppia del Regno Unito e superiore di un terzo rispetto alla Francia. Una sua impresa, il gruppo Riva-Ilva, occupava nel 2002 il nono posto nel mondo per volume di produzione. La produttività delle acciaierie privatizzate, come si è ricordato, è altissima. Tuttavia, se si guardano un po’ più da vicino diversi parametri, la situazione appare meno rosea. Per intanto la si-
derurgia italiana non copre nemmeno la domanda interna. Il milione di auto che sono costruite ogni anno nel paese, insieme con i 20.000.000 di elettrodomestici (lavatrici e lavastoviglie, frigoriferi e congelatori) e altri prodotti, consumano 32.000.000 di tonnellate di acciaio l'anno. La siderurgia nazionale ne fabbrica soltanto 26. Non solo. I 6.000.000 di tonnellate di acciaio che bisogna importare sono costituiti proprio dai tipi più pregiati, come i laminati a caldo e le lamiere a freddo. Il sito che produceva un tipo di acciaio particolarmente pregiato, i lamierini magnetici, è stato com'è
noto improvvidamente ceduto a un’azienda estera, la ThyssenKrupp, anziché tentare di costituire un polo nazionale per la produzione di acciai pregiati: da qui il rischio di chiusura che incombe su Terni. La siderurgia privata reca insomma entro di sé alcuni degli stessi tarli che contribuirono al declino di quella pubblica. V’è dell’altro. Il numero dei siti dove si produce acciaio, sebbene sia diminuito in riferimento al 1990, da 68 a 42, è ancora oggi troppo alto. Una loro concentrazione appare necessaria, ma essa comporterà l’abbandono di altre comunità al loro destino, e un ulteriore calo dell'occupazione. In questo quadro va probabilmente collocato il proposito reale, ma per 9°
ora almeno non dichiarato, di chiudere l’altoforno di Corni-
gliano adducendo il motivo che sull’intero mercato mondiale — nientemeno — non si troverebbe il tipo di coke adatto per alimentarlo, dopo che i cinesi hanno interrotto per qualche tempo le consegne. Infine sono troppe anche le aziende — circa 160 secondo l’elenco della Federacciai - che producono o lavorano l’acciaio e i suoi derivati. Se non andiamo errati, e se l'elenco in
parola comprende davvero soltanto aziende siderurgiche, la cifra di 38.000 (quanti sono in totale gli addetti alla siderurgia) divisa per 160 corrisponde a 240 addetti come dimensione media; che però scende a meno di 100 addetti se si detraggono le corpose maestranze dei gruppi principali. Azien-
de troppo piccole per poter guardare con tranquillità, loro, i loro dipendenti, e chi cerchi di comprendere quel che succede, alle sfide dell’acciaio globale. [11/02/2004]
MA LA SCOMMESSA È L'INNOVAZIONE
Lavorate di più, così la produttività aumenta e con essa la competitività del paese. Peccato che i fondamentali, in simili inviti, siano fuori posto. Infatti l’espressione «produttività del lavoro», a rigore, indica il valore aggiunto per ora effettivamente lavorata, o se si preferisce la quota di Pil pro capite prodotta da un lavoratore nella stessa unità di tempo. Non il volume lordo della produzione. Pertanto la richiesta di lavorare più ore alla settimana, come quella fatta in Germania dalla Siemens a un gruppo di dipendenti, non servirebbe per aumentare la produttività del lavoro. A parità di condizioni, allungare l’orario di lavoro permette di aumentare la produzione, ma non la produttività oraria, che è quella che più conta. E anzi possibile che la produttività diminuisca, dato che lavorare stanca, e quando si è stanchi i ritmi si allentano e i rischi di errori crescono.
Se si volesse davvero aumentare la produttività del lavoro, le strade da seguire sarebbero altre. La prima consiste nello sviluppare prodotti abbastanza ingegnosi da poter essere fabbricati a basso costo e venduti a caro prezzo, perché i consumatori sono attratti dal loro elevato valore d’uso. Dato che la differenza tra il costo di produzione e il prezzo di vendita forma il valore aggiunto, se il primo è basso e il secondo è alto il valore aggiunto si moltiplica, creando le premesse per allargare il mercato, nonché per elevare insieme tanto i salari quanto i profitti. E il caso di gran parte dell’elettronica di consumo, vedi il successo dei videotelefonini; ma l’equazio-
ne vale per qualsiasi prodotto. Una seconda strada per accrescere la produttività del lavoro consiste nel dotare i lavoratori di mezzi di produzione più efficienti, ossia nell’investire in macchinari, impianti, tec-
nologie infotelematiche. La terza strada è la più difficile ma è anche la più promettente: migliorare l’organizzazione del lavoro. Dopo il tanto discorrere sulla morte del fordismo, sull’avvento della zew economy, sullo sviluppo del capitalismo informazionale tutto fondato sui bit e poco o nulla su strutture materiali, l’orga-
nizzazione del lavoro nelle imprese poggia ancor sempre su mansioni parcellari e ripetitive, sulla separazione netta tra i pochi che pensano e i molti che eseguono, sulla impossibilità per i lavoratori di partecipare a decisioni cruciali per l’efficienza della produzione. A fianco del lavoratore, per regolarne i ritmi, magari non c’è più il cronometrista, sostituito da un computer, ma alla persona che lavora si continua a chiedere la forza delle braccia più di quella della mente. Salvo poi scoprire che se questa non viene usata, magari di nascosto al caporeparto, il flusso produttivo si inceppa. In una catena di montaggio come in un call-center o un McDonald's. Nel caso che le imprese, stimolate eventualmente dal caso Siemens, chiedessero ai sindacati di contribuire ad aumenta-
re la produttività del lavoro, questi non dovrebbero rispon79
dere con un no secco. Potrebbero pertino disporsi a contrattare. Ammesso però che la controparte accolga alcuni semplici criteri preliminari: aumentare la produttività non vuol dire faticare di più nelle stesse condizioni di prima, bensì lavorare meglio; la produttività del lavoro non aumenta senza innovazioni di prodotto e di processo; il maggior giacimento di produttività cui si possa pensare consiste in una organiz-
zazione del lavoro che rispetti e utilizzi l'intelligenza delle persone più che le loro braccia. Con una nota finale: i guadagni derivanti dalla produttività accresciuta andrebbero distribuiti più equamente tra retribuzioni e profitti, diversamente da quello che è avvenuto da vent'anni a questa parte. [13/07/2004]
IL DECLINO INDUSTRIALE DELL'ITALIA SENZA IMPRESE
Secondo una dichiarazione rilasciata poco dopo la sua nomi. na, il ministro dell'Economia Domenico Siniscalco ha detto di non credere al declino dell'industria italiana. Quel che ad
alcuni sembra un declino sarebbe in realtà l'esito di una profonda trasformazione della nostra struttura industriale. Il parere del ministro merita un commento per due ragioni. Anzitutto nella elaborazione di interventi eventualmente diretti a contrastare il declino dell'industria, meglio ancora a rilanciarla, il ministero dell'Economia conta assai più dell’evanescente ministero per le Attività produttive. Anche perché esso controlla tramite il Tesoro alcuni degli ultimi pezzi pregiati dell'industria italiana, Eni e Finmeccanica, per i quali sono in vista novità importanti, tra cui la possibile creazione di Finmeccanica 2. Se il suo titolare per primo crede che il declino non esista, tali interventi non vi saranno, oppure avranno un indirizzo molto diverso. In secondo luogo un parere analogo nella sostanza a quello del ministro è stato espresso di recente da autorevoli esponenti del centro-sini80
stra. In questo caso esso si rifletterebbe nel programma di quest’ultimo per le prossime elezioni politiche, di cui la politica industriale dovrebbe essere un ampio capitolo Affermare che l'industria italiana non soffre di declino, bensì si è trasformata, può significare almeno tre cose diverse. Che certi settori dell'industria sono realmente scomparsi, però ne sono emersi altri che prima non esistevano o erano di modesto peso. Oppure significa che uno stesso settore si è differenziato al suo interno, e sebbene continui a venir designato con il medesimo nome produce beni e servizi differenti. Infine la stessa affermazione può voler dire che un intero settore, caratterizzato un tempo da poche grandi imprese, si è frazionato in un gran numero di imprese piccole e medie. Come settore nel suo complesso continua a prosperare, ma le dimensioni ridotte di ciascuna impresa fanno sì che il settore sia diventato invisibile o quasi ai tradizionali metodi di misurazione delle attività economiche. Riguardo ai primi due modi di concepire le trasformazioni dell'industria, le statistiche internazionali non offrono in verità molti appigli per sostenere che l'industria italiana, indossate nuove vesti, gode tuttora di buona salute. Si prenda ad esempio l'elenco delle Global 1000, le prime mille società del mondo classificate in base al loro valore di mercato, pubblicato ai primi di agosto 2004 da «BusinessWeek». La prima cosa che salta all’occhio in tale elenco è che tra le prime 50 ben 36 sono società o gruppi industriali, e industriali sono le prime 4: General Electric, Microsoft, Exxon e Pfizer. Il primo gruppo italiano in classifica è l’Eni, al 37° posto, con un buon avanzamento rispetto al 2003 quando era 50°. Tra l'86° e il 105° posto si collocano Enel, Tim e Telecom Italia. Dopodiché per trovare altre imprese industriali italiane occorre scendere verso il 750° posto, dove stanno fianco a fianco Edison e Luxottica. Saltando un altro centinaio di scalini verso il basso si incontrano finalmente il gruppo Fiat (841°) e Finmeccanica (850°, con un forte balzo all’ingiù perché nel 2003 l'analogo rapporto la poneva al 669°), strette tra un fol 81
to gruppo di corporations non appartenenti, parrebbe, ai primi paesi industriali del mondo. Sono infatti spagnole, canadesi, taiwanesi, tailandesi, messicane. Che cosa si può trarre da tale elenco a favore dell’ipotesi che l’industria italiana non declina bensì va trastormandosi? Piuttosto poco. La sola novità — per quanto significativa — è rappresentata dal gruppo Luxottica, diventato il primo produttore mondiale di occhiali. Il cui valore di mercato è più elevato del gruppo Fiat — 7,3 miliardi di dollari rispetto a 6,4 — ma le cui vendite sono 17 volte minori: 3,4 mi-
liardi di dollari contro 57,7 nel 2003, secondo il dossier di «BusinessWeek». In altre parole ci vorrebbero in Italia altre 17 novità delle dimensioni di Luxottica per pareggiare i volumi di vendita, e quelli correlati di produzione e di occupazione diretta e indiretta, dell'ultimo grande gruppo manifatturiero esistente in Italia. Per il resto dall'elenco in parola il quadro che si ricava dell'industria italiana appare così connotato: tolte le prime 4 (Eni, Enel, Tim e Telecom Italia), le altre 5 si collocano
verso il fondo della classifica, dietro a centinaia di società appartenenti a paesi più piccoli o meno sviluppati dell’Italia. Per di più in una prospettiva comparata le imprese industriali italiane sono scarse: appena 9 sulle 23 società incluse nell'elenco, una minoranza, mentre quelle britanniche sono 40 o più su 73, le francesi 32-33 su 44, le tedesche 23 sud:
Da ultimo si osserva che le 9 imprese industriali italiane producono precisamente i beni e i servizi descritti dalla loro ragione sociale, come più o meno hanno fatto sin dalla nascita. Ossia non si sono trasformate affatto, nel senso di avere costituito entro di sé sottosettori che a fronte di una crisi di lungo periodo delle produzioni tradizionali assicurerebbero comunque la sopravvivenza e la crescita del gruppo. Salvo voler considerare rivoluzionario il fatto che l'Enel abbia una consociata telefonica, o salvifico per il gruppo Fiat avere acquisito delle partecipazioni in campo energetico. 82
Resterebbe, dalla parte dell’ipotesi «non declino ma mi trasformo», che stando alle dichiarazioni del ministro e del
centro-sinistra ricordate all’inizio apparirebbe curiosamente bipartisan, l’obiezione che le imprese industriali italiane sono ormai quasi tutte delle piccole-medie imprese, nessuna delle quali ha una stazza sufficiente per entrare nell’elenco delle Global 1000 di «BusinessWeek», o in quelle simili redatte annualmente da «Fortune», «Financial Times», o «Standard & Poor's». Sarebbe come dire che l’industria italiana c’è, ed è solida, ma le sue unità hanno — volutamente e felicemente
— dimensioni troppo limitate per poter essere captate dalle grezze lenti delle classifiche internazionali. Donde l’implicazione che l’Italia risulterebbe essere l’unico paese al mondo che insiste a definirsi industriale pur non avendo più imprese industriali capaci di far ricerca e sviluppo su larga scala, e di reggere alla concorrenza internazionale grazie alla novità e alla qualità dei loro prodotti anziché alla compressione del costo del lavoro. Un paese che sembra altresì aver rinunciato ad avere in mano propria, piuttosto che nelle mani di gruppi economici di altri paesi, i centri di governo della propria attività. [17/08/2004]
TRE PROPOSTE CONTRO IL DECLINO
Allo scopo di uscire dal declino un primo passo consiste nell'ammettere che esso esiste. Bisogna riconoscere a Luca Cordero di Montezemolo il merito di aver compiuto tale passo nel ruolo di presidente della Confindustria. Indicando in dettaglio parecchie cause della crisi, senza nascondersi che in qualche misura tra di esse vanno collocate anche scelte imprenditoriali. Il suo rapporto ha collocato tra i segni incontrovertibili di declino la crescita esigua del Pil. E la stagnazione della produzione industriale in tutti i principali settori, congiunta alla scarsa produttività del lavoro e alla diminuzione in 83
un decennio, in termini reali, di oltre un punto e mezzo della quota italiana delle esportazioni nel mondo, dal 4,6 al 3 per cento. Tra le cause ha menzionato il basso livello delle attività di ricerca e sviluppo, gli investimenti pubblici e privati ridotti al minimo, e ha insistito con forza — finalmente — sul fatto che a fronte del 95 per cento di imprese che hanno meno di dieci dipendenti, tanto le prime che i secondi non raggiungeranno mai un livello paragonabile ai vicini paesi Ue. Nondimeno, poiché sembra che i segni non bastino mai per convincere il governo che l'economia del nostro paese corre da tempo seri rischi, che la perdita di posizioni rispetto ad altri paesi sta diventando drammatica, è sempre utile aggiungerne altri. Ricordando, ad esempio, che tra le 2000 società più importanti del mondo classificate secondo un indice che combina vendite, utili e valore in Borsa, pubblicata da «Forbes» la primavera scorsa, l’Italia compare con sole 42 società, contro le 64 della Germania, le 67 della Francia e le 132 del Regno Unito. Per tacere di paesi che hanno tra un quarto e un ottavo della nostra popolazione — Olanda, Svezia, Svizzera — e però sono presenti nello stesso gruppo con un numero di gruppi economici di poco inferiore al nostro. La Svizzera, per dire, con i suoi sette milioni di abitanti, porta in detta classifica ben 36 società. Parecchie delle quali, si noti, sono gruppi industriali. Ove non bastasse il dato contingente per giungere adammettere che sotto il protilo industriale stiamo diventando un paese piccolo e arretrato, ci sono le serie storiche. «Busi-
nessWeek» pubblica ogni anno un’altra classifica, quella delle Global 1000, ordinate in questo caso per valore di mercato. In essa si scopre che nel 2000 le società italiane erano presenti in 31; nella edizione aggiornata al maggio 2004 sono scese a 23. Tra queste i gruppi industriali sono in minoranza, e molti appaiono situarsi intorno al 750° posto cal disotto. In tale posizione si trovano appunto Edison, Luxottica, Fiat e Finmeccanica. Non ancora convinti che il declino esiste e che negarlo equivale a danzare mentre la nave affonda? Suggerirei come 84
ulteriore stimolo di dare una scorsa al fiume di rapporti sullo stato della nostra economia che escono da centri di ricerca europei, sia pubblici che privati. Ho sott’occhio, tra i tanti, un documento dell'ufficio studi del gruppo Allianz e della Dresdner Bank, giugno 2004, che con equilibrio e ricchezza di dati dice in sostanza che la mancanza di competitività dell'economia italiana è dovuta a serie debolezze strutturali. Grosso modo le stesse indicate da Montezemolo nel suo rapporto, dalle dimensioni troppo piccole delle imprese agli investimenti troppo scarsi in ricerca e innovazione. Anche in
questo caso, ovviamente, si può cercare di sottrarsi all’evidenza sostenendo che tedeschi e francesi, olandesi e britannici hanno interesse a dipingere a tinte fosche la situazione italiana allo scopo di dirottare gli investitori verso i loro rispettivi paesi. Il fatto è che i rapporti in questione descrivono di solito vari paesi Ue, non solo il proprio, come spazi profittevoli per compiervi investimenti, perché essi presentano dati strutturali molto più favorevoli che non l'Italia. Un secondo passo per provare almeno a uscire dal declino — se mai il governo compisse il primo — dovrebbe consistere nel farsi venire delle idee in tema di politica economica e industriale. Il terzo passo starebbe nel predisporre i mezzi per attuarle. E qui la strada si presenta davvero impervia. Le idee al riguardo non nascono dal nulla. Nascono — così accade in Francia, in Germania, in Gran Bretagna — da un dialogo sistematico e permanente tra ministeri, enti territoriali, ate-
nei, istituti di ricerca scientifica e tecnologica privati e pubblici, sindacati, associazioni imprenditoriali, unioni professionali. Un dialogo diretto a far emergere quali sono i punti di forza e di debolezza di un'economia, e quali sono gli spazi in cui concentrare le risorse disponibili per avviare poli di competenza e reti di sviluppo con elevati livelli di integrazione interna ed esterna. Duole dirlo, ma i duecento distretti industriali italiani — sulle cui virtù salvifiche sono stati in molti a illudersi — al confronto con meraviglie industriali come il polo aeronau85
tico di Tolosa, la Optics Valley a sudest di Parigi, o il distretto biotecnologico dell’area di Monaco di Baviera, appaiono, forse con una dozzina scarsa di eccezioni, in ritar-
do di quarant'anni. E non già perché da noi manchino tecnici, scienziati, imprenditori e lavoratori di prim'ordine. Piuttosto perché manca — per tornare al terzo passo necessario volendo uscire dal declino — sia l'iniziativa che una idonea strumentazione organizzativa da parte del governo e
dello Stato. Se mai venissero elaborate, quelle tali idee di politica economica, avrebbero poi bisogno di organi operativi per essere tradotte in realtà. Ma quali ministeri potrebbero operare in Italia a tale scopo, con i propri mezzi o inventando nuove forme di organizzazione? Il ministero dell'Economia gestisce il patrimonio di cui lo Stato è ancora proprietario con lo spirito imprenditoriale di un amministratore di condominio. Basti pensare alla vicenda Alitalia, alla cui crisi decennale il ministero ha semplicemente assistito anche quando controllava ancora il 100 per cento del capitale. Per il ministero delle Attività produttive l’industria è un settore di cui ci si occupa insieme con molti altri, sino a non avere una direzione che si occupi esclusivamente di essa — dico esclusivamente, non insieme con altre decine di competenze — diversamente da quanto si osserva nei principali paesi Ue. Dove l’industria manifatturiera figura in modo cospicuo tra gli ambiti di cui si occupa direttamente il ministro dell'Economia, o un ministro delegato, come avviene in Francia. Da parte sua il ministro per l'Innovazione scientifica e tecnologica si interessa solamente di informatica, una tecnologia certo di importanza primaria, se non fosse che ne esistono oggi decine di altre parimenti importanti. Infine il ministero per l’Università e la Ricerca appare impegnato in prevalenza a produrre norme e decreti, compresi quelli che istituiscono distretti tecnologici che avranno forse un brillante avvenire, ma per ora sono formati da valenti quanto ristrette pattuglie di ricercatori e di tecnici. 86
Una politica di rilancio dell'economia e dell’industria diventerà realtà, è quindi lecito sostenere, allorché il nostro
paese avrà la forza di compiere i tre passi suddetti. Dopo il rapporto di Confindustria, il primo, prendere atto del declino, forse lo compiranno anche altri soggetti istituzionali. I sindacati lo hanno fatto da tempo. Per gli altri due possiamo soltanto sperare che qualche iniziativa di lungo periodo venga quanto meno avviata. Prima che il Botswana ci sopravan-
zi sulla via dello sviluppo. [16/12/2004]
AZIENDA ITALIA IN VENDITA
La chiusura a Terni, per mano di ThyssenKrupp, di un reparto che produce acciai di qualità, e la cessione del Gruppo Lucchini ai russi della Severstal, sono un brutto indicatore circa la capacità dell’Italia di continuare ad avere una grande industria manifatturiera. Per due ragioni. In primo luogo, si può comprendere che vi siano settori, tipo il tessile, che sono in crisi a causa della concorrenza dei paesi emergenti, ma as-
sistere alla perdita di settori come la siderurgia, che al presente in generale vanno bene, sembra inspiegabile. Infatti la domanda di acciaio nel mondo ha preso fortemente a crescere. Nessuno dei maggiori paesi produttori riesce a soddisfare la propria domanda interna. Nemmeno la Cina, il cui fabbisogno è aumentato di quasi il 50 per cento in pochi anni. Domanda che cresce più della produzione vuol dire prezzi di vendita che salgono, fino al 40 per cento nell’ultimo anno. In tale scenario mondiale l’Italia parrebbe ben piazzata. Con quasi27 milioni di tonnellate d’acciaio prodotte nel 2003, si colloca al secondo posto nella Ue, sopravanzando di gran lunga Francia e Gran Bretagna. E anche una grande consumatrice di prodotti siderurgici, grazie all’auto, agli elettrodomestici, all'industria delle costruzioni, che nell'insieme ne
hanno acquistati 33,5 milioni di tonnellate. Considerate que87
ste favorevoli premesse, vedere decurtata la produzione alla Acciai Speciali di Terni, e un’azienda storica come la Lucchini forzata a vendere per un debito di qualche centinaio di milioni di euro, obbliga a una conclusione: né gli imprenditori del settore siderurgico, né i nostri ministeri economici, hanno saputo finora avviare quel processo di modernizzazione degli impianti, concentrazione di siti produttivi (ancora 42 — trop-
pi), innovazione dei processi produttivi per ridurre l’impatto ambientale, che dovrebbe consolidare prima che sia tardi l’industria dell’acciaio. In secondo luogo, si può soltanto sperare che i tagli presenti della ThyssenKrupp a Terni non anticipino il futuro della cessione della Lucchini ai russi. L'Italia è il solo paese Ue in cui quasi la metà dell'industria chimica, della farmaceutica, dell’alimentare, dell’elettrotecnica di gamma alta, degli elettrodomestici, della teletonia mobile ecc., è controllata da imprese estere. Esse preferiscono di solito chiudere un sito produttivo da noi piuttosto che a casa loro. Se anche la siderurgia dovesse proseguire su tale strada, tanto varrebbe mettere in Internet un avviso tipo «Economia nazionale vendesi». Non mancano coloro che a fronte di tale situazione avanzano rassicurazioni asserendo che questa è semplicemente la globalizzazione. A essi va risposto che i paesi i quali meglio reggono la globalizzazione sono quelli che attirano molti investimenti diretti dall'estero (Ide), e ne effettuano in misura pressappoco equivalente. Non è la situazione dell’Italia. Nel 2003 essa ha ricevuto appena 16,4 miliardi di dollari di Ide, e ne ha effettuati la miseria di 9,1. La Francia ne ha ricevuti quasi tre volte tanti, 46,9 miliardi di dollari, e ne ha effettuati oltre sei volte di più, cioè 57,2 miliardi. E con una popolazione quattro volte minore della nostra l'Olanda ci ha largamente battuto nei flussi di Ide, sia in entrata, con 19,6 miliardi di dollari, sia in uscita, con ben 36 miliardi. Sembrerebbe quindi che aver passato nelle mani di imprese estere quasi metà dei nostri principali settori industriali ci abbia portato in casa il peggio della globalizzazione, cioè 88
la dipendenza da soggetti economici lontani e irresponsabili; piuttosto che il meglio, l'ingresso su ampia scala nell’economia dei grandi paesi emergenti. [08/02/2005]
COMPETITIVITÀ: LE RESPONSABILITÀ DELLE IMPRESE
Il rapporto di Confindustria sulla situazione dell'economia italiana — denominato «Check-up competitività», aprile 2005 — presenta una lunga serie di dati che attestano in modo inequivocabile come essa volga al peggio, sia rispetto al proprio stesso passato, sia nel confronto con le principali economie europee. Saremo pure il paese con il maggior numero di auto e di cellulari per abitante, come ha sottolineato nei giorni scorsi il presidente del Consiglio per declamare ancora una volta quanto siamo benestanti. Ma se i dati assemblati dal Centro studi di Confindustria non miglioreranno rapidamente nei prossimi anni, rischiamo anche di essere il paese con il maggior numero di imprese in via di fallimento, o ridotte ai margini dei circuiti produttivi internazionali. Nonché di lavoratori poveri rinchiusi in un cerchio invalicabile di lavori precari, e di giovani senza più speranze.
Il rapporto non fa proposte per ovviare a tale rischio, ma esse sono implicite nei dati che contiene e nel modo in cui sono organizzati. Un modo che ha il merito di non risparmiare nulla allo Stato e alla politica, per ciò che attiene alle rispettive responsabilità nel causare il peggioramento strutturale della situazione economica; ma, a ben guardare, nemmeno alle imprese. Senza che le responsabilità dei primi possano essere separate nettamente da quelle delle seconde. È come tirare il filo di un certo colore in un gomitolo arruffato che di colori ne contiene diversi. Si veda la ridotta percentuale di popolazione in età 25-34 anni che ha conseguito un titolo di studio universitario. In Italia nel 2002 essa toccava solamente il 12 per cento, poco più di metà della Germania, e appena un terzo ri89
spetto alla Francia. Nel produrre tale deficit le responsabilità decennali dello Stato e della politica sono indubbie. Peraltro appena si tira un po’ il filo delle cause della competitività perduta si scopre che anche le imprese non ne escono indenni. Tra i laureati, infatti, enfatizza il rapporto, sono troppo pochi rispetto agli altri paesi Ue i laureati in materie
scientifiche e tecnologiche. Un dato in merito al quale va notato che i tipi di laurea si dirigono dove il mercato del lavoro offre occupazioni attraenti, ma questo non è il caso di tali laureati. Si sa che a essi l’industria e i servizi — lo provano le rilevazioni del consorzio inter-universitario Almalaurea — offrono anche dopo diversi anni di lavoro le retribuzioni più basse tra tutte le specializzazioni universitarie, insegnanti esclusi. Di conseguenza gli iscritti a tali tipi di laurea sono complessivamente in forte diminuzione da una quindicina d’anni. Se uno continua a tirare questo o quel filo si fanno altre scoperte, nel rapporto in parola. Ad esempio il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato di oltre il 3 per cento l’anno, riducendo la capacità competitiva delle imprese italiane. Ciò è dovuto in parte alla stagnazione della produttività del lavoro: appena lo 0,3 per cento annuo, contro il 2,5 della Spagna e addirittura il 4,7 del Regno Unito. In parte al permanere di un rilevante cuneo fiscale, che fatta uguale a 100 la retribuzione netta spettante al lavoratore aggiunge un onere di ben 83 punti a carico delle imprese. Ridurre il suddetto cuneo è certamente un compito dello Stato — anche se in paesi molto più competitivi dell’Italia come la Francia e la Germania esso è ancora più elevato. Ma lo stesso rapporto dice altresì che le imprese italiane investono poco in tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in formazione manageriale e in organizzazione; esportano beni ad alto contenuto tecnologico in misura pari alla metà dei maggiori partner europei, appena il 12 per cento contro il
23; cooperano in misura minima con le università. Un insieme di condizioni che non può che incidere negativamente sul livello di produttività del lavoro. 90
Tra altri fattori che incidono negativamente sulla competitività delle imprese italiane il rapporto del Centro studi di Confindustria colloca la burocrazia, l'eccesso di regolazione,
le lunghe pratiche per aprire un’attività di impresa. Anche in questo caso il tentativo di tirare fili di uno stesso colore dall’aggrovigliato gomitolo della competitività non va a buon esito. Infatti è certo vero che le regole pongono vincoli all’attività economica, e lo Stato deve in ciò limitarsi; però non si può ignorare che le imprese italiane non presentano un record autoregolativo particolarmente lusinghiero nei casi in cui le regole pubbliche sono state per lungo tempo minime, ad esempio in campo ambientale. Diversamente dai nodi della mitologia, un simile groviglio di concause che hanno portato al declino della capacità industriale del nostro paese non si può tagliare. Conviene, faticosamente, cercare di districarlo. Ha impiegato anni per formarsi; ce ne vorranno altri per rimettere in ordine i diversi fi-
li. Il rapporto di Confindustria aiuta a capire quali potrebbero essere a tal fine i ruoli complementari della politica e dello Stato, e delle imprese. [24/04/2005]
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