Italia in frantumi
 8842078344

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LUCIANO GALLINO ITALIA IN FRANTUMI € Euitori Laterza

00029534

LILLA,

Flessibilità, modernizzazione

dell’industria e del sistema educativo,

riforma di tasse e pensioni, globalizzazione. Tradotte, vogliono dire precarietà, crisi dell'economia e del made in Italy, crisi della ricerca

e rischio di precarizzazione dell’istruzione superiore, estensione delle disuguaglianze su scala planetaria. Negli articoli raccolti in questo volume sfilano i frammenti di un quadro nazionale (e non solo) fatto di incertezze piccole e grandi, domande a cui ancora nessuno ha potuto o voluto trovare risposta. Sotto lo sguardo indagatore, caustico e tagliente del più brillante sociologo italiano, si ricompone

il puzzle di un'Italia destrutturata e in piena crisi.

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LIBREX

na

Di Luciano Gallino nelle nostre edizioni:

Il costo umano della flessibilità

Globalizzazione e disuguaglianze

Ha inoltre curato:

Disuguaglianze ed equità in Europa

Luciano Gallino

Italia in frantumi

Bedi Laterza

© 2006, Gius. Laterza & Figli

Prima edizione gennaio 2006 Seconda edizione febbraio 2006

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

Finito di stampare nel febbraio 2006 Poligrafico Dehoniano Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 88-420-7834-4

Indice

Introduzione

Il lavoro in frantumi Diario postumo di un flessibile, p. 3 - Una riforma che avvicina l’Italia al terzo mondo, p. 7 - Chi vuole spegnere la

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voce del sindacato, p. 9 - La vittoria del sommerso, p. 13 -

Cassintegrato offresi, p. 17 - Tutti inumeri del lavoro, p. 19Sos lavoro nero, p. 22 - Lavoro in frantumi — conflitti in aumento, p. 25 - Articolo 18, perché votare sì, p. 28 - L’occupazione usa e getta, p. 31 - Se per combattere la crisi si aumentassero i salari, p. 34 - Una vita peggiore, p. 37 - Il lavoro atipico che fa male alle aziende, p. 40 - Lavoro, pro-

fitti e produttività, p. 43 - Il realismo ha sconfitto l’ideologia: tre anni persi su un falso problema, p. 45 - Nuovo lavoro, problemi di sempre, p. 47 - Le donne precarie, p. 49

L'industria in declino e il caso Fiat L'effetto domino della crisi Fiat, p. 53 - La tragedia dell’auto nazionale, p. 55 - Il ritorno all’automobile, p. 59 - Da

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operai a «esuberi», p. 62 - Tutti i rischi di una divisione,

p. 64 mila, ciaio, clino poste p. 87

- Scene da anni ’60, p. 66 - Una speranza per centop. 69 - La storia si ripete, p. 71 - La parabola dell’acp. 74 - Ma la scommessa è l’innovazione, p. 78 - Il deindustriale dell’Italia senza imprese, p. 80 - Tre procontro il declino, p. 83 - Azienda Italia in vendita, - Competitività: le responsabilità delle imprese, p. 89

Nuove sfide a scuola e università Quella scelta al buio tra scuola e lavoro, p. 93 - La logica dello «spoils system» e il giuramento dei professori, p. 96 Un ricatto sulle università, p. 100 - Docenti precari a vita,

p. 103 - L’università sfidata dalla Rete, p. 107 - La storia nella Rete, p. 110 - Fu l’anno di Marcuse, p. 114 - Pierre Bourdieu, sociologo contro, p. 117

93

Bilanci di famiglia

121

Pensioni libere, strada difficile, p. 121 - Le variabili nasco-

ste del dibattito sulle pensioni, p. 123 - Riforma delle pensioni: un dizionario minimo per orientarsi, p. 126 - Effetto carovita: il peso delle statistiche, p. 131 - Il paniere imperfetto, p. 135 - Ma le famiglie non sono tutte uguali, p. 138 - Fare come Bush: meno tasse per le famiglie ricche, p. 140 - Chi pagherà per l'equazione impossibile, p. 143 - Finita l'era delle sicurezze, p. 145 - Se scompare il week end, p. 148 Nessuno tocchi le ferie, p. 151 - Lo scandalo del paese sempre più povero, p. 154

La povertà della globalizzazione Quei poveri alle porte dell'Occidente, p. 157 - Le forze invisibili dietro l’immigrazione, p. 161 - L'altro mondo escluso dalla Rete, p. 164 - Com'è vulnerabile il mondo globalizzato, p. 168 - La lunga marcia dell’impresa irresponsabile, p. 171 - Azionisti in trappola, p. 176 - Un patto tra lavoratori e no-global, p. 179 - Nessuno risponde di nulla nell’economia globale, p. 183 - Più dazi o più diritti per commerciare con la Cina?, p. 185

Lod

Introduzione

I due temi principali trattati in questo volume sono la degradante frammentazione in corso dei rapporti di lavoro, e la irresponsabilità della globalizzazione. Tra l’uno e l’altro compaiono temi diversi: il declino industriale, le sofferenze dei bilanci familiari, il rischio di precarizzazione dell’istruzione superiore. Ma questi possono venire considerati come maglie

intermedie della catena che collega la produzione di globalità alla frammentazione dei rapporti di lavoro. In questa Introduzione mi soffermerò soprattutto sui due capi della catena. Il rapporto tra la persona che si presta a lavorare in cambio d’una retribuzione, e il singolo imprenditore o l’organizzazione che quella prestazione vuole utilizzare retribuendola, prende solitamente forma d’un contratto. Esso può risultare interamente esplicito o in parte implicito, ossia scritto specificando tutti gli elementi della prestazione oppure solo quelli essenziali. Tra questi rientrano di solito il contenuto del lavoro, il luogo in cui dovrà svolgersi, l'orario, l’ammontare della retribuzione, e soprattutto la durata del periodo in cui la persona deve considerarsi impegnata a rendere giorno per giorno quella data prestazione. Al momento del contratto si stabilisce se la sua durata è determinata oppure indeterminata. Senza che nessuno in genere si immagini, nel secon-

do caso, di venire assunto per l’eternità. Ora accade che da diversi anni nella maggior parte delle regioni italiane due terzi, in media, di coloro che cercano un

lavoro alle dipendenze di un'impresa o di un ente della pubblica amministrazione lo trovano soltanto se accettano un VI

contratto che non soltanto è di durata determinata, ma è so-

vente di durata breve, da pochi giorni ad alcuni mesi. Sono giovani in cerca di prima occupazione, in prevalenza, ma anche persone che vorrebbero trovare un lavoro dopo aver perduto il precedente. Tranne una minoranza che non ha problemi perché è in possesso di una qualificazione professionale che al momento ha un mercato favorevole — talora illudendosi che il favore del mercato duri lustri o decenni —, nessuno gradisce i contratti di pochi mesi o meno. Ma viene loro spiegato che la globalizzazione, e le sfide alla competitività che da essa provengono, esigono lavoratori flessibili, nel senso che debbono sapersi adattare alle esigenze delle imprese e dei loro mercati. Questi sono diventati imprevedibili: dunque le imprese debbono essere poste in condizione di prevedere con certezza che se la domanda sale esse possono assumere lavoratori senza paventare di doverli poi tenere a lungo sul libro paga, mentre se la medesima scende sono autorizzate a mandarli a casa nel giro di giorni o settimane. È questa la preminente funzione economica dei contratti di durata determinata, in special modo di quelli di durata breve o brevissima. I nomi delle varie tipologie di contratto esistenti in questo ambito potrebbero ormai dare corpo a un lessico nazionale del cosiddetto lavoro flessibile, che sotto forma di flessibilità

della prestazione esiste anche nel quadro dei contratti di durata indeterminata, e però nei fatti, nonché nella percezione di chi cerca lavoro visitando le agenzie per l’impiego, o inviando curricula vitae a raffica, si è venuto identificando con l'occupazione instabile o discontinua o precaria. C'è lo stage e il contratto di formazione e lavoro; l'associazione in compartecipazione e il lavoro a chiamata; la borsa di studio (postlaurea, o pre- e post-dottorato) e il lavoro interinale ovvero in somministrazione

(ambedue forme di lavoro in affitto); la

prestazione occasionale e il tirocinio formativo; la collaborazione continuativa e il lavoro a progetto; il tempo determinato e l’apprendistato; la consulenza e (nella scuola) l’incarico VII

annuale; l'assegno di ricerca o l'affidamento (negli atenei). A codesti tipi di contratto, e all’altra quarantina previsti dalla legislazione vigente, si possono aggiungere le partite Iva aperte non per convinta vocazione al lavoro autonomo, quanto perché il potenziale datore di lavoro ne fa una condizione al fine di concedere, sin quando lo riterrà utile, un’occupazio-

ne con tutti i crismi del lavoro dipendente. Si noti che la accennata proliferazione di tipologie contrattuali non è stata indotta esclusivamente dalla legge 30/ 2003 e dal suo decreto attuativo. Alcune di esse sono state introdotte dal «pacchetto Treu» del 1997, o da altre leggi, come la legge del 2001 sul tempo determinato. Molte altre risalgono assai più indietro, in specie nella pubblica amministrazione, che da decenni — contrariamente a quanto vorrebbero far credere le critiche canoniche del «posto fisso» — si è mostrata strenua competitrice delle imprese private nel crea-

re lavoro precario. Altre ancora sono state inventate nell’economia sommersa e recepite poi dalla legge. La legge 30, che peraltro non si applica al pubblico impiego, ha sussunto gran parte delle suddette tipologie in un singolo decreto attuativo, invertendo una vocazione secolare del diritto del lavoro: ha dato veste giuridica alla frammentazione pre-esistente dei rapporti di lavoro, piuttosto che mirare a ricomporli in un disegno di progressivo consolidamento dei diritti della persona al lavoro. Non è questa la minore delle ragioni per le quali andrebbe abolita. Il numero complessivo di persone occupate a un dato momento, loro malgrado, con contratti di breve durata è ignoto, poiché esso dipende dalla durata in giorni, mesi o anni non meno che dalla ricorrenza dei singoli contratti, un flusso complicato di cui non esiste alcuna rilevazione. Si stima comunque che tale numero si collochi fra i tre e i quattro milioni. Forse non abbastanza per poter parlare di una intera «generazione precaria». Ma abbastanza per poter dire che siamo dinanzi a una emergenza sociale di cui è stata sinora sottovalutata la gravità attuale come le conseguenze future. IX

Negli articoli qui raccolti ho ricordato alcuni dei costi che essa impone agli individui e alle famiglie. Costi umani che parevano scarsamente diffusi o esagerati quando su di essi provai ad attirare l’attenzione anni fa, ma di cui una miriade di

successive indagini e testimonianze personali hanno confermato il peso. Tra simili costi spicca la difficoltà di progettarsi una vita, perché un lavoro perennemente instabile non si addice a rapporti sociali stabili, né all’aver figli o al comprar casa. Ma anche la violazione di tutte le sicurezze che secondo la pur moderata Organizzazione Sociale del Lavoro definiscono il lavoro decente, a cominciare dalla sicurezza dell'occupazione, del reddito, della formazione professionale. La prolungata permanenza dei figli in famiglia, ultimo baluardo della sicurezza, sin quasi alla mezza età. Nonché il rischio di ricevere a suo tempo una pensione miseranda, causa la forzata scarsità dei contributi che si sono versati a un ente previdenziale o a un fondo pensione. Tuttavia al presente occorre, dopo che milioni di persone lo hanno sperimentato per lustri e decenni, menzionare altri costi umani del lavoro flessibile. Anzitutto, con il tempo si verifica nella persona una interiorizzazione dell’insicurezza socio-economica. L’imprevedibilità del domani, già vissuta entro la famiglia, viene assunta specialmente dai giovani, che non hanno mai conosciuto un mondo più stabile, quasi fosse una normale e inaggirabile condizione dell’esistenza. L’orizzonte temporale della persona si contrae come una sorta di adeguamento alla brevità e discontinuità del lavoro. Pensare a ciò che si farà fra cinque anni diventa un faticoso quanto immotivato nonsenso allorché non si può sapere ciò che si farà fra cinque settimane, a contratto di lavoro scaduto. Di conseguenza la rappresentazione del mondo si concentra sull’immediato, sulle contingenze, che di giorno in giorno inevitabilmente cambiano. Da tale fibrillazione di rappresentazioni contingenti la personalità ne risulta fragilizzata. Due strade le si aprono. Quella della resa all’esistente, alla convinzio-

ne che il mondo la società e il lavoro sono quel che sono e non c'è alcuna possibilità di sottrarvisi o di trasformarli. Oppure quella della violenza futile sulle persone, o in alternativa del vandalismo cieco — di cui sovente sono significativo bersaglio le scuole — cui si dedicano con crescente frequenza gli adolescenti del nostro come di altri paesi. Sono i figli e le figlie della precarietà. Intanto che la politica propone loro, quali temi particolarmente coinvolgenti, di discutere di riforme elettorali, o di durata del mandato del governatore della Banca d'Italia. L’emergenza del lavoro flessibile — inteso come incerto susseguirsi di rapporti lavorativi di breve durata — sarebbe meno critica se non si accompagnasse a una crescente insicu-

rezza dell'occupazione anche per coloro che godono d’un contratto di durata indeterminata. Si sa che le singole crisi aziendali, i cicli negativi dell'economia, il declino di interi set-

tori industriali a causa di mutamenti del mercato o della tecnologia sono sempre esistiti. Per uno o più di questi motivi è

regolarmente accaduto a tanti, nel tempo, di perdere il lavoro. Ciò che è nuovo e incomprensibile è, per tanti, la improvvisa perdita del lavoro che si verifica in imprese aventi i bilanci in forte attivo, in settori considerati all’avanguardia del mercato e della tecnologia, durante lunghi cicli positivi dell'economia. AI fine di spiegare l’incomprensibile, esperti di mercato del lavoro e direttori delle risorse umane hanno elaborato un altro apposito lessico, in cui ricorrono termini esotici quali «esubero», «reingegnerizzazione organizzativa», «piano sociale», «mobilità», «delocalizzazione», «politiche del lavoro

attivizzanti», «nuova ragionevolezza» (quella che il lavoratore dovrebbe dimostrare dinanzi alla proposta di andare a lavorare 30 chilometri più lontano, con salario ridotto del 20 per cento, o essere licenziato). E un lessico che vale a delimitare la fenomenologia dell’insicurezza dei contratti dianzi considerati un pegno di occupazione sicura, in quanto erano o sono di durata indeterminata. XI

S’è accennato sopra a qual è la condizione esistenziale dei figli nella società del lavoro a un tempo flessibile e insicuro. Non meno attenzione richiederebbe la frustrazione dei genitori dinanzi alle incognite che l’uno e l’altro genere di lavoro dischiudono loro. Per oltre una generazione gli italiani hanno sperimentato una tangibile mobilità sociale ascendente. I figli di milioni di contadini e di operai sono arrivati a svolgere un lavoro meno faticoso, più interessante e meglio retribuito di quello dei padri e delle madri. Principali strumenti di mobilità, nel quadro d’un paese in rapido sviluppo economico e sociale, sono stati il lavoro duro e coscienzioso dei genitori, e le scuole superiori o l’università per i loro discen-

denti. Le persone che tra gli anni ’50 e gli anni ‘70 hanno visto in qual modo lavoravano i genitori, e come la maggior scolarità abbia aiutato loro stesse a salire alcuni gradini della stratificazione sociale, si attendevano, guardando alla domestica sfera di cristallo, che lo stesso sarebbe accaduto ai pro-

pri figli. Oggi scoprono che la sfera di cristallo è andata in pezzi, oppure rappresentava uno scenario finto. Lavorare

con scrupolosa solerzia non basta più per conservare il lavoro, quando una società che ha sede, per dire, a Belo Horizonte e produce su commessa di un gruppo ispano-svedese decide che il tale stabilimento sito in Piemonte, nelle Marche o in Sardegna deve essere delocalizzato in Moldavia. Oppure, più semplicemente, chiuso in via definitiva, dovendo essa procedere a razionalizzare nel mondo la propria struttura produttiva. D'altra parte nemmeno una laurea in ingegneria aerospaziale o in biotecnologie o in informatica — per citare solo i sommi titoli di studio di cui la società della conoscenza, si so-

stiene, avrebbe spasmodico bisogno — basta più per trovarlo, un lavoro la cui probabilità di essere di durata indeterminata superi almeno il 50 per cento. Non più, quando il nuovo modello di impresa affermatosi con gli anni ’90 punta soprattutto a diventare grande in Borsa, e a tale scopo rimpicciolisce XII

via via il numero dei dipendenti effettivi, nel suo procedere a tappe forzate verso l’ideale di non averne pressoché nessuno. Sarebbe un grande tema politico, la frustrazione da sfera di cristallo spezzata ch'è ora patita da larghi strati medi, non foss’altro perché da processi analoghi sono derivati non pochi dei drammi che hanno distinto il secolo scorso. Volendo cercare di capire quali siano le cause profonde dell’odierna preferenza delle imprese per il lavoro saltuario, discontinuo, privo di orizzonti professionali e umani, ovvero suscettibile d’essere interrotto in qualsiasi momento — un modello di lavoro che a ben vedere non giova nemmeno alle imprese perché compromette la formazione del capitale umano — si può fare sintetico riferimento alla coppa di champagne. È questa la forma che assume, convertita in un grafico, la distribuzione del reddito pro capite per centesimi della popolazione mondiale, esaminata nel Rapporto 2005 sullo Sviluppo umano edito dalle Nazioni Unite. In alto, la larghezza della coppa sta a rappresentare i tre quarti del reddito mondiale che vanno al 20 per cento più ricco della popolazione. Lo stelo, già sottile nella parte superiore, è quanto mai esile nella parte mediana e inferiore. La sua sottigliezza sta a significare che il 40 per cento più povero della popolazione riceve il 5 per cento del reddito del mondo, e corrisponde ai due miliardi di persone che vivono con due dollari al giorno (misurati, si noti, col metodo della parità del potere d’acquisto, o Ppa). Mentre il 20 per cento più povero percepisce soltanto l’1,5 per cento del reddito mondiale. Se le suddette percentuali sembrano un po’ astratte, si può guardare ai valori assoluti. Secondo i dati della Banca Mondiale nel 2002 le dieci persone più ricche del mondo avevano un patrimonio complessivo di 220 miliardi di dollari, ossia 22 miliardi a testa. La Tanzania, con i suoi 35 milioni di abitan-

ti, faceva registrare un Pil di 10,2 miliardi di dollari. In altre parole una sola persona tra le dieci più ricche aveva un patrimonio pari al doppio del prodotto annuo generato da 35 milioni di tanzaniani. Oppure si può ricordare che il reddito pro XII

capite degli abitanti dei paesi più benestanti del mondo supera i 40.000 dollari, laddove quello dei paesi meno sviluppati non arriva a 100: un rapporto di 400 a 1, che diventa «soltanto» di 60 a 1 se i redditi sono ricalcolati in Ppa. L’immagine festosa della coppa rinvia dunque alla realtà d’una abissale disuguaglianza. Una disuguaglianza che si osserva tanto fra i paesi ricchi e quelli poveri del mondo, quanto all’interno della maggior parte dei paesi, fra gli strati che costituiscono il 10 per cento della popolazione ma detengono la metà della ricchezza in mano alle famiglie e il 50 per cento che ne possiede appena un decimo — giusto la distribuzione osservabile anche in Italia. Ancora, una disuguaglianza che in ambedue gli ambiti, nazionale e internazionale, appare destinata, con elevata probabilità, a durare per secoli. Ad esempio, con il suo elevatissimo tasso di sviluppo, l'India — si legge ancora nel Rapporto precitato — impiegherà almeno fino al 2106 per avvicinarsi al reddito pro capite medio degli europei o degli statunitensi. Gli abitanti dell'America Latina e dell’Africa dovranno aspettare un po’ più a lungo. Si prevede infatti che, ai tassi attuali del /oro sviluppo, il reddito pro capite dei latinoamericani raggiungerà quello degli europei e degli Usa verso il 2177, e quello degli africani verso il 2236. E ciò a una condizione il cui verificarsi è piuttosto improbabile: che i paesi ricchi abbiano per tutto il periodo una crescita uguale a zero. Altrimenti per la cosiddetta «convergenza» dei redditi pro capite, che i teorici neoliberali della globalizzazione garantiscono essere prossima, i latinoamericani e gli africani dovranno attendere il quarto millennio. Il nesso tra le pur enormi disuguaglianze globali e il degrado dei rapporti di lavoro nel nostro paese va dunque cercato nelle differenti manifestazioni d’un medesimo processo economico e politico, la cui caratteristica saliente è di essere volutamente cieco dinanzi alle proprie stesse conseguenze. Discu-

tendo di tecnologia e responsabilità, Hans Jonas ebbe a scrivere più di trent'anni fa che sono le immani dimensioni causali del potere della tecnologia, da noi stessi creato, a imporci di XIV

sapere che cosa stiamo facendo, e di scegliere in quale direzione vogliamo inoltrarci. Ai nostri giorni dovremmo sostituire «tecnologia» con «economia». Abbiamo creato un’economia globale che ha il potere di generare immense ricchezze, ma avendo noi rifiutato di sapere che cosa stiamo facendo, e di

scegliere in quale direzione inoltrarci, essa ha anzitutto in parte direttamente generato, in parte consolidato il permanere nella loro condizione di povertà estrema di oltre due miliardi di persone. In secondo luogo l'economia globale quale abbiamo costruito infligge alla maggioranza di coloro che quelle ricchezze producono i costi di un lavoro contraddistinto da crescenti fatiche, minori diritti e più stringenti angosce per il futuro. Nel nostro paese come in tutti i paesi sviluppati. L'estrema mobilità dei movimenti di capitale, di merci, di informazioni

esige una uguale mobilità nell’impiego di forza lavoro: in ciò risiede l’ultima ratio dei rapporti di lavoro discontinui. Come prevedeva Kurt Vonnegut in Piazo meccanico (1952), in atte-

sa di venire sostituiti da robot umanoidi, peraltro già in via di perfezionamento, gli esseri umani debbono prestarsi con nuova ragionevolezza a erogare la loro forza lavoro con la docilità dei robot. L'essere spinti sempre più verso il basso nella distribuzione del reddito è una anticipazione della loro imminente superfluità. Ancor più dell’ingiustizia del mondo che le disuguaglianze globali e la frammentazione dei rapporti di lavoro congiuntamente rispecchiano, dovrebbe indignare, e sollecitare a una

sua ravvicinata iscrizione nell’agenda politica nazionale e internazionale, il fatto che in realtà nessuno dei due eventi esiste

per necessità, poiché le risorse di cui oggi collettivamente dispongono i paesi sviluppati sarebbero sufficienti per superare in tempi non lunghi l’uno e l’altro. Se soltanto si volesse, e si riuscisse, a modificare in qualche misura il profilo della coppa di champagne, perché è da quel profilo che passa il futuro. Lar

Gli articoli qui ordinati per temi sono stati pubblicati in ordine sparso su «la Repubblica» tra il 2001 e il 2005. Sono grato al direttore Ezio Mauro per lo spazio di cui ho potuto fruire per esporre il mio pensiero. L’idea di raccoglierli in volume è dell'Editore, che ringrazio per aver creduto ne valesse la pena.

Italia in frantumi

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Il lavoro in frantumi

DIARIO POSTUMO DI UN FLESSIBILE

Gli studi storici sulla civiltà italica del terzo millennio hanno fatto un importante passo avanti con la scoperta del diario d’uno sconosciuto vissuto nei primi decenni dell’epoca. Un esame preliminare dei suoi contenuti ci ha indotto a ritenerlo opera d’un «uomo flessibile», categoria numerosa a quei tempi.

In effetti disponevamo già d’una massa ragguardevole di documenti relativi al Culto della Flessibilità allora diffuso. Articoli, saggi, fossili di servizi tv, pergamene di accordi internazionali come quello famoso tra Italia e Gran Bretagna di inizio millennio, attestano come la venerazione della Flessi-

bilità fosse una delle occupazioni principali di quelle popolazioni. In ogni settore della vita sociale, culturale, politica, fi-

nanco economica, esse parevano anteporre tale Culto a ogni altro impegno o pensiero. Per la verità, i ricercatori non sono finora riusciti ad appurare se la Flessibilità fosse creduta essere, 0 si volesse far credere che fosse, spirito, sostanza, per-

sona, archetipo collettivo o logo pubblicitario. Questo diario d’un uomo che pare praticasse la Flessibilità, per convinzione o per obbligo, permette comunque di comprendere meglio quale incidenza essa avesse nella vita quotidiana. Il diario copre un arco di parecchi anni. Ne riportiamo alcuni brani. Ottobre 2001. A me la Flessibilità piace. Mi lascia libero di organizzare il mio tempo. Sono indipendente. E poi si incon-

trano facce nuove. Lavorare in aziende sempre diverse è una bella esperienza. Mi arricchisce la professionalità e mi permette anche di spenderla meglio. È vero che ogni tanto devo chiedere soldi ai miei per andare in discoteca, perché tra un lavoro e l’altro magari passa qualche mese. Ma insomma, se penso a loro che han passato tutta la vita nello stesso barboso posto, io sono molto più soddisfatto. Giugno 2005. La ditta in cui ho lavorato tre mesi m'ha rinnovato il contratto per altri sei. Giusto un paio di giorni prima che scadesse l’altro. Si vede che mi apprezzano. Certo che se me lo dicevano un po’ prima avrei gradito, perché mi risparmiavo di girare le agenzie e passare nottate in Internet

per vedere se trovavo un altro lavoro. Gennaio 2006. La mia compagna S. vorrebbe fare un figlio. Pure a me piacerebbe. Però è anche lei una flessibile — sta facendo un tempo parziale — e se dovesse capitare che restiamo tutti e due senza lavoro, tra un impiego e l’altro, non ce la faremmo. Dunque meglio aspettare. Siamo ancora giovani.

Marzo 2009. La ditta in cui lavoro da sei mesi m'ha rinnovato il contratto per altri tre. Il capo del personale dice che per adesso, in attesa del giudizio dei mercati sui loro prodotti, non possono fare di più. Ma invita ad avere fiducia. Altri hanno avuto prima o poi il tempo indeterminato. Visto che dove lavoro io siamo almeno duecento, gli domando quanti sono. Potrebbero essere addirittura il venti per cento, risponde, facendomi due o tre nomi. Maggio 2010. Insieme con S. sono andato in banca. Vor-

remmo comprarci un alloggetto. Anche se alla fine non lavoriamo in media più di otto o nove mesi all'anno, guadagniamo abbastanza. Però avremmo bisogno d’un prestito o d’un mutuo. L’impiegata sta a sentire, fa qualche domanda, poi dice che non si può. I prestiti o i mutui si concedono soltanto a chi ha un lavoro stabile. Per consolarci ci confida che nemmeno lei, impiegata di banca, potrebbe avere un mutuo. È una temporanea. Novembre 2014. Dopo sette rinnovi consecutivi di vari ti-

pi di contratto — un paio di interinali, tre o quattro a tempo determinato, altri due co.co.co., cioè di collaborazione coor-

dinata — la ditta mi ha proposto un contratto a tempo indeterminato. In cambio mi chiede soltanto, per via della Flessibilità, di rendermi disponibile al lavoro a turni, sei ore comprese in un qualsiasi intervallo tra le 7 e le 24, in qualunque giorno, sabato e domenica inclusi. Ogni settimana l’orario del turno può cambiare. Naturalmente loro si impegnano a farmi sapere quale sarà il mio orario con almeno due o tre giorni di anticipo. Naturalmente ho accettato. Gennaio 2015. Ho saputo da un biglietto di S. — adesso facciamo turni con orari diversi, così ci lasciamo messaggi sulla porta del frigorifero — che il medico le ha detto che se vuole avere un figlio dovrebbe sbrigarsi. A trentacinque anni una donna è anziana per avere un primo figlio. Lei però è ancora indecisa. Adesso ha un co.co.co, ma sta per scadere e

non ha ancora trovato altro. E se non lavora lei, non paghiamo l’affitto, altro che il latte in polvere e una tata. Ci vorrebbe una legge apposta, per le madri flessibili. Luglio 2016. Mia madre vorrebbe sapere con precisione quale lavoro faccio. Per dirlo ai parenti, agli amici che chiedono notizie. Sostiene che la mette a disagio non poter rispondere che suo figlio, per dire, fa l’elettricista, o l'impiegato all'anagrafe, o il disegnatore di dépliants. Vorrei risponderle, perché ormai ha l’aria proprio vecchia. Il fatto è che, dopo tanti lavori, non lo so nemmeno io chi sono, che cosa sono.

Da qualche tempo mi fa male la schiena. Ho prenotato una visita.

Luglio 2018. Dato che bisogna essere previdenti, ho chiesto a un’esperta a quanto potrebbe ammontare la mia pensione. M’ha parlato di ricongiungimenti, casse separate, regime contributivo, e dello sbaglio d’aver cambiato tante volte lavoro e azienda. Posso aspettarmi, in conclusione, una pensione pari a circa un terzo di quello che prendo al mese, quando lavoro. Ma con una pensione pari a un terzo dello stipendio mica si vive. Quindi le ho chiesto cosa dovrei fare per au-

mentarla. Dovresti investire almeno un terzo di quello che guadagni in un fondo integrativo, ha detto. Settembre 2018. Non sono ancora riuscito ad andare dal medico. Ogni volta che faccio la prenotazione, capita che sono di turno. Dicembre 2018. La ditta, di cui ho sentito che sta andan-

do benissimo, mi ha licenziato. Ho protestato, ricordando che il mio contratto era a tempo indeterminato. M’hanno spiegato gentilmente che da quando lo Statuto dei lavoratori è stato abolito, indeterminato significa soltanto che è l’azienda a decidere quando il contratto termina. (Mese illeggibile del 2022). Quest'anno sono riuscito a lavorare soltanto sei mesi. Le aziende mi fanno difficoltà perché, alla mia età, non ho abbastanza formazione. I giovani che arrivano adesso dalla scuola sono più preparati e flessibili. Per fortuna nell’azienda in cui lavoro adesso ho ritrovato F., ex compagno di scuola. È diventato capo settore, un uomo importante. Gli ho chiesto com'è riuscito a far carriera. Beh, dice, ho cercato di restare nella stessa azienda il più a lungo possibile. Se uno salta di qua e di là, da un posto all’altro, mica lo promuovono. Ti pare? Chiudiamo qui, per ora, il diario dell’uomo flessibile. Come ben sanno gli storici, le cause del rapido declino della civiltà italica del terzo millennio d.C. sono tuttora avvolte dal mistero. L'ipotesi d’un avvelenamento collettivo da piombo delle condotte d’acqua, già affacciata per spiegare il crollo d’una civiltà fiorita nello stesso territorio 15-20 secoli prima, va scartata in base alle indagini compiute con i nostri superspettrografi di massa. Ma sulla base di quest’ultimo ritrovamento, ci pare lecito ipotizzare che il Culto della Flessibilità, distraendo ipnoticamente i capi come le masse da ogni altro fine esistenziale, abbia avuto in tale declino un peso non lieve.

Le nostre ricerche su questo fascinoso tema proseguiranno. [20/02/2002]

UNA RIFORMA CHE AVVICINA L’ITALIA AL TERZO MONDO

Le modifiche all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori proposte dal governo, più la richiesta di delega per altri interventi sul mercato del lavoro, tipo l'introduzione dei lavori intermittenti, del lavoro a chiamata, della possibilità di affittare lavo-

ratori in gruppo, insieme con la moltiplicazione del tempo determinato e delle forme di tempo parziale, rappresentano uno strumento efficace per far arretrare il nostro mercato del lavoro. Lungi dal modernizzarlo, l'insieme degli interventi proposti contribuirebbe a rendere tale mercato via via più simile a quello dei paesi in via di sviluppo (Pvs). Un aspetto fondamentale del mercato del lavoro nei Pvs è, infatti, l’enor-

me estensione del cosiddetto «settore informale» dell’economia. Nei Pvs dell’ America Latina, dal Messico al Cile, circa il

60 per cento di tutti i lavori che si sono creati negli anni ’90 nel settore urbano, il più moderno dell'economia, sono lavo-

ri definiti ufficialmente «informali». In complesso questi lavori coinvolgono la metà e oltre di tutte le persone che risultano occupate. Valori simili si registrano in Africa, in molti Stati dell'India, nel Sudest asiatico, dalla Thailandia all’Indonesia.

Le definizioni internazionali dei lavori informali sono variabili. Alcune insistono sul livello minimo di investimenti che essi comportano. Altre sottolineano che si tratta per lo più di lavori a bassa tecnologia, sovente privi di luogo, come i milioni di vendedores de estrada del Messico. Alcune connotano i lavori informali in modo prevalentemente negativo, soprattutto per la loro scarsa produttività. Altre definizioni esaltano invece l’inventiva tecnica e organizzativa, la capacità

di sopravvivere che attraverso di essi esprimono milioni di persone dall’esistenza difficile. Su un punto, però, le tante definizioni dei lavori informali concordano: si tratta di lavori in merito ai quali la regolazione legislativa è praticamente inesistente. Nessuna regola stabilisce quali debbano essere gli orari o le condizioni di lavoro, il livello dei salari o il tipo di tu-

tela sindacale, lo stato dell’ambiente di lavoro o le situazioni

in cui un dipendente può venire licenziato. Sono dunque lavori che si possono chiamare appropriatamente informali perché sono di fatto privi d’ogni forma giuridica. Da decenni i lavori detti informali perché non possiedono forma giuridica sono in forte aumento nel mondo. Ovunque ne favoriscono la diffusione un paio di caratteristiche peculiari della odierna economia formale. La prima è la sua incapacità, nella maggior parte dei Pvs, di creare un numero adeguato di lavori decenti: cioè lavori passabilmente stabili, dignitosamente retribuiti, rispettosi dei diritti umani e delle libertà civili. Negli ultimi vent'anni, la quota dei lavori creati nel settore formale è stata appena un terzo di quelli che si sono creati nel settore informale. Una seconda caratteristica dell'economia contemporanea che genera lavori informali va vista nella frammentazione dei processi produttivi in lunghe catene di appalti e subappalti ad aziende terze. Al di là del primo 0 del secondo grado di subappalto, il lavoro finisce per perdere ogni forma giuridica. Come qualunque piccolo o medio imprenditore, se vuole, può esaurientemente spiegare. Non sappiamo se gli esperti e i politici che hanno escogitato le modifiche dell’art. 18 di cui si discute, insieme con gli altri interventi sul mercato del lavoro per i quali il governo chiede la delega, abbiano mai dato una scorsa alla letteratura relativa alla diffusione della ‘nformzalidad nei paesi dell’America Latina. Se lo facessero, potrebbero constatare che lo scenario che essi stanno disegnando per il nostro mercato del lavoro assomiglia molto allo scenario che si osserva attualmente laggiù. Uno scenario che preoccupa i governi di quei paesi e le organizzazioni internazionali che li assistono nelle politiche del lavoro, in primo luogo l'Organizzazione Internazionale del Lavoro. Organizzazioni che, d’intesa con i governi locali, diffondono rapporti in cui si sottolinea come il lavoro pressoché privo di forma, ossia di regolamentazione giuridica, si accompagni inesorabilmente all’assenza di protezione sociale. A sua volta questa favorisce l'insorgere di una

serie di problemi economici, sociali, culturali e politici. Di conseguenza quei governi mirano a fare il possibile per «formalizzare la informalità» del mercato del lavoro. Invece il governo italiano sembra puntare allo scopo contrario: informalizzare per quanto possibile un mondo del lavoro al quale è stata data con decenni di fatica e di lotte una consolidata forma giuridica. SI possono già intendere a questo punto due ovvie obiezioni. La prima: in un mondo del lavoro così robustamente strutturato dal punto di vista giuridico come quello italiano le modifiche proposte per l’art. 18 sono quisquilie. La seconda: il mondo del lavoro è talmente cambiato da richiedere ampie innovazioni legislative e contrattuali. La risposta alla prima obiezione è che il diritto del lavoro è come una diga, intesa a proteggere i più deboli dai più forti. E per far crollare una diga, si sa, può bastare praticare in essa un piccolo buco. Alla seconda è giocoforza rispondere che proprio i grandi mutamenti dei modi di lavorare, di cui non si possono ignorare, accanto a proprietà deteriori come la precarietà, i nuovi contenuti di autonomia, creatività, crescita professio-

nale e personale, richiedono innovazioni regolative e contrattuali profondamente originali. Ma per giungere a questo sarebbe preferibile inventare nuove forme per il lavoro, anziché cominciare a liquidare quelle che esistono. [27/11/2001]

CHI VUOLE SPEGNERE LA VOCE DEL SINDACATO

Come ogni sistema di governo ispirato al culto del capo, il berlusconismo, al fine di potersi radicare durevolmente nel paese, ha assoluto bisogno di indebolire il sindacato. Nel regime verso il quale il suo governo pare voler condurre il paese, nessuna forma di rapporto sociale organizzato si deve frapporre tra la persona del capo e gli individui. I partiti politici, intesi come sedi in cui si costruivano pressoché giorno per giorno

rapporti sociali profondi, quelli che all’occasione fan sentire la propria identità personale rinsaldata in una identità collettiva, sono andati in crisi per conto loro. La Chiesa, da questo specifico punto di vista, non sembra stia meglio, anche se un’im-

portante funzione sussidiaria continuano a svolgerla le associazioni cattoliche. Le organizzazioni non governative stanno

crescendo, ma esercitano una presa ancor debole nella società politica. Resta in prima fila, a impedire che i messaggi del capo arrivino direttamente alla mente e al cuore degli individui, il sindacato. Dunque è necessario ridurlo all’impotenza. Nell’attacco al sindacato le strategie adottate dal governo Berlusconi sono principalmente due. La prima, sviluppata in sintonia con i ceti sociali che lo sostengono, consiste nell’etichettarlo instancabilmente come residuo premoderno, istituzione démodé, struttura in ritardo irrimediabile sui tempi. È

una strategia che sin dagli anni ’80 è stata perseguita con successo in Gran Bretagna dai governi Thatcher e, con altrettanto fragore seppure finora con minor successo, in Francia, specie a opera dell’associazione padronale, la Medef. Il sindacato, predica tale strategia, è un ostacolo alla modernizzazione

del paese. Chi lo sostiene, compresi i lavoratori che ancora vi credono e che a esso si iscrivono, è un nemico della libertà e

del nuovo che si affaccia prepotentemente nel mondo. Da siffatta ideologia della modernità, ha scritto recentemente Laurent Joffrin, caporedattore del «Nouvel Observateur», in un graffiante saggio su Le gouvernement invisible (2001), discende che viene «reputato moderno ciò che risponde ai criteri dell'ideologia liberale libertaria. Tutto il resto si trova respinto nelle tenebre dell’arcaismo. Così, sotto la copertura della novità, della modernità, la scala dei valori è brutalmente cambiata: la libertà fa premio sull’eguaglianza, l’individuo sulla collettività, la società civile sulla società politica e il mercato sullo Stato». Non bastasse la poderosa offensiva del berlusconismo, le difficoltà per il sindacato italiano sono accresciute dal fatto che l'ideologia della modernità ha fatto presa anche su una 10

parte significativa della sinistra. Si veda quel che è accaduto in occasione del congresso 2001 dei Ds. La mozione in cui più chiaramente si parlava di questioni di interesse effettivo per la vita di tante persone, come le conseguenze della globalizzazione, le nuove povertà, l'occupazione, i salari che in ter-

mini reali sono fermi da oltre un decennio, era quella di Berlinguer. Essa fu sconfitta non da ultimo perché in molte sezioni del partito venne presentata dai dirigenti o dai segretari locali come un insieme di idee vecchie, superate, non all’altezza dei tempi. I tempi chiedono, essi assicuravano i presenti, che si proceda per la strada della modernizzazione. Che è un tema, a ben guardare e ricordare, ch’era di moda intorno agli anni ’60, e allora aveva sì dei contenuti reali e comprensibili per le persone. Nella misura — amplissima — in cui dette questioni hanno dei risvolti sindacali, la sconfitta della mozione Berlinguer, non tanto per la cosa in sé, ma per il modo in cui è stata costruita in nome dell’ideologia della modernità interpretata da sinistra, è stata una sconfitta anche per il sindacato. E non soltanto per la Cgil. L’altra strategia che il governo Berlusconi sta perseguendo allo scopo di ridurre drasticamente il peso del sindacato, è scritta in tre documenti, il «Libro bianco sul mercato del

lavoro in Italia» predisposto dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali; il documento in cui si propone la «Delega al governo in materia di mercato del lavoro», e la «Relazione di accompagnamento» alla proposta stessa. In tutto sono 137 pagine fitte di analisi, di misure da adottare, di programmi e di procedure da porre in essere. Sicuramente ben pensate e ben costruite. Dirette a uno scopo che, arrivati alla centotrentasettesima pagina, e dopo qualche rilettura, emerge con la massima chiarezza. Insieme con l'avvio della demolizione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, tale sco-

po si può compendiare in una sola frase: il regime che avanza punta tutto sulla individualizzazione dei rapporti di lavoro. Sul mercato del lavoro l'individuo, il lavoratore, deve essere e sentirsi solo. Con le sue competenze professionali, la 1l

sua voglia di fare, la sua disponibilità ad accettare — se disoccupato — qualsiasi lavoro e salario gli venga offerto. Messo dalla legge di fronte a una varietà di tipologie di lavoro tra cui scegliere ch'è semplicemente impressionante: lavoro a chiamata, temporaneo,

a progetto, occasionale, «in som-

ministrazione» (il nuovo nome del lavoro in affitto), acces-

sorio, intermittente, a prestazioni ripartite, a tempo parziale verticale od orizzontale. Oppure con contratto a tempo determinato che diventa indeterminato se l'impresa — grazie al-

le modifiche dell’art. 18 — acquista il diritto di porvi termine quando crede. Però un individuo che è sospinto sempre più lontano dalle tutele sindacali, grazie anche alla prevista riduzione della portata dei contratti nazionali a favore di quelli aziendali. Ciascuno per sé sul mercato del lavoro, sarebbe l'esito di queste riforme, e il capo del governo per tutti. Infatti soltanto un capo onnisciente e pressoché onnipotente può pensare, e riuscire a far credere, di poter assicurare un lavoro

decente, un futuro prevedibile, la possibilità di costruirsi una vita, a lavoratori che il sindacato non potrà più sostenere perché in una medesima azienda saranno presenti dieci tipologie di lavoro, venti aziende subappaltatrici differenti, centinaia di contratti individuali e un livello salariale minimo affidato non a un contratto nazionale, bensì al mercato del lavoro locale. La società non esiste, esistono soltanto gli individui, diceva vent'anni fa la signora Thatcher. Quello che ci viene proposto dal regime emergente, attraverso le modifiche che vuole introdurre in materia di mercato del lavoro, va dunque ben al di là di questo e della posizione del sindacato. È un modello di non-società nel quale gli innumeri fili della devozione di ciascun individuo nei confronti d’una personalità carismatica — della quale cioè si crede che sia dotata di poteri all'incirca sovrumani — sostituiscono la maggior parte delle strutture sociali intermedie, che hanno per generazioni conferito identità e dignità alle persone, e contribuito a trasformare la debolezza del singoLa

lo in una forza relativa, anche se pur sempre impari a confronto della controparte. Nel caso che un simile modello di convivenza si dovesse affermare, per di più — come risulta finora — con un ampio consenso popolare, gli storici del futuro avranno il loro da fare per comprendere un enigma: in che modo gli abitanti d’un grande paese abbiano potuto consegnarsi a tale modello, ciascuno descrivendolo con compiacimento all’altro come una genuina forma di progresso, rispetto alle bassure d’una democrazia che tra i suoi pilastri aveva anche il sindacato. [15/01/2002]

LA VITTORIA DEL SOMMERSO

Tra gli strepitosi successi conseguiti dal governo di centrodestra nel primo anno di attività, quali si sono potuti esemplarmente desumere durante la primavera 2002 dai nuovi tg pluralisti, sembra arduo includere pure l'emersione del sommerso. Da essa, come noto, si dovrebbero ricavare svariati

miliardi di euro da destinare alla riduzione del debito pubblico, elemento non marginale visto che anche sulle condi-

zioni di questo non circolano buone notizie. Di fatto, dopo due rinvii, le imprese che hanno presentato la dichiarazione di emersione erano fino a poche settimane fa meno di duecento, e i rispettivi lavoratori meno di mille. Se anche — miracolosamente — si moltiplicassero entro giugno per dieci o per venti, si tratta di cifre trascurabili rispetto alle migliaia di imprese, e alle centinaia di migliaia di lavoratori, che il governo prevedeva sarebbero corsi a mettersi in regola con il fisco e con gli istituti di previdenza. A fronte di cotanto flop, la scadenza per la presentazione delle dichiarazioni è stata da poco nuovamente rinviata: ora è fissata al novembre 2002. Le ragioni di simile inefficacia si possono certo ritrovare, in parte, nella specifica natura dei

provvedimenti di legge che hanno disegnato la nuova disci13

plina per l'emersione del sommerso (in particolare la legge n. 383/2001, la n. 409/2001, e la finanziaria n. 448/2001). Quel-

li introdotti dai governi di centro-sinistra avevano in effetti sortito risultati un po’ migliori. Ma il vizio di fondo dei provvedimenti antisommerso è quello di fondarsi su una immagine del tutto irrealistica del fenomeno, che a ben guardare nella percezione collettiva non è sommerso per niente. Milioni di persone fanno ogni giorno esperienza diretta dell’economia sommersa. Ogni giorno è normale per un potenziale cliente sentirsi chiedere dal carrozziere, dall’impresario che ristruttura l'alloggio, dal chirurgo che deve eseguire un’operazione in una struttura privata, dal progettista di siti Web, dal giardiniere del pratino condominiale, se vuole la fattura oppure no. Ovviamente otto o nove volte su dieci il potenziale cliente risponde di no, perché la differenza di costo a suo favore può toccare anche il 30 o il 40 per cento. Migliaia di imprenditori sono pronti ad affermare che nella loro impresa il sommerso non esiste, ma sono certi che tra i loro fornitori e colleghi ce n'è in abbondanza, sciorinando al riguardo dati precisi ed episodi certi. Decine di migliaia di tecnici e di altri lavoratori qualificati ricevono regolarmente in nero, ogni mese, un bonus dell’ordine del 25-30 per cento del loro salario netto, perché la loro impresa non può assolutamente permettersi di perderli, ma nessuna delle due parti si sentirebbe di sostenere gli oneri fiscali e contributivi derivanti da tale supplemento di retribuzione. In diverse regioni italiane decine di migliaia di famiglie — madri e figli, nonni e nipoti, cugine e cognati — lavorano in nero in numerosi set-

tori dell'industria a domicilio. Poi ci sono ovviamente i laboratori clandestini dove ragazze cinesi o siciliane confezionano capi d'abbigliamento per 10 o 15 euro al giorno, o le cooperative di lavoro i cui cosiddetti soci o socie sono di fatto dipendenti sottopagati. Come mai non si riesce a contrastare,

o quanto a meno a

regolare in qualche misura, un fenomeno che sta sotto gli occhi di tutti? Finora nessun paese, sia detto, ha mai trovato una

14

soluzione efficace al problema dell’economia sommersa. Ma un primo passo necessario per cercare soluzioni consiste nel

riconoscere che, al presente, l’economia sommersa non è affatto un’economia parallela, estranea all'economia formal mente registrata e anzi, nei confronti di questa, illecitamente concorrenziale. Al presente l'economia sommersa è una componente intrinseca, organica, sistematica, strettamente com-

plementare dell'economia formale e perciò da questa del tutto inseparabile. In questo caso non soltanto la mano destra conosce benissimo quel che fa la sinistra; ma se provasse a tagliarla (a parte la sgradevolezza dell’operazione) si troverebbe, subito dopo, essa stessa paralizzata. I canali attraverso i quali flussi ininterrotti di merci e di servizi passano dall'economia formale a quella sommersa o informale (come molti ricercatori credono sarebbe meglio chiamare l'economia sommersa), e viceversa, sono molteplici. Il prin-

cipale è la progressiva frammentazione di ogni tipo di attività produttiva in segmenti sempre più corti e indipendenti, affidati tramite contratti di subappalto e sub-subappalto ad aziende sempre più piccole e specializzate. Essa è spinta dall’imperativo — che è poi lo stesso soggiacente a ogni richiesta di flessibilità- di usare soltanto la forza lavoro necessaria in quel momento. In un cantiere edile, ad esempio, non esistono praticamente più lavoratori dipendenti da una sola impresa che compiano tutte le operazioni richieste per costruire un edificio. Esiste un'impresa che fa lo scavo; una seconda che prepara le gabbie di tondino; una terza che mescola e getta il cemento; una quarta che si occupa della carpenteria del tetto e così via sino al compimento dell’opera. Conclusa la sua parte di lavoro, l’azienda subappaltante se ne va da un’altra parte — sperando di trovare un altro committente.

Modelli organizzativi analoghi si ritrovano nell'industria meccanica, nell’informatica, nell’editoria, nei lavori stradali

come in molti altri settori. Quanto più piccola l'azienda subappaltante, tanto più è probabile che ricorra alla sottofatturazione e all’impiego di lavoro irregolare. Non necessaria15

mente sottopagato: dipende dal livello di qualificazione dei lavoratori richiesti. L'impresa capocommessa può anche non saperne nulla (benché siano rari gli imprenditori così ingenui); ma se tutte le sue subappaltanti lasciassero cadere dall’oggi al domani la loro quota di economia sommersa o informale, l’impresa stessa sarebbe costretta a chiudere in quarantott’ore. Un altro canale di scambio tra i due comparti dell’economia è costituito dalla grande varietà di contratti di lavoro atipici, giusto quelli che la riforma del mercato del lavoro voluta dal governo vorrebbe ancora aumentare a dismisura. Allorché il lavoro diventa per contratto precario, malpagato, imprevedibile, difficilmente conciliabile con la vita familiare, perché mai sostenere anche i costi fiscali e previdenziali di quel contratto? Conviene decisamente farne a meno, pensano in tanti, e passare in tutto o in parte nel rango dei milioni di lavoratori irregolari. Va infine menzionato il fenomeno della competitività tra le aziende ricercata soprattutto nella compressione del costo del lavoro, più che nella produttività o nell’innovazione del prodotto o del servizio. Vi sono, ad esempio, enti locali che

avendo fatto delle gare per servizi di pulizia senza limiti al ribasso, si sono visti offrire detti servizi a 4,50 euro l’ora per ad-

detto. È pensabile che con tale livello di retribuzione qualcuno sia disposto a pagare pure l’imposta sui redditi, i contributi previdenziali, le addizionali regionali e simili? Le imprese contemporanee hanno sviluppato, nel nostro paese come in altri paesi avanzati, un sistema economico che

per sopravvivere ha bisogno come dell’ossigeno d’una grossa quota di economia sommersa, o informale o irregolare che dir si voglia. Per ragioni mille volte ricordate, in via di principio qualche iniziativa per contrastare il sommerso è necessaria. Ma se non si parte dal presupposto che non si tratta d’un altro pianeta, ma piuttosto di un’altra faccia — nemmeno tanto

nascosta — dell'economia che si è deliberatamente mirato a sviluppare negli ultimi lustri, la sua emersione, al netto di 16

quelli che decidono invece di immergersi, come avvenne su larga scala nei primi anni ’90, resterà una chimera. [20/05/2002]

CASSINTEGRATO OFFRESI

Atto primo. Il governo in carica fa approvare nel 2001 una legge per l'emersione dell'economia sommersa, gran parte della quale, si sa, è formata da lavoro nero. Essendo stata re-

datta in modo amatoriale, senza alcuna nozione dei rapporti reali che intercorrono tra economia regolare ed economia sommersa, la legge ha prodotto finora — nonostante tre proroghe — risultati insignificanti. Peraltro le sue intenzioni erano apprezzabili, perché il sommerso, che esiste pure in altri paesi, ha in Italia un peso particolarmente rilevante. Di certo non è l’ultimo dei fattori che ostacolano da noi la messa in opera di politiche efficaci per promuovere la crescita economica e l'occupazione, nonché l’equità fiscale. Atto secondo. Il capo di quello stesso governo all’inizio del 2002 prevede, o lascia intendere, o meglio sotto sotto suggerisce, che i dipendenti Fiat messi di recente in cassa integrazione potranno arrotondare l’assegno che riceveranno dallo Stato — a condizione, precisa, che siano volenterosi — svol-

gendo qualche lavoro «non ufficiale», cioè offrendosi come lavoratori in nero. Sommando tale reddito addizionale all’80 per cento del salario che comunque riceveranno per tutto il periodo della cassa integrazione, non se la passeranno poi troppo male. Prima di cercar di capire come sarà mai possibile cucire insieme i due atti della commedia, va detto che il capo del governo pare male informato circa i meccanismi della Cigs, la Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria, quella che si concede alle aziende per periodi molto lunghi; oppure pensa che siano male informati tutti quelli che lo ascoltano, ergo può raccontare loro qualunque storia. E vero infatti che la 17

Cigs prevede un assegno pari all’80 per cento della retribuzione, ma soltanto per un importo massimo mensile. Per il 2002 questo è fissato in 776,12 euro lordi per chiunque avesse una retribuzione mensile lorda non superiore a 1679,07 euro. Detratta una ritenuta fissa a fini previdenziali, più i normali oneri fiscali, l’importo netto erogato dalla Cigs si riduce a circa 650 euro al mese. Poiché la stragrande maggioranza dei metalmeccanici guadagna tra i 1000 e i 1200 euro netti al mese, ciò comporta una riduzione effettiva del reddito com-

presa tra il 35 e il 50 per cento. Altro che 80 per cento del «normale salario». A meno che, naturalmente, nel cuore della notte — come

ormai si suole — la normativa che regola la cassa integrazione non sia stata radicalmente modificata dalla maggioranza per favorire i lavoratori colpiti dalla crisi Fiat. Se così fosse, sarebbe bene farglielo sapere. Malainformazione a parte, non c'è dubbio che un simile taglio al reddito delle famiglie, in molte regioni italiane, favorirà il ricorso al lavoro nero, irregolare o sommerso che dir si voglia. È qui che si apre l’atto terzo della pièce. Come si comporteranno infatti i funzionari incaricati di verificare nelle aziende se esse occupano lavoratori in nero, in base alla legge sull’emersione del sommerso? Che procedure adotteranno in tali situazioni gli ispettori dell'Inps, i carabinieri, i funzionari del ministero del Lavoro, con tanto di testo della legge sott'occhio? Avverrà infatti, dopo la sortita di ieri, che i lavoratori irregolari si dividerannoin due categorie: quelli che svolgono un lavoro irregolare di testa propria, gli sconsiderati; e quelli che così fanno perché glielo ha suggerito il presidente del Consiglio. Ai primi, e agli imprenditori che li occupano, toccheranno i fulmini della legge. Ai secondi, e ancor più agli imprenditori che con gran piacere li avranno cercati e reclutati, gli addetti alle verifiche nelle aziende sospette potranno, al più, raccomandare di non esagerare. [08/12/2002] 18

TUTTI I NUMERI DEL LAVORO

Qualche giorno fa l'Istat ha reso noti i risultati dell’ultima rilevazione trimestrale del 2002 sulle forze di lavoro, condotta a

ottobre. Il relativo comunicato si colloca alla fine d’un anno in cui il dibattito sul mercato del lavoro è stato particolarmente acceso, per via della delega chiesta dal governo per riformare detta materia, e all’inizio d’un nuovo anno in cui forse lo sarà

ancora di più, a causa sia delle azioni che il governo deciderà una volta ottenuta la delega, sia del peggioramento della situazione occupazionale in settori critici dell'economia. Esso sollecita quindi ad alcune considerazioni sul rapporto tra le politiche del lavoro, e le informazioni sulla quantità e tipologia dell'occupazione di cui governo e parti sociali dispongono al fine di elaborare dette politiche. Pare ovvio che al fine di risultare efficaci queste ultime dovrebbero poter contare su una conoscenza relativamente esatta di quante sono, a un dato momento, le persone oc-

cupate. Almeno quelle che hanno un'occupazione regolare secondo la normativa vigente. Nonostante gli sforzi dell'Istat,

la cui professionalità è da tutti riconosciuta, tale condizione al presente non pare sussistere. Sono gli stessi documenti Istat che inducono a questa ipotesi. Allo scopo di stimare il numero e la condizione lavorativa delle persone occupate l’Istat produce infatti due serie di dati. La prima, più nota, è quella delle predette rilevazioni trimestrali. Esse vengono svolte intervistando ogni volta i componenti di circa 70.000 famiglie in 1400 comuni distribuiti su tutto il territorio nazionale. Tali rilevazioni presentano due limiti. Il primo è di essere campionarie: i dati sono ricavati da circa 200.000 persone, e

sono poi proiettati sull'universo della popolazione italiana mediante elaborati calcoli statistici. Un secondo limite, più serio, sta nella natura dell'intervista. Poiché l'esito dipende unicamente dal buon volere dell’intervistato, questa si limita a domande semplicissime: se ha un’attività lavorativa, anche 19

se non ha lavorato nella settimana di riferimento; se ha effettuato una o più ore di lavoro retribuite nello stesso periodo,

e anche se ha effettuato una o più ore di lavoro non retribuite presso un’impresa familiare. Per la stessa ragione la traccia di intervista evita di porre domande indiscrete, tipo chiedere se l'occupazione dichiarata sia regolare o no. Sia detto che codesti limiti non vanno addebitati all’Istat. Se questo non procedesse per indagini campionarie, non po-

trebbe mai rilevare l'andamento dell’occupazione e della disoccupazione quattro volte l’anno. E se facesse domande più complicate,

o meno discrete, il numero dei non rispondenti

o delle risposte inventate crescerebbe troppo. Sta il fatto che una cifra appuntita come 21.932.000 occupati (dato di ottobre 2002), per di più isolata dai media dal contesto dei documenti originari, finisce per trasmettere agli operatori economici, ai politici, e all’opinione pubblica, un'impressione mal fondata di esattezza. Quasi che gli occupati stessi fossero stati contati uno per uno, o i loro dati provenissero da inconfutabili archivi digitali. Mentre si tratta d’una stima fondata su un campione, per cui potrebbe variare di diverse migliaia di unità in più o in meno. Più ancora, è una cifra che assomma quote ignote di occupati regolari e irregolari, nonché di lavoratori che hanno lavorato occasionalmente un’ora o un giorno nella settimana di riferimento e altri che hanno invece un'occupazione stabile per più ore al giorno. Veniamo ora alla seconda serie di stime dell’occupazione di cui si diceva, quella inserita dall'Istat nelle stime di contabi-

lità nazionale conformi al Sec95 (Sistema Europeo dei Conti nazionali e regionali). In questo caso l’input di lavoro viene stimato non intervistando persone, bensì risalendo a esso a partire dai beni e dai servizi effettivamente prodotti nel paese. Poiché la quantità di lavoro necessaria, per dire, a produrre cento frigoriferi o stampare mille copie d’un libro è nota, sulla base della domanda di lavoro delle imprese, integrata con i dati demografici delle famiglie, l’Istat arriva a stime dettagliate dell'occupazione. La cui quantità e tipologia sono assai di20

verse da quelle ottenute con le rilevazioni trimestrali. Ad esempio nel 2000 le unità di lavoro totali — si noti: unità di lavoro equivalenti a lavori a tempo pieno, non persone fisiche — erano stimate con questo metodo in ben 23.494.000 (comunicato Istat del settembre 2002). Ciò a fronte dei 21.450.000 occupati rilevati mediante intervista e campionamento nell’ottobre 2000. Sono quasi due milioni in più. Se poi ci si riferisce alle posizioni lavorative effettivamente ricoperte, ossia al fatto che molte persone svolgono in via regolare o irregolare più di una attività lavorativa, il totale sale a 29,74 milioni. Inoltre nelle stime di contabilità nazionale

l’Istat perviene a distinguere tra unità di lavoro regolari e irregolari. Le prime erano stimate nel 2000 in 19,45 milioni — due milioni in meno rispetto agli occupati dichiarati dell’ultima rilevazione dell’anno — e le seconde in 3,55 milioni. In

questo modo gli occupati salgono a 23 milioni, uno e mezzo in più di quelli rilevati mediante campionamento sul terreno. Naturalmente, a chiunque è lecito obbiettare che se si cambia il metodo di indagine, questa porta a risultati differenti, pur in presenza del medesimo oggetto o situazione. Nondimeno gli operatori coinvolti nella elaborazione o nella critica di politiche del lavoro, o in trattative a esse connesse, sono in-

teressati in primo luogo a un singolo dato: quanti sono in un certo anno gli individui che hanno un’occupazione in Italia, e quanti erano uno, due o cinque anni prima. E dubbio che sarebbe loro d’aiuto il dire che, a seconda di come si guarda alle cose, gli occupati si possono stimare nello stesso anno in 19,45 milioni, oppure in 21,45, o se si vuole in 23, se non addirittura in 29,7 milioni.

D'altra parte sarebbe del tutto improprio chiedere in merito una soluzione all’Istat, che svolge dignitosamente il suo compito di produttore di stime sull’occupazione nella impervia situazione in cui si trova ad agire. Che è caratterizzata dall’assenza di un Sistema Informativo del Lavoro (Sil) funzionante a livello nazionale, in cui a ogni occupato o disoccupato corrisponda effettivamente una singola scheda e una soltanto, co21

stantemente aggiornata. Come avviene in altri paesi, ad esempio in Francia con l’Anpe (Agence National pour l’Emploi). In effetti il Sil esiste già — sulla carta. Concepito anni addietro, istituito formalmente da un dl di fine ’97, vittima di «cambiamen-

ti di strategia, problemi nel rapporto con gli enti locali, soluzioni inadeguate per quanto riguarda l'acquisizione dall’esterno di prodotti e servizi relativi alle tecnologie dell’intormazione e della comunicazione, continui cambiamenti organizzativi e di strategie politiche» (come dice una recente nota del ministero del Lavoro), il Sil si trova tuttora allo stadio del tavolo da disegno. Prima che decolli, ci vorranno presumibilmente, vista la sua complessità, parecchi altri anni. Ma se gli attori istituzionali delle politiche del lavoro si impegnassero concordemente al fine di tagliare i tempi (sempre che la devolution incombente non complichi anche su questo punto i rapporti tra le Regioni e lo Stato), potrebbe avvicinarsi il momento in cui essi disporranno infine d'un mezzo adeguato per valutare obbiettivamente gli effetti positivi o negativi di dette politiche sullo stato dell'occupazione. Ammesso che tutti gli attori coinvolti lo vogliano. Lasciare che si sappia quali sono gli effetti reali di una data politica del lavoro potrebbe avere conseguenze impreviste, non necessariamente positive per il governo in carica. [29/12/2002]

SOS LAVORO NERO

Tutti i paesi industriali avanzati sono uguali dinanzi al lavoro nero: ne utilizzano molto. L'Italia è un po’ più uguale degli altri: lo utilizza in misura ancora maggiore. Forse non nella misura di 10 punti percentuali in più, in termini di quota del Pil ascrivibile al lavoro nero, che vorrebbe dire oltre il 25 per cento rispetto al 13-17 per cento degli altri paesi, come a volte si legge. Tuttavia le ricerche disponibili convergono nell’assegnare al nostro paese questo poco decoroso primato. 22

Come confermano le indagini compiute nel 2002 dal nucleo carabinieri dell’Ispettorato del Lavoro, il lavoro nero

non ha confini. Seppure con differenze significative, lo si ritrova in ogni regione, in tutti i settori produttivi, in ogni professione, in tutte le fasce di età. È l’unico comparto dell’economia in cui un bimbo di otto anni e una signora di ottanta sono considerati occupabili senza problemi. È un pilastro dell'economia nazionale, giacché l’Istat stima il lavoro nero in

oltre tre milioni e mezzo di unità di lavoro a tempo pieno, equivalente a oltre sette milioni di persone fisiche con un lavoro a tempo parziale. Quali fattori favoriscono la diffusione del lavoro nero?

Perché i provvedimenti finora adottati per far emergere il sommerso han prodotto risultati che sono da considerarsi quasi irrilevanti? La risposta più comune rinvia la genesi del sommerso al peso che sarebbe troppo elevato dei prelievi fiscali e contributivi; alle rigidità del mercato del lavoro che in-

ducono le imprese ad aggirarle; ai costi aggiuntivi degli ambienti di lavoro gravanti sulle imprese che fanno tutto in chiaro. Imprese e lavoratori si troverebbero così d’accordo nel ricorrere al lavoro nero. Sennonché una simile risposta tradisce una cultura imprenditoriale dai tratti paleoindustriali. I grandi imprenditori del passato, come gli imprenditori più moderni del presente (che certo esistono, ma sembrano essere per lo più confluiti in una minoranza silenziosa), sapevano e sanno benissimo che lavoratori ben retribuiti, aventi un lavoro stabile, tu-

telati da un appropriato quadro giuridico, con un orizzonte di garanzie assistenziali e previdenziali, contribuiscono alla creazione collettiva di ricchezza in misura assai più rilevante che non i lavoratori che di tali beni sono del tutto privi. Come accade in generale ai lavoratori in nero. Una risposta meno corriva circa i fattori che incentivano il lavoro nero vede in essi anzitutto un processo strutturale, con-

naturato con l’organizzazione reticolare delle imprese contemporanee. La maggior parte della produzione di beni e ser23

vizi nasce oggi da una lunga catena di appalti e subappalti ad aziende terze, operanti all’esterno ma anche all’interno della prima committente. Al di là del secondo o del terzo anello di subappalto, la pressione sui prezzi della fornitura diventa talmente grande, e la capacità di resistenza di un'azienda così esigua, che il solo modo per sopravvivere consiste sovente nel passare al lavoro nero. In presenza di tale catena la capocommessa non ha praticamente alcuna possibilità — né, va detto, alcun interesse — di controllo circa il rispetto da parte di ciascun subappaltante della normativa sul lavoro. Un secondo fattore che favorisce il lavoro nero è l’ossessione tutta italiana per il costo del lavoro, anche quando esso

incide poco sul costo del prodotto finale. Dato che fanno poca ricerca, poca formazione del personale, e pensano alla innovazione di prodotto soltanto quando le vendite o il titolo in Borsa crollano, invece che nel momento in cui toccano il

picco, le imprese italiane finiscono per cercar di risparmiare fino all’ultimo euro sul costo del lavoro. Il modo più semplice per farlo consiste nello svolgere in nero almeno una parte della propria attività. Infine un peso sempre più rilevante nel favorire il lavoro nero va attribuito alla proliferazione dei contratti di lavoro atipici. Ne conta ormai oltre quaranta, la loro tipologia, con un tratto comune: una individualizzazione esasperata del rapporto di lavoro. A forza di rapporti individualizzati suggeriti proprio dalla legge, persone e imprese finiscono per trovare fuori da essa il più semplice e diretto dei rapporti di lavoro: quello in nero. Ha dunque ragione il capo dei carabinieri del nucleo ispettivo nel vedere in esso «un vero e proprio elemento strutturale dell'economia italiana». È da tale riconoscimento che bisognerebbe partire per affrontare sul serio il problema dell'economia sommersa. Senza farsi venire delle idee strane, cui fan pensare i dubbi espressi recentemente dal presidente del Consiglio sulla grandezza reale del nostro Pil. Quale sarebbe, ad esempio, quella

di rivalutare una seconda volta il Pil (la prima fu nel 1987: +17 24

per cento, volle Craxi), perché esso non terrebbe abbastanza conto del lavoro irregolare. A parte che il Pil viene da alcuni anni stimato con il Sistema Europeo dei Conti nazionali e regionali, il cosiddetto Sec95, che nessun membro della Ue può sognarsi di modificare di propria iniziativa, il lavoro irregolare è già abbondantemente presente nelle stime del Pil. Tanto che il totale delle unità di lavoro stimate dall’Istat in base alla produzione di beni e servizi supera di oltre 2 milioni il totale degli occupati dichiarati, che inoltre non sono tutti a tempo pieno. Piuttosto che aggiustandone le stime, il Pil sarebbe meglio aumentarlo facendo crescere la produzione reale di beni e servizi, puntando magari a diminuire la quota di lavoro irregolare che vi contribuisce. [16/01/2003]

LAVORO IN FRANTUMI - CONFLITTI IN AUMENTO

Lavoro in frantumi (1956) s’intitolava un libro del sociologo francese Georges Friedmann, pubblicato in Italia nel 1960. Il lavoro cui si riferiva Friedmann era quello ripetitivo, spezzettato in mansioni insignificanti, caratteristico dell’organizzazione tayloristica dell’epoca. Fosse ancor vivo, Friedmann ora potrebbe scrivere un nuovo libro dallo stesso titolo, guardando non più ai contenuti del lavoro, bensì ai rapporti tra lavoratori e datori di lavoro, quali sono prefigurati nella legge delega di riforma del mercato del lavoro appena approvata. In realtà le deleghe concesse al governo sono almeno sei, né è dato sapere quali sorprese riserberanno i dispositivi d’attuazione degli interventi sul mercato del lavoro che ognuna di esse prevede. Per ora le caratteristiche più evidenti della legge sono la spinta che essa eserciterà in direzione di una marcata individualizzazione dei rapporti di lavoro, e di un ulteriore ampliamento della già vastissima tipologia dei lavori atipici: quelli che per ora propongono al lavoratore una tren25

tina di tipi differenti di contratto, tranne quello a tempo indeterminato e a orario pieno. Dalla individualizzazione dei rapporti di lavoro, che in questa legge inizia moltiplicando i canali di avviamento al lavoro, potrà trarre qualche vantaggio la minoranza di coloro che sono molto giovani, e in possesso di capacità professionali scarse sul mercato del lavoro. Beninteso, fintanto che sono giovani, e finché dura il momento in cui quelle capacità sono scarse. Ne riceverà invece serio svantaggio la maggioranza di co-

loro che a causa dell’età o della qualifica ordinaria si trovano in condizioni di sostanziale debolezza contrattuale non solo nei confronti della grande impresa, ma anche dell’artigiano, del piccolo imprenditore, del commerciante. Fu per trastormare simile debolezza in una forza relativa che nacque storicamente il sindacato. Il quale da questa legge delega esce, in prospettiva, non poco indebolito. Da un lato, perché organizzare una miriade di lavoratori titolari di contratti individualizzati è molto più arduo che non organizzare una massa di persone che cercano protezione nella stipula di contratti collettivi. Dall’altro, perché la frantumazione dei rapporti di lavoro fa sì che fra la massa dei lavoratori si sviluppino interessi materiali e ideali profondamente divergenti e sovente conflittuali, che sarà sempre più difficile rappresentare su ampia scala al fine di stipulare con la controparte soddisfacenti contratti collettivi. Dalla parte dei lavoratori, è probabile che questa legge contribuisca nel breve periodo ad accrescere la quota dei lavoratori poveri, e, a lungo periodo, quella dei pensionati poveri. I lavoratori poveri sono coloro che pur lavorando una gran parte dell’anno, non guadagnano abbastanza per restare al disopra della linea della povertà. Essi sono in aumento in tutti i paesi avanzati, in forza di processi analoghi a quelli che vediamo attuarsi in Italia: la pressione per il contenimento dei salari, altrimenti l'impresa si trasferisce in Indonesia o in Moldavia, unita alla deregolazione del mercato del lavoro, che sta tramutando l'occupazione di durata indeter26

minata e a orario pieno in un privilegio riservato a una mi-

noranza. Quanto ai pensionati poveri, sono o saranno quelli che,

versando gli scarsi contributi che è possibile versare quando si passa anno dopo anno da un lavoro a termine all’altro, magari con ampi intervalli tra i due, potranno contare su una pensione corrispondente grosso modo al trenta per cento d’uno stipendio medio. Come ha ricordato pochi giorni fa il presidente dell’Inpdap, uno dei maggiori enti previdenziali italiani, sulla base di un ampio studio da esso commissionato. Servisse almeno, il lavoro in frantumi, ad accrescere la

competitività delle imprese. Ma neanche questo risultato è detto sia conseguibile in forza della legge in questione. Chi ha qualche pratica di organizzazione aziendale incontra sempre più spesso tecnici, quadri e dirigenti i quali cominciano a chiedersi se con il mercato del lavoro deregolato, che permette a un’azienda di impiegare al proprio interno anche dieci 0 dodici imprese terze, ciascuna delle quali utilizza lavoratori atipici ricorrendo a dieci o quindici tipi di contratto differenti, non si sia ormai andati al di là. delle buone pratiche organizzative. Con tanta varietà di aziende e di tipi di contratto, accade che il centro di controllo di un’impresa capofila non riesca più a controllare segmenti essenziali del processo produttivo. In tal modo la deregolazione del mercato del lavoro, interna-

lizzata nell’azienda, porta alla sregolazione dell’intera organizzazione.

Da questa legge, ovvero dai suoi provvedimenti attuativi, i lavoratori hanno pertanto parecchio da temere. Forse anche gli imprenditori, prima di rallegrarsi, dovrebbero riflettere su quello che potrebbe succedere nella struttura organizzativa delle loro aziende quando si utilizzassero spensieratamente quote sempre più ampie di lavoro in frantumi. [08/02/2003] 27

ARTICOLO 18, PERCHÉ VOTARE SÌ

Quando perfino ex sindacalisti e docenti di diritto del lavoro che hanno speso la vita per espandere i diritti dei lavoratori invitano a non partecipare al referendum sull’art. 18, chi pensava inizialmente di assumere una posizione diversa — andare a votare sì — non può fare a meno di sentirsi a disagio. Aveva già dovuto prendere atto che il proposito di astenersi al referendum ha ottenuto il consenso della maggioranza dei Ds, della totalità della Margherita, di due importanti sindacati come la Cisl e la Uil, di molti esperti del mercato del lavoro. Si aggiungano le dichiarazioni a favore del no di esponenti della destra diessina e di altre parti del centro-sinistra. Dinanzi a uno schieramento così ampio, le convinzioni di chi guardava al sì sull’art. 18 come un atto magari ingrato ma doveroso non possono che restarne scosse. La rivisitazione di

convinzioni che uno poteva credere prossime al comune sentire di tutti coloro che scorgono nel lavoro un valore centrale del processo democratico, mentre pare si stiano rivelando minoritarie, deve partire da una verifica delle ragioni indicate dai fautori dell’astensione. Di certo esse appaiono fondate. Non c’è dubbio che proporre il referendum sia stato uno sbaglio. Non ci sono nemmeno molti dubbi che tra i suoi proponenti alcuni mirassero, non meno che a estendere lo Statuto dei lavoratori alle microimprese, a crear problemi al sindacato e ai Ds. E anche fuor di discussione che il referendum — continua l'elenco delle ragioni contro — sia idoneo a risolvere alcun problema circa le condizioni di lavoro dei dipendenti delle imprese al di sotto dei sedici addetti. A tale fine sarebbe necessaria una legge apposita, di cui sono state già tracciate linee fondamentali sia nel manifesto programmatico dei Ds dell'aprile 2003, sia nelle proposte della Cgil per estendere diritti e tutele sorrette da cinque milioni di firme. Né si vede come si possa pensare di mettere sullo stesso piano, per cercare poi di proteggerli con il medesimo tetto dell'art. 18 debitamente esteso, l’aziendina di un idraulico 28

che ha due aiutanti e un cantiere navale; lo studio dentistico

con tre dipendenti e un’acciaieria; la fiorista che si fa aiutare da un parente e un’azienda di elettrodomestici. In una microimpresa, è stato giustamente sottolineato, le relazioni sociali particolaristiche che si stabiliscono tra il titolare e i dipendenti non sono assoggettabili alle stesse forme di regolazione dei licenziamenti che lo Statuto dei lavoratori prevede per le imprese medie e grandi. — Purtuttavia, una volta ripercorse le ragioni dell’astensione

dal voto sull’art. 18 e averle trovate ben fondate, quelle tali convinzioni di segno contrario sono ancora riluttanti ad abbandonare il campo. Il fatto è che sia il significato sia le conseguenze delle azioni che uno compie non dipendono solamente da ragionamenti ben costruiti e dai dati su cui si fondano. Ancor più dipendono dal quadro di riferimento in cui quelli si collocano. Nel caso del referendum sull’art. 18, rispetto al momento in cui esso fu promosso, a metà del 2002, il quadro di riferimento è cambiato in modi sufficienti ad attribuire un significato assai diverso a questa consultazione. All’epoca il quesito referendario si poteva ancora esprimere così (semplificando l’illeggibile testo in giuridichese che si troverà stampato sulla scheda): «Volete voi estendere l’applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori alle aziende con meno di 16 dipendenti, dal quale deriva l’obbligo per l'azienda di reintegrare — cioè riassumere — il lavoratore licenziato senza giusta causa, e il divieto di sostituire il reintegro con un risarcimento?». Al presente ciò che compare scrit-

to sulla scheda avrà invece questo esplicito significato: «Volete difendere il diritto del lavoro come strumento di giustizia sociale e di garanzia per il futuro vostro e dei vostri figli?». A modificare in profondità il significato del quesito referendario sono stati, a un tempo, gli atti legislativi degli ultimi mesi e la proliferazione dei lavori precari. La delega al governo in materia di occupazione e mercato del lavoro è diventata legge (n. 30 del 14/2/2003). Essa agevola il trasferimento da un soggetto giuridico a un altro «di imprese, di stabilimenti o 29

di parti di imprese o di stabilimenti», subordinandole unicamente al requisito «dell’autonomia funzionale». Inoltre moltiplica i soggetti pubblici e privati autorizzati a svolgere il ruolo di intermediari per la «somministrazione di manodopera», il che comporta la licenza di affittare lavoratori ad aziende terze non solo come singoli lavoratori, ma anche in gruppo. Nel frattempo procede per la sua strada il disegno di legge n. 848 bis, che delega il governo a sospendere per quattro anni l'art. 18 nelle aziende dove esso è vigente, prevedendo in alternativa alla riassunzione il risarcimento del lavoratore licenziato senza giusta causa.

L’insieme di tali dispositivi permetterà di sopprimere gli etfetti deterrenti dell’art. 18 contro i licenziamenti facili in molteaziende, e di aggirarlo in parecchie altre. Basterà infatti prendere un reparto con sessanta addetti e suddividerlo in quattro aziende con quindici dipendenti ciascuna, dimostrando beninteso che ciascuna di essa è «funzionalmente autonoma». Dopodiché ciascuna approfitterà delle nuove possibilità di affittare lavoro per allargarsi molto al di sopra della soglia dei quindici dipendenti, senza più l’impiccio dell'art. 18. Al progressivo sgretolamento per via normativa dell’art. 18 si è accompagnata, nell’ultimo anno, un’accelerata diffusione dei lavori precari in ogni settore d’attività, inclusa la pubblica amministrazione. Ormai in tutte le regioni italiane a quattro

giovani su cinque non si offrono altro che contratti di breve durata, e non solo al primo impiego; oppure la compartecipazione a cooperative dove è magari stabile il contratto, ma povera la paga. Con la proliferazione oggettiva di tali lavori si è approfondito il senso soggettivo di precarietà, di insicurezza della vita di lavoro che le persone avvertono per sé, i familiari, gli amici, la comunità in cui vivono. Tutto quanto si è richiamato sopra ha modificato il quadro di riferimento in cui si colloca il referendum, facendo ora apparire sfocata o non pertinente buona parte delle ragioni del non voto. Il 15 giugno 2003 non si tratta più di votare solamente per estendere alle imprese non individuali l'obbligo 30

di riassumere un dipendente licenziato senza giusta causa. Votando sì sull’art. 18, elettori ed elettrici esprimeranno in realtà la volontà di tenere in piedi l’edificio complessivo del diritto del lavoro, rendendo quanto meno più difficili le operazioni di smantellamento avviate da governo e Confindustria. Una volta che fosse espressa tale volontà, per restaurare e rendere più funzionale l’edificio alle esigenze attuali non mancheranno gli architetti. Mentre se cadesse l’art. 18 basterebbero le ruspe per portar via le macerie. [18/05/2003]

L'OCCUPAZIONE USA E GETTA

In Italia esistono attualmente una trentina di tipi di contratto di lavoro atipici. Il decreto di attuazione della legge delega in materia di occupazione e mercato del lavoro (la n. 30 del 14/2/2003) ne inventa qualcuno di interamente nuovo; ne complica altri in rilevante misura; infine applica una nuova vernice su alcuni contratti senza che la loro sostanza venga modificata. I risultati prevedibili saranno, per le persone, una maggiore offerta di lavoro tipo usa e getta. Mentre le imprese, gli esperti, gli enti locali, e lo stesso governo, si troveran-

no dinanzi a un mercato del lavoro sempre più incomprensibile e ingovernabile. Tra i nuovi tipi di contratto previsti dal decreto, quello che più si avvicina al prototipo del lavoro usa e getta è sicuramente il lavoro a chiamata. In base a esso un lavoratore garantisce nei confronti del datore di lavoro la propria disponibilità allo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo e intermittente. Se si impegna a rispondere prontamente a ogni e

qualsiasi chiamata, riceverà una «congrua indennità» (e sarà interessante seguire le interpretazioni del significato di «congrua»). Se non ha voglia di rispondere sempre e comunque alla chiamata, niente indennità. In Francia questo tipo di contratto esiste da tempo: viene chiamato «lavoro a squillo». Che 31

ormai è qualcosa di più di una sgradevole metafora. Per mezzo degli sms, in effetti, sarà uno squillo ad avvertire il lavoratore che entro tot ore o tot giorni avrà da lavorare per un certo periodo. Agevolato e complicato al di là di ogni misura dalla nuova legge è soprattutto il lavoro a tempo parziale. A esso sono estese «forme flessibili ed elastiche» di prestazione, anche quando si sia già in presenza di contratti a tempo determinato, e a prescindere dal fatto che il part-time sia orizzontale (quando il soggetto lavora, ad esempio, quattro ore tutti i giorni) oppure verticale (per dire, otto ore al giorno per tre giorni). Con queste complicazioni viene presumibilmente battuto il primato europeo del numero di elementi atipici contenuti all’interno di un singolo contratto di lavoro. Non molto più di una riverniciatura pare infine essere la trasformazione dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa in contratti di lavoro a progetto, i quali dovrebbero assicurare che si tratta realmente di prestazioni autonomamente prestate. Infatti chiunque abbia scorso un contratto di collaborazione coordinata redatto a norma di legge, ha potuto constatare che in esso è sempre chiaramente definito il tipo di opera da realizzare; si precisa che il titolare del contratto non ha alcun vincolo di orario; e si stabilisce — altrimenti che contratto sarebbe? — l'ammontare del compenso. Chiamare ora tutto ciò «lavoro a progetto» ingentilisce opportunamente la denominazione del contratto, ma dove stia la straordinaria innovazione vantata dal governo non è chiaro. Una simile proliferazione di contratti atipici fa compiere un ulteriore passo verso un mercato del lavoro sul quale la merce lavoro viene scambiata in modo il più possibile analogo a qualsiasi altra merce o materia prima, mentre le persone, i soggetti del lavoro scompaiono vieppiù nell'ombra, ciascuno in attesa del prossimo sms da cui saprà se ha, o non ha più, un'occupazione. Al tempo stesso, come si diceva, essa è

destinata a rendere il mercato del lavoro sempre meno com32

prensibile e gestibile, agli occhi degli esperti, delle imprese e dello stesso governo. Vi sono oggi imprese che hanno a che fare, sotto lo stesso tetto, con lavoratori inquadrati da una

dozzina di contratti atipici differenti. Ciò da un lato è fonte di continui conflitti d’ogni genere tra le persone: non c’è nulla di più irritante, in una qualsiasi organizzazione, che vedere o sapere che il mio vicino fa lo stesso lavoro che faccio io, ma guadagna di più, o fa un orario più comodo. Al tempo stesso, la proliferazione dei contratti atipici diventa un rilevante fattore di inefficienza organizzativa perché più nessuno capisce chi fa che cosa, e chi è responsabile di questo o quel segmento del processo produttivo. D'altra parte, che il mercato del lavoro stia diventando incomprensibile lo ha dimostrato lo stesso presidente del Consiglio, quando ha affermato che sono ben 750.000 i nuovi posti di lavoro creati da quando il suo governo è in carica. Per intanto non si vede da dove venga la cifra, poiché i soli dati su cui si può contare per stimare l'occupazione sono quelli delle rilevazioni trimestrali dell’Istat, ed essi sono inferiori al-

la cifra indicata. Ma anche se si prende la cifra per buona, ci si trova comunque dinanzi a un singolare paradosso. L’aumento vantato corrisponde infatti a un aumento del 3,5 per cento degli occupati in due anni, laddove nello stesso periodo il Pil è aumentato di meno dell’1 per cento. Un simile paradosso ha due sole spiegazioni. La prima è che i 750.000 nuovi occupati siano tutti membri di orchestre da camera, o parrucchieri, professioni la cui produttività è notoriamente costante nel tempo. Una spiegazione un po’

più plausibile è che gli occupati siano effettivamente aumentati, mentre le ore lavorate in media da ciascuno sono diminuite. Si sa che questo è un effetto tipico della diffusione dei lavori atipici. Lo stesso volume di lavoro viene distribuito tra un maggior numero di persone, ciascuna delle quali di-

sporrà pure, come conseguenza, d’un minor reddito. Chi l’avrebbe mai detto: guardando dietro ai lavori atipici, si possono cominciare a scorgere alcune cause della contrazione 53

dei consumi, a partire dalla riduzione del reddito pro capite, e dal declino complessivo dell'economia italiana, appesantita dalla stasi della domanda interna. [07/06/2003]

SE PER COMBATTERE LA CRISI SI AUMENTASSERO I SALARI

Intorno al 1915 Henry Ford pagava i suoi operai il doppio rispetto alla media dell'industria americana: 5 dollari al giorno invece di 2,50. Non intendeva far opera di beneficenza. Sapeva, e affermava esplicitamente, che con retribuzioni elevate quei lavoratori avrebbero potuto acquistare le merci che loro stessi producevano — in quel caso, automobili. Le imprese italiane non hanno mai amato molto l'equazione fordista— alti salari uguale alti consumi — e dai primi anni ’90 a 0ggi l'hanno decisamente ripudiata. Adesso scoprono che le famiglie comprano meno auto, meno mobili e meno capi d’abbigliamento, gridano alla crisi, e sollecitano il governo a fare presto qualcosa per superarla. A parte il dettaglio che come guida dell'economia il governo non ha finora dato prova di esistere, le imprese dovrebbero piuttosto riflettere sul contributo che esse stesse hanno dato per generare la crisi economica in atto. A comin-

ciare appunto dalle loro politiche del lavoro e delle retribuzioni. L'esito di queste si compendia, negli ultimi due o tre lustri, in una diminuzione di parecchi punti percentuali del peso dei redditi da lavoro dipendente sul Pil; in una sostanziale stagnazione delle retribuzioni lorde reali; in un forte aumento del numero delle persone in povertà facenti parte di famiglie il cui capofamiglia è occupato come operaio. Quale mezzo per ridurre la domanda interna, e preparare così la crisi attuale, non si poteva concepire nulla di più efficace. Senza voler ignorare, con tale sottolineatura, il peso che hanno avuto e hanno altri fattori interni e internazionali. I metodi utilizzati da centri di ricerca universitari, uffici studi sin-

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dacali e istituzioni quali la Banca d'Italia e il Cnel (Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro) per valutare l’incidenza dei redditi da lavoro dipendente sul Pil sono assai differenti, e

producono cifre diverse. Peraltro essi convergono nel valutare intorno al 6-7 per cento la diminuzione di tale incidenza a partire dagli anni ’90. Se si va più indietro nel tempo il dato peggiora. Ad esempio, secondo il rapporto Cnel 2002 sulla distribuzione del reddito in Europa, la quota dei redditi da lavoro dipendente sul Pil è scesa in Italia, dal 1972 al 2000, di 10

punti esatti, scendendo dal 50,6 al 40,6 per cento. Ciò che indica pure come il tasso annuo di riduzione di tale quota si sia accelerato nella seconda parte del periodo. Esso si potrebbe giustificare solo se nello stesso periodo si fosse verificata una forte espansione della quota di lavoratori autonomi sul totale degli occupati. In realtà tale quota è rimasta la stessa, un po’ meno del 30 per cento sul totale degli occupati. Perciò il minor peso dei redditi da lavoro dipendente sul Pil può essere ricondotto solamente alla stagnazione di questi, a fronte di un aumento dei profitti, delle rendite e dei

redditi da lavoro autonomo. Che i redditi da lavoro dipendente abbiano seguito nell’ultimo decennio una linea quasi piatta, mentre i redditi di altro genere si impennavano, è inoltre confermato dai dati sulle retribuzioni lorde reali (cioè depurate dal tasso di inflazione). Tra il 1991 e il 2001 esse sono cresciute, in totale, solo del 2 per cento. Tale cifra cor-

risponde ad appena un quarto dell'aumento fatto registrare in media in altri paesi Ue quali Francia, Germania e Regno Unito. In altre parole, se un nostro operaio o un’impiegata percepivano dieci anni fa 1000 euro lordi al mese, calcolati in moneta attuale, al presente sono arrivati a guadagnarne — a parte gli aumenti di merito o di anzianità, i premi di pro-

duzione e simili — ben 1020. Con tale cifra, al netto dei prelievi obbligatori, potrebbero andare al cinema un paio di volte in più al mese. In realtà non possono concedersi nemmeno questo lusso, poiché gli enti locali, ai quali il governo in carica ha bloccato i trasferimenti, hanno aumentato in mi35

sura assai maggiore il costo di servizi essenziali quali gli asili nido e le scuole materne, nonché le addizionali Irpef. Oltre che dal livello delle retribuzioni, la compressione dei redditi da lavoro dipendente deriva anche dalla quantità di ore lavorate. Se il salario è basso, e le ore lavorate su base an-

nua sono meno dell’orario pieno, come avviene per le tante occupazioni investite dalla flessibilità, il risultato può essere per il lavoratore o la lavoratrice l'ingresso nello strato sociale dei lavoratori poveri. Così definisce l’Ocse coloro che, pur lavorando in modo continuativo, percepiscono salari al di sotto dei due terzi del valore mediano dei redditi da lavoro dipendente. Essi costituivano il 7-8 per cento dei lavoratori dipendenti alla fine degli anni ’80, ma nel decennio successivo sono saliti sino a sfiorare il 15 per cento (dati Banca d'Italia). In parallelo aumentava la quota di persone che, facendo parte di famiglie dove il capofamiglia è un operaio, si collocano sotto la linea della povertà. Esse costituivano Y11,6 per

cento delle persone povere all’inizio degli anni ’80, mentre risultano superare il 19 per cento alla fine degli anni ’90. L’insieme di questi dati porta a concludere che nella battaglia per ridurre il peso sul Pil e sui bilanci aziendali (quelli veri) dei redditi da lavoro dipendente, le imprese italiane hanno conseguito buoni risultati, assai migliori delle loro consorelle dei maggiori paesi Ue. Però così facendo hanno contemporaneamente strozzato una quota rilevante del mercato interno, dal quale dipende la loro stessa esistenza. Ora che buon numero di esse sono davvero ridotte male, forse sarebbe intempestivo suggerire loro di scegliere la strada più semplice per rilanciare la domanda: procedere a un aumento immediato delle retribuzioni medio-basse. Ma per intanto esse potrebbero provare a chiedere al governo di invertire il segno degli interventi finora compiuti o promessi in tema di mercato del lavoro, di stato sociale e d’imposizione fiscale. Infatti codesti interventi vanno tutti nel senso d’un ulteriore peggioramento della posizione dei redditi da lavoro dipendente nel sistema economico e socia36

le, e con essi del reddito effettivamente disponibile a due terzi delle famiglie italiane. Che poi simili interventi siano stati pretesi negli ultimi anni dalle stesse imprese non ha particolare importanza. La necessità di trovare al più presto vie d'uscita dalla crisi che attanaglia un gran numero di imprese, e tanti cittadini con esse, val bene una contraddizione. [15/08/2003]

UNA VITA PEGGIORE

Con la proposta di sopprimere alcune festività al fine di rilanciare la produzione il presidente del Consiglio dimostra di essere un fine economista; ovvero di essere, in tema di economia,

ben consigliato. Un ponte in meno, ha detto, produce un incremento sensibile sul prodotto nazionale. Non c'è dubbio chele cifre gli diano ragione. Il Pilviene prodotto con poco più di 200 giornate lavorative, corrispondenti a 1620 ore effettivamente lavorate in media per occupato. Una media che combina gli orari più lunghi dell’industria e quelli un po’ più brevi del pubblico impiego, gli impieghi a tempo pieno e quelli a tempo parziale. In una giornata di lavoro si produce dunque un mezzo punto percentuale di Pil. Basterebbe allora sopprimere, per dire, sei giornate festive l’anno per incrementare di colpo la crescita del Pil del 3 per cento annuo. Se ci avessimo soltanto pensato prima, l'economia del paese non si troverebbe nella situazione critica che molti lamentano. O forse no. Perché nel ragionamento che suggerisce di lavorare di più per arricchirsi tutti c'è una piccola crepa. Esso implica infatti che l’intera produzione addizionale di beni e servizi eventualmente ottenuta con alcune giornate lavorative in più sia interamente venduta. Il che non sembra davvero realistico. Moltissime imprese faticano oggi a vendere le quantità di beni che producono con le giornate di lavoro attualmente effettuate. Sta qui la radice della crisi che le minaccia. In molti settori industriali esiste un eccesso di capacità produttiva: le 37

aziende potrebbero produrre cento, ma dato che riescono sì e no a vendere settanta, soltanto questo producono. E proprio per tale motivo che hanno chiesto, e prontamente ottenuto dal governo con la legge 30 e il relativo decreto attuativo del settembre 2003, nuovi tipi di contratto che permettono di occupare forza lavoro in maniera discontinua, come il lavoro in affitto (detto anche, pudicamente, «in somministrazione») e il lavoro intermittente. In modo da adattare l'occupazione in azienda all'andamento del proprio mercato. A fronte di queste situazioni, l'aggiunta di alcuni giorni lavorativi al calendario annuo genererebbe presumibilmente più disoccupazione, e più precarietà. D'altra parte la discussione sulla necessità di provare ad accrescere l'occupazione non già aumentando, bensì diminuendo gli orari di lavoro, va avanti da decenni in tutti i paesi europei, dal Portogallo alla Finlandia, dall’Irlanda alla Grecia. Da essa sono scaturiti con-

tratti collettivi e interventi legislativi che hanno portato a ridurre le ore annue effettivamente lavorate pro capite dalle 1800-2000 del 1970 alle 1330-1700 di inizio del XXI secolo, con un parallelo e sostanziale incremento di produttività. Il limite inferiore, nel suaccennato rango delle ore lavorate pro capite nel 2001, è segnato dall'Olanda, a causa della grande diffusione in tale paese del tempo parziale; mentre quello superiore tocca al Regno Unito. Con le sue 1620 ore l’anno l’Italia supera di circa 50 ore la Francia — nonostante le riduzioni d’orario realizzate in essa con la legge sulle 35 ore, che ha avuto effetti positivi sull'occupazione —, di 100 ore il Belgio, di 170 ore la Germania. Non siamo insomma i più

pigri tra gli europei. Ancora, è la riduzione degli orari di lavoro, non già il loro aumento, che ha permesso di superare crisi aziendali gravissime, come quella della Volkswagen alcuni anni fa. Per tacere di altri dati che possono lasciare indifferenti i fini economisti, ma ai quali i milioni di persone che svolgono altri ordinari mestieri attribuiscono una certa importanza. Nel 1970, quando in Italia si lavorava 1900 ore l’anno, si vi38

veva quasi dieci anni di meno. Più precisamente, l’età mediana dei morti era inferiore a quella odierna di circa dieci anni. Altri fattori hanno sicuramente contribuito a questo straordinario risultato, in primo luogo il sistema sanitario nazionale. Ma un fattore determinante sono stati l'aumento delle giornate di vacanza, degli svaghi, del riposo, delle cure per la persona, delle attività culturali, delle relazioni sociali, del

tempo dedicato ai figli. Il tutto reso possibile dalla riduzione di oltre 250 ore dell’orario annuo di lavoro. Proporre oggi di ricominciare a lavorare di più, significa quindi prospettare la possibilità — quali che siano le buone intenzioni del proponente — di ricominciare a vivere peggio, e forse anche meno a lungo. È possibile che il presidente del Consiglio, buttando lì l’idea di lavorare qualche giorno in più l’anno, avesse in mente il caso di qualche altro paese. Ad esempio, il caso della Corea del Sud, dove si lavora tuttora 2500 ore l’anno. Ma non sembra questo un paese adatto da prendere a modello per l’Italia, quando si pensi alle condizioni di lavoro, di ambiente, di tutele legislative, di rappresentanza sindacale in esso predominanti. O forse pensava agli Stati Uniti, dove in effetti le ore an-

nue realmente lavorate superano le 1800, con un considerevole aumento rispetto a un decennio fa. Ma gli americani non lavorano di più per amore del Pil. Lo fanno perché vi sono costretti dai bassi salari. In Usa il salario medio dei lavoratori dipendenti, al di sotto del livello di quadro o capo intermedio, è infatti tuttora inferiore, in termini reali, a quello del

1973, dopo una forte discesa durata quasi vent'anni, e un parziale recupero da metà degli anni ’90. Il salario basso obbliga a fare gli straordinari, a cercarsi due lavori, a lavorare in due

in famiglia anche se l’onere per essa è grave. Spinge anche, ovviamente, a fare meno giorni di vacanza e di riposo. Nem-

meno questo modello di lavoro e di vita sembra, in verità, particolarmente attraente. [29/03/2004] 39

IL LAVORO ATIPICO CHE FA MALE ALLE AZIENDE

Quarantotto. È una cifra che il neo presidente della Confindustria Luca Cordero di Montezemolo potrebbe trovar utile inserire tra i temi da discutere da un lato con le imprese, dall’altro con i sindacati. Quarantotto è il numero delle differenti modalità di lavoro atipico che l'Istat ha individuato nel nuovo quadro regolamentare emerso con l'approvazione della legge n. 30/2003 e del suo decreto attuativo n. 276. Ne parla il recente rapporto annuale sulla situazione del paese. Detto numero vien fuori combinando la maggiore o minore stabilità del contratto, la durata dell’orario di lavoro, la pre-

senza di diritti sociali pieni o ridotti. Dinanzi a una simile proliferazione dei lavori atipici sarebbe agevole riprendere le valutazioni negative che chi considera il lavoro un mezzo insostituibile di crescita professionale e civile, e di solidarietà collettiva per riequilibrare in

qualche misura il rapporto di forza altrimenti impari tra il lavoratore e l’impresa, da tempo avanza nei loro confronti. La precarietà del lavoro che diventa precarietà dell’esistenza. L’elevato rischio di entrare nel rango dei lavoratori e dei pensionati poveri. La individualizzazione dei rapporti di lavoro che rende ardua la rappresentanza sindacale; dopodiché si accusano i sindacati di non essere abbastanza rappresentativi del mondo dei nuovi lavori. Al momento, non v'è alcuna ragione oggettiva per affermare che il presidente della Confindustria debba essere particolarmente sensibile a siffatte valutazioni — anche se è dato supporre che Montezemolo lo sia in maggior misura del suo predecessore D'Amato. V'è però un fatto che può interessare il vertice di tale ente: un numero crescente di imprenditori e dirigenti cominciano a nutrire seri dubbi sulla razionalità economica e organizzativa della presenza in azienda di lavoratori e lavoratrici inquadrati da dozzine di rapporti di lavoro differenti, tutti diversi dal normale rapporto di durata indeterminata e orario pieno. 40

Alcuni imprenditori e dirigenti hanno preso a fare i conti per stabilire se e in qual misura convenga utilizzare contratti di lavoro atipici — sinonimo di occupazione flessibile o precaria. Scoprendo, ad esempio, che il ricorso al lavoro in affit-

to esteso a gruppi di lavoratori di qualsiasi dimensione, quello che il decreto attuativo della legge 30 chiama, con un termine dal vago sentore medico, «somministrazione di lavoro», può venire a costare assai caro. Infatti la fattura che l’impresa di somministrazione, dalla quale i lavoratori da affittare dipendono, presenterà all'impresa utilizzatrice sarà composta, salvo errore, dalle seguenti voci, siano esse esplicite o implicite: il costo dei lavoratori affittati, comprensivi degli oneri contributivi, previdenziali, assicurativi e assistenziali; il recu-

pero del costo della indennità di disponibilità che l’impresa somministratrice deve pagare ai dipendenti nei periodi in cui questi non sono impiegati presso un utilizzatore, stabilita dal ministero del Lavoro in 350 euro mensili, più i relativi oneri contributivi; il recupero del contributo del 4 per cento che detta impresa deve versare a un fondo bilaterale costituito tra le imprese di somministrazione di lavoro, destinato a misure di integrazione del reddito dei lavoratori; il recupero delle spese di gestione dell’impresa; più, ovviamente, un equo profitto sul capitale impegnato. Dall’insieme di queste voci si ricava che una fattura emessa dall'impresa somministratrice di lavoro a carico dell’impresa utilizzatrice potrebbe costare a quest’ultima, per ogni giornata o mese di lavoro/persona, in totale, tra il 50 e il 100

per cento in più del normale costo del lavoro. Ma ciò che comincia a preoccupare imprenditori e dirigenti non è soltanto la questione dei costi del lavoro atipico. V'è il rischio del caos organizzativo e gestionale che tende a nascere dalla compresenza nello stesso spazio lavorativo, sia quello d’una fabbrica o d’un palazzo uffici, di lavoratori inquadrati da dozzine di contratti di lavoro differenti. L’obiezione per cui un’azienda resta libera di scegliere d’impiegare lavoratori con un unico contratto non regge di-

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nanzi alla realtà dell’organizzazione contemporanea della produzione di beni e servizi. Per la maggior parte le imprese hanno realizzato una complessa divisione del lavoro che vede le loro attività produttive affidate per una quota rilevante ad aziende esterne, e per una quota parimenti rilevante ad aziende — i cosiddetti terzisti - che entrano all’interno dei suoi impianti e uffici per lavorare a fianco dei dipendenti dell'impresa motrice. Tra aziende esterne, terzisti operanti all’interno, e dipendenti diretti dell'impresa stessa, a fronte di una normativa che permette e incentiva quarantotto modalità di rapporto di lavoro differenti, è molto probabile che le modalità contrattuali compresenti entro lo stesso spazio, allo stesso momento, siano dozzine.

Da qui nasce un incubo per i direttori di produzione, i gestori del personale (o delle «risorse umane», come si dice 0ggi con un'espressione che Kant non approverebbe), i quadri. Aver a che fare con centinaia di persone che oltre a far capo a decine di aziende diverse sono anche titolari di dozzine di contratti di lavoro differenti, significa infatti aver a che fare con un'infinita varietà di interessi e di atteggiamenti, con conflitti interpersonali e intergruppo, con processi legati all’ininterrotto confronto tra il proprio trattamento retributivo e normativo e quello del vicino. In tale situazione, governare l’organizzazione d’impresa e i processi produttivi diventa un impegno che perfino Sisifo rifiuterebbe, trovando preferibile ilsuo. E risaputo che il proliferare del lavoro precario ha effetti negativi sulla qualità della vita. Nuoce pure alla salute: centinaia di medici e di operatori sociali se ne stanno occupando in varie città italiane. Se poi si scopre che nuoce anche alle aziende, si può intravedere un interessante tavolo di discussione e contrattazione tra i nuovi vertici di Confindustria, le

imprese e i sindacati. [05/06/2004]

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LAVORO, PROFITTI E PRODUTTIVITÀ

Ha ragione il vicepresidente degli industriali Alberto Bombassei quando lega la possibilità di aumentare i salari all’incremento della produttività del lavoro. In pratica sembra una strada obbligata. In verità un’altra strada ci sarebbe: modificare il rapporto tra il volume dei profitti e il monte salari, visto che negli ultimi lustri esso è peggiorato a danno del secondo. Ma questo è un problema da politica nazionale, che non si può onestamente chiedere alla Confindustria di risolvere in sede di trattative sindacali. In tale sede, invece, l’importante è intender-

si sul significato che si vuol dare all’espressione «produttività del lavoro». I manuali dicono che essa è il rapporto tra il volume della produzione, o meglio tra il valore che in essa viene aggiunto ai beni materiali o immateriali su cui si lavora, e la quantità di lavoro impiegata. Se il lavoratore A produce un valore aggiunto pari a 100 per ora lavorata, mentre B produce 120, si può affermare che la produttività di B è più elevata del 20 per cento. Tuttavia, affermando quanto sopra, si possono anche commettere una serie di errori di valutazione. È infatti possibile che B produca più valore di A per motivi assai differenti: perché lavora più svelto, o dispone di mezzi di produzione più moderni, o ha una migliore formazione professionale; 0, an-

cora, perché il prodotto su cui lavora è qualitativamente più ricco. Infine perché la triplice catena dei fornitori, delle aziende cui la sua impresa ha esternalizzato attività e servizi non pri-

mari, e di quelle cui ha affidato al proprio interno segmenti primari dell’attività produttiva, è in complesso più efficiente di quella in cui capita d’esser collocato il lavoratore A. Dalle varietà delle cause che concorrono alla produttività del lavoro ne deriva che chiedere al lavoratore A di aumentare la sua per portarla al livello di B è una richiesta tutta da definire. Alcuni aspetti di essa, inoltre, non solo vanno molto al di là della disponibilità di A; vanno anche oltre le possi43

bilità di azione e di contrattazione dei sindacati. Questi ultimi saranno certo orientati a rifiutare l’ipotesi di accelerare i ritmi di lavoro, perché essi sono già al presente troppo eleva-

ti. Per contro possono chiedere alle imprese maggiori investimenti nella formazione, o il rinnovo di mezzi di produzione obsoleti. E per aumentare il contenuto in valore del prodotto possono chiedere maggiore impegno nella Ricerca & Sviluppo. Un campo in cui sono gli industriali a poter far di più per aumentare la produttività dei loro dipendenti, mentre il sindacato non può fare granché, se non in linea generale, è l’organizzazione della triplice catena menzionata sopra: fornito-

ri, aziende operanti all’esterno dell’impresa e aziende chiamate a operare al suo interno. Più che una catena, una rete ben più ampia e complessa della cosiddetta «filiera» (dell’auto, del tessile, degli elettrodomestici ecc.), la quale comprende in pratica solo i fornitori, i fornitori dei fornitori, e via di seguito. Tale rete dai molteplici soggetti ha una forte componente territoriale (un aspetto che Bombassei pare sottovalutare), e presenta in Italia delle componenti strutturali di grande debolezza. Il nostro paese va fiero dei suoi distretti industriali, ma il loro livello di strutturazione come veri e propri «poli di competenza», nei quali si ritrovino strettamente integrati ricerca e sviluppo, formazione, grandi e piccole imprese, attività produttive e servizi alle imprese, appare tuttora embrionale. A paragone, ad esempio, della vicina Francia. Che la Confindustria abbia finalmente riconosciuto la necessità di aumentare i salari è un passo positivo per i lavoratori. Altri ne potranno seguire quando si scenderà nei dettagli della contrattazione sui molteplici aspetti della produttività del lavoro. Cominciando con lo stabilire che aumentarla non può voler dire soltanto chiedere ai dipendenti di correre di più, lavorando. [29/08/2004]

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IL REALISMO HA SCONFITTO L’IDEOLOGIA: TRE ANNI PERSI SU UN FALSO PROBLEMA

Trapela dal direttivo della Confindustria, riunito un giorno d’autunno del 2004 per preparare l’audizione sul disegno di legge delega 848 bis in materia di occupazione e mercato del lavoro, che un accantonamento delle modifiche all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, previste dal ddl, non la trovereb-

be contraria. Pare che Cisl e Uil, firmatarie nel luglio 2002 di un protocollo trilaterale con il governo e le associazioni imprenditoriali che recepiva integralmente (in allegato) tali modifiche, non solleverebbero obiezioni.

Proviamo allora a riepilogare. Nel novembre 2001 il governo presentava al Parlamento una proposta di delega sul mercato del lavoro, accompagnata da una dettagliata relazione. L’art. 10 della proposta conteneva la delega al governo per introdurre «in via sperimentale» una modifica dell’art. 18 della legge 300 del 1970, appunto il suddetto Statuto. Essa consisteva nella sostituzione di un risarcimento monetario

all’obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente licenziato senza giusta causa. Tale modifica era stata fortemente richiesta della Confindustria, secondo la quale l’art. 18 avrebbe costituito un freno allo sviluppo del paese, perché impediva alle imprese di superare il limite dei 15 dipendenti, oltre il quale si applica lo Statuto. A Cisl e Uil era sembrato un pedaggio inevitabile da pagare, firmando il protocollo detto anche «Patto per l’Italia», alle esigenze di flessibilità del lavoro imposte dalla globalizzazione. Restava decisamente contraria la Cgil e, si sarebbe detto dalle vastissime manifestazioni che si svolsero sino alla primavera del 2003, anche una larga parte dei lavoratori. A fronte del clamore suscitato, pure al di fuori degli ambienti sindacali e in una parte rilevante dell’opposizione, da tale attacco a un elemento centrale dello Statuto dei lavoratori, l’ar-

ticolo così congegnato veniva stralciato dal governo da quella che sarebbe diventata la legge 30 del febbraio 2003, e i suoi 45

contenuti riversati nell’art. 3 di un nuovo disegno di legge, appunto il numero 848 bis, tuttora in attesa di approvazione. Se ora la Confindustria confermerà che il suo interesse per la questione è ormai scemato, e lo stesso faranno Cisl e Uil, le modifiche all’art. 18 saranno molto probabilmente stralciate anche dall’848 bis. Forse per essere definitivamente accantonate, oppure per confluire in un 848 tris o quater. Ove si pon-

ga mente alle energie spese da una parte per modificare l'art. 18- in realtà per avviarne la soppressione — dall’altra per difenderlo; alle assemblee e ai cortei che hanno complessivamente visto la partecipazione di milioni di persone; alle tormentose vicende del referendum indetto per mettere in salvo l’art. 18, andato fallito per mancanza del quorum, ma al quale votarono «sì» dieci milioni e mezzo di cittadini, e al fiume di articoli tra il veemente e il dotto pubblicati sul tema, si resta stralunati dinanzi al costo sociale e umano che l’intera vicenda ha accollato al paese. Per arrivare a concludere, tre anni dopo, che l’art. 18 non è poi così importante, e che se qualcuno insiste proprio per tenerlo in vita non è il caso di prendersela. Sarebbe però un errore mettere da parte la questione solo con il rimpianto per il tempo perduto in un conflitto attorno ad aspetti marginali del lavoro e dell’impresa, una quisquilia rispetto ai grandi temi dello sviluppo e delle riforme. In primo luogo perché essa ha dimostrato che la realtà è più forte dell'ideologia, perfino di quella d’un governo di destra che al di fuori del suo cerchio di gesso, del suo privato «gioco del mondo», non sembra scorgere nessun elemento tangibile. La realtà dice che le imprese sapevano e sanno benissimo che cosa bisogna fare per diventare più grandi, e che non è la presenza dell’art. 18 a impedirglielo, così come non sarebbe la sua soppressione a facilitarle a tal fine. Diversamente dai suoi precedenti organi di governo, la Confindustria attuale sembra essersene resa conto, e aver quindi deciso di riporre nell’armadio degli oggetti dismessi la bandiera che tre anni addietro fu levata animosamente per sconfiggere lo Statuto dei lavoratori. 46

Ma un motivo forse più valido per non rimpiangere il tempo così perduto è la dimostrazione che a volte difendere i principi paga. Nel supponente tribunale della razionalità economica la difesa dell’art. 18 aveva tutto contro. Si affermava a ogni momento che esso interessava, in concreto, pochissi-

me persone. Veniva etichettato come un reperto polveroso della storia delle relazioni industriali. Perfino quelli che si impuntavano a suo favore stentavano a trovare buone ragioni per farlo. Sembra che oggi almeno una l'abbiano trovata. Si può anche ammettere che l’art. 18 non sia nulla più di un tassello di quel variegato mosaico di diritti che faticosamente cerca di rappresentare la dignità delle persone, sul lavoro e fuori. Però, se quel tassello fosse stato eliminato, l’intero mo-

saico avrebbe cominciato a disgregarsi. [14/10/2004]

NUOVO LAVORO, PROBLEMI DI SEMPRE

È presto per dire quale sarà l’effetto sul mercato del lavoro dell’introduzione del lavoro a progetto, definito dal decreto attuativo della legge 30/2003. Il termine che esso prevede per la trasformazione delle collaborazioni coordinate e continuative preesistenti in un contratto di lavoro a progetto, oppure in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, scade solo in questi giorni, a un anno esatto di distanza dalla sua emanazione. Ulteriori dilazioni sono possibili nell’ambito di accordi sindacali stipulati in sede aziendale. Di conseguenza il numero di contratti riferiti alla nuova tipologia è per ora limitato, e le rilevazioni finora compiute non molto indicative. Quanto si può invece cominciare a dire è che a mano a mano che si approfondiscono le questioni relative al suo inserimento nelle organizzazioni aziendali, il lavoro a progetto appare assai meno innovativo di come viene presentato. In pri-

mo luogo va ricordato che tale tipologia contrattuale non è applicabile per le pubbliche amministrazioni. Ciò significa

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escludere a priori almeno mezzo milione di persone dai benefici veri o presunti del contratto a progetto, equivalente alla metà se non più dei titolari di contratti di collaborazione occupati in reali attività produttive. Premute dalle ristrettezze di bilancio e dal blocco dei concorsi, le pubbliche amministrazioni utilizzano infatti largamente, da anni, i co.co.co. Per far fronte alle carenze di or-

ganico. In esse si sono così moltiplicati tecnici e impiegate, professoresse e funzionari assunti con contratti di collaborazione da uno a tre anni. Molti di loro svolgono in effetti un’attività da lavoratore dipendente. Per questo motivo potrebbero trarre vantaggio dal disposto dell’art. 69 del decreto attuativo, secondo il quale, se nei rapporti di co.co.co. non si individua uno specifico progetto, esso viene trasformato in un rapporto da lavoratore dipendente a tempo indeterminato. Perciò la loro esclusione dal campo di applicazione della legge 30 contrasta palesemente con uno degli scopi di questa più spesso reclamizzato: combattere la diffusione dei lavori che sono di fatto di tipo subordinato, ma sono stati finora camuffati con contratti da lavoratore autonomo. I veri punti dolenti del lavoro a progetto sono però altri. Esso dovrebbe essere riconducibile a «uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente» (art. 61 del decreto attuativo). Un primo inconveniente è che, dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro in azienda, la triade progetto-programma-fase vuol dire tutto e niente. Costruire la linea ferroviaria ad alta velocità Milano-Roma è sicuramente un progetto, che dura dieci anni e coinvolge migliaia di persone. Ma anche realizzare il sito Web di una piccola azienda è a suo modo un progetto, il quale si conclude in una settimana. Occorre dunque chiedersi se i due o tremila lavoratori addetti per un decennio alla linea Tav e l’informatico a settimana potranno pretendere tutti lo stesso tipo di contratto. Quanto al significato di «fase di lavoro», è lecito supporre che preparare una sezione di voci disciplinari d’un grande di48

zionario enciclopedico — un lavoro da titani — sia una fase della sua produzione. Peraltro da quando esiste l’industria l’espressione «fase di lavoro» significa anche montare in un minuto 0 due lo sportello d’una lavatrice, o il cruscotto di un’automobile, o magari — come illustrò Adam Smith oltre duecento anni fa — fare la punta a uno spillo. Stando alla formulazione del decreto in parola, tutte le fasi sopra indicate, dallo sterminato all’insignificante, potrebbero essere alla base di un contratto a progetto. Senza contare che l’espressione in parola non definisce di per sé, magicamente, un lavoro autonomo. Esiste infatti da decenni un metodo di gestione che si chiama «direzione per progetti». È l’arte di dirigere e coordinare risorse umane e materiali per raggiungere obbiettivi prestabiliti entro dati limiti di tempo, bilancio e qualità del risultato. È anche la definizione di un tipo di lavoro in cui tutti coloro che vi partecipano, dirigenti, quadri, tecnici e operai, sono dei lavoratori dipendenti. Il nuovissimo lavoro a progetto potrebbe dunque rientrare, a seconda di come lo si interpreta, in una tipologia di lavoro dipendente di cui si discuteva già negli anni ’60 del secolo scorso. Imprenditori e giudici del lavoro avranno il loro daffare. [25/10/2004]

LE DONNE PRECARIE

È noto da anni che i lavori precari ricadono soprattutto sulle donne. Tempo determinato, co.co.co., stages, part-time forzato (che la persona accetta perché non trova un tempo pieno), lavoro intermittente e simili: in complesso circa due ter-

zi dei lavori che prevedono un’occupazione e un reddito discontinui sono svolti da donne. Un recente decreto interministeriale accentua tale forma di discriminazione a loro danno. Esso prevede infatti che in tutte e venti le regioni italiane, non solo in quelle meno sviluppate, si possano offrire dei contratti di lavoro di durata compresa tra i 9 e i 18 mesi, non 49

rinnovabili, unicamente alle donne di qualsiasi età. A tutte le donne, si noti, per il mero fatto di appartenere a codesto genere. Viene così offerta a qualunque datore di lavoro, in caso

ve ne fosse bisogno, un’altra possibilità di proporre contratti di breve durata alle centinaia di migliaia di donne che ogni anno sono in cerca di occupazione. Quelle che si affacciano per la prima volta sul mercato del lavoro, come quelle che sono state licenziate o che vorrebbero cambiare posto. I passi compiuti dal legislatore per arrivare a peggiorare in tal modo le prospettive lavorative delle donne, quali che fossero le sue intenzioni, sono due. Primo passo: l'art. 54 del de-

creto legislativo n. 276, emanato nel settembre 2003 per dare attuazione alla legge 30 di riforma del mercato del lavoro, prevede un contratto definito «di inserimento». Questo tipo di contratto è un erede dei vecchi contratti di formazione e lavoro, diretto a realizzare l'inserimento d’un lavoratore nel

mercato del lavoro mediante un progetto individuale di adattamento delle sue competenze professionali. Il decreto precisa che esso è riservato ad alcune categorie di persone. Tra di esse figurano le donne di qualsiasi età residenti in un’area geografica in cui il tasso di occupazione femminile sia inferiore almeno del 20 per cento a quello maschile. Le aree in cui codesto tasso sussiste dovevano essere individuate in un altro decreto del ministro del Lavoro di concerto con il ministro dell'Economia. Si poteva pensare che le suddette aree sarebbero state identificate quasi esclusivamente nel Mezzogiorno, dove è pure possibile erogare incentivi economici alle imprese come previsto dalla Commissione Europea. È qui che interviene il secondo passo. Il ministero del Lavoro ha infatti scoperto ora, a distanza di un anno, un dato noto in realtà da decenni: il tasso di occupazione femminile è inferiore a quello maschile di almeno 20 punti in tutte indistintamente le regioni italiane.

Magari di pochi decimi di punto, come in Friuli-Venezia Giulia, dove lo scarto è di appena lo 0,1 per cento (51,7 per le femmine, 71,8 per i maschi), o in Piemonte, dove tocca lo 0,3 per 50

cento (51,6 contro il 71,9). Ma è comunque inferiore di al-

meno 20 punti. Lo dicono le rilevazioni Istat. Lo sottolinea la relazione tecnica che accompagna il decreto ministeriale, con tanto di tabella che calcola le aree secondo quanto previsto dal precedente decreto legge attuativo della riforma. Sulla base di tale tabella il ministro del Lavoro, di concerto con il mi-

nistro dell'Economia, ha quindi decretato che «le aree territoriali di cui all’art. 54 del dl 276/2003. sono identificate per gli anni 2004, 2005 e 2006 in tutte le Regioni e Province autonome». Decreto e relazione tecnica si possono leggere nel

sito del ministero. Il nuovo decreto ministeriale stabilisce che gli incentivi economici alle imprese previsti dalla legge del 2003 per i contratti di inserimento di lavoratrici si applicano solamente alle regioni del Mezzogiorno e delle Isole, più il Lazio. Ma non esclude l’estensione a tutte le regioni di un altro dispositivo di sicuro interesse per le imprese. Si tratta della possibilità di inquadrare chi venga assunto con un contratto d’inserimento anche due livelli al disotto della categoria che spetta alle mansioni corrispondenti a quelle cui è finalizzato il progetto di inserimento. Tramite questa via, alle donne di qualsiasi età,

che al momento significa un’età legalmente compresa tra i 15 e i 64 anni, si aprono opportunità invero straordinarie di oc-

cupazione in tutte le regioni italiane. Per il mero fatto di essere donne, esse possono ora venire assunte dovunque con contratti di inserimento della durata massima di 18 mesi, ed

essere inquadrate sotto il profilo professionale e retributivo appena due categorie più in basso di coloro che nell’ufficio o nel reparto di fianco fanno il loro stesso lavoro. Le impari opportunità sono così assicurate.

L’obiezione più trita che si possa fare ai suddetti rilievi è che il decreto ministeriale prefigura soltanto una possibilità, senza imporre nulla. In primo luogo va sottolineato che è l'occasione a rendere il lavoro precario. Si offra per legge agli enti pubblici economici, alle imprese e loro consorzi 0 gruppi, agli enti di ricerca pubblici e privati, come elenca punti31

gliosamente il decreto legislativo del 2003, l’occasione di stipulare in 20 regioni dei contratti aventi le caratteristiche sopra indicate, ed essi, anche per le difficoltà che molti attraversano, non mancheranno di approfittarne, a fronte della vastissima platea di donne che sono alla ricerca assillante di un lavoro. Ma soprattutto l’obiezione suddetta ignora l'offesa insita nell’etichettare l’intero universo femminile come uno strato sociale assoggettabile, per legge, a ulteriori discriminazioni sul mercato del lavoro. [8/12/2004]

L'industria in declino e il caso Fiat

L’EFFETTO DOMINO DELLA CRISI FIAT

Il nuovo piano di risanamento della Fiat inizia, usando quale anticamera la mobilità lunga, con 3000 prepensionamenti (si suppone in risposta alle pressanti richieste confindustriali di innalzamento dell’età pensionabile) e con 10.000 lavoratori in cassa integrazione. Poi si vedrà. Tutti si augurano naturalmente che Fiat Auto abbia successo nel suo programma di rilancio. Il quale in ogni caso non arriverà domani. Ma se anche questo domani fosse positivo per l’azienda torinese, forse converrebbe cominciare a prendere coscienza, al di là di esso, di vari processi legati alla vicenda Fiat che paiono ormai difficilmente reversibili. Un primo dato da considerare è che, comunque vadano le cose, i lavoratori addetti alla produzione di autoveicoli in Italia continueranno a diminuire. La produttività negli stabilimenti Fiat si aggira ormai su 75-80 vetture l’anno per addetto diretto. Ciò significa che per produrre un milione di vetture l’anno sono sufficienti circa 14.000 lavoratori sulle linee, oltre naturalmente a un numero superiore, ma non di molto, di indiretti, di impiegati e simili.

Ma la Fiat non produrrà mai più, in futuro, un milione di autoveicoli in Italia, perché la maggior parte della sua produzione si sta da tempo spostando all’estero. Non solo. E noto che tra due terzi e quattro quinti delle auto Fiat non sono più prodotti da dipendenti dell’azienda, secondo un modello organizzativo comune a tutta l'industria automobilistica. Molte lavorazioni, all’interno degli stessi stabilimenti Fiat, dalla la55

stratura alla verniciatura, sono affidate ad aziende terze. E la

maggior parte, in valore, delle parti che formano un'auto provengono dalle fabbriche della componentistica, di cui l’azienda torinese assorbe il 60 per cento del fatturato. In sintesi, per ogni posto di lavoro che scompare tra i dipendenti della Fiat Auto, potrebbe scomparirne almeno uno nelle aziende terze, e almeno due tra i produttori di componenti. Dunque una previsione non azzardata dice che se alla Fiat si dovessero perdere nel prossimo anno o due altri 10.000 posti di lavoro — foss’anche, si badi, non per effetto della crisi, ma bensì delle operazioni di risanamento e di aumento del-

la produttività che per ottenere il risanamento sarà imposto anche alle aziende terze e alle imprese della componentistica — altri 30.000 potrebbero seguirli in questi altri settori. Per il momento si può considerarlo solo un rischio; ma quando i rischi sono grandi, anziché gridare al pessimismo di chi li richiama, bisognerebbe pensare per tempo a costruire validi sistemi di sicurezza. Pur con la speranza di non doverli usare mai.

In una prospettiva più ampia, le vicende della Fiat Auto, ultimo gigante italiano dell'industria manifatturiera, possono esser viste come un aspetto del declino nei paesi sviluppati del lavoro fatto principalmente con le braccia e le mani, poiché questo appunto significa «manifattura». Vari fattori hanno concorso a tale declino. Anzitutto, si sa, nei paesi in via di

sviluppo il costo del lavoro è assai minore. L'industria europea si sposta quindi in Turchia, in Polonia, nel Sudest asiatico; quella americana — in specie proprio quella dell’auto — in Messico.

In secondo luogo, realizzare buoni profitti producendo oggetti complessi, che richiedono il lavoro coordinato di molte migliaia di persone, immensi mezzi di produzione, insieme con la movimentazione fisica e la lavorazione di montagne di materiali, richiede una scienza e una tecnica molto più difficile che non realizzare — anche solo per qualche tempo — profitti pari o superiori producendo servizi in cui si impiegano 54

un decimo di addetti e un centesimo di mezzi di produzione e di materiali. La diversificazione delle attività produttive di molte imprese europee nate come industrie manifatturiere e poi lanciatesi nel campo dei servizi, un percorso che anche il gruppo Fiat intraprese a suo tempo, è derivata tanto dai calcoli che i dirigenti fanno sui loro bilanci, quanto dalle pressioni su di loro esercitate al suddetto fine dai grandi investitori istituzionali. Perché mai fare una fatica d’inferno per realizzare, se tutto va bene, un 5 o 6 per cento di profitti netti

fabbricando automobili o altri manufatti, quando offrendo servizi intangibili dei più vari generi si possono conseguire profitti tre volte maggiori? Molti sostengono che così va l'economia contemporanea, che questa è semplicemente una delle facce della globalizzazione: ai paesi in sviluppo il lavoro manuale, a quelli sviluppati il lavoro intellettuale. Resta da notare che per questa strada rischia di perdersi, nel nostro paese come in altri, la secolare cultura del fare, del fabbricare in massa, per mezzo d’una

sapiente combinazione di braccia, intelligenza e tecnologia, prodotti materiali utili per migliorare la qualità della vita. Alla quale dobbiamo principalmente dei benefici da nulla: tipo il vivere oggi, in media, trenta o quaranta anni più a lungo che non un secolo fa, lavorando 1500 ore l’anno invece di 3000. [17/05/2002]

LA TRAGEDIA DELL’AUTO NAZIONALE

Qualora la Fiat Auto dovesse davvero esser costretta a chiudere, oppure diventasse un reparto di secondaria importanza della General Motors (o anche di un altro gruppo), si potreb-

be annunciare in via ufficiale che l’Italia è entrata a far parte dei paesi periferici dell'economia planetaria, la serie C del sistema mondo. Il secondo esito, la cessione alla General Mo-

tors, appare ovviamente preferibile al primo, perché almeno si salverebbero un certo numero di posti di lavoro. Ma la perDI

dita, per l’intero paese, resterebbe gravissima e irrimediabile. Anzitutto perché l’automobile è l’ultimo pezzo di grande industria manifatturiera che esista in Italia. La produzione di computer è stata lasciata affondare da politici e imprenditori negli anni ’60, l'industria aeronautica prima ancora, la side-

rurgia che primeggiava in Europa è oggi un settore secondario, l’elettronica di consumo un lontano ricordo. Se anche l’auto tramonta, è la «vera» industria che scompare, quella che

consiste nell’ideare oggetti complicati, utili a migliorare la vita, e dare loro forma partendo da materiali informi, minerali

e metalli, prodotti chimici e plastica. Organizzando sapientemente a tal fine il lavoro di migliaia di uomini e donne che riconosceranno fisicamente e idealmente, in quegli oggetti, il prodotto del loro lavoro. Ma l’automobile è anche molto di più, e in Italia più che in altri paesi. E al tempo stesso una delle manifatture più antiche — forse solo le costruzioni navali la battono in longevità — e delle più moderne. È nata più di cento anni fa, ed è molto probabile che tra cento anni esista ancora. È oggi alla vigilia d’una grande rivoluzione tecnologica, con il passaggio non lontano al motore a idrogeno o a biocarburante, un uso sempre più intensivo dell’elettronica per accrescere la sicurezza d’uso, l’impiego di nuovi materiali, lo sviluppo delle tecniche di riciclaggio di tutti i suoi componenti. Questo significa che attorno all’automobile hanno origine facoltà di ingegneria e corsi di informatica, alti studi di logistica, professioni tradizionali e nuove in decine di settori differenti. Ancora, l'auto è — specie in Italia — una delle maggiori espressioni del design industriale, della creatività tecno-estetica che nel corso del Novecento ha cambiato l'aspetto delle città come il contenuto visivo a breve raggio della nostra vita quotidiana. Molti paesi vi hanno contribuito, ma per quanto riguarda l’auto, quella che usano le famiglie, le vette del moderno design sono state toccate a Torino, Italia. L'auto, nel

nostro paese, ha anche voluto dire quattro generazioni di lavoratori, centinaia di migliaia di persone, in totale forse mi56

lioni, provenienti da molte parti della penisola, che attraverso la durezza e i conflitti di questa speciale industria hanno scoperto la solidarietà di classe, la disciplina del lavoro che fa soffrire ma anche scoprire in sé nuove identità, e che attraverso il sindacato hanno acquisito diritti di cittadinanza di cui erano prive.

Come una classe imprenditoriale, e una classe politica, possano vedere tutto ciò andare perduto — come da almeno un lustro era prevedibile e previsto — senza in fondo aver nemmeno l’aria di preoccuparsi troppo, non è tanto un mistero italiano, quanto un dato disperante della nostra storia recente. Che di perdita si tratti, non vi può essere dubbio. Se la General Motors assumesse il controllo della Fiat Auto, non avreb-

be alcun particolare interesse a mantenere a Torino, tutt’insieme, la progettazione dei motori, il design delle carrozzerie, gli studi sull’informatica applicata alla gestione del veicolo e del traffico, lo studio dei sistemi di alimentazione post-petrolio, poiché sarebbe irrazionale dal punto di vista gestionale tenere concentrate in un unico luogo attività che interesserebbero non più la sola Fiat bensì le sue diverse marche. Deciderà piuttosto di dislocare ciascuna di queste attività in questo o quello dei suoi numerosi centri di ricerca e sviluppo sparsi per il mondo, valutando quale di essi sia più baricentrico rispetto alle sue produzioni. Il numero dei lavoratori della Fiat targata General Motors sarebbe drasticamente ridotto, giacché in alcune regioni semplicemente sparirebbero, mentre a Mirafiori potrebbero restarne un paio di migliaia — sempre che la General Motors reputasse conveniente investi-

re miliardi di euro per ammodernare uno stabilimento seriamente invecchiato. Non è detto che si debba vivere male in un paese periferico, posto nella terza cerchia del sistema mondo, che vede

al centro i soli Usa, nella seconda cerchia Germania e Giappone, Francia e Gran Bretagna, e nella terza un largo nove-

ro di paesi in via di sviluppo o di sottosviluppo, come appunto l’Italia. Basta rassegnarsi al fatto che qualunque 0gDI

getto che vediamo e usiamo è stato pensato e costruito da altri, il che comporta che le loro idee e le loro azioni diven-

tano parte dei nostri gesti e della nostra mente. Che qualcuno si sveglia di malumore a Topeka, Kansas, o a Pallastun-

turi, Finlandia, e decide di chiudere uno stabilimento in Piemonte o in Basilicata mandando a casa qualche migliaio di lavoratori. E al tempo stesso prender nota del fatto che chi non è più in grado di dimostrare d’avere una posizione solida, se non all’avanguardia, in almeno qualcuno dei principali settori della moderna industria manifatturiera — con tanti saluti all'economia che si voleva fondata soltanto sul clic del mouse — può essere serenamente certo di avere acquisito un

peso politico insignificante nelle decisioni che toccano il mondo. Una volta dato tristemente per scontato il passaggio dell’Italia in serie C, vi sono soluzioni alternative, per mantenere in vita almeno parte della Fiat Auto, al di fuori della vendita del restante 80 per cento alla General Motors? Probabilmente no. Quando perfino le agenzie di r417g come Moody's fanno sapere che per mantenere la valutazione della sua affidabilità finanziaria al di sopra del livello jurk, in parole povere dei titolispazzatura, Fiat dovrà presumibilmente cedere le sue attività entro il 2004, ogni altra strada pare preclusa. Così stando le cose, recherebbe qualche sollievo almeno constatare che la dirigenza dell’azienda, gli enti e le forze politiche locali, il governo, le forze politiche di opposizione, sono pronte a ergersi come un sol uomo per pretendere sia con le vie della trattativa in senso lato «politica», sia con piani industriali innovativi e credibili, che la General Motors paghi, al caso, il prezzo più alto possibile per il patrimonio che potrebbe acquisire. Il prezzo più alto in termini di centri di ricerca e sviluppo che restano in Italia, di impegno a sostenere la componentistica nazionale (che oggi è in condizione di produrre per qualsiasi committente), di mantenimento del maggior numero possibile di posti di lavoro. Il mercato italiano dell’auto è il quarto del mondo, il che implica che la General Motors do58

vrebbe avere un notevole interesse a produrre in Italia. Ma senza un fronte unito di dirigenti e politici, di sindacati e di imprenditori — che per ora non si vede, ma forse non è tardi — G.M. potrebbe avere anche vita facile nel comprare Fiat Auto a prezzo di saldo. [09/10/2002]

IL RITORNO ALL’AUTOMOBILE

I problemi di fondo che da anni affliggono il Gruppo Fiat sono essenzialmente due. Il primo è la strategia di diversificazione orizzontale da esso perseguita per oltre due decenni, sino al 2002, che lo ha portato a impegnarsi in molteplici settori, dalle assicurazioni alla generazione e distribuzione di energia elettrica, del tutto estranei alla produzione automotoristica, che comprende insieme alle auto anche trattori, macchine

per il movimento terra, autocarri. Una strategia che ha sottratto a Fiat Auto e alle altre società del comparto preziose risorse economiche e manageriali.

Il secondo problema è il mancato raggiungimento dei volumi totali di produzione che lo stesso mzanagerzent Fiat considerava indispensabili, sin dai primi anni ’90, per sopravvivere sul mercato mondiale dell’auto: almeno tre milioni di unità all’anno. Il piano di rilancio presentato dai massimi dirigenti del Gruppo all’inizio dell'estate 2003 va quindi giudicato dall’apporto che esso pare offrire alla soluzione di ambedue i problemi. Rispetto al processo di diversificazione extra auto che ha caratterizzato la gestione Fiat degli ultimi lustri, l'inversione di tendenza sembra essere assai netta. Per la

prima volta il piano contiene un organigramma d’insieme in un cui la Fiat S.p.A., ovvero il Gruppo Fiat, viene presentato e denominato come un «gruppo automotoristico» concentrato sulla produzione di automobili (Fiat Auto), tratto-

ri, escavatrici e affini (Cnh), autocarri e veicoli commerciali (Iveco). Più la Ferrari. A esso si affiancano, in una nitida lo39.

gica di integrazione verticale, società che producono componenti e sistemi: Marelli, Comau, Teksid.

Un primo importante risultato di tale riorganizzazione del gruppo, a mano a mano che verrà tradotta in procedure e responsabilità organizzative, sarà di avere finalmente uno strato di dirigenti di alto livello il cui solo pensiero è come fabbricare e vendere dei buoni autoveicoli. Diventando così più simile a tutte le maggiori società dell’automotoristica mondiale. Per quanto riguarda invece il raggiungimento dei volumi produttivi critici al fine di restare da protagonisti sul mercato globale, il piano di rilancio offre indicazioni meno evidenti. Produrre milioni di unità all'anno è imperativo, nell’industria dell'automobile, sia perché gli investimenti per costruire e mettere in produzione un nuovo modello di auto, 0 anche solo un nuovo motore, sono enormi, dell’ordine di mi-

liardi di euro; sia perché l'eccesso di capacità produttiva a livello mondo, che si stima sia dell’ordine del 25 per cento, ha portato le case costruttrici a ingaggiare reciprocamente bat-

taglie distruttive sui prezzi di vendita. Combinati tra loro, i due fattori fanno sì che su ogni auto venduta il guadagno netto sia minimo; di qui la necessità di grandi volumi di produzione. Tre milioni di auto all’anno, si diceva, era il volume che il rzanagerzent Fiat indicava da tempo come necessario per sopravvivere. Nel 2003 Fiat prevede di produrre 1,9 milioni di unità. Come si colma il divario negli anni a venire? A questo proposito le cifre contenute nel piano di rilancio sembrano delineare una strategia che rinuncia a massimizzare le quantità prodotte, puntando invece ad aumentare i ricavi per ciascuna unità costruita. Di fatto le quote di mercato dell’auto che si prevede di acquisire, o di mantenere entro il 2006, sul mercato italiano, su quello europeo — Italia esclusa — e su quello brasiliano, il più importante dell'America Latina, mostrano variazioni minime: più 2,2 per cento in Italia, appena lo 0,1 in Europa, e meno 0,6 in

Brasile. Da tali previsioni di quote si ricava in sostanza che la Fiat prevede di produrre nel mondo, al 2006, circa 2 milioni 60

di auto. E non sarà il potenziamento della produzione in Turchia, Polonia, Russia e Cina, pure annunciato nel piano, a col-

mare lo scarto di un milione di pezzi prodotti tra le stime del passato e le previsioni per il prossimo futuro. Su quei circa 2 milioni di auto, tuttavia, Fiat potrebbe ri-

cominciare a guadagnare in misura apprezzabile. Lo si evince, tra l’altro, dal prospetto dell’evoluzione delle piattaforme, una delle componenti più grosse e costose di un’auto. Nel 2002 Fiat condivideva con altri partner una sola piattaforma. Al 2006 prevede di condividerne 5-7, e 6 al 2008 e anni successi-

vi. Inoltre per ciascuna piattaforma dovrebbero venire costruite dai diversi partner non più 167.000 auto all’anno, come nel 2002, ma ben 418.000, mentre il numero di veicoli Fiat

Auto per piattaforma dovrebbe salire dagli attuali 163.000 a oltre 230.000. Ciò dovrebbe consentire di realizzare, si legge nella presentazione del piano di rilancio, risparmi significativi sui costi di sviluppo per modello, sino a oltre il 30 per cento, e sugli investimenti per portarlo in produzione. Se ciò basti per realizzare un volume di ricavi netti sufficiente per compensare il permanere dei volumi produttivi Fiat assai al disotto dei maggiori costruttori europei, potrà dirlo solo l’esperienza. Il piano comporta dei tagli all’occupazione, connessi alla chiusura di 12 stabilimenti, di cui

però uno solo in Italia, con 250 addetti. Sui circa 169.000 occupati attuali del gruppo, perderanno il posto, v'è da temere presto, 9500 lavoratori all’estero, e 2800 in Italia, che

si aggiungono alle molte migliaia già licenziati o messi in mobilità negli ultimi anni. Sono perdite gravose per le famiglie e le comunità che dovranno subirle; anche se parzialmente compensate, ma solo entro il 2006, da un certo numero di

assunzioni. Dobbiamo augurarci che questo piano industriale — giacché, fatto insolito nel nostro paese, di un vero piano industriale sembra trattarsi, anche se occorrerà valutare come e con quali tempi verrà attuato — sia uno stru-

mento efficace, oltre che per risollevare l’ultimo pezzo di grande industria che rimane nel nostro paese, per far sì che 61

simili annunci da parte del Lingotto non abbiano più a ripetersi in futuro. [27/06/2003]

DA OPERAI A «ESUBERI»

Dalla fallita trattativa sulla annunciata riduzione del personale negli stabilimenti Fiat escono sconfitti in tre: l'azienda, il governo e il sindacato. Le conseguenze saranno onerose per tutti. L'azienda non può illudersi di portare a buon fine il suo piano industriale come se nulla di rilevante fosse accaduto. Per realizzare le parti propositive del piano stesso — il lancio di nuovi modelli, la ristrutturazione degli stabilimenti, gli incrementi di produttività — e possibilmente per migliorarlo, nel suo stesso interesse, essa avrebbe infatti bisogno sia del consenso, sia delle competenze del sindacato e dei lavoratori

che questo rappresenta. Perché non ci sono ordini o disegni calati dall’alto che tengano: la qualità del prodotto e l’andamento complessivo del flusso produttivo dipendono, all’inizio, dalla credibilità del piano industriale, che sarà tanto più credibile quanto più è condiviso dalle rappresentanze sindacali — la cui competenza economica e manageriale è in genere sottovalutata; ma, alla fine, dipendono dall’intelligenza e dalle mani delle singole persone. La Fiat ha avuto la meglio sul sindacato, ma al tempo stesso si è probabilmente costruita dinanzi, per i prossimi mesi e anni, un percorso a ostacoli in grado di sfiancare perfino soggetti al massimo della forma. Il che non sembra essere il caso dell’azienda torinese. Per parte sua il governo ha ignorato la crisi Fiat sino alle ultime settimane, quando essa era ormai evidente da almeno un anno. Da quando cioè vi sarebbe stato tempo e modo per avviare una discussione approfondita sulle alternative possibili per risanare la Fiat senza cadere nell’assistenzialismo di Stato, e coinvolgendo in essa — perché no? — anche la General Motors o altre case automobilistiche. Dopodiché ha pro62

ceduto con dichiarazioni in libertà di vari ministri, e propo-

ste cincischiate come sono inevitabilmente quelle buttate lì all'ultima ora, in specie da chi sembra avere un'idea piuttosto vaga di che cosa sia una grande industria manifatturiera. Che la politica economica non fosse il punto di forza di questo governo, alcuni avevano cominciato a capirlo da tempo. Adesso è forse cresciuto il numero di coloro che lo hanno capito a fondo. Quanto al sindacato, questa sconfitta sarà accolta con frustrazione e risentimento da decine di migliaia di lavoratori. Quelli che da lunedì perdono il lavoro, come quelli che avran

paura di perderlo, quale che sia il punto in cui sono collocati nella sterminata filiera della produzione automobilistica: dipendenti Fiat, terzisti, addetti alla componentistica, speciali-

sti di servizi per l'auto, conducenti di bisarche, meccanici, fino ai tipografi che stampano i manuali per l'azienda. Una massa di lavoratori frustrati e risentiti che saranno un po’ meno disponibili a riconoscersi rappresentati dal sindacato, e un po’ più disponibili a cercare altre modalità per far sentire la propria voce; oppure a rifugiarsi nell’astensionismo, o nella disperata ricerca di soluzioni individuali, quali che siano. Che è

precisamente il punto cui voleva condurli la politica imprenditoriale degli ultimi lustri, e del governo negli ultimi anni. Ci vorrà del tempo a tutto il sindacato per riparare questa ferita, e certo ancora più tempo perché imprenditori e go-

verno si rendano conto che un sindacato forte e rappresentativo — quello stesso, l’insieme delle tre confederazioni, su cui

oggi hanno calato il colpo — è uno strumento indispensabile per regolare i conflitti prima che essi si inaspriscano in modi non sempre prevedibili, specie in tempi come gli attuali di crisi diffusa. C'è però un soggetto individuale che, se possibile, ieri è stato sconfitto ancora più duramente dei soggetti collettivi sopra ricordati. Al tempo stesso figura simbolica e persona in carne e ossa, quest'altro sconfitto è l'operaio (od

operaia che sia). In realtà la sua sconfitta è cominciata molto tempo fa, quando una schiera di commentatori e studiosi, tra 63

i quali non pochi di sinistra, hanno preso a sostenere che nella nuova economia l’operaio non esisteva più. Se per caso se

ne vedeva ancora qualcuno in giro — evento non raro, visto che gli operai sono ancora più di sette milioni — si trattava di residui della rivoluzione industriale, assicurava la vulgata, nu-

meri ed entità di nessun conto. - È la liquidazione simbolica dell’operaio che ha permesso, in modo sempre più agevole, di compiere i passi successivi. Come considerare l’operaio un’entità marginale nel sistema economico, sostituibile a piacere con una macchina, o con

qualcun altro disposto a lavorare per un quinto o un decimo del suo salario. O, meglio ancora, da ridurre nelle condizio-

ni di oggetto superfluo, per il quale non esiste più alcun uso concepibile. In fondo, l’atroce termine di «esubero» significa esattamente questo. Se in futuro si vorranno evitare altre sconfitte come quelle molteplici e incrociate del caso Fiat, bisognerà pure ricominciare — tanto nei comportamenti delle imprese come negli studi e nei media — a restituire la dignità e il riconoscimento sociale che le spettano alla figura dell’operaio. [06/12/2002]

TUTTI I RISCHI DI UNA DIVISIONE

Dopo un anno di mutamenti e risultati positivi, quel che sta succedendo negli stabilimenti Fiat di Melfi e di Mirafiori trasmette nuovamente segnali preoccupanti sulla situazione del gruppo torinese. I lavoratori di Melfi sono in agitazione a causa delle condizioni di lavoro: turni massacranti, tempi di

lavoro sempre più stretti, disciplina ferrea, bassi salari. Ma non siamo dinanzi a una questione che riguardi unicamente le relazioni industriali. Se l'azienda insiste in maniera così ossessiva sull’impiego intensivo della forza lavoro in ogni ora della giornata, ciò significa presumibilmente che i suoi margini di utile, la differenza tra costi e ricavi per unità di pro64

dotto, sono esigui. E sono affidati non tanto alla superiorità del design, della tecnologia, delle prestazioni del prodotto rispetto alla concorrenza, quanto alla produttività materiale del lavoro. Di conseguenza ciò che più conta è aumentare di qualche frazione al mese, di alcune unità l’anno, il numero delle auto prodotte per ciascun dipendente, nel cui lavoro confluisce ovviamente la produttività di tutta la filiera della componentistica.

Negli stabilimenti della Peugeot in Francia, o della Volkswagen in Germania, gli operai non sono forse meno stressati dai ritmi produttivi che negli stabilimenti Fiat. Ma per intanto sono pagati di più. L'organizzazione del lavoro è discussa più approfonditamente con i sindacati. E soprattutto la competitività non è affidata prevalentemente alla compressione del costo del lavoro, quanto allo sviluppo a ritmo incessante di modelli innovativi. In altre parole, al valore aggiunto rappresentato dalla creatività dell'impresa. Quella che Fiat, dai predetti segni, sembra stentare a raggiungere.

A Mirafiori è invece accaduto — secondo segnale preoccupante — che migliaia di lavoratori siano stati messi in libertà perché dal distretto di Melfi, causa le agitazioni, non sono arrivate le componenti necessarie per completare l’assemblaggio di alcuni modelli, tra i quali la nuova Idea. Qui le ipotesi che è lecito formulare sono due. La prima è che si sia trattato d’un grave errore organizzativo. Tutta l'industria contemporanea pratica la tecnica del «giusto in tempo»: ogni pezzo che forma un prodotto deve arrivare nel punto in cui verrà utilizzato a un dato momento, né prima né dopo, in modo da eliminare magazzini (e magazzinieri), depositi, polmoni sulle linee. Produrre in massa gruppi di componenti auto in quel di Melfi, con il peso e le dimensioni che hanno, per farli arrivare giusto in tempo a Mirafiori, a novecento chilometri di distanza, sfida ogni logica della logistica. Nei giorni scorsi i pezzi non sono arrivati a causa degli scioperi in atto nella zona; domani potrebbero non arrivare a causa del maltempo, di un incidente sull’Autosole, d'un blocco stradale o ferroviario. A parte il co65

sto di trasportare molte centinaia di tonnellate al giorno di materiali su una distanza così lunga. La produzione «giusto in tempo» richiede in sostanza distretti relativamente vicini al luogo in cui i loro componenti, in specie quelli di maggiori dimensioni, vengono utilizzati dall'operatore finale. Dato che in Fiat non mancano dirigenti capaci, l'ipotesi che l’asfissia di Mirafiori sia stata generata da un errore così macroscopico appare quindi poco plausibile. Quella che sembra invece plausibile è l'ipotesi che produrre a Melfi componenti da utilizzare a Mirafiori sia semplicemente un preludio del momento in cui le auto oggi assemblate a Mirafiori se ne andranno là dove sono prodotti i componenti, a Melfi o in altre parti d’Italia. È l'ipotesi più temibile che si possa fare, per Mirafiori ma anche per la stessa Fiat. Perché oggi le automobili sono fabbricate in stretta cooperazione tra la casa madre e quelli che una volta erano meri fornitori, ma che stanno diventando nell’autoindustria mondiale veri e propri soggetti di co-progettazione. La progettazione Fiat non po-

trebbe restare a Torino mentre tutte le parti delle auto sono fabbricate e assemblate altrove. A periodo medio-lungo, la separazione tra la prima e le seconde genererebbe una situazione organizzativa e produttiva assai difficile da sostenere. [24/04/2004]

SCENE DA ANNI 60

Ma non erano scomparse le tute sporche di grasso o vernice, le file di facce stanche alla fine del turno di notte, le due ore in autobus per andare e tornare dal lavoro, le fasi di lavorazione di due minuti per prendere un pezzo dal cestello, azionare un meccanismo per fissarlo e ricominciare, 240 volte al giorno? Il lavoro non era diventato tutto camici bianchi e schermi di computer, macchine fruscianti che da sole costruiscono altre macchine, una passeggiata saltuaria lungo le linee per vedere che tutto funzioni bene? Le persone al lavoro non erano di66

ventate per l’azienda preziose «risorse umane», da formare e trattare con ogni riguardo al fine di farle sentire partecipi, ovvero responsabili, dell'intero processo produttivo? A dedurre da quel che sta accadendo in questi giorni negli impianti Fiat di Melfi, parrebbe proprio di no. Lo scenario di Melfi sembra uno spezzone di film sulle fabbriche e sui modi di lavorare degli anni ’60. Ci si ritrova quasi tutto, di quell'epoca, comprese le manganellate dei poliziotti sulle spalle degli operai. C'è il lavoro durissimo, i bassi salari, l’organizzazione del lavoro fondata su tempi e metodi imposti da uffici imperscrutabili (sostituiti oggi da computer parimenti imperscrutabili), il controllo opprimente dell’apparato aziendale su ogni istante della giornata lavorativa. Perfino le comunicazioni dei provvedimenti disciplinari — 2500 solo nell’ultimo anno — sono scritti nel linguaggio di allora, un ibrido di lessico dell'esercito piemontese e di pignoleria da burocrazia zarista. Continuando a proiettare quel vecchio film, la Fiat, con l’aiuto del governo, ha però ottenuto un risultato imprevisto: il ritorno della classe operaia, quanto meno di una delle sue frazioni storicamente più significative, quella dei metalmeccanici. Scriveva Max Weber che una classe sociale si definisce come una comunità di destino. E quello che hanno capito benissimo gli operai di Melfi. E quel destino che li accomuna non gli piace per niente. È un destino che promette soltanto fatica, lavoro usurante, difficoltà economi-

che, scarsa o nulla crescita professionale, rischio di emarginazione dal mercato del lavoro appena si superano i quaranta. Dieci anni fa i loro padri o fratelli o sorelle maggiori non avevano protestato più che tanto, di fronte alla fabbrica che portava posti di lavoro in aree ancora contrassegnate dal sottosviluppo. Le nuove leve non gradiscono, e lo fanno sapere, muovendosi insieme, solidalmente, cortocircuitando

le rappresentanze sindacali: come se appartenessero — fatto inaudito secondo la modernità vista da destra — a un’unica classe sociale. 67

Se i futuri sviluppi confermassero che il ritorno dei metalmeccanici come classe sociale non è un fatto contingente, la Fiat ha un problema, e i sindacati ne hanno un altro. Se vuole continuare a produrre mantenendo entro limiti tollerabili il livello di conflittualità in azienda — il cui aumento sarebbe particolarmente rischioso a causa dell’eccessiva interdipendenza tra produzione reticolare dei componenti e produzione finale concentrata che ha realizzato — deve forse innovare radicalmente il modello di relazioni industriali che applica nei suoi stabilimenti da oltre mezzo secolo. Al precetto base «voi lavorate, noi pensiamo», dovrebbe sostituire l’idea che più sono quelli che pensano, meglio va la produzione in ogni suo segmento. Dovrebbe aprirsi all'idea che trattare con i sindacati può portare a forme di organizzazione del lavoro non solo più umane, ma anche più utili a tutta la filiera produttiva. Dovrebbe provare a retribuire meglio i lavoratori, dividendo con essi i benefici degli aumenti di produttività. Soprattutto dovrebbe rendersi conto che il modello militar-burocratico di organizzazione aziendale è oggi perdente perché cinesi e indiani, russi e brasiliani lo sanno ormai applicare con ancora maggiore durezza, pagando salari ancora interiori. Per atfrontare la loro concorrenza bisogna puntare a mobilitare l’intelligenza e le capacità professionali dei lavoratori, piuttosto che accentuare lo sfruttamento della loro forza lavoro. Per i sindacati, ovviamente, il problema è quello della rappresentanza. Si è discusso a non finire, e con ragione, del fatto che il frazionamento delle imprese, la conseguente dispersione sul territorio delle forze di lavoro, la proliferazione delle tipologie contrattuali rendono sempre più difficoltoso il compito di rappresentare sul piano sindacale gli interessi reali e ideali dei lavoratori. Per contro il caso Melfi dimostra che vi sono tuttora larghi strati di lavoratori che non sono dispersi nello spazio, sono inquadrati da contratti simili e debbono far fronte a condizioni di lavoro analoghe. Hanno insomma un destino comune, e comuni speranze di migliorarle. Dinanzi a questo fatto l’unità sindacale, almeno su alcu68

ni punti essenziali, diventa un dovere non meno che una necessità.

Nell'ultimo anno le tre confederazioni hanno fatto passi importanti in tale direzione. Bisognerebbe trovare un percorso — accidentato quanto si vuole, costellato di compromessi e dispute aspre quanto occorre — affinché anche le federazioni dei meccanici procedano nello stesso senso. Grazie al maggior potere contrattuale che così otterrebbero potrebbero contribuire a farci finalmente vedere un film sull'industria davvero moderno, in luogo di uno degli anni ‘60, con un diverso modo di lavorare in fabbrica, e senza le scene della polizia che carica i dimostranti come ai tempi del ministro Scelba. [27/04/2004]

UNA SPERANZA PER CENTOMILA

Con la notizia che il Gruppo Fiat intende avvalersi comunque del diritto di vendere Fiat Auto alla General Motors, mentre questa non vuole assolutamente comprarla, almeno 100.000 persone hanno visto il loro orizzonte di lavoro e di vita diventare improvvisamente più buio. Sono i 30.000 lavoratori degli stabilimenti Fiat; i 60.000 della componentistica; i 10.000 e forse più dei terzisti. Ribadito il diritto di Fiat di vendere, queste persone hanno da parte loro il diritto di capire che cosa le aspetta. A tale scopo vi sono alcune cose che Fiat non dovrebbe tare, e altre invece in cui essa e il governo dovrebbero impegnarsi al più presto. La Fiat dovrebbe anzitutto guardarsi dall'idea di intraprendere una guerra legale con la General Motors dinanzi a un tribunale americano, e farlo sapere. Questo perché nel campo delle relazioni tra corporations la legislazione Usa è immensamente complicata. I tribunali sono tendenzialmente mal disposti verso le imprese estere. La General Motors può

mobilitare studi legali con centinaia di esperti, facendo durare la causa all’infinito. Con costi enormi per i due contenden(3°

ti. Sembra d’altra parte che qualche dirigente General Motors abbia già espresso tale intenzione. Né la Fiat può credere di rassicurare le persone che da essa materialmente dipendono presentando l'ennesimo piano industriale, seppure fosse più solido dei precedenti. Anche i migliori piani industriali promettono inevitabilmente lavoro e salari a qualche anno di distanza, mentre le persone in ansia hanno bisogno di sapere che cosa succederà nei prossimi mesi, in funzione di strade che l’azienda mostri di voler cominciare a percorrere nelle prossime settimane.

Tra queste strade almeno una dovrebbe comprendere l'esplorazione a breve termine della possibilità di alleanze, fusioni e acquisizioni di vario livello produttivo, purché di largo raggio, con altri costruttori. Europei o non europei. Di-

co vario livello, perché non è affatto detto che Fiat debba cedere per intero qualcuno dei suoi marchi, come talora si prospetta, o passare in blocco a un altro costruttore. Le automobili di oggi sono fatte come il lego. Quasi nessuno produce tutti i pezzi di cui sono formati i veicoli che vende. Il medesimo pianale viene prodotto da un costruttore e utilizzato da cinque o sei altri, che spesso sono in concorrenza tra loro. Lo stesso avviene per i motori, i cambi, le sospensioni. Fiat ha una certa esperienza in questo gioco del lego, visto che produce a Torino Mirafiori pianali e motori in partenariato proprio con la General Motors, e in Val di Sangro, nella Sevelsud, veicoli commerciali leggeri (80.000 l’anno) che sono poi commercializzati con i marchi Citroén, Fiat e Peugeot. Lungo tale strada potrebbe fare passi ben più decisi. E soprattutto nella esplorazione di alleanze a largo raggio che il governo dovrebbe intervenire. Si dice con ragione che nell'industria automobilistica europea non si muove foglia che i governi non vogliano. Tempo fa Renault e Peugeot-Citroén in Francia, Volkswagen in Germania non stavano bene. L’anno scorso le prime due hanno venduto nel mondo 5,7

milioni di veicoli, senza contare la Nissan in cui la Renault ha una robusta partecipazione; la Volkswagen 4,1 milioni, seb70

bene non fosse uno dei suoi periodi migliori. Le une come le altre si sono rimesse in salute, tornando a buoni profitti, gra-

zie alla politica industriale dei rispettivi governi. Che è fatta non soltanto di soldi, ma soprattutto di idee, competenze e grandi capacità organizzative. Se il governo italiano le ha, sarebbe il momento di tirarle fuori. Ci sono 100.000 persone che aspettano. [04/02/2005]

LA STORIA SI RIPETE

Pazienza non esser più capaci di produrre computer origina-

li, dopo essere stati tra i primi al mondo a progettarli e costruirli. O grandi aerei passeggeri. O telefoni cellulari. Ma se l'industria italiana si dimostrasse incapace di continuare a produrre con le proprie forze anche latticini e pomodori in scatola, biscotti e succhi di frutta, si dovrebbe prender atto che nelle cerchie concentriche in cui si esprime la gerarchia economica del sistema mondo, l’Italia si avvia a passare dalla semiperiferia in cui da qualche anno si barcamena, a ridosso dei grandi, alla periferia più lontana. Cioè, nella cerchia dei paesi che sotto il profilo industriale, nel mondo, non conta-

no nulla. Seppure rimangono attraenti come mercato, bacino di consumatori messo a disposizione delle multinazionali dei diversi settori. È vero che a prima vista le apparenze direbbero altrimenti. Con un fatturato di 92 miliardi di euro nel 2002, l'industria alimentare in senso stretto si è portata al secondo posto tra i principali settori industriali del paese, superando il tessile e avvicinandosi al metalmeccanico. Un segnale che parrebbe indicare un ottimo stato di salute del settore, con i suoi 270.000 addetti, oltre 6500 aziende che hanno in media circa 40 di-

pendenti ciascuna, ben al disopra della media dell'industria manifatturiera, e un export in crescita sostenuta. Tanto da po-

ter essere ottimisti — se non fosse per alcuni dettagli, come il 71

crollo improvviso, nel giro di pochi mesi, di due dei più importanti gruppi del settore, Cirio e Parmalat. Oppure il fatto che alle sue spalle l’industria alimentare italiana ha un’agricoltura, a essa ormai strettamente intrecciata, che produce all’incirca la metà degli alimenti primari che il paese consuma. Il che significa che quel che l’industria trasforma proviene per la metà dall’estero, con i limiti e icondizionamenti che ciò comporta. Oppure si veda il dato comparativo per cui l'avanzata da essa registrata nel 2002 a spese del settore metalmeccanico e del tessile è dovuta, oltre che ai meriti propri — più 3,3 per cento di fatturato sull'anno precedente — in misura ancor maggiore alla crisi che attanaglia tali settori. Il primo perché

il suo nucleo portante è l’auto, che ha avuto come noto nel 2002 uno dei suoi anni peggiori; il secondo perché da tempo incontra difficoltà crescenti a reggere alla concorrenza internazionale. Difficoltà che sono già costate, nei principali distretti del tessile, a partire dal Biellese, migliaia di posti di lavoro nei reparti di produzione. La storia, dicono alcuni, non si ripete- nemmeno quella in-

dustriale. Se però uno si mette d'impegno a cercare ragioni che siano sufficienti a escludere l’ipotesi che l'industria alimentare potrebbe finire per percorrere, a sua volta, la strada dei settori industriali che in Italia sono scomparsi negli ultimi lustri, oppure sono passati dalla prima fila alla terza o alla quarta, s'accorge che il compito è faticoso. Perché le analogie contendono il campo alle differenze. Per intanto, così come non è esistita di periodo in periodo una politica industriale di ampio respiro per la produzione di computer, né per l’elettronica di consumo, né per l'aeronautica civile o perla chimica, così non sembra esistere al presente una politica per l'industria alimentare. Se fosse esistita essa avrebbe comportato negli anni scorsi ilsapertavorire certi processi di fusioni e acquisizioni in luogo di altri, insieme con il saper dire sì alla cessione di certe imprese nazionali a multinazionali straniere, e saper invece dire no in altri casi — come fanno oculatamente i paesi nostri vicini. #2

Se poi fosse stata concepita una politica industriale, fatta di scelte, di promozione di determinate iniziative e scoraggiamento di altre, di investimenti mirati in ricerca e sviluppo, essa non avrebbe comunque trovato, a livello di istituzioni statali e di governo, il braccio organizzativo capace di attuarla. Si può infatti osservare che le competenze e i poteri che sarebbero necessari a realizzare una politica efficace riguardo all’industria manifatturiera sono frammentate tra almeno quattro ministeri — Economia, Attività produttive, Università e Ricerca, Innovazione tecnologica — mentre negli altri paesi sono concentrati al massimo in due. Simile frammentazione rientra tra i fattori non ultimi del progressivo sgretolamento dell’Italia industriale. Ma nel caso dell’industria alimentare i ministeri interessati salgono addirittura a sei o sette, poiché ai precedenti bisogna almeno aggiungere — ovviamente — il ministero delle Politiche agricole e quello della Sanità. A parte il suddetto deficit di idee e di strutture istituzionali che le accomuna, vi sono tra i settori industriali disastra-

ti nel recente passato e l’industria alimentare altre analogie non propriamente tranquillizzanti. Si incontrano infatti, a ripassare la storia degli uni e dell’altra, errori catastrofici delle strategie di produzione e di mercato. Per dire, nel fraintendere posizione sociale, bisogni e desideri dei potenziali consumatori, la decisione della Parmalat di produrre e cercar di vendere latte in polvere nei paesi dell'America Latina, dove il latte fresco scorre a fiumi, non fu radicalmente diversa da quella della vecchia dirigenza Fiat di produrre anni prima, negli stessi paesi, automobili rustiche di basso costo, al fine di captare la domanda delle classi medie emergenti. I cui componenti avevano però in testa solamente vetture di gam-

ma alta, tipo Bmw o Mercedes. AI di là dei comportamenti personali più o meno corretti si ritrova altresì, nell'industria alimentare come in quelle manifatturiere del recente passato, la convinzione che non vi sia problema di organizzazione o di produzione che non si possa affrontare e risolvere con strumenti finanziari, pro73

gettando mirabolanti architetture geopolitiche di gruppi d’aziende contenuti entro gruppi che contengono gruppi terzi e quarti distribuiti in vari continenti, sino al punto in cui nemmeno il progettista architetto arriva più a comprendere come si reggano in piedi. Tanto che, all’improvviso, crollano. Il caso Parmalat è di ieri, simboleggiato in tv dai finanzieri che trasportano dozzine di faldoni, nei quali potrebbero essere contenute — sperano i giudici — le planimetrie del fantasioso castello finanziario costruito dal suo mzanagerzent. A dieci anni fa risale invece il congedo del gruppo FerruzziMontedison dalla grande chimica, a fronte dei debiti che, costruendo pur esso castelli finanziari, aveva contratto con

ben trecentoundici banche italiane ed estere. Sarà dunque vero che la storia economica, come la storia senza aggettivi, non si ripete. Ma se imprenditori e manager delle grandi imprese italiane continuano a manifestare simili coazioni a ripetersi, anche tale grano di saggezza, e di speranza per il paese, potrebbe essere invalidato. [30/12/2003]

LA PARABOLA DELL’ACCIAIO

Verso il 1950 l'industria siderurgica italiana produceva circa 2 milioni di tonnellate di acciaio grezzo l’anno, una quantità quasi uguale a venticinque anni prima. Lo stesso livello produttivo era stato raggiunto dall'Inghilterra con un secolo di anticipo. I venticinque anni successivi avrebbero fatto emergere uno scenario ben diverso. Nel 1975 l’Italia arriverà a produrre 24 milioni di tonnellate di acciaio, per mantenersi poi negli anni successivi sui 26-27 milioni. La produzione inglese viene non solo raggiunta, ma surclassata: da tempo essa corrisponde a meno della metà di quella italiana. Come produttore d’acciaio l’Italia occupa stabilmente il secondo posto nella Ue, subito dietro la Germania. 74

Ciò non sarebbe avvenuto se nell’immediato dopoguerra il parere di un dirigente del settore pubblico, Oscar Sinigaglia, non avesse avuto la meglio su quello d’un imprenditore privato, Giovanni Falck. Questi sosteneva che la siderurgia in Italia non aveva futuro. In ogni caso avrebbe dovuto essere mantenuta su un piano modesto. Per contro l’ingegner Sinigaglia, presidente dell’Ilva negli anni ’30, poi della neo-costituita Finsider, prevedeva che lo sviluppo delle industrie meccaniche avrebbe richiesto grandi quantità di acciaio, e che doveva essere il nostro paese a produrle, per evitare di dover dipendere dalle importazioni. Il governo diede retta al suo dirigente piuttosto che all’imprenditore, e approvò il piano Sinigaglia per lo sviluppo dell’industria siderurgica. Esso portò in pochi anni alla ristrutturazione degli impianti di Bagnoli e di Piombino, alla costruzione di un nuovo grande centro siderurgico a Genova Cornigliano, e al progetto di costruire quanto prima nel Sud uno stabilimento di grandi dimensioni. Scomparso nel 1953, Sinigaglia non vide il successo del suo piano. Ma i governi dell’epoca continuarono ad applicarne le linee ispiratrici: dare corpo a un'industria siderurgica capace di sostenere i consumi in forte espansione dei pro-

dotti meccanici (auto, elettrodomestici). Nel 1959 venne deciso di costruire uno stabilimento a Taranto, legando a esso anche le speranze di modernizzazione del Mezzogiorno. Nel 1968 lo stabilimento fu ampliato per portarne la capacità a 4,5 milioni di tonnellate. Appena due anni dopo fu deciso il raddoppio dello stabilimento, puntando a una produzione di 10 milioni di tonnellate/anno. Pertanto gli anni ‘70 videro la siderurgia pubblica produrre da sola circa 19 milioni di tonnellate di acciaio l’anno, e dare occupazione a oltre 100.000 persone. In ogni automobile prodotta in Italia da un’impresa privata, in ogni lavatrice e frigorifero, c'erano larghi pezzi di pubblica lamiera d’acciaio. Il successo della siderurgia pubblica italiana si dissolse con gli anni ’80, a causa di una serie di fattori negativi convergenti. Tutte le imprese siderurgiche della Comunità Europea ave15)

vano costruito troppi impianti di grandi dimensioni; quindi si ritrovarono quasi di colpo con un enorme eccesso di capacità produttiva, complice anche il rallentamento della crescita economica. Paesi come la Russia, la Cina, l'India, il Brasile presero a lanciare sui mercati grandi quantità di acciaio a prezzi competitivi rispetto a quelli europei. Per motivi tecnici ed eco-

nomici insieme, la domanda da parte delle industrie metalmeccaniche subì una forte riduzione. Inoltre esse cominciarono a chiedere acciai di qualità, che gli impianti Finsider producevano in misura insufficiente. Come non bastasse, quest’ultima si era svenata a causa degli investimenti effettuati per il raddoppio di Taranto. A metà degli anni ‘80 essa fu dunque costretta a ridurre di circa un quarto la propria capacità produttiva, e a una riduzione an-

cora maggiore dell'occupazione, dato che la ristrutturazione aveva generato rilevanti aumenti di produttività. Si stima che tra il 1980 e i primi anni ’90 la siderurgia pubblica abbia perso per tali vie circa 30.000 miliardi di lire. A fronte del disastroso bilancio della Finsider, nel 1988 viene costituita l’Ilva, ancora in ambito Iri, alla quale sono trasmesse gran parte delle società facenti parte della ormai ex Finsider. In breve tempo, nondimeno, anche il bilancio dell’Ilva non appare più saldo di quello della progenitrice, vuoi perché si era lanciata in una campagna mal riuscita di acquisizioni, vuoi perché alla fine produceva gli stessi prodotti di media qualità che il mercato assorbiva sempre più a stento. La decisione di privatizzare tutto a questo punto parve ob-

bligata. Venne attuata in pochissimi anni, tra il 1992 e il 1996. Il gruppo Riva si prende l’Ilva, con gli impianti di Cornigliano e di Taranto, la Krupp (che poco più tardi diventa ThyssenKrupp) acquisisce la Ast (Acciai Speciali Terni) di Terni, la Dalmine passa sotto la Techint, altri impianti vengono ceduti alla Lucchini. La siderurgia pubblica non esiste più. I livelli produttivi sono stati invece mantenuti: anche nel 2002 si sono aggirati sui 26.000.000 di tonnellate di acciaio grezzo. La produttività è salita dalle 260 tonnellate/uomo del 76

1980, sul complesso dell'industria, a 670: un primato europeo. Il tutto però con un risultato drammatico per l’occupazione: i 100.000 occupati del 1980 sono diventati oggi 38.000. Sul piano della produzione e del mercato, può dirsi che al roveto spinoso della siderurgia pubblica siano subentrati, con le privatizzazioni, soltanto prati fioriti? A un primo esame parrebbe di sì. Come s'è detto l’Italia è il secondo produttore di acciaio nella Ue, con una quota doppia del Regno Unito e superiore di un terzo rispetto alla Francia. Una sua impresa, il gruppo Riva-Ilva, occupava nel 2002 il nono posto nel mondo per volume di produzione. La produttività delle acciaierie privatizzate, come si è ricordato, è altissima. Tuttavia, se si guardano un po’ più da vicino diversi parametri, la situazione appare meno rosea. Per intanto la si-

derurgia italiana non copre nemmeno la domanda interna. Il milione di auto che sono costruite ogni anno nel paese, insieme con i 20.000.000 di elettrodomestici (lavatrici e lavastoviglie, frigoriferi e congelatori) e altri prodotti, consumano 32.000.000 di tonnellate di acciaio l'anno. La siderurgia nazionale ne fabbrica soltanto 26. Non solo. I 6.000.000 di tonnellate di acciaio che bisogna importare sono costituiti proprio dai tipi più pregiati, come i laminati a caldo e le lamiere a freddo. Il sito che produceva un tipo di acciaio particolarmente pregiato, i lamierini magnetici, è stato com'è

noto improvvidamente ceduto a un’azienda estera, la ThyssenKrupp, anziché tentare di costituire un polo nazionale per la produzione di acciai pregiati: da qui il rischio di chiusura che incombe su Terni. La siderurgia privata reca insomma entro di sé alcuni degli stessi tarli che contribuirono al declino di quella pubblica. V’è dell’altro. Il numero dei siti dove si produce acciaio, sebbene sia diminuito in riferimento al 1990, da 68 a 42, è ancora oggi troppo alto. Una loro concentrazione appare necessaria, ma essa comporterà l’abbandono di altre comunità al loro destino, e un ulteriore calo dell'occupazione. In questo quadro va probabilmente collocato il proposito reale, ma per 9°

ora almeno non dichiarato, di chiudere l’altoforno di Corni-

gliano adducendo il motivo che sull’intero mercato mondiale — nientemeno — non si troverebbe il tipo di coke adatto per alimentarlo, dopo che i cinesi hanno interrotto per qualche tempo le consegne. Infine sono troppe anche le aziende — circa 160 secondo l’elenco della Federacciai - che producono o lavorano l’acciaio e i suoi derivati. Se non andiamo errati, e se l'elenco in

parola comprende davvero soltanto aziende siderurgiche, la cifra di 38.000 (quanti sono in totale gli addetti alla siderurgia) divisa per 160 corrisponde a 240 addetti come dimensione media; che però scende a meno di 100 addetti se si detraggono le corpose maestranze dei gruppi principali. Azien-

de troppo piccole per poter guardare con tranquillità, loro, i loro dipendenti, e chi cerchi di comprendere quel che succede, alle sfide dell’acciaio globale. [11/02/2004]

MA LA SCOMMESSA È L'INNOVAZIONE

Lavorate di più, così la produttività aumenta e con essa la competitività del paese. Peccato che i fondamentali, in simili inviti, siano fuori posto. Infatti l’espressione «produttività del lavoro», a rigore, indica il valore aggiunto per ora effettivamente lavorata, o se si preferisce la quota di Pil pro capite prodotta da un lavoratore nella stessa unità di tempo. Non il volume lordo della produzione. Pertanto la richiesta di lavorare più ore alla settimana, come quella fatta in Germania dalla Siemens a un gruppo di dipendenti, non servirebbe per aumentare la produttività del lavoro. A parità di condizioni, allungare l’orario di lavoro permette di aumentare la produzione, ma non la produttività oraria, che è quella che più conta. E anzi possibile che la produttività diminuisca, dato che lavorare stanca, e quando si è stanchi i ritmi si allentano e i rischi di errori crescono.

Se si volesse davvero aumentare la produttività del lavoro, le strade da seguire sarebbero altre. La prima consiste nello sviluppare prodotti abbastanza ingegnosi da poter essere fabbricati a basso costo e venduti a caro prezzo, perché i consumatori sono attratti dal loro elevato valore d’uso. Dato che la differenza tra il costo di produzione e il prezzo di vendita forma il valore aggiunto, se il primo è basso e il secondo è alto il valore aggiunto si moltiplica, creando le premesse per allargare il mercato, nonché per elevare insieme tanto i salari quanto i profitti. E il caso di gran parte dell’elettronica di consumo, vedi il successo dei videotelefonini; ma l’equazio-

ne vale per qualsiasi prodotto. Una seconda strada per accrescere la produttività del lavoro consiste nel dotare i lavoratori di mezzi di produzione più efficienti, ossia nell’investire in macchinari, impianti, tec-

nologie infotelematiche. La terza strada è la più difficile ma è anche la più promettente: migliorare l’organizzazione del lavoro. Dopo il tanto discorrere sulla morte del fordismo, sull’avvento della zew economy, sullo sviluppo del capitalismo informazionale tutto fondato sui bit e poco o nulla su strutture materiali, l’orga-

nizzazione del lavoro nelle imprese poggia ancor sempre su mansioni parcellari e ripetitive, sulla separazione netta tra i pochi che pensano e i molti che eseguono, sulla impossibilità per i lavoratori di partecipare a decisioni cruciali per l’efficienza della produzione. A fianco del lavoratore, per regolarne i ritmi, magari non c’è più il cronometrista, sostituito da un computer, ma alla persona che lavora si continua a chiedere la forza delle braccia più di quella della mente. Salvo poi scoprire che se questa non viene usata, magari di nascosto al caporeparto, il flusso produttivo si inceppa. In una catena di montaggio come in un call-center o un McDonald's. Nel caso che le imprese, stimolate eventualmente dal caso Siemens, chiedessero ai sindacati di contribuire ad aumenta-

re la produttività del lavoro, questi non dovrebbero rispon79

dere con un no secco. Potrebbero pertino disporsi a contrattare. Ammesso però che la controparte accolga alcuni semplici criteri preliminari: aumentare la produttività non vuol dire faticare di più nelle stesse condizioni di prima, bensì lavorare meglio; la produttività del lavoro non aumenta senza innovazioni di prodotto e di processo; il maggior giacimento di produttività cui si possa pensare consiste in una organiz-

zazione del lavoro che rispetti e utilizzi l'intelligenza delle persone più che le loro braccia. Con una nota finale: i guadagni derivanti dalla produttività accresciuta andrebbero distribuiti più equamente tra retribuzioni e profitti, diversamente da quello che è avvenuto da vent'anni a questa parte. [13/07/2004]

IL DECLINO INDUSTRIALE DELL'ITALIA SENZA IMPRESE

Secondo una dichiarazione rilasciata poco dopo la sua nomi. na, il ministro dell'Economia Domenico Siniscalco ha detto di non credere al declino dell'industria italiana. Quel che ad

alcuni sembra un declino sarebbe in realtà l'esito di una profonda trasformazione della nostra struttura industriale. Il parere del ministro merita un commento per due ragioni. Anzitutto nella elaborazione di interventi eventualmente diretti a contrastare il declino dell'industria, meglio ancora a rilanciarla, il ministero dell'Economia conta assai più dell’evanescente ministero per le Attività produttive. Anche perché esso controlla tramite il Tesoro alcuni degli ultimi pezzi pregiati dell'industria italiana, Eni e Finmeccanica, per i quali sono in vista novità importanti, tra cui la possibile creazione di Finmeccanica 2. Se il suo titolare per primo crede che il declino non esista, tali interventi non vi saranno, oppure avranno un indirizzo molto diverso. In secondo luogo un parere analogo nella sostanza a quello del ministro è stato espresso di recente da autorevoli esponenti del centro-sini80

stra. In questo caso esso si rifletterebbe nel programma di quest’ultimo per le prossime elezioni politiche, di cui la politica industriale dovrebbe essere un ampio capitolo Affermare che l'industria italiana non soffre di declino, bensì si è trasformata, può significare almeno tre cose diverse. Che certi settori dell'industria sono realmente scomparsi, però ne sono emersi altri che prima non esistevano o erano di modesto peso. Oppure significa che uno stesso settore si è differenziato al suo interno, e sebbene continui a venir designato con il medesimo nome produce beni e servizi differenti. Infine la stessa affermazione può voler dire che un intero settore, caratterizzato un tempo da poche grandi imprese, si è frazionato in un gran numero di imprese piccole e medie. Come settore nel suo complesso continua a prosperare, ma le dimensioni ridotte di ciascuna impresa fanno sì che il settore sia diventato invisibile o quasi ai tradizionali metodi di misurazione delle attività economiche. Riguardo ai primi due modi di concepire le trasformazioni dell'industria, le statistiche internazionali non offrono in verità molti appigli per sostenere che l'industria italiana, indossate nuove vesti, gode tuttora di buona salute. Si prenda ad esempio l'elenco delle Global 1000, le prime mille società del mondo classificate in base al loro valore di mercato, pubblicato ai primi di agosto 2004 da «BusinessWeek». La prima cosa che salta all’occhio in tale elenco è che tra le prime 50 ben 36 sono società o gruppi industriali, e industriali sono le prime 4: General Electric, Microsoft, Exxon e Pfizer. Il primo gruppo italiano in classifica è l’Eni, al 37° posto, con un buon avanzamento rispetto al 2003 quando era 50°. Tra l'86° e il 105° posto si collocano Enel, Tim e Telecom Italia. Dopodiché per trovare altre imprese industriali italiane occorre scendere verso il 750° posto, dove stanno fianco a fianco Edison e Luxottica. Saltando un altro centinaio di scalini verso il basso si incontrano finalmente il gruppo Fiat (841°) e Finmeccanica (850°, con un forte balzo all’ingiù perché nel 2003 l'analogo rapporto la poneva al 669°), strette tra un fol 81

to gruppo di corporations non appartenenti, parrebbe, ai primi paesi industriali del mondo. Sono infatti spagnole, canadesi, taiwanesi, tailandesi, messicane. Che cosa si può trarre da tale elenco a favore dell’ipotesi che l’industria italiana non declina bensì va trastormandosi? Piuttosto poco. La sola novità — per quanto significativa — è rappresentata dal gruppo Luxottica, diventato il primo produttore mondiale di occhiali. Il cui valore di mercato è più elevato del gruppo Fiat — 7,3 miliardi di dollari rispetto a 6,4 — ma le cui vendite sono 17 volte minori: 3,4 mi-

liardi di dollari contro 57,7 nel 2003, secondo il dossier di «BusinessWeek». In altre parole ci vorrebbero in Italia altre 17 novità delle dimensioni di Luxottica per pareggiare i volumi di vendita, e quelli correlati di produzione e di occupazione diretta e indiretta, dell'ultimo grande gruppo manifatturiero esistente in Italia. Per il resto dall'elenco in parola il quadro che si ricava dell'industria italiana appare così connotato: tolte le prime 4 (Eni, Enel, Tim e Telecom Italia), le altre 5 si collocano

verso il fondo della classifica, dietro a centinaia di società appartenenti a paesi più piccoli o meno sviluppati dell’Italia. Per di più in una prospettiva comparata le imprese industriali italiane sono scarse: appena 9 sulle 23 società incluse nell'elenco, una minoranza, mentre quelle britanniche sono 40 o più su 73, le francesi 32-33 su 44, le tedesche 23 sud:

Da ultimo si osserva che le 9 imprese industriali italiane producono precisamente i beni e i servizi descritti dalla loro ragione sociale, come più o meno hanno fatto sin dalla nascita. Ossia non si sono trasformate affatto, nel senso di avere costituito entro di sé sottosettori che a fronte di una crisi di lungo periodo delle produzioni tradizionali assicurerebbero comunque la sopravvivenza e la crescita del gruppo. Salvo voler considerare rivoluzionario il fatto che l'Enel abbia una consociata telefonica, o salvifico per il gruppo Fiat avere acquisito delle partecipazioni in campo energetico. 82

Resterebbe, dalla parte dell’ipotesi «non declino ma mi trasformo», che stando alle dichiarazioni del ministro e del

centro-sinistra ricordate all’inizio apparirebbe curiosamente bipartisan, l’obiezione che le imprese industriali italiane sono ormai quasi tutte delle piccole-medie imprese, nessuna delle quali ha una stazza sufficiente per entrare nell’elenco delle Global 1000 di «BusinessWeek», o in quelle simili redatte annualmente da «Fortune», «Financial Times», o «Standard & Poor's». Sarebbe come dire che l’industria italiana c’è, ed è solida, ma le sue unità hanno — volutamente e felicemente

— dimensioni troppo limitate per poter essere captate dalle grezze lenti delle classifiche internazionali. Donde l’implicazione che l’Italia risulterebbe essere l’unico paese al mondo che insiste a definirsi industriale pur non avendo più imprese industriali capaci di far ricerca e sviluppo su larga scala, e di reggere alla concorrenza internazionale grazie alla novità e alla qualità dei loro prodotti anziché alla compressione del costo del lavoro. Un paese che sembra altresì aver rinunciato ad avere in mano propria, piuttosto che nelle mani di gruppi economici di altri paesi, i centri di governo della propria attività. [17/08/2004]

TRE PROPOSTE CONTRO IL DECLINO

Allo scopo di uscire dal declino un primo passo consiste nell'ammettere che esso esiste. Bisogna riconoscere a Luca Cordero di Montezemolo il merito di aver compiuto tale passo nel ruolo di presidente della Confindustria. Indicando in dettaglio parecchie cause della crisi, senza nascondersi che in qualche misura tra di esse vanno collocate anche scelte imprenditoriali. Il suo rapporto ha collocato tra i segni incontrovertibili di declino la crescita esigua del Pil. E la stagnazione della produzione industriale in tutti i principali settori, congiunta alla scarsa produttività del lavoro e alla diminuzione in 83

un decennio, in termini reali, di oltre un punto e mezzo della quota italiana delle esportazioni nel mondo, dal 4,6 al 3 per cento. Tra le cause ha menzionato il basso livello delle attività di ricerca e sviluppo, gli investimenti pubblici e privati ridotti al minimo, e ha insistito con forza — finalmente — sul fatto che a fronte del 95 per cento di imprese che hanno meno di dieci dipendenti, tanto le prime che i secondi non raggiungeranno mai un livello paragonabile ai vicini paesi Ue. Nondimeno, poiché sembra che i segni non bastino mai per convincere il governo che l'economia del nostro paese corre da tempo seri rischi, che la perdita di posizioni rispetto ad altri paesi sta diventando drammatica, è sempre utile aggiungerne altri. Ricordando, ad esempio, che tra le 2000 società più importanti del mondo classificate secondo un indice che combina vendite, utili e valore in Borsa, pubblicata da «Forbes» la primavera scorsa, l’Italia compare con sole 42 società, contro le 64 della Germania, le 67 della Francia e le 132 del Regno Unito. Per tacere di paesi che hanno tra un quarto e un ottavo della nostra popolazione — Olanda, Svezia, Svizzera — e però sono presenti nello stesso gruppo con un numero di gruppi economici di poco inferiore al nostro. La Svizzera, per dire, con i suoi sette milioni di abitanti, porta in detta classifica ben 36 società. Parecchie delle quali, si noti, sono gruppi industriali. Ove non bastasse il dato contingente per giungere adammettere che sotto il protilo industriale stiamo diventando un paese piccolo e arretrato, ci sono le serie storiche. «Busi-

nessWeek» pubblica ogni anno un’altra classifica, quella delle Global 1000, ordinate in questo caso per valore di mercato. In essa si scopre che nel 2000 le società italiane erano presenti in 31; nella edizione aggiornata al maggio 2004 sono scese a 23. Tra queste i gruppi industriali sono in minoranza, e molti appaiono situarsi intorno al 750° posto cal disotto. In tale posizione si trovano appunto Edison, Luxottica, Fiat e Finmeccanica. Non ancora convinti che il declino esiste e che negarlo equivale a danzare mentre la nave affonda? Suggerirei come 84

ulteriore stimolo di dare una scorsa al fiume di rapporti sullo stato della nostra economia che escono da centri di ricerca europei, sia pubblici che privati. Ho sott’occhio, tra i tanti, un documento dell'ufficio studi del gruppo Allianz e della Dresdner Bank, giugno 2004, che con equilibrio e ricchezza di dati dice in sostanza che la mancanza di competitività dell'economia italiana è dovuta a serie debolezze strutturali. Grosso modo le stesse indicate da Montezemolo nel suo rapporto, dalle dimensioni troppo piccole delle imprese agli investimenti troppo scarsi in ricerca e innovazione. Anche in

questo caso, ovviamente, si può cercare di sottrarsi all’evidenza sostenendo che tedeschi e francesi, olandesi e britannici hanno interesse a dipingere a tinte fosche la situazione italiana allo scopo di dirottare gli investitori verso i loro rispettivi paesi. Il fatto è che i rapporti in questione descrivono di solito vari paesi Ue, non solo il proprio, come spazi profittevoli per compiervi investimenti, perché essi presentano dati strutturali molto più favorevoli che non l'Italia. Un secondo passo per provare almeno a uscire dal declino — se mai il governo compisse il primo — dovrebbe consistere nel farsi venire delle idee in tema di politica economica e industriale. Il terzo passo starebbe nel predisporre i mezzi per attuarle. E qui la strada si presenta davvero impervia. Le idee al riguardo non nascono dal nulla. Nascono — così accade in Francia, in Germania, in Gran Bretagna — da un dialogo sistematico e permanente tra ministeri, enti territoriali, ate-

nei, istituti di ricerca scientifica e tecnologica privati e pubblici, sindacati, associazioni imprenditoriali, unioni professionali. Un dialogo diretto a far emergere quali sono i punti di forza e di debolezza di un'economia, e quali sono gli spazi in cui concentrare le risorse disponibili per avviare poli di competenza e reti di sviluppo con elevati livelli di integrazione interna ed esterna. Duole dirlo, ma i duecento distretti industriali italiani — sulle cui virtù salvifiche sono stati in molti a illudersi — al confronto con meraviglie industriali come il polo aeronau85

tico di Tolosa, la Optics Valley a sudest di Parigi, o il distretto biotecnologico dell’area di Monaco di Baviera, appaiono, forse con una dozzina scarsa di eccezioni, in ritar-

do di quarant'anni. E non già perché da noi manchino tecnici, scienziati, imprenditori e lavoratori di prim'ordine. Piuttosto perché manca — per tornare al terzo passo necessario volendo uscire dal declino — sia l'iniziativa che una idonea strumentazione organizzativa da parte del governo e

dello Stato. Se mai venissero elaborate, quelle tali idee di politica economica, avrebbero poi bisogno di organi operativi per essere tradotte in realtà. Ma quali ministeri potrebbero operare in Italia a tale scopo, con i propri mezzi o inventando nuove forme di organizzazione? Il ministero dell'Economia gestisce il patrimonio di cui lo Stato è ancora proprietario con lo spirito imprenditoriale di un amministratore di condominio. Basti pensare alla vicenda Alitalia, alla cui crisi decennale il ministero ha semplicemente assistito anche quando controllava ancora il 100 per cento del capitale. Per il ministero delle Attività produttive l’industria è un settore di cui ci si occupa insieme con molti altri, sino a non avere una direzione che si occupi esclusivamente di essa — dico esclusivamente, non insieme con altre decine di competenze — diversamente da quanto si osserva nei principali paesi Ue. Dove l’industria manifatturiera figura in modo cospicuo tra gli ambiti di cui si occupa direttamente il ministro dell'Economia, o un ministro delegato, come avviene in Francia. Da parte sua il ministro per l'Innovazione scientifica e tecnologica si interessa solamente di informatica, una tecnologia certo di importanza primaria, se non fosse che ne esistono oggi decine di altre parimenti importanti. Infine il ministero per l’Università e la Ricerca appare impegnato in prevalenza a produrre norme e decreti, compresi quelli che istituiscono distretti tecnologici che avranno forse un brillante avvenire, ma per ora sono formati da valenti quanto ristrette pattuglie di ricercatori e di tecnici. 86

Una politica di rilancio dell'economia e dell’industria diventerà realtà, è quindi lecito sostenere, allorché il nostro

paese avrà la forza di compiere i tre passi suddetti. Dopo il rapporto di Confindustria, il primo, prendere atto del declino, forse lo compiranno anche altri soggetti istituzionali. I sindacati lo hanno fatto da tempo. Per gli altri due possiamo soltanto sperare che qualche iniziativa di lungo periodo venga quanto meno avviata. Prima che il Botswana ci sopravan-

zi sulla via dello sviluppo. [16/12/2004]

AZIENDA ITALIA IN VENDITA

La chiusura a Terni, per mano di ThyssenKrupp, di un reparto che produce acciai di qualità, e la cessione del Gruppo Lucchini ai russi della Severstal, sono un brutto indicatore circa la capacità dell’Italia di continuare ad avere una grande industria manifatturiera. Per due ragioni. In primo luogo, si può comprendere che vi siano settori, tipo il tessile, che sono in crisi a causa della concorrenza dei paesi emergenti, ma as-

sistere alla perdita di settori come la siderurgia, che al presente in generale vanno bene, sembra inspiegabile. Infatti la domanda di acciaio nel mondo ha preso fortemente a crescere. Nessuno dei maggiori paesi produttori riesce a soddisfare la propria domanda interna. Nemmeno la Cina, il cui fabbisogno è aumentato di quasi il 50 per cento in pochi anni. Domanda che cresce più della produzione vuol dire prezzi di vendita che salgono, fino al 40 per cento nell’ultimo anno. In tale scenario mondiale l’Italia parrebbe ben piazzata. Con quasi27 milioni di tonnellate d’acciaio prodotte nel 2003, si colloca al secondo posto nella Ue, sopravanzando di gran lunga Francia e Gran Bretagna. E anche una grande consumatrice di prodotti siderurgici, grazie all’auto, agli elettrodomestici, all'industria delle costruzioni, che nell'insieme ne

hanno acquistati 33,5 milioni di tonnellate. Considerate que87

ste favorevoli premesse, vedere decurtata la produzione alla Acciai Speciali di Terni, e un’azienda storica come la Lucchini forzata a vendere per un debito di qualche centinaio di milioni di euro, obbliga a una conclusione: né gli imprenditori del settore siderurgico, né i nostri ministeri economici, hanno saputo finora avviare quel processo di modernizzazione degli impianti, concentrazione di siti produttivi (ancora 42 — trop-

pi), innovazione dei processi produttivi per ridurre l’impatto ambientale, che dovrebbe consolidare prima che sia tardi l’industria dell’acciaio. In secondo luogo, si può soltanto sperare che i tagli presenti della ThyssenKrupp a Terni non anticipino il futuro della cessione della Lucchini ai russi. L'Italia è il solo paese Ue in cui quasi la metà dell'industria chimica, della farmaceutica, dell’alimentare, dell’elettrotecnica di gamma alta, degli elettrodomestici, della teletonia mobile ecc., è controllata da imprese estere. Esse preferiscono di solito chiudere un sito produttivo da noi piuttosto che a casa loro. Se anche la siderurgia dovesse proseguire su tale strada, tanto varrebbe mettere in Internet un avviso tipo «Economia nazionale vendesi». Non mancano coloro che a fronte di tale situazione avanzano rassicurazioni asserendo che questa è semplicemente la globalizzazione. A essi va risposto che i paesi i quali meglio reggono la globalizzazione sono quelli che attirano molti investimenti diretti dall'estero (Ide), e ne effettuano in misura pressappoco equivalente. Non è la situazione dell’Italia. Nel 2003 essa ha ricevuto appena 16,4 miliardi di dollari di Ide, e ne ha effettuati la miseria di 9,1. La Francia ne ha ricevuti quasi tre volte tanti, 46,9 miliardi di dollari, e ne ha effettuati oltre sei volte di più, cioè 57,2 miliardi. E con una popolazione quattro volte minore della nostra l'Olanda ci ha largamente battuto nei flussi di Ide, sia in entrata, con 19,6 miliardi di dollari, sia in uscita, con ben 36 miliardi. Sembrerebbe quindi che aver passato nelle mani di imprese estere quasi metà dei nostri principali settori industriali ci abbia portato in casa il peggio della globalizzazione, cioè 88

la dipendenza da soggetti economici lontani e irresponsabili; piuttosto che il meglio, l'ingresso su ampia scala nell’economia dei grandi paesi emergenti. [08/02/2005]

COMPETITIVITÀ: LE RESPONSABILITÀ DELLE IMPRESE

Il rapporto di Confindustria sulla situazione dell'economia italiana — denominato «Check-up competitività», aprile 2005 — presenta una lunga serie di dati che attestano in modo inequivocabile come essa volga al peggio, sia rispetto al proprio stesso passato, sia nel confronto con le principali economie europee. Saremo pure il paese con il maggior numero di auto e di cellulari per abitante, come ha sottolineato nei giorni scorsi il presidente del Consiglio per declamare ancora una volta quanto siamo benestanti. Ma se i dati assemblati dal Centro studi di Confindustria non miglioreranno rapidamente nei prossimi anni, rischiamo anche di essere il paese con il maggior numero di imprese in via di fallimento, o ridotte ai margini dei circuiti produttivi internazionali. Nonché di lavoratori poveri rinchiusi in un cerchio invalicabile di lavori precari, e di giovani senza più speranze.

Il rapporto non fa proposte per ovviare a tale rischio, ma esse sono implicite nei dati che contiene e nel modo in cui sono organizzati. Un modo che ha il merito di non risparmiare nulla allo Stato e alla politica, per ciò che attiene alle rispettive responsabilità nel causare il peggioramento strutturale della situazione economica; ma, a ben guardare, nemmeno alle imprese. Senza che le responsabilità dei primi possano essere separate nettamente da quelle delle seconde. È come tirare il filo di un certo colore in un gomitolo arruffato che di colori ne contiene diversi. Si veda la ridotta percentuale di popolazione in età 25-34 anni che ha conseguito un titolo di studio universitario. In Italia nel 2002 essa toccava solamente il 12 per cento, poco più di metà della Germania, e appena un terzo ri89

spetto alla Francia. Nel produrre tale deficit le responsabilità decennali dello Stato e della politica sono indubbie. Peraltro appena si tira un po’ il filo delle cause della competitività perduta si scopre che anche le imprese non ne escono indenni. Tra i laureati, infatti, enfatizza il rapporto, sono troppo pochi rispetto agli altri paesi Ue i laureati in materie

scientifiche e tecnologiche. Un dato in merito al quale va notato che i tipi di laurea si dirigono dove il mercato del lavoro offre occupazioni attraenti, ma questo non è il caso di tali laureati. Si sa che a essi l’industria e i servizi — lo provano le rilevazioni del consorzio inter-universitario Almalaurea — offrono anche dopo diversi anni di lavoro le retribuzioni più basse tra tutte le specializzazioni universitarie, insegnanti esclusi. Di conseguenza gli iscritti a tali tipi di laurea sono complessivamente in forte diminuzione da una quindicina d’anni. Se uno continua a tirare questo o quel filo si fanno altre scoperte, nel rapporto in parola. Ad esempio il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato di oltre il 3 per cento l’anno, riducendo la capacità competitiva delle imprese italiane. Ciò è dovuto in parte alla stagnazione della produttività del lavoro: appena lo 0,3 per cento annuo, contro il 2,5 della Spagna e addirittura il 4,7 del Regno Unito. In parte al permanere di un rilevante cuneo fiscale, che fatta uguale a 100 la retribuzione netta spettante al lavoratore aggiunge un onere di ben 83 punti a carico delle imprese. Ridurre il suddetto cuneo è certamente un compito dello Stato — anche se in paesi molto più competitivi dell’Italia come la Francia e la Germania esso è ancora più elevato. Ma lo stesso rapporto dice altresì che le imprese italiane investono poco in tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in formazione manageriale e in organizzazione; esportano beni ad alto contenuto tecnologico in misura pari alla metà dei maggiori partner europei, appena il 12 per cento contro il

23; cooperano in misura minima con le università. Un insieme di condizioni che non può che incidere negativamente sul livello di produttività del lavoro. 90

Tra altri fattori che incidono negativamente sulla competitività delle imprese italiane il rapporto del Centro studi di Confindustria colloca la burocrazia, l'eccesso di regolazione,

le lunghe pratiche per aprire un’attività di impresa. Anche in questo caso il tentativo di tirare fili di uno stesso colore dall’aggrovigliato gomitolo della competitività non va a buon esito. Infatti è certo vero che le regole pongono vincoli all’attività economica, e lo Stato deve in ciò limitarsi; però non si può ignorare che le imprese italiane non presentano un record autoregolativo particolarmente lusinghiero nei casi in cui le regole pubbliche sono state per lungo tempo minime, ad esempio in campo ambientale. Diversamente dai nodi della mitologia, un simile groviglio di concause che hanno portato al declino della capacità industriale del nostro paese non si può tagliare. Conviene, faticosamente, cercare di districarlo. Ha impiegato anni per formarsi; ce ne vorranno altri per rimettere in ordine i diversi fi-

li. Il rapporto di Confindustria aiuta a capire quali potrebbero essere a tal fine i ruoli complementari della politica e dello Stato, e delle imprese. [24/04/2005]

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Nuove sfide a scuola e università

QUELLA SCELTA AL BUIO TRA SCUOLA E LAVORO

Il progetto di riforma della scuola approvato a inizio 2002 dal governo contiene due provvedimenti in tema di rapporti tra scuola e mondo del lavoro che si possono giudicare uno benefico, l’altro dannoso. Tra i due provvedimenti, inoltre, esiste una patente contraddizione. Da accogliere con favore è l'alternanza prevista tra scuola e lavoro per gli studenti che hanno compiuto il quindicesimo anno di età (art. 2, comma g, e art. 4 della proposta di legge delega). Con un piccolo dubbio. Detti articoli affermano in generale che «i diplomi e le qualifiche si possono conseguire in alternanza scuola-lavoro» e che si vuol assicurare «la possibilità di realizzare i percorsi del secondo ciclo in alternanza scuola-lavoro». Ciò lascerebbe pensare che l’alternanza sia possibile — e bene sarebbe — tanto nei licei che nell’istruzione professionale. Invece nel grafico allegato al testo nel sito del Miur l’alternanza parrebbe riferirsi solo al sistema dell’istruzione professionale. Resta comunque fermo che il progetto configura, in pratica, l'estensione a tutto o a buona parte del secondo ciclo del-

la scuola riformata dei periodi di tirocinio che da anni registrano un buon successo in alcuni percorsi della formazione universitaria. Mi riferisco in specie ai corsi di laurea in Scienze dell'Educazione, verso la fine dei quali gli studenti sono stati finora tenuti a svolgere per circa due mesi un'attività lavorativa presso organizzazioni di vario tipo scelte — in pre93

senza di determinati requisiti — da loro stessi. Svolgendo tali attività gli studenti apprendono a conoscere di persona i problemi d’un determinato contesto lavorativo, la complessità delle strutture organizzative, le difficoltà del collaborare con

altri. Tali esperienze sono utili al giovane per formarsi un’immagine realistica della società, per scegliere con maggior consapevolezza le materie di insegnamento, e presentarsi infine sul mercato del lavoro con una preparazione più adeguata. Se però tali esperienze arrivano soltanto sul finire degli studi universitari, ciò significa che un giovane ha trascorso quasi

vent'anni sui banchi senza avere avuto alcun contatto con il mondo del lavoro. Ben venga quindi l’anticipazione dei tirocini a partire dai quindici anni. Offerto questo contributo al miglioramento dei rapporti tra scuola e lavoro, la proposta di riforma si impegna subito a comprometterli stabilendo che la scelta tra il sistema dei licei e il sistema dell’istruzione e della formazione professionale avvenga tra i tredici anni e mezzo e i quattordici, quando lo studente ha concluso il primo ciclo. Dato che ne hanno già parlato in tanti, sorvolerò qui sul fatto che una simile scelta è un efficace mezzo per riprodurre le disuguaglianze di classe sociale, e riporta in sostanza la scuola alla situazione pre-1962, quando i quattordicenni avevano dinanzi il bivio draconiano tra avviamento e ginnasio. Mi limito a sottolineare che una scelta meditata tra liceo e formazione professionale presuppone una conoscenza del mondo del lavoro che i tredicenniquattordicenni semplicemente non possono avere. Non ingannino la loro dimestichezza con Internet e l’universo delle chat o dei blog, o l’abilità di coniare nuove forme linguistiche inviando miriadi di messaggini sul cellulare. La ricerca come l’esperienza dicono che del mondo del lavoro, dell'universo dei lavori, ragazzi e ragazze hanno per lo più una rappresentazione semplificata e spesso sorprendentemente convenzionale. E l’immagine trasmessa loro dai media, dalle famiglie, dalla scuola stessa, stando alla quale l’industria con i suoi difficili mestieri non esiste quasi più, le fem94

mine aspirano ancor sempre a far le segretarie o le contabili, mentre i maschi vogliono studiare tutti da ingegneri. Una scelta tanto precoce tra liceo e formazione professionale come quella prevista dal progetto di riforma non costituisce perciò solamente un salto indietro alla situazione pre1962. E perfino un peggioramento. Perché in questi trent’an-

ni il mondo del lavoro è diventato molto più complesso. Quasi tutte le professioni si sono fortemente differenziate, ne sono nate di nuove a migliaia, si sono formati ibridi d’ogni sorta, i lavori tradizionali hanno contenuti inediti. Di conseguenza si sono accresciute le difficoltà per chiunque di formarsi una rappresentazione abbastanza articolata e realistica del mondo del lavoro, tale da permettere di compiere scelte ponderate, in cui ne va del proprio futuro. È codesta rappresentazione che un giovane dovrebbe avere ben chiara quando sceglie tra liceo e formazione professionale. Ma è praticamente impossibile che un quattordicenne o la sua famiglia se la siano formata. Per ottenere questo scopo occorrono centinaia di ore di colloqui di orientamento, di esperienze sul campo, di lezioni e discussioni con esperti, che è impossibile comprimere nel primo ciclo, o che per varie ragioni sarebbe fuori luogo inserirvi. È qui che emerge la contraddizione tra i due provvedimenti inscritti nella proposta di riforma che riguardano i rapporti scuola-lavoro. Uno dei metodi più efficaci per sviluppare nei giovani una rappresentazione adeguata delle complessità del mondo del lavoro sono infatti i tirocini. Nel mentre svolgono una reale attività lavorativa, un giovane o una

giovane non sono infatti solamente portati a comprendere i rudimenti del lavoro che forse interesserebbe loro fare. Vengono a contatto con persone impegnate in lavori diversi; sperimentano modi differenti di lavorare; si confrontano con svariati modelli organizzativi. Dopo un tirocinio relativamente lungo, meglio ancora dopo alcuni tirocini, ciò comporta che la rappresentazione del mondo del lavoro che si costruiscono nelle loro menti si sarà 95

notevolmente complicata e ampliata. A quel punto i giovani sono in condizione di scegliere a ragion veduta che cosa fare da grandi. Perciò sarebbero anche nella miglior condizione per scegliere meditatamente il percorso della formazione professionale, o invece quello liceale. Accade però che il progetto di riforma preveda di alternare scuola e lavoro solo dopo aver iniziato il secondo ciclo, quando la scelta tra i due percorsi è già stata compiuta. È vero che l’art. 2 della proposta di riforma ammette la possibilità formale di passare dal sistema dei licei al sistema dell'istruzione e della formazione, e viceversa. Ma le ditterenze di contenuti e di metodologie didattiche dei due percorsi sono tali da rendere nella realtà impossibile, entro breve tempo, 0 inappetibile per i più, un simile passaggio. In sostanza la riforma propone ai giovani di scegliere al buio tra formazione professionale e liceo, preoccupandosi però di fornire loro, qualche anno dopo, imezzi per diradare quel buio. E scoprire magari di avere fatto la scelta sbagliata. Un modo etficace per fabbricare un buon numero di esistenze frustrate, e nel contempo privare il mondo del lavoro, e il paese, di talenti emotivazioni. [07/02/2002]

LA LOGICA DELLO «SPOILS SYSTEM» E IL GIURAMENTO DEI PROFESSORI

L’epurazione in corso dei dirigenti pubblici, intrapresa dal governo per ragioni dichiaratamente politiche, induce a porsi una semplice domanda: dopo i dirigenti, a chi potrebbe toccare? Azzardo una risposta: ai docenti universitari. Dal punto di vista d'un governo che tutto sopporta fuorché il dissenso, i motivi per cercare di mettere a tacere i professori non mancano. Vi sono docenti che criticano pubblicamente il suo operato scrivendo sui pochi giornali non ancora allineati con il regime. Altri pubblicano libri di storia in cui osano affer96

mare che la Repubblica italiana è nata dalla Resistenza, e che questa non fu una parte qualsiasi dell’Italia alla quale occasionali vicende del tempo assegnaronoil ruolo di vincitrice, bensì la parte che meritava di avere la meglio per solide basi etiche e politiche. Alcuni, nientemeno, occupano il tempo libero per animare i movimenti che dall’inizio del 2002 hanno espresso la loro indignazione dinanzi alla deriva costituzionale in cui la destra sta trascinando il paese. Non si può nemmeno escludere del tutto che ve ne sian perfino di quelli che, mentre fan lezione, esprimono giudizi negativi su questo o quell’atto del governo attinente alla scuola e alla cultura. Non pare quindi fuori luogo temere che qualcuno, nella maggioranza, stia pensando al modo di indurre i ‘prof’ a evitare di esprimere ogni forma di dissenso. Imporre loro un giuramento di fedeltà, come fece Mussolini nel 1931, suggerirebbe paragoni imbarazzanti. Un succedaneo efficace potrebbe consistere nel toccare il fondamento stesso della loro posizione istituzionale, ossia la inamovibilità dal posto — salvo gravi reati di diritto comune — una volta che esso sia stato ottenuto mediante concorso. La inamovibilità (la tenure degli anglosassoni) tanto per gli insegnanti quanto per i docenti universitari, nel sistema di istruzione pubblico, è stata in molti paesi una faticosa conquista durata gran parte dell'Ottocento e del primo Novecento. Suo principio ispiratore è stata l'intenzione di sottrarre l’insegnamento e la ricerca al volere sia del principe che dei politici, sia delle autorità religiose che del locale padrone delle ferriere. Sulla inamovibilità si fonda, per i professori, la possibilità di praticare realmente, giorno per giorno, il primo comma dell’art. 33 della Costituzione: «L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento». In connessione inscindibile con il primo comma dell’art. 21, «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». Il rischio che il principio della inamovibilità sia intaccato deliberatamente dall’attuale governo non è poi tanto remo97

ta. Risulta infatti che nel disegno di legge sullo stato giuridico dei docenti universitari sia previsto che i futuri vincitori di concorso delle tre fasce non saranno assunti subito in ruolo in via definitiva, ferma la verifica dopo tre anni della loro operosità scientifica e didattica, com'è avvenuto finora. Ai nuovi vincitori verrebbe invece offerto un contratto con l'università della durata di pochi anni, eventualmente rinnovabile. Ciò non toccherebbe gli attuali professori ordinari, ma tutti coloro che faranno un concorso per passare da una fascia a quella superiore, o per entrare per la prima volta nell'università. Sarebbe in tal modo avviata la precarizzazione della docenza universitaria, strumento d'elezione di controllo ideologico. Chi mai vorrebbe presentarsi con qualche peccato d'opinione dinanzi a una commissione di nomina governativa, quando dal giudizio di questa dipende la carriera? D'altra parte, qualcuno nella maggioranza potrebbe sostenere che se si epurano i dirigenti, non v'è motivo per non epurare anche i docenti universitari, che nella gerarchia dei pubblici dipendenti occupano pur essi un posto elevato. È lo spoz/s systerz, il sistema delle spoglie, ossia la pratica per cui un governo che entra in carica avrebbe il diritto di circondarsi di collaboratori a esso fedeli in tutti i settori della pubblica amministrazione. Secondo gli esponenti del governo esso farebbe parte delle democrazie mature; ergo era tempo che fosse applicato metodicamente anche da noi. La realtà è ben diversa. In Usa, dove tale pratica era in uso sin dai primi decenni dell'Ottocento (sarà per giustificarla che il senatore William Marcy pronuncerà nel 1832 la frase «Le spoglie del nemico appartengono al vincitore»), esso diede origine a una tal somma di abusi, da essere sottoposto a dure critiche sin dagli anni ’80 di quel secolo. Finché il partito che vincendo le elezioni andava al governo si limitava a nominare ambasciatori di suo gradimento, o direttori delle imposte, o giudici federali, il sistema appariva ragionevole. Ma se questo veniva esteso all’ingiù, come in Usa avvenne per cir98

ca mezzo secolo, sino a includere funzionari di livello medio e basso, chi ne soffriva — diretti interessati a parte — era in primo luogo la pubblica amministrazione, a causa delle troppe nomine fatte sulla base della lealtà al partito piuttosto che della competenza. Il colpo definitivo allo spoz/s systerz inteso come saccheggio di tutti i posti possibili da parte del partito vincitore lo diede Benjamin Harrison, 23° presidente degli Stati Uniti, in

carica dal 1889 al 1893. In un solo anno sostituì 31.000 direttori di uffici postali che riteneva del colore politico sbagliato, gettando così le poste americane nella peggiore crisi della loro storia. Per reazione, da allora in poi, con una serie

di leggi 44 hoc, le nomine nella pubblica amministrazione Usa, sia quella federale che quella dei singoli Stati — tranne i massimi livelli di cui si diceva — furono sempre più rigorosamente assoggettate al principio della competenza accertata sulla base di titoli e prove. La stessa espressione spoz/s systerz assunse una connotazione negativa, che conserva tuttora, per designare traffici più o meno equivoci tra i partiti e i loro sostenitori.

L'introduzione per legge dello spoz/s systerz in Italia non rappresenta dunque una modernizzazione del nostro sistema politico, bensì una sua regressione. Nel 1931 i professori universitari di ruolo che rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo furono in tutto 12 su 1200, ossia l’uno per cento. Al presente i docenti universitari di ruolo, delle tre fasce, sono oltre 50.000. Quanti sarebbero oggi quelli che si opporrebbero, se non alla richiesta di un giuramento, all’intento governativo di far saltare il principale dispositivo giuridico — la inamovibilità dal posto per ragioni politiche — che assicura a tutti la libertà di insegnamento, di ricerca e di espressione? Proviamo a fare un conto sommario, togliendo dal totale

quelli che fanno parte per libera scelta delle forze politiche di maggioranza. Togliamone altri che per ragioni tattiche — supponiamo per continuare a operare all’interno delle istituzioni — finirebbero col cedere, pur essendo ideologicamente agli 5,5)

antipodi della destra di governo. Avvenne nel 1931, destando la collera di Gaetano Salvemini; potrebbe avvenire doma-

ni. Sottraiamo ancora dal totale i 4bera/ irrigiditi nella convinzione che viviamo in un sistema politico normale, e i docenti che non capirebbero ma si adeguerebbero. Se ne ricava che, considerata l’entità del numero iniziale, i docenti decisi a opporsi al progetto di una università assoggettata al potere politico potrebbero comunque risultare alla fine alcune migliaia. Un gruppo abbastanza grande per cominciare fin da oggi a farsi sentire. Chiedendo, ad esempio, che il disegno di legge sullo stato giuridico dei docenti sia profondamente modificato. Prendendo pubblicamente posizione sui rischi per le sorti della natura stessa dell'università che esso potrebbe contenere in forme più o meno esplicite. Affinché simile strada sia imboccata da molti deve però verificarsi una condizione: quella di rendersi conto che la campana che sta suonando per i pubblici dirigenti potrebbe presto suonare anche per i docenti universitari. [17/10/2002]

UN RICATTO SULLE UNIVERSITÀ

Sono grato a Salvatore Settis per aver definito «giustissime» (sulla «Repubblica» dell'8 novembre 2002) le preoccupazioni, anche di ordine politico, da me espresse qualche settimana fa circa la precarizzazione dei docenti universitari insita in un disegno di legge in via di elaborazione presso il Miur. E vero che Settis usa il condizionale: sarebbero giustissime, le mie preoccupazioni, se non fossero fondate su informazioni sbagliate. Si dà però il caso che le informazioni da me utilizzate trovino ampio riscontro in documenti piuttosto attendibili. Mentre lo stesso Settis, membro della commissione che sta lavorando al ddl in parola, conferma che nella bozza di questo sono previste innovazioni quali i contratti a termine, che si configurano di fatto come rile100

vanti fattori di precarizzazione del futuro stato giuridico dei professori. Veniamo ai documenti. Esiste un testo, denominato «Cun Notizie», che propone

regolarmente, a mo’ di verbale, un

dettagliato resoconto delle sedute del Consiglio Universitario Nazionale. Si può consultarlo liberamente in Internet. Il numero 115 contiene il resoconto della seduta del Cun svoltasi il 16 e 17 ottobre 2002. In esso, al paragrafo 1.2.4, si legge che nel pomeriggio del giorno 16 sono intervenuti in aula il Capo di Gabinetto Avv. Di Pace e i Direttori Generali D’Addona e Masia. Il Capo di Gabinetto ha presentato una relazione su vari temi, uno dei quali, il quinto, espressamente titolato «Re-

clutamento e stato giuridico del personale docente e ricercatore». In ordine a detto tema si legge: «A tale proposito la Commissione De Maio [...] ha già individuato alcune linee e principi forti per l'impostazione di un progetto riformatore [...]. In particolare vengono segnalati i seguenti punti: [...] — introduzione del giudizio di idoneità scientifica nazionale ai fini del reclutamento di docenti di I e II fascia, da parte di commissioni nazionali giudicatrici; — procedure per la copertura da parte delle università dei professori in possesso della idoneità sulla base di contratti di durata non superiore a cinque anni rinnovabili per un massimo di dieci anni, al cui termine il rapporto può trasformarsi a tempo indeterminato ovvero risolversi» (enfasi di chi scrive). Dunque, stando a quanto scritto in «Cun Notizie» n. 115 in merito a una specifica seduta del Cun, la bozza di ddl dello statuto giuridico dei professori reintroduce le commissioni nazionali giudicatrici (di cui Settis invece non vede traccia) in luogo di quelle oggi nominate dagli atenei; commissioni che, in quanto nazionali, non vedo come potrebbero essere se non di nomina ministeriale ovvero governativa, seppur fossero precedute da un meccanismo elettorale. Mentre gli idonei verrebbero assunti sulla base di contratti di durata 707 superiore a cinque anni. Il che sembra chiaramente non escludere che, al caso, la loro durata possa venir limitata a due o tre anni. 101

Codesti provvedimenti, se diventassero legge, renderebbero sostanzialmente precaria la posizione dei docenti universitari, in quanto li esporrebbero, nella speranza di strappare un secondo contratto a tempo determinato e poi la definitiva fenure, a ogni sorta di possibili pressioni e forme di controllo, anche ideologico. Come scrivevo, a ragion veduta, nell’articolo che ha attirato le rampogne di Salvatore Settis. C'è dell’altro, non meno preoccupante, in «Cun Notizie» n. 115. Ecco cosa sta scritto più avanti: «Nell’illustrare la relazione sopra trascritta il capo di gabinetto Di Pace e i direttori D'Antona e Masia hanno aggiunto le informazioni e considerazioni riassunte qui di seguito. [...] Rispetto a Reclutamento e Stato giuridico. Si va verso un concorso unico nazionale, con lista da cui gli atenei potranno stabilire in prima fase contratti a termine. [...] Si tratterà di contratti rivedibili,

come avviene per la dirigenza dello stato» (corsivo mio). Questo è un passo critico dell'intera questione. Infatti la dirigenza pubblica è oggi sottoposta a un processo di precarizzazione senza precedenti, volta a sottometterla quasi totalmente al potere politico; come potrebbe spiegare, a chi ancora non lo avesse ancora capito, qualcuno dei maggiori studiosi italiani della pubblica amministrazione. Perciò l'analogia con lo spoz/s systerz da me suggerita è tutt'altro che una gratuita invenzione. Tra i contenuti del ddl richiamati nella citata seduta del Cun, e quelli menzionati da Settis nel suo intervento, vi sono evidenti discrepanze. Nel disegno di legge come Settis lo conosce (parole sue) la commissione nazionale giudicatrice non esisterebbe più, mentre ritornano quelle nominate dalle rispettive università. I vincitori di concorso si vedrebbero offrire un contratto a termine di durata triennale — la lunghezza dell’attuale straordinariato — piuttosto che uno compreso a piacere tra uno e cinque anni.

Rimane però in ambedue le versioni il principio, per chi vince un concorso di I o Il fascia, dell'assunzione a tempo determinato per un periodo prestabilito, rinnovabile previa verifica una sola volta — principio che è all’origine di una delle 102

forme più comuni e criticabili di lavoro precario. La precarizzazione del lavoro è un male in sé, ne siano vittime operai, ingegneri od operatrici di call-center. Applicata ai professori universitari, essa apre, a mio avviso, la strada a varie forme di

controllo materiale e ideologico da parte di diversi soggetti, a cominciare dal governo a quel momento in carica. Controllo i cui effetti, si noti, ricadrebbero sulla formazione intellettuale e morale del milione e cinquecentomila studenti, la classe dirigente di domani, che ogni anno si iscrivono o reisctivono all’università. Le leggi non si giudicano dalle intenzioni — che in questo caso io non dubito siano ottime — bensì dalle conseguenze reali che sono idonee a produrre. Ci sarebbe ancora tempo e modo, modificando il ddl in questione, per evitare quelle che al presente si possono sin troppo facilmente intravedere. [14/11/2002]

DOCENTI PRECARI A VITA

Anche i docenti universitari sono in agitazione. Chi pensasse che si tratta d’un problema soltanto loro sarebbe in errore. Infatti al buon funzionamento dell'università sono interessati oltre un milione e mezzo di studenti, con le loro famiglie, e indirettamente, in virtù della cultura umanistica e scientifica

ch’essa produce e trasmette alle nuove generazioni, tutto il paese. Per questo motivo v’è da sperare che il recente disegno di legge delega sul «Riordino dello stato giuridico e del reclutamento dei professori universitari» riceva attenzione dall’opinione pubblica ben al di là della cerchia degli addetti ai lavori. Sotto quel sommesso titolo, sta infatti arrivando il più dirompente intervento sulla struttura dell'università italiana che un governo della Repubblica abbia mai operato. La nostra università è certo afflitta da seri problemi. Anzitutto i suoi 55.000 docenti sono troppo anziani. L'età me-

dia dei ricercatori supera i quarant'anni, quella degli associa103

ti i cinquanta, e gli ordinari sono in gran parte over sessanta. In secondo luogo l'università italiana produce un numero troppo basso di laureati in materie scientifiche e ingegneristiche: la metà della media Ue, il 5,5 per cento contro il 10,3 per cento, nella fascia d’età compresa tra i 20 e i 29 anni. Esito scontato, visto che le relative immatricolazioni sono in calo da un decennio. Erano 94.000 nell’anno accademico 19911992, mentre nel 2000-2001

sono scese a 52.000.

Un altro guaio è la trasformazione di molte facoltà universitarie in altrettante direzioni marketing. Sono pressate da una cronica mancanza di fondi, inasprita dalle ultime Finanziarie. Se vogliono reclutare nuovi docenti; affittare aule; aprire laboratori informatici; tenere aperte le biblioteche comprando ancora un certo numero di libri e riviste, le tacoltà hanno una sola strada: attrarre il maggior numero di studenti, visto che sulle tasse che questi versano all’ateneo esse ricevono circa la metà dell'ammontare. E al fine di attrarli si moltiplicano a dismisura corsi di laurea triennali e specialistici che promettono mirabolanti sbocchi professionali; si alleggeriscono al limite della decenza i carichi didattici ele prove di esame — giudizio che proviene sovente, si noti, dagli stessi studenti; si trasforma la elaborazione della tesi di laurea, che equivaleva un tempo alla bella sfida di scrivere un libro, nella compilazione di brevi articoli o sunti di opere. Non da ultimo, in rapporto al loro numero complessivo i docenti universitari fanno in genere poca ricerca sia in ambito scientifico che in ambito umanistico. In primo luogo per l'insufficienza dei fondi. Ma anche perché oberati dalla didattica, per via del passaggio dal vecchio ordinamento al nuovo che ha sdoppiato le lauree in triennali e biennali specialistiche senza prevedere risorse per l'aumento delle ore di insegnamento. In aggiunta la riforma ha comportato un pesante impegno organizzativo per molti docenti, a causa di un inverosimile aumento

delle commissioni

di programma,

dei

consigli di corso di laurea, degli adempimenti burocratici. In104

fine molti di essi si chiedono se questo paese abbia davvero interesse all’alta ricerca umanistica e scientifica. Non uno solo di tali problemi viene risolto dal ddl sul riordino dello stato giuridico dei professori universitari. È anzi facile prevedere che esso, per diversi motivi, li aggraverà tutti quanti. Il motivo principale è che ai giovani che mai pensassero di dedicarsi alla carriera universitaria, dopo aver conseguito una laurea specialistica (obbligatoria nel ddl) e dottorato di ricerca (titolo preferenziale), e aver quindi raggiunto in media i ventotto anni di età, esso offre un periodo di precariato che può protrarsi per ventidue anni e passa. Per di più scanditi da almeno una decina di giudizi o concorsi, ovvero —

nel lessico del ddl — procedure di valutazione comparativa nazionali e locali. Il cui esito può essere, ogni volta, la perdita secca del posto. Il giovane o la giovane temeraria deve infatti affrontare una prima valutazione nel locale ateneo per ottenere un contratto da ricercatore a tempo determinato, durata massima cinque anni, rinnovabile — previa valutazione dell’ateneo — una sola volta. Se supera questo primo decennio di precariato, può presentarsi a una procedura nazionale di valutazione per associato, superando la quale consegue la «idoneità scientifica nazionale». Ma non si illuda, l'ormai trentottenne aspirante professore universitario, di avere subito il posto, sia pure a tempo determinato per non più di tre anni.

Infatti le università, al fine di conferire l’incarico di associato, istituiscono proprie procedure di valutazione comparativa degli idonei inseriti nella lista nazionale degli idonei (art. 1, comma 3c del ddl). In sostanza, i concorsi per diventare ri-

spettivamente associato e ordinario sono ogni volta due, quello nazionale e quello locale: un punto che mi pare non sia stato finora notato dai commentatori del ddl. Ricevuto un primo incarico da associato, il candidato può sperare che l’ateneo — previa una successiva valutazione, anche se forse meno solenne della prima — lo confermi fino a un massimo di sei anni. Nel frattempo si può preparare ad affrontare altri due concorsi, 105

nazionale e locale, per diventare ordinario, sempre che dopo i primi tre anni l’incarico gli venga rinnovato, e che entro il sesto anno sia assunto in ruolo. Presumibilmente con un’altra valutazione da parte della sua facoltà. A questo punto il quasiprof starà per festeggiare i cinquanta anni. AI riguardo si può obbiettare che un simile profilo di carriera, a paragone del quale il Processo di Kafka è una lieta scampagnata, potrebbe rivelarsi per un certo numero di candidati assai più breve. Uno ottiene un contratto da ricercatore per cinque anni, vince subito un concorso da associato, viene assunto in ruolo dopo tre anni, vince il concorso da ordi-

nario e anche in questo caso viene chiamato seduta stante. Sono passati appena undici anni, e il soggetto è appena — si fa per dire — sulla quarantina. Purtroppo formulare tale ipotesi significa affermare che si può arrivare sulla luna in bicicletta. Infatti gli atenei, con i bilanci disastrati che si ritrovano, avranno ogni incentivo a prolungare al massimo gli incarichi di durata temporanea. Inoltre l’incastro tra i tempi degli incarichi e i concorsi nazionali e locali risulterà così complicato da rendere quasi impossibile un percorso tangibilmente più breve di quello massimo. Una volta che si abbia chiaro quale profilo di carriera il ddl prepara per tutti i docenti che non siano già oggi ordinari, e per i giovani che domani volessero imboccare la carriera universitaria, pare evidente come gli altri problemi richiamati all’inizio siano destinati a peggiorare piuttosto che a migliorare. Quale compenso per la loro attività didattica che ha reso possibile la riforma universitaria del 3+2, i ricercatori, anziché in una terza fascia di docenza, sono collocati in un ruolo a parte: il che significa che se già nelle facoltà contavano meno di quanto non meritassero, in futuro conteranno zero. Il ringio-

vanimento del corpo docente? Il ritorno dei concorsi a tempi biblici, grazie al combinato disposto delle procedure concorsuali nazionali e di quelle locali, lo rende irrealistico. Inoltre atenei e facoltà incontreranno ulteriori difficoltà nel far quadrare i bilanci, perché il ddl prevede aumenti dei 106

costi ma non stanzia un euro per coprirli; donde la necessità, per gli atenei, di continuare a ricorrere a incongrue azioni di marketing per attirare studenti. Per cui peggiorerà la didattica, a danno degli studenti e del paese, grazie alla moltiplicazione di docenti precari e demotivati. Quanto alla ricerca umanistica e scientifica, ci si può mettere una pietra sopra.

Chi può mai volersi impegnare in progetti che richiedono decenni di severo lavoro, si tratti di ricerca storiografica o di decifrazione del genoma umano, avendo dinanzi una ventina

d’anni di sussultante occupazione precaria, scanditi da una serie interminabile di prove d’esame? Un attacco all’università come quello contenuto in questo

ddl può avere diverse motivazioni. Formulo al riguardo tre ipotesi. La prima è che esso derivi da una profonda incomprensione dei processi di produzione e riproduzione della cultura scientifica e umanistica. La seconda: esso deriva da una ostilità altrettanto profonda e preconcetta nei confronti dell'attività intellettuale, ovvero dell’intellettuale come ruolo professionale intransitivo, non foss’altro perché non si vede bene in che mo-

do contribuisca al Pil. Infine la terza: una carriera precaria nel corso della quale si devono affrontare infiniti esami da parte di diversi tipi di commissione è un mezzo efficace per assicurare l’acquiescenza ideologica dei docenti universitari. Quando il ddl arriverà in Parlamento, dalla discussione si potrà forse capire quale ipotesi sia la più fondata. Chi scrive s'augura di non dover scoprire che lo sono tutt'e tre. [18/02/2004]

L'UNIVERSITÀ SFIDATA DALLA RETE

Nel mondo contemporaneo la maggior parte dei presupposti sui quali si è fondata, per secoli, la formazione universitaria

appaiono subire una radicale corrosione. La causa diretta di ciò è rintracciabile nella accelerazione di mutamenti fondamentali, a livello di sistema mondo, dei sistemi economici, 107

culturali, tecnici e psichici. Tali mutamenti sono a loro volta effetti d'un progetto di re-visione globale dell’antropologia che comprende tanto la riflessione sull'uomo, quanto la modifica oggettiva della sua natura per mezzo della tecnica. Esso viene oggi perseguito mediante diversi strumenti, tra i qua li emerge specificamente la grande Rete. Per la formazione universitaria, la sfida è costituita dalla necessità di ricostituire almeno alcuni dei propri presupposti scegliendo di volgere a tale fine proprio quel medesimo strumento, la Rete, che più di ogni altro ha contribuito alla loro corrosione. Un procedimento simile fu suggerito da Horkheimer e Adorno nella Dialettica dell'illuminismo (1947), allo scopo di difendere, denunciandone gliaspetti regressivi, l'illuminismo: «Se la riflessione sull'aspetto elistratata‘0 del progresso laè sciata ai suoi nemici, il pensiero ciecamente pragmatizzato perde il suo carattere superante e conservante insieme, e quindi anche il suo rapporto alla verità». La comprensione teoretica delle virtualità insite nella Rete dal punto di vista della formazione universitaria richiede che le sue attualità regressive dal medesimo punto di vista siano direttamente attrontate. Trai presupposti della formazione universitaria, le cui stesse basi appaiono oggi minate dalla Rete, troviamo anzitutto l’idea che il mondo fosse comprensibile. O, meglio, che fossero prontamente disponibili vari modelli del mondo, che permettevano di renderlo comprensibile. La funzione primaria della formazione universitaria consisteva nella esplicazione di tali modelli e nella loro trasmissione ai giovani. Protagoniste in ogni senso dei mutamenti che corrodono le basi della formazione universitaria sono le reti, la società divenuta rete. In essa, ha scritto Luhmann, ciascun soggetto rappresenta nulla più di un nodo nel quale atfluiscono da diverse direzioni materiali e informazione, e dal quale essi defluiscono. Da diversi punti di vista si potrebbe dire che le reti non abbiano né principio né fine; ovvero non è dato sapere dove esattamente comincino, e dove esattamente finiscano. Laddove la comprensibilità del mondo richiedeva l’individuazio108

ne di contini, l’idea stessa di questi viene nella Rete a svanire. L'intento di ricostruire su nuove basi almeno alcuni dei presupposti della formazione universitaria costringe a porsi una serie di interrogativi. Ciascuno di essi mette di fronte a contraddizioni apparentemente irrisolvibili. Se la Rete figura tra le cause della sopravvenuta incomprensibilità del mondo, come possiamo pensare di utilizzarla, nei processi formativi, per ricreare del mondo stesso dei modelli mentali che concorrano a restituirgli una sopportabile comprensibilità? AI fine di restituire comprensibilità al mondo, alla società delle reti, tutti noi abbiamo bisogno di adeguati modelli mentali. I modelli del mondo sono elementi costitutivi del sistema di orientamento umano, quello che sostituisce in quell’essere «organicamente carente» che è l’uomo — con le parole di Arnold Gehlen — le capacità che sono invece innate in altre specie. Per mezzo della grande Rete l’uomo si è in effetti creato un altro surrogato di mondo, artificialmente prodotto, nemmeno più etichettabile quale seconda ma piuttosto quale terza natura. Ma la carenza organica dell’uomo su cui Gehlen fonda la sua antropologia non si colma solamente con il primo stadio, cioè la produzione di surrogati della natura. Occorrono strumenti cognitivi che del surrogato così prodotto indichino a sua volta la natura, ovvero ne forniscano

rappresentazioni o modelli mentali adeguati. La proposta che ardisco avanzare per ridurre la incomprensibilità dei due mondi, quello che la Rete rappresenta, al pari di quell’altro che essa stessa costituisce, consiste nel ricorrere a una variante, che vorrei chiamare moderata, del costruttivismo radicale. A quali forme di agire cognitivo sollecita un moderato costruttivismo radicale chi voglia sottoporre a indagine le perturbazioni indotte nel soggetto dalla poliformità della Rete, dal sovrapporsi in essa di due livelli di incomprensibilità? Il costruttivismo richiama anzitutto alla responsabilità cognitiva. Il realismo de-responsabilizza il soggetto. In quanto pretende che del mondo esista un'unica rappresentazione au109

tentica, il soggetto che ha abbracciato il realismo non ha alcuna possibilità di scelte cognitive dinanzi all'oggetto. Deve solamente sforzarsi di pervenire alla conoscenza «vera». Un ulteriore richiamo al costruttivismo e alla sua etica appare qui opportuno. «La categorizzazione — è stato detto — svolge un ruolo critico nell'ordinamento essenzialista che la modernità effettua del soggetto e della realtà». Donde emergono categorie scientifiche, morali, giuridiche, estetiche, psicologiche, pedagogiche. Ripensare criticamente l’uso che facciamo di ogni categoria che viene proposta da altri soggetti, o che abbiamo casualmente interiorizzato, è perciò un compito primario della formazione. Al lume d’una nostra nozione di libertà cognitiva e di responsabilità morale come guida dell’azione, la categorizzazione, ad esempio, della popolazione del mondo in vincitori e vinti, o inclusi ed esclusi — esplicita nel linguaggio della globalizzazione e implicita in quello della Rete che la sostiene — appare al tempo stesso eticamente intollerabile, e cognitivamente insensata. Per mezzo della critica riflessiva delle stesse categorie istitutive della società in Rete, eponimo di società globalizzata, e della stessa grande Rete, dovrebbe essere possibile ottrire alla formazione universitaria una varietà di elementi che sicuramente non porranno in breve tempo rimedio ai disagi che a essa derivano dalla modernità dimezzata — dimezzata anziché globalizzata rispetto alle speranze, all’idea di progresso — ma sono atti quanto meno a porre in evidenza l'entità del dimezzamento, e i guasti che ne discendono. [30/01/2003]

LA STORIA NELLA RETE

In Internet si può trovare un'immensa quantità di materiali

relativi alla storia del Novecento, presenti in siti di mezzo mondo. Trattati, foto di gruppo che riportano a eventi gran110

di e piccoli, carte dei mutevoli confini tra i paesi, statistiche economiche e militari, manifesti, discorsi registrati di uomini

politici, scene di vita quotidiana, prime pagine di quotidiani, articoli di storici. Un mare internazionale di conoscenze, suggestioni, elementi e prospettive di indagine, accessibili all’istante dal proprio PC, che è inimmaginabile condensare in un libro di testo, e che rispetto a un libro è assai più difficile manipolare a fini politici (un tema discusso nell’autunno 2004 sulle pagine della «Repubblica» in occasione d’un convegno dell'Istituto Gramsci di Roma e d’un libro di Giuliano Procacci). Quanto basta per chiedersi se essi, opportunamente selezionati e strutturati, non potrebbero arricchire notevolmente lo studio e l'insegnamento della storia del secolo scorso, in primo luogo nelle scuole superiori. Il quesito se lo è posto un paio d’anni fa la Fondazione per la Scuola di Torino, che ha già promosso altri progetti di ricerca sull’insegnamento della storia contemporanea in Europa. Il quesito è stato girato a un gruppo di ricercatori che presso il locale Dipartimento di Scienze dell'Educazione si occupa da tempo dello sviluppo di corsi multimediali «assistiti dalla Rete». Tale espressione vuol significare che un testo predisposto dal docente d’una data materia viene fittamente intessuto di rimandi a siti Web, o a documenti presenti in essi, i quali valgono come citazione, illustrazione o approfondimenti dell’argomento svolto in un dato luogo del testo. Il tutto avviene in tempo reale: idocumenti richiamati dal Web tramite Internet compaiono sullo schermo, provenendo

da un dipartimento di storia o da un centro di ricerca o un archivio di differenti paesi, per i pochi secondi o minuti necessari per illustrare un determinato tema, per tornare subito dopo là da dove sono venuti. Il risultato è un corso on-line di Storia del Novecento: 1914-1989, di cui sono sin da ora disponibili a chiunque vi sia interessato — e a titolo gratuito, poiché la finalità delle due isti-

tuzioni è esclusivamente educativa — idue moduli di contenuto, che coprono il periodo dalla fine della Be/le Epoque alla caLUI

duta del muro di Berlino (www.fondazioneperlascuola.it oppure www.far.unito.it); un terzo modulo, metodologico, sarà pronto tra qualche tempo. Dato che il corso non vuole essere un manuale di altro genere, bensì una proposta di temi che nei manuali adottati nelle scuole trovano per forza di cose uno spazio limitato, il secondo modulo è centrato sui processi di mondializzazione avviatisi dopo la Prima guerra mondiale. Il modulo cronologicamente precedente, 1914-1945, è invece dedicato ai totalitarismi. Lo sviluppo d’un corso multimediale di storia on-line assistito dalla Rete pone a chi vi lavora non pochi problemi, oltre a quelli derivanti dalla necessità di concepire una struttura d'insieme flessibile e pur tuttavia solida, e dal disegno delle singole pagine. Anzitutto il Web è diventato ormai un coacervo mostruoso nel quale i motori di ricerca pescano indiscriminatamente documenti aventi contenuti e qualità variabilissimi, presentando fianco a fianco sullo schermo gemme e spazzatura; oppure un dotto saggio francese sulle conseguenze geopolitiche del Trattato di Versailles e gli orari in cui un docente dell’Università di Bielefeld o di Chicago tiene un corso sul trattato stesso. Nella Rete attuale, trovare un documento (termine che designa qui qualsiasi oggetto visibile o udibile su un PC: testi e immagini, discorsi e canzoni, tabelle e carte geografiche) che sia al tempo stesso di buona qualità quanto a contenuti e forma, nonché strettamente pertinente al testo che si vuole illu-

strare, è quindi un lavoro lento e faticoso che richiede una specifica preparazione. Per dire, una ricercatrice specializzata nella ricerca di materiali storici nel Web riesce a trovare uno o due siti al giorno aventi le suddette caratteristiche; e i rimandi presenti nel modulo del corso di cui parliamo (i cosiddetti /i7£s) sono al momento oltre quattromila. Più problematica ancora è la decisione di includere o meno nel tessuto del corso siti o documenti che palesano un determinato orientamento ideologico. Nessuno può essere tan-

to sprovveduto (o così vorremmo credere) da pensare che di 12

un medesimo avvenimento si possano redigere due o più versioni storiche di livello scientifico comparabile, che però affermano l’una l’opposto dell’altra. Ciò nonostante anche nel seguire un percorso storico di comprovata qualità scientifica può risultare utile la consultazione di documenti o siti aventi orientamenti differenti. Toccherà in primo luogo all’insegnante far emergere il particolare orientamento di un dato testo o sito Web, e il contributo che i suoi contenuti, paragonati ad altri, possono dare a una visione equilibrata di un evento o di un periodo. Dove equilibrata non potrà tuttavia mai significare bipartisan. Impegnarsi in un qualsiasi lavoro di storia, seppure introduttiva, implica per necessità, come ebbe a scrivere Max

Weber, un «prendere parte» per determinati valori, principi etici, punti di riferimento culturali, poiché sono essi, ed essi soltanto, che consentono una scelta nella infinità estensiva e intensiva del reale che i documenti propongono. Valori che collocano in primo piano la scrupolosa ricerca e la critica delle fonti, ma che in essa non si esauriscono. Peraltro, a paragone dei suoi autori e consulenti (tra cui vi sono ovviamente

storici e storiche di professione), confrontati dai problemi di scelta di cui si diceva, un corso come questo pone problemi assai più complessi agli insegnanti che ne vorranno fare uso, nelle diverse modalità della presenza — cioè in aula — e della distanza. In aula, l'insegnante dovrà dimostrare una grande padronanza del sistema, e delle sue numerose espansioni collaterali, con la possibilità che passando di sito in sito, incalzato dalle curiosità degli studenti, finisca per trovarsi su terreni poco conosciuti. Per contro l'erogazione a distanza del corso — che forse dovrà essere preceduta da una presentazione in aula, visto che la sua struttura d’insieme è piuttosto complicata — adduce alla possibilità che gli studenti di una medesima classe seguano percorsi assai differenti tra loro, in rapporto alle rotte di navigazione che liberamente si potranno costruire. 113

Il che porta a formulare domande cruciali: che cosa veramente apprende uno studente che segua un corso on-line del genere? Apprende meglio le stesse nozioni, oppure si perde in una rete disordinata di dati e di idee? Oppure, ancora, si forma una mappa cognitiva del tutto diversa rispetto a quella che gli trasmette un testo cartaceo? E con quali metodi si valuta una preparazione per tal via acquisita? Sono domande alle quali solamente insegnanti e studenti potranno dare delle risposte. A tale fine sono stati organizzati appositi incontri di approfondimento. Questo corso di storia assistito dalla Rete è una proposta che i due enti culturali che lo hanno promosso e realizzato considerano del tutto aperta: a critiche, contributi migliorativi, approfondimenti teorici e metodologici, e magari, perché no, rifiuti motivati di utilizzare il mezzo multimediale in ambito storico. Con la speranza che vengano, le une e gli altri, dopo aver trascorso almeno qualche ora nel percorrere le variegate ramificazioni del corso, che una mappa concettuale richiamabile in ogni momento permette comunque di tenere sempre sotto controllo. La storia della storia del Novecento. in Internet è appena cominciata. [03/01/2004]

FU L’ANNO DI MARCUSE

In Italia, al tradizionale — per quei tempi — inizio novembrino dell’anno accademico 1967-1968, gli studenti occupano l’Università di Trento e poco dopo l’Università Cattolica di Milano. Il 27 novembre 1967 viene occupato a Torino Palazzo Campana, a quel tempo sede delle facoltà umanistiche. A metà dicembre le sedi universitarie occupate salgono a dodici. In una tasca dell’eskimo di ogni studente impegnato nelle occupazioni, qualcuno scrisse più tardi, c'era una copia dell’Uozzo a una dimensione (1964) di Herbert Marcuse, la cui versione italiana era stata pubblicata pochi mesi prima da Einaudi. Di 114

questa vennero infatti vendute nel giro di un anno o poco più 250.000 copie: una tiratura mai raggiunta, né prima né dopo,

da nessun'altra opera riconducibile alla Scuola di Francoforte, la cui nascita si collega alla fondazione dell’Institut fir Sozialforschung, festeggiata nel giugno 1924 nell’aula magna dell’Università di quella città. Una ricezione su scala così vasta, per di più concentrata in

brevissimo tempo, di un’opera che per quanto fosse palesemente rivolta a un pubblico ampio presentava non poche difficoltà di lettura e di interpretazione, può indurre a pensare che la teoria critica della società abbia fatto a quell'epoca un prepotente ingresso nella cultura dei giovani universitari. Ovvero che tale ingresso abbia dato adito a una animata discussione tra la teoria critica della società — come l’impresa intellettuale dei francofortesi cominciò a essere definita dopo il saggio di Max Horkheimer su Teorza tradizionale e teoria critica del 1937 — e la sociologia, epitome della teoria tradizionale, analogamente a quanto stava avvenendo sin dai primi anni ‘60 in Germania. Mi riferisco al dibattito che ebbe allora tra i protagonisti Theodor W. Adorno, Karl Popper, Jùrgen Habermas, Ralph Dahrendorf. In Italia non avvenne nulla di propriamente paragonabile. La teoria critica rigorosamente intesa non parve fare alcuna presa di rilievo sulla cultura dei giovani intellettuali in formazione nelle università, e meno che mai tra gli studenti di sociologia. Ciò resta confermato anche se, guardando ai

documenti che uscirono a quel tempo dal movimento studentesco, riflessi significativi di essa sono reperibili in varie situazioni. Ad esempio, nel fatto che il principale contenuto politico della protesta giovanile fosse la lotta contro l’autoritarismo — la critica della società autoritaria essendo uno dei

temi portanti della riflessione della Scuola di Francoforte. Nonché nella contestazione, manifestatasi subito anche nei nostri corsi di sociologia, della pretesa neutralità delle scienze sociali, un tema ancor più centrale nelle riflessioni della Scuola stessa; infine nella convinzione, pur essa discenden115

te dai francofortesi — in verità non di tutti: non, ad esempio, di Adorno -, che il compito ultimo della teoria sociale stesse nel contribuire alla trasformazione del mondo. Fu in specie questa convinzione che nei primi anni ”70 portò migliaia

di studenti a frequentare i corsi di sociologia, favorendone la moltiplicazione. È certo lecita l’ipotesi che i suddetti echi provenissero in parte proprio dal libro di Marcuse; in parte dallo spirito del tempo pervaso da letture marxiane di diverso segno, dal plumbeo Diamat sovietico allo strutturalismo francese; oppure dagli scambi che una parte del movimento italiano ebbe con il movimento degli studenti tedeschi, posto che in quest'ultimo la teoria critica era un elemento quotidiano del discorso contestativo. Resta peraltro difficilmente oppugnabile che i riterimenti diretti all'Uomo a una dimensione, o ad autori diversi del gruppo francofortese, da impiegare come strumenti d'una critica della sociologia, ovvero come elementi base d’una teoria sociale alternativa, siano nei documenti del movimento studentesco italiano del periodo 1967-1970 alquanto generici. Di conseguenza, nell'università italiana, nessuna sostan-

ziale querelle tra teoria critica della società e sociologia prese l’avvio. All’assenza della prima, e alla solitudine in cui è cresciuta la seconda, non trovando un avversario con cui dialetticamente cimentarsi, nelle facoltà di Sociologia come di Scienze Politiche, di Magistero come di Lettere e Filosofia, o di Economia, credo sia imputabile la maturazione inadeguata delle scienze sociali nelle università italiane. Ma soprattutto questa duplice carenza si ritrova, a mio avviso, alla base della loro incapacità attuale, che non risparmia gli intellettuali più di quanto non accada ai politici e alle persone comuni, di comprendere le trasformazioni del mondo contemporaneo, della società mondo, nonche della costituzione interiore degli esseri umani che ne fanno parte. Sono queste due carenze i temi che in vari momenti ho cercato di approfondire. Intendo le implicazioni teoriche e 116

pratiche, nel lungo periodo, dell’assenza della teoria critica della società nei corsi universitari, a onta della diffusione tra gli studenti d’una delle sue opere di maggior risonanza: e la solitudine solipsistica della sociologia a onta della rapida moltiplicazione dei corsi, dei docenti e dei centri di ricerca sociale verificatasi negli anni 770. Nonché le conseguenze negative che dall’una e dall’altra sono discese a carico della comprensione personale e pubblica di diversi campi della organizzazione sociale, culturale e psichica dell’epoca attuale. [27/11/2002]

PIERRE BOURDIEU, SOCIOLOGO CONTRO

La maggior parte delle opere di Pierre Bourdieu sono di difficile lettura anche per chi fa il suo stesso mestiere, figuriamoci per il pubblico o per gli studenti. Complessità letteraria del linguaggio, ardue implicazioni epistemologiche, struttura pluricentrica del testo hanno sempre richiesto al lettore di Bourdieu un impegno fuori del comune prima di arrivare ad apprezzarne I contenuti.

Tuttavia, se si dà un’occhiata nella Rete si scopre che i riferimenti a Bourdieu sono oltre 38.000. Nessun sociologo contemporaneo appare altrettanto citato nel Web. Ad esempio il pur famoso Alain Touraine, suo strenuo (e sconfitto) competitore una dozzina di anni fa quando si trattò di accedere al Collège de France, si ferma al momento (novembre 2002) a meno di 15.000. Poiché come indice di pubblica affermazione il Web è oggi più significativo e stabile che non la tv, vien da chiedersi come un autore concettualmente tanto ostico sia diventato così popolare.

Una risposta possibile è che Bourdieu, sin dagli inizi intellettuale «contro», «sociologo della discordia», da sempre oppositore e critico di ogni forma di establishment — anche di sinistra —, abbia visto i tempi muoversi in modo tale da farne risaltare la posizione, più che adoperarsi di proposito 117

per conquistarsi un ampio spazio mediatico. Quando pubblicava I delfini: gli studenti e la cultura (1964), o La riproduzione: teoria del sistema scolastico ovvero della conservazione dell'ordine culturale (1970), ambedue con la collaborazione di Jean-Claude Passeron, non c’era forse studioso europeo di scienze sociali che non dicesse, seppure con minor incisività, cose simili a quelle che diceva Bourdieu. Ossia che sono i figli delle classi superiori ad accedere in maggior numero alle migliori scuole, a uscirne con i voti più alti. Dopodiché, combinando tutto ciò con il capitale di relazioni sociali delle loro famiglie vanno rapidamente a occupare le posizioni più alte nell'economia, nella pubblica amministrazione, nella cultura.

Anche quando lavorava, negli anni ‘60, alla monumentale ricerca su La distinzione: critica sociale del gusto (1979), intervistando oltre 1200 soggetti circa le loro personali preferenze in tema di musica, arte, teatro, arredamento e letteratura, Bourdieu dava una ulteriore prova di originalità e

ampiezza di analisi, ma restava tutto sommato nella corrente principale degli studi sociologici sui rapporti tra società e cultura. Per contro, un quarto di secolo dopo, in tutta Europa, accadeva — accade tuttora — che non soltanto i sociologi, ma anche economisti e scienziati sociali d'ogni specialità, si impegnassero nel dimostrare che la globalizzazione reca soltanto benefici, lo sviluppo economico ha eliminato la povertà, le classi sociali non esistono più; infine che i progetti di demolizione dello Stato sociale vanno incoraggiati per il bene comune. In Francia, come in Europa, Bourdieu si trovò quindi pressoché solo a dire, e a cercar di dimostrare con la ricerca, che non era tutto vero, quando non era vero il contrario. Tra le sue opere impegnate in questo senso va ricordata anzitutto la straordinaria Mzsère du monde (1993), fondata su una cinquantina di lunghe interviste raccolte con un sapiente impianto metodologico. Sono racconti dal quotidiano di donne

poliziotto e lavoratori interinali, magistrati e operai, funzio118

nari e disoccupati che la società ha escluso o in altri modi ha sconfitto, non per loro colpa. D’un tono così drammaticamente alto, nella loro immediatezza, da far dire che per una volta almeno la ricerca sociologica ha scavato nell’esperienza e nelle emozioni delle persone più di un buon romanzo. Con queste e altre opere successive Pierre Bourdieu si è

sottratto al quasi generale «tradimento degli intellettuali» che ha contraddistinto gli anni ’90 e i primi anni del nuovo secolo. I giovani, soprattutto, lo hanno capito e seguito, quelli che non si riconoscono più in quasi nulla ma che hanno conservato, quanto meno, la voglia di vedere al di là dell'apparenza delle cose così come vengono loro dipinte. Quella capacità che gli intellettuali avrebbero dovuto, dovrebbero, aiutare a formarsi, ma per la quale la maggior parte di loro non sembra abbiano più il tempo o la motivazione. Dal consenso dei giovani Bourdieu è stato quasi travolto, e certo la sua sovraesposizione mediatica avrà fatto alzare più di un sopracciglio tra coloro che votarono a suo tempo per conferirgli l’austera cattedra al Collège de France. Ma il «sociologo contro» non sembrava preoccuparsene più di tanto. [25/01/2002]

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Bilanci di famiglia

PENSIONI LIBERE, STRADA DIFFICILE

Liberalizzare l’età pensionabile per risolvere il problema previdenziale: rilanciata dal ministro Tremonti, non è propriamente un'idea originale. Se non andiamo errati era già stata avanzata anni fa dal precedente governo. Ma le idee interessanti meritano di fare strada anche se vengono da un’altra parte politica. Si tratta di vedere sino a che punto hanno basi realistiche. Al presente una proposta definita di liberalizzazione dell’erà pensionabile figura nel progetto di legge 2145 del 28 dicembre 2001. Lo scopo è quello di incentivare chi si approssima alla pensione a lavorare ancora per qualche anno. Non da poco è l'incentivo previsto: il datore di lavoro è esentato dal pagamento dei contributi previdenziali, purché versi almeno il 50 per cento di quanto risparmia al lavoratore. Considerata l’entità dei contributi a carico delle imprese, un salario medio potrebbe così aumentare — per il periodo in cui il lavoratore accetta di restare al lavoro — di migliaia di euro l’anno. Ci si può dunque aspettare una moltitudine di lavoratori che chiede di lavorare al di là dell'età pensionabile, evitando così di gravare sulle casse esangui degli enti previdenziali? In astratto si può crederlo. In concreto, si dovrebbero verificare diverse condizioni che al momento realistiche non sono affatto. Anzitutto la liberalizzazione dovrebbe prevedere anche la possibilità di scegliere d’andare in pensione solo parzialmente, riducendo ad esempio d’un terzo o di una metà l’orario

settimanale o mensile. Ciò che molti lavoratori non gradisco121

no fare è quel salto perentorio, da un giorno all’altro, da un regime di lavoro e di vita seguita per decenni, a un regime di completa inattività. Poter graduare la transizione in un certo

numero di anni sarebbe un incentivo non monetario, sicuramente efficace per ritardare il momento del pensionamento totale. Ma è evidente che, oltre a complicare di molto l’intera gestione previdenziale, aziendale e fiscale di masse di lavoratori che sarebbero al tempo stesso a tempo parziale e a pensione parziale, il contributo che il pensionamento libero e graduale darebbe alla soluzione del problema del bilancio previdenziale sarebbe minore di quanto non sarebbe l’uscita posticipata dal lavoro. Vi sono però questioni di maggior peso. A parte i lavori usuranti, per i quali esiste già una legge che prevede il pensionamento anticipato, vi sono milioni di lavoratori che percepiscono il loro normale lavoro come monotono, frustrante, privo di gratificazioni. Anche se non sono affatto logori, sono fondamentalmente stufi. Quindi guardano al giorno della pensione come a una liberazione. Invece di alcune migliaia di euro l’anno in più, un incentivo a restare al lavoro sarebbe quindi un modo diverso di organizzarlo. Accade però che questa sia l’ultima delle preoccupazioni delle imprese, le quali, mentre applaudono ai progetti di allungamento dell’età pensionabile, continuano imperterrite nelle loro politiche di ringiovanimento del personale. Infatti nei settori produttivi tradizionali, in specie per le qualifiche medio-basse, i lavoratori di 40-45 anni sono considerati anziani. Predisposti, cioè, a entrare nella prima lista degli «esuberi» da mettere in mobilità, o in cassa integrazione, o da licenziare, magari con l’aiuto dell’art. 18 modificato o soppresso. Nei settori più moderni, quelli ad esempio legati alla ret-economy, l'età in cui l'etichetta di anziano — ossia «tecnologicamente obsoleto» — comincia a essere applicata a un operatore o una operatrice, può essere anche solo di 3035 anni. Se tali condizioni di fondo nell’organizzazione del lavoro non vengono modificate, è assai dubbio che l’invito a ri122

tardare la pensione al di là dei sessanta o magari dei sessantacinque anni faccia presa su numeri colossali di lavoratori e lavoratrici degli strati professionali di limitata qualificazione. Quando non sia preso come uno scherno. [10/06/2002]

LE VARIABILI

NASCOSTE DEL DIBATTITO SULLE PENSIONI

Vi sono fenomeni della natura di cui è possibile costruire una spiegazione, seppur complicata, solo se si assume che esistano delle variabili nascoste alla percezione dell’osservatore. Esistono invece dei fenomeni sociali che vengono spiegati con grande semplicità dallo stesso osservatore nascondendo al pubblico la maggior parte delle variabili. Rientrano in questa categoria le proposte di riforma delle pensioni ipotizzate dal governo. Esse fanno seguito alle sollecitazioni da tempo trasmesse da istituzioni quali la Commissione Europea, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca d’Italia, la Confindustria, di recente anche la Corte dei Conti.

In tali proposte e sollecitazioni sono sempre poste in primo

piano due variabili il cui peso nessuno può negare. La prima è l'invecchiamento della popolazione. Da un lato è aumentato e continuerà ad aumentare il numero di persone che vivono più a lungo che non una o due generazioni fa; dall’altro, la caduta dei tassi di natalità ha fortemente ridotto il numero dei giovani che entrano nel mondo del lavoro. Perciò i contributi versati via via dagli occupati non basteranno più, in prospettiva, a pagare le pensioni di chi ha lasciato il lavoro. La seconda variabile è l’incidenza delle pensioni pubbliche sul Pil. Essa toccava già al 2000 il 13,8 per cento, ma potrebbe salire di quasi due punti tra il 2030 e il 2040, per ridiscendere poi al 14 per cento verso il 2050. Il bilancio dello Stato, si ricorda, non potrebbe sopportare un simile onere, men che mai a fronte delle esigenze del patto di stabilità adottato dalla Ue. 125

Se ci si limita a considerare le suddette variabili, come in genere avviene, gli interventi da compiere sul sistema pensionistico appaiono predefiniti e inevitabili. Bisogna elevare al più presto l’età di pensionamento, a cominciare dalle pensioni d’anzianità. Al tempo stesso si dovrebbe tagliare il livello delle pensioni a venire, mediante dispositivi quali, per dire, il passaggio generalizzato al metodo contributivo, che porta a calcolare la pensione non sulla base della retribuzione degli ultimi anni di lavoro, bensì sulla base di quanto effettivamente versato nell’arco della vita lavorativa. In tal modo si otterrebbe di farle scendere di parecchi punti percentuali al disotto del livello attuale, che corrisponde in media a un po’ meno del 70 per cento dell’ultima retribuzione percepita (il che non è propriamente un lusso). In questa direzione si muovono appunto

i progetti di riforma approvati dal governo. Ciò nondimeno il problema pensioni non è formato solamente da variabili quali l'invecchiamento della popolazione o l’incidenza della spesa pensionistica sul Pil. Ve ne sono parecchie altre che dovrebbero entrare a pari titolo nel pubblico dibattito. Una di queste è la produttività, intesa come quota di Pil prodotta per ora di lavoro. Si stima che essa cresca, in media e a lungo periodo, tra l'1 e il 2 per cento l’anno. Rivisitate tenendo presente questa variabile, le previsioni circa il futuro andamento del rapporto tra le persone in età lavorativa (15-64 anni) e gli over 65 che si trovano nei rapporti

della Ce perdono gran parte della loro drammaticità. Infatti, ammesso che si passi dalla situazione odierna — quattro persone in età lavorativa per un anziano — a un rapporto di 2 a l

al 2050, l'aumento cumulativo della produttività significa che i due lavoratori del 2050 produrranno una quota di Pil, in termini reali, all'incirca equivalente a quella dei quattro lavoratori di oggi. I due lavoratori di domani non faranno quindi più fatica dei quattro di oggi a sopportare l'onere di pagare la pensione a un anziano. Si può obiettare al riguardo che non è pensabile che tutto l'incremento di produttività se ne vada nel finanziare le pen124

sioni del futuro. L’obiezione starebbe in piedi, se non inciampasse subito in un’altra variabile nascosta, il peso relativo dei redditi da lavoro sul Pil. Secondo vari indicatori esso è fortemente diminuito negli ultimi due decenni. Una ricerca pubblicata a metà 2003 dall’Ires-Cgil stima che la quota del monte retribuzioni lorde sul Pil abbia perso in tale periodo oltre 6 punti percentuali, scendendo dal 36,1 per cento al 30 per cento. Un'altra ricerca dell’Università di Pavia ha calcolato in oltre 7 punti percentuali la riduzione della quota di Pil disponibile alle famiglie consumatrici negli anni ’90.. Sei-sette punti di Pil non sono inezie: in moneta attuale equivalgono a 80-90 miliardi di euro l’anno. Ora, poiché le pensioni non sono altro che retribuzioni differite, un taglio alle pensioni aggiungerebbe col tempo a tale salasso, già subito dai redditi da lavoro, un’altra sottrazione dell'ordine di decine di miliardi di euro l’anno. Anche dei liberali come Ronald Dworkin, Michael Walzer,

o Amartya Sen, avrebbero diffi-

coltà ad ammettere che saremmo qui in presenza di eque forme di uguaglianza, o di un’accettabile giustizia sociale. Vi sono poi alcune variabili, pur esse finora nascoste nel di-

battito sulle pensioni, identificabili nella qualità del lavoro che le persone svolgono, e nell’uso della forza lavoro che le imprese fanno. Si pretenda da una persona di svolgere per decenni un lavoro che a causa del modo in cui è organizzato e dell’ambiente in cui ha luogo è logorante per le braccia e per la mente, o è ciecamente subordinato e ripetitivo, o tutt'e due le cose insieme. Non ci si dovrebbe stupire se appena si avvicina a maturare i requisiti necessari quella persona stessa si accinge ad andare in pensione, anche se è ancora relativamente giovane. Naturalmente non v'è dubbio che realizzare forme di organizzazione del lavoro più rispettose delle persone, dei loro bisogni di creatività, di un lavoro che abbia un senso, di riconoscimen-

to, sia assai più difficile che non emanare un decreto che impone loro di andare in pensione due o cinque anni più tardi. Quanto alle imprese, sarebbe opportuno richiedere a esse un piano dettagliato in cui spiegassero come pensano di con125

ciliare le loro insistite richieste di allungamento dell’età lavorativa, con le loro pratiche quotidiane di assillante ricerca di forza lavoro sempre più giovane. Le ragioni di tali pratiche sono chiare: i giovani posseggono nozioni culturali e tecniche

più aggiornate. Soprattutto costano meno. Ma occorrerebbe pur mettere riparo, almeno sul piano della forma, a una situazione che vede il massimo dirigente di un'azienda tenere a un convegno una relazione circa l’assoluta necessità di ridurre l’incidenza del carico pensionistico sul Pil, elevando fortemente l’età di pensionamento in modo da recuperare risorse per «la competitività e lo sviluppo»; intanto che, lo stesso giorno, il suo direttore del personale spiega a un tecnico, un quadro, un operaio, o una dirigente, che a quarantacinque anni le loro competenze sono ormai obsolete, ergo in azienda non c'è più posto per loro. Introdurre nel dibattito sulle pensioni le variabili finora nascoste non aiuterebbe presumibilmente ad accelerare una riforma del sistema, quand’anche si continuasse a reputarla indispensabile. Ma potrebbe servire a dimostrare che essa è forse meno urgente di quanto non si dica. Soprattutto conferirebbe maggior equilibrio al dibattito. Finora la scena, si dovrebbe riconoscere, è stata dominata dagli argomenti cari, e utili, a una parte sola. [8/7/2003]

RIFORMA DELLE PENSIONI: UN DIZIONARIO MINIMO PER ORIENTARSI

Gli articoli di stampa e i servizi tv che discutono di riforma delle pensioni e di quella correlata del mercato del lavoro ricorrono spesso a un linguaggio da specialisti, ostico per chi

non sia addentro a tali materie. Pensiamo quindi di far cosa gradita pubblicando un breve dizionario dei termini principali della discussione. Competitività delle imprese. Si migliora comprimendo il 126

costo del lavoro (v.) in Italia finché non tocchi il livello della Cina. I risultati conseguiti su tale strada negli anni ‘90 — una mera riduzione del 18,5 per cento del costo del lavoro per unità di prodotto, il trasferimento di soli 6-7 punti di Pil dal monte salari ai profitti, alle rendite e al lavoro autonomo — appaiono del tutto insoddisfacenti. Costo del lavoro. Componente sgradevole ma, almeno per ora, apparentemente ineliminabile della produzione di beni e servizi. Essa è gonfiata, in aggiunta alle laute retribuzioni pagate ai dipendenti — che sono aumentate in dodici anni d’un sostanzioso 2 per cento in termini reali, ossia di ben 20 euro su 1000 —, dai contributi che le imprese sono costrette a

versare agli enti previdenziali. La decontribuzione (v.) potrebbe alleviare tale incongruo onere collaterale. Decontribuzione. Riduzione di 3-5 punti percentuali dei contributi versati dalle imprese agli enti di previdenza. Permetterebbe di ottenere diversi risultati positivi: 1) un ulteriore trasferimento di Pil dai redditi da lavoro ai profitti; 2) le profezie pessimistiche sul bilancio pensionistico dell’Inps, che sono al momento infondate, potranno finalmente avve-

rarsi; 3) le pensioni da erogare nei prossimi anni potranno infine esser tagliate per inoppugnabili ragioni contabili (v. tasso di sostituzione). Disavanzo del sistema pensionistico. Grandezza economica fondamentale ma per ora inesistente. Infatti, tolti gli one-

ri assistenziali e altre passività che lo Stato ha accollato impropriamente all'Inps, le entrate costituite dai contributi di lavoratori e aziende pareggiano in sostanza le uscite in forma di pensioni. A ogni buon conto la riforma combinata delle pensioni e del mercato del lavoro assicura che la finzione di oggi sarà la realtà di domani (v. urgenza della riforma). Flessibilizzazione del lavoro. Eliminazione delle norme del diritto del lavoro che rendevano eccessivamente riguardoso il modo in cui si trattano le persone assunte come lavoratori

dipendenti. Ha la funzione di facilitare alle imprese tanto l’assunzione quanto il licenziamento di manodopera, sostenen127

dole nell’impegno volto a ridurre il costo del lavoro (v.) al fine di accrescere la competitività (v.). Fondi pensione. Organizzazioni finanziarie, pubbliche o private, le quali raccolgono i risparmi di un lavoratore, li investono soprattutto in azioni per farli fruttare, e li versano poi al medesimo individuo, venti o trent'anni dopo, in forma di persione integrativa (v.). La restituzione della somma, e gli inte-

ressi, sono garantiti. A carico del lavoratore vi sono unicamen-

te, ma solo per alcuni decenni, i rischi di inflazione; di eventuale impossibilità a recuperare per motivi economici politici gli investimenti fatti in un dato paese; di crisi finanziarie internazio-

nali; di perdite del patrimonio dei fondi causa la caduta delle borse (com’è avvenuto in tutto il mondo tra il 2000 e il 2002). Generosità del sistema pensionistico. Sbaglia chi crede, soltanto perché ha lavorato tot anni, o versato tot contributi, d’aver maturato il diritto a una pensione di tot ammontare (v.

incentivi). Questa, attermano i rapporti delle organizzazioni internazionali, dipende invece dal buon cuore del sistema, ovvero dalla sua generosità. Essa appare al presente esagerata, poiché assicura ai pensionati italiani una pensione pari a quasi il 70 per cento dell'ultima retribuzione (v. tasso di sostituzione). Incentivi. Provvedimento rivolto alle persone desiderose di continuare a lavorare dopo aver maturato il diritto alla pensione. Per motivarle, esso garantisce che alla fine riceveranno una pensione inferiore a quella cui avrebbero diritto in base agli anni complessivamente lavorati. Invecchiamento della popolazione. Aumento della quota di individui sopra i sessantacinque anni sul totale della popolazione, 0 sulla quota di giovani con meno di quindici. È causato dall’inclinazione economicamente irrazionale, diffusa in specie tra le donne, a vivere fino a ottanta anni e oltre, nonché dalla decisione di fare soltanto un figlio per coppia. Lavoratore povero. Persona che pur lavorando regolarmente gran parte dell’anno dispone per vivere d’un reddito inferiore ai due terzi del valore mediano delle retribuzioni. Condizione da tempo tipica dei lavoratori atipici, è possibile 128

lo diventi anche per molti lavoratori dianzi astoricamente «normali», ma ora finalmente coinvolti da processi di /lessibilizzazione (v.), o saggiamente impegnati a farsi una pensione integrativa (v.) Patto tra generazioni. 1) Versione moderna, da introdurre al più presto: decurtazione immediata del trattamento pensionistico dei pensionandi di oggi, al fine di poter garantire la pensione a chi ne avrà titolo domani, verso il 2050. Chi sostiene che questo è un esperimento fantascientifico di trasferimento di ricchezza reale attraverso il tempo, tipo il teletrasporto dei corpi, è solo un detrattore preconcetto della riforma. 2) Versione arcaica, da superare: la generazione A dei lavoratori in attività finanzia direttamente con i suoi contributi le pensioni della generazione B che ha lasciato il lavoro, con la certezza di avere a suo tempo la pensione assicurata dagli attivi della generazione C. Pensionato povero. Lavoratore atipico in pensione, o — con

la riforma delle pensioni a regime — ex lavoratore tipico che non ha voluto o potuto investire una consistente quota del suo salario, in aggiunta ai contributi obbligatori, per farsi una pensione integrativa (v.). Pensione integrativa. Quella che un lavoratore può liberamente farsi, dopo aver pagato i contributi, versando un’altra quota del suo salario a un fondo pensione (v.). E vero che in tal modo paga due volte per avere lo stesso trattamento, ma se non vuol diventare un pensionato povero (v.) dovrà pur farsi carico di qualche sacrificio. Tasso di dipendenza economica (Tdde). Esiste in due formati. Il primo, allarmante, rappresenta in qual misura la popolazione sopra i 65 anni dipende economicamente dalla popolazione in età lavorativa, compresa tra i 15 e i 64 anni. Il secondo tiene conto che pure coloro che hanno meno di 15 anni dipendono dalla popolazione in età lavorativa. Dato che la percentuale di questi è crollata causa il declino della natalità, il Tdde del totale degli inattivi dalla popolazione in attività appare, in questo caso, quasi immutato da circa un secolo. 129

Chi voglia procedere sulla strada della riforma farà dunque bene a richiamare sempre e soltanto il primo formato. Tasso di passività. Rapporto tra gli anni in cui una persona ha lavorato e il numero di anni in cui riceve la pensione. Poiché le persone insistono a vivere più a lungo dopo il pensionamento, tale rapporto è sceso da 3 a 1 nel 1960 a 2 a 1 nel

2000. Se non si interviene, tale mutamento avrà severi etfetti negativi sui bilanci pubblici. Chi obbietti che grazie all’aumento di produttività il signor Y, che va in pensione adesso, nel corso della sua vita lavorativa ha prodotto una quota di Pil assai superiore al signor X andato in pensione nel 1960, maturando così il diritto a godersi qualche anno di pensione in più, mostra di opporsi pretestuosamente alla modernizzazione della previdenza. Tasso di sostituzione (Tds). Rapporto percentuale tra la pensione che uno riceve e la sua retribuzione media degli ultimi anni. I passatisti sostengono che una pensione dignitosa dovrebbe aggirarsi nientemeno che sull’80 per cento dell’ultima retribuzione, perché così si assicurerebbe alla persona il mantenimento d’un livello di vita simile a prima. Per buona sorte in Italia il Tds medio è già inferiore al 70 per cento. Tuttavia gli esperti stimano che per salvare i bilanci pubblici esso dovrebbe scendere, in tutta la Ue, sotto il 60 per cento. I lavoratori atipici, che la riforma del mercato del lavoro andrà moltiplicando, potranno contare in futuro su un Tds del 30

per cento. Da questo punto di vista la strada della riforma appare ormai tutta in discesa. Urgenza della riforma. Deriva in complesso dall’invecchiamento della popolazione (v.), dalla necessità di accrescere la competitività delle imprese (v.), dalle pressioni delle organizzazioni internazionali, e dall’intenzione del governo di migliorare il bilancio dello Stato a spese del sistema pensionistico pubblico. È infatti noto a ogni buon amministratore che si ricavano maggiori fondi prendendoli ai tanti che hanno poco, piuttosto che ai pochi che hanno molto. A mano a mano che la riforma della previdenza ideata dal 130

governo procederà, al lume dei concetti sopra definiti, la redazione del presente dizionario si impegna a fornirne successive edizioni aggiornate. [02/09/2003]

EFFETTO CAROVITA: IL PESO DELLE STATISTICHE

Da metà agosto 2002, quando l'Istat ha reso noto l’ultimo in-

dice nazionale definitivo dei prezzi al consumo per l’intera collettività (Nic), l’indice stesso è stato oggetto di vivaci contestazioni. Stando al Nic, i prezzi risultavano aumentati nel luglio 2002, rispetto al luglio 2001, del 2,3 per cento. Le associazioni dei consumatori, al pari dei tanti che han scritto ai giornali, risposto agli intervistatori tv, o parlato alle radio locali, sostengono invece che la spesa delle famiglie per acquistare gli stessi prodotti d’un anno fa è aumentata in misura molto più elevata. Sebbene sia assodato che quando si tratta di accertare dei fatti è bene non tener troppo conto delle opinioni personali, in questo caso esistono le basi per sostenere che le famiglie hanno ragione, anche se l’Istat non ha torto. Com'è possibile? È possibile perché c’è di mezzo un malinteso di vecchia data. In sintesi, l'indice dei prezzi al consumo, il sullodato

Nic, viene preso comunemente come una misura delle maggiori spese che una famiglia deve effettivamente sostenere per acquistare, a fini di consumo privato, la stessa quantità e tipologia di beni e servizi rispetto al mese o all’anno di riferimento. Ma il Nic non è affatto un indice delle spese o dei consumi effettivi delle famiglie. E un indice dei prezzi d’un paniere di circa 900 prodotti, le cui variazioni all’insù in una data percentuale si traducono nella corrispondente spesa effettiva solamente nel caso in cui una famiglia acquisti esattamen-

te quei determinati beni nella esatta proporzione in cut essi «pesano» nel paniere. Se una data famiglia compra abitualmente una gamma di prodotti piuttosto diversa, e/o in pro151

porzione diversa da quella che l’Istat chiama «struttura di ponderazione per capitolo di spesa» utilizzata per costruire il Nic, essa si troverà a spendere a volte di meno, e sovente di

più, di quanto l’indice non dica. Si prenda l'indice dei prodotti alimentari, uno dei dodici capitoli che concorrono a formare il Nic. Secondo i dati di luglio 2002, i prezzi di questo capitolo erano aumentati in complesso del 2,9 per cento, laddove la media dei capitoli era del 2,3. Il capitolo stesso comprende varie decine di prodotti e pesa sul paniere per il 16,28 per cento. Se capita che il prezzo d'una mezza dozzina di quei prodotti salga del 30 per cento nel periodo di riferimento, mentre il prezzo di tutti gli altri aumenta di poco o rimane stabile, il costo globale del capitolo «alimentari» aumenterà ovviamente di pochi punti percentuali. Ora è possibile che vi siano famiglie che per i più diversi motivi — tradizione, scelte culturali, preferenze dietetiche, prescrizioni mediche, questioni economiche o altro —

consumano soprattutto quella mezza dozzina di prodotti e poco o nulla degli altri. Di conseguenza quelle famiglie toccheranno con mano, ovvero con il portafoglio, che la loro spesa alimentare è aumentata in misura assai maggiore del 2,9 per cento. E che il peso della medesima sul loro particolare paniere della spesa ha superato di parecchio, nel caso comune d’una famiglia a reddito fisso, il 16 per cento. In sostanza l'indice nazionale dei prezzi, per quanto accuratamente costruito dall'Istat, sulla base di circa 300.000 quotazioni mensili rilevate in 25.000 punti di vendita d’ogni genere, riflette in misura inappropriata l'aumento del costo della vita di cui fanno esperienza giorno per giorno le famiglie. Ciò accade in specie per quelle che vivono di stipendi, salari o pensioni: redditi medio-bassi, e fissi, a fronte dei quali la maggior spesa per una voce deve essere compensata da una minor spesa per un’altra. Con gli attuali metodi di rilevazione, l'inflazione specifica che debbono fronteggiare in concreto alcuni milioni di famiglie viene regolarmente sottostimata a paragone dell'indice generale, perché i diversi strati 132

sociali cui le famiglie appartengono hanno comportamenti di consumo differenti da quelli medi che sono ipotizzati, pur necessariamente, per costruire gli indici dei prezzi. Da quanto sopra discende che il potere d’acquisto, almeno delle famiglie a reddito fisso e medio-basso, non dovrebbe essere calcolato in base ai prezzi ricavati dai consumi nazionali, bensì dai prezzi del particolare insieme di beni e servizi che esse realmente consumano. È vero che l’Istat calcola, oltre al Nic, anche il Foi (indice nazionale dei prezzi al consumo per le famiglie d’operai e impiegati). Purtroppo i suoi valori appaiono quasi identici a quelli del Nic, anche per quanto riguarda i singoli capitoli di spesa. Qualora il Foi venga assunto come un indice reale della maggiore spesa che le famiglie debbono sostenere per mantenere il loro precedentelivello di consumi, se ne dovrebbe dedurre che l’inflazione incide allo stes-

so modo tanto sui redditi degli operai e degli impiegati, quanto su quelli dei dirigenti da 200.000 euro l’anno. La costruzione di un indice nazionale dei prezzi è indispensabile, perché da esso dipende nientemeno che la valutazione in termini reali del Pil, con tutto ciò che ne segue. E l'Istat svolge egregiamente tale compito. Ciò premesso, allo scopo di rendere più realistica la misura dell’inflazione a livello delle famiglie bisognerebbe costruire indici fondati su una rilevazione «sul campo» delle spese che differenti tipi di famiglia, appartenenti a differenti strati sociali, effettivamente compiono per acquisire un loro particolare paniere di prodotti. In altre parole bisognerebbe fondare il calcolo dell’inflazione su una rilevazione dei bilanci familiari, ripetuta nel tempo, d’un campione di famiglie stratificato per reddito e altre caratteristiche socio-anagrafiche.

A fronte di simile proposta chiunque abbia un'idea di quanto sia onerosa una rilevazione dei bilanci di migliaia di famiglie non può che gridare alla missione impossibile. Sta di fatto che lo stesso Istat compie già, di propria iniziativa, un’operazione del genere, sebbene poi non la usi (forse anche perché nessuno glielo ha mai chiesto) per ricavarne indi133

ci di inflazione differenziati per tipologie di famiglia. Mi riferisco all'indagine che l’Istituto compie ogni anno sui consumi d’un campione di circa 24.000 famiglie. I dati che essa fornisce sull’ammontare e sul peso relativo dei vari capitoli di spesa appaiono assai più realistici di quelli che confluiscono nella costruzione degli indici dei prezzi. Si veda, ad esempio, il dato sull’abitazione. Vari commentatori han sottolineato negativamente il fatto che nel Nic attuale l’abitazione (inclusi energia, combustibili, manutenzione) pesi solo, sul totale dei capitoli di spesa, per il 9,3 per cento. Invece nell’indagine campionaria sulle famiglie del 2001 lo stesso capitolo pesa, in media, per un ben più realistico 28 per cento. Motivo della differenza? Nel Nic i quattro quinti di abitazioni di proprietà delle famiglie italiane non fanno registrare alcuna spesa, poiché la proprietà di un bene usato in proprio non produce valore aggiunto. Mentre a livello di Pil — di cui il Nic è espressione e pilastro — i consumi si possono valutare soltanto in quest’ultima veste. Però il risultato statistico è che le spese per l'affitto del quinto restante di famiglie vengono distribuite sul 100 per cento delle abitazioni, donde la forte riduzione del peso di questa voce sul complesso dell'indice. Al contrario, nell'indagine campionaria sulle famiglie le abitazioni in proprietà compaiono, a fianco di quelle in affitto, con un «affitto figurativo» (ch'è poi lo stesso in base al quale si pagano l’Ici e lIrpef sulla casa), e questa modifica rende più realistica la stima di ciò che le famiglie spendono per l'abitazione. Va aggiunto che l’indagine stessa, i cui dati sono ricavati in gran parte da libretti compilati dalle famiglie, differenzia la spesa mensile per tipologia familiare (coppie e singoli, giovani e meno giovani, coppie con e senza figli, famiglie monogenitoriali ecc.), per condizione professionale della persona di riferimento (il vecchio capofamiglia), per numero di componenti. Utilizzando simili dati, e approfondendo l’analisi del paniere di prodotti specificamente consumati dai diversi tipi e strati di famiglia, non dovrebbe essere impossibile stimare 134

qual è il tasso di inflazione effettivo per i principali tipi di famiglia. A ciascuno, dunque, il suo tasso di inflazione? No di cer-

to. Ma una serie di tassi d’inflazione differenziati a seconda degli strati socio-economici e della tipologia delle famiglie gioverebbe. Essi ridurrebbero il conflitto tra chi scopre che le etichette «tutto a mille lire» son divenute, per la stessa quantità e tipo di merce, «tutto a un euro», e le autorità che assicurano che il costo della vita è cresciuta in misura minima. Ma soprattutto potrebbero permettere di condurre politiche economiche, politiche sociali, e trattative sindacali, più

mirate ed efficaci di quanto oggi non siano. [05/09/2002]

IL PANIERE IMPERFETTO

Per vederci un po’ più chiaro nella discussione esplosa sul caro prezzi, a partire da quello dei prodotti alimentari, bisognerebbe cercare di evitare tre sbagli. Un primo sbaglio consiste nel mettersi in caccia di quale sia la misura «vera» degli aumenti, tra il 3,2 per cento calcolato dall'Istat, il 29 per cen-

to denunciato dall’Eurispes in base a proprie rilevazioni, o il 13 per cento che lo stesso istituto dice di aver calcolato utilizzando la medesima metodologia dell'Istat. Il secondo sbaglio sta nel pensare che esistano da qualche parte due diverse entità, una che si chiama inflazione effettiva, e un’altra che

prende invece nome di inflazione percepita. Un terzo sbaglio da evitare consiste infine nel credere che, a forza di modificare, modernizzare, ampliare il paniere, sia possibile regi-

strare più fedelmente l’andamento dei prezzi al consumo. Quel che hanno in comune i tre tipi di sbaglio — che è poi la principale ragione per sforzarsi di non caderci — risiede nell’assumere che ciò che conta per le famiglie sia unicamente l'andamento medio dei prezzi, sia pure differenziati per regione e per città grandi e piccole. Mentre ciò che ancor più 135

conta per una famiglia è la cifra che essa deve effettivamente sborsare per procurarsi la specifica tipologia di beni e servizi che essa desidera, in relazione al reddito a essa disponibile. Tale tipologia varia grandemente in funzione sia del reddito, della condizione professionale, della composizione della famiglia, sia delle sue particolari abitudini di consumo. Per intanto nella discussione sul caro prezzi dei prodotti alimentari maggiore spazio dovrebbe essere dato alla vetusta, quanto attualissima, legge di Engel. La quale dice che maggiore è il reddito disponibile d’una famiglia, minore è la percentuale delle spese alimentari sul totale delle sue spese; il che implica ovviamente che, minore il reddito, maggiore sia l’incidenza su questo delle spese alimentari. La legge di Engel fa sì che l'aumento del medesimo prodotto di un X per cento resta quasi inavvertito da una famiglia che destina ai prodotti alimentari solo il 15 per cento del suo reddito, mentre risulta drammatico per la famiglia che, avendo a disposizione un reddito molto più basso, spende già in alimentari la metà di quello che introita. Detto processo ha poco a che fare con una sedicente «percezione» soggettiva dei prezzi, e molto di più con i ferrei meccanismi dei bilanci familiari. I quali possono anche risultare oggettivamente disastrati, oppure no, in rapporto alle abitudini o alle necessità di consumo. Per una famiglia di vegetariani, ad esempio, gli aumenti dei prodotti ortofrutticoli intervenuti negli ultimi mesi del 2002 possono aver comportato un maggior esborso al limite del sopportabile, mentre la famiglia della porta accanto che preferisce una dieta differente potrebbe aver trovato l'aumento di quegli stessi prodotti obiettivamente poco significante. La strada per meglio capire come l'andamento dell’economia e dei prezzi incida realmente sul livello di vita delle famiglie è pertanto quello dello studio dei bilanci familiari di un’ampia tipologia di famiglie. E dal bilancio di una famiglia, redatto giorno per giorno per parecchie settimane, che è possibile stabilire in qual misura, e con quali modalità di adatta136

mento, migliorano o peggiorano le spese che essa realmente effettua. Le indagini sui bilanci familiari non escludono certo la rilevazione dei prezzi al consumo. Questa è necessaria sia perché su di essa si basa in ultimo la stima del Pil, sia perché le variazioni interne osservate nei bilanci familiari possono essere meglio spiegate quando siano confrontate con rilevazioni di fonte esterna. E al proposito si può affermare che è difficile che qualsiasi altro ente possa al momento far meglio dell'Istat, non foss’altro perché solamente le dimensioni e il mestiere del suo apparato permettono di fare 300.000 rilevazioni al mese in 25.000 punti di vendita differenti. Ciò che l'Istat non dovrebbe fare, né con esso alcun mini-

stro od organizzazione o singolo commentatore, è lasciare intendere, o addirittura affermare esplicitamente, che dall’andamento dei prezzi è possibile stimare obiettivamente il maggior esborso che differenti tipi di famiglie debbono sopportare. E non pretendere di sottrarsi alle critiche da parte di altri istituti di ricerca. Tra l’altro, come ho ricordato altre volte, lo

stesso Istat procede annualmente a una indagine sui bilanci familiari che fornisce un quadro molto più credibile di ciò che davvero le famiglie consumano e spendono che non le inferenze ricavate, tramite il famoso paniere, dalle rilevazioni dei prezzi. Peraltro tutte le parti finora intervenute nella discussione sul caro prezzi sembrano ignorare l’esistenza di tale indagine. Né l'Istat ha mostrato finora di volerne fare buon uso per migliorare le sue stime dell’inflazione a livello di famiglie. Adesso una nuova coalizione dei consumatori ha sollecitato l’Istat a definire panieri diversi con almeno tre tipologie, differenziandoli cioè per famiglie, per reddito e per aree geografiche. Tali richieste comporterebbero un grande impegno per essere tradotte in metodologie appropriate, ferme restando le riserve sopra espresse sulla possibilità di individuare il paniere buono in luogo di quello cattivo. Tuttavia esse vanno nella giusta direzione, quella di osservare, accanto all’anda-

mento dei prezzi, l'andamento delle spese reali delle famiglie, distinte per composizione, strati di reddito, abitudini di con154

sumo e simili, piuttosto che pretendere di desumere le seconde dal primo. [04/01/2003]

MA LE FAMIGLIE NON SONO TUTTE UGUALI

Si dice che uno statistico, tempo addietro, sia annegato in un

fiume la cui profondità media era di mezzo metro. Misura che pure era stata accertata mediante ripetute e accurate rilevazioni. Ove si ponesse mente a questa battuta, le polemiche in corso su quale sarebbe il «vero» tasso di inflazione apparirebbero subito un po’ meno fondate. Da un lato, infatti, non ci può essere dubbio che il dato diffuso dall'Istat, secondo il quale l'aumento dei prezzi al consumo si è attestato negli ultimi anni intorno al 2,3-2,5 per cento in media, sia il più ac-

curato che per mezzo delle attuali metodologie si possa rilevare. Le rilevazioni dei prezzi effettuate sono centinaia di migliaia al mese, i punti di vendita opportunamente differenziati per tipologia, il personale addetto è numeroso e altamente specializzato. Il paniere di beni utilizzato dall'Istat per omogeneizzare le rilevazioni presenta in verità qualche distorsione. È noto, per citare il dato più macroscopico, che il peso percentuale in esso attribuito alle spese per la casa è meno della metà di quello osservato nelle indagini dirette sui bilanci familiari condotte dallo stesso Istituto. Ma un paniere perfetto non è nemmeno immaginabile. Nel migliore dei casi si tratterebbe pur sempre di faticose rincorse di una realtà, quella dei consumi, in perpetuo movimento. Non ci si sbaglia quindi ad affermare che l’Istat sa fare piuttosto bene il suo mestiere, e che quel

dato medio è comunque indispensabile per misurare l’andamento del prodotto interno lordo. Da parte sua però l’Istat sbaglia a presentare, o anche solo lasciare che altri presentino, il dato medio nazionale — sia pure tarato con qualche decimo di punto in più o in meno per 138

regioni e città della penisola — come se questo riflettesse davvero l'incidenza dei movimenti dei prezzi sulle spese effettive delle famiglie, ossia l'esatta profondità del fiume che queste debbono ogni mese attraversare. Nella vita quotidiana le famiglie hanno a che fare con i fondali di un fiume che a seconda del loro livello di reddito, della loro composizione e classe di età, delle loro abitudini, sono per alcune profondi

solo venti centimetri, mentre per altre sono profondi quattro metri. Da questo punto di vista i dati dell’Eurispes sul potere d'acquisto di differenti strati sociali rappresentano forse in modo più attendibile che non la media Istat l'andamento reale del costo della vita che le famiglie debbono affrontare. Il metodo Eurispes ha inoltre il merito di tenere conto, diversamente da quanto fa l'Istat, della stagnazione o del calo del-

le retribuzioni del lavoro dipendente: anche il limitato aumento medio dei prezzi calcolato dall'Istat grava molto di più sulle famiglie nel caso in cui il reddito disponibile si riduce, e rende meglio ragione delle loro proteste. Tuttavia, a sua volta, anche l’Eurispes non dovrebbe com-

mettere l'errore di presentare un suo tasso di inflazione nazionale, che nel triennio 2001-2003 sarebbe ben tre volte su-

periore a quello dell'Istat, oltre il 16 per cento in luogo del 5,5 per cento. Anzitutto perché l'impianto di rilevazione dell’Eurispes, per quanto possa essere ben costruito, non pare esse-

re per dimensioni, distribuzione territoriale, nonché fonti primarie e secondarie dei dati, paragonabile a quello dell'Istat. In secondo luogo perché, se quel dato nazionale del 16 per cento fosse reale, i calcoli del Pil degli ultimi anni sarebbero

interamente da rifare, e con essi quelli del debito pubblico e di altre inezie del genere. Ma l’errore dell’Eurispes consiste soprattutto nel contrapporre una media a una media, lanciando accuse di fuoco per sostenere lo straordinario fatto che lo statistico di cui sopra non è annegato in acque profonde in media mezzo metro, bensì in acque profonde un metro e venti. 139

Quanto alle famiglie e alle associazioni dei consumatori, hanno certo ragione quando affermano che stando all’esperienza quotidiana i prezzi di quelle determinate quantità e qualità di merci e servizi che determinate tipologie di famiglie acquistano sono cresciuti ben al disopra del tasso di inflazione rilevato dall'Istat. E al riguardo bisognerebbe forse smetterla di parlare di inflazione «percepita», come se si trattasse di un processo psicologico che non ha riscontri nella realtà. Se il panino della pausa pranzo costava tremila lire e adesso, nel medesimo bar, costa due euro, non si tratta di percezioni fantasmatiche, bensì di solida economia politica. Ma forse bisognerebbe anche smetterla di far comparire ogni giorno in tv signore e signori intervistati per strada, 0 co-

mici in teatro, o commentatori dei talk show dove si spiega l'economia al popolo, i quali si dicono certi che tutte le merci di cui si ricordano sono aumentate negli ultimi anni del 50 o del 100 per cento. Un po’ perché tutti ricordano irresistibilmente un personaggio di Autodafé di Elias Canetti, una signora che concludeva ogni discorso — fosse il soggetto la mistica orientale, una crisi di governo, o il traffico cittadino — dicendo che «in effetti anche il prezzo delle patate è raddoppiato». E molto di più perché il pubblico, le persone comuni alle prese con l’infido fiume dei prezzi da guadare, meriterebbero che anche nei media la questione venisse affrontata ed esposta con maggior spirito critico, e magari un tot addizionale di semplici conoscenze statistiche. [05/02/2004]

FARE COME BUSH: MENO TASSE PER LE FAMIGLIE RICCHE

A margine dell'incontro del G8, svoltosi a inizio giugno 2004 su un'isola al largo della costa della Georgia, Berlusconi ha ribadito l'impegno a ridurre le tasse prendendo esempio da Bush. Questi gli avrebbe ricordato sul luogo che la riduzione delle imposte ha consentito all'economia Usa d’entrare in un 140

ciclo di crescita «misurabile con l'aumento esponenziale dei posti di lavoro». Ammesso che Bush si sia davvero espresso in questi termini, la promessa del nostro premier d’importare tra breve in Italia le sue ricette fiscali rende interessante vedere se i numeri confermano che queste abbiano realmente avuto, sull’occupazione, l’effetto vantato.

Di numeri relativi agli effetti della Bush Tax, com'è chiamato il pacchetto di leggi approvate dal Congresso tra il 2001 e il 2003 per tagliare le tasse, di cui la più recente porta il nome solenne di «Piano per la crescita economica e l’occupazione», ne circolano molti. Sono scrutinati e rielaborati mese

per mese da centri studi come l’Economic Policy Institute (Epi), sulla base dei dati forniti dal Bureau of Census (l'Istat americano) e dal Bureau of Labor Statistics (la divisione che segue il mercato del lavoro). Questi numeri dicono che negli ultimi undici mesi prima dell’incontro del G8, dal luglio 2003 quando entrò in vigore la Bush Tax 2, al maggio 2004, non solo non si è registrato alcun aumento esponenziale dei posti di lavoro; c'è addirittura da dubitare che vi sia stato un au-

mento netto di qualche entità dovuto alla riforma fiscale. Nella primavera 2003 il comitato dei consiglieri economici di Bush aveva pubblicato dettagliate proiezioni, secondo le quali il piano avrebbe generato 5,5 milioni di posti di lavoro entro la fine del 2004, pari a 306.000 nuovi posti 4/ 72ese. Negli 11 mesi di cui sopra i nuovi posti avrebbero dovuto quindi ammontare a poco meno di 3,4 milioni. Di rado proiezioni elaborate da esperti d’economia si sono rivelate altrettanto fallimentari. In ciascuno dei primi nove mesi del periodo in questione la crescita mensile dell'occupazione è stata in realtà inferiore alle proiezioni per una cifra compresa tra le 150.000 e le 350.000 unità. Solamente in due mesi, marzo e

aprile 2004, la crescita è stata superiore alle previsioni — per meno di 90.000 unità in tutto. Nel maggio successivo si è invece ripiombati al disotto delle proiezioni. Risultato: in circa un anno gli americani si sono ritrovati

con 2 milioni di posti di lavoro in meno a confronto di quel 141

che prometteva la Bush Tax: 1,4 milioni effettivi in luogo dei 3,4 promessi (calcoli dell’ Epi). Ove ciò non bastasse, vi sono altri dati, questa volta di carattere demografico, a confermare

l’ipotesi che l'aumento effettivo sull'occupazione della Bush Tax sia stato in verità modesto. Si osserva infatti che per decenni la popolazione Usa è cresciuta, sommando le nascite (una ogni 8 secondi) e gli immigrati (uno ogni 25 secondi) di 3-4 milioni di persone l’anno. Stando alle ultime citre, il Bu-

reau of Census stima che all’inizio del 2000 gli americani residenti fossero 280,6 milioni, mentre a fine settembre 2004 sa-

ranno 293,5 milioni; il che corrisponde a un aumento di 2,7 milioni di persone ogni dodici mesi. Incrementi demografici di tale entità contribuiscono notevolmente ad allargare il mercato del lavoro. Sono cifre e processi per lo più ignorati, oggi come ieri, da chi ammira i tassi di crescita dell’occupazione in Usa comparandoli con quelli modesti dell'Europa. In un paese avanzato, infatti, un'elevata e regolare crescita della popolazione — quale si registra da generazioni in Usa ma non più in Europa - si tra-

duce a suo tempo in un proporzionale aumento degli occupati. Duecentomila persone, siano immigrate o nate vent’anni prima, che ogni mese s’aggiungono alla popolazione in età

potenzialmente lavorativa generano di per sé 120-140.000 posti di lavoro addizionali, tenendo conto dell’elevato tasso d’attività, oltre il 65 per cento, proprio degli Usa. Che sono grosso modo i posti creati mensilmente negli States, in media, dal luglio 2003 al maggio 2004. Se si tien conto del suddetto contributo della demografia all’occupazione, gli effetti sull'aumento mensile dei jobs realmente ascrivibili nell’ultimo anno alla Bush Tax s’approssimano a quantità trascurabili. In sostanza, la crescita «esponenziale» dei posti di lavoro che sarebbe stata generata dal taglio delle imposte operato dal governo e dal Congresso Usa non esiste. Esistono invece i tagli all’istruzione, alla sanità,

all'assistenza ai poveri e agli anziani, ai servizi di trasporto, 0 per converso gli aumenti delle imposte locali, che quasi tutti 142

gli Stati americani hanno già attuato o stanno per introdurre al fine di rimediare alla pesante riduzione dei trasferimenti da parte del governo federale. Riduzione imposta dal fantasmagorico costo della riforma fiscale di Bush: tra 800 miliardi e un trilione di dollari in dieci anni, secondo varie stime. Una riforma grazie alla quale, dice una battuta che circola tra gli esperti di politica fiscale, «mai così pochi hanno ricevuto così tanto da moltissimi». La Bush Tax permetterà infatti a chi ha un reddito superiore a 1 milione di dollari di risparmiare oltre 110.000 dollari d’imposte l’anno; mentre il 60 per cento degli americani alla base della piramide dei redditi ne risparmieranno 304 (trecentoquattro) — ingoiati dai tagli ai servizi e dagli aumenti diconsi delle tasse locali. Nel caso che il nostro premier mantenga la promessa d’importare in Italia la ricetta fiscale di Bush, possiamo cominciare a guardare in faccia quel che ci aspetta. [18/06/2004]

CHI PAGHERÀ PER L’EQUAZIONE IMPOSSIBILE

Oltre 40 miliardi di euro. Questa è la prima cifra dell’equazione cui il paese si trova davanti nell'estate 2004. Vanno a comporla i 24 miliardi che il governo deve trovare per la manovra indicata nel Dpef per il 2005; i 12,5 miliardi di euro necessari per tagliare le tasse; i 7,5 miliardi della manovra correttiva già deliberata. Una seconda cifra della stessa equazione sono i 6 milioni di lavoratori dipendenti in attesa di rinnovo del contratto, di cui 3,5 milioni soltanto nel pubblico impiego, un milione di metalmeccanici, e alcune decine di migliaia nel tormentatissimo settore del trasporto pubblico locale. Vi sono poi altre cifre a tutti note, dal calo delle esportazioni alla diminuzione degli investimenti nel Mezzogiorno, alla discesa delle imprese italiane nelle classifiche internazio-

nali della competitività, del fatturato e del valore in Borsa. 143

Posta in tal modo prettamente economico l'equazione appare irrisolvibile. Il solo rinnovo del contratto del pubblico impiego pare comporterebbe un onere per lo Stato di 8-10 miliardi di euro in due anni. Ci si chiede dove li possa prendere lo Stato. Da parte loro gli enti locali rischiano di non essere nelle condizioni di rinnovare i contratti dei trasporti, poiché i 40 miliardi di euro che il governo vuole rastrellare richiederanno ulteriori tagli dei trasferimenti a essi. Le imprese che vedono le vendite stagnare tanto in Italia che all’estero, mentre gli incentivi statali agli investimenti e all’occupazione stanno sparendo, sosterranno di non avere margini per concedere alcun apprezzabile aumento ai dipendenti. Peraltro, a guardarla controluce, l’equazione in parola appare soltanto in modesta misura un'equazione economica. In gran parte è un’equazione politica, i cui termini coinvolgono

tanto la maggioranza che l’opposizione. In essa occorrerebbe scegliere, in primo luogo, se tagliare le tasse oppure aumentare salari e stipendi. Il padre di famiglia pieno di buonsenso, cui spesso ci richiama Berlusconi, non avrebbe dubbi a favore della seconda ipotesi. Se il mio datore di lavoro mi garantisce, in base al rinnovo del contratto, che fra due mesi riceverò in busta paga 100 euro in più, comprerò subito la lavastoviglie che non ho, oppure cambierò l'auto, pagandola a rate di 100 euro al mese. Invece se il governo mi promette che tra un anno o due mi troverò forse in busta una somma addizionale non ben definita, perché derivante da calcoli complicati circa la riduzione delle tasse che spetterebbe alla mia famiglia, per ora non acquisto un bel nulla. Il buonsenso dice, in sostanza, che l'impulso ai consumi e all'occupazione proveniente da un aumento certo e immediato del reddito disponibile è assai più forte che non una riduzione prospettica delle imposte. Il fatto è che la questione ha un risvolto politico per ambedue gli schieramenti. Il centro-destra vuole ridurre le tasse, né intende certo rinunciarvi trasformando ad esempio le risorse disponibili in aumenti salariali, per evidenti motivi elettorali. Meglio la speranza di 15

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milioni di elettori attratti dallo specchietto di meno tasse per tutti, che non la certezza di 3,5 milioni di statali insoddisfat-

ti. Il centro-sinistra ha preferito rimproverare al centro-destra di non aver finora mantenuto la promessa di ridurre le tasse, piuttosto che accusarlo di adottare uno strumento sbagliato per rilanciare la crescita dell’occupazione e del Pil. È comprensibile che anche da parte del centro-sinistra sussistano, al proposito, speculari preoccupazioni elettorali. Ma qui e ora l'equazione di cui sopra richiederebbe che l’opposizione chiedesse a gran voce al governo di lasciar da parte i tagli alle tasse per destinare attraverso diverse vie le relative risorse, ammesso che siano reperibili, per sostenere il rinnovo dei contratti di 6 milioni di persone. Gli aspetti politici della stessa equazione naturalmente non finiscono qui. Occorrerà pure discutere prima o poi, sul terreno delle concrete proposte politiche, della crescita delle disuguaglianze, che l'economia creativa del governo ha accentuato. O del fatto che in quindici anni il monte delle retribuzioni da lavoro dipendente ha perso parecchi punti di Pil a favore di altri redditi. Se anche simili argomenti non saranno messi sul tavolo dal centro-sinistra, le manovre correttive, iDpef annuali, le riforme del mercato del lavoro e delle

pensioni continueranno a fungere da copertura contabile dall’apparenza forbitamente razionale a un disegno politico grezzamente conservatore. [26/08/2004]

FINITA L’ERA DELLE SICUREZZE

Volendo riassumere in una battuta la situazione del paese che emerge dal rapporto 2004 del Censis, si potrebbe dire che esso è afflitto da una crescente insicurezza socio-economica.

Discutere se questa sia autentica oppure illusoria non ha molto senso. Se le persone sono giunte a sentirsi insicure, guar-

dano con pessimismo al futuro prossimo, non hanno fiducia 145

nella classe politica che in quel futuro dovrebbe guidarle, si ha un bel sventolare sotto i loro occhi tutte le statistiche disponibili per dimostrare che stanno meglio come non mai in passato — un caso che forse non si attaglia al nostro paese — ma il loro senso d’insicurezza non si ridurrà di uno iota. Gli stati d'animo collettivi hanno la stessa durezza della materia;

se si vuole modificarli, non conviene ignorare questa loro proprietà. Bisogna provare a trasformarli, a lavorarli, con

utensili politici adeguati. Di certo non nasce dal nulla, l’insicurezza socio-economica. Vi contribuiscono fattori particolari e condizioni storiche. I primi sono avvertiti da tutti, e a mano a mano che si conca-

tenano destano inquietudini crescenti. Ci sono i figli che non trovano lavoro, o trovano soltanto occupazioni saltuarie e malpagate. La fabbrica che da mezzo secolo dava lavoro in città e che improvvisamente chiude, licenziando qualche centinaio di lavoratori, perché qualcuno che sta a Tromso o a Boca Raton così ha deciso. I piccoli negozi che spariscono, inghiottiti dai supermercati, che però dopo qualche tempo chiudono anche loro perché il volume d’affari non regge: lasciando nel paese un deserto. Gli amici Rossi che avevano investito i loro risparmi in obbligazioni e hanno perso tutto. L'innovazione tecnologica in fabbrica o in ufficio, che da un giorno all’altro ti mette davanti alla necessità di cercare un altro lavoro o di passare le notti per aggiornarti. Gli immigrati che certo sono utili però non si sa mai. La famiglia dove tutti imembri sono stressati, a cominciare dalla donna che fa tre lavori in uno, col risultato che a forza di discutere a un certo punto ciascuno se ne va per conto suo e da una famiglia di quattro persone vengono fuori altrettante famiglie con un solo membro. Ciascuno più libero, ma di certo più insicuro. Si moltiplichino per alcuni milioni simili esperienze, che molti fanno di persona, altri sentono raccontare da parenti e amici, altri ancora vedono intv, e l’insicurezza diffusa degli ita-

liani comincia a trovare qualche spiegazione. A determinare la quale concorrono peraltro nel profondo anche fattori storici. 146

Coloro che hanno oggi trent’anni o più sono vissuti in un’epoca, l'hanno respirata, nella quale coesistevano due grandi sistemi di sicurezza sociale, anche se non si poteva godere dei benefici di entrambi. Uno era quello inventato dai conservatori inglesi durante la Seconda guerra mondiale, quindi perfezionato e sviluppato sul continente dal capitalismo renano, dai nostri governi a maggioranza democristiana, dal dirigismo dei francesi che supera indenne ogni cambio di orientamento politico. L’altro sistema era quello offerto a Est, dai paesi del socialismo reale, sperimentato direttamente sul luogo da pochi, ma mitizzato e vagheggiato da molti a distanza perchélo si credeva più esteso, più protettivo, in una parola erogatore di maggiori sicurezze alle classi sociali che in precedenza ne avevano avute di assai scarse. Da una dozzina d’anni e più il sistema di sicurezze che prometteva il socialismo reale è scomparso, insieme con i regimi che lo sostenevano. Il sistema europeo, il modello europeo di sicurezza socio-economica,

è palesemente sotto attacco da

parte di quasi tutti igoverni Ue. Con metodo, con rigorosa perseveranza, in ciascun paese della Ue un giorno se ne smonta un pezzo, l'indomani si riduce il perimetro delle sue prestazioni, quindi si privatizzano le sue funzioni adducendo cause ora reali ora pretestuose. A volte per motivi legittimi, altre volte per motivi che è bene il pubblico ignori. Come poteva mai illudersi, la politica, che la repentina scomparsa di un sistema di sicurezza sociale pur solo idealizzato nel pensiero, ma concretamente esistente per oltre quarant'anni appena al di là dei confini dell'Europa disegnati dalla guerra, e il correlativo sgretolamento — per ora parziale, ma nelle intenzioni totale — del sistema occidentale, non incidesse in profondità nell'animo delle persone, stratificando in esso ispidi sedimenti d’insicurezza sociale ed economica? Naturalmente tutto ciò — i fattori storici e quelli contingenti e quotidiani — significa che non siamo soli. L’insicurezza socio-economica che il Censis ha rilevato in Italia attanaglia anche i tedeschi come i francesi, i britannici come gli 147

olandesi o gli svizzeri. La letteratura sulla globalizzazione dell’insicurezza socio-economica è amplissima. Peraltro sulla politica questo tema non pare aver avuto finora alcuna presa, in nessun paese. Non senza ragione, poiché una politica che ponesse al proprio centro il compito di produrre più sicurezza socio-economica in tempi che di giorno in giorno sembrano alla maggior parte delle persone sempre meno sicuri, dovrebbe fare i conti con il fatto che essendo globale il problema, anche i tentativi di soluzione dovrebbero essere faticosa-

mente cercati a livello globale. Al minimo a livello europeo. Magari prima che tale forma di insicurezza ricominci a svolgere il ruolo cui ha sempre adempiuto da un secolo e passa a questa parte. Quello di cattiva consigliera. [4/12/2004]

SE SCOMPARE IL WEEK END

Una recente direttiva della Commissione Europea sottrae alla domenica la qualifica di normale giorno di riposo della settimana. Qualifica assegnatale formalmente dal codice civile soltanto sessant'anni fa, ma socialmente riconosciuta in Europa da secoli. La direttiva in parola permette di sostituirla, previo accordo tra sindacati e datori di lavoro, con qualsiasi altro giorno. Che cosa pensano di tale novità produttori e consumatori?

Ciascuno di noi può trovare in sé la risposta, visto che ogni individuo è sia un produttore che un consumatore. Nel primo ruolo, uno può pensare che far festa il lunedì, o il giovedì, in luogo della domenica, non sarebbe poi un gran male. Purché sussistano certe condizioni. La prima è che in tema di retribuzione non ci siano delle perdite tangibili. I lavoratori dipendenti che lavorano alla domenica percepiscono di solito una maggiorazione salariale assai consistente. Oggi sono circa due milioni, occupati nei più diversi settori dell'industria e dei servizi. Ove si affermasse un orario che 148

mette sullo stesso piano tutti i giorni della settimana, essi diventerebbero, in ciascun giorno dichiarato festivo in un dato settore produttivo, molti di più. È probabile che a tutti loro non piacerebbe sentirsi dire che essendo venuto meno il carattere festivo della domenica, a chi lavora in quel giorno non spetta nessuno straordinario; ma nemmeno gli spetta se è chiamato a lavorare in un altro giorno, perché nessun giorno possiede più il carattere privilegiato che aveva la domenica.

Fin qui si tratterebbe solamente di continuare a pagare gli straordinari a chi lavora in un giorno festivo, quale che sia. È possibile che gli imprenditori non oppongano a ciò troppa resistenza. Ma c’è un’altra condizione alla quale il produttore cheè in noi farebbe fatica a rinunciare: il fine settimana di due giorni. È un'istituzione nata alla fine degli anni ’50, quando fu introdotto quasi dovunque il sabato festivo. Il i di due giorni ha cambiato in mille modi la vita degli italiani. Ora se il giorno di riposo diventa, per dire, il giovedì, è possibile che il mercoledì diventi il suo sabato? Oppure qualcuno pensa — nel governo, nella Commissione Ue, nelle asso-

ciazioni padronali, nei loro centri di ricerca — che al fine di modernizzare gli orari di lavoro sarebbe bene che i due giorni festivi fossero staccati l'uno dall’altro; o, meglio ancora,

che fossero ridotti a uno solo? Se questi fossero mai i propositi delle suddette parti, esse avranno qualche difficoltà a spiegare ai lavoratori che si tratta d’un passo avanti sulla via della modernizzazione, piuttosto che di uno indietro. Se poi ci caliamo nel nostro ruolo di consumatori, sulle prime l’abolizione della domenica come giorno festivo ci pare presentare esclusivamente vantaggi.

Che piacere trovare aperto la domenica il gastronomo, il negozio di abbigliamento, o la libreria in centro. Quale tranquillità ci darebbe sapere che anche in quel giorno il medico risponde alla nostra chiamata, l’agenzia di viaggio ci prenota un aereo alle tre del pomeriggio, mentre il portinaio tiene d’occhio il condominio come nei sei giorni precedenti. 149

L’immagine di questo scenario festoso, dischiuso dall’abolizione di un giorno dianzi festivo, rischia però di venir turbata da un altro pensiero: purché non tocchi a me. Se qualcuno vuole tenere aperto anche la domenica, o in altro giorno neofestivo, il negozio, l'ambulatorio, l'agenzia, o la portineria, ap-

prezzeremo la sua disponibilità. Ma se per farlo deve chiedere a noi commessi, dottoresse, portieri, impiegati o tecnici di lavorare anche alla domenica, o in un altro giorno testé dichiarato festivo, il nostro apprezzamento è destinato a calare di molto. C'è insomma un conflitto, tra il nostro ruolo di produttori e quello di consumatori, che la normativa ipotizzata sugli orari di lavoro troverà difficile conciliare. Senza tener conto che una società, con buona pace della signora Thatcher, nonè fatta soltanto di individui che pro-

ducono e consumano. E fatta di legami tra le persone, di molteplici forme di socialità. Senza tali legami sociali una società non si regge, o si regge piuttosto male. Tra i più importanti

di tali legami vi sono i rituali, insiemi di norme che regolano lo scorrere profondo della vita d’una società. Come ha scritto Richard Sennett nel saggio Lavoro e inclusione sociale (1999), «il rituale è il cemento più forte della società, la chimica stessa alla base dei processi di inclusione». Caratteristico dei rituali è di essere gratuiti, irrazionali, privi di giustificazione se non simbolica. Non si può inscriverli in un bilancio o in un contratto. Però senza di essi nessun bilancio o contratto ha la possibilità di durare. La domenica festiva è appunto un rituale. Chiedere alla Commissione Europea di tenerne conto quando emana le sue direttive è forse chiedere troppo. Non tenerne conto quando si trattasse di applicarle a milioni di persone significherebbe perseverare nell’errore di credere che, una volta regolati i rapporti tra produttori e consumatori in un’ottica puramente economica, anche l’insieme della società, della vita sociale e culturale, ne trarrebbe soltanto dei vantaggi. [19/12/2002]

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NESSUNO TOCCHI LE FERIE

Può sembrare politicamente scorretto, specie se lo si fa in vista delle partenze collettive d’agosto, ricordare come un mese di ferie pagate all’anno sia un esito del conflitto tra lavoratori e datori di lavoro, finito incidentalmente favorevole ai primi. Tuttavia può servire a ricordare che senza alcune generazioni di lotte dei sindacati tale istituto non esisterebbe. Che si tratta d’una conquista attuale, presente in pochi paesi al mondo, forse una ventina su duecento, quasi tutti europei. E che, come in tutti i conflitti, quella che è stata una grande conquista civile potrebbe esser seguita da qualche arretramento. Nei maggiori paesi europei un mese intero di ferie pagate è stata una riforma legislativa che si è generalizzata solo all’epoca della contestazione, studentesca e sindacale, di fine anni ’60-

inizio anni ‘70 del Novecento. Era trascorso più di mezzo secolo da quando la richiesta di ferie pagate aveva infiammato dovunque in Europa il conflitto tra sindacati e imprese, prima e subito dopo la Prima guerra mondiale. In Italia, soprattutto nel biennio 1919-1921. Di fatto un periodo obbligatorio di ferie retribuite venne istituito per legge nel nostro paese dal governo Mussolini a partire dal 1927, e poco dopo in Francia, per volere del governo di Léon Blum (1936), in Germania e in altri paesi. Peraltro nel caso italiano la durata delle ferie non era prevista, e in Francia il governo del Fronte popolare la contenne in due settimane. La Costituzione italiana del 1948 introdusse l’importante principio che il lavoratore ha diritto a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi (art. 36), ma non indica la loro durata. Per lungo tempo furono quindi i contratti di categoria o di azienda a stabilire il numero effettivo di giorni di non-lavoro retribuiti di cui i lavoratori dipendenti potevano fruire. Da qui derivò una grande varietà di situazioni locali e nazionali. Solamente le rivendicazioni di fine anni ’60 portarono a quattro settimane le ferie pagate per i dipendenti, del settore privato come del pubblico, nei principali paesi europei. Un Di

decennio più tardi la Francia va oltre: il governo Mitterrand stabilisce nel 1981 che le ferie pagate debbono corrispondere a trenta giorni lavorativi, di modo che la loro durata effettiva diventa di cinque settimane. Rimane invece indietro il Regno Unito, dove solamente

nel 1998, con le Working Time Regulations, vengono introdotte per i dipendenti del settore privato quattro settimane di ferie pagate all'anno. Lasciando però la porta aperta a vari trucchi da parte delle aziende, denunciati più volte dal Trade Unions Congress, la federazione dei sindacati britannici. Il più comune consiste nel pagare i giorni di vacanza quando si lavora, e non pagarli invece quando il lavoratore in vacanza ci va davvero: un possente incentivo a monetizzare i gior-

ni di ferie anziché goderseli. AI di fuori della vecchia Ue a Quindici, un mese intero o più di ferie retribuite è un oggetto sconosciuto anche nei paesi più avanzati. In Giappone le aziende sono libere di offrire o no ai dipendenti dei piani di vacanza retribuita, il cui contenuto varia da una all’altra. Nel vastissimo comprensorio di Tokyo alcune rilevazioni indicano che le aziende che offrono piani-ferie siano dell'ordine del 30 per cento. A livello nazionale, i giorni di ferie pagate concessi dalle aziende — quelle che ciò prevedono - si dovrebbero aggirare in media sui diciotto-venti giorni pro capite. Però i lavoratori giapponesi ne utilizzano

meno della metà. Nel 2002, il periodo di ferie retribuite realmente goduto fu di circa nove giorni. Potenza della voglia di lavorare, o forse piuttosto dell’altissimo costo della vita.

Non molto meglio stanno i lavoratori Usa. La tendenza generale nel settore privato, confermata da dati recenti del Bureau of Labor Statistics, è quella d’un lento incremento dei giorni di vacanza pagata quanto più a lungo un lavoratore ri-

mane nella stessa azienda. Con cinque anni di anzianità, uno può fruire al massimo di quattordici giorni di ferie l’anno. Che arrivano a superare i venti giorni soltanto quando si passano i venti anni di anzianità, un traguardo per pochi eletti ove si consideri l’elevatissima mobilità inter-aziendale esistente in quel 152

paese. E a condizione che in quell’azienda sia presente un sindacato riconosciuto, altrimenti il dipendente resta fermo a diciassette-diciotto giorni l’anno di ferie pagate. Nei nostri paesi la generalizzazione delle quattro o cinque settimane di ferie ha contribuito a ridurre una disuguaglianza sociale delle più stridenti: quella tra le famiglie della nobiltà o dell’alta borghesia che ancora negli anni ’30 del Novecento verso giugno «andavano in villa», al mare o in montagna, per tornare a fine settembre, e le famiglie dei commessi e degli operai, degli impiegati e delle maestre, per le quali le ferie consistevano nel trascorrere la domenica pomeriggio ai giardini pubblici o fuori porta, dove arrivavano i tram. Non che trascorrere oggi qualche settimana in una pensione da 25 euro al giorno tutto compreso, o anche in un hotel o in un campeggio con qualche stella, sia lo stesso che «andare in villa». Il punto fermo è che un periodo di ferie retribuite attribuisce forma tangibile a un diritto fondamentale della persona, il diritto di non lavorare conseguito attraverso il lavoro. Percependo ugualmente un reddito, sì da «assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Come dice il citato art. 36 della Costituzione. Su tale diritto ai giorni nostri incombe un’ombra. Già nella primavera del 2004 qualche economista propose di rinunciare a sette giorni di tempo libero, trasformandoli in lavorativi, al fine di far crescere il Pil. Un’equazione atta a far pensare che ove si abolissero del tutto le ferie, posto che queste rappresentano quasi il 10 per cento delle ore lavorate in un anno, esso balzerebbe di colpo a livelli cinesi. Più di recente si è invece cominciato a discutere della necessità di allungare gli orari di lavoro settimanali per accrescere la competitività ed evitare la delocalizzazione delle aziende. I due argomenti sono evidentemente tutt'uno. L’espediente di lavorare due o tre ore in più alla settimana, a retribuzione ferma, potrebbe in effetti essere agevolmente convertito nel taglio di alcuni — in verità, a conti fatti, di parecchi — giorni di ferie retribuite. Una buona ragione per proporci 153

intanto di usare al meglio quella bella sequenza di giorni che i nostri nonni, e i nostri padri, e noi stessi ci siamo guadagnati. Per il futuro, che l’art. 36 della Costituzione ci protegga. [31/07/2004]

LO SCANDALO DEL PAESE SEMPRE PIÙ POVERO

La diminuzione delle vendite al dettaglio rilevata dall’Istat su base annua — 3,9 per cento ad aprile 2005 rispetto a un anno prima — è sicuramente preoccupante. Ancora più preoccu-

pante è l'indice, fornito sempre dall'Istat, del valore delle vendite a tale data che si ottiene facendo uguale a 100 il valore delle stesse relativo al 2000. A prezzi correnti, non depurati dell’inflazione, il totale delle vendite così misurato supera infatti, di poco, i 104 punti. In altre parole, se un medio negozio vendeva nel 2000 merci per 100 euro, ad aprile 2005 ne ha vendute per 104 e qualcosa. Occorre però notare che dal 2000 all’aprile 2005 si sono avuti almeno nove punti di inflazione. Il che significa che se il calcolo fosse fatto in moneta costante, il valore delle vendite non risulterebbe aumentato di un modesto 4 per cento in quasi quattro anni e mezzo. Risulterebbe invece essere sceso a quota 95. Questo pessimo dato pluriennale mostra come il calo delle vendite registrato rispetto all'anno scorso non è un dato congiunturale, ascrivibile a una serie di situazioni favorevoli, bensì esprime una grave tendenza strutturale del nostro sistema economico. Balza agli occhi, innanzitutto, il permanere e anzi l’aggravarsi degli squilibri territoriali. Gli abitanti del Nordovest, dopotutto, hanno accresciuto i loro consumi alimentari di oltre 10 punti tra il 2000 e il 2005. Per contro gli abitanti del Sud e delle isole hanno visto scendere gli analoghi consumi da 100 a meno di 97, sempre lasciando da parte l'inflazione. Su base annua, i consumi alimentari dei primi sono scesi appena dell’1 per cento; quelli dei secondi hanno segnato un balzo all’ingiù di oltre 11 punti percentuali. 154

In secondo luogo la diminuzione delle vendite e dei consumi pare gravare prevalentemente, a livello nazionale, sull’industria manifatturiera. Mentre le vendite di prodotti alimentari sono salite in oltre quattro anni a 112 punti, quelli di beni industriali — ci si riferisce ovviamente a quelli che transitano per i negozi, i supermercati ecc. — sono scesi a 99. E più sono tecnologici i prodotti, più forte è stato il calo delle vendite. Nei settori che raggruppano elettrodomestici, tv, informatica e telefonia, rispetto al 2000 le vendite di aprile 2005 sono scese tra i 15 e i 17 punti — un vero tonfo. Si può dire, natu-

ralmente, che in questo caso sono i prezzi unitari che sono scesi, deprimendo di conseguenza gli indici redatti in moneta corrente. Ma a parte il fatto che i prezzi per unità di prodotto sono realmente scesi soltanto nel caso dei cellulari, perché tutti gli altri offrono prestazioni superiori ma costano più cari, una diminuzione così forte delle vendite dei prodotti industriali significa che qualcosa non quadra nelle strategie produttive e di mercato delle imprese. Non da ultimo, bisognerà pure che qualcuno prima o poi spieghi come mai l’occupazione sembra aumentare, mentre i consumi perdono quasi il 4 per cento in un solo anno. Ancora un paio di giorni fa esponenti del governo e la stampa a esso vicina salutavano con entusiasmo l'aumento di altri 300.000 occupati dichiarati, che porterebbero a oltre un milione di unità la crescita dell'occupazione dal 2001 a oggi. Già vi era da chiedersi com'era possibile che l'occupazione crescesse in tal misura mentre il Pil da tempo è fermo o arretra. Gli ultimi dati sulle vendite e sui consumi non possono che accrescere le incertezze circa il numero di persone e di ore di lavoro che vengono effettivamente impiegate nel paese per

produrre il Pil, il loro livello di produttività e i redditi reali che essi generano. Un rapporto in ogni caso si intravvede: nel Sud e nelle isole la disoccupazione rilevata nel primo trimestre 2005 supera il 25 per cento, con punte di oltre il 40 tra le giovani donne, e nelle stesse regioni le vendite di prodotti alimentari sono 155

scese nell’ultimo anno dell’11 per cento. Qualcuno ha detto che è utile che gli scandali avvengano. Eccone uno bello e pronto per essere utilizzato. [23/06/2005]

La povertà della globalizzazione

QUEI POVERI ALLE PORTE DELL’OCCIDENTE

Con sempre maggior insistenza i poveri del mondo bussano alla porta dei paesi ricchi, alla nostra porta. Perché mai dovremmo preoccuparcene, pensano in tanti, al di là del moto di compassione che si prova vedendo in tv i campi dei rifugiati del Ruanda o le case di latta e cartone delle periferie di Rio o di Tijuana? Dopotutto, se uno va in cerca delle cause della loro povertà, non può ignorare che molte di esse si ritrovano all’interno dei loro stessi paesi. Classi dirigenti incapaci quanto corrotte, a cui i poveri interessano soltanto al fine di ottenere aiuti dall’Occidente, che i primi non vedranno mai. Governi che spendono in armamenti più che in istruzione, sanità e lavori pubblici messi assieme. Precetti religiosi e norme culturali che ostacolano l’accesso delle donne all’istruzione e al lavoro — ricetta sicura per avere alti tassi di povertà. Inoltre fanno troppi figli, nei paesi poveri, con il risultato che l’aumento del prodotto interno lordo, quando c’è, non riesce a tenere dietro all’aumento della popolazione. Dovremmo certo fornire aiuti ai poveri delmondo— ecco il punto più alto cui perviene la suddetta linea di ragionamento — ma tocca in primo luogo ai paesi interessati cercare di migliorare la situazione in casa propria. Su questo versante non

c'è molto da obiettare. Ma prima di concludere, magari con un certo sollievo, che la bilancia delle cause della povertà pende vistosamente da una parte, quella del piatto in cui si mettono le cause loro, proviamo a vedere cosa ci sarebbe da mettere 157

sull’altro piatto, quello delle responsabilità nostre. Innanzitutto, dovremmo metterci un bel pezzo di storia. Nei paesi dell’ America Latina, ad esempio, la povertà odierna è l’estre-

mo inferiore d’un sistema di fortissime disuguaglianze sociali, quelle che separano coloro che si costruiscono un rifugio di pochi metri quadrati entro una discarica, da coloro che possiedono 10.000 ettari di terreno o un loro equivalente. E un sistema che caratterizza quei paesi da secoli. Ma si tratta d’un sistema che non è nato da una permanente insipienza politica

dei latinoamericani, bensì dall’aver sovrapposto con la forza, dal Cinquecento in poi, ceti e classi sociali originarie dell’ Europa alle popolazioni autoctone. Schiacciati al fondo della piramide sociale dai nuovi arrivati, privati delle loro risorse naturali, poveri perché poco istruiti, e poco istruiti perché poveri, i discendenti di queste popolazioni sono diventati casi esemplari della povertà che riproduce se stessa. Se poi pare incongruo, oltre che sgradevole, caricarci di responsabilità che risalirebbero addirittura a secoli addietro, abbiamo sempre la possibilità di contrarre il nostro orizzonte storico, limitandoci a ricordare come hanno agito, e con quali effetti, gli europei in Africa tra il Settecento e la prima metà del Novecento. E vero che parecchi regimi africani del presente appaiono sia corrotti che inefficienti, incapaci di modernizzare i loro paesi e per tal via combattere almeno la povertà assoluta dei loro abitanti — quelli che vivono con meno di uno o due dollari al giorno. Resta il fatto che simili regimi sono, per diversi aspetti, il prodotto finale della solerzia posta dai colonizzatori europei nel distruggere con ogni mezzo, al fine di dominare il continente, comunità locali, gruppi dirigenti, strutture sociali e politiche preesistenti, nonché interi gruppi etnici.

Ancora nel Settecento, in molti Stati africani non si viveva peggio che in molte regioni europee, ed essi avrebbero potuto percorrere una via autonoma di crescita economica e svi-

luppo civile che avrebbe forse portato l’Africa a condizioni migliori di quelle presenti. Ma l’uomo bianco ritenne suo do158

vere caricarsi del fardello di incivilire quel continente, cominciando, a mo’ di dimostrazione, con l’annichilire quegli Stati. Lasciando dietro di sé, al momento della decolonizza-

zione — appena cinquant'anni fa —, strutture sociali in frantumi, società attraversate da ogni sorta di odi, divisioni e conflitti, istituzioni statali inesistenti o malandate; e, con essi,

qualche centinaio di milioni di poveri. Da ultimo, se anche le gesta dei nostri nonni e trisavoli ci sembrano troppo lontane per farci sentire in qualche misura corresponsabili della povertà attuale del mondo, restano comunque da mettere sul piatto delle responsabilità nostre le azioni dei paesi ricchi che negli ultimi decenni hanno concorso ad aumentare il numero dei poveri. Tramite istituzioni da loro inventate e sorrette, come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e altre, i paesi ricchi hanno imposto

a quelli più poveri di dotarsi di progetti di sviluppo di grande respiro, e di aggiustare stabilmente i loro bilanci pubblici, innanzitutto facendo sì che almeno si capisse quali erano le entrate e quali le uscite. Propositi meritori, sebbene risentano pur sempre dell’idea di fardello dell’uomo bianco, ma che al-

meno non sono stati affermati con la forza. Propositi che però hanno finora avuto un rovescio, quello della riduzione in condizioni di povertà abbietta — l’aggettivo, si noti, è della Banca Mondiale — di vaste popolazioni dell’America Latina, dell’Africa, dell’India, di altri paesi del

Sudest asiatico, degli Stati sorti dopo il °90 dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Le severe richieste di aggiustamento strutturale del Fmi hanno certo giovato a porre ordine nei bilanci di diversi paesi in via di sviluppo. Ma poiché richiedevano, tra l’altro, un drastico e immediato ridimensionamen-

to del settore pubblico, aziende produttive e amministrazioni statali e locali incluse, gli aggiustamenti strutturali hanno fatto sì che milioni di persone si sian trovati da un giorno all’altro senza lavoro. Nella sola Russia post-sovietica, i dettami del Fmi hanno generato in pochissimi anni decine di milioni di nuovi poveri.

159

Quanto ai progetti di sviluppo della Banca Mondiale, di certo hanno accresciuto la produttività dell’agricoltura in molte regioni, però al prezzo di migliaia di comunità locali eliminate o delocalizzate a forza; di innumerevoli colture soppresse, e con esse delle popolazioni che le praticavano; di blocco infine di ogni forma autonoma di sviluppo locale. Altrettanti modi destinati a produrre poveri, dopodiché si può passare a proporre di «attaccare la povertà» con programmi planetari — come fa la Banca Mondiale con il suo fervoroso Rapporto 2000 che reca appunto tale titolo. Il bello è che il ruolo delle istituzioni internazionali nel produrre povertà a livello mondiale, come mi è già capitato di rilevare in G/obalizzazione e disuguaglianze (Laterza), è denunciato in primo luogo dai loro ex dirigenti, una volta che si sono dimessi, sono stati licenziati, o hanno litigato con i colleghi. Ove si mettano sul piatto delle responsabilità nostre anche solo una frazione degli elementi ricordati, la bilancia pare decisamente pendere da questa parte. Vi si può aggiungere qualche altra inezia. Ad esempio, se noi accettassimo di pagare la tazzina di caffè 1 euro invece che 0,85, e quei 15 centesimi andassero effettivamente tutti ai contadini e agli operai che il caffè coltivano e lavorano, in Africa e in America Latina, il loro reddito giornaliero aumenterebbe di due o tre volte. E nel caso in cui la Commissione Europea sopprimesse la norma,

introdotta di recente, per cui in una tavoletta di cioccolato vi può essere il 10 per cento di sostanze che non sono per nien-

te cacao, le migliaia di coltivatori africani di cui quella norma ha decurtato i redditi ritroverebbero forse per un momento il sorriso. Sono azioni che di certo non si realizzeranno, ma che può valere la pena di immaginare per ricordare che anche nei più modesti piaceri del nostro benessere si nasconde un po’ della povertà del mondo. La seccatura che inizia a profilarsi è che anche i poveri ora lo sanno. [28/06/2001] 160

LE FORZE INVISIBILI DIETRO L'IMMIGRAZIONE

In Italia come nel resto della Ue, il dibattito sull’immigrazione dai paesi extra-comunitari viene condotto in genere senza

che emerga in esso alcun riferimento al principale fattore che entro quei paesi alimenta i movimenti migratori. Ogni tanto,

è vero, viene menzionata la povertà dei paesi meno sviluppati. Ma la povertà è essa stessa, in gran parte, un effetto di quel fattore primario, il quale va visto nella massiccia espulsione, ogni anno, di milioni di contadini dalle loro terre. Se non si tiene conto di tale processo, il dibattito sull’immigrazione, e la relativa legislazione, continueranno a ruotare miopemente intorno ai temi della minaccia che secondo alcuni l’immigrazione rappresenta, e delle procedure di controllo dei flussi migratori che tutti reputano necessari. Intanto, nel mondo, le forze che spingono masse di disperati a emigrare continueranno a crescere a dismisura. A chi

pensasse che i contadini non esistono più, bisogna ricordare che oltre metà della popolazione del mondo, 3,2 miliardi su un totale di 6,2 miliardi di individui, è tuttora classificata dall'Onu

come popolazione rurale. La stragrande maggioranza di essa, oltre il 91 per cento, è concentrata nelle regioni meno sviluppate, comprendenti più dell’80 per cento della popolazione mondiale. Questa massa di contadini, che include i familiari, è

esposta da tempo a massicci processi di espulsione dalla terra. È una delle facce invisibili — agli occhi dei paesi sviluppati — della globalizzazione. Le cause dell’espulsione dei contadini del mondo dalle loro terre sono principalmente tre. La più rilevante è la razionalizzazione dell’agricoltura, ossia il passaggio dalle colture tradizionali all’agri-industria. Nei paesi in via di sviluppo, sotto la spinta dei governi stessi — cui la sferza del Fondo Monetario Internazionale chiede di esportare prodotti agricoli

per pagare i debiti loro concessi — e delle imprese transnazionali, icontadini vengono estromessi dai loro campi. In genere con indennizzi minimi o con la forza. I campi vengono 161

accorpati in proprietà di migliaia di ettari, mentre gli aratri tirati dal bue sono sostituiti dai trattori, i semi tradizionali da

sementi geneticamente modificate, le falci dalle mietitrebbia. Da un punto di vista strettamente economico, i risultati sono

strepitosi: la produttività pro capite, su quegli stessi terreni, può aumentare da 500 a 1000 volte. Provocando, però, un lieve inconveniente. Se la produttività aumenta di 1000 volte, vuol dire che per coltivare quella medesima superficie occorrono 1000 volte di lavoratori in meno. Un piccolo numero dei contadini così privati dei loro mezzi di sostentamento — forse 20, forse 50 su 1000 — potranno trovare occupazione come

salariati delle imprese che hanno acquisito i loro campi. Gli altri debbono sbrogliarsela. In India, nelle Filippine, in Indonesia, in Cina, i contadini espulsi dalla terra a causa della modernizzazione dell’agricoltura in nome della produttività per ettaro, piuttosto che in nome d’un livello di vita decente per le popolazioni locali, ammontano a parecchi milioni l’anno. In Cina si calcola che solamente nel periodo 1980-1998 la razionalizzazione delle campagne voluta da Deng Xiaoping abbia costretto 300 milioni di cinesi ad abbandonare i loro campi e villaggi. Le cifre per gli altri tre paesi menzionati, la cui popolazione complessiva supera quella della Cina — 1,3 miliardi — non sono presumibilmente molto inferiori. Una seconda causa di espulsione dei contadini dalla terra sono i grandi progetti di sviluppo, finanziati per lo più dalla Banca Mondiale. Essi vedono in primo piano le dighe da costruire sui maggiori fiumi dell'Asia, dell’Africa e dell’ America Latina, nonché autostrade, oleodotti, canali di navigazione, aeroporti. Nel burocratese delle organizzazioni internazionali, le popolazioni allontanate dai loro villaggi al fine di realizzare tali mega-opere son dette Project Affected People (Pap). Per la sola India, si stima che nel 1997 i Pap fossero oltre 21 milioni. Altri milioni di Pap si ritrovano in Brasile, in Turchia, in Cina, nella quale — per toccare un unico caso = i lavori per la diga delle Tre Gole sullo Yangtze, la più grande 162

del mondo, alla fine priveranno della terra circa due milioni di contadini. Tra le cause dell'espulsione dalla terra di popolazioni rurali vanno infine menzionate le guerriglie interne. Il fenomeno è particolarmente evidente in America Latina, non foss’altro perché i media ne parlano più spesso. In Colombia, El Salvador, Guatemala, Ecuador, Perù e altrove, gli scontri in-

finiti tra guerriglieri e forze governative hanno scacciato dai loro poderi milioni di carzpesinos. L'Africa non è da meno. Nel Burundi, per dire, il conflitto scoppiato negli anni ’90 tra l’etnia Hutu (formata soprattutto da agricoltori) e l’etnia Tutsi (soprattutto allevatori), oltre a provocare più di mezzo milione di morti, su una popolazione di appena sei milioni, ha sottratto a gran parte dei sopravvissuti i loro tradizionali mezzi di sostentamento, costringendoli ad ammassarsi in orrendi campi profughi, o a fuggire nei paesi vicini. Peraltro i conflitti armati tra etnie, gruppi religiosi, e Stati, seppur meno san-

guinosi di quello del Burundi, nel continente africano si contano a decine. Un loro effetto comune consiste appunto nel cacciare permanentemente dai villaggi masse di popolazione rurale. Nell'insieme i suddetti processi sradicano dalla terra, nel mondo, decine di milioni di persone ogni anno. Dove vanno a finire gli sradicati? Una frazione esigua di questi, s'è detto, trova occupazione nelle imprese dell’agri-industria. Altri vanno a ingrossare le sterminate baraccopoli di Sao Paulo e di Giacarta, di Delhi e di Lagos, di Karachi e di Manila. Però il grosso, assicurerebbe qui l’ortodossia economica dominante, troverà occupazione nei settori dell’industria e dei servizi, a mano a mano che questi si espandono anche nei paesi in via di sviluppo. Purtroppo affermare quanto sopra significa scherzare con l’aritmetica. Infatti, se la produttività pro capite di una data area aumenta di mille volte in due o tre anni (come avviene, tramite adeguati investimenti, quando si trasformano migliaia di piccoli poderi in immense bio-officine a cielo 163

aperto), è semplicemente impossibile, pur con tassi di sviluppo astronomici, che l'industria e i servizi possano mai assorbire più d’una quota minima delle popolazioni allontanate da quell’area. Il fatto è che l'economia contemporanea non sa che farsene, dei tre miliardi di uomini e donne che hanno perso o perderanno presto la loro terra. Come forze di lavoro sono in esubero, per usare un termine indecente del comune gergo aziendale. Come consumatori, poi, sono un di-

sastro: infatti la maggior parte di essi guadagna meno di due euro al giorno. Quel che gli resta da fare è cercare di emigrare, a qualsiasi costo. Parrebbe quindi giunto il momento di ripensare a fondo il problema delle migrazioni internazionali e dei suoi fattori primari, al di là delle misure di polizia e degli interventi legislativi nazionali e internazionali pensati anzitutto in funzione di controllo. Bisogna aiutare — compito immane ma non proi-

bitivo — i paesi meno sviluppati a modernizzare l'agricoltura mediante tecnologie e modelli organizzativi sostenibili, facendo in modo di mantenere sulla terra le popolazioni rurali, migliorandone il livello di vita, anziché espellerle in massa. E questo non tanto perché ci conviene, perché altrimenti arriveranno a piedi, a nuoto, su zattere, oltre che su canotti, tir e carrette del mare. Ma soprattutto perché, come ha detto un ex presidente della Banca Mondiale, quando si arriva al punto in cui la metà del mondo guarda alla tv l’altra metà che muore di fame, la civiltà è giunta alla fine. [24/09/2002]

L’ALTRO MONDO ESCLUSO DALLA RETE

Che fine han fatto i piani d’azione dell’Occidente intesi a ridurre la frattura digitale, il fossato che separa a livello mondiale individui e aree geografiche in grado di accedere alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione da quelli che ne sono esclusi? Dovevano essere uno dei punti all’or164

dine del giorno 2001 del G8 — l’incontro periodico degli otto paesi più sviluppati del mondo — ma sono scomparsi. L’eclisse della frattura digitale, o digital divide, dalla sfera di attenzione dei Grandi un po’ stupisce. Si ricorderà infatti che l'impegno a combatterla era stato proclamato, con notevole clamore, proprio dal precedente vertice del G8 svoltosi a Okinawa nel 2000. In quell’occasione, per dar forza all’impegno fu nominato un gruppo di lavoro multinazionale denominato Digital Opportunity Task Force, acronimo Dot Force (trovatina allusiva ai tempi della new economy rampante, quando tutte le imprese volevano fregiarsi del suffisso con il punto, .com, pronuncia dot cor). Nel maggio 2001 la Dot Force ha presentato un ampio rapporto, Opportunità digitali per tutti: come far fronte alla sfida. Esso includeva, dice il sottotitolo, un piano d’azione

che doveva essere proposto al summit di Genova. C’è da rammaricarsi che così non sia stato. Ciò non tanto perché

dai piani di azione del G8 ci si possa attendere realmente delle ricadute concrete. Ambiziosissimi sulla carta, essi

hanno in genere la stessa portata pratica del proposito di eliminare la vecchiaia dal mondo, come notava ironicamente

l'«Economist» a proposito del vertice di Okinawa. Ma piuttosto perché la precoce presenza d’un tema come la frattura digitale nell'agenda del G8, lo avrebbe imposto con forza all’attenzione di tutti. Perché della frattura digitale e delle sue conseguenze sociali e culturali non si parla abbastanza. Perché non ne parlano abbastanza nemmeno i popoli di Seattle, a onta della perizia con cui sanno usare Internet. Infine perché si potrebbe scoprire presto che la frattura digitale, quanto a rilevanza per il nostro futuro prossimo, non è l’ultima tra le questioni da inserire nell'agenda dei governi, come dei loro oppositori. La frattura digitale presenta aspetti economici ben riconosciuti, e aspetti culturali poco noti quanto sottovalutati. Poche cifre per i primi, premesso che quale misura della diffusione di Internet conviene prendere il numero di /osts 165

computers (i computer che ospitano banche dati, cataloghi di biblioteche, archivi di immagini e brani musicali ecc.) per abitante. Nell'ottobre del 2000 si contavano nei paesi Ocse, l'Or-

ganizzazione per la cooperazione e lo sviluppo dei venti paesi più ricchi del mondo, dove vive in totale circa un miliardo di persone, 82 hosts per 1000 abitanti. Nei paesi non Ocse, che sono circa 180 e comprendono 5 miliardi di persone, il numero degli 40sts, sempre per 1000 abitanti, era meno di 1 (0,85 per la precisione). La quantità di fosts per abitante presenti nel Nord America a fine 2000 era 544 volte superiore a quello dell’Africa. Quanto ai punti di accesso a Internet, si stima che oltre il 95 per cento del totale mondiale sia collocato nell’emisfero Nord. Tutti codesti indicatori della frattura digitale sono fortemente peggiorati in soli quattro anni. Ad esempio, gli Internet bosts presenti in Africa, che già erano pochissimi, non sono nemmeno riusciti a raddoppiarsi tra il 1997 e il 2000. In Europa e nel Nord America, dove erano già moltissimi, sono aumentati rispettivamente di 3,3 e 3,6 volte. La maggior par-

te degli studi sugli aspetti tecnici della frattura digitale, inclusi i rapporti Dot Force e Ocse da cui provengono i dati succitati (Understanding the Digital Divide, Parigi 2001) raccomandano, allo scopo di ridurla, interventi sia economici (per esempio ridurre i costi delle connessioni a Internet), che tecnologici (diffondere la banda larga), e formativi (disseminare la conoscenza delle Ict tra i bambini dei paesi in sviluppo). Vista la stretta parentela tra globalizzazione e frattura digitale, ciò equivale a raccomandare null'altro che lo sviluppo d’una globalizzazione meno portatrice di disuguaglianze. Ciò perché, a ben vedere, la frattura digitale non è altro che un aspetto della globalizzazione in corso. È la globalizzazione dei bits. Fortemente disuguale la prima, parimenti disuguale la seconda. I flussi di 4/75 che scorrono nella Rete seguono da vicino, e sovente si identificano con essi, i flussi finanziari, gli scambi di beni e servizi, gli investimenti diretti all’estero, le delocalizzazioni, lo sviluppo di nuove aree di at166

tività economica, in Cina come in India o in Irlanda. Interve-

nire sui flussi dei 4zts al fine di ridurre la frattura digitale tra le aree geografiche del mondo comporterebbe il rischio di intervenire al tempo stesso sulla direzione, intensità, diffusione dei flussi di capitali, merci e servizi. Vorrebbe cioè dire cam-

biare la faccia della globalizzazione. Con il che i ponderosi rapporti della Dot Force e dell’Ocse, e i loro iperbolici piani d’azione, mostrano la loro reale natura di acqua fresca. Tuttavia la frattura digitale non è soltanto un problema da contrastare mediante la diffusione di computer e di elementi d'informatica tra la popolazione. Riguarda anche il controllo sulle risorse culturali della Rete, e inversamente, la possibilità di accedervi liberamente. Risorse che sono oggi immense, in ogni campo, sì da formare il più grande giacimento culturale che l'umanità abbia mai conosciuto. Con un inconveniente: l’accesso a questo sterminato giacimento avviene di fatto at-

traverso una decina di porte principali. Sono la decina di portali che attirano ogni giorno l°80 per cento delle centinaia di milioni di accessi quotidiani alla Rete, con tre di essi che assorbono il 50 per cento del tempo passato in Rete dagli internauti del mondo. Chi entra in tali portali, per ampi che siano, e gestiti senza intenti discriminatori, entra a contatto con

una frazione minima dei contenuti culturali della Rete, del-

l’ordine dell’1-2 per cento. Una frazioncina che per di più è stata selezionata e organizzata da altri, per fini loro. Il mare del restante 98-99 per cento resterà per sempre ignoto ai suddetti intenti. Abbiamo insomma costruito una nuova Biblioteca d’Alessandria, senza confini spaziali o temporali, più grande del pianeta. Con il suo immenso numero di sale di lettura, essa potrebbe cambiare in meglio il modo di lavorare, di studiare, di informarsi, di miliardi di persone. Però i suoi custodi cercano di trovare il modo di lasciarci visitare soltanto la prima stanzetta a sinistra. [15/08/2001]

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COM'È VULNERABILE IL MONDO GLOBALIZZATO

Poco dopo l’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001 diversi commentatori han cominciato a chiedersi quali potrebbero essere le sue conseguenze sul processo di globalizzazione. Una volta iniziata la guerra, prima in Afghanistan in seguito chissà dove, il medesimo interrogativo si è riproposto con maggior forza. Finora le risposte convergono su una sin-

gola interpretazione. Si constata ovviamente che la lotta al terrorismo ha imposto l'adozione di severe misure di sicurezza, mentre ovunque nel mondo si diffonde la paura di attentati. Si prosegue notando che le une e l’altra ostacolano notevolmente gli intensi e scorrevoli flussi a largo raggio di persone, merci e informazioni in cui la globalizzazione consiste. Per concludere che se tali ostacoli dovessero protrarsi a lungo, il processo di globalizzazione potrebbe arrestarsi o degradare, e molte popolazioni ne soffrirebbero. A tale interpretazione è sottesa l'ipotesi che quando gli attentati e la guerra o le guerre avranno termine, e saranno rimossi gli ostacoli da essi derivanti alla fluida circolazione nel mondo di persone, informazioni e merci, il processo di globalizzazione riprenderà tranquillamente il suo corso. Un'ipotesi cui conviene opporne un’altra: che la globalizzazione, così come è stata finora concepita e realizzata, sia un progetto contenente tali difetti strutturali da rendere inevitabile, a medio periodo se non prima, il suo arresto o un suo degrado. Agli occhi eai sentimenti di chi per caso non li avesse notati prima, gli attentati e la guerra hanno fatto di colpo risaltare i difetti insiti nel progetto, ma — a parte che nessuno può dire quanto a lungo tali sciagure dureranno — non sono affatto le cause prime del suo malfunzionamento. È questo uno dei motivi che alimentano le riflessioni sulla global vulnerability, che in ogni caso non sono cominciate il 12 settembre, né sono dovute uni-

camente ad avversari preconcetti della globalizzazione. I vizi di fondo del progetto chiamato globalizzazione sono da vedere soprattutto nell’aver puntato a costruire sistemi so168

ciali e tecnologici che debbono essere per forza giganteschi, estesi a ogni angolo del pianeta con le stesse identiche modalità, e impeccabilmente funzionanti 24 ore su 24, 7 giorni su

7. Si è puntato cioè a fare del mondo una sorta di gigantesco orologio, automatico, superpreciso e, manco a dirlo, satellite controlled. Disegnato con un simile proposito, esso reca in sé i caratteri di una crescente vulnerabilità. È vero che l’orologio si può fermare più o meno a lungo a causa di un attentato o di una guerra, ma questi sono, per quanto terribili, solamente alcuni degli incidenti a cui il mondo-orologio è esposto. Le cause di molti altri guasti possibili si trovano dentro il suo meccanismo, non fuori. Sistemi di trasporto di merci e persone, sistemi di comunicazione, sistemi produttivi, con le

loro componenti sociali e tecnologiche: più si globalizzano, più tendono a diventare vulnerabili. Una prima causa di vulnerabilità è identificabile nel fatto che qualsiasi sistema sociotecnico, composto cioè da uomini e macchine, è formato necessariamente da tanti pezzi, ovvero

da una molteplicità di sottosistemi. A mano a mano che i sottosistemi diventano più numerosi, perché si vuole che il sistema che li comprende arrivi a coprire tutto il globo, aumenta la probabilità che tra di essi ve ne sia qualcuno che funziona male, o si rompe. Oppure che saltino i collegamenti tra uno e l’altro. In ambedue i casi l’intero sistema può andare in crisi, e mandarne subito in crisi altri. Si veda il caso ineffabile

della new economy, di cui si è detto in migliaia di articoli che fosse il dominio del clic, dell’immateriale, del virtuale. Salvo

poi scoprire che se per qualche motivo si inceppa, o dovesse incepparsi, per dire, il materialissimo sistema di 653 aeroplani, 43.500 veicoli, e 148.000 operai e impiegati di un'impresa di trasporti tipo la Federal Express (dati di inizio 2000), nessuna merce e nessun servizio, per quanto compulsivamente si

clicchi, entra o esce da alcuna unità produttiva. Una seconda causa di vulnerabilità dei sistemi globali è la perdita della capacità di adattamento ai mutamenti locali, di qualsivoglia natura: sociali, economici, ambientali. 169

Essa consegue sia dalla riduzione della varietà della natura e dei comportamenti che i costruttori di sistemi globali tenacemente perseguono, sia dalla perdita di autonomia decisionale che i soggetti locali subiscono perché i centri di decisione sono stati trasferiti altrove. In ampie regioni del globo, Europa compresa, i sistemi economici locali sono stati decostruiti e poi ricostruiti in un modo tale che le decisioni attinenti i modi di produrre i beni d’uso, gli alimenti, l'occupazione, i consumi, la distribuzione della popolazione sul territorio, che un tempo erano prese sul luogo da artigiani, piccoli imprenditori, coltivatori, amministratori locali, ora sono prese da qualcuno che sta a migliaia di chilometri di distanza. Un decisore lontano non è necessariamente un decisore malvagio. E però un decisore al quale della regione in cui le sue decisioni ricadranno importa probabilmente poco, non foss’altro perché nel suo ordine di priorità globali quella regione occupa magari il decimo posto. Nel migliore dei casi finirà per prendere decisioni tardive o inadeguate. V’è un paradosso nei sistemi globali: alcuni di essi sono stati sviluppati con il preciso scopo di ridurre la vulnerabilità dei processi sociali o tecnologici che ne sono alla base. Esemplare è il caso di Internet, divenuta ormai il principale sistema di comunicazione a fini scientifici ed economici, per vari aspetti modello di tutti i sistemi globali. La sua antenata, Arpanet, fu creata nel 1969 al fine precipuo di evitare che la comunicazione tra elaboratori elettronici potesse essere inter-

rotta da atti di sabotaggio o da un attacco nucleare. Se il computer A è collegato con una sola linea al computer B, un colpo di forbici alla linea, reale o figurato, gli impedirà di comunicare con B. Ma se A e B sono collegati in Rete con C, D, ecc., un dato messaggio troverà sempre la strada per arrivare

da A a B, anche se la linea diretta tra i due è interrotta. La Rete rendeva così invulnerabile la comunicazione. All’inizio Arpanet constava di quattro soli computer, diventati faticosamente una trentina nel 1971. 170

Oggi i computer collegati tramite Internet sono diventati centinaia di milioni. La comunicazione tra di loro continua a essere invulnerabile? C’è qualche motivo per dubitarne. Infatti l'enorme aumento del traffico di dati ha reso necessaria la posa di cavi transoceanici in fibra ottica, tra Europa, Americhe ed Estremo Oriente, attraverso i quali passa la maggior parte dei dati di rilevanza scientifica ed economica. Questi cavi sono pochi, meno di una dozzina per stare ai più importanti; quindi i sistemi di comunicazione che ne dipendono sono intrinsecamente vulnerabili. Inoltre i PC collegati a Internet funzionano in forza di tre soli sistemi operativi (Windows, Mac Os e Linux), il primo dei quali è presente in circa il 90 per cento dei PC. Quando i PC se ne stavano da soli, questa poteva essere una gran comodità. Ma ora che sono quasi tutti in Re-

te, il ridottissimo numero di sistemi operativi facilita grandemente lo sviluppo e la diffusione di virus informatici. Oltre ai dolori che hanno recato e recheranno, la tragedia

americana e la guerra ci stanno facendo toccare con mano che cosa significhi la vulnerabilità globale. Essa comporta sin da ora costi umani addizionali, come una decina di milioni di

nuovi poveri, quelli che vivono con meno di un dollaro al giorno. Potrebbe essere giunto il momento per cercare di comprendere perché il mondo sembra rifiutarsi di funzionare come un orologio. E per provare eventualmente a cambiare tipo di progetto. [21/10/2001]

LA LUNGA MARCIA DELL’IMPRESA IRRESPONSABILE

Wall Street, 9 luglio 2002: dopo i disastri Enron, WorldCom, QOvwest e simili, il presidente Bush espone ai magnati dell’industria e della finanza il suo piano di riforma del diritto societario — quello che diverrà la legge Sarbanes-Oxley- volto a rendere più responsabili delle loro azioni, nonché decisamente più punibili, gli alti dirigenti delle corporations. Con 171

particolare attenzione a quelle azioni che portano per diverse vie a falsificare i bilanci, danneggiando a un tempo i dipendenti, i risparmiatori, l'economia e il fisco. Alle spalle del presidente campeggia, in caratteri bianchi su fondo blu, la scritta Corporate Responsibility, ossia «La responsabilità dell’impresa» o «L'impresa responsabile». Meno d’una settimana dopo, il 15 luglio, il piano viene approvato nella sua integrità dal Senato (in attesa di vedersela con la versione un po’ più blanda approvata dalla Camera in aprile). Il piano Bush, esposto con toni minacciosi a Wall Street (promette almeno 10 anni di galera ai dirigenti colpevoli di frode) insieme con il suo rapidissimo iter al Senato, sono stati salutati da molti commentatori, in Usa come in Europa, come dimostrazioni della prontezza con cui le istituzioni di quel paese decidono di usare il bisturi non appena un’infezione del corpo sociale si manifesti. Un rapido giro in Internet fa venire qualche dubbio su tale prontezza. I documenti e i siti Web in cui si tratta di Corporate Responsibility rapidamente reperibili su Internet sono al presente circa 1.600.000. Sono documenti redatti o siti gestiti dai soggetti più diversi: in primo luogo imprese, ovviamente, ma anche centri di ricerca, comunità locali, gruppi etnici, organizzazioni non governati-

ve, chiese, associazioni culturali, comparti della pubblica amministrazione, studiosi singoli, periodici. Molti risalgono a parecchio tempo addietro, anche sei-otto anni. Non tutti i documenti si concentrano sulle responsabilità finanziarie alle quali un'impresa dovrebbe far fronte; in molti si discute anche di responsabilità ambientali, di lavoro minorile da evitare, di salari poveri che bisognerebbe aumentare, di inci-

denti e malattie sul lavoro da ridurre. Tuttavia il tema ricorrente è che un'impresa dovrebbe sempre badare all'impatto che le sue decisioni economiche hanno su tutti i suoi «portatori d'interessi» (stakeholders), che comprendono anche i dipendenti, la comunità in cui l'impresa è localizzata, i piccoli risparmiatori, e non solo gli azionisti (sbarebol/ders) di maggior peso. Tra tali documenti 172

un buon numero, si nota subito, è firmato dalle maggiori imprese, non da loro critici. Queste macro-entità economiche

badano in genere a sottolineare che l’attenzione alle responsabilità dell'impresa non è soltanto un bene in sé; è pure uno strumento efficace per conseguire buoni profitti. L’ironia dei bits ha fatto sì che nelle primissime pagine sgranate dal motore di ricerca figurassero, collocati esattamente uno sopra l’altro, il rapporto 2000 sulle responsabilità dell'impresa pubblicato nientemeno che dalla Enron, e il sito della Casa Bian-

ca dove si presentava il citato piano di Bush per accrescere le medesime. Una scorsa al rapporto della Enron valeva da solo un anno di abbonamento a Internet. In esso si poteva leggere, a esempio, che «i principi che guidano il nostro comportamento [...] includono il rispetto, nel senso che noi vogliamo

lavorare per promuovere il rispetto reciproco con le comunità e i portatori d’interessi che sono toccati dalle nostre attività; noi trattiamo gli altri come vorremmo essere trattati noi stessi». Quest'ultimo punto meriterebbe forse un pubblico dibattito tra i dirigenti che hanno intascato milioni di dollari qualche settimana prima del crollo della Enron, ben conoscendo che sarebbe crollata, e i rappresentanti delle migliaia di dipendenti e di piccoli risparmiatori che in tale crollo hanno perso il lavoro, i risparmi e il fondo pensione. L’immensa quantità e varietà dei documenti circolanti in Rete che discutono di responsabilità dell'impresa, il fatto che si distribuiscano su almeno un decennio, lo stesso registro equivoco che ora inevitabilmente comunicano i rapporti aziendali in cui si sostiene che agire responsabilmente fa bene ai profitti, mostrano come la teoria e la pratica dell'impresa irresponsabile vengano da lontano. Certo non soltanto dai pochi, convulsi anni della 7ew ecororzy. Ci misero certo assai più tempo, i dirigenti delle tante imprese ora sotto accusa, a imparare quanto fosse più lucroso — anzitutto per loro — ottenere profitti facendo salire a forza il corso delle azioni, che non producendo beni e servizi di qualità a prezzi convenienti. Dove i 175

mezzi impiegati includevano — e tuttora includono — la corsa al gigantismo aziendale tramite fusioni e acquisizioni; i licenziamenti mirati, anche quando il mercato va bene, per dare a intendere agli investitori che loro, i dirigenti, con l’efficienza non

scherzano;

le ristrutturazioni

organizzative

realizzate

chiudendo dall’oggi al domani, nel proprio paese o nel mondo, filiali, società controllate, stabilimenti, senza riguardo per nessuno; la diffusione sistematica di informazioni false sullo stato dell’impresa; e, naturalmente, la manipolazione dei bi-

lanci. Per diventare bravi in queste attività ci vogliono anni. Ci vogliono anche revisori dei conti ciechi o complici, politici compiacenti, accademici che teorizzano a colpi di equazioni con mille variabili l'avvento di un'economia priva di cicli economici in quanto fondata sul valore di azioni che possono soltanto crescere. Oltre a media completamente asserviti alle richieste meno esplicitabili delle imprese. Come dimostra la folla di documenti presenti nel Web, moltissimi tra simili soggetti avevano capito che l’età dell'impresa irresponsabile stava arrivando, ma non trovarono modo di farsi sentire — o non avevano alcun interesse a farlo. Né si può asserire che ci si sia trovati, per pura contingenza storica, dinanzi a un manipolo, o meglio a una legione, di dirigenti disonesti, per caso concentrati in Usa. Quel che è avvenuto è una profonda trasformazione del capitalismo contemporaneo, del modo di concepire l'impresa e i suoi rapporti con la collettività; è stata una transizione di massa dal capitalismo produttore al «capitalismo predatore», come recitava giusto ai primi di luglio 2002 il titolo di copertina dello «Spiegel». Ci si potrebbe consolare dicendo che dopotutto sono robe da America. Ma a parte i danni che tale modello di capitalismo ha inflitto e sta infliggendo alle borse e alle economie e alle famiglie del mondo, questo è il modello di capitalismo di cui la destra europea e italiana per almeno un de-

cennio ha magnificato le superiori doti, quanto a capacità di crescita economica e di distribuire maggior benessere per tut174

ti. E passi per la destra, che in Italia è perfino riuscita a far passare una legge che riduce le sanzioni per il falso in bilancio a poco più di uno scappellotto. Laddove il piano Bush minaccia per lo stesso reato dieci anni di galera e oltre: da elargire, va sottolineato, anche agli amministratori delegati e ai presidenti di società, per i quali non sarà più lecito difendersi affermando che loro non possono sapere se qualcuno dei loro dirigenti-dipendenti vien meno alle regole. Purtroppo la storia recente dice che questo stesso modello di capitalismo, dalle cui pentole scoperchiate escono ora fumi orrorifici, ha ipnotizzato pure una parte considerevole delle sinistre europee, che in esso hanno visto l’essenza incontenibile della modernità, quale nemmeno questa parte politica — si afferma — può permettersi di ignorare. A condizione, naturalmente, di apportarvi qua e là qualche correttivo, da cercare possibilmente entro la terza via di Tony Blair. AI riguardo è sicuramente opportuno obiettare che dopotutto la Ue non è gli Usa, che quanto sta accadendo laggiù non può accadere in Europa (anche se il recente caso Vivendi qualche dubbio potrebbe farlo sorgere), tanto meno in Italia. Perciò, da noi, le sinistre possono serenamente occuparsi d’altro che non dei problemi posti dall’ascesa dell’impresa irresponsabile. Qualche dubbio, tuttavia, deve avvertirlo anche la Ue, vi-

sto che un anno prima del piano Bush, nel luglio 2001, essa ha lanciato un dibattito sulla «responsabilità sociale dell’impresa», tramite un corposo Libro Verde i cui scopi includono l’introduzione di pratiche più trasparenti e una accresciuta affidabilità della valutazione e della validazione dei comportamenti delle imprese europee, in specie delle più grandi. Ammesso che il capitalismo sia davvero un sistema insostituibile, un sistema economico di cui non si può fare a meno,

la variante globale che ha le sue radici nella irresponsabilità dell’impresa meriterebbe forse da parte delle sinistre europee e italiana un atteggiamento diverso dalla deferente attenzio175

ne, seppur non scevra di caute riserve, di cui la loro maggioranza sembra da tempo far di essa oggetto. [17/07/2002]

AZIONISTI IN TRAPPOLA

Singolare paradosso. Da almeno una decina d’anni viene perentoriamente affermato, da coloro che s'intendono di questa materia, che la missione primaria di un'impresa consiste nel creare valore per gli azionisti. Mentre nello stesso periodo non è mai stato altrettanto elevato (almeno dopo il 1929) il numero di azionisti — soprattutto piccoli risparmiatori — che sono stati duramente puniti dal crollo delle azioni che avevano acquistato. Gli azionisti e obbligazionisti Parmalat sono solo gli ultimi arrivati di una dolente legione transnazionale di vittime della Borsa che partendo dagli Usa (vedi i casi Enron, WorldCom, Global Crossing ecc.: l'elenco sarebbe lun-

go una pagina) si è andata infoltendo e snodando attraverso vari altri paesi, tra cui la Francia (Vivendi), l'Olanda (Ahold) e ora l’Italia. Sostenere che tra le cause dei disastri modello Parmalat e affini si colloca anche una ben definita e seriamente teorizzata concezione dell’impresa è certo più difficile che non provare, in presenza di documenti manifestamente falsificati, che gli amministratori delle aziende coinvolte, o alcuni di essi,

hanno commesso delle irregolarità di bilancio. Tuttavia gli argomenti a favore dell’esistenza di una relazione piuttosto stretta tra la dottrina che vede nella creazione di valore per gli azionisti l’unica ragion d'essere di una impresa, e la accresciuta frequenza e ampiezza dei casi di distruzione di quello stesso valore, non sono pochi né lievi. Anzitutto si è operata col tempo una distorsione del significato stesso dell’espressione «creare valore per gli azionisti». Una ventina di anni fa essa poteva significare distribuire buoni dividendi, meglio se superiori al tasso di interesse corrente rispetto al capitale in176

vestito in azioni; dividendi derivati dall’aver conseguito elevati profitti producendo e vendendo beni o servizi. In seguito l’identica espressione è venuta a significare principalmente «far salire il valore delle azioni in Borsa». Ora, in Borsa, il valore delle azioni si può far salire in di-

versi modi. Ad esempio, facendo credere che si sono conseguiti, o si stanno per realizzare elevati profitti, anche se ciò è lontano dal vero. Oppure licenziando un tot di dipendenti, anche quando l’andamento della produzione non lo richiederebbe, perché la correlativa riduzione delle spese di personale lascia intendere che vi saranno maggiori ricavi rispetto ai costi. O, ancora, facendo correre la voce che si è prossimi alla fusione con un’altra impresa, o alla sua acquisizione, dalla quale avrà origine il gigante industriale dell’anno. Il fatto che tre fusioni e acquisizioni su quattro finiscano in malo modo, come dicono le rilevazioni di questi processi, è un problema che in genere non sembra ostacolare la corsa all'acquisto delle azioni che così si scatena, facendo crescere oltremodo - al-

meno per un certo periodo — il valore delle medesime. Ben più gravi, per le loro conseguenze, sono le pressioni oggettive che vengono a gravare sui manager in nome della creazione di valore per gli azionisti. Tra questi ultimi, quelli che veramente pesano sono gli investitori istituzionali: fondi pensione, fondi comuni di investimento, compagnie di assicurazioni e simili. Per essi, da quando si cominciò a gonfiare

la bolla speculativa nei primi anni ’90, vale la regola del 15 per cento. In altre parole un investimento deve rendere almeno il 15 per cento l’anno; altrimenti non val la pena effettuarlo, e meno che mai tenerlo dov'è.

Ora che cosa può fare il povero top manager d’una grande impresa dinanzi all’incubo che i tali investitori istituzionali non acquistino al più presto i 500 milioni di euro in azioni come avevano promesso, perché non giudicano sufficiente il loro rendimento; 0, peggio, che sfilino tra breve dal portafoglio dell’azienda il miliardo di euro di loro proprietà? Si sa che realizzare profitti dell'ordine del 15 per cento producendo 177

beni e servizi reali è molto difficile, in qualunque settore produttivo, almeno a periodo medio e lungo. Perciò quel manager si trasforma esso stesso in uno speculatore: lascia cadere la produzione in secondo piano, nel suo ordine di priorità, per cimentarsi piuttosto in rocambolesche costruzioni e manovre finanziarie, sperando di trarre da esse i profitti che la normale attività produttiva non gli permetterà mai, salvo casi eccezionali, di realizzare. Fino a che le costruzioni crolla-

no, travolgendo non tanto i loro costruttori, che conoscono il segreto per ripararsi dai terremoti, quanto i piccoli rispar-

miatori che delle loro capacità manageriali si erano fidati. Il risultato globale cui adduce il comportamento tanto dei grandi investitori quanto delle imprese che pensano e agiscono seguendo tattiche finanziarie di breve periodo, piuttosto che strategie industriali di largo respiro, era stato preconizzato da John Maynard Keynes nella sua Teoria generale (1936), poco dopo la crisi del 1929: «La speculazione non nuoce quando non è che una bolla al di sopra d’un flusso continuo di attività produttive; ma il caso è ben diverso quando l’attività produttiva non diventa altro che una bolla presa in un turbine speculativo». Per questo motivo la concezione dell’impresa come entità che prima della creazione di occupazione, di buoni prodotti, di solidi profitti, considera suo scopo primario il perseguire con ogni altro mezzo possibile l'aumento del valore delle azioni in Borsa, avrebbe concluso Keynes, si è trasformata in una trappola per molti che affidano a essa i loro risparmi. Ben vengano dunque maggiori controlli sulle imprese, sulle azioni dei loro amministratori e dirigenti, sulle modalità che seguono per redigere i bilanci, al fine di ridurre il rischio che si verifichino altri casi Parmalat (o Cirio, per non risalire fino al tracollo del gruppo Ferruzzi Montedison, giusto dieci anni prima). Ma essi non porteranno a cambiamenti significativi nel comportamento degli uni e degli altri ove non ci si renda conto che alle radici dei casi in questione v'è, a fianco di altri fattori, una concezione profondamente distorta 178

dell’impresa contemporanea. Essa è stata alimentata da uno stuolo innumerevole di studiosi e di commentatori economici, di centri di ricerca e di istituzioni internazionali. I quali,

dopotutto, non hanno fatto altro che dare espressione squisitamente teorica al fatto rudemente concreto che per il mondo si aggira una massa enorme di capitali in cerca frenetica di una ulteriore valorizzazione di se stessa. Bisognerebbe quindi trovare il modo di regolarne la circolazione per far sì che l’attività produttiva riprenda il sopravvento sul turbine speculativo. Se ciò accadesse allora una diversa concezione dell'impresa, forse, seguirebbe. [27/12/2003]

UN PATTO TRA LAVORATORI E NO-GLOBAL

Tra le proposte di Sergio Cofferati per un progetto politico da sottoporre al centro-sinistra (vedi il «Corriere della Sera» del 5 agosto 2002) figura la costruzione d’un sistema di relazioni che includa, assieme ad altri soggetti venuti da poco alla ribalta, le associazioni dei no-global. Pare implicito che tra i soggetti preesistenti di tale sistema si collochi anzitutto l’insieme — una volta lo chiamavano classe — dei lavoratori dipendenti. Dinanzi a siffatta proposta vien naturale chiedersi quali mai potrebbero essere i legami idonei a far emergere da due soggetti sociali e politici, che appaiono al momento assai distanti, un'alleanza in grado di contribuire al successo del centro-sinistra alle future tornate elettorali: le europee del 2004, le amministrative del 2005, e soprattutto le politiche del 2006. Il fatto ovvio che un certo numero di lavoratori faccia parte delle associazioni no-global, o che tra i no-global si ritrovino parecchi lavoratori, non muta il quadro di fondo. Quando uno decide se partecipare o no a una manifestazione, se andare o no a votare, se votare per una formazione politica o per un’altra, lo fa in base al ruolo — cioè l'insieme delle credenze, 179

delle attese altrui, dei valori, degli interessi che strutturano

l’azione di ogni individuo — che in quel momento lo motiva più fortemente. Ora va rilevato che i ruoli di «lavoratore» e di «no-global» sono assai differenti. Lo sono, anzitutto, per gli interessi che

ne sono alla base. Gli interessi dei lavoratori hanno come riferimento persone e situazioni prossime, direttamente individuabili, immediatamente tangibili: le condizioni di lavoro, il

salario, la sicurezza dell’occupazione per sé e per i propri figli, il riconoscimento della propria dignità di persona e non di merce, le possibilità di crescita professionale, la pensione. Gli interessi dei no-global vanno a temi ostici perfino da definire: intricate situazioni internazionali; paesi lontani che per la gran parte degli italiani erano ignoti o indifferenti o fastidiosi fino a ieri, e forse ancora lo sono; le disuguaglianze globali di reddito e di istruzione; il costo delle medicine per combattere l'Aids in Africa; il debito estero del Burkina Faso o del Malawi; il lavoro infantile in Indonesia.

L’operatrice di call-center, il metalmeccanico, il raccoglitore di frutta, l’impiegata di banca, hanno soprattutto interessi prossimi del primo tipo. Studenti e studentesse, insegnanti, operatori del volontariato, funzionari di enti locali e quanti altri sono impegnati nelle mille associazioni e Organizzazioni non governative (Ong) che criticano la globalizzazione liberista, visti i suoi evidenti disastri, sono motivati

piuttosto da interessi distali, nel tempo e nello spazio, del secondo tipo. In qual modo allora si potrebbe ottenere che gli uni e gli altri votino per uno stesso progetto politico, e per la formazione politica che lo fa proprio? Il metodo più semplice consisterebbe — lo si è fatto spesso in altre occasioni — nel dedicare il capitolo X del progetto politico in parola agli interessi che toccano più direttamente i lavoratori, e il capitolo Y agli interessi che motivano più segnatamente i giovani no-global e le Ong che li raggruppano (capitoli da affiancare, beninteso, a quelli che tratterebbero degli interessi di altri rag180

gruppamenti sociali). V’è però da fidata all’accostamento di capitoli programma comune non avrebbe Alla prima presa di posizione del

temere che un’alleanza aftra loro estranei entro un fondamenta molto salde. centro-sinistra, in campa-

gna elettorale o in Parlamento, che paia anche lontanamente

badare, o possa venire interpretata, come più attenta al capitolo X che non a quello Y, ovvero più agli interessi dei lavoratori che non a quelli dei no-global, o viceversa, il grado di consenso per l’intero progetto della parte che si giudica trascurata comincerebbe subito a scemare. Lo scopo da raggiungere dovrebbe quindi essere diverso: convincere gli uni e gli altri che il segmento degli interessi prossimi più sentiti dai lavoratori, e quello degli interessi distali che maggiormente motivano i no-global, fanno parte in realtà di un unico cerchio nel quale il punto di inizio e di fine dei due segmenti sono ormai divenuti indistinguibili. Gli interessi materiali e ideali dei lavoratori si prolungano oggi, entro lo scenario in cui la globalizzazione sta incartando se stessa, negli interessi ideali e materiali cui le Ong dei no-global hanno saputo da qualche anno dar voce, e viceversa. Al fine di diffondere una simile convinzione, gli argomenti tratti dalla ricerca, dall’analisi sobriamente critica di ciò che sta

avvenendo al lavoro e all’esistenza di masse di persone nel mondo globalizzato, potevano finora avere la funzione che si attribuisce a certi medicamenti: non nuocciono, e magari fan-

no bene. Accade però che da qualche anno tali argomenti abbiano visto schierarsi dalla loro parte una serie impressionante di prove fattuali. Per cominciare, in ogni regione del nostro paese, come altrove, gruppi di lavoratori dei più diversi settori produttivi sono informati da un giorno all’altro che l’impresa da cui dipendono è stata venduta, e i nuovi padroni - risiedano essi a Salamanca o a Kyoto, a Helsinki o a Milwaukee — non hanno alcun interesse a tenerla in attività, anche se i

suoi affari andavano bene. Il crollo di alcune delle maggiori corporations americane ha mostrato a quali disastri economi181

ci e sociali possa condurre — non solamente in Usa — una concezione dell'impresa fondata, piuttosto che sulla cultura del

produrre, sugli effetti speciali della Borsa e del capitalismo casinò (Keynes dixit, quasi ottant'anni fa). Si può continuare con i poveri estremi, quelli che vivono con meno di 2 dollari al giorno, e che non sono mai stati così

numerosi — il 45 per cento della popolazione mondiale. Ancora: l'Unesco denuncia che gli analfabeti totali sono poco meno di 900 milioni. Le disuguaglianze di reddito tra il 20 per cento più benestante della popolazione del pianeta e il 20 per cento più povero stanno raggiungendo il rapporto di 90 a 1 — lo stesso rapporto era di 30 a 1 nel 1960. Negli ultimi dieci anni, un centinaio di conflitti armati hanno causato milioni di morti, e alle loro radici verano in genere povertà, disuguaglianze estreme, lotte per l’acqua e per terre fertili in via di scomparsa. Le crisi economiche, nel mondo intiero, si sono fatte più frequenti da un quarto di secolo, e altempo stesso più gravi: questo non l’ha scritto un globalotobo qualunque, bensì Joseph E. Stiglitz, Nobel perl’ Economia, fino al 2000 primo vicepresidente ed economista capo della Banca Mondiale. Di fronte a un simile scenario mondiale che non i suoi critici, ma la globalizzazione liberista ha disegnato di propria mano, in Italia le organizzazioni imprenditoriali e il governo non han saputo far di meglio che pretendere di introdurre sul mercato del lavoro ulteriori dosi di flessibilità. La quale è giusto un compendio di quel pilastro della globalizzazione chiamato deregolazione o delegificazione del mercato del lavoro, che in molti paesi del mondo ha recato benefici a minoranze, pur consistenti, ma povertà e disoccu-

pazione alla gran maggioranza della popolazione (è ancora Stiglitz che parla). Solamente pochi anni fa, l’idea di un'alleanza sociale, culturale e politica tra lavoratori e no-global sarebbe apparsa frutto di qualche autore di fantapolitica. Quel che è successo in seguito nel mondo porta oggi a configurarla come una prospettiva affatto realistica, forse perfino necessaria per tentar 182

di salvare i principi, i valori, gli interessi tangibili e intangibili, materiali non meno che etici, degli uni e degli altri. [11/08/2002]

NESSUNO RISPONDE DI NULLA NELL’ECONOMIA GLOBALE

I teorici della globalizzazione assicurano che tra i suoi effetti benefici vanno incluse l’interdipendenza che si è realizzata tra i sistemi economici, e la possibilità di poter produrre ogni cosa in qualsiasi luogo. Nonché il fatto che è diventato indifferente se la proprietà formale di un’impresa abbia sede in un dato paese mentre le sue unità produttive sono localizzate altrove. Il caso della Embraco di Chieri, presso Torino, che nel no-

vembre 2004 ha chiesto di aprire la procedura di mobilità per oltre 800 dipendenti, mettendo a rischio anche altri 400 posti di lavoro nell’indotto, suggerisce di annoverare tra gli effetti della globalizzazione anche la irresponsabilità, sottratta a ogni forma di tracciabilità, di imprese e dirigenti. In verità se uno chiede chi mai sia responsabile del destino di queste 1200 persone, molte delle quali sono troppo giovani per poter andare in pensione quando la mobilità avrà termine, si trova dinanzi a una serie di risposte affatto razionali. Ma esse, nell'insieme, portano a concludere che abbiamo costruito un sistema economico irrazionale, in primo luogo perché nei suoi meandri è impossibile risalire a chi dovrebbe rispondere di quel che succede. La fabbrica di Chieri una volta si chiamava Aspera. Non andava troppo bene, e la proprietà la cedette alla multinazionale brasiliana Embraco. L'importante, fu detto, non era la collocazione della proprietà, bensì il mantenimento della produzione e dei posti di lavoro. Risultato: i dipendenti Embraco erano02150 nel 1999, 1640 nel 2001, 1000 tondi l'estate 2004 e 940

a novembre. Di cui quattro quinti dovrebbero andare in mobilità, il che significa probabilmente chiusura prossima della 133

fabbrica. Chi è responsabile di simile caduta dell’occupazione, e prima ancora del calo di produzione che l’ha causata? La risposta richiede un tour guidato attraverso la divisione internazionale del lavoro. L’Embraco torinese produce compressori per frigoriferi che vengono acquistati soprattutto dalle consociate di Whirlpool Europa, colosso degli elettrodomestici trapiantato dagli Usa, le quali stanno in Italia, Austria, Belgio, Bulgaria, con stabilimenti in vari altri paesi. Per essere redditizia l’Embraco di Chieri dovrebbe produrre almeno sei milioni di pezzi l’anno, ma le imprese di Whirl-

pool Europa gliene comprano soltanto quattro. Vien quindi da chiedersi: il prodotto italiano di marca brasiliana è forse di qualità non eccelsa? Costa troppo? Non è adatto alle produzioni degli stabilimenti austriaci, bulgari o slovacchi? E se tutto ciò fosse vero, qualcuno nell'azienda di Chieri non poteva accorgersene anni fa, e introdurre imutamenti opportuni? I dirigenti di Chieri potrebbero naturalmente rispondere che loro debbono sottostare alle superiori prescrizioni di costi e di specifiche tecniche della multinazionale da cui dipendono. Se gli stabilimenti austriaci o belgi o bulgari non gradiscono i compressori della Embraco, è al Brasile che bisogna domandare spiegazioni, non a Chieri. Ed è presumibilmente dal Brasile che è giunto l'ordine di chiudere la fabbrica del torinese per portare la produzione nell’Europa orientale. A loro volta i dirigenti Whirlpool dei relativi paesi potrebbero difendersi dall'accusa di snobbare il prodotto made in Ue, seppur con marchio brasiliano, ricordando che loro hanno sul capo la Whirlpool Corporation of America, che verifica con estrema severità l'andamento delle ven-

dite come dei costi di produzione. Il caso Embraco è dunque emblematico. Vuoi perché di casi simili ve ne sono ormai centinaia soltanto in Piemonte, e migliaia in Italia, con centinaia di migliaia di lavoratori coin-

volti. Vuoi per il fatto che al fondo della maggior parte di essi si ritrovano circostanze analoghe: l’interdipendenza globale che diventa una forma patologica di dipendenza locale dal184

le bizzarrie di processi economici incomprensibili ai più; la proprietà straniera che preferisce ovviamente licenziare i dipendenti d’un paese lontano che non quelli del suo vicinato; intrecci produttivi e finanziari di cui è quasi impossibile venire a capo, al fine di trovare qualcuno che renda conto di decisioni aventi ricadute negative su intere regioni. Per il momento possiamo solo sperare che enti territoriali e sindacati trovino modo quanto meno di alleviare la grave situazione determinatasi in quel di Chieri, Piemonte. Ma i casi simili continueranno a moltiplicarsi, fino a quando non si inventeranno e si adotteranno mezzi appropriati per gover-

nare localmente la globalizzazione. [18/11/2004]

PIÙ DAZI O PIÙ DIRITTI PER COMMERCIARE CON LA CINA?

Se dovessimo dar retta a Ricardo per regolare l'economia italiana e quella mondiale, come propongono alcuni economisti e le maggiori organizzazioni internazionali, non dovremmo esitare un istante: constatato che i cinesi ormai producono merci nel settore del tessile e abbigliamento a un costo assai più basso dell’Italia, questa dovrebbe uscire di corsa da tale settore, e cercare di occupare i lavoratori che così perdono il posto nella produzione di merci che alla Cina convenga comprare. In questo modo sia l’Italia che la Cina ne trarrebbero vantaggio. Mentre cercare di fermare alla dogana di Gioia Tauro, o di Genova, le merci cinesi nuocerebbe ad ambedue

le economie. Ricardo aveva forse ragione quando suggeriva — nel 1817 — ai portoghesi di comprare panno in Inghilterra, dove lo producevano a minor prezzo, e agli inglesi di acquistare vino in Portogallo invece che farselo in casa. Purtroppo, trasferita ai giorni nostri, e applicata alle relazioni commerciali Italia-Cina, la sua teoria dei «costi comparati» presenta vari inconvenienti. Il costo del lavoro in Cina è 20-25 volte inferiore a quel185

lo italiano. Nelle manifatture delle principali zone industriali il salario medio cinese è di circa 1200 euro l’azr0, e gli orari

molto lunghi; quello italiano si aggira sui 1200 euro al mese, guadagnato con orari più umani. Inoltre i prelievi obbligatori per l’assistenza e la previdenza raddoppiano il costo del lavoro in Italia, mentre poco aggiungono in Cina, dove il comunismo

capitalista ha soppresso quel che esisteva del vecchio stato sociale, ma si è ben guardato dallo svilupparne uno nuovo. Dal che deriva la disuguaglianza indicata. Quanto basta per dire, tra l’altro, che i cinesi non stanno affatto facendo del dumping, che significa vendere in massa prodotti sottocosto; vendono a prezzi bassi perché i loro costi sono bassissimi. Di fronte a simili disparità, forse nemmeno Ricardo avrebbe consigliato ai portoghesi di badare anzitutto a fabbricare vino e comprare panno, e agli inglesi di fare il contrario. Né il problema si chiude con le disuguaglianze salariali. Va infatti notato che anche se volessimo procedere con lo scenario socialmente intollerabile di qualche centinaio di migliaia di lavoratori disoccupati per mesi o per anni, in attesa di essere gradualmente rioccupati in settori più produttivi, in realtà noi non sappiamo più quali prodotti di massa potrebbero 0ggi interessare alla Cina. I prodotti di massa i cinesi se li fabbricano sul posto, pure quelli aventi contenuti tecnologici elevati. In altre parole il trasferimento di grandi quantità di manodopera dal tessile ad altri settori, oltre a essere impraticabile, sposterebbe soltanto il problema un po’ più a lato, o a un tempo un poco più lontano.

Allora, dazi italiani sulle merci cinesi? Prima di soffermarsi su questa domanda, bisognerebbe formulare altre risposte. Cominciando dal notare che alle migliaia di imprese europee — comprese parecchie italiane — operanti in Cina, ac-

canto a molte americane, i bassi salari e le cattive condizioni di lavoro delle zone industriali, che diventano pessime nelle zone franche di lavorazione ed esportazione dove lavorano per loro ben trenta milioni di persone, in fondo vanno benissimo. Infatti permettono di fare grandi profitti. E vanno be186

ne anche a noi come consumatori, perché senza il lavoro di giovani donne cinesi pagato due dollari 4/ giorzo, nelle zone franche, noi non avremmo il piacere di comprarci, ad esempio, un PC superdotato per meno di mille euro. Si dovrebbe quindi chiedere alle imprese in questione se non sarebbero disposte a pagare salari un po’ più elevati nelle tante fabbriche cinesi che a loro, in una forma o nell’al-

tra, fanno capo, come sussidiarie o fornitrici; e magari a permettere addirittura l’ingresso nelle fabbriche di rappresentanze sindacali. Mentre ciascuno di noi, come consumatore,

potrebbe magari ragionare sul fatto che se si pagassero un po’ di più i prodotti che attraverso molte vie vengono dalla Cina, favorendo l’aumento dei salari in quella parte del globo, si difenderebbero meglio i posti di lavoro da questa parte del medesimo. Nel caso che le imprese europee fossero disposte a concedere qualcosa in merito ai salari che pagano e alle condizioni di lavoro che offrono in Cina, l’Italia, o meglio la Ue, sareb-

bero in una posizione migliore per discutere con i cinesi dei tanti aspetti dei rapporti commerciali che non si esauriscono nel rapporto prezzo/qualità delle merci. Oggi si parla molto di investitori socialmente responsabili, quelli che acquistano azioni di un'impresa soltanto se essa soddisfa determinati parametri sotto il profilo economico, sociale e ambientale. Sembra difficile negare che i paesi Ue, non in ordine sparso ma con un disegno collettivo, peserebbero di più nella regolazione del commercio mondiale se cominciassero ad agire come partner commerciali socialmente responsabili. Capaci di chiedere alla Cina — o all'India, o ad altri — il rispetto di diritti umani, sociali, sindacali nell’industria dei loro paesi. E capaci di chiederlo in modo non ipocrita perché le loro imprese per prime si sono adoperate a rispettare quei diritti non solo

in patria, ma anche nelle zone dell'Asia sudorientale da cui importano fiumi di materie prime, semilavorati, componenti e prodotti finiti. Tornando ai dazi sui tessili, e perché no sulle mele o i gio187

cattoli provenienti dalla Cina. Per avanzare una simile proposta bisogna veramente non avere alcuna idea di come è organizzata oggi la produzione nel mondo di qualsiasi manufatto, tramite infinite catene transnazionali di creazione del

valore. Le merci che, colpite da pesanti oneri doganali, non sbarcherebbero più a Gioia Tauro o a Genova, arriverebbero da Tarvisio o dal Sempione. Senza pagare dazio, perché porterebbero un'etichetta europea o magari americana. Al confronto, per quanto al momento possa apparire utopistica, è molto più concreta l’idea di discutere con i cinesi, a livello Ue, di salari, diritti dei lavoratori e condizioni di lavoro. Sen-

za però pretendere da loro di introdurre quei mutamenti che tante imprese europee operanti in Cina finora si sono ben

guardate dall’attuare. [10/03/2005]

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Luciano Gallino è professore emerito di Sociologia all’Università di Torino. Ha pubblicato, tra l’altro, Se tre milioni

vi sembran pochi (Torino 1998), L’impresa responsabile. Un’intervista su Adriano Olivetti (a cura di P. Ceri, Torino 2001), La scomparsa dell’Italia industriale (Torino 2003), Dizionario di Sociologia (Torino 2004?) e L’impresa irresponsabile (Torino 2005). Per i nostri tipi, Disuguaglianze ed equità in Europa (1993), !l costo umano della flessibilità (2005°) e Globalizzazione e disuguaglianze (2005).

Progetto grafico: Raffaella Ottaviani

Frammentazione dei rapporti di lavoro e irresponsabilità della globalizzazione: la testa e la coda della catena di lunghi disagi e veloce declino che gli italiani vivono ogni giorno.

ISBN 88-420-7834-4

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