Le libertà dei moderni. Filosofie e teorie politiche della modernità. 1789-1989. Dalla Rivoluzione francese alla caduta del muro di Berlino 9788820736255, 9788820763251

Il volume muove dalle questioni poste dalla Rivoluzione francese (l'idea di una società giusta costituita da uomini

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Le libertà dei moderni. Filosofie e teorie politiche della modernità. 1789-1989. Dalla Rivoluzione francese alla caduta del muro di Berlino
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Indice
SEZIONE I – (1789–1870) DALLA RIVOLUZIONE FRANCESE ALLA COMUNE DI PARIGI di Roberto Finelli
PREMESSA STORICO-TEMATICA
1 – LA SOLUZIONE KANTIANA
2 – LA SOLUZIONE HEGELIANA
3 – LA SOLUZIONE MARXIANA
4 – LA SOLUZIONE ROMANTICA
5 – LA SOLUZIONE ESISTENZIALE
SEZIONE II – (1870-1945) FORMAZIONE E CRISI DELLA SOCIETÀ DI MASSA. IL PENSIERO LIBERALE DA TOCQUEVILLE A KELSEN di Franca Papa
1 – FORMAZIONE E CRISI DELLA SOCIETÀ DI MASSA (1870-1945)
2 – LA SOCIETÀ DI MASSA TRA “NUOVO’’ E “VECCHIO’’ MONDO. TOCQUEVILLE – MAX WEBER
3 IL POSITIVISMO
4 – LE TEORIE DELLA SOVRANITÀ E LA RIDEFINIZIONE DELLE CATEGORIE DEL POLITICO
SEZIONE III – (1870-1945) FILOSOFIA E SOCIETÀ DALLA COMUNE DI PARIGI ALLA SECONDA GUERRA MONDIALE di Roberto Finelli
INTRODUZIONE
1 – LA RISPOSTA ALLA MASSIFICAZIONE DEL MODERNO: F. NIETZSCHE
2 – IL DIBATTITO SU SCIENZE NATURALI E SCIENZE STORICHE IN GERMANIA
3 – UNA NUOVA CONCEZIONE DELLO SPAZIO E DEL TEMPO: LA FILOSOFIA DI H. BERGSON
4 – LE LEGGI DI UN CONTINENTE SOMMERSO: L’INCONSCIO IN SIGMUND FREUD
5 – LA CRISI DELLE SCIENZE EUROPEE E LA FILOSOFIA FENENOMENOLOGICA DI E. HUSSERL
6 – IL DECISIONISMO AUTORITARIO DI MARTIN HEIDEGGER
7 – L’IDEOLOGIA DEI “NAZI”
SEZIONE IV – CENTO ANNI DI IDEOLOGIA ITALIANA di Marcello Montanari
1 – DAI PROMESSI SPOSI A PINOCCHIO
2 DALLA CRISI DEL RISORGIMENTO ALLA NASCITA DI UNA NAZIONE DEMOCRATICA
SEZIONE V IL MARXISMO DOPO MARX di Marcello Montanari
SEZIONE VI – (1945-1989) DALLA FINE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE ALLA CADUTA DEL MURO DI BERLINO. L’AMERICANISMO E LA NUOVA FORMA DEL MONDO di Giuseppe Cascione
INTRODUZIONE
1 – CRISTIANESIMO E MODERNITÀ
2 – IL PRAGMATISMO
3 – LIBERALISMO E NUOVA SCIENZA POLITICA
4 – INTELLETTUALI E IMPEGNO POLITICO
5 – LA SVOLTA LINGUISTICA
6 – IL GLOBALISMO
SEZIONE VII – IL FEMMINISMO E IL PENSIERO DELLA DIFFERENZA di Franca Papa
INDICE DEI NOMI
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Roberto Finelli Marcello Montanari

Franca Papa Giuseppe Cascione

` DEI MODERNI. LE LIBERTA FILOSOFIE E TEORIE POLITICHE ` DELLA MODERNITA 1789-1989 Dalla Rivoluzione francese alla caduta del muro di Berlino

ISSN 1972-070X

Liguori Editore

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Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2003 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Novembre 2003 Finelli, Roberto : Le libertà dei moderni. Filosofie e teorie politiche della modernità/Roberto Finelli, Franca Papa, Marcello Montanari, Giuseppe Cascione Memo Napoli : Liguori, 2003 ISBN 978 - 88 - 207 - 3625 - 5 (a stampa) eISBN 978 - 88 - 207 - 6325 - 1 (eBook) ISSN 1972-070X

1. Storia moderna, società di massa

2. Storia del pensiero politico I. Titolo

II. Collana III. Serie

Aggiornamenti: ————————————————————————————————————————— 23 22 21 20 19 18 17 16 15 14 13 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

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INDICE

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3

SEZIONE I (1789-1870) DALLA RIVOLUZIONE FRANCESE ALLA COMUNE DI PARIGI di Roberto Finelli Premessa storico-tematica 1. Rivoluzione francese e «societa` civile» 3; 2. Economia, mercato e liberta` 5.

13

Capitolo primo La soluzione kantiana 1. Dall’«oggetto» al «soggetto» 13; 2. Una purissima liberta` della «forma» 17; 3. Uno Stato solo «negativo» 19.

23

Capitolo secondo La soluzione hegeliana 1. Dall’«Io penso» all’Io come divenire di se´ 23; 2. Dal bisogno alla dialettica con l’‘‘altro da se´” 25; 3. Etica comunitaria e liberta` individuale 29; 4. “Societa` civile” e “Stato” 31; 5. “Polizei”, “corporazione” e “Stato sociale” 35; 6. Liberta` francese e liberta` tedesca 40.

43

Capitolo terzo La soluzione marxiana 1. La “prassi” come “critica” 43; 2. Comunitarismo dell’essere umano, comunismo e teoria materialistica della storia 46; 3. La modernita` di un universale astratto. 51.

55

Capitolo quarto La soluzione romantica 1. Il tradizionalismo politico 55; 2. Il romanticismo politico propriamente detto 57.

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viii

63

INDICE

Capitolo quinto La soluzione esistenziale 1. Una filosofia dell’esistenza 65; 2. L’apparenza del mondo borghese del pensare e dell’agire: Schopenhauer 69.

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77

SEZIONE II (1870-1945) ` DI MASSA. FORMAZIONE E CRISI DELLA SOCIETA IL PENSIERO LIBERALE DA TOCQUEVILLE A KELSEN di Franca Papa

79

Capitolo primo Formazione e crisi della societa` di massa (1870-1945)

87

Capitolo secondo La societa` di massa tra “nuovo’’ e “vecchio mondo”. Tocqueville – Max Weber

101

Capitolo terzo Il positivismo

115

Capitolo quarto Le teorie della sovranita` e la ridefinizione delle categorie del politico

131

SEZIONE III (1870-1945) ` DALLA COMUNE DI PARIGI FILOSOFIA E SOCIETA ALLA SECONDA GUERRA MONDIALE di Roberto Finelli

133

Introduzione

135

Capitolo primo La risposta alla massificazione del moderno: F. Nietzsche 1. La decostruzione della civilta` europea 135; 2. Il corpo come sistema sociale e culturale 142.

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INDICE

ix

147

Capitolo secondo Il dibattito su scienze naturali e scienze storiche in Germania

151

Capitolo terzo Una nuova concezione dello spazio e del tempo: La filosofia di H. Bergson

157

Capitolo quarto Le leggi di un continente sommerso: l’inconscio in Sigmund Freud

163

Capitolo quinto La crisi delle scienze europee e la filosofia fenenomenologica di E. Husserl 1. La “crisi delle scienze” nel primo Novecento 163; 2. Una nuova filosofia: la filosofia come “fenomenologia” 165.

171

Capitolo sesto Il decisionismo autoritario di Martin Heidegger 1. Il decisionismo filosofico 171; 2. Il decisionismo nazionalsocialista 176.

181

185

187

Capitolo settimo L’ideologia dei “Nazi” SEZIONE IV CENTO ANNI DI IDEOLOGIA ITALIANA di Marcello Montanari Capitolo primo Dai Promessi Sposi a Pinocchio 1. Dall’Illuminismo al Romanticismo. Il Romanticismo come proseguimento della Rivoluzione in altra forma 187; 2. Letteratura e politica. Foscolo, Manzoni, Leopardi 189; 2.1. Il neo-stoicismo di Foscolo 189; 2.2. Il progetto neo-guelfo del Manzoni 192; 2.3. Il problema Leopardi 196; 3. Tra Italia e Europa 199; 3.1. Dal progetto neo-guelfo alla nazione democratica del Mazzini 199; 3.2. Mazzini e Cavour 202; 3.3. I democratici e il Risorgimento 206; 4. Da sudditi a cittadini? 211; 4.1. Stato etico e questione meridionale 211; 4.2. Due romanzi di formazione: “Cuore” e “Pinocchio” 216.

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x

219

INDICE

Capitolo secondo Dalla crisi del risorgimento alla nascita di una nazione democratica 1. La crisi di fine secolo 219; 1.1. Fine degli ideali risorgimentali 219; 1.2. La ricerca di un nuovo principio di “sovranita`”. V. E. Orlando e P. Turiello 222; 1.3. Critica del parlamentarismo e teoria delle e´lites in Gaetano Mosca 226; 2. La nazionalizzazione delle masse 228; 2.1. Socialismo e Nazione. Tra Filippo Turati e Antonio Labriola 228; 2.2. I cattolici e lo Stato. Toniolo, Murri e Sturzo 234; 2.3. Dalla crisi del pensiero liberale al nazionalismo 241; 3. Tra due guerre 253; 3.1. Guerra e dopoguerra 253; 3.2. La partitizzazione della Patria. L’ideologia fascista 260; 3.3. Liberalismo, antifascismo, democrazia 266.

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281

SEZIONE V IL MARXISMO DOPO MARX di Marcello Montanari 1. La revisione del marxismo. Engels, Labriola e Bernstein 281; 2. Le vie del marxismo in Italia. Croce, Gentile, Mondolfo 285; 3. Critica del revisionismo e rivoluzione 289; 4. La filosofia della prassi di Antonio Gramsci 297.

303

SEZIONE VI (1945-1989) DALLA FINE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE ALLA CADUTA DEL MURO DI BERLINO. L’AMERICANISMO E LA NUOVA FORMA DEL MONDO di Giuseppe Cascione

305

Introduzione

305

Capitolo primo Cristianesimo e modernita` Introduzione 309; Cristianesimo e democrazia in Jacques Maritain 310; Il personalismo di Emmanuel Mounier 313; Teologia crucis: Dietrich Bonhoeffer 315.

319

Capitolo secondo Il pragmatismo Filosofia anglo-americana: caratteri comuni 319; Il realismo sociale di Charles Sanders Peirce 322; Williams James e il volontarismo psicologico 322; Lo strumentalismo di John Dewey 326; La filosofia analitica 328; Il neo-contrattualismo di John Rawls 330; La filosofia dopo la filosofia: il neo-pragmatismo di Richard Rorty 332.

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INDICE

335

xi

Capitolo terzo Liberalismo e nuova scienza politica Liberalismo ed ‘ordine spontaneo’ in F. von Hayek 335; Il razionalismo critico di Karl Popper 338; Il Totalitarismo e il senso della politica in Hannah Arendt 342; Oriente, Occidente e modernita`: E. Voegelin, L. Strauss, A. Del Noce 348.

357

Capitolo quarto Intellettuali e impegno politico

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La Scuola di Francoforte 357; 1. La psicologia sociale 359; 2. Gli studi sull’autorita` e la famiglia 362; 3. La teoria critica e la critica dell’illuminismo 364; Jean-Paul Sartre, Maurice Merleau-Ponty e l’impegno politico degli intellettuali 368.

375

Capitolo quinto La svolta linguistica Wittgenstein e il linguaggio 375; Il linguaggio e la comunicazione: Ju¨rgen Habermas 382; Gadamer e l’ermeneutica 386; Linguaggio e potere: Michel Foucault 388.

391

Capitolo sesto Il globalismo Introduzione 391; Teoria dei sistemi e globalizzazione: Niklas Luhmann 392; Il globalismo giuridico e culturale 394.

401

SEZIONE VII IL FEMMINISMO E IL PENSIERO DELLA DIFFERENZA di Franca Papa

405

Indice dei nomi

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SEZIONE I (1789–1870) DALLA RIVOLUZIONE FRANCESE ALLA COMUNE DI PARIGI di Roberto Finelli

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PREMESSA STORICO-TEMATICA

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1. Rivoluzione francese e «societa` civile» L’evento storico che, nella memoria e nella consapevolezza di noi tutti, contraddistingue maggiormente l’ingresso della storia nel tempo moderno, arrivando con i suoi effetti a condizionare ancora il mondo nel quale viviamo, e` certamente la Rivoluzione francese. La decapitazione della monarchia, la cancellazione dei privilegi della nobilta` e del clero e sopratutto la generalizzazione, senza eccezione alcuna, a tutti i membri di una grande nazione come la Francia del titolo di “cittadino” (citoyen) – con l’eguaglianza per ciascuno dei diritti e dei doveri che il concetto di cittadinanza implica – costituisce infatti l’atto ufficiale di sepoltura di ogni societa` premoderna, fondata ancora sulle differenze e le gerarchie tra ordini e ceti, sulle nobilta` di sangue, sulla separatezza e la chiusura delle corporazioni artigianali, sui mille diritti insomma, coincidenti sempre con la difesa di un interesse particolare e diverso da quello degli altri. Con la Grande Rivoluzione del 1789 finisce definitivamente il Medioevo, quale eta` del “particolare”, e si entra nella Modernita`, quale eta` dell’“universale”. Per tale universalizzazione a tutti dei ‘‘diritti dell’uomo e del cittadino’’ la Rivoluzione francese e` un evento di grande rilievo, non solo in senso storico-politico ma anche, per quello che a noi qui c’interessa, piu` propriamente filosofico. La filosofia infatti, com’e` noto, si occupa, a differenza delle scienze particolari, dell’universale, ossia di cio` che anche di fronte ai fenomeni del mondo e della vita piu` particolari, cerca di evidenziare comunque rilievi e prospettive d’interesse generale, e che, come tale, e` funzione di quella facolta` conoscitiva astraente e generalizzante che molti definiscono come ragione. E appunto da tale punto di vista possiamo anche noi dire, con Hegel, che la Rivoluzione francese e` stata, oltre che rivoluzione storico-politica, anche una enorme rivoluzione culturale dello “Spirito del mondo”, in quanto ha introdotto nella storia, con un’ampiezza e una

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DALLA RIVOLUZIONE FRANCESE ALLA COMUNE DI PARIGI

profondita` mai sperimentate, la forza della ragione umana, come capacita` da parte degli esseri umani, di costruire e organizzare il loro destino secondo una prospettiva di autonomia e di universalita`. In tal senso la Rivoluzione francese porta a compimento l’Illuminismo, quale movimento d’idee che ha opposto al principio d’autorita` fondato sulla tradizione un criterio di verita` basato sul lume della ragione e dell’esperienza umana. Ma sopratutto introduce ad un’autorappresentazione dell’umanita` moderna che, proprio come la filosofia, non e` disposta ad accettare acriticamente e passivamente presupposti: istituti, forme di vita, leggi che trova consegnati dal passato. E che invece concepisce la propria liberta` di umanita` moderna come capacita` di vivere secondo il proprio giudizio e vagliando criticamente ogni presupposto che sia pre-dato alla sua esistenza. Pertanto, ponendo la liberta` dell’autodeterminazione come uno dei princı`pi costituzionali della modernita` la Rivoluzione francese non poteva che cancellare ogni traccia della cosidetta “societa` cetuale” o “societa` degli ordini”, nella quale a ciascuno era predeterminata dalla nascita la forma di vita, il ruolo sociale, il godimento, o meno, dei diritti di partecipazione al potere politico, a seconda del ceto di appartenenza o della corporazione artigianale-professionale nei quali ci si trovava a nascere: una societa` nella quale non c’era distinzione tra ambito civile ed ambito politico, perche´ appunto l’articolazione sociale per ordini e ceti implicava immediatamente una diversa scala di privilegi istituzionali e politici. Invece la coppia “societa` civile-Stato politico” e` un’altra delle caratteristiche proprie della modernita`, che la Rivoluzione francese codifica con la sua legislazione. E in tal senso, a proposito dell’assenza nella storia premoderna del nesso di societa` civile e di Stato politico, va ricordato che nei testi della filosofia morale e politica, dall’antica Roma, per tutto il Medioevo, fino al pensiero giusnaturalista del ’600 e del ’700 il concetto di societa` civile e` sempre stato sinonimo di societa` politica nella sua contrapposizione alla societa` di natura, volendo significare, in particolare con le teorie del contratto, che appunto la societa` civile o Stato politico nasce solo quando alla mancanza di leggi di una societa` naturale subentra un potere comune capace di garantire la sicurezza dell’esistenza dei singoli. Diversamente nella modernita` l’ambito e i modi della “societa` civile” si separano da quelli dello Stato politico attraverso la nascita di uno spazio distinto, la cui autonomia consiste nell’essere regolato da leggi che sono profondamente diverse da quelle che concernono l’attivita` dello Stato politico. La societa` civile moderna corrisponde infatti alla sfera del mercato e dei rapporti economici tra i singoli, alla sfera della produzione, della circola-

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PREMESSA STORICO-TEMATICA

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zione e della distribuzione delle merci: sfera la cui realta` viene studiata da quella scienza specifica che e` l’economia e il cui funzionamento avviene attraverso princı`pi e modi di socializzazione che appunto sono eterogenei rispetto ai princı`pi di socializzazione propri della sfera politica. La societa` civile e` cosı` l’ambito di vita dell’uomo in quanto bourgeois (borghese), dell’homo oeconomicus cioe` che attraverso il mondo del lavoro soddisfa i propri bisogni, mentre lo Stato politico e` la sfera dell’uomo come citoyen (cittadino), il quale attraverso la partecipazione al potere legislativo si occupa degli affari generali, cioe` dell’interesse collettivo. Non a caso la Rivoluzione francese e` un evento storico ad egemonia borghese, ossia guidato dalla classe economicamente piu` intraprendente, rispetto ai ceti parassitari dell’aristocrazia e del clero da un lato e alla popolazione contadina dall’altro. Ne´ e` un caso che il periodo della stessa Rivoluzione francese coincida con il pieno compiersi della rivoluzione industriale in Inghilterra, la quale nella seconda meta` del ’700 vede lo strutturarsi della riproduzione materiale della vita su una base sempre piu` intensamente mercantilecapitalistica.

2. Economia, mercato e liberta` Tant’e` che com’e` imprescindibile volgersi alla Francia e alla sua Rivoluzione per contemplare i fondamenti politico-istituzionali della modernita` nella loro maggiore chiarezza, cosı` e` necessario volgersi all’Inghilterra e alla sua rivoluzione economica per cogliere nel suo darsi piu` originale i princı`pi di quell’istituzione peculiarmente moderna che e` il mercato economico. Questo e` il luogo in cui, secondo la definizione che ne ha dato l’economista inglese Adam Smith (La ricchezza delle nazioni, 1776), ciascuno, pur perseguendo intenzionalmente il proprio interesse individuale, produce in modo inintenzionale, il benessere collettivo. Ossia, detto con altre parole, il mercato e` quel luogo in cui come unico e assoluto principio di socializzazione vale incondizionatamente quello del “lavoro”. Il mercato e` infatti costituito da un associarsi d’individui, ognuno dei quali, a causa della divisione e della specializzazione dei lavori che progressivamente interviene nella storia dell’umanita`, non riesce a soddisfare i bisogni di vita propri e della propria famiglia da solo, ma e` obbligato a scambiare – sul mercato appunto – parte o l’intero prodotto del proprio lavoro con quello degli altri. Il mercato quindi non vive di volonta` individuali che si accordano tra loro attraverso patti e decisioni collettive, come avviene nell’ambito politico dello Stato, bensı` vive dello scambio degli egoismi privati: “l’uomo ha quasi sempre

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DALLA RIVOLUZIONE FRANCESE ALLA COMUNE DI PARIGI

bisogno del soccorso dei suoi fratelli, ed invano egli l’attenderebbe dalla loro benevolenza. Avra` piu` probabilita` d’ottenerlo, se potra` volgere a proprio favore il loro interesse [...] Non e` dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che noi attendiamo il nostro pranzo, ma dalla loro considerazione del loro interesse personale. Noi ci rivolgiamo non alla loro umanita`, ma al loro interesse e non parliamo mai loro dei nostri bisogni, ma dei loro vantaggi”1. Legge e regola di questo scambio e` il prezzo delle merci, il cui valore di base e` determinato in base al tempo di lavoro umano, di pena e fatica, spesi per la loro produzione, ma sul cui formarsi e variare, anche in conseguenza del gioco della domanda e offerta, non puo` decidere e influire nessun singolo in particolare, giacche´ nell’ampiezza delle vendite e nella moltiplicazione delle relazioni reciproche ognuno, dipendendo da tutti, non dipende da nessuno in particolare: garantendosi cosı` una condizione generale di liberta` ed eguaglianza, dove nessuno gode di un potere privilegiato ed asimmetrico rispetto agli altri. Al mercato economico moderno spetta pertanto, cosı` teorizza l’economia politica classica, una condizione intrinseca di liberta` e giustizia. Nessuno prevarica sugli altri e ciascuno, scegliendo liberamente il proprio ruolo nell’ambito della divisione sociale del lavoro e curando solo il proprio interesse personale, contribuisce, senza prefiggerselo come scopo cosciente della sua azione, a promuovere il benessere di tutti gli altri. L’interesse generale e` cosı` assicurato in modo automatico, al di la` della coscienza degli individui, dal meccanismo degli scambi, quasi operasse una ‘‘mano invisibile’’ che provvidenzialmente evita il formarsi di profonde diseguaglianze e asimmetrie, soddisfacendo l’interesse di tutti. Il funzionamento del mercato moderno e dell’economia su di esso fondata e` dunque di natura impersonale, oggettiva, in quanto appunto non condizionata da arbı`tri soggettivi. Ed e` proprio tale carattere oggettivo delle sue leggi a garantirne la costituzione come spazio di socializzazione distinto da quello politico, nel quale invece l’interesse generale e` assunto consapevolmente dallo Stato. Come, insieme, a legittimare la nascita della scienza economica, quale riflesso obiettivo di tale nuovo spazio sociale apertosi con i tempi moderni. Infatti l’economia politica appare come la scienza storico-sociale piu` originale e nuova della modernita`: propriamente come insieme di leggi che estende al campo delle azioni umane quell’automatismo di forze e di spinte gravitazionali che la nuova fisica e astronomia, da Galileo a Newton, 1 A. Smith, Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni, UTET, Torino, 1965, p. 17.

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PREMESSA STORICO-TEMATICA

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era riuscita ad attribuire gia` a un mondo della natura sempre piu` affrancato da ipoteche teologico-medievali e sempre piu` assegnato a un ordito di spiegazioni meccanico-quantitative. Autonomizzarsi della societa` civile dallo Stato politico, istituirsi della prima sulla base del libero mercato delle merci e suo codificarsi secondo leggi che esprimono nelle loro formulazioni matematiche l’ideale dell’Illuminismo di una scienza universale e unificata della natura e della storia, sono dunque eventi fondamentali, sia sul piano della struttura sociale che della riflessione culturale, che accompagnano la nascita della modernita` e la grande trasformazione politica che culmina nella Rivoluzione francese. Al fine di comprendere il quadro fondativo dell’eta` contemporanea, e` necessario dunque coniugare insieme le due Rivoluzioni che hanno segnato il passaggio tra ’700 e ’800, concorrendo ciascuna – nella distinzione tra pubblico e privato che caratterizza “il moderno” – a definire i princı`pi costituzionali, ciascuna dell’ambito piu` proprio: la Rivoluzione industriale inglese quello “privato” della societa` economico-civile, la Rivoluzione francese quello “pubblico” dello Stato democratico-rappresentativo. Dualismo e distinzione, s’e` detto, pero` che vivono nell’unita`, giacche´ entrambi i campi, oltre che svolgere funzioni complementari e insostituibili per la riproduzione della vita individuale e collettiva, s’ispirano ai medesimi valori di liberta` ed eguaglianza: per quanto riguarda la societa` civile nell’affermazione, valida per tutti, di una soggettivita` che si affermi solo attraverso il proprio lavoro; per quanto riguarda la societa` politica nell’affermazione di una volonta` sovrana di scelta, anche qui senza differenza alcuna tra i singoli, che non sia condizionata da alcun limite o potere, ne´ interno ne´ esterno. Cosı` «liberte´, egalite´, fraternite´» sono le celeberrime parole d’ordine che sintetizzano i valori della Rivoluzione francese. Liberta`, uguaglianza e solidarieta` di tutti i cittadini di fronte alle legge di uno Stato che ha spento il policentrismo dei poteri caratterizzante la societa` cetuale e s’e` fatto unico detentore della forza, anche fisica, di repressione. Di uno Stato il quale impone un sistema scolastico, militare, di misurazione e peso, di amministrazione e apparato burocratico unici ed omogenei per tutto il suo territorio; che insomma si fa nazione e produce esso stesso una nazione, quale moltitudine di singoli unificati non solo da lingua e costumi ma anche, e sopratutto, dall’eguaglianza, senza residuo alcuno, di tutti di fronte alla sovranita` di un diritto democraticamente legiferato e stabilito. Eppure, quelle parole epocali, proprio nel loro inaugurare la modernita`, sono indici non di soluzioni e conclusioni, bensı` d’aperture e di problemi.

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DALLA RIVOLUZIONE FRANCESE ALLA COMUNE DI PARIGI

Infatti alla Rivoluzione francese e alla sua forma repubblicana di Stato segue paradossalmente l’Impero napoleonico e la Restaurazione sino alla diffusione in piu` nazioni d’Europa d’istituzioni, sı` rappresentative ma contraddittoriamente limitate, quanto a rappresentativita`, a strati esigui su base di censo dell’intera popolazione. Cosicche´ la storia della modernita` non puo` che diventare la storia dei diversi tentativi di dare contenuto e realizzazione alle istanze di liberta`, eguaglianza e fratellanza poste dalla Rivoluzione francese. Come far sı` che l’universale messo in gioco da quell’evento divenga – quanto ad estensione a tutti di diritti e doveri eguali – realmente tale, e possa compenetrare effettivamente di se´ l’esistenza di ogni soggettivita` individuale? Questo e null’altro sara` infatti il problema di fondo della modernita`, riguardo alla cui soluzione, o meno, si giochera` l’intero senso della sua epocalita` storica. Problema ch’e` in primo luogo socio-politico, come s’e` detto fin qui, ma, com’e` evidente, anche problema necessariamente filosofico, nella misura in cui la questione del nesso tra universale e individuale, tra uno e molteplice, e` sempre stata una delle questioni essenziali, se non la questione per eccellenza, della filosofia. La necessita` di un vero universale, di un “universale concreto” per dirla ancora con le parole di Hegel, e` infatti quella d’includere e tollerare nel suo orizzonte di senso tutti i particolari, nessuno escluso, pena il suo decadere a universale astratto, in quanto appunto separato dai particolari che lascia cader fuori della sua valenza d’universalizzazione. Un universale concreto, cioe` un universale realmente tale, lascia vivere nell’ambito della sua unita` il numero piu` ampio possibile di differenze, contrariamente all’universale astratto, che col suo unificare parziale ed univoco sottrae possibilita` e legittimita` d’esistenza al molteplice. Sicche´ si puo` affermare, senza temerarieta`, che l’epoca moderna si connota come l’epoca piu` propriamente filosofica tra quelle che si sono avvicendate finora nel corso della storia, visto che cio` che con essa si pone massimamente in gioco e` proprio la questione degli universali (per concretezza o per astrazione). E di qui anche la prossimita` e traducibilita` della politica in filosofia, e della filosofia in politica, spesso fino alla loro completa identificazione, che caratterizza l’orizzonte della modernita`, proprio a muovere dal fatto, del tutto nuovo nella storia, che entrambe – politica e filosofia – si misurano con la risoluzione dello stesso problema. Caratteristica che tra l’altro aiuta a spiegare anche la natura di questo nostro testo, il quale, nel suo indagare tra storia e filosofia, si volge a privilegiare la filosofia, appunto, nel suo versante piu` propriamente antropologico-politico. Che la Rivoluzione francese sia a fondamento della modernita` si

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PREMESSA STORICO-TEMATICA

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esprime dunque per noi nella caratteristica che la filosofia moderna e contemporanea ci appare come filosofia intrinsecamente politica, dominata dal quesito della realizzazione pratica dell’universale e che appaia implicitamente come tale, anche quando pretenda, come accade sempre in tali casi in cui il negare e` un affermare, di rifiutare a se stessa questo suo tratto costitutivo. Affronteremo pertanto da questo punto di vista, nella sezione che segue, i tentativi di risposta a tale problema, come si sono proposti e succeduti nella filosofia tedesca della prima meta` dell’800, a cominciare (tornando indietro di qualche anno dall’inizio del secolo) dal pensiero di Immanuel Kant, con il quale giunge a maturita` sistematica la grande filosofia europea del ’600 e del ’700. Tentativi, vedremo, di diversa ispirazione e soluzione, talvolta di trattazione diretta ed esplicita, quanto a natura dell’argomento, talvolta di trattazione piu` elusiva e celata rispetto al problema in questione: comunque ipotesi e scelte di prospettiva varie e profondamente diversificate tra loro. Anche perche´ la filosofia politica dell’Illuminismo che prepara e precede la Rivoluzione francese annovera tra i suoi autori un pensatore come J.-J. Rousseau che ha concepito una teoria dell’essere sociale le cui istanze critiche non si limitano a ritrarre una societa` per molti aspetti premoderna come quella della Francia rivoluzionaria ma predefiniscono modalita` strutturalmente negative della socializzazione moderna: quali la massificazione, l’antagonismo sfrenato tra i singoli e il prevalere di una cultura dell’apparire su quella dell’essere. La cui caratterizzazione negativa, ripresa appunto e approfondita da una parte sostanziale della cultura dell’800 e del ’900, contribuisce a inaugurare, accanto ad una interpretazione positiva e progressiva della civilizzazione contemporanea, una visione e un’autocoscienza di essa profondamente negativa e alimentata da una polemica radicale. La societa` civile (che per Rousseau, scrittore del ’700, vale ancora come sinonimo di societa` in quanto tale, associazione degli esseri umani al di la` dello stato di natura) e` infatti, nel suo pensiero, caratterizzata dallo sviluppo delle tecniche e delle specializzazioni conoscitive, dalla capacita` di produrre piu` beni e ricchezze materiali – insomma da cio` che dai piu` viene chiamato il progresso – ma senza poter impedire che a tale progresso materiale si accompagni una progressiva disumanizzazione e una profonda decadenza morale. Questa distinzione, fino all’opposizione, tra progresso da un lato e autentica civilizzazione umana dall’altro deriva dal fatto, cosı` pensa Rousseau smentendo il paradigma fondamentale dell’illuminismo inglese, che non si puo` dar vita a una societa` ben regolata ed armonica tra le sue varie parti, facendo nascere l’interesse comune dalla somma degli interessi privati

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e individuali. L’interesse rivolto al proprio utile e` invece per principio esclusivo di quello di tutti gli altri e l’antagonismo degli interessi e` percio` “la fonte funesta delle violenze, dei tradimenti, delle perfidie e di tutti gli orrori a cui si e` costretti necessariamente da uno stato di cose in cui ciascuno, fingendo di lavorare alla fortuna o alla reputazione degli altri, non aspira in realta` che a sollevare la propria al di sopra degli altri e a loro spese”. Il regresso morale e` dunque l’altra faccia di un progresso materiale realizzato a un legame sociale che unisce gli esseri umani solo in quanto essi si contrappongono gli uni agli altri. Di qui una vita sociale segnata, anziche´ dalla stima, dal riconoscimento e dalla benevolenza reciproche, dalla diseguaglianza materiale e spirituale, dalle differenze di potere e di opportunita` e da un amor proprio che rende impossibile vivere insieme “senza prevenirsi, ingannarsi, tradirsi, distruggersi reciprocamente”. Vincolato agli altri attraverso un nesso solo esteriore e strumentale, ciascuno rende se stesso solo esteriore a se stesso, vivendo di mode collettive e di stereotipi, per essere accettato e riconosciuto non solo eguale ma superiore a tutti gli altri. La societa` civile, istituita sulla proprieta` privata (“il primo che, recintato un terreno, ebbe l’idea di dire: Questo e` mio, e trovo` persone cosi ingenue da credergli, fu, il vero fondatore della societa` civile”)2, conduce pertanto a un desolante appiattimento degli esseri umani e a una loro generale estraneazione. Nato buono per natura, l’essere umano si guasta e diventa estraneo a se stesso solo per un’operazione sociale sbagliata, tant’e` che, teorizza Rousseau, il male trova la sua origine, ne´ nella coscienza e nelle motivazioni del singolo ne´ in volonta` soprannaturali o diaboliche, ma in cause unicamente sociali. Per giungere a un’equilibrata mediazione d’interesse personale ed interesse comune non rimane, secondo il pensatore ginevrino, che affidarsi ad una adeguata organizzazione politica della societa`, a un nuovo Contratto sociale, in cui i singoli possano cedere completamente, senza residuo alcuno, la loro liberta` personale e tutti i diritti che ne conseguono alla comunita`, col patto di dar vita a una volonta` generale, animata non dalla sommatoria degli interessi individuali ma da uno spirito realmente unitario e comunitario, che tornera` a riconsegnare a ciascuno il diritto a una propria vita sicura ed armoniosa, rafforzato pero` e moltiplicato, in questa restituzione al singolo, dalla garanzia della volonta`, non di quell’individuo, bensı` di tutti. Come dunque concepire e risolvere il problema di fondo che la 2 J.-J. Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 133.

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modernita` pone alla filosofia e, propriamente alla filosofia in quanto filosofia politica? Ossia come concepire una socializzazione di massa, a cui abbiano accesso tutti, anche i ceti fin qui esclusi dalla storia: ma curando di sottrarsi alla possibilita`, strutturalmente implicita in tale passaggio epocale, della massificazione? Con il pericolo cioe` di negare proprio quella libera individualita`, che si vuole invece garantire universalmente? Le quattro ipotesi filosofiche, concepite tra la fine del ’700 e la prima meta` dell’800, che ora esamineremo, vanno viste alla luce di tale questione – che per noi e` la «questione» in quanto tale – e, rispetto ad essa, valutate nel loro grado di coerenza e di fecondita`.

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LA SOLUZIONE KANTIANA

1. Dall’«oggetto» al «soggetto» Se la Rivoluzione francese e` l’evento per eccellenza che da` forma politica al tempo moderno, la filosofia di Immanuel Kant1 e` in quello stesso periodo di tempo il pensiero che, per eccellenza, si presenta come filosofia della modernita`. Nel senso che, rispecchiandosi e riassumendosi nell’opera di Kant, la storia moderna prende coscienza di se´, tra la fine del ’700 e l’inizio dell’800, della sua originarieta`, dei suoi nuovi valori e dei suoi nuovi princı`pi costitutivi, rispetto alle forme precedenti di vita e di civilta` storiche. La filosofia di Kant possiede cioe` per la modernita` lo stesso senso che per l’antichita` e il medioevo ha avuto l’opera di Aristotele: quello di offrire una visione complessiva dell’esperienza e del mondo, una summa interpretativa generale, da cui poter ricavare criteri conoscitivi e metodi di comportamento validi per i piu` diversi piani della realta`. Con la composizione delle sue tre «Critiche» – rispettivamente la Critica della ragion pura, la Critica della ragion pratica e la Critica della facolta` di giudicare –, con opere come 1

Immanuel Kant (1724-1804) nacque, da un modesto sellaio, a Ko¨nisberg, dove trascorse per intero la sua vita. Educato dalla madre secondo una profonda sensibilita` morale ispirata alle dottrine del ‘‘pietismo’’ tedesco, s’iscrisse all’Universita` nel 1740. Perduto il padre, fece il precettore in numerose famiglie. Ottenne l’abilitazione all’insegnamento universitario nel 1755 con una Dissertazione sui primi princı`pi della conoscenza metafisica. Nella sua lunga carriera di professore insegno` diverse discipline, tra cui la matematica, la geografia fisica, la matematica, la fisica, la logica, la metafisica, la filosofia morale, il diritto naturale, l’antropologia e la teologia naturale. Perdute nell’ultimo anno di vita completamente la vista e la memoria, si spense all’eta` di 80 anni. Tra le sue numerosissime opere ricordiamo, oltre alle tre Critiche, i vari saggi etico-politici e la grande opera, rimasta incompiuta, i cui frammenti saranno successivamente raccolti nel cosiddetto Opus postumum.

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l’Antropologia pragmatica, la Metafisica dei costumi, La religione entro i limiti della pura ragione e con saggi come Idea di una storia universale, la Risposta alla domanda: che cos’e` l’illuminismo?, e Per la pace perpetua, Kant ha infatti indagato tutti i campi del sapere: dalla scienza matematica e fisica della natura ai vari ambiti dell’umano, a cosa significhi conoscenza e verita`, quale sia la definizione del “bene”, quale sia il criterio del “bello”, cosa significhi religione, quale debba essere la forma e le istituzioni dello Stato. E come Aristotele aveva ricondotto l’intera varieta` del mondo sensibile e sovrasensibile sotto l’unita` e la chiave di volta della sostanza, cosı` Kant fa principio unificante e supremo di tutta la realta` la soggettivita`. E` il soggetto infatti, e la sua centralita`, che costituisce nella sua filosofia il principio organizzativo e formativo dell’intero mondo, anzi addirittura la condizione di possibilita` del suo stesso esistere. E, com’e` noto, e` in primo luogo nella teoria della conoscenza, esposta nella Critica della ragion pura, che Kant mostra tutta la radicalita` del suo soggettivismo e la modernita` del suo modo di pensare rispetto alle filosofie precedenti. Se la verita` non puo` consistere di puri princı`pi e costruzioni di ragione, basati sull’evidenza di idee innate e indipendenti dalla fallacia e dalla volubilita` dei nostri sensi, come pure avevano teorizzato i grandi sistemi razionalistici del ’600 e del ’700 (di Cartesio, Spinoza, Leibniz), e` per altro assai chiaro per il filosofo di Ko¨nigsberg che la verita` neanche possa derivare dall’associazione e dalla composizione meccanica di sensazioni, come vuole la tradizione dell’empirismo inglese. Il soggetto umano infatti per Kant conosce solo in quanto e` soggetto di sintesi, cioe` in quanto organizza in una figura unitaria e determinata prima – e poi in un orizzonte ulteriore di nessi tra piu` figure – una molteplicita` di dati dell’esperienza, che senza l’intervento di quella sintesi rimarrebbero irrelati, caotici e informi. I cinque sensi dell’essere umano, modificati dal mondo esterno, apportano alla coscienza un ammasso di sensazioni che non darebbero vita ad alcuna figura e rappresentazione concreta se non venissero unificate e rese coerenti tra loro da forme mentali, capaci di per se´ di una forza di sintesi e di connessione, che per Kant sono presenti in ciascuno di noi nelle due facolta` della sensibilita` e dell’intelletto. Modi d’intervenire e di agire sulla massa delle modificazioni sensoriali che Kant definisce “trascendentali”: funzioni operative cioe` della mente che trascendono l’esperienza del mondo esterno, in quanto anziche´ dipenderne la rendono invece possibile, dando ad essa forma, ma che nello stesso tempo non sono trascendenti in senso platonico e metafisico, cioe` non sono sovrasensibili, perche´ invece hanno vita e senso solo nell’esperienza sensibile e attraverso di essa.

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LA SOLUZIONE KANTIANA

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Nel conoscere, e in particolare in quel campo supremo di conoscenza che per Kant e` la scienza matematica della natura, il soggetto conoscente e` dunque fondamentalmente attivo. Rispetto alla filosofia antica, medievale e premoderna in cui l’assetto della realta` dipende essenzialmente dall’assetto e dal valore dell’oggetto (sia esso «sostanza», «Essere», «Dio», «idea») e il soggetto deve solo approssimarsi ed adeguarsi ad esso, Kant, approfondendo l’eredita` migliore della filosofia moderna da Cartesio a Locke e a Hume, compie, per usare le sue parole, quella stessa rivoluzione che Copernico ha compiuto in astronomia, rovesciando l’antico sistema tolemaico, e ponendo, non la terra, ma le stelle e il sole al centro della spiegazione dei fenomeni celesti. Non il soggetto dipende da un mondo oggettivo, la cui esistenza e autonomia sarebbe come per gli antichi indifferente alla presenza o meno di un soggetto, ma, viceversa, il mondo oggettivo dipende dal soggetto e dalla centralita` delle sue funzioni sintetiche, senza l’operare delle quali il mondo non riesce neppure a nascere all’esistenza e alla coscienza. Spazio, tempo, legge di causa ed effetto, principio di simultaneita` e di azione reciproca – insomma tutte le principali categorie con cui matematica e fisica moderne interpretano il mondo – non sono dati oggettivi bensı` interventi di quella soggettivita` trascendentale, che opera in ciascuno di noi allo stesso modo e la cui attivita` culmina in quella funzione suprema di sintesi, che nella nostra mente e` costituita dall’‘‘Io penso’’. Le forme trascendentali attraverso le quali il soggetto da` forma al mondo non appartengono infatti agli aspetti piu` individuali della nostra persona – a quelli cioe` per cui ciascuno e` diverso dagli altri – bensı` alle caratteristiche e ai modi di agire della mente che sono invece comuni a tutti e che sono dunque universali. Di cui massimo esempio e` appunto la funzione dell’“Io penso”, la coscienza cioe` che, qualsiasi contenuto possiamo pensare, siamo comunque presenti a noi stessi, siamo cioe` autocoscienti del nostro pensare. L’“Io penso”, l’autocoscienza, corrisponde alla percezione interiore di non poter mai uscire dalla nostra soggettivita` pensante ed e` infatti la percezione che, come rappresentazione e senso di se´ sempre presente, non puo` non accompagnare tutta la nostra vita di pensiero e d’esperienza. E che, come tale, non puo` non essere presente in modo eguale in tutti gli esseri umani. Giacche´ nessuno di noi puo` saltare fuori dalla propria coscienza, da quella presenza cioe` alle cose e al mondo, che, nel suo essere principio di ogni possibile conoscere, non puo` mai, essa, essere resa a sua volta oggetto analitico di conoscenza. La rivoluzione copernicana compiuta da Kant nella filosofia s’esprime dunque nel modo piu` esplicito nell’affermazione che, solo perche´ io posso

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riunire in un’unica e sempre eguale autocoscienza il molteplice, di per se´ caotico e multiforme, delle mie sensazioni e rappresentazioni, intessendolo attraverso la continuita` di un unico filo, nasce il mondo e la sua struttura ordinata e sensata di oggetti. Cosı` come del resto per il generarsi e il prender corpo della realta` appare imprescindibile anche un’altra funzione trascendentale della soggettivita`, qual e` quella costituita dalla “capacita` riproduttiva d’immaginazione”: ossia la capacita` di riprodurre nella memoria l’immagine di un’esperienza appena trascorsa, senza che l’oggetto ad essa corrispondente sia ormai piu` realmente presente e percepito. Giacche´ solo questa capacita` del soggetto di presentificare, attraverso il ricordo, il passato, consente anch’essa (in quanto funzione di sintesi) che un unico tempo stringa e unisca il trascorrere, altrimenti disgregabile in una molteplicita` di tempi, dell’esperienza. Capacita` di sintesi, che e` necessaria addirittura per rendere concepibile finanche il darsi di un’unica e sola rappresentazione composta di piu` lati, giacche´ se perdessi la coscienza dei lati appena percepiti e trascorsi mentre volgo il pensiero verso i lati seguenti, se non fossi cioe` capace costantemente di riprodurli, di nuovo non ci sarebbe oggetto ed esperienza alcuna. Il mondo del nostro conoscere e` dunque per Kant un mondo fenomenico (dal greco phaı´nomai = mi mostro, appaio), costituito da eventi la cui realta` coincide con il loro apparire a noi, soggetti conoscenti. Del loro essere ‘‘cose in se´’’, cioe` del loro vivere ed esistere indipendentemente da un soggetto umano che li percepisca, non possiamo dire nulla. Il mondo oggettivo, senza il soggetto e la sua centralita`, e` solo un’incognita, una «x», un’ipotesi che sta al di fuori dei nostri organi di senso e di riflessione (un mondo “noumenico”, come Kant anche lo chiama, per differenziarlo dal mondo fenomenico). In un contesto in cui fenomeno (o apparenza), e` chiaro da quanto abbiamo detto, non e` sinonimo per Kant di falsita` o inconsistenza, bensı` e` sinonimo di mondo della natura ordinato e strutturato secondo l’obiettivita` della scienza fisicomatematica, cioe` secondo quei parametri di tempo e spazio e quei princı`pi di causalita` e di azione reciproca con i quali la nostra mente e` obbligata a percepire e a conoscere il mondo. Ma con la chiara consapevolezza che la scienza e le sue verita` non si occupano di idee metafisiche e inconoscibili, come quelle di Dio, dell’anima e del mondo in se´, bensı` solo, rigorosamente parlando, di affezioni e modificazioni rappresentative della nostra soggettivita`. E dove quindi “oggettivo”, a sottolineare l’enorme scarto che ormai precipita nella storia della filosofia moderna con Kant, e` sinonimo ormai, senza differenza alcuna, di “soggettivo” (ovviamente nel senso non individualistico e psicologico ma nel senso di cio` che vale per tutti e che non puo` non apparire a tutti obbligatoriamente nello stesso modo).

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LA SOLUZIONE KANTIANA

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2. Una purissima liberta` della «forma» Se il mondo kantiano del conoscere e del sapere ha al suo centro la soggettivita`, cio` vale ancor di piu` per il mondo dell’agire, per la definizione dei criteri del bene e del male e per quella filosofia morale che Kant consegna alla Critica della ragion pratica. E` questa infatti l’opera in cui il grande pensatore di Ko¨nigsberg, dando una definizione originalissima di cio` che sia liberta` nell’essere umano, radicalizza ancor di piu` la centralita` e la funzione del soggetto. La distinzione tra cio` che e` bene e cio` che e` male, teorizza Kant, deve essere compiuta solo dalla mente umana, nella sua piu` assoluta indipendenza da ogni fonte di costrizione, giacche´ altrimenti quella distinzione sarebbe solo imposta dall’esterno in modo autoritario. La legge morale, in cui si riassume il criterio di cio` che va fatto e di cio` che non va fatto, deve quindi essere autonoma da ogni potere, sia politico che confessionalereligioso (perche´ in tal caso il soggetto che ubbidirebbe sarebbe un soggetto ancora infantile e bisognoso di una guida paterna). Ma il soggetto morale deve essere indipendente nello stesso tempo anche dalle pulsioni e dai desideri che nascono dalla sua interiorita`, dalla corporeita` e dalla felicita` cui essa tende, perche´ anche in tal caso la ragione umana si troverebbe a dipendere da qualcosa altro da se´: come appunto la sensibilita` e le passioni ad essa connesse. Cosı`, per poter essere radicalmente autonoma – nel senso di non dipendere da nulla fuori di se´ – la libera ragione umana non puo` che concepire e definire un criterio del bene e del male che non sia altro che “formale”, privo cioe` di qualsiasi indicazione concreta di contenuto. Perche´ se il criterio del bene e del male venisse definito secondo un qualche contenuto e un qualche comportamento particolare, quel criterio varrebbe probabilmente solo per gli uomini di un determinato spazio e tempo, cioe` di una determinato contesto storico. Mentre per Kant, pensatore illuminista e cosmopolita, quel criterio, per avere dignita` e valida, deve valere per gli uomini di ogni tempo e di ogni spazio: ossia deve essere universale. Ma concepire una legge, non secondo il suo contenuto, ma solo secondo la sua forma, significa appunto evidenziarne ed esplicitarne la caratteristica di universalita`, cioe` di estendibilita` e di applicabilita` a tutti, senza eccezione alcuna: qual e` appunto il carattere costitutivo di ogni legge in quanto tale, indipendentemente dal contenuto specifico di cui tratta e su cui legifera. Cosicche´ la legge morale per Kant si definisce secondo la seguente formulazione: “agisci unicamente secondo la norma [del tuo agire] che tu puoi volere ad un tempo che divenga legge universale”2. Dove il criterio cui 2

I. Kant, Fondamenti della metafisica dei costumi, La Nuova Italia, Firenze 1963, p. 118.

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appellarsi per agire moralmente non si trova, appunto, in alcuna indicazione concreta di comportamento, bensı´ nel compiere un’azione che possa essere compiuta universalmente da tutti. Coincide con l’azione morale per Kant infatti qualsiasi modo d’agire che superi il cosidetto test di universalizzazione3: ossia il perseguimento di un’azione che se, ipoteticamente estesa e generalizzata da me a tutti gli altri, non entri in contraddizione con se stessa. Com’e` testimoniato da Kant stesso col celebre esempio del “deposito”, il quale esemplifica – si badi per via negativa – attraverso cioe` l’individuazione di un’azione immorale, quale sia appunto il funzionamento del test di universalizzazione. Supposto infatti che mi sia lasciata da qualcuno, prima di una sua partenza, una somma di denaro in deposito, l’eventualita` che io non la restituissi una volta che quello tornasse a richiedermela – universalizzata a tutti come modalita` generalizzata di comportamento (ossia che ognuno non restituisse una somma lasciata presso di lui in deposito) – eliminerebbe l’atto stesso del depositare, del lasciare in custodia qualcosa presso qualcuno: giacche´ l’idea stessa del depositare entrerebbe in contraddi4 zione con se stessa, venendo meno ogni sua possibilita` reale d’esistenza . Una teoria morale di questo genere, come questa formulata da Kant in base alla sola forma della legge, distingue dunque tra il bene e il male non in base alla volonta` rivelata di un Dio, o alle consuetudini di una maggioranza, o al desiderio e all’utile psicologico e privato di un singolo. Ma in base alla sola forza e creativita` della ragione umana, la quale e` la facolta` che per definizione si occupa dell’universale (a differenza dei sensi, degli affetti o della fantasia che hanno come oggetto sempre il particolare), e che da` prova della sua totale liberta`, non condizionata da nessuna altra fonte, creando dalla mera forma dell’universale un contenuto vero e proprio di realta`, quale appunto la codificazione di una legge morale, secondo il cui criterio possano vivere e atteggiarsi concretamente nella loro vita e nelle loro azioni tutti gli essere umani. Il respiro da grande filosofo illuminista e cosmopolita, che e` proprio di Kant, gli impone dunque, nella sua teoria del bene e del male, di concepire un principio d’azione che sia del tutto libero ed autonomo; non fondato su aspirazioni private alla felicita` e capace di valere per l’intero genere umano, tant’e` che un’altra formulazione della suprema legge della ragione morale suona: “agisci in modo da trattare l’umanita` tanto nella tua persona quanto nella persona di 5 ogni altro, sempre come fine e mai semplicemente come mezzo” . 3

Cfr. su cio` S. Landucci, La “critica della ragion pratica” di Kant, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1993, pp. 61-69. 4 I. Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari 1966, p. 33. 5 I. Kant, Fondamenti della metafisica dei costumi, La Nuova Italia, Firenze 1963, p. 133.

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LA SOLUZIONE KANTIANA

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3. Uno Stato solo «negativo» La Critica della ragion pratica teorizza dunque una filosofia dell’agire morale solo formale e per nulla contenutistica. La quale teorizza che cio` che sia il bene, si ricava dalla sola forma di legge, ossia dal grado di universalita` che l’essere umano puo` imporre al suo agire. Analogamente formalistica e non contenutistica e` la teoria dello Stato e del diritto che Kant ha definito sia in opere piu` organiche, come La metafisica dei costumi, che in saggi piu` brevi, come quello sul Sul detto comune. Lo Stato infatti per Kant non deve mai intervenire nella vita del cittadino, dicendo cio` che essi devono fare. Deve invece prescrivere solo cio` che essi non devono fare, stabilendo dei confini, dei limiti, alla liberta` di ciascuno, affinche´ il suo realizzarsi non danneggi la liberta` di tutti gli altri. In questo modo di considerare le cose il valore supremo e` infatti la liberta` del singolo, la sua possibilita` di disporre in piena autonomia della sua vita, e lo Stato, lungi dall’intervenire prescrivendo in positivo come vivere – come accade negli Stati autoritari e paternalistici – deve solo organizzare la forma generale, la cornice delle regole limitanti che consentino il massimo sviluppo della liberta` d’ognuno senza danni per la liberta` degli altri. “Qualsiasi azione e` conforme al diritto quando per mezzo di essa, o secondo la sua massima, la liberta` dell’arbitrio di ognuno puo` coesistere con la liberta` di ogni altro secondo una legge universale”6. Il diritto consiste percio` nell’affermarsi e nel coesistere delle liberta` individuali, a patto ch’esse si riconoscano reciprocamente, secondo una norma di limitazione generale e valida per tutti. La legge universale del diritto suona cosı` per Kant: “Agisci esternamente in modo che il libero uso del tuo arbitrio possa coesistere con la liberta` di ognuno secondo una legge universale”7. Ed appunto nell’identificare il diritto con il dovere di limitare, da parte d’ognuno, la propria liberta` secondo certe limitazioni valide per tutti, ben si esprime la concezione solo negativa o solo formale del diritto, la quale per Kant deve costituire il principio fondativo del liberalismo moderno: dove la priorita` di valore e la pregnanza di senso tocca al singolo individuo e lo Stato deve essere solo strumento e garanzia di tale liberta` e dignita` originarie. In coerenza con la rivoluzione copernicana portata avanti dalla sua filosofia, anche la teoria politica di Kant fa dunque del soggetto il principio costituzionale. La societa` puo` essere composta solo da individui, caratteriz6 7

I. Kant, La metafisica dei costumi, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 35. Ibidem.

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zati da liberta`, uguaglianza e indipendenza.: liberta`, nel senso che “nessuno puo` costringermi ad essere felice a suo modo, ma ad ognuno e` lecito ricercare la propria felicita` per la via che a lui sembra buona’’8; uguaglianza, nel senso che ciascuno e` sottoposto ai limiti e alla costrizione delle leggi al pari di ogni altro membro della comunita`; indipendenza, nel senso che i membri di tale societa` civile devono “non obbedire ad altra legge che non sia quella cui essi hanno dato il loro consenso”9. Lo Stato di diritto moderno, per garantire questi diritti che appartengono all’essere umano per natura, ma che possono essere sviluppati solo in una comunita` ordinata secondo leggi, deve avere una struttura costituzionale fondata su quella divisione dei poteri, che sola consente di evitare quel potere unico che e` invece tipico degli Stati assolutistici nei quali infatti invece che cittadini ci sono solo sudditi. Propriamente una distinzione articolata secondo il potere legislativo, in cui risiede la sovranita` dello Stato di decidere e promulgare le leggi e che puo` spettare, contro ogni ipotesi assolutistica, solo alla volonta` collettiva del popolo; secondo il potere governativo, che governa conformemente alle leggi; e secondo il potere giudiziario “che assegna a ciascuno il suo secondo la legge”10. Ed e` appunto solo uno Stato del genere, il quale attraverso la divisione dei poteri cancella ogni sorta di paternalismo e di autoritarismo, a poter porre, come scopo fondamentale del legame sociale, la difesa dello sviluppo della liberta` d’ognuno; e di quel diritto, che ne consegue, alla proprieta` delle cose e del mondo, la quale per Kant, coerentemente col suo soggettivismo, puo` essere solo privata e mai comunitaria. Quindi a consentire di poter vivere “in una societa` con gli altri tale, che in essa ognuno possa conservare cio` che gli appartiene”, ed in cui “ad ognuno possa essere assicurato il suo contro ogni altro”. Questa, in sintesi, la struttura dello “Stato di diritto” (Rechtsstaat) per il filosofo di Ko¨nigsberg, che accoglie sul piano della filosofia politica la lezione piu` avanzata del pensiero liberal-democratico europeo, da Montesquieu a Rousseau, oltre che le conquiste piu` progressive della Rivoluzione francese: in una visione che distingue ma anche connette organicamente morale e diritto, etica e politica. La prima volta a garantire il comportamento virtuoso dell’essere umano, attraverso una libera universalizzazione

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I. Kant, Sul detto comune: «cio` che puo` esser giusto in teoria, ma non vale per la prassi», in Stato di diritto e societa` civile, Editori Riuniti, Roma 1995, p. 154. 9 I. Kant, La metafisica dei costumi, cit., p. 143. 10 Ivi, p. 142.

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LA SOLUZIONE KANTIANA

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interiore, la seconda a produrre un comportamento giusto e corretto attraverso un’universalizzazione esteriore, posta in essere dalla forza coattiva dello Stato. Dove appunto legge interna e legge esterna cooperano, in modo diverso, ad impedire che la convivenza umana possa degenerare nell’abuso dei propri simili. Perche´ Kant e` ben consapevole della violenza degli istinti e delle passioni aggressive tra gli esseri umani (“L’uomo e` un animale che, se vive tra gli altri esseri della sua specie, ha bisogno di un padrone”11). Ma per altro e` ben partecipe della fede illuministica nel progresso della ragione, tanto da concepire una teoria generale della storia – una filosofia della storia – nella quale si sostiene che l’umanita` e` venuta e verra` regolando la sua vita sempre piu` attraverso i dettami e l’autodeterminazione universale della propria ragione, fino a creare, in un lontano ma possibile futuro, una confederazione dei popoli, o unificazione del genere umano, che estendera` le regole del diritto, oltre lo Stato, a tutti gli Stati. Assicurando in tal modo la scomparsa di ogni possibile guerra e la costituzione di una pace perpetua. Anche perche´ la stessa “insocievole socievolezza” degli esseri umani, la loro tendenza, non a riunirsi, ma ad opporsi l’un l’altro e a volgere ogni cosa secondo il proprio desiderio, non e` qualcosa di negativo. La concorrenza, l’emulazione, il desiderio di ricchezza, d’onore, di potenza costituiscono infatti i mezzi di cui la natura si serve, perche´ ciascuno sviluppi al suo meglio le capacita` e le potenzialita` che ha dentro di se´, “come gli alberi in un bosco, per il fatto appunto che ognuno cerca di togliere aria e sole all’altro, si costringono reciprocamente a cercare l’una e l’altro al di sopra di se´ e percio` crescono belli e diritti, mentre gli alberi che isolati fra loro mettono rami a piacere, crescono storpi, storti e tortuosi”12. Cosı` se lo scopo della natura e` quello di poter sviluppare tutte le attitudini e le facolta` dell’umanita`, come per altro quelle proprie di tutte le altre specie e generi naturali, lo Stato di diritto e` quello che meglio garantisce la maturazione individuale e collettiva della societa` umana. Col consentire un antagonismo generalizzato dei suoi membri, e dunque un approfondimento della liberta` di ciascuno, ma nel limite piu` rigoroso imposto, attraverso le leggi, dal rispetto delle reciproche liberta`: fino a quella creazione suprema della ragione che sara` appunto l’istituzione di una grande lega dei popoli, dove la forza universalizzante del diritto tradurra` anche l’antagonismo delle 11

I. Kant, Idee per una storia universale da un punto di vista cosmopolitico, in Stato di diritto e societa` civile, cit., p. 104. 12 Ivi, p. 104.

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nazioni nel mezzo piu` fecondo per l’elevazione spirituale ed etico-razionale dell’intera civilta` umana. E` con questa sistematicita` ed organicita` di pensiero che Immanuel Kant si presenta, dunque, come eroe eponimo (che da` il nome) della modernita`. Ma senza per altro dimenticare, riguardo a una concezione cosı` rigorosa del liberalismo moderno, che anche Kant, come autore del suo tempo, ha avuto difficolta` ad affrancarsi del tutto da un orizzonte storico in cui il passaggio dalla premodernita` alla modernita` era ancora incerto e incompleto, risentendo ancora fortemente di una struttura sociale articolata, non su liberi cittadini, ma su ordini e corporazioni della societa` precetuale. Cosı` anche per Kant, malgrado il suo universalismo, non tutti gli uomini, sul piano dei diritti politici, sono uguali. Sono infatti cittadini a pieno titolo, e dotati percio` di diritto di voto, solo coloro che possiedono una proprieta` che consenta loro di essere “padroni di se´”, mentre non hanno accesso a una “personalita` civile” tutti coloro che, privi di una proprieta` non possono mantenere se stessi e per vivere “cedono l’uso delle proprie forze all’altro”, come il domestico e il commesso di bottega, chi lavora a giornata, il bracciante agricolo, il precettore privato e il servo13. Solo chi e` autenticamente soggetto, cioe` solo chi e` autonomo e non dipende da altri fuori di se´ – secondo il motivo di fondo che percorre l’intera sua filosofia – puo` partecipare alla cosa pubblica. E il criterio di questa autonomia, in ambito economico e civile, e` un criterio di proprieta`; altrimenti si e` in una condizione servile, la quale, come tale, esclude dal partecipare alla sovranita` popolare.

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Ivi, pp. 269-270.

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LA SOLUZIONE HEGELIANA

1. Dall’«Io penso» all’Io come divenire di se´ Il sistema filosofico che Kant consegna alla modernita` poggia sulla pietra di volta della liberta` del soggetto. Il modo in cui tale liberta` e` stata definita, abbiamo visto, sintetizza ed esalta la civilta` dell’Illuminismo. La liberta` e` stata identificata nella ragione e nella sua capacita` di dare senso e leggi al mondo, naturale e umano, in modo a priori: ossia in modo autonomo, a partire solo da se´ stessa, e senza dipendere ne´ dalle circostanze storiche ed ambientali ne´ dalla corporeita` e dall’emotivita` dell’essere umano. Dalla radicalizzazione e dall’approfondimento di questa concezione della liberta`, ma anche dalla sua critica e dal suo superamento, nasce l’altra grande ipotesi sulla modernita` avanzata dalla cultura europea dei primi dell’800: quella dell’idealismo tedesco di Fichte e Schelling e, in modo particolare, di Hegel. Se la ragione costituisce con Kant il principio generale di organizzazione della realta`, cio` su cui comincia a riflettere la filosofia tedesca postkantiana, anche in base a delle problematiche avvertite, va detto, dallo stesso Kant, e` che quella ragione forse e` ancora troppo rigidamente protetta dai suoi confini. E` infatti una ragione che non si estende al mondo delle “cose in se´”, dei “noumeni”, ma che, soprattutto, si divide ancora tra una ragione conoscitiva, che costruisce la scienza, e una ragione pratica che costruisce la morale, lasciando fuori di se´ quella facolta` del sentire estetico che da` vita al mondo dell’arte. E` una ragione cioe` che scinde ancora troppo se stessa e l’essere umano in una serie di facolta` e componenti, troppo rigidamente distinte, e non armonicamente mediate e partecipi l’una dell’altra. Sollecitata anche dai valori che il Romanticismo viene esprimendo in campo letterario (si pensi all’opera di Schiller e di Goethe), la filosofia

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postkantiana si volge cosı` a intensificare la teoria kantiana della liberta`, provandosi a concepire un Assoluto di liberta` che non venga limitato e condizionato da nulla fuori di se´ e che, nello stesso tempo, sia capace, al suo interno, di unificare l’intero ambito dell’esperienza umana secondo una forza e un’efficacia di universalizzazione che eviti scissioni, umanita` parziali e unilaterali, irrigidite dallo sviluppo asimmetrico di una facolta` a scapito delle altre. Ed e` appunto a Johann Fichte1, con la sua filosofia dell’‘‘Io’’ e del ‘‘non-Io’’, che si deve la prima formulazione di un Assoluto che non ha piu` nulla a che vedere con il Dio della tradizione religiosa e metafisica ma che coincide, invece, con l’Io, quale soggettivita` e principio dell’intera realta`: un Io pero`, si badi bene, che ora trova la sua piu` profonda identita` non piu` nella teoria, bensı` nella prassi. Infatti Fichte, elaborando, nel senso del superamento, le caratteristiche ancora fortemente teoretiche presenti nell’Io kantiano (quale, abbiamo visto l’autocoscienza di se´ nell’‘‘Io penso’’ della Critica della ragion pura o l’autocoscienza della ragione come pura forma dell’universale nella deduzione del principio morale nella Critica della ragione pratica), assegna al soggetto una natura e un carattere essenzialmente pratici, fondati sull’agire. La funzione piu` propria dell’Io – cosı` si afferma nella Dottrina della scienza, l’opera piu` famosa di Fichte – consiste nell’attivita` di porre i propri presupposti. Ossia di non accettare come valido nessun dato che gli venga proposto come tale dalla tradizione, dalla storia, dai costumi o da qualsiasi autorita` esterna, sia politica che culturale, bensı` di accettare solo cio` e` passato attraverso il proprio vaglio critico, solo cio` che e` stato assimilato e appropriato dall’Io stesso e, come tale, prodotto e posto dallo stesso Se´. La liberta` del soggetto moderno consiste cioe` nel non accogliere nulla come impostagli dall’esterno e nel riconoscere solo cio` che e` posto dalla propria interiorita`. L’Io e` percio` essenzialmente azione, che toglie progressivamente i limiti e le catene di un mondo esterno che gli appare come ‘‘non-Io’’, per tradurli in determinazioni e posizioni dell’Io stesso. Ed e` Io pratico anche quando conosce, 1 Johann G. Fichte (1762-1814). Nato da una famiglia poverissima – e` il primo degli otto figli di un tessitore – si appassiona alla filosofia di Kant, decisiva per la sua formazione. Da giovane scrive alcuni saggi a favore della Rivoluzione francese, Rivendicazione della liberta` di pensiero (1793), Contributo per rettificare i giudizi del pubblico sulla Rivoluzione francese (1793-1794). Viene chiamato come professore di filosofia all’Universita` di Jena, da dove viene allontanato per avere alimentato questioni di critica della religione, nella famosa “disputa sull’ateismo” (Atheismusstreit). Alla fondazione dell’Universita` di Berlino (1810) viene nominato professore di filosofia, fino a diventare rettore. Le sue opere principali sono, oltre la fondamentale Dottrina della scienza, nelle sue varie versioni, il Fondamento del diritto naturale (1796-1797) e il Sistema di etica (1798).

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LA SOLUZIONE HEGELIANA

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come accade con la scienza della natura, quando, attraverso la definizione di leggi universali, assimila comunque a se´, e alla propria dinamica infinita e universale, l’eterogeneita` del mondo oggettivo. La natura dell’Io e` percio` di essere prassi trasformatrice, che traduce senza fine il non-Io in Io e che, in questo trasformarsi infinito si fa appunto Assoluto (ab-solutus): sciolto e indipendente da qualsiasi presupposto esterno che possa condizionare e mortificare la propria liberta` e spontaneita`. Con questa concezione del soggetto, la cui identita` non e` presupposta, data fin dall’inizio, bensı` e` un divenire – propriamente un divenire se stesso –, Fichte trasforma e complica, e` evidente, la pietra di volta della filosofia moderna. Perche´ se quest’ultima, come abbiamo gia` detto, rovescia il primato che la filosofia antica aveva assegnato al mondo oggettivo rispetto al soggetto, celebrando, da Cartesio a Kant, nel soggetto pensante e conoscente il principio di senso, se non addirittura di costruzione, del mondo oggettivo, la teoria fichtiana dell’Io, come toglimento inesauribile del non-Io, disloca a sua volta la natura piu` profonda della soggettivita` moderna dalla teoria alla prassi. L’identita` dell’Io, piu` che nell’‘‘Io penso’’, nell’autocoscienza conoscitiva (cioe` in qualcosa che si possiede da sempre, che e` cooriginaria e consustanziale con l’Io stesso), sta ora nel fare: nell’affrancarsi dai limiti e nel trovare se stesso solo come risultato di questo processo.

2. Dal bisogno alla dialettica con l’‘‘altro da se´’’ Ne´ e` un caso appunto che da tale concezione del soggetto, concepito quale divenire se stesso, e dal profondo rivolgimento di paradigmi teorici e culturali che mette in moto, derivi quell’altra componente fondamentale della cultura moderna, che si affianca parallelamente alla filosofia del liberalismo e del soggettivismo kantiano e che trova la sua fondazione piu` complessa e sistematica nella filosofia dialettica di Hegel2, il piu` noto filosofo 2 G.W.F. Hegel (1770-1831). Studia e teologia a Tubinga, dove stringe amicizia con Ho¨lderlin e Schelling. Tra i suoi scritti giovanili va ricordato in particolare Lo spirito del cristianesimo e il suo destino. Dopo aver insegnato come Privatdozent all’Universita` di Jena, e` stato preside e rettore di filosofia al ginnasio di Norimberga. Ma svolge la sua posizione egemone nella cultura tedesca del primo ’800 soprattutto attraverso il suo insegnamento presso l’Universita` di Berlino, dove e` chiamato dal 1818. Muore, sembra, per un attacco di colera. Tra le sue opere ricordiamo, oltre i due volumi della Scienza della logica (1812-1816) e l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817), le numerosissime lezioni (Lezioni di filosofia della storia, Lezioni di storia della filosofia, Lezioni di filosofia della religione, Lezioni di estetica) trascritte dai suoi allievi e pubblicate postume.

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dell’idealismo tedesco. Gia` la Fenomenologia dello spirito, la prima delle grandi opere hegeliane, scritta a Jena nel 1807, contiene infatti in modo assai chiaro l’esposizione di quelli che appaiono ad Hegel i limiti della visione kantiana dell’essere umano, e la necessita` percio` di porre a base della modernita` una nuova antropologia. Il fondamento in cui l’Io dell’essere umano trova la sua identita` piu` certa anche per Hegel infatti non e`, in modo ancora piu` esplicito e radicale di Fichte, l’immediatezza dell’‘‘Io penso’’. Non e` l’autocoscienza, quale certezza interiore di se´, e quale presenza costante a se stesso di un soggetto che ha un rapporto prevalentemente conoscitivo con il mondo degli oggetti. Ne´ piu` in generale il senso di vita dell’essere umano si conchiude per il filosofo di Stoccarda nel rapportarsi, non solo teorico ma anche pratico, di un soggetto, in qualche modo in se´ individuato e compiuto, verso gli oggetti: non si conchiude cioe` nel rapporto soggetto-oggetto. Giacche´ per Hegel, ben oltre Kant e la sua caratterizzazione essenzialmente conoscitiva dell’Io, neanche la raffigurazione di un’individualita` che, mossa da bisogni, entri in una relazione strumentale, di uso e consumo con la realta` esterna per soddisfare le proprie necessita`, e` sufficiente a dar conto della vera natura dell’essere umano. Infatti ciascuno di noi, oltre ad essere soggetto di una ragione conoscitivo-osservativa e oltre ad essere soggetto di una corporeita` fatta di bisogni ed appetiti, e` soggetto che trova il suo soddisfacimento piu` profondo, la sua identita` piu` vera, solo nell’essere riconosciuto nel suo valore di individuo e di persona da un essere umano a lui simile, ossia nel riconoscimento da parte di un altro soggetto. “L’autocoscienza raggiunge il suo appagamento solo in un’altra autocoscienza [...]. L’autocoscienza e` in e per se´ in quanto essa e` in e per se´ per un’altra; ossia essa e` soltanto come un qualcosa di riconosciuto”3. Senza il riconoscimento della propria esistenza, della propria irripetibile individualita`, da parte di un altro (o da parte di altri) non si da` dunque per Hegel autentica esistenza umana. La certezza piu` radicale dell’Io sta in un rapporto originario e costitutivo con l’alterita` di un altro soggetto, che per questa sua funzione assolutamente necessaria cessa di essere qualcosa di altro ed esteriore, rispetto all’identita` del primo soggetto, facendosene invece condizione d’esistenza interiore ed ineliminabile. Da questa modificazione, assai profonda dello statuto e della collocazione dell’alterita`, nasce, in una marcata distinzione-opposizione rispetto alla visione di Kant, l’antropologia e la filosofia dialettica di Hegel. Il soggetto e` cio` 3

G.F.W. Hegel, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1967, p. 153.

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LA SOLUZIONE HEGELIANA

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che non e` in se´ autonomo ed autosufficiente ma solo cio` che, dipendente intrinsecamente dall’altro, e` capace di rispecchiarsi e di ritrovarsi nell’altro da se´. Ed appunto un soggetto di tale natura Hegel chiama “spirito” (Geist). Spirito e` infatti per lui il divenire che conduce un soggetto inizialmente povero di realta`, perche´ conchiuso in se´ stesso, a farsi altro da se´, ad attraversare cioe` l’alterita`, per ritornare in se stesso, ricco di quella mediazione e di quel confronto. E` l’‘‘in se´’’, che attraverso il ‘‘per altro’’, diviene ‘‘in se´ e per se´’’: ossia soggetto non presupposto come gia` costituito e definito dall’inizio, bensı` tale solo per un processo di fuoriuscita da se´ e di ritorno a se´. Di fronte a questa definizione di cosa sia la realta` “spirituale”, la realta` materiale, o piu` propriamente la “natura”, significa invece per Hegel un’esistenza particolare che conclude il suo orizzonte di vita nella sola riproduzione fisica della propria individualita` e che pertanto, oltre il proprio interesse immediato, vede quello degli altri solo come esteriore e conflittuale con il suo. La natura e` il regno atomistico dei particolari, che non si rendono conto dei legami che stringono la vita di ciascuno a quella degli altri e che non riescono ad attingere la prospettiva dell’universale, cioe` la visione di un’individualita` includente l’alterita`. Spirito e materia non designano dunque in Hegel due ambiti di realta` eterogenei ed opposti, com’e` avvenuto in genere nella tradizione filosofica, che spesso, valorizzandone un significato essenzialmente teologico-religioso, ha assegnato al termine di spirito il senso di una soggettivita` radicalmente altra e trascendente la materia, tanta diversa e superiore da valerne come entita` creatrice e legislatrice. O com’e` avvenuto al contrario, ma in modo solo rovesciato, per una prospettiva materialistica che ha privilegiato il valore della materia e della natura, facendo dello spirito solo un derivato e un debole riflesso della pregnanza del mondo materiale. Per Hegel spirito e materia (o natura) designano invece, anziche´ una contrapposizione dualistica di realta`, due diverse tipologie di comportamento, due diverse modalita` di consapevolezza. La “natura” corrisponde a un modo di relazionarsi a se stessi e di esser consapevoli di se stessi in quanto esistenza individuale, priva di relazioni strutturali e fondanti con l’alterita`, e dove il rapporto con l’altro da se´ viene dopo, o e` accidentale rispetto all’anteriorita` della propria individualita`. Lo “spirito” e` quel modo di essere consapevoli di se´ in quanto, invece, strutturalmente intrecciati con l’alterita`, e capaci dunque, non di perdersi, uscendo fuori di se´, bensı` di ritrovarsi in un’identita` piu` ricca e sicura proprio attraverso la mediazione e l’interiorizzazione dell’altro da se´. E appunto idealismo si definisce, nel suo senso piu` profondo, la filosofia

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di Hegel, in quanto i diversi piani della realta` – essenzialmente la natura, da un lato, e la storia umana, dall’altro – rimandano ai diversi modi possibili di autorappresentarsi e di aver coscienza di se´ da parte di un soggetto. La natura e` cosı` lo spirito “fuori di se´”, non nel senso creazionisticoteologico di un’entita` divina che uscirebbe da se´ per creare il mondo, ma nel senso di un piano dove le cose e gli individui, pur partecipando della vita dell’intero, non ne hanno consapevolezza alcuna, concentrati come sono sulla propria particolarita`; per cui sono del tutto estranei, quanto a consapevolezza, alla loro piu` vera realta`. Laddove solo la storia, attraverso lo svolgimento delle civilta`, e` in grado di accogliere e far maturare una spiritualita` in cui ogni singola esistenza si faccia sempre piu` consapevole e partecipe della totalita` da cui la sua vita e` sostenuta e prodotta. E dunque solo la storia e` l’ambito in cui la realta` della vita si solleva da un piano meramente naturalistico d’esistenza e di riproduzione di se´ per prodursi come una soggettivita` d’interesse e di mediazione universale. Questo divenire e formarsi della soggettivita`, questo passare progressivamente dall’incoscienza alla coscienza e` quanto Hegel definisce “dialettica”. Dialettica perche´ lo svolgimento in questione non e` lineare e meramente accumulativo, come avviene in un pianta nel passare dal seme al frutto (come ad es. nella concezione aristotelica della natura nel trascorrere degli enti dalla potenza all’atto): bensı` accade per scarti, per contraddizioni interiori. Nel senso che il soggetto che pretende di coincidere con una rappresentazione inadeguata, parziale e dogmatica di se´ (una rappresentazione, abbiamo detto, in genere individualistica e separata dalla vita degli altri, e prodotta da quell’attitudine mentale, separante ed astraente, che Hegel definisce “intelletto”) viene condotto dalla vita stessa, e dalla pregnanza delle relazioni che inconsapevolmente lo legano agli altri, ad uno scacco. A non poter coincidere con se stesso. Ad entrare cioe` in contraddizione con se´, trovando del tutto insoddisfacente la sua identita`, e ad essere percio` spinto (attraverso l’accoglimento di cio` che fin’allora aveva considerato solo mondo esterno e altro da se´) a produrre e trovare, di se´, un’identita` superiore e piu` ricca, proprio perche´ fecondata dall’alterita`. Ma l’idealismo di Hegel, va subito aggiunto, non si limita ad essere la teoria della maturazione concreta di una soggettivita`. E` certamente tutto questo: ma – e cio` non va assolutamente trascurato – nell’ambito di una concezione ancora fortemente metafisica e astratta della soggettivita`, i cui limiti non possono che imporre pesanti chiusure al suo sistema di pensiero. Il compimento dello sviluppo del soggetto, del Geist, la conclusione del suo processo di maturazione, e` infatti per Hegel il “sapere assoluto” o

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LA SOLUZIONE HEGELIANA

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“Idea”: cioe` un luogo in cui il soggetto, attraversato e assimilato a se` l’intero mondo, riconosce se´ stesso in ogni alterita`, senza differenza o residuo di distanza alcuno. Ed e` percio` perfetta autocoscienza, nella quale soggetto e oggetto s’identificano perfettamente in una totale trasparenza. O, detto in altre parole, e` un soggetto che non ha piu` ne´ un esterno ne´ un interno, giacche´ ogni alterita` dentro o fuori di se´ e` divenuta solo termine di riconoscimento e di assoluta sintonia. Questo soggetto conclusivo, del tutto trasparente a se stesso, e` l’Assoluto che stringe e sintetizza nella sua perfetta autocoscienza tutti i gradi del suo progressivo svolgimento e oltre il quale non v’e` possibilita` d’alcuna altra realta`, ne´ della natura ne´ della storia. Dove, com’e` evidente, l’idealismo di Hegel torna a proporre come criterio d’identificazione del soggetto, attraverso la luminosita` dell’autocoscienza, proprio quella coincidenza del pensiero con se stesso, celebrata dal razionalismo cartesiano e dalla dottrina kantiana dell’‘‘Io penso’’, che la filosofia postkantiana intendeva superare e che lo stesso Hegel aveva radicalmente criticato con la sua concezione di un’autocoscienza che trova se stessa solo in un’altra autocoscienza. Lo “Spirito assoluto” di Hegel torna invece ad essere un soggetto disincarnato e angelicato, concepito unicamente come specchio di se stesso, e la cui identita` solo teoretico-speculativa (appunto da speculum = specchio), posta alla fine dell’intero processo, rischia di curvare tutto il sistema hegeliano sotto il peso di una visione, in cui cio` che e` “spirito” torna ad avere un significato del tutto tradizionale e trascendente. Come rischia d’imporre alle varie figure della dialettica, dell’opposizione e della contraddizione – a tutta la fenomenologia cioe`, varia e concreta, dell’esistere, in cui prendono forma esistenze patologiche, perche´ problematicamente parziali e inadeguate – una tipologia rigida e predeterminata, giacche´ finalizzata dall’inizio a raggiungere un esito cosı` teoreticistico ed astratto.

3. Etica comunitaria e liberta` individuale E` tra una prospettiva della soggettivita` problematicamente aperta, nel confronto-scontro con l’altro da se´, e una prospettiva della soggettivita` conchiusa nell’assolutezza di un’identita` solo pensante, che si gioca dunque il senso dell’idealismo di Hegel, il quale per altro e` caratterizzato da una profonda implicazione e fecondazione di filosofia e storia, che fa del suo idealismo un singolare e ricchissimo storicismo. La storia e` infatti concepita da Hegel nell’altro che sul modello del Geist di cui abbiamo appena parlato: di un soggetto cioe` che acquista progressivamente coscienza di se´, e della destinazione relazionale-universale

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del suo vivere, superando l’iniziale rappresentazione naturalistica e individualistica del proprio se´. Visto che, come si e` detto, lo Spirito e` per Hegel il soggetto che supera la natura e il modo immediato di vita, privo di consapevolezza e riflessione, che e` propria della natura. La struttura della storia e` cosı` per Hegel null’altro che la realizzazione, sul piano del susseguirsi delle diverse epoche e civilta`, di questo progetto. Della fuoriuscita cioe` da una condizione primitiva e povera dell’esistenza umana e del suo modo di autorappresentare se´ stessa (in cui vige o una fusionalita` di gruppo, senza nessun senso dell’autonomia del singolo di fronte alla legge del collettivo, o un’individualismo senza coscienza alcuna del senso dell’alterita`) per passare progressivamente ad un’autocoscienza sempre piu` adeguata della propria realta`. In una processualita` storica, che conduce il Geist ad impossessarsi realmente di se´ e a produrre una forma di civilta` in cui, infine, la totalita` del collettivo viva della ricchezza e della molteplicita` delle liberta` individuali. La storia va dunque letta per Hegel filosoficamente, secondo il modello di un Assoluto che diventa progressivamente cosciente e padrone di se´. Va letta come una vera e propria filosofia della storia, secondo la quale le varie epoche e civilta` corrispondono ai vari gradi d’autocoscienza e di liberazione che il soggetto spirituale matura, in un senso lineare e progressivo, e dove a un singolo popolo e` assegnato, di volta il volta, di connotare e farsi protagonista, con la peculiarita` della sua cultura e della sua organizzazione della vita, del carattere di un’epoca. Cosı` la storia dell’umanita`, afferma Hegel nelle sue Lezioni di filosofia della storia, va vista in uno svolgimento che da Oriente va ad Occidente, passando da organizzazioni sociali basate sul comando di uno solo e sulla sudditanza di massa e indifferenziata di tutti, come nell’antico Impero di Cina, a sistemi di liberta` e di partecipazione politica piu` ampi come nella Grecia antica e nell’antica Roma repubblicana, fino a giungere, attraverso il Cristianesimo – e il suo eguagliamento di tutti gli esseri umani, senza distinzione alcuna, in quanto tutti figli di Dio – al mondo moderno, che con la Rivoluzione protestante, prima, e la Rivoluzione francese, poi, celebra la liberta` incoercibile di tutti e di ciascuno. E pone all’ordine del giorno l’istituzione di un sistema politico in cui l’estensione a tutti dei valori moderni concernenti l’autonomia della singola persona conviva con un profondo sentimento di partecipazione e di costruzione del bene collettivo. Una maturazione veramente ricca di quello che Hegel chiama lo “spirito del mondo” (il Weltgeist) presuppone infatti che si riesca a conciliare nel mondo contemporaneo i due princı`pi di fondo, prodotti, in senso

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LA SOLUZIONE HEGELIANA

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positivo, dalla storia dell’umanita`: quello etico, del prevalere dell’interesse comune e di valori collettivi, che per Hegel e` la caratteristica piu` positiva della polis greca e in genere della comunita` antica, e quello della liberta` e della profondita` inesauribile del valore della singolarita`, la cui rivendicazione connota e sintetizza la storia della modernita`. Mediare storia antica e storia moderna, principio del collettivo e principio della liberta` individuale, e` percio` il fine – anzi per Hegel la fine – della storia. Di una storia, del cui cammino nulla deve andare perduto e sprecato, giacche´ ogni passaggio deve essere inteso, pur nella sua parzialita`, come necessario, e mantenuto in vita, quanto alla specificita` del suo valore, nella consapevolezza ormai dispiegata e pienamente matura della modernita`. Nella quale, secondo la lezione di Fichte che, si diceva, agisce profondamente nella filosofia di Hegel ogni valore, ogni modalita` di comportamento, non e` piu` vissuto dall’essere umano in modo acritico e presupposto, come cioe` meramente trovato, quasi fosse un dato naturale, ma e` sempre mediato e ri-prodotto dalla sua consapevole ragione, in un atto di cultura che e` sempre superamento della natura e della sua inconsapevole immediatezza.

4. “Societa` civile” e “Stato” La costruzione di questo organismo di vita sociale e individuale, fondato sulla mediazione dei valori dell’universalita` e dell’individualita`, della comunita` e della singolarita`, e` l’oggetto dell’opera giuridico-politica piu` celebre e sistematica di Hegel, i Lineamenti di filosofia del diritto pubblicati a Berlino nel 1821. La caratteristica piu` originale di questo testo di filosofia sociale e politica consiste infatti nella definizione della vita moderna come istituita sulla compresenza, non oppositiva ma complementare, di tre sfere che svolgono, ciascuna, funzioni diverse: a) la famiglia, quale societa` etica primaria, in cui le relazioni tra i singoli componenti sono mediati dagli affetti e non dal denaro; b) la societa` civile, quale sfera sociale in cui lo scambio degli interessi individuali e` mediato essenzialmente dal mercato e dal denaro; c) lo Stato in cui scopo fondamentale dell’interesse e dell’agire del singolo e` la volonta` e la cura del bene di tutti, dell’interesse generale. Prima di Hegel, nella tradizione del pensiero occidentale, da Cicerone, attraverso la Scolastica, almeno fino a tutto il pensiero giusnaturalistico del ’600 e del ’700 – come abbiamo gia` detto nella nostra Introduzione a questa sezione del testo – il concetto di ‘‘societa` civile’’ (societas civilis) e` sempre stato sinonimo di ‘‘societa` politica’’, in quanto contrapposta a una ‘‘societa`

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naturale’’ (societas naturalis) concepita come un luogo di socievolezza umana arcaico e primitivo, incapace di garantire l’esistenza del singolo e lo sviluppo del genere umano. Ancora in Kant lo status civilis, in quanto associazione di esseri umani retta da leggi, si oppone allo status naturalis in quanto condizione non-giuridica, priva cioe` di leggi, della vita umana. E dunque societa` civile ancora in Kant e` sinonimo di stato di diritto. In Hegel invece tra quella societa` etica piu` ristretta che e` la famiglia e quella societa` etica piu` allargata e cosciente che e` lo Stato, si colloca, nettamente distinta, la societa` civile, con un’autonoma e specifica modalita` d’associazione. Tanto che appunto proprio ad Hegel si deve per primo la teorizzazione nel pensiero moderno della coppia di societa` civile-Stato politico, quale nesso caratteristico della modernita`. A sua volta la societa` civile nella riflessione di Hegel e` teorizzata come uno spazio complesso, articolato secondo tre ambiti differenziati, che sono rispettivamente: 1) il sistema dei bisogni 2) l’amministrazione della giustizia 3) gli istituti della ‘‘polizia’’ e della ‘‘corporazione’’. Il sistema dei bisogni definisce la sfera della produzione della ricchezza materiale e della sua circolazione-distribuzione tra i vari membri della societa`, ed e` volto appunto, in modo organico e sistematico, al soddisfacimento dei bisogni di ciascuno in armonia con i bisogni di tutti. E` caratterizzato dalla divisione del lavoro e dal mercato, esattamente secondo il modello dell’economia politica inglese di Adam Smith, cui Hegel esplicitamente s’ispira. Suoi princı`pi sono infatti la liberta` moderna, quale indipendenza del singolo da comunita` di appartenenza a lui presupposte, e contemporaneamente la dipendenza di ciascuno da tutti gli altri, a motivo della specializzazione del proprio lavoro e dell’impossibilita` che ne consegue di soddisfare con esso la totalita` dei suoi bisogni. Come scrive Hegel nel suo non facile linguaggio: “La persona concreta, la quale e` a se´ come fine particolare, in quanto totalita` di bisogni e mescolanza di necessita` naturale e di arbitrio, e` uno dei princı`pi della societa` civile; – ma la persona particolare, in quanto essenzialmente in rapporto con un’altrettale individualita`, sı` che ciascuna si concilia, si fa valere e si appaga mediante l’altra e, nello stesso tempo, semplicemente soltanto mediante la forma dell’universalita` (l’altro principio)”4. Anche per Hegel l’essenza dell’economia moderna sta infatti nel superamento di economie chiuse e tendenzialmente autarchiche, com’era accaduto con l’economia agricola feudale, e invece nel libero scambio dei prodotti del lavoro di ciascuno attraverso il denaro e il mercato. Solo che, a differenza degli economisti inglesi, quello che Hegel maggiormente sottoli4

G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari 1954, p. 164.

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LA SOLUZIONE HEGELIANA

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nea e mette in gioco e`, accanto alla valorizzazione della liberta` e indipendenza d’ognuno, il fattore della dipendenza e della relazione con l’alterita`. Nel senso che, a suo avviso, nella societa` civile moderna il legame sociale – ossia quello che nel linguaggio di Hegel corrisponde al principio dell’universalita` – proprio in quanto universale, possiede una sua logica propria e autonoma, che non puo` risultare dal semplice assommarsi degli interessi individuali. La socializzazione moderna e` fondata infatti per Hegel, a ben vedere, su un processo di astrazione-spersonalizzazione: ossia sul fatto che tutte le attivita` private del singolo, per riuscire ad avere un valore e un’utilizzabilita` sociale, devono acquisire una forma d’esistenza, che togliendo loro ogni caratteristica troppo individualizzata, le renda usufruibili universalmente, e percio` comparabili e scambiabili con le attivita` di tutti gli altri. Gia` gli stessi bisogni di vita di un individuo in una societa` di merci, osserva Hegel, non sono piu` quelli limitati e concreti di un’economia fondata sullo scambio con la natura e sul lavoro della terra. Lo scambio di merce con merce, o di lavoro con denaro, generalizzato a tutti i membri di un’economia di mercato crea, nel confronto reciproco, bisogni piu` raffinati, piu` artificiali, astratti appunto rispetto a quelli di un’economia ristretta e naturalistica. Ma e` sopratutto il lavoro che nella societa` moderna acquista per Hegel la caratteristica dell’astrazione da modalita` e comportamenti personali. Esso si fa utile per gli altri infatti attraverso l’apprendimento di saperi e competenze caratterizzati da un alto grado, diremmo oggi, di standardizzazione. E proprio nella sua messa in opera il processo lavorativo si fa astratto, cioe` viene suddiviso e parcellizzato in modo tale che, divenendo meccanico e ripetivo, il lavoro di una persona puo` essere sostituito dall’automatismo delle macchine. Fino a depositarsi, il carattere astratto e impersonale della socializzazione mercantile, in quella cosa universale, separata ed esterna ai soggetti umani, che e` il denaro. Il denaro e` infatti la cosa che rappresenta tutte le cose. E` l’universale che permette ai bisogni di entrare in relazione reciproca tra di loro, ma come rappresentante di un’unita` sociale, che si colloca in una cosa, separata dai singoli e astratta dalla personalita` individuale di ciascuno Hegel dunque radicalizza il carattere impersonale che gia` A. Smith aveva assegnato alla societa` moderna coll’equiparare il meccanismo del mercato all’operare di una mano invisibile che agisce dietro gli interessi e i moventi individuali. L’impersonalita` della mano invisibile di Smith diventa infatti in Hegel un’astrazione, il farsi cioe` separato ed esteriore, fino alla cosificazione, come nel denaro, del nesso sociale. Con il possibile rischio che tale astrazione, proprio perche´ autonoma e indipendente dai singoli, si

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estremizzi in alienazione, ossia in una forza e in un potere che, di gran lunga superiori all’individuo, rischiano di opprimerlo e di schiacciarlo. Basti pensare, nota Hegel, alle crisi economiche, con il precipitare della dissocupazione che le caratterizza, con le ripercussioni che ad es. una innovazione tecnologica in un settore o in un paese produce altrove: momenti in cui “la connessione del singolo tipo di lavoro con l’infinita massa dei bisogni nel suo insieme diventa del tutto inafferrabile, una dipendenza cieca, cosı` che una lontana operazione spesso blocca improvvisamente il lavoro di una intera classe di uomini che con esso soddisfacevano i propri bisogni, lo rende superfluo ed inutile”5. O come quando il movimento non controllabile del denaro, di contro alla formazione di una grande ricchezza, produce la formazione della plebe, cioe` “il decadere di una grande massa al di sotto della misura di un certo modo di sussistenza”6. E` questo dunque il modo in cui Hegel, a partire dalla sua antropologia dialettica e dal valore che in essa viene assegnato alla dimensione della relazione e dell’intero, rilegge e rielabora la modernita` e la religione della liberta` che la caratterizza. Nella societa` moderna non accade come nelle societa` del passato, dove il nesso sociale, l’appartenenza a un ruolo gia` predeterminato, precedevano la nascita e l’esistenza del singolo: giacche´ nel tempo moderno ciascuno nasce libero da vincoli sociali presupposti. Ma l’altro lato di questa medaglia, l’altro volto di tale liberta` moderna, e` che il nesso sociale, proprio per garantire l’indipendenza del singolo, deve collocarsi, non all’interno, ma all’esterno di ogni soggetto: con la possibilita` che tale universale, fattosi quantitativo, astratto, reificato e impersonale, produca una situazione di squilibrio e di alienazione. Ossia, per dirla con la terminologia piu` propria di Hegel, il principio di socializzazione moderno nel Sistema dei bisogni e` l’Enta¨usserung (l’esteriorizzazione), la capacita` cioe` del singolo di farsi altro dalla sua irripetibile e incomparabile singolarita`, uniformandosi a forme di universalizzazione visibili e riconoscibili da tutti. Ma l’Enta¨usserung ha implicita in se´, come uno dei suoi possibili esiti, l’Entfremdung (l’estraneazione): ovvero la possibilita` che l’“esser-per-altro” non sia il medium per il ritorno al se´ e al suo soddisfacimento – cioe` all’“essere-in-se´ e per-se´” – ma s’irrigisca e cosifichi in un’alterita` che si fa assolutamente estranea ed ostile: come quando appunto l’economia di mercato si fa qualcosa del tutto opposta e insensibile all’esistenza e ai bisogni del singolo. 5 6

G.W.F. Hegel, Filosofia dello spirito senese, Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 60-61. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., p. 201.

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LA SOLUZIONE HEGELIANA

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Per tale dislocazione o esteriorizzazione del nesso sociale, che caratterizza il tempo moderno, Hegel definisce la societa` civile anche come ‘‘Stato esterno’’, ‘‘Stato di necessita` e intellettualistico’’. Ambito di vita cioe`, la cui socialita` e` organizzata secondo il modo di procedere dell’intelletto, il quale per Hegel e` la facolta` della separazione-scissione di fronte alla facolta` piu` propriamente dialettico-sintetica della ragione. L’universale, l’interesse collettivo, rimane estraneo – anche se imprescindibile per il suo riprodursi – all’interesse privato del singolo, il quale, di riflesso non puo` che avvertirne la presenza se non come limite e costrizione: come, appunto, “necessita`”. Per esprimere la cosa ancora in termini hegeliani, la socialita` cui da` vita la societa` civile e` concepibile come una “seconda natura”. Seconda perche´ rispetto alla prima e` artificiale, prodotta cioe` dagli esseri umani e dalle loro relazioni: ma pure identica ad essa (alla prima natura), in quanto nel suo ambito ciascuno, coincidendo con il proprio interesse egoistico, non assume nella propria coscienza l’interesse dell’intero e percio` e` costretto, per tale rimozione, a viverlo solo come coazione esteriore, che puo` assumere, nei momenti di crisi, il volto di una forza solo negativa e distruttiva.

5. “Polizei”, “corporazione” e “Stato sociale” Per mitigare gli squilibri cui puo` condurre il meccanismo del sistema dei bisogni – che, s’e` detto, al fine di garantire la liberta` individuale, deve essere privo di un controllo e di una direzione consapevole delle sue logiche automatiche di movimento – Hegel introduce, nella sua visione della societa` civile moderna, gli altri due ambiti di cui si diceva: l’amministrazione della giustizia (Rechtspflege) da un lato, e gli istituti della polizia (Polizei) e della corporazione (Korporation) dall’altro. Due altri ambiti del vivere associato, che, pur diversi tra loro, hanno il fine comune di promuovere il sentimento dell’universale e del bene collettivo attraverso modi d’essere e d’agire che non siano mediati dal denaro e dalla sua astrazione, come avviene invece, abbiamo appena visto, nella sfera del mercato e della circolazione delle merci. E che dunque concorrano a fare della societa` civile moderna, al di la` delle durezze del mercato e dell’economia, un insieme sostanzialmente organico ed equilibrato di riproduzione sociale. Il diritto e il codice di leggi in cui s’esprime e`, data la sua attinenza alla societa` civile, diritto privato e concerne dunque, quanto al contenuto, essenzialmente le molte specie della proprieta` e dei contratti. Ma nello stesso tempo nell’essere valido per tutti – e da tutti riconosciuto in tale sua validita` – implica un’apertura e un’educazione del singolo al senso della comunita`

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che lo lega agli altri suoi simili. E` diritto privato quanto al contenuto ma universale quanto alla forma: appunto quanto al senso della sua estendibilita` ed applicabilita` a tutti. Per cui, pur essendo diritto che assume ad oggetto l’interesse privato dei singoli, genera un effetto di riconoscimento e identificazione comune. “Appartiene all’educazione, al pensiero, in quanto coscienza del singolo nella forma dell’universalita`, il fatto che io sia inteso come persona universale, in cui tutti sono identici. L’uomo ha valore, cosı`, perche´ e` un uomo, non perche´ e` ebreo, cattolico, protestante, tedesco, italiano etc.”7. Come del resto una messa in campo dell’universale e` rappresentata dal diritto processuale e dall’esercizio concreto della giustizia, in cui l’applicazione della norma generale a un caso particolare viene svolta da un potere come quello dei magistrati e dei giudici, nella cui imparzialita` di giudizio per definizione non interviene (essendo funzionari pubblici non subordinati ad alcun potere privato) “il sentimento soggettivo dell’interesse particolare”8. Nell’amministrazione del diritto e della giustizia e` dunque la forma, per uno Hegel che evidentemente qui torna ad alimentarsi della lezione di Kant, ad essere di per se´ produttrice di universalita` e di senso comune. Un fattore di universalizzazione che pero`, proprio in quanto formale, trova precisi confini alla sua efficacia, perche´, se garantisce la presa di coscienza da parte di tutti di un orizzonte comune, non assicura che la volonta` effettiva di ciascuno assuma poi a suo scopo reale, nel concreto del suo vivere, l’universale e il bene collettivo. Cosı`, affinche´, oltre a una sensibilizzazione quanto alla forma, l’interesse generale venga praticamente e concretamente perseguito, bisogna passare alla Polizei e alla Korporation. La “Polizia” hegeliana ha ben poco a vedere con l’istituzione moderna che noi conosciamo, volta solo a prevenire e a reprimere i reati. Nella visione di Hegel essa svolge certamente questa funzione ma le sue attivita` si riconnettono essenzialmente al ruolo svolto dalla Polizei nei principati territoriali dell’Impero tedesco tra il 16˚ e il 17˚ secolo, dove il significato del termine, con il mantenimento del suo etimo antico (la π ο λ ι τ ε Ýα greca e la politia medievale), rimanda all’intero ordinamento dello Stato: di uno Stato che coincide col rafforzamento del potere monocentrico del principe territoriale nei confronti da un lato del policentrismo di una societa` feudalecetuale, organizzata ancora secondo la distinzione degli ordini o stati (Sta¨nde), e dall’altro rispetto a prerogative di pertinenza del vecchio ma 7 8

Ivi, p. 180. Ivi, p. 189.

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LA SOLUZIONE HEGELIANA

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ancora presente Sacro Romano Impero. La Polizei qui e` il termine che definisce l’insieme progressivo degli interventi del principe in ambiti e funzioni della vita, la cui competenza apparteneva precedentemente nella societa` feudale-cetuale a centri di potere diversi, sia inferiori che superiori: dal controllo dei pesi e delle misure, della qualita` dei cibi, della sicurezza nelle citta` e nelle campagne, ai metodi di lavoro nelle manifatture, alle regole dei mercati e delle attivita` commerciali, fino alla creazione di un esercito stabile, all’unificazione e al controllo della tassazione, alla formazione di un ceto burocratico competente ed efficiente. In tale azione storica di penetrazione capillare e di regolazione amministrativa nella vita dei sudditi, allo Stato di polizia della Germania del ’600 e ’700 e` cosı` assegnato il compito, non tanto o non solo di garantire l’ordine – qual e`, abbiamo visto, il fine essenziale della dottrina liberale classica (kantiana) dello Stato – quanto quello di procurare e rendere sicuro il benessere, cioe` agevoli e buone condizioni di vita, per i sudditi. Ordnung e, insieme, Wohlfahrt (ordine e benessere) costituiscono infatti nella filosofia politica tedesca di quel periodo (definita «cameralismo» da Kammer, la camera dei consiglieri personali del principe) i valori cui deve indirizzarsi l’azione del principe e del suo governo, solleciti, come un buon padre, della felicita` e del buon vivere dei propri (figli-sudditi). Per cui l’azione dello Stato, anziche´ solo negativa nel senso che abbiamo sopra definito, deve essere positiva, cioe` volta a intervenire nella vita dei sudditi, nella prescrizione di cio` che attiene al campo dell’utile e del bene, secondo valori, non privati e personali, ma pubblici e comuni. Ed Hegel appunto, sollecitato in tal senso anche dalla riflessione sulla Politica di Aristotele – per la quale fine dello Stato era assicurare non tanto il vivere quanto il buon vivere (ε ŽδαιµονÝα) dei cittadini – riprende, elaborandola nella cornice moderna dello Stato di diritto, la tradizione del cameralismo tedesco sullo Stato di polizia (Polizeistaat). Cosı` funzione essenziale della Polizia nella societa` civile moderna deve essere per lui quella di garantire a tutti gli individui, nei contrasti e nei conflitti cui puo` dar luogo l’economia, la “partecipazione alla ricchezza generale”: attraverso strumenti come quello di una politica dei prezzi concernente i beni piu` necessari alla vita di tutti o una politica del lavoro per tutti attraverso la costruzione di opere pubbliche. La Polizei hegeliana, svincolata ormai da una concezione privatistica e patrimoniale dello Stato – dove lo Stato era considerato ancora patrimonio privato del principe e nel cui orizzonte premoderno ne fissava ancora le funzioni la dottrina cameralistica – e collocata invece nell’orizzonte dello Stato costituzionale moderno, in cui la

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DALLA RIVOLUZIONE FRANCESE ALLA COMUNE DI PARIGI

sovranita` anziche´ di uno e` di tutti, provvede non solo ad “aver cura dell’illuminazione delle strade, della costruzione dei ponti, della valutazione dei bisogni giornalieri, come della sanita`”9 ma sopratutto ad aver cura della “comune utilita`” e a mitigare le conseguenze della liberta` dell’industria e del commercio con “un provvedimento e una guida generale”. Del resto, sempre al fine di contrastare i disagi della modernita` Hegel non si perita di porre, accanto all’attivita` della Polizei, la funzione di un’altra istituzione premoderna come la corporazione: cioe` di un’associazione basata anch’essa su un criterio di socialita` diverso da quello dello scambio di merci e di denaro, in quanto fondata invece sul legame di appartenenza ad una medesima attivita` professionale. La corporazione infatti – caratterizzata dal riconoscimento reciproco dei singoli membri in quanto partecipi di una stessa attivita` di mestiere – sottrae il singolo all’individualismo egoistico del sistema dei bisogni e lo custodisce nella consapevolezza di un operare comune che anticipa, pur nel cerchio ristretto di uno stesso mestiere, l’universale piu` vasto dello Stato. Cosı`, nell’ambito solidaristico del suo operare, la poverta` viene soccorsa ed aiutata e la stessa ricchezza cessa di essere qualcosa di arrogante e provocatorio perche´ prodotta attraverso l’onesta` e la serieta` di lavoro nella cui dignita` tutti si riconoscono. “Senza essere componente d’una corporazione legittima [...] il singolo senza dignita` di ceto, e` ridotto dal suo isolamento, al lato egoistico dell’industria, ad una cosa che non garantisce affatto la sua sussistenza e il suo godimento [...] Nella corporazione l’aiuto che la poverta` riceve, perde la sua accidentalita`, cosı` come il suo carattere umiliante a torto; e la ricchezza nel proprio obbligo verso la propria corporazione, perde l’orgoglio e l’invidia che essa – l’orgoglio nel suo possessore, l’invidia negli altri – puo` suscitare: l’onesta` consegue il suo vero riconoscimento e la sua vera dignita`”10. Per questo legame di riconoscimento e di dipendenza di ciascuno dagli altri, assai diverso da quello messo in atto dal mercato, la corporazione e` un’istituzione di natura etica e spirituale. E` la riproposizione, nella sfera della societa` civile, dell’ethos e dei vincoli d’affetto della societa` familiare. Come “seconda famiglia”, afferma Hegel, essa e` l’anticipazione e la “radice etica dello Stato”11. Anche se poi, a dire il vero, la corporazione, nel sistema di Hegel, si limita a integrare e socializzare eticamente solo una parte della societa` 9 10 11

Ivi, p. 365. Ivi, p. 206. Ivi, p. 207.

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LA SOLUZIONE HEGELIANA

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civile (il ceto dell’industria), visto che la sua struttura organizzativa non e` valida per gli altri membri della societa` civile i quali si raccolgono per Hegel rispettivamente nel ceto “sostanziale” e nel ceto “generale”. Infatti la societa` civile hegeliana, a seconda delle disposizioni naturali e della diversita` d’ingegno di ciascuno, si articola secondo tre rami generali della divisione del lavoro, cui corrispondono tre grandi ceti o ordini, distinti tra loro a seconda dell’oggetto e del campo di applicazione del loro lavoro: il ceto sostanziale o ceto agricolo, destinato a lavorare la terra e che comprende tanto il nobile terriero quanto il contadino piccolo proprietario che il bracciante a giornata; il ceto dell’industria, destinato ad elaborare e a trasformare ulteriormente i prodotti del lavoro agricolo e che raccoglie sotto di se´ figure sociali cosı` variegate come l’artigiano, l’imprenditore manifatturiero, l’operaio di fabbrica e il commerciante; e infine il ceto generale dedicato a un lavoro non materiale ma volto per definizione all’interesse pubblico e che include tutti gli impiegati e i funzionari dello Stato. Dove e` chiaro che anche con questa teoria degli ordini (Sta¨nde) – che si badi sono associazioni assai lontane e diverse dalle classi della modernita` – Hegel torna ad utilizzare un assetto sociale esplicitamente premoderno e pre-Rivoluzione francese: sempre nell’intento di riuscire a collocare, a fianco della socializzazione moderna che si realizza attraverso le merci e il denaro, ambiti di genesi della socialita` e del senso comunitario che passino attraverso altre vie. Come accade qui con la produzione di una virtu` caratteristica e di un criterio collettivo d’identificazione che vengono posti in essere da ciascun ordine attraverso le pratiche specifiche del proprio lavoro: la virtu` della fiducia e dell’obbedienza che caratterizza il mondo dei contadini, saldamente basato sulla vita familiare; la dedizione all’interesse generale e alle competenze che ne derivano propria dell’ordine burocratico; e appunto la virtu` del riconoscimento reciproco attraverso la dignita` del lavoro che attiene all’ordine artigianale-commerciale, organizzato nelle sue corporazioni.

6. Liberta` francese e liberta` tedesca Per altro il mantenimento di una scansione per ceti e` centrale per Hegel anche nella costituzione dell’altro ambito proprio della modernita`: lo Stato. Nell’ipotesi costituzionale hegeliana e` infatti necessario che al potere legislativo il popolo partecipi, non attraverso un istituto elettorale su base nazionale e individuale (ogni singolo, un voto), ma attraverso un sistema della rappresentanza dove siano i tre ordini, ciascuno nella propria inte-

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DALLA RIVOLUZIONE FRANCESE ALLA COMUNE DI PARIGI

rezza, ad esprimere i loro rappresentanti. Perche´ lo Stato non puo` essere fondato su quello che Hegel definisce, in senso negativo, “il principio democratico”, cioe` il principio su cui era stata fondata la costituzione della Francia uscita dalla Grande Rivoluzione e in cui, com’e` noto, la rappresentanza per ordini, residuo feudale dell’ancien re´gime, era stata sostituita da una rappresentanza estesa universalmente a tutti i cittadini, senza differenza di nascita, di ceto, di religione. Per Hegel infatti – a muovere dalla sua antropologia relazionale e antindividualistica – non e` possibile connettere direttamente l’orizzonte d’interessi del singolo cittadino, necessariamente conchiuso e limitato nel suo privato, alla sensibilita` e alla competenza necessaria per occuparsi dell’attivita` legislativa volta ad affari generali e agli interessi collettivi. La liberta` francese e` astratta, perche´ non pone istituti e piani di mediazione collettiva tra individuo e Stato, che temperino e avvicinino progressivamente la polarita` dell’interesse privato con quella dell’interesse pubblico. Essa fa percio` di un popolo, che vive solo del principio dell’individualismo e dell’utile privato, una massa, una moltitudine formata da molti uno, da cui non si puo` mai generare un sentimento organico di appartenenza ad una comunita`. In tal senso per Hegel il popolo, rispetto alla cosa pubblica, “non sa quel che vuole”12, puo` degenerare in un movimento “elementare, irrazionale, selvaggio e orribile”13, e non e` il caso che partecipi, quale massa di singoli, alla vita politica. Lo Stato moderno deve invece possedere la caratteristica di distinguersi dagli automatismi della societa` civile, cosı` come una totalita` consapevole di se´ si distingue da una totalita` inconsapevole ed ignota a se´ stessa. La societa` civile moderna, abbiamo visto, e` per Hegel una totalita` che riproduce se stessa in modo altamente automatico e meccanico, e dove l’universale si realizza dietro le spalle, all’insaputa d’ognuno. Al contrario lo Stato deve essere il luogo in cui il bene collettivo viene realizzato con piena coscienza e dove quindi ciascuno, abbandonando una dimensione solo utilitaristica e materialistica dell’esistenza, assume realmente come proprio fine l’interesse unitario ed organico di tutti. Ma appunto per questo lo Stato non puo` che fondarsi su quei corpi organici intermedi che gia` trova operosi nella societa` civile, come polizia, ordini e corporazioni, giacche´ in essi l’anarchia e l’estremizzazione della liberta` individuale moderna e` gia` stata ricondotta, sia pure in modo ancora limitato e parziale, ad una logica comunitaria. “Lo Stato e` 12 13

Ivi, p. 258. Ivi, p. 260.

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LA SOLUZIONE HEGELIANA

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essenzialmente un’organizzazione di tali componenti che per se´ sono cerchie, e, in esso, nessun momento si deve mostrare come moltitudine inorganica”14. Cosı` del potere legislativo devono far parte, per dare maggiore partecipazione alla formazione delle leggi, anche il potere esecutivo del governo per la conoscenza che possiede della realta` del paese e il potere monarchico, nella cui volonta` e autorita` di decisione Hegel vede riassunta e simboleggiata la sovranita` dell’intera nazione. Con questa singolare teoria della compenetrazione dei poteri, assai lontana da quella rigorosa divisione dei poteri tra legislativo, esecutivo e giudiziario che da Montesquieu caratterizza lo Stato moderno, si conclude la filosofia politica di Hegel. Con la sua concezione dello Stato etico, e` evidente, s’e` aperta nella cultura moderna un’altra concezione della politica e dello Stato, profondamente diversa dalla tradizione dello Stato liberale codificata nella filosofia di Kant. Vedremo come da queste due tradizioni, dal loro confronto e dal loro interloquire, sara` condizionata buona parte della filosofia politica dell’800 e del ’900.

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Ibidem.

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LA SOLUZIONE MARXIANA

1. La “prassi” come “critica” Con il pensiero di Kant e di Hegel (ma non bisogna dimenticare l’opera di Fichte e di quell’altro grande protagonista dell’idealismo tedesco che e` Schelling) la filosofia tedesca assume il primato nella formazione della coscienza filosofica dell’Europa moderna tra l’ultimo ventennio del ’700 e il primo trentennio dell’800. Ne´, com’e` ovvio, data la grandezza teorica di questi padri fondatori della modernita`, per tutto l’800 la Germania cessera` di essere il luogo per eccellenza di concepimento di nuove filosofie e nuove visioni del mondo. Ora, tra i nuovi sistemi teorici che seguono alla morte di Hegel (1831), e` all’opera di Karl Marx che in questo capitolo volgeremo la nostra attenzione, e percio` alla soluzione che ai problemi della modernita` il marxismo e il comunismo hanno inteso dare. Senza trascurare di svolgere qualche considerazione su quella singolare specie di intellettuali formata dai membri della cosidetta Sinistra hegeliana (ma noti anche come Giovani hegeliani) che, insieme a Ludwig Feuerbach, preparano il terreno al pensiero di Marx e al suo esito rivoluzionario. Abbiamo gia` visto che il limite piu` profondo della nuova teoria della soggettivita` dialettica e relazionale di Hegel sta nel suo eccesso di speculazione. In un’identita` cioe` che, malgrado il suo nesso con l’alterita`, viene concepita ancora come culminante in un’autocoscienza pura, dove il soggetto, alla fine del suo divenire, si rispecchia in un modo completamente trasparente a se´ stesso. Speculazione che irrigidisce l’enorme ricchezza di considerazioni antropologiche, storiche e culturali messe in campo da Hegel nella cornice di uno Spirito Assoluto o Idea che organizza e conchiude l’intera storia umana, nel momento in cui, a suo avviso con il

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mondo cristiano-germanico, la modernita` giunge all’organizzazione piu` razionale e coerente della vita umana, individuale e sociale. A questo finire della storia e a questo eccesso d’idealismo e di ricongiungimento teorico dello Spirito con se´ stesso, i seguaci piu` giovani e piu` radicali di Hegel, come B. Bauer, Cieskowski, Moses Hess, Ruge, Stirner, reagiscono con l’estremizzazione di una filosofia della prassi e dell’azione. La filosofia non deve piu` limitarsi alla contemplazione della verita`, alla conoscenza, bensı`, proprio seguendo le indicazioni piu` preziose dello stesso Hegel sul senso della storia come realizzazione progressivamente sempre piu` ampia dell’Assoluto di liberta`, deve farsi vita ed azione concreta tra gli uomini. E puo` fare cio` solo facendosi “critica” e denuncia delle arretratezze e delle irrazionalita` del presente: messa a confronto cioe`, da un lato, tra la parzialita` di istituzioni, valori e comportamenti anacronistici, in genere caratterizzati dal prevalere asimmetrico di una parte del corpo sociale sulle altre, e dall’altro l’universalita` e il cosmopolitismo di un’umanita` fondata sull’autodeterminazione libera e razionale di se´. Cosı` la filosofia, non in quanto teoria, ma in quanto prassi, deve risolversi per i Giovani hegeliani essenzialmente in critica della religione e in critica della politica o dello Stato: la prima come riattribuzione al genere umano di tutti quegli attributi e capacita` che, esteriorizzati e proiettati su una figura divina, alienano l’umanita` da se stessa; la seconda come operazione analoga nei confronti di istituzioni che arbitrariamente segregano ed espropriano il volere di tutti nel potere e nella decisione di pochi. Ne´ a caso, con tale nuova definizione della filosofia – quale, non contemplazione, ma trasformazione dell’esistente – si propone una modifica profonda della stessa funzione dell’intellettuale, non piu` destinato alla trasmissione educativa di un sistema generale di valori interpretativo del passato e del presente (Kant, Fichte, Hegel e Schelling sono ancora professori che insegnano in universita` statali), bensı` volto a una serie di professioni, non piu` pubbliche, ma private, di carattere soprattutto editorialgiornalistico e legate a interventi di critica militante rispetto agli avvenimenti della contemporaneita`. Tra i numerosi intellettuali che diedero vita alla continuazione critica della filosofia di Hegel basti qui ricordare Ludwig Feuerbach1 e la sua 1 Ludwig Feuerbach (1804-1872), dopo aver studiato teologia, e` stato allievo di Hegel a Berlino. Fu costretto ad allontanarsi dall’insegnamento universitario a causa dell’ostilita` e delle polemiche mosse dalla sua critica della religione nella sua prima opera Pensieri sulla morte e l’immortalita` (1830). Visse, isolato a Landshut, dei proventi di una fabbrica di porcellane di proprieta` della moglie. Solo nel 1848-49, durante la rivoluzione europea di

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utilizzazione del concetto hegeliano di alienazione (Entfremdung) come categoria etico-politica fondamentale per una lettura della modernita` che si affranchi dalle ipoteche premoderne della religione, e del Cristianesimo in particolare. L’umanita` contemporanea, nel cammino progressivo della sua emancipazione e maturazione, pensa infatti Feuerbach, non puo` continuare a pensarsi secondo i modi tradizionali della religione e della dipendenza da un Dio. Il Cristianesimo in particolare, che e` stata la religione per eccellenza dell’Occidente, riposa su un duplice e coordinato meccanismo di svuotamento-riempimento, ossia di svalutazione e di sopravalutazione. L’onnipotenza di Dio, la sua perfezione e superiorita`, e` dovuta infatti solo al fatto che in essa gli esseri umani depositano e alienano, in modo inconsapevole, tutti gli attributi piu` dignitosi e nobili, le virtu` piu` generose ed altruiste, proprie dell’umanita`, del genere umano. Per avere il conforto e la protezione di un essere onnipotente, un’umanita`, ancora arretrata e inconsapevole di se´, smarrita e divisa nell’atomismo dei tanti individui, rinuncia a se´ stessa, addossando e collocando tutta la potenza di vita e le capacita` dell’intero genere umano nella figura di un solo uomo, del Cristo che viene fatto Dio. Cosı` un singolo viene divinizzato e sopravalorizzato proprio e solo perche´, nello stesso tempo, tutti gli uomini invece si mortificano e si svalorizzano, attribuendo ed esteriorizzando in quel singolo cio` che appartiene originariamente solo a loro stessi. Ma questa “alienazione” e questo bisogno di protezione (di rassicuramento, di assistenza, di immortalita`) nasce solo dalla condizione di un genere umano profondamente diviso in se stesso, in cui appunto la conflittualita` e l’egoismo dei singoli prevale ancora sul sentimento di comune appartenenza e di comune partecipazione all’umanita`. L’essere umano e` invece, nella sua caratteristica specifica, un Gattungswesen (ente di genere), un essere che partecipa immediatamente a un genere (l’umanita` appunto), un essere dunque universale e, in tale universalita`, libero e incondizionato; ma che pure all’inizio della sua storia non ha coscienza di cio`, chiuso nei limiti di una vita solo legata ai bisogni individuali. Solo la fuoriuscita dalle societa` premoderne, legate a una visione ferina e disgregata dell’umanita`, come la liberazione dal Cristianesimo e dalla coscienza religiosa sono la condizione percio` di un’umanita` finalmente comunitaria che riconosca il divino nell’umano, senza aver bisogno di proiettarlo fuori di se´ e di farsene serva. Cosı`

quegli anni, fu chiamato dagli studenti a tenere un corso di filosofia ad Heidelberg. Le sue opere principali sono: Per la critica della filosofia hegeliana (1839), L’essenza del Cristianesimo (1841), Princı`pi della filosofia dell’avvenire (1843).

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come solo un umanesimo, che faccia della relazione tra l’essere umano e gli altri esseri umani (o tra l’essere umano e l’intero genere umano) il principio di senso dell’intera realta`, puo` ritornare su se´ stesso, affrancato da ogni alienazione, non solo religiosa, ma anche filosofica (visto che per Feuerbach, come per molti altri giovani hegeliani la stessa filosofia di Hegel finisce col fare dell’Idea un principio teologico), e affermare, di contro alle astrazioni e ai fantasmi della mente, la concretezza della vita, che e` sempre corporea e materiale, affettiva e relazionale.

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2. Comunitarismo dell’essere umano, comunismo e teoria materialistica della storia Ora e` appunto al concetto feuerbachiano-hegeliano di alienazione che Karl Marx2 si rifa` nei suoi primi scritti (La critica della filosofia del diritto di Hegel, La questione ebraica, I manoscritti economico-filosofici) per sintetizzare la condizione generale di vita della societa` moderna. L’alienazione, in quanto svuotamento e collocazione delle virtu` creative degli esseri umani in un alium (in un altro) – in quanto dunque espropriazione del vero soggetto da parte di un soggetto arbitrario –, spiega infatti per Marx non solo la sfera della traduzione del vero senso della realta` in sistemi ideologico-culturali fallaci, come accade soprattutto con la religione, mero “oppio dei popoli”; non solo la sfera della politica che con l’attivita` dello Stato dissimula sotto l’apparenza dell’interesse universale la cura di interessi invece solo privati e di parte; ma soprattutto, per la sua rilevanza nella societa` moderna, la sfera dell’economia, nella quale gli esseri umani, separati tra di loro, dall’egoismo 2

K. Marx (1818-1883). Studia e si forma all’Universita` di Berlino nell’ambito dei Giovani hegeliani. Per la chiusura governativa del giornale (la «Gazzetta Renana») che dirigeva, si trasferisce prima a Parigi e poi a Bruxelles, citta` entrambe da cui viene espulso a seguito della sua attivita` politica e pubblicistica. Espulso anche dalla Germania, in seguito alla sua partecipazione ai moti rivoluzionari del 1848, si trasferisce definitivamente a Londra, dove trascorre tutta la sua vita, in compagnia della moglie Jenny von Westphalen e col sostegno economico di F. Engels, l’amico caro e generosissimo, con il quale scrive e lavora nelle organizzazioni operaie cui insieme partecipano e danno vita. Con Engels scrive il Manifesto del partito comunista e da Engels verranno pubblicati, dopo la sua morte, il 2˚ e il 3˚ volume del Capitale. Tra le sue opere principali vanno ricordate La critica della filosofia hegeliana del diritto statuale (1843), I manoscritti economico-filosofici del 1844, L’ideologia tedesca (1845-1846), i Lineamenti di critica dell’economia politica (quaderni non destinati alla stampa del periodo 1857-1859 e pubblicati postumi nel 1939-1941), il 1o volume di Das Kapital (1867), le Teorie del plusvalore (pubblicate da K. Kautsky, 1905-1910).

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della proprieta` privata, ritrovano la loro socialita` solo attraverso il denaro, al cui potere e alla cui accumulazione sacrificano ogni loro forza vitale, alienando il loro lavoro e la loro capacita` di fare nelle mani di quella classe sociale, costituita dalla borghesia capitalistica, che del profitto e della crescita di denaro fa la propria ragione di vita. Giacche´ per Marx il piano di realta` fondamentale che decide del modo di vivere, individuale e sociale, degli esseri umani e` la materialita` dell’economia e dei rapporti diseguali di produzione e di distribuzione della ricchezza – ossia dei rapporti di classe – che ne scandiscono la storia. Non basta infatti, a suo avviso, per risolvere i problemi della societa` moderna, fermarsi all’eguaglianza dei diritti politici di cittadinanza rivendicata dalla Rivoluzione francese, senza mettere in campo la questione, ben piu` radicale, dell’eguaglianza economica e di una giustizia sociale, che renda eguali gli esseri umani sul piano delle concrete possibilita` di vita, e non solo per quanto concerne il diritto di voto, la liberta` di opinione, di religione e cosı` via. La distribuzione a tutti degli stessi diritti politici crea un’eguaglianza solo formale, che non modifica il contenuto reale della vita d’ognuno, laddove solo l’eguaglianza materiale – il superamento della proprieta` privata e delle differenze enormi che la caratterizzano, il possesso in comune dei mezzi di produzione e della ricchezza prodotta dal lavoro, il “comunismo” insomma – garantisce che una autentica socialita` si diffonda, al di la` del cielo e dei riti della politica, nella concretezza di vita, reale e quotidiana, di tutti gli esseri umani. Cosı`, riallacciandosi ai temi piu` di sinistra, giacobini e socialisti, presenti nella temperie culturale della Rivoluzione francese e legati all’emancipazione degli oppressi e alla liberazione degli sfruttati, Marx fa del comunismo e dell’ideale di una socializzazione integrale dell’essere umano lo sbocco del mondo moderno, provvedendo in testi come la Ideologia tedesca e il celeberrimo Manifesto del Partito Comunista (scritti insieme al suo amico e compagno di tante lotte, Friedrich Engels3) a dotare questa ipotesi socio-politica di un’originale antropologia e di una complessiva teoria della storia. Il mondo umano e la sua storia vanno interpretati per Marx infatti non secondo i suoi aspetti piu` celebrati e appariscenti ma secondo il suo

3

F. Engels (1820-1895) collaboro` con K.Marx alla definizione teorica del materialismo storico e all’organizzazione del movimento operaio internazionale. Le sue opere principali sono, l’Anti-Du¨hring (1878), L’origine della famiglia, della proprieta` privata e dello Stato (1884), Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca (1888).

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principio d’essere piu` reale e concreto, che pure fin qui non e` stato sufficientemente preso in considerazione dalla consapevolezza degli storici e, piu` in generale, dall’autorappresentazione che l’umanita` ha avuto finora di se stessa. Cultura, idee, religioni, arte, diritto, politica solo apparentemente muovono la storia e la vita degli esseri umani, perche´ invece cio` che e` effettivamente determinante e` l’economia, il modo cioe` di organizzare il soddisfacimento di quei bisogni materiali, a partire da quelli piu` elementari a quelli piu` raffinati, senza il cui soddisfacimento non v’e` riproduzione del genere umano e di qualsiasi gruppo sociale. E appunto materialismo storico, come verra` poi definita questa visione della storia, significa muovere, quanto a spiegazione della realta`, dalla materia, invece che dallo spirito: dalla concretezza del lavoro e della sua prassi materiale – dalla “struttura” come la chiamera` Marx – anziche´ da tutte quelle produzioni culturali (la “sovrastruttura”), che in tanto possono aver luogo in quanto sono sostenute e alimentate dalla produzione materiale e dalla fatica dei lavoratori che vi partecipano. Al di sotto delle motivazioni ideali delle azioni umane, spesso ammantate d’altruismo e di valori volti alla solidarieta` e alla cooperazione, cio` a cui bisogna porre l’attenzione e` il mondo degli interessi economici e materiali, il quale, in tutta la storia umana e` sempre stato segnato da contrapposizioni radicali per il controllo della ricchezza, dei mezzi di produzione, delle proprieta` naturali. La storia nella sua realta` piu` vera, teorizza. Marx, e` sempre stata storia di lotte di classe e del dominio, che ne consegue, di una o piu` classi, le quali sfruttano e godono del lavoro e della fatica dei ceti subalterni e piu` poveri, privi di accesso al mondo della proprieta`. Cosı` il concetto di “modo di produzione” e` fondamentale per comprendere il modo di vita degli esseri umani nelle diverse formazioni sociali che hanno caratterizzato fin qui il corso della storia. Esso infatti indica e stringe in se´ sia il nesso uomo-natura, cioe` l’insieme degli strumenti e dei metodi di lavoro con i quali la classe dei lavoratori di una determinata societa` si rapporta, per lavorarla, alla natura sia, nello stesso tempo, il nesso uomo-uomo, ossia l’insieme dei rapporti sociali che impongono il modo in cui quella ricchezza prodotta viene appropriata, distribuita e consumata tra le diverse classi di quella stessa societa`. Alla definizione di un modo di produzione concorre dunque sia il grado di sviluppo raggiunto in un determinato momento storico dalle forze produttive dell’umanita` lavoratrice sia il tipo particolare di rapporti sociali di produzione, ossia la relazione che si pone tra lavoro e non-lavoro. In una formazione sociale il modo di produzione corrisponde alla struttura, all’ambito cioe` fondamentale e determinante dell’essere sociale, su cui cresce la

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sovrastruttura che serve a generare riproduzione e consenso verso l’organizzazione economica della societa` e che comprende sia l’insieme dell’apparato giuridico e politico della vita associata che la produzione della rappresentazioni ideologiche con cui la coscienza comune si rappresenta, ma in genere, deforma la vera realta` messa in gioco dall’economia. Ma il concetto di modo di produzione spiega per Marx non solo la sincronia ma anche la diacronia, cioe` non solo la configurazione delle diverse formazioni sociali della storia umana ma anche il loro susseguirsi e divenire, ossia la legge dell’evoluzione della storia, scandita appunto dal passaggio da un modo di produzione all’altro e sintetizzata dal teorema della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione. “A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della societa` entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioe` con i rapporti di proprieta` [...] dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale”4. Le forze produttive, la capacita` cioe` di trarre quanti piu` beni e ricchezza possibili dall’intervento lavorativo sulla natura, rappresentano per Marx la caratteristica piu` propria del genere umano e della sua storia, rispetto a tutti gli altri esseri viventi. L’approfondimento e la crescita, di generazione in generazione e da un modo di produzione all’altro, attraverso il trasmettersi e il progredire delle tecniche, di tale capacita` produttiva costituisce per Marx il continuum, il filo rosso della storia, di cui i rapporti sociali di produzione (essenzialmente i rapporti di proprieta`) costituiscono l’elemento invece variabile: che in ogni formazione sociale si fa, da inizialmente facilitante e congruo, sempre piu` contraddittorio nell’ostacolare, con il suo assetto fin qui sempre privatistico e fondato sulla divisione e separazione delle classi, il carattere invece sempre piu` collettivo e implicante sempre piu` la partecipazione di tutti dello sviluppo delle forze produttive. Perche´ la contraddizione fondamentale della storia e` per Marx nella natura essenzialmente comunitaria, universale, generica dell’essere umano da un lato (che e` definito “ente generico” (Gattungswesen), in quanto appunto partecipe dell’universalita` e della liberta` del genere umano (menschliche Gattung), e il carattere invece privatizzante e separante dei rapporti sociali di proprieta` e di distribuzione della ricchezza. Contraddizione tra socialita` del momento produttivo e privatezza di quello appropriativo, che si acuisce massima4

K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 5.

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mente nell’eta` moderna, nella quale un enorme sviluppo delle forze produttive (facilitato da quella messa in opera in comune che e` il cammino della scienza e della tecnologia e l’unificazione delle diverse nazioni attraverso la crescita vertiginosa dei trasporti, delle comunicazioni, degli scambi) e` contraddetto da un’appropriazione estremamente minoritaria e privata di tutto cio`, qual e` quella attuata dall’accumulazione di capitale e la concentrazione nelle mani di pochi della ricchezza prodotta da tutti. Per cui l’improcrastinabile proporsi del comunismo come soluzione ai problemi della modernita` sta scritta per Marx non nella scelta moralistica ed estrema di alcune minoranze rivoluzionarie (sopratutto di intellettuali) ma nella necessita` dello scorrere della storia che, nell’eliminare rapporti giuridici e politici fondati sulla difesa della proprieta` privata, non fa che portare alla luce, ma in modo sempre piu` ampio e non impedito, quella unificazione del genere umano gia` posta in fieri dallo sviluppo stesso della storia moderna. Alla base di questa concezione marxiana della storia – che piu` propriamente va definita una filosofia della storia, in quanto interpreta lo svolgimento storico alla luce di un unico principio, costituito dallo sviluppo della capacita` creatrice del lavoro e delle forze produttive – riposa, com’e` evidente, un’antropologia celebratrice dell’uomo produttore e lavoratore, un’antropologia dell’homo faber, che per molti critici e` finita col cadere in una vera e propria metafisica della soggettivita`. La soggettivita` che lavora infatti e che trasforma il mondo naturale, per renderlo adeguato ai propri bisogni, si propone infatti per il Marx dell’Ideologia tedesca come l’identita` piu` ricca e coerente dell’essere umano, la quale, nello svolgimento della sua attivita` fabbrile, non accoglie in se´ nessuna scissione e negativita`. Il lavoro, la prassi, costituiscono la positivita` e il valore per eccellenza di un’umanita` che, nel confronto con la natura, realizza compiutamente se stessa, innalzandosi al di sopra di ogni altra specie animale, e testimoniando negli oggetti del proprio lavoro un’infinita` e una liberta` di creazione che ne fanno una specie, a ben vedere, pressocche´ extranaturale e spirituale. Il male, il negativo, cade solo al di fuori del mondo del lavoro: in una relazionalita` sociale, fatta di classi e di ceti contrapposti, che rompe l’organicita` dell’umanita` fabbrile, la continuita` comunitaria del genere umano, per introdurvi il principio negativo e privatistico dell’egoismo e dell’individualismo. Cosı` l’antropologia di Marx, che pure vuole essere materialistica e concreta partendo solo dai bisogni degli esseri umani e percorrendo solo l’arco economico e pratico del loro soddisfacimento, si svela essere invece paradossalmente segnata da un umanismo, nel suo prometeismo sovranaturali-

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sico, a forte caratterizzazione spiritualistica, profondamente segnato dalla teoria del genere umano di Feuerbach e dalla sua concezione di una continuita` organica, senza differenze e conflitti, tra l’ego e l’alter-ego, nella comune partecipazione all’umano. L’antropologia di Marx, filosofo della storia, si mostra percio` condizionata assai piu` da Feuerbach e dalla facilita` con cui il suo umanesimo si risolve per la fusione e la concordia tra gli esseri umani che non ovviamente da Hegel, e dalla concezione di quest’ultimo assai piu` tormentata e dialettica della soggettvita`, in cui, come abbiamo visto, la relazione, anche conflittuale e oppositiva, con l’alterita`, costituisce fin dall’inizio il principio d’identificazione e di riconoscimento piu` profondo del soggetto umano, ben al di la` di ogni comunita` di genere troppo facilmente presupposta e data per scontata. Fino a giungere a teorizzare l’esaltazione antropocentrica e fabbrile-spiritualistica di Marx che, nella sua incondizionatezza e liberta` di genere, a differenza da ogni altro genere della natura, “l’uomo produce anche libero dal bisogno fisico e produce veramente soltanto nella liberta` dal medesimo”5. O a prefigurare il comunismo e il suo orizzonte di vita pacificato e senza classi come il passaggio dal “regno della necessita` al regno della liberta`”, dove l’essere umano, spento ogni conflitto sociale, giungerebbe infine ad essere completamente padrone della sua esistenza.

3. La modernita` di un universale astratto E` un’ipotesi di umanita` dunque fortemente astratta, quella che Marx pone a base della sua filosofia della storia e della teorizzazione del comunismo che la conclude, quale pretesa soluzione definitiva ai problemi della modernita`. Un’umanita` la cui essenza si risolve troppo e completamente nell’‘‘insieme dei rapporti sociali’’, dimenticando quanto la sua esistenza sia invece costituita anche da animalita` e biologicita`, e dai problemi (di dolore, morte, finitudine che ne derivano). Un’umanita` cioe` troppo storico-sociale e troppo poco materialistico-naturale, il cui disancoramento dalla realta` dell’individualita` corporea propone una tendenza troppo facile e scontata alla comunione e alla partecipazione reciproca, alla fusione gruppale e comunitaria. Caratteristiche, che con la loro assenza di sensibilita` per i problemi della soggettivita` individuale e della sua differenza da un’identificazione 5 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma 1963, pp. 199-200.

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solo gruppale, renderanno assai semplicistica la teoria della rivoluzione di Marx fino a condizionare, quanto ad antropologia troppo gracile ed univoca, i tentativi di comunismo reale che nel corso del ’900 prenderanno ispirazione dal pensiero di Marx. Eppure e` proprio questo deficit cosı` pesante e problematico di soggettivismo e di tensione verso l’individualita` che consente al Marx della piena maturita` (cioe` del Capitale e dei Lineamenti di critica dell’economia politica) di fissare con sguardo quanto mai acuto realta` fondamentali della dinamica economico-sociale del mondo contemporaneo. Infatti per questo Marx, che ora, nei testi piu` tardi, sembra ricercare non tanto una teoria generale della storia quanto sopratutto la comprensione approfondita della societa` moderna, e` solo la riduzione dei soggetti della sfera economica, non a individualita` libere e autonome, ma a meri portatori di funzioni e comportamenti economici predeterminati da un meccanismo oggettivo e impersonale, che rende possibile afferrare la sostanza di un mondo organizzato sulla produzione e sull’accumulazione di capitale. Un’economia capitalistica come quella moderna, teorizza Marx, solo in apparenza produce beni e merci per soddisfare i bisogni degli esseri umani. Il bisogno piu` profondo del capitale e` quello di una quantita` di denaro che cresce su se stesso attraverso il profitto, in una tendenza accumulativa che tendenzialmente non ha mai fine. Sostanza del capitale e` infatti una ricchezza astratta – appunto solo quantitativa, come quella del denaro – che, in quanto mera quantita`, puo` avere come scopo solo quello di accrescere quantitativamente se stessa. Il capitale e` percio` un universale astratto, ossia un principio di potenziale espansione infinita di ricchezza solo quantitativa. E l’intero percorso che compie dalla somma di denaro investito inizialmente (“capitale monetario”), che si trasforma in acquisto di mezzi di produzione e di forza-lavoro per dar vita a un processo di produzione (“capitale produttivo”), per creare merci e venderle sul mercato (“capitalemerce” che torna a trasformarsi in capitale monetario, con l’aggiunta di un profitto, cioe` di un aumento di denaro) e` appunto il circolo della sua universalizzazione: del suo cioe` non rimanere accumulato e inutilizzato come un mero tesoro, ma del suo entrare nella vita delle cose e degli esseri umani, del suo scambiarsi con esse e del suo ritornare a se´ stesso, arricchito e potenziato da tale mediazione. Per questo e` un principio di organizzazione e di dinamicizzazione del reale enorme. Come mai era accaduto finora nella storia, perche´ lo scopo della sua crescita puo` darsi solo attraverso lo scambio e la compenetrazione dell’intera realta` naturale ed umana. Il luogo piu` significativo di tale scambio e` quello che si da` per Marx tra il capitale e la cosiddetta “forza-lavoro” (come il Marx maturo chiama la

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classe sociale dei lavoratori che, in cambio di salario, lavorano per i capitalisti). Giacche´ quello che sembra uno scambio giusto tra eguali (una quantita` di denaro corrispondente a una quantita` di lavoro prestato) e` in effetti uno scambio diseguale, o, secondo la definizione di Marx, di “sfruttamento”. Giacche´ una volta che il lavoratore ha ceduto per un determinato periodo di tempo la proprieta` della sua forza lavorativa al capitalista, questi ha il diritto di farne l’uso che vuole, obbligandolo a un’intensita` e a una durata della giornata lavorativa che compensa non solo il valore del salario ma crea anche un plusvalore che costituisce la sostanza del profitto e dell’accumulazione del capitale. Il profitto dell’economia moderna e` costituito per Marx da lavoro non pagato e questo atto radicale d’ingiustizia e di diseguaglianza sociale si da` appunto perche´ esiste una classe, come quella del lavoro, che, essendo privata dal monopolio di cui godono le altre classi sociali, da ogni possesso dei mezzi di produzione (in primo luogo terra e industrie), puo` vendere sul mercato delle merci null’altro che se stessa, cedendo il suo consumo, come avviene con ogni merce, al proprietario che l’ha comprata. Solo che tutto cio`, tale meccanismo di diseguaglianza e di sfruttamento, alla superficie della realta` appare esattamente come l’opposto, ossia uno scambio tra soggetti liberi ed eguali. La sfera della libera circolazione delle merci e della serie inesauribile delle vendite e delle compere occulta infatti cio` che avviene nella produzione, dove alla regolazione del diritto subentra l’ambito del comando del capitale sulla forza-lavoro. La societa` moderna e` dunque fondata per Marx su una forte opposizione e lotta di classe e contemporaneamente sulla loro dissimulazione. Su un contrasto cioe` tra sfera dell’essere e sfera dell’apparire, che ne fa una societa` profondamente carica, oltre che d’ingiustizie, di effetti ideologici che hanno lo scopo di occultare la sua realta`. Solo il comunismo, un’organizzazione sociale fondata cioe` sull’autogoverno dei produttori, potra` impedire che l’arricchimento, tendenzialmente infinito, del capitale continui ad alimentarsi della mercificazione degli esseri umani e dell’intero mondo della natura e, insieme, restituire trasparenza e visibilita` ai rapporti sociali attraverso cui quegli stessi esseri umani entrano in relazione tra loro.

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LA SOLUZIONE ROMANTICA

1. Il tradizionalismo politico La filosofia hegeliana si definisce anche, com’e` noto, filosofia dell’idealismo, perche´ per Hegel l’Idea, quale sinonimo di universale concreto (di un universale cioe`, non povero, ma ricco di differenze e d’individualita`), costituisce ed esprime l’organizzazione piu` matura e piu` sviluppata della realta`: in una prospettiva, s’e` visto, di costruzione unitaria della societa` e della storia, in cui lo sviluppo delle autonomie individuali non sia contraddittorio con il darsi di forti ed organici legami sociali. E in tal senso la ragione dialettica di Hegel vuole essere, nel ricercare la mediazione e la fecondazione reciproca di universale e individuale, non la negazione, ma il superamento, nel verso della continuazione e dell’approfondimento, della stessa ragione kantianoilluministica, sottratta a una concezione dell’universale ancora troppo rigida ed astratta. Invece in netta contrapposizione all’Illuminismo – e al suo modo di ricercare soluzioni di vita e di organizzazione politica attraverso la ragione (attraverso cioe` la valorizzazione di cio` che si ritiene presente e comune a tutti gli esseri umani) – si configura la proposta teorica di quei pensatori di varia nazionalita` e di varia formazione culturale, ma appartenenti soprattutto alle aree di cultura tedesca e francese, che qui riuniamo sotto la categoria di “romanticismo politico” e che si riconoscono in un approccio ai temi della modernita`, e delle questioni inaugurate dalla Rivoluzione francese, fondato piu` su valori affettivi ed emozionali (i valori del sentimento e delle virtu` morali) che non su quelli della ragione analitica e discorsiva. Ma, prima di esaminare brevemente l’impostazione teorica del romanticismo politico propriamente detto, sara` bene ricordare la critica radicale svolta alla Rivoluzione francese dagli autori del cosidetto “tradizionalismo”

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europeo. Non perche´ si voglia far coincidere qui il romanticismo con il tradizionalismo – dato che il romanticismo costituisce comunque un’esperienza assai significativa della sensibilita` e della cultura moderna – ma perche´ la lettura controrivoluzionaria della Rivoluzione fatta da autori, come l’inglese Edmund Burke, il savoiardo Joseph de Maistre e il francese Louis de Bonald, sottraendo legittimita` storica al senso e alla concepibilita` in quanto tale del concetto di rivoluzione, ha contribuito indubbiamente ad alimentare quel clima di rifiuto radicale della ragione illuministica che rappresenta, non solo sul piano politico ma su quello piu` generale della filosofia e della visione antropologica, la scelta piu` caratteristica del romanticismo. Qui basti ricordare che per Burke (con l’opera del 1790 Riflessioni sulla rivoluzione in Francia), e per buona parte della classe dirigente inglese di quel periodo, la Rivoluzione aveva significato non un trionfo ma una sconfitta della liberta`. Giacche´ aveva voluto imporre, con atti di estrema violenza, princı`pi e modelli astratti di umanita`, confliggendo cosı` contro l’evoluzione lenta e graduale delle cose e delle istituzioni, e sopratutto contro la composizione armonica di uno Stato in cui i desideri e i bisogni delle moltitudini, per definizione ignare della conoscenza e della competenza degli affari generali, dovevano essere interpretati e rappresentati dagli esponenti della grande aristocrazia terriera e della grande borghesia, colti e benestanti. Cosı`, se la civilta` puo` nascere per i “tradizionalisti” solo dal mantenimento e dalla valorizzazione della diseguaglianza quanto a distribuzione della ricchezza e della proprieta`, la Rivoluzione, con il suo programma di uguaglianza generalizzata, non puo` che apparire un “mostro” storico, che s’e` mosso contro la vera natura della civilta` e dell’umanita`. Ed anche per De Maistre (1753-1821), cittadino del regno di Sardegna e autore della Consideration sur la France (1796), l’eta` postnapoleonica della Restaurazione, con la riproposizione del potere monarchico e una gerarchia sociale legittimata dalla Chiesa, non ha fatto che concludere l’eta` dell’errore e dell’abisso in cui sono caduti l’Illuminismo e la Rivoluzione, colpevoli, in primo luogo, di aver concepito, una cultura e un’organizzazione della societa` fondata sul laicismo e sull’affrancamento dall’ordine divino. Laddove l’eta` della Restaurazione, riaffermando il legame tra politica e religione, e` la conferma di una trama provvidenzialistica dello svolgimento della storia, all’interno della quale la caduta nel laicismo moderno e nella pretesa autosufficienza dell’essere umano nel disegnare il proprio mondo di vita, (che hanno finito col produrre il Terrore della Rivoluzione) si mostrano essere stati solo una tappa, gia` ormai negata e superata dalla riaffermazione dei valori cristiani e da una riproposizione di istituzioni

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LA SOLUZIONE ROMANTICA

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politiche sotto la guida spirituale della Chiesa. Tanto che la pace nell’Europa postnapoleonica e postrivoluzionaria potra` essere garantita solo da una confederazione di monarchie sotto la presidenza del papa.

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2. Il romanticismo politico propriamente detto Invece gli autori che tra l’ultimo decennio del ’700 e la prima meta` dell’800 ispirano il romanticismo politico – soprattutto in Germania, i fratelli Friedrich e A. Wilhelm Schlegel, Novalis, Schleiemarcher e Schelling, F. Baader e A. Mu¨ller – non partecipano, all’inizio, di un rifiuto verso l’idea della rivoluzione. A condizione pero` che questa sia rivoluzione essenzialmente morale e spirituale, finalizzata a rigenerare valori e dignita` umane, piu` che rivoluzione politica e volta a riformare solo apparati costituzionali e strutture di potere. I tempi nuovi, si afferma, devono certamente vedere il trasformarsi di costumi e di modi di vita, ma questo deve avvenire attraverso un rivoluzionamento dal basso, attraverso la passione, la partecipazione e il consenso dei ceti popolari, piu` che non attraverso l’intellettualismo e l’iniziativa politica di gruppi d’e´lites, separati dal sentire, dal pensare e dai bisogni dei piu`. Perche´ cio` che muove gli esseri umani non e` l’astrazione delle ideologie o la chiarezza, lucida ma fredda, delle costruzioni di pensiero, ma la forza del sentimento e delle virtu` pratiche che generano senso di onore e di appartenenza, di stima e dignita` per il proprio se´ e di rispetto e amore verso le comunita` di cui facciamo parte. Anche perche´, a ben vedere, qualsiasi forma di vita e` organica e non meccanica: come si fa evidente a chiunque consideri con profondita`, non solo l’ambito della natura, ma anche quello della vita storica e sociale degli esseri umani. Gia` anticipati e sollecitati in tale visione della realta` dai grandi autori, letterati e filosofi, del pensiero organico e antimeccanicistico (come Goethe ed Herder), i romantici ritengono infatti che sia la vita della natura che quella della storia e delle societa` umane non nascano dalla composizione e dalla somma di enti o d’individui, preesistenti, nella loro singolarita` atomistica, all’insieme, che formerebbero solo allo scopo di garantirsi una vita personale piu` sicura e piu` funzionale al proprio interesse privato. E` invece l’intero, il contesto, l’organicita` delle relazioni che spiegano la vita del singolo. Giacche´ sono la comunita`, il ceto, il gruppo sociale, le istituzioni etiche e religiose che preesistono al singolo e che ne fondano valori, scelte e sentimenti. E se appunto il meccanicismo della moderna scienza della natura, a partire dalla grande fisica sei-settecentesca di Galilei, di Cartesio, di

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Newton, ha concepito la vita come combinazione di corpi e dei loro movimenti nello spazio, l’organicismo e` invece la visione che concepisce il mondo, la natura, la societa`, non come sommatoria di enti individuali, ma come simile ad un organismo, le cui parti, anziche´ precedere il tutto, hanno senso e fine solo nella sua riproduzione come intero. Ora appunto e` proprio in conseguenza di questa visione organica di tutto cio` che e` “vita” a far sı` che il “romanticismo” (termine che deriva da romanzo, in quanto sinonimo di non-scientifico, fantastico e sentimentale) privilegi, come facolta` conoscitiva della realta`, anziche´ la ragione che si muove per concetti e nessi causali sempre definiti e finiti, il sentimento che si avvale di immagini, di narrazioni, di metafore, di miti, di intuizioni, capaci di cogliere il senso dell’intero. Giacche´ la vera legge che deve valere, al di la` di tutte le leggi rigide della scienza e della politica, e` quella dell’accordo della vita con se stessa, in un potenziamento costante e in una dinamica creativa che sottragga l’esistenza alla sua chiusura nel finito e l’apra costantemente verso l’inesauribile e l’infinito. Spiegando tutto cio` anche perche´, nella rivendicazione della liberta` da ogni vincolo esterno, l’anima romantica possa atteggiarsi ora come rivoluzionaria e valorizzatrice del nuovo, ora come dedita ad una restaurazione di istituti del passato e della tradizione, ora come entusiasta dei valori della comunita` ora come rivendicatrice di un individualismo estremizzato fino all’eroismo e al titanismo. Ma cio` che va soprattutto sottolineato e compreso, in particolare dal punto di vista politico che e` a noi quello che piu` interessa, e` come e perche´ i romantici, in particolare quelli tedeschi, trasformino a poco a poco la loro iniziale apertura verso la rivoluzione in una scelta opposta di senso profondamente antimodernista, che giunge alla rivalutazione del Medioevo (si pensi all’opera di Novalis del 1799, La cristianita` e l’Europa), quale tempo storico guidato dall’autorita` spirituale della Chiesa, cosı` come alla riproposizione di tutte le organizzazioni corporative e collettive della societa` in cui venga meno lo spirito del liberalismo e del soggettivismo moderni. Questo passaggio e` infatti la conseguenza – potremmo dire, rispondendo in modo assai sintetico – della politica di espansione e di potenza condotta dalla Francia rivoluzionaria prima e dall’Impero bonapartista poi, ai danni, in primo luogo della Germania. La conseguenza cioe` del contraddirsi del messaggio universale e cosmopolita della Rivoluzione nel guadagno e nell’interesse di una sola nazione: nazionalismo imperiale, a cui i romantici reagiscono con una difesa e una celebrazione del proprio nazionalismo, delle proprie origini e delle proprie tradizioni. In tal modo al modello rivoluzionario e giacobino, trasmettibile all’in-

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LA SOLUZIONE ROMANTICA

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tero genere umano, del popolo come insieme di cittadini, legati tra loro da diritti e da doveri, legalmente stabiliti e codificati – come insieme costituito, dunque della volonta` e degli interessi degli individui che lo compongono – subentra il concetto, piu` propriamente romantico, di popolo (o di nazione) [Volk] come insieme costituito da membri che hanno la stessa razza, la stessa lingua, gli stessi usi e costumi, la stessa religione. Un corpo collettivo ed organico, la cui ricchezza e potenzialita` di vita e` originaria e inesauribile: tanto da vivere e realizzarsi in ogni sua propria istituzione e in ogni suo membro, per prolungarsi in una serie infinita di creazioni e di generazioni, al di la` di essi. Cosı` per i romantici il popolo, prima che dalla costituzione e dalle leggi (ossia da cio` che e` prodotto dalla ragione), e` unificato dal proprio spirito (Volksgeist): la cui forza sta, ben lungi dal grado di maturita` e di progresso civile raggiunto dalla sua autocoscienza giuridica, nella sua natura, come luogo genetico ed originario, da cui prende vita e si conserva tutta la storia di quel popolo. Ed appunto naturali ed originarie sono quelle articolazioni collettive come la famiglia, l’ordine sociale di comune appartenenza, la corporazione che lega nel medesimo lavoro, il paese in cui si vive, lo Stato, la religione, in cui l’individuo trova, da sempre, l’appagamento dei propri bisogni e del proprio onore: in un’articolazione di corpi, il cui nesso non e` costituito dallo scambio degli interessi e dei vantaggi personali ma dai sentimenti della reciproca partecipazione e dell’amore. Come naturali, e in qualche modo eterne, sono le funzioni essenziali in cui si ripartisce la riproduzione della vita in una comunita`: quella dei lavoratori manuali, della terra e dei manufatti, che provvedono ai beni materiali, quella dei militari che s’occupano della difesa dai nemici e quella degli intellettuali che, soprattutto come membri del clero, provvedono alla diffusione e alla custodia dei valori spirituali della tradizione. A garantire la fede in questi valori, della comune appartenenza ad una stessa terra, alla continuita` di sangue di una stessa stirpe, al permanere, umile e probo, nella consuetudine di una permanente divisione dei ruoli e dei lavori, non puo` che stare l’istituzione che e` piu` ricca di tradizione, avendo attraversato quasi tutta la storia dell’Occidente: ossia la Chiesa. E cio` anche al di la` della distinzione tra protestantesimo e cattolicesimo (e infatti alcuni romantici guardano con piu` simpatia alla Chiesa di Roma che non a quella luterana), perche´ cio` che conta e` la diffusione che la religione cristiana ha tra i ceti popolari e il legame organico che essa stringe tra le diverse componenti – tra l’alto e il basso – della vita sociale. Cosı` non a caso Franz von Baader, romantico tedesco di formazione cattolica, nella sua polemica

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contro la costituzione moderna dello Stato di diritto, espressione a suo avviso solo degli interessi delle classi benestanti borghesi, e nella sua difesa dei salariati costretti a paghe di fame giunge ad affidare, in un saggio del 1835 (Sullo squilibrio tra i nullatenenti o proletari e le classi possidenti della societa`), esplicitamente al clero il compito di rappresentare, nella societa` attuale, i bisogni e gli interessi dei lavoratori. Del resto l’idealizzazione che il romanticismo tedesco compie del Medioevo, come eta` in cui la struttura gerarchica dei diversi ceti e le relazioni di dipendenza personali non sarebbero ancora state sopraffatte dalle durezze del mercato moderno, dalla pauperizzazione delle classi popolari e dalla spropositata accumulazione di ricchezza della borghesia (cfr. l’opera del 1809 di Adam Mu¨ller, Gli elementi dell’arte politica), s’incontra con l’elaborazione sul tema del diritto compiuta in quegli anni, tra gli storici e i giuristi, dalla cosidetta «Scuola storica del diritto», avviata all’Universita` di Tubinga da Gustav Hugo e proseguita alle Universita` di Marburgo e Berlino da Friedrich von Savigny e da J. Stahl. La fonte del diritto risiede infatti per questi studiosi non nella carta costituzionale di uno Stato, democraticamente scritta – ne´ in una ragione che pretende di parlare di diritti umani in generale – ma nelle consuetudini di vita e negli istituti di vita che affondano le loro radici nel passato e che concorrono a mantenere unito ed organico lo spirito di un popolo. Lo Stato e` “l’organica manifestazione del popolo” e il diritto e` cio` che codifica una prassi consueta e convenuta: non secondo una convenzione razionalmente e contrattualisticamente discussa, bensı` secondo quanto il tempo e la sua durata hanno imposto come utile e giovevole al carattere storico e nazionale di quel popolo. Ne´ quanto ad esaltazione delle virtu` del popolo si mostrano meno entusiasti autori dell’area francese, di cui qui varra` ricordare, tra le altre, solo la figura di Fe´licite´ de Lamennais (1782-1854). Questi, sacerdote dal 1816, giunge infatti alla teorizzazione di un “socialismo cristiano”, schierandosi con i raggruppamenti democratici e socialistici operanti nella Francia degli anni trenta e quaranta dell’800. Anche per lui, soprattutto nella sua prima opera (Saggio sull’indifferenza in materia religiosa), tutta la cultura della modernita`, dall’Umanesimo, alla Riforma protestante, all’Illuminismo cade nella cecita` di valorizzare fino all’onnipotenza la ragione individuale, staccando l’essere umano da quella “ragione comune dell’umanita`” che e` custodita solo dalla Chiesa cattolica: “chiunque si separa dalla chiesa cattolica e` necessariamente un eretico, un deista, un ateo; [...] questi tre grandi sistemi dell’errore [...] partono da un principio comune, la sovranita` della ragione individuale e suppongono cosı` che ogni uomo, scartando ogni

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LA SOLUZIONE ROMANTICA

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fede e ogni autorita`, debba trovare la verita` grazie alla sola ragione”1. Ma e` soprattutto il popolo di Dio, con una sua autorganizzazione, culminante in una federazione di comuni, che, nella seconda parte della vita di Lamennais (Parole di un credente del 1834), diventa espressione di una capacita` di vita democratica e socialista, capace di lottare contro la moderna “citta` di Satana”, rappresentata dal capitalismo e dall’accumulazione della ricchezza materiale. Un popolo, fatto di lavoratori e credenti, depositario del vero vangelo, non ha bisogno di nessuna autorita` ad esso sovraordinata, neppure piu` di quella del papa e della gerarchia ecclesiastica. Tanto che, a muovere da questa autenticita` e verita` di vita che si raccoglie nella comunita` popolare, Lamennais puo` giungere prima a rivendicare, contro ogni controllo e burocrazia centralistica, i valori liberali della liberta` di pensiero e di religione, di associazione e di stampa, poi a teorizzare un socialismo cristiano animato dal diritto di ribellione, anche violenta, del popolo di Dio contro il mondo della diseguaglianza e del potere.

1

M. Ravera, Il tradizionalismo francese, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 98.

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LA SOLUZIONE ESISTENZIALE

Tutte le ipotesi fin qui considerate – di trovare risposta al problemi della genesi di una societa` in cui non possa ormai piu` essere eluso il diritto della moltitudine (cioe` di tutti i membri di un insieme sociale, nessuno escluso) a vivere in liberta` la propria esistenza secondo un codice di leggi ben definito – rientrano, abbiamo visto, nell’orizzonte tematico e problematico con il quale la Rivoluzione francese ha dato accesso, in modo imponente ed altamente simbolico, alla modernita`. E appunto tutte le varie ipotesi teoriche che abbiamo fin qui esaminate hanno in comune, pur nella profondissima diversita` delle soluzioni proposte, l’assunzione del medesimo problema: come concepire l’organizzarsi della vita moderna, in quanto affacciarsi, di tutti e di ciascuno, sulla scena dell’iniziativa storica e della partecipazione alla vita sociale? Come pensare l’ingresso nella vita collettiva di masse di uomini e donne, per secoli confinate in modi di vita a stento distinguibili da quello animale e volti alla riproduzione piu` servile, elementare e misera del proprio se´, e, conseguentemente, come pensare la compresenza, il confronto, la differenza, la mediazione o la fusione organica, senza piu` privilegi e asimmetrie, tra singolo e molti, tra spazio e liberta` del privato e spazio e diritti del pubblico? I due pensatori che invece stiamo per considerare, So¨ren Kierkegaard e Arthur Schopenhauer, si sottraggono a questo modo di vedere e di prospettare i problemi della modernita`: per dare vita a quella che potremmo definire la prospettiva e la soluzione esistenziale. Non nel senso che possano sottrarsi realmente anch’essi alla questione di fondo e insuperabile della modernita` (quale, l’abbiamo appena ripetuto, l’essere la societa`, luogo di appartenenza, non di pochi, ma di massa e di tutti), bensı` nel senso di non credere ad una possibile soluzione e mediazione armonica tra interessi del singolo e interessi del collettivo. O meglio, nel sottrarre, entrambi, sia

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Kierkegaard che Schopenhauer, senso e valore ad uno dei poli del problema. Giacche´ per essi il collettivo diviene solo un luogo di omologazione e di anonimato, di spirito massificato e gruppale, in cui secondo la metafora usata da Kierkegaard gli esseri umani sono pari a ciottoli tondi e levigati, resi artificialmente lisci e senza differenze dal conformismo. Invece per essi sara` solo nella cura del se´, nella ricerca di uno statuto autentico del proprio vivere personale – in un volgersi cioe` dall’esteriore all’interiore –, che si potra` trovare una risposta ai problemi di massa e di omologazione quantitativa generati dalla societa` moderna. Solo l’interiorizzazione cioe` puo` essere la risposta ad una socializzazione, che con l’Illuminismo e la Rivoluzione francese s’e` estesa a tutti, ma che pure ha tolto ogni profondita` e intensita` di vita. E l’interiorizzazione, lungi dall’indicare il chiudersi in una prospettiva egocentrica e individualistica del proprio se´, sta a significare per questi autori uno scavo nell’interiorita`, che vuole essere capace nello stesso tempo di aprire il mondo e i suoi significati secondo una penetrazione ben piu` adeguata dei saperi volti all’esteriore e alla realta` oggettiva. La conseguenza di fondo di questa scelta teorica sta in un passaggio che, vedremo, sara` determinante per l’evolversi non solo della filosofia, ma dell’intera storia della cultura e della sensibilita` moderna. E cioe` che, identificandosi la realta` pubblica e intersoggettiva con il luogo del disvalore e dell’inautentico, gli ambiti del sapere che da sempre, nella tradizione antica e moderna, si sono provati a definire l’universale, ossia le verita` e le certezze che possono valere per tutti – come la filosofia, la scienza, il pensiero politico e sociale, l’etica e la morale –, devono venire anch’essi meno quanto a pretesa di verita`. Poiche´ da essi deriva un sapere solo superficiale e filisteo che occulta, con i suoi universali altisonanti e magniloquenti, il vero cammino della conoscenza e della vita autentica: per attingere le quali e` invece necessario abbandonare il logos, cioe` la ragione discorsiva e concettuale su cui la cultura europea nei secoli ha fondato il suo sviluppo, e mettere in campo nuove pratiche conoscitive e d’esperienza che s’avvalgono piu` delle emozioni e della corporeita` che non del concetto. La proposta sara` dunque quella di immettere, nella tradizione della cultura occidentale, nuovi strumenti e nuovi modi d’indagare il mondo: prendendoli anche da altre culture, come quelle orientali, o recuperandoli dalla stessa cultura occidentale quale cultura della spiritualita` e della religiosita` cristiana. Ma comunque proponendo e valorizzando il percorso interiore quale direzione in grado di attingere delle profondita`, in senso verticale, che il sapere scientifico e filosofico non potra` mai eguagliare nella sua estensione orizzontale ed oggettiva.

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LA SOLUZIONE ESISTENZIALE

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1. Una filosofia dell’esistenza Nel danese So¨ren Kierkegaard1 gia` le caratteristiche del suo modo di scrivere e il rilievo che l’esperienza della sua vita affettiva assume nel configurarsi del suo pensiero indicano la profondita` della svolta teorica che sara` poi sempre piu` nota con nome di filosofia dell’esistenza o esistenzialismo. Educato nel clima di una severissima religiosita` protestante, Kierkegaard, che vive tutta la sua breve vita pressoche´ ininterrottamente a Copenhagen, non e` un filosofo di professione, dedito a comporre trattati e opere sistematiche. E` bensı` un autore di pubblicazioni, tutte coperte dallo pseudonimo, e rivolte in modo radicalmente critico verso la chiesa luterana e la cultura borghese-protestante della sua citta`. In scritti come Aut-Aut, il Diario del seduttore, Timore e tremore, La malattia mortale, egli versa ed elabora le sue esperienze personali (la rinuncia al progetto di diventare pastore, l’esperienza del fidanzamento e della rottura con la giovane Regine Olsen, il rifiuto dell’etica del matrimonio e di una vita borghese, una scelta esistenziale di rigore religioso ed ascetico) in una visione del mondo che intende sottrarre il valore e il senso della vita della persona ai sistemi istituzionali della cultura (quali la filosofia hegeliana, allora dominante a Copenhagen) e della religione tradizionale. Ed e` appunto a muovere dalle sue esperienze di vita che Kierkegaard formula una propria originale concezione dell’esistenza come dialettica, articolata in tre stadi (quello estetico, quello etico e quello religioso), assai diversa e lontana da quella concepita da Hegel. Nella societa` borghesemoderna infatti la vita dei piu` si svolge, per l’autore danese, secondo stereotipi e ruoli predisposti, accettati da tutti per quieto vivere e mancanza di individualita`. Solo per taluni invece, in grado di guardare al di la` della superficie delle cose, c’e` un percorso emozionale che, vanificando la pretesa e rassicurante consistenza di quei ruoli, obbliga il soggetto a ben altre scelte e forme di vita. E` una sorta di “malattia” che, non consentendo di coincidere e fermarsi nei ruoli classici e pubblici dell’esistenza, immerge la

1

So¨ren Kierkegaard (1813-1855). Allevato in una rigida religiosita` protestante, frequenta la facolta` di teologia di Copenhagen, largamente influenzata dalla filosofia di Hegel. Non da` seguito ne´ al suo progetto di diventare pastore ne´ di sposare Regina Olsen, la giovane con cui e` ufficialmente fidanzato. Laureatosi con una tesi sul concetto di ironia in Socrate e vivendo di rendita si dedica completamente all’attivita` letteraria. Tra le sue opere, tutte apparse firmate da uno pseudonimo, ricordiamo il Diario, composto dal 1834 fino alla morte, Timore e tremore (1843), Aut-Aut (1843), di cui fa parte il Diario di un seduttore, Il concetto di angoscia (1844), La malattia mortale (1849).

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DALLA RIVOLUZIONE FRANCESE ALLA COMUNE DI PARIGI

persona nell’esperienza di una “angoscia” radicale del vivere, che sola la conduce ad attingere autenticamente il proprio se´ e a sperimentarsi come “liberta`”. L’angoscia infatti, che non nasce dalla paura verso qualcosa d’esterno ma dallo sguardo interiore lanciato verso le possibilita` piu` proprie e originali, nel momento in cui toglie senso e gusto alle cose del mondo, libera il soggetto dal render conto al mondo esterno e lo colloca da solo nel confronto con se stesso e la responsabilita` della propria individualita` di vita. Cosı` mentre in Hegel la dialettica, col togliere le autorappresentazioni superficiali e astrattamente individualistiche che il soggetto spirituale possiede all’inizio di se stesso, ha la funzione di esplicitare i nessi di socializzazione e di mediazione con l’alterita` che intessono e sostengono la vita del singolo – e dunque ha lo scopo di mostrare che la vera individuazione coincide con la piu` ampia socializzazione – in Kierkegaard al contrario (si veda la critica che fa della filosofia di Hegel nella Postilla conclusiva non scientifica del 1846), il superamento delle identita` esteriori, e gia` definite e accettate dalla comunita`, ha il fine di sottrarre l’individuo ad ogni legame sociale e di porlo solo di fronte a se stesso, ossia – ma e` la stessa cosa – giacche´ non v’e` esperienza meno pubblica e piu` intima di quella religiosa, solo di fronte a Dio. La prima delle forme di vita indagate da Kierkegard – la vita estetica – e` quella vissuta da chi ricerca solo il piacere, il continuo godimento di ogni possibile momento, rifiutando d’inserirsi e partecipare ai ruoli della vita produttiva e collettiva. L’esteta, descritto in scritti come il Diario del seduttore, Don Giovanni, In vino veritas, e` colui il quale, come il personaggio di Don Giovanni nell’omonima opera di Mozart, vive solo nell’attimo, esalta i desideri sensuali e carnali, e rifugge dall’accogliere nei suoi valori di vita qualsiasi interesse di natura universale, sia conoscitivo che praticomorale. E` la vita che ricerca costantemente la gioia, evitando ogni possibile incontro con la sofferenza e il di dolore. La vita di cui e` espressione la musica, la quale per sua natura, e` demoniaca, volta all’espressione intensa e giocosa dei sentimenti e indefinibile attraverso la ragione logico-discorsiva o istanze e riflessioni morali. E` l’esistenza insomma del seduttore, che non puo` fermarsi a costruire relazioni durevoli con nessuna donna, perche´ la sua passione di vita, non accogliendo nulla d’infinito e d’universale, e` avvinta ad un mondo fatto solo d’incontri e di figure particolari; le quali non possono che incessantemente mutare, per evitare la noia della ripetizione e la perdita della fragranza irripetibile dell’attimo. Eppure una vita volta al piacere si rovescia paradossalmente, proprio secondo una tipologia dialettica, nel proprio opposto: cioe` nel non provare

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LA SOLUZIONE ESISTENZIALE

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forti emozioni, anzi nel divenire preda della malinconia, la quale “e` la madre di tutti i peccati”, visto che il vero peccato da parte di un singolo e` quello di non volere, di non volere profondamente e intesamente. Alla vita estetica si oppone cosı` per Kierkegaard – proprio secondo l’opposizione di un aut-aut – la vita etica, in cui l’individuo, cessando di non scegliere, sceglie al contrario i valori operosi e costruttivi di un’esistenza scandita dal lavoro, dal matrimonio, dalle amicizie, e dall’essere membro di una comunita`. Sceglie di vivere e accettare i legami, attraverso cui egli da` spessore e centralita` al proprio vivere, diversamente dalla leggerezza dell’esteta e dall’estenuata indeterminatezza del suo se´. Secondo una serieta` di vita, di cui il simbolo piu` elevato e` dato dall’amore coniugale, sancito, a differenza dal piacere erotico, dal matrimonio, in cui la continuita` del legame umano da` senso, anche con la ripetizione, al mondo e alle cose. E dove appunto si da` vita a un mondo etico, qual e` quello descritto da Hegel nella Filosofia del diritto, in cui ciascuno trova se stesso nell’universale, nei ruoli, nelle consuetudini e nelle norme mediate dal consenso di tutti, e da tutti riconosciute. “Il suo compito etico e` di esprimere se stesso nel togliere la sua singolarita` per diventare il generale”2. Solo che in tal modo anche nella vita etica – se “il compito e` di spogliarsi delle determinazione dell’interiorita` e di esprimerla nell’esterno”3 – il singolo non riesce a raggiungere la piu` autentica profondita` del proprio se´, dovendola abbandonare per l’universale. Per cui oltre la vita etica, che pure non viene rinnegata e svalorizzata del tutto da Kierkegaard, sta la vita religiosa, la vita del “cavaliere della fede”, il quale, scavando nella propria interiorita`, la trova incommensurabile con l’esteriorita`: come tale cioe` che non prende senso dal mondo esteriore, delle relazioni e delle consuetudini sociali, bensı` dal rapporto, del tutto privato, con l’assoluto di Dio. In una vita vissuta religiosamente infatti il singolo sta al di sopra della norma morale, delle leggi universali degli uomini: come, in modo esemplare, accade ad Abramo, disposto a sacrificare – invece secondo la legge degli uomini ad uccidere – suo figlio Isacco, per obbedire al comando di Dio e dare testimonianza della sua fede. E la fede e` appunto testimonianza della profondita` dello spazio interiore dell’essere umano, della verticalita` e dell’ampiezza, dell’intensita` e dei toni delle sue emozioni e delle sue passioni, che non sono esprimibili secondo il linguaggio della ragione, del logos

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S. Kierkegaard, Timore e tremore, in Opere, Sansoni, Firenze 1972, p. 65. Ivi, p. 72.

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concettuale e scientifico, delle istituzioni e delle pratiche del mondo sociale ed esterno. Ne´ a caso il limite del grande sistema di Hegel sta per il pensatore danese nell’aver risolto completamente l’interiorita` nell’esteriorita`, nei rapporti sociali, nella storia. “Nella filosofia hegeliana c’e` il principio che «l’esterno (l’estrinsecazione) e` piu` elevato dell’interno»”4. Essa cioe` non ammette il valore e la profondita` dell’interiorita`, la sua incommensurabilita`. Invece il singolo e` piu` elevato ed ampio dell’universale. Come ben esprime l’esperienza emotiva dell’angoscia che per Kierkegaard stringe insieme, nell’individuo, interiorita` della fede religiosa e fondazione della liberta`. E la cui centralita` nell’istituire una vita autentica sara` consegnata dalle pagine di Terrore e tremore e del Concetto dell’angoscia, alla riflessione di tutto l’esistenzialismo contemporaneo. L’angoscia infatti per il pensatore danese nasce dal senso di colpa che, dall’origine antichissima del peccato originale, e` intessuto alla vita di ogni essere umano. Un senso di colpa che nasce dalla caduta dall’Eden, dall’attrazione verso il finito e il carnale, verso il mondo materiale e corporeo dei sensi. Eppure esser capaci di vivere e attraversare l’angoscia – esser capaci di riconoscere la propria colpa nell’abitare i luoghi dell’esteriorita` di fronte alla chiamata sovrannaturale e infinita di Dio – significa staccarsi dal mondo, dal sentirsi condizionato da persone e cose, da obblighi e ruoli, e scoprirsi, in modo abissale e vertiginoso, come soggetto di un’infinita apertura e possibilita`. Tanto appunto da potersi definire l’angoscia, secondo Kierkegaard, come “la possibilita` della liberta`”5. Perche´, se l’angoscia e` l’abisso della propria colpevolezza di fronte all’infinita perfezione di Dio, e` proprio nello stesso tempo, nel consumarsi in essa e nell’annichilirsi del senso del mondo, l’aprirsi per l’individuo dello spazio infinito e straordinariamente fertile del possibile. ‘‘Colui ch’e` formato dall’angoscia, e` formato mediante possibilita`; e soltanto chi e` formato dalla possibilita`, e` formato secondo la sua infinita`”6. Percio` la fenomenologia e il sentire dell’angoscia non sono quelli della paura. Quest’ultima e` sempre timore di qualcosa di definito che dall’esterno ci assale o ci minaccia, mentre l’angoscia e` sensazione, indeterminata e indefinita, del nulla, cioe` di quell’infinita possibilita` d’essere in cui consiste la nostra liberta` e dalla cui inquietudine gli uomini, che s’affidano solo alla 4 5 6

Ivi, p. 72. S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, in Opere, cit., p. 193. Ibidem.

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rassicurazione del pubblico, rifuggono in ogni modo. Cosı` “angoscia” e “nulla”, condizione emotiva e tonalita` esistenziale, entrano nella filosofia moderna a proporre una nuova fondazione della liberta`, assai diversa da quella attraverso l’autonomia del logos e della ragione su cui si s’era fondata quella kantiana (e certamente, anche se su una ragione piu` dialetticamente strutturata, anche quella hegeliana). S’e` dunque aperto un nuovo continente nella filosofia dell’Ottocento, le cui conseguenze vedremo agire potentemente in tutta la cultura contemporanea: un nuovo continente in cui ad esser vettori di senso della realta` sono gli spazi e gli affetti piu` profondi della soggettivita`.

2. L’apparenza del mondo borghese del pensare e dell’agire: Schopenhauer Anche per il tedesco Arthur Schopenhauer7 il senso e il principio della realta` stanno in un’esperienza interiore che si sottrae alla rappresentazione conoscitiva e al pensiero razionale. Ma con esiti, si vedra` subito, profondamente diversi da quelli della filosofia esistenziale di Kierkegaard, perche´ la sua critica della modernita` e di una societa` fondata sui valori borghesi del progresso e del lavoro conduce, non a un’intensificazione autentica di esistenza e di volonta` – a un’individuazione, come accade con il pensatore di Copenhagen – bensı` ad una negazione dell’individuo e della sua intensita` di affetti e volonta`. E` una critica infatti quella di Schopenhauer che, attraverso il rifiuto di tutto cio` che attiene all’ambito sociale della prassi (con i suoi ruoli prosaici e materiali, quali quelli dell’imprenditore, del commerciante, del tecnico, dello scienziato e del politico), mira all’esaltazione del mondo spirituale dell’arte e della musica e tende, in particolare a quell’indebolimento ed estenuazione di volonta` che si consumano, secondo Schopenhauer, nel genio ascetico e nel suo elevarsi al di sopra dei gusti e dei bisogni della quotidianita`. Inaugurando cosı` nella modernita` – e qui sta l’importanza di fondo della sua opera – l’avvio della prospettiva e delle 7

Arthur Schopenhauer (1788-1860). Frequenta presso l’Universita` di Berlino i corsi di Fichte e di Schleiermacher. E` libero docente presso la stessa Universita`, che ben presto abbandona, anche per lo scarso numero di studenti alle sue lezioni in un periodo di forte presenza di Hegel a Berlino. Dal 1833 si trasferisce a Francoforte, dove vive fino alla morte. Dopo essersi laureato con un lavoro Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente (1813), scrive la sua opera principale, Il mondo come volonta` e rappresentazione (1819) e pubblica nel 1851 Parerga e Parilipomena.

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categorie interpretative del nichilismo: ossia di quella visione che nega l’esistenza di verita` oggettive e fondanti, di valori condivisi e comuni – della nozione stessa, insomma, di verita` – e che tanto peso avra` nella filosofia e nell’ermeneutica a noi contemporanea, quale prospettiva che vede nella realta` un insieme di segni e di linguaggi la cui interpretazione da` luogo ad altri complessi simbolici, di segni e di linguaggi, in un processo di spiegazione e di assegnazione del senso senza fine. Nella sua opera piu` famosa (Il mondo come volonta` e come rappresentazione) Schopenhauer, riutilizzando e riscrivendo la Critica della ragion pura di Kant, da` vita ad una visione del mondo strutturata sulla distinzione tra i concetti di ‘‘fenomeno’’ e di ‘‘cosa in se´’’. La realta` infatti a una considerazione elementare e condivisa pressocche´ dalla totalita` degli esseri umani si presenta per Schopenhauer come un insieme di cose e di persone che accadono e vivono nello spazio e nel tempo: cose particolari e persone individuali, ben distinte e separate tra loro, che si connettono attraverso dei rapporti e dei legami, di cui quello fondamentale e` quello di causa ed effetto. Spazio, tempo, principio di causalita` sono dunque le forme fondamentali in cui l’esperienza si organizza, prende forma e assume un senso. Ma, appunto come ha insegnato Kant con la sua rivoluzione copernicana, sono forme dell’esperire e dell’apprendere che non esistono fuori di noi, fuori del nostro percepire e rappresentare, bensı` sono forme intrinseche al nostro rappresentare, con le quali ogni soggetto ordina e da` forma, in modo sostanzialmente uguale a tutti gli altri, alla propria esperienza. Solo che in Schopenhauer il ‘‘fenomeno’’ non e` solo come in Kant la modificazione interiore, a parte subjecti, che di volta in volta l’essere umano esperisce nella propria costituzione percettiva per l’azione di un mondo esterno, di cui, in quanto esterno e altro da noi, non possiamo sapere ne´ dire alcunche´: non e` cioe` solo uno stato e un grado di modificazione della nostra sensibilita`. Bensı` e` cio` che prende senso anche dal mondo oggettivo, giacche´ quest’ultimo, apparendo fuori di se´ e della sua natura sconosciuta al soggetto conoscente, si rende a se´ esteriore, falsificando la propria natura e realta`. Cosı` fenomeno in Schopenhauer e` cio` che, rimandando a una realta` oggettiva ma facendola apparire solo attraverso le forme conoscitive proprie del soggetto, deforma e occulta proprio quella realta` da cui proviene. Il fenomeno e` cioe` piu` un’apparire fallace, una parvenza, che non una conoscenza, qual’e` invece per Kant. E` una falsificazione a parte objecti, che corrisponde e coincide nel soggetto rappresentativo con bisogni d’illusione e di rassicurazione, secondo modi falsi del conoscere, ma peraltro comuni e accreditati dai piu`. E al mondo come rappresentazione appartengono per il

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filosofo di Danzica gli ambiti del senso comune, della conoscenza scientifica nei vari campi del sapere, del lavoro e delle pratiche di vita volte a garantire e a riprodurre in un contesto sociale ogni individuo. Il mondo della rappresentazione e` percio` il mondo normale, in cui si muovono individui e cose secondo leggi di causalita` regolare e scandito appunto da quel “principio d’individuazione”, che mostra ogni realta` come distinta e differenziata. Ma che, paradossalmente, riduce la vita del soggetto al solo vedere e conoscere, all’essere cioe` null’altro che “un puro occhio del mondo”. Eppure l’essere umano non e` solo un occhio. E` anche e soprattutto un corpo: il corpo, la cui presenza, costante, ininterrotta, non mediata da riflessioni verbali e astratte, e` ineliminabile dalla nostra vita e dalla nostra esperienza. Ne costituisce anzi una componente irriducibile ed onnipresente. Ed e` appunto attraverso il nostro corpo che ciascuno di noi entra in contatto con quella realta` che sta al di sotto del mondo dell’apparenza, con quella “cosa in se´”, inconoscibile e indicibile per Kant, che per Schopenhauer e` invece chiaramente intuibile e percepibile, e che e` la volonta`. Ogni movimento del corpo, in qualsiasi direzione e comunque si muova, infatti e` testimonianza di un atto del nostro volere; e` la conferma di un mondo, che sotto quello della soggettivita` conoscitiva e rappresentativa, vive come mondo del desiderare e del volere. Un mondo che, a ben vedere, comprende e si estende, al di la` del nostro corpo, a tutti i viventi, ad ogni forma della natura, all’intero ambito dell’universo. Ma cosa deriva dal fatto che al di sotto del mondo come rappresentazione viva, si agiti e si estenda il mondo come volonta`? Cosa deriva dal fatto che la volonta` stia al di sotto, altra ed estranea dalla rappresentazione conoscitiva e dalla ragione che spiega attraverso cause ed effetti? Ne consegue che la volonta`, che e` sostanza della realta`, essendo priva di ragione e di luce conoscitiva, e` necessariamente cieca e irrazionale. Il fondamento vero della realta`, il principio metafisico dell’universo – metafisico, in quanto al di la` del mondo che vediamo – e` infatti per Schopenhauer una volonta` inesauribile che non ha altro scopo di vita che quello di affermare ininterrottamente se stessa. Senza fermarsi mai e senza poter mai godere di cio` che ha costruito, perche´ fermarsi significherebbe cessare di volere e di vivere. Una volonta` che quindi distrugge costantemente se stessa, perche´, nella sua insaziabilita`, vuole sempre altro da cio` che ha appena voluto e realizzato. E che percio` da` luogo a un accadere impregnato di dolore e di contraddizioni, in cui ogni forma di vita nasce a scapito e a danno delle altre, vivendo in ciascuna di esse la medesima e identica volonta` di affermazione. Come si mostra, nel modo piu` chiaro,

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nella vicenda di vita dell’essere umano, in cui la sofferenza s’intreccia con ogni azione, con ogni atto affermativo. Non solo perche´ dopo ogni soddisfacimento rinasce, senza tregua, il bisogno ma perche´ persino nell’attimo del soddisfacimento il piacere e` intrinsecamente negativo, in quanto il suo darsi ha senso solo a muovere dalla sofferenza e dalla privazione di una precedente mancanza. E` insomma una concezione della realta` profondamente lacerata e dualistica quella concepita da Schopenhauer, come esplicita lo stesso titolo della sua opera maggiore: da un lato il mondo di un volere metafisico e inesorabile, che travolge e consuma ogni individualita`, ogni forma di vita che provi a permanere e a consistere di fronte alla sua volonta` di volonta`, sempre una e identica nella sua natura; e dall’altro il mondo dell’apparenza, in cui gli esseri umani si provano a coprire la scena drammatica e sconvolgente, aperta da quell’abisso d’irrazionalita`, attraverso la messa in scena di un altro mondo, ordinato e scandito invece dal principio d’individuazione. Dove cioe` gli esseri umani s’illudono di coprire il fondo nichilistico e senza senso, in cui precipita il divenire di tutte le cose, attraverso il sipario illusorio (il velo di Maia, come lo chiama Schopenhauer utilizzando un’espressione dell’antica sapienza induista) che si apre su una scenografia presuntivamente coerente e sensata, in cui la vita d’individui e cose appare svolgersi secondo relazioni ne´ distruttive ne´ caotiche ma informate da regolare e intelligibile causalita`. E da cui, in tale dimensione solo illusoria e consolatoria, deriva anche la rappresentazione di se´ stessi come individualita` centrate e consistenti, anziche´ la tragica consapevolezza di essere meri effetti ed oggettivazioni di un volere sovrindividuale e senza scopo. Ma il mondo dell’illusione e della falsita` e` il mondo dei piu`, dell’uomo comune, della massa: “questa merce all’ingrosso della natura, che ne produce migliaia al giorno”8. A questo mondo volgare e pratico, fatto di vite legate a desideri, professioni e lavori, a relazioni personali, a corpi e bisogni, interessi e passioni sempre individuali, Schopenhauer oppone la vita la cui autenticita` consiste nell’affrancarsi da tutto cio`: nel superare cioe` ogni volonta` di vivere, mortificando ogni desiderio legato all’Io e negandosi come individualita`. Alla societa` degli uomini comuni e al loro disperato affannarsi nel soddisfare una bisognosita`, che non sara` mai soddisfatta, oppone una soluzione di vita raffinatissima o di estrema rinuncia, che puo` valere solo per pochi, anzi per pochissimi: la vita dell’arte o di una

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A. Schopenhauer, Il mondo come volonta` e rappresentazione, Laterza, Bari 1972, p. 260.

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beatitudine che trionfa costantemente sulla volonta`, cioe` i modelli, rispettivamente, del genio e del santo. Il genio artistico infatti esprime nelle sue opere dei significati che non sono mai legati alla sua vita personale, coglie dei valori cioe` che sono sempre transindividuali e universali (“idee”, come platonicamente Schopenhauer le chiama). Cosicche´ l’arte, occupandosi delle “permanenti essenziali forme del mondo e di tutti i suoi fenomeni”9 e` capace di sottrarre l’essere umano al cercare, consegnandolo alla quiete, senza desideri, del contemplare. “Lo sguardo dell’uomo, in cui il genio vivo ed opera, fa distinguere costui facilmente, perche´, vivace e fermo insieme, ha il carattere della contemplazione; quale possiamo vedere nelle immagini delle poche teste geniali, che la natura ha di quanto in quanto prodotto fra gli innumeri milioni”10. E tra le varie espressioni artistiche e` la musica in particolare, cui Schopenhauer assegna, con un giudizio assai diverso da quello di Kierkegaard, la maggiore capacita` per il suo carattere aneidetico, non fatto d’immagini, di cogliere la sostanza della vita. Ma ancora piu` profondamente dell’arte, e` l’ascesi, ossia una morale della rinuncia, “mediante l’astensione dal piacevole e la ricerca dello spiacevole, l’espiazione e la macerazione spontaneamente scelta”11, a realizzare nell’essere umano la “nolonta`”: la mortificazione della propria natura come essere corporeo individuato nello spazio e nel tempo, la liberta` come liberazione dal desiderio e la consapevolezza beata che l’essenza del mondo e` null’altro che il nulla. Come appunto testimonia la vita dei santi, e il loro trascendimento del mondo sensibile, nella storia del cristianesimo e nella spiritualita` orientale la religiosita` induisto-brahminica dell’India, depositata nelle Upanishad, con la sua visione del ciclo delle incarnazioni e della progressiva liberazione dell’anima dal corpo. In conclusione va detto che non e` un caso che entrambi i pensatori che qui abbiamo considerato, Kiekegaard e Schopenhauer, abbiano criticato e rifiutato, tra le filosofie del loro tempo, soprattutto quella hegeliana. Giacche´ quella di Hegel e` la concezione, in cui, come abbiamo visto, la realizzazione autentica dell’individuo coincide con il massimo possibile di socializzazione. Laddove Schopenhauer e Kierkegaard hanno opposto al soggetto hegeliano (la cui vita diventa tanto piu` libera quante piu` sfere della relazione, affettive, economico-sociali, politiche riesce ad abbracciare) altri 9

Ivi, p. 258. Ivi, p. 260. 11 Ivi, p. 511. 10

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percorsi esistenziali e altre concezioni, altre pratiche, della liberazione. Concezioni e pratiche che s’accomunano nel porre a loro fondamento, sia pure in modo e con argomenti diversi, l’esperienza del nulla. E con il Nulla, con la sua luce siderale e nichilistica, vedremo, quanta parte della modernita` e della sua vicenda filosofico-culturale continuera` ad affannarsi intensamente, e a pretendere di trarne senso, proprio a muovere dalle filosofie di Kiekegaard e Schopenhauer, per l’intendimento della realta` e la delineazione del proprio indirizzo di vita.

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Bibliografia M. Reale, Le ragioni della politica. J.-J. Rousseau dal «Discorso sull’ineguaglianza» al «Contratto», Edizioni dell’Ateneo, Roma 1983. G. Sasso, Introduzione a Immanule Kant, Antologia di scritti politici, Bologna, Il Mulino 1961 G. Deleuze, La filosofia critica di Kant, Cappelli, Bologna 1979. N. Merker, Introduzione a Kant. Stato di diritto e societa` civile, Editori Riuniti, Roma 1985. S. Landucci, La “critica della ragion pratica” di Kant, NIS, Roma 1993. A. Tosel, Kant rivoluzionario, manifestolibri, Roma 1999. P. Schiera, “Societa` per ceti” e “Stato di polizia”, in Dizionario di politica, UTET, Torino 1992, pp. 1067-1071 e pp. 1118-1122. R. Finelli, Mito e critica delle forme. La giovinezza di Hegel (1770-1801), Editori Riuniti, Roma 1996. P. Vinci, «Coscienza infelice» e «anima bella». Commentario della Fenomenologia dello Spirito di Hegel, Guerini e Associati, Milano 1999. W. Jaeschke, Soggettivita` e intersoggettivita` nella filosofia classica tedesca, in «La societa` degli individui», 1, 2001, pp. 119-124. A. Honneth, Il dolore dell’indeterminato. Un’attualizzazione della filosofia politica di Hegel, manifestolibri, Roma 2003. R. Finelli, Astrazione e dialettica dal romanticismo al capitalismo. Saggio su Marx, Bulzoni, Roma 1987. F.S. Trincia, Normativita` e storia. Marx in discussione, Franco Angeli, Milano 2000. R. Fineschi, Ripartire da Marx, La citta` del sole, Napoli 2001. A. Burgio, Strutture e catastrofi. Kant Hegel Marx, Roma, Editori Riuniti, 2000. C. Schmitt, Romanticismo politico, Giuffre`, Milano 1981. R. Cantoni, La coscienza inquieta. So¨ren Kierkegaard, Il Saggiatore, Milano 1976. V. Melchiorre, Saggi su Kierkegaard, Marietti, Genova 1987.

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SEZIONE II (1870-1945) ` FORMAZIONE E CRISI DELLA SOCIETA DI MASSA. IL PENSIERO LIBERALE DA TOCQUEVILLE A KELSEN di Franca Papa

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` FORMAZIONE E CRISI DELLA SOCIETA DI MASSA (1870-1945)

L’ultimo trentennio dell’Ottocento appare profondamente segnato dalla trasformazione del modo di produzione (il sistema industriale) in una forma di vita che si universalizza rapidamente. Il mercato, la cui esistenza ormai secolare aveva smantellato con efficacia la iniquita` dei vecchi modelli “cetuali” di distribuzione delle risorse, si era trasformato, da strumento poderoso dell’accesso ai diritti di sterminate fasce tradizionalmente escluse, a supporto moltiplicatore del processo di produzione di beni destinati al consumo per l’accrescimento del profitto. Raggiungere il “benessere” diviene l’obiettivo universale di tutti coloro che partecipano a diverso titolo al processo produttivo ed in questa prospettiva ognuno comprende immediatamente d’essere “individuo”, sia sul mercato del lavoro che nell’accaparramento delle risorse e dunque immerso in un conflitto aspro e continuo (concorrenza) con tutti gli altri. Allo stesso tempo le esigenze del modello produttivo, l’accrescimento continuo della dimensione degli apparati industriali, il loro concentrarsi in luoghi funzionalmente accorpati, producono una massificazione dell’esistenza prima del tutto sconosciuta. Alla fine dell’Ottocento le grandi citta` industriali presentano caratteri di analogia in tutto l’occidente. Moltitudini di individui si riversano nelle periferie, intorno agli agglomerati di fabbriche che vi si insediano, vivono in condizioni vicine alla miseria e si riversano nelle strade dopo il lavoro. Si apprende a vivere in spazi sempre piu` ristretti, a muoversi dentro il flusso della folla. La produzione industriale imprime scansioni omogenee al tempo della vita ed al suo spazio. La vita e` piu` severamente disciplinata e piu` uniforme, sempre piu` funzionale. La liberta` dell’individuo non ha altra dimensione che il consumo, il consumo e` il “fare”che realizza la soggettivita` come singolarita`, il lavoro e` il “fare” immerso nella legge della necessita`. Anche questa

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` DI MASSA FORMAZIONE E CRISI DELLA SOCIETA

singolarita` e` inconsapevolmente funzionale alla riproduzione del modello produttivo. Non c’e` piu` tempo, non c’e` piu` spazio per legami sociali. La “societa` di massa” che prende forma da questa superficie di assoluta identita` delle condizioni della maggior parte dell’umanita` che vi si trova immersa e` un ossimoro vivente. L’individuo consumatore vi fa esperienza quotidiana della solitudine e della totale indifferenza verso l’altro. La separazione generalizzata tra produttori e mezzi di produzione attenua le differenze tra una condizione lavorativa e l’altra (lavoro manuale e lavoro intellettuale). Questa forma di vita e` piu` democratica e meno iniqua, l’eguaglianza delle condizioni si fa piu` visibile e netta e il sistema delle relazioni tra i singoli si fa piu` leggibile e governabile ora che appare ridotto all’esile vincolo dell’“utile”. La “societa` di massa” appare, tuttavia, una forma di aggregazione del tutto passiva, fragile e problematica. Gli individui entrano in relazione tra loro nella sfera del “fare” quotidiano, nello spazio del lavoro. Ma che accade se questo evolve nella sequenza di una serie di operazioni disconnesse dal “senso” complessivo del processo produttivo? Quando il lavoro si fa “astratto” e non entra in relazione neppure con chi lo compie quale puo` essere lo spazio della relazione tra il se´ e l’altro? La dinamica della societa` mostra dunque, guardandola dal punto di vista della correlazione funzionale tra gli individui, che la socializzazione tra gli uomini tende a diminuire. L’universale “sistema dei bisogni”1 che Hegel aveva immaginato come ordine della “generale dipendenza reciproca” entro la quale “la soddisfazione della totalita` dei suoi bisogni e` un lavoro di tutti” appare ormai molto lontano dalla consapevolezza del singolo e universalmente avviato a tramontare. La liberta` mostra all’individuo il solo versante dell’indipendenza e dell’autonomia di ciascuno e di tutti. Anche la fiducia che si rappresenta tra i “teorici dell’armonia”2 che, nonostante tutto, il meccanismo possa funzionare come se esistesse una energia coesiva nascosta si infrange contro l’evidenza devastante della crisi economica del 1873. La prima grande crisi economica internazionale del sistema industriale si manifesta come il prodotto di una “anarchia individualistica” delle strategie di impresa che getta il sistema in balia di una 1 G.F.W. Hegel, Lineamenti di Filosofia del diritto, Sezione seconda La societa` civile, Laterza, Bari 1965, pp. 167-211. 2 Si veda in proposito la concezione dell’armonia in B. Mandeville, La favola delle api, BUL Laterza, Bari 1987, e la teoria della “mano invisibile” in A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Mondadori, Milano 1977.

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` DI MASSA (1870-1945) FORMAZIONE E CRISI DELLA SOCIETA

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concorrenza selvaggia e distruttiva. Dopo questo evento matura una riflessione sulla necessita` di produrre meccanismi di regolazione del mercato che possano riparare dalla tendenza alla disgregazione ed alla distruzione che deriva dalla liberta` dell’iniziativa delle potenze private nel mercato. Il problema aperto dalla universalizzazione della societa` industriale e dalla generalizzazione della forma di vita che essa produce si puo` definire in questa forma: come si fa una “societa`” a partire dall’“individuo acquisitivo” cioe` dall’individuo senza passioni e senza legami per il quale l’unico elemento di definizione del comportamento appare la liberta` di realizzare la propria “felicita`”? Questo problema aveva trovato una prima risposta configurata alle origini pensiero politico, nella teoria dello Stato di Thomas Hobbes3. La tesi e` che “ Costituzione in societa` si ha propriamente solo nella misura in cui la convivenza degli uomini si media, si obiettiva, si istituzionalizza; conversamente, le istituzioni non sono di per se´ che epifenomeni del vivente lavoro degli uomini”4. E tuttavia questa teoria della costituzione politica della societa`, ancora fino ad Hegel, si sviluppava a partire dalla trama della interconnessione dei lavori e dei bisogni, da una misura ridotta e strutturata della comunita`, da una esperienza ridottissima della liberta`. La costruzione della societa` appariva ancora, in questo quadro, come un opera razionale affidata al calcolo della convenienza ed all’artificio della politica che “finge” una seconda natura: un sistema di relazioni “pubbliche” tra cittadini dello Stato. La societa` di massa compare subito come difficilmente “contenibile” nello schema di questa soluzione: forse e` questo una parte del significato di quella Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico che il giovane Marx5 scaglia con violenza nel 1848 contro la filosofia politica borghese. Non c’e` Stato politico che possa tenere insieme le classi sociali ed il loro conflitto. La comunita` artificiale non avra` piu` storia perche´ emergono le classi. Le classi sono, per Marx, le “comunita`” che si costituiscono a partire dal lavoro, esse sono veramente “societa`” e i partiti sono le loro espressioni politiche. Le parti non stanno nel tutto. La storia delle istituzioni porta dentro di se` questa tendenza disgregativa. Lo Stato politico appare a Marx come il fantasma reificato di un’esistenza passata, tutta segnata dall’ambi-

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T. Hobbes, De Cive, a cura di Tito Magri, Editori Riuniti, Roma 1979. AA.VV., Lezioni di Sociologia, a cura di M. Horkheimer e T.W. Adorno, trad. it. A. Mazzone, Torino 2001. 5 K. Marx, Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma 1963. 4

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` DI MASSA FORMAZIONE E CRISI DELLA SOCIETA

zione di una classe sociale (la borghesia) che aveva immesso nella storia il principio della liberta` soggettiva immaginando che sarebbe stato possibile tenere a freno eternamente la sua potenza disgregativa nello spazio delle forme politiche. Cosı` emergeva dapprima, pure in una forma molto limitata ed ancora affidata alla speranza di una possibile futura ricomposizione della societa` (il Comunismo), il problema della universale “parzialita`” della societa` degli “individui”. Il Positivismo elabora una tesi opposta a quella Hobbes-Hegel. Secondo Stuat Mill la societa` e` “naturalmente” un organismo. Tutto il complesso articolarsi del processo produttivo gli appare regolato da leggi “naturali”. La legge della domanda e dell’offerta, o la legge della popolazione gli appaiono assolutamente indipendenti dalla volonta` degli uomini. Secondo Spencer l’osservazione e lo studio della societa` rivelano profonde analogie con le dinamiche interne agli organismi viventi. E` inutile dunque perfino la posizione di un problema del rapporto tra individuo e comunita`. Per Mill anche la dialettica degli interessi non e` destinata a produrre disgregazione perche´, alla fine, si realizza “nelle cose” una sostanziale convergenza di interesse individuale e interesse generale. Il Positivismo descrive un meccanismo malthusiano di riproduzione della societa` e rigetta la tesi della necessita` di una regolazione politica del suo sviluppo. Il vecchio secolo si chiude ed il nuovo si apre nello scenario di una crisi che assume la forma della inadeguatezza delle istituzioni politiche tradizionali a “contenere” le forme moderne della societa` di massa. La crisi degli Stati nazionali, il loro progressivo involvere verso la fisionomia dello Stato-potenza, la nazionalizzazione sempre piu` marcata delle politiche, l’inasprirsi delle controversie sulla salvaguardia dei territori e dei confini rappresentano il tentativo di dare una risposta conservativa al problema del progressivo dissolvimento delle societa` europee nel quadro di una improvvisa ed intensa internazionalizzazione dei mercati ed all’irrompere della storia mondiale nell’esperienza dei singoli6. E la storia mondiale irrompe con l’esplodere della Grande Guerra (1914-1918) con il dilagare distruttivo della Grande Depressione (1929) con la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945). Il Novecento, tutto, e` storia di uomini liberi, che liberamente scelgono e 6 Della enorme bibliografia sul Novecento segnalo soltanto E.J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli Milano 1995; M. Salvadori., Il Novecento, Laterza, Bari 2002; L. Villari, L’insonnia del Novecento, Bruno Mondadori, Milano 2002; S. Colarizi, Storia del Novecento Italiano, BUR, Rizzoli, Milano 2000. G. Arrighi, il lungo XX secolo, il Saggiatore, Milano 1995; K.D. Bracher, Il Novecento, secolo delle ideologie, Laterza, Bari 2001.

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decidono i propri destini, singoli e collettivi anche nelle forme politiche che a noi paiono, oggi, piu` incomprensibili e funeste. Nulla di cio` che avviene sul palcoscenico anche drammatico degli anni bui si compie senza un sostanziale consenso di grandi masse di uomini e di donne. Moltitudini moderne fanno il loro ingresso determinante nello spazio politico, quello spazio si conforma al grado di coscienza politica di cui queste moltitudini sono portatrici. I Totalitarismi sono regimi reazionari di massa come di massa saranno i regimi democratici del dopoguerra. La liberta` soggettiva prende forma, forma politica e cresce a dismisura la domanda di politica, di motivare la vita nella politica, cresce il desiderio e la speranza che la politica dia una forma alla liberta` e una direzione al destino della gente. E le risposte arrivano. Parziali, unilaterali, oppure criminali, tragiche, ma arrivano. Il Novecento non e` soltanto “... il secolo piu` terribile della storia occidentale...”7 ma anche il secolo della ricerca sanguinosa ed eroica e della conquista della democrazia e della cittadinanza per grandi moltitudini di esseri umani. Il secolo della piu` significativa rivoluzione politica (la rivoluzione russa del 1917) vede il piu` straordinario progresso scientifico mai conosciuto prima (la scoperta degli antibiotici). Si e` scritto “ Il principio di liberta` e` stato profondamente combattuto nella medesima storia dell’Europa moderna, e del Novecento soprattutto, e` precipitato nel proprio opposto, e` giunto fino al catastrofico annullamento nella esperienza di Auschwitz.”8. E` difficile pensare la storia del Novecento solo come la vicenda di due principi tra loro contrapposti: la liberta` e il totalitarismo, il bene e il male. Il principio di liberta` contiene in radice anche il seme della violenza perche´ nasce dalla affermazione della propria parzialita`. E` il diritto di ognuno alla propria parzialita`, alla autonomia, alla indipendenza. L’affermazione della volonta` che non-dipende da altri perche´ il dipendere e` limite, ostacolo, carcere e` l’arrogante solitudine del soggetto cartesiano, puro pensiero e pura liberta`, e` il coraggio critico dell’Io-penso kantiano che non riconosce altra signoria che la legge morale della propria interiorita`. E non e` errore, non e` svista quella che rappresenta agli occhi del soggetto moderno la parte come il tutto. Il soggetto libero e` il tutto, e` la misura del tutto, si determina da solo. Per questa ragione il principio di liberta` in cammino lentamente erode e poi travolge l’intera struttura dei legami sociali, imperiosamente scioglie, snoda lacci e laccioli, taglia catene, 7 8

Isaiah Berlin, citato da E. J. Hobsbawn, Il secolo breve, cit., p. 13. B. de Giovanni, L’ambigua potenza dell’Europa, Napoli 2001, p. 18.

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sbatte sul viso ad ognuno il dono prezioso della liberta`, anche a chi non lo domanda. Solo questo tipo di umanita` e` pronta per la societa` democratica ma anche, se vuole per il plebiscitarismo di una societa` autoritaria purche´ comunque sia convinta, in coscienza, che uno di questi modelli sia conforme all’espressione della propria volonta` libera. Cosı`, in buona misura sembra realizzata la “profezia” contenuta nell’opera di Alexis de Tocqueville: “Cosı`, non soltanto la democrazia fa dimenticare all’uomo i suoi avi, ma gli nasconde anche i suoi discendenti, lo separa dai suoi contemporanei e lo conduce di nuovo verso se stesso, minacciando infine di chiuderlo nella solitudine del suo stesso cuore”9. E tuttavia Tocqueville non pensa mai ad una critica del modello democratico ma ai caratteri della societa` di massa, dell’individualismo di massa, alla assoluta inconsistenza della “costituzione materiale” di quella societa`. E poi, ancora pensa alla mediocrita` ed al cinismo che invade l’esperienza dell’individuo costretto a vivere in un mondo in cui tutto e il contrario di tutto appare possibile: “Tutti i secoli hanno rassomigliato al nostro? L’uomo ha sempre avuto sotto gli occhi, come noi, un mondo in cui tutto e` slegato, in cui la virtu` e` senza il genio, il genio e` senza l’onore, l’amore dell’ordine si confonde con il gusto della tirannide e il culto santo della liberta` con il disprezzo delle leggi: in cui la coscienza getta solo una luce dubbiosa sulle azioni umane e nulla sembra piu` vietato o permesso, onesto o disonorevole, vero o falso?’’10. E tuttavia Tocqueville e`, forse per primo in Europa, del tutto consapevole della grandezza e della straordinaria ricchezza di quest’ultimo tratto della storia della modernita` fino a spingere il suo sguardo all’America, all’epopea dell’eta` mitica della borghesia protestante ed all’ideale religioso primigenio che sostiene il progetto della costruzione di una comunita` di giusti e di eguali. Tocqueville guarda al futuro dell’Europa, al secolo “americano”, fin dagli anni ’30 dell’Ottocento. Egli intuisce che le linee generali dello sviluppo storico spingono il mondo verso un cambio di dominanza: ad un lungo ciclo di centralita` dell’Europa nel sistema mondo sta per avvicendarsi il nuovo protagonismo della civilta` americana, del suo modello politico democratico, del suo piu` perfetto ed aggiornato sistema produttivo. Eppure senza problematizzare fino in fondo il principio della liberta` soggettiva non si comprende il Novecento, la filosofia e la letteratura del Novecento, il teatro e la musica. Da Musil a Kafka, da Pirandello a De 9 10

A. de Tocqueville, La democrazia in America, BUR (Rizzoli), Milano 2002, p. 590. Ivi, p. 27.

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Filippo, da Baudelaire a Joyce a Dostoevskiii da Puccini a Schoemberg. Non si capisce l’enorme contenuto di dolore, di sradicamento, di perdita che questa mutazione produce, non si percepisce la grandezza di questo secolo. Doveva andare cosı`? Non poteva realizzarsi in altro modo la liberta` soggettiva? Marx pensava di no. Almeno non nelle mani della borghesia industriale. Il Novecento appare anche lo spazio entro il quale si realizzano le grandi profezie del Marx visionario: “(la borghesia) ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l’uomo... non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo «pagamento in contanti»... Ha disciolto la dignita` personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli liberta` patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica la liberta` di commercio priva di scrupoli...”11. Questa e` la forma che prende la liberta` soggettiva. L’utile, il piacere diviene il criterio dell’esercizio della liberta`; ciascuno desidera di fare cio` che gli piace fare, proprio come il mercante sta in relazione all’altro come un mezzo, da calpestare, se occorre. La sua liberta` e` la sua parzialita`. Ciascuno pensa per se´, “senza scrupoli” perche´ si sa, gli scrupoli sono il peggior nemico del mercante. Senza amore e senza passioni, senza famiglia e senza legami sociali perche´ dinanzi al vorticoso dinamismo che questo modello di liberta` induce, tutto si sgretola e si dissolve: “ Si volatilizza tutto cio` che vi era di stabile, e` profanata ogni cosa sacra...”12. E poi ancora “Seguirono la nascita della meccanizzazione e dell’industria moderna...Un impatto violento come quello di una valanga, per intensita` ed estensione. Tutti i limiti di morale e natura, di eta` e di sesso, di giorno e notte, vennero abbattuti. Il capitale celebrava le sue orge” (Il Capitale, v. I). Gli anni che chiudono la tragica esperienza della seconda guerra mondiale (1943-1945) sono anni di speranza. L’umanita` europea umiliata e mutilata sembra trovare ancora le forze per immaginare il riscatto. Un grande numero di uomini e di donne in Europa, dall’Unione Sovietica alla Iugoslavia, dalla Cecoslovacchia alla Polonia, dalla Francia alla Germania all’Italia avverte la necessita` di ribellarsi all’iniquita` della guerra all’oppressione dei governi all’irresponsabilita` dei gruppi dirigenti di quegli Stati che si erano resi colpevoli di tanta rovina. Le Resistenze europee pongono fianco a fianco uomini e donne assai diversi tra loro per nazionalita` lingua e 11 12

K. Marx, Manifesto del Partito comunista, Laterza, Bari 1985, p. 86. Ivi, p. 87.

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cultura ma anche per l’appartenenza a classi sociali diverse ed orientamenti politici persino contrapposti, e tuttavia: “...la diversita` degli orientamenti non escludeva l’esistenza di un nucleo e di elementi comuni: non soltanto ovviamente l’opposizione al fascismo, ma anche l’aspirazione a un qualche tipo di ordine nuovo che rompesse definitivamente con un passato prossimo fatto di guerre, di instabilita`, di disoccupazione”13. Da qui doveva ripartire la difficile e lunga fase che comincia dal 1945. Pochi semplici elementi condivisi per ricostruire le societa` nazionali. Anche il processo dell’integrazione europea comincia da qui.

13

G. Procacci, Storia del XX secolo, Bruno Mondadori, Milano 2000, p. 274.

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` DI MASSA LA SOCIETA TRA “NUOVO’’ E “VECCHIO’’ MONDO. TOCQUEVILLE – MAX WEBER

Tra gli anni ’30 dell’Ottocento e gli anni ’30 del Novecento si sviluppa una importante riflessione sui caratteri cruciali della modernita` nel contributo teorico di due importantissimi pensatori che condivisero alcuni nuclei tematici centrali per la definizione della trasformazione della societa` mondiale verso la forma democratica. I caratteri impressi allo sviluppo delle forme politiche europee dalla 1 Rivoluzione francese del 1789 appaiono, in Tocqueville , come l’origine di un processo di lunga durata destinato ad orientare la trasformazione degli Stati autocratici ed assolutistici verso il decentramento amministrativo e dei poteri. L’esperienza della Grande guerra appare in Max Weber come l’evento che produce la trasformazione dei vecchi Stati liberali verso una forma politica compiutamente democratica e partecipata. Dall’ampiezza documentale dell’opera fondamentale (La democrazia in America2 e dal valore profetico di molti passaggi filosofici in essa contenuti appare con chiarezza che l’esperienza americana produce in Tocqueville una vera e propria cesura epistemologica rispetto all’intero dibattito sulle 1

Alexis de Tocqueville (1805 Verneuil-1859 Cannes) nasce da una nobile famiglia della vecchia aristocrazia francese sospetta di simpatie per l’antico regime. Nel 1830 chiede ed ottiene di compiere un viaggio di studio in America, lasciando la Francia nel fuoco della rivoluzione di luglio (Luigi d’Orleans). Rientra in patria nel 1832, si dimette dalla magistratura, e comincia a scrivere la sua opera fondamentale La democrazia in America, che uscira` per una prima parte nel 1832 ed una seconda nel 1840. Scrisse inoltre: L’antico regime e la Rivoluzione (1856) e i Ricordi (1893, postumi)). 2 A. de Tocqueville, La democrazia in America, BUR Rizzoli, Milano 1999.

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forme di governo che aveva preso forma in Europa dopo la Restaurazione del 1814 (Lamennais, Bonald), ma anche al primo abbozzo della riflessione sulla societa` democratica che si era sviluppato all’indomani della Rivoluzione Francese (Sieye`s, Condorcet). La straordinaria ampiezza della prima significativa impressione ricevuta dalle caratteristiche naturali di quei territori lo spinge ad una riflessione sui caratteri inediti dell’insediamento difficilissimo di un processo di civilizzazione. L’origine del tutto straordinaria di una societa` senza passato che si costituisce anzi proprio da un atto forzato di rottura radicale con la tradizione (la migrazione dei “Padri pellegrini” che fuggono dalla persecuzione europea durante le guerre di religione che seguono alla Riforma Protestante) gli appare come la condizione preliminare per l’instaurarsi di una autentica “uguaglianza delle condizioni” assai piu` netta e limpida di quella vagheggiata dalle correnti di orientamento democratico europeo che nella seconda meta` del Settecento si erano battute per l’“e´galite´” dei cittadini pur nella consapevolezza che i limiti dell’eguaglianza non avrebbero mai varcato i confini della classe sociale che si faceva interprete del processo rivoluzionario. L’“e´galite´ des conditions” era e restava ancora, in Europa, l’eguaglianza borghese: “Fra le cose nuove che attirarono la mia attenzione durante il mio soggiorno negli Stati Uniti, una soprattutto mi colpı` assai profondamente e cioe` l’eguaglianza delle condizioni. Facilmente potei constatare che essa esercita un’influenza straordinaria sul cammino della societa`....crea opinioni, fa nascere sentimenti e usanze e modifica tutto cio` che non e` suo effetto immediato”3. In America, Tocqueville vede dispiegato il processo che in Europa e` appena iniziato, che si manifesta come continuamente ostacolato ed arrestato: la cittadinanza piena di tutte le classi della societa`, la partecipazione politica, il suffragio universale, il decentramento dei poteri e dell’amministrazione della cosa pubblica: “Confesso che nell’America ho visto qualcosa piu` dell’America; vi ho cercato un’immagine della democrazia, del suo carattere, dei suoi pregiudizi, delle sue passioni e ho voluto studiarla per sapere quello che noi dobbiamo sperare o temere da essa.”4. Attraverso il confronto e l’analisi delle differenze Tocqueville intuisce il carattere aspro e contraddittorio che la borghesia europea imprime al processo democratico ed il profilo ambiguo del ruolo e della funzione 3 4

Ivi, p. 19. Ivi, p. 28.

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storica della borghesia stessa. Questa classe sociale, rivoluzionaria e progressiva nel 1789 sara` infatti reazionaria e regressiva dal 1848 quando sara` il proletariato a chiedere l’estensione universale dei diritti di cittadinanza. Tocqueville guarda lontano e consegna alle pagine della sua opera un monito alle classi dirigenti francesi ed europee proprio perche´ vede nella societa` americana rappresentato il futuro inevitabile dello sviluppo delle forme politiche: “Nel seno di questa Europa brillante e letterata mai forse l’idea dei diritti era stata misconosciuta in modo piu` completo; mai i popoli avevano vissuto meno la vita politica; mai le nozioni della vera liberta` avevano meno preoccupato gli spiriti... Le piu` ardite teorie dello spirito umano venivano messe in pratica in questa societa` in apparenza tanto umile... nei deserti del nuovo mondo...”5. Con la Rivoluzione Francese, secondo Tocqueville, si e` aperto un lungo ciclo storico, una vera e propria “eta` di rivoluzioni” che non potra` essere arrestata, una “rivoluzione irresistibile” destinata a travolgere ogni ostacolo che le si frapponga. Cosı`, dall’eguaglianza delle condizioni deriva il diritto alla partecipazione al governo della cosa pubblica e quindi la societa` americana gli appare quasi “naturalmente democratica” e libera perche´ composta di individui mai oppressi da differenze ereditarie e quindi tutti egualmente degni di aspirare a qualsiasi condizione. L’immenso gravame che appare ostacolare, in Europa, un meccanismo limpido e democratico di formazione delle e´lites politiche gli sembra, dunque, assente in America o, comunque, assai meno drammaticamente influente di quanto non lo sia in Europa: “Vi sono in Europa certe nazioni in cui l’abitante si considera come una specie di colono indifferente al destino del luogo in cui abita... Questo disinteresse di se stesso si spinge tanto in la` che... invece di allontanare il pericolo, egli incrocia le braccia per attendere che l’intera nazione venga in suo aiuto... Quando le nazioni sono giunte a questo punto, bisogna o che modifichino le loro leggi e i loro costumi o che periscano, poiche´ la fonte delle pubbliche virtu` si e` essiccata: vi sono ancora sudditi ma non piu` cittadini.”6. Prende forma cosı` un problema fondamentale della teoria della democrazia in Tocqueville: rendere efficace la forma democratica a correggere la deriva individualistica e la passivizzazione prodotte dai processi di estensione della societa` di massa. L’attenzione e l’analisi puntigliosa del modello americano appare funzionale a questo lavoro di messa a fuoco di un 5 6

Ivi, p. 53. Ivi, p. 97.

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modello. E tuttavia Tocqueville si accorge “in corso d’opera” che non esiste una connessione “naturale” tra modello democratico e “pubbliche virtu`”. Anzi, la “passione dell’eguaglianza” che viene stimolata dalla societa` democratica tende ad assorbire il desiderio della liberta` politica. La condizione dell’eguaglianza contiene una forma di “liberta` privata” che appare soddisfacente per l’individuo: “Tutti possono avere diritto di darsi agli stessi piaceri, di entrare nelle stesse professioni, ....di vivere allo stesso modo e cercare di arricchirsi con gli stessi mezzi, senza prendere tutti una eguale parte al governo”7. Il profilo dell’“individuo democratico” gli appare cosı` sempre piu` definito da questa progressiva scissione tra “liberta` privata” e “pubbliche virtu`” e sempre piu` esclusivamente segnato dall’interesse alle opportunita` che l’eguaglianza offre di sviluppare infinitamente il soddisfacimento di ogni desiderio: “...l’eguaglianza forma il carattere distintivo dell’epoca in cui vivono; questo basta a spiegare perche´ essi la preferiscano a tutto il resto”8. Comincia cosı` a prender forma il tema dei “pericoli dell’eguaglianza” come l’emergere di una societa` fragile, passiva, cinica e mediocre cui solo l’artificio della politica puo` tentare di porre rimedio costruendo razionalmente una rete di coesione tra i singoli che li “costringa” a costruire legami solidali. “Un’associazione politica distoglie contemporaneamente dalle proprie occupazioni una moltitudine di individui; per quanto possano essere separati dall’eta`, dallo spirito, dalla fortuna, essa li riavvicina e li mette in contatto. Incontrandosi una volta, essi imparano a ritrovarsi sempre”9. La “via americana” appare a Tocqueville proprio sotto questo aspetto, quella che in forma piu` ricca e creativa ha costruito “dall’alto” (associazioni civili e associazioni politiche) una struttura di partecipazione e di coinvolgimento che promuove la cittadinanza attiva e tuttavia, come vedremo, non riesce ad invertire il processo disgregativo dell’emergere degli egoismi e degli interessi che la “passione dell’eguaglianza” produce: “L’eguaglianza offre ogni momento una quantita` di piccole soddisfazioni ad ogni uomo. Le sue attrattive si fanno sentire continuamente e sono alla portata di tutti: i cuori piu` nobili non sono insensibili ad esse e le anime volgari ne fanno la loro delizia. La passione dell’eguaglianza deve essere insieme energica e generale”10.

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Ivi, p. 511. Ivi, p. 512. 9 Ivi, p. 532. 10 Ivi, p. 513. 8

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La seconda parte dell’opera, pubblicata nel 1840, appare cosı` piu` sensibilmente venata di pessimismo. In questo tratto della sua riflessione si concentrano assai piu` significativamente quelle annotazioni sui caratteri antropologici, storico-originari, religiosi che gli sembrano costitutivi, ma ormai definitivamente perduti, nella formazione di una mentalita` democratica: “Dopo che hanno perduto L’abitudine di porre le loro principali speranze a lunga scadenza, sono naturalmente portati a volere realizzare senza ritardo i minimi desideri e sembra che, dal momento che disprezzano di vivere eternamente, siano disposti ad agire come se dovessero esistere un solo giorno.”11. La sua attenzione si sposta sulla massificazione della societa` democratica e sulla passivizzazione, sulla assuefazione conformistica come un rischio contenuto nel raggiungimento dell’eguaglianza. Gli si appalesa la visione di una societa` tutta compiuta, nella quale non potranno piu` manifestarsi grandi virtu`, cambiamenti, una societa` senza rivoluzioni. L’unica forma possibile, anche se del tutto limitata, di regolazione solidale di questo modello gli sembra venire dall’adozione di una morale utilitaristica temperata dal buon senso che egli definisce “teoria dell’interesse bene inteso”: “Bisogna dunque attendersi che l’interesse individuale diverra` piu` che mai il principale, se non l’unico, motore delle azioni umane; ma resta da sapere come ogni uomo intendera` il suo interesse individuale”12. L’ altra importante opera che si intreccia alla stesura della Democratie en Ame´rique e cioe` Ancien Re´gime et la re´volution (1856) mostra con evidenza che la riflessione di Tocqueville fu continuamente impegnata nella comparazione tra Europa e America quanto ai caratteri che andava assumendo il processo democratico e quindi la estinzione del vecchio mondo e la formazione del mondo nuovo. Questa attenzione si ritrova poi con grande accentuazione nell’opera di Max Weber. E` come se Tocqueville intuisse che all’interno del processo di formazione e di estensione della societa` moderna si giocava una partita piu` immediatamente politica ma non per questo meno cruciale tra i due diversi possibili soggetti della costruzione di un nuovo equilibrio politico mondiale. Vincera` questa partita quel soggetto che sara` in grado di portare a termine al piu` presto il compimento della “rivoluzione irresistibile” e l’Europa gli appare, gia` in ritardo nel 1840. E tuttavia, la Francia e l’Europa come l’America non gli paiono avviare percorsi divergenti salvo che per un tratto: quello appunto costituito dal 11 12

Ivi, p. 563. Ivi, p. 539.

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diverso peso della storia e della tradizione. Quell’“Antico regime” che aveva dovuto essere smantellato e deposto rappresentava, per l’Europa, il fardello di una societa` antica rigorosamente gerarchica, suddivisa in ceti, con un forte predominio della nobilta` e del clero. Una societa` all’interno della quale il ruolo e la funzione politica della Chiesa Cattolica e delle sue strutture di potere temporale avevano permeato molto profondamente la mentalita` dei popoli imprimendo caratteri assai determinati alle forme politiche. Tutta questa struttura di rapporti sociali tradizionali era destinata a permanere a lungo nel corpo della societa` europea ed a determinare contraddizioni e ritardi nel processo di formazione della cittadinanza moderna. Questo tema sara` a lungo presente nella riflessione di Weber e sembrera` a lui rappresentare il profilo tragico dello sforzo europeo di compiere la transizione verso il mondo nuovo. Con grande lungimiranza Tocqueville introduce nella complessita` di questo nodo anche la prospettiva, che gli appare gia` in atto nello strutturarsi sempre piu` largo della societa` industriale americana del sorgere di una nuova forma di “arisocrazia” che riproduce una diseguaglianza di tipo nuovo nella societa` moderna. La divisione crescente del lavoro, la riduzione dell’operosita` umana alla sua forma piu` astratta e meccanica producono una espropriazione dei saperi tradizionalmente accumulati intorno alle attitudini lavorative. Saperi, competenze, professionalita` si spostano sul versante delle funzioni di direzione e di gestione dei processi produttivi. Questa diseguaglianza di disponibilita` delle conoscenze gli appare assai piu` rigida dell’esperienza del passato: “Padrone e operaio non hanno qui nulla di simile e ogni giorno differiscono maggiormente; stanno fra loro come gli anelli estremi di una lunga catena. Ognuno occupa un posto fatto per lui, da cui non esce mai. L’uno e` alla dipendenza continua, stretta e necessaria dell’altro e sembra nato per obbedire, come questo per comandare. Cosa e` cio` se non aristocrazia?”13. Tra Tocqueville e Weber Karl Marx getta un macigno. Il prender forma negli anni centrali del secolo di un pensiero cosı` acuto e lucido ma anche cosı` massiccio e sistematico, capace di portare alla luce il vero grande problema della democrazia europea, cioe` l’emergere rapido e vigoroso di una classe sociale nuova, prodotta dal processo di industrializzazione impetuoso, rapidamente organizzata e consapevole, ma esclusa dalla forma della cittadinanza storicamente data e dunque “esterna” alla “societa` bor-

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Ivi, p. 574.

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ghese”, e` il fatto enorme che drammatizza e complica il percorso europeo della formazione di una societa` democratica. Nelle pagine dell’Ideologia Tedesca (1945-46), del Manifesto del Partito Comunista (1948), del Capitale (1867) compariva in piena evidenza che il grado di trasformazione della societa` europea era assai piu` alto e radicale di quanto potessero contenere le forme di coscienza delle e´lites politiche dominanti. Emergeva da quelle pagine la divisione della societa` industriale in classi sociali e la contrapposizione aspra tra le classi. La “lotta” tra le classi era anzi, ormai la cifra della storia, secondo Marx, e non solo, a quella lotta appariva affidato il destino del processo di democratizzazione della societa`. E` al cospetto di questo mondo che si pone coraggiosamente e senza pregiudizi il pensiero di Weber14. Per il suo lavoro scientifico il confronto con Marx, il confronto con la sua filosofia della storia, con il suo pensiero politico e con le sue “visioni” straordinariamente profetiche del destino di possibile dissoluzione-implosione dello sviluppo della societa` compressa nel governo capitalistico della modernita`, costituisce il pilastro del programma di ricerca. Weber si misura assai precocemente con il tema della “finis Europae” Gia` nelle prime precocissime ricerche storiche matura un concetto dialettico di “crisi storica” che sposta nettamente il campo dell’analisi dal tema del “tramonto dell’occidente” a quello della “crisi d’epoca”: mentre nel dibattito culturale europeo (Spengler) prevale un giudizio che vede la storia europea avviata alla dissoluzione, e nel marxismo scolastico prevale una concezione evoluzionistica e deterministica dello sviluppo (i teorici del crollo) nella visione di Weber la crisi appare come una fase di trasforma-

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Max Weber (1864 Erfurt-1920 Monaco di Baviera). Dopo aver compiuto studi giuridici ed economici e storici si distinse precocemente per le ricerche condotte in colllaborazione con il Verein fur Sozialpolitik. Professore nelle Universita` di Friburgo e di Heidelberg, dopo una lunga pausa dovuta a ragioni di salute, sviluppo` una vasta ricerca sia sul versante dei paradigmi della ricerca storica, sia sulle origini e la storia delle religioni mondiali. Dedico` poi una parte delle sue energie e della sua intelligenza al problema della ricostruzione del sistema istituzionale della Germania all’indomani della prima guerra mondiale analizzando la struttura del parlamentarismo moderno, i sistemi elettorali, le forme del potere ed i meccanismi di formazione delle e´lites politiche. Le sue opere fondamentali: Storia agraria romana dal punto di vista del Diritto pubblico e privato (1891), Lo Stato nazionale e la politica economica tedesca (1893), Il metodo delle scienze storico-sociali (1903-4), L’etica Protestante e lo spirito del capitalismo (1904-5), L’etica economica delle religioni mondiali (1916), Saggi sulla Russia (1905-1906-1917), Parlamento e governo nel nuovo ordinamento della Germania (1918), La politica come professione (1919), La scienza come professione (1919).

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zione profonda delle forme di vita e delle forme politiche il cui esito e` problematico ma aperto e fondamentalmente affidato all’incisivita` dei fattori soggettivi. Anche nella sua impostazione analitica, come nella teoria di Tocqueville, il tema del “ritardo” europeo sui tempi di trasformazione dei sistemi politici al cospetto della straordinaria espansione americana della societa` industriale e` cruciale. In questa direzione spinge il suo giudizio dapprima la ricognizione dei forti tratti di contraddizione insiti nel percorso politico della Germania Post-Bismarckiana. Lo sviluppo industriale tedesco non decolla e non produce gli effetti di necessaria innovazione politica per la persistenza del peso economico e politico della rendita fondiaria che si e` consolidata proprio durante la fase del potere di Bismarck. Ma il punto di definizione piu` netto dell’analisi di Weber si guadagna, come gia` era stato per Tocqueville, subito a ridosso di un importante viaggio in America. Il 1904, l’anno della gestazione di un’opera centrale per l’intera intelligenza filosofico-politica del Novecento (L’Etica protestante e lo spirito del capitalismo15, Weber vede dispiegarsi nell’esperienza di un mondo nuovo il destino delle societa` industriali e del loro articolarsi nella forma politica democratica come la prospettiva verso cui si affanna l’Europa. E tuttavia L’Etica protestante e` anche l’opera che mette in luce la contraddizione sempre piu` acuta tra lo spirito del capitalismo e la sua storia. Se la societa` industriale affonda le sue radici in una rigidissima regolazione delle relazioni intersoggettive e comunitarie che rende sacrale il rapporto con il lavoro proprio e con il lavoro degli altri che viene identificato immediatamente come il procedimento della salvazione, nessuna traccia, nessuna visione unitaria del mondo permane nella sua storia. Da una umanita` governata da una rete rigidissima di vincoli si e` generata una forma di vita dominata dalla eterogenesi dei fini che non accetta alcun tipo di rinuncia. La frammentazione invade il mondo quando il senso ha abbandonato l’agire quotidiano che trae sostentamento e continuita` solo dall’utile e dal guadagno di denaro. Il denaro, mezzo universale, e` divenuto il fine intorno al quale il processo si sviluppa. Nel dominio dell’utile muta profondamente, nei suoi caratteri originari, la societa` moderna: “Allora in ogni caso per gli ultimi uomini di questa evoluzione della civilta` potra` essere vera la parola: specialisti senza intelligenza, gaudenti 15 M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, cura di P. Burresi, Sansoni, Firenze 1997.

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senza cuore: questo nulla si immagina di essere salito ad un grado di umanita`, non prima mai raggiunto.”16. Weber si schiera, nonostante cio`, durante e dopo l’esperienza americana, nettamente dalla parte della modernita` compiuta e si sforza di comprendere, attraverso la individuazione del modello originario della costituzione della societa` americana-protestante i caratteri costitutivi di un tipo di civilta` che gli appare di gran lunga piu` espansiva rispetto all’eredita` del passato europeo e la cui continuita` gli appare solo parzialmente interrotta dall’evento della Riforma e dall’impatto sulle popolazioni nordeuropee (il “germanesimo”). E tuttavia non sfuggono al suo sguardo le enormi contraddizioni che la maturazione storica di quel modello hanno ingenerato. Come Tocqueville, Weber non riesce ad evitare che il suo pensiero si veni di pessimismo e di preoccupazione. La straordinaria evidenza del tasso di sofferenza, di marginalita` e di sfruttamento che si produce continuamente intorno allo sviluppo industriale, l’asservimento alla macchina produttiva di ogni forma di vita, il rovesciamento del rapporto tra il fine (la vita umana) ed il mezzo (il profitto) gli appaiono come elementi di deformazione della storia del capitalismo rispetto al suo spirito originario (L’etica protestante). Ma L’Etica protestante e lo spirito del capitalismo e` fondamentalmente l’opera dedicata a dimostrare come la Riforma di Martin Lutero, soprattutto attraverso il dogma della conquista della salvezza eterna attraverso le opere (l’ascesi intramondana) era destinata a trasformare il rapporto tra il cristiano ed il lavoro cosı` profondamente da permettergli di accettare il fine della produttivita` come telos assoluto (beruf ) e quindi da permettergli di aderire con convinzione al modello di produttivita` che sarebbe venuto con lo sviluppo della societa` industriale e` anche l’opera che rovescia l’impostazione dell’analisi del marxismo scolastico. Weber assume il carattere causante ed originario della trasformazione della mentalita` e della costruzione delle immagini del mondo nella determinazione delle dinamiche dello sviluppo dei modelli economici e politici. Una sorta di “primato” della mentalita` e della politica contro ogni deformazione economicistica della interpretazione della storia. E dunque il fuoco della critica in Weber si appunta sul processo storico, cioe` sulle forme determinate che ha assunto l’evoluzione del modello originario, dello spirito del capitalismo, in America e, soprattutto in Europa e in Germania. 16

Ivi, p. 106.

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Sul pensiero di Weber si abbatte l’esperienza della catastrofe della Grande guerra. Questo evento, che sara` poi determinante nella riflessione di tanta parte della cultura europea e` colta da Weber, dopo una breve fase di speranza nella possibilita` che l’impatto immediato con l’emergenza susciti energie positive e vitali nelle classi dirigenti europee, come la rappresentazione clamorosa della ineluttabilita` del processo di esclusione dell’Europa dallo scenario della risistemazione dei rapporti di forza internazionali. Weber legge la Guerra come il manifestarsi della nuova egemonia americana su tutto l’Occidente che trasferisce sul terreno dei rapporti politici internazionali la gia` matura superiorita` espressa dal modello di produzione industriale. E tuttavia, Weber vede nella debolezza della prospettiva, nella conflittualita` intra-nazionale, nella mancanza di coraggio nell’intrapresa della democratizzazione dei modelli politici in Europa la causa della disfatta. La straordinaria ignavia, la cecitudine delle classi dirigenti europee gli appare il dato determinante del tracollo: “Come bisogna immaginarsi una pace? E quando? Le centinaia di migliaia di uomini sanguinano a causa della terribile inettitudine della nostra diplomazia, purtroppo non si puo` negarlo; e percio` anche nel caso di esito finale positivo, io non nutro speranze per una pace durevole.”17. Lo dimostra clamorosamente la gestione della guerra ma anche, soprattutto la indecorosa gestione della resa e poi delle condizioni della pace nella Conferenza di Versailles. Si dedica, all’indomani dell’epilogo tragico della Grande guerra, con passione, ad immaginare la configurazione del modello politico e istituzionale per la Germania, dopo la sconfitta. Si schiera per il suffragio universale, si impegna con i gruppi dirigenti sindacali e socialisti e, nel contempo non cessa ossessivamente di analizzare le radici della crisi del sistema politico europeo. Pubblica nel 1918 Parlamento e governo e torna a fare i conti con Bismarck, con l’ombra lunga dell’ultima figura del potere politico della vecchia Europa. Analizza fino in fondo la gloria e la miseria stretti nella natura del potere cesaristico di un politico di statura, ma incapace di condividere la funzione dirigente e per cio` stesso destinato a creare il vuoto di una societa` servile o corrotta: “Quella generazione di letterati politici che

17

Marianne Weber, Max Weber. Una biografia, Il Mulino, Bologna 1995, p. 609.

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entro` nella vita pubblica a partire piu` o meno dal 1878, nell’atteggiamento nei suoi confronti si divise in due parti disuguali di cui una, la piu` grande, non si infatuo` della natura del suo spirito sottile e dominatore, ma esclusivamente dell’impronta di arbitrio e di astuzia del suo metodo di statista, di cio` che vi era di apparentemente o realmente brutale mentre l’altra reagiva con un rancore impotente”18. E` possibile democratizzare il potere? O, invece, questa funzione porta con se´ la tentazione irresistibile all’accentramento ed all’esclusione? Sono le domande che tornano ossessivamente nel ragionamento di Weber. Anche il tema della forte ed indebita estensione del potere della burocrazia moderna gli appare collegato alla crisi della funzione di direzione politica prodotta dalla dissoluzione innescata dal cesarismo. Il “politico di professione” non sara` mai identificabile col burocrate pena l’offuscamento della dimensione strategica e progettuale di una nazione. Certo, nessuna grande nazione moderna puo` fare a meno di un vasto, articolato e competente strato di burocrati purche´ esso resti al suo posto, cioe` nel ruolo di strumento della organizzazione e della gestione. Il Politico e` altro, e` il luogo ove si determinano e si decidono le prospettive di una nazione, e` un’altro tipo di sapere e di vocazione, per cosı` dire straordinaria, capace di farsi riconoscere e legittimare, e` una qualita` umana, un talento naturale, una straordinaria disponibilita` al sacrificio di se´, e` “vivere per la politica”. Il Politico per “vocazione” (als Beruf) si forma nei moderni parlamenti eletti democraticamente, a suffragio universale, nella dialettica tra maggioranze ed opposizioni e non tra le carte polverose di uffici e tribunali: “L’abisso che separa l’uno dall’altro proprio qui diventa visibile nel modo piu` evidente. Il funzionario deve sacrificare le proprie convinzioni al dovere dell’obbedienza. Il politico dirigente deve respingere pubblicamente la responsabilita` di atti politici quando questi sono in contrasto con le sue convinzioni e a queste deve sacrificare la sua posizione ufficiale”19. La crisi dei parlamenti, la mancata formazione di grandi partiti di massa e` la crisi della politica perche´ e` il dissolvimento dei luoghi della formazione dei politici per vocazione. Dunque e` qui, secondo Weber la radice della Finis Europae. Su questo nodo Weber restera` fino alla fine della vita, fino cioe` alle due famose Conferenze. Wissenschaft als Beruf e Politik als Beruf (Lavoro intellet18 19

M. Weber, Parlamento e Governo, a cura di F. Fusillo, Laterza, Bari-Roma 1982, p. 10. Ivi, p. 88-89.

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tuale come Professione e Politica come professione)20 vedono la luce negli anni 20 sono dedicate a spingere fino all’estremo limite della problematizzazione la concezione di Weber del carattere “vocazionale” della ricerca scientifica e del lavoro politico. E tuttavia queste Conferenze sono dedicate alle giovani generazioni, assumono il significato pieno di un lascito e di una esortazione, severa ed accorata ad accogliere con passione, qualora si presenti, la vocazione alla ricerca ed alla politica come un dono di straordinario valore per la societa` e la nazione al cui servizio si pone. E` l’ultimo magistero di Max Weber. Nel ragionamento lucido e rigoroso egli raccoglie gli esiti della sua imponente ricerca sui caratteri del lavoro moderno (L’Etica Protestante) e, piu` in generale, sul rilievo delle grandi religioni mondiali a comporre quelle immagini del mondo e quelle forme di mentalita` che definiscono le strutture piu` profonde dei diversi modelli economici. Il peso e l’incidenza determinante del concetto del Beruf moderno viene dal corpo di questa ricerca. In qualche modo Weber e` convinto che questo aspetto della formazione di tante generazioni di “lavoratori” occidentali ha costituito una differenza e forse ha anche contribuito a determinare una piu` alta produttivita` del modello economico ed una piu` profonda aspirazione al modello politico democratico. Il perdurare di questa produttivita`, pero`, appare legato alla possibilita` di mantenere vitali i caratteri della “vocazione” (Professione). La “vocazione” (Beruf) e` una relazione non-contrattuale col proprio lavoro, in qualche misura “spirituale” e “ascetica”. Questa speciale idealita`, che consente ad alcuni di lavorare assai oltre i limiti della remunerativita`, questa capacita` di togliere di mezzo l’utile, il tornaconto, la deriva del proprio bisogno, del proprio godimento, consente ad alcuni di interpretare la propria vita secondo un registro piu` universale e piu` alto di quello piu` comune del perseguimento della soddisfazione immediata di chi vive solo per se` stesso: “Resti quindi discosto dalla scienza chi non e` capace di mettersi, per cosı` dire, il paraocchi, e di penetrarsi dell’idea che il destino della propria anima dipende appunto dall’esattezza, poniamo, di quella congettura, proprio di quella, rispetto a quel passo di quel manoscritto”21. Certo la disposizione a vivere cosı` (ad esempio il proprio rapporto con la ricerca o con la politica, ma poi in generale con la vita) non si da` per 20

Max Weber, Il lavoro intellettuale come Professione, trad. it. A. Giolitti con una nota introduttiva di D. Cantimori, Einaudi, Torino 1980. 21 Ivi, p. 13.

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tutti, e tuttavia si coltiva e si corregge l’egoismo e l’individualismo, l’opportunismo e l’economicismo anche quando, come accade per la trasformazione degli apparati di ricerca, la parcellizzazione e la specializzazione spingono nella direzione della perdita del senso e del significato del lavoro di ricerca e, quindi della vita del ricercatore. Questo aspetto appare vitale per la politica. Se il lavoro politico si fa sempre piu` burocratico e l’enorme quantita` di risorse che sono messe in circolazione a partire dalla decisione politica spinge inevitabilmente molti a convertire la politica in risorsa per il proprio tornaconto (“vivere di politica”) e` chiaro, per Weber, che la sopravvivenza stessa della Politica e` legata alla possibilita` che alcuni possano far prevalere un rapporto noncontrattuale con la politica all’interno del quale la valenza “etica” (“etica della responsabilita`”-“etica della convinzione”) sia decisiva: “E il problema e` appunto questo: come possono coabitare in un medesimo animo l’ardente passione e la fredda lungimiranza? La politica si fa col cervello e non con altre parti del corpo o con altre facolta` dell’anima.”22. Ma anche in Weber, come gia` era stato per Tocqueville, l’ultima riflessione si vena di pessimismo. Sara` possibile ancora, nella societa` di massa, dove regna il conformismo ed il livellamento, dove ciascuno pensa a se`, al proprio tornaconto coltivare la Ricerca o la Politica o qualsiasi altro tipo di relazione col lavoro o con l’altro che aspiri ad una forma piu` definita ed alta di dignita`? O invece la “perdita dell’anima” (“specialisti senz’anima”) e` il prezzo definitivo da pagare per l’avvento compiuto della modernita`? Weber muore prima di poter vedere la drammatica trasformazione dei sistemi politici europei. Prima cioe` che quelle generazioni alle quali rivolge l’ultimo monito mostrino quanto profonda e` ormai, gia` negli anni ’20 la crisi delle classi dirigenti europee, della loro capacita` di assumere con responsabilita` e coerenza un compito storico complesso ma non impossibile. Portare a piu` alto grado di sviluppo la forma economica per migliorare le possibilita` di vita e, insieme, rendere piu` democratica e partecipata la decisione politica. Un compito che quelle classi dirigenti avrebbero potuto raccogliere solo a prezzo della rinuncia al proprio tornaconto. A prezzo della rinuncia ad una parte del privilegio, del profitto, del soddisfacimento personale, all’interesse di classe. Un ciclo oscuro si apre, cosı` come Tocqueville aveva intuito con tanto anticipo. 22

Ivi, p. 102.

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I passaggi conclusivi di La Politica come professione sono impregnati della visione profetica di quanto sta per precipitare sul destino d’Europa e sono dedicati alle nuove generazioni nelle cui mani e` riposta la responsabilita` del futuro: “Non abbiamo davanti a noi la fioritura dell’estate, bensı` per prima cosa una notte polare di fredde tenebre e di stenti, qualunque sia ora il gruppo a cui tocchi la vittoria dal punto di vista esteriore. Giacche´ dov’e` il nulla, ivi non solo l’imperatore ma anche il proletario ha perduto i suoi diritti.”23 Il destino collettivo prevarra` sulla salvezza dei singoli, nessuna parte, nessun gruppo potra` traghettare se stesso oltre il nulla che attende la storia europea.

23

Ivi, p. 120.

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IL POSITIVISMO

Il positivismo e` una corrente filosofica assai rilevante nella cultura europea tra otto e novecento e prende forma a partire dall’imponente sviluppo scientifico cui l’industrialismo da` impulso e dalla domanda sempre piu` ampia che il modo di produzione esprime di una riorganizzazione “moderna”della societa` e cioe` tale da espungere definitivamente ogni residuo di “opposizione” alla nuova forma di vita. La stretta connessione tra affermazione del Positivismo e trionfo dell’industrialismo e` rivendicata con orgoglio da Auguste Comte1, al cui pensiero e` legata la genesi di questo movimento filosofico: “Facendo via via, sempre prevalere la vita industriale, la socialita` moderna deve potentemente assecondare la grande rivoluzione mentale che oggi eleva definitivamente la nostra intelligenza dal regime teologico al regime positivo”2. Il positivismo appare cosı` come la filosofia che si appresta ad accompagnare la mentalita` a compiere l’ultimo stadio della evoluzione, a partire dalla constatazione, che in Comte ricorre continuamente, della evidente dissimmetria tra il processo di sviluppo delle forme della produttivita` e la condizione di crisi

1

Auguste Comte (1798 Montpellier-1857 Parigi). Nato da una famiglia cattolica e realista, trasferitosi a Parigi nel 1814, si iscrisse al Politecnico per intraprendervi gli studi di ingegneria, ma fu allontanato per indisciplina due anni dopo. Divenuto segretario di Sait-Simon nel 1822 pubblico` l’opera Piano dei lavori scientifici cui consegno` il suo dissenso dal maestro. Dopo una grave crisi depressiva durata otto anni si dedico` alla stesura del fondamentale Corso di filosofia positiva (1830-1842). Abbandonata la ricerca scientifica in seguito a una nuova grave crisi dovuta anche alla morte (1846) della donna che amava (Clotilde Devaux) diede un’impostazione mistica alle sue opere successive Calendario positivista (1849); Sistema di politica positiva (1851-54); Catechismo positivista (1852). 2 A. Comte, Discorso sullo spirito positivo, Laterza, Bari 1985, p. 37.

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conclamata della societa` che dovrebbe accogliere ed accompagnare l’industrialismo. Che ne e` stato dunque della “socialita` moderna” e come mai la nuova forma di vita non riproduce spontaneamente i legami sociali necessari a garantire le condizioni minime per la riproduzione della societa`? Per quali ragioni e` mancato il “perfezionamento” del genere umano che consiste “...nel far prevalere sempre di piu` gli alti attributi che distinguono maggiormente la nostra umanita` dalla semplice animalita`, cioe` da una parte l’intelligenza e dall’altra la socialita`, facolta` naturalmente solidali che si servono reciprocamente come mezzo e scopo.”3? Secondo Comte, l’origine della contraddizione secondo la quale il modo di produzione che conosce il piu` alto grado di massificazione delle condizioni di vita e` anche quello che abitua l’individuo al piu` universale livello di insocievolezza sta nella inadeguatezza delle forme di coscienza. Il compito della filosofia scaturisce dunque da questo punto dell’analisi critica e il Positivismo si accinge a questo gigantesco compito educativo. Si deve disvelare, smascherare cio` che appare alla coscienza ingenua come contrapposizione, conflitto, contrasto, concorrenza tra gli individui (la critica del feticismo, della visione teologica del mondo) perche´ gli uomini accettino definitivamente che questa “seconda natura” e` appunto il frutto di una evoluzione positiva entro la quale bisogna imparare a vivere. Il positivismo si pone per meglio assolvere questo compito, come una vera e propria filosofia della storia entro la quale si reinterpreti il passato come “presupposto”, antecedente imperfetto, adolescenza del mondo: “La riorganizzazione totale, che sola puo` mettere fine alla grande crisi moderna, consiste, infatti, sotto l’aspetto mentale, che anzitutto deve prevalere, nel costituire una teoria sociologica capace di spiegare come si deve il passato umano nella sua interezza: tale e` il modo piu` razionale di porre la questione essenziale, per meglio togliere di mezzo ogni passione perturbatrice”4. A questo fine la filosofia positivista appresta i suoi strumenti: offrire una spiegazione credibile del nesso problematico passato-presente per produrre un cambiamento della mentalita` che rimuova le passioni e la loro carica perturbatrice. Dimostrare che questa infinita moltitudine di individui senza passioni e senza legami e` la societa` moderna, ed e` la miglior forma di societa` possibile. E` questo il punto al quale interviene l’affermarsi della Scienza positiva, che supera e cancella lo stadio teologico e quello metafi3 4

Ivi, p. 70. Ivi, p. 71.

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IL POSITIVISMO

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sico della storia dell’Umanita`, e si dedica non solo alla ricognizione dei processi di trasformazione, ma indaga sul funzionamento delle “leggi” che regolano lo sviluppo storico. In questo programma di ricerca e di educazione il positivismo di propone come il paradigma piu` adatto ad accogliere il metodo nelle scienze naturali all’interno del campo teorico delle scienze storico-sociali. Il positivismo ambisce dunque attraverso questo procedimento a costruire una vera e propria “morale” laica e scientificamente fondata, che possa costituire, per cosı` dire, l’ossatura di una societa` armonica che non ha bisogno, se non secondariamente, di istituzioni politiche. Anzi la politica appare a Comte come un residuo del passato dell’Umanita`: “Nell’organismo politeistico dell’antichita`, la morale, radicalmente subordinata alla politica, non poteva acquistare ne´ la dignita`, ne´ l’universalita` convenienti alla sua natura”5. La nuova morale moderna si costituisce invece come autonoma e prende forma dalla consapevolezza (scientificamente acquisita) che “Non potendo piu` prolungarsi che attraverso la specie, l’individuo sara` portato cosı` a incorporarvisi il piu` completamente possibile, legandosi profondamente a tutta la sua esistenza collettiva...”6. Nasce cosı`, con l’“incorporazione” dell’individuo nella specie quella “religione dell’Umanita`” di Comte o religione del “Grande Essere” o di quell’Essere umano organico che e` l’Umanita` in tutta quanta la sua storia. John Stuart Mill7 introduce nel paradigma positivista una marcata torsione della Scienza sociale nella direzione dell’individualismo e del liberalismo. Mill elabora una concezione dell’economia e della societa` che si sviluppano dall’industrialismo come “seconda natura” cui l’umanita` moderna deve adeguare rapidamente i propri strumenti cognitivi e praticooperativi. Anche l’opera di razionalizzazione del sistema della distribuzione delle risorse e del reddito (unico ambito nel quale gli sembra possibile in intervento attraverso “leggi” e “istituzioni umane”) gli appare come stretta-

5

Ivi, p. 73. Ivi, p. 88. 7 John Stuart Mill (Londra 1806-Avignone 1873) fu educato privatamente da suo padre James, autorevole rappresentante del radicalismo inglese e da Jeremy Bentham. Nel 1823 entro` nella Compagnia delle Indie ove rimase per 35 anni compiendovi una brillante carriera. Tra il 1826 ed il 1827 inizio` una revisione delle teorie utilitaristiche. Fondo` nel 1836 la “London and Westmister Review” e nel primo numero pubblico` un importante saggio critico sulla Democrazia in America di Tocqueville. Pubblico` nel 1843 il System of Logic e nel 1848 i Principles of Political Economy. Nel 1859 uscı` il suo famoso saggio On Liberty e nel 1861 Utilitarism. 6

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mente legata al fine della “liberazione” delle pure energie concorrenziali tra gli individui che non debbono soffrire di alcun tipo di “determinazione” o di “regolazione solidale” del mercato. Come era gia` stato per Comte e sara` ancora piu` evidente in Spencer, nonostante qualche sensibilita` di tipo socialista (l’auspicio della formazione di un sistema di associazioni, la riflessione sugli orari di lavoro), la forma della regolazione della societa` appare affidata al meccanismo malthusiano della concorrenza in un regime di laissez-faire cui si giustappone una forma di Stato-minimo la cui funzione si riduce al sistema di garanzie necessarie al libero svolgimento della dialettica tra gli individui. Tutto questo discende da una particolare evoluzione del concetto classico della liberta` moderna che compie, da Hegel in poi, un singolare percorso di riduzione “privatistica”. Quella grande idea-forza che Hegel aveva pensato come l’energia spirituale che scardina e frantuma gli spazi della privatezza, i luoghi ristretti dell’esperienza dove sempre essa si era annidata e nascosta come “licenza”, “devianza”, “trasgressione”, per mutarsi in disegno, progetto, percorso universale che cambia la forma del mondo, appare ormai dimenticata. La liberta` era stata “mito politico” in grado di aprire un ciclo di rivoluzioni contro regimi antichi, corrotti ed oppressivi, era stata energia di unificazione delle societa` moderne perche´ era declinata come “pubblica virtu`”, cioe` come liberta` civile e politica di popoli e nazioni che rivendicavano il diritto di scegliere liberamente i propri sistemi e i propri governi. Solo cosı` si era potuto, per una fase circoscritta, sottraendo la liberta` alla sua consistenza tradizionale nella sfera dei “vizi privati”, attribuirle un’energia progressiva ed evitare il dilagare della sua carica di disgregazione della societa`. Questa dimensione etico-politica della liberta` appare tuttavia poco funzionale alla crescita della societa` industriale. Quello che occorre promuovere e` invece la liberta` del consumatore e la diversificazione del consumo. Questo produce una dilatazione della dimensione “privata” della liberta` che promuove la dinamica meramente individuale a cui si affida la realizzazione della felicita`. La felicita` e` cosı` rigorosamente felicita` del singolo, in Stuart Mill, alla cui realizzazione indiscriminata si frappongono solo i limiti delle leggi dello Stato e degli “interessi” altrui che non possono essere lesi. Si badi bene, gli “interessi”, non i sentimenti o la dignita` degli altri. Nel famoso e fondamentale Saggio sulla liberta`8 compare una definizione 8

J. Stuart Mill, Saggio sulla liberta`, Il Saggiatore, Milano 1981.

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del concetto di liberta` che segnala vistosamente il ritorno alla definizione privatistica del suo concetto: liberta` e` “soddisfare le proprie inclinazioni”. L’individualismo appare in Mill come l’unico antidoto possibile alla “mediocrita`” che caratterizza la societa` di massa: “Tutto cio` che e` saggio e nobile viene iniziato, e deve esserlo, da individui, generalmente da uno solo”9. La liberta` del singolo, l’anticonformismo di chi, seguendo le proprie pulsioni, rifiuta di “perdersi tra la folla” e` il rimedio alla opacita` della liberta` dei soggetti collettivi che hanno costruito la modernita`: “Ma cio` non toglie che il governo della mediocrita` sia un governo mediocre. Nessun governo democratico o di un’aristocrazia numerosa si e` mai sollevato al di sopra della mediocrita`...”10. La moltiplicazione delle energie che gli individui sviluppano ciascuno per se´, in direzioni diverse, compone “naturalmente” un armonico sviluppo: “...la liberta` e` l’unico fattore infallibile e permanente di progresso poiche´ fa sı` che i potenziali centri indipendenti di irradiamento del progresso siano tanti quanti gli individui.”11. Il grande nemico contro cui questo progresso si misura e` il peso della consuetudine e del conformismo, la spinta livellatrice della forma dell’esistenza collettiva che annulla le differenze tra gli individui ed esalta i tratti comuni dell’esistenza di ciascuno: “Gli uomini diventano rapidamente incapaci di concepire la diversita` quando per qualche tempo si sono disabituati a vederla.”12. Improvvisamente, a questo punto del ragionamento di Mill, compare “la societa`”, come l’estremo opposto all’individuo nella dialettica della liberta`: “qual e` allora il giusto limite alla sovranita` dell’individuo su se stesso? dove comincia l’autorita` della societa`? Quanto nella vita umana spetta all’individualita` e quanto alla societa`?”13. Ma soprattutto – vien fatto di chiedersi – da dove spunta e come emerge “la societa`” nella teoria di Stuart Mill? Si tratta di una non piccola aporia alla quale il nostro autore non riesce a sottrarsi giacche´, se afferma che “...la societa` non si fonda su un contratto, e sarebbe inutile inventarne uno per dedurne gli obblighi sociali...”14, ammette che “chiunque riceva la sua protezione” deve ritenersi vincolato, deve rispettare il legame sociale, deve tener conto dell’altro e determinare la sua condotta. Ma perche´ si dovrebbe cercare “la protezione” 9

Ivi, p. 97. Ivi, p. 96. 11 Ivi, p. 101. 12 Ivi, p. 105. 13 Ivi, p. 106. 14 Ibidem. 10

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della societa` se il prezzo che viene richiesto e` un sacrificio sensibile delle proprie “inclinazioni”? Piu` avanti ancora il ragionamento si imbatte in una contraddizione evidente: “Gli uomini hanno il dovere reciproco di aiutarsi e di distinguere il bene dal male e incoraggiarsi a scegliere il primo e evitare il secondo... Ma nessuno, e nessun gruppo, e` autorizzato a dire a un adulto che per il suo bene non puo` fare della sua vita quello che ha deciso di fare”15. Quale comportamento e` allora giusto adottare e quale criterio puo` servire per distinguere il bene dal male nel decidere cosa ciascuno vuole “fare della sua vita”? Come e` possibile quella “educazione” degli individui che, come per Comte, anche in Stuart Mill appare l’unico strumento ammissibile per “fare societa`” dalla infinita quantita` delle “inclinazioni” degli individui? In Utilitarismo16 la contraddizione si rappresenta in forma piu` esplicita: “Questa persona dice a se stessa «Sento di aver l’obbligo di non commettere furto o omicidio, di non tradire o ingannare. Ma perche´ sarei obbligato a promuovere la felicita` generale se la mia propria felicita` consiste in qualche cosa d’altro, perche´ non dovrei poter dare la mia preferenza quest’altra cosa?»”17. L’“utilitarismo”, che Stuart Mill rappresenta come una vera e propria “filosofia morale” costituisce il fondamento dell’agire dell’uomo nel “principio di utilita`” che si esplicita nella definizione di “Principio della Massima Felicita`” dove “per felicita` si intendono il piacere e l’assenza della sofferenza..” per il soggetto che agisce, ovviamente. Ma da quale luogo della soggettivita` individuale dovrebbero derivare l’“obbligo di non commettere furto o omicidio, di non tradire o ingannare” inteso che ciascun individuo e` intento a conseguire “il piacere e l’assenza della sofferenza”? Quali mezzi sono moralmente legittimi e quali non lo sono per il conseguimento di questo fine? E, a maggior ragione, cosa dovrebbe vincolare il suo agire al fine della “felicita` generale” o anche, semplicemente a rispettare la felicita` dell’altro? Come si giunge a percepire, a “sentire” un “obbligo”, un vincolo, un limite qualsiasi? Attraverso l’educazione, secondo Stuart Mill: “...fino a quando, per la migliorata educazione, il sentimento di unione con il nostro prossimo non sara` profondamente radicato nella nostra indole (non vi e` dubbio che questo era cio` che Cristo intendeva) e sembrera` alla nostra coscienza parte cosı` integrante della nostra natura...”18.

15 16 17 18

Ivi, p. 107. J. Stuart Mill, Utilitarismo, Cappelli, Bologna 1981. Ivi, p. 79. Ivi, p. 79.

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Il progresso dal piacere alla virtu` avviene cosı` in un procedimento “illuministico-pedagogico” che finisce col produrre una sorta di “piacere della virtu`” dal quale nasce la possibilita` della sopravvivenza di una “societas” tra gli individui. Da questa complessa teoria della personalita`, da questa concezione utopistica dell’efficacia della pedagogia, scaturisce il liberalismo milliano, un liberalismo moderato e di ispirazione etica piu` che economica. Dal punto di vista dei modelli politici Stuart Mill sembra orientato verso la forma dello Stato rappresentativo (il modello inglese) con una qualche accentuazione dei caratteri aristocratici insiti in quella tradizione. La comunita` e` titolare della sovranita` e dunque il suffragio deve essere universale, almeno nella lunga prospettiva che si configura come il tempo del compito di educazione assegnato alla filosofia. Al tema della forma dello stato liberale, cioe` alla analisi del modello di stato piu` adatto ad accogliere la dinamica della liberta` individuale si dedica il pensiero di Herbert Spencer19. Fortemente influenzato dal pensiero di Darwin, Spencer abbandona ben presto il radicalismo democratico della sua formazione. Lo interessa il tema del carattere positivo della competizione tra gli individui e si convince che la selezione che ne deriva e` in grado di migliorare la societa`. L’individualismo di Spencer e` intriso di diffidenza nei confronti di ogni modello politico, di ogni forma di Stato forte ed accentrato, “militare” perche´ capace di penetrare nella vita sociale. Piu` opportuno gli appare quel modello di Stato “industriale” che si fonda su un patto di natura contrattualistica ed e` dunque capace di ridurre al “minimo” la struttura dell’autorita` sovraordinata rispetto alle dinamiche libere dei contraenti privati. Nel suo importante studio L’individuo contro lo Stato (1884) la differenza tra i modelli compare nella forma dell’opposizione tra le due categorie di “militarismo” e “industrialismo”. Sotto il concetto di “militarismo” dello Stato Spencer comprende anche

19

Herbert Spencer (Derby 1820-Brington 1903) fu ingegnere ferroviario per pochi anni subito dopo il completamento degli studi. Ben presto si dedico` alla speculazione ed alla attivita` pubblicistica. Nel 1850 diede alle stampe un’opera filosofica dal titolo Statica sociale, seguita nel 1855 da Principi di psicologia e da Progresso, sua legge e sua causa (1857). Elaboro` compiutamente le tesi contenute in questi scritti in Sistema di filosofia sintetica, opera in 9 volumi di cui fanno parte Principi primi (1862), Principi di biologia (1854-57), Principi di sociologia (1877-96), Principi di etica 1892-93) ... Tra le altre opere: Educazione intellettuale, morale e fisica (1861), La classificazione delle scieneze (1864), I fattori dell’evoluzione organica (1887) Il suo pensiero politico e` contenuto nel suo studio L’individuo contro lo Stato (1884).

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la forma hegeliana dello “stato etico” perche´ la idealizzazione (“lo Stato e` la realizzazione dell’idea etica”) gli appare come uno strumento della “militarizzazione” della vita sociale cui viene estesa la forma dell’eticita` pubblica, dunque anche quella “ragion di stato” che rende possibile eticamente anche la guerra, quando siano in gioco gli interessi della nazione. Di pari passo, dalla concezione hegeliana del rapporto pubblico-privato deriva, secondo Spencer, quella particolare fiducia nella efficacia della legge che produce una penetrazione del diritto in tutti gli ambiti della vita come se questo strumento fosse in grado di promuovere lo sviluppo ordinato ed il benessere della societa`. Anche Spencer, come Comte, guarda alla societa` come una formazione spontanea, che si struttura intorno ad un rete di legami naturali. In questo sistema di fisiologica armonia, identica a quella che presiede le esistenze biologiche piu` semplici e piu` complesse, ogni intervento legislativo appare superfluo e dannoso. Le attivita` spontanee (produttive, affettive, relazionali) degli individui producono un sistema di equilibri sociali. Lo sviluppo della societa` deriva direttamente dalla divisione del lavoro e non appare sensibilmente modificabile per l’intervento di forze esterne o elementi di direzione politica. Da questa concezione che fonda la sociologia spenceriana deriva una particolare concezione della funzione legislativa degli stati che deve conformarsi alla necessita` di rendere “legittima” la selezione darwiniana della societa`: un sistema all’interno del quale nessun principio “distributivo” possa attenuare le differenze tra i potenziali intellettuali e produttivi espressi dagli individui. Spencer avversa per cio` sia la guerra che il razzismo che rappresentano forme violente ed innaturali di selezione tra gli uomini. Nella struttura della sua opera fondamentale (Sistema di filosofia sintetica) il paradigma evoluzionista appare dominante. Essa prende di volta in volta la forma del trapasso dall’“omogeneo” all’“eterogeneo”, dalla “dispersione” alla “integrazione”, dal “meno coerente” al “piu` coerente”, giacche´ Spencer vi si impegna a dimostrare che il principio dell’evoluzione e` valido in tutti i campi dello scibile in una assoluta simmetria della composizione del mondo organico e inorganico, sociale e culturale se si vuole, come appare a lui necessario, tentare una interpretazione unitaria della realta` che metta a frutto i principi fondamentali delle scienze moderne. Anche la sociologia dunque, uno dei campi fondamentali della sua ricerca, scaturisce dalla sua concezione della societa` come “organismo” risultante da un processo evolutivo nella direzione del raggiungimento dell’ideale della “societa` perfetta”. La perfezione della societa` consiste nella possibilita` di una crescita indefinita della liberta` individuale, cui costituirebbe limite e freno solo l’esercizio della indefinita crescita della liberta` degli altri.

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Singolare e assai differente la veduta di Ferdinand To¨nnies20 che si nutre della profonda formazione umanistica che piega e trasforma in parte in un denso paradigma di filosofia della storia la linearita` scarna dell’idea positivista della “evoluzione”. La sua teoria della societa`, consegnata all’opera fondamentale del suo percorso intellettuale (Comunita` e societa`), mostra sicuramente un debito nei confronti della dottrina di Spencer, e di quel positivismo evoluzionistico che aveva “sistemato” scientificamente il pensiero sociale come ricognizione dello status, della morfologia dell’esser in societa` nell’eta` moderna. Tuttavia, la straordinaria diffidenza espressa dalla cultura tedesca nei confronti di quest’opera e il singolare isolamento dell’esperienza complessiva di ricerca dell’autore costituiscono un buon indizio per cercare di comprendere gli aspetti di netta autonomia contenuti nel suo pensiero. To¨nnies descrive la sua teoria della societa` in un passaggio di singolare chiarezza all’esordio del capitolo II di Comunita` e societa`: “La teoria della societa` muove dalla costruzione di una cerchia di uomini che, come nella comunita`, vivono e abitano pacificamente uno accanto all’altro, ma che sono non gia` essenzialmente legati, bensı` essenzialmente separati, rimanendo separati nonostante tutti i legami, mentre la` rimangono legati 21 nonostante tutte le separazioni” . A partire da questo punto, con assoluta radicalita` rilevando il dato della estinzione di ogni legame comunitario tra gli individui, To¨nnies costruisce con pazienza e spirito di osservazione “sociologico” la “finzione” di un reticolo di relazioni entro il quale il massimo di amorevolezza consiste in una sorta di “stato di quiete” in cui “ognuno sta per conto proprio ed in uno stato di tensione contro tutti gli altri”. La “liberta`” dei moderni, cioe` il desiderio prima e il diritto poi conquistato nello spazio pubblico (il diritto al lavoro libero e non servile, il diritto a manifestare la propria opinione politica, il diritto a scegliere la propria rappresentanza politica e a decidere la forma di governo) la liberta` 20

Ferdinand To¨nnies (1855 Oldenwort, Scheswig-1936 Kiel) studio` filologia classica a Tubingen ed ottenne a Kiel l’abilitazione all’insegnamento. Il riconoscimento accademico gli giunse solo nel 1911 (forse a causa del suo orientamento politico socialista) come professore di “Scienze economiche dello Stato”. Fu tra i fondatori della Societa` tedesca di sociologia (1909) dopo avere a lungo collaborato alle ricerche del “Verein fur Sozialpolitik” e in contatto con i piu` importanti intellettuali tedeschi del suo tempo (Simmel, Sombart, Weber). La sua opera fondamentale fu Comunita` e societa` (1887). Scrisse, inoltre, Sviluppo della questione sociale (1907), Critica dell’opinione pubblica (1922), Studi e critiche sociologiche (1926), Thomas Hobbes, vita ed opera (1925) La battaglia per la legge socialista (1929). Insegno` all’Universita` di Kiel. 21 F. To¨nnies, Comunita` e societa`, Edizioni di Comunita`, Milano 1979, p. 83.

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del cittadino, ha invaso completamente ogni sfera della vita umana ed ha frantumato, devastandola, anche la sfera privata dell’esistenza dei singoli. Non c’e` piu` alcuna “costituzione materiale” della societa`, non esiste piu` nulla di comune, non c’e` piu` traccia di condivisione possibile. Tutto quello che compare alla superficie come un sistema di relazioni e` “finzione”. Si “fingono” famiglie, comunita` municipali, comunita` nazionali e quant’altro perche´ al fondo: “Nessuno fara` qualcosa per l’altro, nessuno vorra` concedere e dare qualcosa all’altro, se non in cambio di una prestazione o di una donazione reciproca che egli ritenga almeno pari alla sua”22. Ma poiche´ quasi sempre l’individuo ritiene di non essere sufficientemente risarcito da quanto riceve, la dinamica che lo governa e` la ricerca di un contratto piu` vantaggioso, di una condizione piu` remunerativa, di una esperienza piu` gratificante. Il sistema delle relazioni e` mobile e il tornaconto ne e` il principio dinamico. Nulla di solido, nulla di strutturato. Fragilita` e miseria del sistema delle relazioni che trovano di volta in volta l’unico momento della condivisione nell’assenso allo scambio divengono il principio selettivo che include all’interno della societa` come “Ens fictivum”: “Con lo scambio, ognuno si libera in seguito del valore per lui non utilizzabile, per appropriarsi di un valore eguale per lui utilizzabile.”23. Chi non riesce ad adattarsi ad assumere la forma della merce, chi non riesce a comprendere che alla merce e allo scambio e` intrinseca la caducita` e che ogni essere umano ha valore e struttura di merce nella relazione all’altro e dunque e` destinato a “finire nel consumo” dell’altro, e` fuori dalla societa` ed e` fuori dalla modernita`. To¨nnies ricostruisce cosı` l’intera struttura della societa` dominata dalla forma di merce come l’estremo prodotto della evoluzione della societa` occidentale e tuttavia il suo paradigma di filosofia della storia nega il fondamento della teoria evoluzionista. Come poi apparira` chiaro anche a Weber, To¨nnies non si schiera tra quanti (Mill, Spencer) pensano che il prodotto piu` recente dello sviluppo storico sia anche quello che realizza un grado piu` alto di civilta`. La emersione della forma dello scambio come essenza del tessuto delle relazioni tra gli individui e`, per To¨nnies, certamente corrispondente ad un grado piu` alto di razionalizzazione del sistema dei “mondi vitali” e tuttavia razionalizzazione e profonda contraddizione gli appaiono i caratteri salienti della modernizzazione sociale. La sua comprensione del processo dello sviluppo storico sembra suggerire l’idea del cammino di una razionalizzazione “tragica”. La sua opposizione allo “Stori22 23

Ibidem. Ivi, p. 87.

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cismo” tedesco in nome del razionalismo ha uno spessore assai piu` profondamente politico che epistemologico (dopo la rivoluzione del 1848 lo Storicismo riproduce la posizione del Romanticismo negli anni della Restaurazione). Il diritto naturale e` per To¨nnies la struttura originaria del razionalismo moderno e, in questo, si rende evidente lo sforzo di conciliare razionalita` e storicita` nella teoria dello sviluppo. Opposto sia all’organicismo della “scuola storica”, sia al meccanicismo del razionalismo illuminista, il suo pensiero legge la dimensione “tragica” della moderna conformazione della societa` in una divaricazione sempre piu` evidente tra storicita` e razionalita`, in una sempre piu` perniciosa riduzione alla sola razionalita` che costringe ad “inventare” (le “finzioni”) spazi sociali e politici al di la` di qualsiasi criterio di “validita`” per gli individui che ne partecipano e quindi bisognosi di un principio di validazione autoritaria. Nel suo importante studio su Thomas Hobbes (Thomas Hobbes. Vita e opere ), compare una riflessione che avvicina il giudizio sulla Grande Guerra alla condizione hobbesiana dello “stato di natura” e che connette quella caduta dell’Europa nella barbarie all’oblio del diritto di natura “sempre piu` incompreso e disprezzato”. Sono forse da ascrivere a questa rigorosa consapevolezza della perdita dell’unita` della coscienza storica e della razionalita` europea i durissimi giudizi pronunciati da To¨nnies nel 1932 contro il nazismo e contro Hitler che gli costarono l’allontanamento dall’Universita` di Kiel come “persona non grata” e la perdita del titolo di “professore emerito”, unico riconoscimento del suo lavoro didattico e scientifico. 24 Emile Durkheim si assume il compito di riqualificare e rifondare quel processo di totale riduzione all’economico del sistema delle relazioni sociali che nella riflessione di Tonnies era comparso come lo svuotamento della societa` ed la sua trasformazione in “Ens fictivum’’. La sua ricerca prende le mosse dal tentativo di costruire un nesso organico tra la divisione sociale del lavoro e la “morale” che lega individui e 24

Emile Durkheim (Epinal 1858-Parigi 1917), fu il padre fondatore della sociologia francese. Figlio di un rabbino, dopo aver insegnato filosofia nei licei, fu incaricato nel 1887 dell’insegnamento di scienza sociale nella facolta` di lettere a Bordeaux che fu il primo corso di scienza sociale tenuto in una universita` francese. Insegno` poi sociologia e pedagogia nella facolta` di lettere di parigi dal 1906 fino alla morte. Nessuno misconosce oggi l’immensa funzione di guida che il suo pensiero ebbe quasi in ogni campo della sociologia. Tra le sue opere sono fondamentali: Della divisione del lavoro sociale (1893), Le regole del metodo sociologico (1895), Il suicidio (1897), Le forme elementari della vita religiosa (1912). La rivista L’anne´e sociologique, da lui fondata nel 1896, fu il grande laboratorio di tutta la sociologia francese.

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collettivita` perche´ egli e` convinto che l’interdipendenza tra gli individui organizzati in societa` costituisce l’unico significato e valore della vita umana. Egli coglie dunque il punto cruciale della questione che e` al centro di tutta la riflessione positivista. La complementarita` che sta al fondo della vita di relazione e` l’unico spazio possibile in cui e` possibile il reciproco riconoscimento degli individui ed anche il legame che struttura la societas, cioe` lo stare insieme dei singoli. Durkheim vede tuttavia che l’intero spazio del privato e` stato colonizzato dalla struttura dell’economico ed e` dunque divenuto pubblico, cioe` dimensione impersonale e astratta dell’esistenza: “Possiamo quindi concludere dicendo che tutti i vincoli sociali che risultano dall’uniformita` si allentano progressivamente”25. Egli si accorge che l’individualismo appare ormai la forma della morale dominante e sottolinea che esso ha ormai prodotto una forma di “culto” che ne definisce il carattere di vera e propria religione moderna. Non resta dunque che immaginare che sia possibile sostituire le relazioni private con il sistema della divisione del lavoro che assume il ruolo e la funzione di strumento della costruzione di una vera e propria rete di “solidarieta` organica”: “La divisione del lavoro assume sempre piu` la funzione sostenuta un tempo dalla coscienza comune; essa principalmente realizza la coesione degli aggregati sociali dei tipi superiori. Ecco una funzione della divisione del lavoro ben piu` importante di quelle che le riconoscono abitualmente gli economisti.”26 Allo sradicamento totale della struttura dell’umano si e` cosı` sostituita la seconda natura. I rapporti di produzione sono divenuti rapporti sociali (come Marx aveva previsto). Il figlio, il fratello, l’amico e` colui che mi porge lo strumento di lavoro o la materia prima, il padre, probabilmente, e` il datore di lavoro. Neppure la relazione di coppia si sottrae a questa forma economica: “In altri termini, la divisione del lavoro sessuale e` la fonte della solidarieta` coniugale”27. Come in Kant la riduzione dell’essenza della relazione di coppia alla forma del contratto qui l’immagine un po’ grottesca di una “divisione del lavoro sessuale” segnala il limite estremo di inconsistenza cui e` pervenuto, nella societa` industriale, questo tipo di relazione. Pur dentro il limite di questa consapevolezza, Durkheim e` convinto che la societa` non e` una somma di individui. Il principio per cui la societa` 25 26 27

E. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, Edizioni Comunita`, Milano 1989, p. 184. Ivi, p. 184. Ivi, p. 79.

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costituisce i suoi valori e le sue istituzioni trascendendo gli individui si riscontra anche in una concezione del diritto come strumento di difesa della “solidarieta` organica” tanto che il “reato” si configura quasi esclusivamente sotto il profilo del gesto che rompe la solidarieta` sociale. La contraddizione tra le tendenze disgregative che Durkheim vede in atto e lo sforzo di tenere in vita la societa` come realta` sui generis, cioe` dotata di esistenza propria si rende evidente quando Durkheim si spinge ad elaborare un sistema complesso di regole che “organizzino” per cosı` dire, un comune sentire, che evidentemente non c’e` piu`: “Dobbiamo quindi non gia` enumerare le regole ma raggrupparle in classi e sotto classi, a seconda che esse si riferiscano al medesimo sentimento o a sentimenti diversi, o ancora a varieta` diverse dello stesso sentimento”28. In questo senso Durkheim e`, probabilmente, il pensatore positivista che porta a maggiore evidenza i caratteri della contraddizione tra l’eticopolitico e l’osservazione scientifica dell’esistente.

28

Ivi, p. 167.

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` LE TEORIE DELLA SOVRANITA E LA RIDEFINIZIONE DELLE CATEGORIE DEL POLITICO

Nel primo ventennio del Novecento, proprio a ragione della grande evidenza delle trasformazioni sociali, prende forma anche un importante dibattito sulla forma dello Stato, sulla inadeguatezza del parlamentarismo ristretto, sulla relazione tra Stato e diritto. Con l’esaurirsi del ciclo storico in cui gli Stati nazionali europei avevano definito la sovranita` intorno al principio monarchico (la Grande Guerra aveva segnato il fallimento definitivo di quella esperienza) viene in luce il problema della ridefinizione del principio fondativo dello Stato e quindi, anche la questione della legittimita` di una nuova dottrina dello Stato che prenda atto della modificazione e dell’allargamento della consistenza della societa` a partire dalla trasformazione ad essa impressa dai caratteri dell’industrialismo e della Guerra. Il positivismo giuridico (Gerber, Laband, Jellinek) appariva in crisi ed incapace a fornire risposte utili a guidare il cambiamento. Cio` che appare ormai inutilizzabile del vecchio apparato concettuale e giuridico e` proprio quella concezione individualistico-liberale, sostenuta dal paradigma filosofico positivista (come rilevano giustamente Smend e Heller) che subisce la stessa sorte della forma di Stato ottocentesco che ne era divenuto il modello. Scriveva appunto Mayer nel 1931 che la crisi di ogni concezione dello Stato e` insieme uma crisi politica di una forma storica di Stato. Hans Kelsen1 e` uno dei grandi protagonisti di questo importante dibattito. 1 Hans Kelsen (1881 Praga-1973 Orinda, California), giurista e filosofo del diritto tedesco. Insegno` nell’Universita` di Vienna, Francoforte e Ginevra passo`, durante l’ultima guerra negli

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` DI MASSA FORMAZIONE E CRISI DELLA SOCIETA

Punto di partenza della sua riflessione e`, appunto, il tema della “crisi del parlamentarismo”: “La democrazia moderna vivra` soltanto se il parlamentarismo si rivelera` uno strumento capace di risolvere le questioni sociali del nostro tempo. Certo, democrazia e parlamentarismo non sono identici. Ma, poiche´ per lo stato moderno l’applicazione di una democrazia diretta e` praticamente impossibile, non si puo` seriamente dubitare che il parlamentarismo non sia l’unica forma reale possibilee dell’idea di democrazia”2. Kelsen e` certamente preoccupato che la forma di consapevolezza ormai raggiunta della crisi del modello politico dello Stato liberale ottocentesco si riversi impropriamente sull’impianto parlamentare di quel modello. La critica del vecchio Stato nazionale ottocentesco non puo` divenire immediatamente la demolizione della funzione storica dei parlamenti perche´ questo passaggio aprirebbe la strada a pericolose derive di carattere plebiscitario. E tuttavia Kelsen e` consapevole che la crisi e` reale. La possibilita` di una traduzione perfetta della democrazia in una istituzione politica gli appare un obiettivo non realistico. Egli e` tuttavia convinto che il sistema parlamentare possa essere quello che maggiormente si avvicina, nella sua perfettibilita`, alla realizzazione della democrazia: “La cosiddetta crisi del parlamentarismo non e`, infine, il risultato di una interpretazione inesatta di questa forma politica e percio` di un falso giudizio sul suo valore... Se si riesce a familiarizzarsi con le idee che dominano il sistema parlamentare, ci si accorgera` che l’idea che qua domina e` quella dell’autonomia democratica, percio` quella della liberta`”3. Dunque se il Parlamento e` un “organo collegiale” eletto dal popolo a suffragio universale (ma anche questo tipo di suffragio fu il risultato di un faticoso percorso storico) esso realizza la democrazia secondo il principio del governo della maggioranza, dunque rappresenta comunque una parte, non la totalita` del popolo elettore. E` dunque “relativamente” rappresentativo e questa “iniquita`” ha una ragione “tecnica” e una radice filosofica. Se non fosse possibile far “prevalere” una parte, quella numericamente piu` forte in parlamento, come altro si potrebbe formare la decisione politica? Come si potrebbe costituire una “volonta` direttiva dello Stato”? Questa parzialita` si puo` attenuare, tenendo conto in una certa misura della volonta` della minoranza, si puo` lavorare per Stati Uniti dove ricoprı` la cattedra all’Universita` di Berkeley in California. Giurista positivo e legislatore, fu, tra l’altro l’autore del progetto di costituzione austriaca del 1930. Della sua vastissima produzione ricordiamo: Dottrina pura del diritto (1934) Teoria generale del Diritto e dello Stato (1045), La teoria comunista del diritto (1955). 2 H. Kelsen, La democrazia, il Mulino, Bologna 1981, p. 67. 3 Ivi, p. 67-68.

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` LE TEORIE DELLA SOVRANITA

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approssimazione, ma non si puo` evitare una riduzione “ad unum”. In radice questo e` il tema della inconciliabilita` di liberta` e societa`. La liberta` e` sempre e comunque “iniqua” perche´ contiene la negazione dell’altro. E tuttavia, dal momento che la sua immissione nella storia occidentale appare irrinunciabile, occorre rassegnarsi a pagare il prezzo di una percentuale di “iniquita`” che si puo` ridurre solo nella misura in cui si riduce la liberta` ma che non si puo` cancellare: “Ma l’idea di liberta` e` e rimane l’eterna dominante fondamentale di tutte le speculazioni politiche quantunque essa sia – o proprio perche´ e` nella sua essenza piu` profonda – la negazione assoluta del sociale e del politico e, per cosı` dire, il contrappunto di ogni teoria sociale e di ogni prassi politica... la liberta` non puo` inserirsi allo stato puro nella sfera del sociale o del politico-statale, ma si deve amalgamare con certi elementi ad essa estranei.”4. Una volta che la decisione politica diviene effettuale e si converte in un sistema di norme vincolanti per tutti e` la “volonta` dello Stato” che mette in essere la “volonta` generale” che si e` formata come volonta` della maggioranza. E` la liberta` della maggioranza che diventa legge e mette in forma la vita anche di coloro che non la condividono. A partire dall’atto di esercizio della liberta` di una parte cambia radicalmente la vita dell’altra parte. Questo contenuto di “violenza” dell’esercizio della liberta` e dell’autonomia e` il portato inevitabile della modernita` e nessuno se ne fa specie. “La collettivita` – che si ipostatizza in una persona – vale a dire lo Stato – come uomo o superuomo – vuole che i suoi membri si comportino in una determinata maniera. Il dovere dell’ordine statale viene presentato come la volonta` di una persona statale. La formazione della volonta` dello Stato e` quindi, semplicemente il processo di creazione dell’ordine statale”5. Non vi e`, dunque, alcun relativismo, nella impostazione kelseniana che e`, su questo punto, assai rigorosa. Essa fa piazza pulita di tutte le rappresentazioni classiche del tema dei “limiti” della liberta` cosı` caro anche al Positivismo politico. Non ha alcun senso la definizione secondo la quale la liberta` di ciascuno termina dove inizia la liberta` dell’altro perche´ questo puo` avere solo il senso di immaginare uno spazio della “autonomia” nel quale l’agire individuale non produce alcuna intersezione con la vita dell’altro. Questo e` possibile solo in una societa` senza legami (come quella rappresentata da To¨nnies). Nel momento stesso in cui si forma la mia decisione come decisione libera (qualunque essa sia) essa rende e esplicito il processo che la precede e dalla 4 5

Ivi, p. 68. Ivi, p. 74.

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quale scaturisce: il sistema di legami entro cui mi trovo immerso non mi interessa piu`, non mi riguarda. Solo questa condizione “moderna” rende possibile la “liberta`” e “l’autonomia”, essa deriva, secondo Kelsen da una persistenza nella mentalita` dell’ “idea metafisica di liberta`” che immagina la volonta` dell’uomo come “causa prima”. Senza la rimozione di questa idea non e` possibile pensare la democrazia: “La trasformazione del concetto di liberta` il quale, dalla idea di una liberta` dell’individuo dal dominio dello Stato si trasforma in partecipazione dell’individuo al potere dello Stato, segna contemporaneamente la separazione della democrazia dal liberalismo”6. La liberta` dell’individuo, la liberta` “personale” e`, per l’appunto, la liberta` del servo; quel sentimento elementare che non si pone mai il problema della responsabilita`, che non fa caso alle conseguenze, che crede di poter sottrarre se stessa all’ “imputazione” e dunque si contenta di mantenere la vita della “sfera ristretta” (Hegel) dell’immediatezza: “Il suddito e` l’individuo isolato di una teoria individualistica della societa`; il cittadino e` il membro non indipendente, semplice elemento di un tutto profondamente organico dell’essere collettivo di una teoria universale della societa`”7. Dunque, non solo la liberta` degli individui non e` il presupposto della sovranita` moderna (come era stato immaginato dal Positivismo) ma anzi, solo la negazione radicale di questa idea rende possibile una societa` democratica: “E` piu` di un paradosso, e` un simbolo della democrazia, che, nella Repubblica di Genova, sulle porte delle prigioni e sulle catene a cui, nelle galere, erano legati gli schiavi, si leggesse la parola Libertas.”8. Se dunque la liberta` “personale” non costituisce il “fondamento” di una societa` democratica anche la fonte classica della sovranita` moderna si decostruisce. Non esiste piu` “sociologicamente” il popolo, dunque non esiste una “sovranita` popolare”: “diviso da contrasti nazionali, religiosi, economici, il popolo appare, agli occhi del sociologo, piuttosto come una molteplicita` di gruppi distinti che come una massa coerente di uno e di un medesimo stato di agglomerazione.”9. Per cui se la democrazia e` “identita` di governanti e governati, di soggetto e di oggetto del potere, governo del popolo sul popolo”10 l’esistenza del popolo come tale interessa soltanto ed

6

Ivi, p. 46. Ivi, p. 48. 8 Ivi, p. 49. 9 Ivi, p. 51. 10 Ivi, p. 50-51. 7

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esclusivamente “la partecipazione alla formazione della volonta` generale”, cioe` il versante dell’esercizio dei diritti politici. Sotto ogni altro punto di vista la societa` non esiste. E, ancora, la condizione di appartenenza alla comunita` politica si riduce ancora ed interessa soltanto coloro che esercitano attivamente i diritti politici. Per questo “La moderna democrazia si fonda interamente sui partiti politici”. Dunque e` l’Ordinamento che costituisce il popolo perche´ mette insieme gli individui in un sistema di esercizio condiviso del potere. Per questa ragione, secondo Kelsen, l’Ordinamento e` il sovrano moderno, da esso deriva il popolo giuridicamente costituito, dal momento che, non esiste piu`, storicamente, altro livello di esistenza del popolo, della societa` e della comunita`. Resta ora da definire il tema dell’origine dell’Ordinamento. Ne La dottrina pura del diritto11 Kelsen definisce questo problema come la questione della “norma fondamentale come presupposto logicotrascendentale” assumendo pienamente da Kant il concetto ed il metodo. Il concetto di logico-trascendentale, esattamente come in Kant, fa riferimento ad un livello di esistenza intermedio, tra la trascendenza e l’immanenza. Il metodo e` induttivo. Cosa permette di intuire l’esistenza di un sistema di principi che fonda, per cosı` dire dall’interno, la legittimita` di un ordinamento costituzionale dato? Il fatto che questo ordinamento e le norme che contiene vengono ritenuti “oggettivamente validi” da coloro ai quali sono rivolti. Solo in questo senso limitatissimo si puo` indurre l’esistenza di un “presupposto” che non e`, al contrario di quanto avviene per Kant, universale, ma storicamente determinato e direttamente connesso alla specifica esistenza di una comunita` “se questo ordinamento giuridico garantisce effettivamente una situazione relativamente pacifica”. Quando una norma appare, in situazione, oggettivamente valida, vuol dire che essa e` la seconda parte di un “sillogismo” la cui prima parte non compare nella scrittura. “La norma e`: bisogna obbedire agli ordini di Dio ed e` vera la proposizione Dio ha ordinato di obbedire agli ordini dei genitori. Quindi il senso soggettivo dell’atto: bisogna obbedire agli ordini dei genitori e` anche il suo senso oggettivo; si tratta di una norma oggettivamente valida.” Ma questa “Norma fondamentale” (bisogna obbedire agli ordini di Dio) e` tale, cioe` e` il presupposto, solo per una comunita` di credenti ad un certo stadio del suo sviluppo storico. Dunque non e` trascendente perche´ non e` universale. Non solo, “La norma fondamentale non e` quindi il prodotto di una libera invenzione. Non la si 11

H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 1975.

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presuppone arbitrariamente, come se si avesse la scelta fra diverse norme fondamentali....”12, e dunque essa non e` frutto di un atto di volonta` libera del legislatore e, per lo piu`, non emerge, non e` visibile, nella costruzione della struttura dell’Ordinamento: “... la norma fondamentale non puo` essere il senso soggettivo di un atto di volonta`, puo` essere soltanto il contenuto di un atto intellettuale...”13. La norma fondamentale, cioe` e` nella mente del legislatore, nella sua condizione di uomo storico, di intellettuale “organico” alla societa` del suo tempo, ed egli la mette “in situazione” tutte le volte che pensa una norma determinata. Per questo essa e` un “presupposto” epistemologico, determina i caratteri specifici del suo sapere, della sua competenza. E dunque un Ordinamento non puo` essere arbitrariamente rimosso, per atto di imperio o di decisione politica. Esso e` “nelle cose”, nelle vicende storiche di un popolo. Quando cambia la percezione comune della validita` di un Ordinamento e` perche´ sono mutate le forme della mentalita` e cioe` la consistenza storica dei principi non scritti che regolano la vita di una societa`. Kelsen deduce l’esistenza della Norma fondamentale usando un procedimento induttivo: “La dottrina della norma fondamentale e` soltanto il risultato di un’analisi del procedimento di cui sin dalle origini fa uso una conoscenza positivistica del diritto”14, e la percepisce come l’unico livello possibile di “unificazione” del popolo, quindi come l’unica forma di esistenza storicamente data del popolo stesso. Nonostante l’assoluto rigore scientifico del suo ragionamento, nonostante il tecnicismo della sua impostazione, cio` che a Kelsen sta a cuore e` ridefinire le condizioni di esistenza di una comunita` che non riesce piu` a trovare le ragioni dell’unita` nello spazio sociale ed economico. La forma “trascendentale” dell’esistenza della Norma, risponde all’esigenza di giustificare la continuita`, la permanenza “invisibile” di valori fondamentali condivisi, nonostante l’effetto di polverizzazione e di dissoluzione delle forme di vita prodotto dalla societa` industriale. Ne´ un Sovrano, ne´ uno Stato possono tenere insieme una comunita` senza legami; l’Ordinamento giuridico che questa comunita` accetta come oggettivamente valido e` il legame sociale, forse l’ultimo possibile, fino a che non subentra l’esigenza di violarlo. Un Ordinamento e` un patto, tacito, tra le persone che ne riconoscono le norme 12 13 14

Ivi, p. 226. Ivi, p. 228. Ivi, p. 231.

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come legittime, esso e` un vincolo, se viene violato il vincolo si rompe. Fino a che permane un Ordinamento una comunita` esiste. Dallo stesso problema, con impostazione totalmente opposta, nasce la riflessione di Carl Schmitt15. Come scrive Volpicelli introducendo un lavoro dell’autore tedesco in Italia nel 1935, occorre porre rimedio allo “stecchito e antagonistico dualismo di Stato e popolo: due termini opposti ed estranei, tra i quali appunto si distribuisce e si divide la realta` politico-sociale. Da una parte lo Stato con la sua sfera di attivita`... e, sullo stesso piano il popolo con la sua attivita`, con i suoi diritti,... dalla legge fondamentale che spezza in due il mondo della sovranita`”16. Il superamento di questo esito catastrofico, di questo prodotto deforme del liberalismo e della democrazia comporta appunto un impegno di carattere teoretico e politico che definisce il destino personale e il lavoro teorico di Carl Schmitt. Giacche´ per Schmitt la disgregazione della comunita` sociale, la dissoluzione dell’identita` del popolo e della nazione non e` un dato irreversibile, ineluttabile. Comincia da qui una lunga fatica teoretica che appare totalmente dominata dalla categoria della scissione e la fenomenologia della crisi, che Shmitt legge come crisi europea e mondiale, appare appunto come il manifestarsi di questo unico concetto in tutte le sue forme storiche in una direzione che non prevede la possibilita` di un superamento sul terreno della conoscenza (per Kelsen occorre ricercare con maggiore attenzione cio` che resta di comune, per quanto poco esso sia) ma immediatamente nello spazio dell’intervento della politica. Quello che Schmitt ha di fronte e` il lungo processo di distruzione dei

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Carl Schmitt (Plettenberg Westfalia 1888 -1985) Dopo avere studiato all’Universita` di Strasburgo e di Monaco, dove fu allievo di Max Weber, ha insegnato nelle universita` di Greiswald, di Bonn e di Berlino. Fu una delle figure di spicco dell’Universita` tedesca, largamente ed intensamente impegnato nella vita politica dsel suo paese tra la conclusione dell’esperienza di Weimar e gli esordi dell’avventura hitleriana. Dal 1936, intimidito dalle minacce delle SS rinuncia alla militanza politica. Arrestato dagli alleati nel 1945 per essere processato a causa dei suoi legami col nazismo, viene assolto con un “non luogo a procedere”. Si ritira poi a Plettenberg e si dediga ad una lunga ed intensa attivita` di studio. Tra le sue opere ricordiamo: Romanticismo Politico (1919), La Dittatura (1921), Cattolicesimo Romano e forma politica (1925), Dottrina della Costituzione (1928), Il custode della Costituzione (1931) Le categorie del politico (1932), Principi politici del nazionalsocialismo (1935), Scritti su Thomas Hobbes (1938), Terra e mare (1942), Il Nomos della terra (1950), Teoria del partigiano (1963). 16 A. Volpicelli, Prefazione a C. Schmitt, I principi politici del nazionalsocialismo, Scritti scelti e tradotti da D. Cantimori, Sansoni, Firenze 1935, p. VII-VIII.

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legami sociali, dei sistemi di relazioni solidali, l’irruzione dell’individualismo, la distruzione dei mondi vitali che accompagnano lo sviluppo della societa` industriale, la mercificazione dei rapporti intersoggettivi, la trasformazione della prassi umana in lavoro alienato e il culmine di questo processo e` certamente la fine degli Stati nazionali e l’esaurirsi del loro ciclo storico, la fine del modello europeo (Jus Publicum europaeum) che aveva configurato una comunita` internazionale come identita` di valori condivisi da soggetti nazionali. E tuttavia la sua veduta non si rassegna (come in Kelsen) alla prospettiva di una ricostruzione limitatissima dell’ordine e dell’unita`. Scissione diviene cosı`, nel suo pensiero, la cifra universale della modernita` ed il male radicale della storia occidentale: “Ogni ambito dell’epoca presente e` in effetti governato da un dualismo radicale; ... Oggi la natura appare come il polo opposto al mondo meccanico delle metropoli che, coi loro cristalli di pietra, di ferro e di vetro, stanno sulla terra come mostruosi cubismi”17. Ma poi ancora questa contrapposizione compare come l’esito della decostruzione che la Riforma protestante produce della bella antica unita` del paradigma cattolico: “Come il dogma tridentino non conosce la lacerazione protestante fra natura e grazia, cosı` la Chiesa cattolica romana non concepisce tutti quei dualismi, fra natura e spirito, natura e intelletto, natura e arte, natura e macchina, e neppure il loro pathos alterno”18. Cosı`, perfettamente coerente il giudizio di Schmitt sulla Rivoluzione Francese e sul modello politico che quell’evento consegna al processo di formazione della moderna civilta` europea: “Da quel momento la societa` civile non fu piu` capace di rappresentazione; soggiacque al destino del dualismo generale che si riproduce in tutta questa epoca e dispiego` le proprie polarita`: da una parte il borghese, dall’altra il bohe`mien che non rappresenta nulla, o al massimo, solo se stesso. La risposta consequenziale fu il concetto proletario di classe”19. Con grande lucidita` Schmitt coglie il processo della pluralizzazione della societa` moderna e lo legge tutto e soltanto sotto il profilo della disgregazione. E tuttavia, pur nel radicalismo della impostazione, nello sforzo di descrivere un mondo che si decompone, Schmitt coglie un punto. Una societa` che non si rappresenta come tale e` una societa` ingiusta perche´ e` condannata alla parzialita`, e` una comunita` mutilata, ridotta (e` il punto di vista che Kelsen esprime sul principio del 17 18 19

C. Schmitt, Cattolicesimo romano e forma politica, Giuffre`, Milano 1986, p. 38. Ivi, p. 39. Ivi, p. 49.

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governo della maggioranza). Per questa ragione essa e` destinata ad essere governata dal conflitto e dalla guerra (amico-nemico). A questa contraddizione il mondo moderno non da` risposta. Dal punto di osservazione che Schmitt assume (ma anche da quello che assume Kelsen) non si vede alcuna prospettiva di unificazione del genere umano. Cosı`, in Terra e mare, Schmitt si prova a pensare una sorta di geofilosofia applicata alla storia. Vede nella successione dei cicli il prevalere del dominio simbolico-politico della terra (radicamento, stabilita`, continuita` di valori condivisi e punti di riferimento stabili) come carattere dominante della fase premoderna e nel dominio del mare (fluidita`, mobilita` sociale, desiderio di conoscenza, relativismo etico ) l’affermazione inarrestabile del compimento della modernita`, e tuttavia anche questo processo gli appare sotto il profilo dell’affermarsi sanguinoso di una parzialita` che sradica, distrugge, annienta il passato: “Molti vedranno solo morte e distruzione. Alcuni crederanno di vivere la fine del mondo. In realta` stiamo solo vivendo la fine del rapporto, sin ad oggi esistito, tra terra e mare... L’antico Nomos viene certamente meno e con esso un sistema complessivo di misure, norme e rapporti che si sono trasmessi, Ma cio` che avanza non e` per questo, pero`, solamente mancanza di misura o un niente nemico del Nomos”20. E dunque quello che conta, nel giudizio di Schmitt sulla storia che porta all’affermazione della modernita` e` l’effetto distruttivo che produce. In Romanticismo politico21, la formazione dell’ideologia ottocentesca viene misurata sulla formazione dell’individualismo “basta vedere come il romantico cerchi di definire ogni cosa attraverso se stesso, e rifiuti ogni definizione di se` che si fondi oggettivamente su altro”22, ma l’individualismo e` letto come disvalore assoluto (occasionalismo), prodotto di un percorso disgregativo: “...la conseguenza di quella crisi dissolvitrice che ha inizio con la riforma protestante, che conduce nel XVIII secolo alla rivoluzione francese, e che ha il suo compimento nel romanticismo e nell’anarchia del XIX secolo. Questa e` l’origine del mostro tricefalo: riforma, rivoluzione, romanticismo”23. A questa tesi di filosofia della storia Schmitt rimane legato fino alla fine della sua monumentale riflessione. Il nomos della terra24 ripropone, ancora

20 21 22 23 24

C. Schmitt, Terra e Mare, Giuffre`, Milano 1986, p. 82. C. Schmitt, Romanticismo politico, Giuffre`, Milano 1981. Ivi, p. 10. Ibidem. C. Schmitt, Il nomos della terra, Adelphi, Milano 1991.

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negli anni ’50, una ricostruzione della storia del diritto internazionale occidentale come percorso di progressiva dissoluzione di un ordine eurocentrico (Jus publicum europaeum) che traeva fondamento e legittimita` dalla sovranita` internazionale antica della chiesa di Roma (la comunita` dei prı`ncipi cristiani, la missione della evangelizzazione del mondo) e che si evolve con l’evento della scoperta del mondo nuovo fino alla disgregazione con l’ingresso degli Stati Uniti sullo scenario delle grandi potenze (con le due guerre mondiali) e alla fine del protagonismo europeo. Fin dagli anni ’20 Schmitt comincia a definire il profilo di una possibile soluzione alla deriva distruttiva che gli appare come dominante della storia occidentale moderno-contemporanea. Prende forma cosı` una filosofia politica di segno conservatore, all’interno della quale si motivera`, in perfetta coerenza, anche la sua personale adesione al movimento nazionalsocialista. Il punto chiave di tutto l’impianto teorico che costruisce e`, certamente, la sua teoria della sovranita`. Schmitt e` convinto che il punto di unificazione della societa` e` lo Stato, che lo Stato e` Sovrano, che la sovranita` e` l’“essenza” dello Stato, cioe` che non vi e` nulla di sovraordinato allo Stato, che lo Stato e` il presupposto dell’ordinamento. Questa tesi viene dimostrata attraverso due procedimenti. Uno di carattere “sociologico”, uno di carattere storico. L’esistenza del principio di sovranita` nello Stato gli pare dimostrata anzitutto dalla esistenza fenomenica della decisione politica: “Sovrano e` chi decide dello stato di eccezione”25. Schmitt intende per stato di eccezione (la situazione di emergenza nella quale viene proclamata la sospensione della legislazione ordinaria, ad esempio l’entrata in vigore della legge marziale ) una condizione limite nella quale si realizza il paradosso di una decisione non-giuridica, cioe` di una decisione che puo` essere presa solo da un punto esterno all’ordinamento giuridico. Se, dunque, esiste un luogo nel quale puo` essere presa la decisione di sospendere l’ordinamento giuridico in vigore (e questo storicamente accade), allora esiste la sovranita` nel suo significato piu` specifico e concentrato, cioe` la decisione politica: “La costituzione puo` al piu` indicare chi deve agire in un caso siffatto. Se quest’azione non e` sottoposta a nessun controllo, se non e` ripartita in qualche modo... fra diverse istanze che si controllano e si bilanciano a vicenda, allora diventa automaticamente chiaro chi e` il sovrano”26. E dunque l’esistenza della tripartizione dei poteri (legislativo, giudizia25 26

C. Schmitt, Le categorie del politico, il Mulino, Bologna 1972, p. 33. Ivi, p. 34.

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rio, esecutivo) influisce solo ed esclusivamente sulla visibilita`. Nello Stato liberale non e` chiaro chi e` il Sovrano. Questa “confusione”, questa opacita` rende possibili “le idee di Krabbe e Kelsen) perche´ comunque il Sovrano “sta al di fuori dell’ordinamento giuridico normalmente vigente e tuttavia appartiene ad esso poiche´ a lui tocca la competenza di decidere se la costituzione in toto possa essere sospesa”27. Il caso di eccezione e` dunque assunto qui come una prova dell’esistenza della sovranita`, come un punto topico della ordinaria esistenza di un sistema statuale dal quale emerge l’esistenza della Sovranita` nella sua forma tradizionale, quella di un principio monocratico, di una “persona” unica la cui prerogativa e` cruciale, la decisione poltica senza nessun vincolo (libera, assoluta, incausata, autonoma): “infatti ogni ordine riposa su una decisione ed anche il concetto di ordinamento giuridico che viene acriticamente impiegato come qualcosa che si spiega da se´... riposa su una decisione e non su una norma”28. E` chiaro che sulla questione cruciale del nesso tra Stato ed ordinamento giuridico e` Kelsen l’obiettivo polemico: “Kelsen... giunge al risultato, per nulla convincente... che... lo Stato debba essere qualcosa di puramente giuridico....nient’altro che l’ordinamento giuridico stesso... Lo Stato dunque non e` ne´ l’autore ne´ la fonte dell’ordinamento giuridico...”29. E tuttavia, nonostante le diverse e reiterate accuse di relativismo e formalismo, nonostante l’oggettiva “debolezza” della soluzione che Kelsen individua al problema del fondamento della sovranita` e dell’origine dell’Ordinamento e ad onta della nota affermazione di Schmitt “Kelsen risolve il problema del concetto di sovranita` semplicemente negandolo”30 e` Schmitt a lasciare senza alcuna risposta il quesito sull’origine della Sovranita` dello Stato, sul suo fondamento. Qual e` l’essenza della sovranita`, perche´ una “persona”, un luogo un punto determinato e concentrato del sistema istituzionale ha il diritto alla decisione assoluta e incondizionata, chi conferisce questo diritto, come si forma anche solo l’esistenza di una prerogativa cruciale per la vita dell’intera comunita` senza che questa comunita` abbia alcun titolo a conferirla, come e` validata una decisione siffatta, perche´ si da` come legittima. La risposta (debolissima) di Schmitt e` contenuta nel percorso dell’analisi storica della costituzione di una Sovranita` siffatta: “Tutti i concetti

27 28 29 30

Ivi, Ivi, Ivi, Ivi,

p. p. p. p.

34. 37. 45. 47.

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pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”31. E dunque la legittimita` di questo modello di Sovranita` si ricava per analogia dalla tesi dell’esistenza di Dio: “...il Dio onnipotente che e` divenuto l’onnipotente legislatore...”32. La Sovranita` si giustifica attraverso la fede e la sua esistenza deriva direttamente dall’esistenza di un principio ordinatore trascendente. L’occultamento di questo principio e` da ascrivere alla incongruenza della borghesia liberale che ha bisogno di un Dio ma non vuole accettarne le prerogative. Da questa analogia deriva il concetto di teologia politica che fornisce la definizione all’analisi della storia e della struttura analogica di teologia e diritto pubblico. La separazione rigorosa tra il concetto di Stato e il concetto di ‘politico’ obbedisce a questa derivazione “trascendente” e “sovraordinata” dei “concetti pregnanti della dottrina dello Stato”: “...lo Stato e` una situazione... e` anzi la situazione che fa da criterio nel caso decisivo, e costituisce percio` lo status esclusivo, di fronte ai molti possibili status individuali e collettivi.”33 L’esistenza dello Stato e` dunque un’esistenza sovrastorica e antipolitica. Lo Stato e` un luogo di neutralita` separata. Il politico e` invece la dimensione sociale nella quale si agisce il conflitto: “La specifica distinzione politica alla quale e` possibile ricondurre le azioni e i motivi politici, e` la distinzione di amico (Freund) e nemico (Feind)”34. Nella analisi e nella definizione del concetto di politico emerge ancora una volta tutta la percezione del carattere cruciale del paradigma della scissione. La societa` e` spaccata in due, il mondo moderno ha introdotto la molteplicita` nel cuore della unita` originaria. Il nemico si rappresenta continuamente come minaccia. “Egli e` semplicemente l’altro, lo straniero (der Fremde) e basta alla sua essenza che egli sia esistenzialmente, in un senso particolarmente intensivo, qualcosa d’altro e di straniero, per modo che, nel caso estremo, siano possibili con lui conflitti...”35. Allora la politica e` guerra che avviene “All’interno dello Stato in quanto unita` politica che avoca a se` la decisione sull’amico-nemico...”36. E dunque attraverso la guerra, attraverso l’uccisione del diverso, dello straniero, dell’altro si da` come possibile la riconquista dell’unita`, della comunita` origina31 32 33 34 35 36

Ivi, p. 61. Ibidem. Ivi, p. 101. Ivi, p. 108. Ivi, p. 109. Ivi, p. 112.

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ria. E` lo Stato, la sovranita` che sta nel fondamento dello Stato a decidere chi e` il nemico: “La guerra non e` dunque scopo e meta o anche solo contenuto della politica, ma ne e` il presupposto sempre presente come possibilita` reale, che determina in modo particolare il pensiero e l’azione dell’uomo provocando cosı` uno specifico comportamento politico”37. Questa filosofia politica avrebbe presto subito una torsione politica tragica. La convinzione, cosı` solidamente costruita dal punto di vista teorico, della necessita` di ricostruire l’unita` della comunita` politica e della forma dello Stato, dal punto archimedico dell’esercizio della decisione politica, cioe` dall’esistenza di un principio di autorita` immanente alla storia umana doveva condurre Schmitt nelle pagine di Stato, movimento, popolo (le tre membra dell’unita` politica) (1935) ad immaginare una forma di organicita` assoluta in cui il compito di connessione tra lo Stato, la decisione politica e la societa` in perenne guerra contro il nemico, e` affidata al partito nazionalsocialista: “Nello Stato del movimento nazionalsocialista tedesco e` riconoscibile come nello Stato fascista d’Italia, se anche in maniera assai diversa, questo nuovo triplice quadro d’assieme dell’unita` politica. Esso e` in gene38 rale titpico dello Stato del secolo ventesimo” . Cosı`, essendo ormai totalmente impossibile ricostruire vincoli e legami, venuta meno ogni possibile socievolezza, la societa` di massa, la massa di individui senza legami doveva essere costituita in una sorta di comunita` artificiale, dall’alto, utilizzando la forma dell’omogeneo, laddove era sempre stata l’esperienza del discreto: “Per questa ragione esso implica anche, come esigenza positiva, una assoluta eguaglianza di stirpe tra capo e seguito. Sulla eguaglianza di stirpe e` fondato tanto il continuo ed infallibile contatto tra capo e seguito quanto la loro fedelta` reciproca. Solo la eguaglianza di stirpe puo` impedire che il potere del capo diventi tirannia e arbitrio; solo essa e` la ragione della differenza da ogni dominio di una volonta` eterogenea, per 39 quanto intelligente e vantaggiosa” .

37

Ivi, p. 117. C. Schmitt, Stato, movimento, popolo, in Principi politici del nazionalsocialismo, Sansoni, Firenze 1935, p. 187. 39 Ivi, p. 226. 38

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` LE TEORIE DELLA SOVRANITA

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SEZIONE III (1870-1945) ` DALLA COMUNE FILOSOFIA E SOCIETA DI PARIGI ALLA SECONDA GUERRA MONDIALE di Roberto Finelli

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INTRODUZIONE

E` a Parigi, com’e` ben noto, che s’e` svolta la Rivoluzione francese, quale evento fondatore della modernita`. Ed e` ancora Parigi, citta` per eccellenza della rivoluzione nel XIX sec. (basti ricordare il suo ruolo centrale nelle Rivoluzioni europee del 1830 e del 1848) ad esprimere e ad anticipare, con l’esperienza nel 1870 della Comune e della sua terribile repressione, le caratteristiche e i problemi della modernita`, ormai non piu` al suo inizio, bensı` gia` nello svolgersi della sua maturita`. La societa` moderna, abbiamo visto, e` societa` necessariamente di massa in quanto supera nel suo statuto filosofico e giuridico ogni codificazione premoderna e fa dei valori della liberta` e della cittadinanza valori estesi ed uguali per tutti, ma e` contemporaneamente, secondo l’analisi di K. Marx, societa` di massa ad egemonia borghese, vale a dire diretta da una classe di proprietari che escludono dal possesso e dall’uso dei mezzi di produzione (fabbriche e proprieta` della terra) la maggior parte della popolazione. Il proletariato parigino che occupa Parigi e proclama la Comune, istituendo il potere politico attraverso organi di autogestione popolare e pensando a una societa` non gerarchizzata secondo la ricchezza e la proprieta` privata, e` il simbolo di una modernita` in cui le masse vogliono possedere concretamente i mezzi della propria autonomia e realizzazione di vita, ampliando con cio` realmente la partecipazione di base alla vita della comunita` e dello Stato, mentre la borghesia francese, che attraverso l’esercito reprime i comunardi in un bagno di sangue, e` l’espressione di una modernita` che s’identifica piu` con l’espansione dell’economia e del capitale che non con l’ampliamento della partecipazione di base alla vita della comunita` e dello Stato. Questa strozzatura condiziona fortemente l’evoluzione delle societa` europee nella seconda meta` dell’800, facendo vacillare, con la sua contraddizione, quelle promesse di progresso inarrestabile e generalizzato, sul piano materiale e su quello politico-spirituale, che la modernita` aveva generato e diffuso con la sua fondazione rivoluzionaria. Condizioni di

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lavoro e d’esistenza ancora dure e difficili per la massa della popolazione, tensioni sociali profonde, repressioni autoritarie e militaresche, politiche di potenza e imperialismi colonialistici all’estero caratterizzano modalita` di vita e un’evoluzione della modernita` dall’esito ne´ lineare ne´ facile. In termini di visione del mondo, tutto cio` si traduce, particolarmente nell’area di cultura tedesca, in una crisi profonda della coincidenza tra il concetto di modernita` e quello di progresso, che soprattutto la filosofia positivistica aveva celebrato, argomentando che la fuoriuscita da ogni ipoteca teologico-spiritualistica e la generalizzazione del metodo delle scienze (della natura) a tutti i problemi della vita umana, compresi quelli legati alla cosiddetta questione sociale, al miglioramento cioe` delle condizioni di vita alimentari, igieniche, di reddito dei ceti popolari, avrebbe sicuramente immesso l’umanita` del sec. XIX in un progresso pari appunto a quello dell’accumulazione delle scoperte tecniche e scientifiche. Il positivismo del resto si era ricollegato per tal verso alla tradizione dell’Illuminismo nel XVIII sec., cosı` come l’Illuminismo a sua volta si era ispirato alla grande tradizione dello spirito scientifico ed analitico europeo del XVI e XVII sec., nel vedere appunto nella ragione scientifica e matematica lo strumento di fondo di liberazione del genere umano dagli oscurantismi culturali come dalle arretratezze materiali. Ora i grandi problemi che la modernita` porta con se´ generano perples` sita e ripensamenti sugli automatismi dello sviluppo – sul mito del progresso – e portano, vedremo soprattutto con Nietzsche, a un ripensamento complessivo del suo valore e della sua storia, anzi della sua stessa fondazione, nella misura in cui un’impostazione illuministico-positivistica l’ha sempre identificata con la nascita della scienza e con l’obbligo della sua progressiva estensione a tutti gli ambiti dell’agire e del sapere. E` dunque la stessa ragione moderna, con il suo paradigma esplicativo fondato su nessi di causa ed effetto quantitativamente misurabili e matematicamente esprimibili, ad entrare in crisi e a venir meno come paradigma generale di conoscenza e di verita`. Ed a inaugurare un’epoca che, nell’assenza di principi fondativi altrettanto validi e generali e nella moltiplicazione, di conseguenza, di orientamenti e di teorie filosofiche, si fara` comunque orizzonte di nuove esperienze e della messa in luce di nuovi sensi e valori del vivere umano.

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LA RISPOSTA ALLA MASSIFICAZIONE DEL MODERNO: F. NIETZSCHE

1. La decostruzione della civilta` europea Comprendere che cosa significhi l’approfondirsi della realta` moderna nella seconda meta` dell’800 europeo, della sua societa` di massa che rompe gli assetti tradizionali, del suo mondo economico attraversato e dominato sempre piu` dal denaro: il tutto visto da uno sguardo che ha a cuore i valori opposti dell’interiorizzazione e di un’esistenza personale fortemente indivi1 dualizzata, significa incontrare l’opera di Friedrich Nietzsche . Figlio di un pastore protestante, estremamente versato fin da bambino negli studi di letteratura, musica e cultura greca, questi solo a venticinque anni gia` ricopre la cattedra di filologia classica all’universita` di Basilea, scrive dei saggi fondamentali su una nuova interpretazione dell’antichita` (come La nascita della tragedia nel 1872) e entra in una relazione stretta, di profonde sintonie culturali, con il piu` grande musicista tedesco dell’epoca, Richard Wagner. Ma laceranti disagi esistenziali, cui si accompagnano pesanti dolori e gravi disturbi fisici, che non gli consentano una continuita` di applicazione e di lavoro, lo costringono dopo dieci anni ad andare in pensione, ad abbando1

Friedrich Nietzsche (1844-1900), adolescente geniale negli studi di musica, letteratura e filosofia, viene chiamato assai giovane a ricoprire la cattedra di filologia classica all’Universita` di Basilea, dove insegna per dieci anni fino al 1879. In quell’anno e` costretto a lasciare l’insegnamento e a vivere della sua pensione in diverse localita` adatte alle sue condizioni di salute: la riviera francese e italiana, localita` alpine come Sils Maria nell’Engadina, Naumburg dove vivono la madre e la sorella. Trasferitosi a Torino nel 1888, all’inizio dell’anno successivo ha una gravissima crisi nervosa, per cui viene trasportato in Germania dove vivra`, lasciato alle cure della famiglia, per un altro decennio in una condizione di gravissima sofferenza mentale.

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nare l’Universita` e a iniziare un lungo periodo di viaggi e di spostamenti continui, tra le montagne della Svizzera, in Italia, in Germania, nella Francia del Sud, alla ricerca di luoghi geografici e umani dove poter lenire il suo malessere e le sue sofferenze fisiche. Malgrado cio` scrive opere di grande spessore come Umano, troppo umano (1878), La gaia scienza (1882), la celeberrima Cosı` parlo` Zarathustra (1883-1885), Sulla genealogia della morale (1887). Fino al 1899, quando la sua condizione psichica precipita a Torino, da dove viene ricondotto in Germania, per sopravvivere a se stesso in una condizione di demenza mentale fino all’inizio del nuovo secolo. Gia` la sua vita e` pertanto testimonianza, con i suoi tratti assai singolari e il percorso drammatico verso il precipizio della follia, di un sentire e di un teorizzare profondamente personalizzati e non riducibile a quelli del senso comune; come gia` era stato, per altro, sia pure con caratteristiche e percorsi diversi, per Schopenhauer e Kierkegaaard. Anzi, ancor piu` che in costoro, e` proprio la sua diretta e travagliata esperienza interiore – la lotta del suo Io per non scindersi e decomporsi nella personalita` schizoide e disgregata della pazzia – a costituire, fino alla catastrofe finale, il materiale originalissimo della sua filosofia. Alla massificazione della societa` moderna – quale si viene intensificando in Germania soprattutto ad opera di Bismark, con la sua politica militaristica e nazionalistica di forte sviluppo industriale, ma anche con i provvedimenti innovativi, ed estesi a buona parte del corpo sociale, di assistenza sanitaria e pensionistica, di scuola generalizzata, di Welfare insomma –, cosı` come al cristianesimo ridotto solo a un moralismo vuoto e di facciata, e all’egualitarismo socialista che nella sua difesa dei ceti popolari e dell’uomo comune ripropone, a suo avviso, solo il filantropismo cristiano e la retorica compassionevole dell’amore verso il prossimo, Nietzsche contrappone fin dai suoi primi scritti la tesi del valore, non collettivo, ma irriducibilmente unico di ogni essere umano, secondo cui “ogni uomo e` un miracolo irripetibile”2. Come scrive nella terza delle Considerazioni inattuali su Schopenhauer come educatore: “Ogni uomo in fondo sa benissimo di essere al mondo solo per una volta, come un unicum, e che nessuna combinazione per quanto insolita potra` mescolare insieme per una seconda volta quella molteplicita` cosı` bizzarramente variopinta nell’unita` che egli e`”3. Questa e` infatti l’acquisizione teorica di fondo che Nietzsche pone a base di tutto il suo pensiero e che manterra` come ispirazione costante del 2 3

F. Nietzsche, Schopenhauer come educatore, Adelphi, Milano 2000, p. 3. Ibidem.

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LA RISPOSTA ALLA MASSIFICAZIONE DEL MODERNO: F. NIETZSCHE

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suo filosofare, al di la` delle diverse fasi della sua opera: l’essere umano non e` solo un’individualita` unica e irripetibile, ma soprattutto non e` un’individualita` semplice; o meglio e` un’individualita` la cui irripetibilita` e il suo esser sempre diversa, l’una dall’altra, deriva dalla peculiarita` della composizione di forze di cui ciascuno di noi e` sempre il risultato. Ognuno di noi per Nietzsche e` infatti uno scenario di forze, pulsioni, istinti, desideri, molteplici e contrastanti, la cui compresenza puo` avere come esito l’armonia e l’affermazione della vita o, al contrario, la sua mortificazione e il suo annichilimento. Anche a muovere dalla travagliatissima esperienza personale, nella quale depressioni, dolori, momenti negativi si alternano a fasi piu` distensive e creative – fino alla crisi psicotica torinese – Nietzsche rilegge dunque, in modo proprio e profondamente personale, la tesi del Kant della Critica della ragion pura secondo la quale il soggetto e` sempre sintesi di un molteplice. L’essere umano ha nell’antropologia nietzschiana infatti una dimensione sociale e collettiva, prima che esterna, interna. Esso e` una societas interiore, un campo di forze, del conoscere, del desiderare, dell’amare, dell’odiare, di pulsioni altruistiche e magnanime come egoistiche ed aggressive, che possono essere coerentemente unificate sotto l’energia di una forza egemonica in grado di dar senso, armonia e integrazione a tutte le diverse spinte – e in cio` sta la capacita` di dire sı` alla vita – oppure possono confliggere e scomporsi, in una condizione di anarchia, da cui si puo` uscire o con la repressione violenta di una componente a scapito e con sacrificio delle altre o con un compromesso infecondo e senza energia: un esito che, in entrambi i casi, significa la negazione del valore e dell’autenticita` della vita. L’essere umano e` insomma per Nietzsche – anticipando a tal riguardo alcune acquisizioni della futura teoria psicoanalitica di Sigmund Freud – un composto e un impasto pulsionale. Non tener conto di cio`, della complessita` delle sue spinte vitali, della ricchezza d’esperienza e di composizione di cui essa necessita, del vigore egemonico che una volonta` di vita comporta, significa cadere nel nichilismo, nella scontentezza cioe` radicale per la mancanza di valore della propria esistenza e nell’accettazione, peraltro, di ogni valore pubblicamente accettato e condiviso come copertura del proprio vuoto interiore. Per questo gia` la prima opera di Nietzsche, La nascita della tragedia (1872) irrompe con una proposta di rottura radicale negli studi e nella visione tradizionale della civilta` greca, avanzando un’immagine profondamente innovativa dell’antico, attraverso cui, a ben vedere, si riflette un attualissimo giudizio sul presente. La Grecia antica infatti al giovane filologo non appare come il luogo dell’armonia e della bellezza delle forme,

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celebrate soprattutto nelle sue arti, come voleva una certa tradizione assai diffusa nella cultura del ’700 e dell’800 europei. Giacche´ in essa, accanto allo sguardo di Apollo, all’“apollineo”, come gusto per la forma perfettamente coerente ed equilibrata, per cio` che si conclude e si circoscrive in un limite ben definito rispetto al caos dell’indeterminato e dell’illimitato, opera potentemente invece anche il culto di Dioniso, il ‘‘dionisiaco’’, come passione per una profondita` della vita che e` flusso inesauribile e incontenibile di volonta`, di desiderio, di anelito a superare ogni forma rigidamente limitata e finita e ad abbandonarsi ad una forza primordiale che toglie le separazioni, le distanze, le forme ben distinte, tra le creature e le varie individualita`. Gia` la Grecia cioe`, con la sua sensibilita` arcaica ha compreso per Nietzsche come l’essere umano viva di una tensione di pulsioni plurali: tra un desiderio essenzialmente conoscitivo dell’ordine, della distinzione, della tassonomia di forme e di regole, secondo le quali dare ordine e norme alla realta` e dall’altro la tendenza inebriante, soprattutto del corpo e dell’emozione, di mescolarsi ad un caos vitale, in cui, secondo quanto aveva detto Schopenhauer, la generazione continua si mescola col dolore e col soffrire delle esistenze che soccombono e vengono meno di fronte all’affermarsi dell’uno primordiale. Ed appunto per Nietzsche si tratta di contrapporre questa consapevolezza antica della complessita`, della non semplicita` della vita – questo intreccio strutturale di gioia e di dolore, di affermazione e di estenuazione della vita, di pulsioni conoscitive per la bellezza di una forma e di passione per l’azione – alla piattezza conformistica e univoca della civilta` europea del presente, quale si esprime soprattutto col trionfo della cultura positivistica nella seconda meta` dell’800. Ad una civilta` moderna che crede incondizionatamente nella scienza e nel progresso, nello sviluppo delle industrie e delle tecnologie, nel dominio sulla natura e nella risoluzione, attraverso le applicazioni scientifiche, dei problemi di fondo dell’umanita` – ad un’umanita` che cioe` crede di poter dominare, attraverso la scienza, gli oggetti della natura, la vita associata degli individui nelle comunita` sociali e politiche, le sofferenze e il male – Nietzsche oppone l’ideale, non del domino dell’altro, ma del dominio di se´, quale capacita` d’imporsi, attraverso l’unita` di una forza egemonica, alla varieta` molteplice e discorde dei propri impulsi istintuali. Questa coincidenza, non contraddittoria, non asimmetrica, non repressiva con il proprio se´ – questa capacita` di attestare la propria individualita` di vita nella peculiarita`, non comparabile con altre esistenze, della propria peculiare composizione di forze, senza sacrificarne alcuna – e` quello che

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Nietzsche chiama infatti «volonta` di potenza»: non sugli altri, come talora e affrettatamente e` stato interpretato, ma rispetto a se´ stessi. E non come volonta` cieca e irrazionale, alla Schopenhauer, che nega ogni affermazione di se´, bensı` come attestazione di un’istanza di vita che, nell’equilibrio di apollineo e dionisiaco, non dissipi nulla del proprio se´. Ma, si badi bene, la critica di Nietzsche alla scienza non e` solo una critica di quello che gli appare come il mito dell’illuminismo e del positivismo, di vedere nella storia dell’umanita` un cammino progressivo dalla tenebre alla luce; non e` solo la critica del mondo borghese ordinato e scandito secondo ruoli e professioni che ne deriva, ma e` soprattutto la critica del concetto stesso di verita`. Non ci puo` essere infatti cio` che e` vero e che vale per tutti, giacche´ nella realta` si danno soltanto individualita`, ogni volta frutto, non stabile, di un determinato parallelogramma, di una determinata composizione, di forze. Non si puo` dare l’esistenza dell’oggettivo, dato che l’esistenza rimanda solo a una determinata struttura del soggettivo, ogni volta diverso rispetto a se stesso e suscettibile di altre e inesauribili configurazioni. Coprire questa verita` della non-verita` con la pretesa realta` di una verita` vera per tutti ed oggettivamente universale, con l’immagine e la costruzione di un mondo organizzato secondo valori e leggi permanenti, corrisponde per Nietzsche alla piu` clamorosa autonegazione ed autocensura della vita e della sua permanente struttura di complicazione e di crisi. E paradossalmente proprio questa autonegazione della vita e` quanto ha compiuto fin qui l’opera di acculturazione e di civilizzazione dell’uomo occidentale, che dalla filosofia e dalla cultura greca classica, da Socrate e Platone in poi, ha usato categorie come soggetto, oggetto, sostanza, io, ragione, metodo, legge, valore, per ridurre a semplicita` e chiarezza, cio` che invece, come vita e complesso di forze che la intessono, non e` mai definibile e identificabile. Cosı` per Nietzsche, con un rovesciamento radicale del loro significato tradizionale, scienza, filosofia, morale, religione, insomma tutto cio` che costituisce la cultura, e` sinonimo di menzogna della piu` vera natura della vita: e` nichilismo, sovrapposizione sulla vita del niente della non-vita. Tanto che Nietzsche, per questo spodestamento cosı` estremo dei valori tradizionali, potra` scrivere di se stesso. “Io conosco la mia sorte. Si leghera` un giorno al mio nome il ricordo [...] di una crisi, come non ce ne fu un’altra simile sulla Terra, al piu` profondo conflitto di coscienza, ad una decisione, proclamata contro tutto cio` che sinora era stato creduto, richiesto, consacrato. Io non sono un uomo, sono una dinamite [...] Il concetto di politica e` ora entrato completamente in una guerra tra spiriti, tutte le forme di dominio della

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vecchia societa` sono saltate in aria – esse riposano tutte quante sulla menzogna; ci saranno guerre come non ce ne sono mai state sulla terra. Solo da me comincia sulla terra la grande politica”4. Quanto da cio` consegue e` che la storia della cultura e della civilta` va letta non come storia del progresso bensı`, all’opposto, come storia della de´cadance – della decadenza della vita da se stessa – e della messa in scena di un mondo illusorio, in cui, scomparso il dramma, il dolore, il contrasto, vige apparentemente solo il volto buono e pacificato, apollineo, del progressivo illuminamento del genere umano, dello sviluppo di ideali e valori comunemente condivisi, del progresso delle scienze e della ragione. Laddove a chi invece coincide con il proprio se´ ed e` consapevole di poter esprimere con la propria vita una singolare unicita` produttiva, non puo` che schiudersi un percorso inverso, che procede a ritroso: di illuminismo critico, o meglio di ‘‘genealogia’’, come lo chiamera` Nietzsche, nel quale si tratta di de-costruire l’immagine, solo di superficie, dei valori piu` accreditati e consolidati, secondo i quali l’umanita` contemporanea continua ancora a credere e ad operare. Al fine di scriverne una storia completamente diversa e cercarne la genesi in origini assai ben diverse da quelle nobili ed edulcorate che tocca alla loro immagine apparente. E Genealogia della morale e` appunto il titolo dell’opera che Nietzsche pubblica nel 1887, e che e` dedicata a un’analisi paradossale e rovesciata degli ‘‘strumenti’’ con i quali ha proceduto la civilizzazione, per soffocare le pulsioni della vita, la felicita` dell’agire, la volonta` di potenza, e produrre all’opposto una societa` di esseri umani solo farisei e non-umani, perche´ ingannatori e nemici di se stessi. La ricostruzione genealogica dei sentimenti morali (ossia della distinzione tra bene e male) rivela infatti per Nietzsche che e` stato l’odio, il “risentimento” (ressentiment), degli schiavi nei confronti degli aristocratici e dei “bennati”, a generare i valori di socialita` e di comportamento virtuoso, di compassione e rispetto reciproco, di giustizia e concordia sociale, di fratellanza e solidarieta`, secondo i quali ancora oggi l’uomo comune, il popolo, la maggioranza degli esseri umani, intendono e definiscono il concetto del bene nella sua differenza da quello del male. “Buono” e “cattivo” una volta coincidevano anche etimologicamente, soprattutto nella lingua greca, rispettivamente con l’“uomo nobile” e con l’“uomo volgare” o “plebeo”, ossia rispettivamente con l’uomo dell’“azione” e con l’uomo della “reazione”. Il primo, capace di dire sı` alla vita e di coincidere con la propria forza vitale (“i giudizi di valore cavalleresco-aristocratici presuppongono 4

F. Nietzsche, Ecce homo, Mondadori, Milano 1977, pp. 93-94.

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LA RISPOSTA ALLA MASSIFICAZIONE DEL MODERNO: F. NIETZSCHE

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una poderosa costituzione fisica, una salute fiorente, ricca, spumeggiante al punto da traboccare, e con essa quel che ne condiziona la conservazione, cioe` guerra, avventura, caccia, danza, giostre, nonche´, in generale, tutto quanto implica un agire forte, libero, gioioso)”5; il secondo, invece, schiavo in primo luogo di se stesso, delle sue paure, della sua impotenza, della sua incapacita` di essere forte e felice nell’operosita` e percio` carico d’invidia e di odio nei confronti delle nature vigorose e impavide che, senza lamentele e autocommiserazioni, senza guardare cio` che vogliono e fanno gli altri, ma solo guardando a se stessi e alla loro volonta`, danno vita alla vita. Ma a un certo punto della storia della civilizzazione sono stati proprio i sentimenti dei piu`, della maggioranza debole ed imbelle, dell’uomo comune e di massa, ad imporsi – proprio per il fatto di essere maggioranza – sui costumi e sui modi di vita dei pochi, dei nobili, dei migliori, e a generare, essi (cioe` l’odio e l’invidia), la nuova definizione di cio` che sia bene e di cio` che sia male. Per cui bene e` tutto cio` che rispetta l’ordine comune, la mediocrita`, i valori dell’eguaglianza e della comunita`, dell’amore e della pieta`, tutto cio` che disciplina nel conformismo le pulsioni della vita, mentre male e` tutto cio` che attiene all’istinto di autoconservazione e di autoaffermazione, ad una concezione della vita come espressione di gioia, di forza e di potenza. “Nella morale la rivolta degli schiavi ha inizio da quando il ressentiment diventa esso stesso creatore e genera valori; il ressentiment di quei tali esseri a cui la vera reazione, quella dell’azione, e` negata e che si consolano soltanto attraverso una vendetta immaginaria”6. Cio` che produce la civilta` con i suoi valori collettivi, morali, religiosi, politici e culturali e` percio` solo compensazione e sostituzione di una vita che non viene realmente vissuta: e` il nichilismo, l’annichilimento della vita. Nichilismo, che s’e` venuto affermando attraverso una trasvalutazione dei valori originari, i quali, per lo spirito di vendetta e di rancore della maggioranza, sono stati appunto tradotti dalla valorizzazione delle virtu` degli uomini potenti e liberi nell’esaltazione delle virtu`, lacrimose e compassionevoli, degli impotenti, degli umili e degli inibiti alla vita. La civilizzazione e` percio` aberrazione, negazione della vita; trionfo dei valori che costituiscono la negazione della sua volonta` di potenza, per l’affermazione di istanze che non sono innocenti, come pretenderebbero, ma che muovono dall’incapacita` di vivere e di gioire. “La fede cristiana e` fin da principio sacrificio: sacrificio di

5 6

F. Nietzsche, Genealogia della morale, Adelphi, Milano 1984, p. 22. Ivi, pp. 25-26.

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ogni liberta`, di ogni orgoglio, di ogni autocoscienza dello spirito, e al tempo stesso asservimento e dileggio di se stessi, automutilazione”7.

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2. Il corpo come sistema sociale e culturale Ma critica della visione giudaico-cristiana della vita, critica degli ideali della Rivoluzione francese e del progetto democratico della modernita`, rifiuto del socialismo (tutte espressioni ideologiche di una umanita` gregaria e gruppale per Nietzsche) non vanno interpretate, nelle pagine di questo autore, solo nel loro significato letterale, come esaltazione di un ideale di vita fortemente selettivo ed elitario. Giacche´ quelli che non possono che apparire a un osservatore politico un gusto e una soluzione indiscutibilmente aristocratici (e dunque rivolti al passato per quanto concerne i problemi di massa sollevati dalla modernita`), a ben vedere non esauriscono il loro significato in un ambito di senso solo socio-politico, bensı` rimandano anche, e forse prevalentemente, ad un altro ambito di senso, piu` personale ed esistenziale: dove l’esaltazione del valore e del dominio dei pochi implica una riflessione antropologica cosı` nuova, e cosı` devastante nella sua novita`, rispetto alla definizione di cio` che sia propriamente umano, anzi superumano, da implicare una sterzata filosofica e culturale, abbiamo visto, radicale rispetto alla tradizione e tale che i suoi effetti si fanno sentire fortemente ancora oggi, nella cultura del nostro presente. E facendo con cio` di Nietzsche un pensatore, non del passato e delle sua nostalgie – come vorrebbe una lettura solo politica dei suoi testi – bensı` del tutto partecipe della modernita`, anzi tale da costituirne uno dei suoi passaggi e snodi piu` pregnanti e significativi. Il dominio di cui parla Nietzsche e` infatti in molti dei suoi testi in primo luogo il dominio come esperienza e senso, nell’umano, del corpo e della sua struttura plurale. Ossia e` termine che rimanda a un contesto antropologico-esistenziale, prima che etico-politico, e le cui implicazioni (essere il mondo solo il luogo del disordine e del caos; non potersi dare una minima fissita` oggettiva della realta` a causa del continuo mutare della composizione delle forze; essere il quadro rappresentativo del conoscere solo una finzione necessaria alla vita dell’individuo) avranno un’importanza decisiva nell’importanza che, oggi, la filosofia contemporanea attribuisce all’ermeneutica e al cosidetto pensiero debole: quali visioni che rifiutano, com’e` 7

F. Nietzsche, Al di la` del bene e del male, Adelphi, Milano 1977, p. 54.

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LA RISPOSTA ALLA MASSIFICAZIONE DEL MODERNO: F. NIETZSCHE

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noto, il concetto stesso di verita`, valorizzando il trionfo inesauribile del divenire (e di una costante pratica interpretativa e reinterpretativa) sull’essere e sullo strutturarsi della realta` secondo assetti permanenti ed oggettivi. Un’influenza di Nietzsche in tal senso, che e` ancora piu` radicale, e nello stesso tempo anche assai diversa, da quella avviata sugli stessi temi da Schopenhauer. Perche´ se questi e la sua concezione del mondo come volonta` cosmico-universale, che si da` al di sotto del mondo del sapere e della rappresentazione, costituiscono certamente il punto di partenza nietzschiano, il modo in cui poi Nietsche intende la volonta` in quanto «volonta` di potenza», e l’incorporazione che le assegna, facendola coincidere essenzialmente con il corpo umano, lo conducono a una visione profondamente diversa dal nichilismo e dall’aspirazione ascetica di Schopenhauer. Mentre per Schopenhauer infatti la volonta` e` assolutamente unica e indivisibile, e, volendo unicamente se stessa, e` di fondo indifferente al campo delle cose volute, la volonta` per Nietzsche e` intrinsecamente plurale, giacche´ e` forza che si da` solo nell’entrare in relazione con altre forze e nel volere il dominio e la vittoria su di esse. Con la conseguenza, per questo volersi affermarsi e farsi obbedire dalle altre forze, che la volonta` per Nietzsche (diversamente da Schopenhauer per cui la volonta`, completamente altra dal mondo della conoscenza, e` del tutto inconsapevole e cieca) e` intenzionale e progettuale: e` forza che ha come fine e scopo quello d’imporsi e di comandare. “La sola forza che ci sia e` della stessa natura della volonta`: un comando dato ad altri soggetti che seguendolo si modificano”8. La forza e` in primo luogo di natura fisica, quantitativa, e infatti differisce dalle altre forze secondo una grandezza misurabile. Ma questo variare dal piu` al meno, questa differenza di quantita`, per la tendenza dinamica e fluida di ogni forza, si traduce in una differenza di qualita`, tra forze superiori che comandano e forze inferiori che obbediscono. E di questo gioco, per cui la volonta` di potenza e` un complesso di relazioni in cui le forze si rapportano tra loro come dominanti o dominate, in cui cioe` la forza di natura fisica esplicita tutta la sua fisionomia fortemente umana ed antropomorfa, il nostro corpo e` il teatro e lo scenario privilegiato: “il nostro corpo non e` che un’organizzazione sociale di molte anime”9. Il nostro corpo e` intessuto infatti da una molteplicita` di pulsioni, d’impulsi antagonisti, di esseri viventi e volitivi, ciascuno teso ad affermare 8

F. Nietzsche, frammento del 1885, cit. in D. Franck, Nietzsche e l’ombra di Dio, Lithos, Roma 2002, p. 146. 9 F. Nietzsche, Al di la` del bene e del male, cit., p. 24.

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la propria potenza. “Nell’uomo, abitano tanti spiriti quanti animali del mare – essi lottano gli uni contro gli altri per lo spirito “Io”: essi lo amano e vogliono addossarsene la responsabilita`, e si odiano tra loro per questo amore”10. Affinche´ si dia vita – l’unita` di un organismo e di un corpo vivente – e` dunque imprescindibile per Nietzsche che il corpo si costituisca come un campo di dominio in cui una o piu` volonta` imperative affermino la loro gerarchia su volonta` remissive ed obbedienti ed impongano cosı` l’unita` su una molteplicita` discorde e distruttiva. E` necessario cioe` che forze attive, capaci di tutta la loro volonta` di potenza, s’impongano su forze passive, su forze cioe` che abbiano inibito la loro volonta` di potenza e si siano tradotte in forze meramente reattive, capaci di una qualche dinamica e di una qualche funzione solo dietro comando ed obbedienza ad una sollecitazione esterna. Ed e` proprio per questa sua complessita`, molteplicita` e ricchezza di forze, per il loro equilibrarsi dinamico che di momento in momento cambia e si riscrive, secondo un divenire costante e proteiforme di sensi e gerarchie, che il corpo, assai piu` che non la coscienza e il pensiero riflessivo, e` per Nietzsche il luogo primario e fondamentale della vita: non solo di quella biologica, ma appunto anche di quella culturale, conoscitiva, scientifica, morale. Giacche´ il corpo con la sua dislocazione e disposizione di forze, con il suo articolare aristocrazie e subalternita`, di volta in volta giudica e interpreta, valuta e sceglie. Ossia il corpo e` per Nietzsche – e qui sta il massimo della sua innovazione teorica –, prima che un complesso di organi, un fenomeno intellettuale e morale, che inaugura prospettive, preferenze e valori. E` esso che svolge direttamente le funzioni attribuite dalla tradizione filosofica al pensiero e che, per tale incorporarsi del pensiero, non puo` che lasciare all’Io e alla vita della coscienza una funzione solo secondaria e derivata. Anzi, a ben vedere – data la distanza tra vita del corpo e astrazione del pensiero – una funzione di produzione solo di concetti falsi e deformanti, di giudizi inadeguati e di falsi valori. Giacche´ il sapere concettuale, la conoscenza logica, la scienza con le sue leggi concernenti la ripetibilita` e la fissita` dell’accadere, attribuiscono alla realta` un ordine, una regolarita` che non le appartengono. Procedono con un principio analitico d’identita`, con una distinzione linguistico-concettuale tra soggetto e predicato, con categorie come quella di essere, sostanza, cosa, oggetto, soggetto, uguaglianza, che non hanno riscontro nella realta` – in eterno divenire e perennemente 10 F. Nietzsche, frammento del 1882-1883, cit. in D. Franck, Nietzsche e l’ombra di Dio, cit., p. 145.

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cangiante nel suo costante riequilibrarsi – della volonta` di potenza e delle forze che abbiamo fin qui considerato. Anche se per altro queste stesse finzioni, di cui consiste l’intera produzione culturale dell’essere umano e della sua storia di civilta`, sono necessarie e indispensabili per Nietzsche al darsi della vita stessa e all’affermarsi della stessa volonta` di potenza. Poiche´ senza tali finzioni che fanno prevalere l’essere sul divenire, l’identita` e la consistenza sulla costante dissomiglianza, la semplificazione sulla complessita`, non vi sarebbe conservazione del corpo: per soddisfare la quale una forza dominante deve, sı` imporsi, ma anche comunicare e interagire in un nesso organizzativo di continuita` con la molteplicita` delle altre forze a cui si correla. Per cui e` a partire dall’autoconservazione del corpo, dall’esigenza di non frantumarsi nel caos delle proprie forze pulsionali, che l’essere umano produce la conoscenza e la scienza, pretendendo di vedere nella molteplicita` e discontinuita` del divenire le leggi dell’analogia e della continuita`. La necessita` dell’eguaglianza, del gregarismo, dello spirito omologante e di massa della democrazia sono iscritti, dunque, nel codice di autoprotezione del vivente. Se nel cuore della verita` della cultura e della civilta` sta la finzione, essa e` pure indispensabile al vivente, per contenere la sua costantemente possibile frammentazione e ridurre la paura di fronte al caso, all’incertezza e all’imprevedibilita` del divenire: “la verita` e` il tipo di errore senza il quale un tipo determinato di esseri viventi non potrebbe vivere”11. Ma a questa visione reattiva e rassicuratrice propria della conoscenza, della scienza, della distinzione morale tra cio` che e` bene e cio` che e` male e dell’intero mondo degli istituti della socializzazione umana, e` obbligata ad attenersi e non puo` che attenersi l’umanita` conformista e di massa che con la spiritualita` giudaico-cristiana ha imparato ad aver paura della vita e a concepire l’azione solo come reazione. Al di la` di essa e al di la` di tutto il cammino della modernita` verso il progresso di valori egualitari e collettivi, al di la` dell’uomo comune, la soluzione che Nietzsche propone sta nell’ideale del ‘‘superuomo’’: di un essere umano cioe` capace di superare la modernita` e di vivere la vita secondo i valori della volonta` di potenza e dell’‘‘eterno ritorno’’. L’eterno ritorno significa infatti abbandonare la concezione lineare del tempo, su cui storia, scienza e tutti i saperi rassicuranti fondano un’interpretazione causalistica e calcolante dell’accadere e in base alla quale una sequenza di cause e di effetti e il peso del passato sul presente 11

F. Nietzsche, frammento del 1885, cit. in D. Franck, Nietzsche e l’ombra di Dio, cit., p.

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sottraggono autonomia d’azione e incondizionatezza di liberta` alla soggettivita` umana. L’eterno ritorno e` invece l’eterno ritorno del valore assoluto di ogni istante, e` il fatto che in ogni istante ritorna, fuori dai limiti del tempo lineare della catena causale, la pienezza di decisivita` e di volonta` di potenza dell’essere umano. E` la sovranita`, originaria, senza un prima e senza un dopo, di ogni istante, per la quale il soggetto umano si trova ogni volta di fronte a una configurazione sempre nuova, non causale, di forze su cui decidere a partire dal piu` proprio e incondizionato se´ stesso. E` la capacita` del superuomo di superare il tempo lineare della prudenza, della prevedibilita` e della calcolabilita`, della scienza e della tecnica, per piegarlo nel tempo circolare della decisione sempre originaria, visto che nel cerchio non c’e` ne´ inizio ne´ fine, ne´ prima ne´ dopo, ma solo l’eterna riproposizione del sempre eguale. Dove il sempre eguale e` qui l’eterno divenire, per il quale ogni attimo ha la struttura non di un punto, posto in una sequenza lineare di punti del passato e dell’avvenire, bensı` quella di un evento drammatico in cui l’attore sceglie di agire, e non di reagire, con la sua volonta` di potenza, e di dar forma alla complessita` di forze che si stringono nella sua vita in quel momento. Perche´, come scrive Nietzsche in Cosı` parlo` Zarathustra, “Tutto va, tutto torna indietro; eternamente ruota la sfera dell’essere [...] In ogni attimo comincia l’essere; attorno ad ogni “Qui” ruota la sfera “La`”. Il centro e` ovunque. Curvo e` il sentiero dell’eternita`”12. Cosı`, al di la` di scelte politiche e culturali elitarie ed aristocratiche, cio` che la filosofia di Nietzsche, profondamente condizionata dal proprio travaglio psichico, consegna di fondo alla modernita` e` la tesi della destrutturazione del soggetto. L’«io» e` infatti ormai solo un pronome, una mera categoria grammaticale che non corrisponde piu`, come fin qui il pensiero e la filosofia occidentale hanno creduto, a un’individualita` stabile e permanente. E` invece solo una condensazione, un aggregato temporaneo di determinati rapporti di forze continuamente mutevoli. Concetti come quelli di verita`, responsabilita` morale, prassi sociale, lavoro, concepiti a partire dall’attivita` di un soggetto, non hanno piu` senso o ne acquisiscono uno completamente diverso. E la modernita` potra` inaugurare una nuova civilta` e una nuova umanita` solo generando un orizzonte di vita in cui alla svalorizzazione dell’essere si accompagni la leggerezza del divenire e la sua fugacita`.

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F. Nietzsche, Cosı` parlo` Zarathustra, Adelphi, Milano 1976, pp. 265-266.

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IL DIBATTITO SU SCIENZE NATURALI E SCIENZE STORICHE IN GERMANIA

Come dimostra il caso di Nietzsche e` nella cultura tedesca della seconda meta` dell’800 che si puo` trovare la maggiore resistenza all’egemonia del positivismo il quale, con la generalizzazione del modello scientifico a paradigma unico di verita` e la valorizzazione della positivita` dei fatti scientificamente e quantitativamente misurabili contro presuntive vaghezze di ogni filosofia non saldamente legata alla concretezza dei fatti, si era fatto, come s’e` detto, visione del mondo dominante in Europa, soprattutto in Gran Betagna e in Francia. Del resto la Gran Bretagna, con il suo enorme sviluppo industriale-capitalistico, era sempre piu`, soprattutto dopo la liquidazione di Napoleone, potenza mondiale, anche per l’espansione del suo impero coloniale. E sviluppo dell’industrialismo capitalistico significava sempre di piu` applicazione delle scienze alla produzione, con il superamento del vecchio lavoro artigianale da un lato e l’organizzazione del lavoro moderno e di massa dall’altro: significava lo sviluppo di gigantesche strutture produttive, di una rete enorme di trasporti, di elettrificazione, di espansione di conglomerati urbani, di nuove tecnologie di produzione alimentare e agricola. Insomma la conferma ovunque dell’enorme contributo alla civilizzazione moderna data dalle scienze della natura e dalle loro applicazioni tecnologiche. Ma appunto e` in Germania, ancora poco lanciata nell’industrializzazione moderna e fortemente legata, in filosofia, ancora al distacco e all’elaborazione del grande patrimonio dall’idealismo tedesco, che, oltre Nietzsche, si sviluppa negli ultimi decenni dell’800 un grande confronto sui metodi – il metodo delle scienze della natura da un lato e quello delle cosiddette scienze dello spirito dall’altro –, e che prende corpo nelle correnti filosofiche rispettivamente dello “storicismo” e del “neo-criticismo”.

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E` a Wilhelm Dilthey1, padre dello storicismo tedesco, e autore egli stesso di molte opere storiche (come L’intuizione della vita nel Rinascimento e nella Riforma, 1891-1900), che si deve infatti quella denominazione di “scienze dello spirito”, che distingue profondamente, a suo avviso, la comprensione dell’attivita` storica e culturale dell’essere umano dall’oggetto proprio delle scienze naturali. In opere come Introduzione alle scienze dello spirito (1883) e Critica del giudizio storico (1889) egli differenzia infatti nettamente l’ambito della natura da quello della storia, argomentando che, quando noi definiamo leggi e regolarita` dei vari processi naturali, ci riferiamo sempre a un campo di oggetti a noi eterogenei ed esterni, laddove, quando studiamo e consideriamo la storia, abbiamo a che fare con accadimenti, emozioni e visioni del mondo propri degli esseri umani, e dunque con qualcosa a cui partecipiamo dall’interno, potendola rivivere in noi; “intendiamo noi stessi e gli altri solo in quanto compiamo una trasposizione della nostra vita vissuta in ogni specie di espressione della propria e dell’altrui vita”2. La natura “e` per noi soltanto qualcosa di esterno, non di interno”, mentre “la societa` e` il nostro mondo”. E dunque la conoscenza della storia non puo` assolutamente ridursi al modello delle scienze esatte. La sua messa in campo di verita`, la sua specifica e peculiare scientificita`, deve consistere nella capacita` da parte del soggetto conoscente di saper ricostruire e ricreare l’Erlebnis, dei soggetti che studia: ossia la totalita` delle loro esperienze di vita, vissute secondo l’unita` dell’intuizione del mondo, culturale e ideale, che l’ha sostenuta e unificata. Oggetto del sapere storico – del tutto diverso e irriducibile a quello delle scienze esatte – e` percio` la comprensione delle Weltanschauungen, delle visioni del mondo che si sono succedute nel corso delle varie epoche e che si confrontano tra loro in una stessa epoca, insieme alle religioni e alle creazioni dell’arte, nel definire gli scopi e i valori attorno a cui si accentrano le varie manifestazioni di vita dell’essere umano in quanto essere storico. Linguistica, mitologia e storia delle religioni, scienza del diritto, filologia e storia letteraria, storia della filosofia, geografia, sono le scienze dello spirito che ci devono consentire di comprendere la vita, la quale e` la vita storica dell’individuo singolo nei suoi rapporti permanenti con gli altri individui: mediata appunto dai valori e dalle concezioni di cui ogni singolo si appropria, cui reagisce e attraverso cui Wilhelm Dilthey (1833-1911). E` professore per molti anni all’Universita` di Berlino. Per quanto riguarda la metodologia delle scienze storiche i suoi scritti principali sono: Introduzione alle scienze dello spirito (1883), Critica del giudizio storico (1889), I tipi dell’intuizione del mondo (1911). Come storico, oltre ai suoi studi sulla figura di Schleiermacher, scrive un testo nel 1905, ben presto divenuto un classico, su La giovinezza di Hegel. 2 W. Dilthey, Critica della ragione storica, Einaudi, Torino 1954, p. 154. 1

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IL DIBATTITO SU SCIENZE NATURALI E SCIENZE STORICHE IN GERMANIA

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giudica della vita associata, relazionandosi al mondo come una totalita` unitariamente intuita. Si comprendono cosı`, a partire dall’individuo e dall’interiorita` della sua Erlebnis, quelle “connessioni dinamiche” o “strutturali” (che Dilthey contrappone alla connessioni causali della natura), che sono le istituzioni, le comunita`, le civilta`, le epoche storiche, fondate ciascuna – come la vita di ogni singolo, vissuta attraverso l’unita` dell’Erlebnis – sulla centralita` dei valori che danno senso e connessione unitaria ad ogni loro parte e funzione. Ma rivendicare l’irriducibilita` del “comprendere storico” (del Verstehen) alla conoscenza scientifico-naturalistica non significa, peraltro, cadere nell’estremo opposto di una filosofia spiritualistica della storia, alla Hegel, dove le varie epoche storiche vengono unificate nell’essere manifestazioni di un unico Spirito Assoluto. Ogni forma della vita storica, afferma invece Dilthey, e` finita, relativa solo al suo particolare contesto, e i valori che la intessono e l’organizzano, non hanno in se´ alcunche´ di assoluto e d’incondizionato. Sono relativi e transeunti. E proprio “la coscienza storica della finitudine”, il presupporre la relativita` di ogni condizione umana e la non assolutezza di ogni valore, e` cio` che rende l’essere umano libero (da dogmi) e pronto a rivivere la storia come esperienza di liberta` e di forza creatrice, attraverso sacrifici ed impegno, da parte degli altri esseri umani. Del resto lo storicismo di Dilthey partecipava di quel ritorno a Kant che segna la cultura tedesca di fine ’800, dopo il grande peso esercitato dall’hegelismo per tutta la prima meta` del secolo. Ritorno a Kant, che significa appunto il rifiuto di leggere la storia e la vita umana secondo la prospettiva infinitizzante e totalizzante di Hegel, e la necessita` di ritrovare invece il senso della filosofia, anziche´ in una fenomenologia dell’Assoluto, di nuovo nel criticismo kantiano, quale capacita` di definire col trascendentale cio` che nel variare dell’esperienza sempre finita degli esseri umani costituisce l’invariante e la sua condizione strutturale di possibilita`. E appunto neo-criticismo viene chiamata quella concezione della filosofia tedesca della seconda meta` dell’800 che vuole indagare le condizioni di validita`, in una prospettiva di finitezza, di tutti gli ambiti costitutivi del mondo umano. Senza pero` rifarsi a quella differenziazione cosı` radicale che Dilthey aveva introdotto tra scienza e storia, a partire dalla differenza dei loro campi oggettuali, in quanto natura e cultura. Cosı` per i protagonisti della cosiddetta scuola di Marburgo (Hermann Cohen e Paul Natorp), come per Ernst Cassirer3, cio` che conta per 3 E. Cassirer (1874-1945) ha insegnato a Berlino, ad Amburgo e a Yale negli Stati Uniti. Ha svolto un’ampia attivita` come storico della filosofia, a partire dall’opera sul Problema della

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interpretare l’esperienza umana non e` mettere in campo una eterogeneita` degli oggetti d’indagine, come ha fatto Dilthey con un residuo ancora di prospettiva realistica (che muove cioe` dall’oggetto), bensı` muovere come fa Kant da un rigoroso soggettivismo, ossia dal convincimento che tutta l’esperienza e` sempre e sola un’oggettualita` pensata e costruita dalle funzioni trascendentali del soggetto umano. E che dunque i vari campi del conoscere e dell’agire si distinguono tra loro solo per la diversita` dei trascendentali, cioe` dei percorsi di sintesi (scientifici, morali, estetici, linguistici, religiosi) attraverso i quali gli esseri umani danno forma coerente, con una validita` di senso estensibile anche agli altri soggetti, alla molteplice varieta` dei dati della loro piu` elementare vita psicologica e sensibile. Per tale motivo, come teorizzano Wilhelm Windelband4 e Heinrich Rickert, la distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito non rimanda a una distinzione oggettuale, ontologica, tra natura e cultura, ma solo a un diverso interesse, a un diverso approccio metodologico da parte del soggetto conoscente. Il quale, se e` interessato a rilevare gli aspetti uniformi e ripetibili della realta`, da` vita alla scienze nomotetiche (che tendono appunto a definire le leggi universali dell’accadere, come avviene con la scienza), se invece e` interessato agli eventi individuali e irripetibili, da` vita alle scienze idiografiche, le quali, come la storia, considerano gli accadimenti singoli, che non tornano mai piu` ad accadere: “le scienze empiriche cercano nella conoscenza del reale o il generale nella forma della legge di natura, o il particolare nella sua figura storicamente determinata [...] Le une sono scienze della legge, le altre scienze dell’avvenimento; quelle insegnano cio` che e` sempre, queste cio` che fu una volta. Il pensiero scientifico e` – se posso comporre un’espressione nuova – nel primo caso nomotetico, nel secondo idiografico”5.

conoscenza nella filosofia e nella scienza dell’epoca moderna (4 voll.). Ha dedicato monografie alle figure di Cartesio, Leibniz, Kant. Scritti piu` teoretici sono Concetto di sostanza e concetto di funzione (1910), La forma del concetto nel pensiero mitico (1922), Filosofia delle forme simboliche (3 voll., 1923-1929), Saggio sull’uomo (1944). 4 W. Windelband (1848-1915), fondatore della scuola neokantiana del Baden, svolge una notevele attivita` di storico della filosofia, scrivendo opere come Storia della filosofica occidentale nell’antichita` (2 voll., 1884), Manuale di storia della filosofia (1891), Platone (1900), La filosofia nella vita spirituale del XIX sec. (1909). Le sue riflessioni sul problema del metodo sono contenute in Storia e scienza naturale (1894). 5 W. Windelband, Storia e scienza naturale, in Preludi [Pra¨ludien, Mohr Verlag, Tubingen 1921, II Band, p. 145].

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UNA NUOVA CONCEZIONE DELLO SPAZIO E DEL TEMPO: LA FILOSOFIA DI H. BERGSON

La critica al positivismo e alla sua pretesa di fare delle scienze naturali il modello di verita` valido anche per l’esperienza degli esseri umani comincia per altro a farsi assai forte alla fine dell’800 anche in terra francese (la` dove cioe`, oltre che in Inghilterra, il positivismo aveva celebrato i suoi fasti, con 1 A. Comte). Ed e` a Henri Bergson che soprattutto si deve una critica delle categorie principali del sapere scientifico (tempo, spazio, materia, causa), interpretate alla luce di un’originale riflessione sulla vita dell’accadere psichico, che avra` molta importanza nella psicologia e antropologia del ’900 – continuando da un altro punto di vista la dissoluzione della soggettivita` moderna centrata sulla ragione iniziata da Marx e da Nietzsche – e che nella sua distinzione tra mondo delle quantita` e mondo delle qualita` si rifa` alla tradizione cartesiana, per altro sempre viva nella cultura francese, del differenziarsi della realta` in res extensa (materia) e in res cogitans (spirito). Gia` a cominciare dalla sua prima opera del 1889, Saggio sui dati immediati della coscienza, Bergson elabora infatti una teoria del tempo, che e` profondamente lontana dalla visione del tempo oggettivo, misurabile dagli 1

Henri-Louis Bergson (1858-1941), ebbe una grande influenza sulla vita culturale francese dei primi decenni del ’900. D’origine ebraica, nel 1990 ottiene la prestigiosa cattedra di filosofia al Colle`ge de France, per esser poi eletto all’Accademia francese. Nel 1928 vince il premio Nobel per la letteratura. I suoi scritti nel 1914 vengono messi all’Indice dei libri proibiti dalla Chiesa cattolica, anche per l’interesse che verso il suo spiritualismo mostrarono i cattolici francesi, che aderivano al modernismo, la corrente di intellettuali e religiosi propensa a una conciliazione tra modernita` e cattolicesimo Le sue opere principali sono: Saggio sui dati immediati della coscienza (1889), Materia e memoria (1896), L’evoluzione creatrice (1907), Le due fonti della morale e della religione (1932).

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orologi e scandito da istanti tutti eguali tra loro, attraverso la quale la scienza conduce le sue osservazioni e codifica le sue leggi. Il tempo della scienza, rappresentabile come una successione di punti su una retta all’infinito, dove un istante cade dopo l’altro e dove ogni istante non e` diverso dall’altro, tanto da poter essere contato attraverso la serie dei numeri (dei secondi, dei minuti, delle ore, etc.), non e` il tempo reale, non e` il tempo vero della vita. Poiche´, a ben vedere, cio` di cui facciamo esperienza a questo modo non e` il tempo, ma lo spazio, o meglio un tempo pensato per mezzo dello spazio, il “tempo spazializzato”. Nello spazio infatti le cose si dispongono l’una fuori dell’altra, in una compresenza o successione fondata sull’impenetrabilita`, sulla non sovrapponibilita` dell’una sull’altra. Lo spazio cioe`, come aveva ben compreso gia` Cartesio, e` fondamentalmente estensione, dove le cose e le esistenze non possono compenetrarsi e sovrapporsi. E appunto un tempo pensato attraverso lo spazio e` un tempo misurato sulla regolarita` e sulla successione di un movimento nello spazio, come ad es. quello del sole. Invece il tempo effettivo, quello della nostra vita reale e` ben altro. E` quello che Bergson chiama “durata” (dure´e), e che e` senza spazio, senza gli intervalli e le separazioni dello spazio, giacche´ e` un fluire di sensazioni, di immagini, di sentimenti e impressioni, ininterrotto e continuo, che accompagna, anzi costituisce il fondo della nostra vita interiore. E` il continuum della nostra coscienza, mai eguale a se´ stesso, ma sempre invece diverso e in cui costantemente una tonalita` emotiva sempre nuova prevale sulle altre, a dare senso all’insieme, e in cui cio` che e` trascorso continua a vivere e ad essere presente, fuso e riformulato. E` il tempo come qualita`, come scorrere dell’eterogeneo, ben altro e diverso dal tempo come susseguirsi dell’omogeneo, dal tempo spazializzato, dal tempo come quantita`. Di questa diversita` profondissima dei due tempi s’intesse, e si spiega, per Bergson, la nostra vita personale, la cultura, la scienza, la storia, la religione: insomma l’intera esperienza degli esseri umani. Il fondamento, costantemente mutevole e fluido, della nostra identita` costituisce il nostro io piu` interiore e vero. E qui gli accadimenti della coscienza non sono esteriori gli uni agli altri. Divengono tali invece solo in uno strato piu` superficiale del nostro essere coscienti, dove dal tempo come durata vengono estratti e proiettati sullo schermo del tempo spazializzato e appunto, nella dimensione dello spazio, si traducono in cose, esperienze, pensieri, distinti e separati. Per agire, comunicare, pensare, la coscienza riflessa ha del resto necessita` di separare, determinare, distinguere: contare sullo spazio come mezzo

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UNA NUOVA CONCEZIONE DELLO SPAZIO E DEL TEMPO

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omogeneo per dare ordine e articolazione al mondo altrimenti indeterminato e fluente del nostro vivere. Lo stesso parlare – il linguaggio – rimanda, per la sua necessita` pratica, a questa sorta di reazione dell’ordinato contro l’imprevedibile, del separato contro il continuo, dell’astratto contro il concreto. Le verita` della scienza, espresse nel linguaggio matematicoquantitativo e secondo la distinzione-separazione di causa ed effetto, appartengono percio`, a ben vedere, all’ambito, non del reale, ma dell’immaginario: un immaginario pure utile a scopi pratici, ma impersonale e omologante, valido solo per un sapere di orientamento comune e lontano dalle percezioni piu` individuali e personali del vivere. “Se via via che ci allontaniamo dagli strati profondi dell’io, i nostri stati di coscienza tendono ad assumere sempre piu` la forma di una molteplicita` numerica e a dispiegarsi in uno spazio omogeneo, cio` e` dovuto proprio al fatto che questi stati di coscienza acquistano una natura sempre piu` inerte, una forma sempre piu` impersonale. Non bisogna quindi stupirsi se solo le idee che sentiamo meno nostre sono adeguatamente esprimibili in parole [...] Esterne le une alle altre, intrattengono fra loro dei rapporti in cui non rientra affatto la natura intima di ciascuna”2. Ma, si noti bene, la critica antipositivistica di Bergson, con la sua contrapposizione tra vita e scienza, tra carattere qualitativo e sempre nuovo degli atti psichici e superficialita` di un intelletto ordinatore e schematizzante, non e`, malgrado le analogie, quella di Nietzsche. Giacche´ qui non si tratta della contrapposizione tra istinto e ragione, tra macchina pulsionale della corporeita` e nichilismo pavido e devitalizzante della cultura. Si tratta bensı` di una concezione della vita come conservazione integrale del passato: di una metafisica della vita cioe`, basata su una peculiare concezione della temporalita`. Nel senso che la vita e` tempo, ma, come s’e` detto, non tempo seriale o spazializzato in cui ogni momento, essendo esterno all’altro, lascia cadere fuori di se´ cio` che lo precede, bensı` tempo della durata, in cui ogni momento riprende in se´, per la sua strutturale fluidita`, la totalita` dei momenti che lo precedono. E che proprio per questo suo costante accumularsi, che e` contemporaneamente un suo costante riformularsi e cambiare, e` un tempo che produce, in ogni momento, un senso e un esperire sempre necessariamente nuovi. La vita come tempo, senza spazio, e` dunque intrinsecamente liberta`, capacita` costante di generare e dare inizio a qualcosa di impreveduto e d’irripetibile. E percio`, in quanto intrinsecamente libera, essa e` spirito. Come scrive nell’Evoluzione creatrice: “L’universo dura. Piu` appro2

H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, Cortina, Milano 2002, p. 88.

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fondiremo la natura del tempo, piu` comprenderemo che durata significa invenzione, creazione di forme, elaborazione continua dell’assolutamente nuovo”3. E la distinzione, cara a Nietzsche, tra istinto e ragione (o “intelligenza”, come la chiama Bergson), ossia, secondo le definizioni che ne da` Bergson, tra la capacita` dell’animale di servirsi in modo irriflesso e immediato del proprio corpo organico, e l’abilita` dell’essere umano di costruire e servirsi strumentalmente di corpi inorganici, e` una differenziazione successiva, una biforcazione di modi d’essere che gia` presuppone il tempo come vita e come attivita` creatrice. Il tempo e` dunque vita, perche´ la sua natura piu` originaria e` quella di essere memoria: una “memoria pura” che coincide con la totalita` del passato, conservato nella costante rimodulazione del presente. Un passato che “ci segue, tutt’intero, in ogni momento”, visto che “cio` che abbiamo sentito, pensato, voluto sin dalla prima infanzia e` la`, chino sul presente cui va aggiungersi”. Ma di cui ciascuno di noi, ovviamente, non puo` mai essere completamente consapevole. Tant’e` che dalla memoria pura, fondo inesauribile e in gran parte inconscio del nostro vivere, Bergson distingue il “ricordo-immagine”, ossia quel complesso stabile di immagini e rappresentazioni che estraiamo e fissiamo dalla continua mobilita` del vivere, per poter operare e agire, quasi una sorta di punti fissi, nell’orizzonte altrimenti imprevedibile e sempre mutevole del reale. Giacche´, come la vita non e` materia ma spirito infinitamente creatore, cosı` la memoria non e` il cervello, scrive Bergson in Materia e memoria, critico di ogni riduzionismo positivistico e neurofisiologico della mente al corpo. Il cervello e` infatti, per quanto sistema assai complesso e complicato, solo uno strumento di azione, un “organo di scelta”, che ai fini pratici della sopravvivenza accende, come un commutatore elettrico, certe rappresentazioni e non altre, introducendo nella coscienza solo cio` che puo` illuminare la situazione attuale e ricacciando la massima parte del passato nell’incosciente. Laddove e` solo la memoria propriamente detta, lo spirito della durata ad essere il fondo originariamente produttore e mai esauribile di ogni pensiero, di ogni rappresentare, di ogni senso del vivere. Fino a esplicitarsi la “durata” nell’Evoluzione creatrice, come il principio che spiega l’intero universo, quale slancio e “virtualita` immensa”, pronta a svolgersi nel ventaglio evolutivo delle mille specie viventi, secondo una frantumazione in linee divergenti, dovuta all’opposizione che l’e´lan vital 3

H. Bergson, Evoluzione creatrice, Mondatori, Milano, p. 71.

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UNA NUOVA CONCEZIONE DELLO SPAZIO E DEL TEMPO

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trova nel principio a se´ opposto della materia, luogo di inerzia e di caduta del divenire. Anche qui rifiutando sia la dottrina darwiniana della selezione naturale che quella lamarckiana dell’adattamento all’ambiente, perche´ sia la spiegazione causale, in cui tutto e` determinato, sia la spiegazione finale secondo la realizzazione di un programma gia` tracciato, non danno conto della liberta` e dell’imprevedibilita` dell’evoluzione condotta da una temporalita` metafisica e spirituale.

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LE LEGGI DI UN CONTINENTE SOMMERSO: L’INCONSCIO IN SIGMUND FREUD

Ed e` ancora una originalissima intepretazione sul tempo che incontriamo, 1 quando giungiamo all’opera di Sigmund Freud , l’ebreo viennese, fondatore della psicoanalisi e geniale sistematizzatore di quel concetto di “inconscio” che, come abbiamo visto, era gia` stato messo a tema da pensatori e filosofi precedenti. Quello che Freud infatti, prima da medico neurologo e studioso del cervello, poi da psicoanalista, riesce a comprendere, attraverso l’esame sia del comportamento patologico (malattie nervose e mentali) sia di quello normale (analisi dei sogni), e` che l’inconscio, non solo e` una parte fondamentale, anzi maggioritaria della nostra mente, che pensa, desidera, odia, senza che noi ne siamo consapevoli, ma che soprattutto, pur nelle sue caratteristiche di alterita` e enigmaticita`, risulta invece essere strutturato secondo leggi e modalita` che ne rendono possibile la decifrazione e l’interpretazione. E che cio` vale in particolare per quanto concerne l’inconscio che si viene a costituire nella nostra mente come “rimosso”, cioe` 1

Sigmund Freud (1856-1939). Di famiglia ebraica, dopo la laurea in medicina, s’interessa prima di neurofisiologia e di studi sul cervello. Dopo un soggiorno a Parigi, dove frequenta il famoso clinico Charcot e le sue lezioni sull’isteria, torna a Vienna, dove apre uno studio privato per la cura delle malattie nervose, a cui si dedica per tutta la vita. Fonda nel 1910 la Societa` Internazionale di Psicoanalisi, di cui C.G. Jung fu il primo presidente. Dei suoi numerosissimi scritti, di natura non solo strettamente psicoanalitica, ma anche di filosofia della storia e della cultura, qui basti ricordare, oltre l’opera principale L’interpretazione dei sogni (1900), Tre saggi sulla teoria sessuale (1909), Totem e tabu` (1917), Psicologia di massa ed analisi dell’Io (1927), L’avvenire di un’illusione (1929), Il disagio della civilta` (1937). Nel 1933 i suoi libri vengono bruciati dai nazisti, a Berlino. Fugge esule a Londra, dove muore nel settembre del 1939, per un tumore alla mandibola con cui ha lottato per piu` di vent’anni.

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come pensieri e affetti a cui viene impedito, per qualche motivo (di convenienza, di tradizione educativa, di rigidita` morale), di accedere alla coscienza e di non poter cosı` tradursi in azione e in esperienza realmente vissuta. Il tempo dell’inconscio sottoposto a rimozione, sostiene Freud e` qualcosa che dura, ma che, (contrariamente a quanto abbiamo appena visto accadere con la durata in Bergson), anziche´ passare, riplasmandosi in modo sempre nuovo nel flusso della vita, e` tempo che non si temporalizza, che non passa, rimanendo invece sempre eguale e immodificato in se stesso. L’inconscio e` un non-agito, che non essendo stato elaborato, continua a produrre i suoi effetti nel presente dell’esperienza del singolo, attraverso i sogni e tutti i sintomi patologici che, con la loro ripetizione e ossessione, inducono sofferenza e costrizione nella vita del soggetto in questione. Tale congelamento del tempo e` strutturato per altro su una condizione patologica del linguaggio. Gli affetti (di attrazione o repulsione, di amore o odio) e le rappresentazioni dell’inconscio rimosso infatti non hanno accesso alla coscienza, in quanto il soggetto non e` in grado di dirle, di confessarle a se stesso prima che agli altri. Cosı`, prive di aggancio alla catena linguistica, rimangono fissate, incistate nel nostro tessuto emozionale, senza che da esse ce se ne possa distanziare, relativizzandole e in qualche modo raffredandole: visto che la natura di simbolo della parola – di stare cioe` al posto della cosa designata – consentirebbe, per l’opera di distanziamento intrinseco alla funzione simbolica, di porre un attimo tra parentesi l’urgenza della pulsione affettiva e di riflettervi sopra. Del resto in un autore che ha dato origine a una pratica terapeutica basata – incredibilmente per una medicina a orientamento fisico-positivistico –, non su farmaci o interventi sul corpo, ma solo su parole, l’attenzione al linguaggio non puo` non essere centrale nella sua opera. Cosı` per Freud fissazione della temporalita` e venir meno della funzione linguistica vanno tutt’uno e la loro connessione caratterizza quello che, nella sua teorizzazione dei processi della mente umana, egli definisce come “il processo primario”, distinguendolo dal ‘‘processo secondario’’: e intendendo per processo primario il modo primitivo e arcaico di funzionare della mente, regolata dall’assolutezza del solo principio di piacere, dalla necessita` cioe` di trovare il soddisfacimento dei propri bisogni in modo immediato e a qualunque costo, senza tener conto del mondo esterno e delle circostanze. Tipico, com’e` evidente, della mente del bambino nei primi suoi tempi di vita, in cui il rapporto e la mediazione con la realta` e` tutto affidato alla figura materna, o a chi ne fa le veci, quale mente capace di contenere la mente ancora troppo univoca e gracile del bambino e metterla a confronto oltre che con il principio di piacere anche con il principio di realta`.

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LE LEGGI DI UN CONTINENTE SOMMERSO

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La maturazione della mente e la sua capacita` di pensare anche attraverso il processo secondario – che implica, con il linguaggio e la riflessione, la capacita` di staccarsi dall’impellenza del bisogno, di accedere al pensiero propriamente detto e indagare la realta` per trovare la soluzione piu` adeguata – avviene con l’attraversamento della costellazione edipica, ossia con il superamento dell’unione simbiotica madre-bambino e la comparsa sullo scenario del due-in-uno della figura terza del padre, che interrompe la costante disponibilita` materna e introduce cosı` il principio di realta` (secondo il riferimento al celebre dramma sofocleo in cui Edipo, se da un lato e` attratto e giace con la propria madre, dall’altro confligge in un odio mortale con il proprio padre). Tutto cio` per dire che l’eternizzazione del tempo, il rimanere inconsciamente fissati a una scena emotiva che non passa e la cui spinta pulsionale e` forte oggi come nel passato, e` dovuta alla permanenza di una parte fondamentale della mente adulta in una rappresentazione di se´ invece ancora infantile, la quale anziche´ assumere la responsabilita` dei propri bisogni in prima persona, confrontandoli con le possibilita` reali, continua inconsciamente a delegare la soddisfacibilita` della propria vita a figure esterne, d’appoggio, siano esse reali o fantastiche, capaci comunque di continuare a far valere il solo principio dell’immediatezza e del piacere. Le opere di Freud, sia cliniche che di carattere teorico, sia psicoanalitiche che di filosofia della cultura, dell’arte, della storia sono assai numerose, ma e` gia` nella Traumdeutung (L’interpretazione dei sogni), il famoso testo del 1900, che la teoria dell’inconscio e del suo funzionamento e` organicamente definita. Il pensiero dell’inconscio, come ben emerge nel rapporto tra contenuto ‘‘manifesto’’, enigmatico e incomprensibile, del sogno e suo contenuto ‘‘nascosto’’ (invece coerente e sensato), e` pensiero senza linguaggio, pensiero non-discorsivo. Mentre il pensiero cosciente lavora imprescibilmente attraverso il linguaggio, e dunque attraverso connessioni di significati per mezzo di significanti e obbedisce percio` al principio di noncontraddizione (quale principio che vieta l’associazione di due significati contemporaneamente ad una stessa parola), il pensiero inconscio lavora su un contenuto sensoriale sciolto dal linguaggio e associa immagini, suoni, odori, percezioni attraverso linee ideative che si legano per contiguita`, per similitudine, per sovrapposizione, cioe` per tutti i modi possibili di congiunzione che, non passando attraverso le catene discorsive, non hanno necessita` tra l’altro, di ottemperare al principio di non-contraddizione. Basti citare in tal senso le due funzioni piu` caratteristiche del pensiero inconscio per il Freud dell’Interpretazione dei sogni: la “condensazione” e lo “spostamento”. La

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prima consiste nel sintetizzare in un’unica immagine parti che rinviano a immagini originariamente diverse tra loro e dunque nello stringere piu` significati in un’unica rappresentazione, che diventa sovradeterminata e plurisensa, il secondo nel trasferire l’affetto, di attrazione o di paura, legato ad una scena, la cui immagine non sarebbe tollerata dalla coscienza e dalla censura morale che essa in genere esercita, su un’altra scena, connessa alla prima da qualche elemento di affinita`. Ed entrambe sono funzioni dell’inconscio che, tra l’altro, ci rivelano quanto intensa e dinamica, nello spostarsi, nel camuffarsi, nel creare composizioni nuove, sia la forza originaria degli affetti quando essa corre libera nella mente, non legata e contenuta da catene linguistico-discorsive e spinta solo dall’urgenza del modo primario di soddisfazione. Cosı` la ridefinizione che Freud da` della soggettivita` implica che la vita della psiche, nella sua complessita` di mente che si rapporta costantemente sia al mondo esterno che a un corpo e ai suoi bisogni-pulsioni, si svolga attraverso l’unita`-distinzione, rispettivamente, di tre logiche: a) la logica del pensiero cosciente, che si svolge attraverso la discorsivita`; b) la logica del pensiero a-linguistico, che si svolge attraverso l’associazione di materiale rappresentativo a-linguistico ed empirico-sensoriale; c) la logica della pulsione corporea, che si svolge secondo il percorso quantitativo e diffusivo della soddisfazione immediata e della scarica dell’eccitazione accumulata dalla crescita del bisogno. Come abbiamo visto, gia` con Nietzsche e Bergson, il corpo e l’inconscio sono entrati a pieno titolo nella scena della filosofia, con un movimento di decentramento del soggetto da un’identificazione costruita solo sulla parte razionale e consapevole di se´, il quale era simmetrico, ma di direzione opposta, a quello gia` compiuto da Marx nel dislocare l’essenza dell’uomo tutta al suo esterno, nell’insieme dei suoi rapporti sociali. E Freud certamente s’inserisce in questa tradizione Ma, mentre in Nietzsche e in Bergson corpo e mente, inconscio e conscio sono ancora concepiti in un rapporto di rigida contrapposizione, di dualismo manicheo, per il quale l’uno e` il valore e il luogo autentico del senso e l’altro il luogo dell’inautenticita` e del disvalore, il problema di Freud e` quello di riuscire ad articolare invece quel nesso, disponendolo, come abbiamo visto, sul piano triadico delle tre logiche, in cui la funzione del linguaggio, nella sua positivita` o nella sua patologia, svolge il ruolo fondamentale di passaggio e di mediazione. Non a caso la psicoanalisi, sul piano terapeutico, vive della capacita` della coppia analitica, paziente e analista, di condurre le parole a riagganciarsi, rendendole coscienti, a quella trama di emozioni e di affetti, che vivono mute e senza tempo nell’inconscio. Ed e` appunto assai emblematico che l’opera di

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LE LEGGI DI UN CONTINENTE SOMMERSO

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Freud inauguri il ’900, il secolo che verra` caratterizzato sul piano teorico, tra l’altro, anche dalla cosiddetta “svolta linguistica”, cioe` dall’attenzione e dalla centralita` che la filosofia assegnera` al tema del linguaggio, nella sua funzione non solo simbolica e sostitutiva della realta`, ma anche costruttiva e costitutiva di essa.

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LA CRISI DELLE SCIENZE EUROPEE E LA FILOSOFIA FENENOMENOLOGICA DI E. HUSSERL

1. La “crisi delle scienze” nel primo Novecento Ma non e` solo il concetto di tempo ad essere messo profondamente in discussione nel passaggio tra ’800 e ’900. E` anche il concetto di spazio che subisce un profondo ripensamento in una discussione che, con la messa in campo delle cosiddette geometrie non euclidee, contribuisce fortemente a quella che e` stata chiamata la “crisi dei fondamenti” e la grande svolta nelle metodologie delle scienze naturali, dopo la stagione del positivismo e le sue certezze solidissime nella fisica, nella geometria e nella matematica tradizionali. Muovendo dalle ricerche del russo Lobacevskij e dall’ungherese Bolyai, si ammette infatti ora la possibilita` di concepire una teoria dello spazio che non piu` quella fondata sul testo greco degli Elementi di Euclide, in cui, com’e` noto, dimostrazioni e calcoli rimandano sempre a una rappresentazione spaziale intuibile e comune a tutti. Se uno dei postulati di Euclide dice, “per un punto di un piano si puo` condurre una parallela, e una sola, a una retta del piano”, si teorizza che ora e` invece possibile concepire altri ordini dello spazio, in cui non valgono piu` le leggi della geometria euclidea: purche´ i principi e gli ordinamenti di tali altri spazi siano costruiti con coerenza e con regole rigorose. Giacche´ la matematica moderna non ha piu` bisogno, si afferma, della connessione continua e della conferma per i propri elaborati teorici da parte della rappresentazione sensibile: costruendosi il proprio spazio teorico ad un livello elevatissimo di astrazione e in un luogo mentale che puo` essere libero dall’evidenza dei sensi. D’altro canto altri mettono profondamente in discussione la possibilita` di costruire una scienza come la matematica garantendo solo la coerenza

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della formalizzazione, cioe` la non contraddittorieta` delle proposizione costitutive rispetto agli assiomi di partenza. Basti ricordare a tal proposito la critica che Go¨del (1906-1978) sviluppera` nel 1931 contro la pretesa completezza di qualsiasi sistema di pura formalizzazione, affermando che, se un sistema formale puo` certamente garantire la propria coerenza interna, non puo` nello stesso tempo mai dare fondamento a se´ stesso, lasciando cosı` di necessita` ai suoi presupposti un largo margine di indecidibilita` e incompletezza. Del resto il dibattito, noto come “crisi dei fondamenti” attorno ai princı`pi fondativi della matematica, era iniziato non a caso nel 1902 con il lavoro di un giovane matematico inglese, Bernard Russel, che aveva mostrato i paradossi cui poteva andare incontro il programma del tedesco Gottlob Frege di ricondurre la scienza dei numeri a una fondazione rigorosamente logica, priva di qualsiasi riferimento a contenuti empirici o intuitivi. Anche la fisica per altro viveva nei primi decenni del ’900 una “rottura fondamentale”, secondo le parole del fisico tedesco Max Planck (18581947), il quale fu l’iniziatore di quella meccanica quantistica che con la teoria dei quanti apre l’impossibilita` di leggere la microfisica, cioe` i fenomeni subatomici, attraverso le leggi della fisica e della meccanica classica. Negli studi sulla struttura degli atomi e dei fenomeni elettromagnetici si viene infatti progressivamente constatando come sia impossibile applicare il modello deterministico-causale di spiegazione della natura usato dalla fisica tradizionale. I ‘‘quanti’’ sono unita` elementari di energia, la cui variazione di grandezza non e` continua (e percio` prevedibile e calcolabile) bensı` discontinua. Questo significa che la posizione e la configurazione delle particelle subatomiche, nel corso del tempo, puo` essere calcolata solo in modo probabilistico e che percio` non possono essere applicate all’ambito dei fenomeni che non cadono sotto l’osservazione diretta le leggi che si applicano invece al mondo dei fenomeni osservabili. Cosı` come, a favore della possibilita` di piu` prospettive di spiegazione fisica dei fenomeni naturali e contro l’affermazione di un modello oggettivo ed unico di scienza, si viene sempre piu` a sottolineare, in particolare con la figura di Werner Heisenberg (1901-1976) con il suo “principio d’indeterminazione”, l’influenza e il ruolo del ricercatore nello svolgimento dell’indagine sperimentale, visto che soprattutto nella fisica subatomica il comportamento di una particella mostra di essere influenzato dagli strumenti di sperimentazione e di misurazione adottati. Fino a criticare Albert Einstein (1879-1955), con la sua teoria della relativita`, l’esistenza sia di uno spazio assoluto che di un tempo universale,

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LA CRISI DELLE SCIENZE EUROPEE

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uguali per tutti. Infatti non esiste un tempo universale che sia indipendente dalla posizione dell’osservatore e dal suo movimento. Che il tempo appaia scorrere uniformemente per tutti gli osservatori e` un’assunzione solo della fisica classica. Laddove la differenza di tempo tra due eventi varia al mutare del sistema di riferimento, e` relativa alla velocita` di movimento nello spazio dell’osservatore, tanto che due eventi, che ad un osservatore risultano simultanei, ad un altro osservatore posto in un luogo con diversa velocita` potrebbero apparire invece distanziati l’uno dall’altro nel tempo. Ed anche per Einstein queste variazioni, che introducono nella scienza il nuovo concetto di spazio-tempo (in cui appunto le due dimensioni sono intrinseche e relative l’una all’altra), sono rilevantissime nella microfisica e possono essere trascurate nell’esperienza consueta e quotidiana del mondo: fondamentali a velocita` elevatissime come quelle che si approssimano alla velocita` della luce, meno significative per il nostro agire e vivere piu` normale e comune.

2. Una nuova filosofia: la filosofia come “fenomenologia” Anche la “fenomenologia” di Edmund Husserl1 (intellettuale tedesco d’origine ebraica che ancora negli anni del nazionalismo e dell’irrazionalismo nazista fece del suo pensiero una rivendicazione dell’universalismo razionale dell’umanita`, legato all’idea di Europa) si situa al centro del dibattito e del confronto tra scienze della natura e scienze dello spirito, con l’intenzione di superare quel contrasto e aprire alla filosofia, appunto in quanto “fenomenologia”, spazi nuovi ed originali. Di formazione inizialmente scientifica, con studi di astronomia e di matematica, Husserl intende riaffermare, della filosofia, uno statuto e una funzione del tutto propria, non assimilabile al metodo e ai fini conoscitivi 1

Edmund Husserl (1859-1838). Di origine ebraica si converte nel 1886 all’evangelismo luterano, visto che l’insegnamento universitario era vietato in Germania per gli ebrei. Studia prima matematica a Berlino, poi sotto l’influenza del filosofo Franz Brentano si volge alla filosofia. Insegna dal 1916 al 1928 all’Universita` di Friburgo, dove come professore onorario nel 1933 e` cancellato dalla lista dei professori per la sua origine ebraica. La sua cattedra verra` presa dal suo migliore allievo, Martin Heidegger, che si pronunciera` invece ufficialmente a favore del nazionalsocialismo. Scrive opere come le Ricerche logiche (1900-1901), le Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologia (1913, il primo volume; 1952, postumi gli altri due), Logica formale e logica trascendentale (1929), La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (postuma nel 1954). Ha lasciato circa quarantamila pagine di manoscritti, conservati presso l’Archivio Husserl di Lovanio.

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delle scienze. La filosofia deve infatti avere per oggetto verita` che siano permanenti, che strutturino universalmente l’esperienza degli esseri umani e che siano valide per tutti. Non deve occuparsi di sfere delimitate e specifiche, come accade con le scienze, ne´ deve cadere all’opposto nel relativismo delle scienze dello spirito, come accade con lo storicismo di Dilthey e la sua visione della storia come susseguirsi di Erlebnisse, come alternarsi di valori e di visioni interiori del mondo, in cui si rinuncia ad ogni criterio di distinzione tra cio` che e` permanentemente vero e cio` che ha senso solo personale e soggettivo. La filosofia non e` ne´ scienza ne´ storia. Ma pure deve riuscire a darsi una autonomia e uno statuto, non seguendo pedissequamente ma guardando a quella sistemazione rigorosa che Galileo e` riuscito a fare nel XVI sec., col suo metodo matematico, per la fisica e le scienze della natura. Come afferma nello scritto del 1911, La filosofia come scienza rigorosa, tale metodo e tale autonomia puo` essere garantita solo se la filosofia assume (coerentemente con la svolta soggettivistica imposta alla filosofia moderna da Cartesio e da Kant) il soggetto, e la trama dei suoi atti psichici, come oggetto peculiare della sua ricerca e se trova in quello fenomenologico il metodo specifico della sua indagine. Ma in che cosa consiste, dunque, la fenomenologia? In primo luogo, nel non essere ne´ storicismo spiritualistico ne´ naturalismo scientifico: cioe` nel non indagare le esperienze della coscienza umana ne´ come se fossero solo un vissuto personale ne´ come se fossero solo un fatto, un oggetto tra altri oggetti, secondo la riduzione meccanicistica della psicologia di fine secolo che vuole quantificare gli atti di coscienza attraverso il nesso stimolo-risposta. Giacche´ l’originalita` degli atti psichici e` quella di possedere l’“intenzionalita`” (vecchia categoria della Scolastica, riproposta dal maestro di Husserl, Franz Brentano). E l’intenzionalita` caratterizza la coscienza come un dirigersi verso, come l’esser sempre coscienza di qualche cosa, mai di un oggetto indeterminato come il nulla o come l’infinitezza dell’essere; sempre, invece, come coscienza di un contenuto determinato, il quale, pero` si badi, non coincide con essa, perche´ in tal caso, come nell’idealismo, la coscienza genererebbe e creerebbe il proprio contenuto. Laddove nell’intenzionalita` il contenuto sta nella coscienza, e` immanente in essa, e, pur essendo in essa, non viene prodotto da essa. E` intenzionato secondo i modi molteplici dell’intenzionare, che sono quelli del conoscere, del giudicare, del desiderare, dell’aborrire, del fantasticare, etc. E la fenomenologia ha appunto il compito di definire i trascendentali, le invarianti di tali stati o fenomeni della coscienza, indagando la costituzione dinamica e strutturale che e` in gioco ogni qual volta, nel nesso tra

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LA CRISI DELLE SCIENZE EUROPEE

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soggettivita` intenzionale e contenuto intenzionato, qualcosa sia appunto conosciuto, giudicato, voluto, fantasticato, etc. Essa ricerca i presupposti non variabili, lo strutturarsi eternamente valido dei vari modi in cui la coscienza intenziona i propri contenuti immanenti. Ma per far cio`, l’atteggiamento fenomenologico deve compiere prima una sospensione di giudizio, un’‰ποχÜ come s’esprime Husserl, secondo un’antica espressione della filosofia stoica. Deve rifiutare il realismo e il naturalismo, rinunciare cioe` a quell’atteggiamento, che per noi e` il piu` naturale e il piu` quotidiano, di credere che esista un mondo prima e fuori di noi, un mondo oggettivo con una realta` e un senso prima e indipendentemente dagli atti intenzionali e significativi della nostra coscienza. Persistere in una tale credenza significa infatti per Husserl ricadere in una dimensione premoderna, prima di Cartesio e Kant con le loro teorie della centralita` del cogito e della rivoluzione soggettivistica copernicana, e ritenere che la coscienza sia una cosa tra le cose, alla quale il mondo si rapporterebbe attraverso nessi causali ed esteriori. Laddove la realta`, le cose, gli oggetti sono, come il linguaggio, come i numeri della matematica, come le formule della logica, tutti oggetti intenzionali, oggetti dentro la coscienza, benche´ non prodotti da essa. Per cui la fenomenologia significa, rinunciando a un atteggiamento realistico ed oggettivante (quasi le cose avessero vita e senso senza di noi), immergersi nella dinamica dei fenomeni, cioe` della realta` com’e` vissuta da noi, e lasciarla parlare ed esprimere direttamente, da se´ stessa, cosı` come si da` all’interno della nostra coscienza, all’intuizione del nostro sguardo. Giacche´ la filosofia e` appunto non conoscenza di cose, di dati di fatto, bensı` intuizione “eidetica”, come dice Husserl, intuizione di essenze, concepite appunto kantianamente, come le strutture pure che costituiscono le condizioni di possibilita` della nostra esperienza. La fenomenologia deve apparire “non come scienza di dati di fatto, ma come scienza di essenze (l’eidetica); come una scienza che intende stabilire esclusivamente conoscenze di essenze e nessun dato di fatto”2. Al di la` dell’atteggiamento scientifico oggettivistico e matematizzante, al di la` della psicologia sperimentale che vuole ridurre a quantita` l’esperienza della coscienza, al di la` della logica formale e proposizionale in cui le formazioni del pensiero perdono ogni nesso con l’intenzionalita` del soggetto, al di la` dello storicismo e delle scienze dello spirito, la fenomenologia 2 E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino 1950, p. 39.

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e` una ‘‘scienza nuova’’, che deve riprendere il programma kantiano del “trascendentale” e quello platonico delle “essenze”: ma dove appunto le essenze siano le forme costitutive dell’intenzionare della coscienza. Fino a includere tra le fonti costitutive dell’esperienza intenzionale – come scrivera` in quella sua opera fondamentale che e` La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale – la corporeita`, l’intersoggettivita`, la temporalita` storica: dato che a fondamento degli atti intenzionali della coscienza c’e` quello che egli definisce il “mondo-della-vita”, che, nel suo essere fonte originaria e primaria di significato, precede ogni sapere che poi si fa scientifico, oggettivo e matematicamente quantificabile. Riproporre il progetto kantiano della filosofia come ricerca dei trascendentali soggettivi – quel progetto che, come abbiamo visto, sta a fondazione della modernita` –, ma allargato a una concezione della soggettivita` piu` ricca e articolata di quella kantiana e che faccia tesoro di tutto quanto e` trascorso nell’800, fino a poter cogliere attraverso la purificazione dell’intuizione fenomenologica lo stesso mondo-della-vita, cio` che e` il vissuto prima della sua riduzione e interpretazione oggettivistica – e` dunque il programma con il quale Husserl vuole innalzare la filosofia a scienza rigorosa e rispondere cosı` alla crisi della civilta` europea, come s’e` venuta consumando con la lacerazione gigantesca della prima guerra mondiale e la diffusione dell’irrazionalismo nazista nella Germania del dopoguerra. La cultura europea moderna e` nata con Galilei e l’autonomizzazione della scienza naturale dalla religione e dalla teologia, ma l’oggettivismo scientifico, nel momento in cui e` divenuto dominante e col positivismo ha voluto ridurre ad oggetto naturale ogni atto dell’esperienza umana, ha introdotto la crisi e la perdita di senso in quella stessa civilta` che aveva cosı` intensamente concorso a sviluppare. Cosı` all’eccesso di oggettivismo naturalistico e scientistico ha risposto per reazione un eccesso di storicismo psicologistico e di relativismo dei valori, fino al nichilismo, secondo l’interpretazione sintetica che Husserl da` della storia della filosofia europea della seconda meta` dell’800. Di contro a cio`, di contro alla crisi delle scienze europee, e` necessaria una scienza filosofica nuova che, senza cadere nel vitalismo e nell’irrazionalismo, sia scienza rigorosa del mondo-della-vita e, in questo introdurre nuovi orizzonti, ritorni alla pregnanza dell’antico: alla Grecia classica, ossia, alla nazione che fu capace d’inventare e realizzare quella originalissima produzione culturale che e` la filosofia, in quanto scienza degli universali. Cosı` l’impresa della fenomenologia – la testimonianza della cui radicalita` d’innovazione sara` data dalla moltissima cultura del ’900 che nei campi piu` vari, dalla filosofia alla letteratura, dalla critica d’arte alla psicoanalisi,

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LA CRISI DELLE SCIENZE EUROPEE

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dall’antropologia alla geografia, ne trarra` alimento e ispirazione – s’inscrive per Husserl in una doppia e sistematica circolarita`: del moderno, ritornando dall’oggi all’inizio dalla nostra epoca, col recupero della lezione cartesiana e kantiana, e dell’antico, ritornando all’essenza della filosofia come fu concepita dalla genialita` della cultura greca. E per Husserl, contro la crisi dei valori e la degenerazione nazista, contro l’esaltazione dei nazionalismi e delle razze, l’Europa moderna puo` e deve rivendicare proprio il valore universale della ragione filosofica, trovando, fondamentalmente in cio` (nell’essere cioe` continente che ha prodotto, specificamente rispetto agli altri, la filosofia) la sua funzione centrale, di servizio e di produzione di senso, per l’umanita` tutta. Perche´ la filosofia, come realizzazione della ragione e degli universali, e` un mettersi a disposizione dell’intera umanita`, e` la “riflessione dell’umanita` su se´ stessa”.

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IL DECISIONISMO AUTORITARIO DI MARTIN HEIDEGGER

1. Il decisionismo filosofico Con Martin Heidegger, il filosofo piu` studiato e letto al mondo negli ultimi 1 trent’anni , la riflessione critica sulla scienza, sul progresso e sulla tecnica, sui modi di vita della societa` moderna, sul linguaggio, sulla filosofia, raggiunge una forma sistematica poderosa, organizzandosi in un pensiero che ha avuto, ed ha ancora, un’enorme influenza su tutta la cultura contemporanea. Va aggiunto, anche per la potenza suggestiva del suo stile letterario, per la riscrittura e la risignificazione radicale a cui sottopone tutte le categorie della tradizione filosofica, nessuna esclusa, e per il modo originalissimo di comporre etimologie che donano alla sua esposizione un vigore evocativo ed emozionale profondo. L’originalita` e il forte impatto di rottura del pensiero heideggeriano si basa, in modo assai paradossale, sul recupero di un concetto assai antico,

1

Martin Heidegger (1889-1976). Di umile famiglia, compie i suoi primi studi in scuole cattoliche. Nel 1919 abbandona la fede cattolica. Dopo l’insegnamento all’Universita` di Marburgo, prende il posto di Husserl a Friburgo nel 1928, dove insegna fino alla pensione nel 1955. Nel 1933, dopo aver aderito al partito nazionalsocialista, diviene rettore dell’Universita`, incarico che lascia un anno dopo, prima che scadesse il suo incarico. Nel dopoguerra fu sospeso dall’insegnamento fino al 1951. Fa` scandalo che non abbia mai preso ufficialmente le distanze dal nazismo, al cui partito rimane iscritto fino al 1945. Per tutto cio` viene sospeso dall’insegnamento fino al 1951. La sua prima opera, Essere e tempo, apparsa nel 1927, diventa un testo fondamentale della filosofia contemporanea. Altre sue opere sono, tra i tanti suoi scritti, Che cos’e` la metafisica (1930), Kant e il problema della metafisica (1930), Sentieri interrotti (1950), Segnavia (1967), Nietzsche (1961), in due volumi che raccolgono corsi universitari dal ’36 al ’46.

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pressoche´ caduto in disuso nella filosofia moderna, e caratterizzante invece in modo profondo sia la filosofia greca antica e che quella cristianomedievale: il concetto di «essere». Quello che infatti per molti autori moderni e` solo una generalizzazione linguistica, una parola che puo` essere utilizzata con vari significati a seconda dei contesti linguistici in cui viene usata, torna in Heidegger a significare, come in quel pensatore antico e presocratico del VI sec. a.C. che e` stato Parmenide, non piu` solo una parola o quel concetto logico piu` generale di tutti che serve a indicare tutte le cose esistenti, bensı` qualcosa di piu` profondo o superiore a tutte le cose, il piano piu` vero della realta`, non logico ma ontologico, e come tale, nella sua assolutezza, non riducibile a nessuna cosa o ente particolare. Cio` che Heidegger ripropone e` dunque il vecchio problema ontologico, della filosofia antica e medioevale, della differenza e del rapporto tra l’essere e l’ente, ma, va subito aggiunto, riletto seconda una sensibilita` e una problematica moderna, che incardinano il tema dell’essere in quello della soggettivita` e delle sue strutture esistenziali. Influenzato, oltre che dal discepolato con Husserl e dalla teorizzazione di questi della filosofia come fenomenologia, anche da una profonda educazione cristiana al significato e al ruolo della trascendenza nella persona umana, Heidegger, con il riproporre la “questione dell’Essere”, elabora e definisce infatti (soprattutto nella sua opera fondamentale Essere e tempo) una cosiddetta “analitica esistenziale”, nella quale la vita della soggettivita` individuale viene spiegata e fatta esprimere secondo modalita` e causalita` assolutamente nuove ed inedite. L’Essere (che in tedesco si dice Sein) e` il fondamento, il principio di ogni realta`, di tutte le cose esistenti (gli enti). Ma solo con un ente ha un rapporto privilegiato e speciale d’implicazione: con quell’ente che e` l’essere umano, e che nel tedesco di Heidegger viene definito dal termine Dasein (l’esserci qui, l’esistenza particolare e individualizzata). L’essere umano, il Dasein, a differenza di tutte le altre cose esistenti, animate o inanimate, infatti ha la caratteristica peculiare di non coincidere mai con se stesso. E` sempre intenzione e progetto, e` sempre volto al futuro, e` sempre un aver da essere il proprio essere. L’Esserci dell’uomo e` cioe` sempre in un costante superamento di se´, volto alla realizzazione possibile del suo essere piu` proprio. Per cui l’Esserci, diversamente dagli altri enti, non e` mai una semplice presenza, coincidente con se´: e` invece una costante differenza rispetto a se stesso, in una vicinanza-lontananza rispetto al proprio essere che, per tale sua strutturale apertura e mancanza interiore, lo fa esistenza protesa verso il futuro, radicale intenzionalita` e trascendimento di se´. Il Da/sein e`

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insomma un Esser/ci in cui il qui dell’esistenza individuale e` sempre diviso, anche nell’etimo del suo nome, dal suo essere. E proprio per questo, essendo l’esistenza umana il luogo in cui costantemente si discute, si problematizza e si riflette sul proprio essere, essa e` il canale d’accesso privilegiato per comprendere la tematica ontologica e metafisica dell’Essere in generale. Ma vediamo cosa deriva da questo plesso di differenze che Heidegger chiama “differenza ontologica”, per il quale l’Esserci umano, non potendo mai afferrare completamente se stesso, e` differente del proprio Essere, ed e` nello stesso tempo, differente dall’esistenza di tutte le altre cose (meri enti) che non possiedono questa apertura dentro di se´. Quali conseguenze cioe` derivino dalla messa in campo, in filosofia, della “differenza ontologica”, e in particolare sia sul piano di cio` che tradizionalmente e` stato chiamato soggetto, sia sul piano di quello che tradizionalmente e` stato chiamato oggetto. Il fatto che una persona umana sia un Esser/ci, e dunque, come abbiamo visto, una costante apertura in se´ stesso, alla ricerca del proprio se´, implica che, per tale non coincidenza con se´, l’Esserci non possa avere di se´ stesso una percezione conoscitiva – un’autointuizione chiara e distinta, come accadeva con il cogito di Cartesio e l’Io penso di Kant –, bensı` non possa avere che un sentire, un sentimento, quella che Heidegger chiama la ‘‘situazione’’ o la ‘‘tonalita` emotiva’’ (Befindlichkeit): ossia un affetto, una spinta emozionale, sull’onda della quale l’essere umano, aperto in se stesso, apre progettualmente e intenzionalmente il mondo, dando cosı` senso alle cose del mondo, che ci si mostrano appunto come utilizzabili, come mezzi, impiegabili per i nostri scopi. E` nell’affetto, nell’emotivita`, dunque – e non nel logos, cioe` nel pensiero conoscitivo attraverso il discorso e la ragione – che giace il fondo del Dasein: in un’emotivita` che dirige il nostro modo di vedere il mondo, di utilizzarlo e di disporlo, di conoscerlo e di ordinarlo. E` nell’affetto, nella “cura” (Sorge), che giace la precomprensione, il nostro progetto di vita, prelogico e prerazionale, che dischiude e apre il senso del mondo, e che sta in relazione con le cose, a seconda della loro utilizzabilita`, impiegabilita` o dannosita` rispetto appunto al nostro progettare. Da questo punto di vista le cose non sono mai irrelate ed altre dalla nostra esistenza, non sono mai oggetto distinto e separato da un soggetto, perche´ esistono solo all’interno e per un progetto di realizzazione del Dasein. Laddove la conoscenza razionale, le scienze, che separano l’oggettivo dal soggettivo e che concepiscono un mondo esterno e indipendente dalla soggettivita`, sono solo un qualcosa di secondario, un’elaborazione derivata da tale modalita` primaria ed emozionale di dare senso e significato al mondo.

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Le cose e gli accadimenti del mondo non sono dunque per Heidegger mai delle “semplici presenze”, obiecta, visti, considerati e riflessi da un osservatore – da un occhio – ad essi esterno. Anche se questo modo di vedere il rapporto tra essere umano e mondo e` sempre stato quello dominante nel pensiero occidentale e nella storia della filosofia. Le cose sono invece in primo luogo degli strumenti-per, mezzi per un’azione: e lo strumento e` costituito non da una cosa che sta meramente lı`, che e` solo presente, ma da un complesso di relazioni, di rimandi; all’uso per cui e` utilizzabile, alle persone che se ne servono, al materiale di cui e` fatto. Il mondo non e` caratterizzato dall’oggettivita`, ma dalla “rimandativita`” dei suoi utilizzabili, di cui e` massima espressione il linguaggio, il quale e` l’utilizzabile per eccellenza ed e` composto da segni il cui uso e`, appunto, null’altro che quello di rinviare a significati. Solo che tale apertura progettuale del mondo da parte dell’Esserci, tale “essere-nel-mondo”, si da` per Heidegger generalmente e per lo piu` nel modo dell’inautenticita` , ossia secondo la partecipazione acritica ai valori e alle consuetudini di vita della comunita` e del gruppo umani in cui ci e` toccato di vivere. L’Esserci e` in primo luogo un esser-gettato in un determinato mondo storico-sociale, e in conseguenza di questa sua gettatezza interpreta e pensa il mondo secondo i valori dell’opinione comune, secondo l’anonimo “si” (si dice, si pensa, si fa) dell’uomo gruppale e collettivo. L’Esserci e` cioe` in generale e per lo piu` un uomo-massa che, consegnato ad un progetto e a delle finalita` che trova pre-date alla sua esistenza, vive in uno stato di allontanamento e di caduta del suo piu` vero ed autentico Se´; in una condizione, dominata dalla chiacchiera, dalla curiosita` superficiale, dalla moltiplicazione infinita dell’informazione. Condizione che Heidegger chiama di “deiezione” (Verfallen) o de-cadenza da se´ stesso, e dove “l’Esserci incontra se stesso piu` nella forma della fuga che in quella della ricerca”2. Per tradurre il Si nel Se´, per passare dall’inautenticita` all’autenticita`, nel senso di aprirsi a un poter-essere che sia autenticamente il proprio, e` necessario passare attraverso quell’esperienza fondamentale che per Heidegger e` l’‘‘essere-per-la-morte’’, ossia la decisione anticipatrice della propria morte. Coerentemente con la propria impostazione, anche la morte infatti non puo` essere considerata per Heidegger secondo la categoria della semplice presenza: come qualcosa cioe` che, stando alla fine della vita, non e` ancora presente. Non puo` essere spiegata secondo il celebre motto epicureo 2

M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, p. 173.

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IL DECISIONISMO AUTORITARIO DI MARTIN HEIDEGGER

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per il quale quando ci sono io non c’e` la morte e, viceversa, quando c’e` la morte non ci sono piu` io. La morte non e` la fine della vita, nel senso di cio` che sta al di fuori di essa. E` bensı` il vero fine della vita, costituendo la possibilita` piu` propria e inevadibile di ogni essere umano. Ed e` percio` un motivo e un pensiero che strutturalmente e dall’interno agisce nel determinare costantemente la nostra progettualita`. Ora decidere di non rimuovere la coscienza della morte, come invece fanno pressoche´ la totalita` di coloro che vivono nell’esteriorita` del “si”, bensı` scegliere di assumerla come esperienza profondamente significativa e motivante fin da ora – e dunque decidere di anticiparla, rispetto a uno spostamento-rimozione in un indeterminato futuro – significa allontanarsi dalla fissita` e dalla rigidita` dei legami che ci stringono al mondo delle cose, vederne la caducita` e l’irrilevanza di fronte alla possibilita` piu` inequivocabile e certa della nostra vita, e maturare una radicale liberta` nei confronti del mondo. Decidere di anticipare la morte significa relativizzare, ridurre a nulla tutti i progetti connessi all’essere-nel mondo e nello stesso tempo coincidere con la possibilita` piu` personale e propria e, solo attraverso questa appropriazione di se´, tornare a riaprirsi al mondo e scegliere, questa volta, i diversi progetti di vita ne´ come imposti dall’esterno ne´ vissuti come modelli impersonali e semplicemente presenti, bensı` come intensamente e autenticamente propri. Rispondere alla chiamata silenziosa e interiore della coscienza morale attraverso il sentimento di colpa di essersi abbandonati alla perdizione nel Si, saper vivere e reggere la situazione emotiva dell’angoscia e dello spaesamento di fronte al nulla del mondo, generata dall’anticipazione della morte e dall’essersi isolati dai progetti e dalle forme del vivere collettivo, esser capaci di vivere il proprio esser-stato-gettato nel mondo come radicale non-sentirsi-a-casa-propria, sono tutte situazioni emotive che il soggetto umano deve saper attraversare e sostenere affinche´ conquisti la liberta` dell’apertura e del poter-essere, impliciti originariamente nel suo Da/sein, nella sua vicinanza-lontananza dal suo piu` proprio Essere, e affinche´ la sua esistenza possa passare con cio` dall’inautenticita` all’autenticita`. E` un procedere, come si vede, assai volitivo e decisionista quello che Heidegger assegna alla sua filosofia dell’esistenza, secondo cui l’esserci umano conquista la sua piu` vera natura, solo isolandosi dal modo di vivere piu` diffuso e comune tra i piu` e facendosi in grado di anticipare l’esperienza della propria morte. Ne´ difetta di decisionismo Heidegger quando ribalta, con un forte effetto di stupefazione per il lettore, l’intera storia della filosofia occidentale e concepisce la verita`, nella connessione di Essere-Esserci-Ente, come struttura aletica. La verita`, infatti secondo il termine che la designa

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nel greco classico, e` aletheia (sostantivo composto dall’α privativa e dal verbo λανqÀνω, che significa nascondere): ossia la verita` e` cio` che si manifesta uscendo dal nascondimento, cio` che non e` nascosto. La verita` e` il manifestarsi dell’Essere, che dal fondo della sua profondita`, vive in un costante antagonismo tra manifestazione e nascondimento. E appunto nel nascondimento e nella rimozione della verita` ha vissuto l’intera tradizione filosofica occidentale, che, almeno da Platone in poi, ha preteso di denominare e definire che cosa sia l’Essere (chiamandolo ora idea, ora sostanza, ora Spirito Assoluto, ora cogito, ora Io penso): laddove l’Essere, per quanto abbiamo detto, e` cio` che, nella sua inafferrabilita`, sfugge ad ogni definizione. La filosofia occidentale – quella che Heidegger appella “metafisica” – ha voluto cioe`, definendolo, circoscrivendolo in limiti precisi, trattare l’Essere, come se fosse un ente, come se fosse una cosa, una semplice presenza: ha reso quindi superficiale il mondo, svuotandolo di senso e di profondita`. Tutta la storia della filosofia tradizionale, pressocche´ nella sua totalita`, sia quella classica che quella moderna, da Platone ad Aristotele, da Cartesio a Kant, da Hegel a Nietzsche, concependo la verita` come qualcosa di oggettivo, di preciso e ben definito, ha occultato la “differenza ontologica” ed ha assegnato il primato alla conoscenza scientifica ed oggettivante. E appunto percio` l’ontologia esistenziale di Heidegger si propone di ribaltare radicalmente, come il Dasein con la decisione anticipatrice del senso della morte, il senso della tradizione e della contemporaneita`, per dare luogo a una critica che, ripartendo dalla centralita` del problema dell’Essere, inauguri un nuovo corso dei valori culturali, dell’esistenza e della civilta`.

2. Il decisionismo nazionalsocialista Ma, oltre la filosofia propriamente detta, cio` che va spiegato, nella vita di Heidegger, e` la sua adesione al nazionalsocialismo, al nazismo di Hitler: la quale pubblicamente duro` pochi anni, ma che peraltro non fu mai criticata e rinnegata dal filosofo, neppure quando dopo la fine della seconda guerra mondiale fu destituito per qualche tempo dall’insegnamento ad opera di una commissione d’epurazione instaurata dalle forze alleate d’occupazione. Giacche´, a meno di non aderire alla tesi dell’errore – secondo cui il coinvolgimento, pure non superficiale, di Heiddeger con il nazismo non comprometterebbe la ricchezza teorica del suo pensiero – ci si deve domandare come sia stato possibile che un filosofo cosı` celebrato per la sua appassionata dedizione alla filosofia, per la sua smisurata conoscenza dei testi classici, per la sua rigorosa coerenza nel pensare e nel filosofare, sia

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IL DECISIONISMO AUTORITARIO DI MARTIN HEIDEGGER

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arrivato a scrivere, durante il suo periodo di rettorato (1933-34) presso l’Universita` di Friburgo che: “La rivoluzione nazionalsocialista arreca il completo rivolgimento della nostra esistenza tedesca [...] Il Fu¨hrer stesso e lui soltanto e` la realta` tedesca odierna e futura e la sua legge”3, o che: “La gioventu` accademica e` consapevole della grandezza dell’attimo storico che il popolo tedesco sta attraversando in queste settimane. Che cosa accade? Il popolo tedesco ritrova la via verso se´ stesso e trova la sua grande guida (Fu¨hrer). Sotto questa guida, il popolo che si e` ritrovato forgia il suo Stato”4. Il fatto e` che Heidegger ha visto nella cosiddetta rivoluzione nazionalsocialista, soprattutto in una prima fase, la realizzazione storica e politica piu` adeguata della sua rivoluzione filosofica. La societa` moderna, s’e` visto, e` per Heidegger un luogo massimo di decadenza e di nichilismo: riduce infatti l’Essere all’Ente, cioe` al Nulla, perche´ lo priva della sua profondita` e dispone cosı` il mondo solo all’invasione manipolatoria, saccheggiatrice e cieca della tecnica moderna. Riducendo la realta` solo a un deposito di cose messe a disposizione per una possibile utilizzazione – di oggetti per un soggetto – l’industria moderna trasforma e consuma la natura, facendo dell’Essere non il fondamento, senza fondo e inesauribile, del senso, ma un fondo (nel senso di deposito) permanente di sfruttamento e di esaltazione dell’onnipotenza dell’uomo. A tale decadenza della modernita` caratterizzata dall’enorme sviluppo della tecnica, non si oppone ne´ la rivoluzione comunista, volta con il suo “anti-spirito” a valorizzare, anch’essa, solo un’antropologia materialistica e dei bisogni legati all’accumulazione di cose, ne´, ormai piu`, lo “spirito morente del cristianesimo” (nel cui orizzonte e nelle cui istituzioni s’era formato il giovanissimo Heidegger), esaurito quanto a spinta rigeneratrice, perche´ anch’esso istituito, fin dalla scolastica e dalla grande sistemazione tomistica, sull’ontologia aristotelica e dunque sull’attitudine a rimuovere la vera questione dell’Essere. Visto che anche il cristianesimo ha concepito Dio come un ente (come il θ ε Þ̋ aristotelico), anche se un ente di massima esistenza e perfezione. Alla decadenza della modernita` si poteva opporre, per Heidegger, solo la missione storica di un popolo, come quello tedesco, che animato dal Fu¨hrerprinzip (dal principio della guida) si fosse fatto Fu¨hrer, guida d’Europa, attraverso una rivoluzione radicale dei valori e della civilta`, che 3 4

Cfr. V. Farias, Heidegger e il nazismo, Bollati Boringhieri, Torino 1988, pp. 121-122. Ivi, p. 137.

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attingesse la sua fonte rigeneratrice dalla decisione di riproporre come questione centrale dell’umano la Seinsfrage (la questione dell’Essere). Solo il popolo tedesco, che per la sua storia culturale, e` popolo per Heidegger per eccellenza filosofico, si poteva ricongiungere al grande inizio dell’Occidente, alla filosofia greca dei pensatori presocratici che pensarono originariamente il problema dell’Essere – prima della grande espansione del pensiero tecnico-matematico e oggettivante –, e, attraverso quel ritorno all’indietro, concepire la rottura di un nuovo inizio e di un nuovo futuro. Solo il popolo tedesco – e il cammino di marcia (l’Aufbruch) nazionalsocialista sembrava muoversi in quella direzione – poteva ritornare alla Grecia, e concepire il Geist (lo spirito), la vera conoscenza – a differenza di quella propria del nichilismo – come “l’interrogante star-saldi nel cuore della totalita` dell’essente che costantemente si cela”5. Ma affinche´ tutto cio` si potesse realizzare, affinche´ il nazionalsocialismo potesse essere in primo luogo una rivoluzione spirituale, era necessario riuscire ad esercitare su di esso un’egemonia culturale, filosofica: qual e` stato appunto per qualche anno il compito che Heidegger s’e` assegnato nel suo engangement filosoficopolitico. Riuscire cioe` a realizzare quella funzione direttiva, basileica (da β α σ ι λ ε à̋ = re) della filosofia, che Platone aveva provato per l’intera sua vita ad esercitare nei confronti della polis, in quella compenetrazione di filosofia e politica che costituisce il senso piu` continuo e profondo di tutta la sua opera6. Ed e` appunto dal fallimento di questo progetto, dal muoversi il nazismo di Hitler verso altre direzioni, che nasce verosimilmente quella che dallo stesso Heidegger e` stata definita la Kehre (“la svolta”), l’ultima fase del suo pensiero. Quando cioe` rispetto ad Essere e tempo e alle istanze fortemente volontaristiche e decisionistiche che intessono quell’opera, viene meno la centralita` del Dasein e della sua lotta tra autenticita` e inautenticita` – viene meno cioe` la decisione e la responsabilita` del singolo nel riformulare la realta` –, e la storia diventa invece direttamente storia dell’Essere, di un Essere che decide delle varie fasi della civilta` umana, dall’antico al moderno, a seconda dei gradi di occultamento o di manifestazione ed esplicitazione che assegna e concede a se´ stesso. L’Essere si dispiega nella sua essenza, ma anche si nasconde, e la storia e` ora essenzialmente storia degli

5

M. Heidegger, L’autoaffermazione dell’Universita` tedesca – Il rettorato 1933-34, «il melangolo», Genova, 1988, p. 21. 6 Cfr. su cio` F. Fistetti, Heidegger e la rivoluzione nazionalsocialista, in La Germania segreta di Heidegger, Dedalo, Bari 2001, pp. 23-104.

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IL DECISIONISMO AUTORITARIO DI MARTIN HEIDEGGER

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invii dell’Essere, che, dal fondo della sua distanza abissale e impenetrabile, da` senso alla storia degli esseri umani come “destino”, ora appropriante ora espropriante: ma appunto destino, imposto agli esseri umani da una decisione che, prima di essere del Dasein, e` ora del Sein. Come Heidegger ora scrive, in un testo decisivo degli anni 1934-1936, i Beitra¨ge zur Philosophie, l’Essere accade, e l’accadimento (Ereignis) e` il rapporto di apertura o di chiusura che l’Essere ha verso se stesso e all’interno del quale si colloca ora il senso e il progetto dell’esser-gettato dell’Esserci. Cosı` di fronte alle difficolta`, alle resistenze e alle opposizioni a una possibile direzione filosofica del nazionalsocialismo, di fronte alla constatazione della divergenza sempre piu` ampia tra la sua immagine di rivoluzione e la realta` concreta del regime, Heidegger, dopo le dimissioni dal rettorato, si persuade che “l’Anfang [l’inizio] greco non e` ripetibile o imitabile con una decisione volontaristica, ma esso e` il «dono piu` grande» che si rifiuta a qualsiasi impossessamento e manipolazione”7. La storia cioe` si fa ora escatologia, in un cammino di salvezza che deve essere garantito in primo luogo dall’Essere stesso, dal grado del suo disvelamento o dalla radicalita` del suo abbandono. E il pensiero che puo` avvicinarsi a tale profondita`, non puo` essere – ora ancor di piu` – quello del pensiero logico e identificante, del pensiero scientifico e calcolante, ma quello del pensiero rammemorante e poetico, dove e` la poesia a farsi, come si dice nella conferenza su Ho¨lderlin, “il fondo della storia”. Il linguaggio e` infatti qualcosa di cui noi disponiamo ma che in pari tempo dispone di noi, e in questo consegnarci alla storia e` la sede per eccellenza dell’accadere e del manifestarsi dell’Essere. Cosı` solo la poesia, che rifiuta il linguaggio quale somma di regole grammaticali, quale strumento della sola comunicazione umana e della sola denominazione degli enti, si fa in grado d’intendere il linguaggio come sede dell’accadere dell’Essere e come espressione delle sue innovazioni, aperture e creazioni. La rivoluzione nazionalsocialista, che Heidegger, come s’e` detto, anche in futuro non avrebbe mai pubblicamente ed esplicitamente rinnegato, si sarebbe potuta salvare – cosı` pensa lo Heidegger della meta` degli anni ’30 – solo, autovalorizzandosi e collocandosi all’interno di questa storia destinale dell’Essere. Ispirata e guidata, oltre che dai poeti, da quei “rari” che, ripercorrendo criticamente tutta la storia del pensiero strumentale-oggettivante (ossia la storia della metafisica), fossero capaci d’intendere quell’inizio grandioso dei presocratici, che, inascoltato, era rimasto solitario ed estraneo a tutta la cultura occidentale. 7

Ivi, p. 80.

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` DALLA COMUNE DI PARIGI ALLA SECONDA GUERRA MONDIALE FILOSOFIA E SOCIETA

Ma il nazismo non realizza l’auspicato rinnovamento morale e culturale del popolo tedesco, anzi la sua storia si fa sempre piu` pervasa dalla volonta` di potenza e dal nichilismo prodotti dalla tecnica moderna e dalla razionalita` calcolante, fino a quella metafisica onnipotente della soggettivita` centrata su se´ stessa, e del tutto dimentica dell’Essere, che giunge a identificare l’essenza di un popolo con la razza. Tanto piu` sacrale ed elitaria diviene percio` la filosofia di Heidegger, volta a rifugiarsi nel silenzio del pensiero originario e a identificare ormai, come Fu¨hrer del popolo tedesco, Ho¨lderlin, il grande poeta dell’Iperione e dei Grandi Inni, il grande poeta del “patrio” e del “nazionale”. Fino a giungere al crollo del nazismo e della Germania, ormai ridotta a un cumulo di macerie, di fronte alle quali questo filosofo, che per tutta la vita ha voluto rivoluzionare la filosofia e la civilta` moderna, muovendosi tra il Dasein e il Sein, ancora non si ferma a interrogarsi sulle possibili responsabilita` e colpe dei tedeschi nella tragedia della seconda guerra mondiale, esortandoli invece a riflettere sulla devastazione, quale evento, non della sola Germania, ma mondiale e che nasce da lontano: dalla desertificazione dell’uomo e del mondo che segue alla diffusione di valori come il progresso, il benessere materiale per tutti, la democrazia. E che soprattutto consegue da quell’oblio dell’Essere che giunge al suo acme con la filosofia dei vincitori e del loro progetto di futuro, quando prospettano, nella loro visione di civilta` fondata sulla tecnica e sul consumo, “uno standard di vita soddisfacente come il fine piu` alto del Dasein”.

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L’IDEOLOGIA DEI “NAZI”

Ma la compromissione della filosofia di Heidegger con la vicenda nazista per quello che s’e` detto fin qui non ha nulla a che fare con le teorie di intellettuali e ideologi che aderirono e s’identificarono completamente con il regime nazista, come A. Rosenberg, E. Krieck, E.Bauemler (ma non si dimentici lo stesso Hitler, autore del Mein Kampf), e che contribuirono alla configurazione di una vera e propria Weltanschauung nazionalsocialista. La collaborazione e l’adesione di Heidegger al nazionalsocialismo, per quanto complessa e problematica sia stata, ha avuto il suo motivo di fondo nell’illusione di una rivoluzione spirituale, nel convincimento che il nazionalsocialismo potesse accompagnare e condurre il popolo tedesco a coincidere con la sua piu` elevata missione culturale di civilizzazione e di fuoriuscita critica dalla modernita`. Non ha mai suffragato invece le tesi, piu` proprie dell’ideologia nazionalsocialista, basate sul biologismo della superiorita` della razza e su una identificazione geo-politico-spaziale del concetto di patria (la patria come suolo), da cui sarebbe derivata la teorizzazione e la politica espansionistica dello “spazio vitale” (Lebensraum). Anzi, come s’e` detto, fu proprio l’indirizzarsi in modo sempre piu` esplicito del regime in tal senso a motivare, verosimilmente, l’allontanamento e il riserbo del filosofo. Invece “sangue e terra” (Blut und Boden) sono le componenti fondamentali dell’ideologia nazionalsocialista: cioe` di quella retorica propagandistica, attraverso la quale il regime nazista fu regime reazionario di massa, che seppe offrire finalita` e orientamenti, per quanto sciagurati, al disorientamento delle masse tedesche, attirandone il consenso e l’entusiasmo, dopo la sconfitta della Grande Guerra, il fallimento della rivoluzione comunista in Germania nel 1918 e le fragilita` della Repubblica di Weimar. Carattere di massa del nazionalsocialismo, impersonificato per altro dallo stesso Hitler,

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quale semplice uomo comune e della strada che raggiunge il culmine del potere politico. Ai limiti, alle contraddizioni, alle debolezze della democrazia liberale e delle sue istituzioni rappresentative, il nazionalsocialismo risponde proponendo da un lato il primato organicistico e indifferenziato dell’immagine della “comunita` nazionale” e risolvendo, nello stesso tempo, il principio della nazione in quello della razza: per cui a concezioni dell’identita` nazionale costruite sull’appartenenza ad uno stesso linguaggio e a una stessa cultura si sostituisce il vincolo del sangue e di tutti i miti primigenei di fondazione che ne garantiscono e ne alimentano purezza e autenticita`. La storia del mondo e il suo divenire va interpretata, rifiutando ogni generico ed egualitaristico concetto di umanita`, in base al principio delle razze, della loro differenza, della loro purezza o mescolanza, della loro superiorita` o inferiorita`. Riallacciandosi all’opera del francese Joseph-Auguste de Gobineau (Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane [1853-1855]) e dell’inglese Houston Stewart Chamberlain, genero di Wagner (Fondamenti del diciannovesimo secolo [1899]), gli ideologi della rivoluzione nazionale e sociale in Germania, esaltano infatti il germanesimo, la valorizzazione di tutto cio` che e` germanico, e rifiutano il “caos etnico”, di cui e` espressione il Cristianesimo di Roma, con la sue idee astratte di eucumenismo e di fratellanza. E soprattutto, attraverso l’esaltazione della razza nordica rimasta incontaminata dalla decadenza etnica della latinita`, vedono negli ebrei, con la loro larga presenza nell’Europa orientale, il possibile pericolo di un inquinamento esiziale della razza ariana. Il pangermanesimo, l’esaltazione di tutto cio` che e` germanico, a cominciare dalla mitologia e dalle saghe fino a concludere al cristianesimo di un Cristo ariano e privo di ogni contaminazione giudaica, conduce cosı`, paradossalmente, al superamento della nazione e dei suoi confini, all’espansione del suo spazio vitale e alla distruzione dei confini delle altre nazioni: il tutto legittimato appunto dalla superiorita` etnica del popolo tedesco e dalla sua missione storica di farla valere, per il bene della civilta`, rispetto agli altri popoli, corrotti e inferiori proprio nella loro componente biologica e di sangue. In tale prospettiva, al carattere imperialista e razzista verso all’esterno (fino alla tragedia inaudita dell’Olocausto e alla “soluzione finale” adottata per il popolo ebraico), corrisponde all’interno, come principio costituzionale e statale fondamentale della nuova democrazia germanica, il principio, premoderno e feudale, della fedelta` al capo, dell’obbedienza all’uomo-guida, capace di esprimere al meglio nella sua persona le virtu` e la forza vitale del

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L’IDEOLOGIA DEI “NAZI”

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proprio popolo: cioe` quel Fu¨hrerprinzip, che, svolto e articolato nell’intero corpo della societa`, politica, amministrativa, militare e civile, traduce e risolve il quesito di fondo della democrazia e della storia moderna, in una struttura verticale della decisione e dell’obbedienza, riassumibile nel motto “autorita` di ogni capo verso il basso e responsabilita` verso l’alto”. L’ideologia nazista si presenta dunque, anche per il privilegio di relazioni istituite sul sentimento e sull’emotivita`, come una nuova religione, come una visione che costruisce il suo totalitarismo a muovere da una totalita` vivente razziale ed etnica. Con l’esito paradossale, va aggiunto, che tale sintesi di darwinismo biologico e di democrazia demagogica, in cui il popolo-razza tanto viene esaltato quanto invece e` fissato in una condizione di minorita` intellettuale e culturale e assegnato alla guida di un Fu¨hrer, non poteva poi che riempire le sue forme retoriche e celebrative degli interessi ben piu` concreti e sostanziali, parziali e certamente non organici e totalizzanti, portati avanti dell’alta borghesia industriale e finanziaria tedesca, che nella politica nazista di riarmo e d’espansione, cosi come nella disponibilita`, per un certo periodo, di mano d’opera a bassissimo costo (i prigionieri dei Lager) trovo` una fonte enorme d’accumulazione e d’espansione economica.

Bibliografia D.M. Fazio, Il caso Nietzsche. La cultura italiana di fronte a Nietzsche 1872-1940, Marzorati, Milano 1988. G. Campioni, Sulla strada di Nietzsche, ETS, Pisa 1992. G. Deleuze, Nietzsche, SE, Milano 1997. L. Andreas-Salome´, Vita di Nietzsche, Editori Riuniti, Roma 1998. D. Franck, Nietzsche e l’ombra di Dio, Lithos, Roma 2002. D. Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico, Bollati Boringhieri, Torino 2003. G. Cacciatore, Scienza e filosofia in Dilthey, Guida, Napoli 1976. F. Bianco, Introduzione a Dilthey, Laterza, Bari 1995. G. Cacciatore, G. Cantillo, G. Lissa (a cura di), Lo storicismo e la sua storia, Guerini e Associati, Milano 1997. S. Giammusso, La comprensione dell’umano. L’idea di un’ermenuetica antropologica dopo Dilthey, Rubbettino, Messina 2000. G. Gigliotti, Il neocriticismo tedesco, Loescher, Torino 1983. M. Ferrari, Introduzione al neocriticismo, Laterza, Roma-Bari 1997. G. Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi, Einaudi, Torino 2001.

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` DALLA COMUNE DI PARIGI ALLA SECONDA GUERRA MONDIALE FILOSOFIA E SOCIETA

J. Laplanche, J.-B. Pontalis, Enciclopedia della psicanalisi, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 1973. P. Gay, Freud. Una vita per i nostri tempi, Bompiani, Milano 1988. F. Napolitano, Lo specchio delle parole. Su alcuni princı`pi storici e filosofici di psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 2002. E. Cassirer, Sostanza e funzione. Sulla teoria della relativita` di Einstein, La Nuova Italia, Firenze 1973. S. Fever, Einstein e la sua generazione. Nascita e sviluppo di teorie scientifiche, Il Mulino, Bologna 1990 P.A. Rovatti, La posta in gioco. Heidegger, Husserl, il soggetto, Bompiani, Milano 1987. H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, Il Mulino, Bologna 1996. R. Cristin, Husserl-Heidegger: la fenomenologia in discussione, in Husserl-Heidegger, Fenomenologia, Unicopli, Milano, pp. 11-129. F.J. Wetz, Husserl, Il Mulino, Bologna 2003. K. Lo¨with, La mia vita in Germania, Il Saggiatore, Milano 1988. F. Volpi (a cura di), Heidegger, Laterza, Bari-Roma 1997. F. Fistetti, Hannah Arendt e Martin Heidegger, Editori Riuniti, Roma 1998. F. Fistetti, Heidegger e l’utopia della polis, Marietti, Genova 1999. C. Esposito, Heidegger. Storia e fenomenologia del possibile, Levante, Bari 2003.

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SEZIONE IV CENTO ANNI DI IDEOLOGIA ITALIANA

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di Marcello Montanari «E` questa l’ora antica torinese,/ E` questa l’ora vera di Torino...// L’ora ch’io dissi del Risorgimento,/ l’ora in cui penso a Massimo D’Azeglio/ adolescente, a I miei ricordi, e sento/ d’essere nato troppo tardi...» Guido Gozzano, da I Colloqui «Professore, esclamo` Nando a testa bassa, voi amate l’Italia?» (...) «No, dissi adagio —, non l’Italia. Gli italiani.» Cesare Pavese, La casa in collina

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DAI PROMESSI SPOSI A PINOCCHIO

1. Dall’Illuminismo al Romanticismo. Il Romanticismo come proseguimento della Rivoluzione in altra forma In una nota dei Quaderni del carcere Gramsci osserva che, sino al ’700, l’idea dell’Italia come Nazione e` una immagine retorica. Solo con la Rivoluzione 1 francese quella tradizione letterario-retorica diviene forza politica attuale . La Rivoluzione francese mostra come un popolo divenga Nazione. Essa disegna un nuovo mondo, segnato dagli ideali di liberta`, eguaglianza e fratellanza. Senonche´, tale nuovo mondo non riesce e non puo` imporsi nelle altre realta` nazionali senza mediarsi con le tradizioni culturali degli altri popoli. La Rivoluzione insegna che ogni popolo puo` decapitare il Re e farsi Sovrano, ma insegna anche che ogni popolo ha sue specifiche caratteristiche nazionali. Percio`, i princı`pi della Rivoluzione possono affermarsi solo attraverso una mediazione con le specifiche realta` nazionali. Da qui l’emergere, dopo l’esperienza rivoluzionaria e, soprattutto, dopo l’esperienza giacobina, di ideologie che non riconoscono solo la potenza della Ragione, ma intendono aderire alle pieghe delle tradizioni popolari e del sentire comune. L’Illuminismo era – come aveva mostrato Kant – l’“uscita dalla minorita`” del genere umano ed era l’affermarsi di una sua possibile perfettibilita` senza l’apporto di forze spirituali trascendenti. La sua religione era l’idea di un superamento delle scissioni, interne al genere umano, sulla base della sola ragione. Il Romanticismo fa notare che questa unificazione non puo` avvenire senza coinvolgere gli strati piu` profondi del sentire della persona e 1 Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, pp. 1965-1967.

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CENTO ANNI DI IDEOLOGIA ITALIANA

della societa` umana. Di contro alla linea iper-umanistica, che dal Rinascimento giunge all’illuminismo, il Romanticismo riconduce l’uomo alla sua finitezza e alla visione di una storia che trascende la potenza della soggettivita`. Riscopre il “limite” dell’agire umano e, soprattutto, ripropone l’immagine di una emancipazione umana che coinvolge non solo e´lites eroiche, ma l’intero popolo. In questo senso, esso non e` pura semplice negazione dell’illuminismo – come pure recenti interpretazioni tendono a far credere –2 ma e` il recupero, su un nuovo terreno, dell’idea di liberta` che l’illuminismo aveva espresso. E` attraverso il recupero degli ideali dell’illuminismo (uscita dalla minorita`, critica di ogni forma di autoritarismo politico e culturale) che esso feconda i moti rivoluzionari nazionali. Non si oppone all’illuminismo, ma ne riclassifica i princı`pi (le forme e i valori). Se, infatti, la Rivoluzione era stata razionalista e giacobina e cio` aveva prodotto il suo approdo al Terrore, ora occorreva conservarne i princı`pi, ma, nello stesso tempo, temperarli nel contatto con il senso comune, con la tradizione e le abitudini di plebi poco disposte a inseguire il sogno di societa` armoniche e perfette, che le e´lites intellettuali giacobine avevano sognato. Il Romanticismo vuole unire Ragione e sensi, intellettuali e popolo. E, se cio` comporta il pagare dei prezzi alla Tradizione, la contropartita sta nell’assicurarsi la durata nel tempo dei risultati ottenuti. In un magistrale saggio su Il gusto negativo del tempo Enrico De Negri3 ha mostrato come e in che misura la cultura romantica sia legata a quella illuministica. Se gli intellettuali romantici mostrano di disinteressarsi della realta` politica e tendono a chiudersi in se´, cio` deriva non dall’assenza di motivazioni ideali, ma dal fatto che le loro aspirazioni politiche sono andate deluse. Si sentono ingannati e proiettano in una dimensione metafisica e fiabesca l’immagine di una comunita` politica fondata sull’eguaglianza e sulla liberta`. Percio`, la fiaba e` un elemento centrale del romanticismo. Non solo quelle dei fratelli Grimm e di Andersen, ma – come vedremo – anche I promessi sposi sono una fiaba, che ci narra come nel mondo storico non vi possa essere giustizia. Giustizia vi puo` essere solo nelle fiabe. Attraverso la fiaba, l’idea della “societa` giusta” viene trasferita su un piano discorsivo altro, metafisico e/o utopico, dal momento che quello storico e`, ormai, precluso. E` in questa prospettiva che matura il “gusto negativo del tempo”, ovvero: il superamento della dimensione spazio2

Cfr. Im Hof, L’Europa dell’Illuminismo, Laterza, Bari 1999, p. 276 e segg. E. De Negri. Il gusto negativo del tempo e la “Gegenwart” romantica (1941), in Id., Tra filosofia e letteratura, Morano, Napoli 1983, pp. 53-101. 3

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DAI PROMESSI SPOSI A PINOCCHIO

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temporale delle cose e degli uomini. Nella dimensione fiabesca coesistono tempi-spazi diversi. Nella fiaba o, meglio, nell’arte pensata come forma eterna dello spirito il tempo e lo spazio sono tolti. La kantiana Critica della ragion pura legava gli uomini al loro esserci, al loro essere presenti nello spazio e nel tempo. Nella visione romantica dell’arte tale presenzialita` e` tolta dall’immagine della Notte4. Al centro della concezione romantica v’e`, dunque, l’immagine di un “mondo altro” in cui i princı`pi dell’illuminismo possano “realizzarsi” senza dar luogo al Terrore. La cultura romantica nasce dalla sconfitta della cultura illuministica ad opera del Terrore. Il suo problema e` come salvare i princı`pi dell’‘89 senza incorrere in una nuova sconfitta e ritiene di poterlo fare proiettandoli in una dimensione fiabesca e/o metafisica. In cio`, il Romanticismo non e` reazionario, e` anti-politico. Esso propone la negazione (fiabesca) dello spazio-tempo come negazione di quella ragion politica illuministica che ha prodotto il Terrore. Tale negazione e` pensata come l’unica via possibile per conservare la liberta` e lo spirito critico (l’osare pensare e l’osare dire) che lo stesso Illuminismo aveva affermati. Cio` che resta delle luminose giornate rivoluzionarie e` l’idea di una ulteriorita` metafisica della liberta`: una immagine della vita liberata dallo spazio e dal tempo.

2. Letteratura e politica. Foscolo, Manzoni, Leopardi 2.1. Il neo-stoicismo di Foscolo Mutare la realta`, evitando il modello giacobino di rivoluzione o, meglio, superare le illusioni-delusioni della Rivoluzione, salvandone i princı`pi. E` questo il tema al centro delle Ultime lettere di Jacopo Ortis (1802) del Foscolo*. Quest’opera e`, innanzitutto, la testimonianza di uno “scacco del fare”. La chiusura in se stesso di Jacopo e il suo palese approdo ad una 4 Basti, qui, ricordare alcuni versi degli Inni alla notte del Novalis: “Fu misurato/ alla luce il tempo del giorno/ ma senza tempo ne´ spazio e` il regno/della notte”. [Cito gli Inni alla notte nell’edizione a cura di A. Hermet, R. Carabba, Lanciano s. d.]. *Ugo Foscolo (Zante 1778-Turnham Green, Londra, 1827), trasferitosi a Venezia nel 1792, partecipo` alle lotta per l’indipendenza. Dopo il trattato di Campoformio (1797) si trasferı` a Milano. Caduto il Regno italico si rifugio` prima in Svizzera e poi in Inghilterra. Le sue opere principali sono: I Sepolcri (1807) e Le Grazie (pubblicate postume nel 1848). Notevole anche la sua attivita` di critico letterario.

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CENTO ANNI DI IDEOLOGIA ITALIANA

filosofia neo-stoica, chiaramente esibita nelle pagine finali del romanzo5, segnalano la crisi del modello giacobino di politica. Il neo-stoicismo di Foscolo scaturisce dall’impossibilita` di agire, dallo scacco che la prassi subisce. E` questo scacco che conduce Ortis-Foscolo a maturare un atteggiamento di indifferenza verso il mondo, ad una a-patia. E` tale indifferenza che porta Jacopo al suicidio. Ma, da dove nasce questo neo-stoicismo foscoliano? Va, innanzitutto, detto che con l’Ortis Foscolo registra la fine di una “avventura” politica caratterizzata dalla illusione che i princı`pi della Rivoluzione francese potessero tranquillamente generalizzarsi. Con le vicende napoleoniche si assiste al riaffermarsi della politica-potenza; al restringersi dell’idea di liberta` alla “liberta` assoluta”6 di e´lites che si separano dal senso comune delle genti. L’analisi di questi processi era stata svolta da Vincenzo Cuoco* nel Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 17997. E, in verita`, non solo di Napoli aveva discusso il Cuoco, ma dei limiti della visione giacobina della politica. In quel Saggio il Cuoco aveva denunciato la mancata saldatura tra giacobinismo e popolo, tra sapienti e umili, tra “ragione” e “senso” e aveva riaffermato l’idea vichiana secondo cui le Nazioni si costituiscono “per sensi”; ovvero: attraverso l’agire di un popolo che da` forma giuridica e politica al suo “sentire”. In questo scritto del Cuoco e`, forse, da rintracciare la principale matrice ideologica del romanticismo italiano. Certo e` che i motivi vichiani presenti nel Cuoco costituiscono elementi centrali della riflessione foscoliana sui limiti del giacobinismo e sullo scacco della politica e della ragione illuministica. La stessa idea della Patria come il luogo in cui sono sepolti i nostri antenati, che caratterizza I Sepolcri, ha una chiara ascendenza vichiana. Ma, al di la` della biografia intellettuale del Foscolo, vi sono processi strutturali, profondi e di “lunga durata”, che motivano l’abbandono dell’impegno etico-politico e il trincerarsi degli intellettuali nell’indifferenza verso

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Cfr. Ultime lettere di Jacopo Ortis, con introduzione di D. Starnone e a cura di P. Frare, Feltrinelli, Milano 1994, p. 187. 6 Utilizzo il concetto di “liberta` assoluta” secondo il significato attribuitogli da Hegel, nella Fenomenologia dello Spirito (tr. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1967, vol. II, pp. 124-135). * Vincenzo Cuoco (Civitacampomarano, Campobasso, 1770-Napoli 1823) partecipo` alla rivoluzione napoletana del 1799. Condannato a vent’anni di esilio, ritornera` a Napoli nel 1806, dopo la nomina di Giuseppe Bonaparte a re delle Due Sicilie. Oltre al Saggio storico (1801), e` autore di un “romanzo filosofico”: Platone in Italia (1804-1806) 7 Cfr. edizione a cura e con introduzione di P. Villani, Laterza, Bari 1980.

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DAI PROMESSI SPOSI A PINOCCHIO

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la realta` storica. Non e` un caso che il dandy sia la figura piu` rappresentativa di questa fase. In tale figura, per la prima volta, si esprime la convinzione che l’arte possa definire uno “stile di vita”. Il dandy vuole trasformare la propria vita in un’ “opera d’arte” e divenire il modello che orienta gli atteggiamenti culturali e i comportamenti di ampi strati della popolazione. Vuole dettare la moda e per raggiungere tale obiettivo, ha bisogno non solo di consumi assai raffinati, ma soprattutto di raggiungere un controllo assoluto delle proprie passioni e un completo distacco dal mondo. Lo stoicismo, percio`, e` la filosofia propria del dandy. Lo stoicismo caratterizza lo “spirito del tempo”8. V’e`, qui, il verificarsi di una prima scissione tra la sfera della produzione e la sfera del consumo, tra l’etica puritana del lavoro e lo spirito del capitalismo; ma e`, soprattutto, evidenziato il processo di “raffreddamento” delle passioni e il loro trasformarsi in interessi9. Si passa, cosı`, dalle passioni rivoluzionarie all’indifferenza e al rifiuto della politica; dall’etica puritana, che nel lavoro vedeva la possibilita` di un’ascesi intramondana, al primato del consumo come unica via per la felicita`. Il dandy disegna un modello di vita che propone un’etica del consumo: il controllo delle passioni e l’eleganza come indifferenza verso il mondo; come modo di essere e di comportarsi. Da ora in poi, “avere stile” significhera` essere in-differenti e “algidi”. In questo senso, il passaggio dall’illuminismo al romanticismo si configura come il passaggio dalla freddezza della Ragione al “calore” della passione che – con indifferenza – consuma qualsiasi cosa. Non v’e` cura o amore per la “cosa” consumata, ma solo la disincantata “passione” del consumare. E` la nuova societa` industriale ad esigere il dandysmo e il neo-stoicismo, uno stile di vita che e` dominio delle passioni (a-patia). Dominio di se´, che giunge sino all’in-differenza e al suicidio, come accade a Jacopo Ortis. Jacopo si suicida, perche´ e` finito il tempo della passione 8 Su questi temi cfr. C. Campbell, L’etica romantica e lo spirito del consumismo moderno, tr. it. di M. Merella, Edizioni Lavoro, Roma 1992, nonche´ il classico studio di W. Sombart, Lusso e capitalismo, ed. it. a cura di M. Protti, Unicopli, Milano 1988. Di grande utilita` risultano i testi raccolti da C. Borghero nel volume: La polemica sul lusso nel Settecento francese, Einaudi, Torino 1974. 9 Sull’etica protestante cfr. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, tr. it. di P. Burresi, Sansoni, Firenze 1977, e E. Troeltsch, Il protestantesimo nella formazione del mondo moderno, tr. it. di G. Sanna, La Nuova Italia, Firenze 1974 Sul rapporto passioni-interessi cfr. A. O. Hirschman, Le passioni e gli interessi, tr. it. di S. Gorresio, Feltrinelli, Milano 1979. Sul rapporto tra lavoro e autorealizzazione cfr. F. Neumann, Angoscia e politica, in Id., Lo Stato democratico e lo Stato autoritario, tr. it. di G. Sivini, il Mulino, Bologna 1973, pp. 113-147, e H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, tr. it. di L. Gallino e T. Giani Gallino, Einaudi, Torino 1967, in particolare il cap. I.

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CENTO ANNI DI IDEOLOGIA ITALIANA

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etico-politica; perche´ il suo “fare” ha subito uno scacco. Si suicida, perche´ la vita sentimentale e il mondo storico gli sono divenuti in-differenti. Tutto si e` consumato. Foscolo, dunque, segna il passaggio dall’impegno etico-politico allo stoicismo. Consumate le illusioni rivoluzionarie; perdute le speranze nella realizzazione di una Patria pensata come luogo della giustizia e della liberta`, non resta che l’arte come strumento di sublimazione per vincere il Tempo o, meglio, per togliere lo spazio-tempo (= la finitezza della vita). L’arte, in quanto forma “chiusa in se´” ed eterna, e` l’unica via per la realizzazione dell’Assoluto nella Storia. Inizia qui l’idea di una estetizzazione della vita e della politica.

2.2. Il progetto neo-guelfo del Manzoni Entro questa crescente sfiducia nelle capacita` della politica di creare una comunita` di uomini liberi e eguali si dispiega l’anti-politica del Manzoni*. La conversione del Manzoni; il suo rifugiarsi nella religione nasce dall’aver registrato l’insufficienza della ragione illuministica; l’insufficienza di una Ragione che non sa (o non vuole) mediarsi con il “mondo dei sensi”. La prima chiara rappresentazione dell’anti-politica di Manzoni, la ritroviamo nell’Adelchi. Adelchi, morente, denuncia la Forza che domina il mondo e che “fa nomarsi diritto”. Egli consola il padre, perche´ non e` piu` re e, quindi, gli e` preclusa la possibilita` dell’agire, dell’ “opera”. Agire significa, infatti, esercitare violenza sugli uomini e sulle cose. Adelchi denuncia, per questa via, l’idea secondo cui la salvezza e` nell’opera. L’opera non da` ne´ la felicita` ne´ la gloria. La felicita` e` solo ultra-terrena10.

* Alessandro Manzoni (Milano 1785-1873), dopo il soggiorno parigino (1805-1810), dove ebbe contatti con l’ambiente degli ide´ologues, si convertı` al cattolicesimo. Prime testimonianze di tale conversione sono gli Inni sacri e le Osservazioni sulla morale cattolica (1819). Prima di dedicarsi ai Promessi sposi (1827 e 1840) compose due tragedie: Il conte di Carmagnola (1820) e Adelchi (1822), nonche´ diverse odi, tra cui Cinque Marzo, dettato da riflessioni sulla morte di Napoleone. Tra i suoi scritti di teoria letteraria vi sono la Lettera sul romanticismo (1823) e Del romanzo storico (terminato nel 1831). Tra le opere storiografiche, oltre alla Storia della colonna infame (1842) sono da ricordare il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia (1822) e La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859 (quest’ultima opera, rimasta incompiuta, fu edita per la prima volta da R. Bonghi nel 1889). 10 Cfr. A. Manzoni, Adelchi, Bur, Milano 1999, atto V, scena VIII, vv. 338-364 p. 107.

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Per Manzoni la politica si riduce alla ragion di Stato11. Essa non salva e non ha tra i suoi fini la realizzazione della giustizia. Questa critica della forma politica “illuministica”, realizzatasi nel giacobinismo, rinvia ad una Verita` trascendente, a una finalita` ultra-storica. Su questa terra non v’e` d’aspettarsi alcun bene, perche´ il male e` nell’operare stesso degli uomini. Non resta che abbandonarsi a Dio e in questo abbandono quietare ogni sofferenza. Ma, qui e` il punto: Manzoni non si quieta e continua ad interrogarsi sul perche´ la Verita` e la Giustizia non abitino il mondo; sul perche´ il male e la sofferenza siano nel mondo. Per rispondere a questi interrogativi scrive una fiaba, il cui obiettivo e` mostrare come possa accadere che “vi sia giustizia nel mondo” e come sia possibile che, attraverso la fede religiosa, un “popolo disperso” possa farsi nazione. V’e` qui l’idea che il romanzo storico possa coniugare fiaba e realta`, arte e storia, ma v’e`, soprattutto, il disegno neo-guelfo del Manzoni12. La via che Manzoni percorre per giungere al romanzo e` assai complessa13. Ed assai complessa e` la struttura del romanzo. I Promessi Sposi non sono la storia di due fidanzati, ma – come ha osservato Giovanni Macchia – sono la storia di “rapporti di forza”. Rapporti tra le forze oscure del male e quelle limpide del bene ed e` nella prospettiva di questo scontro aspro e mortale che il romanzo si presenta come un “romanzo nero”, anzi: un “romanzo di morte”. Ed e` attraverso lo scontro tra le figure “oscure” (don Rodrigo, l’Innominato, Gertrude) e le figure “chiare” (Lucia, il cardinale Federigo, Padre Cristoforo) che si dipanano le vicende drammatiche della storia dei singoli personaggi e della vita collettiva. La storia che la Provvidenza dovrebbe governare. Ma, in quale forma si presenta la Storia entro cui la Provvidenza deve realizzarsi? Essa e` nella calata dei Lanzichenecchi; e` nella narrazione della peste, ma, soprattutto, e` nella vita e nella coscienza dei singoli individui. La 11

Assai significativo e` il giudizio che nei Promessi sposi Manzoni fa pronunciare a don Ferrante sui teorici della “ragion di Stato”. Giudizio su cui il Manzoni celia, ma, in verita`, non respinge (cfr. I Promessi sposi, a cura di S. S. Nigro, Mondadori, Milano 2002, vol. II, t. 2˚, pp. 523-524). 12 Sui Promessi sposi come fiaba cfr. A. Leone de Castris, L’impegno del Manzoni, Sansoni, Firenze 1978, in particolare le pp. 233-242. Sull’anti-politica del Manzoni utili considerazioni sono svolte da L. Salvatorelli in Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, Einaudi, Torino 1975, pp. 163-176. Da vedere anche: L. Caretti, Manzoni. Ideologia e stile, Einaudi, Torino 1974. 13 Su questo tema cfr. G. Macchia, Manzoni e la via del romanzo, Adelphi. Milano 1994. Per Giovanni Macchia “Fermo e Lucia e` il romanzo nero del Manzoni” (p. 78) e I promessi sposi sono “un romanzo di morte” (p. 56).

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storia agguanta anche don Abbondio, che aveva interposto mille difese tra se´ e il mondo. I Lanzi scovano tutto cio` che egli ha nascosto. La storia sconvolge, soprattutto, la vita degli umili, di coloro che non possono ne´ comprendere ne´ indirizzare le “ragioni dello Stato”. Sono i potenti a decidere la vita e la morte degli umili. La storia colpisce i deboli e dissolve un popolo “che nome non ha”. Ecco perche´ le pagine piu` belle del romanzo sono la` dove Manzoni narra il passaggio dei Lanzichenecchi.14. Sono pagine spesso ignorate, ma e` in queste pagine che si coglie la dimensione tragica, “nera”, del racconto: la Storia travolge e spezza la vita degli individui, giungendo persino a gettare il germe della peste. La peste non e` un evento naturale, ma e` un evento prodotto dalle decisioni della politica; di quella politica di potenza che ha portato i Lanzichenecchi in Lombardia e che non ha cura della vita degli individui, ma li assoggetta e atterra. Ed e` qui che le sofferenze umane appaiono ingiustificate, perche´, se e` vero che la peste colpisce anche i don Rodrigo, sono soprattutto gli umili a subire le conseguenze delle scelte politiche. Ed ecco lo splendido e terribile episodio della madre di Cecilia. E` la sofferenza di chi non sa; di chi neppure sospetta che vi siano “ragioni di Stato” a dettare i tempi e i modi di sentire e di vivere la vita, anche nei suoi momenti piu` intimi. E` la sofferenza di chi deve sopportare gli effetti “imprevisti” che l’opera, l’agire politico delle e´lites produce. E` di fronte a questa “sofferenza inutile” (quale responsabilita` o peccato puo` essere imputato a Cecilia?) che la presenza del male nel mondo risulta incomprensibile. Incomprensibile il dominio che la Forza riesce a realizzare sulla vita degli individui. E` questa “terribile Forza” che distrugge le vite umane. Mentre gli untorelli a` la Renzo hanno vita assai grama. Non saranno certo loro a spiantare Milano (o a mutare le regole del mondo)! Non l’opera, non la politica puo` salvare gli uomini, ma solo la Provvidenza. Gli uomini non sono in grado di creare una societa` piu` giusta e libera. Qui e` il pessimismo manzoniano. Qui e` il suo anti-pelagianesimo: la salvezza non puo` essere opera degli uomini. Anche nella costruzione di una nazione e` necessaria la Provvidenza, la presenza di una fede religiosa. Solo la fede cattolica (incardinata nella Tradizione e nel senso comune del popolo italiano) puo` fare dell’Italia una Nazione. L’Italia sara` Nazione, solo quando porra` la sua tradizione cattolica al centro del proprio processo costitutivo. Percio`, si puo` dire che la conversione del Manzoni “venne quando egli vide l’insufficienza di questa sapienza che si ritira in se´ stessa. Si 14

Cfr. I Promessi sposi, ed. cit., capp. XXVIII-XXX.

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convertı` perche´ s’accorse che la religione e` qualche cosa che va oltre i limiti dell’individuo, perche´ riconobbe che nessuno ha il diritto di disinteressarsi di cio` che crede il volgo”15. Manzoni si rivolge al cattolicesimo, perche´ e` la religione che sa interpretare i sentimenti del “volgo”. Egli ha appreso dal Cuoco che il primo problema della “rivoluzione italiana” e` riuscire a mediare umili e sapienti. Percio`, e` convinto che, per costruire la nazione italiana, occorra riclassificare il tradizionale senso comune cattolico in una prospettiva nazionale. Dopo aver chiuso il romanzo, Manzoni aggiunge un’appendice: la Storia della colonna infame. Con quest’opera il tema della presenza del male nel mondo ritorna con forza. E con questo drammatico ritorno alla realta` di un mondo privo di giustizia, il progetto politico-morale del romanzo esibisce il suo fallimento. Come ha osservato Ezio Raimondi, nella narrazione della vicenda giudiziaria Manzoni coglie una “ferita del passato”. Una ferita nella costituzione del mondo moderno che puo` segnare anche la formazione della nuova Italia16. In quella “ferita del passato” Manzoni coglie l’instaurarsi – alle origini stesse della modernita` – di una scissione tra umili e potenti, tra dirigenti e diretti. Il problema che egli affronta e`, infatti, mostrare come – al di la` dell’oscurantismo giuridico e delle cattive leggi – vi sia un difetto nella sensibilita` etica e giuridica dei giudici. Essi non mancano di capacita` giuridiche, ma sono chiusi nell’arroganza del sapere. Manca loro la pietas cattolica. E` questo un limite che mina interiormente la costituzione del mondo moderno e lo attraversa come un fiume sotterraneo. Questo fiume puo` riaffiorare nella costruzione della nazione italiana. La ricostruzione di quelle vicende serve, allora, a Manzoni per ricordare questi limiti strutturali della modernita` e per rivolgere un monito alle future classi dirigenti italiane: se intendono mantenere unita e compatta la futura nazione, esse devono essere nutrite della pietas dei Federigo e dei Cristoforo. Esse hanno un’unica via per evitare l’arroganza della sapienza e gli orrori dei tribunali seicenteschi (o del Terrore), devono formarsi nello spirito del cattolicesimo. Solo la pietas cattolica puo` legittimare la nuova classe dirigente e dislocarla in un rapporto organico con la tradizione e il sentimento popolare17. 15

A. Zottoli, Umili e potenti nella poetica del Manzoni, Tumminelli, Roma 1942, p. 275. Cfr. E. Raimondi, La ferita del passato, in Id., Letteratura e identita` nazionale, Bruno Mondadori, Milano 1998, pp. 67-123. 17 Su tutto cio` si vedano le critiche, che nelle Osservazioni sulla morale cattolica, il Manzoni rivolge al Sismondi, che nella Storia delle repubbliche italiane del Medioevo (1807-1818) aveva attribuito al cattolicesimo la responsabilita` della miseria civile italiana. Su questi temi cfr. U. 16

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2.3. Il problema Leopardi L’attenzione per i destini di un “popolo disperso” risulta essere assai piu` appassionata nell’autore dei Promessi sposi che non nell’autore di versi che cantano la volonta` di lottare per la liberazione dell’Italia (“a me l’armi, sol io combatterro`...”). Le cosiddette canzoni patriottiche del Leopardi*, se testimoniano una fase di attenzione ai “temi civili”, tuttavia non fuoriescono dalla dimensione retorico-letteraria dell’idea di nazione. Domina in quelle canzoni la memoria di un passato imperiale, di un primato politico e culturale dell’Italia che il poeta recanatese vorrebbe vedere rivivere. Ma, al di la` di questa immagine letteraria, non si intravede in esse alcun progetto culturale per la nazione che occorre costruire. Ben diversa, invece, la struttura del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani e degli ultimi canti, dove l’indagine della realta` italiana e la critica della “magnifiche sorti e progressive” segnano, per vie diverse, l’attestarsi su una linea di rifiuto della politica e una denuncia dell’impotenza dell’opera umana. Certo, a differenza di Manzoni, Leopardi lascia emergere la speranza di un futuro diverso. Ed e` qui il suo “ottimismo”: credere che la solidarieta` umana possa fare aggio sulla “natura matrigna”18. Tuttavia, occorre evitare, per Leopardi, un approccio eccessivamente definitorio. Le letture di un “Leopardi progressivo”, assai feconde e utili nel liberarci da quelle crociane, sono apparse, nel tempo, unilaterali e, piu` recentemente, hanno avuto facile giuoco quelle letture nichilistiche che hanno mostrato come la critica leopardiana del “secol superbo e sciocco” non approdi necessariamente ad una ideologia progressista, ma esibisca, invece, la convinzione di uno scacco della modernita`. Occorre, forse, ripartire da quell’immagine “ambivalente” che del Leopardi disegno` Francesco De Sanctis: “Leopardi produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non Dotti, Storia degli intellettuali in Italia, vol. III, Editori Riuniti, Roma 1999, pp. 93-99. Sul Manzoni storico si veda: M. Sansone, Storiografia manzoniana, Adriatica editrice, Bari 1967. * Giacomo Leopardi (Recanati 1798-Napoli 1837). Lasciata Recanati nel 1822, fu a Milano e a Bologna e, successivamente, a Firenze, dove ebbe contatti con il gruppo di intellettuali che redigeva l’Antologia. Il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, scritto nel 1824, e` stato pubblicato per la prima volta nel 1906. Del 1824 sono anche le Operette morali. Del 1831 e` la prima edizione dei Canti. L’edizione completa dei Canti, curata dal Ranieri, apparve nel 1845, presso il Le Monnier. Altre opere: lo Zibaldone (1817-1832), i Pensieri (la cui stesura inizia nel 1832). 18 Cfr. L. Salvatorelli, Il pensiero politico italiano ecc., cit., p. 195; nonche´: B. Biral, La posizione storica di Giacomo Leopardi, Einaudi, Torino 1997, in particolare il capitolo che da` il titolo al volume (pp. 98-132) e il capitolo su: “Materialismo e progressismo” (pp. 155-171).

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crede al progresso e te lo fa desiderare; non crede alla liberta` e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtu` e te ne accende in petto un desiderio inesausto. [...] E se il destino gli avesse prolungata la vita infino al quarantotto, senti che te l’avresti trovato accanto, confortatore e combattitore”19. Dove si forma questa “ambivalenza” della poetica leopardiana? Leopardi riprende dall’illuminismo il tema del diritto degli uomini alla felicita`; della lotta alle sofferenze umane. Al contrario del Manzoni, ritiene che la responsabilita` del male nel mondo non sia dell’uomo, ma della “natura matrigna”. Lo schema teorico leopardiano e` il seguente: la natura rende gli uomini infelici ed e` responsabile della presenza del male nel mondo. Nella Ginestra e`, soprattutto, il potere distruttivo della natura ad essere posto sotto accusa20. Tuttavia, la fratellanza umana puo` rovesciare questa condizione umana e riportarla al “civile conversare”. Nel Discorso Leopardi mostra di aver fiducia nel modello di societa` formatosi nell’Europa settentrionale, dove la formazione di una “societa` stretta”, costituita dai salotti e da una intensa vita pubblica, favorisce il formarsi di un’etica civile, di un forte senso civico e consente il controllo dei comportamenti sociali e il costituirsi di solidi legami. A Leopardi non sfugge che quella “societa` stretta” e` il prodotto dell’illuminismo e della Rivoluzione francese. Sono questi due momenti storici ad aver segnato la fine della societa` tradizionale ed aver prodotto una modernizzazione della societa` europea. Se i legami tradizionali si sono spezzati, si e`, pero`, formato un nuovo sistema di interdipendenza tra gli individui. Nella realta` italiana, invece, manca tale “societa` stretta”. Manca, percio`, un sistema articolato di legami e di relazioni sociali: ogni individuo e` ripiegato su se stesso; chiuso nel proprio “particulare”. Non vi sono legami, ma solo cinismo e in-differenza. Manca la solidarieta`. Il processo di modernizzazione che ha coinvolto le societa` settentrionali, in Italia, si e` limitato a distruggere le vecchie forme di vita, ma non e` riuscito a costruire un nuovo sistema di relazioni.21. Nel Discorso la fiducia leopardiana nell’idea che la fratellanza umana e il “civil conversar” possano donare agli uomini quella felicita`, negata dalla 19

F. De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi (1858), in Id., Saggi critici, a cura di L. Russo, Laterza, Bari 1979, vol. II, pp. 184-185. 20 Si leggano in particolare i vv. 111-125 e 145-157. Tra i molteplici commenti ai Canti leopardiani e` da ricordare quello di M. Fubini, rifatto con la collaborazione di E. Bigi (Loescher, Torino 1964). 21 Cfr. G. Leopardi, Discorso sopra lo statopresente dei costumi degl’italiani, con introduzione di S. Veca e a cura M. Moncagatta, Feltrinelli, Milano 1991, pp. 67-75.

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“natura matrigna”, sembra intatta. Tuttavia, quell’immagine della “societa` stretta” e del “civil conversare” e` costruita su una visione signorile del nesso ragione-natura22. Ed e` qui che emerge l’“ambivalenza” di Leopardi. Egli vuole una societa` “ben ordinata”, felicemente costruita sulla solidarieta` tra gli uomini, ma ritiene che sia possibile costruire questa nuova forma di societa` sviluppando una critica del “secol superbo e sciocco”. Vuole la fratellanza e la “societa` stretta”, ma non vuole la modernita` che, pure, costituisce il presupposto di quella “societa` stretta”. Vuole la felicita` degli uomini, ma non crede che gli uomini siano “perfettibili” e che la civilta` moderna possa riformare la loro “natura”. Ecco, allora, che negli ultimi Canti Leopardi si mostra convinto del fatto che la via intrapresa dal mondo moderno non sia quella del “civil conversar”, ma di un progressismo che vanifica ogni speranza di vita felice. Da qui il rimpianto per un’altra vita ormai irrimediabilmente perduta. Certo. Leopardi non rimpiange la Tradizione. Ma rimpiange una forma di vita che, attraverso la poesia, egli ha immaginato come una realta` pienamente conciliata nei rapporti tra gli uomini e tra l’uomo e la natura. La moderna societa` industriale ha reso impraticabile questa forma di vita. Qualcosa si e` spezzato nell’antica “alleanza” tra uomo e natura. Si e` frantumata la stessa immagine sacrale del mondo e diviene difficile (se non impossibile) ritrovare il fondamento, il senso e la ragione che tiene insieme le cose e le vite umane. Percio`, egli vede un “andare a fondo” della societa`, uno scacco della modernita` che non ha saputo affermare il “civil conversare” e ha lasciato che i legami sociali si sfarinassero; che si affermasse il nichilismo. Non resta, allora, che il melanconico rimpianto per la vita oziosa del gregge o per quella “ragione signorile” vista come l’unico vero baluardo all’inutile affaccendarsi umano, a quel “mondo della tecnica” che l’uomo moderno ha voluto innalzare come suo nuovo feticcio.

E` in tale ottica che F. Rodano legge il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, nelle sue Lezioni su servo e signore (Editori Riuniti, Roma 1990, pp. 51-52). Si vedano, inoltre, le osservazioni di N. Badaloni, La cultura, in AA. VV., Storia d’Italia, vol. III, Dal primo Settecento all’Unita`, Einaudi, Torino 1973, pp. 915-926. 22

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3. Tra Italia e Europa

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3.1. Dal progetto neo-guelfo alla nazione democratica del Mazzini Attraverso questa assai rapida discussione delle posizioni romantiche emerge il dissolversi di quell’idea di Patria che si era venuta delineando nella riflessione della filosofia civile di un Machiavelli o di un Leonardo Bruni. Nella Laudatio florentinae urbis il Bruni aveva proclamato la stretta correlazione tra “amore per la patria” e libere istituzioni. Non v’e` patria (e non vi puo` essere amore per la Patria), se le istituzioni non garantiscono la vita e la liberta` dei cittadini. Questa correlazione era stata posta al centro della riflessione dell’ umanesimo civile e dello stesso Machiavelli. Come ha osservato Maurizio Viroli: “I cittadini patriottici che Machiavelli esalta nei Discorsi servono la patria – la liberta` e le leggi della citta` – perche´ sanno che il bene comune e` tutt’uno con l’interesse individuale di ciascuno. [...] L’obbligo verso la patria ha tuttavia dei limiti. Se la patria diventa una tirannide, il cittadino non ha obblighi verso di essa”23. Non ad una patria letteraria si riferivano, dunque, Machiavelli e gli umanisti, ma ad una patria fatta da istituzioni libere, che domandano la fedelta` e il rispetto dei cittadini solo in quanto, a questi stessi cittadini, garantiscono la possibilita` di partecipare alla definizione delle decisioni politiche e di poter liberamente svolgere le proprie attivita` produttive. Questa dimensione politica e istituzionale che definisce e struttura la “liberta` dei moderni” si perde in quella cultura romantica che declina il tema della patria in chiave di Tradizione e di identita` etico-religiosa e pensa la liberta` come liberazione dai vincoli dati dallo spazio e dal tempo; la liberta` pensata come pura interiorita` e opposta al mondo delle convenzioni e delle regole oggettive. E` questa, appunto, la “liberta` signorile” che Leopardi finisce con il dipingere nel Canto notturno e che, in nessun modo, puo` tollerare di oggettivarsi o di cristallizzarsi in forme o in istituzioni, perche´ queste sempre risultano essere coercitive e autoritarie. Il disegno dell’umanita` futura -riconciliata con se stessa- non mostra di poter tollerare lo strutturarsi di leggi o di sistemi regolativi delle vite individuali. Percio`, in Leopardi, l’idea di Patria non poteva definirsi in 23

M. Viroli, Per amore della patria, Laterza, Bari 1995, p. 36, ma cfr. l’intero cap. I su “L’eredita` del patriottismo repubblicano”. Da vedere anche: M. Rosati, Il patriottismo italiano, Laterza, Bari 2000.

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un progetto politico, ma risultava essere un melanconico rinvio ad una impossibile vita felice. E ugualmente impolitico risultava il progetto manzoniano, perche´ poggiava sull’idea di una Trascendenza reggitricre del divenire storico. La Storia, per Manzoni, non e` altro che lo spazio in cui si realizza e si fa mondo una volonta` trascendente che impone i suoi fini, ordina e gerarchizza i rapporti tra gli individui. L’impoliticita` della visione manzoniana in questo consiste: nel negare all’opera umana ogni capacita` di “salvezza”, nell’affidarsi ad una potenza trascendente come l’unica in grado di limitare la presenza del male nel mondo. Nell’ottica di questa “impoliticita`” (o, se si vuole, di un neo-agostinianesimo che nega all’opera umana la facolta` di riscattarsi da sola) e` lecito accostare il cattolicesimo liberale di Manzoni al neo-guelfismo di Rosmini*. “Per Rosmini – ha scritto Rodolfo Mondolfo – la luce e il potere scendono sempre dall’alto; e la stessa auspicata democratizzazione, cioe` il ricongiungimento della Chiesa con la comunita` del popolo, e` nel suo pensiero un rinforzo dell’oligarchia. La concezione gerarchica, che fa discendere il potere dall’alto, non consentiva altro indirizzo, pur nell’atto di cercare nel consentimento e nell’appoggio del basso una maggior pienezza ed efficacia della potesta`. E come nella societa` teocratica, cosı` nella civile. Dove la concezione dello Stato propugnata dal Rosmini e` essenzialmente antidemocratica, anche nell’ammettere un regime parlamentare”24. L’impoliticita` si coniuga, cosı`, con una visione gerarchica dell’ordine politico. La costituzione di una nazione viene affidata a un sentimento religioso che riesce a tenere insieme gli umili e i potenti e a mantenere un ordine gerarchico, pur respingendo l’idea della politica-potenza. E`, comunque, con Gioberti** che il progetto neo-guelfo assume un tratto pienamente nazionale e si fa programma politico. Con Gioberti il neo-guelfismo supera – se cosı` si puo` dire – l’impoliticita` del Manzoni. Anzi, Gioberti traduce Manzoni en politique. Egli non solo combatte – come gia` ebbe ad osservare Gentile – le “astrattezze giacobine del demo-

* Antonio Rosmini Serbati (Rovereto 1797-Stresa 1855) tra i suoi scritti vanno ricordati: Nuovo saggio sulle origini delle idee (1830), Filosofia della politica (1839), Filosofia del diritto (1841-1845). 24 R. Mondolfo, Il pensiero politico nel Risorgimento italiano, Nuova Accademia Editrice, Milano 1959, pp. 63-64. ** Vincenzo Gioberti (Torino 1801-Parigi 1852) visse in esilio tra il 1834 e il 1845 a Parigi e a Bruxelles. Ritornato in Italia fu Presidente del consiglio del Regno di Sardegna (1848-1849). Le sue opere principali sono: Del primato morale e civile degli italiani (1843) e Del Rinnovamento civile d’Italia (1851).

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craticismo”25, ma, attraverso la rilettura del pensiero filosofico rinascimentale e del ruolo da questo svolto nella formazione del mondo moderno, tenta di individuare una tradizione spirituale che legittimi la costituzione di un nuovo Stato nazionale e definisca il terreno della mediazione tra forze politico-militari (il Piemonte) e quelle politico-ideali (il Pontefice). Sennonche´ la nuova sintesi spirituale, che il cattolicesimo avrebbe dovuto assicurare, viene meno quando – dopo il ’48 – il Papa si sottrae al ruolo di interlocutore politico. Contestualmente, la paura per il giacobinismo spinge l’aristocrazia e i ceti borghesi ad accantonare l’idea di una attivazione delle soggettivita` popolari nella lotta per l’indipendenza nazionale. Tra questi strati sociali comincia a farsi strada la convinzione della pericolosita` della via insurrezionale. In verita`, gia` prima del ’48, con l’opuscolo Degli ultimi casi di Romagna (1846), di cui il De Sanctis dira` che era la prima analisi politica della realta` italiana, il D’Azeglio* aveva sostenuto che gli avvenimenti di Rimini testimoniavano la drammatica attualita` della “questione italiana”, la volonta` del popolo italiano di farsi nazione, ma anche la disperazione di tale popolo, costretto a usare la strategia della insurrezione per raggiungere i propri obiettivi. A suo avviso, la legittimazione della “rivoluzione italiana” non poteva derivare dalla sovversione dei tradizionali rapporti sociali (secondo il modello giacobino), ma solo dall’affermazione del diritto di un popolo a ritrovare la propria indipendenza e la propria unita`. E` uno schema teorico che si ritrova anche nello scritto su La rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859 del Manzoni e che suggerisce le linee strategiche per una diplomatizzazione del Risorgimento italiano. E` uno schema che, riducendo il giacobinismo al suo momento insurrezionale e autoritario, ignora gli aspetti di innovazione politica contenuti nel paradigma giacobino. Il moderatismo italiano (sia nella sua versione neo-guelfa che in quella liberale) vorra` ignorare il contenuto democratico presente in una visione politica che intendeva garantire una “eguale liberta`” a tutte le forze sociali (alle masse contadine come ai ceti urbani) che fondano e formano una Nazione, attraverso il riconoscimento a tutti dei diritti di cittadinanza politica26. Il progetto 25

G. Gentile, I profeti del Risorgimento, Sansoni, Firenze 1944, p. 105. * Massimo D’Azeglio (Torino 1798-1866), dopo la sconfitta dell’esercito piemontese a Novara (1849), fu Presidente del Consiglio e concluse la pace con l’Austria. A lui subentro`, nel 1852, Cavour. Sono assai noti i suoi romanzi: Ettore Fieramosca (1833) e Niccolo` de’ Lapi (1841). Il suo capolavoro sono I miei ricordi (1867, postumo). 26 Su tutto cio` cfr. A. Scirocco, In difesa del Risorgimento, il Mulino, Bologna 1998, p. 80 e segg. e L. Villari, Romanticismo e tempo dell’industria, Donzelli, Roma 1999, pp. 62-63.

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neo-guelfo avra`, cosı`, il grande merito di porre il problema del rapporto tra cattolici e Risorgimento; o, piu` esattamente, il problema della partecipazione del mondo cattolico alla costruzione del nuovo Stato. Ma la sua chiusura in un orizzonte moderato e il suo tentativo di assumere come principali interlocutrici (o, addirittura, come modello istituzionale) le gerarchie ecclesiastiche ne segnera` il fallimento. La tradizione e la spiritualita` cattolica, invece di divenire le componenti fondamentali della identita` nazionale (come immaginavano Manzoni e Gioberti), costituiranno i punti di maggior resistenza alla innovazione politica. Ma, v’era nel progetto neo-guelfo, un ulteriore punto di debolezza: l’aver pensato orgogliosamente di poter utilizzare le sole risorse endogene (la spiritualita` cattolica e la tradizione culturale nazionale) aveva condotto a sottovalutare il peso dei rapporti internazionali. La formazione dello Stato nazionale italiano non poteva attuarsi senza prendere in considerazione il nesso Italia/Europa. Il merito di aver tematizzato con chiarezza questo rapporto spetta senz’altro a Mazzini. Se la teoria giobertiana del “primato degli italiani” poteva inorgoglire la coscienza nazionale e valorizzare, giustamente, il contributo della cultura rinascimentale alla formazione del mondo moderno, non aiutava, pero`, a chiarire il ruolo che una Italia unificata avrebbe potuto giuocare in un nuovo sistema di interessi e di relazioni internazionali, che tendeva a mettere in discussione gli equilibri usciti dal Congresso di Vienna.

3.2. Mazzini e Cavour Italia e Europa, questo il tema intorno a cui Mazzini* riflette. Come portare l’Italia entro l’orizzonte delle nazioni europee? Chi apre I pensieri sulla democrazia in Europa, testo che Salvo Mastellone ha opportunamente messo a confronto con il Manifesto di Marx ed Engels e collocato all’interno del dibattito sulla democrazia che si sviluppa in Europa negli anni ‘40, si trova di fronte a un progetto politico che ridefinisce i valori della Rivoluzione francese in rapporto ad una strategia che assume come obiet* Giuseppe Mazzini (Genova 1805-Pisa 1872) fondo` nel 1832 la Giovine Italia. Di ispirazione mazziniana furono le spedizioni dei fratelli Bandiera in Calabria (1844) e i moti di Romagna (1843-1845). Triumviro della Repubblica Romana (1849) con Saffi e Armellini, si rifugio` prima in Svizzera e poi in Inghilterra. Irriducibile avversario della monarchia, anche dopo l’Unita` visse quasi sempre fuori d’Italia.trascorse gli ultimi anni della sua vita a Pisa sotto il falso nome di Brown, ospite della famiglia Nathan Rosselli.

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tivo la formazione di una nazione democratica. “La tendenza democratica dei nostri tempi, – recita l’incipit di questo scritto – il moto di ascesa delle classi popolari desiderose di prender parte alla vita politica – finora riservata a una cerchia di privilegiati – non e` piu` un sogno utopico, ne´ un’incerta previsione: e` un fatto, un grande fatto europeo che occupa ogni mente, incide sugli indirizzi dei governi, sfida ogni opposizione”27. Rinunciando alle astrattezze giacobine e, anzi, criticando le utopie socialiste e rivoluzionarie, il testo mazziniano riafferma l’idea che la costruzione di una nuova nazione e` possibile solo attraverso la crescita delle facolta` di governo delle classi popolari. La “tendenza democratica dei nostri tempi” fa sı` che la vita politica non sia piu` riservata a una cerchia di privilegiati. Non si tratta di rifiutare la politica – come immaginava il romanticismo –, ma di trasformare la politica. L’unica via, perche´ questa trasformazione si realizzi, e` far sı` che essa divenga una tecnica disponibile anche per le classi popolari. Il che non significa che in Mazzini vi sia una mitizzazione del popolo o che egli ne immagini una innata purezza morale. Al contrario, v’e` la consapevolezza che il popolo debba essere educato alla democrazia, perche´ le sue facolta` possano contribuire alla costruzione di una ordinata vita politica. E tuttavia, la sua partecipazione e` indispensabile per la formazione di una Nazione. Non si puo` costruire un sistema politico democratico senza la “nazionalizzazione” del popolo. La via “manzoniana” (e neo-guelfa), che affidava alle gerarchie spirituali il compito di unire il popolo, e` esclusa dalla visuale mazziniana, perche´ quella via non vede il popolo come l’autentico soggetto costituente della nuova nazione. Essa mantiene pericolosamente aperta una divaricazione tra umili e potenti, tra popolo e gerarchie. Non porta alla formazione di istituzioni saldamente ancorate nello “spirito del popolo”. La visione mazziniana, invece, instaura un rapporto organico tra democrazia e Nazione, che si riassume nell’idea della “liberta` liberatrice”; nell’idea che la liberta` non debba essere privilegio di pochi, ma patrimonio di tutti: liberta` come mezzo per l’eguaglianza. Percio`, per Mazzini non v’e` contraddizione tra Patria e Liberta`. “Separato dalla liberta` – ha osservato Viroli – il nazionalismo e` per Mazzini null’altro che un’altra maschera del governo illegittimo e ingiusto”28. La continuita` con lo spirito libertario che aveva animato la Rivoluzione

27

G. Mazzini, Pensieri sulla democrazia in Europa, a cura di S. Mastellone, Feltrinelli, Milano 1997, p. 82. 28 M. Viroli, Per amore della patria, cit., p. 150. Ma cfr. anche L. Salvatorelli, Il pensiero politico ecc., cit., pp. 235-236 e M. Rosati, Il patriottismo italiano, cit., pp. 116-120.

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francese e` netta, ma, nello stesso tempo, Mazzini nazionalizza la lotta per la liberta`29 e, nel far questo, espunge dal giacobinismo gli elementi di radicalismo e di aristocraticismo intellettuale, che Vincenzo Cuoco aveva gia` denunciato. La letteratura romantica – come si e` gia` visto – aveva avuto modo di elaborare i “succhi gastrici” necessari, perche´ i ceti intellettuali italiani fossero in grado di metabolizzare quel radicalismo e quell’aristocraticismo. E non e` certo nel radicalismo da ricercare la ragione della sconfitta del progetto mazziniano, quanto nella sua debolezza nel praticare strategicamente proprio quel nesso Italia-Europa che pure aveva contribuito a individuare. Accadra`, cosı`, che quando, nel 1848, verra` avviata l’esperienza della Repubblica romana, questa sara` isolata dalle potenze europee e verra` sconfitta. Mazzini stesso provera` su se stesso la verita` di un principio che egli aveva proclamato: che non possono darsi nazioni che vivono isolate, fuori dalla comunita` internazionale; che Patria e Umanita` non possono contrapporsi. Dopo un simile fallimento, un Mazzini isolato e addolorato rimettera` mano ai Pensieri30, attenuando la tensione democratica e attaccando aspramente comunisti e anarchici ritenuti i veri responsabili della sconfitta del ‘48. La possibilita` di risolvere la questione della unificazione nazionale passera`, allora, nelle mani delle forze liberali moderate. Nelle mani di Cavour*. E questi, ripartira` da quel nesso Italia/Europa, che Mazzini aveva portato ad evidenza, per avviare la soluzione della questione italiana. Ripartira` dalla necessita` di fare “buon uso” delle risorse internazionali per diplomatizzare il problema della unificazione nazionale. Se, infatti, in Mazzini, la prospettiva nazionale costituiva un necessario passaggio politico per democratizzare l’intera Europa, in Cavour la prospettiva e` rovesciata: e` la politica moderata europea che viene utilizzata per temperare il processo “rivoluzionario” italiano. Si definiscono, cosı`, i caratteri fondamentali del Risorgimento italiano come “rivoluzione passiva”: le potenze europee cooperano (“inviano le loro avanguardie”, come scrivera` Gramsci) alla formazione di uno Stato italiano che, pur mutando il quadro

29

L. Salvatorelli, op. cit., pp. 243-245. Cfr. S. Mastellone, Introduzione a G. Mazzini, Pensieri sulla democrazia in Europa, cit., pp. 70-73. Ma di S. Mastellone si veda anche: La democrazia etica di Mazzini (1837-1847), Archivio Guido Izzi, Roma 2000. * Camillo Benso conte di Cavour (Torino 1810-1861), insieme a Cesare Balbo, fondo` nel 1847 il giornale il Risorgimento. Fu varie volte ministro del governo piemontese tra il 1850 e il 1851. Nel 1852, in seguito ad un accordo con il centro-sinistra di Rattazzi (= connubio), divenne Presidente del Consiglio e guido` la politica piemontese sino alla proclamazione del Regno d’Italia (1861). 30

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politico internazionale, non produca l’attivazione delle forze democratiche. Anzi, il popolo – se non del tutto escluso dal processo costituente il nuovo Stato – viene ad essere “passivizzato”. Ne consegue la formazione di uno Stato nazionale non compiutamente laico e democratico. Cavour, se pur riprende il tema mazziniano del rapporto Italia/Europa, di fatto lo mutila per quello che concerne il tema della formazione di una moderna democrazia laica. E` probabile che le potenze europee, nel momento in cui cambiavano gli equilibri internazionali, non potessero tollerare ulteriori elementi di innovazione politica. Ma, forse, lo stesso liberalismo di Cavour non osava spingersi a immaginare la formazione di uno Stato laico e democratico31. Questo liberalismo irrisolto non sara` solo di Cavour, ma della maggioranza delle classi dirigenti italiane. Interi ceti sociali e interi territori saranno esclusi dalla formazione dello Stato-Nazione italiano. Restera` aperta la “questione cattolica”. Nascera` una “questione meridionale”. Occorrera` attendere i De Sanctis, gli Spaventa e i Villari, perche´ il problema dell’allargamento delle basi democratiche dello Stato italiano torni ad essere riproposto in termini teorici e politici. Del carattere incompiuto dello Stato nazionale italiano era consapevole il De Sanctis32 quando sottolineava la necessita` di combattere le mentalita` particolaristiche (l’ “uomo del Guicciardini”) o quando chiudeva la sua Storia della letteratura italiana [1870-1871], scrivendo: “C’incalza ancora l’accademia, l’arcadia, il classicismo e il romanticismo. Continua l’enfasi e la rettorica, argomento di poca serieta` di studii e di vita. Viviamo molto sul nostro passato e del lavoro altrui. Non ci e` vita nostra e lavoro nostro. E da’ nostri vanti s’intravede la coscienza della nostra inferiorita`. Il grande lavoro del secolo decimono e` al suo termine. Assistiamo ad una nuova fermentazione d’idee, nunzia di una nuova formazione. Gia` vediamo in questo secolo disegnarsi il nuovo secolo. E questa volta non dobbiamo trovarci alla coda, non a’ secondi posti.”

31

Domenico Petrini, seguendo la linea interpretativa del Risorgimento espressa da Piero Gobetti, ebbe ad esprimere un giudizio assai duro sul liberalismo di Cavour, giudicandolo non sufficientemente laico (cfr. Motivi del Risorgimento, Bibliotheca editrice, Rieti 1929). Ma su Cavour e` fondamentale l’opera di R. Romeo, Cavour e il suo tempo, 3 voll., Laterza, Bari 1969-1984. Utile anche il volumetto di L. Cafagna, Cavour, il Mulino, Bologna 1999. 32 Francesco De Sanctis (Morra Irpina 1817-Napoli 1883). Imprigionato (1850-1853) per la sua attivita` anti-borbonica, fu, poi, in esilio a Torino e a Zurigo. Fu piu` volte ministro della Pubblica Istruzione del Regno d’Italia.

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3.3. I democratici e il Risorgimento Quando De Sanctis scrive le frasi appena citate, la capitale d’Italia e` stata, da poco, fissata a Roma. Le idee universalistiche intorno a una “Terza Roma”, capitale di una civilta` democratica, sono ancora forti (“non ci si sta`, a Roma, senza una grande idea”, aveva detto Quintino Sella). Forte e` la convinzione che una nuova generazione di italiani verra` temprata da una cultura laica e progressista. Ma, escluso il popolo (e il Mezzogiorno), la democrazia italiana risultera` dimezzata. La delusione per la mancata formazione di “un nuovo tipo di italiano” non tardera` a divenire manifesta. Non passera` un decennio da quando Roma e` divenuta capitale e saranno pubblicate Le lettere meridionali (1878) di Pasquale Villari*. In esse “i mali d’Italia” (mafia, camorra, brigantaggio) verranno denunciati con fermezza, ma soprattutto verra` denunciato il carattere non-democratico della “rivoluzione italiana”. “La conclusione di Villari – ha scritto Eugenio Garin – e` amara: la rivoluzione italiana ha unificato politicamente l’Italia, ma ha ignorato, e continua a ignorare, il popolo italiano: gli uomini e le donne d’Italia”33. Eppure, non erano mancate analisi teoriche e disegni politici che pensavano di poter “fondare” sul popolo il nuovo Stato unitario. Non erano mancate posizioni che – richiamandosi alle tesi mazziniane o sviluppandole ulteriormente – avevano inteso stringere in un unico sinolo le idee di Patria e Liberta`. Non era mancata nella tradizione politica risorgimentale una visione compiutamente laica del nuovo Stato nazionale. Sia in un Cattaneo che in un Ferrari la nascita di una nazione e` pensata come il risultato dell’attivazione politica di nuove soggettivita`, che si liberano dell’egemonia culturale della Chiesa e dell’aristocrazia e danno vita a forme politiche partecipate. Entrambi sono sollecitati dalle vicende del ‘48 a precisare le loro indagini sui caratteri della storia italiana. Entrambi sono spinti, di fronte all’infigardaggine dell’aristocrazia, a radicalizzare le proprie prospettive. Le loro posizioni differiscono per la diversa valutazione dei soggetti che devono produrre la innovazione politica della societa` italiana. Se in Cattaneo la possibilita` di far leva sulla tradizione municipalistica e` pensata come la strada maestra per liberare le genti italiane e creare uno Stato

* Pasquale Villari (Napoli 1826-Firenze 1917), deputato negli anni ’70 e ’80, fu Ministro della Pubblica Istruzione tra il 1891 e il 1892. Pubblico` diverse opere storiche, tra cui: Storia di G. Savonarola e dei suoi tempi (1859-1861) e Niccolo` Machiavelli e i suoi tempi (1877-1882). 33 E. Garin, Introduzione a P. Villari, I mali dell’Italia, Vallecchi, Firenze 1995, p. 15.

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federale (“la liberta` – egli afferma – e` una pianta di molte radici”34, in Ferrari la costruzione di una nazione italiana si lega all’idea di una rivoluzione popolare. Entrambi, pero`, vedono nei ceti produttivi le forze protagoniste della “rivoluzione italiana”. Fondando nel 1839 “Il Politecnico”, il Cattaneo* aveva gia` avviato il suo progetto di “rivoluzione culturale”. Egli aveva inteso con quella rivista avviare un programma di svecchiamento della cultura italiana, introducendo elementi di un pensiero “positivo”, attento alle questioni sociali e critico verso le mentalita` “braminiche”. Ma e` con le giornate milanesi del ’48 che l’aristocrazia gli si svela in tutta la sua natura retriva e, comunque, poco propensa ad assumere un ruolo nella costituzione della nazione. E` questa considerazione che porta Cattaneo a riaffermare il nesso Patria/Liberta`; a sottolineare l’idea che la nuova nazione puo` nascere solo da un’azione liberatrice dei ceti produttivi, legati al proprio territorio e interessati a liberare questi territori dal dominio sia degli stranieri che dei ceti retrivi. “L’Italia – egli proclama – non e` serva delli stranieri, ma de’ suoi. L’austriaco venne in Italia, e vi puo` rimanere solamente come mercenario d’una minoranza retrograda, la quale si conosce impotente a dominare da se´ la nazione”35. Il saggio su: L’insurrection de Milan, da cui abbiamo tratto quest’ultima citazione, e` scritto a Parigi nel ‘48 e pubblicato – in una edizione ampliata – a Lugano nell’anno successivo. Nello stesso arco di tempo il Ferrari** publica, in Francia, i saggi su: La re´volution et les reformes en Italie (1848), Machiavel juge des re´volution de notre temps (1849), nonche´: Les philosophes salarie´s (1849). Qualche anno dopo usciranno: La filosofia della rivoluzione 34 C. Cattaneo, Prefazione [al volume IX del “Politecnico”] (1860), in Id., Opere scelte, a cura di D. Castelnuovo Frigessi, Einaudi, Torino 1972, vol. IV, p. 222. Ma, in questo stesso volume si veda anche lo scritto: La citta` considerata come principio ideale delle istorie italiane (1858). Sulla figura del Cattaneo si veda: N. Bobbio, Una filosofia militante, Einaudi, Torino 1971. * Carlo Cattaneo (Milano 1801-Castagnola, Lugano, 1869) partecipo`, quale membro del Consiglio di guerra, all’insurrezione delle Cinque giornate di Milano. Costretto a rifugiarsi nel Canton Ticino, insegno` filosofia a Lugano. Dopo l’Unita` fu eletto deputato, ma non esercito` il suo mandato, rifiutandosi di prestare il giuramenro alla monarchia. 35 C. Cattaneo, Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra, in Id., Opere scelte, cit., vol. III, p. 273. Per un primo approccio alla figure di Cattaneo, Ferrari e Pisacane utile strumento e` il volume di U. Dotti, I dissidenti del Risorgimento. Cattaneo, Ferrari, Pisacane, vol. 48 della Letteratura Italiana Laterza, diretta da C. Muscetta, Laterza, Bari 1981. ** Giuseppe Ferrari (Milano 1811-Roma 1876) pubblico` la prima edizione completa delle opere di Vico. Insegno` all’Universita` di Strasburgo. Ritornato in Italia per gli avvenimenti del ’48, fu nuovamente costretto all’esilio in Francia e in Belgio. Dopo l’Unita` divenne deputato.

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(1851) e l’Histoire de´s re´volutions d’Italie ou guelfes e gibelins, in quattro volumi (1856-1858). E non e` da dimenticare che l’opera principale di Carlo Pisacane* la Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49 e` pubblicata nel 1851. Gli anni dopo il ‘48 sono, dunque, anni in cui la cultura democratica lavora intensamente intorno all’idea che il nuovo Stato-Nazione possa nascere da una rivoluzione popolare. Negli scritti di Ferrari i princı`pi della Rivoluzione francese sono riaffermati in tutta la loro radicalita`. Sembrerebbe che il problema posto dal romanticismo di una “uscita dalla rivoluzione” sia, ormai, stato superato; che nella coscienza collettiva, nel “senso comune”, la paura per il Terrore sia stato dimenticato. Sennonche´ – come abbiamo gia` avuto modo di osservare – saranno le forze moderate a riprendere nelle proprie mani la direzione della lotta per l’indipendenza e l’unificazione dell’Italia e le analisi della “situazione e dei rapporti di forza” sviluppata dai democratici risultera` affatto errata; errata l’idea di una possibile attivazione delle soggettivita` popolari. E tuttavia, nella sua indagine della storia italiana, il Ferrari avra` il merito di evidenziare una delle cause principali dei “mali italiani”, della mancata modernizzazione politica della penisola. “Il Risorgimento italiano [con questa espressione Ferrari indica il Rinascimento] – egli scrive nel Machiavelli – fu preludio di tutte le rivoluzioni moderne. Il Risorgimento tutto invase, tutto investigo`; ma sventuratamente non pote` realizzare i propri pensieri sovra il suolo della Penisola. L’Italia non era logica. [...] Nel giorno delle rivoluzioni europee l’equivoco divenne impossibile; l’Italia fu costretta ad essere logica; fu necessario scegliere tra il Medioevo e l’eta` moderna, ed essa indietreggio` verso i tempi di mezzo, per accettare le legge del pontefice e dell’imperatore, che mai non aveva respinta. Da quell’istante il Risorgimento abbandono` il terreno d’Italia per diventare in Germania la Riforma, in Francia la Rivoluzione”36. Certo, l’immagine di un rinascimento che avrebbe spezzato il domino della Chiesa e dell’Impero e` eccessiva. Tuttavia, seguendo la traccia interpretativa fornita da Hegel e che successivamente sara` di De Sanctis e di Bertrando Spaventa, Ferrari vede nella Riforma protestante e nella Rivoluzione francese i momenti costitutivi delle liberta` e delle istituzioni politiche * Carlo Pisacane (Napoli 1818-Sapri 1857), ufficiale dell’esercito borbonico, per una vicenda amorosa fuggı` da Napoli (1847). Nel 1849 fu a capo dello stato maggiore della Repubblica Romana. Nel 1857 guido` la spedizione di Sapri. Ferito, si suicido` per non cadere nelle mani delle truppe borboniche. 36 G. Ferrari, Machiavelli giudice della rivoluzione dei nostri tempi (1849), in Id., Scritti politici, a cura di S. Rota Ghibaudi, Utet, Torino 1973, p. 161.

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dei moderni. L’Italia dei Comuni e dei mercanti, la nascente borghesia italiana, di fronte alla possibilita` di innovare la “costituzione materiale” del paese scelse di arretrare e di ritornare sotto l’egemonia del Papato. In quel momento vinsero i guelfi e il problema della costituzione di una nazione rimase, per secoli, aperto. La prospettiva manzoniana e neo-guelfa e`, cosı`, rovesciata: il cattolicesimo, lungi dall’essere il lievito per la trasformazione del “volgo” in nazione, e` l’elemento ideologico che piu` di ogni altro lo trattiene nell’anomia, spingendolo ad affidarsi a potenze trascendenti. Quel volgo deve trovare in se stesso la potenza per unificarsi e liberarsi. E` questo radicalismo a spingere il Ferrari a polemizzare con il Mazzini, che – a suo dire – non aveva inteso il carattere esplosivo della “questione sociale”, e a distanziarsi dal Cattaneo, che nelle capacita` della borghesia produttiva di opporsi al parassitismo dell’aristocrazia riponeva grande fiducia37. La ricognizione del “terreno nazionale” avviata dai democratici italiani, pur assai ricca per l’indagine storico-genetica della struttura sociale italiana e per l’analisi morfologica delle classi, non si traduceva in una strategia politica egemone. Mancava la concreta individuazione delle “forze motrici” che avrebbero dovuto farsi portatrici delle “liberta` repubblicane”. Queste non trovavano seguito ne´ nella borghesia produttiva e nel municipalismo democratico (come sperava il Cattaneo), ne´ nelle forze popolari (come immaginava il Ferrari). V’era in quelle indagini una chiara sopravalutazione delle potenzialita` rivoluzionarie presenti in Italia e, in particolare, nelle campagne. Di questa divaricazione tra progetto democratico (le idealita` mazziniane, pur diversamente declinate) e reali rapporti di forza, ben se ne accorgera` Carlo Pisacane, quando, con lo sbarco a Sapri, vedra` fallire il suo tentativo di mobilitare le masse contadine meridionali. Nello scritto Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49, Pisacane aveva analizzato il carattere retrivo della borghesia italiana, legata al latifondo, e aveva teorizzato la possibilita` di una insurrezione popolare, muovendo dal diffuso scontento dei contadini. Riteneva possibile “accerchiare” le citta`, facendo leva su una insurrezione delle campagne. Il carattere democratico di tale visione della “questione italiana” e` stato evidenziato da Luciano Russi. Questi ha osservato che il Pisacane pone “le radici del sentimento nazionale nel popolo”, perche´ e` convinto che “ogni nazione derivi il proprio essere, la propria coscienza, dalle «tradizioni, dalle condi37

Su questi temi cfr. U. Dotti, I dissidenti del Risorgimento ecc., cit., pp. 66-68, nonche´: F. Ciarleglio, La piramide capovolta. Crisi dello stato e filosofia tra risorgimento e fascismo, Vivarium, Napoli 2002.

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zioni presenti, dalle aspirazioni ad un avvenire»”. Per il Pisacane, ha scritto ancora Luciano Russi, “la rivoluzione e` (deve essere) determinata dalla liberta` (politica) e dall’indipendenza (nazionale) che pero` restano infruttuose senza il perseguimento di un’autentica riforma sociale”38. Sennonche´, il Pisacane (e i democratici italiani) non s’accorgeva che era proprio la miseria delle popolazioni italiane (la loro assoluta dipendenza economica e culturale) a costituire l’ostacolo maggiore per una rivoluzione democratica. Percio`, la consapevolezza del necessario intreccio tra istanze sociali (riforma agraria) e problema politico (indipendenza nazionale) non impedira` il fallimento del tentativo di Sapri. Siamo nel 1857. Di lı` a qualche anno sara` proclamato il Regno d’Italia (1861). La “grande Storia” (l’indipendenza nazionale) non passava da Sapri, ma da Torino. Ignorava i sogni dei democratici e le guerre combattute dal popolo e si compiva, invece, attraverso l’accorta diplomazia cavourriana e le guerre combattute da eserciti regolari. L’Italia diverra` Stato-Nazione per opera della politica di Cavour. Sara` una innovazione politica senza popolo. L’idea di Patria e l’idea di liberta` non giungeranno a comporsi entro una reale modificazione dei rapporti di forza tra le classi fondamentali del Paese. Non solo le classi subalterne, ma intere regioni (come il Mezzogiorno) godranno solo di una cittadinanza dimezzata. Nazione e democrazia, come auspicava il repubblicanesimo mazziniano, non giungeranno a coniugarsi. E tuttavia, vi saranno l’indipendenza nazionale e un nuovo Stato. L’Italia nasce su questa contraddizione: l’essere uno Stato, ma non ancora una Nazione; o, piu` esattamente: essere uno Stato nazionale non ancora democraticamente strutturato; uno Stato in cui gli individui non godranno di una eguale cittadinanza. Gran parte della popolazione stentera` a riconoscersi nelle istituzioni perche´ sara` considerata suddita e non cittadina. Su questa contraddizione riflettera` la cultura post-unitaria.

38 L. Russi, Carlo Pisacane. Vita e pensiero di un rivoluzionario senza rivoluzione, il Saggiatore, Milano 1993. Le citazioni sono, rispettivamente, alle pp. 190 e 187.

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4. Da sudditi a cittadini?

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4.1. Stato etico e questione meridionale Fissata la capitale a Roma, occorreva – secondo la frase attribuita a Massimo D’Azeglio – “fare gli italiani”; occorreva formare quello “spirito nazionale” che rende i singoli individui consapevoli di appartenere ad un comune destino. Sennonche´, i processi che avevano portato all’unificazione della nazione non rendevano semplice il formarsi di un tale spirito. Troppe erano le soggettivita` rimaste escluse dal processo risorgimentale e presso queste soggettivita` non poteva certo essere alto il “senso civico”, il senso di appartenenza a istituzioni e a valori condivisi. In verita`, il processo costituente il nuovo Stato si era fondato piu` sull’idea che la Nazione fosse un presupposto (una di lingua, di storia e di cultura), che non il risultato di molteplici e diverse soggettivita` che occorreva mediare e unificare. Che la costruzione del nuovo Stato nazionale dovesse essere il risultato di un progetto etico e politico condiviso dall’intero popolo era chiaro a quella cultura liberale che ritrovava i suoi antecedenti teorici in Hegel, piu` che in Locke. Era chiara a Bertrando e Silvio Spaventa, a Pasquale S. Mancini, a Francesco De Sanctis. La concezione dello Stato, che Bertrando Spaventa* elabora in La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea (1860) e che suo fratello Silvio** descrive secondo le sue funzioni dirigenti nello scritto Lo Stato e le ferrovie (1876), non e` riducibile all’idea di uno Stato dirigista che ordina e redistribuisce le risorse secondo un piano di sviluppo centralistico, perche´ l’esercizio della sua sovranita` e` pensato come l’atto finale di un processo di mediazione tra universale e individuale, tra interesse collettivo e societa` civile. Come ha scritto Giuseppe Vacca, in Bertrando Spaventa la sovranita` dello Stato non e` “un dato, ma il risultato * Bertrando Spaventa (Bomba, Chieti 1817-Napoli 1883), dopo i moti del 1848-1849 si rifugio` in Toscana e a Torino. Insegno` nelle Universita` di Modena e Bologna. Tornato a Napoli nel novembre del 1860, insegno` filosofia teoretica presso l’Universita`. E` da considerarsi il maggior rappresentante dello hegelismo napoletano. Alla ripresa della filosofia hegeliana contribuirono, tra gli altri: Giambattista Passerini (1793-1864), Augusto Vera (1813-1885); Angelo Camillo De Meis (1817-1891). ** Silvio Spaventa (Bomba, Chieti, 1822-Roma 1893), arrestato dai Borboni, fu condannato all’ergastolo. Nel 1859 la pena gli fu commutata in quella dell’esilio in America, ma riuscı` a fuggire e a rifugiarsi Torino. Torno` a Napoli nel 1860 e fu deputato al Parlamento (1861-1889) e Ministro dei Lavori Pubblici (1873-1876). Promosse il progetto di nazionalizzazione delle ferrovie.

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della piu` ampia e libera partecipazione dei singoli a formare la volonta` politica che nello Stato si fa soggetto” e, percio`, “lo Stato, nel concreto delle sue istituzioni, e` sempre funzione della societa` civile”39. Non v’e`, dunque, in Spaventa una visione dello Stato come un “a priori” (lo Stato come “iubeo, ergo sum”, secondo una espressione di V. E. Orlando), perche´ la sua sovranita` si costruisce attraverso la partecipazione dei suoi cittadini e nasce dalla mediazione tra la molteplicita` degli interessi e delle passioni (ideologiche, religiose, civili) presenti sul suo territorio. L’universale etico, che si esprime nello Stato, e` il processo stesso attraverso cui il popolo – che internamente si differenzia e si organizza in “corporazioni” – diviene consapevole del suo essere fondamento e soggetto delle istituzioni; il potere costituente che le forgia per acquisire unita`, forza e consapevolezza in una comune storia. In questo senso, la filosofia costituisce “l’ultima e piu` chiara espressione della vita di un popolo”40. Essa e` l’autocoscienza di un popolo che si fa Nazione. Filosofia e Stato giungono a coniugarsi, perche´ sono la stessa vita di un popolo che organizza i suoi sistemi di riproduzione e definisce le sue linee di sviluppo. Un sentimento di nazionalita` non diverso da questo dello Spaventa aveva espresso Pasquale Stanislao Mancini* nella sua prolusione al corso di diritto internazionale, tenuta a Torino nel gennaio 1851. Anche per il Mancini la nazione non si definisce sulla base “di condizioni naturali e storiche”. Non basta “la comunanza stessa di territorio, di origine e di lingua” a definire una nazione, ma e` necessaria una interna spiritualita`. “Questo spirito vitale, – aggiungeva il Mancini – questo divino compimento dell’essere di una Nazione, questo principio della sua visibile esistenza, in che mai consiste? Esso e` la Coscienza della nazionalita`, il sentimento che ella acquista di se medesima e che la rende capace di costituirsi al di dentro e di manifestarsi al di fuori. Moltiplicate quanto volete i punti di contatto materiale ed esteriore in mezzo ad una aggregazione di uomini: questi non formeranno mai una Nazione senza la unita` morale di un pensiero comune,

39

G. Vacca, Politica e filosofia in Bertrando Spaventa, Laterza, Bari 1967, p. 199. B. Spaventa, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, in Id., Opere, a cura di G. Gentile, ristampa a cura di I. Cubeddu e S. Giannantoni, Sansoni, Firenze 1972, vol. II, p. 426. * Pasquale Stanislao Mancini (Castel Baronia, Avellino, 1817-Roma 1888), fu deputato al parlamento del Regno delle Due Sicilie (1848-1849). Rifugiatosi a Torino, occupo` la cattedra di diritto internazionale. Dopo l’Unita` fu ministro della Pubblica Istruzione (1862), della Giustizia (1876-1878) e degli Esteri (1881-1885). 40

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di una idea predominante che fa una societa` quel ch’essa e`, perche´ in essa vien realizzata”41. Lo “stare insieme” di forze e soggettivita` diverse e`, dunque, possibile solo sulla base di un comune progetto, di una “coscienza della nazionalita`” che individua un programma di crescita civile condiviso da tutte le componenti sociali e politiche. La Nazione esiste per il patto che stringe genti diverse nel raggiungimento di comuni obiettivi. Entro questa visione della nazionalita` come sintesi di interessi particolari e valori condivisi, l’ “ideale” torna a vivere nel “reale”. Qui sorge il “vichismo” del De Sanctis. Nell’autore della Storia della letteratura italiana il “dover essere” non e` piu` “amore per le nuvole”; e` tolto dalla sua astrattezza e si fa storia. Per questo la sua Storia non e` altro che il tentativo di rintracciare, nei diversi modi di sentire e nelle differenti culture che hanno attraversato la nazione, quella “storia ideal eterna” che ha tenuto unito il popolo italiano e lo ha condotto a ritrovare la propria spiritualita`. L’“ideale” si e` venuto via via definendo e concretizzando attraverso le molteplici esperienze delle “genti italiche”. Quella Storia si presentava, percio`, come l’autentica fenomenologia dello spirito pubblico italiano; nel suo farsi e nel suo comporsi a unita`.42 Cio` che emerge dall’hegelismo napoletano e`, dunque, l’idea di uno Stato-Nazione che si costituisce e vive solo se, nella sua concreta e quotidiana azione, riesce a comporre in uno spirito unitario tutte le soggettivita` e se queste partecipano con eguale diritto alla formazione della volonta` comune. In breve: lo Stato-Nazione e` pensato come sintesi eticopolitica di molteplici soggettivita`; come formazione di una cittadinanza eguale. Tale visione, pero`, non coincideva con i processi politici in atto che escludevano dalla partecipazione politica i ceti subalterni e gran parte del territorio nazionale. La questione vaticana e la questione meridionale erano la piu` nitida esemplificazione di una sovranita` statuale e di una cittadinanza dimezzate. La prima questione mostrava come la sovranita` del nuovo Stato non era tale nella coscienza di quanti ritenevano di dover obbedire al potere secolare solo limitatamente agli aspetti che non lo contrapponevano al potere religioso. Ben lo sapeva un cattolico-liberale come Marco Min41

P. S. Mancini, Il principio di Nazionalita`, ed. La Voce, Roma 1920, p. 7. Ha accostato la Storia della letteratura italiana del De Sanctis alla Fenomenologia dello Spirito di Hegel Ezio Raimondi nel saggio: L’unita` della letteratura, in Id., Letteratura e identita` nazionale, cit.; da non dimenticare il giudizio di B. Croce, secondo cui la Storia del De Sanctis e` “la sola storia intima d’Italia che finora si abbia; perche´ tutta la vita italiana, religiosa politica morale, vi e` rappresentata” (La letteratura della nuova Italia, vol. I, Laterza, Bari 1967, p. 361). 42

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ghetti* che, pur riconoscendo alla Chiesa i caratteri di un “soggetto collettivo” legittimato ad esercitare il proprio magistero, non esitava ad affermare che “lo Stato moderno stabilisce per tutti i suoi cittadini la liberta` delle credenze e dei culti”43. Era questa, per il Minghetti, la via da percorrere non solo per riaffermare la piena sovranita` e il carattere laico del nuovo Stato, ma soprattutto per superare una delle questioni che, opponendo i cattolici ai laici, poteva spezzare l’unita` nazionale appena costituita. Sulla questione meridionale si veniva misurando lo stesso grado di democraticita` del nuovo Stato. Ed era questa limitazione della vita democratica che la cultura positivista ebbe il merito di denunciare con forza. Si e` soliti raffigurare il positivismo come una ideologia del progresso storico-sociale. L’evoluzionismo ne sarebbe stato il nucleo filosofico fondamentale e non v’e` chi possa disconoscere questo suo carattere. E` questo il tono generale della filosofia di Herbert Spencer (1820-1903) e di quanti in Italia (da Roberto Ardigo`** a Pasquale Villari, da Cesare Lombroso a Enrico Ferri) fecero tesoro del suo insegnamento. Ma gia` in Ardigo` l’evoluzionismo positivista diviene idea del mutamento sociale orientato dai valori nati dalla Rivoluzione francese. Come ha osservato Norberto Bobbio, assecondando il moto sociale, il positivismo italiano si spoglia “delle vesti individualistiche di origine spenceriana, e [viene] gradualmente assumendo tono e posa di filosofia sociale”44. Inoltre, non si puo` trascurare il fatto che il positivismo veniva sollevando una tale molteplicita` di questioni (dal pauperismo alla medicina sociale e all’analisi dei comportamenti delinquenziali) che il ridurlo a questa sua unica “cifra” di filosofia del progresso risulta operazione unilaterale e inesatta. La sua stessa ideologia del progresso * Marco Minghetti (Bologna 1818-Roma 1886), membro della consulta dello Stato pontificio, si dimise quando, nell’aprile del 1848, Pio IX muto` la sua linea politica. In esilio in Piemonte, sostenne la politica di Cavour e fu ministro degli interni con il Cavour e con il Ricasoli. Fu Presidente del Consiglio nel 1863/1864 e successivamente nel 1873/1876. 43 M. Minghetti, Lettera a Jules Zeller citata da A. Capone, in Destra e sinistra da Cavour a Crispi, Tea, Milano 1996, p. 106. Ma su Minghetti si veda: R. Gherardi, L’arte del compromesso, il Mulino, Bologna 1993. Gli Scritti politici del Minghetti sono stati curati dalla Gherardi per i tipi della Poligrafici di Stato, Roma 1986. Ma si veda anche: M. Minghetti, I partiti politici e la loro ingerenza nella giustizia e nell’amministrazione (1881), prefazione di Carlo Guarnieri, Societa` Aperta Edizioni, Perugia 1997. ** Roberto Ardigo` (Casteldidone 1828-Mantova 1920), sacerdote, insegno` nel seminario di Mantova. Sospeso a divinis per il suo Discorso su P. Pomponazzi 81869), abbandono` il sacerdozio nel 1871. Insegno` storia della filosofia nell’Universita` di Padova dal 1881 al 1909. Tra le sue opere: La psicologia come scienza positiva (1870) e La morale dei positivisti (1879). 44 N. Bobbio, L’opera di Gioele Solari, in Id., Italia civile. Ritratti e testimonianze, Lacaita, Manduria 1964, p. 163.

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scaturisce da un’analitica dei processi di industrializzazione, che venivano strutturando la nascente societa` di massa, e se tale analitica rinnova la fiducia nella ragione umana, non per questo mitizza le tecniche e le scienze. Vede la complessita` della societa` industriale, ma vede anche le forze sociali che restano escluse dall’accumulazione-redistribuzione delle risorse. Percio`, il positivismo italiano fa sue le istanze del movimento socialista. La sua attenzione al “sociale” e il suo laicismo lo portano a denunciare le ristrette basi sociali su cui veniva sorgendo lo Stato liberale. Le lettere meridionali di Pasquale Villari, anche se restano nell’orizzonte teorico del liberalismo, risultano decisive nel dislocare il positivismo su questa linea di attenzione al “sociale” e alla “qualita` della vita democratica”. E` il Villari a porre la questione meridionale come questione nazionale. Essa riguardava la stessa forma dello Stato uscita dal Risorgimento e non poteva essere risolta come una questione attinente all’arretratezza economica di alcune zone del Paese. Sara`, successivamente, Giustino Fortunato*, in un discorso tenuto nel 1880, a denunciare con fermezza il pericolo di una “scissura dell’Italia”. “Dacche´ fu chiusa l’epopea nazionale – affermava il Fortunato –, noi non ci guardiamo piu` a quel modo che ne’ giorni del nostro riscatto [...]; que’ bei giorni, ne’ quali pareva che ci fossimo conosciuti da secoli, che da secoli una stessa sorte ci avesse amalgamati, che ignorassimo financo l’esserci fra noi settentrionali e meridionali. [...] Cessato l’entusiasmo di que’ primi anni [...] ci siam visti quel che eravamo in fatti: estranei gli uni agli altri”45. La consapevolezza che il Risorgimento non avesse condotto a termine la sua opera di unificazione del Paese, garantendo una eguale cittadinanza, diviene in Fortunato consapevolezza dei limiti di una classe dirigente. Sul finire dell’Ottocento, il tema delle “due civilta`” (la settentrionale e la meridionale)46 iniziava serpeggiare con insistenza nella cultura politica del Paese. Il Risorgimento si chiudeva senza essere riuscito a “fare gli italiani”. Ancora una volta e` il De Sanctis ad accorgersi del corrompersi dello spirito nazionale, del “difetto di fibra” e osserva: “Manca la fibra perche´ manca la fede. E manca la fede perche´ manca la coltura”47. * Giustino Fortunato (Rionero in Vulture 1848-Napoli 1932) fu deputato e, poi, senatore. Tra i suoi scritti: La questione demaniale nelle province meridionali (1882) e Il mezzogiorno e lo Stato italiano (1911). 45 G. Fortunato, Le banche mutue popolari nel Mezzogiorno, discorso prinunziato a Bologna nel III congresso delle Societa` cooperative di credito, il 18 ottobre 1880, ora in Id., Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, Laterza, Bari 1911, vol. II, pp. 53-54. 46 Su questo tema cfr. il volume di C. Petraccone, Le due civilta`, Laterza, Bari 2000, in particolare il cap. IV: “Le “due civilta`” degli antropologi e dei socialisti”. 47 F. De Sanctis, La coltura politica, articolo apparso in “Il Diritto” del 13 giugno 1877, ora

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4.2. Due romanzi di formazione: “Cuore” e “Pinocchio” Con le prime delusioni sui risultati del Risorgimento la cultura italiana torna ad affrontare in chiave fiabesca i problemi che la politica lascia irrisolti. Se, agli inizi del secolo, la favola doveva raccontare le vie impolitiche da percorrere per trasformare un “popolo disperso” in Nazione, ora si tratta di mostrare come tradizioni diverse possano comporsi in unita` e come dei sudditi possano divenire cittadini. Ed ecco due romanzi per ragazzi o, come critici piu` avvertiti hanno detto, due “romanzi di formazione”: Cuore (1886) di Edmondo De Amicis* e Le avventure di Pinocchio (1883) di Carlo Collodi**. Tuttavia, parlare di “romanzo di formazione” – racconti attraverso cui si tenta di educare la giovane nazione a un’idea moderna di Stato – non e` dire tutto, perche´ in essi la via che si intraprende – ancora una volta – e` quella di tentare di risolvere attraverso la fiaba le contraddizioni del reale. Non v’e` in queste opere solo la retorica dei buoni sentimenti o le tirate moralistiche; non v’e` solo l’invito a divenire buoni e rispettosi servitori delle istituzioni e del senso comune. V’e` (ed e` questo il vero tono di queste opere) la speranza che i limiti del presente possano essere superati; che alle delusioni di una politica che non sa trasformare i vecchi sudditi in cittadini possa subentrare un’azione riformatrice e unificatrice delle culture. Non perche´ si immagini una qualche forma di rigenerazione delle coscienze, ma perche´ l’essere uno Stato e una Nazione moderni richiede quella Forza che scaturisce dalla partecipazione dei cittadini e dalla definizione di un patto per la crescita civile dell’intera comunita` politica. Per queste ragioni, ci sembra affrettato il giudizio di Asor Rosa su Cuore, quando scrive che quel libro costituisce un “‘prontuario’ delle regole di comportamento accettabili, delle virtu` da rispettare e dei vizi da rifiutare, dei miti patriottici e dei tabu` sociali propri di quella eta`”48. Nella pedagogia in Id., La democrazia ideale e reale, a cura di G. M. Barbuto, A. Guida Editore, Napoli 1998. La citazione e` alla p. 58. * Edmondo De Amicis (Oneglia 1846-Bordighera 1908) prese parte alle battaglie di Custoza e di Porta Pia. Dimessosi dall’esercito si dedico` al giornalismo. Tra i suoi scritti sono da ricordare: La vita militare (1868), Gli amici (1883), Il romanzo di un maestro (1890), Amore e ginnastica, pubblicato per la prima volta nel 1972. ** Carlo Collodi, pseudonimo di Carlo Lorenzini, (Firenze 1826-1890), di idee mazziniane, partecipo` ai moti del 1848-1849. Collaboro` a diverse riviste con brevi racconti e bozzetti. Funzionario dell’amministrazione pubblica, tradusse favole francesi del XVII e XVIII secolo (I racconti delle fate, 1875) e curo` l’edizione di vari volumi destinati alle scuole. Altri suoi romanzi per ragazzi sono: Giannettino (1875) e Minuzzolo (1877). 48 A. Asor Rosa, La cultura, in Storia d’Italia, vol. IV, t. 2˚, Dall’Unita` a oggi, Einaudi, Torino 1975, p. 928.

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deamicisiana va colta, invece, la consapevolezza che una nazione fondata su una eguale cittadinanza sia ancora tutta da costruire; va colta la speranza che l’impegno civile delle forze piu` sensibili del Paese possano portare a compimento il progetto risorgimentale. Le parole, che il maestro Perboni pronuncia nel presentare alla scolaresca il “piccolo italiano nato a Reggio Calabria”, non sono l’espressione di una facile retorica nazionalistica. Al contrario, segnalano l’attesa di un patto tra etnie diverse, tra mondi lontani, che ancora non si e` stretto. E` attesa di una nuova costituzione materiale della Nazione, possibile ma non ancora compiuta. Ed e` nell’orizzonte di questa attesa che l’intero romanzo si svolge. Ancora una volta e` la letteratura a farsi carico del disegno di una societa` futura. La letteratura ruba il mestiere alla politica. Anzi, si presenta come anti-politica. E sono l’antipolitica e la dimensione fiabesca a costituire il filo che lega i Promessi sposi a Cuore e a Pinocchio. Ma cio` accade – non va dimenticato – perche´ la politica ha abdicato ai suoi compiti: non sa spiegare il mondo presente e non sa progettare il futuro. Rispetto ai Promessi sposi e a Cuore, dove v’e` lo sforzo di ambientare storicamente la narrazione e di darle una dimensione verisimile, in Pinocchio non sussiste neppure questo inganno narrativo: il racconto si colloca sin dall’inizio fuori dal tempo e dallo spazio. D’altra parte, un burattino non puo` certo abitare il tempo e lo spazio. Solo gli uomini e le donne in carne e ossa abitano il tempo e lo spazio49. Gia` il luogo in cui Pinocchio nasce e il momento della sua nascita sono indeterminati. E, quando nasce e` gia` grande. Poi, fugge da casa. percorre strade, attraversa citta` e mari. E` sempre in cammino e in nessun luogo determinato. Non sta in un luogo, ma cammina, cammina, corre. Pinocchio e` un “homeless”. Il viaggio e` la cifra della sua esistenza. Vive sulla strada. I luoghi che attraversa sono irreali (il paese dei balocchi, il ventre della balena, ecc.). Lo spazio di Pinocchio e` irreale. Irreale il suo tempo. Tolti lo spazio e il tempo, Pinocchio si presenta come la narrazione delle mille allegorie della realta` moderna. Rappresentazione di un “mondo sovrasensibile”, di un mondo fantasmagorico in cui i burattini camminano per strada e i tavoli (anch’essi di legno) danzano, fanno le bizze e si mettono con la testa in giu`50. Favola metafisica (nel senso letterale del termine: meta`-ta`-phusika`), dove e` possibile che tutto avvenga. Anche che un 49 Sull’“abitare” lo spazio e il tempo osservazioni assai significative sono nel saggio di B. de Giovanni, Topica e critica, in “Il Pensiero. Rivista di filosofia”, n. 1, 2002, pp. 31-45. 50 Si vedano le pagine che nel primo libro del Capitale (tr. it. di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1964, Prima sezione, cap. I, pp. 103-115) Marx dedica al feticismo della merce.

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burattino si trasformi in un bambino! E` solo in una fiaba, infatti, che questi strani personaggi come i burattini, assai diversi da noi (come dire, di una razza e di una cultura diversa dalla nostra), possono essere accolti, come se fossero comuni cittadini. Che i personaggi estranei alla “citta`” (e sul finire dell’800 estranei alla citta` erano, soprattutto, le masse contadine) acquisiscano piena cittadinanza e` cosa possibile. Anzi, e` cosa certa, ci dice Collodi, narrando le avventure di Pinocchio. Sennonche´, continuamente lo stesso Collodi ci ricorda che la sua e` solo una fiaba, che ha ben poco a che fare con il mondo storico e con la vita politica. Perche´, cos’e` in fondo Pinocchio? Un pezzo di legno che pretende di divenire cittadino di un Paese in cui non vi siano piu` gatti e volpi che vanno in giro a ingannare e a derubare i Pinocchio (i noncittadini, i sudditi). Un paese dove non vi siano paradisi artificiali (il “paese dei balocchi”). E, perche´ no! Dove non vi sia neppure l’intervento provvidenziale della Fatina. Pinocchio e` tutto questo. E` la favola di un popolo che pretende di non essere piu` suddito. Anzi, di un popolo che pretende di essere una Nazione. E a Collodi riesce difficile pensare che questa favola si realizzi. Dubita che a Pinocchio (all’estraneo, all’umile) sara` data cittadinanza. Anzi, egli – Collodi, dico – ci lascia persino pensare che Pinocchio – con la sua metamorfosi – sia solo il sogno di Geppetto. Forse, e` Geppetto il vero protagonista del racconto. E` un padre che sogna di dar vita ad un pezzo di legno e sogna che questo pezzo di legno divenga un bambino. Pinocchio, forse, e` solo il prodotto della fantasia di Geppetto. Pinocchio, forse, e` stato sognato da Geppetto, come un’“Italia civile” da Collodi. E, a questo punto, dovremmo anche chiederci: chi e` Geppetto? Un artigiano, si dira`. Un “creativo”, diremmo noi oggi. Ma, di lui Collodi (come Flaubert di Madame Bovary) avrebbe potuto dire: “c’est moi”. Allora, qualcosa si chiarisce: Collodi sogna che Geppetto sogni che un burattino divenga cittadino. C’e` solo da aggiungere che la “verifica storica” di quanto fosse fondato il dubbio di Collodi sulla reale metamorfosi di Pinocchio, sta nel fatto che tanti Pinocchio (dico: tanti della generazione di Pinocchio, nati negli anni ’80 e ’90 dell’Ottocento) moriranno sul Carso per una Patria che a stento li riconoscera` come propri cittadini. La Nazione, la nascita di una Nazione democratica (desiderata, cercata e sognata da Collodi, in maniera non diversa dai Mazzini, dai Cattaneo, dai De Sanctis) dovra` ancora attendere a lungo. E manchera` la Nazione, perche´ manchera` una morale laica e repubblicana. Si restera` in attesa della Fatina provvidenziale e/o della pietas cattolica. Ancora per decenni la Fiaba, non la politica, dovra` raccontare la storia dei sudditi che divennero cittadini.

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DALLA CRISI DEL RISORGIMENTO ALLA NASCITA DI UNA NAZIONE DEMOCRATICA

1. La crisi di fine secolo 1.1. Fine degli ideali risorgimentali In una pagina della Storia della politica estera italiana Federico Chabod ha con efficacia descritto il momento in cui gli ideali risorgimentali cessano di essere il coagulo dei sentimenti e degli interessi della classe dirigente italiana. “Era finito – egli scrive – il ciclo eroico delle lotte per l’unita`; e sino a quando l’irrompere delle masse sulla scena e l’affermarsi del movimento socialista non avessero posto un altro grande tema di battaglia, dando agli occhi dei piu` un significato preciso e concreto alla vita politica e destando sentimenti vivi laddove prima era indifferenza, quando non peggio, per la vita normale dello Stato, sembrava venissero a mancare negli italiani e la 1 voglia e la materia di ardenti lotte politiche.” Al volgere degli anni ’80 non solo il sinolo Patria-Liberta`, che aveva guidato le lotte risorgimentali, si era venuto offuscando, ma la stessa idea di uno Stato laico e indipendente aveva bisogno di trovare nuove motivazioni e nuove legittimazioni. Si stava insieme per compiere una missione, avevano sostenuto sia il Mazzini che il Mancini. Ora, veniva affievolendosi anche quel sogno di una Terza Roma (dopo la Roma imperiale e la Roma cristiana) che aveva nutrito la cultura laica e positivista. Ancora Chabod 1 F. Chabod, Storia della politica estera italiana. Dal 1870 al 1896, Laterza, Bari 1976, vol. II, p. 582.

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ricorda quella sera del 1871 in cui Mommsen si era rivolto a Quintino Sella, chiedendogli: “Ma che cosa intendete fare a Roma? Questo inquieta tutti: a Roma non si sta senza avere dei propositi cosmopoliti. Cosa intendete fare?”2. La Roma, che aveva sognato il Sella, era la Roma capitale del secolo della scienza e del progresso. Da Roma avrebbe dovuto irradiarsi il progresso scientifico. Una volta che il Papato aveva negato la sua disponibilita` alla costruzione del nuovo Stato-nazione e mostrato, con il Sillabo (1864), la sua opposizione al mondo moderno, compito della cultura laica era trasformare Roma nel centro mondiale per la lotta contro l’oscurantismo. Era questo il nuovo “proposito cosmopolita” da opporre al cosmopolitismo della Chiesa; il nuovo “Universale” che avrebbe legittimato lo stare a Roma del governo italiano. La delusione per il modo in cui si veniva costruendo il nuovo Stato nazionale non tardera` a diffondersi ed e` subito registrata dal Carducci. “A lei – scrive ad Arcangelo Ghisleri nel 1878 – pare una bella cosa questa Italia? Io penso che non sia bella”3. Non sara`, dunque, Roma la “capitale del XIX secolo”. I propositi di progresso e di liberta` non riusciranno ad unificare culturalmente la Nazione. La crisi della filosofia positivista, che apparira` manifesta negli ultimi anni del secolo, certo, non bastera` ad incrinare il concreto sviluppo della ricerca scientifica, ma segnera` l’indebolirsi di quella mentalita` progressiva e di quel progetto democratico, che erano sorti con la Rivoluzione francese e si erano diffusi nelle e´lites intellettuali italiane con il Risorgimento. Il positivismo e il progressismo presiederanno alla nascita del movimento socialista; rappresenteranno, cosı`, una parte importante della Nazione, ma solo una parte. Non giungeranno a costituirne la forma spirituale unitaria. La formazione di uno spirito collettivo nazionale (l’unificazione degli interessi, delle passioni e delle culture presenti sul territorio nazionale) risultera` assai piu` complesso e accidentato. Si assiste, a partire dagli anni ’80, ad un mutamento della “condizione di spirito” delle classi dirigenti italiane, ormai poco interessate a produrre ulteriori innovazioni politiche. Come scrivera` il Croce, si formano “nell’arte, nella filosofia, negli studi storici tipi psicologici affatto diversi. Abbiamo non piu` il patriota, il verista, il positivista, ma l’imperialista, il mistico, l’esteta, o com’altro si chiamino... Tutti costoro sotto vari nomi e maschere varie,

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F. Chabod, Storia della politica estera ecc., ed. cit., vol. I, p. 221. La scapigliatura democratica. Carteggi di Arcangelo Ghisleri: 1875-1890, a cura di P. C. Masini, Milano 1961, p. 139. La citazione e` tratta da: A. Asor Rosa, La cultura, in Storia d’Italia, vol. IV, t. 2˚, Einaudi, Torino 1975, p. 824. 3

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lasciano tralucere una comune fisionomia. Sono tutti operai della medesima industria: la grande industria del vuoto”4. Nell’arco di pochi anni una serie di studi evidenzieranno questo mutamento degli orientamenti ideali. La cultura politica non agitera` piu` i temi relativi alla costruzione di una Patria che avrebbe coniugato Liberta` e Progresso, ma esprimera` la convinzione che una societa` dominata dai particolarismi possa essere governata solo restaurando un comando politico non condizionato dalla volonta` popolare. Dopo la pubblicazione nel 1881 del volume di Minghetti su I partiti politici (su cui ci siamo gia` soffermati), nel 1882 viene pubblicato lo scritto di Pasquale Turiello su Governo e governati in Italia e nel 1884 Sulla teorica dei governi e sul governo rappresentativo di Gaetano Mosca. Seguiranno alcuni fondamentali scritti di Vittorio Emanuele Orlando: Gli studi giuridici sul governo parlamentare (1886) e i Principi di diritto costituzionale (1888). In queste opere sono gia` presenti i principali temi che animeranno – sino alla Grande guerra – il dibattito teorico intorno alla forma dello Stato post-risorgimentale. In esse si tenta l’analisi dei caratteri di uno Stato-Nazione che, costruito attraverso la diplomatizzazione della lotta per l’indipendenza, ha mancato l’obiettivo di emancipare gran parte della popolazione dalla sua condizione di sudditanza e, ora, per poter concorrere nell’arena delle grandi potenze europee e del mercato internazionale, si trova di fronte alla necessita` di innovare le proprie strutture produttive e politiche. Al centro degli scritti ricordati e`, dunque, il tema della definizione delle forme di comando e della cultura di governo atte a produrre tale modernizzazione, in una fase storica in cui la stessa innovazione produttiva suscita l’organizzazione di nuove soggettivita` sociali. Le plebi, escluse dal processo risorgimentale, acquistano una nuova forma entro lo sviluppo produttivo nazionale e si aggregano in “corporazioni” che ambiscono ad avere una rappresentanza politica. Diviene, allora, assai difficile immaginare una crescita complessiva della Nazione che continui ad escludere queste nuove soggettivita` dalla vita politica. Confrontarsi con questo nuovo problema (il governo delle masse) diviene un banco di prova decisivo per quella cultura liberale che, sino a quel momento, aveva espresso la propria forza liberatrice e progressiva attraverso la dottrina della “limitazione dei poteri”. Ora, occorreva ricostruire il principio di comando e impedire la disgregazione della nazione in presenza (sous l’oeil, si potrebbe dire) di queste nuove soggettivita`. Tale ricostruzione poteva 4 B. Croce, Di un carattere della piu` recente letteratura italiana (1907), in Id., La letteratura della nuova Italia, IV, Laterza, Bari 1964, p. 201.

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procedere sia attraverso una nuova e piu` violenta esclusione delle nuove soggettivita` sociali, sia attraverso la elaborazione di una nuova idea di sovranita` in grado di riconoscerle come componenti fondamentali della “citta`”. E` la co-presenza di queste due opzioni strategiche a definire, in questa fase, il terreno del confronto politico. Il comune riferirsi di quegli scritti ad una tradizione liberale e la loro comune tendenza a mettere in discussione non solo il giacobinismo e il Terrore, ma le stesse idee democratiche affermatesi con la Rivoluzione francese, non deve indurre a sottovalutare le differenze, che in esse si riscontrano, sul concetto di sovranita` e sulle forme di governo delle masse. Se, infatti, un Turiello o un Orlando sono portati a pensare la sovranita` statuale come un presupposto, al contrario il Mosca concepisce la formazione di una “minoranza governante” come il risultato di un confronto politico. In tale confronto vince e riesce a imporre il proprio comando, chi sa giustificarlo, motivarlo e legittimarlo attraverso l’organizzazione del consenso. La Sovranita`, allora, non e` presupposta, non discende da alcun tipo di investitura divina o popolare, ma e` legata e subordinata ai meccanismi della competizione politica.

1.2. La ricerca di un nuovo principio di “sovranita`”. V. E. Orlando e P. Turiello Nei Principi di diritto costituzionale Vittorio Emanuele Orlando* definisce la sovranita` “l’affermarsi dello Stato come persona giuridica”. Seguendo il Laband, egli sostiene che e` lo Stato la principale fonte di diritto. Dallo Stato derivano anche i diritti subbiettivi. La stessa liberta` individuale non e` – come aveva sostenuto il giusnaturalismo e la Rivoluzione francese proclamato – un diritto innato degli individui, ma si afferma solo sulla base di una pre-costituita volonta` dello Stato. Per Orlando, “la Sovranita` e` dello Stato e contiene tutto il diritto dello Stato”5. Tutto deriva dalla volonta` statale. Lo Stato e` presupposto all’organizzazione della vita sociale ed e` il soggetto * Vittorio Emanuele Orlando (Palermo 1860-Roma 1952), docente di diritto costituzionale e uomo politico. Ministro degli interni nel 1916, dopo la sconfitta di Caporetto (1917) fu nominato Presidente del Consiglio. Nel 1925 si dimise dalla Camera e si schiero` contro il fascismo. Nel 1946 fu eletto deputato alla Costituente. Tra le sue opere principali: Principi di diritto costituzionale (1888) e Principi di diritto amministrativo (1890). 5 G. Gozzi, Modelli politici e questione sociale in Italia e in Germania fra Otto e Novecento, il Mulino, Bologna 1988, p. 235.

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principale del mondo storico. E` questa la definizione di uno “Stato in se´”6, la cui autorita` non puo` essere fondata su un potere costituente che lo trascende e legittima. Se cosı` fosse, potrebbe essere continuamente destabilizzato da questo potere “ulteriore”. Esso deve fissarsi come una “forma in se´”. Muovendosi in questa direzione, Orlando elabora una visione dello Stato di diritto come Stato-persona la cui sovranita` si definisce attraverso meccanismi autonomi, sottratti ad ogni ingerenza delle rappresentanze politiche o di soggettivita` sociali. Anzi, la stessa rappresentanza politica viene concepita come una derivazione della sovranita` dello Stato. Percio`, si puo` dire che, per Orlando, “l’eletto non rappresenta l’elettore, bensı` lo Stato stesso”7. La sovranita` dello Stato viene, cosı`, separata dalla mutevole volonta` di un elettorato, che puo` cambiare la propria rappresentanza secondo gli interessi prevalenti. La volonta` dello Stato deve fissarsi nelle sue forme autonome, al di la` della volonta` dell’elettorato. Per questa ragione, pur respingendo la prospettiva di un “ritorno allo Statuto”, Orlando accetta l’idea di un “governo di gabinetto” quale “punto medio” tra la monarchia e il parlamento. Un parlamento, comunque, pensato come forma istituzionale autonoma, separata dalla volonta` dell’elettorato. L’obiettivo di Orlando e` quello di togliere ogni riferimento alla sovranita` popolare. A quel popolo che, escluso dal Risorgimento, cominciava a farsi sentire attraverso organizzazioni sociali e politiche, ma che, secondo Orlando, occorreva mantenere fuori dalla sfera della decisione politica, per evitare che l’unita` e l’autonomia della sovranita` statale potessero incrinarsi. Una simile visione dello “Stato in se´” (o come presupposto) non era del tutto nuova nel liberalismo italiano. Gia` nell’opera di Angelo Camillo De Meis, Il Sovrano (1868)8, si era posto l’accento su un concetto di Stato che doveva essere in grado di auto-fondarsi e ritrovare la propria autonomia nella formazione di un ceto amministrativo autorevole e colto, capace di vedere l’interesse generale della Nazione. Ma, in quella fase, l’accento cadeva sulla

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L’espressione e` usata da M. Fioravanti nel saggio: Costituzione, amministrazione e trasformazione dello Stato, nel volume, a cura di A. Schiavone, Stato e cultura giuridica in Italia dall’Unita` alla Repubblica, Laterza, Bari 1990. Ma sui temi qui trattati sono da vedere anche: F. Tessitore, Crisi e trasformazione dello Stato, Morano, Napoli 1962, e F. Ciarleglio, La piramide capovolta, Vivarium, Napoli 2002. 7 G. Gozzi, Modelli politici ecc., ed. cit., p. 237. 8 L’opera del De Meis fu ripubblicata, a cura di B. Croce, nel 1927 presso le edizioni Laterza. Sul De Meis cfr. G. Negrelli, Storicismo e moderatismo nel pensiero di Angelo Camillo De Meis, Giuffre`, Milano 1968.

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necessita` di costruire la struttura di uno Stato unitario capace di vincere i particolarismi e i localismi, derivati dalla lunga storia di piccoli principati che aveva dominato la realta` politica italiana. Trasportata sul finire dell’Ottocento, in una situazione politica che vedeva ormai l’emergere di nuove soggettivita` sociali, l’idea di una sovranita` autofondata non poteva non coniugarsi con una linea politica che risultava illiberale. Il tono delle riflessioni orlandiane, comunque, restava di carattere dottrinario e non mostrava di voler sollecitare un ulteriore irrigidimento in chiave reazionaria della pratica politica corrente. Ma, se guardiamo allo scritto di Pasquale Turiello*, Governo e governati in Italia (1882), gia` si nota una prospettiva politica che suggerisce il ritorno a una forma di “Stato organico”. Turiello rifiuta recisamente tutte le riforme introdotte negli anni ’80 (l’allargamento del suffragio universale, l’abolizione della pena di morte, il decentramento politico-amministrativo), ma, soprattutto, ritiene necessario “ristrutturare la rappresentanza politica su basi corporative opportunamente adeguate ai “ceti diversi” e alle loro diverse capacita`”9. Si sente, in Turiello, il rimpianto di un antico ordine politico in cui essere sociale e rappresentanza politica risultano immediatamente coincidenti. Non v’e` solo il disegno di neutralizzare il conflitto sociale o di impedire una maggiore presenza delle masse nell’organizzazione dello Stato, ma v’e` soprattutto l’attacco frontale a quella figura del “cittadino” – quale soggetto di un diritto eguale – che era stata affermata dalla Rivoluzione francese. Era questo un modo per mettere in discussione i princı`pi dell’ ‘89 e quella distinzione tra il sociale e il politico, tra il bourgeois e il citoyen, che intendeva garantire la pari dignita` degli individui e la loro partecipazione alla formazione delle decisioni politiche. Non e` un caso, percio`, se, in occasione del centenario della Rivoluzione francese, il governo italiano si preoccupi di affidare a Ruggero Bonghi* un corso di lezioni su quell’evento storico con l’obiettivo di contrastare l’inter* Pasquale Turiello (Napoli 1836-1902), compiuti gli studi, si dedico` alla professione di avvocato per un solo anno. Nel 1860 prese parte alla spedizione dei Mille. Nel 1870 divento` redattore del foglio napoletano “Nuova Patria” e dal 1865 al 1874 ricoprı` diversi incarichi di carattere amministrativo. Dal 1884 al 1890, fu direttore degli studi del R. Conservatorio Regina Margherita. Tra gli altri suoi scritti sono da segnalare: Il parlamentarismo in Italia (1893) e Politica contemporanea (1894). 9 F. Gaeta, La crisi di fine secolo e l’eta` giolittiana, Tea, Milano 1996, p. 22. * Ruggero Bonghi (Napoli 1826-Torre del Greco 1895) fu relatore della legge delle Guarentigie (1871) e ministro della Pubblica Istruzione (1874-1876). Nel 1882 fondo` la rivista “La Cultura”. Tra le sue opere: L’ufficio del principe in uno Stato libero (1893) e Il diritto del principe in uno Stato libero (1895).

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pretazione democratica che ne veniva fornendo Antonio Labriola10. Sempre in quell’anno il Bonghi pubblica lo scritto manzoniano su La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859 con l’intento di mettere in discussione i princı`pi democratici e di valorizzare l’immagine di una “rivoluzione italiana” pensata e realizzata in continuita` con la storia del Regno di Sardegna. Si trattava di riaffermare – contro ogni possibile prospettiva neo-giacobina – l’idea della monarchia come fonte dell’ordinamento giuridico-politico e come forza costitutiva del processo risorgimentale. Occorreva ribadire che lo Stato unitario era nato per iniziativa della monarchia piemontese e non sulla spinta della Rivoluzione francese. Se la generazione del romanticismo (da Foscolo a Nievo) aveva pensato di “proseguire la rivoluzione”, innestandone i princı`pi sul terreno nazionale e rifiutando la politica del Terrore, ora la generazione post-risorgimentale dei Turiello, dei Bonghi, degli Orlando tende a mettere in discussione proprio i princı`pi di cittadinanza affermatisi con quella Rivoluzione. Matura, in definitiva, una forma di liberalismo ristretto che vuole ricondurre i processi di articolazione della societa` civile e la formazione di nuove soggettivita` sociali entro un quadro istituzionale rigidamente chiuso ad ogni possibile ampliamento delle forme di rappresentanza. E` nello scritto di Sidney Sonnino** Torniamo allo Statuto (1897) che questa visione dello “Stato in se´” trovera` la sua piu` efficace traduzione politica. Anche il Sonnino pensava ad una specie di “principato assoluto”: il Principe (o il Monarca) era visto non solo come figura “al di sopra delle parti”, ma quale fonte del diritto; percio`, scriveva che “il potere esecutivo, dovendo, nella sua azione di governo, mantenersi al di sopra e al di fuori dei partiti e non dovendo favorire gli interessi della maggioranza piuttostoche´ quelli della minoranza, o degli elettori anziche´ dei non elettori, ma considerare tutti i cittadini allo stesso modo, tenendo conto del solo interesse generale dello Stato, dev’essere dipendente da chi non puo` non immedesimarsi sempre con questo interesse generale; e non potrebbe mai essere affidato ad un istituto che fosse la emanazione diretta della maggioranza e di un solo partito”11. La sovranita` 10

Su questo episodio cfr. L. Mangoni, Gli intellettuali alla prova dell’Italia unita, in G. Sabbatucci e V. Vidotto (a cura di), Storia d’Italia, vol. 3˚: Liberalismo e democrazia, Laterza, Bari 1995, pp. 457-459. ** Sidney Sonnino (Pisa 1847-Roma 1922) fu ministro delle Finanze e del Tesoro (1894-1896) e presidente del Consiglio nel 1906 e nel 1910. Ministro degli esteri tra il 1914 e il 1919. 11 S. Sonnino, Torniamo allo Statuto, pubblicato in “Nuova Antologia” del 1 gennaio 1897, pp. 9-28, ora in Id., Scritti e discorsi extra-parlamentari. 1870/1922, vol. I, Laterza, Bari 1972, p. 590.

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veniva separata anche dalla volonta` della maggioranza e finiva, cosı`, con l’essere ipostatizzata.

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1.3. Critica del parlamentarismo e teoria delle e´lites in Gaetano Mosca La critica del parlamentarismo che Gaetano Mosca* sviluppa nei suoi scritti non e` meno dura di quella di Orlando o di Sonnino. Anche per Mosca occorre decostruire il dogma della sovranita` popolare e denunciare le aporie delle forme parlamentari di rappresentanza politica. “La Camera dei deputati – egli scrive nella Teorica dei governi – va cosı` sempre piu` diventando una parziale e fittizia rappresentanza del paese (...) I membri di essa non rappresentano che una quantita` di interessi essenzialmente privati, la cui somma e` lungi dal formare l’interesse pubblico”12. La rappresentanza parlamentare e`, dunque, per Mosca, un sistema che non consente la selezione dei “migliori”. Essa e` inadatta a regolare e a governare una societa` complessa, perche´, lungi dal produrre una sintesi nazionale degli interessi, finisce con il trasporre all’interno stesso della vita statale i corporativismi e gli interessi privati presenti nella societa` civile. L’analisi del pensatore siciliano non concede nulla alla retorica democratica, all’idea che l’affermazione della sovranita` popolare sia, di per se´, garanzia di giustizia sociale e liberta` politica. Anzi egli mostra di credere che, non garantendo il “governo dei migliori”, la democrazia facilmente decada e si corrompa. E tuttavia, non e` possibile chiudere la riflessione di Mosca entro l’orizzonte di una critica conservatrice del parlamentarismo. Non solo perche´, di fronte al fascismo osera` difendere il pluralismo e il governo parlamentare13, ma perche´ i concetti (classe politica, formula politica, difesa giuridica) che reggono la sua riflessione, se letti nella loro unita` e organicita`, concorrono a formare una visione della sovranita` diversa da quella orlandiana dello “Stato * Gaetano Mosca (Palermo 1858-Roma 1941), docente di diritto costituzionale e di storia delle dottrine politiche, fu sottosegretario alle colonie dal 1914 al 1916. Nel 1919 fu nominato senatore. Dopo la Teorica dei governi del 1886, pubblica nel 1887 Le costituzioni moderne. La prima edizione degli Elementi di scienza politica e` del 1896. La seconda edizione, rivista e ampliata, apparira` nel 1923. Del 1937 e` la Storia delle dottrine politiche. 12 G. Mosca, Scritti politici, a cura di G. Sola, vol. I: Teorica dei governi e governo parlamentare, UTET, Torino 1982, p. 485. 13 Cfr. E. A. Albertoni, Storia delle dottrine politiche in Italia, Edizioni di Comunita`, Milano 1990, pp. 642-643. Ma su G. Mosca cfr. anche N. Bobbio, Saggi sulla scienza politica in Italia, Laterza, Bari 1969.

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in se´”. Gli e` che, per Mosca, la classe politica e` classe dirigente, se riesce a creare un sistema di governo e di organizzazione del consenso (ovvero, una formula politica) che le consenta di affermare e di conservare il proprio comando attraverso la difesa giuridica. “La formula politica – ha osservato Giorgio Sola – per Mosca e` al tempo stesso l’insieme dei principi astratti con i quali i governanti giustificano il proprio potere e il principale strumento di coesione sociale”14. Ma, la stessa organizzazione del consenso non puo` essere costruita, se non si riconosce ad ogni singolo cittadino il diritto di “difendere” la propria liberta` e di costruire autonomamente il proprio giudizio politico. Il nodo che Mosca intende affrontare e` sı` quello di dare ordine e forma ad una societa` che appare attraversata da interessi e corporativismi inconciliabili; e` sı` quello di impedire che il concetto di “cittadinanza” assuma il carattere eversivo che aveva assunto durante la Rivoluzione francese. Ma tale composizione in un sistema unitario degli interessi e delle passioni e` pensata come il risultato di una lotta per la conquista del consenso e non come un presupposto: una sintesi voluta e imposta da una qualche autorita` pre-costituita. In questo senso, la “chiave di volta” del sistema moschiano e` data proprio dal concetto di difesa giuridica. E` tale concetto che consente di attribuire la sovranita` al cittadino, trasformandolo da soggetto astratto o naturale in un soggetto giuridicamente definito; in un soggetto regolato nei suoi comportamenti da norme giuridiche che lo dotano di diritti, ma che, nello stesso tempo, lo limitano nell’esercizio di tali diritti, impedendogli di contrapporre il proprio corporativismo all’interesse generale. Dunque, il comando esercitato da una determinata classe politica non e` separabile, in Mosca, dalla costruzione di un consenso. E tale comando non solo deve costruirsi attraverso un processo che vede concorrere una molteplicita` di soggetti sociali, ma deve essere limitato in maniera tale che la minoranza possa essere posta nelle condizioni di poter aggregare nuove forze intorno a se´. Deve essere sempre garantita la circolazione delle e´lites. La prima considerazione da fare e` che in Mosca (come in Minghetti) la critica del corporativismo dei partiti politici non travalica la originaria caratterizzazione liberale della sua riflessione. I principi fondamentali del liberalismo (limitazione e alternanza delle forze al potere, fondazione del potere sul consenso, difesa dei diritti individuali) non vengono mai meno. Anzi, v’e` un primo tentativo di adeguare la dottrina liberale alla nascente societa` di massa. Certo, Mosca denuncia con forza il carattere illusorio 14

G. Sola, La teoria delle e´lites, il Mulino, Bologna 2000, p. 75.

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della sovranita` popolare e contesta il valore del suffragio universale, ma, riproponendo il problema del rapporto popolo-rappresentanza-sovranita`, vede bene che il tema centrale della nuova fase e` il governo delle masse attraverso forme politiche che garantiscano la circolazione delle e´lites. E` questa la via pensata per incorporare le masse. Non si tratta, per Mosca, di escludere la presenza del popolo dalle istituzioni e dalle forme di rappresentanza, ma di “contenerlo” attraverso un ricambio continuo delle e´lites; un ricambio che assorba e digerisca tutte le istanze sociali, attraverso una lotta che selezioni i migliori e i piu` sensibili all’interesse generale. Siamo, cosı`, di fronte ad un liberalismo che si avvia a ridefinire le proprie categorie. Non piu` il liberalismo ristretto, che teorizzava la sovranita` statale come un “in se´”, ma un liberalismo che pensa di poter raggiungere la sintesi politica degli interessi attraverso il ricambio continuo della aristocrazia politicointellettuale. Solo attraverso questo ricambio e` possibile selezionare le e´lites capaci di inglobare le masse e di esprimere l’interesse generale. Mosca si presenta, cosı`, come un conservatore che comprende che, per conservare, occorre (talvolta) innovare e che l’innovazione politica non puo` piu` ignorare i caratteri di una societa` di massa. Sotto questo profilo, egli non e` ne´ un semplice scienziato della politica, ne´ un neo-machiavelliano, ma il primo attento analista della politica nell’epoca in cui le e´lites, per conservare il dominio politico, devono giungere a comprendere e a governare ogni mutazione della morfologia sociale. La crisi che attraversera` l’Italia alla fine del secolo, quando una borghesia impaurita usera` l’esercito, per reprimere le manifestazioni di una popolazione stremata dalla scarsita` di mezzi di sussistenza, rendera` chiaro che la politica di esclusione delle masse non poteva dare solide basi ai governi liberali, ne´ assicurare una tranquilla crescita economica. La stabilita` dei governi e l’autorita` dello Stato non potevano essere garantite da un sistema istituzionale che assicurava la cittadinanza a ristretti settori della Nazione. Il ’98 segnera` la crisi della visione della Sovranita` come “forma in se´”; come spazio autonomo, sottratto alle lotte e alle mediazioni che attraversano la societa`.

2. La nazionalizzazione delle masse 2.1. Socialismo e Nazione. Tra Filippo Turati e Antonio Labriola Nella riflessione di Mosca e` divenuto chiaro il mutamento del terreno del confronto politico. Mosca sa che le classi dirigenti italiane non hanno piu`

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di fronte a se´ un “volgo disperso”, ma un nuovo soggetto politico. Ha ben presente la realta` delle classi subalterne che si vengono organizzando. Pochi anni dopo la pubblicazione della Teorica dei governi, nel 1892, a Genova, nasce il Partito Socialista. Il suo gruppo dirigente (Costa e Turati, in particolare) si era venuto formando attraverso gli ideali risorgimentali e nella cultura positivista. Erano – ha scritto Benedetto Croce – “uomini che avevano cominciato da repubblicani, democratici, liberali e, checche´ dicessero, tali si mantenevano nel loro fondo, gli stessi che, cinquant’anni prima, sarebbero stati patrioti del Risorgimento, e ora, nelle nuove condizioni e innanzi a nuovi problemi, si erano fatti socialisti”15. Le tradizioni repubblicane e mazziniane erano confluite nel Psi attraverso il gruppo di intellettuali che si era riunito intorno al giornale “La Plebe”, che, fondato da Enrico Bignami (1844-1921) a Milano nel 1875, aveva propagandato un socialismo che riusciva a mediare l’insegnamento di Cattaneo con quello di Proudhon (1809-1865). Il giornale, soprattutto attraverso la collaborazione di Osvaldo Gnocchi-Viani (1837-1917), venne assumendo un atteggiamento sempre piu` attento alle analisi del capitalismo industriale, che venivano svolte dalla socialdemocrazia tedesca. “La Plebe” contribuı`, cosı`, alla formazione di una diffusa sensibilita` alle tematiche operaie e favorı` il passaggio da un socialismo anarchico (costruito sulle velleita` di gruppi minoritari) a un socialismo democratico in grado di guardare alla vita quotidiana di larghi strati della popolazione, di affrontarne i problemi e di individuare le possibili soluzioni entro il quadro istituzionale dato. Una tale “svolta” negli orientamenti ideali delle forze socialiste venne esplicitamente teorizzata da Andrea Costa* in una lettera Ai miei amici di Romagna pubblicata su “La Plebe” nel 1879. In essa il Costa evidenziava la necessita` di abbandonare le prospettive cospirative e insurrezionali, per tornare a “rituffarsi” nel popolo. In questo mutamento di strategia v’e`, senz’altro, da leggere una prima riflessione intorno alla sconfitta della Comune di Parigi. D’altra parte, i socialisti italiani non potevano non far tesoro delle sconfitte subite dai moti mazziniani e non potevano non riconoscere che l’unita` politica dell’Italia era stata realizzata dalle forze moderate. Era finita l’epoca delle insurrezioni o, per usare un’espressione gramsciana, “l’epoca dell’at-

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B. Croce, Storia d’Italia dal 1871al 1915 (1928), Laterza, Bari 1973, p. 152 (cap. VI). * Andrea Costa (Imola 1851-1910), primo deputato socialista al Parlamento (1882), fondo` nel 1880 la “Rivista internazionale del socialismo” e nel 1881 il settimanale “Avanti!”. Dal 1908 al 1910 fu vicepresidente della Camera.

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tacco frontale”. Iniziava l’epoca in cui le fondamentali classi sociali organizzano le proprie forze in “trincee” e “casematte” e si preparano ad un lungo periodo di “reciproco accerchiamento”. Per difendere le classi subalterne e portarle al governo, occorreva un lavoro di piu` lunga lena. E sara` il vecchio Engels, nella sua Introduzione (1895) a Le lotte di classe in Francia di Karl Marx, a fornire le categorie per ripensare il rapporto tra il movimento dei lavoratori e le istituzioni rappresentative, tra il socialismo e la democrazia16. Quando nasce il Psi l’idea giacobina di una insurrezione di popolo e` gia` morta. Prevale una visione evoluzionista della storia: l’idea di una graduale crescita delle facolta` di governo della classe operaia. Rappresentanti di spicco di tale visione teorica e strategica saranno Filippo Turati* e Claudio Treves**. Sul finire del secolo, lo sviluppo di una economia centrata sulla Grande Fabbrica mostrava come l’aggregarsi di masse lavoratrici nelle citta` implicasse sia una crescita dei consumi che lo strutturarsi di una societa` civile ricca di forme associative e di nuovi meccanismi di comunicazione sociale. Lo stesso sviluppo industriale induceva una integrazione delle classi subalterne entro le forme della modernita` (educazione, associazionismo, rappresentanze sociali e politiche) e diveniva inevitabile che tali classi reclamassero l’acquisizione di una piena cittadinanza civile e politica. Sennonche´ il socialismo dei Turati e dei Treves, se conduceva il movimento operaio a comprendere le potenzialita` di crescita democratica che le istituzioni rappresentative consentivano, tuttavia non riusciva, ancora, a elaborare una visione organica dello sviluppo nazionale. Per questa ragione, la loro posizione apparve, a settori consistenti dello stesso movimento socialista, piu` un cedimento alle ideologie borghesi, che non una elaborazione strategica autonoma. Il socialismo si mostro`, cosı`, sin dai suoi primi anni di vita diviso tra due anime. La prima fu detta “minimalista”, perche´ riteneva prioritario lottare per gli obiettivi minimi (difesa del salario e degli interessi immediati dei lavoratori, difesa delle istituzioni democratiche). La seconda “massimalista”, perche´ riteneva indispensabile coniugare, immedia-

16

Cfr. F. Engels, Introduzione a K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 ql 1850, a cura di G. Giorgetti, Editori Riuniti, Roma, pp. 76 e passim. * Filippo Turati (Canzo, Como 1857-Parigi 1932) a partire dal 1891, insieme ad Anna Kuliscioff (1857-1925) diresse la rivista “Critica sociale”. Nel 1922 uscı` dal Psi e fondo` il Partito Socialista Unitario. Durante il fascismo fu costretto all’esilio a Parigi e, con Nenni, ricostruı` l’unita` del Psi. ** Claudio Treves (Torino 1869-Parigi 1933), deputato dal 1906, guido` insieme a Turati la corrente riformista nel Psi. Durante il periodo fascista, emigrato a Parigi, organizzo` la “concentrazione antifascista”.

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tamente, la conquista degli obiettivi minimi con la lotta per gli obiettivi massimi (conquista del potere attraverso lo sciopero di massa e realizzazione del fine ultimo: il socialismo). Il movimento socialista non riuscı` a vincere del tutto le tendenze anarchiche che, nel suo stesso seno, si ripresentarono sia nella forma di una visione radicalizzata dell’evoluzionismo sociale con Enrico Ferri*, sia in quella del sindacalismo rivoluzionario di Arturo Labriola**. Il primo, a digiuno delle teorie marxiste e seguace della filosofia positivista e, in particolare, delle teorie di Cesare Lombroso (1835-1909) intorno all’evoluzione delle specie, elaboro` una visione deterministica e semplicistica della storia, secondo cui l’antagonismo tra le classi fondamentali della societa` moderna (la borghesia e il proletariato) avrebbe inevitabilmente condotto all’evoluzione del capitalismo in una “specie sociale superiore”: il socialismo. Il Labriola, invece, ripropose in Italia le teorie elaborate da Georges Sorel (1847-1922) intorno alla necessita` di approfondire lo “spirito di scissione”, che attraversa il mondo moderno. Volle, percio`, insistere sull’iniziativa politica delle grandi masse, sul “momento soggettivo”, per giungere rapidamente a “un governo autonomo della produzione per opera della classe operaia associata”. In ogni caso, e` una immagine assai semplificata della societa` a indurre le correnti estreme del socialismo a pensare come attuale il raggiungimento degli “obiettivi massimi”. Sennonche´, l’idea di un fine ultimo permane anche tra i riformisti e la reale differenza tra “minimalisti” e “massimalisti” e` sulla valutazione delle opportunita` e sui tempi della lotta di classe. La separazione tra politica democratica e fine ultimo attraversa l’intero movimento socialista e la stessa coscienza dei singoli militanti. L’origine di tale separazione sta nella mancata individuazione della funzione nazionale della classe operaia. Il movimento socialista non seppe saldare la difesa degli interessi corporativi della classe operaia con una idea dello sviluppo economico dell’intera nazione. La classe apparve sempre come una forza sociale tesa ad affermare i suoi legittimi diritti, ma non come portatrice di una politica in grado di * Enrico Ferri (San Benedetto Po 1856-Roma 1929), penalista e seguace del positivismo, analizzo` il crimine in rapporto ai fattori fisiologici e sociali. Fu anche direttore dell’‘‘Avanti’’. Successivamente aderı` al fascismo e divenne senatore del Regno. ** Arturo Labriola (Napoli 1873-1959), eletto deputato nel 1913, sostenne l’intervento dell’Italia nella Prima guerra mondiale. Fu ministro del Lavoro nel governo Giolitti (1920-1921). Nel 1946 fu eletto all’Assemblea Costituente e, successivamente, fu nominato senatore a vita. Tra le sue opere: La teoria del valore di K. Marx (1899), Storia di dieci anni. 1899-1909 (1910).

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garantire gli interessi e la crescita civile di tutti gli strati sociali. Il socialismo divenne espressione di un nuovo solidarismo sociale, di una nuova etica pubblica, ma tale etica non si concretizzava in proposte politiche capaci di produrre innovazioni istituzionali. Non bastava l’accettazione della “via democratica”, per trasformare il movimento socialista in una forza politica dirigente. Non bastava rifiutare il rivoluzionarismo giacobino e accettare le forme della democrazia, occorreva sviluppare una idea della Nazione. Manco` al socialismo democratico l’elaborazione del nesso classe operaia/sviluppo nazionale. E, mancando di una idea dello sviluppo nazionale (nonche´ della sua collocazione nel mercato internazionale), di fronte alle innovazioni dei governi giolittiani (dalla nuova legislazione sociale alla riforma elettorale) sara` costretto a una opposizione puramente ideologica. I limiti della cultura socialista sono tutti riscontrabili nel modo in cui essa affronto` la questione meridionale. E` nella questione meridionale, infatti, che diviene esplicito che il problema della unificazione giuridicopolitica del territorio nazionale coincide con il problema dell’acquisizione di una reale cittadinanza politica da parte delle masse contadine. Dare “cittadinanza” alle passioni e agli interessi del mondo contadino significava includere nello Stato italiano quelle soggettivita` che, pur organicamente legate alla struttura del territorio nazionale, continuavano a restare escluse dai processi di formazione dell’opinione pubblica e delle decisioni politiche. Significava ampliare le basi sociali dello Stato di diritto, abbandonare l’idea di una sovranita` mono-archica e concepire una sovranita` poli-archica fondata sul riconoscimento della pluralita` delle figure sociali (della citta` e della campagna), che contribuivano alla riproduzione complessiva della vita nazionale. Certo, i socialisti, e Turati medesimo, erano assai sensibili alle sofferenze delle “plebi” meridionali, ma non considerarono l’arretratezza meridionale come una questione la cui soluzione potesse consentire alla classe operaia di ridisegnare le forme dello sviluppo nazionale e di costruire le proprie funzioni dirigenti. Per Turati, la questione meridionale era solo l’espressione di un mondo ancora feudale, che spettava alla borghesia, non alla classe operaia, modernizzare. Spettava alla borghesia portare a compimento la sua rivoluzione anti-feudale. La questione meridionale era il segno dell’esistenza di “due civilta`”, di “due nazioni”. La frattura tra questi due mondi poteva essere superata solo attraverso lo sviluppo omogeneo dell’economia capitalistica.17 17 Per le posizioni di Turati sulla questione meridionale cfr. C. Petraccone, Le due civilta`, Laterza, Bari 2000, pp. 181-191.

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La questione della cittadinanza delle masse contadine, e del territorio cui esse erano legate, veniva, per il momento, lasciato nelle mani del sindacalismo rivoluzionario e del nascente movimento cattolico. In seguito, pero`, il tema del rapporto tra masse e Nazione sara` affrontato da forze politiche piu` aggressive. L’ideologia della “Grande Proletaria” potra` maturare per l’assenza di un progetto di nazionalizzazione democratica delle masse, di una visione unitaria della crescita civile e politica della Nazione. Occorreva, dunque, al socialismo una piu` compiuta revisione dottrinaria. Il gradualismo democratico di Turati (ancora troppo legato ad una visione evoluzionistica e finalistica della storia) non ebbe la forza teorica per produrre tale revisione. Fu, invece, un filosofo, Antonio Labriola*, a guardare la storia del Risorgimento e dell’Italia “fine secolo” dall’angolo visuale della costituzione di un moderno Stato democratico e pluralista; a respingere la chiusura del marxismo al “punto di vista operaio” e a esprimere una visione del socialismo come teoria della crescita civile dell’intera Nazione18. Antonio Labriola si era formato alla scuola di Bertrando Spaventa, ma aveva riletto Hegel alla luce del realismo di Herbart (1776-1841). La filosofia di Herbart gli aveva consentito di sfuggire a quel panlogismo monista, cui sembrava approdare l’ortodossia hegeliana. Attraverso Herbart, Labriola si era educato alla visione di un mondo irriducibile ad un principio unico. La realta` gli appariva costituita da un sistema strutturato di forme distinte, differenziate e, quindi, originariamente plurale. Da qui una lettura del marxismo che lo conduceva a respingere ogni interpretazione meccanica e/o epifanica del nesso struttura-sovrastruttura e che gli consentiva di pensare la storia non come un divenire lineare, determinato da ferree leggi economiche, ma come il confronto tra le molteplici “visioni del mondo” di cui i soggetti politici sono portatori. Egli concepiva, percio`, una dialettica storica sempre aperta. Respingeva la dialettica triadica (tesi-antitesi-sintesi), perche´ riteneva che la molteplicita` dei piani dell’agire umano non consentisse la riduzione del processo storico ad una compatta e conclusa unita`. La dialettica materialistica, come la immagina Labriola, e` una dialettica diadica, dove l’opposizione tra le forze e` reale e non v’e` possibilita` di prevedere una * Antonio Labriola (Cassino 1843-Roma 1904) dal 1874 insegno` filosofia morale e filosofia della storia all’Universita` di Roma. Tra i suoi scritti marxisti sono da ricordare: In memoria del Manifesto dei comunisti (1895), Del materialismo storico (1896), Dicorrendo di socialismo e filosofia (1898). 18 Cfr. C. Luporini, Il marxismo e la cultura italiana del Novecento, in Storia d’Italia, vol. V, t. 2˚: I documenti, Einaudi, Torino 1973, pp. 1586-1589.

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loro sintesi. La previsione morfologica – di cui egli parlera` nei saggi sul materialismo storico – riguarda solo l’analisi delle forze in campo. Cio` che e` prevedibile e` solo la forma della lotta (l’opposizione reale), non il suo “risultato”. E` ogni idea di “storia a disegno” che viene rifiutata. E` il rifiuto di ogni concezione monista e teleologica della realta`. Sennonche´, l’elaborazione di Labriola, se colpiva l’idea del socialismo come il fine ultimo, verso cui la storia tenderebbe ineluttabilmente, e se liberava il marxismo da ogni incrostazione positivista, non incideva sulla strategia politica del movimento socialista. Il socialismo restava chiuso in un corporativismo operaio e in una visione deterministica della storia. Rinunciava ad affrontare il nodo della nazionalizzazione democratica delle masse. Anzi, al volgere del secolo, esso veniva perdendo consensi anche presso quei ceti intellettuali che, insoddisfatti per la forma assunta dallo Stato unitario, si erano riconosciuti nel nascente movimento socialista e si erano lasciati affascinare da una scienza positiva della storia che aveva assicurato l’oggettivo e automatico passaggio dal capitalismo al socialismo. L’evoluzione della societa` industriale e la politica giolittiana avevano messo in discussione tale certezza scientifica e le nuove generazioni intellettuali venivano esprimendo la loro insoddisfazione per le istituzioni liberali, elaborando ideologie attivistiche e irrazionali.

2.2. I cattolici e lo Stato. Toniolo, Murri e Sturzo “L’enciclica Rerum novarum e` quasi simultanea al congresso di Genova, cioe` al passaggio del movimento operaio italiano dal primitivismo a una fase realistica e concreta, sebbene ancora confusa e indistinta”.19 Cosı` Gramsci in una nota dei Quaderni a segnalare il mutamento di atteggiamento dei cattolici e dei socialisti nei confronti dello Stato italiano. Per queste forze, lo sviluppo dell’industrialismo e la necessita` di difendere la vita e gli interessi di ampi settori della nuova societa` di massa comportava il superamento dell’auto-esclusione dalla elaborazione delle decisioni politiche; comportava la riappropriazione delle funzioni di governo sviluppate dallo Stato moderno. Nel 1874, alla domanda dei vescovi se fosse lecito per un cattolico partecipare alla vita politica italiana, la Penitenzieria rispondeva, ribadendo 19 A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p. 85 [Q. 1, § 77].

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un concetto gia` espresso nel 1871, che “non era conveniente” (non expedit), per un cattolico, sedere nel Parlamento, dove, per svolgere il proprio ufficio, avrebbe dovuto giurare fedelta` ad un Sovrano che era da considerarsi un usurpatore.20 La formula del non expedit, assai felice ed efficace dal punto di vista della politica vaticana, separo` e contrappose la societa` civile cattolica allo Stato italiano. Questo atteggiamento di estraneita` e di inimicizia il Vaticano mantenne per quasi due decenni. L’ostilita` non era solo nei confronti dell’usurpatore sabaudo, perche´ con il Sillabo (appendice all’enciclica di Pio IX Quanta cura, del 1864) erano tutte le moderne correnti di pensiero (il liberalismo e il socialismo) ad essere state condannate. Il “non expedit ” scaturiva da questo atteggiamento di condanna delle forme di pensiero e delle istituzioni moderne. Con quell’enciclica il Vaticano si attestava su una rigida e intransigente professione di fede. Occorreva salvare la purezza della fede cattolica di fronte alla corruzione del mondo moderno e al movimento dei popoli generato dalla Rivoluzione francese. Un tale atteggiamento non poteva durare a lungo, perche´ erano le stesse sofferenze delle plebi cattoliche (soprattutto nelle campagne) e gli interessi dei ceti medi a richiedere ai vescovi e ai sacerdoti di non allontanarsi dal “mondo”. Nel “mondo” occorreva stare per assistere i fedeli che pativano quotidianamente. Da qui l’ispirazione di fondo della Rerum novarum (1891) di Leone XIII: fornire alle gerarchie ecclesiastiche gli opportuni orientamenti ideali per la propria azione nel “sociale”. L’enciclica manteneva la condanna del liberalismo e del socialismo e non faceva concessioni allo Stato italiano. Anzi, l’estraneita` dei cattolici allo Stato liberale e laico veniva ribadita. Tuttavia, essa individuava la necessita` di una presenza cattolica nei “mondi vitali”, come si direbbe oggi. Essa difendeva la proprieta` privata e predicava un moderato intervento dello Stato a correggere le diseguaglianze sociali. Ma, soprattutto, sosteneva la necessita`, per i cattolici, di associarsi per difendere i propri interessi e i propri ideali di vita. La Chiesa mostrava, cosı`, l’intenzione di uscire dalle sagrestie, per articolare strutture associative “laiche”. Cio` era, in parte, gia` avvenuto con l’istituzione dell’Opera dei Congressi (1874). Ma, tale organismo era stato pensato 20

Cfr. G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Editori Riuniti, Roma 1982 (IV edizione), pp. 137-138. Ma sul movimento cattolico sono da vedere: P. Scoppola, Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, il Mulino, Bologna 1961; G. De Rosa, Il movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’eta` giolittiana, Laterza, Bari 1966; M. G. Rossi, Le origini del partito cattolico, Editori Riuniti, Roma 1977. Sulla fase politica cfr. G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. VII: La crisi di fine secolo e l’eta` giolittiana, Feltrinelli, Milano 1974.

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come roccaforte per resistere al mondo moderno. Ora, occorreva passare da un atteggiamento difensivo ad iniziative di attiva organizzazione delle masse cattoliche e, soprattutto, occorreva sottrarre i ceti subalterni all’influenza del socialismo. Sulla linea della Rerum novarum si colloca l’attivita` e il pensiero di Giuseppe Toniolo*. Nello scritto Ragioni e intendimenti degli studi e dell’azione sociale dei cattolici d’Italia (1888), pubblicato anonimo nell’organo dell’Opera dei Congressi, Toniolo elabora una teoria generale della dottrina sociale cattolica. Egli possiede una visione organicista e corporativa della societa`. Immagina che questa si strutturi secondo un sistema di “corpi intermedi”. L’ordinamento e la gerarchizzazione di tali “corpi intermedi” verrebbero determinati dai valori spirituali. Ma, al di la` di questa visione generale, egli elabora anche delle proposte concrete per la difesa dei lavoratori (salario, orario di lavoro, assistenza, ecc.), della piccola proprieta` e delle medie imprese, e per limitare l’assenteismo dei latifondisti e il parassitismo dei ceti finanziari. In breve, entro una ideologia che richiamava un corporativismo di tipo medievale, Toniolo richiedeva la formazione di uno Stato in grado di assistere i ceti deboli e di favorirne l’associazionismo. Uno Stato capace di integrare nello sviluppo capitalistico le masse sociali. Suggeriva dei meccanismi in grado di governare e correggere lo sviluppo tumultuoso e le profonde diseguaglianze che la societa` industriale creava. Suggeriva i modi per governare il meccanismo economico – creando un piu` vasto benessere e una piu` larga partecipazione sociale – e per impedire la crescita del movimento operaio. La prospettiva aperta dalla Rerum novarum sembro`, per un certo periodo, conciliarsi con l’attivita` svolta dall’Opera dei Congressi sotto la direzione di Giovanni Battista Paganuzzi, esponente dell’intransigentismo. L’enciclica si proponeva di orientare e organizzare la presenza dei cattolici nel sociale. Non suggeriva la formazione di una organizzazione politica che si misurasse con la forma dello Stato liberale e, tanto meno, una organizzazione indipendente dalla gerarchie ecclesiastiche. Sennonche´, lo stesso operare entro il sociale poneva il tema del carattere e della qualita` della cittadinanza politica dei cattolici. Non bastava testimoniare il proprio cattolicesimo attraverso le opere, come pure un sacerdote assai sensibile alla questione sociale, Giovanni Semeria (1867-1931), veniva facendo, per-

* Giuseppe Toniolo (Treviso 1845-Pisa 1918), fondatore dell’Unione cattolica per gli studi sociali in Italia (1889), insegno` economia politica all’Universita` di Pisa. Tra i suoi scritti ricordiamo: Trattato di economia sociale (1908) e L’unione popolare tra i cattolici d’Italia (1908).

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che´ tale presenza sociale finiva inevitabilmente per incidere sul sistema politico nazionale. Diveniva necessario definire a che titolo e con quali intenti i cattolici partecipavano della vita pubblica italiana. Era indispensabile definire il loro rapporto con la politica. Il corporativismo sociale del Toniolo, invece, restava al di qua di tale problema. Su questo nodo si misuro` l’elaborazione teorica di Romolo Murri*. Il Murri aveva avuto come maestro, presso l’Universita` gregoriana, il padre gesuita Billot, ma aveva anche seguito, alla Sapienza, le lezioni di Antonio Labriola. E questi gli aveva fornito gli strumenti per una piu` adeguata comprensione delle forme e delle contraddizioni del mondo moderno, ma i princı`pi portanti della sua filosofia restarono quelli appresi dal Billot. Come ha osservato Pietro Scoppola lo avvicinava ai gesuiti la visione di “un ideale ordine sociale che discende necessariamente dalle leggi della natura, di cui la Chiesa e` custode e interprete; comune ai gesuiti quella fondamentale interpretazione della storia moderna, che ravvisa nello sviluppo del pensiero umano, dalla Riforma al liberalismo, una logica sequela di errori e di deviazioni”.21 Dunque, dal punto di vista dottrinario il Murri non abbandona il tomismo originario, ma elabora una analisi delle condizioni di vita dei ceti subalterni che lo conduce a comprendere la necessita` di trasformare la presenza sociale dei cattolici in una organizzazione politica. Il cattolicesimo avrebbe dovuto misurarsi con la modernita` e con il socialismo sul terreno della democrazia. Da qui l’idea di una “democrazia cristiana”: una democrazia costruita intorno alla visione cristiana dei rapporti sociali e delle relazioni umane. “Nel nome stesso di Democrazia cristiana – ha scritto ancora Scoppola – e` racchiuso il problema, vorremmo dire il dramma, non solo in Italia, di questi cattolici desiderosi di estendere l’influenza della Chiesa sulle masse popolari”22. Nella visione murriana la Democrazia cristiana avrebbe dovuto svilupparsi in piena autonomia dalle gerarchie ecclesiastiche, ma dal Vaticano essa fu intesa come un cedimento alle correnti teologiche moderniste; come un pericoloso tentativo di secolarizzare la dottrina cristiana. E, in verita`, se per modernismo viene inteso un atteggiamento dottrinario che tende alla “conciliazione” con il mondo * Romolo Murri (Monte San Pietrangeli, Ascoli Piceno, 1870-Roma 1944), sacerdote, diresse la rivista “Cultura sociale” (1898). Sospeso a divinis, fu poi scomunicato (1909). Fu eletto al Parlamento, tra i radicali, nel 1909. Si riconcilio` con la Chiesa poco prima di morire. Tra i suoi scritti sono da ricordare: I cattolici e la questione politica in Italia (1897), Dalla democrazia cristiana al partito popolare italiano (1920). 21 P. Scoppola, Crisi modernista ecc., ed. cit., p. 136. 22 Ivi, p. 128.

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moderno, in questo senso assai lato Murri e` da considerarsi un modernista. Sennonche´, della modernita` egli vede, soprattutto la “questione sociale” e questa intende affrontare con mezzi moderni; ovvero: organizzando sindacati e partiti; costruendo uno Stato mediatore dei conflitti sociali; pensando la democrazia come strumento per la difesa dei deboli. Su questa linea egli incrocia l’attivita` del milanese Filippo Meda (1869-1939), meno sensibile di lui al tema dell’autonomia del movimento politico dei cattolici. Mentre in una prospettiva piu` radicale si muove il cremonese Guido Miglioli (1879-1954), che si preoccupera` di organizzare le leghe dei contadini cattolici. La Chiesa non mostrava, pero`, di voler accettare l’idea di una autonoma organizzazione politica dei cattolici. Cio` avrebbe significato non solo il superamento del non expedit, ma il riconoscimento della politica e dello Stato come luoghi costituenti forme di comunita` e di eticita` sottratti ai valori cattolici. Tuttavia, lo sviluppo organizzativo del movimento democratico cristiano pose un problema: bisognava decidere se riassorbire il movimento nell’Opera dei Congressi o lasciarlo sviluppare autonomamente con il pericolo che esso si trasformasse in un partito politico. La soluzione scelta (riassorbire il movimento di Murri), in realta`, non fece che accelerare la crisi dell’Opera dei Congressi. I democratici cristiani furono costretti a condurre la loro battaglia all’interno dell’Opera e riuscirono a sostituire il Paganuzzi con il conte Giovanni Grosoli (1859-1937), che diede ampio spazio ai giovani democristiani. Le gerarchie ecclesiastiche furono costrette a sciogliere la stessa Opera (1904) e a ricercare nuovi strumenti di presenza nella societa` italiana23. Con l’enciclica Il fermo proposito (1905) Pio X sollecito` i vescovi italiani alla formazione di una “Unione popolare” e, nel 1907, con l’enciclica Pascendi dominici gregis, che condannava non solo il modernismo ma lo stesso murrismo, fornı` i nuovi principi direttivi per l’azione dei cattolici. Il murrismo era stato sconfitto, ma lo era stato anche l’intransigentismo. La Chiesa, ormai, doveva uscire dal suo auto-isolamento e attrezzarsi ad un rapporto diverso con il mondo moderno e lo Stato italiano. Nello spingere a questo passo la Chiesa l’azione del Murri era risultata decisiva. Modernista, il Murri non lo era stato, ma era, certo, riuscito a “modernizzare” gli orientamenti di larghi settori della Chiesa. Sul piano strettamente dottrinario chi, in Italia, aveva fatto propri alcuni aspetti della elaborazione di teologi modernisti quali Leon Olle´-Laprune 23 Su queste vicende relative al rapporto tra Opera dei Congressi e Democrazia cristiana cfr. G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. VII, ed. cit., pp. 185-197.

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(1839-1898), Lucien Laberthonnie`re (1860-1932) e Alfred Loisy (18571940), fu Ernesto Buonaiuti*. Questi, attraverso Il programma dei modernisti (1907), scritto in risposta alla Pascendi di Pio X, e attraverso le Lettere di un prete modernista (1908), propose una forma di “socialismo cristiano” che, svuotando la religione di ogni contenuto trascendente, riduceva la dottrina cristiana “alla speranza terrena di un profondo rinnovamento sociale ed economico” e rifiutava “tutta la tradizione cattolica come deviazione e travisamento dell’autentico cristianesimo delle origini”24. Il modernismo di Buonaiuti (il giudizio sulla storia del cattolicesimo, la sua concezione escatologica) era assai distante non solo dalle idee del Murri, che respingeva ogni giudizio positivo sulla Riforma e sul liberalismo, ma anche da quelle professate da Antonio Fogazzaro** che, nel 1906, vide messo all’Indice il suo romanzo Il Santo (1905). Ne´ il Murri ne´ il Fogazzaro mettevano in discussione la tradizione e il magistero cattolico, ma domandavano un rinnovamento spirituale della Chiesa e un suo piu` deciso intervento contro le diseguaglianze sociali e la corruzione dominante nella vita politica italiana. In una pagina de Il Santo e` narrato un incontro fra il Papa e il protagonista del romanzo, Benedetto, in cui questo programma di rinnovamento spirituale della Chiesa, di democratizzazione delle gerarchie ecclesiastiche e di conciliazione con lo Stato italiano viene esposto con grande passione e fermezza. La diffusione del romanzo del Fogazzaro era il segno che le tematiche sollevate dal modernismo avevano ormai largo seguito. La crisi modernista aveva messo in evidenza che i cattolici non potevano mantenere a lungo la loro posizione di estraneita` allo Stato laico. L’enciclica Il fermo proposito e la formazione dell’Unione popolare (1906) crearono i presupposti per un superamento del “non expedit”. Di fatto, anche se non in linea di principio, veniva consentita la partecipazione dei cattolici alla vita politica italiana. Questa linea politica verra` ratificata con il patto che il conte Vincenzo Ottorino Gentiloni (1865-1916), presidente dell’Unione elettorale cattolica,

* Ernesto Buonaiuti (Roma 1881-1946), sacerdote e storico del cristianesimo, fondo` nel 1905 la “Rivista storico-critica delle scienze teologiche”. Fu scomunicato per le sue tesi moderniste. Professore all’Universita` di Roma dal 1915 al 1931, fu costretto a lasciare l’insegnamento per non aver voluto prestare giuramento al fascismo. Tra le sue opere: Storia del cristianesimo (1942-1943), Pellegrino di Roma (1945). 24 P. Scoppola, Crisi modernista ecc., ed. cit., pp. 278-279. ** Antonio Fogazzaro (Vicenza 1842-1911), autore di romanzi che ebbero un grande successo quali Malombra (1881), Piccolo mondo antico (1895), Piccolo mondo moderno (1901), divenne senatore nel 1897.

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sottoscrivera` con Giolitti alla vigilia delle elezioni politiche del 1913. La vittoria ottenuta in tali elezioni dalle forze moderate, in virtu` di tale accordo, spinse la “Civilta` cattolica” ad affermare che i cattolici si erano mostrati “l’ultimo baluardo alla irrompente fiumana’’ del socialismo25. Con il patto Gentiloni i cattolici venivano a costituire un “muro” da opporre ai socialisti, ma non si presentavano, ancora, come la classe dirigente italiana. La strada da percorrere in questa direzione era lunga. Occorreva elaborare una teoria e una pratica dello Stato moderno. Chi, in questa fase, porto` piu` avanti questa elaborazione fu Luigi Sturzo*. Questi riconosceva alla Chiesa la direzione spirituale del movimento cattolico e, pero`, riteneva che esso dovesse avere una organizzazione politica autonoma. La sua visione dello Stato moderno seguiva due linee direttive: 1. la critica del centralismo dello Stato liberale, al quale opponeva una idea federalista di Stato che avrebbe consentito una piu` ampia rappresentanza politica del mondo contadino e, in particolare, del Mezzogiorno; 2. il primato della coscienza individuale e del privato (famiglia, proprieta`, ecc.) rispetto allo Stato e alle forme economiche collettivistiche. Per questa via, egli affrontava il problema della esclusione delle masse contadine dalla costituzione dello Stato liberale, suggerendo la costituzione di “corpi politici intermedi”. Egli recuperava, cosı`, il corporativismo sociale del Toniolo e, nello stesso tempo, si poneva il compito di utilizzare strumenti di lotta politica assai moderni (partiti, associazionismo, ecc.), senza entrare in contrasto con l’idea della direzione vaticana sulla politica dei cattolici. Ma, soprattutto, incardinava l’agire politico nella stessa coscienza individuale e affidava la cura di tale coscienza alla sola Chiesa che, esercitando la propria egemonia spirituale, avrebbe – di fatto – orientato e diretto i comportamenti sociali e le scelte politiche dei cattolici. Il progetto neo-guelfo di Sturzo si fondava, cosı`, sulla capacita` della Chiesa di mantenere il proprio primato morale e culturale. D’altra parte, la stessa Chiesa avrebbe potuto trasmettere e riprodurre il proprio magistero attraverso l’opera dei politici cattolici, quando questi assumessero funzioni dirigenti nello Stato. La contrapposizione tra Stato e Chiesa poteva essere superata, perche´ questa, istituendo attraverso il controllo spirituale del “foro interiore” e attraverso le proprie associazioni (sia religiose che laiche) un legame inestricabile con i propri fedeli, poteva riclassi-

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Cfr. G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, ed. cit., p. 362. * Luigi Sturzo (Caltagirone 1871- Roma 1959) fondo` nel 1919 il Partito popolare italiano. Costretto all’esilio dal fascismo, torno` in Italia nel 1946. Senatore a vita dal 1952. Tra i suoi scritti: Italia e fascismo (1926), La societa`. Sua natura e leggi (1935), Chiesa e Stato (1939).

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ficare e dirigere le istituzioni create dallo Stato liberale. In questo senso, si puo` dire che il popolarismo di Sturzo non e` clericale e che ammette lo Stato laico, ma conserva un dualismo tra Stato laico e morale cattolica, proprio perche´ si propone come “dottrina e movimento di opposizione all’interno dello Stato”26. Anche per il popolarismo di Sturzo l’idea che lo Stato possa costituire una forma di eticita` laica e` inaccettabile, perche´ per il cattolico “non vi puo` oggi essere etica e civilta` che non sia cristiana”.

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2.3. Dalla crisi del pensiero liberale al nazionalismo Con il patto Gentiloni il disegno politico giolittiano sembrava essersi compiuto. Le classi dirigenti liberali – dopo il tentativo reazionario del ’98 – avevano compreso la necessita` di aprire il confronto con le organizzazioni socialiste e con quelle cattoliche e di allargare le basi sociali dello Stato. L’Ottocento si era chiuso con il fallimento delle ideologie positivistiche e del mito del progresso infinito del genere umano e si era aperto all’insegna del tema della nazionalizzazione delle masse. La legge elettorale del 1912, che concedeva a tutti i maschi, che avevano prestato il servizio militare o che avevano compiuto i trenta anni, il diritto di voto, esprimeva significativamente questa volonta` di superare il “liberalismo ristretto” dei Crispi e dei Di Rudinı`. Da parte loro, socialisti e cattolici (pur attraversati da interne contraddizioni) venivano ridefinendo il loro rapporto con lo Stato laico e risorgimentale. E tuttavia, un tale disegno si era venuto attuando in un quadro politico segnato sia dal permanere di profonde diseguaglianze sociali e di forme di esclusione dalla vita politica (restava aperta la questione meridionale), sia dalla crescita magmatica di un ceto medio che spesso si sentiva scarsamente rappresentato e frustrato nelle sue aspirazioni. Si veniva costituendo una massa sociale non ancora unificata e politicamente organizzata, ma gia` rilevante e disponibile, per il suo antigiolittismo, a iniziative politiche anti-istituzionali. Il vecchio liberalismo non riusciva piu` a parlare a questi ceti. Non e` un caso se Luigi Federzoni*, risultato dopo le votazioni del 1913 unico parlamentare del movimento nazionalista, nel dibattito svoltosi per l’apertura dei lavori della nuova 26 G. M. Bravo-C. Malandrino, Il pensiero politico del Novecento, Piemme, Casale Monferrato 1994, p. 178. * Luigi Federzoni (Bologna 1878-Roma 1967), tra i fondatori del partito nazionalista nel 1910, fu presidente del Senato dal 1929 al 1939. Nella seduta del Gran Consiglio del 25 luglio 1943 voto` l’ordine del giorno proposto da Dino Grandi contro Mussolini.

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legislatura, poteva affermare che i nazionalisti si consideravano una “piccola avanguardia” del partito liberale e auspicare la formazione di un movimento in grado di “interpretare direttamente i bisogni e i sentimenti del popolo”.27 Era cosı` riproposto con nettezza il problema che il giolittismo aveva colto sin dagli inizi del secolo, ma che aveva lasciato irrisolto perche´ non aveva saputo pensare forme stabili di organizzazione per le nuove “masse in movimento”. Giolitti aveva sı` aperto ai cattolici e ai socialisti, ma lo stesso patto Gentiloni testimoniava l’assenza di un partito liberale di massa. La formazione di un tale partito era l’obiettivo dei nazionalisti. Era necessaria alle classi dirigenti liberali una nuova ideologia, adeguata al governo di quelle “masse in movimento” e alla costruzione di una nuova mediazione tra e´lites e popolo. Il moltiplicarsi di luoghi di produzione della cultura (circoli culturali, le stesse organizzazioni socialiste e cattoliche) e di riviste (“La Critica” fondata dal Croce, “Il Leonardo” da Giuseppe Prezzolini* e Giovanni Papini**, “Il Regno” da Enrico Corradini***, tutte sorte nel 1903) era il segno di questa esigenza di rinnovamento culturale. Non deve, percio`, meravigliare se, all’inizio del ’900, l’opera teorica svolta da Benedetto Croce**** mostri una qualche contiguita` con le elaborazioni dei “giovani” intellettuali raccolti intorno a “Il Leonardo” e dei nazionalisti. L’obiettivo sembrava essere lo stesso: innovare il liberalismo e fornirgli una base di massa. Il Croce, certo, non ignorava gli aspetti irrazionalistici e attivistici (come li definira`) presenti nelle nuove tendenze culturali, ma egli pensava di poterli educare e orientare. D’altra parte, questo aveva fatto nella 27

Cfr. G. Candeloro, Storia d’Italia, ed. cit., vol. VII, p. 367. * Giuseppe Prezzolini (Perugia 1882-Lugano 1982), tra le sue opere sono da ricordare: L’italiano inutile (1953), L’Italia finisce, ecco quel che resta (1958), Diario (1978). ** Giovanni Papini (Firenze 1881-1956). Tra le sue opere: Un uomo finito (1912), Storia di Cristo (1921). *** Enrico Corradini (San Miniatello 1865-Roma 1931), tra i fondatori del movimento nazionalista, aderı` al fascismo. Tra le sue pubblicazioni: Il nazionalismo italiano (1914), Diario politico (1924). **** Benedetto Croce (Pescasseroli 1866-Napoli 1952), dopo un primo interesse per il marxismo, culminato nella pubblicazioni di diversi saggi, poi raccolti nel volume Materialismo storico ed economia marxistica (1900), sviluppa una concezione idealistica della storia. La sua filosofia dello Spirito e` esposta nei quattro fondamentali volumi: Estetica (1902), Logica (1905), Filosofia della pratica (1908), Teoria e storia della storiografia (1917). Ministro della Pubblica Istruzione (1920-1921), a partire dal 1925 si oppose decisamente al regime fascista. Nel secondo dopo-guerra fu presidente del partito liberale e ministro senza portafoglio (1943-1944). Di grande valore etico ed educativo sono i suoi scritti del periodo fascista: Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928), Etica e politica (1931), Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932), La storia come pensiero e come azione (1938).

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sua Estetica (1902): mostrare come il sentimentale e l’irrazionale acquistino significato e valore solo entro il movimento delle forme dello Spirito. L’Estetica chiude la fase del suo interessamento per il marxismo e segna l’inizio di una politica di rinnovamento culturale che, fino alla Grande guerra, avra` come principale interlocutore quella figura di “intellettualemassa” (giornalisti, professionisti, docenti, ecc.) che nella societa` industriale contribuiscono alla formazione dell’opinione pubblica. Fra questo ceto, Croce tentera` di contrastare l’influenza del dannunzianesimo e del marinettismo, pubblicando una serie di saggi sulla “letteratura della nuova Italia” che vorranno ricostruire – non diversamente dalla Storia della letteratura del De Sanctis – la storia intima dell’Italia unitaria. Di questi saggi Renato Serra dira` che sembrano scritti “da uno che certo non ha letto l’Estetica”28, intendendo sottolineare come, in essi, il Croce dimenticasse proprio quel principio dell’“autonomia dell’arte” che egli aveva elaborato. In verita`, Croce intendeva svolgere opera di educazione civile e cio` che piu` gli premeva era ricostruire e ridare spessore ai valori liberali e risorgimentali (l’unita` della Nazione, la costruttivita` dell’impegno civile, il senso positivo dell’opera umana) contro le forze e le culture che tendevano a disgregare l’assetto civile e a introdurre una visione catastrofista della storia. In questo senso, egli ripropone una visione hegeliana dello Stato: l’idea che lo Stato e` il risultato di un processo di mediazione che deve coinvolgere tutte le parti sociali e politiche. Contro la tendenza dei singoli partiti o gruppi di interessi a sovrapporre le proprie volonta` particolari alla volonta` generale, egli ribadisce che l’unita` e l’interesse di una Nazione intiera non coincidono immediatamente con la volonta` dei suoi apparati statali, ne´ tanto meno con la volonta` dei singoli partiti. Concetti che egli ribadira` in saggi che avranno grande eco29, ma che si trovano espressi in forma filosofica nella Filosofia 28 R. Serra, Le lettere (1914), in Id., Scritti letterari, morali e politici, a cura di M. Isnenghi, Einaudi, Torino 1974, p. 457. 29 In Il risveglio filosofico e la cultura italiana (1908) Croce scrive: “Il punto e` di cercare nel mondo effettivo dove sia davvero, in un determinato momento storico, il vero Stato; dove sia davvero la forza etica. Giacche´ se lo Stato e` l’eticita` concreta, non e` detto che questa s’incarni sempre nel governo, nel sovrano, nei ministri, nelle Camere, o non piuttosto in coloro che non partecipano direttamente al governo, negli avversari e nemici di un particolare Stato, nei rivoluzionari”. E in Il partito come giudizio e come pregiudizio (1912) leggiamo: “La vera azione politica richiede sempre un trarsi fuori dai partiti per affissare, sopra di essi, unicamente la salute della patria; e questo trarsi fuori dal partito e` il sol modo di dar vita a un nuovo partito o di tenere in sana vita quelli esistenti”. I due saggi qui ricordati sono ora in Cultura e vita morale, Laterza, Bari 1955. Le citazioni sono alle pp. 24-25 e 197.

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della pratica. In quest’opera Croce esclude che lo Stato possa essere l’unica fonte del diritto e afferma che esso non e` un’entita` sovrana precostituita, “ma complesso mobile di svariate relazioni tra individui”30. Dunque, lo Stato come risultato dei processi complessi che attraversano la societa` civile, forma delle mediazioni che strutturano le relazioni economiche e politiche, e non come presupposto. Una posizione questa che avvicina Croce a Santi Romano*, che, in questi stessi anni, viene elaborando la teoria della “molteplicita` degli ordinamenti giuridici”. Nella Prolusione del 1909 su Lo Stato moderno e la sua crisi Santi Romano ha ben presente che il moltiplicarsi delle corporazioni sociali e politiche (associazioni, partiti, sindacati, ecc.) pone allo Stato liberale il problema di una ridefinizione delle forme di rappresentanza. Riconoscere queste “corporazioni” come “ordinamenti giuridici” significa, a suo avviso, riconoscerne la funzione di istituzioni atte (non meno degli apparati statali) a strutturare la nazione. Lo Stato, pur conservando la sua superiorita` rispetto a questi ordinamenti, non puo` ignorare che la sua stessa sovranita` si costruisce attraverso una costante attivita` di relazione e di mediazione con queste nuove realta` istituzionali. Era questa la via intrapresa dalla parte piu` sensibile della cultura liberale, per comprendere e dare forma alle “masse in movimento”: riconoscere la complessita` e la molteplicita` delle volonta` che si venivano “istituendo” nella societa` civile e, nello stesso tempo, tenere ferma l’idea che la volonta` nazionale non poteva non trascendere il “particulare”. La Nazione non poteva piegarsi agli interessi di singoli settori sociali, perche´ il suo stesso riferirirsi a un determinato territorio non era da pensare solo come l’occupazione di una “terra” (destinataci da una qualche promessa divina o conquistata con la forza) da parte di una etnia, di una classe o di una setta, ma l’unificarsi di molteplici soggettivita` e passioni intorno a un comune programma politico-istituzionale. Croce tentava faticosamente di dare ordine e forma a una realta` magmatica, di riportare l’irrazionale entro le forme dello Spirito. La sua stessa “filosofia dei distinti” (economia ed etica, estetica e logica) non era che un tentativo di riconoscere la complessita` del sociale e di immaginarne una sua possibile unificazione. Il suo problema era come disciplinare tutto quel mondo nuovo e differenziato, che si veniva sviluppando, entro la 30

B. Croce, Filosofia della pratica (1908), Laterza, Bari 1973, p. 327. * Santi Romano (Palermo 1875-Roma 1947), allievo di Vittorio Emanuele Orlando, docente di diritto costituzionale, fu presidente del consiglio di Stato e, dal 1934, senatore del Regno. La sua opera principale e` L’ordinamento giuridico (1917). Ultima sua opera: Frammenti di un dizionario giuridico (1947).

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forma dello Stato liberale. Da qui, la sua idea della vita come disciplina; non come superamento e vanificarsi delle passioni, ma come loro catarsi entro le forme spirituali. Autori piu` giovani di lui (e, forse, piu` disperati) non andranno oltre il disagio, lo struggersi per una cultura che veniva perdendo la sua aura aristocratica. I Serra e i Gozzano, all’idea della vita come disciplina, opponevano il bisogno di comprendere il senso e il significato di quel disciplinare. Maturava in questi non un atteggiamento di disincanto, ma la sofferenza per un mondo che mostrava di non possedere risorse spirituali. Ed ecco Guido Gozzano (1883-1916) che ne La via del rifugio non si limita a incorniciare nella memoria un lontano “ventot’otto di Giugno del milleottocentocinquanta”, come accade nei versi dedicati a L’amica di nonna Speranza, ma si meraviglia del suo stesso esistere (“Ma dunque esisto! O strano! /vive tra il Tutto e il Niente/ questa cosa vivente/ detta guidogozzano!”)31. Dove il rapporto tra il passato e il presente, tra la storia e l’attualita` dell’esistenza, e` tutto costruito sul filo della memoria che distanzia la realta` e il mondo, perche´ solo cosı` e` possibile recuperare tutta la potenza delle cose che potevano essere e non sono state date; cio` che quel passato aveva sognato e promesso e non si e` compiuto (“Non amo che le rose/ che non colsi. Non amo che le cose/ che potevano essere e non sono/ state...”)32. E sullo stesso filo di una nostalgia o incompiutezza del passato muove la riflessione di Renato Serra (1884-1915) nell’Esame di coscienza di un letterato (“Invecchieremo falliti. Saremo la gente che ha fallito il suo destino. Nessuno ce lo dira`, e noi lo sapremo [...] Eravamo ricchi di tutto quello che abbiamo buttato”)33. Non v’e` chi non senta in queste pagine la consapevolezza di un mondo svuotato di senso, che si sarebbe voluti diverso e, nello stesso tempo, la volonta` di non cedere, di non consentire che anche i propri sentimenti si pietrifichino. Altri esempi possono essere addotti (da Carlo Michelstaedter a Dino Campana) di una generazione che penso` un rinnovamento culturale senza, per questo, ritenere che si dovesse abbandonare il terreno della vita democratica. Ma fu anche chi dalla volonta` di rinnovare venne spinto a consumarsi in una “volonta` di potenza” e in un “vuoto fare”. E` il caso di Gabriele D’Annunzio (1863-1938), che, nei primi anni del ’900, e` il rappresentante di maggior spicco di una concezione del “superuomo” che, forse a

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G. Gozzano, La via del rifugio, in Id., Le poesie, a cura di E. Sanguineti, Einaudi, Torino 1990, vv. 33-36. 32 G. Gozzano, Cocotte, in Id., Le poesie, ed. cit., vv. 68-71. 33 R. Serra, Esame di coscienza di un letterato (1915), in Id., Scritti ecc., ed. cit., p. 543.

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ragione, puo` essere considerata un “simulacro di quell(a) di Nietzsche”34, ma che con il suo “estetismo” e il suo “attivismo” esercita una presa immediata su quel “nuovo tipo umano” che si viene formando nella societa` industriale e di massa. Un “tipo umano” che immagina il mondo solo come un oggetto da consumare o come il palcoscenico su cui mettere in scena la propria ego-archia. Chi sfogli la pagine del Leonardo ritrovera` molti di questi motivi estetizzanti e attivistici. Qui l’attenzione a nuovi movimenti culturali (dal pragmatismo al bergsonismo) e la volonta` di rinnovamento culturale passano attraverso l’anti-borghesismo e la critica della democrazia. L’obiettivo dichiarato di decostruire il vecchio mondo borghese, identificato con il giolittismo, approda ad un rifiuto delle istituzioni liberali e a un attacco alle correnti politiche democratiche. L’esperienza del Leonardo duro` sino al 1907. Prezzolini, piu` sensibile di Papini alla lezione del Croce, diede vita nel 1908 alla rivista La Voce. E` questa a costituire il luogo di incontro delle molte anime del liberalismo che tentano di ritrovare una funzione dirigente nella societa` di massa. A La Voce collaborarono, oltre a Giovanni Papini, Giovanni Amendola (1882-1925), Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952), Gaetano Salvemini*, Renato Serra, Scipio Slataper (1888-1915), Ardengo Soffici (1879-1964), e, infine, lo stesso Benedetto Croce. Anzi, l’impegno che il filosofo napoletano riverso` in questa rivista testimonia del suo tentativo di operare tra i giovani intellettuali per ricondurli nell’orizzonte della cultura liberale. E`, comunque, l’anti-giolittismo a cementare – in una prima fase – queste diverse anime; a mettere insieme il concretismo del Salvemini con l’estetismo di un Papini o di un Soffici. E, di fatto, nel 1913 Papini e Soffici fondarono la rivista Lacerba, di netta ispirazione futurista. Qualche anno prima, nel 1911, Salvemini, in dissenso con la gran parte dei redattori della rivista che si erano mostrati favorevoli alla guerra di Libia, aveva fondato L’Unita`. Lo storico pugliese poteva incrociare l’esperienza de La Voce nella lotta al sistema giolittiano, ma non poteva mancare di denunciare i caratteri colonialistici e anti-democratici della guerra di Libia. La rivista di Salvemini denuncia gia` nel nome il suo programma 34

A. Asor Rosa, La cultura, ed. cit., p. 1091. * Gaetano Salvemini (Molfetta 1873-Sorrento 1957) nel 1914 fu tra gli interventisti. Processato per attivita` antifascista, riuscı` ad espatriare e nel 1929 partecipo` alla fondazione del gruppo di “Giustizia e Liberta`”. Dopo un esilio negli Stati Uniti ritorno` in Italia nel 1949. Tra le sue opere: Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295 (1899), La rivoluzione francese (1905), Il pensiero religioso e politico sociale di G. Mazzini (1905), Il ministro della mala vita (1910), Mussolini diplomatico (1932), Scritti sulla questione meridionale (1955).

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politico-culturale. Essa intende riproporre quei valori risorgimentali che avevano realizzato l’unita` d’Italia e, nello stesso tempo, contribuire alla formazione di un nuovo patto unitario tra gli italiani, elaborando un programma per la risoluzione di quella questione che piu` di ogni altra spezzava in due la Nazione: la questione meridionale. Con Salvemini il tema della nazionalizzazione delle masse tornava ad essere proposto in stretta relazione con la questione meridionale. Non ci poteva essere un’Italia unita, fino a quando questo problema restava aperto. Sennonche´, rispetto al tradizionale meridionalismo dei Villari (di cui Salvemini era allievo) o dei Fortunato, Salvemini aggiungeva due elementi affatto nuovi. In primo luogo, riteneva che solo la classe operaia settentrionale fosse in grado di assumersi – in un’ottica socialista – il compito di risolvere la questione meridionale. Il movimento operaio doveva unirsi ai contadini del Sud non per ragioni sentimentali, ma per creare un blocco unitario contro i latifondisti e il capitale finanziario. In secondo luogo, era convinto che solo attraverso una riforma federalistica dello Stato (e qui riprendeva la lezione del Cattaneo) si potesse destrutturare il sistema di governo giolittiano (da lui considerato “malavitoso”) e organizzare su basi democratiche il mondo contadino.35 Il fallimento de La Voce dimostra come occorresse misurare altre strade per mediare societa` di massa e e´lites intellettuali liberali. Occorreva ricercare altri strumenti di persuasione ideologica per mobilitare i nuovi e ambiziosi ceti sociali, che venivano ricercando le idee e le forme per compattarsi e dar vita ad un nuovo sentimento di unita` nazionale. A questo scopo si adopero` il movimento nazionalista, sintetizzando sentimenti e idee diffuse nella cultura attivistica e estetizzante dell’Italia degli inizi del secolo e producendo gran parte dell’armamentario ideologico che verra` utilizzato dal fascismo. E` il nazionalismo a riclassificare l’analisi storica di Alfredo Oriani e le teorie sociologiche di Pareto e Michels, per costruire l’immagine di una Nazione che, superando le divisioni interne, si presenta come potenza politica capace di rispondere a tutti i desideri e a tutte le ambizioni 35

Massimo L. Salvadori cosı` riassume il programma politico di Salvemini: “Nella critica cattaneana allo Stato burocratico egli riconobbe la critica dei meridionalisti allo Stato accentratore e soffocatore delle energie del Sud; nei principi federalistici intravide i nuovi ordinamenti che avrebbero liberato il Sud, ridonandogli vitalita`; nel suffragio universale, di tradizione democratica, ed accolto dal Cattaneo come una delle basi di ogni Stato libero, cioe` federalistico, scoprı` lo strumento della liberazione dei contadini dalla tirannide dei latifondisti e dei piccoli borghesi e la fine dell’utilizzazione dell’esercito nazionale quale mezzo di repressione” (M. L. Salvadori, Gaetano Salvemini, Einaudi, Torino 1978, p. 60).

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del nuovo soggetto-massa. Le teorie degli autori appena citati trascendono la dimensione del nazionalismo come movimento. Ne` Oriani, ne` Pareto o Michels possono essere annoverati, stricto sensu, tra i nazionalisti. Tuttavia, e` in essi che il nazionalismo trova il nutrimento per elaborare la propria ideologia. Nei principali scritti di Alfredo Oriani* i temi dell’epoca, che siamo venuti via via enucleando, sono tutti presenti. V’e` un giudizio sui caratteri della storia italiana e, in particolare, sulle ragioni del fallimento del progetto progressista della Terza Roma. V’e` la denuncia della fragilita` dello Stato italiano sottoposto ai condizionamenti di interessi particolaristici, e il disegno di una forma di sovranita` sottratta ai meccanismi della mediazione politica e sociale. V’e`, infine, una visione della politica che rifiuta il carattere opportunistico e “cortigiano” dei governi italiani. V’era, come si vede, di che alimentare l’antigiolittismo e suggerire l’idea di una Nazione che doveva ritrovare il proprio orgoglio per rinnovare antiche grandezze. Se nell’analisi storica l’Oriani ricalcava le linee della Storia delle rivoluzioni in Italia del Ferrari, sul piano ideale non mancava di utilizzare temi mazziniani. Non gli era estranea l’immagine di un Risorgimento democratico che avrebbe dovuto condurre la Nazione italiana ad assolvere una funzione progressiva in Europa e nel mondo. Sennonche´, in Oriani, questi temi venivano declinati in chiave “imperialistica”. Avviene cosı` che, come e` stato osservato, la sua figura si collochi nel punto di passaggio dall’affermazione del principio di nazionalita` al vero e proprio nazionalismo. Un suo attento studioso ha osservato che “l’imperialismo di Oriani e` insieme etico e bellicistico”. In lui la visione spirituale del Mazzini si trasforma “in una necessita` di dominio dei paesi “barbari”, teorizzata come il compito civile che nel XX secolo avrebbe gravato sulla razza bianca e sull’Europa progredita”36. Non v’e` dubbio che, al di la` di alcuni giudizi sulla storia italiana alquanto approssimativi, l’Oriani cogliesse lo “spirito del tempo”: la necessita` di ricompattare, anche attraverso un ripensamento della propria storia, lo spirito collettivo nazionale e di promuovere una politica di potenza. V’erano nella sua ricerca storica suggestioni assai efficaci per formulare una ideologia che prometteva, per il nuovo soggetto-massa, la furi-uscita dell’a* Alfredo Oriani (Faenza 1852-Casola Valsenio, Ravenna, 1909). Le sue opere storicopolitiche principali sono: La lotta politica in Italia (1892), che fu ripubblicata nel 1913 dalla “Libreria della Voce”, Fino a Dogali (1889) e La rivolta ideale (1908). E` anche autore di romanzi quali: Memorie inutili (1876), Gelosia (1894), La disfatta (1896). 36 V. Pesante, Il problema Oriani, FrancoAngeli, Milano 1996, p. 92.

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nomia e la facile acquisizione di funzioni egemoniche. Da qui la possibilita`, per il nazionalismo, di utilizzare le sue indagini storiografiche. Piu` complesso, invece, risultera` l’uso delle categorie elaborate da Vilfredo Pareto* e da Roberto Michels**. Esse potevano essere rese funzionali alla critica della “mentalita` democratica” e dell’alleanza tra borghesia liberale e settori del movimento operaio, che il giolittismo tendeva a promuovere, ma i loro “sistemi” non si piegavano, come le tesi storiche di Oriani, a una facile riclassificazione in chiave nazionalistica. Nell’Introduzione ai Sistemi socialisti Pareto traccia le linee fondamentali di una teoria delle e´lites il cui obiettivo e` quello di contrapporre alla visione ideologica e “sentimentale” della societa`, elaborata dal materialismo storico e dal socialismo, una teoria scientifica della storia. Il suo programma e` mostrare come la storia si riduca a uno scontro tra e´lites. Essa non e` altro che un succedersi di aristocrazie che, per conquistare e mantenere il potere, mostrano di farsi portatrici di interessi generali, ma, in realta`, difendono e affermano solo i loro interessi particolari. Gli storici, afferma Pareto, ci forniscono una immagine falsata delle vicende umane, perche´, nel raccontare le lotte per il potere, “vogliono farci credere che l’e´lite, la quale in realta` cerca di impadronirsi del potere per usarne e abusarne come quella che vuole spossessare, non e` mossa che dal puro amore del prossimo”37. Nell’attuale fase storica -sostiene ancora Pareto- sono i socialisti ad usare argomentazioni “sentimentali”, per sostenere la tesi che obiettivo della loro lotta e` creare una societa` di uomini liberi e eguali. Disgraziatamente, la “vera rivoluzione, che deve portare agli uomini una schietta felicita`, non e` se non fallace illusione, che mai diviene realta`; essa somiglia all’eta` d’oro dei millenni”38. Che l’ideologia “millenaristica” del socialismo sia una pura illusione e` dimostrato – afferma Pareto – dal fatto che lo stesso movimento * Vilfredo Pareto (Parigi 1848-Ce´ligny, Ginevra, 1923), laureatosi in ingegneria, fu direttore della Societa` delle Ferriere italiane. Dal 1893 insegno` economia politica all’Universita` di Losanna. Nel 1911 lascio` l’insegnamento. Tra le sue opere: Corso di economia politica (1896-1897), I sistemi socialisti (1902-1903), Trattato di sociologia generale (1916), Trasformazione della democrazia (1921). ** Roberto Michels (Colonia 1876-Roma 1936), trasferitosi in Italia nel 1906, rinuncio` alla cittadinanza tedesca nel 1913 e ottenne quella italiana nel 1921. Insegno` prima all’Universita` di Basilea e, a partire dal 1920, in diverse universita` italiane. Nel 1928 ottenne la cattedra di Storia delle dottrine politiche presso l’Universita` di Perugia. Oltre alla Sociologia del partito politico (1912), e` autore di una Storia del marxismo in Italia (1910), e di Studi sulla democrazia e sull’autorita` (1933). 37 V. Pareto, I sistemi socialisti, a cura di G. Busino, UTET, Torino 1987, p. 171. 38 Ivi, p. 173.

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socialista e`, al suo interno, organizzato secondo un ordine gerarchico, che oppone le e´lites ai “gregari”. Percio`, esso e` una forma politica “adatta all’ambiente degli operai della grande industria”, perche´ “facilita l’organizzazione delle e´lites che sorgono dalle classi inferiori ed e`, ai nostri tempi, uno dei migliori strumenti di educazione di queste classi.”39 Gia` in queste pagine si puo` vedere all’opera la teoria della “circolazione delle e´lites”, nonche´ la distinzione tra processi oggettivi e giustificazione ideologica dell’agire sociale. V’e`, secondo Pareto, una ragione obiettiva dell’affermarsi del movimento socialista (la sua capacita` di selezionare nuove classi dirigenti), ma la sua giustificazione ideologica (la realizzazione di una societa` di eguali) non potra` mai farsi realta`. Questi elementi teorici troveranno una compiuta sistemazione nel Trattato generale di sociologia (1916). Qui Pareto chiarira` ulteriormente il rapporto tra la logica reale dell’azione sociale e le sue motivazioni ideologiche, distinguendo tra “derivazioni” e “residui”. Gli studiosi – scrive Pareto – indagano i fenomeni sociali, fermandosi “alle manifestazioni dell’attivita`, cioe` alle derivazioni, senza risalire alle cagioni dell’attivita` stessa, cioe` ai residui”. Essi si limitano ad analizzare le “derivazioni” e “danno alle derivazioni valore intrinseco e le considerano come direttamente operanti per determinare l’equilibrio sociale, mentre noi qui diamo ad esse solo il valore di manifestazioni e d’indizi di altre forze, le quali sono quelle che operano in realta` per determinare l’equilibrio sociale”.40 La struttura reale e permanente dei fenomeni sociali puo`, dunque, essere rintracciata solo al di la` delle “derivazioni” (delle forme di razionalizzazione che gli individui e le collettivita` forniscono delle proprie azioni) e tale struttura profonda della societa` e` costituita dai “residui”, da quelle forze nascoste o rimosse che determinano effettualmente l’ equilibrio sociale. Di fatto, la storia non ci presenta altro che gruppi sociali che usano i deboli e gli umili per raggiungere il potere, ma, una volta raggiunto il proprio scopo, ripristinano i meccanismi di esclusione-oppressione degli avversari e dei ceti subalterni. L’obiettivo scientifico della ricerca paretiana e` quello di mostrare l’uniformita` dei comportamenti umani: la storia ha una sua legge eterna, che le ideologie, e in particolare quella socialista, tentano di nascondere, ma che la realta` storica invaribilmente riafferma. Ma, al di la` dell’intento scientifico, e` evidente quale sia la motivazione (o la “derivazione”) che anima e struttura 39

Ivi, p. 175. V. Pareto, Trattato di sociologia generale, Edizioni Comunita`, Milano 1981, §§ 1402 e 1403. 40

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la ricerca di Pareto: decostruire il movimento socialista, denunciando il carattere utopico di una democrazia pienamente dispiegata. La critica paretiana del socialismo (che, non va dimenticato, si inserisce nel dibattito sulla revisione del marxismo) trova ulteriori sviluppi in Roberto Michels. Nella Sociologia del partito politico (1912) Michels definisce quella che egli chiama la “legge ferrea dell’oligarchia”. Analizzando le vicende e la struttura dei partiti socialdemocratici, prime forme di organizzazione di soggetti politici di massa, Michels giunge a sostenere che “il sorgere di una leadership” e` un risultato cui inevitabilmente giunge qualsiasi organizzazione democratica. “Appena la democrazia – egli afferma – ha raggiunto una certa tappa della sua evoluzione, viene sottoposta ad una specie di processo di degenerazione: assume lo spirito e le forme aristocratiche contro cui un tempo aveva combattuto”41. La critica delle illusioni socialiste e`, dunque, parte cospicua delle teorie sociologiche di Pareto e di Michels ed e` questo un aspetto che le distingue nettamente dalle teorie di Gaetano Mosca. Non che Mosca non fosse ostile al socialismo, ma l’anti-socialismo non assume nelle sue teorie una parte cosı` rilevante e, per cosı` dire, “costitutiva”. Con la teoria della circolazione delle e´lites, invece, Pareto fornisce gli strumenti teorici per decostruire qualsiasi forma di movimento democratico. L’idea che la storia non sia altro che l’avvicendarsi di aristocrazie, che strumentalizzano i sentimenti e le aspirazioni delle plebi, fornisce, inoltre, uno schema di strategia politica affatto nuova: la mobilitazione delle masse viene resa funzionale alla instaurazione di nuove forme di disuguaglianze sociali e di esclusioni politiche. Questa, che Pareto considerava la legge fondamentale del divenire storico (quasi una “legge di natura”) e`, forse, l’aspetto del suo sistema che piu` di ogni altro poteva affascinare ed essere utilizzato dai nazionalisti: l’idea di un dominio dei pochi, sorretto dal consenso dei molti, che vengono mobilitati dalla suggestione di un sogno o di un mito. L’ideologia nazionalista si forma quando questo insieme di idee (dall’ “attivismo” de Il Leonardo all’idea di nazione di Oriani e all’elitismo di Pareto) giunge a coagularsi, a “fare massa. Ideologia, dunque, assai piu` complessa e articolata di quanto, a prima vista, possa apparire. Idee e analisi complesse che Enrico Corradini ha la capacita` di saper tradurre in formule comprensibili e adatte alla mobilitazione del soggetto-massa. Formule in 41

R. Michels, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, a cura di J. J. Linz, il Mulino, Bologna 1966, p. 533. L’opera di Michels fu pubblicata a Lipsia nel 1911 e tradotta in italiano nel 1912.

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cui non e` difficile riconoscere la lezione paretiana sul rapporto e´lites/masse, e quella di Oriani sulla funzione etico-imperialistica della Nazione. Nel dicembre del 1910, a Firenze, viene fondata l’Associazione nazionalista italiana. Tra i suoi dirigenti, oltre a Corradini, vi sono Luigi Federzoni, Scipio Sighele (1868-1913), Francesco Coppola (1878-1957). L’Associazione confluira`, nel 1923, nel Partito nazionale fascista. Nel periodo antecedente alla Prima guerra mondiale l’elaborazione teorica del nazionalismo si deve soprattutto al Corradini. E` il Corradini a sviluppare, al congresso di Firenze, il concetto di “nazione proletaria”. “Dobbiamo partire – egli disse – dal riconoscimento di questo principio: ci sono nazioni proletarie, come vi sono classi proletarie; nazioni cioe` le cui condizioni di vita sono con svantaggio sottoposte a quelle di altre nazioni, tali e quali le classi. Cio` premesso, il nazionalismo deve soprattutto batter sodo su questa verita`: l’Italia e` un nazione materialmente e moralmente proletaria”. Se il socialismo e` riuscito a organizzare e a dare forza al proletariato, “il nazionalismo deve fare qualche cosa di simile per la nazione italiana. Deve essere, a male agguagliare, il nostro socialismo nazionale. Cioe` come il socialismo insegno` al proletariato il valore della lotta di classe, cosı` noi dobbiamo insegnare all’Italia il valore della lotta internazionale”42. E` evidente come qui gli stilemi del socialismo vengano reimpiegati per suscitare una volonta` nazionale da proiettare – sotto la guida di una nuova e´lite – in una politica imperialistica. Ma e`, altresı`, evidente come lo schema teorico risulti di carattere “circolare”. Da un lato, l’unita` e la volonta` della Nazione sono presupposte, pensate come gia` costituite e disponibili per una “lotta internazionale”; il popolo-nazione non esibisce alcuna interna differenziazione. Da un altro lato, e` l’esistenza di questa “lotta internazionale” a richiedere che la Nazione ritrovi la propria identita`. Anzi, la individuazione di un “nemico esterno” diviene la via per stabilire l’unita` della Nazione, per governare e risolvere le contraddizioni interne. La guerra verra`, percio`, reclamata dai nazionalisti come l’evento indispensabile per rigenerare lo spirito nazionale. La guerra, “sola igiene del mondo” (per usare l’espressione dei futuristi), sara` considerata lo strumento per legare la volonta` delle masse, desiderose di assumere un ruolo protagonistico, alla volonta` delle e´lites, che, attraverso una politica di potenza, ritenevano di poter costruire quella unita` nazionale mai pienamente realizzata. Questa forma di mobilitazione delle masse entro orizzonti e obiettivi strategici prede42 E. Corradini, Principii di nazionalismo, in Id., Scritti e discorsi. 1901-1914, a cura di L. Strappini, Einaudi, Torino 1980, pp. 173-174.

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finiti dalle classi dirigenti tradizionali e` lo schema che il nazionalismo elabora per produrre una nazionalizzazione (passiva) delle masse. E` questa la via suggerita per risolvere il problema della ristrette basi sociali dello Stato lasciato irrisolto dal Risorgimento. Una via che implicava, anzi richiedeva esplicitamente l’uso della guerra.

3. Tra due guerre

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3.1. Guerra e dopoguerra Prevista, attesa e da molti invocata la guerra, che avrebbe dovuto ricostruire l’unita` spirituale della Nazione, venne43. E, secondo lo storico Giorgio Candeloro, fece quasi dieci milioni di morti. I caduti italiani furono seicentottantamila44. “Abbiamo bisogno di cadaveri per lastricare le strade di tutti i trionfi”, aveva scritto Giovanni Papini e aveva aggiunto: “In verita` siamo troppi nel mondo. [...] Per diminuire il numero di codeste bocche dannose qualunque cosa e` buona: eruzioni, convulsioni di terra, pestilenze. e siccome tali fortune son rare e non bastano ben venga l’assassinio generale collettivo”45. D’Annunzio, da par suo, aveva chiesto “un lavacro di sangue”. Toni meno cruenti, ma ugualmente decisi aveva usato Giovanni Gentile nel suo scritto su La filosofia della guerra: “La guerra, adunque, e` il nostro atto assoluto, il nostro dovere. Il nostro supremo, e, in questo senso, il nostro unico interesse. [...] La guerra e` santa finche´ e` necessaria: com’e` santa, quasi la stessa volonta` di Dio, ogni azione che sia uno stretto dovere”46. La guerra avrebbe dovuto rigenerare la volonta` nazionale e costruire quell’unita` spirituale che il Risorgimento aveva lasciata incompiuta, ma gia` prima dell’ingresso in guerra la nazione si era divisa tra interventisti e neutralisti. E gli interventisti erano, a loro volta, divisi tra chi (i nazionalisti), la guerra, la richiedeva come unica via per rigenerare la potenza italiana e chi (i democratici) l’accettava come una necessita` imposta dalle circostanze. Tra 43

L’avvenimento che scateno` la guerra fu l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono d’Austria e d’Ungheria, avvenuto a Sarajevo il 28 giugno 1914. L’Italia entro` in guerra il 24 maggio 1915. 44 Cfr. G. Candeloro, Storia d’Italia, vol. VIII, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 222-223. 45 G. Papini, La vita non e` sacra, in “Lacerba”, I (1913), n. 20, ora in La cultura italiana del ’900 attraverso le riviste, Einaudi, Torino, vol. IV, p. 208. 46 G. Gentile, La filosofia della guerra, in Id., Guerra e Fede, Le Lettere, Firenze 1989, p. 13.

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questi ultimi, il Salvemini aveva motivato il suo interventismo giudicando la guerra “strumento doloroso ma necessario di piu` larga pace”. E cosı` aveva argomentato: “Affinche´ questa guerra – dal momento che avviene – produca i maggiori vantaggi possibili, occorre che essa liquidi il maggior numero possibile delle vecchie questioni internazionali, dando luogo ad un equilibrio piu` stabile dell’antico, in cui le forze della pace possano riprendere in migliori condizioni di efficacia quel lavoro di consociazione dei popoli, che oggi sembra dissipato per sempre”47. Tra i neutralisti erano il Giolitti e il Croce. Non gia` per generico pacifismo, ma perche´ ritenevano che l’Italia non ne avrebbe tratto alcun vantaggio. Il Croce, inoltre, vedeva nella guerra il disfarsi stesso di quei valori liberali che, affermatisi nel secolo XIX, avevano regolato, sino ad allora, i rapporti e i conflitti tra gli Stati. Nella Storia d’Italia egli giudichera` questa guerra “priva e scarsa di motivi ideali e ricca di quelli industriali e commerciali, tutta nutrita d’incomposte brame e di morbosa fantasia: una sorta di guerra del “materialismo storico” o dell’ “irrazionalismo filosofico”“48. Ma, a guerra dichiarata, anche il Croce si schierera` a difesa della Patria, facendosi teorico della “politica potenza”, senza accorgersi che proprio questa politica-potenza aveva trascinato l’Europa verso la guerra e al suicidio della civilta` liberale. Piu` che nelle pagine di uno Spengler o di un Valery, e` nelle pagine conclusive de L’idea della ragion di Stato di Meinecke che vanno ricercate le ragioni di questo “suicidio”, di questo tramonto dell’Occidente. La “coincidenza” del capitalismo moderno con il militarismo e il nazionalismo – osserva Meinecke – porto` “al crollo totale dell’organismo collettivo europeo” e, permanendo dopo la guerra le ragioni di questa “coincidenza”, anche il presente risulta essere “piu` oscuro e, nel carattere del suo ulteriore decorso, piu` incerto e piu` pericoloso”49. La politica di potenza, che secondo alcuni avrebbe dovuto sanare i “mali dell’Italia”, accentuo` le contraddizioni sociali. E cio` fu chiaro con la rotta di Caporetto. Si tento` di far ricadere la responsabilita` della disfatta sui neutralisti, che avrebbero creato tra le truppe italiane un clima di disobbedienza. In verita`, le vicende di Caporetto, e quelle immediatamente succes47

G. Salvemini, La guerra per la pace, in “L’Unita`” del 28 agosto 1914, poi in ID., Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1914, a cura di A. Torre, Feltrinelli, Milano 1963, p. 360. 48 B. Croce, Storia d’Italia, ed. cit., p. 267. 49 F. Meinecke, L’idea della ragion di Stato nella storia moderna (1924), tr. it. di D. Scolari, Sansoni, Firenze 1977. Le citazioni sono alle pp. 431 e 434.

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sive, mostrano come le classi dirigenti italiane considerassero i soldati, in gran parte di origine contadina, come sudditi e non ancora come cittadini. Erano quei “pinocchio” che continuavano a restare “burattini”. A loro spettava il compito di eseguire ordini, spesso contraddittori e incomprensibili, e di sacrificarsi per una Patria che non si preoccupava di dare valore alle loro vite. Quelle vicende mostrano come un comune sentimento nazionale non si fosse ancora formato, perche´ gran parte della Nazione era esclusa dai diritti di cittadinanza. Avvenne, allora, cio` che Renato Serra, morto in trincea, aveva diagnosticato: la guerra non cambio` nulla; non contribuı` a creare uno spirito nazionale unitario50. E tanto meno contribuı` a creare Stati piu` democratici e ad assicurare la pace in Europa. “Se avessi supposto – scrivera` Guglielmo Ferrero, che era stato tra gli interventisti democratici – che l’Italia, la Francia, l’Inghilterra vittoriose non sarebbero state capaci di far nulla per ristabilire l’ordine europeo sul principio di liberta`; che il governo quasi-legittimo di Giolitti, invece di essere sostituito da un governo legittimo, sarebbe stato rimpiazzato da un governo rivoluzionario sul modello del 18 brumaio, mai avrei consigliato al mio paese di entrare nella guerra mondiale”51. Cio` che Ferrero non aveva supposto era la crisi delle vecchie forme nazional-liberali di Stato, la crisi irreversibile di sistemi politici non attrezzati a governare una societa` massificata e, tanto meno, a condurre con efficacia e intelligenza una guerra che richiedeva la mobilitazione di milioni di uomini e l’impiego di una quantita` enorme di risorse. In intellettuali democratici come Ferrero e Burzio, appartenenti a due diverse generazioni, ma entrambi formatisi nell’orizzonte della cultura elitista, la crisi dello Stato-Nazione liberale apparve come una crisi di civilta`. Alla fine dell’800, con opere come L’Europa giovane (1897) e Il militarismo (1898), Guglielmo Ferrero*, muovendosi nell’orizzonte di una cultura democratica e positivista, aveva assunto una posizione di piena fiducia nella

50

Nell’Esame di coscienza di un letterato Serra scrive: “la guerra non cambia niente. Non migliora, non redime, non cancella; per se´ sola. Non fa miracoli. Non paga i debiti, non lava i peccati. In questo mondo, che non conosce piu` la grazia.” (Scritti letterari ecc., ed. cit., p. 530). 51 G. Ferrero, Potere. I Geni invisibili della Citta` (1942), tr. it. di P. Carrara Lombroso, SugarCo Edizioni, Milano 1981, p. 304. * Guglielmo Ferrero (Portici, Napoli 1871-Mont Pe`lerin, Ginevra, 1942), allievo di Cesare Lombroso, l’ampia ricerca sulla Grandezza e decadenza di Roma, 5 voll., (1902-1906) lo rese noto al grande pubblico. Alle opere citate occorre aggiungere: La tragedia della pace (1923), La democrazia in Italia (1925); Ricostruzione. Talleyrand a Vienna (1940).

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crescita pacifica ed equilibrata della moderna societa` civile industriale. E` stato acutamente osservato che, a leggere attentamente L’Europa giovane, “non e` l’elogio dell’industria a balzare in primo piano, quanto l’analisi dello spirito industrialista, ovvero di comportamenti civici all’origine non solo di una piu` elevata ed efficace professionalita`, ma anche di un piu` profondo senso del pubblico e del fatto associativo, come insieme di diritti e di doveri ineludibili”52. Tale giovanile ottimismo si incrina di fronte alle drammatiche vicende della guerra mondiale e – come abbiamo gia` visto – di fronte ai limiti delle strategie adottate dalle classi dirigenti europee nel gestire le “conseguenze politiche della pace”; ovvero nel riorganizzare uno sviluppo pacifico delle Nazioni. Nel 1920 pubblica un libro, Memorie e confessioni di un sovrano deposto, in cui e` la “natura oscura” del potere che inizia ad essere indagata con gli strumenti teorici dell’elitismo. In quest’opera l’originario progressismo del Ferrero cede il passo ad una visione piu` tragica della politica e comincia ad emergere la consapevolezza di una insuperabile divisione dell’umanita` in dirigenti e diretti, in “padroni e servi”. Nel dopoguerra, Ferrero sposa la “tesi moschiana circa la menzognera fallacia della 53 sovranita` popolare” . Le “dure repliche della storia” avevano mostrato la irriducibilita` del “lato oscuro” del potere entro i limiti che il pensiero liberale immaginava di poter disegnare. La natura del potere tendeva a travalicare ogni limitazione della propria forza e a vanificare tutte le “alcinesche seduzioni della Dea Giustizia e della Dea Umanita`”, secondo la nota espressione crociana. Nello scritto sul Potere (1942) l’origine di questo “lato oscuro” sara` individuata nel nesso paura-potere. L’uomo – scrive Ferrero – “vive al centro d’ un sistema di terrori, in parte naturali, in parte creati da lui stesso, veri e fittizi; questi ultimi piu` terribili dei veri. Il Potere e` la manifestazione suprema della paura che l’uomo fa a se´ stesso, malgrado gli sforzi per liberarsene. Lo schema dello Stato e` uno solo e sempre e dappertutto lo stesso: dei capi che comandano e che giudicano, dei soldati e dei poliziotti che impongono con la forza la volonta` e le sentenze dei capi, la massa che spontaneamente o forzatamente obbedisce. L’umanita` non ha vissuto, non vive e non vivra` che organizzata in questo modo; e cio` per una ragione molto semplice: che gli uomini si temono vicendevolmente, a causa soprattutto delle armi da loro stessi fabbricate per difender54 si” . Seguendo lo schema hobbesiano, Ferrero fa nascere il Potere dal 52

D. secolo e 53 E. 54 G.

Cofrancesco, Tra conservazione e progresso. Guglielmo Ferrero dinanzi alla crisi di fine alla guerra mondiale, in Id., Intellettuali e potere, Name, Genova 1999, p. 108. A. Albertoni, Storia delle dottrine politiche in Italia, ed. cit., vol. II, p. 695. Ferrero, Potere, ed. cit., p. 38.

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bisogno degli uomini di liberarsi dalla paura (paura della morte, del nemico, della poverta`, ecc.). I princı`pi di legittimita` del potere (“i Geni invisibili della citta`”) si fondano sulla capacita` di rendere sicura la vita dei cittadini e di garantire a tutti la possibilita` di svolgere liberamente la propria attivita`. I cittadini hanno, percio`, il diritto di eleggere una rappresentanza politica per controllare che il Potere esplichi questa sua funzione. In questo modo, secondo Ferrero, si crea un rapporto organico tra l’esercizio del Potere e la societa` civile che esige sicurezza e liberta`. Ferrero puo`, cosı`, riaffermare la sua visione democratica. Anche nella sua ultima opera (Potere) egli conferma la sua fiducia nei sistemi politici retti da rappresentanze politiche democraticamente elette e respinge ogni tipo di regime totalitario. Tuttavia, v’e`, in queste ultime riflessioni, un mutamento di visuale assai significativo. Mutamento che segnala una crisi della “civilta` politica liberale”. Non intendiamo riferirci al fatto che il Ferrero si mostri ormai convinto della insuperabilita` della scissione tra dirigenti e diretti e della ineliminabilita` dell’esercizio della forza, quanto al fatto che il paradigma teorico liberale venga incrinato in un punto decisivo: non si presume piu` l’esistenza di individui razionali che, in condizioni di liberta` e di autonomia, scelgono i propri governanti e i programmi di governo, ma si presume che essi vivano in uno “stato di necessita`” o “di paura”. Si presuppone, insomma, che la condizione esistenziale dei cittadini sia ancora quella di individui che vivono in uno “stato di minorita`”. E` uno dei principi fondanti la “civilta` politica liberale” ad essere messo in discussione. E` l’idea che la comunita` politica debba essere costituita da individui liberi e razionali ad essere vulnerata nel momento stesso in cui si ritiene che il Potere scaturisca o sia connesso al sentimento (e alla condizione) di paura dei cittadini. D’altra parte, se si afferma che la legittimita` del Potere poggia sulla efficacia della sua lotta alla paura, si finisce con il costruire uno schema teorico che, se rovesciato, puo` incrinare il sistema democratico. Puo`, cioe`, crearsi un meccanismo di auto-legittimazione del Potere fondato sulla incessante riproduzione dello “stato di necessita`”. Il Potere stesso riprodurrebbe le ragioni della sua legittimita`, riproducendo costantemente uno “stato di paura”. La crisi della civilta` politica liberale si rende ancora piu` evidente nella riflessione di Filippo Burzio*. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad * Filippo Burzio (Torino 1891-Ivrea 1948), laureato in ingegneria, diviene docente presso l’accademia militare di artiglieria. Tra il 1945 e il 1948 fu direttore della Stampa. Tra le sue opere: Politica demiurgica (1923), Discorso sul demiurgo (1929), Il demiurgo e la crisi occidentale (1933), Profeti d’oggi (1933).

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una versione democratica dell’elitismo; ad un tentativo di utilizzare le tesi di Pareto e di Mosca (di quest’ultimo nel 1923 viene data alle stampe una nuova e piu` ampia edizione degli Elementi di scienza politica), per definire un meccanismo di ricambio democratico delle classi dirigenti. Ricambio che, all’indomani della Grande guerra, e` divenuto vitale per la realta` nazionale. Sennonche´, anche Burzio in una raccolta di scritti, pubblicata nel 1923 con il titolo: Politica demiurgica, trasforma il liberalismo in una giustificazione teorica della figura del “demiurgo”. Tale figura rappresenta, secondo Bobbio, “un ideale umano universale, cui dovrebbe essere affidata la salvezza dalla crisi che e` a suo [= di Burzio] giudizio non soltanto politica, ma e` anche di civilta`”55. In La crisi della civilta` occidentale (1933), aderendo alle tesi di Spengler, Burzio individuera` nel progresso delle scienze e nel declino della religione le ragioni principali della crisi. “Il problema – egli scrive – consiste nell’indirizzo materialista e collettivista che, per il tramite delle passioni e delle abitudini suscitate dalla trasformazione tecnica dell’esistenza, la scienza sembra imporre allo spirito occidentale.” E, dopo aver ravvisato il pericolo che la civilta` occidentale si riduca a una “repubblica delle termiti”, aggiunge: “Sussiste infatti il pericolo che, per forza d’inerzia, lo spirito si adatti passivamente, nella immensa maggioranza degli individui, ai costumi standardizzati imposti dalla organizzazione industriale della vita: e questo pericolo della routine collettivista e` singolarmente aggravato dalla tendenza materialista e utilitaria dello spirito, la quale si generalizza e si esprime nell’ideale del comfort”56. In questo arco di tempo una figura solo apparentemente isolata, e` quella di Giuseppe Capograssi*. Anche la sua riflessione muove dalla crisi spirituale dell’Occidente e si misura con la grande cultura europea (da Nietzsche a Simmel, da Bergson a Croce e Gentile), per tentare una mediazione tra lo storicismo e la tradizione cattolica. Capograssi, come Burzio e come Serra, appartiene a quella generazione che sperimenta la prima drammatica crisi dell’uomo moderno. I milioni di morti, che la Grande guerra aveva provocato, costituiscono la prova piu` evidente del 55 N. Bobbio, Trent’anni di storia della cultura a Torino. (1920-1950) , Einaudi, Torino 2002, p. 62. 56 F. Burzio, La crisi della civilta` occidentale (1933), in Id., Il demiurgo e la crisi occidentale, Bompiani, Milano 1943, pp. 177-181. * Giuseppe Capograssi (Sulmona 1889-Roma 1956), giurista e studioso di filosofia del diritto, nel 1956 fu giudice della Corte costituzionale. Opere: Riflessioni sull’autorita` e la sua crisi (1921), La nuova democrazia diretta (1922), Analisi dell’esperienza comune (1930), Il problema della scienza del diritto (1937), Introduzione alla vita etica (1953).

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fallimento di quell’ideologia illuministica e positivistica che aveva proclamato la signoria del genere umano sul mondo. “E` viva nel pensiero moderno – scrive Capograssi – una fede, che il soggetto e l’oggetto debbano unirsi, che il risultato finale della vita dev’essere unita`, che il finito deve sboccare nell’infinito e che l’uomo deve essere Dio e che anche l’esteriorita` della natura debba divenire un’esteriorita` interiore”57. Ma l’esperienza della guerra – egli aggiunge – consente di riscoprire la finitezza dell’uomo, il suo essere “carente” e bisognoso dell’“altro” per salvaguardare e riprodurre la propria vita. L’esperienza di questa finitezza reca con se´ l’esigenza di una mediazione, di un incontro tra il “se´” e l’“altro”, di un agire solidale che rovesci la prassi economico-utilitaristica del mondo moderno. E` in questa prassi economico-utilitaristica che Capograssi, recuperando la lezione marxiana, individua l’essenza del mondo moderno. Occorre, allora, “rovesciare tale prassi”, per riportare l’Europa alla sua spiritualita` originaria e restaurare una forma di Autorita` come mediazione tra la Verita` e la storia, tra il Bene Comune e gli interessi particolari. Il mondo moderno, conclude Capograssi, ha allontanato da se´ l’idea di una “vita etica” e ha risolto la stessa democrazia in una pura “amministrazione degli interessi”. Esso “tende ad economizzare tutta quanta la societa`, cioe` tende a portare tutte le forze sociali e quindi anche gli individui che la compongono, a essere dei mezzi, strumenti animati degli scopi economici”58. Da questa subordinazione dell’uomo al “mondo delle cose” scaturisce la crisi della democrazia. Questa non riesce piu` ad assolvere ai suoi compiti etico-educativi, ma viene piegata alla volonta` di masse non piu` orientate da ideali di giustizia e liberta`, ma dominate dall’“esclusivo imperio dell’idea del piacere e dello scopo del benessere”59. Attraverso questa critica dell’economicizzazione dei mondi vitali Capograssi ridefinisce un cattolicesimo liberale e una visione etica della vita che, negli anni ’30, influira` sulla formazione dei gruppi dirigenti cattolici. L’idea della irriducibilita` della persona umana all’homo oeconomicus sara` l’idea-guida dell’azione politica che i cattolici svolgeranno all’indomani della Seconda guerra mondiale. Sotto questo profilo, la riflessione di Capograssi – non meno di quella di Ferrero e di Burzio – segnala i limiti di un liberalismo ancora legato ad una immagine gerarchica della societa`; un liberalismo

57

G. Capograssi, Riflessioni sull’autorita` e la sua crisi, a cura di M. D’Addio, Giuffre`, Milano 1977, p. 199. 58 G. Capograssi, Riflessioni sull’autorita`..., ed. cit., p. 145. 59 Ivi, p. 222.

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incapace di guardare oltre l’individualismo possessivo e il “libero giuoco delle forze economiche”. L’illuminismo e il senso etico dei Fortunato e dei Salvemini sembravano, ormai, appartenere alle buone cose di un mondo antico. Ne´ l’elitismo democratico dei Ferrero e dei Burzio, ne´ l’idea capograssiana di una “vita etica” mostravano, al momento, di possedere le forze per fronteggiare la crisi del pensiero liberale.

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3.2. La partitizzazione della Patria. L’ideologia fascista Nell’immediato dopoguerra la paura del bolscevismo domina la cultura italiana. La disfatta di Caporetto, la settimana rossa e, infine, l’occupazione delle fabbriche avevano messo a dura prova le istituzioni liberali. Peso` nella realta` sociale e politica italiana l’evento della Rivoluzione bolscevica del ‘17. Essa creo` il mito di una ricostruzione democratica dello Stato; di uno Stato fondato sui consigli di fabbrica, come immagino` il gruppo di giovani socialisti (Terracini, Gramsci, Togliatti) che si riunı` intorno alla rivista torinese “L’Ordine nuovo”. Ma – come ebbe ad osservare lo stesso Gramsci – queste forze furono piu` aspetti del processo disgregativo in atto, che non portatrici di una efficace soluzione della crisi. Personaggi di primo piano come Amendola*, Croce, Gentile**, Sturzo sono ben consapevoli delle aporie e dei limiti della civilta` politica liberale e, tuttavia, temono, piu` di ogni altra cosa, che la spinta eversiva delle masse popolari possa produrre una bolscevizzazione del mondo occidentale. Questa paura del bolscevismo spinge alcuni di questi intellettuali (Burzio, Croce) a ritenere utile l’intervento anti-operaio del fascismo, sicuri che, successivamente, si sarebbe potuto operare una costituzionalizzazione del movimento fascista. Ritene* Giovanni Amendola (Salerno 1882-Cannes 1926), giornalista e uomo politico, nel 1914 sostenne l’intervento italiano nella Prima guerra mondiale. Fu uno dei capi dell’opposizione aventiniana al fascismo. Costretto all’esilio in Francia, vi morı` in seguito ad una aggressione fascista. Nel 1922 fu tra i fondatori de Il Mondo. Tra le sue opere: Etica e biografia (1915), La democrazia (1924). ** Giovanni Gentile (Castelvetrano, Trapani, 1875-Firenze 1944), libero docente nel 1903, insegno` storia della filosofia presso le Universita` di Palermo e di Pisa. Nel 1917 passo` all’Universita` di Roma. Divenuto senatore nel 1922, fu ministro della Pubblica Istruzione tra il 1922 e il 1924. Nel 1925 fondo` e diresse l’Enciclopedia Italiana. Fu ucciso dai partigiani. Opere principali: Rosmini e Gioberti (1897), La filosofia di Marx (1899), La teoria generale dello spirito come atto puro (1916), I fondamenti della filosofia del diritto (1916), Sistema di logica come teoria del conoscere (1917-1922). Il suo ultimo scritto, Genesi e struttura della societa`, fu pubblicato postumo nel 1946.

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vano, cioe`, che il fascismo avrebbe finito con l’accettare i principi del liberalismo (l’alternanza delle forze politiche al governo, la divisione dei poteri, la difesa delle liberta` civili e politiche). Ritenevano che quel movimento non possedesse una autonoma cultura politica e non avesse obiettivi propri da perseguire, ma che fosse una variante della vecchia destra autoritaria, pur sempre liberale, e che la sua ideologia fosse costituita da un insieme di affermazioni rozze, contraddittorie e prive di spessore culturale. Lo stesso Gentile, accettando la tessera del partito fascista, motivera` la sua adesione sulla base di una continuita` storica e ideale tra il liberalismo risorgimentale e il movimento fascista. “Mi sono dovuto convincere – scrivera` Gentile in una lettera indirizzata a Mussolini – che il liberalismo come io l’intendo e come l’intendevano gli uomini della gloriosa Destra che guido` l’Italia del Risorgimento, il liberalismo della liberta` nella legge e percio` nello Stato forte e nello Stato concepito come una realta` etica, non e` oggi rappresentato in Italia dai liberali che sono piu` o meno apertamente contro di lei, ma, per l’appunto, da lei.”60 Ora, vedere in Mussolini un rappresentante del liberalismo non e` errore da filosofo poco attento alle “cose del mondo”, ma e` volonta` di giustificare una forma di potere sulla base di una convinzione teorica ben definita: che la Nazione e lo Stato debbano coincidere con la volonta` individuale del Capo del governo. Gentile tentera` anche in seguito di ritrovare nel Risorgimento le radici del fascismo. Anche la sua interpretazione di Mazzini mutera`. Se in una prima fase aveva respinto il democraticismo del pensatore genovese, in seguito valorizzera` il tema mazziniano della “religione della patria”61. Non intendiamo dire che l’adesione al fascismo costituisca la cifra per interpretare la filosofia gentiliana, ma che questo suo incontro con il fascismo avviene in ragione della “struttura significante” della sua filosofia; in ragione di una “corrispondenza” tra gli interessi strategici del movimento e l’orientamento ideale di quei ceti intellettuali, dal Gentile rappresentati nella forma piu` alta, che domandavano la ricostruzione di uno Stato in grado di escludere dalla cittadinanza le nuove soggettivita` sociali. D’altra parte, non si puo` spiegare l’ideologia e il movimento fascista unicamente sulla base di una reazione anti-bolscevica. Si dovrebbe, altrimenti, spiegare perche´, mentre un anti-bolscevico come Croce (ma tali erano anche Amendola e 60 Lettera di Giovanni Gentile a Benito Mussolini del 31 maggio 1923, citata da G. Bedeschi in La fabbrica delle ideologie, Laterza, Bari 2002, p. 249. 61 La valorizzazione del Mazzini avviene nel volume I profeti del Risorgimento, Vallecchi, Firenze 1923. I saggi su Mazzini, antecedenti a questo volume, si trovano raccolti in Albori della Nuova Italia, Carabba, Lanciano 1923.

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Sturzo) rielabori la sua concezione del liberalismo, un anti-bolscevico come Gentile approdi al fascismo. In verita`, il fascismo possiede una sua visione autonoma e originale dello Stato. Possiede una teoria della identita` tra Nazione, Partito e Stato, che ben poco ha a che vedere con la tradizione liberale. E tale teoria era ben chiara non solo a Gentile, ma anche a Curzio Malaparte*, quando, nel 1923, proclamava: “La nostra rivoluzione, si badi, era ed e` piu` contro Benedetto Croce che non contro Buozzi o Modigliani”62. E diceva cosa non diversa da quello che affermera` Carl Schmitt, nel 1933, quando, all’avvento di Hitler al potere, scrivera`: “In questo 30 gennaio lo stato di funzionari hegeliano del secolo decimonono (...) e` stato sostituito da un’altra costruzione statale. In questo giorno, percio`, si puo` dire: «Hegel e` morto»”63. L’essere contro Croce o il proclamare la morte dello Stato hegeliano era il modo per sostenere, en philosophe, la fine dello Stato moderno in quanto forma garante della molteplicita` degli interessi, delle idee, dei culti religiosi presenti su un determinato territorio. Muore quello Stato “universale” e “agnostico” (per usare ancora espressioni schmittiane) che riconosce la legittimita` di tutti gli orientamenti ideali. Nasce lo Stato fondato su un solo movimento e che riconosce una e una sola ideologia politica. Il simbolo Liberta`-Patria, intorno a cui si era sviluppato il Risorgimento italiano, si spezza. La Patria non e` piu` il luogo della liberta`, ma e` il luogo della fedelta` (senza condizioni) ad una ideologia, a un movimento, a un partito. La teoria gentiliana dello Stato etico si muove, consapevolmente, nella direzione di questa partitizzazione della Patria. Nel saggio del 1931 su Il concetto di Stato in Hegel, poi ripubblicato come capitolo VIII de I fondamenti di filosofia del diritto, il filosofo siciliano corregge Hegel, rimproverandogli un “difetto di metodo”. “Manca – egli scrive – nell’hegelismo il concetto del vero metodo idealistico, che noi diciamo metodo dell’immanenza”. Secondo Gentile, Hegel non sviluppa compiutamente l’idea dello Stato etico: “Il concetto della eticita`, spiritualita` e liberta` dello Stato importava che lo Stato fosse infinito. (...) Ma puo` lo Stato hegeliano dirsi infinito? Esso pare sia limitato sotto tre aspetti; e cioe` in primo luogo perche´ lo Stato, per * Curzio Malaparte (Prato 1898-Roma 1957), pseudonimo di Kurt Erich Suckert, giornalista e scrittore. Tra le sue opere: Technique du coup d’e´tat (1931), Kaputt (1944), La pelle (1949), Maledetti toscani (1956). 62 C. Malaparte, Ragguaglio sullo stato presente degli intellettuali rispetto alle cose d’Italia, cit. da G. B. Guerri, L’arcitaliano. Vita di Curzio Malaparte, Bompiani, Milano 1980, p. 54. 63 C. Schmitt, Stato, movimento, popolo (1933), in Id., Principi politici del nazionalsocialismo, a cura di D. Cantimori, Sansoni, Firenze 1935, p. 211.

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Hegel, e` uno Stato, e in concreto percio` la sua volonta` urta nella volonta` degli altri (...) In secondo luogo, nel processo ideale dello spirito, lo Stato appartiene alla sfera dello spirito oggettivo, che tramezza tra lo spirito soggettivo e lo spirito assoluto (...) In terzo luogo, dentro la stessa sfera dello spirito oggettivo lo Stato e` preceduto dalla famiglia e dalla societa` civile, che sono spirito oggettivo ma non ancora Stato, pure essendone base immancabile.”64 La critica gentiliana, dunque, sottolinea che lo Stato hegeliano non contiene in se´ tutta la vita di una comunita` nazionale. Per Hegel, la vita, con le sue molteplici forme, travalica lo Stato. Al di la` dello Stato procede il divenire storico. Per Gentile, invece, tutta la vita nazionale si riassume nell’azione dello Stato. Non puo` neppure sussistere un’attivita` politica prodotta da organizzazioni distinte dallo Stato (la “trama privata”, di cui parlava Hegel), ma tutta la politica e` solo politica dello Stato, perche´ “la volonta` di un popolo, che si sente nazione (e si vuole come tale) e` lo Stato. Quindi Stato e politica sono tutt’uno”65. Questa identita` di popoloNazione-politica-Stato esclude che il popolo possa avere piu` voci, piu` culture. Esclude che possa esistere all’interno della Patria una pluralita` di vedute. E, conseguentemente, non vi puo` essere una rappresentanza pluralistica degli interessi, Percio`, da un lato, la volonta` di questa Patria non puo` che esprimersi attraverso la volonta` di un solo individuo (il Duce); da un altro lato, non puo` che pretendere la fedelta` dei suoi funzionari-intellettuali (dalla scuola all’Universita` e agli strumenti di formazione dell’opinione pubblica). Tra questa concezione dello Stato etico e il Discorso agli italiani, che Gentile pronuncera` nel giugno del 1943, v’e` una linearita` argomentativa fondata sulla identificazione tra fascismo e Patria, tra l’appartenenza ad un partito e l’essere italiani. Per Gentile, non sussiste alcuna distinzione tra chi e` “fascista della tessera” e “fascista della fede”, tra chi e` tesserato e chi non lo e`. “Ho sempre ritenuto – egli afferma – che tesserati o non tesserati si potesse essere tutti Italiani, concordi nell’essenziale ancorche´ dissenzienti nelle forme della disciplina politica: Italiani tutti, percio` tutti virtualmente fascisti”. Insomma, si e` fascisti in quanto italiani e si e` italiani in quanto fascisti, perche´ tutti “sinceramente zelanti di un’Italia che conti nel mondo”66. Questa identificazione di “italianita`” e fascismo instaura un meccani-

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G. Gentile, I fondamenti della filosofia del diritto (1916), Sansoni, Firenze 1961, p. 114. Ivi, p. 128. 66 G. Gentile, Discorso agli italiani, pronunciato a Roma, in Campidoglio, il 24 giugno 1943, ora in Id., Politica e cultura, vol. II, Le Lettere, Firenze 1991, p. 190. 65

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smo di assimilazione o esclusione di cio` che e` diverso e molteplice. La concezione gentiliana dello Stato etico presuppone l’identificazione della Nazione con un solo movimento politico e dello Stato con un solo partito. Si attua, cosı`, non certo una forma politica che puo` dirsi universale, in quanto comprende in se´ le diversita` e le garantisce, ma, al contrario, si attua la subordinazione dello Stato e della Nazione alla volonta` di una sola parte della societa`. Si realizza una partitizzazione della Patria. Volendo ridurre ad un unicum la complessita` delle forze civili e culturali sviluppatesi in Italia tra la fine dell’800 e gli inizi del ’900, la filosofia gentiliana approda non a una visione etico-universalistica dello Stato, ma – per usare un’espressione crociana – a un’“etica governativa”. Essa, cioe`, giunge a riconoscere come “etiche” (= espressive della volonta` e degli interessi nazionali) solo le scelte e le azioni del capo del governo. Questa partitizzazione della Patria trova in Alfredo Rocco* la sua forma giuridica piu` coerente, perche´ Rocco, a differenza di Gentile, non esita a sbarazzarsi di ogni rapporto con il liberalismo risorgimentale e non si preoccupa di ritrovare giustificazioni di tipo universalistico all’appropriazione partitica dello Stato-Nazione. Per Rocco, la novita` storica del fascismo e` da ricercare proprio nel tentativo di fondare la forza dello Stato su di un movimento politico extra-istituzionale. Il movimento diventa il fondamento e l’architrave dello Stato. Questa filiera di nessi tra popolo, nazione, movimento e Stato viene “giuridicizzata” quando Rocco giunge a definire le funzioni del Parlamento e del Gran Consiglio all’interno del regime fascista. “La dottrina fascista – afferma Rocco – nega il dogma della sovranita` popolare (...) In questa dottrina il Parlamento non e` fuori dello Stato; ne e`, invece, uno degli organi fondamentali. E i deputati per conseguenza sono pure organi dello Stato”67. Ne deriva che il Parlamento, essendo solo un organo dello Stato, non solo non risponde alla volonta` dei cittadini, ma non puo` non avere una visione parziale dell’interesse nazionale e, deve, pertanto essere subordinato alla piu` ampia visione che altri organi (in particolare il governo) sono in grado di realizzare. Il Parlamento deve essere sottoposto alla visione universale dei fatti posseduta dallo StatoGoverno. Ma, lo stesso Stato-Governo non puo` avere consapevolezza delle * Alfredo Rocco (Napoli 1875-Roma 1935), giurista, fu tra i dirigenti del movimento nazionalista. Nel periodo fascista fu presidente della Camera e ministro di Grazia e Giustizia. Tra le sue opere: Che cosa e` il nazionalismo (1914), La trasformazione dello Stato (1927). 67 A. Rocco, Relazione sul disegno di legge sulla “Riforma della rappresentanza politica”, presentato alla Camera dei deputati il 27 febbraio 1928, ora in Id., Scritti e discorsi politici, vol. III: La formazione dello Stato fascista, Giuffre`, Milano 1938, p. 934.

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proprie finalita`, se non si fonda su un movimento nazionale. Da qui, la funzione di cerniera che il Gran Consiglio deve assolvere tra il partito e lo Stato, la` dove il partito e` l’anima e la vita degli apparati statali. Nell’ordinamento dello Stato, osserva ancora Rocco, “e` evidente la necessita` di un organo supremo, nel quale tutte le istituzioni del regime e tutte le forze organizzate si incontrino, vengano a contatto e si crei una sintesi (...) A tale compito altissimo adempie (...) gia` nella pratica ottimamente il Gran consiglio del fascismo”68. Tramite il Gran Consiglio e` operata la piena partitizzazione delle istituzioni statali. Queste non possono vivere e riprodursi fuori o al di la` del movimento fascista. L’intera vita della nazione e`, cosı`, segnata dall’attivita` del partito. Rocco non si limita a teorizzare una nazionalizzazione autoritaria delle masse, come avevano fatto esponenti della destra liberale (dal De Meis al Sonnino), ma espone con rigore l’idea di una partitizzazione della nazione. Sta qui, in definitiva, il carattere totalitario della teoria fascista dello Stato: la parte (il movimento) ingloba e riduce a se´ tutta la vita sociale e politica della Nazione. Di fronte ad una simile concezione totalitaria del rapporto StatoNazione-Partito anche la teoria della “corporazione proprietaria”, teorizzata da Ugo Spirito* finiva con il risultare un’autentica eresia. La dottrina fascista – sia nella forma gentiliana che in quella rocchiana – poteva accettare l’idea delle corporazioni solo se concepite come organi dello Stato. Le corporazioni medioevali, osserva Rocco, realizzavano l’autogoverno dei produttori e vivevano fuori dello Stato, ma la corporazione fascista deve regolare il rapporto capitale-lavoro secondo il principio dell’interesse generale, che puo` essere assicurato solo dallo Stato. “La corporazione moderna non si organizza percio` fuori dello Stato, ma nello Stato; come organo di questo”69. Il confronto sui caratteri che dovevano assumere le corporazioni nello Stato fascista si sviluppo` al II Convegno di studi sindacali e corporativi, tenutosi a Ferrara il 5-8 maggio 1932. In questa occasione, pur affermando

68

A. Rocco, Ordinamento e attribuzione del Gran Consiglio del Fascismo, relazione al disegno di legge presentato il 6 novembre 1928, ora in Id., La formazione dello Stato fascista, ed. cit., p. 946. * Ugo Spirito (Arezzo 1896-Roma 1979), professore di economia corporativa a Pisa (1932-1935) e, poi, di filosofia teoretica a Messina, Genova e, dal 1938, a Roma. Opere principali: I fondamenti dell’economia corporativa (1932), La vita come ricerca (1937), Il problematicismo (1948), Dal mito alla scienza (1966). 69 A. Rocco, Costituzione e funzioni delle corporazioni, in Id., La formazione dello Stato fascista, ed. cit., p. 1012. Corsivo mio.

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che attraverso il Consiglio nazionale delle corporazioni lo Stato diveniva “la realta` stessa della corporazione”, Ugo Spirito immaginava un sistema sociale in cui “la corporazione acquista(va) concretezza di organismo e piena consapevolezza del proprio compito economico-politico”70. La sua eresia nasceva dal voler attribuire alle corporazioni una autonomia politica nel governo dell’economia. E, in verita`, la via da lui indicata non portava al riassorbimento delle corporazioni nel Partito-Stato, ma, al contrario, era questo a dissolversi nella complessa articolazione delle corporazioni. Al di la` delle stesse intenzioni dell’autore, le tesi intorno alla “corporazione proprietaria” finivano con il legittimare l’esistenza di istituzioni di governo dell’economia fuori dello Stato. La condanna da parte delle gerarchie fasciste non poteva che essere immediata. Nello stesso convegno il ministro delle Corporazioni, Giuseppe Bottai (1895-1959), ristabiliva l’identita` di movimento-Nazione-Stato e affermava che le tesi di Spirito non segnavano “un passo innanzi nel corporativismo, ma un passo fuori del corporativismo”71. Le corporazioni potevano essere concepite solo secondo il “principio della subordinazione funzionale delle associazioni allo Stato”72. Non erano i timidi apprezzamenti di Spirito per il comunismo a scandalizzare, ma la sua quasi inconsapevole visione di una realta` politico-istituzionale esterna al Partito-Stato.

3.3. Liberalismo, antifascismo, democrazia All’indomani della Prima guerra mondiale al centro del dibattito politicoteorico sta – come abbiamo gia` visto – il tema della forma che il liberalismo deve assumere di fronte alla societa` di massa. Ma, se Gentile instaura una continuita` teorica tra il liberalismo e il fascismo e risolve l’idea della liberta` e dell’eticita` nella volonta` del Partito (e del Duce), Croce, invece, pensa che l’azione di uno Stato non riassuma in se´ la volonta` etica, ma si risolva sempre nell’azione di un governo particolare e di individui particolari. Il filosofo napoletano accentua la dimensione pluralistica della concezione 70

U. Spirito, Individuo e Stato nell’economia corporativa, relazione tenuta al II Convegno di studi sindacali e corporatIvi, ora in Id., Il corporativismo, Sansoni, Firenze 1970, p. 357. 71 G. Bottai, Il convegno di Ferrara, discorso conclusivo pronunciato al II Convegno di studi sindacali e corporativi, ora in Id., Scritti, a cura di R. Bertolozzi e R. Del Giudice, Cappelli, Bologna 1965, p. 185. 72 G. Bottai, Lo Stato corporativo, discorso pronunciato al Senato il 31 maggio 1928, in Id., Scritti, cit., p. 113.

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liberale e separa l’etico-universale dall’economico-politico, in modo da impedire che una forza politica particolare o uno specifico interesse economico possa arrogarsi il diritto di auto-proclamarsi rappresentante dell’Universale. La distinzione tra etica e politica rende impossibile tale rappresentanza: il particolare non puo` stare al posto dell’Universale. Abbiamo gia` detto, altresı`, come il “terrore per il bolscevismo” spinga Croce a sostenere il fascismo, ritenendo possibile una sua “costituzionalizzazione”. Ma, di fronte alla sovversione delle istituzioni liberali, egli matura una chiara posizione antifascista e si schiera a difesa della liberta` d’opinione, scrivendo il Manifesto degli intellettuali antifascisti, apparso su “Il Mondo” il 1˚ Maggio 1925, in risposta a quel Manifesto degli intellettuali del fascismo, che (scritto da Gentile e corretto da Mussolini) era stato reso noto il 21 aprile precedente. Il Manifesto del Gentile negava l’autonomia della cultura e tracciava le linee per trasformare gli intellettuali in obbedienti funzionari del Partito-Stato. Il Manifesto crociano, invece, ribadiva che “contaminare politica e letteratura, politica e scienza e` un errore”.73 Ma, in questi anni, l’attivita` di Croce non si limita ad una strenua difesa dei princı`pi del liberalismo, perche´ con volumi come Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928), Etica e politica (1931), Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932), La storia come pensiero e come azione (1938), egli elabora una visione del liberalismo piu` aperta alla partecipazione organizzata dei ceti subalterni alla vita politica. Negli anni della guerra egli aveva espresso la speranza “di un movimento proletario inquadrato e risoluto nella tradizione storica, di un socialismo di stato e nazione”74. E nella recensione alle Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann, apparsa su “La Critica” del 1920, Croce aveva rimproverato lo scrittore tedesco di non aver compreso i caratteri della moderna“civilisation” e del “volgo” e aveva aggiunto: “il volgo resta: resta, perche´ opera (a suo modo, ben s’intende), e adempie ai suoi molteplici uffici, tra i quali anche di stimolare e accrescere, nell’aristocrazia, la coscienza dell’aristocrazia. Nessuna guerra, nessuna conquista, nessun assoggettamento, nessuna rivoluzione, nessuna invasione di popoli lo ha mai distrutto”75. Infine, nella Storia come pensiero e come azione giunge a sostenere la funzione 73

Sulle vicende di questi due Manifesti si veda: E. R. Papa, Storia di due manifesti. Il fascismo e la cultura italiana, Feltrinelli, Milano 1958. 74 B. Croce, Cultura tedesca e politica italiana (1914), in Id., L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, Laterza, Bari 1950, p. 22. 75 B. Croce, Le considerazioni di un non-politico, recensione a Th. Mann, Betrachtungen eines Unpolitischen, in Id., Pagine sparse, Laterza, Bari 1960, vol. II, p. 187. Corsivi miei.

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indispensabile dei partiti nella costituzione e nella vita della democrazia liberale. I partiti – egli dice – “si formano sulla varieta` degli uomini e dei loro problemi e tendenze, e ne designano i mutevoli aggruppamenti; i quali, sempre che abbiano virtu` e consistenza morale, cioe` volonta` del bene comune, e non si riducano a fazioni e a bande, sono anch’essi tutti, nel loro intrinseco, liberali. In effetto, lo spirito liberale li accetta tutti, li vuole, li richiede, li invoca e lamenta la loro assenza o la loro scarsa efficienza”76. Nei testi appena citati Croce coglie l’interdipendenza che, nel mondo moderno, si instaura tra l’aristocrazia e il volgo. Egli non ritiene che il “volgo” potra` avere mai le capacita` per divenire classe dirigente, e tuttavia si rende conto che e` necessario riconoscere i suoi diritti di cittadinanza (dai diritti politici e civili alla difesa del lavoro). E` a partire da tale riconoscimento che si costruiscono quelle forme istituzionali liberali che concorrono alla piena realizzazione della dignita` e della liberta` umana. Percio`, il liberalismo non puo` risolversi in una difesa teorica del diritto di proprieta` e della libera iniziativa economica dei privati, ma deve comprendere che, per realizzare pienamente la liberta` dei cittadini, deve sollecitare la democrazia organizzata dei partiti. Ne´ puo` evitare di utilizzare tecniche economiche di tipo collettivistico, se tali tecniche contribuiscono a inglobare i ceti subalterni nella democrazia liberale. In Etica e politica aveva scritto: “ben si potra`, con la piu` sincera e vivida coscienza liberale, sostenere provvedimenti e ordinamenti che i teorici dell’astratta economia classificano come socialistici, e, con paradosso di espressione, parlare finanche (...) di un ‘socialismo liberale’’’77. Il ragionamento di Croce puo` essere cosı` riassunto: posto che una societa` sia retta da princı`pi e da leggi liberali (diritti di cittadinanza, pluralismo politico, divisione e limitazione dei poteri) e` possibile che nel governo dell’economia siano utilizzate, secondo le opportunita` dello sviluppo complessivo e unitario della Nazione, anche delle tecniche economiche di tipo “collettivistico”. L’emancipazione del liberalismo dal liberismo e` qui evidente. Evidente anche la vicinanza di questa visione del liberalismo alle teorie keynesiane, che ritengono opportuna una regolamentazione del mercato per difendere gli strati sociali piu` deboli. V’e` una idea etica, e non economicista, della liberta`, che trovera` nei primi capitoli della Storia d’Eu-

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B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1973, p. 208. B. Croce, Liberismo e liberalismo (1927), in Id., Etica e politica, Laterza, Bari 1973, p. 267. In seguito, polemizzando con Guido Calogero, Croce definira` un “ircocervo” l’espressione “liberalsocialismo”. 77

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ropa la sua sistemazione teorica piu` alta. In queste pagine il liberalismo di Croce portera` a compimento la sua trasformazione in quella religione della liberta`, che costituira` il nutrimento per la formazione teorica di una nuova generazione di antifascisti. La revisione crociana del liberalismo nasceva dalla sconfitta della vecchia classe dirigente liberale prima a Caporetto e, poi, di fronte al fascismo. Nasceva dalla convinzione che il liberismo economico (come il collettivismo) non era in grado di esprimere un ordinamento etico e civile della societa`. Dalla convinzione che il liberalismo sarebbe potuto tornare a “dare vita a una nuova classe dirigente”, solo comprendendo che cio` non era piu` possibile con i mezzi di una volta. Il liberalismo, scrivera` Croce, “costante nel fine, fedele alla sua propria religione, deve rinnovarsi nella sua azione pratica, studiare altri modi di penetrare negli intelletti e nei cuori, allearsi con altri interessi, dare vita a una nuova classe dirigente”.78 E` la necessita` di rivedere i meccanismi formativi di una nuova classe dirigente a spingerlo, nel 1942, a scrivere quel Perche´ non possiamo non dirci cristiani che suonava come chiara proposta di alleanza fra il pensiero liberale e il mondo cattolico, tra i princı`pi della democrazia liberale e l’organizzazione di massa dei cattolici. Alla visione etica della liberta`, elaborata dal Croce, non aderiva Luigi Einaudi* che riproponeva lo schema piu` tradizionale della indissolubilita` del liberalismo dal liberismo economico. A suo avviso, la difesa delle liberta` civili non era separabile dalla difesa del libero mercato e dell’iniziativa privata. Certamente piu` preoccupato di Croce che le politiche economiche stataliste potessero aprire la strada al comunismo, Einaudi si trincerava entro una ortodossia liberale che continuava a ignorare la necessita` di fare i conti con il “volgo” e negava la possibilita` di un qualsiasi uso “tecnico” dell’intervento statale nel regolare e orientare il mercato in difesa delle classi deboli. L’intervento statale – a suo avviso – avrebbe inevitabilmente condotto a negare le liberta` economiche e civili. Egli ignorava quel “posto che...” da cui muoveva Croce. Ignorava la crisi cui era giunto il vecchio liberalismo. Quel liberalismo che non aveva saputo opporsi al fascismo, proprio perche´ non aveva voluto assumersi il compito di produrre nuove 78

B. Croce, La storia come pensiero e come azione, ed. cit., p. 213. * Luigi Einaudi (Carru`, Cuneo, 1874-Torino 1961), insegno`, dal 1902, scienza delle finanze all’Universita` di Torino. Dal 1908 al 1930 (data della sua soppressione ad opera del regime fascista) diresse la “Riforma sociale”. Governatore della Banca d’ Italia nel 1946, nel 1947 fu ministro del Bilancio. Nel 1948 fu eletto Presidente della Repubblica. Tra le sue opere: Le lotte del lavoro (1924), Lezioni di politica sociale (1949), Il buongoverno (1954), Lo scrittoio del Presidente (1956), Prediche inutili (1955-1959).

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forme di governo delle masse popolari, ridisegnando le regole del mercato e ampliando le forme di cittadinanza. In breve, non aveva saputo produrre quella innovazione politico-istituzionale necessaria per una nazionalizzazione democratica delle masse. Benedetto Croce non era, negli anni ’20, la sola figura a farsi carico della revisione del liberalismo. In quest’ottica si muoveva anche Francesco Saverio Nitti* che, tra il 1921 e il 1923, in opere quali L’Europa senza pace, La decadenza dell’Europa, La tragedia dell’Europa, pone con chiarezza il tema della indissolubilita` del nesso pace-sviluppo-democrazia. Nitti critica la politica di potenza, che gli Stati vincitori tendono a riproporre, perche´ vede in questa politica la fonte dei mali e delle contraddizioni della civilta` politica europea. Per lui, assicurare una stabile pace tra gli Stati europei significa offrire a ciascuna nazione la possibilita` di sviluppare la propria economia. Ed egli ritiene che la crescita economica sia base per una solida democrazia. Nel quadro della revisione del liberalismo non va dimenticata la Storia del liberalismo europeo (1925) di Guido De Ruggiero*. Allievo di Gentile, la sua Storia del liberalismo rappresenta il momento di maggior vicinanza al liberalismo etico di Croce. Nel secondo dopoguerra si allontanera` nuovamente dal filosofo napoletano, giudicando la risoluzione dell’ “ideale” nel “reale”, che la filosofia crociana proponeva, un modo per imbozzolare il divenire nel divenuto, la prassi presente nel passato. “Noi – scrivera` De Ruggiero – non ci appaghiamo della realta`, ne´ la giudichiamo razionale, ma sentiamo che essa e` sempre inferiore all’idea che e` in noi, quindi sempre in qualche modo irrazionale, cioe` affetta da un limite e da una passivita` da superare e da riscattare”79. De Ruggiero comprende subito i caratteri illiberali del fascismo. Comprende che esso non poteva “costituire il mezzo con cui superare la crisi

* Francesco Saverio Nitti (Melfi 1868-Roma 1953), fu, dal 1898, professore di scienza delle finanze all’Universita` di Napoli. Deputato radicale dal 1904. Ministro con Giolitti (1911-1914) e con V. E. Orlando (1917). Presidente del Consiglio (1919-1920). Esule durante il periodo fascista, rientro` in Italia nel 1945. Fu senatore dal 1948. Tra le sue opere: Principi di scienza delle finanze (1903), L’Europa senza pace (1921), La democrazia (1933). * Guido De Ruggiero (Napoli 1888-Roma 1948) fu tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti. Insegno` storia della filosofia all’Universita` di Messina e di Roma. Dopo la liberazione milito` nel Partito d’Azione e fu ministro della Pubblica Istruzione. Oltre alla Storia del liberalismo, e` autore di una monumentale Storia della filosofia (1918-1947). Altri scritti: Il pensiero politico meridionale (1922), Il ritorno alla ragione (1946). 79 G. De Ruggiero, Il ritorno alla ragione, Laterza, Bari 1946, pp. 25-26.

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della societa` italiana”80, anzi esso non era che il prodotto di tale crisi. “Nel fascismo del 1921-22 egli vedeva sostanzialmente non solo la negazione di ogni principio e di ogni idea liberali, ma il riproporsi in termini piu` drammatici e in maniera solo apparentemente diversa, del convulso insurrezionalismo bolscevico di due anni prima”81. Tuttavia, egli non vede che il problema fondamentale del liberalismo, all’indomani della Prima guerra mondiale, e` il suo rapporto con la societa` di massa, percio` tende a ripensarlo solo come teoria delle liberta` individuali e sottovaluta la partecipazione e l’azione politica dei soggetti collettivi. In questa prospettiva, De Ruggiero mantiene ferma l’opposizione tra liberalismo e democrazia e si attesta su una linea di difesa dei diritti del cittadino che ha piu` i tratti del giusnaturalismo, che non quelli di una nuova democrazia liberale. Il suo stesso volgersi all’Inghilterra, come patria del liberalismo, intende richiamare un ideal-tipo di liberalismo che deve e puo` fare a meno dell’idea di una democrazia strutturata da organizzazioni collettive. Nel capitolo su “Liberalismo e democrazia” della sua Storia del liberalismo, dopo aver riconosciuto che “i princı`pi sui quali si fonda la concezione democratica siano la logica esplicazione delle premesse ideali del liberalismo moderno”, De Ruggiero precisa che “vi e` nella democrazia una forte accentuazione dell’elemento collettivo, sociale, della vita politica, a spese di quello individuale”. Da qui deriva “quella impazienza, che caratterizza la mentalita` democratica, verso ogni spiegamento graduale di attivita` singole, verso la formazione, dall’interno, delle personalita` umane (...) Il logico sviluppo di siffatta tendenza porta non soltanto a disconoscere l’efficacia formatrice della liberta`, ma anche a comprimerla e a deprimerla”82. Nato dallo stesso tronco del liberalismo, il pensiero democratico si era a tal punto emancipato da questa sua origine da negare gli stessi principi fondamentali del liberalismo ed era, cosı`, approdato alla statolatria. “Lo stato democratico – scrive De Ruggiero – risulta cosı` da una effettiva spoliazione dei diritti dei cittadini e dall’attribuzione di essi a una volonta` generale, a una sovranita` popolare unica e indivisibile”83. Tolta, cosı`, la prospettiva di un possibile incontro tra pensiero liberale e soggetti collettivi, che, invece, sulla linea di una visione meta-politica della liberta` lo stesso Croce verra` ricercando,

80

R. De Felice, Introduzione a G. De Ruggiero, Scritti politici, Cappelli, Bologna 1963, p. 55. Ivi, p. 56. 82 G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, prefazione di E. Garin, Feltrinelli, Milano 1977. Le citazioni sono alle pp. 357 e 359. 83 Ivi, p. 361. 81

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nella riflessione deruggeriana resta solo l’idea di un liberalismo che deve superare la sua tendenza oligarchica. Per tale compito, esso non ha bisogno dell’apporto pratico-teorico del movimento democratico, ne´ tanto meno del socialismo. Il liberalismo puo` ritrovare nella propria storia i princı`pi per riattrezzare la propria cultura e superare la crisi attuale. Chi elabora una visione del liberalismo aperto all’idea di una democrazia fondata sull’organizzazione di soggetti collettivi e disposto ad ascoltare le sollecitazioni delle classi subalterne e` Piero Gobetti*. Questi, attraverso una intensa attivita` editoriale e la pubblicazione di riviste quali “Energie Nove”, pubblicata dal novembre 1918 al 1920, “La rivoluzione liberale”, fondata nel febbraio 1922, e, infine, “Il Baretti”, il cui primo numero appare nel dicembre 1924, ripensa l’ideologia liberale alla luce dell’esperienza dei consigli operai, che in Italia si sviluppa nel biennio 1919-1920. In stretto contatto con il gruppo torinese dell’ “Ordine Nuovo” (Gramsci, Terracini, Togliatti), Gobetti si mostra convinto del fatto che il Movimento operaio possa esprimere quelle forze vitali capaci di promuovere un rinnovamento dei gruppi dirigenti e della cultura liberale. Egli, pero`, non pensa ad una rivoluzione socialista, quanto a una rivoluzione liberale. Coglie nel segno Bobbio, quando scrive che, per Gobetti, “la rivoluzione italiana sarebbe stata – a differenza di quella francese – una rivoluzione operaia e non borghese, ma – a differenza di quella sovietica – una rivoluzione liberale e non comunista”84. Gobetti ritiene possibile un ricambio delle classi dirigenti liberali attraverso l’attivazione politica delle classi subalterne. Si potrebbe dire che, in questa visione della lotta politica, egli utilizzi uno schema teorico di tipo elitista (la mobilitazione delle masse e` pensata come funzionale al ricambio delle e´lites). In verita`, al fondo della sua analitica, v’e` una idea della “rivoluzione italiana” non dissimile da quella del Cattaneo. Egli ritiene che, in Italia, l’assenza di una moderna coscienza civile derivi da una vicenda storica nazionale che ha visto, prima, la sconfitta di ogni movimento di Riforma religiosa, e, poi, un Risorgimento “senza popolo” e “senza eroi”. Sono, in breve, mancati in Italia quei processi che, in altre Nazioni, hanno costituito gli aspetti essenziali dello Stato moderno (laicizzazione della cultura, partecipazione popolare, formazione di istituzioni autorevoli perche´ giuste, definizione di regole e valori condivisi). Questi * Piero Gobetti (Torino 1901-Parigi 1926), laureatosi in Giurisprudenza, fu costretto a sospendere la sua attivita` editoriale di carattere antifascista. Si rifugio` a Parigi, dove morı` pochi giorni dopo per le percosse subite a Torino da parte dei fascisti. Opere principali: La rivoluzione liberale (1924), Risorgimento senza eroi (pubblicato postumo nel 1926). 84 N. Bobbio, Profilo ideologico del ’900, Garzanti, Milano 1990, p. 150.

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mali storici dell’Italia trovano la loro presentificazione nel fascismo: il fascismo e` l’autobiografia dell’Italia85. E`, percio`, compito del pensiero liberale porsi alla guida di quelle “energie nuove” (le e´lites operaie e intellettuali) che intendono promuovere una radicale modernizzazione e laicizzazione della societa` italiana. V’e`, dunque, nella prospettiva gobettiana, qualcosa di piu` di un elitismo democratico. V’e` l’idea che occorra rinnovare lo spirito collettivo della Nazione. E, se il fascismo rappresenta l’“autobiografia” del popolo italiano, allora essere antifascisti implichera` anche il mettere alla frusta – come faceva il Baretti nel ’700 – il senso comune degli italiani. Cio` non significa, pero`, che per essere antifascisti occorra essere anti-italiani. Gobetti sa che i protagonisti del rinnovamento devono essere gli stessi italiani e che il “carattere” di una nazione e` la sua storia. Sa che, nella realta` politica del dopoguerra, una mutazione di tale “carattere” puo` avvenire solo portando a compimento la sintesi di democrazia e Nazione; solo fondando l’autorita`, politica e culturale, delle istituzioni e delle nuove classi dirigenti rendendo le classi subalterne soggetti costituenti di una nuova democrazia liberale. Avviata dalla riflessione gobettiana, la ricerca di un nuovo tipo di democrazia liberale sostanzia anche il socialismo di Carlo Rosselli* e il liberal-socialismo di Guido Calogero e Aldo Capitini. Da Gobetti Rosselli riprende l’idea del fascismo come ‘‘autobiografia di una nazione’’86. E anche per Rosselli, come per Gobetti, la civilta` liberale puo` essere rivitalizzata solo

85

“Il fascismo in Italia – afferma Gobetti – e` un’indicazione di infanzia perche´ segna il trionfo della facilita`, della fiducia, dell’entusiasmo. Si puo` ragionare del ministero Mussolini: come di un fatto d’ordinaria amministrazione. Ma il fascismo e` stato qualcosa di piu`; e` stato l’autobiografia della nazione. Una nazione che crede alla collaborazione delle classi; che rinuncia per pigrizia alla lotta politica” (P. Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, a cura di E. Alessandrone Perona, introduzione di P. Spriano, Einaudi, Torino 1983, p. 165). * Carlo Rosselli (Roma 1899-Bagnoles-de-l’Orne 1937) fu arrestato nel 1926 per aver contribuito alla fuga di Turati. Confinato a Lipari dal novembre 1927, e` qui che scrive Socialismo liberale tra il 1928 e il 1929. Riesce a fuggire nel luglio 1929. Nel 1930, portato a termine il saggio sul Socialismo liberale, lo pubblica a Parigi. Nel 1936 partecipa alla guerra civile spagnola. L’anno successivo viene ucciso, insieme a suo fratello Nello, da sicari cagoulards francesi su ordine del governo fascista. 86 “Il fascismo – scrive Rosselli – e` stato in certo senso l’autobiografia di una nazione che rinuncia alla lotta politica, che ha il culto dell’unanimita`, che rifugge dall’eresia, che sogna il trionfo della facilita`, della fiducia, dell’entusiasmo. Lottare contro il fascismo non significa dunque solo lottare contro una feroce e cieca reazione di classe, ma lottare contro un certo tipo di mentalita`, di sensibilita`, di tradizione italiana che sono proprie, purtroppo, inconsapevolmente proprie, di larghe correnti di popolo” (C. Rosselli, Socialismo liberale, a cura di John Rosselli, introduzione di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1979, p. 117).

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dalla classe operaia, purche´ questa si liberi dell’ideologia marxista e assuma come proprio modello organizzativo il laburismo inglese. “All’esegetismo marxiano dei socialisti italiani – ha scritto Salvo Mastellone – Rosselli preferisce la concretezza empirica dei socialisti inglesi: in parole povere Rosselli preferisce, come dice fin dal novembre 1923, “adeguare l’azione del partito a quelli che sono i concreti bisogni di una particolare collettivita` in un determinato momento storico”. A questo orientamento positivo, filobritannico, Rosselli e` rimasto fedele”87. In quest’ottica e` il socialismo ad evolvere verso il liberalismo, in modo che gli ideali di giustizia sociale non giungano a vanificare i princı`pi della liberta` individuale. “Il socialismo – scrive ancora Rosselli – non e` ne´ la socializzazione, ne´ il proletariato al potere e neppure la materiale eguaglianza. Il socialismo, colto nel suo aspetto essenziale, e` l’attuazione progressiva della idea di liberta` e di giustizia tra gli uomini”88. Liberta` e giustizia, queste le coordinate fondamentali del pensiero e dell’azione politica di Carlo Rosselli e “Giustizia e Liberta`” e` il nome del movimento politico cui egli diede vita nel 1930. Obbiettivo fondamentale di tale movimento era quello di dislocare la classe operaia sul terreno della democrazia. Il movimento socialista non poteva piu` attardarsi sulle antiche diatribe tra minimalisti e massimalisti, tra la difesa corporativa degli interessi operai e l’attesa della conquista del potere. Diveniva, invece, compito del socialismo riconoscere il valore delle istituzioni liberali e risolvere, attraverso forme democratiche, quella “questione nazionale” (laicizzazione dello Stato, ampliamento delle sue basi sociali, garanzie per il lavoro e per le liberta`, ecc.) che il fascismo aveva drammaticamente riproposto nel momento stesso in cui aveva prodotto una nazionalizzazione autoritaria delle masse. L’obiettivo di Socialismo liberale era, dunque, quello di riaprire, all’interno delle forze antifasciste, un dibattito che, superando le discussioni dottrinarie intorno al marxismo, potesse consentire di ripensare il rapporto tra movimento operaio e democrazia. La risposta da parte dei comunisti non si fece attendere. Palmiro Togliatti* in un articolo, apparso sulla rivista 87

S. Mastellone, Carlo Rosselli e “la rivoluzione liberale del socialismo”, Leo S. Olschki, Firenze 1999, p. 122. Ma su questo tema e` da leggere l’intero capitolo II: La cultura liberalsocialista inglese. 88 C. Rosselli, Socialismo liberale, ed. cit., pp. 81-82. * Palmiro Togliatti (Genova 1893-Jalta 1964) fu tra i fondatori del partito comunista italiano. Durante il fascismo si rifugio` in Unione sovietica. Fu membro della segreteria del Comintern. Rientrato in Italia nel 1944, fu ministro di Grazia e Giustizia nel governo Parri e nei primi due governi De Gasperi. Segretario del Pci sino alla morte. Le sue Opere, 6 voll., sono state pubblicate tra il 1967 e il 1984.

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“Lo Stato Operaio” del settembre 193189, pur valorizzando il dislocarsi di una parte della piccola borghesia intellettuale su posizioni antifasciste e la funzione organizzativa che verso tali ceti veniva svolgendo “Giustizia e Liberta`”, non esitava a giudicare quello di Rosselli un “libello” privo di spessore analitico e teorico. Togliatti, che era ormai il capo riconosciuto del Partito comunista italiano e membro del Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista (Comintern), ribadiva la sua fedelta` alla linea adottata dal movimento comunista, che contemplava lo scontro frontale con la borghesia (ovvero: l’idea della lotta “classe contro classe”) e l’accusa di “socialfascismo” rivolta ai partiti socialisti. Sara`, pero`, lo stesso Togliatti (insieme a Georgij Dimitrov, segretario del Comintern dal 1935 al 1943) a farsi protagonista, al VII Congresso dell’Internazionale Comunista (Mosca, luglio-agosto 1935), di un radicale mutamento della strategia comunista. Maturano, in questo periodo, in Togliatti una interpretazione del fascismo come “regime reazionario di massa” e l’idea di un “fronte unico” delle forze antifasciste da porre a fondamento di uno Stato democratico. Nelle Lezioni sul fascismo, che egli tiene a Mosca nel 1935, il fascismo non viene piu` presentato come l’espressione politica delle forze capitalistiche piu` reazionarie; non e` solo l’espressione di una borghesia ormai alla vigilia di un crollo catastrofico, ma un soggetto politico che ha risolto la crisi dello Stato liberale, organizzando le masse attraverso forme associative originali (dopolavoro, corporazioni, partito, ecc.) e controllando la formazione delle coscienze e la vita privata dei cittadini. Esso e` un sistema politico totalizzante, perche´, nel momento stesso in cui espelle qualsiasi possibilita` di opposizione sociale e politica, sa organizzare il consenso delle masse intorno ai processi di ristrutturazione produttiva della Nazione. Questa capacita` del fascismo di catturare il consenso, secondo Togliatti, obbliga il movimento operaio a ripensare i meccanismi di formazione dell’opinione pubblica e degli orientamenti politici. Lo obbliga a misurarsi con il problema del governo e della crescita civile dell’intera nazione e a definire gli interessi e il sentire comune della Nazione attraverso un sistema democratico che coinvolga e garantisca il pluralismo degli interessi e degli orientamenti politici. Togliatti giunge, cosı`, a porre il problema della democrazia in relazione alla “questione nazionale”; il problema della crescita politico-culturale delle classi subalterne in relazione alla formazione di una Nazione democratica. Nella visione togliattiana, solo l’assunzione del punto di vista dello sviluppo 89 L’articolo, Sul movimento di Giustizia e Liberta`, e` leggibile in P. Togliatti, Opere, vol. III, t. 1˚, a cura di E. Ragionieri, Editori Riuniti, Roma, 1973, pp. 410-422.

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CENTO ANNI DI IDEOLOGIA ITALIANA

dell’intera Nazione rende possibile l’indebolimento del fascismo e la dislocazione del “movimento delle masse” in un orizzonte democratico. Su questa base, diverra` possibile la convergenza dei comunisti con le altre forze antifasciste (e con “Giustizia e Liberta`”), anche se su tale convergenza continuera` a pesare il legame dei comunisti con l’Urss. Comunque, d’ora in poi, al centro del dibattito teorico tra le forze democratiche verra` posto il tema (non affrontato dal vecchio socialismo riformista, ma presente nel volume di Rosselli) della ridefinizione del nesso partito operaiodemocrazia-Nazione. D’altra parte, via via che l’unita` antifascista si verra` concretizzando, la pratica della democrazia educhera` e trasformera` i caratteri del comunismo italiano, ne provochera` una mutazione strategica e, persino, antropologica. E, come ha osservato Salvo Mastellone90, non sara` un caso se la Costituzione italiana portera` la firma del liberale Enrico De Nicola (1877-1959), presidente della Repubblica, del cattolico Alcide De Gasperi (1881-1954), presidente del Consiglio dei Ministri, e del comunista Umberto Terracini (1895-1983), presidente dell’Assemblea Costituente. Il bisogno di saldare la lotta antifascista (la riconquista delle liberta` politiche) ad un processo di nazionalizzazione democratica delle masse (la conquista di diritti civili e sociali) anima anche il Manifesto del liberalsocialismo (1940) redatto da Guido Calogero*. Allievo di Gentile, nel volume La scuola dell’uomo (1939) e in alcuni articoli, poi raccolti in Difesa del liberalsocialismo (1945), Calogero sviluppa una critica della filosofia crociana, perche´ si limiterebbe a suggerire una idea della liberta` come condizione trascendentale dell’agire. Egli ritiene, invece, necessario definire la liberta` nei suoi concreti contenuti politici e sociali ed oppone le liberta` al plurale al concetto di liberta` al singolare. Non si tratta, cioe`, di riaffermare la condizione, che ontologicamente appartiene ad ogni singolo individuo, di poter trascendere le circostanze date o di poter scegliere, in qualsiasi circostanza, tra diverse opzioni (sia anche quella estrema tra il subire un’imposizione e la morte), ma di comprendere i processi costitutivi che pongono il singolo di fronte alle possibili alternative. Il problema di Calogero, in breve, non e` avere la possibilita` di scegliere, ma comprendere e criticare i meccanismi 90

Cfr. S. Mastellone, Storia del pensiero politico europeo. Dal XIX al XX secolo, UTETLibreria, Torino 2002, pp. 207-208. * Guido Calogero (Roma 1904-1986), docente di storia della filosofia alle Universita` di Firenze, Pisa e Roma. Arrestato e inviato al confino dal febbraio 1942 al luglio 1943. Tra le sue opere: I fondamenti della logica aristotelica (1927), La conclusione della filosofia del conoscere (1938), La scuola dell’uomo (1939), Difesa del liberalsocialismo (1945), Lezioni di filosofia (1946-1948), La filosofia del dialogo (1962).

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DALLA CRISI DEL RISORGIMENTO ALLA NASCITA DI UNA NAZIONE DEMOCRATICA

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che pongono il singolo individuo (o la collettivita`) di fronte a scelte determinate; comprendere come si determini storicamente la situazione in cui il singolo (o la collettivita`) si trova a operare. In questo senso, diviene fondamentale legare il principio di liberta` all’idea di giustizia sociale; l’idea dell’autodeterminazione della propria personalita` all’idea di una sostanziale eguaglianza di condizioni di vita. “A fondamento del liberalsocialismo – recita l’incipit del Manifesto – sta il concetto della sostanziale unita` e identita` della ragione ideale, che sorregge e giustifica tanto il socialismo nella sua esigenza di giustizia quanto il liberalismo nella sua esigenza di liberta`. Questa ragione ideale coincide con quello stesso principio etico, col cui metro, in ogni passato e avvenire, si e` sempre misurata, e si misurera` sempre, l’umanita` e la civilta`: il principio per cui si riconoscono le altrui persone di fronte alla propria persona, e si assegna a ciascuna di esse un diritto pari al diritto proprio”91. Siamo, ormai, di fronte ad un tipo di liberalismo che riformula l’idea di cittadinanza. L’appartenenza a una comunita` politica viene pensata sulla base del reciproco riconoscimento di diritti politici, sociali ed economici. Su questa linea, Calogero approdera` ad una visione della democrazia come dia-logo, come spazio di incontro tra soggettivita` diverse che insieme ricercano le forme e le ragioni per programmare il comune destino. E non diversamente da Calogero, Aldo Capitini*, che aveva collaborato alla stesura del Manifesto, pensera` la politica come “apertura verso l’altro”. Ma, giunti ormai alla fine del nostro discorso, preme sottolineare, al di la` della biografia intellettuale del singolo pensatore, l’affermarsi di una visione del rapporto masse-democrazia-nazione che accomuna diversi orientamenti politici e che costituisce la cultura dell’antifascismo. Essa non si limita a riproporre i principi di una societa` liberale, ma segna la fine della partitizzazione della patria. Per questa ragione, la crisi dell’8 settembre 1943 (data dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati) e` “al tempo stesso, esito della disfatta militare ma anche il fallimento della esperienza coattiva di naziona91 Primo manifesto del liberalsocialismo, pubblicato in appendice al volume di G. Calogero, Difesa del liberalsocialismo, Atlantica, Roma 1945. La citazione e` a p. 202. In appendice a questo stesso volume e` pubblicato anche il Secondo manifesto del liberalsocialismo (1941). Su Calogero si leggano i saggi di D. Cofrancesco, Temi e problemi della cultura antifascista, in Id., Europeismo e cultura, Ecig, Genova 1981, e di P. Bagnoli, Il liberalsocialismo, Edizioni Polistampa, Firenze 1997. * Aldo Capitini (Perugia 1899-1968), segretario della Scuola Normale di Pisa, perde il suo posto per attivita` antifascista. Docente di pedagogia all’Universita` di Cagliari e di Perugia, nell’Italia repubblicana si fa sostenitore di movimenti pacifisti. Scritti: Elementi di un’esperienza religiosa (1937), Il potere di tutti (1969).

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lizzazione della masse”92. Con l’8 settembre muore la Patria fascista; inizia il processo di nazionalizzazione democratica delle masse. In questo senso la cultura dell’antifascismo e` base e fondamento teorico della Costituzione italiana. E` nella Carta Costituzionale che si attua quella costituzionalizzazione del lavoro, fissata dall’art. 1 (“L’Italia e` una Repubblica fondata sul lavoro”), che porta al pieno riconoscimento dei diritti politici e civili del “volgo”, alla trasformazione dei sudditi in cittadini. Sennonche´, una tale trasformazione non si attua semplicemente spostando il luogo della Sovranita` dal Monarca al popolo, ma mutando la forma stessa della sovranita`. Il popolo, infatti, sempre secondo l’art. 1, esercita la sua sovranita` secondo le forme fissate dalla Costituzione. Il potere costituente (il popolo-sovrano) viene esso stesso ad essere costituito. La sovranita` non e` concepita come una forza o una soggettivita` pre-esistente alla Costituzione (come se fosse un ente metafisico o un elemento naturale), ma si da` solo entro le forme della Costituzione. La sovranita` del popolo – e, direi, il popolo medesimo – assume una sua esistenza e fatticita` solo in quanto formata dalla Costituzione. Per questa ragione, ai partiti, ai sindacati e a tutte le forme associative viene riconosciuta una funzione fondamentale nell’organizzare e nel qualificare la vita democratica della Nazione. I “padri costituenti”, cioe`, ritennero che la vita democratica non sarebbe stata garantita, se si fosse immaginato il popolo come una compatta entita` metafisica, ma solo se si fosse data la possibilita` alle molteplici e contrastanti componenti del popolo di rappresentarsi entro le realta` istituzionali; se si fosse pensato il popolo non come una unita` precostituita, ma come una realta` internamente differenziata e complessa, che deve ritrovare la sua unita` attraverso la definizione di un progetto condiviso di crescita civile. Ridurre questo complesso sistema politico-istituzionale ad un nuovo connubio – un connubio tra De Gasperi e Togliatti, dopo quello tra Cavour e Rattazzi93 – significa non comprendere la portata democratica della Costituzione. Significa non comprendere che era finalmente morta l’idea dello Stato come “in se´”, l’idea orlandiana di sovranita`. Con la Costituzione muore il vecchio liberalismo. Nasce l’idea di sovranita` come risultato di una mediazione tra le molteplici parti (sociali, politiche, culturali) che compongono la Nazione.

92

F. De Felice, La crisi della nazione italiana, in Id., La questione della nazione repubblicana, Laterza, Bari 1999, p. 234. 93 Cfr. C. Tullio-Altan in Populismo e trasformismo, Feltrinelli, Milano 1989, pp. 265-275.

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SEZIONE V IL MARXISMO DOPO MARX

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di Marcello Montanari

1. La revisione del marxismo. Engels, Labriola e Bernstein Nel 1895, nell’Introduzione al volume di Karl Marx Le lotte di classe in Francia, Friedrich Engels* abbandonava l’idea dell’insurrezione come via principale per la conquista del potere da parte del proletariato e affermava che con il suffragio universale “era entrato in azione un nuovo metodo di lotta del proletariato”. E aggiungeva: “E` passato il tempo dei colpi di sorpresa, delle rivoluzioni fatte da piccole minoranze coscienti alla testa di masse incoscienti. Dove si tratta di una trasformazione completa delle organizzazioni sociali, ivi devono partecipare le masse stesse; ivi le masse stesse devono aver gia` compreso di che si tratta, per che cosa danno il loro sangue e la loro vita. Questo ci ha insegnato la storia degli ultimi cinquant’anni. Ma affinche´ le masse comprendano quel che si deve fare e` necessario un lavoro lungo e paziente, e questo lavoro e` cio` che noi stiamo facendo adesso, e con un successo che spinge gli avversari alla disperazione.”1 Non erano solo i successi elettorali della socialdemocrazia tedesca a spingere Engels a una simile riflessione. V’era stata la sconfitta della * Friedrich Engels (Barmen 1820-Londra 1895), figlio di un ricco industriale, aderisce all’ideologia socialista agli inizi degli anni ’40 dell’Ottocento. Partecipa ai moti del 1848-49 in Germania e collabora con Marx alla stesura del Manifesto del Partito comunista (1848). Assunse funzioni dirigenti nella Prima e nella Seconda Internazionale. Dopo la morte di Marx, curo` la pubblicazione del II e del III libro del Capitale. Tra i suoi scritti: La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845), L’Anti-Duhring (1878), L’origine della famiglia, della proprieta` privata e dello Stato (1884). 1 F. Engels, Introduzione a K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, a cura di G. Giorgetti, Editori Riuniti, Roma 1962, p. 76.

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Comune di Parigi (1871) e l’isolamento politico in cui si erano ritrovati i rivoluzionari parigini aveva mostrato che la moderna societa` borghese non poteva essere pensata secondo la contrapposizione proletariato/capitalisti. Essa era una societa` assai piu` stratificata e complessa. Le forme di organizzazione politica non erano immediatamente riconducibili agli interessi economici. Su questa nuova realta`, su queste nuove forme della politica portava l’attenzione la riflessione engelsiana, avviando una prima revisione del modo in cui il movimento socialista aveva – sino a quel momento – concepito il rapporto democrazia-socialismo. Si e` sovente ridotto l’apporto di Engels a quello di un divulgatore delle tesi marxiane e il suo contributo teorico e` stato ridotto all’invenzione di una concezione della storia chiusa in una dialettica triadica (tesi-antitesi-sintesi). In verita`, v’e` in questa sua apertura alla complessa realta` del mondo borghese, dopo il 1870, una innovazione teorica e strategica che il Movimento socialista tedesco stentera` a recepire. V’e`, innanzitutto, l’idea che occorra abbandonare la “critica delle armi” (o della “violenza come levatrice della storia”), perche´ essa – nella fase storica presente – e` destinata alla sconfitta. Ma v’e`, soprattutto, la consapevolezza che la “rivoluzione” e` inseparabile da un processo di mutazione complessiva dei caratteri e della cultura (“le masse stesse devono aver gia` compreso di cio` che si tratta”). Cio` che, allora, Engels indica alla socialdemocrazia come “lavoro politico” non e` la “preparazione della rivoluzione”, ma “un lavoro lungo e paziente” che porti a una mutazione molecolare dei caratteri delle classi subalterne, a una loro trasformazione in “classi di governo”. Sulla linea di un marxismo liberato da ogni ipoteca insurrezionale si colloca Antonio Labriola, che con Engels manteneva un intenso scambio epistolare. Nel saggio In memoria del “Manifesto” (1895), Labriola respingeva la lettura “millenaristica” del socialismo e interpretava il marxismo come una teoria critica della societa` capitalistica, in grado di definire una “previsione morfologica” del divenire storico. Il metodo “storico-genetico” del marxismo consentiva di analizzare la “natura” delle forze sociali in campo (la loro genesi storica, le loro caratteristiche sociologiche e le loro prospettive strategiche) e la forma dello scontro che si sarebbe sviluppato, ma non certo di prevedere l’esito finale di tale scontro. Ne´ esso indicava il socialismo come la “meta finale” verso cui la storia ineluttabilmente procedeva. Esso (il socialismo) era, piuttosto, la forma di organizzazione politicoculturale che le classi subalterne assumevano per comprendere il mondo presente e per candidarsi ad assumere la direzione politica della Nazione. “Il comunismo critico – scriveva Labriola in quella Memoria – non fabbrica

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le rivoluzioni, non prepara le insurrezioni, non arma le sommosse. E`, sı`, tutt’una cosa col movimento proletario; ma vede e sorregge questo movimento nella piena intelligenza della connessione che esso ha, o puo` e deve avere, con l’insieme di tutti i rapporti della vita sociale. Non e`, in somma, un seminario in cui si formi lo stato maggiore dei capitani della rivoluzione proletaria; ma e` solo la coscienza di tale rivoluzione, e soprattutto, in certe contingenze, la coscienza delle sue difficolta`”2. Anche in Labriola, come in Engels, il rifiuto della prospettiva insurrezionale si lega alla consapevolezza che, dopo il 1870, la societa` civile borghese si e` venuta strutturando in un complesso sistema di organizzazioni sociali e di forme di associazionismo, che rendono impraticabile la strategia dell’“attacco frontale”. Come osservera` Antonio Gramsci nei suoi Quaderni del carcere si registra una “mutazione morfologica” della societa` capitalistica che obbliga al passaggio dalla “guerra di movimento” alla “guerra di posizione”, dall’ideologia dell’insurrezione alla definizione di una lotta politica democratica. L’ultimo Engels e il Labriola sono ben consapevoli di tale passaggio di fase, ma non riescono ad andare oltre queste indicazioni di principio. Il primo muore nel 1895, lo stesso anno della Introduzione a Marx. Il secondo, in piu` occasioni3, dichiara il suo pessimismo sulle possibilita` che il movimento operaio riesca ad articolare una valida strategia riformatrice. Per questa ragione, si puo` dire che chi, alla fine dell’’800, suggerisce una revisione della strategia politica socialista, e non solo delle linee teoriche del marxismo, e` Eduard Bernstein*. In una serie di articoli, che nel 1896 inizia a pubblicare sulla “Neue Zeit” e che nel 1899 raccoglie nel volume I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, Bernstein riprende e sviluppa le osservazioni di Engels intorno alla stratificazione della societa` borghese e alle opportunita` politiche che i nuovi assetti istituzionali (suffragio universale, crescita organizzativa dei sindacati e del partito socialdemocratico) offrono alle classi subalterne. Al centro della riflessione di Bernstein 2

A. Labriola, In memoria del Manifesto dei Comunisti (1895), in Id., Saggi sul materialismo storico, a cura di V. Gerratana e A. Guerra, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 40. 3 Valga per tutte il riferimento al saggio (rimasto incompiuto) Da un secolo all’altro (ora in Saggi sul materialismo storico, ed. cit., pp. 341-372) che, nel produrre un’analisi di “lungo periodo” della storia italiana, non esita a mostrarsi assai scettico sulla realta` presente. * Eduard Bernstein (Berlino 1850-1932), nel 1878, a causa delle leggi antisocialiste varate da Bismarck, emigro` a Londra. Qui diresse l’organo della socialdemocrazia tedesca “Der Sozialdemokrat”. Ritornato in Germania nel 1901, fu piu` volte deputato al Reichstag. Sostenne nel 1914 l’approvazione dei crediti di guerra. Nel 1915 aderı`, con Kautsky, al Partito socialdemocratico indipendente. Fu critico assai aspro della rivoluzione bolscevica del ’17 e del socialismo che si veniva costruendo in Unione sovietica.

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e` la critica del concetto di “proletarizzazione dei ceti medi”, che la socialdemocrazia tedesca aveva ribadito nel suo Programma di Erfurt (1891). In tale Programma – ispirato da Karl Kautsky – si esprimeva la convinzione che la tendenza storica dell’accumulazione capitalistica avrebbe condotto inevitabilmente all’impoverimento delle classi medie. Si sarebbe, cosı`, creato un vastissimo esercito di proletari che la socialdemocrazia avrebbe avuto la possibilita` di organizzare e di contrapporre al capitalismo, ormai divenuto incapace di garantire alla gran parte della popolazione una vita dignitosa. Il capitalismo sarebbe crollato per le leggi obiettive del suo stesso sviluppo. I continui tentativi di innovare il capitale fisso – per risparmiare l’impiego di forza lavoro – non avrebbe fatto altro che accelerare la “caduta tendenziale del saggio di profitto”. Sarebbero, cioe`, caduti i margini di profitto del capitale, perche´ – restando ferma la massa complessiva dei salari – gli onerosi investimenti in capitale fisso non sarebbero stati ammortizzati da una crescita dei consumi. Si individuava una insormontabile contraddizione tra produzione e circolazione delle merci, tra produttivita` e consumi. In questa contraddizione si individuava l’origine dell’anarchia del mercato. Da essa scaturivano le “crisi cicliche” dell’economia capitalistica. Era tale schema analitico che Bernstein contestava nei suoi scritti osservando che, se “la capacita` produttiva nella societa` moderna e` molto piu` forte della domanda effettiva di prodotti, che e` condizionata dalla capacita` di acquisto”4, cio` significava che esistevano ampi margini perche´ la socialdemocrazia sviluppasse una politica di redistribuzione delle risorse atta a migliorare la qualita` della vita dei lavoratori. L’organizzazione politica degli operai e l’esistenza di istituzioni democratiche non potevano che costituire le premesse per un tale miglioramento, per una correzione dell’anarchia capitalistica. Da qui l’idea che il sistema democratico era da concepire come il miglior terreno possibile per l’organizzazione del Movimento operaio, la prima tappa della sua crescita politico-culturale verso un governo dello sviluppo da parte dei socialisti. Percio`, osservava Bernstein, “la democrazia e` al tempo stesso mezzo e scopo. E` il mezzo della lotta per il socialismo, ed e` la forma della realizzazione del socialismo. Non puo` fare miracoli, questo e` vero. (...) Ma in Inghilterra e in Svizzera, in Francia e negli Stati Uniti, nei paesi scandinavi ecc., essa si e` dimostrata una potente leva di progresso sociale. (...) Il principio della democrazia e` la soppressione del dominio di classe”5. Cio` che Bernstein criticava era, dunque, l’idea che 4

E. Bernstein, I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (1899), tr. it. di E. Grillo, introduzione di L. Colletti, Laterza, Bari 1968, p. 129. 5 Ivi, pp. 185-186 e p. 187.

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occorresse attendere l’evoluzione della storia, per la conquista del potere da parte delle classi subalterne. Egli, invece, formulava l’idea di un controllo democratico dello sviluppo capitalistico. Anzi, suggerendo la possibilita` di una redistribuzione delle risorse per iniziativa della socialdemocrazia, si puo` dire che egli tracciasse una prima ipotesi di Welfare State. Connetteva democrazia e sviluppo regolato dell’economia. Non si trattava di pensare solo un processo di graduale avvicinamento al socialismo, ma di immaginare il formarsi del “socialismo” gia` dentro le strutture sociali presenti. Per questa ragione, poteva affermare l’”obiettivo finale del socialismo per me e` nulla, il movimento e` tutto”6, perche´ nel “movimento”, che porta le classi subalterne ad acquisire funzioni dirigenti, si trasformano i caratteri stessi dei soggetti sociali e cambia la forma dell’agire politico.

2. Le vie del marxismo in Italia. Croce, Gentile, Mondolfo Come attesta una lettera di Sorel a Croce7, a ispirare i principali argomenti di Bernstein erano stati i saggi che il filosofo napoletano aveva scritto, nell’ultimo decennio dell’800, sul marxismo. In quegli anni Croce si era fatto, prima, editore dei saggi del Labriola sul materialismo storico e, successivamente, egli stesso era stato attratto dal marxismo, trovandovi le ragioni per una piu` attenta comprensione della dinamica storica. Anche se, in seguito, tendera` a sminuire il ruolo svolto dal marxismo nella sua formazione teorica non v’e` dubbio che la sua intera riflessione filosofica restera` segnata dal marxismo non tanto per alcune generiche considerazioni di metodo storiografico, quanto per l’abitudine a una analisi delle situazioni storiche attenta alla comprensione della natura delle forze contrastanti8. E` sulla teoria del valore che Croce fornisce il contributo maggiore alla 6

Ivi, p. 244. “Bernstein – scrive Sorel nella lettera a Croce del 9 settembre ’99 – mi ha appena scritto di avere indicato sulla “Neue Zeit” n. 46 che era stato ispirato, in una certa misura, dai Suoi lavori. Cio` e` interessante, dato che i tedeschi non sono fatti per indicare le fonti straniere delle loro idee.” (G. Sorel, Lettere a Benedetto Croce, introduzione e cura di S. Onufrio, De Donato, Bari 1980, p. 86). Ma sara` Gramsci a definire Croce “il leader intellettuale delle tendenze revisionistiche” (A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p. 1207). 8 Croce raccolse i suoi saggi sul marxismo nel volume: Materialismo storico ed economia marxistica (1900). 7

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revisione del marxismo. Contro Achille Loria (1857-1943), esponente del marxismo positivistico che aveva legato l’idea del progresso storico al progresso tecnologico, Croce, innanzitutto, dimostra che con il concetto di “sviluppo delle forze produttive” Marx non intendeva riferirsi semplicemente alla crescita degli “strumenti tecnici”, ma ad una crescita culturale e politica delle classi subalterne. La sua attenzione si concentra, poi, sulla teoria marxiana del valore e della “caduta tendenziale del saggio di profitto”. Per Croce la teoria del valore e` solo un “paragone ellittico” tra la presente societa` capitalistica e una futura societa` socialista. Tale paragone contribuisce a generare nella classe operaia la consapevolezza del proprio ruolo produttivo entro il mondo moderno, ma non ha una valenza scientifica. Essa fornisce alla classe operaia la “consapevolezza di se´” e contribuisce a istituirla come soggetto politico. In questo senso, “Marx e` il Machiavelli del proletariato”: illustra la funzione storica della classe operaia. La teoria del valore puo`, quindi, spiegare il ruolo di tale classe nella societa` presente, ma non si puo` dedurre da essa l’assetto economico della societa` futura. Il cosiddetto plusvalore – di cui i capitalisti, secondo Marx, si approprierebbero – non viene completamente trasformato in profitto, ma in parte viene reinvestito nella produzione, in parte finanzia la riproduzione complessiva della societa` moderna (cultura, apparati statali, sistemi comunicativi). Croce mette, cosı`, in rilievo due aspetti fondamentali del modo di produzione capitalistico. In primo luogo, non si assiste ad una “proletarizzazione” dei ceti medi, perche´ lo stesso capitale, per riprodursi, ha bisogno di assicurarsi l’alleanza di questi ceti, che garantiscono il funzionamento del sistema riproduttivo (dai trasporti alla formazione professionale e all’esercito). In secondo luogo, e` l’espansione di tali funzioni riproduttive (e dei ceti ad esse destinate) a consentire la crescita dei consumi e, quindi, la regolazione del rapporto produzione/circolazione delle merci. Sotto questo profilo Croce recupera la lezione della “scuola austriaca”, di quella corrente del pensiero economico che – tra ’800 e ’900 – aveva riconosciuto e sottolineato la centralita` della sfera dei consumi rispetto alla stessa produzione. E` la consapevolezza di poter dirigere la produzione e il mercato intervenendo sulla composizione e sulla struttura dei consumi a far sı` che la “scuola austriaca” (e lo stesso Croce) intraveda la possibilita` di dominare l’“anarchia” del capitale. Sotto questo profilo, la critica crociana del marxismo mette in rilievo la irriducibilita` della societa` capitalistica al rapporto classe operaia/capitale, nonche´ la rilevanza che i ceti medi hanno nel sistema della riproduzione sociale complessiva. Qui, infine, un’ulteriore ragione che – secondo Croce – rende inaccettabile la prospettiva del socialismo: non si

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puo` immaginare la realizzazione di una “societa` di lavoratori” senza, in pari tempo, immaginare una riduzione autoritaria e drastica della complessa societa` moderna. Sarebbe, cioe`, il socialismo a produrre la proletarizzazione dei ceti medi e la conseguente scomparsa della ricca e complessa composizione della moderna societa` civile (dagli apparati culturali e di ricerca alle strutture di servizio). In questo consiste, in definitiva, il revisionismo di Croce: nel riconoscimento della centralita` del lavoro entro la societa` moderna e nella negazione del fatto che il lavoro possa assumere una funzione dirigente. Questo il significato “politico” che occorre attribuire alla interpretazione del marxismo non come filosofia (ovvero, come visione generale dei processi storici e politici), ma come “canone storiografico” (ovvero, rappresentazione di interessi e di forze rilevanti, ma mai egemoni). Si direbbe che, quando Gentile in La filosofia di Marx (1899) riconosce al marxismo un valore filosofico, l’apertura verso tale dottrina sia piu` ampia di quella mostrata dal Croce. Gentile, come Labriola, ritiene che “la concezione materialistica della storia non puo` non dirsi per la forma (...) una vera e propria filosofia della storia”9. Cio` che la rende tale e` la visione immanentistica del divenire storico, che Marx mutuerebbe da Hegel,. In questa prospettiva diviene decisiva, per Gentile, la lettura delle Tesi su Feuerbach. Qui Marx elaborerebbe “il disegno di tutto un nuovo sistema speculativo”10, perche´, prendendo le distanze dal vecchio materialismo, non pensa l’opposizione del soggetto all’oggetto, ma loro unita`: pensa la prassi come forza costitutiva della realta`. Un tale “disegno di sistema” ha il suo antecedente nel vichiano “verum et factum convertuntur”. “Ma per Vico – prosegue Gentile – questo operare umano era operare della mente dell’uomo (...). Cambia in Marx il principio dell’operare, e, invece delle modificazioni della mente, sono radice della storia i bisogni dell’individuo, come essere sociale”11. Comincia a delinearsi qui quella che, per Gentile, e` la insormontabile contraddizione del marxismo. Se per quanto concerne la forma il marxismo e` una filosofia della storia, esso per il suo contenuto ritorna a rappresentarsi un primato della materia; e` dominato dal concetto di una materia pre-esistente al pensiero. Percio`, se Marx non seppe dimenticare che non v’e` un oggetto, senza un soggetto che lo costruisca e che tutto e` storia, tuttavia immagino` che il divenire sia proprio della materia, e non del soggetto spirituale che la trasforma. E`, allora, evidente che, nella 9

G. Gentile, La filosofia di Marx (1899), Sansoni, Firenze 1974, p. 40. Ivi, p. 71. 11 Ivi, p. 74. 10

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struttura discorsiva del pensiero gentiliano, il marxismo divenga una componente di una filosofia dell’atto e che si dissolva in questo universo filosofico, perdendo qualsiasi specificita` analitica. Specificita`, che nella riduzione crociana a “canone storiografico” pur manteneva. Non v’e`, in Gentile, un semplice recupero degli elementi di hegelismo presenti in Marx o, se si vuole, una ritraduzione del materialismo in idealismo, ma v’e` la eliminazione di quell’analitica del presente, di cui il marxismo si era fatto portatore. Non solo il concetto di prassi si risolve in un’attivita` dello spirito, ma perde qualsiasi riferimento alla concreta corporeita` umana che le fa da supporto. Si potrebbe rinnovare con Gentile la critica vichiana del cogito cartesiano: l’“io penso” fa dimenticare la finitezza del soggetto, la sua corporeita`. Cosı`, Gentile trascura la determinatezza del pensare: determinatezza del pensante, determinatezza del pensato. Ora, proprio questo il revisionismo marxista (iniziato dallo stesso Engels) tentava di fare: pensare il rapporto soggetto-oggetto nella sua determinatezza; pensare i nuovi e specifici termini della realta` capitalistica. Gentile, ritraducendo il marxismo in una filosofia della storia, vanifica tale tentativo del revisionismo e risolve il marxismo in una generica visione dell’infinito e incessante agire umano, in un rivoluzionarismo che anticipa la sua “filosofia dell’Atto”. In questo senso, l’operazione culturale di Gentile produce l’effetto di bloccare la riflessione del revisionismo sulla nuova fase della storia del capitalismo; arretra il terreno della riflessione teorica e si attesta su una linea ben lontana da una “filosofia della prassi” (come, invece, sara` per Gramsci) che intenda procedere dalla comprensione della struttura “materiale” del presente (analisi dei rapporti di forza e della morfologia storico-politica delle classi). Gli e` che una tale lettura “rivoluzionaria” pesera` non poco sul marxismo italiano12, a cominciare da Rodolfo Mondolfo*, il quale nel suo saggio Feuerbach e Marx (1909) rilegge le Tesi su Feurbach per affermare che l’uomo non e` pura passivita`, ma ente che trasforma l’ambiente storiconaturale. La prassi umana si trova di fronte non solo la natura, ma la stessa storia come realta` cristallizzata che occorre “rovesciare”. E, alla luce delle considerazioni di Gentile, afferma che nelle Tesi “il rapporto fra l’uomo e la 12

Una indagine sulla revisione del marxismo indotta da Croce e Gentile e sui caratteri della filosofia politica italiana del ’900 in B. de Giovanni, Sulle vie di Marx filosofo in Italia. Spunti provvisori, in “Il Centauro”, n. 9, settembre-dicembre 1983, pp. 3-25. * Rodolfo Mondolfo (Senigallia 1877-Buenos Aires 1976), storico della filosofia, docente all’Universita` di Torino e di Bologna, nel 1938, per sfuggire alle leggi anti-ebraiche si trasferı` in Argentina. Tra le sue opere: Il materialismo storico di Federico Engels (1912), Sulle orme di Marx (1919), L’infinito nel pensiero dei Greci (1934).

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realta` si riassume e si impernia saldamente nell’azione, per la stessa reciprocita` che viene stabilita fra il conoscere e l’operare. (...) Ecco la reciprocita`: occorre, sı`, interpretare per cangiare; ma occorre del pari cangiare per interpretare. La reciprocita` di queste condizioni e di questi presupposti non si puo` intendere se non nella praxis che si rovescia.”13. La teoria marxiana e`, percio`, teoria di una prassi che “rovescia” cio` che essa stessa ha precedentemente costruito; l’agire presente deve “rovesciare” cio` che nel passato si e` realizzato ed e`, ormai, divenuto puro “fatto” e non e` piu` realta` “in fieri”. Mondolfo sfugge alla trappola del rivoluzionarismo, perche´ a`ncora la prassi umana ad un sistema di valori trascendentali. Cio` lo avvicina al marxismo neo-kantiano dei Cohen e degli Adler, ma soprattutto gli consente di sviluppare una visione del marxismo come “umanismo critico”, cioe`: come una filosofia che ha al suo centro la difesa dei diritti dell’uomo e dei lavoratori. Ed e` in una simile prospettiva che egli e` portato a vedere in Locke “il padre spirituale del socialismo moderno”, che e` interpretazione senz’altro azzardata, ma ha il pregio di voler connettere il socialismo con la tradizione democratica europea; il pregio di non separare-contrapporre la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 al Manifesto del Partito comunista del 1848 o, se si vuole, di non ricondurre l’ideologia socialista sulle barricate14.

3. Critica del revisionismo e rivoluzione Il compito di dare una risposta a Bernstein e alle teorie revisionistiche fu affidato a Karl Kautsky*, il quale, dopo aver esitato a lungo a iniziare la polemica mentre venivano pubblicati gli articoli di Bernstein sulla “Neue Zeit”, nel 1899 pubblica lo scritto: Bernstein und das sozialdemokratische Programm. Eine Antikritik. Kautsky difende il Programma approvato dalla socialdemocrazia al congresso di Erfurt e ribadisce gli elementi dottrinari di 13

R. Mondolfo, Feuerbach e Marx (1909), in Id., Umanismo di Marx. Scritti filosofici 1908-1966, introduzione di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1975, p. 63. 14 Per questo aspetto della riflessione di Mondolfo e` significativo il saggio: Dalla Dichiarazione dei diritti al Manifesto dei Comunisti, apparso in “Critica sociale”, XVI, 1906. * Karl Kautsky (Praga 1854-Amsterdam 1938), nel 1881 divenne segretario di Engels. Nel 1883 fondo` la “Neue Zeit”, rivista teorica della socialdemocrazia tedesca, e la diresse per trent’anni. Nel 1914 voto` i crediti di guerra e nel 1917 fondo` il partito socialdemocratico tedesco. Opere principali: Le teorie economiche di Marx (1887), La questione agraria (1899), Etica e concezione materialistica della storia (1906), La via al potere (1909).

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un marxismo ortodosso. Come ha osservato Ernesto Ragionieri, a Kautsky “sfuggiva la sostanza teorica originale del “revisionismo”, non solo per cio` che aveva di essenziale come movimento filosofico, ma anche nei suoi nessi col mondo esterno al partito, e in particolare con l’insorgere dell’imperialismo e con la necessita` per le classi dominanti di crearsi una base di massa all’interno del movimento operaio organizzato”15. Preoccupava Kautsky il fatto che il revisionismo potesse incrinare la compattezza etico-culturale di cui il marxismo aveva dotato il movimento operaio. A Kautsky interessava essenzialmente l’autosufficienza ideologica della socialdemocrazia. Bernstein suggeriva una revisione della strategia politica, ma non metteva in discussione il primato della filosofia marxista all’interno del movimento operaio. Negli anni successivi, Kautsky vedra` profilarsi una minaccia maggiore per tale auto-sufficienza e per tale primato dall’emergere di una corrente kantiana all’interno dello stesso marxismo. Erano stati Herman Cohen (1842-1918) e Paul Notorp (1854-1924), esponenti della “scuola di Marburgo”, ad avviare questo “ritorno a Kant” con la convinzione che l’universalismo dell’etica kantiana potesse incarnarsi nella prassi del socialismo. In questa prospettiva, le ragioni soggettive dell’etica e di una pedagogia sociale divenivano prevalenti rispetto all’oggettivita` degli interessi economici e delle dinamiche sociali. La loro lezione trovo` degli attenti seguaci in Karl Vorla¨nder (1860-1928) e in Rudolf Hilferding (1878-1941), autore di un’opera su Il capitale finanziario (1910), che influı` sulla strategia politica del movimento operaio tedesco. Il marxismo kantiano costituisce la principale fonte teorica di quell’austro-marxismo, che tra le due guerre mondiali tento` di individuare una “terza via” tra il riformismo socialdemocratico e il comunismo sovietico. Esponenti di questa corrente furono Karl Renner (1870-1950), Max Adler*, Otto Bauer (1882-1938). Il nucleo centrale del marxismo kantiano e` rintracciabile nel saggio di Adler Kant e il socialismo (1904). “L’importanza dell’etica di Kant per socialismo – scrive Adler – sta (...) nel fatto che essa soltanto rende possibile un criterio di valutazione etica universalmente valido”. E ancora: l’etica kantiana “non e` piu` una dottrina della virtu`, bensı` 15

E. Ragionieri, Prefazione a K. Kautsky, Etica e concezione materialistica della storia, tr. it. di M. Montinari, Feltrinelli, Milano 1975, p. XIII. * Max Adler (Vienna 1873-1937), avvocato e docente universitario, nel 1904, insieme a Hilferding, fonda le “Marx-Studien”. Nel 1918 favorı` l’alleanza tra socialisti di sinistra e comunisti. Fu, percio`, espulso dal partito. Costituı` il Partito operaio socialista. Scritti principali: Causalita` e teleologia nella disputa sulla scienza (1904), Il socialismo e gli intellettuali (1910), Kant e il marxismo (1925), Democrazia politica e democrazia sociale (1926).

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una grande conoscenza sociologica (...) L’imperativo categorico (...) non e` propriamente altro che la forma della connessione sociale, la forma dell’effettiva socializzazione dell’uomo”16. Cio` che, dunque, Adler intende sottolineare e` la necessita` di una fondazione etica universalistica del socialismo e l’individuazione nell’imperativo categorico della struttura di legami sociali formalizzati. Egli sposta, cosı`, l’attenzione del socialismo sul ruolo che gli intellettuali assolvono nell’elaborare elementi e forme di coesione sociale e nel riprodurre i valori e le tradizioni nazionali. Nella sua riflessione il tema dell’alleanza tra classe operaia e intellettuali e la comprensione del nesso economia-etica divengono strategicamente decisivi. Tutto cio` appariva a Kautsky una impropria contaminazione della purezza teorica del marxismo. In Etica e concezione materialistica della storia egli critica l’etica kantiana, accusandola di voler produrre una “conciliazione” tra gli opposti interessi di classe, in una fase in cui incombe la crisi della borghesia. “L’economia borghese – egli osserva – si e` rifugiata tra le braccia della legge morale kantiana la quale, essendo al di fuori dello spazio e del tempo, dovrebbe essere in grado di conciliare gli antagonismi di classe e di impedire le rivoluzioni, che accadono nel tempo e nello spazio”17. L’etica kantiana celerebbe l’antagonismo sociale e il marx-kantismo autorizzerebbe la penetrazione dello “spirito di conciliazione” in un momento storico in cui si avvicina l’“epoca delle rivoluzioni”. In La via al potere (1909) Kautsky sosterra` “che i rapporti di forza, dall’inizio degli anni novanta, sono fondamentalmente cambiati, che abbiamo tutte le ragioni di ritenere che siamo entrati adesso in un periodo di lotte per la direzione dello Stato e per il potere politico, lotte le cui forme e la cui durata sono tuttora imprevedibili, ma che probabilmente, gia` in un periodo di tempo che possiamo calcolare, condurranno a rilevanti spostamenti di forza a favore del proletariato, se non alla sua completa vittoria nell’Europa occidentale”18. E`, dunque, la stessa “attualita` della rivoluzione” a rendere inutilizzabile la strategia proposta dal marxismo kantiano. Non v’e` bisogno di “conciliare” gli opposti interessi di classe, ne´ di ricercare l’alleanza con i ceti intellettuali. La rivoluzione avanza e la vittoria e` vicina. Anzi, proprio perche´ le cose stanno cosı`, non resta che attendere gli eventi della storia e, 16

M. Adler, Kant e il socialismo (1904), in AA. VV., Marxismo ed etica, a cura di E. Agazzi, introduzione di H. J. Sandku¨hler, Feltrinelli, Milano 1975. Le citazioni sono alle pp. 199 e 200. 17 K. Kautsky, Etica ecc., ed. cit., p. 58. 18 K. Kautsky, La via al potere, traduzione e introduzione di A. Panaccione, Laterza, Bari 1969, pp. 85-86.

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nel frattempo, fruire delle opportunita` offerte dalla democrazia liberale. Avviene cosı` che il riformismo, che in Bernstein scaturiva dall’analisi della complessita` sociale e disegnava la possibilita` di un governo democratico della crescita economica, in Kautsky venga giustificato dall’“attesa della rivoluzione”. Da un lato, la teoria ci dice che si va verso l’ “epoca delle rivoluzioni”; da un altro lato, la pratica suggerisce di profittare delle istituzioni liberal-democratiche. Non ci potrebbe essere scissione piu` netta fra teoria e pratica: il compito della socialdemocrazia non e` di proporsi come “forza di governo”, ma di riaffermare un’ “opposizione inconciliabile” in mezzo alla “putrefazione generale che oggi ha gia` colpito la democrazia borghese”. Se in Kautsky la pratica riformista era motivata dall’“attesa della rivoluzione”, vi era, comunque, chi riteneva che quella rivoluzione fosse possibile preparla; che fosse possibile accelerarne i tempi. Ed era il caso di Rosa Luxemburg* e di Georges Sorel**. La prima teorizzava la possibilita` di uno “sciopero politico di massa” in grado di coagulare tutte le forze operaie e di opporle al capitale. Il secondo insisteva sull’idea di socialismo come “mito politico” per la formazione dello “spirito di scissione” della classe operaia. Nel 1895 Sorel aveva fondato, insieme a Paul Lafargue (1842-1911), “La devenir social” e attraverso questa rivista aveva intrecciato dei rapporti con il marxismo internazionale e, soprattutto, con Labriola e Croce. Egli si trova in una posizione privilegiata, quando inizia la “Bernstein-debatte”, perche´ non e` legato al marxismo ortodosso di Kautsky o del russo Georgij V. Plechanov (1857-1918), ma, nello stesso tempo, rifiuta l’ipotesi di una strategia gradualista per la conquista del potere ed elabora una prospettiva rivoluzionaria centrata sulla soggettivita` della classe operaia. Egli delinea una posizione di radicale opposizione alle forme della politica e affida al “mito del socialismo” il compito di unire la masse lavoratrici, di decostruire le istituzioni liberali e di creare un nuovo senso comune. Lo “sciopero

* Rosa Luxemburg (Zamosc, Polonia, 1870-Berlino 1919) durante la Prima guerra mondiale si schiero` su posizioni pacifiste. Finita la guerra, diresse con Karl Liebknecht (1871-1919) la “Lega di Spartaco”. Arrestata per la sua attivita` rivoluzionaria, fu fucilata. Tra le sue opere: Riforma sociale o rivoluzione? (1899), Sciopero generale, partito e sindacato (1906), L’accumulazione del capitale (1912). ** Georges Sorel (Cherbourg 1847-Boulogne-sur-Seine 1929), laureatosi in ingegneria, e` funzionario pubblico sino al 1892, quando abbandona tale incarico per dedicarsi agli studi socio-politici. Nel 1894 pubblica L’antica e la nuova metafisica. Successivamente: Riflessioni sulla violenza (1906), La decomposizione del marxismo (1907), Le illusioni del progresso (1908).

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generale rivoluzionario” diviene il punto d’approdo delle riflessioni soreliane, perche´ in esso si instaurano una forma di comunita` e un sentimento morale, che non hanno bisogno di norme e di linguaggi istituzionalizzati. Qui e` il punto teorico del marxismo che Sorel ritiene di aver revisionato. Se il marxismo conduceva ad un trasferimento del potere dalla borghesia al proletariato, Sorel ritiene di aver individuato la strategia che consente la decostruzione di ogni forma di dominio dell’uomo sull’uomo. Il mito politico, costruendo l’immagine di una futura societa` giusta, sollecita le classi deboli ad un movimento senza fine, che non si lascia cristallizzare in meccanismi e forme oggettivate e tende alla costituzione di una comunita` deformalizzata. E` qui la fonte teorica di quel sindacalismo rivoluzionario che, in Italia, avra` i suoi maggiori rappresentanti in Arturo Labriola (1873-1959) e in Enrico Leone (1875-1940). E` sull’autonoma potenza organizzativa della classe operaia che punta anche la riflessione teorica e strategica di Rosa Luxemburg. La Luxemburg aveva aspramente criticata, sin dal 1899, la revisione del marxismo avviata da Bernstein, respingendo la tesi secondo cui il capitale era in grado di governare le sue crisi cicliche. “La socialdemocrazia – aveva scritto in Riforma sociale o rivoluzione? – non deriva il suo scopo finale ne´ dalla forza vittoriosa della minoranza, ne´ dal sopravvento numerico della maggioranza, ma dalla necessita` economica (e dalla consapevolezza di questa necessita`), la quale conduce all’eliminazione del capitalismo per opera della massa popolare e che si manifesta anzitutto nell’anarchia capitalistica”19. Rosa non respingeva la necessita`, per il Movimento operaio, di praticare le istituzioni democratiche, ma solo in quanto strumenti per la conquista del potere. E quanto alla prefazione di Engels a Le lotte di classe in Francia di Marx, osservava che essa riguardava solo la “lotta quotidiana attuale”, “non l’atteggiamento del proletariato di fronte allo Stato capitalistico al momento della conquista del potere statale, ma il suo atteggiamento all’interno dello Stato capitalistico”20. Caratterizzava la riflessione della Luxemburg il rifiuto dell’attesa della rivoluzione e la convinzione che essa potesse scaturire dall’iniziativa spontanea della classe operaia. Cio` la induceva a pensare che lo “sciopero di massa” costituisse il momento in cui si forma la coscienza soggettiva della classe operaia contro le istituzioni borghesi. E` questa idea del primato della soggettivita` che la portera` a criticare la 19

R. Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione?, edizione a cura di L. Basso, Editori Riuniti, Roma 1973, pp. 88-89. 20 Ivi, pp. 116-117.

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rivoluzione russa del ’17, a suo avviso segnata dal primato del partito sulla classe. Rosa riconoscera` al bolscevismo il merito di aver spezzato il sistema politico zarista fondato sull’economia latifondista, ma percepira`, da subito, i limiti di una rivoluzione che non contava sulla soggettivita` delle masse lavoratrici, ma solo sulla iniziativa delle avanguardie politiche. Percepira` la presenza, nel bolscevismo, di una visione autoritaria dello Stato; la tendenza a sovrapporre la volonta` militarizzata del partito allo Stato dei Soviet. A tale concezione del processo costruttivo della societa` socialista, la Luxemburg contrapporra` l’idea di una democrazia sociale (o “reale”) quale espressione diretta della “coscienza di classe”. Al primato della “coscienza di classe” si sarebbe richiamato anche Gyorgy Luka´cs* in Storia e coscienza di classe (1923). In quest’opera vengono utilizzati i concetti hegeliani di totalita` e di dialettica per rifondare una concezione del marxismo che, criticando la concezione evoluzionistica e deterministica di Kautsky e della socialdemocrazia tedesca, fosse in grado di ritrovarne il contenuto rivoluzionario. La riflessione di Luka´cs, fortemente influenzata dagli avvenimenti del primo dopoguerra (rivoluzione russa, esperienza dei consigli operai in Germania, in Ungheria, in Italia), muove da un’analisi della condizione operaia nella societa` capitalistica, condizione di parcellizzazione e di alienazione del lavoro. La collocazione della classe operaia al centro del processo di produzione consente, pero`, che essa possa elaborare, attraverso il metodo dialettico, la conoscenza totale del meccanismo economico. Tale appropriazione cognitiva della realta` consente alla classe di acquisire quella coscienza o visione generale che rende possibile il superamento della parcellizzazione-alienazione del lavoro e la conquista delle funzioni di comando, nella produzione e nella societa`. Acquisendo tale coscienza della propria funzione produttiva e storicosociale, la classe operaia diviene “classe generale”. Sennonche´, a differenza di Rosa Luxemburg, Luka´cs fa coincidere la formazione di questa “coscienza di classe” con la stessa formazione di un partito, che recepisce tutte le istanze sociali e le unifica in un progetto politico totalizzante. Si sente gia`, qui, la lezione leniniana. La “coscienza di classe” si cristallizza in un * Gyorgy Luka´cs (Budapest 1885-1971) durante la Prima guerra mondiale si avvicina al marxismo e nel 1919 diviene commissario del popolo per l’Istruzione nel governo di Be´la Kun. Caduto il governo socialista, si rifugia a Mosca e ritorna in Ungheria solo dopo la Seconda guerra mondiale. Diviene docente di filosofia all’Universita` di Budapest e ministro della Pubblica Istruzione durante la rivoluzione ungherese del 1956. Opere principali: L’anima e le forme (1911), Storia e coscienza di classe (1923), Il giovane Hegel (1948), La distruzione della ragione (1954).

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“punto di vista operaio” che trova nella forma partito la sua ipostasi. Tale impostazione teorica si evidenziera` in quelle che sono le opere storiografiche maggiori (Il giovane Hegel e La distruzione della ragione) di Luka`cs. In esse il grande materiale analitico viene imprigionato dall’idea che, chiusa la fase progressiva della borghesia, l’epoca attuale e` caratterizzata dalla crisi del capitalismo. La borghesia, che un tempo aveva espresso le filosofie laiche e progressive degli illuministi e del giovane Hegel, ora si e` imbozzolata in una prospettiva reazionaria, dando vita a regimi politici reazionari (fascismo e nazismo) e a una cultura mistica e decadente (relativismo, storicismo, esistenzialismo). Un simile irrigidimento teorico non si ritrova in altri rappresentanti del “marxismo occidentale” come Karl Korsch (1886-1961) e Ernst Bloch (1885-1977). Il primo, in opere come Marxismo e filosofia (1923) e Karl Marx (1938), ripropone una rilettura di Marx in un rapporto organico con la filosofia hegeliana, ma non giunge a una ipostasi del “punto di vista di classe” e, soprattutto, non condivide quel “mito del partito” che Luka`cs aveva ripreso da Lenin. Korsch utilizza le categorie hegeliane per produrre un’analisi dialettica, non deterministica, del rapporto economia-politica. Ernst Bloch, in Spirito dell’utopia (1918) e in Il principio speranza (1953-1959) esaltera` l’aspetto critico-utopico del marxismo. Ma, mentre il marxismo di Korsch contribuira` alla formazione di una generazione di giovani intellettuali al di fuori del marxismo ortodosso, la trasformazione blochiana del marxismo in un millenarismo, nell’infinita attesa di una renovatio degli spiriti, risultera` essere un modo per mantenere in vita le speranze nate dalla rivoluzione del ’17, ma, nello stesso tempo, manchera` di svolgere un’analisi critica della politica di potenza che lo Stato sovietico mettera` in atto. Lo schema teorico di una societa` capitalistica che, attraversata da contraddizioni, crolla e consente la conquista del potere da parte della classe operaia sembra realizzarsi nella rivoluzione russa del ’17. La guida Lenin* che, fino al 1914, nell’analisi della societa` russa e nella definizione del rapporto classe operaia-avanguardia-conquista del potere si muove nell’orizzonte teorico kautskiano. Ma, se di fronte alla guerra Kautsky muta * Lenin (Simbirsk 1870-Mosca 1924), pseudonimo di Vladmir Ilic Uljanov, esiliato in Siberia nel 1897, emigro` nel 1900 in Germania. Nel 1912 fondo` il partito bolscevico. Torno` in Russia nel 1917 e guido` la rivoluzione. Fu capo del governo sovietico sino al 1922. Tra gli scritti: Che fare (1902), Due tattiche della socialdemocrazia (1905), Materialismo e empiriocriticismo (1909), L’imperialismo come fase suprema del capitalismo (1916), Stato e rivoluzione (1917), L’estremismo malattia infantile del comunismo (1920).

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la propria prospettiva teorica, Lenin la assume come occasione per la rivoluzione proletaria nell’“anello piu` debole della catena imperialistica”. In Stato e rivoluzione, scritto alla vigilia della rivoluzione d’Ottobre, egli teorizza la necessita` e la possibilita`, per la classe operaia, di “spezzare” gli apparati dello Stato borghese per avviare la transizione verso una societa` senza classi. Ogni sistema sociale, argomenta Lenin, e` retto da una forma politica che esprime la dittatura di una classe sull’altra. Sinora, le minoranze hanno dominato le maggioranze sociali. La rivoluzione proletaria porta la maggioranza della popolazione a esercitare la propria dittatura sulle minoranze. Sotto il governo di tale maggioranza si avvia una riorganizzazione del meccanismo economico che elimina progressivamente le differenze di classe, rendendo inutile l’esercizio della dittatura di una classe sull’altra. Si avvia, cosı`, il processo di estinzione dello Stato. Tale schema teorico si scontra con due fondamentali difficolta`. In primo luogo, esso non chiarisce quali siano le forme istituzionali attraverso cui le classi subalterne devono esercitare il proprio potere e finisce con il delegare all’avanguardia della classe operaia il compito di occupare e di dirigere gli apparati dello Stato nella fase di transizione al socialismo. Avviene, cosı`, che l’avanguardia finisca con l’auto-proclamarsi unica e autentica rappresentante degli interessi e della volonta` della classe operaia; l’unica forza ad avere conoscenza del cammino che conduce al socialismo. In secondo luogo, quello schema, trascurando i legami tra la societa` russa e il capitalismo internazionale, non era in grado di prevedere la guerra civile che l’aristocrazia avrebbe scatenato con il sostegno di potenze straniere, e sottovalutava le resistenze che le politiche di collettivizzazione della terra avrebbero incontrato nel mondo contadino. Lenin tentera` di avviare con la NEP (Nuova Politica Economica) una politica di alleanza con i contadini. Dopo la sua morte, tale politica sara` difesa e proseguita da Nikolaij Bucharin (1888-1938). Ad essa si contrapporra` Lev D. Trockij (1879-1940) che elaborera` l’idea di una “rivoluzione permanente” da sviluppare sia all’interno della realta` sovietica, sia nella realta` internazionale. Cio` portera` a una divisione del gruppo dirigente sovietico. Prevarra` la linea dell’alleanza tra operai e contadini sostenuta da Bucharin e da Iosif Stalin (1879-1953), segretario generale del partito comunista dal 1922. Trockij sara`, prima, espulso dal partito (1927) e costretto all’esilio (1929); poi assassinato su ordine di Stalin. Alla fine degli anni ’20, le scelte politiche sovietiche produrranno l’isolamento internazionale dell’URSS. L’immagine dell’URSS accerchiata sara` utilizzata da Stalin, divenuto capo incontrastato del partito e dello Stato, per costruire un potente sistema di difesa militare e giustificare – con tali esigenze militari –

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l’industrializzazione forzata del paese e lo scatenamento di un’autentica guerra civile contro i contadini, accusati di frenare la costruzione del socialismo e di favorire i nemici esterni. Liquidata la politica di alleanza con i contadini, sara` Bucharin, dopo Trockij, ad essere espulso dal partito e, successivamente, condannato a morte. Stalin avra` le mani libere per costruire un’“economia di comando” e un regime totalitario, che utilizzera` il partito e i servizi segreti per il controllo della vita quotidiana dei cittadini sovietici. Lo stalinismo sara` l’espressione della sconfitta del movimento operaio internazionale e dell’isolamento politico dell’URSS.

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4. La filosofia della prassi di Antonio Gramsci Non bastava, dunque, aver preso il potere per avviare la costruzione del socialismo. Lo schema leniniano della rivoluzione proletaria fallı` tra il totalitarismo in Oriente e i fascismi in Occidente. L’idea di una societa` capitalistica ormai prossima al crollo si mostrava inadeguata. Inadeguata era l’idea kautskiana di un approssimarsi dell’ “epoca delle rivoluzioni”. La rivoluzione non era attuale e, anzi, occorreva riflettere sulle capacita` del capitale di riuscire a governare le proprie contraddizioni e la propria “anarchia”. Occorreva ricominciare il discorso la` dove l’avevano lasciato Bernstein e Croce. E cio` fece Antonio Gramsci* muovendo dall’analisi dell’americanismo e delle trasformazioni sociali indotte dal fordismo. E` tale analisi che spinge Gramsci a ripensare quel nesso produzione-consumi che Croce e Bernstein, sulla scorta della scuola austriaca di economia, avevano posto al centro della propria attenzione per mettere in discussione la teoria marxiana della “legge della caduta tendenziale del saggio di profitto”. In una nota del Quaderno 10, discutendo la interpretazione di tale legge fornita da Croce, Gramsci osserva: “si ha una caduta del saggio di profitto, perche´ * Antonio Gramsci (Ales, Cagliari, 1891-Roma 1937), conseguita la licenza liceale, ottiene una borsa di studio, istituita dal Collegio Carlo Alberto di Torino, che gli consente di frequentare l’Universita`. Nel 1919 fonda l’“Ordine nuovo”, rivista intorno a cui si coagula un gruppo di intellettuali socialisti (tra cui Angelo Tasca, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti) che sostengono la linea politica dei consigli di fabbrica. Nel 1921 partecipa alla fondazione del Partito comunista. Nel 1926, insieme a Togliatti, redige le Tesi del III Congresso del partito, che si terra` a Lione. Nel novembre dello stesso anno, nonostante l’immunita` parlamentare, viene arrestato e condannato a oltre vent’anni di reclusione e destinato al carcere di Turi. Nel dicembre del 1933, gravemente malato, viene trasferito in una clinica a Formia e, successivamente, nella casa di cura Quisisana di Roma, dove muore. I suoi Quaderni del carcere sono pubblicati postumi a partire dal 1948.

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la composizione organica del capitale si manifesta sfavorevole. (...) Tutta l’attivita` industriale di Henry Ford si puo` studiare da questo punto di vista: una lotta continua, incessante per sfuggire alla caduta del saggio del profitto (...) Il Ford e` dovuto uscire dal campo strettamente industriale della produzione per organizzare anche i trasporti e la distribuzione della sua merce, determinando cosı` una distribuzione della massa del plusvalore piu` favorevole all’industriale produttore”. E, nella stessa nota, poco oltre aggiunge che “il significato di “tendenziale” pare dover essere pertanto di carattere “storico” reale e non metodologico (...) Niente di automatico e tanto meno di imminente”21. Il compito di quella “legge”, dunque, non e` di prevedere una qualche crisi catastrofica della societa` capitalistica, ma di descriverne il funzionamento “storico reale”. Essa ha una funzione ermeneutica; non prospetta alcun crollo economico. Anzi, verifica la qualita` delle classi dirigenti nel costruire quelle contro-tendenze che sono necessarie per ovviare alla caduta del saggio di profitto; per orientare l’andamento del mercato e vincerne l’anarchia. Tale e` stata l’attivita` di Henry Ford. Questi non solo ha riorganizzato il sistema lavorativo della fabbrica, ma, ha dovuto sollecitare la riorganizzazione del sistema dei trasporti e della distribuzione delle merci. E, per tenere alto il livello dei consumi, ha dovuto attuare una politica di alti salari. In breve, e` il sistema complessivo della riproduzione sociale che l’americanismo-fordismo ha riformato. Esso ha, cosı`, prodotto una rivoluzione passiva: una trasformazione molecolare della societa` sotto la direzione delle tradizionali classi dirigenti. Il primo acquisto teorico di una simile ricognizione della societa` americana e` il concetto di mercato determinato: l’idea che il mercato non ha nulla di naturale, ne´ tanto meno e` retto da “leggi” immutabili. Il mercato e` retto da soggetti, sociali e politici, che sono in grado di regolare il rapporto tra meccanismo produttivo e forme di consumo. Esso e` determinato sulla base dei rapporti di forza esistenti tra le molteplici soggettivita` che articolano e strutturano una specifica realta` sociale. V’e` una storicita` del mercato (e della stessa forma-merce). I rapporti di forza, che via via si instaurano tra i principali soggetti politici, sono in grado di mutare la forma e i caratteri del mercato. Diviene egemone quella forza politica che piu` di ogni altra riesce a garantire la crescita dell’intero sistema sociale; quella forza che, trascendendo i propri interessi corporativi, sa farsi carico di tutti gli interessi e le passioni presenti su un determinato territorio nazionale. Da qui scaturisce, 21 A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, pp. 1281-1284.

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in Gramsci, un ulteriore punto analitico: la crisi del sistema europeo degli Stati-Nazione nasce dalle difficolta` che le tradizionali classi dirigenti liberali incontrano nel garantire la crescita delle economie nazionali. Da un lato, l’arcaica composizione socio-demografica (= la consistente presenza di ceti improduttivi, di “pensionati della storia”) degli Stati europei impedisce una razionalizzazione della produzione e della societa`; da un altro lato, il ripiegarsi degli Stati nazionali sulle proprie identita` e sui propri interessi li spinge a risolvere le contraddizioni internazionali non attraverso la definizione di un sistema concertato di divisione del lavoro e di scambio delle merci, ma attraverso la guerra. Gli Stati nazionali europei dimostrano, cosı`, di non essere all’altezza di gestire la nuova fase dell’economia mondiale. E` l’America, “con il peso implacabile della sua produzione economica”, a divenire la forza egemone nel mercato internazionale; a ridefinire i rapporti gerarchici tra gli Stati; a dettare i caratteri della nuova “struttura del mondo”. Attraverso l’analisi dell’americanismo Gramsci mostra di non condividere le teorie del crollo capitalistico, ne´ tanto meno la visione kautskiana di una classe operaia che, da tale crollo, emergerebbe indenne e compatta nelle sue finalita` sociali. La crisi degli Stati nazionali europei non e` vista, percio`, come il sintomo di un capitalismo ormai giunto alla sua fase terminale, ma come la crisi di un ceto dirigente che non riesce a innovare le tecniche produttive e le forme di governo e, percio`, e` costretta a subire il comando dell’economia americana o a rinchiudersi in politiche nazionalistiche e autoritarie. E` attraverso la definizione di questo quadro analitico che Gramsci si confronta con le correnti revisionistiche. E` un errore pensare che egli derivi le sue riflessioni dalla comprensione della rivoluzione russa e del leninismo o che si limiti a tradurre nella realta` occidentale e italiana la lezione leniniana. L’unica lezione che non ignora e` quella del revisionismo (dei Bernstein e dei Croce), che aveva sollecitato un ripensamento del marxismo di fronte alle mutazioni morfologiche della societa` civile occidentale e aveva individuato nel suffragio universale, nei partiti e nelle istituzioni rappresentative le garanzie per una vita politica democratica. Gramsci descrive tale mutazione morfologica come il passaggio dalla “guerra di movimento” o dell’“attacco frontale” (che puo` essere praticata quando la societa` civile e` “gelatinosa”) alla “guerra di posizione” (necessaria quando la societa` civile e` complessa e strutturata da “casematte”). Ma, soprattutto, vede che la egemonia delle classi subalterne puo` assicurarsi solo se esse acquisiscono le capacita` per ri-determinare il mercato garantendo la crescita complessiva della Nazione. Egli comprende che la ridefini-

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zione del rapporto tra classe operaia e istituzioni democratiche, se non vuole risolversi in una operazione puramente tattica e strumentale, deve saldarsi a una ridefinizione del rapporto tra classe e Nazione. In questo quadro, il concetto di egemonia non si limita ad indicare solo la necessita` di coniugare forza e consenso, ma funziona, in una duplice prospettiva. Esso indica la necessita` per la “classe internazionale” (la classe operaia) di radicarsi nel contesto nazionale, stringendo i rapporti con quei ceti (soprattutto gli intellettuali) che rappresentano la tradizione, i valori e le competenze di una determinata Nazione, ma, nello stesso tempo, di disegnare una prospettiva che assicuri all’intera Nazione un ruolo non subalterno nella divisione internazionale del lavoro. La ricognizione del terreno nazionale (le tradizioni nazionali, le culture, la storia degli intellettuali, ecc.) e l’analisi della nuova “struttura del mondo” si concentrano, cosı`, in una prospettiva strategica che, rifiutando ogni metafisica della soggettivita` operaia, assume il “punto di vista” del governo della nazione (o, se si vuole, della riproduzione sociale complessiva) per poter determinare il mercato interno e poter concordare con gli altri Stati-Nazione un sistema di scambio nonconflittuale. Per questa ragione, Gramsci potra` affermare che se il punto di partenza, per la formazione di un sistema democratico, e` nazionale, la prospettiva non puo` che essere internazionale; non puo` che tendere alla “unificazione del genere umano” sulla base del lavoro umano e non del capitale finanziario. Liquidata, cosı`, ogni lettura crollista e classista del marxismo (dalla teoria della dittatura del proletariato alle tesi sull’alienazione operaia), Gramsci si presenta come l’unico teorico marxista che produca una risposta convincente al revisionismo, proprio perche´, assumendo il “nucleo di verita`” in esso contenuto, riesce ad elaborare una visione della democrazia come forma della crescita politica delle classi subalterne. La gramsciana “filosofia della prassi” (inseparabile dalla sua analitica e dalla sua gnoseologia delle forme storiche) contribuisce a radicare il movimento operaio sul terreno della democrazia, ma soprattutto a prospettare la necessita`possibilita` per le classi subalterne di divenire soggetti egemoni; soggetti in grado di appropriarsi delle competenze (saperi, conoscenze produttive e organizzative) per ri-determinare il mercato, per governare la produzionedistribuzione delle risorse in una prospettiva nazionale e attraverso le forme della democrazia

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Bibliografia AA. VV., Storia del marxismo contemporaneo, “Annali dell’Istituto Giangiacomo Feltrinelli”, a. XV, 1973, Feltrinelli, Milano 1974. AA. VV., Storia del marxismo, 5 voll., Einaudi, Torino 1978-1982. G. D. H. Cole, Storia del pensiero socialista, 6 voll., Laterza, Bari 1967-1968. A. Colombo, Lenin e la rivoluzione, Le Monnier, Firenze 1974. I. Fetscher, Il marxismo. Storia documentaria, Feltrinelli, Milano 1970. S. Mastellone (a cura di), Gramsci: i “Quaderni del carcere”. Una riflessione incompiuta, Utet-Libreria, Torino 1997. S. Mastellone e G. Sola (a cura di), Gramsci e il partito politico nei “Quaderni”, CET, Firenze 2001. G. Marramao, Marxismo e revisionismo in Italia, De Donato, Bari 1971. M. Montanari, Studi su Gramsci, Pensa Multimedia, Lecce 2002. M. L. Salvadori, Kautsky e la rivoluzione socialista. 1880-1938, Feltrinelli, Milano 1976. M. L. Salvadori, L’utopia caduta. Storia del pensiero comunista da Lenin a Gorbaciov, Laterza, Bari 1991. E. Santarelli, La revisione del marxismo in Italia, Feltrinelli, Milano 1964. D. Sassoon, Cento anni di socialismo, tr. it. di E. Venditti e S. Minacci, Editori Riuniti, Roma 1997. G. Vacca, Il marxismo e gli intellettuali, Editori Riuniti, Roma 1985. G. Vacca, Gramsci e Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1991. P. Vranicki, Storia del marxismo, 2 voll., Editori Riuniti, Roma 1972. A. Zanardo, Filosofia e marxismo, Editori Riuniti, Roma 1974. A. Zanardo, Il marxismo, in AA. VV., Storia delle idee politiche, economiche e sociali, diretta da L. Firpo, vol. V, UTET, Torino 1977.

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SEZIONE VI (1945-1989) DALLA FINE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE ALLA CADUTA DEL MURO DI BERLINO. L’AMERICANISMO E LA NUOVA FORMA DEL MONDO di Giuseppe Cascione

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INTRODUZIONE

Il periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale alla fine del secondo millennio e` per il Novecento un periodo che vorremmo definire di visibilizzazione del compiersi della metamorfosi della forma di vita occidentale. Tutti gli elementi sono gia` presenti sin dall’inizio del secolo e si esprimono da subito in forma tragica. Il fiorire della letteratura riguardante il tramonto dell’Occidente1 e` un segno tangibile dello stato critico che la societa` occidentale attraversa nel passaggio ad una compiuta societa` di massa. Ma la trasformazione di una forma di vita procede a ritmi piu` lenti dell’evoluzione tecnologica ed industriale e gli attriti che da questa diversa velocita` vengono generati ritardano quel processo di adattamento che aveva contraddistinto la nascita della societa` industriale. La risposta politica a questa crisi e` la nazionalizzazione delle masse2, cioe` la scorciatoia totalitaria che investe, da destra e da sinistra, la civilta` europea nella prima meta` del secolo e produce le due guerre piu` devastanti della storia dell’umanita`. Sul terreno specificamente politico, la partita appare giocata da due antagonisti: da una parte la societa` civile, che, dapprima in forma di societa` civile nazionale, poi sovranazionale ed infine globale (pensiamo all’idea della costituzione di una civitas maxima, cioe` la «comunita` giuridica universale degli uomini»3 come fondamento dei diritti dell’uomo in Hans Kelsen), dall’altra lo stato, quest’ultimo inteso come fonte del potere normativo e apparato di controllo, declinato in ogni possibile architettura istituzionale.4 1

O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, Parma, Guanda, 1991. G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse, Torino, UTET, 1979. 3 H. Kelsen, Il problema della sovranita` e la teoria del diritto internazionale, Giuffre` , Milano 1989, p. 468. 4 Sul problema della crisi del rapporto tra societa` civile e stato dal primo dopoguerra in avanti A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Torino, Einaudi, 1975. 2

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DALLA FINE DELLA II GUERRA MONDIALE ALLA CADUTA DEL MURO DI BERLINO

Perche´ diviene problematico il rapporto tra questi due elementi? In verita` la separazione viene da molto lontano, come afferma Carl Schmitt in numerosi luoghi della sua produzione5. Esso viene dalla rottura di quell’unione originaria tra sovranita` e popolo sancita attraverso il sistema della rappresentazione politica (ricordiamo la riflessione sulla Chiesa come complexio oppositorum). La sovranita` secolarizzata non riesce piu` a rappresentare l’unita` del corpo sociale e, conseguentemente a cio`, e` costretta a ribadire costantemente la propria legittimazione al potere. Il progressivo allargamento della partecipazione delle masse alla politica, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra (attraverso la definitiva affermazione del suffragio universale, la progressiva espunzione dai modelli di governo delle istanze autocratiche, ecc.), riduce le capacita` rappresentative delle e´lites di potere negli stati occidentali. Queste e´lites, pertanto, o ridimensionano il proprio ruolo di governo ad una versione di piu` basso profilo (governance) o visibilizzano se´ stesse attraverso l’atteggiamento opposto, cioe` la rifondazione di un sempre nuovo ordine mondiale, in cui al tentativo disperato di mantenere una indiscussa leadership, corrisponde l’impossibilita` concreta di governare processi di cosı` vasta portata attraverso una legalita` basata sul mero concetto di diritto. Alla luce di questa lettura complessiva del rapporto tra potere e masse, la storia del secondo dopoguerra presenta alcuni nodi importantissimi, che costituiscono altrettante chiavi di lettura per un’interpretazione complessiva della modernita`. Il primo di questi nodi e` il ruolo che gli Stati Uniti ricoprono nella storia mondiale del Novecento6. Alla fine della Seconda guerra mondiale si compie in modo irreversibile quell’ascesa degli USA, che si era gia` manifestata durante e dopo il primo conflitto. Gli Stati Uniti si impongono come potenza leader della societa` occidentale, relegando la vecchia Europa (sia quella uscita sconfitta dalla guerra che quella vittoriosa) al ruolo di comprimario ed ingaggiando una lotta sotterranea, ma non meno dura, la cosiddetta Guerra fredda, contro l’unico avversario ancora degno di questo nome, l’URSS, ultimo dei totalitarismi nati con la crisi dell’umanita` europea7. Questo scontro avra` un esito vittorioso per il cosiddetto blocco occidentale, in virtu` non tanto o non solo di un’azione decisa di contrasto nei confronti del blocco orientale, 5 Si veda in particolare C. Schmitt, Cattolicesimo romano e forma politica, Milano, Giuffre` , 1986. 6 G. Alvi, Il secolo americano, Milano, Adelphi, 2000. 7 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, Il Saggiatore, 1961.

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INTRODUZIONE

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quanto piuttosto di una sorta di implosione dell’impero sovietico, un collasso economico e civile delle societa` controllate dal regime sovietico. Da questo momento in poi gli USA rimangono l’unica superpotenza mondiale, in grado da soli di condizionare le vicende politiche dell’intero pianeta. Vedremo in questo scenario come potra` collocarsi un’eventuale dialettica USA-Europa, laddove quest’ultima arrivi a compimento del suo processo di integrazione. Il secondo di questi nodi e` la definitiva affermazione delle masse sul palcoscenico della storia occidentale. Con la scomparsa dei totalitarismi europei e l’affermazione oramai solitaria del modello democratico parlamentare nelle istituzioni degli stati occidentali, il ruolo delle masse diventa centrale nei sistemi politici e sociali europei ed americani8. Tuttavia, la fisionomia di queste masse e` il risultato di quel processo insieme di secolarizzazione della civilta` occidentale e di frammentazione in senso individualista cominciata gia` dagli inizi del secolo XX. Le masse occidentali presentano alcune caratteristiche peculiari (individualismo proprietario, insofferenza alla limitazione delle liberta` individuali, urbanizzazione, ...) che le rendono sempre meno controllabili da parte del potere politico. Il controllo dell’opinione pubblica e la formazione del consenso vengono dunque perseguiti attraverso strumenti piu` complessi e sottili, tra cui spicca senz’altro quello delle tecniche mediatiche (primo fra tutti il medium televisivo), tipico della societa` dello spettacolo9. Tuttavia, nonostante il moltiplicarsi degli sforzi del potere, ulteriori elementi di destabilizzazione posti dai fenomeni di globalizzazione degli scambi culturali rendono sempre piu` problematico il governo di queste masse, indebolendo sempre piu` la gia` provata politica degli stati. E siamo giunti al terzo dei nodi di questo periodo, cioe` la lenta ma inesorabile erosione del potere degli stati-nazione. E` noto come proprio i fenomeni di globalizzazione (economici, culturali, sociali, ...) stiano alla base di questo svuotamento di centralita`: il fatto politicamente piu` rilevante di questo fenomeno e` il processo di integrazione europeo, in cui i singoli stati europei stanno attraversando un faticoso percorso di cessione di potere a vantaggio della costituzione di un’area economico-politica con caratteristiche ancora in larga misura solo ipotetiche10.

8

J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, in Scritti politici, Torino, UTET, 1979. G. Debord, Commentari sulla societa` dello spettacolo; e La societa` dello spettacolo, Milano, SugarCo, 1988. 10 G. Hermet, Nazioni e nazionalismi in Europa, Bologna, Il Mulino, 1997. 9

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DALLA FINE DELLA II GUERRA MONDIALE ALLA CADUTA DEL MURO DI BERLINO

Infine, vi e` il nodo della ulteriore laicizzazione della civilta` occidentale. A differenza di molte altre civilta` quella occidentale si e` oramai affrancata, non solo nelle forme caratteristiche della gestione del potere politico, ma anche e soprattutto nelle pratiche sociali della forma di vita, da ogni riferimento all’elemento religioso. In questo senso e` entrato definitivamente in crisi uno dei piu` forti elementi di coesione culturale e sociale della comunita` occidentale, coinvolgendo una serie di dimensioni abitudinarie (famiglia, riferimenti solidaristici allargati, sensibilita` spirituale, ...) che fino ancora al secolo XIX costituivano altrettanti vincoli comunitari. Accanto, del resto, alla crisi della civilta` cattolica, vi e` anche una crisi forte dell’etica laica rappresentata dalle istanze universaliste di tipo comunista. Dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 – evento simbolico di un piu` vasto processo di disgregazione dell’impero dei paesi a socialismo reale cominciato nel ’56 in Ungheria, passato attraverso la primavera di Praga e culminato in quell’evento epocale – crolla anche quella carica utopistica appartenuta alla grande speranza comunista di trasformazione in senso etico del mondo, e con essa entra in crisi l’idea di una rifondazione radicale e complessiva della societa`. Sia la vecchia teologia cattolica, che la neoteologia comunista non sembrano piu` in grado di indicare alcuna strada e di incidere sulla forma di vita occidentale oramai apparentemente ‘materializzata’.

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` CRISTIANESIMO E MODERNITA

Introduzione Il lungo processo di separazione tra etica cristiana e politica che comincia nel ’500 e fonda la forma politica moderna ha sempre trovato un ostacolo insormontabile nell’elaborazione filosofico-politica di intellettuali attenti alle istanze religiose. Anche nel Novecento questa forma di opposizione e` vivace e presente in un gruppo di filosofi di estrazione diversa ma ugualmente orientati a sottoporre a critica la progressiva secolarizzazione della societa` occidentale, pur pervenendo ad esiti non solo diversi ma persino opposti. Di qui il nodo problematico costituito dal tormentato rapporto tra gli ideali religiosi cristiani e le forme politiche concrete che si vanno affermando nel corso di tutto il XX secolo. L’antimodernismo delle chiese cristiane si evidenzia ora come contestazione radicale della forma democratica ora come proposta di una via terza tra integralismo liberale e statalismo socialista. Il pensiero cristiano nazionalista di Charles Maurras ed il suo disprezzo per il caos egualitarista tipico della democrazia politica gli fa stringere stretti rapporti, anche attivamente politici, con il franchismo spagnolo e con il fascismo italiano, di cui lodava la vocazione all’ordine affine alla tutela delle regole naturali sancite nella dottrina cristiana (di cui peraltro volutamente ignorava lo spirito egualitarista evangelico). All’opposto un intellettuale come Charles Pe´guy intendeva metter fine ai contraddittori rapporti della dottrina cattolica con le ideologie totalizzanti di tipo fascista, rivolgendosi ad un orizzonte socialista che riteneva piu` vicino allo spirito romanticamente comunitario che contraddistingue l’atteggiamento sociale cristiano. Proprio quest’ultimo avra` un peso notevole nella formazione almeno di due importanti filosofi del Novecento cristiano europeo, Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier, con cui condivise una grande attenzione verso l’opera di Bergson.

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DALLA FINE DELLA II GUERRA MONDIALE ALLA CADUTA DEL MURO DI BERLINO

Per porre alcuni punti fermi in questa molteplicita` di vedute si dovra` aspettare il Concilio Vaticano II, che in materia di dottrina sociale della Chiesa dettera` una serie di norme che trasformeranno profondamente l’intera materia.

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Cristianesimo e democrazia in Jacques Maritain Alcuni elementi biografici sono importanti per comprendere gli anni della formazione di Maritain*. In primo luogo la sua religione d’origine e` il protestantesimo, che, con la particolare curvatura liberale che contraddistingue la sua educazione giovanile, costituisce la base della sua riflessione. In questi anni di intenso fermento intellettuale egli incrocia sia Charles Pe´guy1, che frequenta assiduamente, sia la filosofia di Henry Bergson, del quale frequenta le lezioni al Colle´ge de France. In secondo luogo vi e` l’incontro con la sua religione acquisita, il cattolicesimo, al quale si converte nel 1905, profondamente influenzato dallo scrittore Le´on Bloy, ma anche dall’assiduo studio della Summa theologica di Tommaso d’Aquino, che lo portera` ad un periodo di adesione profonda ai temi filosofici tomisti. Questo interesse per l’aquinate sfocera` nell’inaugurazione dei Cercles Thomistes, un cenacolo filosofico cui parteciperanno nel tempo molti importanti nomi dell’intellettualita` parigina degli anni Venti: passeranno dalla sua casa Jean Cocteau, George Bernanos, Franc¸ois Mauriac, Manuel De Falla e tanti altri. Questo periodo di elaborazione, durato piu` di quaranta anni, lo portera` ad affrontare con chiarezza i temi della politica in un volume del * Jacques Maritain e` nato a Parigi nel 1882. Nel periodo giovanile, tra il 1900 e il 1906, fu influenzato dagli incontri con Pe´guy, Bergson, Bloy. Nel periodo dal 1905 al 1930, Maritain visse in Francia e dal 1914 fu professore di storia della filosofia moderna all’Institut Catholique di Parigi. Dal 1923 a Meudon la casa dei Maritain diventa luogo di incontri culturali di filosofi, teologi, scrittori, poeti, artisti. Nel 1926 avviene il distacco dall’“Action Franc¸aise”, movimento di destra, per il quale aveva simpatizzato prima della condanna di Pio XI. Nel 1936 pubblica “Umanesimo integrale”, che suscitera` intorno a Maritain vivaci polemiche. Tra il ’35 e il ’37 prende posizione contro l’invasione dell’Etiopia, il bombardamento di Guernica, la guerra di Spagna. A causa del nazismo Maritain si trasferisce negli Stati Uniti (1940-44) e a New York insegna nelle universita` di Princeton e della Columbia, e tiene conferenze in numerose citta` americane. Dal 1944 al 1948 e` a Roma quale ambasciatore di Francia presso la Santa Sede. Dopo un periodo di intensa attivita` in tutto il mondo, alla morte della moglie, avvenuta nel 1960, vive presso la comunita` di Tolosa dei Piccoli Fratelli di Gesu`, dove rimarra` fino alla sua morte avvenuta nel 1973. 1 Sull’importanza rivestita da Pe´guy nel pensiero filosofico cristiano del Novecento si veda AA.VV., Pe´guy Vivant, Lecce, Milella, 1978.

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CRISTIANESIMO E MODERNITA`

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1927 intitolato Primato dello spirituale, in cui, prendendo spunto dalla sconfessione operata da Pio XI nei confronti dell’Action Franc¸aise, ribadisce come il soggetto umano sia contestualmente gettato in due scenari, l’uno di natura contingente e ‘politica’, l’altro relativo allo sfondo strategico dell’azione umana, ovvero lo scenario spirituale. D’altra parte Maritain non ha dubbi su quale delle due istanze debba prevalere, nel senso che rivendica un primato del potere spirituale su quello temporale, dal momento che il primo detta le condizioni di senso che riempiono di significato le azioni compiute dal secondo. Del resto, anche sul piano metodologico egli traccia un rapporto persino tra filosofia e fede orientato alla prevalenza della seconda, che, «veluti stella rectrix»2, assume una funzione di orientamento nei confronti della prima. E` proprio sulla base di tali presupposti di autonomia della politica e della filosofia, ma in una sfera di possibilita` delimitata dalla religione, che matura l’orizzonte piu` noto dell’opera di Maritain, che ritroviamo esplicitato in maniera compiuta in Umanesimo integrale (1937). Egli accetta di compiere un’articolata critica della civilta` cristiana occidentale, partendo dalle profonde modificazioni intervenute con la perdita del primato temporale della Chiesa. Egli identifica in primo luogo il capovolgimento del tradizionale rapporto tra Chiesa e politica: da un uso strumentale della politica e della cultura operato dal potere spirituale si passa nella modernita` ad una totale incapacita` di quest’ultimo di incidere sui luoghi delle decisioni politiche. La distinzione che Maritain opera tra societa` sacrale e societa` profana genera una serie di riflessioni sui valori delle societa` moderne (dignita` della persona nella propria singolarita`, pluralismo politico e culturale, autonomia della politica) di contro a quelli delle societa` cristiane pre-moderne (unita` spirituale, coesione comunitaria, identificazione tra potere spirituale e temporale). Maritain non condivide tuttavia la laicizzazione radicale della societa` occidentale, la progressiva ed ineluttabile espunzione, da Machiavelli in avanti, di un orizzonte etico cristiano dalla politica, bensı` suggerisce ancora una volta la necessita` di un rispetto reciproco, nella vicendevole autonomia, tra religione e politica. La religione sta ad indicare l’orizzonte di senso di qualsiasi politica: «la prima condizione politica di una buona politica e` di essere giusta»3. Con l’avvento della barbarie nazi-fascista in Europa e l’invasione del territorio francese l’attivita` di Maritain, che si era espresso in modo chiaro e 2 3

J. Maritain, Sulla filosofia cristiana, Vita e Pensiero, Milano 1978 p. 52. J. Maritain, Umanesimo integrale, Roma, Borla 1980, p. 247.

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DALLA FINE DELLA II GUERRA MONDIALE ALLA CADUTA DEL MURO DI BERLINO

deciso contro l’antisemitismo e il fascismo, deve trasferirsi in America, dove trova spunto per una serie di importanti riflessioni sul rapporto tra cristianita` e democrazia politica e tra individuo e stato. Il dato di partenza di queste riflessioni e` che l’uomo e` contemporaneamente individuo e persona, cioe` e` immerso costitutivamente nella societa`, e tuttavia non senza residui. Nonostante «la persona umana non puo` essere sola»4, l’uomo, per Maritain, «non e` subordinato alla societa` politica interamente.»5 Questa resistenza a far parte integralmente della societa` segnala la presenza di un diritto naturale che precede la legge e che la giustifica. Sebbene sul piano gnoseologico la coscienza dell’esistenza di questi diritti naturali dell’uomo sia recentissima, sul piano ontologico essi sono da sempre operanti, perche´ ciascuna cosa nel creato possiede una struttura interna che rispetta alcune regole naturali che le permettono di realizzarsi compiutamente. Su questa ipotesi Maritain fonda anche il rapporto tra Cristianesimo (come orizzonte sovrannaturale) e democrazia (come modus operandi concreto di questo orizzonte): entrambi concorrono, nella rispettiva autonomia, alla realizzazione della piu` profonda tra le aspirazioni dell’uomo, la liberta`. Maritain si spinge fino a sostenere che non solo la democrazia e` compatibile con lo spirito del cristianesimo, ma che addirittura la sua piu` profonda radice sta nello spirito evangelico. Soprattutto ne L’uomo e lo stato (1951) Maritain comincia a sviluppare questi concetti sul terreno di categorie quali bene comune, Stato sovrano, comunita`/societa`, chiarendo la subordinazione del diritto positivo alla legge naturale al fine di realizzare il bene comune tra gli uomini, favorendo la realizzazione di una vera comunione nella “buona vita” fra tutti i cittadini. Questo impegno filosofico e civile si tradurra` in pratica politica tra il 1946 ed il 1948, biennio nel quale egli diventera` ambasciatore francese presso la Santa Sede, ma continuera` anche in seguito a cercare una via originalmente cristiana alla democrazia compiuta, interessandosi sia di teoria politica che di pedagogia politica, con opere come Per una filosofia dell’educazione (1959), ritenendo essenziale, nel solco del pensiero di Dewey, un’efficace attivita` educativa sulle giovani generazioni al fine di trasformare una democrazia ancora in gran parte tecnica in una democrazia sostanziale.

4 5

J. Maritain, I diritti dell’uomo e la legge naturale, Milano, Comunita` , 1953, p. 7. Ivi, p. 14.

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Il personalismo di Emmanuel Mounier Mounier* e` noto per aver fondato e promosso il movimento chiamato personalismo, centrato su una proposta di rinnovamento in chiave filosoficosociale e politica della comunita` cristiana europea. Erano anni piuttosto complessi quelli in cui nasceva questa idea e, sebbene vi fossero motivi strettamente sociali e politici perche´ questo movimento si traducesse in pratica politica, secondo lo stesso Mounier il termine personalismo non rinvia ad alcun progetto teorico o manifesto politico, ma e` «una certa prospettiva dei problemi umani.»6. Secondo la ricostruzione che fa lo stesso Mounier il personalismo e` figlio della crisi di Wall Street che inaugura la grande depressione dell’economia mondiale. Esso trovera` poi una sorta di tribuna privilegiata nella rivista “Esprit”, fondata nel 1932 dallo stesso Mounier, ed anche, in parte, nell’altra rivista “Ordre Nouveau” di Arnaud Dandieu. Questo movimento nasce per far fronte ad un periodo di crisi, ma rifiutandosi di accettare il terreno ideologico della Crisi: secondo Mounier l’idea di crisi dell’uomo moderno, che nasce gia` con la scissione cartesiana tra res cogitans e res extensa, va rifiutata in radice attraverso l’opposizione culturale contro la separazione della parte materiale del mondo da quella spirituale, affinche´ l’uomo si riappropri del «senso carnale del mondo.»7. Da questa impostazione deriva una duplicita` interpretativa: da una parte l’impostazione materialista legata all’aspetto strutturale ed economico della crisi, dall’altra l’impostazione spiritualista, legata al suo aspetto culturale ed ideologico. Secondo Mounier ed i personalisti «la crisi e` in pari tempo una crisi economica e una crisi spirituale, una crisi delle strutture e una crisi dell’uomo. Non solo ci rifacevamo alla parola di Pe´guy: “O la rivoluzione sara` morale o non sara`”, ma precisavamo: la rivoluzione morale sara`

* Emmanuel Mounier nacque a Grenoble nel 1905 da una famiglia della media borghesia. Studio` a Parigi, ove fece parte di un circolo di studi pe´guysti. Nel 1932, fondo` la rivista Esprit e subı`, durante la repubblica di Vichy una pesante persecuzione fascista. Dopo la guerra partecipo` alla redazione del testo della “De´claration des Droits des Personnes et des Communaute´s”, che egli aveva gia` in qualche modo abbozzato durante l’occupazione, che servira` come punto di partenza per la discussione che si sviluppera` in seno alla “Commission de la Costitution” costituita nel 1945-46. Ma le sofferenze patite (soprattutto i problemi di salute della figlia che morira` nel 1954) lo scuotono nel fisico portandolo alla morte per infarto nel 1950. 6 E. Mounier, Che cos’e` il personalismo?, Torino, Einaudi, 1948, p. 9. 7 E. Mounier, La Rivoluzione personalista e comunitaria, Milano, 1955, p. 157.

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DALLA FINE DELLA II GUERRA MONDIALE ALLA CADUTA DEL MURO DI BERLINO

economica o non sara` . La rivoluzione economica sara` morale o non sara` nulla.»8 Dunque Mounier vuole nel contempo condannare la falsita` di ogni prospettiva storico-politica che impedisca una comprensione unitaria della persona umana, ma anche impedire che la tendenza a “dire sempre di no” generi una rincorsa ad una visione pura della prospettiva personalista, che tenda ad astrarsi dalla materialita` dei processi storici e politici. E` in questo senso che egli descrive la vicenda della rivista “Esprit” che, a partire da posizioni sempre piu` intransigenti, fece posto ai cosiddetti “gruppi Esprit”, cellule di intellettuali che presto attorniarono la rivista e si diffusero per rendere attuale sul piano politico il progetto della rivoluzione culturale personalista. Tuttavia, non si deve confondere la rivoluzione personalista con altre forme di “impegno” intellettuale, ad esempio dell’esperienza esistenzialista che proprio negli anni ’40 maturavano altri intellettuali francesi come Sartre e Merleau-Ponty. Per Mounier e i personalisti «una filosofia dell’impegno e` [...] inseparabile da una filosofia dell’assoluto o della trascendenza del 9 modello umano.» Questo anelito alla trascendenza senza del quale l’impegno rivoluzionario si trasforma in spirito nihilista e anarchico, si manifesta per Mounier in una costante tensione tra la testimonianza individuale o di piccoli gruppi di persone contro gli orrori della storia e della politica e l’efficienza nell’ottenere magari piccoli, ma significativi risultati nella trasformazione spirituale della condizione umana. Naturalmente il quadro trascendente dell’impegno rinvia al sovrannaturale, il cui statuto in Mounier non e` necessariamente legato ad un’idea unica del Dio cristiano. La trascendenza da senso e significato all’azione umana sia essa «legata a un’Esistenza suprema, modello delle esistenze, o solamente a un superamento significativo e orientato dell’uomo verso un se stesso al di la` di se stesso.»10 Ma, in concreto, qual e` l’atteggiamento di Mounier circa la politica e le sue forme? Dopo aver chiarito che il personalismo non ha un atteggiamento politico in senso stretto e che non e` un ‘sistema politico’ utile sotto il profilo dell’applicazione alla battaglia politica o quello della sistematizzazione teorica, egli sostiene che vi sono elementi di congiunzione e disgiunzione sia tra personalismo e liberalismo («la liberta` di pensiero e di movimento, il dialogo delle idee e la concorrenza delle iniziative»11) che tra 8

E. Mounier, Che cos’e` il personalismo?, p. 17-18. Ivi, p. 42. 10 Ivi, p. 47. 11 Ivi, p. 51. 9

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personalismo e socialismo o comunismo (la «critica marxista dell’alienazione e la vita del movimento operaio»12). Nessuna compiuta teoria politica dunque, ma solo una trasformazione nelle interiorita` delle singole persone in una visione apertamente solidaristica. Per Mounier lo stato deve, come per Maritain, tutelare il bene della comunita` e non suggerire o, peggio, imporre una visione unilaterale e conformista delle cose. Dice Mounier: «noi cerchiamo sul piano politico uno stato pluralista, sul piano economico una economia decentralizzata fino alla persona.»13 Se occorre tuttavia una scelta di campo non si puo` prescindere, sostiene Mounier, dal nuovo orizzonte che il movimento operaio ha tracciato attraverso lotte aspre legittimate da altrettanto aspre sofferenze. Depurato dalle proprie scorie metodologicamente violente e distruttive il socialismo e` il vero orizzonte di azione politica dei personalisti. «Il personalismo, che nel 1789 sarebbe stato senza dubbio liberale, ci comanda oggi di denunciare e di combattere tutte le mistificazioni che la paura sociale potrebbero mettere insieme sotto la sua etichetta, e di unirci risolutamente alla lotta di questa democrazia popolare di cui l’Europa cerca oggi le vie.»14

Teologia crucis: Dietrich Bonhoeffer La tragicita` del rapporto tra «amore di Dio e sfacelo del mondo»15 e` espressa in modo netto dalla parabola esistenziale di Dietrich Bonhoeffer*, teologo luterano che rappresenta compiutamente la necessita` di adeguare la dottrina cristiana (questa volta in campo neoprotestante) alle domande nuove che la modernita` secolarizzata propone. Il dilemma che si pone alla chiesa protestante tedesca e` quello del proprio rapporto con il regime nazista, perche´ dalla religione luterana da sempre viene impartita la raccomandazione di essere obbedienti al potere temporale. Lutero in prima 12

Ibid. Ivi, p. 55. 14 Ivi, p. 115. 15 ` E il titolo di un intero paragrafo di una collezione di scritti di D. Bonhoeffer, Etica, Milano, Bompiani, 1969, pp. 13-43. * Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) fu un pastore luterano che si oppose sul piano teologico e politico al regime hitleriano. Bonhoeffer fu infatti tra i principali esponenti della “Chiesa confessante” che rappresento` in Germania la resistenza cristiana al nazismo e, coinvolto nel fallito attentato a Hitler compiuto dal gruppo di Von Stauffenberg e Canaris, venne prima internato nel carcere di Tegel e poi impiccato nel campo di concentramento di Flossenburg. 13

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persona si trova a dover regolare il rapporto tra i principi tedeschi che lo sostengono e la propria dottrina all’interno di una triplice esigenza: opporsi all’integralismo degli Anabattisti ed alla loro utopia della realizzazione di una comunita` divina in terra; opporsi alla Santa Sede rivendicando l’autonomia dello Stato; opporsi ai principi troppo arroganti sancendo l’autonomia della Chiesa. L’esito del compromesso tra queste tre esigenze e` la richiesta dogmatica ai fedeli di obbedienza nei confronti del sovrano, argomentando che «non esiste potere che non sia di Dio: i poteri esistenti sono voluti da Dio.»16 Per questo motivo «dobbiamo istituire con fermezza la legge secolare e la forza militare, affinche´ nessuno possa mai dubitare che sono nel mondo per volonta` e decreto divini.»17 Dunque la chiesa luterana cercava di adeguarsi a questa prescrizione anche in tempi cosı` difficili, in cui il carattere anticristiano del regime hitleriano appariva evidente ad ogni singolo fedele. La figura di Bonhoeffer e` su posizioni diametralmente opposte a quelle del regime nazista ed alla maggior parte della gerarchia luterana ed in questo senso la sua Chiesa confessante rappresenta insieme un enorme sforzo di resistenza al male ed un’anticipazione delle esigenze di rifondazione dell’evangelizzazione occidentale nel quadro delle metamorfosi della nostra civilta`. Il punto di partenza di Bonhoeffer e` la ridefinizione del concetto di Etica. «La conoscenza del bene e del male sembra essere lo scopo di qualsiasi riflessione etica. Il primo compito dell’etica cristiana consiste nell’annullare tale conoscenza.»18 Il fatto e` che per Bonhoeffer sin dalla cacciata dall’Eden, l’uomo vive in modo traumatico (colpa e vergogna) questa separazione e tuttavia e` proprio da questa scissione che nasce l’Etica, perche´ l’uomo, abbandonato da Dio nella propria solitudine, ritiene di essere in grado di discernere cio` che e` bene da cio` che e` male e, di conseguenza, si sente libero di scegliere ora l’uno ora l’altro. Questo sacrilegio (che e` tale perche´ pretende di innalzare l’uomo al rango di Dio) si interrompe salvificamente con l’avvento di Cristo in terra. Alla luce di questo evento di ricongiunzione tra mondo e Dio, «il punto di partenza del discorso, il “punto decisivo dell’esperienza specificamente etica” non e` piu` l’allontanamento dell’uomo da Dio, dagli uomini, dalle cose e da se´ stesso, bensı` l’unita` ritrovata, la riconciliazione.»19 Da questo momento in 16

Lutero, Lettera ai Romani, 13:1, 4. Lutero, Sull’autorita` secolare, citato in L. Strauss, D. Cropsey (a cura di), Storia della filosofia politica, vol. II, p. 58. 18 D. Bonhoeffer, Etica, p. 13. 19 Ivi, p. 21. 17

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CRISTIANESIMO E MODERNITA`

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poi la figura del Cristo scalza dal proprio trono il primato della norma etica con la predicazione della sua inutilita`. La centralita` della figura del Cristo introduce l’altro grande tema della teologia di Bonhoeffer, quello del rapporto tra il bene, la vita e la storia. Gesu` Cristo dice «Io sono la vita»20, una vita non generica, ma la vita della singola persona. La positivita` di questa vita individuata che pero` si fa storia e` la figura del Cristo. Nel periodo che va dall’aprile all’agosto del 1944, quando Bohnoeffer e` rinchiuso nel carcere di Tegel, cerca di capire come si traduce tutto questo in una sorta di frammento di sistema, ove il ragionamento su questi temi non sia impressionistico ma acquisti il respiro di una proposta etica compiuta. La premessa e` «il divenire adulto del mondo»21, che in pratica significa che l’uomo ha il completo controllo su quella natura un tempo ostile ed oscura e deve solo esercitare uno sforzo di organizzazione per rassicurarsi contro le antiche paure. Nella nuova situazione, tuttavia, «cio` che manca e` la forza spirituale»22 cioe` quella forza che veniva invocata per tutelarsi contro la natura e che ora e` diventata inutile: l’uomo e` solo alla propria merce`. Nell’antica situazione Dio si presentava come «tappabuchi per le nostre difficolta`»23 ma ora e` diventato superfluo e l’uomo adulto e` divenuto un soggetto non religioso24. Ma, in questo quadro descritto da Bonhoeffer qual e` il rapporto tra uomo e Dio? Gesu` Cristo non ha piu` nulla a che vedere con la religione. «E` passato il tempo della interiorita` e della coscienza, cioe` appunto il tempo della religione in generale. Stiamo andando incontro ad un tempo completamente non-religioso; gli uomini, cosı` come ormai sono, semplicemente non possono piu` essere religiosi.»25 La fede non puo` piu` essere una fede generica, ma e` una fede rivolta ad un soggetto particolare, cioe` Gesu` Cristo, che grazie alla sua incarnazione incontra l’uomo nel mondo. Il suo sacrificio, peraltro, indica chiaramente che l’essenza del Cristo si consuma in un “essere-per-altri”. «L’“esserci-per20

Giovanni, 14, 6; 11, 25. D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Milano, Edizioni Paoline 1988, p. 461. 22 Ibid. 23 Ibid. 24 Su questo punto si realizza il massimo della consonanza tra Bonhoeffer e Karl Barth, altro teologo protestante, che considerava la religione come il mezzo supremo per il folle tentativo umano di controllare Dio, attraverso il controllo del proprio destino «con uno spaventoso disconoscimento delle distanze, in relazione con Colui col quale egli stesso non puo` mettersi in relazione, perche´ Dio e` Dio e non sarebbe piu` Dio se l’uomo potesse in tal modo riferirsi a Lui.» (K. Barth, L’Epistola ai Romani, Milano, 1974, p. 225) 25 D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, lettera del 30.04.44, p. 348. 21

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altri” di Gesu` e` l’esperienza della trascendenza. [...] Il trascendente non e` l’impegno infinito, irraggiungibile, ma il prossimo che e` dato di volta in volta, che e` raggiungibile. Dio in forma umana!»26 Attraverso questa strada non-religiosa l’uomo si riappropria del suo rapporto con la trascendenza, attraverso il rapporto con gli altri uomini, nella storia. Anche la Chiesa ha senso solo se recupera la centralita` della figura del Cristo, cioe` se comincia ad esserci-per-altri. Essa deve entrare nelle dinamiche concrete dei rapporti tra gli uomini e deve fornire testimonianza di se´ attraverso l’esempio. Veniamo cosı` al capitolo piu` dolente dell’opera e della vita di Bonhoeffer, cioe` alla testimonianza concreta della fede nelle vicende drammatiche della sua vita. In questo senso appare centrale la nozione di teologia crucis, cioe` di quella nozione teologica che pone in stretta relazione sofferenza e rivelazione. Gia` in Lutero questi due concetti vengono presentati come strettamente connessi, poiche´, come Bonhoeffer sapeva benissimo, il calice della vita va bevuto consapevolmente anche nella sua negativita` ed e` solo questo vivere tutto della vita in modo intenso, coraggioso e responsabile che ci si rivela la trascendenza di colui che si era sacrificato nel dolore per altri. Tuttavia, dal punto di vista teologico, e` ancora Barth il riferimento, soprattutto nella cosiddetta teologia della rivelazione, in cui egli cita il Lutero del De Servo arbitrio quando sostiene che tutto cio` che deve essere creduto, deve essere nascosto. Solo quando Dio ci abbandona Egli e` con noi, ci si rivela nel suo nascondimento. Questo deus absconditus della teologia negativa lo si comprende appieno solo nel momento della sofferenza, del dolore. Quel destino che impone la resa dell’uomo ma che nel contempo gli fa conoscere la resistenza caparbia di chi si vede rivelare proprio in quel momento la guida trascendente, che dunque e` insieme resistenza e resa (Don Chisciotte e Sancho Panza nel contempo)27 si presentera` a Bonhoeffer sotto la forma del trasferimento nel campo di concentramento di Flossenbu¨rg, dove trovera` la morte.

26 27

D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, p. 462. D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, lettera 21.02.44, p. 289.

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IL PRAGMATISMO

Filosofia anglo-americana: caratteri comuni E` difficile identificare dei tratti comuni ad un’area culturale, soprattutto quando quest’area e` cosı` concettualmente e cronologicamente articolata come quella anglo-americana del secolo XX. Tuttavia, lo sforzo che, in una sintesi, val la pena di operare va nella direzione della determinazione almeno di alcune macro-aree concettuali che possono aver determinato nel tempo alcune caratteristiche fondamentali di una forma di vita e di pensiero, piu` che di una o piu` singole filosofie. Il primo ‘tratto comune’ potremmo identificarlo nell’atteggiamento pragmatico-empirico della metodologia filosofica e politica angloamericana. E` molto importante in tutti gli autori che possiamo osservare in quest’alveo lo studio dei casi concreti, cioe` del funzionamento delle categorie di analisi nella loro fenomenicita`. Come vedremo, gia` nei precursori della filosofia americana contemporanea, Peirce e James in particolare, questa tendenza e` fortemente connessa alla formazione di questi autori, che provengono da discipline (l’analisi linguistica o la psicologia) in cui i processi reali di trasformazione delle societa` umane sono assolutamente determinanti. Questo atteggiamento pragmatistico viene giocato non solo in funzione anti-idealistica (o forse bisognerebbe piu` precisamente parlare di posizione anti-metafisica), ma anche in funzione anti-meccanicistica, cioe` contraria ad un’applicazione puramente meccanica di paradigmi pur tratti da osservazioni di tipo ‘naturalistico’. In questo senso puo` essere letto il superamento del problema del rapporto tra Mente e Corpo attraverso paradigmi volontaristici, comunque implicanti una dimensione umana piu` allargata del rigido razionalismo tipico della filosofia europea.

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Infine, citeremo un altro elemento comune agli autori che segnaleremo piu` avanti, quello del fondamento convenzionalistico di tutte le teorie politiche anglo-americane. Intendiamo dire che l’elemento della necessaria condivisione delle regole sociali e quello conseguente del carattere complesso e ‘contrattato’ della verita` costituiscono il background delle posizioni pragmatiste, cosı` come di quelle analitiche, allo stesso modo di quelle etiche o anche postmoderniste.

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Il realismo sociale di Charles Sanders Peirce Peirce* puo` essere qui considerato come il primo esponente della corrente pragmaticista. Certo, la sua biografia intellettuale si intreccia con quella di alcuni altri intellettuali americani, che negli anni tra il 1871 ed il 1875, dettero vita a Cambridge (Massachussets) ad un particolare circolo filosofico, il «Metaphysical Club». Di questo circolo facevano parte molti esponenti di spicco dell’intellettualita` americana come Ch. Wright, collocato, sulla scorta dell’evoluzionsimo darwiniano, in una prospettiva di biologizzazione dell’aura spirituale umana; o come N. St. John Green e J. Warner, impegnati a rifondare in chiave funzionalistica e ‘realistica’ la Filosofia del diritto; o, infine, come A. Bain, che, con la sua ricerca sugli ‘abiti’ comportamentali, definiti come tendenze che motivano l’uomo ad agire, influenzo` profondamente il pensiero di Peirce stesso. Tuttavia non si puo` negare che i veri esponenti di spicco di questo circolo culturale cosı` coeso ed esclusivo fossero Peirce e James, passati poi alla storia come gli ‘inventori’ del pragmatismo in quanto corrente filosofica. Nonostante in questa sede siano molto rilevanti gli esiti sul piano pubblico della sua filosofia, dobbiamo subito spiegare le premesse gnoseologiche che ne costituiscono il fondamento. In particolare, l’intento di Peirce e` quello di superare l’intuizionismo gnoseologico, per approdare ad una concezione ‘realista’ dei processi conoscitivi. A cominciare dal rifiuto della convinzione kantiana circa l’esistenza di ‘categorie a priori’, ovvero spazio, tempo (e colore), presupposti universali della conoscenza umana, * Charles Sanders Peirce nacque a Cambridge nel Massachussetts nel 1839. Figlio di un famoso matematico che insegno` fisica e astronomia ad Harvard, tento`, senza riuscire, di farsi accettare nel mondo universitario americano. In effetti neanche una delle sue opere fu pubblicata se non alla sua morte, avvenuta, oramai in miseria, nel 1914 a Milford. Le sue opere sono ora raccolte nella Raccolta di scritti di Charles Sanders Peirce (Collected Papers of Ch. S. Peirce), in sei volumi, edite negli anni 1931-1935.

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IL PRAGMATISMO

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Peirce sostituisce un’ipotesi cosı` strutturata circa i processi di apprendimento della mente umana con una nuova triade, quella costituita da qualita`, relazione e rappresentazione, la cui funzione sarebbe semplicemente quella di mettere ordine nel caos quotidiano delle informazioni in cui viviamo. L’idea e` quella che la mente umana non possieda alcun supporto fondamentale entro cui disporre ordinatamente le informazioni sensoriali che le pervengono, ma che sia costretta a ricostruire continuamente questa massa di dati sensibili. Pertanto non esistono qualita` immutabili degli oggetti, ma essi sono sempre in relazione con un qualche segno che ha la precisa funzione (simbolica) di rappresentarli. Ne consegue che il filosofo debba pervenire ad una gnoseologia, per cosı` dire, ‘non ingenua’, cioe` non basata sul presupposto che i processi mentali umani siano basati su dati immediati, ma su quello opposto, secondo cui ogni operazione della mente umana, anche la piu` semplice ‘lettura’ della realta` sensibile, e` frutto di un complesso processo di significazione interpretante. La prima conseguenza di questo approccio peirciano e`, evidentemente, il declassamento del concetto di ‘credenza’ a puro sforzo tensionale, come del resto aveva adombrato prima di lui il Bain. La ricerca di un fondamento di verita` o anche solo di significato nella nostra attivita` mentale e` una vana pretesa, perche´ non vi sono criteri conoscitivi assoluti, neanche sotto la forma di meri presupposti formali. Per Peirce e` impossibile riconoscere un primum logico in base al quale far discendere le nostre necessita` veritative inferenziali, bensı` l’unica nostra certezza e` la continua attivita` interpretativa dei ‘segni’. L’altra fondamentale conseguenza e` di ordine metodologico. Infatti, Peirce demolisce la credibilita` di una metodologia filosofica basata unicamente sulla dinamica induzione-deduzione, sostenendo che entrambi questi metodi di indagine sono troppo angusti, ma soprattutto non rispecchiano il modo di procedere della mente umana. Quest’ultima, per Peirce, procede per abduzioni, cioe` per movimenti ipotetici fondati su un rapporto con i ‘fatti’ verificato da pratiche empiriche. In Peirce il concetto di segno e` chiaramente delimitato. Per il filosofo di Cambridge «un segno o Representamen e` un Primo che sta in una tale relazione triadica genuina con un Secondo, chiamato il suo Oggetto, tale da essere capace di determinare un Terzo, chiamato il suo Interpretante, ad assumere la stessa relazione triadica con l’Oggetto nella quale si trova il Segno o Representamen stesso con lo stesso Oggetto»1, con cio` eviden1 C. S. Peirce, Una nuova lista di categorie, in M. Bonfantini, L. Grassi, R. Grazia (a cura di), Peirce. Semiotica. I fondamenti della semiotica cognitiva, Torino, Einaudi, 1980, p. 154.

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ziando una relazione biunivoca tra tutti e tre gli elementi costitutivi della semiosi, intesa sia come processo di significazione (produzione di segni) sia come processo gnoseologico (interpretazione di segni). Il segno, insomma, e` un elemento gnoseologico ‘aperto’, cioe` non condizionato da alcun elemento di significazione pregiudiziale, ma continuo rimando ad un gioco di interpretazioni di cui l’interpretante, prima considerato solo come elemento pletorico e soggettivo, e` protagonista assoluto. Le implicazioni dei presupposti gnoseologici del pensiero peirciano ci interessano soprattutto sotto il profilo dello statuto delle certezze. Ad un piano decostruttivo in cui demolisce il semplice ma illusorio impianto idealista, Peirce affianca un piano positivo in cui descrive il modo in cui si passa da una fase di caotica insecuritas conoscitiva ad una di certezza relativa (trampolino di lancio per i successivi movimenti abduttivi). Egli sostiene che la sicurezza degli ‘abiti’ comportamentali deriva unicamente dalla ricorrenza di pratiche univocamente interpretanti stratificate negli usi sociali. E` attraverso l’implicito consenso determinato dalle prassi comunitarie che l’uomo trova alcune ‘regolarita` ’ nel caos di segni che lo circonda, addivenendo ad una sorta di concetto pubblico di verita`, determinato cioe` dal concreto agire regolare degli interpretanti. Nell’ultima produzione peirciana quest’idea di verita` come prassi interpretativa condivisa viene sviluppata dando vita al concetto di ‘interpretante logico finale’, che, attraverso il ricollocamento della funzione interpretativa all’interno di abiti comportamentali condivisi, argina la deriva relativistica di una lettura intransigente del processo di interpretazione infinita.

Williams James e il volontarismo psicologico James* traduce il pragmatismo peirciano nella disciplina psicologica. Fortemente interessato ai nuovi sviluppi della psicologia (segnatamente quelli della psicologia sperimentale dei Wundt, Weber, ...) egli tenta di trovare una soluzione diversa all’annoso problema del rapporto tra meccanicismo e spiritualismo. James suggerisce, in aperto e dichiarato contrasto con una lettura meramente biologicista e determinista dell’agire umano, una terza * William James, nacque a New York nel 1842, da una ricca e colta famiglia americana. Dopo aver viaggiato a lungo in Europa, William James fu tra i fondatori del pragmatismo americano ed insegno` psicologia e filosofia ad Harvard. Morı` a Chocorua (New Hampshire) nel 1910. Tra le opere filosofiche piu` importanti vanno senz’altro ricordati i suoi Princı`pi di psicologia (1890).

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strada, cioe` la rivalutazione del valore del singolo individuo come centro di imputazione di scelte razionali finalizzate al miglioramento della propria condizione. Questa cosiddetta impostazione yankee del problema del rapporto tra individuo singolo e comunita` a tutto vantaggio del primo, presenta alcune caratteristiche molto interessanti, che finiscono per avere una forte presa sulla cultura americana. La prima di queste caratteristiche e` una visione ‘estetica’ dell’agire razionale. In effetti, il presupposto di questa concezione e` che la razionalita` umana permette di passare da uno stato caotico e confusionale ad uno stato, per cosı` dire, di armonica quiete dell’anima. Il caos dello ‘stato di natura’ non viene qui interpretato in termini hobbesianamente tragici, bensı` come mero ‘disagio esistenziale’, che viene superato attraverso un percorso razionale atto a restituire all’individuo il proprio equilibrio con l’ambiente circostante. In questo senso esiste una dimensione ‘estetica’ dell’azione razionale, perche´ l’equilibrio nel rapporto tra individuo e comunita` implica un’armonia (presupposta, ricercata ed infine realizzata) che non coinvolge solo la razionalita` strumentale, logica, ma anche una situazione emotiva totale del soggetto. La seconda caratteristica e` l’importanza fondamentale che in James riveste il problema del superamento dell’insecuritas esistenziale umana. In effetti noi siamo all’interno di una incessante attivita` di ristrutturazione del mondo all’interno della quale l’esperienza soggettiva verrebbe travolta se non riuscisse a trovare una finalita` teleologica in questo enorme fiume di avvenimenti e concetti. In questo ci supporta l’attitudine che l’intelligenza umana ha a proiettare se´ stessa nel futuro, a cercare di guardare al futuro con fiducia. In realta` questa fiducia viene connotata da subito da James come ‘fede’. «L’elemento della fede, messo in rilievo dalla religione cristiana, e` sempre e da tutto adoperato [...] ogni nuova filosofia o scienza si e` sorretta sulla fede nella verita` di certe idee prima che queste potessero essere verificate. La fede quindi anticipa la certezza ed anzi in certi casi crea la sua stessa verificazione.»2 La terza caratteristica del pensiero di James e` strettamente collegata al problema della fede. In un’opera del 1897, La volonta` di credere, James da` una apparentemente bizzarra connotazione al problema del rapporto tra credenza e scienza, affermando che il credere e` sempre solo ‘volonta` di credere’. La natura umana spinge i soggetti a scegliere tra ipotesi differenziate, ma sempre nell’impossibilita` di avere certezze circa la verita` di queste 2

W. James, La volonta` di credere, Milano-Messina, Principato, 1953, p. 89.

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ipotesi. Se questo quadro di insicurezza dei paradigmi veritativi e` tale, pur in presenza di un’oggettivita` tuttavia solo apparente, la razionalita` scientifica non ci aiuta ad operare una scelta che sia in grado di mettere al riparo l’attore dai rischi di errore. Pertanto cio` che fa la differenza resta il dato puramente passionale, cioe` l’impulso che ci spinge a considerare una delle alternative come quella giusta (o, allo stesso modo, a non considerarne alcuna, scegliendo cosı` di non scegliere), cioe`, in definitiva, quella che James chiama la ‘volonta` di credere’ che quell’alternativa sia la migliore possibile. Insomma, poiche´ lo scienziato non puo` dimostrare le proprie certezze come ‘vere’ in senso assoluto se non sulla base di un voler credere che esse siano corrette, il credente e` pertanto autorizzato a credere, per il mero fatto di volerlo fare. Del resto, James si sente autorizzato, sulla base delle affermazioni di Peirce e del manifesto intellettuale del pragmatismo, a rilevare come, in carenza di possibilita` realmente esaustive di dimostrazione per via razionale delle verita` di fede (sia scientifiche che teologiche) l’unico criterio di giudizio puo` essere solo il ricondurre il giudizio alla valutazione delle conseguenze in sede pratica di ciascuna azione. In questo senso il supporto di Bain e di Peirce diventa dirimente: «L’anima e il significato del pensiero non puo` indirizzarsi ad altro che alla produzione della credenza [...] Le credenze, in breve, sono in realta` regole per l’azione, e tutta la funzione del pensare non e` che un passo verso la formazione di abitudini 3 d’azione [...] Tale e` il principio di Peirce, il principio del pragmatismo.» Il pragmatismo di James si sviluppera` proprio nel senso di un’enfatizzazione dell’aspetto strumentale (da cui prendera` spunto anche Dewey) e funzionale della verita`, sempre orientata ad esercitare influenze concrete sulle nostre abitudini di vita. Ma James e` noto soprattutto come il filosofo dello Stream of Thought, cioe` l’idea che l’indagine privilegiata della psicologia, quella introspettiva, metta a nudo la vera realta` della coscienza umana, il suo essere un continuum di pensieri ininterrotto. Va subito sottolineato il carattere irriducibilmente singolare del Soggetto filosofico jamesiano, il quale riporta, attraverso la propria esistenza concreta, il pensare astratto al pensiero di qualcosa in particolare. Seppur in una sostanziale continuita`, questo flusso di pensieri che il soggetto e`, conosce una continua «alternanza di voli e di riposi». James spiega meglio il carattere insieme dinamico ma al contempo privo di soluzioni di continuita` del flusso di pensiero, dicendo che «i punti di riposo sono ordinariamente occupati da immagini sensoriali, che hanno 3

W. James, Saggi pragmatisti, Lanciano, Carabba, 1910, p. 11-13.

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la particolarita` di restar vive per essere contemplate dalla mente durante un tempo indefinito, senza mutarsi; i punti che corrispondono ai voli invece sono occupati da pensieri di relazioni, statiche o dinamiche, che si formano per la maggior parte tra i fatti considerati nei periodi di relativo riposo. Chiamiamo punti di riposo le “parti sostantive” e punti di volo le “parti transitive” della corrente del pensiero.»4 Insomma, le parti di riposo sono gli aspetti sedimentati dei nostri comportamenti, sedimenti formatisi attraverso la ripetizione abitudinaria e provata nell’esperienza di azioni giudicate utili, che tuttavia vanno sempre rimessi alla prova, poiche´ le situazioni in cui questi pensieri vengono applicati non si presentano mai con le stesse caratteristiche. Questa struttura mentale che appartiene al singolo individuo e` legittimo e doveroso riproporla quando l’analisi si rivolge alla struttura generale della realta`. Anch’essa, secondo James, e` un continuum in cui si alternano elementi di individualita` e connessioni tra le azioni dei singoli e le abitudini sociali, che possono essere di tipo prevedibile e razionale, come le tradizioni e la storia (quindi il legame con situazioni passate e future) oppure di tipo imprevedibile, come gli eventi casuali. Vanno infine espresse ancora due importanti considerazioni circa la struttura del pensiero di James. La prima e` che lo statuto delle credenze in James e` lo stesso che in Peirce, nel senso che la verificabilita` delle credenze e la loro trasformazione in abitudini avviene esclusivamente a patto che esse ‘funzionino’, cioe` per il fatto che nella maggior parte dei casi in cui esse siano state messe alla prova l’esito sia stato positivo (=funzionale). Quindi sottolineiamo il carattere dinamico e convenzionale della struttura di queste credenze, carattere che ne permette sia un alto grado di rassicurazione contro l’insecuritas esistenziale, sia una notevole possibilita` di cambiamento e riadattamento nelle diverse situazioni. La seconda e` che, probabilmente influenzato da una visione ‘affermativa’ dell’agire umano, James ritiene che attraverso il flusso di pensiero, cioe` attraverso questo movimento incessante di stratificazione di esperienze e di successivi slanci esplorativi verso l’ignoto, l’uomo riesca effettivamente a migliorare continuamente la sua situazione esistenziale e conoscitiva. Ma, naturalmente, dobbiamo qui avvertire che non si tratta piu` di una metafisica neopositivista basata su paradigmi di necessita`, bensı` di una convinzione basata sull’intima fede nella forza della volonta` umana.

4

W. James, Principi di Psicologia, Societa` Editrice Libraria, Milano 1901, vol. I, p. 193.

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Lo strumentalismo di John Dewey All’interno della corrente pragmatista americana si colloca John Dewey*, filosofo americano che declina in modo particolare il paradigma di Peirce e James, dando origine ad un pensiero originale definito ‘strumentalismo’. Ma Dewey non coltiva questo approccio sin dall’inizio del suo percorso filosofico: egli infatti attraversa una cosiddetta ‘fase hegeliana’ in cui il tentativo da lui svolto e` quello di leggere la filosofia di Hegel come complemento ad un pensiero materialistico e persino darwiniano. Tuttavia, questa fase hegeliana dura poco e gia` nel 1903, con Studies in Logical Theory, egli si avvicina, dopo la lettura dell’opera di James, alla edificazione di una psicologia sperimentale basata su un approccio sostanzialmente unitario che superi l’ormai obsoleto schema stimolo-risposta, per considerare i comportamenti umani come un continuum, alla stessa maniera della psicologia di matrice pragmatista. Tuttavia, quest’idea di continuita`, che non appartiene ai fatti umani in continua trasformazione, viene ricostruita ‘idealmente’ per conferire una struttura armonica alla nostra esperienza. Ma ben presto l’interesse per la psicologia raggiunge un afflato di natura pedagogica ed addirittura politica. Gia` in Il mio credo pedagogico (1897) Dewey conferiva all’attivita` pedagogica un ruolo fondamentale nell’educazione degli esseri umani, concetto ribadito nel 1908 in School and Society, opera in cui egli mette in relazione i processi di interiorizzazione delle istanze libertarie e partecipative tipiche delle societa` democratiche con l’effettualita` degli spazi di democrazia partecipata realmente disponibili, in una dura critica della societa` americana degli inizi del XX secolo. Anche in Etica (1908) Dewey insiste su questo aspetto politico del suo cosiddetto ‘attivismo pedagogico’, sottolineando come la reale crescita dei cittadini di una democrazia passi attraverso una sostanziale e non formale messa a disposizione di idonee pratiche politiche. Ma a che proposito si parla di uno ‘strumentalismo’ del pensiero di John Dewey? In Come pensiamo (1910) egli chiarisce che cosa intenda per strumentalismo. Il presupposto e` che sia l’ambito logico che quello psicologico abbiano, o debbano avere, un riscontro nella realta` effettuale. L’impor* John Dewey nacque a Burlington, nel 1859, e studio` alla John Hopkins University, dove ebbe una formazione di tipo neohegeliano. In seguito anch’egli aderı` al pragmatismo di Peirce e di James e fu influenzato dalle dottrine dell’evoluzionismo darwiniano. Studio` anche presso l’universita` del Michigan, dove si specializzo` in Psicologia. Dal 1894 al 1904 insegno` all’universita` di Chicago dove comincio` ad interessarsi intensamente di pedagogia. Dal 1904 al 1929 insegno` alla Columbia University di New York, dove morı` nel 1952.

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IL PRAGMATISMO

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tanza del pensiero sta nel suo farsi azione e l’importanza di quest’ultima si gioca sulla sua capacita` di perseguire i fini etici di cui abbiamo parlato sopra. «Le cose acquistano un significato quando sono usate come mezzi per condurre a delle conseguenze [...] oppure come indicazioni delle conseguenze per le quali dobbiamo ancora scoprire i mezzi.»5 Insomma, il pragmatismo strumentalista di Dewey mira ad eliminare qualsiasi distinzione tra le attivita` del pensiero e le pratiche reali, raggiungendo cosı` il duplice fine di riportare l’attivita` teorica alle conseguenze pratiche delle sue scoperte e di ricollegare le scoperte scientifiche alla responsabilita` civile e politica dello scienziato. Torna qui la natura sociale e pubblica del pragmatismo, nella sua forma piu` ‘pedagogica’, cioe` come attivita` che serva in concreto ad aprire nuove possibili prospettive per l’uomo. L’orizzonte etico-politico della filosofia di Dewey viene ulteriormente evidenziato in Ricostruzione filosofica (1920), opera in cui egli sottolinea il compito della filosofia, che e` quello di concorrere al miglioramento della condizione umana (inteso come aumento della felicita` dell’uomo) attraverso l’uso corretto della razionalita`, anch’essa dunque un mezzo per raggiungere fini di tipo etico. Ma la dinamica delle cose del mondo avviene anche qui secondo il movimento di alternanza tra la formulazione di ipotesi teoriche e la loro verifica esperienziale, tra la sedimentazione delle conoscenze pubbliche e la progettualita` creativa e infine, sul terreno politico, tra la liberta` individuale e le esigenze della comunita`. Altro aspetto in cui il paradigma pragmatista incide sulla filosofia di Dewey e` quello della centralita` del concetto di ‘abitudine’ sia per la vita psichica individuale che per la formazione delle regole sociali. In Natura e condotta dell’uomo (1920), le abitudini non sono che movimenti adattivi che i singoli individui pongono in essere per rispondere alle credenze strutturate della comunita` in cui vivono. E` importante tuttavia osservare che queste regole non sono imposte dall’esterno, ma provengono dall’interno, cioe` sono il frutto di un lavorio pedagogico ed esperienziale che tende a permettere il massimo possibile di relazione tra l’individuo e l’ambiente circostante. Questa interazione deve essere improntata all’ottenimento di un sempre maggiore allargamento delle possibilita` sociali ed individuali, intese come bagaglio esperienziale, gnoseologico, ma soprattutto come allargamento delle liberta` e dei diritti degli individui. Nella sua ultima grande opera, Logica, teoria dell’indagine (1928), anche Dewey si occupa del problema dell’insecuritas, sostenendo che la cono5

J, Dewey, Come pensiamo, Firenze, La Nuova Italia, 1961, p. 227.

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scenza non puo` essere concepita in modo ‘consolatorio’ come qualcosa di immutabile e, dunque, rassicurante, e arrivando anzi a sostenere che persino la logica, nella sua formale astrazione, e` una disciplina che appartiene in modo inalterabile alla realta` dinamica e concreta. Solo se viene cosı` ‘strumentalmente’ concepita, come mezzo cioe` di indagine della realta`, essa diventa azione tra le azioni, indagine che non rinvia a concetti nascosti o esterni alla natura, ma che reinventa la realta` al pari dell’arte.

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La filosofia analitica Se vogliamo andare alla radice della filosofia analitica del Novecento, scopriremo che essa non e` facilmente determinabile come filosofia angloamericana tout court. La provenienza mitteleuropea delle prime esplorazioni nel territorio di questa scuola filosofica annoverano tra le sue fila pensatori, soprattutto austriaci, tutt’altro che anglofoni come Brentano, Frege, Wittgenstein e i neopositivisti e persino Husserl e dunque, come dice M. Dummett, alla luce del contesto storico e geografico in cui la filosofia analitica nacque «essa potrebbe chiamarsi altrettanto bene “anglo-austriaca” come “anglo-americana”.»6 Resta il fatto che, naturalmente, la sua fase matura e compiuta questa scuola l’ha avuta in ambiente anglosassone, anche grazie, come sottolinea ancora Dummett, alle particolari circostanze storiche in cui essa si e` diffusa: la diaspora di filosofi tedeschi ed austriaci all’indomani dell’affermazione del nazi-fascismo in Europa ha oggettivamente posto le basi per un’esportazione verso USA e Gran Bretagna di questo modo di pensare. Ma, altrettanto naturalmente, va detto che l’impostazione culturale di questi due paesi era straordinariamente adatta a fungere da habitat perfetto per un ricollocamento della riflessione analitica. I maestri europei appena nominati hanno svolto, in ogni caso, una funzione di grande importanza nella nascita di questo particolare movimento filosofico che, sulla scorta delle esperienze neopositiviste, avra` come compito peculiare quello di reagire all’idealismo di F.H. Bradley (soprattutto nel suo saggio del 1893, Appearence and Reality) e di McTaggart da un lato ed al positivismo associazionistico di John S. Mills dall’altro, in perfetta sintonia con il pragmatismo che si andava sviluppando oltreoceano. Proveremo ora a riassumere gli aspetti principali di questa scuola filosofica che vide come principali referenti John Austin e Gorge E. Moore. 6

M. Dummett, Alle origini della filosofia analitica, Bologna, Il Mulino 1990, p. 7.

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In primo luogo va ricordata l’assoluta contrarieta` ad ogni impostazione metafisica, sia a quella neo-idealista, sia a quella implicita di tipo scientista celata soprattutto dalle impostazioni psicologistiche che andavano per la maggiore nei primi decenni del XX secolo in ambiente anglo-sassone. Una reazione forte espressa, ad esempio da Moore nei Principia Ethica (1903, tr. it. Milano 1964), attraverso l’argomento della cosiddetta naturalistic fallacy, cioe` della fallacia naturalistica, ovvero quell’errore che fa confondere i propri presupposti assiomatici con altrettante prescrizioni ‘naturali’. Attraverso questa tecnica (usata in maniera conscia o inconscia) si confonde il piano etico (ad esempio per quel che concerne i giudizi che implicano l’uso dell’operatore buono) con quello naturale o addirittura metafisico. Il primo punto importante e` relativo all’essenza stessa del lavoro filosofico. Per Moore, come per tutti i filosofi che sposano questa impostazione analitica da Ayer fino ai piu` recenti Hare o Toulmin, la filosofia non puo` e non deve essere confusa con l’espressione di opinioni di tipo morale sul mondo. Essa deve al contrario interpretare un ruolo di osservazione critica e di chiarificazione del mondo e dei fatti che in esso si verificano, senza entrare nel merito di un giudizio morale che generi oltretutto precetti e categorie fondative. L’elemento del lavoro filosofico come attivita` descrittiva del mondo sara` un concetto cardine in un filone molto frequentato soprattutto dalla filosofia successiva alla seconda guerra mondiale in tutta Europa. Il secondo punto e` un’attenzione molto forte verso i fenomeni linguistici e la loro analisi. Il linguaggio viene per lo piu` interpretato come l’elemento di espressione dell’umano piu` adatto a compiere un tipo di lavoro filosofico come quello sopra indicato. In effetti, il linguaggio era, soprattutto per Austin, in primis il mezzo ideale per smascherare certe prassi su cui i soggetti non esercitano piu` alcun controllo critico: l’analisi linguistica rivela, attraverso la ricostruzione semantica e l’analisi funzionalista, i meccanismi attraverso i quali rappresentazioni problematiche si traducono in protocolli di comportamento ritenuti certi. In secondo luogo il linguaggio rappresenta un’ancora che ci riporta sempre “verso le cose stesse”, consentendoci di fuggire da ogni tentativo (anche inconsapevole) di astrazione dalla realta`: il linguaggio appartiene in modo autoevidente esso stesso alla realta`. Il terzo, ma fondamentale punto e` quello dell’analisi del senso comune. La teorizzazione del senso comune come luogo privilegiato di osservazione filosofica viene prodotta in modo compiuto da Moore nel suo scritto Apologia del senso comune, del 1925 ma venne gia` annunciata nelle lezioni del 1910-11 al Morley College a Londra. Il cuore dell’argomentazione e` che nella prassi quotidiana i soggetti si comportano in base a dettami che

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provengono dal senso comune e che vengono ritenuti oggettivamente veri (e per questo lo sono). E` d’altra parte impossibile e dunque inutile sottoporre a prova analitica la verita` di questo pacchetto certo di truismi: questo compito e` al di la` della portata persino della filosofia. E` per questo che Moore si limita a descriverli ‘tassonomicamente’ in apertura dei suoi scritti dedicati all’argomento, tracciando inoltre una profonda differenza tra i principi di senso comune, che delimitano un quadro generale di certezze, ed i principi scientifici, che si occupano di scendere in dettaglio nell’analisi delle leggi che governano la realta` . La cifra stilistica con cui questi principi filosofici vengono enunciati e` adeguata ad essi, poiche´ basa le proprie affermazioni soprattutto su esempi concreti tratti dalla realta` quotidiana. Questo atteggiamento, soprattutto della filosofia inglese del secolo scorso, ha come esito immediato la mancanza di una filosofia politica propriamente detta. Piuttosto «il contributo della filosofia inglese piu` recente [...] e` stato offerto principalmente allo studio della morale come, diciamo, concetto antropologico; il problema, cioe`, di come si possano distinguere i principi morali da altre regole e istituzioni nella societa`, e problemi simili. In parte questo rilievo e` stato condizionato da una credenza teorica relativa alla moralita` filosofica: la cosiddetta distinzione tra fatto e valore.»7

Il neo-contrattualismo di John Rawls L’esito piu` moderno dell’approccio pragmatistico si puo` identificare nell’atteggiamento filosofico di tipo utilitaristico, che nasce con J. Bentham (An Introduction to the Principles of Morals and Legislation) e si attua in tempi recenti nel tentativo teorico sistematico di J.C. Harsanyi (L’utilitarismo, Il Saggiatore, Milano 1984) e di altri teorici importanti come Hare, Griffin, Singer, Williams. Questa teoria enfatizza in modo totalizzante un’impostazione di tipo razionalista, su cui basa il fondamento del proprio sistema di pensiero, in cui un comportamento giusto e` un comportamento che, basandosi su una scelta di tipo razionale, cerca di massimizzare l’utile e di minimizzare il disutile. L’utile del singolo individuo diventa anche un parametro di tipo collettivo, partendo dal presupposto che la “felicita` pubblica” altro non e` se non la somma delle “felicita` individuali’’ dei singoli 7

B. Williams, A. Montefiore (a cura di), Filosofia Analitica inglese, Roma, Lerici, 1967, p.

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componenti di una comunita` data e dunque la sfera dell’etica non e` altro che l’estensione filosofica dei presupposti che stanno alla radice di quell’impostazione che viene chiamata teoria del comportamento razionale. Di contro a questo filone utilitaristico e post-pragmatista americano si colloca un autore come John Rawls*, che, nella sua Teoria della giustizia (Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1982), opera un gigantesco tentativo di restituire all’etica il proprio fondamento, cioe` di tornare a basare il giudizio etico su un presupposto valoriale, opposto quindi al calcolo razionale. In particolare, l’approccio etico, per Rawls, consiste nel porre vincoli equitativi al libero gioco di quel calcolo degli interessi che starebbe, secondo gli utilitaristi, a fondamento di quel gigantesco mercato della contrattazione collettiva che e` la societa` moderna. Come osserva S. Veca, i principi individuabili di una teoria della giustizia come equita` possono in sostanza ridursi a due, il principio di liberta` e il principio di differenza. Quanto al primo diremo che esso viene tratto dall’utilitarismo, ovvero ne costituisce la base, nel senso che l’idea che ciascuno abbia diritto al massimo possibile di liberta` compatibile con quella altrui e` un pilastro sia del liberalismo che, piu` in generale, delle liberaldemocrazie occidentali. Piu` controverso risulta il secondo punto, apertamente in contrasto con il rigido egualitarismo utilitarista, che postula il non intervento dello stato proprio in virtu` di una salvaguardia del principio secondo cui a ciascuno deve esser dato (o non esser dato) in egual misura. Rawls sostiene, al contrario, che a una teoria che si ponga effettivamente il problema della giustizia sociale non puo` sfuggire il fatto che la realizzazione sostanziale del principio di eguaglianza non puo` che coincidere con un’azione pubblica che renda effettivamente uguali i cittadini attraverso il riequilibrio (per quanto possibile) di situazioni di partenza che sono invariabilmente sperequate. Ma, di piu`, Rawls ritiene, ancora in aperto contrasto con le teorie utilitariste, che i due principi suddetti siano assolutamente compatibili sotto il comune denominatore dell’equita`, principio che consente di intervenire in modo efficace su situazioni di svantaggio sociale di singoli gruppi o intere classi di persone. Altro piano di aperto contrasto con le posizioni utilitariste e` quello del principio di impersonalita` dei diritti, * John Rawls e` nato a Baltimora nel 1921, ed ha studiato alla Cornell University e a Oxford. Ottenuta la cattedra nella prestigiosa Universita` di Harvard, Rawls ha studiato i temi della filosofia politica cercando di individuare un pensiero che coniughi l’equita` e la giustizia sociale al liberalismo. I suoi scritti principali sono: “Una teoria della giustizia” (1971) e “Liberalismo politico” (1993).

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secondo il quale l’interesse privato non e` un valido metro di giudizio rispetto alla tutela di beni di natura pubblica, che, al contrario, richiedono un atteggiamento di ‘neutralita` ’ circa il singolo soggetto e di massima valorizzazione dell’elemento impersonale (erga omnes) che la natura stessa della legge comanda. Il contrattualismo equitativo di Rawls si basa, dunque, sull’enfatizzazione delle differenze tra i soggetti, pur nella sostanziale impersonalita` dei principi regolativi della societa` nel suo complesso. Il problema, in societa` cosı` complesse come sono quelle occidentali e` quello di identificare un pacchetto di valori condivisi che siano stabili e condivisi nel tempo. Per ottemperare a questa esigenza Rawls, in Liberalismo politico (Ed. di Comunita`, Milano 1994), opera una torsione della sua teoria in senso costituzionalistico, identificando nei valori sanciti dalla Costituzione dello stato quel minimo di base identitaria comune che garantisce la durata delle societa` moderne.

La filosofia dopo la filosofia: il neo-pragmatismo di Richard Rorty Sulla scorta dei tentativi ‘de-costruzionisti’ di filosofi come Willard van Orman Quine e Donald Davidson nasce il tentativo di risposta filosofica alla post-modernita` operato da Richard Rorty*. Il suo progetto neopragmatista si richiama esplicitamente, oltre ai due autori gia` citati, alla scuola pragmatista storica per fissare alcune caratteristiche che una nuova filosofia pragmatica dovrebbe avere. In La filosofia e lo specchio della natura del 1967 egli sostiene che bisogna abbandonare l’attitudine fondazionista in filosofia, cioe` i filosofi debbono smettere di edificare sistemi teorici onnicomprensivi e dedicarsi piuttosto a sviluppare una pragmatica filosofica che parta da un’analisi dettagliata dei fenomeni reali e consista di descrizioni di questi fenomeni che non soggiacciano alla logica del giudizio morale e neanche a quella della pretesa scientificita` (Russell, Frege) o del rigore * Richard Rorty e` nato a New York nel 1931. Dopo aver insegnato filosofia a Princeton, si trasferı` al Dipartimento di discipline letterarie dell’Universita` della Virginia. Nel periodo che lo ha visto viaggiare tra Chicago e Yale, Rorty approda ad una prospettiva radicalmente neo-pragmatista e post-filosofica, e studia sia Heidegger, che Nietzsche, che le piu` moderne tendenze della filosofia europea. Di recente ha accentuato i suoi interessi letterari, arrivando ad una concezione di pensiero filosofico allargata fino a comprendere anche la letteratura e la poesia.

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(Husserl). Questo progetto viene ulteriormente arricchito attraverso un saggio del 1982, Conseguenze del pragmatismo, in cui Rorty enfatizza tre condizioni essenziali per fare filosofia nella contemporaneita` , vale a dire l’antiessenzialismo, l’empirismo di marca pragmatista e l’annullamento della separazione tra realta` e idee (cosı` come tra fatti e valori). Ma e` solo nell’opera del 1989 La filosofia dopo la filosofia. Contingenza, Ironia e Solidarieta`, che il pensiero rortyano addiviene a categorie piu` positive ed utili. L’impianto anti-sistemico della sua filosofia e` pienamente rappresentato nell’epiteto di ironico attribuito ad un soggetto «che guarda a viso aperto la contingenza delle sue credenze e dei suoi desideri piu` fondamentali, uno che e` storicista e nominalista quanto basta per aver abbandonato l’idea che tali credenze e desideri rimandino a qualcosa che sfugge al tempo e al caso.»8 Attraverso questa posizione ‘liberal-ironica’ ed attraverso l’esaltazione dell’opera narrativa rispetto alla teorizzazione filosofica, Rorty perviene ad un progressivo abbandono alla contingenza che non offre piu` alcun appiglio alla maturazione di una qualsiasi forma di responsabilita` politica. La richiesta di una netta separazione tra sfera pubblica e privata impone, del resto, al filosofo un’ambiguita` sostanziale che ne disarticola in radice qualsiasi aspirazione di riunificazione teorico-pratica della propria soggettivita`.

8 R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia. Contingenza, Ironia e Solidarieta`, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 4-5.

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LIBERALISMO E NUOVA SCIENZA POLITICA

Liberalismo ed ‘ordine spontaneo’ in F. von Hayek Il tentativo di Hayek* di rifondare il liberalismo classico per superare gli angusti limiti da cui non riusciva a venir fuori si rivolge inizialmente alla confutazione di qualsiasi teoria politica che tolga valore all’azione spontanea dei singoli individui, sia essa totalitaria, sia essa segnata da un concetto di democrazia sociale tendente all’instaurazione di una, per dirla con Tocqueville, ‘tirannide della maggioranza’. E` stato affermato da Raimondo Cubeddu, uno dei piu` attenti studiosi europei non solo di Hayek ma anche della cosiddetta “scuola austriaca”, che comprende anche Carl Menger e Ludwig von Mises, che il modello dell’economista e filosofo viennese e` tipicamente nomocratico1, cioe` basato su un principio di legge inteso come tradizione giurisprudenziale del diritto, caratteristico della common law anglosassone, antitetico rispetto al modello teleocratico, che vede al contrario il primato indiscusso dell’azione sovrana nella gestione dei fenomeni politici e sociali. Il primato della giurisprudenza si differenzia da quello

* Friedrich August von Hayek e` nato a Vienna nel 1899 dove ottenne il dottorato nel 1923. Comincio` a frequentare i seminari privati di von Mises, occasione in cui conobbe studiosi importanti come Felix Kaufmann, Alfred Schu¨tz, Eric Voegelin, Karl Menger ed entrando a far parte di quella ‘scuola austriaca’ di economisti e filosofi liberali da cui si stacchera` nel 1931 per insegnare Economia e Statistica alla London School of Economics and Political Science di Londra, dove rimase fino al 1950. In questa data si trasferı` all’Universita` di Chicago, che lascera`, per tornare a Friburgo, nel 1961. Nel 1974 ottenne il premio Nobel per l’Economia, onorificenza che ne decreto` un successo sul piano mondiale. Morı` nel 1992 a Friburgo. 1 R. Cubeddu, Hayek e il costituzionalismo liberale, in S. Ma stellone (a cura di), Il pensiero politico europeo (1945-1989), Firenze, Centro Editoriale Toscano, 2001, p. 62.

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DALLA FINE DELLA II GUERRA MONDIALE ALLA CADUTA DEL MURO DI BERLINO

della legislazione, di cui e` rappresentante primo Hans Kelsen, per la sua origine non tanto rivolta alla gestione normativa dei rapporti sociali, quanto interpretata come limite all’attivita` politica del sovrano. Questo accade perche´ il modello nomocratico non nasce da presupposti etici o ideologici trasformati in azione normativa per ottenere effetti precisi e prevedibili, bensı` proprio dalla riflessione contraria secondo cui la necessita` delle norme deriva dall’estrema ed imprevedibile complessita` dei rapporti sociali. Il liberalismo di Hayek possiamo dire che sia, dal punto di vista strettamente teoretico, la negazione di un razionalismo positivista ed ingenuo e lavori anzi sul versante dei suoi limiti. «Sebbene l’uso dell’astrazione estenda l’ambito dei fenomeni che possiamo padroneggiare intellettualmente, questo avviene limitando la misura in cui possiamo prevedere gli effetti delle nostre azioni, e pertanto foggiare il mondo a nostro piacimento.»2 La limitatezza delle possibilita` razionali di prevedere il mondo trova una sua applicazione evidente nell’Hayek economista. L’impostazione che egli da` alla questione della gestione delle risorse in una societa` data, pone come premessa proprio l’imprevedibilita` delle azioni umane, in linea con quella teoria dei valori soggettivi maturata tra i marginalisti austriaci. Questo dato iniziale, che contesta la possibilita` di stabilire connessioni razionali sufficienti a programmare la distribuzione delle risorse nelle societa` moderne (propria del costruttivismo razionalista), e` interamente teso a contestare tutte le teorie economiche basate sulla pianificazione, da quella keynesiana, all’economia pianificata sovietica. L’equilibrio e la stabilita` sociale non deriva, per Hayek, dalla capacita` dello Stato di dirigere ed orientare le azioni dei cittadini verso obiettivi collettivi predeterminati, bensı` da una sorta di ordine spontaneo (che ricorda la teoria della ‘mano invisibile’ degli economisti classici) che mette in relazione tra loro gli imperscrutabili fini dei singoli attori sociali. Il modello organicistico della societa` e` apertamente rifiutato da Hayek in quanto prelude all’instaurazione di un’autocrazia. «Il modo di interpretare la societa` come un organismo e` stato costantemente utilizzato a sostegno di concezioni gerarchiche e autoritarie per le quali la piu` generale concezione dell’ordine spontaneo non offre alcun appoggio.»3 Il cuore dell’argomentazione di Hayek tanto sul versante politico, quanto su quello economico, e` costituito dal concetto di catallassi, che e` un «sistema di scambio e di trasmissione di informazioni tramite prezzi che consente agli individui di avanzare previsioni attendibili 2 3

F.A. von Hayek, Legge, legislazione e liberta`, Milano, Il Saggiatore, 1986, p. 45. Ivi, p. 69.

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LIBERALISMO E NUOVA SCIENZA POLITICA

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sulla realizzabilita` delle aspettative individuali indipendentemente dal potere politico.»4 Insomma, e` il principio regolatore di un mercato liberista moderno, basato su una mobilita` ordinata spontaneamente, capace di garantire ai singoli attori il perseguimento dei propri molteplici fini individuali. D’altro canto senza questo principio basilare sarebbe facile applicare alla teoria di Hayek l’etichetta di teoria ‘conservatrice’, come si potrebbe essere legittimati a fare alla luce del suo successo presso le e´lites conservatrici degli Stati Uniti (in epoca reaganiana) e della Gran Bretagna (in epoca thatcheriana) e all’indomani del conferimento del premio Nobel per l’Economia, avvenuto nel 19745. L’aspetto che risulta piu` difficile da accettare nella teoria di Hayek e` quello relativo ad un certo carattere ‘evoluzionista’ della societa` liberale da lui immaginata. Questo vuol dire che l’idea della disuguaglianza tra cittadini non solo e` data per accettata, ma risulta essere parte integrante di quell’ordine spontaneo cui abbiamo accennato. Non v’e` dunque da invocare alcuna presunta “giustizia sociale”, perche´ l’idea che si possa eliminare la disuguaglianza attraverso un’azione pianificatrice posta in essere dallo stato, riporta la societa` verso la prospettiva autoritaria che si voleva superare. «Il continuo uso del termine giustizia sociale non soltanto e` disonesto e fonte di costante confusione politica, ma rovina il senso morale»6 dice Hayek, ed aggiunge che «la preoccupazione della giustizia sociale e` diventata uno dei massimi ostacoli alla eliminazione della poverta`.»7 Il problema deriva dal fatto che, per Hayek, le presunte ingiustizie del mercato sarebbero tali se si riuscisse ad imputarle a qualcuno, cioe` se si potesse provare che la colpa della disuguaglianza della distribuzione delle risorse fosse di un singolo individuo o di un gruppo. Ma non e` cosı`, perche´ le quote di mercato assegnate a ciascuno sono il frutto di un processo non voluto e non previsto ne´ prevedibile da nessuno. «Pretendere giustizia da un tale processo e` assurdo, e scegliere alcune persone di tale societa` come aventi diritto ad una quota determinata e` evidentemente ingiusto.»8

4

R. Cubeddu, von Hayek, in R. Esposito, C. Galli (a cura di), Enciclopedia del pensiero politico, Bari, Laterza, 2000, p. 308. 5 Per una confutazione del carattere conservatore della teoria di Hayek si veda ancora R. Cubeddu, Il liberalismo della Scuola Austriaca. Menger, Mises, Hayek, Morano, Napoli, 1992, pp. 524 sgg. 6 F.A. von Hayek, Legge, legislazione e liberta`, p. 303. 7 Ivi, p. 350. 8 Ivi, p. 307.

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Il razionalismo critico di Karl Popper Nel quadro della critica novecentesca al totalitarismo di stampo sostanzialmente liberale, il primo degli autori importanti e` Karl Popper.* Questo filosofo austriaco e` rilevante sia sotto il profilo epistemologico, sia sotto quello politico. In verita` i due aspetti sono intimamente connessi, ma la maggior parte della sua fama si concentra su questo secondo aspetto ed in particolare su una sorta di religione della liberta` fondata razionalisticamente e su un’ingegneria sociale i cui cardini sono il concetto di societa` aperta e quello di democrazia. In realta`, sebbene egli sia annoverato tra i maggiori teorici del liberalismo, il suo itinerario intellettuale lo avvicina inizialmente al socialismo. Egli stesso in un’intervista degli anni Settanta sostiene di essere stato socialista (anche se solo sotto il profilo etico e non strettamente politico) almeno fino all’eta` di trent’anni.9 In effetti, da una parte la crescente consapevolezza degli intellettuali europei circa il regime dispotico staliniano, in aperto contrasto con la sua idea della liberta` come guida teorica, dall’altra il rifiuto di pratiche politiche che comprendessero l’uso della violenza, lo pongono in antitesi rispetto al progetto politico della sinistra europea. Ma, di pari passo, cresce in lui l’odio verso i regimi totalitari soprattutto attraverso l’esperienza dei regimi autoritari e filo-nazisti che governarono l’Austria sin dalla meta` degli anni Trenta. Questa impostazione verra` rafforzata attraverso il diretto contatto con il ben diverso clima intellettuale e politico che si respirava nei paesi anglosassoni, prima con il viaggio in Inghilterra del 1935-36 e poi con il definitivo e dolorosamente necessario (a causa delle sue origini ebraiche) trasferimento in Nuova Zelanda, dove ebbe occasione di insegnare fino alla fine della guerra. Sara` proprio dall’elaborazione congiunta delle teorie liberali e del proprio vissuto che nasceranno, tra il

* Karl Popper, nato nel 1902 a Vienna da genitori ebrei assimilati, si laurea in Filosofia nel 1928. Dopo un breve periodo di adesione alle idee socialiste entra in rapporto con alcuni esponenti del Circolo di Vienna. Popper pubblica nel 1934 Logica della scoperta scientifica, che viene accolto con favore da Carnap e Hempel. Nel 1937, poco prima dell’Anschluss, Popper emigra in Nuova Zelanda, dove gli e` offerta una cattedra. Durante la guerra pubblica i saggi Che cos’e` la dialettica? (1940), Miseria dello storicismo (1944-45) e soprattutto La societa` aperta e i suoi nemici (1945), che suscita una vasta eco. Nel 1946 si trasferisce in Inghilterra per insegnare alla London School of Economics, e nel 1950 si reca negli Stati Uniti a Harvard. Muore nel 1996. 9 K. Popper, Una conversazione con Karl Popper, in «Biblioteca della liberta`», IX, n. 39, 1972, pp. 51-62.

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1935 ed il 1945 i due libri piu` importanti dal punto di vista politico, Miseria dello Storicismo e La societa` aperta e i suoi nemici. Il punto di partenza di Popper si colloca, sotto il profilo metodologico, su un versante razionalista. In effetti il filosofo cui piu` egli ammette di essere debitore e` Kant, il cui criticismo risulta metodologicamente importante per l’elaborazione anche epistemologica popperiana ed il cui apporto legato al manifesto sulla Pace perpetua condizionera` il suo progetto politico convintamente non violento. Tuttavia egli prende le mosse da una riflessione tipicamente antropologica, nel momento in cui dichiara che cio` da cui gli uomini muovono, in termini di elaborazione scientifica ma anche di aggregazione politica e` «l’immensamente potente bisogno di regolarita` – il bisogno che li spinge a cercare regolarita`; che li induce talvolta a sperimentare regolarita` anche dove non ce ne sono; che li fa aderire dogmaticamente alle loro aspettative; e che li rende infelici e puo` portarli alla disperazione e al limite della follia se certe regolarita` assunte vengono a cadere.»10 Come si vede, se da un lato la necessita` di ordinare il caos e` un fattore positivo ed aggregante, dall’altra il timore di Popper e` che queste regolarita` si trasformino, come direbbe Weber, in una ‘gabbia d’acciaio’, inducendo passivita` , conformismo e staticita`, tutti atteggiamenti contrari a quello spirito critico che e` la base del razionalismo popperiano. Non che Popper si dica anarchicamente convinto dell’essenza negativa del concetto di ordine, dal momento che il venir meno subitaneo di istituzioni sociali stabili e` da lui paventato. Tuttavia, si ha la sensazione che se sul piano epistemologico i soggetti consapevoli devono seguire una rigorosa linea di analisi critica, quando il discorso arriva al livello di comportamenti sociali diffusi, specialmente nelle moderne societa` di massa, il valore delle regole e della tradizione assume un peso ben diverso e, tutto sommato, il rischio di una chiusura sociale deve controbilanciare quello del caos politico. Veniamo dunque al concetto forse piu` noto della filosofia di Popper, quello della coppia concettuale societa` chiusa/societa` aperta. L’opera intitolata proprio La societa` aperta e i suoi nemici consta di due volumi che delineano entrambi due soluzioni politiche storiche che conducono inevitabilmente alla societa` chiusa, vista da Popper come il termine negativo. Nel primo volume l’intento complessivamente polemico e` costituito dalla confutazione della filosofia platonica, rea di aver tradito gli insegnamenti della scuola ionica, nata intorno al VII secolo a.C., il cui punto d’arrivo e` da 10 K. Popper, Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica, Bologna, Il Mulino, 1972, p. 45.

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considerarsi Socrate, il quale conduce la capacita` critica della filosofia greca ai suoi massimi livelli. Da Platone in poi la societa` ateniese costruira` un nuovo esempio di societa` chiusa, in cui cioe` sono banditi «il libero pensiero, la critica delle istituzioni politiche, l’insegnamento di nuove idee ai giovani, i tentativi di introdurre nuove pratiche religiose o anche nuove opinioni.»11. Nel secondo volume Popper parla di altri due tipi di societa` chiuse, quello dello stato etico di Hegel e dello stato comunista di Marx. Dopo la straordinaria stagione della Riforma protestante e soprattutto del pensiero di Bacone e Cartesio, che aveva fatto rifiorire la speranza che si potesse arrivare al consolidamento di una societa` aperta, attraverso l’enfasi particolare conferita alla liberta` individuale (anche se ancora molto incompleta), un altro tragico esempio di ritorno al passato e` costituito per Popper dall’hegelismo, da lui definito come il vero «anello mancante tra Platone e la forma moderna del totalitarismo12.» La circostanza peggiore tuttavia sembra a Popper che sia la stretta relazione tra Hegel e l’apparato politico-istituzionale della Germania dell’Ottocento, tanto da arrivare a sostenere che «l’immenso campo di influenza spirituale che e` stato messo a disposizione di Hegel da coloro che erano al potere gli ha consentito di perpetrare la corruzione intellettuale di un’intera generazione.»13 Hegel inaugura e Marx porta a compimento la teoria storicista, teoria che Popper definisce come «una interpretazione del metodo delle scienze sociali che aspira alla previsione storica mediante la scoperta dei “ritmi” o dei “patterns”, delle “leggi”, delle “tendenze” che sottostanno all’evoluzione storica.»14 Popper individua due fondamentali correnti dello storicismo: una, detta degli antinaturalisti, vorrebbe usare un metodo presunto scientifico da adattare alla societa` umana da un punto di vista olistico, cioe` in grado di spiegare qualsiasi circostanza (ad esempio il cosiddetto panlogismo hegeliano). L’altra, detta dei pronaturalisti, tende ad accettare leggi storiche e naturali come profezie della storia, cui la politica e le societa` umane devono tendere ad adattarsi (ad esempio il crollo inevitabile del regime capitalista e le radiose sorti dell’umanita` in Marx). In entrambi i casi quello che Popper vede come negativo e` il rischio fortissimo in entrambi questi atteggiamenti di derive totalitarie: il primo per il tentativo 11

K. Popper, La societa` aperta e i suoi nemici, vol. I, Platone totalitario, Roma, Armando, 1975, p. 271. 12 K. Popper, La societa` aperta e i suoi nemici, vol. II, Hegel e Marx e i falsi profeti, Roma, Armando, 1974, p. 46. 13 Ivi, p. 48. 14 K. Popper, Miseria dello Storicismo, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 18.

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di adattare la societa` a forme utopistiche che si pretendono universali, il secondo perche´ rende privo di senso e di responsabilita` l’agire dei singoli individui, i quali non possono opporsi al destino che la storia riserva loro. Ma se la societa` chiusa e` caratterizzata da una sovrastima dei bisogni biologici elementari, una prevalenza della cultura magica e mitica ed uno schiacciamento dei singoli individui in favore di uno stato colonizzatore dei loro vissuti, come definisce Popper una societa` aperta? Quanto alla parte costruttiva della teoria Popper, ed e` questa una caratteristica di tutta la sua opera che risente troppo della parte polemica e tiene nel vago quella positiva, non ci da` definizioni altrettanto autoevidenti. Sicuramente alla base della societa` aperta c’e` la capacita` dei suoi membri di sottoporre a critica qualsiasi oggetto e da questo si desumono gli altri punti cardine, cioe` la liberta` di pensiero, il valore della tolleranza e quindi del pluralismo ed infine quello del rispetto dell’individuo. Certamente, pur rappresentando l’epoca moderna una tappa fondamentale nel cammino verso una compiuta attuazione dei principi suddetti, Popper non ritiene che le democrazie odierne siano lo specchio fedele di questo desiderio, anche se non ignora i difetti fondamentali di queste societa`, la difficolta` di spezzare definitivamente le vecchie catene, contro cui ingaggiano una lotta che rischia di riportarle continuamente indietro, ma anche il rischio che cambiamenti troppo rapidi spazzino via insieme a cio` che va sottoposto a critica anche quel minimo di fattori tradizionalmente comuni che tengono insieme queste societa`. Tuttavia, per Popper la liberta` dell’individuo non e` solo negativa, ma anche positiva, cioe` e` interpretata come capacita` dei soggetti di autocontrollarsi, cioe` di sottoporre a critica anche il proprio comportamento in vista della propria autorealizzazione. Questo dovrebbe essere il limite che potrebbe contrastare i rischi della democrazia. Ma questa soluzione popperiana si basa sul concetto di razionalismo critico che e` composto da due elementi fondamentali: la condotta razionale (cioe` la volonta` di «risolvere il maggior numero possibile di problemi mediante un appello alla ragione»15) e la ragionevolezza (intesa come «disponibilita` a prestare ascolto ad argomenti critici e ad imparare dall’esperienza»16). Da siffatta idea di condotta razionale e critica nasce anche la base per la tolleranza reciproca e il rifiuto parallelo dei metodi violenti in politica17.

15

K. Popper, La societa` aperta e i suoi nemici, vol. II, Hegel e Marx e i falsi profeti, Roma, Armando, 1974, p. 196. 16 Ibid. 17 Su questo punto, tuttavia, in Congetture e confutazioni, Popper prende positivamente in

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Ma quale deve essere il rapporto tra governanti e governati? Certamente sul fatto che occorrano delle istituzioni democratiche, per Popper, non vi e` dubbio, ma questo puo` non garantire a sufficienza dagli abusi o dalle incompetenze. La teoria della democrazia e` vista da Popper non tanto come partecipazione delle masse al potere, bensı` come un meccanismo tecnico di garanzia delle liberta` dei singoli individui. Questa concezione, che sembra molto versata piu` all’aspetto tecnocratico che a quello squisitamente etico, sfocia politicamente in un’analisi dei meccanismi che consentono l’alternanza tra e´lites di potere e sul piano scientifico nel garantire la partecipazione alle discussioni pubbliche a tutti i soggetti qualificati, producendo una peculiare risposta al tradizionale dilemma riforma/rivoluzione. Per Popper la vera trasformazione razionale che garantisce il mutamento sociale in una societa` aperta senza cadere nei rischi di collasso o di nuova chiusura e` quella che egli chiama l’ingegneria sociale gradualistica, cioe` un metodo che modifica l’esistente, adattandolo alle mutevoli necessita` sociali, attraverso un’alternanza di prova ed errore, aperture ipotetiche e verifiche esperienziali.

Il Totalitarismo e il senso della politica in Hannah Arendt Accanto agli autori liberali la critica al totalitarismo venne portata anche da altri intellettuali ma particolarmente importante e` il contributo di Hannah Arendt* su questo tema specifico. La specificita` del suo contributo deriva in gran parte dai suoi studi con Heidegger ed in seguito con Jaspers, ma soprattutto dal suo essere di origine ebrea. Infatti la Arendt subisce in prima considerazione l’ipotesi di esercitare una «minaccia della contro-violenza» (p. 607) in casi di legittima necessita` , da cui desumiamo che la sua non e` una non violenza assoluta e che accanto alla razionalita` critica e` forse individuabile anche una razionalita` strumentale che in alcuni casi prevale. * Hannah Arendt nasce nel 1906 a Hannover, in una famiglia ebrea. Decide di iscriversi all’Universita` di Marburgo, dove incontra la fenomenologia di Husserl, e comincia un rapporto molto stretto con Martin Heidegger. Tra il 1925 e il 1929 si sposta tra Friburgo e Heidelberg, dove studia con Karl Jaspers. Dopo l’avvento al potere del nazismo la Arendt abbandona la Germania nel 1933 e giunge a Parigi, dove entra in contatto con Walter Benjamin e Alexander Koire´. Internata dal governo Vichy e poi rilasciata, riesce a salpare dal porto di Lisbona alla volta di New York, che raggiunge insieme al marito nel maggio 1941. Ottenuta la cittadinanza americana nel 1951 pubblica Le origini del totalitarismo ma solo dal 1957 ottiene insegnamenti presso le Universita` di Berkeley, Columbia, Princeton e, dal 1967 fino alla morte, avvenuta nel 1975 a causa di un arresto cardiaco, anche alla New School for Social Research di New York.

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persona le persecuzioni razziali naziste e questo trauma segnera` in modo indelebile la sua avventura intellettuale. Il punto di partenza da cui ella muove nell’analisi del fenomeno totalitario e` il tentativo di demolire due luoghi comuni intorno a questo fenomeno. Il primo e` che esso si sia affermato storicamente come un evento irrazionale ed imprevisto, frutto di condizioni del tutto slegate dal continuum storico in cui l’umanita` europea si era mossa fino ad allora. Per la Arendt il totalitarismo (in particolare quello nazi-fascista) nasce nel cuore dell’Europa ed e` figlio della modernita`, nel senso che esso, pur non essendo uno sbocco necessario delle premesse posta dalla civilta` europea del XX secolo, ne costituisce una delle possibilita` organiche. Di qui muove verso la demolizione di un altro luogo comune, cioe` che il totalitarismo nasca come fenomeno conservatore e reazionario, basato su una rivendicazione forte della tradizione politica europea. In realta`, per la Arendt, il totalitarismo si impone come elemento di rottura della tradizione in un momento in cui essa e` in preda ad una crisi profondissima di senso, che portera` sul piano filosofico alla diffusione di un atteggiamento nichilista, sul piano politico alla crisi degli stati nazionali e sul piano sociale alla nascita della societa` di massa. Esaminiamo dunque il fenomeno totalitario attraverso la lente della Arendt secondo lo schema tracciato nel volume Le origini del totalitarismo18. Il primo ordine di considerazioni viene svolto sul terreno dell’attribuzione dei diritti fondamentali e quindi del rapido declinare dello stato di diritto, che si era andato costituendo faticosamente nei primi due decenni del secolo. In primo luogo ella evidenzia la tematica dell’antisemitismo come tema centrale della catastrofe totalitaria. Questo, non solo per il carattere radicalmente ingiusto della discriminazione antisemita, bensı` anche come ‘punto alto’ dell’elaborazione totalitaria, simbolo stesso dei limiti catastrofici di questa esperienza, nella convinzione che «di tutti i grandi problemi politici insoluti proprio la questione ebraica, apparentemente insignificante, abbia avuto il dubbio onore di mettere in moto l’intera macchina infernale di un apparato di potere totalitario.»19 Poiche´ la Arendt evidenzia un legame profondo tra la parabola decadente delle vicende degli stati nazionali europei e l’esplosione dell’antisemitismo, ella ci propone una spiegazione di questo rapporto basato sulla storia delle discriminazioni, ma anche del ruolo sostenuto dalle comunita` ebraiche europee. Questo ruolo era legato ai fabbisogni finanziari degli stati e dei principati, i quali erano 18 19

H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Milano, Comunita` , 1967. Ivi, p. 3.

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soliti concedere privilegi agli ebrei in cambio del loro appoggio economico. Questo fenomeno di concessione della cittadinanza dall’alto, causo` una frattura insanabile tra le comunita` ebraiche ed il resto della societa` civile: lo stato non avrebbe mai potuto permettere che gli ebrei «venissero assimilati da una societa` restia a sostenere la sua attivita` economica o che prendessero la strada dell’impresa capitalistica privata.»20 Questa definizione della propria assimilazione esclusivamente sul terreno del rapporto con la sfera pubblica, rese le comunita` ebraiche odiate dal resto della societa` civile, odio che aumento` quando le istituzioni protettrici vennero meno con l’entrata in crisi degli stati nazionali. A quel punto «l’elemento ebraico, non vincolato ad alcune nazione, tradizionalmente intereuropeo, divenne oggetto di disprezzo universale per la sua palese impotenza.»21 Accanto ai fattori strettamente economici, ve ne furono altri di tipo sociale e psicologico. Il sodalizio tra ebrei e Stati nazionali finı` per aumentare il senso di estraneita` con cui la societa` civile guardava loro proprio a causa del fatto che la stessa societa` civile si distacco` progressivamente anche dallo Stato, al punto che «l’unico gruppo sociale che sembrasse rappresentare lo stato erano gli ebrei.»22 La discussione tra gli intellettuali ebrei dei primi decenni del secolo XX circa il problema dell’assimilazione e della dissimilazione finı` inoltre per avere un peso notevole nella costruzione dello stereotipo dell’ebreo tipico, che finı` per coincidere con la figura dell’intellettuale colto, dotato «di certi attributi psicologici e reazioni, la cui somma si suppose costituisse l’“ebraicita`”. In altre parole, il giudaismo divenne una qualita` psicologica e la questione ebraica un intricato problema individuale.»23 Accanto a questo problema vi era quello della crisi dello stato di diritto, che si concretizzo`, come premessa alle pratiche istituzionali e politiche del totalitarismo, nella deformazione della teoria del fondamento dei diritti individuali. Un tempo fondati su considerazioni inerenti la liberta` dei singoli individui, vennero ben presto interpretati come connessi al rapporto tra individuo e stato fino al punto che il concetto di uomo non si identifico` piu` con il soggetto singolo ma con l’intero corpo politico, il popolo. «La conseguenza pratica di tale contraddizione fu che d’allora in poi i diritti umani vennero garantiti come diritti nazionali.»24 Ma questo concetto di

20 21 22 23 24

Ivi, Ivi, Ivi, Ivi, Ivi,

p. p. p. p. p.

17. 23. 37. 92. 322.

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popolo trova il suo fertile humus nelle trasformazioni che la societa` tradizionale sta subendo con l’avvento della modernita`, in cui il rapporto privilegiato di rappresentazione politica si instaura tra le masse ed il potere. «La trasformazione delle classi in masse e la concomitante eliminazione di ogni solidarieta` di gruppo sono la conditio sine qua non del dominio totale.»25 Ma dire societa` di massa non rivela ancora nulla di specifico circa il particolare tipo di massa che viene dominata nei regimi totalitari europei del XX secolo. Il cosiddetto uomo-massa di quest’ultimo tipo richiede alcuni requisiti per costituirsi come mattone dell’edificio totalitario, il primo dei quali e` la sua indifferenza politica. Questo significa che egli interrompe ogni rapporto non solo con la politica professionale o con la partecipazione politica, bensı` che egli interrompe qualsiasi rapporto di solidarieta` con altri individui o gruppi e si costituisce dunque come un uomo-massa isolato. «La principale caratteristica dell’uomo di massa non era la brutalita` o la rozzezza, ma l’isolamento e la mancanza di normali relazioni sociali.»26 Questo tipo d’uomo viene definito dalla Arendt come filisteo27. Ma accanto alla necessita` di plasmare gli individui-massa, vi era anche la necessita` di dare un’efficacia ad una loro eventuale azione e questo punto era soddisfatto, secondo la Arendt, dal problema dell’organizzazione. Il sistema organizzativo piu` efficace si e` dimostrato quello della propaganda, che riesce a persuadere masse di milioni di persone con i suoi toni profetici e le sue convinzioni monolitiche e rassicuranti nel caos delle societa` europee del Novecento. Si spinge talmente avanti la mistificazione propagandistica dei regimi totalitari che le masse «si lasciano convincere, non dai fatti, neppure dai fatti inventati, ma soltanto dalla compattezza del sistema che promette di abbracciarle come una sua parte.»28 Gli altri elementi di organizzazione di massa sono la struttura gerarchica ‘a cipolla’ (cioe` costituita da strati differenziati per corresponsabilizzazione e funzione), la tendenza genericamente movimentista delle ideologie totalitarie, ma soprattutto i campi di concentramento. Quest’ultimo strumento rappresenta il vertice della trasformazione totalitaria nelle sue apocalittiche conseguenze, cioe` la distruzione fisica di milioni di individui, ma costituiscono anche un 25

Ivi, p. XXI. Ivi, p. 439. 27 Per filisteo la Arendt intende un ‘uomo normale’, mediocre, un padre di famiglia incapace di un giudizio autonomo, ottimamente incarnato dalla figura di Eichmann, protagonista del volume La banalita` del Male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 1964, che costituisce l’idea di una sorta di burocrate del male. 28 Ivi, 485. 26

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enorme esperimento collettivo teso alla realizzazione di alcuni scopi. Innanzitutto «i Lager servono, oltre che a sterminare e a degradare gli uomini, a compiere l’orrendo esperimento di eliminare, in condizioni scientificamente controllate, la spontaneita` stessa come espressione del comportamento umano, e di trasformare l’uomo in un oggetto.»29 Il sistema concentrazionario tende a distruggere la soggettivita`, poiche´ la manipolazione dei corpi non puo` avvenire senza una loro de-umanizzazione preventiva, che si spinge fino al punto, non solo di privarli della propria liberta` fisica e morale e persino della libera disposizione del proprio corpo, ma anche di ‘fare come se essi non fossero mai esistiti’. «Possiamo dire che il male radicale e` comparso nel contesto di un sistema in cui tutti gli uomini sono completamente superflui.»30 Questo processo di eliminazione degli altri e` condotto con accurata logicita`: per la Arendt la mostruosita` dell’universo concentrazionario della ‘soluzione finale’ sta soprattutto in questa sua apparente consequenzialita` ideologica. Poste certe premesse assiomatiche, la macchina organizzativa totalitaria ha efficientemente tirato le sue conclusioni, fino all’estremo limite. Scrive la Arendt: « Le ideologie [...] ordinano i fatti in un meccanismo assolutamente logico, che parte da una premessa accettata in modo assiomatico, deducendone ogni altra cosa; procedono cosı` con una coerenza che non esiste affatto nel regno della realta`.»31 Ma, qual e`, secondo la Arendt, il senso della politica dopo Auschwitz? Sarebbe molto facile imputare alla politica l’orrore della shoah e, cosı` facendo, abbandonare per sempre il terreno politico. In realta` l’idea della Arendt e` quella innanzitutto di sgomberare il campo da alcuni pregiudizi sulla politica, ad esempio quello che «la politica sia in sostanza una trama di menzogne e inganni prodotta da interessi meschini e da una ancor piu` meschina ideologia.»32 Oppure da quello tipicamente aristotelico secondo cui l’uomo sarebbe una sorta di «zoon politikon: quasi che nell’Uomo vi fosse un elemento politico che e` parte della sua essenza.»33 In realta` l’uomo in se´ e` apolitico, perche´ il terreno della politica e` innanzitutto nella relazione tra gli uomini, l’azione politica non puo` sperare di cambiare gli uomini e non si indirizza affatto verso questo scopo. Essa si dirige verso il mondo, per

29 30 31 32 33

Ivi, p. 600. Ivi, p. 629. Ivi, p. 645. H. Arendt, Che cos’e` la politica?, Milano, Comunita` , 1995, p. 11. Ivi, p. 7.

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creare le condizioni di miglioramento delle relazioni tra gli uomini, e, con cio` facendo, sperando di migliorare gli uomini stessi. Questo accade perche´ «ovunque si radunino degli uomini, sia nella sfera privata che in quella sociale o pubblica, politica, viene a crearsi uno spazio che li raccoglie dentro di se´ e al contempo li separa l’uno dall’altro [...] Dovunque si radunino degli uomini, il mondo si frappone tra loro; ed e` in questo infra che si svolgono tutte le faccende umane.»34 Ed e` esattamente in questo infra che la Arendt colloca lo spazio della politica. Ma qual e`, ancora una volta, il senso della politica? Certamente il suo senso non sta nella necessarieta` di ordinare le relazioni fra uomini a causa della loro presunta cattiveria antropologica e, di conseguenza, il suo senso sta ancor meno nelle relazioni di potere che instaura. «La risposta e`: il senso della politica e` la liberta`»35, non tuttavia nel senso che la politica abbia il compito di garantire la liberta` degli uomini, perche´ questa relazione mezzi-fini snaturerebbe proprio quel senso che vogliamo rintracciare. «Determinante per noi e` soltanto il fatto che consideriamo la liberta` in se´ come qualcosa di politico e non come il fine piu` alto dei mezzi politici.»36 Pur condotti da sempre con efficacia, perfino al fine di ampliare gli spazi delle relazioni interumane, la coercizione e la violenza appaiono alla Arendt, nel loro essere soltanto mezzi, come fenomeni impolitici collegati all’elemento politico, che e`, come abbiamo ricordato, la liberta` in se´. Ma il vero contenuto della politica che serve a rifondarne i presupposti e` la categoria di azione. Da Platone in avanti le difficolta` connesse all’imprevedibilita` ed all’indeterminatezza delle conseguenze delle nostre azioni politiche hanno sconsigliato i filosofi dall’assumere la categoria di azione, con il contenuto di responsabilita` anche morale che ne discende, come centrale nella determinazione del politico. La volonta` di evitare questo azzardo morale porta Platone, secondo la Arendt, a fondare un ordine basato su relazioni di potere in cui solo il capo (il filosofo) e` in grado di assumere responsabilita`, mentre gli altri compiono materialmente l’azione. «Il problema, come lo vedeva Platone, consisteva nell’assicurarsi che il promotore rimanesse il completo padrone di cio` a cui dava inizio, senza dover ricorrere all’aiuto di altri per condurlo a termine. Nell’ambito dell’azione questa isolata padronanza puo` essere conseguita solo se gli altri non sono piu` chiamati, con i loro motivi e i loro fini, ad aggiungersi spontanea34 35 36

Ivi, p. 18. Ivi, p. 21. Ivi, p. 41.

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mente all’azione intrapresa, ma sono usati per eseguire ordini, e se, d’altra parte, il promotore che prende l’iniziativa non si lascia implicare nell’azione stessa.»37 Su questa differenza tra promotore dell’azione (re-filosofo) ed esecutori materiali (sudditi-cittadini) si fonda anche la separazione tra praxis e poiesis, cioe` tra sapere pratico socio-politico e sapere tecnico. Poiche´, a causa di queste premesse platoniche, il problema dell’azione politica (e quindi della conseguente responsabilita` che ne deriva) viene depotenziato e consegnato alla sfera privata dell’etica (che la Arendt non disprezza, ma considera totalmente impolitica), una proposta di rifondazione etica della politica non puo` che essere contradditoria ai giorni nostri. La proposta della Arendt sta in due categorie nuove ed interessanti, quella del perdono, che abitua l’uomo a fare i conti con il proprio peccato aiutandolo a sopportare anche le conseguenze imprevedibilmente negative che scaturiscono dall’azione politica, e quella della promessa, che costringe l’uomo a assumere l’azzardo morale, dovendo tener fede alle promesse effettuate. Non e` dunque sul terreno della morale che la politica va rifondata, perche´ «in quanto la moralita` costituisce piu` della somma totale dei mores, dei costumi e dei criteri di comportamento consolidati attraverso la tradizione e validi sul terreno degli accordi, tradizione ed accordi che variano nel tempo, essa non e`, almeno politicamente, piu` fondata della buona volonta` di contrastare gli enormi rischi dell’azione con la disposizione a perdonare e a essere perdonati, a fare promesse e a mantenerle.»38

Oriente, Occidente e modernita`: E. Voegelin, L. Strauss, A. Del Noce Gia` la Arendt, come abbiamo visto, aveva insistito su un aspetto apparentemente contraddittorio nella struttura del totalitaritarismo, cioe` sul suo legame strettissimo con la modernita` e sul suo conseguente antitradizionalismo. A questa analisi aderisce perfettamente anche Eric Voegelin*, il quale traccia un percorso molto originale nella filosofia politica, 37

H. Arendt, Vita Activa, Milano, Bompiani, 1964, p. 163. Ivi, p. 181. * Eric Voegelin nacque a Colonia nel 1901, ma si formo` a Vienna come assistente e collaboratore di Hans Kelsen. Costretto a scappare nel 1938, emigro` negli Stati Uniti, dove insegno` alla Louisiana State University dal 1942 al 1958, ottenendo nel 1944 la cittadinanza americana. Tuttavia nel 1958 torno` in Germania, dove insegno` a Monaco di Baviera fino al 1969, anno in cui fece il suo definitivo ritorno negli Stati Uniti, come professore emerito 38

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determinato in gran parte dalla dicotomia Oriente-Occidente, su cui basa l’intera analisi delle vicende storiche occidentali. Il discorso di Voegelin prende le mosse in un frangente storico in cui, siamo nel 1951 agli inizi della Guerra fredda tra Stati Uniti ed Unione Sovietica e relativi imperi, la necessaria contrapposizione ideologica tra blocco comunista e ‘mondo libero’ produce forme di propaganda basate sulla dissoluzione morale e politica dell’avversario. In questo contesto la critica di Voegelin al totalitarismo sovietico riscuote enorme risonanza nel mondo anglosassone, nonostante sia una critica basata su argomenti piuttosto complessi e spesso contrari ai luoghi comuni. Il punto di partenza e` la differenziazione tra Oriente ed Occidente, che deriva da una diversa concezione dello Stato e del rapporto tra istituzioni e cittadini. Concettualmente il cuore del problema e` costituito dalla categoria di rappresentanza politica, reinterpretata pero` da Voegelin sulla base di una intuizione fondamentale, cioe` che esiste una rappresentanza elementare che si distingue da una rappresentanza esistenziale. Dice Voegelin: «una societa` politica comincia ad esistere quando si articola e produce un rappresentante. Se questo e` vero, ne segue che il tipo elementare di istituzioni rappresentative riguarda soltanto la realizzazione esterna di un particolare tipo di articolazione e di rappresentanza. In sede critica sara` quindi opportuno limitare l’uso del termine “rappresentanza” al suo senso esietnziale.»39 Questo significa che il nesso di rappresentanza non riguarda la mera istituzione di un agente in nome di un altro (popolo sovrano), ma l’esistenza ‘fondativa’ di una soggettivita` politica che, attraverso il proprio esistere storico, crea uno stato, vi da` origine. Qual e` la conseguenza piu` diretta di questa impostazione? Innanzitutto dal concetto di rappresentanza esistenziale Voegelin trae l’idea che essa sia «sempre il nucleo di qualsiasi governo efficace, indipendentemente dalle procedure formali grazie alle quali il governo stesso [...] raggiunge la propria posizione.»40 Cioe` le modalita` formali attraverso le quali una forma di rappresentanza si impone nella storia di un popolo non risultano affatto importanti, nel senso che e` l’instaurarsi di un sostanziale rapporto tra rappresentanti e popolo che costituisce il vincolo, non il rispetto procedurale di alcune forme. In aggiunta a questo Voegelin si accorge che esiste anche una rappresentanza di tipo trascendentale, che

della Hoover Institution a Stanford, in California. In questo Istituto insegno` fino alla morte, avvenuta nel 1985. 39 E. Voegelin, La nuova scienza politica, Torino, Borla, 1968, p. 107. 40 E. Voegelin, La politica: dai simboli alle esperienze, Milano, Giuffre`, p. 132.

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egli definisce come «la simbolizzazione della funzione di governo in analogia con il divino ordine del cosmo»41, cosa questa che gia` si connota originariamente in ambito orientale e che consta nel fatto che il sovrano e` situato a meta` strada tra popolo e Dio, avendo un doppio legame di rappresentanza: il primo di Dio nei confronti del popolo ed il secondo del popolo nei confronti di Dio. Dunque, la natura de-formalizzata del principio di rappresentanza, unitamente alla sua natura divinizzata, costituiscono quella particolare variante di rappresentanza che vige, sin dal 1917 in poi, nell’Unione Sovietica. L’analisi di Voegelin e` originale perche´, in un contesto in cui la scienza politica occidentale mira a destituire di senso il rapporto di rappresentanza tra popolo e governo nei regimi comunisti sulla scorta dell’inesistenza di procedure formali di tipo democratico, egli sostiene che queste ultime non sono rilevanti in un ambito orientale. Insomma, il governo sovietico e` il legittimo rappresentante esistenziale e trascendentale se non, direttamente, del popolo russo, almeno della societa` sovietica. In connessione con il messaggio marxiano, l’ordine sovietico e` infatti «in armonia con la verita` della storia; il suo fine e` l’instaurazione del regno della liberta` e della pace; gli oppositori sono in contrasto con la verita` della storia e alla fine saranno fatalmente sbaragliati.»42 Dunque il regime sovietico e` il rappresentante storico e politico del suo popolo, non lo si puo` liquidare sulla base della mera sua inassimilabilita` ai canoni delle democrazie occidentali, sia perche´ di fatto esso rispetta «gli scopi in vista dei quali viene formato qualsiasi governo: assicurare la pace all’interno, difendere il regno, amministrare la giustizia, prendersi cura del benessere della popolazione»43, ma soprattutto perche´, sotto il profilo della rappresentanza trascendentale, esso non e` che una variante orientale di una rivoluzione politica che e` comune a tutte le latitudini della storia moderna, la rivoluzione gnostica. La ricostruzione storico-politica che Voegelin fa per giustificare questa impostazione si basa sul fatto che sin dal primo millennio dopo Cristo quella solida capacita` rappresentativa che aveva caratterizzato la societa` occidentale (sin da quando a Roma aveva trionfato la cristianita`) si incrina aggravando progressivamente la sua situazione politica e culturale. Gia` con Gioacchino da Fiore, nel 1260, questo atteggiamento si sostanziava attraverso quattro simboli che, secondo Voegelin, resteranno centrali in tutte le 41 42 43

Ibidem. E. Voegelin, La nuova scienza politica, p. 121. E. Voegelin, La politica: dai simboli alle esperienze, p. 132.

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interpretazioni escatologiche della politica fino ai giorni nostri. Questi simboli sono: «la concezione della storia come successione di tre eta` , la Terza delle quali costituisce il Terzo Regno finale»44; l’esistenza di un leader; l’esistenza di un profeta che anticipa in termini intellettuali l’avvento delle tre eta`; infine il simbolo della fratellanza di persone autonome, che «trasformera` gli uomini in membri del nuovo regno senza la mediazione sacramentale della grazia.»45 Questi quattro simboli stanno ad indicare una situazione in cui trionfa un’idea gnostica della politica: «la speculazione gnostica supero` l’incertezza delle fede mediante un ripiegamento dalla trascendenza e conferendo all’uomo ed alla sua azione intramondana un significato di compimento escatologico.»46 In questo senso l’U.R.S.S. rappresenta «l’approdo finale della ricerca gnostica di una teologia civile»47, perche´ essa propone un progetto di mondanizzazione dell’aspetto teurgico attraverso la prospettazione escatologica della possibilita` di realizzare in terra la citta` di Dio, ma in questo egli sottolinea che il processo ha a che fare, oltre che con la dimensione intellettuale della proposta politica marxiana e comunista in generale, anche con le specifiche caratteristiche che permeavano la tradizione zarista e slavista dell’Europa orientale e della Russia. Tuttavia, in questo processo di modernizzazione improntato ad una secolarizzazione politica della teologia, l’Occidente ha subito, anche se in misura minore dell’Oriente, alcuni contraccolpi seri della filosofia gnostica. Anche nelle nazioni occidentali regna la paralisi filosofica e simbolica della rappresentanza, cosa questa che impedisce un’efficace risposta alla pericolosita` del polo Oriental-comunista. Ed e` qui che si sostanzia la proposta politica di Voegelin, per quanto incerta ed insufficiente. Egli chiede all’Occidente di opporsi non solo all’Oriente (principalmente appellandosi alla Gran Bretagna ed agli Stati Uniti, considerati come gli unici rappresentanti dello strato tradizionale piu` antico e piu` saldamente consolidato della civilta`), ma anche alle tendenze che si manifestano continuamente in Occidente (in particolare in Francia ed in Germania) di una degenerazione gnostica, seppur come variante occidentale. La differenziazione Oriente-Occidente e` propria anche di un altro filosofo contemporaneo, peraltro molto vicino a Voegelin, tanto da mante-

44 45 46 47

E. Voegelin, La nuova scienza politica, p. 182. Ivi, p. 183. Ivi, p. 201. Ivi, p. 44.

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nere con lui un carteggio durato molti anni, Leo Strauss* che, soprattutto nel volume Gerusalemme e Atene, ricostruisce in modo puntuale le origini ed alcune delle implicazioni nel rapporto tra questi due poli geo-filosofici. Il riferimento concreto in cui Oriente ed Occidente si sostanziano nell’opera di Strauss sono la filosofia greca da una parte e la tradizione biblica dall’altra, intese la prima come codice genetico del pensiero politico occidentale e l’altra come codice medio-orientale ed in particolare relativo alla tradizione giudaico-cristiana legata al testo biblico ed alla Torah. Strauss parte da un concetto comune ad ambedue le tradizioni, cioe` il concetto di sapienza, che risulta al vertice delle aspirazioni culturali sia bibliche che filosofiche. Tuttavia, gia` dall’analisi del contenuto ambivalente della nozione si intuiscono le profonde differenze di impostazione tra sapienza biblica e sapienza greca: «secondo la Bibbia, il principio della sapienza e` il timore del Signore; secondo i filosofi greci, il principio della sapienza e` la meraviglia.»48 Cosı` come Strauss dichiara da subito la propria preferenza (in questo egli non ha quel particolare intento anti-moderno che e` tipico di Voegelin) per quell’attitudine greca che si sostanzia nel «prima ascoltare e poi decidere»49, egli dichiara altrettanto immediatamente la sua profonda ispirazione spinozista, affermando che il punto piu` alto nella teoria politica di differenziazione tra le due tradizioni, quella biblica e quella greca, si ha con la demolizione spinoziana della sacralita` del testo biblico, affrontato per la prima volta (alla stessa stregua del Talmud e del Corano) con uno spirito storico-critico autenticamente antiteologico. Ma la coppia concettuale di piu` vistosa opposizione tra Oriente ed Occidente in Strauss e` quella i cui ‘campioni’ sono Socrate da un lato ed i profeti biblici dall’altro. Anche in questo caso, pur esordendo con un elemento comune, rappresentato dalla comune missione divina, nell’analisi piu` accurata le divergenze risultano antitetiche. In primo luogo la carica fideistica ed escatologica alla luce della quale i profeti prospettavano

* Leo Strass nacque a Kirchhain nel 1899 da una famiglia tedesca di origine ebraica. Dopo essersi addottorato ad Amburgo con Cassirer, si reco` a Friburgo a studiare con Husserl ed Heidegger ed in seguito a Berlino, dove entro` a far parte di circoli ebrei molto importanti ed ebbe rapporti di amicizia con Scholem e Benjamin. Emigrato negli Stati Uniti nel 1938, insegno` alla New School for Social Research a New York fino al 1949 e in seguito, dal 1949 al 1967, all’Universita` di Chicago, dove formo` intere generazioni di studiosi e di filosofi politici. Morı` nel 1973. 48 L. Strauss, Gerusalemme e Atene. Studi sul pensiero politico dell’Occidente, Torino, Einaudi, 1998, p. 6. 49 Ibid.

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l’avvento dell’era messianica diverge nettamente dall’atteggiamento socratico, teso «a pensare che la societa` perfetta sia possibile» ma che la sua realizzazione dipenda solo «da un’improbabile anche se non impossibile coincidenza, la coincidenza tra filosofia e ordine politico.»50 In secondo luogo, la dottrina dei profeti biblici e` senz’altro una dottrina essoterica, almeno quando il regno messianico sara` arrivato. Il messaggio biblico e` un messaggio di salvezza che interessa tutti ed e` comprensibile per tutti, mentre su questo punto Socrate rivela un assoluto pessimismo: vista l’improbabilita` dell’avvento della societa` perfetta, essa e` e rimarra` patrimonio di una ristretta cerchia di filosofi, i quali soli potranno pensarla, comprenderla ed eventualmente realizzarla. Infine c’e` la questione della giustizia, su cui si realizza il massimo della divergenza. La caratteristica della dottrina filosofica socratica e` la ricerca, l’indagine che deve portare il filosofo a discernere, attraverso un lungo percorso razionale costellato da continui dubbi, alla conoscenza del bene e del male. Nella tradizione biblica la situazione e` diametralmente opposta, ciole` la ricerca del bene e` del tutto inutile in un approccio di tipo rivelativo, tant’e` che Strauss si richiama ad una citazione biblica molto esplicita in questo senso: «ti e` stato detto, o uomo, cio` ch’e` buono, cio` che il Signore esige da te: agire giustamente, amare la pieta` e camminare umilmente con il tuo Dio» (Mic, 6.8). E` proprio il valore epistemologico dell’indagine che costituisce il nucleo del pensiero filosofico dell’Occidente, nella sua stretta relazione con una teoria della conoscenza razionale. In filosofia e` dalla conoscibilita` che deriva la sapienza, perche´ «l’indagine implica il vedere con i propri occhi, 51 in quanto differente dal sentir-dire; significa osservare in prima persona.» All’opposto la sapienza biblica si fonda sull’inconoscibilita`. Questo assunto deriva dalla circostanza, evidenziata da Strauss, secondo cui i profeti biblici si sono da subito resi conto che lo specifico del messaggio profetico sta nel fatto di doversi assolutizzare: nella babele delle leggi divine, ciascuna di queste leggi vede necessariamente se´ stessa come assoluta, come unica e pertanto autenticamente vera. Ma in base a cosa si stabilisce l’assolutezza di una legge divina? «La risposta e`: deve esserci un Dio personale; la causa prima deve essere Dio; Egli deve essere onnipotente, non soggetto a controllo e non controllabile. Ma essere conoscibile significa essere controllabile, per cui Egli non deve essere conoscibile nel senso stretto del termine.»52 50 51 52

Ivi, p. 35. Ivi, p. 68. Ivi, p. 69.

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Un’altra caratteristica del pensiero politico dell’Occidente secondo Strauss sta nella serieta` che la questione del politico assume. La questione della politica come una ‘cosa seria’ per gli occidentali viene discussa da Strauss quando analizza lo scritto schmittiano sul concetto di politico, quindi in modo connesso alla questione dell’autonomia del politico. Il punto di partenza di Strauss e` la fondamentale distinzione tra Hobbes e Schmitt circa l’importanza che la politica riveste per l’uomo occidentale. Alla luce delle teorie hobbesiane (homo homini lupus) la politica trova la sua spiegazione come reazione allo stato di natura, che e` elemento visto come negativo da Hobbes. Per Schmitt, al contrario, la condizione naturale dell’uomo e` la competizione polemica, dunque la politica non sorge, nella sua autonomia, nella societa` civile, cioe` attraverso l’allontanamento dallo stato di natura, ma, al contrario «il politico e` uno status degli uomini e si tratta proprio dello status, come naturale, come fondamentale ed estrema condizione umana.»53 Dunque, secondo Strauss per Schmitt la condizione umana, per essere piena, abbisogna necessariamente della condizione politica e tuttavia, in questo egli e` perfettamente d’accordo con Hobbes, questa dimensione politica non si sostanzia in altro se non nella sua pericolosita`. «La tesi della pericolosita` dell’uomo e` di conseguenza l’ultimo presupposto della posizione del politico.»54 Questo dato della pericolosita` e` anche quello che produce la serieta` della politica, intesa come contesa su cio` che e` fondamentale per l’uomo, cioe` come dato naturale ed originario della convivenza sociale. «Esser-politico vuol dire esser-orientato al “caso serio”. Conseguentemente l’affermazione del politico come tale e` l’affermazione della lotta come tale, del tutto indifferente da per cosa si combatta.»55 In conseguenza di questo la radicale alternativa alla politica non e` rappresentata che dalla neutralizzazione, non intesa solo come fenomeno storicopolitico (il liberalismo), bensı` intesa come qualsiasi ideologia che non ponga la guerra al suo centro. Il rispetto del politico e` tributato solo all’avversario, perche´ anch’egli lotta; verso colui che si sottrae alla lotta non v’e` che indifferenza, non v’e` che un disprezzo tollerante. La serieta` come chiave di lettura della politica in Schmitt, per definire l’epoca della neutralizzazione (la modernita`) come un’epoca senza serieta`, ricorda la lettura di Voegelin della categoria di divertissement come cio` che svuota dello spirito 53 L. Strass, Note sul «concetto di politico» in Carl Schmitt, in G. Duso (a cura di), Filosofia politica e pratica del pensiero. Eric Voegelin, Leo Strauss, Hannah Arendt, Milano, Franco Angeli, 1988, p. 320. 54 Ivi, p. 324. 55 Ivi, p. 330.

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l’odierna civilta` gnostica56, anche se i toni di Strauss, nei suoi giudizi sulla modernita` ed i suoi esiti, sono di gran lunga meno apocalittici. La prefazione all’edizione italiana de La nuova scienza politica di Voegelin e` curata da Augusto Del Noce*. La scelta di introdurre la traduzione di un volume cosı` complesso e fortunato non fu presa da Del Noce per puro caso, ma in vista di evidenti analogie di impostazione tra le filosofie dei due autori. Il punto di partenza puo` essere considerato il medesimo, cioe` la condanna di un’impostazione che da` per scontato il processo di secolarizzazione come elemento costitutivo della modernita` cui non ci si puo` opporre in alcun modo. Su questo terreno si svolge la critica di Del Noce all’opera di Benedetto Croce, che comincia con il rimarcare come il fondamento teorico della filosofia crociana e` l’interpretazione della «storia della filosofia come processo di laicizzazione.»57 Il processo curioso che collega Croce all’ateismo comunista e` piuttosto contraddittorio, nel senso che la filosofia crociana, che si propone come radicalmente anti-comunista, nell’ammettere il primato della laicizzazione come elemento costitutivo della modernita`, finisce per far trionfare proprio il comunismo in quanto (altro punto di convergenza con la lettura di Voegelin del totalitarismo sovietico) massimo esponente dell’immanentizzazione del senso in politica. Questo giudizio viene approfondito attraverso un’altro paradossale collegamento, quello tra Croce e Gramsci. Per quest’ultimo, in particolare durante il periodo di detenzione, viene evidente «l’idea che lo svolgimento filosofico del pensiero di Lenin (a suo avviso “il teorico dell’egemonia”) e lo sviluppo sino alle conseguenze piu` rigorose dello storicismo crociano dovessero coincidere. Croce cessava di apparirgli come l’anti-Marx; la sua opera rappresentava invece la mediazione per il passaggio dal marxismo in posizione di resistenza al marxismo in posizione di egemonia.»58 In realta` anche Gramsci non e` interpretabile come un marxista ortodosso, nel senso che egli complessifica una visione troppo ortodossa del materialismo marxiano: 56

E. Voegelin, La nuova scienza politica, p. 201. * Il pensiero di Del Noce (1910-1989) e` caratterizzato fino alla fine della seconda guerra mondiale da un’appartenenza alla sinistra cristiana. In seguito si distacca da questo tipo di approccio contestando in radice il pensiero marxiano e rivendicando la necessita` di contrastare i processi di secolarizzazione tipici della modernita`, per giungere ad un cristianesimo che sia in grado di reagire sul piano spirituale alla decadenza dei tempi. 57 A. Del Noce, Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna, 1964, p. 571. 58 A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, Rusconi, Milano, 1992, p. 182.

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«per Gramsci, invece, si puo` parlare di un’autonomia e di un primato, conferito a quella che nel linguaggio marxista vien detta sovrastruttura: la ‘societa` civile’ designa il complesso delle relazioni strutturali.»59 Per Del Noce la filosofia marxiana appare come una “non-filosofia”, perche´ sostituisce all’uomo di stampo idealistico-cristiano un ‘uomo sociale’ che sembra completamente succube delle condizioni storiche e politiche in cui vive. Ma poiche´ queste condizioni mutano costantemente a causa dell’operare dell’uomo stesso, si puo` concluderee che la follia del marxismo sta in questo autoprodursi dell’uomo sociale. In questo senso il marxismo e` profondamente anti-cristiano. Sintetizzando i tratti caratteristici del marxismo, Del Noce elenca: «a) il senso specificamente marxista dell’uomolavoro; b) il sorgere del comunismo dalla critica della categoria del privato, anzitutto nel suo senso metafisico ossia nel senso di interiorita`; c) il sorgere dalla critica di questa stessa categoria dell’anticristianesimo marxista. Si 60 vede qui come anticristianesimo e comunismo per Marx facciano uno.» Nonostante tutto, la riflessione di Del Noce sull’ultimo periodo di storia patria e` amara. Pur passato attraverso una militanza attiva nella Democrazia Cristiana, egli si abbandona ad un’amara riflessione. «Avveniva che questa secolarizzazione del modo di pensare del popolo italiano, rimasto fedele in linea di principio alla “morale cattolica” anche nei tempi del massimo dominio dell’anticlericalismo, si avverasse proprio dopo un trentennio di governo da parte del partito dei cattolici. Che cosa si doveva concluderne? Giungere al giudizio – la cui estrema importanza e` superfluo sottolineare – che il vero soggetto della storia italiana nell’ultimo trentennio era stata la “riforma intellettuale e morale” gramsciana che aveva potuto avanzare senza grandi ostacoli; riforma indirizzata, in conseguenza della strategia rivoluzionaria intesa come guerra di posizione, a raggiungere la direzione 61 intellettuale prima del dominio.» La superiorita` egemonica della cultura comunista in Italia segna il definitivo trionfo della secolarizzazione politica e della modernizzazione del paese e l’amarezza di Del Noce, che oramai ritiene insuperabile questa situazione, consiste nel fatto che e` proprio il governo del partito cattolico che ha pilotato questo passaggio epocale nella societa` italiana.

59

A. Del Noce, L’Eurocomunismo e l’Italia, Roma, Editrice Europa Informazioni, 1976, p.

75. 60 61

A. Del Noce, Il problema dell’ateismo, p. 245. A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, p. 256.

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La Scuola di Francoforte In apertura di questo argomento risulta indispensabile fornire una serie di rapide informazioni sulla storia di questa scuola di pensiero, dal momento che essa si dipana a partire dagli anni Venti e per tutto il Novecento, attraversando profondi rivolgimenti sociali, culturali e politici, ma mantenendo una sostanziale e faticosissima impostazione unitaria. Il nucleo originario della fortunata ed importante parabola scientifica della Scuola di Francoforte va ricercato nell’Istituto per la ricerca sociale (Institut fu¨r Sozialforschung) ed ha una natura piuttosto contraddittoria, anche se questo tipo di contraddizioni saranno piuttosto frequenti nella sua storia. Infatti, pur essendo il primo apparato scientifico di ispirazione dichiaratamente marxista esso nasce grazie al contributo finanziario di un ricco industriale tedesco, Hermann Weil, che nel 1923 mette a disposizione del figlio Felix e di un gruppo di intellettuali marxisti tra cui Friedrich Pollock ed Henryk Grossmann i propri capitali per avviare il progetto della costituzione di un cenacolo scientifico che avesse il compito di reimpostare la riflessione delle e sulle scienze sociali alla luce del rivolgimento profondo seguito (in Germania in particolare, ma in tutt’Europa in generale) alla pressante richiesta di partecipazione politica ad opera delle masse proletarie europee. In sintonia con questa impostazione marxista e per garantire un riconoscimento dell’Istituto nell’ambito del sistema universitario tedesco, viene nominato il professore austriaco Karl Gru¨nberg, direttore dell’Archiv fu¨r die Geschichte des Sozialismus und der Arbeiterbewegung, che diventa una sorta di rivista ufficiale dell’Institut. Su questa rivista, su cui avevano scritto Gyo¨rgy Luka´cs e Karl Korsch, compaiono i primi scritti dei principali collaboratori come Max Horkheimer, Leo Lo¨wenthal, Theodor Wiesengrund-Adorno,

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Erich Fromm ed Herbert Marcuse, che diventeranno il nucleo storico della prima fase dell’Istituto. E proprio Horkheimer, nel 1930 all’indomani dell’ottenimento della docenza, ne assumera` la direzione imprimendo una svolta scientifica importante e fondando nel 1932 la rivista ufficiale dell’Istituto la Zeitschrift fu¨r Sozialforschung. Il primo passaggio critico dell’Istituto si ha gia` nel 1933, anno di affermazione definitiva del partito nazista al potere in Germania. In seguito ad una continua serie di aggressioni individuali (ad Horkheimer* e a Grossmann) ed alle strutture (occupazione dei locali), la scuola si scioglie di fatto per ricompattarsi a Ginevra, dove si istituisce una direzione provvisoria, potendo contare sui fondi nel frattempo trasferiti in Olanda. Ma il destino dell’Istituto incorre nella seconda contraddizione perche´ la sua rinascita effettiva avviene proprio nel centro del capitalismo mondiale, a New York, dove vengono messi a disposizione dalla Columbia University dei locali ove continuare a svolgere la propria attivita` di ricerca. Nel 1934, dunque, Horkheimer, Marcuse, Lo¨wenthal e Pollock si trasferiscono nella sede newyorkese ed incominciano un fitto programma di ricerca basato sulle analisi sociali sui rapporti tra soggetti e istituzioni. Anche Adorno, ma solo nel 1938 e dopo il fallimento di un tentativo di ottenere un dottorato ad Oxford, sbarca in America e viene integrato a pieno titolo nello staff dell’Istituto, iniziando anzi una collaborazione molto stretta con il direttore Horkheimer. All’indomani della guerra, nel 1947, questa collaborazione produce l’opera piu` rappresentativa dei due filosofi e forse dell’intera scuola, la Dialettica dell’illuminismo (Dialektik der Aufkla¨rung). Tre anni dopo la sede finanziaria ed operativa dell’Istituto torna a Francoforte, pur non rinunciando mai ad un legame molto stretto con gli ambienti scientifici e culturali d’oltreoceano, in piena concomitanza (anche questa apparentemente contraddittoria) con l’inizio della guerra di Corea e quindi della * Max Horkheimer, nato a Stoccarda nel 1895 da ricca famiglia ebrea, diventa direttore dell’Istituto per la ricerca Sociale a Francoforte nel 1931, dove aveva insegnato Filosofia sociale sin dal 1929. Nel 1932 contribuisce alla rivista dell’Istituto, la Zeitschrift fu¨r Sozialforschung, alla quale collaborano anche altri filosofi come Adorno, Fromm, Marcuse con articoli, che saranno raccolti dopo la guerra sotto il titolo di Teoria critica (1968). Nel 1933, con l’avvento del nazismo, Horkheimer e` costretto trasferirsi prima in Svizzera e poi, nel 1934, a New York, mentre la rivista continua le sue pubblicazioni a Parigi, fino al 1940, e successivamente negli Stati Uniti. Dal 1941 insegna in California, acquistando la cittadinanza americana. Dopo la guerra Horkheimer torna in Germania per insegnare Sociologia e Filosofia all’universita` di Francoforte, anche se conserva la cittadinanza americana e con lui si sposta anche l’Istituto. Nel 1951 e` nominato rettore dell’universita` e nel 1954 si stabilisce sul lago di Lugano, dove muore nel 1973.

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Guerra Fredda. Da questo momento in avanti molti sono i memorabili contributi che l’Istituto produce sia a livello scientifico (pensiamo agli studi sulla psicanalisi sociale di Fromm, a quelli di Marcuse e di Adorno stesso ed all’ingresso nella scuola di Ju¨rgen Habermas) sia a livello politico e sociale, in particolare nella stagione del Movimento studentesco del 1968. Proprio in questa circostanza le posizione individuali tra i membri dell’Istituto cominciano a subire delle radicali differenziazioni, che sfociano in aperte contraddizioni soprattutto tra Marcuse, molto legato agli ambienti studenteschi extraparlamentari, ed Adorno, nettamente contrario ad una prospettiva di ‘militanza’ degli intellettuali. Il periodo che va dal 1969 agli inizi degli anni Ottanta e` piuttosto turbolento sia a causa della morte dei suoi principali protagonisti (Adorno nel 1969, Horkheimer nel 1973 e Marcuse nel 1979), sia per il declino storico delle ipotesi stesse che avevano animato il paradigma filosofico dell’Istituto nel suo complesso. Con il ritorno dal Max Planck Institut di Habermas nel 1981 e con l’arrivo di una nuova generazione di filosofi (come ad esempio Axel Honneth) si registra una parziale rigenerazione degli studi filosofico-politici della scuola, che tuttavia non riesce a recuperare in pieno l’importanza cruciale che aveva rivestito fino a tutti gli anni Cinquanta per gli studi sociali.

1. La psicologia sociale Il sodalizio tra gli studi dei ‘francofortesi’ e la psicanalisi e` duraturo e proficuo. Si puo` dire che gia` dai primi passi dell’Istituto il tema della psicanalisi si ritrova facilmente: gia` Horkheimer negli anni Venti, sotto l’influsso di Lo¨wenthal, dimostra un forte interesse per Freud, interesse che persuade anche Adorno (in una dissertazione del 1927 dal titolo Der Begriff des Unbewussten in der Transzendentalen Seelenlehre), ma che sara` poi amplificato in tutta l’opera di Erich Fromm. Il tentativo di approccio e` quello di coniugare marxismo e psicanalisi, anche se il peso di queste due componenti nella teoria psicanalitico-sociale di Fromm varia a seconda del periodo: secondo Jay1 in un primo periodo egli e` molto fortemente influenzato dall’impatto con la teoria freudiana, che si sposava fedelmente con le suggestioni mistico-ebraiche da lui subite nel sodalizio con alcuni importantissimi intellettuali ebrei tedeschi come Martin Buber, Franz Rosenzweig e lo stesso Lo¨wenthal nel Freies Ju¨disches Lerhaus, ma dagli anni ’40 in poi 1

M. Jay, L’immaginazione dialettica, Torino, Einaudi, 1979, p. 134-ssg.

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questa influenza si attenua, per lasciare il posto ad un’attenzione antropologica molto piu` vicina a certe istanze contenute nei Manoscritti economicofilosofici del ’44 di Marx. Fromm* studia la psicanalisi a Berlino, dove non solo viene analizzato da Hans Sachs, ma segue le lezioni di importanti docenti freudiani, primo fra tutti Theodor Reik, provandosi a sua volta nel seguire alcuni pazienti sia insieme ai docenti che da solo. Tuttavia, gia` da subito l’idea portante della fusione dell’esperienza freudiana con quella marxiana e` viva e presente, dal momento che il primo saggio importante che appare a sua firma a Vienna nel 1931, intitolato Die Entwicklung des Christus’ Dogma, gia` evidenzia questo tema, enunciando la stretta connessione che esiste tra il paradigma cristiano e le condizioni sociali in cui esso e` nato e si e` sviluppato. L’idea di Fromm e` dunque che si possano estendere analogicamente le strutture psicologiche che caratterizzano il singolo individuo ad un intero gruppo sociale, attraverso un’analisi che individui le connessioni tra i meccanismi di sublimazione che la psicanalisi evidenzia a livello individuale e le strumentalizzazioni che il potere politico ed economico riescono ad operare sulle masse. Insomma, in contrapposizione con altri intellettuali (in particolare con Whilhelm Reich e con Henrik De Man), Fromm ritiene che in Marx sia presente un tipo di analisi del capitalismo basata non su un’unita` psicologistica elementare collocata entro i limiti dei ‘capitalisti’ come singoli soggetti economici, bensı` basata su una lettura collettiva dei meccanismi psicologici della forma capitalistica di produzione. Sarebbe, del resto, incomprensibile l’enfasi che Fromm pone (peraltro in modo costante nella sua produzione) sulla categoria di alienazione (nella sua duplice accezione, economica in Marx e psicologica in Freud) come luogo privilegiato dell’incontro tra marxismo e freudismo. Gli stretti rapporti tra queste due scuole * Erich Fromm nacque a Francoforte sul Meno nel 1900 in una famiglia ebrea piuttosto ortodossa. Nel 1922 si laurea a Heidelberg in filosofia con una tesi “Sulla funzione sociologica della legge ebraica nella Diaspora”, scritta richiamandosi a concetti di Max Weber, Martin Buber e Hermann Cohen. In seguito studio` psicanalisi a Monaco svolgendo anche attivita` di psicanalista presso l’Istituto psicanalitico di Berlino e di Francoforte, dove collabora con l’Institut fu¨r Sozialforschung. Comincio` a praticare la psicoanalisi nel 1925 e dal 1929 al 1932 fu assistente nell’Universita` di Francoforte. Nel 1934, per opposizione al nazismo, lascio` la Germania per stabilirsi permanentemente negli Stati Uniti. Tenne lezioni all’ Universita` di Columbia dal 1934 al 1939 e in altre universita` americane. Nel 1951 divenne professore del dipartimento di psicanalisi dell’ Universita` nazionale del Messico. Nel 1955 fu nominato Direttore del dipartimento di psicologia della stessa Universita` del Messico col compito di dirigere l’addestramento di psicoanalisi e di psichiatria. Nel 1962 diventa titolare di una cattedra di psichiatria a New York. Muore nel 1980.

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vengono riportati in luce anche in Fuga dalla liberta` (1941) in cui Fromm sollecita una riflessione sulle trasformazioni della forma di vita che avvengono a livello di struttura libidica (per dirla con Freud) al variare della struttura economica (per dirla con Marx). La tensione di Fromm verso la ricerca empirica lo porta a ricercare non solo paradigmi generali, ma anche riscontri ‘in dettaglio’ delle proprie teorie, cosı` come avviene nel 1932 nel suo articolo sulla Zeitschrift fu¨r Sozialforschung intitolato Die psychoanalytische Charakterologie und ihre Bedeutung fu¨r die Sozialpsycologie. In questo saggio egli traccia un parallelo concreto tra la teoria della libido in Freud e l’analisi della forma di produzione capitalistica in Marx, giungendo a sostenere che, in fondo, la rivoluzione borghese legata (come sappiamo dopo Max Weber) all’idea di razionalita` come emerge dallo spirito capitalistico legato alla riforma protestante, si afferma perche´ intimamente commessa all’idea di instaurazione di una forma ordinata razionalmente della sessualita`, propria della cosiddetta “fase anale” che la teoria freudiana individuava come uno degli stadi precoci della strutturazione della personalita` del bambino. Ma il periodo dell’ortodossia freudiana di Fromm duro` poco: gia` nel saggio Die sozialpsycologische Bedeutung der Mutterrechtstheorie (1934 in ZfS) merce` la lettura di alcuni saggi sulla teoria della maternita`, in particolare quelli di J. Jacob Bachofen e di Robert Briffault, egli si distacca da gran parte delle teorie ‘patriarcalistiche’ di Freud (in particolare da alcuni aspetti della teoria della libido e dal complesso di Edipo) per avvicinarsi ad un’idea ‘matriarcale’ e tollerante delle regole sociali. Ad esempio egli rinnega il ruolo autoritario e sovraordinato che nella psicanalisi freudiana esercita il terapista sul paziente, avvalorando in alternativa una figura paritetica del medico come appare nella variante psicanalitica in particolare di Sa´ndor Ferenczi. Tuttavia, questo suo progressivo allontanamento da Freud non sara` mai definitivo, tenendo Fromm a mantenere una sostanziale unitarieta` almeno nell’intento di fondo che lo ha ispirato in tutto l’arco della sua produzione, cioe` quello di una lettura psicanalitica delle trasformazioni sociali. Un altro ‘francofortese’ eccellente, sul piano del contemperamento tra teoria sociale (di ispirazione marxista) e psicanalisi e` stato senza dubbio Herbert Marcuse* e soprattutto nell’opera Eros e civilta` del 1955. Anche

* Herbert Marcuse nacque a Berlino il 19 luglio 1898 da famiglia ebrea e si laureo` nel 1921 a Friburgo. In questa Universita` egli subı` il fascino dell’interpretazione fornita da Luka`cs di Hegel, ma nel 1932, per tensioni con Heidegger, che si stava sempre piu` avvicinando al movimento nazionalsocialista, Marcuse lascio` Friburgo e divenne membro

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Marcuse concordava con Fromm su una profonda critica a quella che chiama la societa` “patricentrico-acquisitiva” di Freud, che riteneva fondata sul paradigma sintetizzato nella formula di “principio di prestazione”, ovvero un criterio di valutazione degli uomini basato sulla capacita` individuale di concorrere efficacemente tra di loro. La chiave di lettura dell’approccio di Marcuse alla critica della teoria freudiana e, ancor piu`, delle teorie degli epigoni di Freud a proposito dello iato tra istinti naturali e necessita` sociali del loro controllo, sta nella necessita` di distinguere tra repressione degli istinti e repressione addizionale, nella convinzione che mentre la prima fonda la possibilita` stessa dell’esistenza di una societa` umana, la seconda e` un puro meccanismo di potere teso ad uno spietato controllo sociale. Proseguendo su questo terreno la critica della societa` contemporanea operata da Marcuse diventa cosı` radicale da enfatizzare gli aspetti negativi del freudismo, cioe` quegli aspetti che evidenziano l’insanabilita` della frattura tra felicita` privata e societa` moderna. E, su questo terreno, si consuma anche la separazione da Fromm, che al contrario immagina un superamento di Freud attraverso il raggiungimento di un livello di convivenza politica che trasformi la “liberta` da” (liberta` a contenuto negativo e repressivo) in “liberta` di” (liberta` positiva agı`ta spontaneamente).2

2. Gli studi sull’autorita` e la famiglia Nel 1936, oramai stabilmente collocato negli Stati Uniti, L’Istituto decide di pubblicare una ricerca a piu` mani dedicata ai temi dell’autorita` e della famiglia ed all’impatto che queste due categorie hanno nella storia della cultura occidentale e nella stessa storia sociale e politica dell’Occidente. In sostanza i tre saggi principali sono uno dedicato alla formulazione di una premessa teorica e metodologica, scritto da Horkheimer, uno dedicato alle implicazioni psicologico-sociali di questi due grandi temi, scritto da Fromm, ed infine uno scritto di Marcuse che ripercorre la loro ‘storia sociale’. In primo luogo viene ridimensionata l’idea marxiana secondo la quale dell’Istituto di Francoforte ma poco dopo, con l’avvento del regime nazista, dovette abbandonare la Germania ed emigrare negli Stati Uniti. Qui per vari anni, sino al 1950, fu impegnato a lavorare per il Dipartimento di Stato americano, dal 1951 al 1954 fu anche incaricato di svolgere una ricerca sull’Unione Sovietica. Nominato professore all’universita` di San Diego, in California, nel 1965, contribuı` alle lotte e alle discussioni nate nel movimento degli studenti. Morı` nel 1979. 2 Su queste importanti elaborazioni del concetto di liberta` si veda H. Marcuse, Fuga dalla liberta`, Milano 1968

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le societa` si strutturano inevitabilmente solo sulla variabile dei rapporti di produzione: secondo Horkheimer invece la formazione delle culture presenta in se´ numerose variabili di cui, probabilmente, quella economica non sembra essere neanche la piu` importante. In effetti l’aspetto autoritativo della societa` capitalistica di massa non si basa tanto sulla repressione collettiva di tipo violento e dispotico, bensı` su una sorta di accettazione ‘naturale’ dei modi di produzione e dei rapporti di classe in essa presenti. A questo elemento di fallacia naturalistica (ovvero il modo di vita capitalistico-occidentale sembra l’unico possibile, esso si colloca in un orizzonte propriamente antropologico) il singolo individuo non sa e non puo` opporsi, perche´ tutti gli elementi culturali, educativi, professionali, spirituali e quant’altri, spingono verso un’univoca interpretazione chiunque voglia interrogarsi su questi argomenti. Uno dei nuclei cardinali di questo progressivo condizionamento e`, ad esempio, la famiglia. Il modello autoritativo basato sulla onnipotente figura paterna e`, secondo Horkheimer, uno dei piu` potenti meccanismi di riproduzione del modello autoritario di interazione sociale, basato unicamente su rapporti di forza, delle societa` borghesi. A causa dei meccanismi di identificazione che inevitabilmente (anche in accordo con la psicanalisi freudiana) scattano nel rapporto tra padri e figli, questi ultimi interiorizzano senza scampo il modello autoritario. Naturalmente, cosı` come per Horkheimer la famiglia e` fondamentale per la riproduzione della struttura borghese di dominio, allo stesso modo essa e` uno dei gangli su cui l’intervento di chiunque voglia modificare lo status quo diventa estremamente efficace. La sua proposta e` quella di sostituire la famiglia patriarcale tradizionale con una famiglia ‘aperta’, che sia insieme laboratorio di modi di vita alternativi a quelli dominanti e cellula elementare di rapporti sociali improntati al rispetto reciproco ed alla parita` tra i sessi. Sulla rilevanza della figura paterna in senso psicologico, ovvero nella sfera della formazione delle psicologie individuali e sociali, non puo` che essere d’accordo anche Fromm, il quale riprende il tema freudiano del padre come elemento autoritativo che riveste la precisa funzione di fissare le regole della convivenza della famiglia, sia di quella interna che di quella che la mette in relazione con il mondo esterno. Come e` noto il padre rappresenta, nella struttura freudiana il Super-Io, cioe` l’elemento della vigilanza costante che tende a definire i limiti delle azioni individuali ed a plasmare il subconscio secondo modelli razionali ed accettati socialmente. Non che Fromm neghi questo schema freudiano, pero` egli tende a rivalutare l’elemento del condizionamento esterno sul modello che Freud descrive. In altre parole, mentre in Freud la funzione paterna e` immutabile poiche´ antropologicamente fondata, per Fromm essa stessa subisce un forte

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condizionamento dal tipo di regole che vengono imposte sulla singola famiglia dall’assetto sociale esterno. Egli pone in relazione biunivoca la figura paterna ed il suo ruolo naturale con le regole dettate dalla forma sociale dominante, descrivendo un processo in cui entrambi questi poli si condizionano reciprocamente, con cio` svelando l’intreccio apparentemente insormontabile tra sistemi di riproduzione dell’autorita` familiare e sistemi di riproduzione del dominio politico e sociale. Infine Marcuse analizza quella che oggi definiremmo la ‘genealogia’ dell’autoritarismo borghese, individuandone tre tappe. La prima e` quella del processo di scissione tra sfera interna (sede della liberta` spirituale) e sfera esterna (quella dell’obbedienza alla norma) nel pensiero protestante di Lutero e di Calvino. La seconda e` quella della scissione kantiana tra Sein e Sollen, cioe` tra Essere (privato) e Dover-Essere (pubblico). In questo senso, per Marcuse, anche la costituzione dell’idea di ‘societa` civile’ in Kant rispecchia questo carattere normativo, dunque coercitivo, della liberta` umana, intesa negativamente come delimitazione all’agire umano in forza di una legge comune. La terza e` quella della dialettica servo-signore espressa nella Fenomenologia dello Spirito del giovane Hegel. In quest’ultima (e va subito detto che questa dinamica costituisce un passo in avanti per Marcuse, dato il suo carattere pienamente politico) si puo` osservare come i meccanismi del dominio siano attivi continuamente ed abbiano sempre un’implicazione politica: la scissione tra signore e servo e`, marxianamente, quella tra capitale e forza-lavoro, poiche´ si esprime nell’alienazione dell’opera intesa come lavoro salariato. Infine, questo processo in divenire testimonia della potenza dei meccanismi di normativizzazione delle interazioni sociali e politiche, secondo un regime che definisce la liberta` solo come un fatto interiore dei singoli soggetti, situato all’interno di un contesto in cui la tutela delle proprieta` individuali puo` giustificare l’adozione di regole totalmente illiberali.

3. La teoria critica e la critica dell’illuminismo La definizione classica della Scuola di Francoforte coincide con l’elemento, piu` volte riesplorato dai suoi componenti della necessita` di produrre una teoria critica della societa` contemporanea. Per capire a cosa ci si riferisca quando si parla di teoria critica, si dovrebbero leggere gli scritti di Horkheimer in particolare, che, gia` dai primi scritti sulla Zeitschrift identificava un atteggiamento critico che sarebbe rimasto nella sostanza costante lungo l’intero arco dell’attivita` della Scuola. Innanzitutto va detto che Horkheimer si pone l’obiettivo di rimettere sotto esame il rapporto tra cultura occiden-

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tale e conoscenza, rapporto che viene da lui semplificato, nei suoi esiti piu` articolati, in due possibili sbocchi, l’uno neoempirista (o neopositivista) e l’altro neoromantico. Naturalmente Horkheimer e` critico nei confronti di entrambi questi sbocchi, ma mostra una particolare acrimonia nei confronti del primo. Da Hume in poi la tradizione empirista materializza i presupposti stessi della conoscenza, destituendo di senso qualsiasi tentativo di considerare i processi gnoseologici come fortemente legati a quelli evolutivi dell’intera societa` europea. Insomma l’impostazione empirista, nascondendosi dietro la metodologia matematica ed iperlogica, tende a proporre una nuova metafisica alla cui base vi e` una totale astrazione dai processi concreti che la societa` umana nel frattempo vede imporsi nella storia. Horkheimer individua nello ‘scientismo’ il cancro che divora gli spazi di resistenza contro un pensiero che riduce la scienza alla sua componente tecnica e tenta di fornire una critica convincente di questa impostazione. In primo luogo egli pone sotto accusa la tendenza dei neopositivisti ad unificare sia le scienze naturali che le scienze umane sotto un unico metodo basato su principi di verificabilita` quantitativa, espungendo dalla possibilita` della riflessione qualsiasi giudizio di valore. Per questa via il neoempirismo vuole imporsi come pensiero della neutra oggettivita`, non riuscendo a vedere la realta`: esso e` un pensiero funzionale a precisi rapporti di dominio politico ed economico, che usano la tecnica ‘pura’ proprio per imporre un punto di vista meramente soggettivo, il potere di una classe sull’altra. In questo senso Horkheimer trovera` rispondenza in Marcuse, il quale, richiamandosi ad Hegel, in un articolo del 1937 intitolato Filosofia e teoria critica, suggerisce che, a partire dal movimento insieme dialettico e idealistico (nel senso della sua aspirazione ad attuare nel mondo una verita` ideale) del grande filosofo tedesco, la teoria critica si configuri come una miscela di realismo storico-politico ed utopia. Attraverso una definizione di Marcuse possiamo tentare di inquadrare l’essenza complessiva della teoria critica. «Come la filosofia essa [la teoria critica, n.d.a.] si contrappone all’acquiescenza alla realta`, al positivismo soddisfatto. Ma, a differenza della filosofia, essa trae i suoi obiettivi soltanto dalle tendenze presenti nel processo sociale. Percio` essa non ha nessuna paura dell’utopia, termine con cui si definisce il nuovo ordine per screditarlo. La verita`, non potendo essere realizzata all’interno dell’ordine sociale esistente, ha in ogni caso per quest’ultimo il carattere di una mera utopia.»3 3

H. Marcuse, Cultura e societa`. Saggi di teoria critica 1933-1965, Einaudi, Torino 1969, p.

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Nel 1947 Horkheimer e Adorno* pubblicano una dei piu` importanti contributi teorici della Scuola di Francoforte, la Dialettica dell’Illuminismo. Il volume e` molto denso e la sua forma e` ricca di riferimenti che spaziano dalla poetica classica ai moderni media. Ma un collante che tiene salda l’intera architettura esiste ed e` costituito propria dalla nozione stessa di Illuminismo, che non e` limitata, ne´ cronologicamente, ne´ semanticamente, a cio` che i manuali della cultura moderna e contemporanea dettano. Illuminismo, per Horkheimer ed Adorno, e` un concetto che rende ragione dell’atteggiamento distruttivo dell’uomo occidentale (di tutte le epoche storiche) nel suo rapporto con l’ambiente in cui e` immerso. La sopravvalutazione dell’opera della ragione nel suo potere di comprendere e, dunque, di disporre della natura e piu` in generale dell’alterita` e` l’elemento che connota l’idea di illuminismo in questa ricostruzione. La critica che i due autori esercitano nei confronti di questa idea si sostanzia nell’accusa di corto circuito della razionalita` formulata a piu` riprese, sia nei confronti del primo uomo occidentale ‘borghese’ Odisseo con i suoi miti e la sua simbologia, sia nei confronti di Kant e del paradosso di una ragione soggettiva che si universalizza, sia nei confronti di un’industria culturale che vive, nella modernita` , nel paradosso dei paradossi: la possibilita` di mercificare l’immercificabile, di vendere l’invendibile. E l’idea del cortocircuito o della paradossalita` dell’orizzonte illuminista, in cui tutto si rovescia nel suo contrario, e` proprio la cifra della cultura occidentale di ogni tempo: questo rovesciamento assume toni beffardi se, come appare, trasforma un modesto attore americano, Mickey Rouney, come il punto di approdo di tutta la complessa vicenda della propria storia culturale – e proprio in virtu` della sua mancanza di originalita`, cioe` della sua imprevedibile prevedibilita`. Altri toni, circa le possibilita` che l’odierno mercato culturale propone all’arte pur sotto il giogo dell’istanza tecnologica, saranno utilizzati da W. Benjamin ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilita` tecnica nel 1936 sulle pagine della “Zeitschrift fu¨r Sozialforschung”. Sulla scorta di queste riflessioni sul carattere paradossale di questa * Theodor Wiesengrund Adorno nacque nel 1903 a Francoforte da padre ebreo e madre italiana, di cui assunse il cognome. Adorno si laureo` nel 1924 a Francoforte con una tesi su Husserl. Recatosi a Vienna, dove coltivo` il proprio amore per la composizione musicale con Berg e con Scho¨nberg, nel 1928 rientro` a Francoforte, dove comincio` la sua collaborazione con l’Istituto per la ricerca sociale. Negli anni della dittatura nazista si trasferı` negli USA, dove, dal 1938 al 1941, diresse la sezione musicale della radio a Princeton. Tornato in Germania, fu dal 1951 vice direttore e dal 1958 direttore dell’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, fino alla morte nel 1969.

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catastrofe della razionalita` che e` la societa` razionalizzata, dobbiamo citare anche alcuni scritti di Marcuse. Nel 1965 egli pubblica il suo notissimo saggio intitolato L’uomo a una dimensione. Studio sull’ideologia della societa` industriale avanzata, che e` un saggio in cui egli conduce una critica spietata dell’odierna civilta` tecnologica, come peraltro aveva fatto in un saggio molto precedente, del 1941, intitolato Alcune implicazioni sociali della moderna tecnologia. Questa critica non si articola tanto sul terreno di un rifiuto aprioristico della tecnologia, che potrebbe, in se´, cioe` come pura tecnica, avere degli indiscutibili vantaggi per la vita dell’uomo. Tuttavia, e` proprio nell’ineluttabilita` di questi vantaggi che si innesca quel progetto degenerativo che finisce per autonomizzare i processi incrementali della tecnologia applicata e condurli a forme di mero controllo sociale. Marcuse sottolinea come l’aspetto piu` inquietante delle rivoluzioni industriali non stia tanto nel fatto che si riesca a produrre maggiori quantita` e migliori qualita` di merci, quanto nel fatto che i modi di produzione (standardizzazione e meccanizzazione fordista) si impongono non solo e non tanto nella fabbrica o, in generale, nei luoghi di produzione, quanto contaminano la totalita` delle vite dei soggetti produttori. E`, insomma, l’inesorabilita` del criterio dell’organizzazione razionale della produzione spinto fino ai limiti della rigida managerializzazione della vita degli uomini che ostacola il prodursi di forme stravaganti di comportamento, che siano frutto di una sorta di creativita` irrelata dei soggetti e non di leggi costitutive del vivere razionale stesso. In queste condizioni il singolo soggetto non ha la capacita` di uscire da schemi razionali studiati per essere i migliori possibili, poiche´ eluderli significherebbe produrre comportamenti irrazionali, dunque, presumibilmente autolesivi. Tutto cio` e` possibile grazie ai presupposti stessi delle societa` di massa, che non sono in alcun modo simili alle societa` tipiche del periodo iniziale dell’industrialismo borghese, ma presentano una forte connotazione autocratica nel senso della tecnica. Infatti, dice Marcuse, «...la razionalita` tecnologica si puo` agevolmente mettere al servizio di questo controllo [il controllo gerarchico sull’uomo, n.d.a.]: nella forma del “management ascientifico”, essa e` diventata uno dei mezzi piu` proficui per un’autocrazia piu` agile e attiva».4 Anche la questione del governo viene risolta attraverso l’uso di tecniche di gestione dell’opinione delle masse e, soprattutto, delle informazioni di cui possono venire in possesso. Dice Marcuse, citando uno scritto del 1940 di F. Znaniecki sulla funzione sociale dello scienziato, che 4 H. Marcuse, Alcune implicazioni sociali della moderna tecnologia, in Marramao G. (a cura di), Tecnologia e potere nelle societa` post-liberali, Liguori, Napoli 1981, p. 147.

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«la distinzione gerarchica di esperti e supertecnici deriva dal fatto che le loro capacita` e conoscenze vengono utilizzate nell’interesse del potere autocratico. Il “leader tecnologico” e` anche un “leader sociale”; la sua “leadership sociale e` piu` importante e condiziona le sue funzioni di scienziato, perche´ gli conferisce potere istituzionale all’interno del gruppo...”, e il capitano d’industria agisce in “perfetto accordo con la tradizionale dipendenza della funzione di esperto”.»5

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Jean-Paul Sartre, Maurice Merleau-Ponty e l’impegno politico degli intellettuali Per una breve stagione, concentrata tra la fine del secondo conflitto mondiale e l’inaugurarsi ufficiale della Guerra Fredda, un sodalizio molto stretto tra un gruppo di intellettuali di lingua francese ha generato una di quelle situazioni che fanno parlare dell’esistenza di una corrente filosofica, nel caso in oggetto definita Esistenzialismo francese. Da un particolare modo di sentire il proprio rapporto con la storia circostante molti di questi intellettuali furono influenzati, ma, per varie vicende piu` o meno rilevanti due di essi furono destinati ad assumere un ruolo importante in quei pochi anni, Jean-Paul Sartre e Maurice Merleau-Ponty. Parlare di Sartre* nel contesto degli intellettuali critici del Novecento significa far riferimento ad una stagione in cui l’impegno intellettuale e 5

Ibid. * Jean-Paul Sartre nacque a Parigi nel 1905 e studio` filosofia e psicologia dal 1924 al 1927 all’Ecole Normale Supe´rieure, dove strinse amicizia con P. Nizan, Merleau-Ponty e R. Aron, e studio` Husserl e Heidegger. Nel 1929 Sartre conobbe Simone de Beauvoir, che sara` la sua compagna fino alla fine della vita. Richiamato alle armi, nel 1940 Sartre fu fatto prigioniero dai tedeschi, ma fu poi liberato e pote` tornare a Parigi, dove nel 1943 pubblico` la sua opera filosofica piu` impegnativa, L’essere e il nulla. Terminata la guerra, Sartre fondo`, in collaborazione con Merleau-Ponty, Aron, Camus e altri la rivista “Les temps modernes”. Dopo aver dato vita al “Rassemblement de´mocratique re´volutionnaire” come terza forza politica tra i due blocchi, occidentale e sovietico, Sartre si avvicino` ai comunisti francesi come “compagno di strada”. Questo avvicinamento segno` la rottura definitiva dei suoi rapporti con Camus e con Merleau-Ponty. Ma nel 1956 il rapporto Kruscev al XX congresso del PCUS e la repressione della rivolta in Ungheria furono l’occasione per il netto distacco di Sartre dai comunisti francesi. Tuttavia, fu sempre in prima linea nel prendere posizione sui problemi politici dell’epoca, e si schiero` contro la politica francese in Algeria, entro` a far parte del Tribunale Russell sui crimini americani in Vietnam e nel 1968 appoggio` il movimento studentesco. Morı` a Parigi nel 1980.

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filosofico viene declinato soprattutto come impegno politico. Per questo motivo ci concentreremo su alcune grandi tematiche ed opere sartriane dando ad esse un’enfasi maggiore rispetto ad altre pur ugualmente importanti nell’economia di un pensiero molto complesso ed articolato, anche storicamente, che ha peraltro una dimensione senz’altro pluridisciplinare, comprendendo, come comprende, opere di letteratura, teatro, opere biografiche e di critica letteraria, oltre che importanti contributi filosofici e politici. Considereremo pertanto la filosofia di Sartre a partire dal suo testo teoretico piu` importante, cioe` L’Essere e il Nulla (1943). Lo sfondo su cui questo testo viene scritto da Sartre e` quello dei suoi studi in Germania, attraverso cui egli accetta, nelle sue linee fondamentali, il progetto fenomenologico di Husserl e di Heidegger. Tuttavia, a Sartre non basta l’impostazione ‘scientifica’ che la fenomenologia si e` data e vuole piu` specificamente indagare il rapporto tra coscienza e mondo esterno in una prospettiva che non presenti ne´ i rischi di una deriva idealista (basata su di una sopravvalutazione della componente coscienziale), ne´ di una deriva empirista (basata su di un prevalere della componente materialista). Come fare a trovare una risposta alle esigenze di dotare di senso la relazione tra Soggetto e Mondo senza incorrere negli inconvenienti che Sartre riconosce negli approdi di entrambi i suoi maestri fenomenologi? A nostro avviso e` importantissimo il legame tra quest’opera sartriana e la Fenomenologia dello Spirito di Hegel, che gia` aveva indagato sul tema che e` proprio de L’Essere e il Nulla. Prima di arrivare alla comparazione tra queste due impostazioni, tuttavia, bisogna analizzare le categorie fondamentali dell’intero ragionamento sartriano e decodificarne il senso. Per Essere Sartre intende un elemento ontologico che si presenta a noi sotto una duplice forma, la prima e` quella dell’Essere in se´, cioe` del nudo fatto dell’esistenza di una materia statica ed immutabile che costituisce la realta`; la seconda e` quella di un Essere per se´, cioe` l’esistenza di una coscienza che muta nel tempo ed e` in grado di modificare il Mondo esterno. Per Nulla Sartre intende l’elemento negativo, che non e` originario (come nell’Heidegger di Che cos’e` la Metafisica?), ma che e` connaturato all’Essere, pur non appartenendovi. Insomma il Nulla e` l’essenza stessa di una coscienza che, in quanto naturalmente libera riconosce la propria liberta` solo nell’atto della negazione, nel proprio dire No e dunque nel proprio esercitare una scelta. Il carattere negativo di questa liberta` genera un legame forte tra scelta ed angoscia, nel senso che il perenne “dover scegliere” in cui e` immerso l’uomo e la eterna insecuritas che ne deriva genera un’angoscia esistenziale

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che tende a risolversi, secondo Sartre, in una continua fuga, una continua evasione da questa realta` . Questo desiderio di ‘evadere’ (o anche di ‘mascherarsi’, come sostiene Sartre coniando un’altra importante categoria filosofica, la malafede, propria di chi tenta questa sottrazione all’angoscia) nella societa` umana si concretizza, in un’immagine insieme storicamente determinata ma che rinvia ad una condizione antropologicamente fondata, nello svolgimento di una ‘professione’ ovvero un ruolo sociale riconosciuto che consente il mascheramento. Tuttavia, per Sartre, anche questo tentativo e` ridicolmente vano, dal momento che la coscienza naturalmente libera dell’uomo eccede di gran lunga qualsiasi possibilita` di dissimularsi attraverso una facciata esterna piu` o meno importante. Gia` nell’uso di termini filosoficamente molto legati all’impostazione hegeliana (quegli in se´ e per se´ di cui abbiamo parlato) il legame sopra accennato con la Fenomenologia dello Spirito e` evidente, e tuttavia esso si approfondisce quando Sartre pone al centro della propria attenzione il rapporto tra Io ed Altro, come relazione che insieme vuol rispondere alla necessita` sociale della coscienza e pero` si trasforma nella causa di maggiore sua angoscia. Cio` che accomuna Hegel e Sartre e` l’idea che la relazione Io-Altro si fondi su una mancanza, un’infelicita` naturale della coscienza individuale, che percio` stesso va alla ricerca di un possibile completamento di se´. E` il famoso processo di autocoscienza hegeliano, che in Sartre, pero`, non viene declinato sotto la specie razionale di una ricerca gnoseologica, bensı` come pura “compresenza” di due coscienze all’interno di uno stesso teatro esistenziale. Non a caso le categorie scelte da Sartre per illustrare la relazione Io-Altro sono categorie certamente non razionali strictu sensu: egli parla di un Io che sente (e´prouve) l’Altro precipuamente attraverso il medio dello sguardo. Tuttavia il movimento di doppia negazione tra Io ed Altro e la ‘politicizzazione’ del conflitto mortale tra le due coscienze, che, ricordiamolo, sono entrambe dotate dello stesso potere oggettivante nello sguardo, non puo` che essere territorio comune ai due autori. Sartre tuttavia si spinge oltre nell’analisi, introducendo un gioco di pulsioni (o di passioni?) fondato su tre impulsi che regolano il rapporto tra Identita` ed Alterita`, cioe` l’amore, il desiderio di annullamento dell’altro e l’odio. Tutte e tre queste pulsioni devono scontrarsi con il dato oggettivo, che e` rappresentato dall’impossibilita` del compiersi autentico di questa relazione, dal momento che essa appare del tutto eteronomica, cioe` ricevente senso proprio dal fatto che solo l’Altro ed il suo sguardo ha il potere di costituirmi come Io. E questo proprio perche´ nella relazione sociale cio` che conta e` l’esistenza fenomenica dell’Essere per se´, che solo lo sguardo altrui mi puo` conferire.

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Questa complessa costruzione non puo` – siamo in piena Seconda guerra mondiale – finire in modo ottimistico come in Hegel, in cui la tensione dialettica si scioglie nel movimento dell’aufhebung. Qui la relazione con Altri si risolve unicamente in frustrazione e nella sopraffazione di chi tenta, attraverso la manipolazione dei corpi materiali di disporre anche dell’eccedenza coscienziale che sempre gli uomini sono. Questa sofisticata riflessione teorica di Sartre lascia il campo, sin dal 1945, ad un mutato rapporto tra filosofia e politica, che impone al filosofo di entrare in prima persona nella politica attiva. Nasce da queste considerazioni la rivista Les Temps Modernes, che tra il 1945 ed il 1950 sara` il luogo di riflessione e di raccolta di una serie nutrita di intellettuali che aderiscono al progetto. Ma accanto a Simone de Beauvoir, Raymond Aron, Michel Leiris e tanti altri spicca soprattutto la figura di Maurice Merleau-Ponty,* che fu anche l’interlocutore privilegiato di Sartre. I due avevano studiato all’Ecole Normale negli anni Venti ed insieme avevano letto e discusso la filosofia husserliana ed heideggeriana. I suoi primi contributi sono, infatti, dedicati alla fenomenologia husserliana di cui Merleau-Ponty fornisce una lettura incentrata sulla nozione di “mondo-della-vita” (Lebenswelt), che si colloca in una dimensione pre-categoriale in cui «il mondo e` la prima di ogni analisi che io possa farne.»6 Tutte le analisi razionali, quelle basate sulle categorie cartesiane di soggetto e oggetto, uomo e mondo, spirito e materia sono analisi rese possibili solo da questa dimensione originaria e pre-categoriale che e` il mondo dei fatti e delle cose. Per questo motivo Merleau-Ponty enfatizza l’altro aspetto importante di Husserl, cioe` il “ritorno alle cose stesse”, che viene attuato attraverso un incessante lavoro di indagine che, dal punto di vista metodologico, non puo` mai dirsi concluso. Gli intensi anni della collaborazione politica con Sartre fanno passare in second’ordine il problema della fenomenologia e si pone per primo il problema della definizione della nuova corrente filosofica che i due andavano a fondare, l’esistenzialismo. In Senso e non senso, egli comincia con il difendere le posizioni sartriane (pur non del tutto condivise) dalle aggressioni teoriche * Maurice Merleau-Ponty nacque a Rochefort-sur-Mer nel 1908, studio` all’Ecole Normale Supe´rieure e divenne professore dell’universita` di Lione. Diversamente da Sartre, con il quale collaboro` alla direzione della rivista “Les temps modernes” dal 1945 al 1953, l’attivita` di Merleau-Ponty si svolse principalmente all’interno del mondo accademico: nel 1950 fu nominato professore alla Sorbona di Parigi e nel 1952 al Colle`ge de France. Nel 1953 ruppe i suoi rapporti con Sartre, allontanandosi al tempo stesso dal marxismo. Morı` prematuramente a Parigi nel 1961. 6 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Milano, Il Saggiatore, 1965, p. 18.

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dei filosofi marxisti e cristiani, che, nonostante la vuotezza di talune argomentazioni, lasciavano intravedere l’importanza del dibattito filosofico nella Francia degli anni Quaranta. Egli raccomanda a tutti di esaminare l’esistenzialismo sartriano non come manifesto teorico a se stante, bensı` come un elemento che puo` entrare in contatto e vivificare le due tradizioni sia quella marxista che quella cristiana. Conclude la difesa di quell’autore scandaloso che e` Sartre sostenendo che «un marxismo vivo dovrebbe “salvare” la ricerca esistenzialista e integrarla, invece di soffocarla.»7 Tuttavia, sul piano di questa integrazione tra marxismo e filosofia esistenzialista, vi sono due ostacoli fondamentali: da una parte l’intimismo esistenzialista, che va superato attraverso un’apertura storico-sociale, dall’altra la pretesta scientista del marxismo, che va affrontata sul piano del recupero del valore della soggettivita`. «Ogni tentativo per spiegare massicciamente una filosofia in base alle condizioni economiche e` dunque insufficiente, perche´ bisogna vederne il contenuto e discuterne le fondamenta.»8 Ma questo idillio tra Merleau-Ponty, Sartre ed il marxismo e` destinato ad interrompersi bruscamente. Con lo scoppio della guerra di Corea Sartre decide di intensificare il suo impegno politico e dalla semplice militanza nel Rassemblement De´mocratique Re´volutionnaire, movimento di ispirazione borghese e radicale, decide di aderire al partito comunista. Dal momento che la situazione impone scelte radicali, bisogna essere all’altezza dei tempi: non e` piu` possibile non schierarsi. «L’insieme storico decide in ogni mutamento dei nostri poteri [...] E` a partire da esso che decidiamo a nostra volta, dei nostri rapporti con gli altri, cioe` del senso della nostra vita e del valore della nostra morte.»9 A questa richiesta rivolta agli intellettuali di schierarsi Merleau-Ponty risponde con un allontanamento dalle posizioni di Sartre, che considera oramai un “ultrabolscevico”. Scrive dunque, in risposta all’amico, Le avventure della dialettica, saggio in cui si distacca dalla sua precedente posizione, giudicata troppo attendista da Sartre e troppo fredda nei confronti delle organizzazioni della classe operaia, per passare a quello che e` stato definito ‘acomunismo’, cioe` la non adesione ne´ allo schieramento politico comunista, ne´ a quello liberaldemocratico, per riproporre quella che era stata sin dai primi anni Quaranta la propria posizione, cioe` la richiesta di ricercare continuamente nuove strade pur nel solco della

7 8 9

M. Merleau-Ponty, Senso e non senso, Milano, Il Saggiatore, 1962, p. 106. Ivi, p. 156. J.-Paul Sartre, Les communistes et la paix, citato in S. Moravia, Sartre, Bari, Laterza, 1973 p.

99.

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INTELLETTUALI E IMPEGNO POLITICO

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tradizione segnata dal movimento operaio, nella convinzione che non si puo` ridurre tutta la dinamica politica ad una scelta secca tra ‘noi’ e ‘loro’. «Se si concentra tutta la negativita` e tutto il senso della storia in una formazione storica esistente, la classe proletaria, bisogna dare carta bianca a coloro che la rappresentano al potere, poiche´ tutto cio` che e` altro e` nemico. Allora non esiste piu` opposizione, non esiste piu` dialettica palese.»10 Da questo momento in poi le strade dei due amici si dividono. Merleau-Ponty morira` improvvisamente nel 1961, durante la stesura de Il visibile e l’invisibile, opera rimasta incompiuta. Sartre, dal canto suo, non cessera` mai piu` l’impegno politico: a partire dalla dura opposizione alla politica francese in Algeria, fino al sostegno dato alla rivoluzione cubana ed alla fiera polemica contro la politica militare degli Stati Uniti in Vietnam, egli continuera` in modo convinto ad incarnare la figura di intellettuale militante che l’aveva sempre contraddistinto.

10

M. Merleau-Ponty, Le avventure della dialettica, Milano, Sugar, 1965, p. 416.

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LA SVOLTA LINGUISTICA

Wittgenstein e il linguaggio La centralita` della nozione di linguaggio e la sua importanza non solo per il singolo argomentare teorico, ma anche per lo statuto stesso della filosofia e` chiaramente espresso nella proposizione del Tractatus logico-philosophicus, scritto nel 1918 durante la Prima guerra mondiale e pubblicato nel 1921, 4.0031, in cui Wittgenstein* dice che «Tutta la filosofia e` “critica del linguaggio”». Questa affermazione non sara` mai smentita dal filosofo austriaco ed anche la presunta frattura tra primo Wittgenstein, quello del Tractatus, e secondo Wittgenstein, quello della Philosophische Untersuchungen, sembra, alla luce della centralita` del linguaggio, del tutto priva di fondamento. In genere gli studiosi accreditano anche l’idea di un mutamento di oggetto di interesse, individuando nel primo un interesse teorico specifico verso il linguaggio come ‘oggetto logico’, mentre nel secondo un interesse empirico verso il linguaggio nel suo farsi quotidiano. A smentire anche questo assunto sta tuttavia la proposizione 4.002, in cui egli, parlando

* Ludwig Wittgenstein nacque a Vienna nel 1889 da una famiglia ebrea e si trovo` sin dall’infanzia in un clima intellettuale molto vivace. A partire dal 1908 egli trascorse lunghi periodi di studio in Gran Bretagna, dapprima come studente di ingegneria all’universita` di Manchester e poi, dietro consiglio di Frege, come studente di logica e filosofia a Cambridge, sotto la guida di Russell, al quale si lego` profondamente. Proprio in questo ambiente Wittgenstein elabora il primo nucleo del Tractatus logico-philosophicus, l’unica opera pubblicata in vita, prima in una rivista austriaca nel 1921 e poi, nel 1922, a Londra, con una introduzione di Russell. Per vari anni insegno` come maestro elementare in alcuni paesi austriaci. Solo nel 1929 torno` a Cambridge, dove rimase per il resto della sua vita, elaborando i suoi ‘quaderni’ ed insegnando in forma seminariale ad un folto numero di fedeli studenti. Morı` nel 1951.

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dell’importanza del linguaggio comune, scrive tra l’altro che «il linguaggio comune e` una parte dell’organismo umano, e non meno complicato di questo [...] Le tacite intese per la comprensione del linguaggio comune sono enormemente complicate.» Anche nel Wittgenstein del Tractatus, non meno che per quello successivo, e` centrale la riflessione sul linguaggio inteso non come oggetto di riflessione meta-linguistico, bensı` come linguaggio comune, cioe` come interazione linguistica basata sul concetto di uso. Ma qual e` la relazione tra linguaggio e mondo alla luce di questa teoria “panlinguistica” di Wittgenstein? “Il mondo e` la totalita` dei fatti” (Tatsachen) (TLP, 1.1), sostiene Wittgenstein, stabilendo in tal modo una relazione identitaria tra i due termini. Il mondo e` (e` uguale a) i fatti che ivi accadono, pertanto risulta essere non un’idea, un concetto metafisico che sta al di la` dei fatti, ma esso e` in relazione di totale coincidenza con essi. Anche la relazione tra gli stati di cose e gli oggetti e` una relazione identitaria, nel senso che non puo` esistere un oggetto che non faccia parte di uno stato di cose. Fissata dunque l’identita` tra mondo, cio` che accade, fatti, oggetti e stati di cose dovremmo anche poter parlare di questa identita` dalla parte dei soggetti che attraverso i propri atti linguistici danno vita ai fatti, fanno sı` che accada qualcosa, che si determinino stati di cose, che si utilizzino oggetti. A proposito della relazione tra il mondo ed il soggetto parlante, Wittgenstein sostiene che «la realta` dev’essere fissata dalla proposizione sino al sı` o no. All’uopo la realta` dev’essere descritta completamente dalla proposizione. La proposizione e` la descrizione d’uno stato di cose.» (TLP., 4.023) Uno dei concetti cardinali della metodologia filosofica wittgensteiniana e` il concetto di descrizione, ovvero di relazione descrittiva, secondo cui parlare significhera` senz’altro porsi in relazione con gli stati di cose attraverso descrizioni, creando mediante atti linguistici ulteriori stati di cose che modificano i precedenti. Questa e` una relazione descrittiva, ma anche una descrizione eticamente vera. Infatti non stiamo parlando della mera descrizione, quella che si limita all’aspetto esterno dell’oggetto, ma, al contrario, stiamo parlando della proposizione che si pone in comunicazione con la struttura interna dello stato di cose che descrive. L’esito, sul piano logico, sara` la possibilita` di decidere l’esattezza o la falsita` della proposizione dal confronto sempre possibile con le proprieta` interne dello stato di cose descritto, quindi della realta`. Ancora in 4.023 si legge: «La proposizione costituisce un mondo con l’aiuto d’una armatura logica, e percio` dalla

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proposizione si puo` vedere come si comporta tutto cio` che e` logico, se la proposizione e` vera. Da una proposizione falsa si possono trarre conclusioni.» La struttura logica interna del linguaggio – articolato qui in forma di proposizioni descrittive – e` tale da mettere in grado il soggetto parlante, non solo di produrre una descrizione sugli stati di cose, ma addirittura di costituire il mondo, di crearlo. Egli puo` fare cio` – sempre che parli in modo vero – proprio perche´ esiste “una armatura logica” che appartiene anche allo stato di cose. Questa parte del linguaggio e` anche una parte del mondo. Siamo ancora di fronte ad una non-relazione, ad una identita` tra linguaggio e mondo, almeno per quel che attiene a questa parte comune. C’e` un unico inconveniente sul quale Wittgenstein ci avverte: questa forma logica e` irrappresentabile attraverso il linguaggio. Lo stesso potere di rappresentare la realta` non puo` essere a sua volta rappresentato, cioe` quando noi tentiamo di descrivere il linguaggio stesso, di produrre un’analisi che ci metta in grado di isolare questo ‘fattore comune’ (analisi metalinguistica), ci accorgiamo che il meccanismo si ripete e la forma logica si sposta altrove. Il linguaggio si trasforma a sua volta in stato di cose e potremo parlare solo a patto di essere situati al suo interno, a patto di farci dettare la logica delle proposizioni dalle sue proprieta` interne. Non riusciamo ad uscire dal linguaggio, cosı` come non riusciamo ad uscire dal mondo. Per descrivere un gruppo logico di oggetti, un insieme, una ‘classe logica’, bisogna ricorrere al concetto di universale. Ma che cosa e` questo universale? Un universale e` quel carattere che emerge quando tutti gli oggetti, o molti oggetti, di uno stesso tipo sono passati sotto gli occhi di un soggetto, cio` che ci rimane nella mente come fosse un’immagine retinica che permane quando l’osservazione e` compiuta. L’universale e` cio` che e` comune, das Gemeinsame. Da questo ragionamento consegue che non esiste un universale, nel senso che cosı` come il soggetto non e` altro che un agglomerato di imputazioni possibili, un luogo utopico, anche l’universale non esiste, dal momento che non vi sono oggetti logici che rimangono immutabili, e dunque noi non possiamo dare degli oggetti definizioni universali, ma possiamo solo riconoscere e nominare dei caratteri. E` solo dopo un lungo confronto, basato su numerose ricorrenze esperienziali che il concetto 1 universale si lascia riconoscere . 1

«Ma non potrebbe esserci un simile campione ’generale’? Per esempio, uno schema di

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Tuttavia, per operare l’esperienza di confronto e riconoscimento il soggetto deve, seguendo Wittgenstein, “vedere cio` che e` comune”2, cioe` cio` che consente l’esistenza di uno scambio linguistico all’interno di una comunita` non e` solo la potenzialita` individuale del singolo soggetto, ma l’esistenza stessa – nella sua ‘nudita’ – della comunita` . Wittgenstein ci fornisce alcuni esempi di cio` che egli intenda per ’vedere cio` che e` comune’. Il fatto e` che in tutti questi esempi cio` che e` comune e` un oggetto determinato: un cespuglio, una forchetta, un tonalita` particolare di colore (malva). La questione diventa complessa quando cio` che e` comune e` si lo stesso oggetto, ma questo oggetto si presenta nelle singole situazioni tra di loro messe a confronto con delle micro–variazioni. Qui il legame diventa sfumato ed indefinito. Cosa potrei io indicare se qualcuno mi chiedesse di rappresentare il colore medio tra sfumature diverse di colori di oggetti diversi tra loro? Eppure nell’uso, nella prassi linguistica si riesce ad operare questa indicazione, anche se noi non riusciamo ad indicare un oggetto preciso che da forma a questo elemento comune. Insomma, l’elemento comune non esiste in quanto tale. Non e` una proprieta` dell’oggetto (naturalisticamente intesa) e non e` una proprieta` dei soggetti (da essi messa-in-comune). D’altro canto non e` neppure un luogo intermedio, in cui si identifica uno spazio tra i parlanti, anche se questo spazio dovesse limitarsi ad una linea, un contorno, un segno, un punto. L’elemento soggettivo, che sempre sta lı` a compromettere la completa comunicazione, non aiuta a risolvere il problema, nel senso che il mio dire «rosso» dell’elemento comune, significa dire il mio rosso, quello che io vedo come rosso. Proprio per questo non possiamo sapere se un soggetto ha compreso l’elemento comune, se lo vede, fino a che nel suo comportamento egli non parla in tal senso. «L’esecuzione dell’ordine e` ora il criterio per decidere se l’altro abbia compreso.»3 Solo nella prassi avviene la testimonianza dell’esistenza di una comunita` linguistica.

foglia o un campione di verde puro?» – Certo! Ma che questo schema venga inteso come schema e non come la forma di una determinata foglia, e che una tavoletta di verde puro venga intesa come campione di tutto cio` che e` verde e non come campione del verde puro – cio` risiede a sua volta nel modo di applicazione di questo campione» (L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1967, p. 73). 2 «Questo sembra dire: se egli si e` realmente impadronito di cio` che e` comune a tutti gli oggetti che gli ho mostrato, sara` in grado d’eseguire il mio ordine.» (L. Wittgenstein, Libro blu e libro marrone, Torino, Einaudi, 1983, p. 168) 3 Ivi, p. 170.

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LA SVOLTA LINGUISTICA

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Dunque vedere cio` che e` comune significa vedere che due oggetti sono ‘simili’, cioe` che tra due oggetti di uno stesso tipo si individuano innegabilmente delle somiglianze di famiglia. Questa e` dunque un’esperienza di somiglianza. Bisogna, tuttavia, subito avvertire che non ci sono criteri sicuri per individuare delle famiglie di significati. Dice Wittgenstein che: «l’espressione: «Egli vede cio` che e` comune a tutte queste sfumature » puo` riferirsi ai piu´ svariati fenomeni; in altri termini, i fenomeni piu´ varıˆ sono usati come criterio del ‘suo vedere che...’.»4 Per ora evidenzieremo solo che, come accadeva per l’esperienza di confronto e riconoscimento, anche l’esperienza di somiglianza non accetta l’imposizione di criteri oggettivi, pur senza in alcun modo sacrificare l’efficacia, nell’uso, della comunicazione di esperienze soggettive intorno agli stati di cose. Bisogna sottolineare l’importanza del concetto di accordo rispetto alla possibilita` di usare i giochi linguistici in modo corretto ed efficace, anche perche´ questo aspetto della teoria wittgensteiniana e` quello che piu` di ogni altro lo mette in contatto con la filosofia pragmatista anglosassone. Tuttavia va specificato che questo accordo nasce nella prassi come acquisizione di una tecnica che ci consente di usare il linguaggio. Naturalmente, poiche´ esiste il problema del riconoscere correttamente gli oggetti con un nome che sia accettato dalla comunita` cui si appartiene, la nostra possibilita` di fare cio` non puo` riposare sulla coazione, ne´, tantomeno, sulla ripetizione mimetica e meccanica di espressioni apprese, ma sulla “spontanea” adesione del parlante al linguaggio della comunita`. Qui “spontanea” da una parte sta per “in modo intenzionale”, dall’altra per “in modo libero e volontario”. Per poter operare questo tipo di nominazione bisogna conoscere i giochi linguistici che ci servono, ma anche occorre individuare taluni paradigmi che consentano di utilizzare le regole di questi giochi in modo naturale e spontaneo5. E` solo attraverso un lungo e complesso apprendistato che i bambini riescono a dotarsi di tutte quelle sfumature linguistiche – ad esempio quella differenza tra apparire ed essere che fonda l’espressione “mi sembra” – di cui hanno il potere di fare uso. La nozione di accordo interviene anche in sede di verifica degli enunciati per decidere se un certo gioco linguistico e` stato o no giocato in 4

Ivi, p. 174. «Mi sembra rosso ». – « E com’e` il rosso? » – « Cosı`». E cosi dicendo si deve indicare il paradigma giusto.» (L. Wittgenstein, Zettel, Torino, Einaudi, 1986, § 420). 5

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modo corretto. Qui compare lo statuto della certezza che sara` cosı` importante nelle proposizioni di U¨ber Gewissheit, e che si sostanzia in quel “non potersi piegare il ginocchio” di fronte ad alcuna prova contraria rispetto ad una affermazione. Tuttavia, se il concetto di accordo e` cosı` importante, non dobbiamo pensare che esso si confonda con una sorta di “patto sociale linguistico” per stipulare il quale tutti gli abitanti di una nazione si riuniscono in una ipotetica piazza e plebiscitariamente decretano quali sono i nomi degli oggetti, magari nominandoli in coro ogniqualvolta il capo dello stato mostra loro un’immagine di questo o quello stato di cose. L’accordo e` implicito, cioe` si crea attraverso l’uso e si sedimenta attraverso la durata nel tempo di quell’uso linguistico. Bisogna infine avvisare che per Wittgenstein l’ipotesi convenzionalista e` accettabile solo fino ad un certo segno. Infatti egli ammette la nozione di convenzione linguistica solo sul piano della giustificazione, cioe` quando noi ci chiediamo cosa ci sia a fondamento di un certo uso linguistico. Ma questo non fonda automaticamente le certezze che da quell’accordo derivano, certezze che rimangono, nonostante tutto, sempre infondate. Neanche l’evidenza puo` fondare la nostra certezza nell’uso di certe parole in determinati giochi linguistici, che sono al contrario basati sia sulla nostra personale fiducia nei nomi, sia sulla constatazione che molti altri come noi credono nelle stesse espressioni linguistiche. «Quando si dice: “L’evidenza [Evidenz] puo` rendere soltanto probabile l’autenticita` del sentimento espresso”, questo non vuol dire che in luogo di una certezza piena c’e` sempre soltanto una congettura piu` o meno fiduciosa. «Solo probabile» non puo` riferirsi al nostro grado di fiducia, ma solo al modo della sua giustificazione, al carattere del gioco linguistico. Certo, deve essere d’aiuto, nel determinare la costituzione del nostro concetto, il fatto che fra gli uomini non c’e` accordo relativamente alla certezza delle loro convinzioni.»6 In chiusura vorremmo tentare di definire – alla luce di quanto detto finora – il linguaggio come una sorta di prassi complessa, ovvero come una pratica comunitaria che implica molteplici fattori che ne influenzano l’uso. Proveremo, dunque, ad elencare questi fattori, in presenza dei quali, secondo noi, Wittgenstein parla di usi linguistici: Il primo e piu` importante e` quello di uso, cui abbiamo fatto ricorso soprattutto in relazione alla prassi linguistica della comunita`. Ma la nozione 6 L. Wittgenstein, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, Milano, Adelphi, 1980, vol. II, § 684.

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di uso linguistico e` anche una nozione di una larghezza indefinita nella filosofia linguistica di Wittgenstein, fino alla possibilita` di giustificare un’interpretazione ‘strumentalista’, che vede un’analogia tra l’uso del linguaggio e l’utilizzazione degli strumenti di costruzione degli oggetti (pur in notevole disarmonia con la complessiva tendenza anti-costruttivista che emerge dal Wittgenstein dell’ultimo periodo). Il secondo e` quello di accordo tra i parlanti, rispetto a cui bisogna ricordare due elementi inportanti: da una parte bisogna tener presente che cio` che fonda l’accordo e` Das Gemeinsame, cio` che e` comune, dall’altra la nozione di accordo e` una delle possibili strade per negare dignita` filosofica al problema del linguaggio privato, cioe` della possibilita` che un singolo soggetto possa creare dal nulla un intero linguaggio comprensibile solo a se stesso e a nessun altro. In Wittgenstein il linguaggio privato non e` solo un errore teorico, o la contraddizione di un sistema, egli sostiene l’impossibilita` dello stesso pensare ad un linguaggio che possa avere la caratteristica della privatezza, ovvero dell’assoluta soggettivita`. In altri termini, il concetto di linguaggio privato viene da lui respinto in quanto ‘insensato’. Il terzo e` quello dell’apprendimento, inteso come stratificazione di esperienze concordanti, sia a livello di singolo soggetto parlante – in questo senso intendiamo la stratificazione di esperienze nei bambini che in tal modo apprendono ad usare il linguaggio – sia a livello di un’intera comunita` linguistica, che definisce le proprie regole. Il quarto e` quello di concetti universali. L’universalita`, come abbiamo detto sopra, e` intesa come solida nebulosita` di esperienze simili. In questo senso qui trova piena applicazione il concetto di ‘family resemblances’ (somiglianze di famiglia) cosı` importante nel secondo Wittgenstein. Infine c’e` il concetto di certezza infondata, secondo cui la catena delle giustificazioni ha un termine e tuttavia la nostra fiducia nei giochi linguistici e nel loro funzionamento corretto – almeno nella maggior parte dei casi – non puo` venir meno all’interno di una comunita` che mantiene un livello accettabile di ‘prossimita` ’.

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Il linguaggio e la comunicazione: Ju¨rgen Habermas Ju¨rgen Habermas* comincia la propria attivita` di ricerca presso l’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte, con cui manterra`, pur nella discontinuita` legata alla differenza di vedute che maturano di volta in volta su argomenti specifici con i suoi piu` autorevoli esponenti, un forte legame intellettuale. L’itinerario intellettuale di Habermas che qui intendiamo ricostruire vedra` al centro della riflessione il problema della comunicazione e del linguaggio, non perche´ sia questo l’unico tema di questo filosofo, che anzi ha dato vita a numerosi filoni critici e prodotto una mole enorme di scritti e materiali di riflessione, bensı` perche´ intendiamo interpretarne l’opera all’interno di un’area di pensiero concentrata sull’importanza che il linguaggio riveste nella costituzione delle forme di vita. Il primo passaggio da sottolineare e` di carattere metodologico. Nello scritto del 1961, Prassi politica e teoria critica della societa`, Habermas sottopone ad una forte critica la posizione metodologica imperante, secondo la quale le scienze naturali sarebbero caratterizzate da un metodo rigorosamente e weberianamente ‘avalutativo’, di contro alle scienze sociali che sarebbero al contrario caratterizzate da un metodo soggetto ad elementi ‘umanamente’ irrazionali. Secondo Habermas l’unica metodologia valida e` quella dettata da un approccio razionalmente critico, che assicuri quelle garanzie di verita` che devono contraddistinguere il lavoro dei ricercatori. Per questo, sotto il profilo della razionalita` critica, tesa a rimettere costantemente in discussione i paradigmi della scienza, discipline naturali e discipline sociali non presentano alcuna differenziazione sostanziale. Tuttavia, la differenziazione che questa apparente questione metodologica denuncia e` per Habermas piu` profonda. Nella modernita` egli tende ad individuare la distinzione netta tra una concezione tecnica dell’agire, cioe` la capacita` di produrre un’azione informata a modelli di riferimento, e una concezione pratico-morale, che e` in grado di produrre azioni che possono evidenziare anche un atteggiamento critico di chi le pone in essere. Secondo Habermas bisognerebbe esercitare una controspinta teorica che permetta di riequilibrare quella tendenza della modernita` a premiare l’impostazione tecnica * Ju¨rgen Habermas, nato a Du¨sseldorf nel 1929, fu assistente di Adorno presso l’Institut fu¨r Sozialforschung di Francoforte; fu professore universitario ad Heidelberg dal 1961 al 1964 e poi passo` all’universita` di Francoforte, fino al 1971. Dal 1971 al 1982 diresse il Max Planck Institut e dal 1983 torno` ad insegnare all’universita` di Francoforte. Nella prima fase del suo pensiero le sue fonti di ispirazione sono state prevalentemente Hegel e Marx, nell’interpretazione data dalla scuola di Francoforte.

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LA SVOLTA LINGUISTICA

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anche in settori che non possono essere ridotti a questo semplice schema metodologico, come quello sociale e quello politico. Attraverso l’idea di una razionalizzazione dell’agire, egli riunifica i due campi, ribadendo che nella modernita` non vi sono sostanziali differenze tra i campi dell’agire sotto il profilo della razionalita`, che tuttavia sub-ripartisce a seconda delle specificazioni di contenuto: la razionalita` diventa tecnica quando l’aspetto teleologico viene enfatizzato; economica se prevale l’aspetto della scelta tra finalita` diverse; strategica se l’azione da esercitare prevede degli attori in concorrenza tra loro; infine cibernetica se l’azione razionale tende a replicare artificialmente modelli di tipo naturale. Ma Habermas va oltre questo modello tecnico dell’agire razionale, affermando che almeno un aspetto dell’attivita` sociale razionale non e` riducibile in modo evidente a qualsiasi tentativo di tecnicizzazione, il discorso argomentativo, che si sottrae all’elemento tecnico almeno per il fatto che ne costituisce il presupposto, cioe` quella precondizione generale di possibilita` senza la quale qualsiasi discorso razionale diventa impossibile. Le ricadute di questa critica della razionalizzazione moderna e, piu` tardi, postmoderna, sono analizzate da Habermas anche e soprattutto sul terreno politico, attraverso l’elaborazione di una originale teoria della democrazia. Gia` in una ricerca del 1958, situata nel contesto di un’indagine sociale dell’Istituto di Francoforte sul tema Studenti e Politica, egli manifesta la tendenza ad interpretare la democrazia occidentale come un processo di progressivo allargamento della partecipazione politica a sempre piu` vaste platee di soggetti e gruppi: d’altro canto la netta distinzione ottocentesca tra Stato e Societa` civile, fondata sulla distinzione marxiana tra struttura economica e sovrastruttura politica, viene da Habermas ritenuta oramai in corso di netta trasformazione. La rispettiva tracimazione sia dell’ingerenza statale sulla societa` civile (nella sua forma piu` positiva come Stato sociale), sia del potere di condizionamento dell’apparato economico e dei suoi gruppi di pressione sulle decisioni politiche, hanno ibridato irrimediabilmente il teatro di questa divisione ed inoltre attentano continuamente al carattere espansivo ed inclusivo che connota la democrazia occidentale. A queste possibili degenerazioni Habermas contrappone la richiesta di una piu` diffusa partecipazione politica dei soggetti e nel far questo reinterpreta la teoria della democrazia come teoria dell’opinione pubblica. In Storia critica dell’opinione pubblica, del 1962, il concetto di opinione pubblica sembra coincidere con quello di sfera pubblica tout court, laddove, tuttavia, essa si renda accessibile a tutti i cittadini e quindi fondi quell’ideale di partecipazione che restera` costante in tutta la produzione politica di Habermas.

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La centralita` dell’elemento linguistico, declinato soprattutto nel suo aspetto comunicativo, viene a delinearsi in Habermas gia` nel volume Conoscenza e interesse, del 1968, in cui egli ribadisce che il contesto comunicativo non deriva unicamente dall’assetto economico e tecnico di una forma di vita, ma che e` la tradizione culturale che «...forma il contesto linguistico di comunicazione con il quale i soggetti interpretano la natura e se stessi nel loro ambiente»7. Questo comune terreno linguistico-culturale e` tuttavia visto in termini pratici: l’interesse pratico (che connota soprattutto le discipline storico-ermeneutiche) sta nella necessita` della comprensione reciproca tra gli interlocutori. L’esigenza comunicativa sta alla base della scelta di Habermas di individuare un terreno della comunita` linguistica che garantisca i parlanti in modo stabile e nel fare cio` si accosta all’idea strutturale di Chomsky e si discosta da possibili derive relativiste che la lettura di Davidson delle tesi wittgensteiniane sui giochi linguistici potrebbe alimentare8. Questo atteggiamento lo porta a strutturare quattro “pretese di validita`” del linguaggio, come a sottolineare che il contenuto veritativo deve essere fatto salvo proprio a partire dalle necessita` comunicative. Esse sono la comprensibilita` reciproca tra interlocutori, la verita` almeno del contenuto preposizionale, la veridicita` che instaura un rapporto fiduciario tra interlocutori, la correttezza normativa rispetto ad uno sfondo comune agli interlocutori. Il problema dell’agire comunicativo porta Habermas ad una formulazione sistematica che trova concretezza nel volume Teoria dell’agire comunicativo, del 1981, ove egli definisce l’agire comunicativo come un agire in cui «i progetti d’azione degli attori partecipi non vengono coordinati attraverso egocentrici calcoli di successo, bensı` attraverso atti dell’intendersi.»9 La premessa e` critica rispetto all’identificazione tra processi di modernizzazione e processi di razionalizzazione, sia nei suoi aspetti teleologici che espressivi. Il problema che Habermas solleva e` che questi processi di razionalizzazione non tengono in alcun conto che il presupposto della razionalita` sociale e` l’esistenza di quello che, con Husserl, egli chiama un Lebenswelt, mondo vitale, che, lungi dall’esaurirsi attraverso i suoi aspetti substrutturali (cultura, societa`, personalita`), trova il suo vero senso nell’individuazione di una zona di riproduzione simbolica, che e` in grado di coordi-

7 8

J. Habermas, Conoscenza e interesse, Bari, Laterza, 1970, p. 55. J. Habermas, Logica delle scienze sociali, Bologna, Il Mulino, 1970, in particolare pp. 134

sgg. 9

J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, Bologna, Il Mulino, 1980, p. 394.

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LA SVOLTA LINGUISTICA

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nare i progetti individuali attraverso una dimensione di intesa universale sulla comunicazione in se´. Ritornando sul problema del rapporto tra modernita` , razionalita`, comunicazione e linguaggio, anche qualche anno piu` tardi Habermas sosterra` che «la situazione linguistica e` quella asezione di un mondo della vita, [...] che per i processi di intesa tanto costituisce un contesto quanto appronta le risorse.»10 Insomma, gli atti linguistici non sono solo tesi a soddisfare una razionalita` che raggiunge l’unico scopo di trasportare informazioni tecniche, ma perseguono contemporaneamente piu` di una funzione. «Azioni linguistiche elementari esibiscono una struttura, nella quale sono intrecciate fra loro tre componenti: la parte preposizionale per l’esposizione (o la menzione) di stati di cose, la parte illocutiva per l’inserimento di relazioni interpersonali, ed infine le componenti lingui11 stiche che esprimono l’intenzione dei parlanti.» Sul piano politico queste riflessioni habermasiane si riflettono in un’articolata teoria che mette capo al concetto di democrazia discorsiva. Nel volume del 1992, Fatti e norme. Contributi ad una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, egli individua i presupposti di validita` delle norme giuridiche e morali affermando il cosiddetto ‘principio del discorso’, che afferma che «sono valide soltanto le norme d’azione che tutti i potenziali interessati 12 potrebbero approvare partecipando a discorsi razionali.» Poiche´ il diritto e` il punto di congiunzione tra due media (impresa capitalistica e Stato) e il mondo vitale, e` importante sottolineare che esso non ha alcuna validita` se non all’interno di una comune intesa tra gli interlocutori che partecipano al discorso pubblico, intesa da cui esso trae la propria legittimita`. L’ultima produzione di Habermas, la piu` recente, analizza i fenomeni di depotenziamento degli stati nazionali e la ristrutturazione su base globale dei processi di democrazia discorsiva sfruttando il metodo della domestic analogy e di alcune sue prese di posizione sara` conveniente parlare nel passaggio dedicato al moderno globalismo.

10

J. Habermas, Il discorso filosofico della modernita`, Roma-Bari, Laterza, 1987, p. 301. Ivi, p. 313. 12 J. Habermas, Fatti e norme. Contributi ad una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Milano, Guerini e Associati, 1996, p. 131. 11

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Gadamer e l’ermeneutica Anche in Gadamer,* come in Wittgenstein, la funzione del linguaggio e` fondamentale non solo per la costituzione delle forme di vita nel loro complesso, bensı` anche per la dotazione di senso che le azioni possono detenere. Le influenze che la filosofia ermeneutica di Gadamer subisce sono molteplici: a partire da tutti quegli autori che mettono in crisi le teorie sistematiche (razionaliste o idealiste) della fondazione della soggettivita` occidentale, cioe` Marx, Nietzsche, Kierkegaard e Freud. Ma a questa impostazione modernamente critica egli aggiunge i risultati che sul piano della critica del linguaggio avevano prodotto Heidegger e Wittgenstein. La sua opera centrale, che fonda anche le categorie del movimento ermeneutico nel suo complesso, e` Verita` e Metodo, del 1960, e si apre con una prospettiva metodologica, in parte ereditata da Dilthey, che presuppone una netta distinzione tra scienze naturali e scienze dello spirito, in aperta polemica con l’universalizzazione del metodo scientifico positivista e la sua conseguente estensione alle scienze sociali. Questa rivendicazione di differenza avviene attraverso la reintroduzione della variabile ‘verita` ’, interpretata soprattutto alla luce della storia. In pratica Gadamer sostiene che l’ermeneutica deve porsi il compito di porre la questione della verita` come evento, a partire cioe` da una ricostruzione storica del contesto interpretativo, che non lasci l’interpretante in balia del proprio giudizio soggettivo, recuperando cosı` un piano ontologico, cioe` uno spazio su cui il sapere disciplinare si innesta. Questo piano ontologico si definisce a partire dalla categoria di precomprensione, che viene declinata come la possibilita` del soggetto interpretante di relativizzare i propri pregiudizi, di renderli noti alla propria coscienza, in modo da poter serenamente distinguere gli elementi soggettivi propri dall’alterita` oggettiva che il testo propone. Dunque, per Gadamer «l’interprete non accede al testo semplicemente rima* Hans Georg Gadamer nacque a Marburgo nel 1900. Gadamer ha studiato nell’universita` della citta` natale, dove nel 1922 ha conseguito il dottorato in filosofia con Natorp e nel 1929 la libera docenza con Heidegger. A Marburgo ha seguito le lezioni di storia delle religioni e di teologia tenute rispettivamente da Walter Otto e Rudolf Bultmann. Gadamer ha viaggiato molto anche per l’Italia. Dopo un periodo di insegnamento a Marburgo, passa all’universita` di Lipsia, dove, con l’approvazione delle autorita` sovietiche di occupazione, e` nominato rettore nel 1946-47. Successivamente passo` a insegnare a Francoforte e poi, nel 1949, a Heidelberg, sulla cattedra tenuta da Jaspers; dal 1953 fu direttore della “Philosophische Rundschau”, e a partire dal 1985 e` in corso di pubblicazione l’edizione completa delle sue opere. Morı` nel 2001.

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LA SVOLTA LINGUISTICA

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nendo nella cornice delle presupposizioni gia` presenti in lui, ma piuttosto, nel rapporto col testo, mette alla prova la legittimita`, cioe` l’origine e la validita`, di tali presupposizioni.»13 Questo metodo consente contestualmente di definire i rispettivi ambiti tra soggettivita` ed oggettivita` anche attraverso il riconoscimento, da parte del soggetto, del preciso spazio limitato all’interno del quale egli si muove, allontanando da se´ ogni possibile rischio di assolutizzazione di pensiero. D’altra parte un’interpretazione cosı` storicamente contestualizzata e` utile a definire se stessa come un processo di comprensione che rimane costitutivamente aperto, non tanto e non solo da un punto di vista quantitativo (conosco di piu`) e qualitativo (conosco meglio), ma sotto il profilo costitutivo, nel senso che la mia conoscenza, poiche´ e` il frutto di una fusione sempre rinnovata tra il mio soggettivo interpretare e l’inafferrabile alterita` dell’evento nella propria verita` storica, e` costretta a continue ristrutturazioni dei propri fondamenti stessi. E` sotto questo profilo che interpretiamo anche l’altra categoria fondante del discorso di Gadamer, quella di circolo ermeneutico. Esso e` un rapporto tra soggetto interpretante ed oggetto interpretato in cui, durante il processo di comprensione, entrambi i termini della relazione risultano significativamente modificati. In questo senso, la comprensione in Gadamer e` sia di tipo dialogico (improntata ad uno scambio di domande e risposte) sia di tipo dialettico (implicante una risultante unitaria del rapporto), a differenza di quanto non avvenga in altri autori molto vicini all’ermeneutica come Martin Buber, per il quale e` solo l’elemento dialogico che rileva nel rapporto di conoscenza, o Emmanuel Le´vinas, nel cui pensiero l’alterita` e` infinitamente inavvicinabile per via razionale dal soggetto epistemologico. Abbiamo tuttavia sottolineato che la preoccupazione principale di Gadamer e` quella di contrastare le derive relativistiche nelle scienze storico-sociali e dunque egli individua un terreno ontologico delle esperienze ermeneutiche. Questo spazio comune, come in Wittgenstein, e` costituito dal linguaggio come termine medio tra il vissuto soggettivo e la storicita` oggettiva del mondo. Anzi, come in Wittgenstein, vi e` una fondamentale coestensione tra linguaggio e mondo ed e` in questa identita` che riposa il carattere ontologico e precomprensivo del primo termine. Scrive Gadamer: «ogni comprensione e` interpretazione, e ogni interpretazione si dispiega sul medium di un linguaggio, che da un lato vuol lasciare che si esprima l’oggetto stesso e dall’altro, tuttavia, e` il linguaggio proprio dell’interpre13

H. G. Gadamer, Verita` e Metodo, Milano, Bompiani, 1983, p. 314.

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te.»14 Questo statuto del linguaggio appare evidente soprattutto nei processi di traduzione: poiche´ il circolo ermeneutico della conoscenza appare sempre un’interpretazione, esso si puo` configurare sempre come una mediazione, una traduzione dalla lingua della soggettivita` a quella dell’alterita` e viceversa. Possiamo dunque concludere che il contenuto veritativo ed ontologico dello scambio comunicativo e conoscitivo e` rappresentato in modo evidente, nell’ermeneutica di Gadamer, dal linguaggio, non inteso come entita` meta-linguistica, bensı` nel farsi quotidiano dell’esperienza epistemologica.

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Linguaggio e potere: Michel Foucault Nel 1966, Michel Foucault* scrive Le parole e le cose, opera in cui si pone il problema del rapporto tra il soggetto ed il linguaggio: in che rapporto stanno questi due termini, il linguaggio e` strumento del soggetto o non piuttosto quest’ultimo ne risulta fortemente condizionato? In effetti Fou15 cault scrive che noi «siamo [...] dominati e interpenetrati dal linguaggio» , portando poi a compimento una serie di esiti che da questo assunto derivano. Il primo riguarda i modi stessi in cui una forma di vita si struttura, modi che, secondo Foucault, non rispondono affatto ad un processo di continuita` storica come da piu` parti vien fatto di suggerire. L’indisponibilita` del linguaggio da parte del soggetto deriva, al contrario, dal fatto che alla base della costituzione delle forme di vita vi sono meccanismi che espropriano i soggetti della propria liberta` a vantaggio di una sorta di struttura fissa che egli chiama episte`me. L’episte`me viene definita da Foucault come un complesso di valori e concetti che condizionano non solo le modalita` in cui una forma di vita rappresenta se stessa, ma che operano in concreto, cioe`

14

H. G. Gadamer, Verita` e metodo, ed. it. p. 460-sgg. * Michel Foucault, nato nel 1926 a Poitiers, studio` filosofia e psicologia all’Ecole Normale Supe´rieure di Parigi e, in seguito, lavoro` presso istituti culturali francesi a Uppsala, Varsavia e Amburgo e nel 1970 ricevette la nomina di professore di storia dei sistemi di pensiero al Colle`ge de France. Gli studi di Foucault riguardarono precipuamente i mezzi di affermazione e di dominio del potere nell’eta` contemporanea e questi studi lo portarono ad analizzare i vari sistemi di contenimento biopolitico delle masse: la clinica, il manicomio, il carcere. Nell’ultima parte della sua attivita` concentro` i suoi interessi sulla sessualita`. Morı` a Parigi nel 1984. 15 M. Foucault, Le parole e le cose, Milano, Rizzoli, 1967, p. 311.

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LA SVOLTA LINGUISTICA

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modificando concretamente i soggetti secondo le possibilita` che in una determinata contingenza storica si determinano16. Bisogna subito avvertire su almeno due conseguenze correlate all’uso della nozione di episteme in Foucault. La prima e` il carattere di reciprocita` che intercorre tra episteme e soggetto, nel senso che se e` vero che il primo sembra il vero protagonista delle azioni storiche poiche´ e` in grado di influire in modo determinante sul secondo, quest’ultimo pero` e` la vera ‘materia vile’ delle trasformazioni storiche e dunque conserva un potere di resistenza nei suoi confronti. La seconda conseguenza inerisce al carattere storico e quindi relativo della vita delle episteme. Esse, infatti, si succedono, come abbiamo sopra accennato, non attraverso elementi di continuita` storica, bensı` attraverso le cosiddette fratture epistemologiche, cioe` vere e proprie cesure delle forme di vita, che ne decretano cosı` la fine. Dunque, la storia non e`, come gli illuministi di tutte le epoche tendono a credere, un susseguirsi di illuminazioni progressive, bensı` un alternarsi anarchico di forme di vita che nascono e consumano in maggiore o minor tempo il proprio ciclo vitale. Per la presenza di queste soluzioni di continuita` nel procedere degli eventi e delle culture, Foucault si rifiuta di accedere ad una prospettiva di ricostruzione storica di tipo sintetico e suggerisce piuttosto un metodo basato sull’idea di ‘archeologia del sapere’. Nel volume L’Archeologia del sapere, del 1969, egli afferma la necessita` di interpretare il passato storico come se fosse appartenente a civilta` scomparse, poiche´ i presupposti epistemologici per comprendere e spiegare quelle forme di vita non appartengono piu` al patrimonio culturale e valoriale degli interpreti. Il concetto di ‘a priori storico’ che appare in questo testo foucaultiano rinvia a una polemica profonda con i presupposti dello strutturalismo, a cui pure la formazione teorica di Foucault deve molto. L’episteme non ha lo stesso valore teorico della struttura, poiche´ quest’ultima e` fissa ed immutabile, di contro al carattere storicamente determinato e “locale” della prima. Tutto cio` che possiamo dunque fare e` tentare di decostruire gli elementi concreti intorno ai quali si articola la vita delle comunita` storiche, cosa che Foucault andava gia` compiendo sin dai primi anni Sessanta, in particolare con Storia della follia nell’eta` classica (1961) e con Nascita della clinica (1963), e che compira` ulteriormente in seguito con Sorvegliare e punire (1975). In tutti questi contributi, Foucault evidenzia, attraverso il loro significato epistemico, il ruolo simbolico e la funzione concreta che alcuni importanti istituti, il manicomio, l’ospedale e la prigione, rivestono nella societa` 16

Ivi, p. 11-12.

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occidentale. In tutti questi casi «si tratta sostanzialmente di procedure di esclusione che non consistono soltanto [...] in negazioni, interdetti, creazione di “caselle nere”, ma in operazioni di suddivisione e distribuzione, nel partage.»17 Il valore simbolico non sta solo nel tentativo recente delle istituzioni moderne di eliminare la visibilita` della parte di soggetti meno assimilabile al dettato della normale razionalita` strumentale occidentale (folli, malati, delinquenti), quanto anche nell’affermare che e` proprio il partage la cifra delle istituzioni politiche moderne. «Il regime di verita` che si produce mediante tale partage e` un regime di potere»18 ed e` proprio della moderna nozione di potere che Foucault continuera` da ora in avanti a parlare intendendo tuttavia per potere non la tradizionale capacita` repressiva di cui ogni stato moderno e` ampiamente in grado di esprimere. Il potere per Foucault ha un volto piu` nascosto ma, per cio` stesso, piu` insidioso, piu` difficile da combattere: in un’intervista di J.-J. Brochier, pubblicata in Italia nel 1977 in un volume dal titolo Microfisica del potere, Foucault e` molto esplicito sulle forme odierne di riproduzione del potere, sostenendo che esso oramai tenta di coinvolgere la maggior parte dei soggetti in una politica insieme di inclusione, diffusione, corresponsabilizzazione, che finisce per inquinare l’interezza dei rapporti sociali e politici e rendere la relazione di potere l’unica cifra della societa` contemporanea. Questo particolare aspetto del problema della relazione di potere esplode nell’ultima produzione foucaultiana con particolare riferimento alle tematiche della sessualita` come luogo privilegiato attraverso cui si visibilizza il meccanismo. «In maniera generale, il punto di incontro tra “corpo” e “popolazione”, il sesso, diventa il punto centrale per un potere che si organizza intorno alla gestione della vita piuttosto che intorno alla minaccia della morte.»19 Nasce cosı` la categoria di biopotere e quella conseguente di biopolitica, che Foucault sviluppera` in particolare nei corsi al Colle´ge de France dal 1975 al 1980 e che esemplifichera` ulteriormente nei tre volumi sulla sessualita` moderna, Histoire de la sexualite´.

17

R. Bodei, Politica e potere in Foucault, in M. Bovero (a cura di), Ricerche politiche, Milano, Il Saggiatore p. 110. 18 Ibid. 19 M. Foucault, La volonta` di sapere. Storia della sessualita` vol.I, Milano, Feltrinelli 1976, p. 193.

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IL GLOBALISMO

Introduzione A partire dalla fine della guerra fredda, che potremmo in verita` collocare cronologicamente in un periodo di tempo molto elastico, ma che senza dubbio ha trovato la propria visibilizzazione simbolica nell’abbattimento del muro di Berlino e piu` in generale nel crollo dei paesi ex comunisti, il mondo sembra conoscere una sola forma di vita storicamente ‘vincente’, quella della societa` occidentale. In questo senso non si tiene piu` neanche conto del regime economico e politico che l’aveva contrapposta a quella orientale e comunista, ma di un complesso di valori e modi di guardare alla realta` che connotano non solo un’area geo-politica, bensı` uno spazio che conosce uno standard economico ed una qualita` della vita incomparabile con qualsiasi altra zona geo-politica del pianeta. Da questa riconosciuta primazia in poi, l’Occidente assume una serie di conseguenze presuntive che sono tuttavia ancora non definitive. La prima e` che non vi sono alternative istituzionalmente valide rispetto al modo capitalistico di produzione e soprattutto alla forma di governo democratico-parlamentare; la seconda e` che a causa delle spinte globalistiche entra in crisi il modello dello stato-nazione come e` stato finora concepito dal XVI secolo ad oggi; la terza e` che questa crisi e` di portata talmente vasta da impedire l’esercizio di un governo politico del mondo tout court, preferendo sostituire a questa ipotesi quella di una governance mondiale; la quarta e` che vanno assumendo in un ottica globale una maggiore importanza le organizzazioni internazionali, tutte improntate alla mediazione dei conflitti benche´ prive di tutti i caratteri della giuridicita`; quinta ed ultima conseguenza, ma forse la piu` interessante dal nostro punto di vista, e` quella secondo cui appare oramai definitivamente condiviso e condivisibile quel

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DALLA FINE DELLA II GUERRA MONDIALE ALLA CADUTA DEL MURO DI BERLINO

pacchetto di diritti universali dell’uomo che costituisce il preambolo costituzionale di qualunque organizzazione statuale nazionale o sovranazionale dell’Occidente geo-politico. In questo quadro nasce la prospettiva del cosiddetto globalismo giuridico, che ci fornira` il punto di vista da cui guarderemo nelle prossime pagine ai fenomeni di integrazione politica globale di cui siamo oggetto al giorno d’oggi.

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Teoria dei sistemi e globalizzazione: Niklas Luhmann Guarderemo a Niklas Luhmann* come al precursore di un approccio sistemico e dunque globale ai problemi sociali e politici delle societa` contemporanee, poiche´ egli e` un autore che ha anticipato in larga misura la riflessione sui processi che hanno condotto il pianeta ad una situazione di stretta interdipendenza sistemica. Innanzitutto va menzionata una polemica sorta tra Luhmann ed Habermas maturata a partire dal volume Teoria della societa` o tecnologia sociale?, del 1971, che vede contrapposti i due autori su molte questioni di interpretazione dell’evoluzione dei modelli sociali e politici nella contemporaneita`. In verita`, dal momento che i due sistemi teorici non presentano molti punti di contatto, partiamo da essa esclusivamente per il fatto che appare qui come Luhmann tenda ad interpretare il proprio pensiero come una forma complessa di reazione alla necessita`, che ancora Habermas fa propria, di individuare un filo conduttore unico dell’interpretazione del mondo (in Habermas e` il meta-linguaggio della comunicazione sociale). Possiamo pertanto affermare che il pensiero luhmaniano e` un pensiero convintamene relativista, nel senso che rifiuta di cercare un fondamento di senso nelle vicende umane ed anzi riduce l’esercizio stesso dell’interpretare a mero strumento funzionale teso a rispondere nel modo migliore a problemi di natura esclusivamente contingente. La categoria coniata da Luhmann, in Illuminismo sociologico, del 1970, per analizzare i sistemi sociali e` quella di * Niklas Luhmann, nato nel 1927, e` uno dei rappresentanti piu` autorevoli e originali del pensiero sociologico tedesco contemporaneo. Si e` occupato di sociologia generale, di sociologia del diritto, di teoria politica, di sociologia della religione, di semantica storica, di etica e di ecologia. Intellettuale con una profonda preparazione filosofica, ha sempre prestato una particolare attenzione ai problemi teorico-epistemologici della sua disciplina, inaugurando un importante filone di interpretazione politica e sociologica di tipo ‘sistemico’. E` morto nel 1998.

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riduzione di complessita`: posto che il mondo si presenta in nessun altro modo se non quello dell’infinito numero di possibilita` impossibile a ricondursi ad un’interpretazione unitaria, bisogna fare in modo da ridurre la portata della nostra riflessione ad aree contingenti e parziali (ambienti) che possono essere controllate da sistemi costituiti sulla base delle effettive possibilita` maturate e capaci di controllarle in modo affidabile. In questo senso Luhman richiama il concetto di illuminismo, riattualizzandolo in quello di Illuminismo sociologico, cioe` un approccio che, nella continua dialettica tra sistema (aperto) e ambiente esterno, colga attraverso la continua opera di riduzione «l’estrema e indeterminata complessita` del mondo e il ristretto potenziale di senso, presente nell’esperienza vissuta e nell’azione che di volta in volta si attualizzano.»1 Ma come funziona la teoria sistemica in concreto? Vediamo, ad esempio, il sistema politico nel suo processo di trasformazione nella societa` contemporanea. Il concetto forte con cui Luhmann esamina il problema del politico e` quello di autoreferenzialita`, il che vale a dire che il gruppo di potere agisce in forza di obiettivi propri, basandosi su leggi comportamentali che rispondono a regole e norme codificate al proprio interno. In breve, cosı` Luhmann espone nel suo Stato di diritto e sistema sociale, del 1971, il potere politico agisce unicamente per la propria autoconservazione ed anzi, piu` in generale, lo stato, in quanto differenziazione del sistema sociale, persegue il fine dell’autoconservazione del sistema nei confronti dell’ambiente esterno. Ma anche la costruzione luhmaniana, basata su un funzionalismo rigoroso, seppur non rigido come quello della sociologia classica, deve essere reinterpretato alla luce di quelle metamorfosi indotte dalle trasformazioni politiche verificatesi nella societa` occidentale. In Teoria politica nello stato del benessere, del 1981, Luhmann traccia una diagnosi delle trasformazioni del modello ed individua una serie di fattori critici che portano al cortocircuito politico, sulla scorta della tendenza autoreferenziale del sistema politico, che genera differenziazione funzionale, tendenza sempre piu` spinta all’autonomia del sistema, necessita` di inclusione crescente di masse di popolazione, impossibilita` di controllare la crescita del sistema. In breve, le aspettative della popolazione crescenti e depositate nella sfera politica (ad es. il welfare state), in parte stimolate dallo stesso sistema, tendono a sfuggire alla controllabilita` dello stato e producono effetti perversi. «Esistono quindi tendenze, sia tradizionali che completamente moderne, ad 1

N. Luhmann, Illuminismo sociologico, Milano, Il Saggiatore, 1983, p. 87.

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assegnare alla politica un ruolo globale nella nostra societa` . Di fronte a tale tendenza stanno le limitatissime possibilita` di azione politica. [...] Questa discrepanza tra pretese e realta` porta alla rovina le ideologie politiche dell’ovest e dell’est; comincia a triturare gli ultimi rimasugli di fiducia politica.»2 Siamo di fronte ad un limite strutturale delle possibilita` che il sistema politico ha di differenziarsi al proprio interno o di prendere decisioni vincolanti sotto il profilo normativo e non esiste la possibilita` di prevedere una soluzione attiva del problema. Piuttosto, par di capire suggerisca Luhmann, la politica dovrebbe ridimensionare se stessa ritirandosi da ambiti nei quali essa non puo` agire con efficacia (cioe` non puo` porre in relazione nuove aspettative e politiche efficaci) e limitandosi a svolgere un ruolo di generico indirizzo in sottosistemi che presentano logiche molto piu` adatte a compiere efficaci riduzioni di complessita`.

Il globalismo giuridico e culturale Abbiamo accennato in apertura di questo discorso come dal 1989 in poi la percezione occidentale della situazione politica e giuridica del mondo diviene improvvisamente ‘ottimistica’, cioe` sembra dare per acquisita la convergenza planetaria sul sistema di norme che devono di qui in avanti regolare su scala globale la vita dell’umanita`. L’opera kantiana Per la pace perpetua ispira quella tendenza cosmopolitica del diritto a ritenersi vincente sulla politica e nasce il cosiddetto “globalismo giuridico” cioe` l’idea che vi sia un’unita` morale/naturale del genere umano come fondamento delle regole internazionali. Questo dato unito alla crisi della sovranita` intesa su scala nazionale porta alla definitiva affermazione di questo principio nella forma sia dell’unificazione globale del diritto internazionale, sia del conferimento ad organi sopranazionali (ONU, UE, tribunale penale internazionale) dei poteri necessari a svolgere la mediazione giuridica dei conflitti. Su questa strada si sono incamminati molti autori del Novecento, Kelsen, Habermas, Rawls, Dahrendorf, Bobbio e molti altri, argomentando intorno ad una serie di questioni cruciali. La prima questione e` quella del fondamento etico del globalismo giuridico, che si baserebbe, oltre che sulle affermazioni etiche kantiane, anche sulla convinzione che esso postuli l’esistenza di una «comunita`

2

N. Luhmann, Teoria politica nello stato del benessere, Milano, Angeli, 1983, p. 171.

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giuridica universale degli uomini»3 che di per se´ pretende anche un’unita` giuridica globale. La seconda questione e` quella del fondamento di giuridicita` delle nuove istituzioni internazionali. Gia` Kelsen si trova a disagio nell’argomentare positivamente su questo punto, dal momento che egli stesso aveva dichiarato esplicitamente che senza il requisito della capacita` coercitiva, nessun ordinamento puo` dirsi realmente giuridico. Come si sa gli strumenti coercitivi che questi organismi internazionali sono in grado di porre in essere dipendono interamente dalla capacita` dei singoli stati che li compongono e, peraltro, non in misura e peso uguale. Anche Habermas, tuttavia, appare piuttosto incerto su questo punto, tanto da rinviare la questione offrendo un modello di risposta basato unicamente su generiche aspettative di neutralita` nei confronti degli stati piu` potenti della terra. Infine, per superare l’insufficienza giuridica dell’ONU, Bobbio sostiene la necessita` dell’instaurazione di un unico «superstato o stato mondiale»4. La terza questione e` quella che riguarda la definitiva scomparsa della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali. Questa vecchia idea che basa le relazioni internazionali su una ingiusta prevaricazione di potenza dovrebbe essere superata per due vie: innanzitutto se esiste un diritto internazionale unificato valido globalmente non vi sono le basi giuridiche per la proclamazione di una guerra, al piu` si potra` trattare di sanzioni ‘penali’ (cioe` implicanti l’uso della forza) non contro stati, ma contro singoli individui o gruppi di potere; inoltre, nel caso in cui l’obiettivo da sanzionare sia un intero stato, l’accusa di ingerenza puo` essere superata rispolverando l’antica teoria della guerra giusta, come, ad esempio, Habermas fa in Dopo l’Utopia nel 1991, in riferimento alla necessita` di intervenire contro l’Iraq aggressore del Kuwait, o come fa Bobbio ancora sulla stessa questione5. In realta`, sia che gli argomenti invocati siano di tipo formalista, sia che siano di tipo realista, il problema del globalismo giuridico sembra affondare le radici in um problema piu` generale che riguarda la particolare curvatura dei processi di integrazione e di interdipendenza su scala planetaria. In questo senso sembra fondata la critica relativa sia alla «connessione che lega fra loro il diritto internazionale, il potere politico e la forza militare»,

3

H. Kelsen, Il problema della sovranita` e la teoria del diritto internazionale, Giuffre` , Milano 1989, 468 sgg. 4 N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna 1979, p. 80. 5 N. Bobbio, Una guerra giusta? Sul conflitto del Golfo, Marsilio, Venezia 1991.

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sia al «pregiudizio etnocentrico (europeo e occidentale) di una cultura giuridica che mentre si produce in un progetto di unificazione del mondo si mostra singolarmente indifferente nei confronti delle tradizioni politiche, culturali e giuridiche diverse da quelle occidentali.»6 Che il modello che sta alla base di qualsiasi ‘universalizzazione’ del diritto e della politica sia di origine unicamente occidentale e che esso serva come ariete per la penetrazione della cultura occidentale nel mondo e` un fatto ovvio ma importante, perche´ produce conseguenze in stretta connessione con il vizio originario, la pretesa di assolutizzazione di un punto di vista. In questo senso e` chiaro che il modello di globalizzazione che oggi sta crescendo sembra essere tutt’altro che policentrico e presta il fianco a critiche sia quanto ai suoi effetti all’esterno del mondo occidentale che all’interno. Per quanto riguarda gli effetti esterni, soprattutto il declino delle culture diverse da quella occidentale e l’aumentare del divario tra Nord e Sud del mondo, vale per tutte la posizione di Serge Latouche che, citando Christian Maurel, parla di ritorno al modello coloniale attraverso altri mezzi: «se si fa la storia delle battaglie [...] il colonialismo e` fallito. Basta fare la storia delle mentalita` per accorgersi ch’esso e` il piu` grande successo di tutti i tempi. Il piu` bel prodotto del colonialismo e` la farsa della decolonizzazione [...] I bianchi si sono ritirati dietro le quinte, ma restano i produttori dello spettacolo.»7 L’idea di Latouche e` che in realta` la globalizzazione economica ed industriale, che si mostra chiaramente nella sua derivazione occidentale, non e` che una faccia di un meccanismo di dominio molto piu` complesso, che prevede in prima istanza l’esportazione unificante non solo di un modello economico, bensı` di un modello culturale, le cui parole d’ordine sono sviluppo, progresso, modernizzazione, diritto. «L’industrializzazione non e` all’origine del processo di destrutturazione di tutte le societa` del Terzo mondo. In effetti, l’industrializzazione sarebbe inconcepibile senza una occidentalizzazione preliminare. La religione dello sviluppo presuppone una conversione delle menti che e` stata realizzata dalla forza bruta (in certi casi, la colonizzazione), dalla forza simbolica (la fascinazione nel caso della Turchia di Atatu¨rk) o da entrambe (caso dell’Egitto).»8 Ma anche dall’interno del mondo occidentale c’e` chi enfatizza gli effetti 6

D. Zolo, I signori della pace. Una critica del globalismo giuridico, Carocci, Roma 1998, p. 17. C. Maurel, L’Exotisme colonial, Laffont, Paris 1985 cit. in S. Latouche, L’Occidentalisation du monde. Essai sur la signification, la porte et les limites de l’uniformisation plane´taire, tr. it. L’occidentalizzazione del mondo, di A. Salsano, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 10. 8 S. Latouche, L’Occidentalisation du monde, cit., p. 100. 7

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IL GLOBALISMO

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negativi del processo di globalizzazione, soprattutto per quanto riguarda l’erosione degli spazi di controllo politico in un mondo in cui l’e´lite decisionale si e` completamente invisibilizzata. Secondo Zygmunt Bauman «e` possibile che l’aumento della liberta` individuale coincida con l’aumento dell’impotenza collettiva in quanto i ponti tra vita pubblica e vita privata sono stati abbattuti o non sono mai stati costruiti»9, il che significa che il gia` forte legame, come sottolineava Foucault, tra sapere e potere che contraddistingue le societa` occidentali con l’avvento dei complessi e sofisticati strumenti di scambio di informazione limitera` ulteriormente i gia` scarsi margini di controllo che il cittadino privato poteva vantare sulla sfera delle decisioni pubbliche. La conclusione che trae Bauman e` che, dato che le decisioni cruciali verranno prese al di fuori dello spazio pubblico conosciuto (una sorta di simbolica agora`) «il potere reale rimarra` a distanza di sicurezza dalla politica e la politica continuera` a non poter fare quello che ci si aspetta faccia: esigere da tutte le diverse forme di sodalizio umano la prova di essere fondate sulla liberta` di pensiero e azione e chiedere loro di uscire di scena se rifiutano o non sono in grado di farlo.»10

Bibliografia V. Melchiorre (a cura di), L’idea di persona, Vita e Pensiero, Milano 1996. N. Bombaci, Una vita, una testimonianza: Emmanuel Mounier, Siciliano, Messina 1999. A. Lamacchia, Mounier: personalismo comunitario e filosofia dell’esistenza, Levante, Bari 1993. E. Affinati, Un teologo contro Hitler: sulle tracce di Dietrich Bonhoeffer, Mondadori, Milano, 2002. G. Ruggieri (a cura), Dietrich Bonhoeffer. La fede concreta, Il Mulino, Bologna 1996. C. Sini, Semiotica e filosofia: segno e linguaggio in Peirce, Nietzsche, Heidegger e Foucault, Il Mulino, Bologna 1978. J. L. Austin, Come fare cose con le parole: le ‘‘William James Lectures’’ tenute alla Harvard University nel 1955, Marietti, Genova 1987. M. Alcaro, John Dewey: scienza, prassi, democrazia, Laterza, Roma-Bari 1997. B. Casalini, Filosofia, antropologia e politica in John Dewey, Morano, Napoli 1995. 9

Z. Bauman, In search of Politics, Polity Press 1999, tr. it. La solitudine del cittadino globale, di G. Bettini, Feltrinelli, Milano 2000, p. 10. 10 Ivi, p. 14.

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DALLA FINE DELLA II GUERRA MONDIALE ALLA CADUTA DEL MURO DI BERLINO

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IL GLOBALISMO

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SEZIONE VII IL FEMMINISMO E IL PENSIERO DELLA DIFFERENZA

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di Franca Papa

Si intende con il concetto di femminismo l’insieme delle riflessioni e delle pratiche politiche che hanno come proprio obiettivo l’affermazione dell’autonomia delle donne, nella forma della emancipazione dalla diseguaglianza delle condizioni sociali e politiche e della rivendicazione positiva della differenza della loro soggettivita` intellettuale, emozionale e valoriale come il tratto fondamentale della loro dignita` umana e della loro cittadinanza. Il movimento femminista da cui prende origine il termine femminismo e la riflessione teorica che l’accompagna compare in Francia con la rivoluzione del 1789 anticipato dalle teorie filosofiche di Condorcet e dal pensiero delle donne letterate del XVIII secolo e parzialmente accolto poi dalla filosofia marxista ottocentesca per il suo contenuto ancora emancipazionista ed egualitarista. Infatti dal 1848 per quasi un secolo il movimento delle donne conduce una dura battaglia con al centro la rivendicazione del diritto di voto. La migliore enunciazione dei contenuti rivendicativi del movimento femminista nella sua fase nascente si trova in On the Subjection of Women (1879) di J.S. Mill: “L’incapacita` delle donne era l’unico esempio in cui le leggi colpiscono un individuo dalla sua nascita e decretano ch’egli non sara` mai, tutta la sua vita durante, autorizzato a concorrere a date posizioni”. Un importante filone del movimento per la emancipazione della donna si lega alla riflessione di Marx ed Engels ed al movimento socialista, che avevano pensato la liberazione della donna come strettamente connessa alla costruzione della societa` socialista. A queste dottrine si ispira all’inizio del Novecento, l’azione politica di alcune grandi protagoniste della storia del movimento operaio: Rosa Luxemburg, Clara Zetkin e Alessandra

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IL FEMMINISMO E IL PENSIERO DELLA DIFFERENZA

Kollontai. Questo impegno militante, pur lontano ancora dal produrre un superamento della diseguaglianza dei soggetti nelle relazioni familiari consentı` alla societa` sovietica di guadagnare leggi moderne per la regolamentazione dell’aborto e del divorzio, conquiste che gli Stati Uniti dovranno attendere fino al secondo dopoguerra. Tra la prima e la seconda guerra mondiale l’ingresso delle donne nelle universita` si fa piu` frequente e l’obiettivo dell’eguaglianza giuridica si coniuga a quello della pari dignita` lavorativa e professionale. Oggi l’eguaglianza di retribuzione e la parita` di accesso al lavoro appare prevalentemente raggiunta e le donne si sono immesse ampiamente nei percorsi professionali. Parallelamente nelle forme piu` recenti della sua elaborazione il movimento delle donne ha in parte ottenuto un allargamento dei servizi alle famiglie ed una piu` equa ridistribuzione di compiti e mansioni all’interno del nucleo famigliare nella responsabilita` del lavoro di cura. Contestualmente a cio` le donne hanno proposto una revisione del diritto di famiglia nel senso dell’eguaglianza dei diritti tra i coniugi. Nella seconda meta` del Novecento comincia a mutare forma la teoria del femminismo e si mette in luce una revisione via via piu` radicale della concezione dell’eguaglianza come valore. Il movimento delle donne incomincia a proporre l’affermazione della differenza insieme al diritto alle pari opportunita` come una via per ripensare l’idea tradizionale di cittadinanza in una prospettiva piu` larga e piu` capace di includere soggetti portatori di culture tradizioni e sensibilita` differenti. Le donne, dunque, sono l’altro per eccellenza, tradizionalmente incluso-escluso dallo spazio della cittadinanza perche´ ammesso in quello spazio solo a condizione della radicale negazione della specificita` del suo essere soggetto. Esse chiedono dunque di poter stare nelle relazioni parentali, lavorative e giuridiche cosı` come sono, e di essere rispettate per la loro dignita` di persona-donna. Stigmatizzano cosı` la condizione quotidiana di un sistema di relazioni inter-soggettive, sociali, lavorative e giuridiche che le ammettono solo in quanto esse decidono di “stare al gioco”, cioe` di accettare e far proprio il punto di vista maschile. Mettono cosı` in discussione un modello di organizzazione famigliare e sociale costruito al prezzo di un tasso altissimo di sofferenza e di sacrificio femminile. Questa riflessione produce effetti molto sensibili sulla problematizzazione della concezione tradizionale della cittadinanza quando essa si impatta con societa` complesse: multietniche, multiculturali, multireligiose. Gli elementi iniziali di questa revisione si trovano nell’opera di Simone de Beauvoir, Il secondo sesso (1949) che attinge utilmente alla contamina-

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IL FEMMINISMO E IL PENSIERO DELLA DIFFERENZA

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zione tra filosofia e psicanalisi. Alla ricerca di Freud si deve infatti una complessa serie di studi relativi ai differenti percorsi di maturazione dei due generi tra l’infanzia e l’adolescenza. Nella cultura anglosassone questa riflessione viene ripresa nelle ricerche di J. Mitchell (Psycoanalisis and Feminism, 1974), K. Millet e B. Friedman. In Francia viene dalla scuola di J. Lacan (celebre studioso di psicoanalisi a partire dagli anni ’50) la messa in crisi del paradigma dell’emancipazione soprattutto nell’opera di Luce Irigaray (Speculum de l’autre femme 1974; Etica della differenza sessuale 1987). La ricerca di Irigaray, che reca al femminismo un contributo radicale e originale e` in parte responsabile della consapevolezza generalizzata ormai nel movimento delle donne del carattere “ontologico”, culturale e sociale della differenza di genere. E` questa nuova forma della definizione dell’identita` femminile che muta sensibilmente, a partire dagli anni ’80 l’agenda politica dei movimenti e dei partiti di orientamento democratico. Le femministe nei partiti e nei movimenti si pongono nella prospettiva della richiesta di una societa` piu` democratica in quanto “sessuata”, cioe` disponibile a tener conto della sensibilita`, della affettivita` della cultura e del punto di vista delle donne, nella famiglia e nelle istituzioni. Questa battaglia, condotta dal piu` ampio, diffuso e trasversale soggetto portatore di differenza diventa strategica nella prospettiva di una societa` che si organizzi per accogliere le molte ‘differenze’ che l’evoluzione verso il sistema-mondo produce. L’incidenza filosofica del mutamento epistemologico che il pensiero della differenza richiede appare fino ad oggi largamente inesplorata dai percorsi tradizionali della razionalita` moderna. Se si deve ricominciare a costruire il ragionamento dal punto che questa corrente di pensiero propone e cioe` a partire da un’origine non singolare ma duale della costituzione materiale del mondo, tutto lo scibile sviluppato intorno al neutromaschile, deve essere ripensato. La teoria del soggetto moderno, soprattutto, e la fenomenologia della sua crisi puo` essere ripensata integralmente a partire dal fatto che cio` che la filosofia ha definito concettualmente come soggetto (uomo, individuo, intellettuale, cittadino) ha sempre e soltanto rappresentato e contenuto il significato di maschio-adulto-occidentaleproduttivo, e cioe` una piccola e minoritaria porzione dell’umanita`. La “scoperta” del fatto che, in realta`, questo concetto (universalemaschile) “metteva in forma”, utilizzando un linguaggio che specificamente apparteneva a questo stesso soggetto, storicamente dominante, per mezzo dell’occultamento, l’altro soggetto-differente o gli altri soggetti-differentiplurali, mette in luce la situazione dei rapporti di forza storicamente definiti

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IL FEMMINISMO E IL PENSIERO DELLA DIFFERENZA

in un modello dato di societa` . Sugli esiti possibili di questa impostazione appare assai ricca la riflessione di Luisa Muraro (L’ordine simbolico della madre, 1991) e Adriana Cavarero (Nonostante Platone: figure femminili nella filosofia antica, 1990). E tuttavia appare gia` chiaro negli anni ’80 ai gruppi dirigenti del movimento femminista ed all’intelligenza diffusa sulle questioni che derivano dalla nuova impostazione della questione femminile che il nucleo del problema proposto non attiene solo alla teoria ed alla filosofia nel senso della correzione di un difetto miopia della razionalita` occidentale. Il centro della questione e` infatti nello stato dei rapporti di forza tra i due generi nelle societa` occidentali e cioe` nella enorme difficolta` delle donne a stare con forza nel conflitto ormai generalizzato ed aperto in tutte le societa` democratiche. Questo mutamento di prospettiva politica porta a un’ampia mobilitazione per la conquista di un sistema di ‘quote’ di rappresentanza nella pubblica amministrazione e nel sistema politico-istituzionale che produce esiti visibili soprattutto nei paesi nord-europei anche per lo sforzo congiunto delle coalizioni democratiche al potere di tentare di garantire alle donne pari opportunita` nell’accesso alla risorsa della decisione politica. E tuttavia la fortissima resistenza del sistema istituzionale e del sistema politico mostra il grado di esclusione ancora operante sul versante della partecipazione politica nonche´ i limiti del grado di espansivita`, di organizzazione del movimento femminista che stenta a prendere la forma di un soggetto politico. Sul versante della teoria, mentre si registra un ritardo nella direzione della costruzione di una filosofia del diritto sessuata, che sarebbe strumento assai importante per la definizione di piattaforme di mobilitazione sul terreno dell’accesso ai diritti e per una ridefinizione del concetto di cittadinanza, il paradigma della differenza si sviluppa sul terreno della filosofia del linguaggio. In Francia, dall’interpretazione delle teorie di Lacan e Derrida, prende forma una riflessione (L. Irigaray e H. Cixous) che nel corso degli anni ’80 portera` ad un dibattito importante per la diffusione in Italia della filosofia della differenza, nell’ambito della comunita` di filosofe di “Diotima” (L. Muraro e A. Cavarero). Due importanti eventi internazionali mostrano la consistenza politica e culturale raggiunta nell’ultimo ventennio dal movimento delle donne. Sono le due conferenze internazionali di Nairobi (1985) e di Pechino (1995). Alla piu` recente di queste iniziative (Pechino) hanno partecipato 30.000 delegate da tutto il mondo.

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INDICE DEI NOMI

Adler; 289-291 Adorno; 81, 357-359 Agazzi; 291 Albertoni; 226, 256 Alessandrone Perona; 273 Alvi; 306 Amendola; 246, 260, 261 Andersen; 188 Apollo; 138 Ardigo`; 214 Arendt; 342-348 Aristotele; 13, 37, 176 Armellini; 202 Aron; 368, 371 Arrighi; 82 Asor Rosa; 216, 220, 246 Atatu¨rk; 396 Austin; 328 Ayer; 329 Baader; 57, 59 Bachofen; 361 Bacone; 340 Badaloni; 198 Bagnoli; 277 Bain; 320, 321, 324 Balbo; 204 Barbuto; 216 Baretti; 273 Barth; 317 Basso; 293 Baudelaire; 85 Bauemler; 181 Bauer; 44, 290 Bauman; 397 Beauvoir, de; 368, 371, 402 Bedeschi; 209, 261 Be´la Kun; 294

Benjamin; 342, 366 Bentham; 80, 103, 330 Berg; 366 Bergson; 151-154, 158, 160, 258, 310 Berlin; 82 Bernanos; 310 Bernstein; 283, 284, 289, 292, 297, 299 Bertolozzi; 266 Bettini; 397 Bigi; 197 Bignami; 229 Billot; 235 Biral; 196 Bismarck; 94, 96, 283 Bloch; 295 Bloy; 310 Bobbio; 207, 214, 226, 258, 272, 273, 289, 394, 395 Bodei; 390 Bolyai; 163 Bonald, de; 56, 88 Bonaparte, Giuseppe; 190 Bonfantini; 321 Bonghi; 192, 224, 225 Bonhoeffer; 315-318 Borgese; 246 Borghero; 191 Bottai; 266 Bracher; 81 Bradley; 328 Bravo; 241 Brentano; 165, 166, 328 Briffault; 361 Brochier; 390 Bruni; 199 Buber; 359, 360, 387 Bucharin; 296 Bultmann; 386

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INDICE DEI NOMI

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Buonaiuti; 239 Burke; 56 Burresi; 191 Burzio; 255, 257-260 Busino; 249 Cafagna; 205 Calogero; 268, 273, 276, 277 Calvino; 364 Campana; 245 Campbell; 191 Camus; 368 Canaris; 315 Candeloro; 235, 238, 240, 242, 253 Cantimori; 98, 121, 217, 262 Capitini; 273, 277 Capograssi; 258, 259 Capone; 214 Carabba; 189 Carducci; 220 Caretti; 193 Carnap; 338 Carrara Lombroso; 255 Cartesio; 14, 15, 25, 57, 150, 152, 166, 167, 173, 176, 340 Cassirer; 149, 352 Castelnuovo Frigessi; 207 Cattaneo; 206, 207, 209, 218, 229, 247, 272 Cavarero; 404 Cavour; 201, 202, 204, 205, 214, 278 Chabod; 219 Chamberlain; 182 Charcot; 157 Chomsky; 384 Ciarleglio; 209, 223 Cicerone; 31 Cieskowski; 44 Cixous; 404 Cocteau; 310 Cofrancesco; 256, 277 Cohen; 149, 289, 290, 360 Colarizi; 81 Colletti; 284 Collodi; 216, 218 Comte; 101-103, 108, 151 Condorcet; 88, 401 Copernico; 15 Coppola; 252 Corradini; 242, 251, 252 Costa; 229 Crispi; 241

Croce; 213, 220, 221, 223, 229, 242-244, 246, 254, 258, 260, 262, 266-271, 285-288, 297, 299, 355 Cropsey; 316 Cubeddu I.; 212 Cubeddu R.; 335, 337 Cuoco; 190, 195, 204 D’Annunzio; 245, 253 D’Azeglio; 201, 211 Dahrendorf; 394 Dandieu; 313 Darwin; 107 Davidson; 304, 332 De Amicis; 216 De Falla; 310 De Felice; 271, 278 De Filippo; 84 De Gasperi; 274, 276, 278 de Giovanni; 83, 217, 288 De Man; 360 De Meis; 211, 223, 265 De Negri; 188, 190 De Nicola; 276 De Rosa; 235 De Ruggiero; 270, 271 De Sanctis; 196, 197, 201, 205, 206, 208, 211, 213, 215, 218, 243 Debord; 307 Del Giudice; 266 Del Noce; 348, 355, 356 Derrida; 404 Devaux; 101 Dewey; 324, 326, 327 Di Rudinı`; 241 Dilthey; 148, 149, 166, 386 Dimitrov; 275 Dioniso; 138 Dostoevskji; 85 Dotti; 196, 207, 209 Dummett; 328 Durkheim; 111-113 Duso, 354 Edipo; 159, 361 Eichmann; 345 Einaudi; 269 Einstein; 164 Engels; 46, 47, 202, 230, 281-283, 288, 289, 401 Esposito; 337

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INDICE DEI NOMI

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Euclide; 163 Farias; 177 Federzoni; 241, 252 Ferenczi; 361 Ferrari; 206-209, 248 Ferrero; 255-257, 259, 260 Ferri; 214, 231 Feuerbach; 43-46, 51, 287, 288 Fichte; 23-25, 31, 43, 44, 69 Fioravanti; 223 Fistetti; 178 Flaubert; 218 Fogazzaro; 239 Ford; 298 Fortunato; 215, 247, 260 Foscolo; 189, 190, 225 Foucault; 388-390, 397 Franck; 143-145 Frare; 190 Frege; 164, 328, 332, 375 Freud; 137, 157-161, 359, 364, 386, 403 Friedman; 403 Fromm; 358-364 Fubini; 197 Gadamer; 386-388 Gaeta; 224 Galilei; 6, 57, 166, 168 Galli; 337 Gallino; 191 Garin; 206, 271 Gentile; 200, 201, 253, 258, 260-264, 266, 267, 270, 276, 285, 287, 288 Gentiloni; 239, 240, 242 Gerber; 115 Gerratana; 187, 235, 283, 285, 298 Gherardi; 214 Ghisleri; 220 Giani Gallino; 191 Giannantoni; 212 Gioacchino da Fiore; 350 Gioberti; 200, 260 Giolitti A.; 98 Giolitti G.; 231, 240, 242, 254, 255, 270 Giorgetti; 230, 281 Gnocchi-Viani; 229 Gobetti; 205, 272, 273 Gobineau, de; 182 Goedel; 164 Goethe; 24, 57

407

Gorresio; 191 Gozzano; 245 Gozzi; 222, 223 Gramsci; 187, 234, 260, 272, 283, 285, 297-300, 305, 355, 356 Grandi; 241 Grassi; 321 Grazia; 357 Griffin; 330 Grimm; 188 Grosoli; 238 Grossmann; 357 Gru¨nberg; 357 Guarnieri; 214 Guerra; 283 Guerri, 262 Guicciardini; 205 Habermas; 359, 382-385, 392, 394, 395 Hare; 329, 330 Harsanyi; 330 Hayek, von; 335, 337 Hegel; 3, 8, 23, 25-41, 43, 44, 46, 51, 55, 65-69, 73, 80, 81, 104, 118, 149, 176, 208, 211, 213, 233, 262, 263, 287, 295, 340, 361, 364, 365, 369-371, 382 Heidegger; 165, 171-181, 332, 342, 352, 368, 369, 386 Heisenberg; 164 Heller; 115 Herbart; 233 Herder; 57 Hermet A.; 189 Hermet G.; 307 Hempel; 338 Hess; 44 Hilferding; 290 Hirschman; 191 Hitler; 111, 176, 178, 181, 263, 315 Hobbes; 81, 82, 111, 354 Hobsbawm; 82, 83 Ho¨lderlin; 179, 180 Honneth; 359 Horkheimer; 81, 357-359, 362-366 Hugo; 60 Hume; 15, 365 Husserl; 165-169, 171, 172, 306, 328, 333, 342, 352, 368, 369, 371, 384 Im Hof; 188 Irigaray; 403

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408

INDICE DEI NOMI

Isnenghi; 243

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Jay; 359 James; 319, 322-326 Jaspers; 342, 386 Jellinek; 115 Joyce; 85 Jung; 157 Kafka; 84 Kant; 9, 13-23, 25-27, 32, 41, 43, 44, 70, 71, 112, 119, 137, 149, 150, 166, 167, 173, 176, 187, 290, 339, 364, 366 Kaufmann; 335 Kautsky; 46, 283, 284, 289-292, 294 Kelsen; 121-123, 125, 305, 336, 348, 394, 395 Kiekegaard; 63-69, 73, 74, 136, 386 Koire´; 342 Kollontai; 402 Korsch; 295, 357 Krabbe; 125 Krieck; 181 Kruscev; 368 Kuliscioff; 230 Laband; 115, 222 Laberthonnie`re; 239 Labriola; 225, 228, 231, 233, 237, 282, 283, 285, 293 Lacan; 403, 404 Lamennais, de; 60, 61, 88 Landucci; 18 Latouche; 396 Leibniz; 14, 150 Leiris; 371 Lenin; 295, 296, 355 Leone; 293 Leone XIII; 235 Leone De Castris; 193 Leopardi; 189, 196-199 Le´vinas; 387 Liebknecht; 292 Linz; 251 Lobacevskij; 163 Locke; 15, 211, 290 Loisy; 239 Lombroso; 214, 231, 255 Loria; 286 Lo¨wenthal; 357-359 Luhmann; 392-394

Luka´cs; 294, 295, 357, 361 Luporini; 233 Lutero; 95, 315, 316, 318, 364 Luxemburg; 292-294, 401 Macchia; 193 Machiavelli; 199, 206, 208, 285, 309 Magri; 81 Maistre, de; 56 Malandrino; 241 Malaparte; 262 Mancini; 211-213, 219 Mandeville; 80 Mangoni; 225 Mann; 267 Manzoni; 189, 192-195, 197 Marcuse; 191, 358, 359, 361, 362, 364-368 Maritain; 309-312, 315 Marramao; 367 Marx; 43, 46-53, 81, 85, 92, 93, 112, 133, 151, 160, 202, 217, 230, 281, 283, 286-288, 293, 295, 340, 355, 356, 360, 361, 382, 386, 401 Masini; 220 Mastellone; 202-204, 274, 276, 335 Maurel; 396 Mauriac; 310 Maurras; 309 Mayer; 115 Mazzini; 202-204, 209, 218, 219, 248, 261 McTaggart; 328 Meda; 238 Meinecke; 254 Menger; 335 Merella; 191 Merleau-Ponty; 314, 368, 371-373 Michels; 247-249, 251 Michelstaedter; 245 Miglioli; 238 Millet; 403 Minghetti; 213, 214, 221, 227 Mises, von; 335 Mitchell; 403 Mommsen; 220 Moncagatta; 197 Mondolfo; 200, 285, 288 Montefiore; 330 Montesquieu; 20, 41 Moore; 328-330 Mosca; 221, 226-228, 251 Mosse; 305

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Mounier; 309, 313-315 Mozart; 66 Mu¨ller; 57, 60 Muraro; 404 Murri; 234, 237-239 Muscetta; 207 Musil; 84 Mussolini; 241, 246, 261, 262, 267, 273 Napoleone; 148, 193 Natorp; 149, 290, 386 Negrelli; 223 Neumann; 191 Newton; 6, 58 Nietzsche; 134-141, 143-147, 151, 153, 154, 160, 176, 246, 258, 332, 386 Nievo; 225 Nigro; 193 Nitti; 270 Nizan; 368 Novalis; 57, 58, 189 Olle´-Laprune; 238 Olsen; 65 Onufrio; 285 Oriani; 247-249, 251-252 Orlando; 212, 221-223, 225, 226, 244, 270 Ortega y Gasset; 307 Otto; 386 Paganuzzi; 236, 238 Panaccione; 291 Papa; 267 Papini; 242, 246, 253 Pareto; 247-251, 258 Parmenide; 172 Passerini; 211 Pavese; 143 Pe´guy; 309, 310, 313 Peirce; 319-322, 324-326 Pesante; 248 Petraccone; 215, 232 Petrini; 159 Pio IX; 235 Pio X; 238 Pirandello; 84 Pisacane; 207-210 Planck; 164 Platone; 176, 340, 347 Plechanov; 292 Pollock; 357, 358

409

Popper; 338-342 Prezzolini; 242, 246 Procacci; 86 Protti; 191 Proudhon; 229 Puccini; 85 Ragionieri; 275, 290 Raimondi; 195, 213 Rattazzi; 204, 278 Ravera; 61 Rawls; 330-332, 394 Reich; 360 Reik; 360 Renner; 290 Rickert; 150 Rocco; 264, 265 Rodano; 198 Romeo; 205 Rorty; 332, 333 Rosati; 199, 203 Rosenberg; 181 Rosenzweig; 359 Rosmini; 200 Rosmini Serbati; 154 Rosselli; 273-75 Rossi; 235 Rota Ghibaudi; 208 Rouney; 366 Rousseau; 9, 10 Ruge; 44 Russell 332, 375 Russi; 209, 210 Russo; 197 Sabbatucci; 225 Saffi; 202 Saint-Simon; 101 Salsano; 396 Salvadori; 81, 247 Salvatorelli; 193, 196, 204, 247 Salvemini; 243, 254, 260 Sandku¨hler; 291 Sanguineti; 245 Sanna; 191 Sansone; 196 Santi Romano; 244 Sartre; 314, 368-373 Savigny, von; 60 Schelling; 23, 43, 44, 57 Schiavone; 223

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410

INDICE DEI NOMI

Schiller; 24 Schlegel; 57 Schleiermacher; 57, 69 Schmitt; 121-125, 127, 263, 306, 354 Schoenberg; 85, 366 Schopenhauer; 63, 64, 69-74, 136, 138, 139, 143 Schu¨tz; 335 Scirocco; 201 Scolari; 254 Scoppola; 235, 237, 239 Sella; 206, 220 Semeria; 236 Serra; 243-245, 254, 255 Sieye`s; 88 Sighele; 252 Simmel; 109, 258 Singer; 330 Sismondi; 195 Sivini; 191 Slataper; 246 Smend; 115 Smith; 5, 6, 32-34, 80 Socrate; 176, 340, 353 Soffici; 246 Sola; 226, 227 Sombart; 109, 191 Sonnino; 225, 226, 265 Sorel; 231, 292 293 Spaventa B.; 211, 212, 233 Spaventa S.; 205, 208 Spencer; 81, 107-110, 214 Spengler; 93, 250, 258, 305 Spinoza; 14 Spirito; 265, 266 Spriano; 219 St. John Green; 320 Stahl; 60 Stalin; 296, 297 Starnone; 190 Stauffenberg, von; 315 Stirner; 44 Strappini; 252 Strauss; 316, 348, 352-354 Stuart Mill; 81, 103-107, 110, 328, 401 Sturzo; 234, 240, 241, 262 Tasca; 297

Terracini; 260, 272, 276, 297 Tessitore; 223 Tocqueville, de; 84, 87-92, 95, 99, 103 Togliatti; 260, 272, 274, 275, 278, 297 Tommaso d’Aquino; 310 Toniolo; 234, 235, 240 To¨nnies; 109-111, 117 Torre, 254 Toulmin; 329 Treves; 230 Trockij; 296, 297 Troeltsch; 191 Tullio-Altan; 278 Turati; 228-230, 232, 273 Turiello; 221-224 Vacca; 211, 212 Valery; 254 van Orman Quine; 332 Veca; 197, 331 Vera; 211 Vico; 206, 287 Vidotto; 225 Villani; 190 Villari L.; 81, 201, 205 Villari P.; 206, 214, 215, 247 Viroli; 199, 203 Voegelin; 335, 348-352, 354, 355 Volpicelli; 121 Vorla¨nder; 290 Wagner; 135, 182 Warner; 320 Weber, Max; 87, 91-99, 109, 110, 121, 191, 339, 360, 361 Weber, Marianne; 96 Weil; 357 Westphalen, von; 46 Williams; 330 Windelband; 150 Wittgenstein; 328, 375-381, 396, 387 Wright; 320 Wundt; 322 Zeller; 214 Zetkin; 401 Znaniecki; 368 Zolo; 396 Zottoli; 195

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Memo

1. 2. 3. 4.

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5. 6. 7. 8. 9.

G. de Martino, Muratori filosofo. Ragione filosofica e coscienza storica in L.A. Muratori D. Felice (a cura di), Leggere l’Esprit des Lois. Stato, società e storia nel pensiero di Montesquieu D. Felice (a cura di), Dispotismo. Genesi e sviluppo di un concetto filosofico-politico C. Campa, Il musicista filosofo e le passioni. Linguaggio e retorica dei suoni nel Seicento europeo R. Finelli, F. Papa, M. Montanari, G. Cascione, Le libertà dei moderni. Filosofie e teorie politiche della modernità C. Campa, La repubblica dei suoni. Estetica e filosofia del linguaggio musicale nel Settecento C. Lalli, Libertà procreativa C. Campa, Furori e armonie. Utopie della musica antica nella tradizione umanista R. Pisconti, Applicare Wittgenstein al pensiero femminista

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