Lavorare meno. Se otto ore vi sembran poche 9788865793046, 886579304X

«Lavorare meno è per molti un sogno e per alcuni un obiettivo, ma una pratica per pochi. Da queste basi nasce l’idea di

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Lavorare meno. Se otto ore vi sembran poche
 9788865793046, 886579304X

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Sandro Busso

Lavorare meno Se otto ore vi sembran poche

Indice

9 Premessa Parte I - Promesse non mantenute 17 I. L’automazione e la fine del lavoro Una storia di sogni e di incubi 36 II. Un mondo al lavoro Una panoramica sullo scenario attuale 54 III. Lavorare tutti, lavorare peggio Il governo dei numeri e la scomparsa della qualità © 2023 Edizioni Gruppo Abele Impresa Sociale Srl corso Trapani 95 - 10141 Torino tel. 011 3859500 www.edizionigruppoabele.it [email protected]

72 IV. Liberi dal lavoro, libere di lavorare Lo statuto incerto del welfare 89 V. Chi non lavora non fa l’amore Etica del lavoro, passione, autosfruttamento

ISBN 9788865793046

Parte II - Invertire la rotta

In copertina: illustrazione di Francesco Lopomo

107 VI. Otto ore per quello che ci pare Riduzione dell’orario e diritto al tempo

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125 VII. Quando l’orario non esiste

Abbattere i falsi miti della flessibilità e della performance

142 VIII. Un’esistenza libera e dignitosa Salario minimo e redistribuzione attraverso il lavoro 159 IX. Dobbiamo davvero lavorare tutti? Reddito di base, libertà e lavoro 1 75 X. Resistenze, fughe, conflitti Immaginare una politica del tempo tra individuale e collettivo

A Federico e Arianna perché il loro sia, davvero, un tempo nuovo

Premessa

Come molti uomini della mia generazione, fui allevato secondo i precetti del proverbio che dice “l’ozio è il padre di tutti i vizi”. Poiché ero un ragazzino assai virtuoso, credevo a tutto ciò che mi dicevano e fu così che la mia coscienza prese l’abitudine di costringermi a lavorare sodo fino ad oggi. Ma sebbene la mia coscienza abbia controllato le mie azioni, le mie opinioni subirono un processo rivoluzionario. Io penso che in questo mondo si lavori troppo, e che mali incalcolabili siano derivati dalla convinzione che il lavoro sia cosa santa e virtuosa; insomma, nei moderni paesi industriali bisogna predicare in modo ben diverso da come si è predicato sinora. B. Russell, Elogio dell’ozio, 1935

Ci sono almeno due motivi per cui il passaggio di Bertrand Russell rappresenta l’attacco inevitabile di questo saggio. Il primo, se mai ce ne fosse bisogno, è che ci ricorda che l’idea di lavorare meno, e le lotte per darle concretezza, sono una tappa fondamentale e troppo spesso dimenticata della nostra storia politica. «Se otto ore vi sembran poche – cantavano le mondine nei primi anni del Novecento – provate voi a lavorare e sentirete la differenza di lavorar e di comandar». Più di un secolo dopo, indebolite le retoriche di classe (ma non le dinamiche di potere a essa legate), il canto ha ancora una straordinaria attualità. Paradossalmente, infatti, proprio le otto ore e la rivendicazione di quel diritto sono diventate l’emblema di formalismo, mancanza di slancio

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e dedizione: immagine stereotipata di una salvaguardia egoistica del proprio tempo, che non si cura dell’interesse generale. Esatto opposto di un modello di lavoratore che è imprenditore di sé stesso, incurante del tempo e della fatica. A molti, insomma, otto ore sembrano ancora poche. Da qui il secondo e forse più rilevante motivo, che sta nel riferimento a quei precetti che hanno servito le esigenze di un sistema economico costruendo un’idea di merito che si regge sul principio del «lavorare sodo». Mutata nelle retoriche, l’etica del lavoro continua a essere viva e vitale nel dar forma alle vite di molti e molte. E dove non arriva la coscienza, è l’attuale scenario di precarietà e insicurezza dilagante a costringere non solo a «lavorare sodo», ma spesso a «lavorare troppo». Se non per scelta, per necessità. Ma la straordinaria attualità del passaggio sta senza dubbio nel valorizzare la divaricazione, che sfocia talvolta in aperto conflitto, tra azioni e opinioni: lavorare meno è per molti un sogno e per alcuni un obiettivo, ma una pratica per pochi. Da queste basi nasce l’idea di fondo del volume: oggi lavorare meno è un traguardo che, forse a differenza di un tempo, non si può raggiungere ex lege normando la durata della giornata lavorativa, ma richiede una trasformazione radicale che va ben oltre i confini del mercato del lavoro. Le caratteristiche del lavoro sono quindi condizioni sì necessarie, ma non sufficienti. È infatti indispensabile un cambiamento di paradigma che crei innanzitutto spazi di legittimità politica per questa opzione al di là della sua mera sostenibilità economica. Una trasformazione verso un modello di società in cui il lavoro rivesta un ruolo meno centrale non solo in

Premessa

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termini di organizzazione della vita quotidiana e gestione del tempo, ma anche in termini di costruzione delle identità individuali, politiche e sociali. Se la portata delle trasformazioni necessarie fa tremare le gambe, la buona notizia è che, però, alcune delle condizioni che le rendono possibili sono a oggi una realtà. In primo luogo quell’aumento di produttività, dovuto al progresso tecnologico ma non solo, che aveva alimentato le profezie di una società senza lavoro o quasi si è almeno in parte verificato. Il perché questo non abbia portato a una riduzione degli orari dipende dal fatto che tale produttività non si è tradotta in un’analoga crescita dei salari: i benefici che essa ha portato hanno alimentato le disuguaglianze, di fatto rendendo i ricchi ancora più ricchi. Come cantavano le mondine, il nodo è ancora la «differenza tra lavorare e comandare». In secondo luogo, questo orizzonte di possibilità ha alimentato la ripresa di forme di azione politica e culturale che, con repertori e contenuti diversi da un tempo, stanno faticosamente rilanciando un dibattito che sembrava sopito e anche aprendo a nuove prospettive. Non solo l’idea di emancipazione o di rifiuto del lavoro quando questo diviene fonte di malessere, ma anche le proposte di nuove e radicali forme di redistribuzione come il reddito di base universale: esistono a oggi le condizioni perché il lavoro esca dall’orizzonte della necessità e dell’obbligo. Muovendo da questi presupposti, il testo si articola in due parti. La prima affronta le promesse mancate di una società libera dal lavoro, riflettendo sui fattori e sulle dinamiche che, a dispetto delle aspettative, fanno sì che il lavoro sia nella società odierna ancora più centrale sia a

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livello pratico che simbolico, e al contempo reso ancora più insicuro dal dirompente avvento della precarietà. La seconda analizza invece gli ingredienti, le possibilità e le proposte necessarie a invertire la rotta, che vengono riprese alla luce dello scenario contemporaneo in chiave propositiva: dalla persistente attualità dell’idea di lavorare meno all’ipotesi di «non lavorare tutti», in un mondo in cui il diritto al reddito sia garantito attraverso strumenti altri dal lavoro retribuito. Entrambe le parti sono sviluppate tenendo insieme diverse prospettive e sguardi sul lavoro. Da un lato quello, più vicino alla politica economica, centrato sulle condizioni strutturali che spingono all’iperlavoro. Trovano qui spazio le normative, i modelli di sviluppo economico, il ruolo del welfare state, l’orientamento alla performance e al «governo con i numeri» contrapposto alle idee di giustizia. Dall’altro, una prospettiva centrata sulla dimensione culturale, che guarda al lavoro come elemento cruciale della costruzione dell’identità, ai processi di legittimazione che questo innesca, all’etica del lavoro e alla passione come strumenti di disciplinamento e autosfruttamento. I due approcci sono in qualche misura imprescindibili stante l’obiettivo di guardare al lavoro, riprendendo Kathi Weeks, come a un fenomeno a pieno titolo politico, e non soltanto economico. A legarli, infatti, è la circolarità del rapporto che in senso più ampio lega la politica e la società. Da ultimo, una riflessione come quella proposta in questo volume sta inevitabilmente all’incrocio tra la riflessione teorica e il vissuto personale e professionale di chi la

Premessa

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scrive. In questo senso credo sia impossibile non notare come l’accademia incarni a pieno titolo le ambiguità con cui si apre questa breve premessa: capace di alimentare riflessioni innovative e talvolta rivoluzionarie, e al tempo stesso tristemente inadeguata nel mettere in atto quei precetti tutelando il benessere dei suoi lavoratori e delle sue lavoratrici. Che una riflessione sul lavorare meno nasca in questo contesto può suonare certamente ironico a chi lo vive quotidianamente, e certamente lo è per me. Ma forse è soltanto un modo per ricordare a sé stessi che esistono spazi di manovra per riconnettere, con Russell, opinioni, coscienza e azioni. Molte persone, fuori e dentro l’accademia, hanno alimentato le riflessioni confluite in questo testo, che è il frutto di letture ma soprattutto di scambi e momenti di condivisione preziosi. Ringrazio sentitamente Livio Pepino e Francesca Rascazzo, per aver creduto nel progetto, per il confronto costante e ancor più per aver accettato che questo libro, coerentemente con i suoi contenuti, non venisse scritto nelle sere e nei weekend. Ora possiamo orgogliosamente dire che nessun lavoratore è stato costretto a «lavorare di più» per scriverlo. Grazie a chi direttamente o indirettamente ha contribuito a sviluppare i contenuti di questo testo. Su tutti, Antonella Meo alla quale devo molto della crescita di questi anni, Maddalena Cannito per il confronto, i suggerimenti e i commenti al testo, Costanza Guazzo per le intuizioni e gli spunti, Enrico Gargiulo e Gianfranco Ragona per lo scambio costante, sempre ricco e mai banale.

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Grazie infine a Marina Panato, che sul posto del lavoro mi ha aiutato a pensare, a Marcello Kuharic che il tempo lo sa moltiplicare e a Paolo «Diabbo» Fanfani che mi ricorda la differenza tra il dire e il fare. Grazie ai precari e alle precarie di oggi, e a quanti tra quelli di ieri non si sono scordati com’era e non sono diventati predicatori dell’odioso «ci siamo passati tutti». Il ringraziamento più grande è però per chi, compagna di vita, più di tutti mi ha insegnato giorno dopo giorno che il nostro tempo è prezioso, inevitabile e soprattutto ci appartiene.

Parte I Promesse non mantenute

I. L’automazione e la fine del lavoro Una storia di sogni e di incubi*

Il libro XVIII dell’Iliade narra di Teti, madre di Achille, che si reca nella fucina di Efesto per chiedere al dio una nuova armatura e nuove armi per il figlio. Lo spettacolo che le si para davanti è stupefacente. Il dio era infatti intento a forgiare tripodi in grado di muoversi da soli su rotelle d’oro, ed era sostenuto da ancelle, d’oro anch’esse, in tutto e per tutto simili a giovinette, capaci di intelletto, parola e sentimenti, ma anche dotate di una forza che permetteva loro di essere istruite al lavoro e di svolgere compiti faticosi come quello di sostenere Efesto, dalla mole imponente ma afflitto da una zoppia. I tripodi e le ancelle di Efesto sono a tutti gli effetti ciò che oggi definiremo automi, e non a caso il passaggio dell’Iliade è considerato da molti il primo riferimento all’idea di intelligenza artificiale. Per questo rappresenta un buon punto di partenza per una riflessione sull’automazione e sull’idea che da questa nascano profezie, sogni e incubi sulla fine del lavoro. La visione di un mondo popolato da macchine in grado di svolgere – come e se non

Le traduzioni delle citazioni tratte da opere in lingua originale sono a cura dell’autore.

* L’espressione è liberamente ripresa dal titolo di un volume di Ota de Leo­nardis: In un diverso welfare: sogni e incubi (Feltrinelli, Milano, 1998), e vuole essere un omaggio al fondamentale contributo che il volume ha dato al dibattito scientifico e alla formazione di chi scrive.

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I. L’automazione e la fine del lavoro

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meglio – le mansioni degli esseri umani non nasce infatti con la modernità e con l’accelerazione del progresso tecnologico che questa ha portato. Piuttosto, essa rappresenta un filo sottile che unisce i miti dell’antichità con le più recenti sperimentazioni sull’intelligenza artificiale, e le narrazioni epiche dell’ingegno umano con le visioni di romanzieri di fantascienza e le analisi di economisti e sociologi del Novecento. Il passo dal mito alla contemporaneità, e dalle macchine immaginate a quelle reali, è ovviamente molto lungo. Le rivoluzioni industriali hanno mostrato come il progresso tecnologico non abbia per nulla portato alla liberazione dal lavoro, e più di due secoli di riflessioni hanno chiarito che non esiste un nesso automatico, o perché no magico, tra sviluppo di nuovi mezzi di produzione e quantità di lavoro umano. Ma non per questo il sogno di lavorare meno grazie alle macchine si è infranto. Anzi, per certi versi può dirsi più attuale che mai. È ormai chiaro, però, che le conseguenze dello sviluppo chiamano in causa la dimensione politica prima ancora di quella tecnologica. Semplificando, è politico il modo in cui l’automazione aumenta o diminuisce il lavoro, ma è altrettanto politico il modo in cui questi esiti sono previsti e descritti, e considerati più o meno desiderabili. Del resto, come ci ricorda Kathi Weeks, il lavoro è, a dispetto di narrazioni semplificate, un «fenomeno a pieno titolo politico, e non soltanto economico»1.

Automazione, élites e disuguaglianze. Delle visioni delle origini e della loro persistenza

K. Weeks, The Problem with Work. Feminism, Marxism, Antiwork Politics, and Postwork Imaginaries, Duke University Press, Durham, 2011.

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L’attualità della visione omerica è sorprendente, e per molti versi anche superiore a quella di molte delle rappresentazioni che divengono dominanti con il processo di industrializzazione. Nell’immagine delle ancelle d’oro «che vivo senso chiudono in petto» è infatti contemplata l’automazione di una delle funzioni considerate più umane e dunque più difficilmente sostituibili: la funzione di cura. Non solo forza e fatica, dunque, ma anche intelligenza e sensibilità. Certo, l’idea dell’automazione a quei tempi era inscindibilmente legata a una componente divina, o quantomeno a un connubio di ingegno umano superiore e di poteri soprannaturali necessari a progettare e a gestire quelle macchine, strumento di una élite per cui il lavoro era mansione degradante e indegna. E proprio per questo è importante partire da qui per riflettere di sogni e incubi sulla fine del lavoro, per evidenziare come il miraggio dell’automazione prenda forma in una società, quella della Grecia antica, in cui ancora il lavoro non era la misura del valore di uomini e donne, non era nobile e non era desiderabile. Anzi, siamo in una società in cui era centrale il rifiuto del lavoro dipendente che era equiparato nella coscienza comune alla condizione di schiavitù. Una società in cui il lavoro è proprio della grande massa servile, che è il vero basamento della società2, mentre l’ozio, nella sua nobile accezione, è di pochi. Una simile visione non è però confinata alle società antiche, e non serve andare indietro di tre millenni per troL. Canfora, Una società premoderna. Lavoro morale, scrittura in Grecia. Edizioni Dedalo, Bari, 1989.

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varne le tracce. Come ricorda Bertrand Russel3, l’idea che l’ozio di pochi fosse garantito dalla fatica di molti rendeva la richiesta di riduzione dell’orario di lavoro nei primi decenni dell’Ottocento non soltanto sgradita, ma di difficile comprensione. In questo senso, è improprio pensare all’automazione come a un passo verso una società senza lavoro. Piuttosto essa appare come una conferma di uno status, e delle doti superiori a cui esso è associato. Fin dalle origini, dunque, la questione della sostituzione del lavoro umano è inestricabilmente legata al tema delle disuguaglianze. E a proposito dell’attualità dei miti dell’antichità, e di fili sottili che uniscono passato e presente, dalle ancelle di Efesto al fenomeno mediatico del robot Sophia, prototipo lanciato nel 2016 dalla Hanson Robotics di Hong Kong, il passo è straordinariamente breve, tanto che anche le rappresentazioni delle prime richiamano in modo impressionante la seconda. Sophia – il cui nome non a caso deriva dal greco antico: saggezza o sapienza – è un prototipo di intelligenza artificiale che è ormai star mediatica, che ha la cittadinanza dell’Arabia Saudita e che interviene a conferenze ed eventi pubblici. Il suo compito è quello di aprire nuove frontiere dell’interazione uomo-macchina, lavorando con gli uomini (anziché al posto degli uomini) per costruire un futuro migliore. Nel suo essere un «piccolo manifesto», si presenta al mondo sottolineando che l’idea è quella di una simbiosi con gli esseri umani, non di una sostituzione. E non è difficile comprenderlo, a ben vedere, in una società che è 3

B. Russell, Elogio dell’ozio, Longanesi, Firenze, 2014 (ed. or. 1935).

I. L’automazione e la fine del lavoro

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più preoccupata che il lavoro scarseggi piuttosto che del contrario. Le affinità con le ancelle d’oro sono evidenti non solo nell’aspetto, ma anche nel maggior valore dato all’analogia con l’essere umano nella sua capacità di pensare più che di produrre lavoro manuale. Il suo ruolo è di supporto, come fisicamente facevano le ancelle di Efesto. L’oro di cui sono fatte le ancelle e il costo di Sophia le accomuna nell’essere preziose, esclusive, di pochi. E a ben vedere la tecnologia che ne è alla base, per mistero e fascino, non è poi così lontana dalla natura magica o divina delle sue illustri antenate. Pur separate da millenni, le due storie costituiscono un ottimo punto di partenza per una riflessione sulla fine del lavoro umano, perché colgono due aspetti fondamentali della sua politicità. Il primo è che se è vero che l’automazione può essere studiata nella sua materialità e nella sua capacità di trasformare i processi produttivi, è importante non perdere di vista il suo elevato contenuto simbolico, la sua capacità di affascinare e spaventare (basti pensare alle visioni apocalittiche ampiamente diffuse nella letteratura fantascientifica). Nelle sue rappresentazioni coesistono la forza e l’efficienza, ma anche l’intelligenza e le emozioni, ed è proprio questo universo simbolico ricco e multidimensionale che la rende strumento politico al di là di un modello razionale di calcolo dei costi e benefici che può comportare. Allo stesso modo, anche una riflessione su scala macro non può essere circoscritta al solo aumento di produttività e al suo impatto sul bisogno di manodopera: tocca tasti profondi, ha a che fare con il modo in cui l’identità di una società si costruisce e, soprattutto, si preserva. Non a caso

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l’automazione può essere letta come un mezzo ma anche come un fine, come un «discorso» o addirittura una forma di «ideologia politica». Il secondo aspetto, strettamente connesso, è che fin dalle origini il mito dell’automazione incorpora i rapporti di potere all’interno di una società e, soprattutto, l’assetto delle disuguaglianze. Come vedremo a breve, il suo impatto può essere per pochi o per tutti, e può fungere da livella o da amplificatore delle distanze sociali, ora emancipando i lavoratori, ora servendo e legittimando gli interessi delle élites. In questa prospettiva poco importa se questi interessi riguardino l’ozio di pochi grazie al lavoro di molti o il profitto del cosiddetto «uno per cento». L’automazione è intrinsecamente e inevitabilmente politica perché riguarda gli assetti della collettività (anche quando è appannaggio di pochi) e perché comporta sempre, in qualche misura, «visioni del mondo». E collettiva lo è ancora di più nella misura in cui la sua diffusione esce dai sogni delle élites di ieri e di oggi per diventare pratica quotidiana, e motore di un ridisegno degli assetti sociali.

I. L’automazione e la fine del lavoro

loro, in questa fase storica appare chiaro come queste, di contro, possano mettere l’uomo al lavoro. In questo senso l’utilizzo stesso del concetto di «automazione» appare improprio, dal momento che questo incorpora semanticamente l’idea di indipendenza dalla presenza umana. Più aderente alla descrizione del reale, per quanto di gran lunga meno diffuso, è invece il concetto di «meccanizzazione», che si limita a descrivere l’introduzione delle macchine nel processo produttivo. Si tratta a tutti gli effetti del tradimento di un sogno, il cui resoconto più efficace non può che essere ricercato nel Capitale di Marx, che ne tratta nel capitolo su Macchine e grande industria. Il sogno in questione è quello di Aristotele, che proprio riprendendo i tripodi di Efesto paventava la possibilità che l’automazione (tra le altre cose) ponesse fine alla schiavitù. La realtà che a metà Ottocento aveva preso forma, tuttavia, era radicalmente opposta, secondo quello che Marx definisce come uno strano fenomeno nella storia dell’industria moderna, per cui la macchina butta all’aria ogni limite morale e naturale della giornata lavorativa; di qui il paradosso economico per cui il mezzo più potente per abbreviare il tempo di lavoro si converte nel mezzo più infallibile per trasformare l’intero tempo di vita dell’operaio e della sua famiglia in tempo di lavoro disponibile per la valorizzazione del capitale4.

Lavorare per le macchine. La rivoluzione industriale e la «meccanizzazione» L’ambiguità e la molteplicità dei possibili effetti dell’introduzione di macchinari tecnologicamente via via più sviluppati nel mondo del lavoro emergono in modo dirompente con la rivoluzione industriale, quando il fenomeno comincia a riguardare le masse dei lavoratori. Se nelle visioni delle origini le macchine possono sostituire il lavoro degli esseri umani, o quantomeno di alcuni di

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L’analisi di come ciò avvenga merita di essere, seppur brevemente, ricostruita. Il punto di partenza è il fatto che il deterioramento delle macchine non corrisponde affatto in modo univoco al tempo del loro utilizzo. Esistono 4

K. Marx, Il Capitale, Libro I, Utet, Torino, 2013, p. 544 (ed. or. 1867).

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infatti due tipi di usura: uno che deriva dal loro impiego nei processi produttivi (come quello delle monete che si deteriorano con la circolazione), e uno che, al contrario, si verifica quando le macchine rimangono inoperose (come quello di una spada che arrugginisce nella guaina). Inoltre, lo stesso valore di scambio delle macchine diminuisce nel tempo, nella misura in cui vengono prodotti nuovi modelli, più efficaci e più a buon mercato, che alimentano la concorrenza. Il fenomeno è, almeno in una certa misura, intuitivo: chi potrebbe pensare, ai nostri giorni, che un’automobile custodita inutilizzata per anni in un garage abbia lo stesso valore, e garantisca le stesse prestazioni, del giorno del suo acquisto? Da qui la necessità, per chi possiede le macchine, di farle lavorare continuamente per massimizzare i profitti che ne possono derivare, utilizzandole a ciclo continuo per scongiurare i rischi legati al secondo tipo di usura. Questo bisogno si traduce nell’estensione della produzione su ventiquattro ore, che comporta l’introduzione del lavoro su turni e/o l’allungamento della giornata lavorativa. Lavorare per far lavorare le macchine. Non sfuggiva ovviamente l’effetto opposto, ovvero quello di sostituzione degli operai con le macchine, che peraltro già Ricardo aveva messo in evidenza cinquant’anni prima nel suo On The Principles of Political Economy and Taxation. La popolazione operaia sovrabbondante andava a ingrandire le fila di quell’esercito industriale di riserva che indeboliva le rivendicazioni dei lavoratori, rendendo il potere del capitale ancora più forte e rafforzando, dunque, le dinamiche di sfruttamento legate alla meccanizzazione e non solo.

I. L’automazione e la fine del lavoro

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Perché, dunque, le macchine portassero a un incremento del benessere erano necessarie una visione e un’azione collettiva: la questione era politica e non economica, e richiedeva una rivoluzione e non correttivi. Per Marx la realizzazione della società comunista era l’unica possibilità di affermazione di un altro modo di lavorare, dove non solo i tempi fossero diversi, ma dove la regolazione sociale della produzione permettesse a tutti di non «essere il proprio lavoro» e di sconfiggere l’alienazione, rendendo «possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico»5. La visione di macchine in grado di mettere il mondo al lavoro non era certo circoscritta all’analisi scientifica, e soprattutto all’inizio del XX secolo rappresentava un elemento centrale del dibattito pubblico, ma anche della produzione culturale e in particolare della nascente industria cinematografica. Gli elementi scatenanti erano l’ascesa del taylorismo e l’avvento della catena di montaggio, introdotta da Ford nel 1913. Due istantanee, su tutte, fanno parte dell’immaginario collettivo. La prima è quella dell’operaio di Metropolis di Fritz Lang (1927) che cerca di fermare le lancette dell’orologio che scandiscono il tempo della fabbrica, la seconda è la celeberrima scena di Charlie Chaplin «divorato» dalla catena di montaggio in Tempi moderni (1936). La centralità del tempo è evidente in entrambe. La sua connotazione, però, in questa fase si arricchisce di una K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 24.

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nuova sfumatura: accanto all’orario e alla quantità di lavoro, la catena di montaggio rende centrale la questione del ritmo, della velocità delle prestazioni richieste e delle loro conseguenze sui lavoratori. La rilevanza attribuita alla produttività nell’unità di tempo fu tale, in quel periodo, che paradossalmente fu proprio Ford a introdurre per primo, nel 1926, la settimana lavorativa di cinque giorni. La scelta non era in alcun modo legata al benessere degli operai ma era semplicemente, come lui stesso ebbe modo di definirla, «una fredda questione di affari», un calcolo costi-benefici relativo alla produttività dei lavoratori6. Se l’immagine prevalente dell’introduzione delle macchine nel dibattito pubblico e scientifico era fortemente distopica, la visione – o forse meglio la speranza – di una società liberata dal lavoro grazie al progresso non era del tutto scomparsa. La ritroviamo in questo lungo arco temporale nelle parole di pensatori illustri come Benjamin Franklin, che nel 1784 scriveva: È stato calcolato da qualche «aritmetico politico» che, se ogni uomo e ogni donna lavorassero per quattro ore al giorno a qualcosa di utile, il lavoro produrrebbe abbastanza da procurare tutte le necessità e le comodità della vita, la miseria e la povertà sarebbero bandite dal mondo, e il resto delle 24 ore potrebbe essere dedicato allo svago e al piacere7.

Anche John Stuart Mill, dal canto suo, caldeggiava un utilizzo della tecnologia in grado di accorciare il tempo di R. Bregman, Utopia per realisti. Come costruire davvero il mondo ideale, Feltrinelli, Milano, 2017. Lettera all’amico Benjamin Vaughan, Archivi Nazionali Governativi Usa (online).

I. L’automazione e la fine del lavoro

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lavoro lasciando spazio allo sviluppo della «cultura morale e sociale»8. Il sogno non era spento, ma serviva un’operazione politica per ridargli slancio e credibilità.

L’automazione come ideologia. Profezie di un futuro migliore Nella prima metà del secolo scorso, e in particolare a partire dagli anni Trenta, sogni e speranze assunsero la natura di una vera e propria profezia, la cui espressione più celebre è sicuramente quella di John Maynard Keynes, che in una conferenza tenuta a Madrid nel giugno del 1930 dal suggestivo titolo di Opportunità economiche per i nostri nipoti, ipotizzava come sarebbe stato il mondo cento anni dopo9, sostenendo che «per ancora molte generazioni l’istinto del vecchio Adamo rimarrà così forte in noi che avremo bisogno di un qualche lavoro per essere soddisfatti». Tuttavia, «turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo. Tre ore di lavoro al giorno, infatti, sono più che sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in ciascuno di noi». Tutto questo sarebbe successo solo a condizione che la società si fosse impegnata a distribuire in modo equo «il poco lavoro che ancora rimane». L’automazione andava costruita politicamente. Keynes, ovviamente, non era un ingenuo, e la sua profezia va letta alla luce dei tempi. Da un lato gli esperimenti di riduzione dell’orario stavano effettivamente verificandosi e anche sulla scena politi-

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J.S. Mill, Principi di economia politica, Utet, Torino, 1983 (ed. or. 1848). J.M. Keynes, La fine del laissez faire e altri scritti economico-politici, Bollati Boringhieri, Torino, 1991.

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ca americana, segnata dalla Grande Depressione, prendeva quota il dibattito sulla regolazione dei tempi di lavoro. Il già citato caso di Ford stava facendo scuola, basti pensare al celebre esempio della Kellogg’s, che proprio nel 1930 approvava ufficialmente la giornata di sei ore. Stava prendendo forma quella che Benjamin Hunnicutt ha brillantemente fotografato come la visione capitalista della liberazione dal lavoro10. Operai più riposati e dunque più efficienti ma anche, se non soprattutto, cittadini con a disposizione tempo per spendere i propri soldi e alimentare il mercato. Ma non è solo questo. Siamo negli Stati Uniti del New Deal, dove due anni dopo la profezia di Keynes il presidente Roosevelt avrebbe pronunciato un celebre discorso che si apre con queste parole: L’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa. Quel terrore ingiustificato, irrazionale e senza nome che paralizza gli sforzi di cui oggi abbiamo bisogno per convertire l’arretramento in progresso11.

La fiducia come antidoto alla crisi generata dalla paura: l’ottimismo come ricetta. L’automazione, lo abbiamo già detto, non è soltanto un freddo fattore economico, ma è in grado di smuovere emozioni profonde. Il punto è riuscire a indirizzarle nel verso desiderato. Per comprendere meglio questo processo è utile tornare alla riflessione terminologica introdotta all’inizio del paB.K. Hunnicutt, Kellogg’s Six-Hour Day. A Capitalist Vision of Liberation through Managed Work Reduction, in The Business History Review, n. 66, 1992, pp. 475-522. 11 F.D. Roosevelt, Inaugural Address, March 4, 1933, in World Affairs, n. 96, 1933, pp. 26-28; la citazione è a p. 26. 10

I. L’automazione e la fine del lavoro

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ragrafo precedente, per svilupparla prendendo a prestito il lavoro di Jason Resnikoff12. Lo storico americano distingue infatti il concetto di «automazione» da quello di «meccanizzazione», posizionando la sua nascita solo nel XX secolo e qualificandolo a tutti gli effetti come un’ideologia. L’automazione nella sua analisi è prescrittiva e non descrittiva, è basata sull’idea di sostituzione del lavoro umano, non ha a che fare con la tecnica e, soprattutto, prefigura uno scenario migliore (nelle intenzioni strategiche di chi la usa). Come nota Aaron Benanav13, il discorso sull’automazione nel suo carattere prescrittivo e apologetico rappresenta la revoca della cacciata dall’Eden, poiché gli uomini – o almeno i più ricchi tra di loro – attraverso di essa diventano come dei. Moderni Efesto, verrebbe da dire, con moderne ancelle d’oro a lavorare per loro. Il carattere ideologico e la connotazione positiva sono proprio ciò che distingue i due termini, dal momento che, da un punto di vista meramente descrittivo, i cambiamenti del processo produttivo e l’introduzione di nuovi strumenti o macchinari sottesi al concetto di automazione sono indistinguibili da quelli che fino ad allora erano stati semplicemente chiamati meccanizzazione. Perché allora un nuovo termine? E perché un simile «investimento discorsivo»? Occorreva, suggerisce Resnikoff, superare proprio le rappresentazioni descritte poco sopra: invertire la tendenza che dopo secoli di introduzione dei macchinari faceva sì che nella percezione degli Stati Uniti della Grande Depressione i loro contro superassero i pro. J. Resnikoff, Labor’s End. How the Promise of Automation Degraded Work, University of Illinois Press, Chicago, 2021. 13 A. Benanav, Automation and the Future of Work, Verso, London, 2020. 12

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Serviva, in altri termini, una parola che trasmettesse la visione di una nuova fase della storia, accezione che superava di gran lunga qualsiasi processo tecnico. O che, ancora, celasse gli ambigui effetti dell’automazione, trasformando in sogni gli incubi. O meglio, i desideri (e gli interessi) di pochi nei sogni di molti. Questa operazione si compie a pieno titolo nella stagione seguita alla Seconda guerra mondiale, i cosiddetti Trenta gloriosi, in cui la crescita non fa che alimentare il sogno. In questa fase unica, infatti, la sostituzione del lavoro umano con le macchine non generava una disoccupazione visibile: l’aumento della produttività permetteva di abbassare i prezzi, moltiplicando i consumi e generando una crescita costante della domanda di beni che trainava l’occupazione come mai prima di allora. Non stupisce quindi che trentacinque anni dopo Keynes, l’idea di automazione diventi pop: Isaac Asimov nella visita alla Fiera mondiale di New York del 1964 immaginava così cosa sarebbe successo nei successivi cinquant’anni: Il mondo del 2014 avrà pochi lavori di routine che non potranno essere svolti meglio da una macchina che da un essere umano. L’umanità sarà quindi diventata in gran parte una razza di guardiani di macchine14.

Contemporaneamente però anche la politica sposava la causa: Richard Nixon prometteva che in breve tempo la settimana lavorativa sarebbe diventata di quattro giorni15. Si trattava solo di capire, nell’ottimismo del tempo, quali I. Asimov, Visit to the World’s Fair of 2014, in The New York Times, 16 agosto 1964. 15 R. Bregman, Utopia per realisti, cit., p. 110.

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sarebbero state le conseguenze di questa trasformazione inevitabile.

Chi ha paura di un mondo senza lavoro? Una sintesi di opportunità e rischi Ma come sarebbe, ammesso e non concesso che ciò si verifichi, un mondo che non ha bisogno di lavoro o che quantomeno ne richiede molto meno? Ancora una volta gli scenari sono contrastanti. Sul fronte delle rappresentazioni positive, il primo inevitabile riferimento non può che essere alle virtù dell’ozio, naturalmente inteso nell’accezione romana che lo contrapponeva al negotium. Il tempo, cioè, della cura dello spirito, della saggezza, del pensiero, della scrittura, della discussione. Ovvero, quella funzione che, più del lavoro, nel tempo ha portato al progresso del genere umano. Il tempo liberato dal lavoro è in questa visione qualcosa di molto più rilevante del riposo o della gioia che può essere sperimentata a livello individuale. Ha infatti ricadute sociali profonde. Nelle parole di Russel: Almeno l’uno per cento della popolazione dedicherebbe il tempo non impegnato nel lavoro professionale a ricerche di utilità pubblica e, giacché tali ricerche sarebbero disinteressate, nessun freno verrebbe posto alla originalità delle idee16.

Più in generale, seguendo la linea di pensiero dell’intellettuale britannico, la maggior ricaduta collettiva deriverebbe proprio dalla semplice presenza di «gioia di vivere» invece della prevalenza di «nervi a pezzi», al punto 16

B. Russell, Elogio dell’ozio, cit., p. 22.

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che «la smania di far la guerra si estinguerebbe in parte per questa ragione, e in parte perché un conflitto implicherebbe un aumento di duro lavoro per tutti»17. Il sogno della fine del lavoro, però, non è solo un sogno di ozio, ma anche (o forse soprattutto) un sogno di giustizia sociale fin dalle origini. È ancora in Marx che troviamo il riferimento al pensiero classico: «Se», sognava Aristotele, il più grande pensatore dell’antichità, «se ogni strumento potesse compiere su comando o anche per previsione l’opera ad esso spettante, allo stesso modo che gli artifici di Dedalo si muovevano da sè o i tripodi di Efesto di proprio impulso intraprendevano il loro sacro lavoro, se in questo stesso modo le spole dei tessitori tessessero da sé, il maestro d’arte non avrebbe bisogno dei suoi aiutanti e il padrone non avrebbe bisogno dei suoi schiavi». E Antipatro, poeta greco dell’epoca di Cicerone, salutò nell’invenzione del mulino ad acqua per la macinazione del grano, che è la forma elementare di ogni macchinario produttivo, la liberatrice delle schiave e la iniziatrice dell’età aurea18.

Macchine liberatrici di schiavi e di schiave, ma non solo. L’ozio e la pigrizia come primo passo per soppiantare il dominio di una classe borghese che, rinnegando le proprie origini, aveva fatto dell’etica del lavoro un potente strumento di controllo sociale. Così scrive Paul Lafargue, genero di Marx, nel suo Diritto alla pigrizia nel 1880: Finché lottava contro la nobiltà sostenuta dal clero, la borghesia ostentò il libero pensiero e l’ateismo ma, dopo il suo trionfo, cambiò tono e stile e oggi vuole rinsaldare con la religione la 17 18

Ivi, p. 21. K. Marx, Il Capitale, cit., p. 544.

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sua supremazia economica e politica. […] La morale capitalista, penosa parodia della morale cristiana, colpisce con un anatema la carne del lavoratore; il suo ideale è ridurre al minimo i bisogni del produttore, annullarne gioie e passioni e condannarlo al ruolo di macchina da lavoro senza tregua né pietà19.

Proprio in quella morale borghese-cristiana vanno dunque cercate, in prima battuta, le visioni apocalittiche sugli effetti della riduzione del tempo di lavoro. Secondo queste visioni, il tempo libero altro non era che un fattore che alimentava i rischi di corruzione morale, di indolenza, di vizi e di violenza. Questo, ovviamente, se a beneficiarne non fosse più stata solo una classe eletta. Anche le utopie che venivano concepite alla fine del XIX secolo non prevedevano, proprio per questo motivo, la sostituzione del lavoro umano con le macchine, ma contemplavano al più la possibilità che quest’ultime lo rendessero più piacevole. In un classico del genere utopico americano di quegli anni, Henry Olerich20 scriveva che anche nel mondo sognato il lavoro sarebbe stato desiderabile, necessario e onorevole, e che al contrario la pigrizia era portatrice di disgrazie e criminalità. Nella sua versione attualizzata, il tempo libero veniva associato a comportamenti dannosi come l’iperconsumo di Tv e alcolici, pur in assenza di dati a supporto, anzi a fronte di evidenze di segno opposto. Nel continuo alternarsi degli argomenti nel dibattito politico, secondo una Commissione del Ministero dell’interno Usa: «Il tem19 P. Lafargue, Il diritto alla pigrizia, Asterios, Trieste, 2013, p. 11 (ed. or. 1880). 20 H. Olerich, Cityless and Countryless World. An Outline of Practical Cooperative Individualism, Gilmore & Olerich, Holstein, 1883.

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po libero, sebbene per molti sia l’epitome del paradiso, potrebbe diventare facilmente il problema più scabroso del futuro»21. Fuori dalle visioni normative, anche nella saggistica la fine del lavoro proiettava ombre sul benessere individuale. Nella sua profezia del 1964, Asimov scriveva che nella società di guardiani di macchine: L’umanità soffrirà pesantemente della malattia della noia, una malattia che si diffonde ogni anno di più e che cresce di intensità. Questo avrà gravi conseguenze mentali, emotive e sociologiche e oserei dire che la psichiatria sarà di gran lunga la specialità medica più importante nel 2014.

Infine, ma certo non meno importante, il pensiero sociologico si è lungamente occupato non tanto degli effetti sugli individui, quanto dei rischi macro dell’automazione. Nel suo celebre lavoro del 1995, intitolato La fine del lavoro22, Jeremy Rifkin riprendeva le conseguenze sociali di quell’esubero di offerta di forza lavoro determinato dal progresso tecnologico, evidenziandone i rischi in termini di aumento della disoccupazione, impoverimento e aumento delle disuguaglianze. Dieci anni dopo questo saggio fondamentale, Richard Sennett23 evidenziava come l’effetto dell’automazione combinato con la globalizzazione (che sposta il lavoro nel mondo) e la gestione del cosiddetto invecchiamento attivo (che prolunga la permanenza nel mercato del lavoro) avrebbe esteso anche alla R. Bregman, Utopia per realisti, cit., p. 118. J. Rifkin, The End of Work. The Decline of the Global Labor Force and the Dawn of the Post-Market Era, Putnam Publishing Group, New York, 1995. 23 R. Sennett, La cultura del nuovo capitalismo, il Mulino, Bologna, 2006. 21 22

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forza lavoro giovane e qualificata lo «spettro dell’inutilità». Il suo pensiero aggiunge un tassello fondamentale per la comprensione dello scenario attuale: se per secoli l’attenzione si era concentrata sul lavoro nell’industria, oggi i rischi sembrano estendersi anche ad altri settori. Non si tratta più soltanto, nelle parole dell’autore, di una sostituzione di braccia con macchine, ma anche di computer al posto di cervelli, e sensori laser al posto di occhi. Paradossalmente, queste trasformazioni minacciano proprio quel settore della cosiddetta economia della conoscenza su cui le economie occidentali scommettono per far fronte alla competizione dei Paesi a basso costo della manodopera. Non si tratta, è bene chiarirlo, di visioni apocalittiche. Piuttosto, la produzione di questi studiosi mira a evidenziare come l’aumento della produttività richieda di essere governato per non trasformarsi da sogno in incubo. Pur assistendo al verificarsi di alcuni dei rischi che questi studiosi avevano evidenziato, a oggi le profezie sulla fine del lavoro non si sono avverate, e la realtà della società contemporanea appare ben diversa, come vedremo nel prossimo capitolo.

II. Un mondo al lavoro

II. Un mondo al lavoro

Una panoramica sullo scenario attuale

Nel 1969, soltanto cinque anni dopo la profezia di Asimov secondo cui la noia sarebbe stato il più grande problema dell’umanità a causa della riduzione dell’orario di lavoro, muore in Giappone per le conseguenze di un attacco cardiaco un ventinovenne impiegato nel settore spedizioni della più grande impresa nazionale dell’editoria. L’evento, sicuramente non eccezionale da un punto di vista clinico, è però destinato a passare alla storia: verrà infatti identificato come il primo caso di quello che sarà definito con il termine karoshi, ovvero la morte da troppo lavoro1. Se nell’idea del noto scrittore le categorie mediche deputate a gestire le conseguenze della trasformazione del mondo del lavoro sarebbero state psicologi e psichiatri, chiamati a dare un senso a una vita senza lavoro o quasi, negli anni immediatamente successivi sono piuttosto gli epidemiologi a divenire protagonisti di un’intensa attività di ricerca volta ad accertare le conseguenze sul sistema cardiovascolare (e non solo) di turni troppo lunghi, di ritmi frenetici e dello stress legato alle misurazioni costanti della performance dei lavoratori. 1 K. Nishiyama, J.V. Johnson, Karoshi – Death from Overwork. Occupational Health Consequences of Japanese Production Management, in International Journal of Health Services, n. 27, 1997, pp. 625-641.

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L’adozione (o meglio l’invenzione) del termine karoshi, che ha luogo solo nel 1982, è in qualche misura il prodotto congiunto di tali ricerche, che avevano ormai dimostrato il nesso tra lavoro e decessi, e dell’iniziativa politica di familiari e amici delle vittime, che premevano perché fosse riconosciuta l’eccezionalità del fenomeno e perché la società prevedesse una forma di risarcimento. L’innovazione lessicale non va ridotta a un banale aspetto folkloristico di una cultura lontana e particolare. Rappresenta piuttosto l’esito di una presa di coscienza: una categoria nuova per identificare un fenomeno che doveva essere reso visibile nella sua straordinaria drammaticità, attraverso un concetto che legasse le conseguenze cliniche alle sue cause. Negli anni che seguono, in Giappone i casi certificati (e aventi diritto a un rimborso) crescono sensibilmente, passando da poco più di trenta nel 1990 a quasi seicento nel 2006, e la casistica si amplia comprendendo non solo le morti accidentali, ma anche le disabilità permanenti, fisiche o mentali, e i suicidi (per il quale viene coniato un altro termine karo-jisatu)2. Se il Giappone è il luogo in cui la categoria è nata, il fenomeno è certamente diffuso in tutto il mondo. Un rapporto congiunto dell’Organizzazione mondiale della sanità e dell’Organizzazione internazionale del lavoro pubblicato nel 20213 stima che l’orario di lavoro prolungato, oltre le cinquantacinque ore a settimana, abbia A. Kanai,“Karoshi (Work to Death)” in Japan, in Journal of Business Ethics, n. 84, 2009, pp. 209-216. 3 Who, Global, regional, and national burdens of ischemic heart disease and stroke attributable to exposure to long working hours for 194 countries, 2000-2016, Who, Geneva, 2021. 2

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causato nel mondo 745.000 decessi per ictus e cardiopatia ischemica nel 2016, con un aumento del 29 per cento dal 2000. Karoshi non è solo una parola: è l’emblema delle promesse non mantenute e del fallimento delle profezie. Ma naturalmente la realtà è più complessa e sfaccettata. Cosa è successo dunque all’orario di lavoro negli ultimi centocinquant’anni e in particolare negli ultimi decenni?

Un’inattesa inversione di tendenza. Breve storia dell’orario lavorativo Ricostruire come sia cambiato nella storia il tempo di lavoro è un’operazione complicata che presenta un’infinità di insidie metodologiche. Tuttavia, non mancano studi autorevoli riconducibili a diverse discipline che, essendosi cimentati con questa sfida, ci permettono di ipotizzare un trend credibile4. Un punto di convergenza evidente sta sicuramente nell’identificare il picco dell’orario lavorativo al termine della prima rivoluzione industriale e dunque, a grandi linee, a cavallo della metà dell’Ottocento. Qui si ha infatti il culmine di un processo di costante crescita iniziato oltre un secolo prima, che aveva introdotto un elemento di sostanziale discontinuità. Prima dell’industrializzazione, infatti, il tempo Alcune fonti per approfondire, da cui sono tratte le pagine che seguono, sono: L. Golden, A Brief History of Long Work Time and the Contemporary Sources of Overwork, in Journal of Business Ethics, n. 84, 2009, pp. 217-227; J. Schor, The Overworked American. The Unexpected Decline of Leisure, Basic Books, London, 1992; Oecd, How was life, vol. II, New Perspectives on Well-being and Global Inequality since 1820, Oecd Publishing, Paris, 2021.

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a disposizione per l’ozio appare notevolmente superiore. I resoconti degli storici si spingono fino alle società dei cacciatori-raccoglitori, ipotizzando in quell’epoca un impegno giornaliero variabile tra le tre e le otto ore, all’interno di un approccio segnato da una debole distinzione tra lavoro e non lavoro, ma soprattutto da lunghe pause e periodi di inattività corrispondenti a una maggior «abbondanza» o facilità di reperimento delle risorse. I ritmi si intensificano nelle società agricole, che pur nell’estrema variabilità legata ai contesti territoriali sono però segnati da una forte stagionalità, e dunque da lunghi periodi di non lavoro nell’arco di un anno che mitigano in qualche modo questo incremento. Nel Medioevo la sostanza non sembra cambiare di molto. Jacques Le Goff, in un celebre saggio, scrive infatti che prima del XIV secolo l’approccio all’orario di lavoro era profondamente diverso dal nostro: Nel complesso, il tempo del lavoro era ancora il tempo di un’economia dominata dai ritmi agrari, priva di fretta, incurante dell’esattezza, non preoccupata della produttività – e di una società creata a immagine di quell’economia, sobria e modesta, senza enormi appetiti, senza pretese e incapace di sforzi quantitativi5.

La proto-industrializzazione segna invece un aumento dell’orario di lavoro giornaliero a quasi dodici ore, ma prima della svolta che si verificherà a partire dal Settecento le giornate lavorative rimangono nel complesso poche, per effetto delle molte festività e della loro durata, e dei periodi di freno della produzione. Fino a questa fase la stima si J. Le Goff, Time, Work & Culture in the Middle Ages, The University of Chicago Press, Chicago, 1982.

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attesta tra i centocinquanta e i duecento giorni lavorativi l’anno, dato che salirà oltre i trecento con l’esplosione della rivoluzione industriale. Le ragioni di questa crescita esponenziale sono molteplici, e non possono essere qui trattate nel dettaglio. È però importante evidenziare l’effetto congiunto di due processi ampiamenti noti, svelati innanzitutto dalla teoria marxista e da più parti ripresi nei secoli seguenti. Da un lato lo sviluppo tecnologico, alla base di quel processo di meccanizzazione raccontato nel capitolo precedente, che rendeva possibili livelli di produzione un tempo impensabili. Dall’altro la trasformazione del sistema economico e il fiorire del capitalismo, che minava qualsiasi equilibrio generato da un modello basato sui bisogni facendo esplodere le forme di accumulazione e le disuguaglianze. La questione non è di poco conto. Se guardiamo indietro alle profezie che nel tempo si sono susseguite, in ognuna di esse possiamo rintracciare l’idea della quantità di lavoro necessario «a soddisfare i bisogni». Questi ultimi sono in qualche misura trattati come una quantità definita e definibile, e solo a partire da questa operazione logica è possibile stimare la quantità di lavoro necessario. Semplificando, il capitalismo fa saltare questo meccanismo disintegrando l’ipotetico tetto dei bisogni, un po’ perché l’accumulazione di chi possiede i mezzi di produzione smette di avere limiti, un po’ perché i bisogni dei singoli sono continuamente alimentati per far crescere la domanda e incrementare il circolo. Torneremo su tutto questo nei prossimi capitoli, ma è utile qui sottolineare ancora una volta la connessione tra la dimensione economica e le trasformazioni più profonde della società e delle visioni del mondo.

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Fig. 1 - Durata stimata della settimana lavorativa nel mondo, 1870-2000 62

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Fonte: elaborazione su dati Oecd.

Quel che invece importa in questa fase è evidenziare come, effettivamente, toccato l’apice nella prima metà dell’Ottocento si assiste a una progressiva, e in qualche misura drastica, riduzione dell’orario lavorativo, che emerge con chiarezza dalla Figura 1. E ancora più importante è chiarire come questa progressiva contrazione del tempo non sia tanto un effetto generato dal mercato e dalle dinamiche di domanda/offerta, ma piuttosto il prodotto di una stagione di lotte e della nascita di sindacati e di organizzazioni di tutela dei lavoratori, in grado di far valere le proprie rivendicazioni e innescare più avanti l’intervento dello Stato, che avrebbe introdotto, con grande eterogeneità, forme di regolazione del tempo di lavoro. Se è vero che esiste una visione capitalista della riduzione dell’orario di lavoro finalizzata ad aumentare la produttività, è innegabile che i maggiori risultati siano passati attraverso la rivendicazione di diritti. Altrimenti,

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come scrive Lonnie Golden6, le ore avrebbero potuto continuare ad aumentare per sempre, sulla spinta dell’ipercompetitivo e non regolamentato mercato del lavoro che aveva preso forma nel XIX secolo. Pur con i limiti di una simile rilevazione su scala globale, la figura mostra in maniera inequivocabile il trend. I dati evidenziano però un elemento di grande interesse: un’inversione di tendenza rilevata nell’ultimo decennio di osservazione, che suggerisce uno sguardo più attento su quanto accaduto negli ultimi anni. Il complessivo trend di ripresa dell’orario lavorativo è infatti il risultato di un processo di crescente disuguaglianza e polarizzazione che si verifica sia su scala globale (tra le diverse aree del mondo) sia tra i diversi settori all’interno delle singole economie nazionali. Prima di tornare su questo punto, però, è necessario fare un passo indietro per chiederci se, a livello globale, la quantità di lavoro complessiva sia aumentata o diminuita nel recente passato.

Un mondo che lavora di più: la forza lavoro globale e il monte ore complessivo La ragione per cui è necessario distogliere momentaneamente lo sguardo dai carichi a cui devono far fronte i singoli individui è semplice. L’orario medio di ciascun lavoratore dipende da due fattori: la mole complessiva di lavoro e la sua distribuzione tra le persone. Possiamo quindi pensare che una sua riduzione possa verificarsi all’interno di due scenari molto diversi. Il primo è quello in 6 L. Golden, A Brief History of Long Work Time and the Contemporary Sources of Overwork, cit.

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cui un numero più o meno costante di lavoratori si trova a dividersi una mole di lavoro che si riduce. Nel secondo, invece, il lavoro complessivamente erogato rimane stabile, ma sono di più le persone su cui è ripartito. Se quest’ultimo scenario sarà alla base della nota idea di «lavorare meno, lavorare tutti», le narrazioni che preconizzavano la cosiddetta settimana corta o l’orario ridotto visti fin qui rimandavano principalmente al primo. Come più volte ricordato, l’enfasi sulla produttività e l’automazione portava a guardare nella direzione di un bisogno di prestazioni umane che, nel suo complesso, sarebbe inevitabilmente andato riducendosi. Una parte di questa profezia si è effettivamente verificata: la produttività del lavoro ha continuato ad aumentare senza sosta su scala globale a partire dagli anni Cinquanta. Le statistiche della banca mondiale su un campione di oltre novanta Paesi, così come i database Ocse, restituiscono un dato inequivocabile. In nessuno degli Stati considerati, pur con le inevitabili differenze, si è assistito a una riduzione, anche temporanea, della produttività del lavoro. Quella che invece non si è verificata è la seconda parte del sillogismo. Infatti, pur producendo, e dunque rendendo, di più il lavoro ha continuato ad aumentare, e con esso il numero di lavoratori e, soprattutto, di lavoratrici. Negli ultimi decenni, quelli cioè in cui si assiste all’inversione di tendenza evidenziata sopra, crescono sia il numero di persone che lavorano e che vogliono lavorare, sia le ore complessive lavorate nel mondo, come mostrano chiaramente le Figure 2 e 3. Con la sola eccezione del biennio pandemico le file delle forze lavoro sono andate ingrossandosi, e di conseguenza è aumentato il monte ore complessivo.

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Fig. 2 - Occupati e forza lavoro nel mondo (in miliardi), 1991-2021 3,60 3,40 3,20 3,00 2,80 2,60 2,40 2,20

1991

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1995

1997

1999

2001

2003

Occupati

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2017

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2021

Forza lavoro

Fonte: elaborazione su dati Ilo.

Fig. 3 - Ore lavorate nel mondo (in migliaia), 2005-2021 140.000 138.000 136.000 134.000 132.000 130.000 128.000 126.000 124.000 122.000 120.000

2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2019 2020 2021

Fonte: elaborazione su dati Ilo.

La Figura 2 offre uno spunto che merita di essere brevemente approfondito, ovvero il rapporto tra forza lavoro, occupati e disoccupati. La forza lavoro, infatti, è un indicatore della cosiddetta popolazione attiva, quanti cioè lavorano

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o vogliono lavorare, ed è dunque comprensiva di occupati e disoccupati. La sua crescita costante ci spiega perché, per quanto possa sembrare controintuitivo, occupazione e disoccupazione possono aumentare contemporaneamente: ciò si verifica quando più persone vogliono entrare nel mondo lavoro e quest’ultimo non è in grado di assorbirle tutte. La crescita costante della forza lavoro fotografa in modo sintetico ed efficace la profonda e ben nota trasformazione che si verifica con la fine del fordismo. Intorno alla fine degli anni Settanta, al termine dei Trenta gloriosi, il modello basato sulla grande industria e sulla produzione di beni durevoli entra in crisi, segnando di fatto la fine del modello di famiglia monoreddito (cosiddetta male­-breadwinner). In questo scenario un solo salario, tipicamente derivante dal lavoro dell’uomo, non è più sufficiente a garantire la stabilità economica delle famiglie, e da ciò deriva una massiccia entrata nel mercato del lavoro delle donne, accelerata ovviamente dalla rivoluzione femminista. Il processo storico innescato da questa trasformazione è estremamente complesso e rilevante, ed è oggetto di una sterminata letteratura in cui non ci addentreremo e che, proprio a partire dal pensiero femminista, individua una molteplicità di fattori non materiali che spingono a entrare nel mercato del lavoro o, più propriamente nel caso delle donne, a passare dal lavoro non retribuito a quello retribuito. Ai fini della nostra analisi sulla quantità di lavoro umano nelle società contemporanee però è cruciale sottolineare una relazione incontrovertibile: se il potere d’acquisto dei salari scende, più persone saranno costrette a lavorare, o a provare a farlo, per mantenere stabile il tenore di vita. O, al limite, le stesse persone dovranno lavorare di più.

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Fig. 4 - Andamento della produttività e dei salari nel mondo, 1999-2013 (dato normalizzato, 1999=100) 118 116 114 112 110 108 106 104

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come l’aumento della produttività sia stato in proporzione decisamente superiore nell’ultimo periodo a quello dei salari. Nella differenza, crescente, tra le due linee sta la spiegazione dell’aumento complessivo di lavoro nel mondo: a beneficiare dello sviluppo tecnologico non sono stati, se non in minima parte, i lavoratori. Per loro, il bisogno di lavorare non è, nei fatti, cambiato.

Chi lavora di più? Polarizzazione e globalizzazione

102 100

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Ma come tenere insieme questo elemento con la crescita della produttività con cui abbiamo aperto il capitolo? La risposta sta ovviamente nella trasformazione del sistema economico e nell’aumento esponenziale delle disuguaglianze che accompagna l’ascesa del neoliberismo, che fa sì che i maggiori proventi del lavoro non siano redistribui­ ti in forma di salario o di welfare, ma piuttosto vadano a finire nelle mani di pochi, rafforzando il potere del capitale sul lavoro e indebolendo ulteriormente le richieste di riduzione dell’orario o di maggiori salari7. Questo anche perché, come si diceva poc’anzi, quando la quantità di persone che vogliono lavorare aumenta così rapidamente la crescita dell’occupazione non è sufficiente a coprire una simile offerta, causando disoccupazione. La Figura 4 chiude dunque il cerchio del ragionamento, mostrando proprio

Chiarito il trend che ha visto la quantità di lavoro complessivo aumentare negli ultimi decenni, possiamo tornare alla dimensione dell’impegno orario individuale di lavoratori e lavoratrici, e all’inversione di tendenza che i dati Ocse ci mostrano a partire dalla fine del secolo scorso. Come anticipato, questo dato aggregato suggerisce un trend da tenere sotto controllo, ma per effetto delle profonde disuguaglianze su scala globale – e della crescente differenza nelle condizioni di lavoro che ha seguito la fine del fordismo – il dato complessivo appare sempre più prossimo alla famosa «media del pollo». In effetti, uno degli esiti della progressiva differenziazione delle condizioni di lavoro che si afferma nello scenario postfordista è rintracciabile nel fatto che, come ci mostra Jon Messenger in uno studio comparato su Stati Uniti ed Europa8, l’immagine della settimana lavorativa di quaranta ore appare sempre meno diffusa nella pratica, per l’effetto di due spinte opposte (su cui torneremo nel cap. VII). Da un lato la diffusione del part-time e del

7 Si veda, su questo punto, M. Franzini, M. Pianta, Disuguaglianze. Quante sono, come combatterle, Laterza, Roma-Bari, 2016.

8 J.C. Messenger (a cura di), Working Time and Workers’ Preferences in Industrialized Countries. Finding the Balance, Routledge, London, 2004.

Indice del valore reale dei salari

Indice di produttività del lavoro

Fonte: elaborazione su dati Ilo.

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lavoro precario e flessibile ha portato all’aumento di persone che si dedicano al lavoro per un numero limitato di ore, dall’altro il fenomeno del cosiddetto overwork ha fatto crescere la quota di quanti superano abbondantemente questa soglia (sia essa ideale o sancita per contratto). Unico elemento di relativa stabilità è l’aumento delle ore complessive lavorate all’interno dei nuclei familiari, per effetto dell’affermazione del modello di famiglia a doppio reddito di cui abbiamo discusso sopra. Per il resto, la differenziazione del lavoro, la progressiva specializzazione e soprattutto la flessibilità che si è fatta largo nelle sue varie accezioni (numerica, geografica, temporale e funzionale) hanno portato a invertire la rotta da una tendenza alla standardizzazione a un modello variamente definito come polarizzato, individualizzato, diversificato e decentralizzato. Proprio le trasformazioni dei modelli di produzione e consumo su scala globale sono fondamentali per capire quali categorie, e come vedremo quali aree del mondo, sono maggiormente interessate da un aumento dell’orario di lavoro. Dal lavoro di Messenger e colleghi è possibile, con qualche semplificazione, estrarre tre fattori. Il primo ha a che fare con l’avvento della produzione just in time e con la cosiddetta lean organization. Se il modello fordista-taylorista poteva contare su una relativa stabilità della domanda, che consentiva un’organizzazione e una pianificazione della produzione, l’incertezza dei mercati attuali spinge a modelli in cui le quantità di lavoro, nella manifattura ma anche nei servizi, dipendono dalle oscillazioni della domanda. Come conseguenza, aumenta la possibilità che si verifichino picchi di lavoro che possono

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durare anche per periodi prolungati. Quando la durata della crescita è relativamente più lunga e prevedibile le imprese possono reagire incrementando il personale con contratti temporanei. Quando, invece, i cicli sono di breve durata l’unica leva possibile è ricorrere a un aumento del lavoro dei dipendenti già presenti. La flessibilità oraria in questi modelli organizzativi, non a caso, è posta al centro delle analisi scientifiche sul fenomeno karoshi con cui si apre questo capitolo. A complicare il quadro è la discutibile natura «volontaria» di questo overwork, a cui spesso è difficile opporsi per una varietà di ragioni. Il secondo fattore è rappresentato da modelli di organizzazione (e regolazione) del lavoro che sempre meno fanno affidamento sulla quantità di ore lavorate come «unità di misura» e sempre più si affidano al monitoraggio della performance e dei risultati, all’interno di un più ampio processo che potremmo definire di managerializzazione. Se è vero che in linea teorica un simile modello potrebbe comportare anche una riduzione del tempo di lavoro per i più produttivi o veloci a raggiungere gli obiettivi, nella pratica la definizione degli stessi e la competizione interna alle aziende sembra di fatto sortire pressoché unicamente l’esito opposto. Al crescere della produttività si innalzano gli obiettivi, in un circolo vizioso che tende a saturare comunque il tempo di lavoro e spesso quello di vita. Il terzo e ultimo elemento è dato dalla trasformazione dei modelli di consumo che si colloca in un più ampio processo di de-standardizzazione dei tempi di vita: l’avvento della cosiddetta società delle 24 ore, a cui lo sviluppo delle tecnologie informatiche ha dato una sostanziale accelerazione. In questo modello, una società che non si ferma

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mai non è più organizzata attorno a una distinzione più o meno rigida e condivisa tra tempi di vita e tempi di lavoro, ma beni e servizi sono (devono essere) accessibili 24 ore al giorno e sette giorni alla settimana9. Il fenomeno è noto e da tutti sperimentato nel quotidiano attraverso le esperienze della cosiddetta economia delle piattaforme, o più semplicemente dall’allungamento degli orari di apertura delle attività commerciali. Quel che ne consegue è un paradosso, che possiamo definire come una crescente tensione tra gli interessi degli individui nel loro ruolo di consumatori e nel loro ruolo di lavoratori, in qualche modo inedita e sempre più diffusa. Questa forma di dissociazione può essere risolta attraverso modelli di consumo critico e responsabile, che non a caso si vanno diffondendo, ma nella maggior parte dei casi non viene percepita dalle persone. Il risultato, ci dice Golden a partire dallo studio del caso Usa, è un aumento evidente dell’orario lavorativo in termini assoluti per alcuni gruppi di lavoratori e in alcuni settori dell’economia. Sul primo fronte l’incremento riguarda principalmente le professioni manageriali e in generale coloro che ricoprono le posizioni più elevate e percepiscono i salari più alti, che per effetto di note dinamiche di disuguaglianze – quando non di segregazione – del mercato del lavoro corrispondono anche a una popolazione di maschi bianchi al di sopra dei cinquant’anni. Sul secondo versante, quello dei settori, cresce l’orario in quei segmenti di mercato più interessati dai nuovi modelli di commercio e produzione, in particolare quelli della vendita al dettaglio e del trasporto delle merci. In termini relativi, però, l’incremento

più rilevante è riscontrabile tra le donne10, su cui peraltro continua a gravare il cosiddetto dual burden (letteralmente «doppio fardello») rappresentato dal sommarsi del lavoro di cura non retribuito con quello retribuito. Nel considerare questi dati è poi importante tenere presente che la rilevazione dell’orario lavorativo è particolarmente complessa per il lavoro precario e per il precariato della conoscenza in particolare, per cui è massima la divaricazione tra orario previsto (quando lo è) e ore effettivamente lavorate. Ciò si verifica, talvolta, anche per la difficoltà che gli stessi soggetti hanno nel tenere traccia del proprio impegno professionale e di separarlo dal cosiddetto tempo di vita. A fianco di questi tre fattori, che raccontano di una polarizzazione che avviene sostanzialmente all’interno di ciascun sistema produttivo nazionale o locale, vi è un’ulteriore dimensione su cui gli orari lavorativi si differenziano profondamente, ovvero quella geografica. Questo elemento ci permette di cogliere l’ultimo aspetto della polarizzazione del tempo di lavoro, quello legato alla dimensione della globalizzazione e in particolare alla brusca accelerazione della sua componente economica avvenuta a partire dagli anni Ottanta, e delle disuguaglianze che questa porta con sé. Le Figure 5 e 6, ottenute disaggregando per area geografica gli indicatori già mostrati in precedenza a livello globale, offrono un quadro che si presta a una facile interpretazione. Le ore complessive lavorate (Fig. 5), infatti, non aumentano in ugual misura in tutti i Paesi del mondo. L’incremento

G. Costa, Flexibility of working hours in the 24-hour society, in Medicina del Lavoro, n. 97, 2006, p. 288.

10 P. Rones, R. Ilg, J. Gardner, Trends in Hours of Work Since the Mid 1970s, in Monthly Labor Review, n. 120, 1997, pp. 3-14.

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maggiore si ha nei Paesi a basso reddito, dove il lavoro complessivo cresce quasi del 50 per cento negli ultimi quindici anni (non sono riportati i dati relativi al periodo pandemico), e in quelli a reddito medio basso. Nei Paesi a reddito alto e medio-alto la crescita è invece decisamente meno marcata, in particolare per questi ultimi. Fig. 5 - Ore complessive lavorate per reddito del Paese, 2005-2019 (andamento normalizzato, 2005=100) 155

Paesi a basso reddito

145 135

Paesi a reddito medio-basso

125

Paesi a reddito medio-alto

115 105 95

Paesi ad alto reddito 2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

2012

2013

2014

2015

2016

2017

2018

2019

Fonte: elaborazione su dati Ilo.

Fig. 6 - Ore settimanali lavorate nell’industria per area geografica, 1950-2000 55

Medio Oriente e Nord Africa

53 51

Asia orientale

49 47

Africa SubSahariana

45 43

Stati Uniti e Australia

41 39 37

1950

1960

1970

Fonte: elaborazione su dati Oecd.

1980

1990

2000

Europa Occidentale

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Quanto alla durata della settimana lavorativa, i dati a partire dal dopoguerra relativi al solo settore manifatturiero mostrano come l’Europa occidentale sia l’unica area in cui la settimana lavorativa continua ad accorciarsi dopo gli anni Ottanta (anche se il dato non è univoco per tutti i Paesi), mentre rimane sostanzialmente stabile negli Stati Uniti e in Australia. Il dato rilevante però è la brusca inversione di tendenza che, pur partendo da livelli diversi, si verifica in Africa, Europa orientale e Asia orientale. Questo andamento spiega la variazione complessiva degli ultimi decenni mostrata in apertura di capitolo, ed è inscindibilmente legato al fenomeno della delocalizzazione della produzione in Paesi a basso costo della manodopera e con una scarsa regolazione del lavoro. Nella sua evidenza, getta un’ombra (ben nota) anche sulle relative conquiste in materia di orario lavorativo del cosiddetto Occidente, rese possibili dallo spostamento del lavoro e dallo sfruttamento di nuovi mercati. I sogni legati all’incremento di produttività, se ancora ci fosse bisogno di prove, appaiono quindi quanto mai lontani dall’essere realizzati.

III. Lavorare tutti, lavorare peggio

III. Lavorare tutti, lavorare peggio

Il governo dei numeri e la scomparsa della qualità

Nella società moderna, ancora più che in quella antica, esiste una quantità pressoché infinita di attività che possono essere svolte in cambio di denaro o di altre ricompense materiali. Se lasciamo da parte per un attimo l’immagine tradizionale dell’impiego a tempo pieno in un ufficio o in una fabbrica, o quella dell’imprenditore o del lavoratore autonomo, rimane una galassia di prestazioni brevi, occasionali, informali e con retribuzioni minime. Portare a spasso il cane del vicino di casa per un’ora alla settimana o bagnare le sue piante quando è in vacanza in cambio di qualche spicciolo o di una cena offerta, badare ai figli di conoscenti e amici per arrotondare, dare una mano nel negozio di famiglia per qualche ora dopo la scuola, e mille altre situazioni analoghe. Nel linguaggio comune esiste da sempre un termine per definire queste attività: i «lavoretti», espressione ormai uscita dal colloquiale con la diffusione dell’etichetta gig economy. Senza volerne minimamente mettere in discussione la dignità o l’utilità, per avviare la riflessione che svilupperemo in questo capitolo è fondamentale chiedersi chi, in una simile situazione, si sentirebbe di dire di «aver trovato lavoro». E soprattutto: quale Paese, a fronte di un’elevata presenza di situazioni di questo tipo, sarebbe autorizzato ad affermare di aver risolto il problema dell’occupazione?

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La definizione di lavoro è da sempre politicamente complessa e, come il femminismo ci ha insegnato introducendo il concetto di lavoro non retribuito, va molto oltre il semplice scambio prestazione-denaro. Ma anche volendo, per pure esigenze espositive, rimanere all’interno di questa prospettiva ristretta, continuano a esistere enormi problemi di definizione, che si amplificano quando si tratta di stabilire chi sono i lavoratori e le lavoratrici. Come si definisce la condizione di persona «occupata»? E ancor più importante, come viene misurato il livello di occupazione? Sebbene ampiamente usata nel dibattito pubblico e in quello politico, l’idea di occupazione – e l’osservazione delle sue variazioni nel tempo – viene raramente ricondotta a quella che potremmo definire la sua definizione operativa e che costituisce la base per rilevazioni che pure hanno una straordinaria valenza politica. Secondo le convenzioni internazionali, e in particolare seguendo le indicazioni dell’Eurostat, definiamo occupato o occupata chi nella settimana che precede il momento della rilevazione ha svolto almeno un’ora di lavoro in cambio di un salario o di un altro ritorno economico, per sé o per la propria famiglia. Figurare come occupato nelle statistiche, dunque, non richiede la presenza di un contratto (sono occupati anche i lavoratori in nero, se lo dichiarano) e prescinde del tutto dal livello del salario e dall’impegno orario. La formulazione poi lascia spazio a un’evidente ambiguità per quanto riguarda il ritorno economico, il lavoro gratuito nell’attività di famiglia non sembra infatti diverso dal lavoro domestico non retribuito, dal momento che anche questo, fuori da ogni dubbio, garantisce un ritorno economico al nucleo.

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Eppure, per quanto strano possa sembrare, l’intera riflessione sulla condizione occupazionale a livello nazionale e internazionale passa attraverso questa definizione, la cui formulazione, come vedremo, è cruciale non tanto per valutare la qualità dei dati prodotti, ma per capire come il lavoro stesso sia stato trasformato. In peggio. Nel capitolo precedente abbiamo visto come il mondo sia stato messo al lavoro a dispetto di un incremento di produttività, all’interno di una logica di crescita i cui proventi non sono redistribuiti e in cui i bisogni (a parte quelli di accumulazione del capitale) non sono più cruciali nel determinare la quantità di lavoro necessaria. Si tratta ora di chiedersi come, cioè attraverso quali strumenti, questo scenario sia stato costruito, quali conseguenze abbia avuto sulla qualità del lavoro e, infine, come cambi il ruolo del tempo in una società flessibile segnata dalla crisi dell’istituzione salario1. Dalle prime rivendicazioni sulla durata della giornata lavorativa, infatti, il lavoro è completamente trasformato, e non in una direzione univoca. Al contrario possiamo dire che sia «esploso», frammentandosi in una miriade di forme de-standardizzate e sempre più difficilmente confrontabili tra loro.

Dalle leggi ai numeri, come cambiano gli strumenti per il governo del lavoro? Per comprendere come da una definizione apparentemente destinata ai soli statistici possa derivare una trasformazione profonda della qualità del lavoro occorre fare un Si veda: R. Castel, Le metamorfosi della questione sociale. Una cronaca del salariato, Mimesis, Milano, 2019.

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passo indietro, e rivolgere lo sguardo a una delle direzioni in cui è mutato il modo di esercitare il potere. In questo senso, è illuminante il contributo della scuola francese che si occupa ormai da decenni di «governance attraverso i numeri». Semplificando la profondità e l’ampiezza della riflessione, l’assunto centrale di questa scuola di pensiero è che nelle società contemporanee il governo attraverso le leggi, da sempre considerate lo strumento principe della definizione di regole condivise, stia gradualmente lasciando il posto a un modello di regolazione che si avvale di strumenti di rilevazione della performance di individui e società attraverso dati e indicatori. Si tratta di un processo che, nelle parole di Alain Supiot, comporta la sostituzione di un’autorità ancorata a principi e a processi di «qualificazione giuridica», che richiedono l’esercizio di una facoltà di giudizio e che si sostanziano in ultima istanza nell’elaborazione di testi, con un modello che poggia la sua legittimità su una valutazione delle condotte di individui e Stati messa in atto a partire da processi di quantificazione. Una logica che non costruisce il giudizio sull’agire collettivo a partire dai suoi presupposti o dai valori che lo muovono, quanto piuttosto dai suoi esiti2. Sono i principi su cui si regge il cosiddetto approccio post-ideologico, che a partire dagli anni Novanta, e in particolare sulla spinta del modello della «terza via» blairiana, si diffonde rapidamente nei Paesi dell’Occidente. Uno dei principali cortocircuiti di questa visione risiede nel fatto che i numeri, una volta divenuti di uso comune, esercitano la loro influenza sulla società indipendenA. Supiot, Governance by Numbers. The Making of a Legal Model of Allegiance, Bloomsbury Publishing, London, 2017.

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temente dal modo in cui sono costruiti. Ne è un esempio la formulazione della condizione di occupato di cui sopra, ma la storia recente è piena di «numeri che governano» senza una riflessione critica su ciò fotografano. Basti pensare, per rimanere sull’attualità, al meccanismo delle zone colorate utilizzato in Italia durante la pandemia: la batteria di ventuno indicatori su cui si regge questo sistema, ridotta nel discorso pubblico a una semplice misurazione dei contagi e della capacità ricettiva delle strutture sanitarie, è in realtà molto più complessa. Tra gli elementi di interesse per quest’analisi basterà citare che il primo dei tre «blocchi» che lo costituiscono valutava le regioni non già sull’andamento dell’epidemia o sui posti letto disponibili, ma proprio sulla capacità di produrre e trasmettere dati con puntualità. Tanto maggiore è la capacità di una regione di monitorare attraverso i numeri, tanto più sarà improbabile che questa finisca in zona rossa. Quanto più sarà in grado di contare i suoi casi tanto meno questi rappresenteranno un rischio. Ma perché i numeri sono così efficaci come tecnologia di governo? Due spiegazioni, tra le altre, meritano di essere approfondite. La prima ha che fare con l’universo simbolico positivo che li circonda e con la loro pretesa di «oggettività meccanica», come la definisce Theodore Porter3, che appare l’antidoto al rischio di personalismi e storture della politica. La seconda risiede invece nella capacità di offrire una valida alternativa agli strumenti della legge nello scenario della globalizzazione e della crisi di sovranità degli Stati. 3 T.M. Porter, Trust in Numbers. The Pursuit of Objectivity in Science and Public Life, Princeton University Press, Princeton, 1996.

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Partiamo dal principio. L’idea di strumenti di governo legati ai saperi e all’expertise non è certo nuova. Come notano James March e Johan Olsen: Le argomentazioni storiche secondo cui la governance deve basarsi sulle interpretazioni e sui resoconti dei Re filosofi e dei rappresentanti illuminati si rinnovano nelle affermazioni contemporanee secondo cui è impossibile per i non addetti ai lavori comprendere la complessità delle questioni di politica pubblica e che le giustificazioni possono essere sviluppate e comprese solo da esperti e da istituzioni protette dall’ignoranza, come tribunali, stati maggiori militari, istituti scientifici, università e banche centrali4.

In questo senso, la pretesa di scientificità e oggettività dei numeri offre oggi una valida soluzione a quell’antico bisogno di una politica che sia al tempo stesso esperta ed efficace5, basata su dati oggettivi e non su interpretazioni fallaci o peggio dettate da interessi personali. La crisi di legittimità delle istituzioni politiche della democrazia rappresentativa negli ultimi decenni costituisce un forte fattore che spinge in questa direzione, se è vero, come ricordava Luigi Bobbio, che l’opzione tecnocratica riprende vigore ogni qualvolta la classe politica appare delegittimata6. I numeri rappresentano così la naturale e più credibile alternativa alle «chiacchiere» di una classe politica inconcludente e spesso disonesta. Con le parole 4 J.G. March, J.P. Olsen, Democratic Governance, The Free Press, New York, 1995, p. 178. 5 Emblematico in questo senso è lo slogan con cui il New Labour di Blair si presenta alle elezioni nel 1997: «What matters is what works» (ciò che importa è ciò che funziona). 6 L. Bobbio, La democrazia non abita a Gordio, FrancoAngeli, Milano, 1996.

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di Supiot: il sogno di un’armonia sociale ottenuta «aritmeticamente»7. Si tratta però di un’oggettività illusoria, dal momento che, come ricorda Robert Salais8, il modo in cui gli indicatori vengono costruiti risponde a una «conoscenza comune» che spesso è il frutto di una «egemonia cognitiva» esercitata da una parte della società. Lungi dall’essere oggettiva, infatti, la quantificazione altro non è se non «un’azione sociale che, come il discorso, può avere molteplici scopi e significati. E solo analizzando particolari istanze di quantificazione nel contesto si possono rivelare questi scopi e significati. Come per il linguaggio, gli obiettivi e il senso stesso della quantificazione sono stabiliti attraverso l’uso»9. Il secondo ordine di ragioni si ritrova nelle trasformazioni della governance su scala globale, che ha fortemente incentivato la sostituzione delle leggi con i numeri. Scrive a proposito Supiot: Questa contestualizzazione cronologica è fondamentale per capire come la promessa di un governo impersonale, che era già parte di questo ideale, sia arrivata a prendere la forma odierna di un governo con i numeri. Poiché il regno della legge è intimamente legato alla sovranità dello Stato, questo regime ha sofferto del declino di quest’ultima. Oggi lo Stato sembra essere relegato ancora una volta al ruolo strumentale che aveva nei regimi totalitari, e criticato come una figura arcaica e oppressiva10. A. Supiot, Governance by Numbers, cit., p. 10. R. Salais, Le convenzioni come strumenti di policy. L’Europa e la “decostruzione” della disoccupazione, in Sociologia del lavoro, n. 129, 2013, pp. 22-39. 9 W.N. Espeland, M.L. Stevens, A Sociology of Quantification, in European Journal of Sociology, n. 49, 2008, pp. 401-436. 10 A. Supiot, Governance by Numbers, cit., p. 9. 7 8

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Come vedremo a breve a proposito del governo del lavoro e del ruolo dell’Unione Europea, laddove gli organismi internazionali non abbiano il potere di sostituirsi agli Stati nel promulgare le leggi, la definizione di obiettivi comuni in forma di indicatori numerici offre una valida alternativa. È questa l’idea alla base del Metodo aperto di coordinamento di cui si avvalgono le istituzioni europee: definire obiettivi condivisi verso cui gli Stati debbono tendere, attraverso la definizione di strumenti autonomi. Se è vero che il principio si regge sulla cooperazione volontaria, non si può ignorare il potere che nei numeri risiede, e la loro capacità di retroagire sui soggetti e i fenomeni oggetto di misurazione11. Ovvero: la definizione di numeri per valutare la performance finisce per dar forma ai comportamenti che si propone di misurare. Le strategie saranno orientate a raggiungere obiettivi numerici e non fattuali e la quantificazione da descrittiva diventerà prescrittiva. Per questo, riprendendo anche le riflessioni foucaultiane, l’idea alla base della riflessione sul governo con i numeri è che questi ultimi mirino all’autoregolazione di individui e società. Non definiscono regole o comportamenti, ma individuano il risultato a cui questi devono mirare, di fatto trasformandoli senza imposizione. Non a caso, a livello di individui, gli indicatori di performance sul lavoro sono trattati alla stregua di «strumenti di governo della mente»12. Prima di tornare sullo specifico tema del lavoro occorre compiere un ultimo passaggio, che consiste nel chiedersi 11 A. Desrosières, Buono o cattivo? Il ruolo del numero nel governo della città neoliberale, in Rassegna Italiana di Sociologia, n. 52, 2011, pp. 373-398. 12 A. Supiot, Governance by Numbers, cit., p. 178.

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in quale direzione questa trasformazione spinge le nostre società. L’idea alla base di questa teoria, infatti, è che il governo con i numeri finisca inevitabilmente per «strumentalizzare» il diritto e subordinare le norme giuridiche agli imperativi dell’economia13 facendo «economia di parole». Ancora una volta, lo strumento non è neutro, ma rappresenta uno dei mezzi attraverso cui avviene la cosiddetta rivincita del capitale sul lavoro dopo il momento di massimo splendore del movimento operaio. Del resto la connessione tra numeri e capitalismo era già stata messa in evidenza oltre un secolo fa da Werner Sombart, che si chiedeva «perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo?» in un suo saggio omonimo del 1906, in cui rifletteva sulla diffusa ammirazione per ogni grandezza misurabile o pesabile, sia essa il numero di abitanti di una città, il numero di pacchi postali spediti, la velocità delle ferrovie, l’altezza di un monumento, l’ampiezza di un fiume, la frequenza dei suicidi o qualsiasi altro dato. […] La valutazione della grandezza in termini puramente numerici significa null’altro che poter radicare nell’animo umano la tendenza a considerare la mediazione del denaro secondo la logica capitalistica14.

Dalla qualità alla quantità: come cambia il lavoro Le trasformazioni brevemente esposte nel paragrafo precedente offrono molti spunti per leggere il modo in cui è cambiato lo stile di esercizio del potere in una varietà di O. de Leonardis, F. Neresini, Introduzione. Il potere dei grandi numeri, in Rassegna italiana di sociologia, n. 56, 2015, pp. 371-378. W. Sombart, Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo?, Bruno Mondadori, Milano, 2006, p. 14 (ed. or. 1906).

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ambiti dell’azione pubblica. Il lavoro, però, è senza dubbio uno di quelli in cui le ricadute di queste trasformazioni sono più evidenti. Anzi, può a pieno titolo essere considerato uno dei terreni in cui il governo attraverso i numeri è stato sviluppato e sperimentato. Il punto di partenza è la progressiva indipendenza, nella percezione pubblica, delle sintesi quantitative dalla realtà che queste rappresentano: Così ci vengono mostrati i grafici delle variazioni dei tassi di disoccupazione, con la promessa che a breve la curva di breve durata “mostrerà una ripresa”, secondo una logica che confonde allegramente l’andamento di una situazione con la sua rappresentazione geometrica. [...] Il rifiuto del reale a favore della sua rappresentazione quantificata porta a quello che l’economista americano Paul Krugman ha definito “un crollo intellettuale”15.

I numeri del lavoro diventano fine, non strumento per comprendere il reale, e lo slittamento semantico che porta a parlare della curva e non della condizione di vita delle persone non è soltanto una questione di lessico, ma di profonda sostanza. Perché, come suggerisce Salais, il significato pratico delle azioni politiche messe in atto muta radicalmente: l’obiettivo non è più quello di migliorare lo stato della società o le condizioni degli individui, bensì semplicemente e letteralmente quello di «aumentare un tasso». Le ricadute pratiche di questo mutato atteggiamento sono evidenti guardando, ad esempio, il tasso di disoccupazione. Dal momento che questo indicatore misura la percentuale di persone che, pur volendo lavorare (dunque facendo

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A. Supiot, Governance by Numbers, cit., p. 278.

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parte della forza lavoro), non trovano un’occupazione, il suo valore scenderà nel momento in cui, ad esempio, le persone si scoraggiano passando a far parte della popolazione cosiddetta inattiva, o emigrano in altri Paesi in cerca di miglior fortuna. Le condizioni di vita di quelle persone non sono certo diventate più soddisfacenti, specie nel primo caso, ma l’indicatore registrerà un miglioramento. Il cortocircuito non potrebbe essere più evidente. La diminuzione di quel tasso può fotografare fenomeni desiderabili (chi vuole lavorare ha trovato lavoro) o nefasti (chi non trova lavoro viene espulso dal mercato o addirittura dalla società). Eppure, istintivamente, non possiamo che sentirci sollevati dal sapere che «la disoccupazione scende». Al di là di come la costruzione dei singoli indicatori ricada sulla realtà, è spesso la scelta degli stessi ad avere l’impatto maggiore. A questo proposito l’esempio più efficace è sicuramente dato dal processo di definizione della Strategia europea per l’occupazione (Seo), approvata alla fine del 1997 e preceduta dal cosiddetto Trattato di Amsterdam, che pochi mesi prima aveva fissato gli obiettivi dell’Unione in materia di lavoro. Il documento segna un passaggio apparentemente di poco conto ma di estrema rilevanza, dal momento che, continuando a seguire il filo dell’analisi di Salais, segna l’inizio della scomparsa della categoria della disoccupazione a beneficio di quella dell’occupazione. In effetti un’analisi puntuale del testo è sorprendente. Il termine disoccupazione non compare nemmeno una volta nel corposo documento, e i numerosi assunti sulla necessità di aumentare il numero degli occupati e di fissare obiettivi (numerici) comuni, secondo il Metodo aperto di coordinamento, non sono mai ac-

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compagnati da alcun riferimento alla qualità di quel lavoro16. Come abbiamo più volte sottolineato occupazione e disoccupazione non sono semplicemente una l’inverso dell’altra, sia da un punto di vista pratico che concettuale. Da un lato, infatti, le due grandezze possono aumentare contemporaneamente se cresce il numero di quanti vogliono lavorare. Sono quindi due misure diverse, non semplicemente le due facce di una stessa medaglia, e rinunciare a una significa perdere di vista una parte della realtà del lavoro. Dall’altro, i due indicatori differiscono profondamente da un punto di vista del significato: l’occupazione si limita a misurare una condizione (è occupato chi lavora), la disoccupazione mette quella condizione in relazione con un desiderio, o bisogno, della persona (non è disoccupato chi non lavora, ma chi vorrebbe farlo e non può). Del resto, compilare tabelle richiede un’operazione di semplificazione estrema, dal momento che le persone devono essere collocate in una e una sola cella. Per farlo, è necessario ricorrere a «convenzioni di equivalenza», che decidano in merito a ciò che dev’essere considerato simile. E stabilire equivalenze è una questione complicata: da un lato, si potrebbe trovare una donna di 25 anni con un lavoro part-time mal pagato accanto a una quarantenne, senior manager in una banca; dall’altro, l’esercizio implica che tutte La dimensione della qualità, a onor del vero, farà la sua comparsa solo pochi anni più tardi con la cosiddetta strategia di Lisbona, che avrebbe introdotto lo slogan «more and better jobs» in relazione alla transizione verso l’economia della conoscenza. Gli osservatori però concordano nella valutazione per cui non solo i lavori non sono diventati migliori, ma che l’attenzione al monitoraggio di questa dimensione è stata del tutto insufficiente. 16

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le caratteristiche (certamente eterogenee) non corrispondenti alla descrizione generale «donna al lavoro» vengano dichiarate irrilevanti17.

Quale può essere, a ben vedere, l’informazione che ci trasmette un numero che accomuna il top manager di una multinazionale al dog sitter che prova a mantenersi gli studi? E quale «grado di equivalenza» i due possono percepire guardandosi reciprocamente? L’effetto di quest’enfasi, e di questo sguardo ristretto, sul volume dell’occupazione ha le conseguenze peggiori sulla qualità del lavoro, soprattutto se misurata come abbiamo raccontato in apertura. La rivoluzione silenziosa avviata dalla Seo porta infatti con sé un messaggio politico importante ma spesso non esplicitato: aumentare il numero dei lavoratori a ogni costo, e dunque concedere alle imprese la flessibilità che richiedono, incentivandola. Nelle sue varie declinazioni, questo concetto può comportare diverse conseguenze pratiche: la durata e l’instabilità dei contratti, la riduzione del numero di ore lavorate (con conseguente diminuzione dello stipendio, la cosiddetta sotto-occupazione), la riduzione dei salari. In quattro parole: lavorare tutti, lavorare peggio.

Il tempo e il denaro. Come cambia il rapporto nell’Italia dei cattivi lavori Anche nell’era del governo con i numeri l’esercizio del potere non può, come è logico, fare del tutto a meno della legge. Il grande frame maturato a livello europeo e rac17

R. Salais, Le convenzioni come strumenti di policy, cit., p. 33.

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contato fin qui va dunque considerato anche per la sua natura di «discorso collettivo», di conoscenza comune se non addirittura di visione del mondo che ha ricadute in termini di leggi e politiche pubbliche. Queste, però, assumono forme diverse nei singoli Stati. Se non è possibile analizzare il modo in cui la narrativa dell’occupazione è stata declinata in tutti i Paesi europei, è senza dubbio opportuno guardare a cosa è successo nel caso italiano. La sovrapposizione dei tempi è emblematica di un processo che non è semplicemente top-down, ma piuttosto matura contemporaneamente a più livelli, sull’onda di un discorso che precede il momento in cui le leggi e i documenti ufficiali vengono promulgati. Il 1997, anno della Seo, è anche l’anno in cui in Italia, durante il Governo Prodi, viene approvato il cosiddetto Pacchetto Treu18, controverso intervento di riforma del mercato del lavoro a cui si deve l’avvio di una trasformazione che sarà poi portata a termine dalla cosiddetta legge Biagi nel 200319. Oggetto di critiche bipartisan per la sua timidezza (una rivoluzione a metà) da un lato, ma soprattutto perché artefice dello smantellamento delle garanzie contrattuali e del definitivo tramonto del lavoro fordista, l’intervento è responsabile dell’introduzione di alcune modifiche nei rapporti di lavoro ancora estremamente attuali e centrali nel definire il concetto stesso di precarietà20. A questo dispositivo si devono l’introduzioLegge 24 giugno 1997, n. 196; Dlgs 7 agosto 1997, n. 280; Dlgs 1º dicembre 1997, n. 468. 19 Legge 14 febbraio 2003, n. 30. 20 M.A. Toscano (a cura di), Homo instabilis. Sociologia della precarietà, Jaca Book, Milano, 2007. 18

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ne di forme nuove e la regolazione di alcune già esistenti, le più celebri delle quali sono sicuramente il contratto di collaborazione coordinata e continuativa (quel Co.co.co. divenuto sinonimo di precarietà) e il contratto a progetto, ma anche il lavoro interinale, il tirocinio, il contratto di apprendistato. Pur con ancora alcune limitazioni, nasceva qui l’idea di lavoro flessibile in Italia. L’effetto di questa trasformazione, proseguita per ormai venticinque anni fino al cosiddetto Jobs Act di Renzi, può essere raccontato attraverso alcuni semplici dati che fotografano la condizione degli occupati, che mostrano come si siano concretizzati i rischi a cui facevamo riferimento poco fa, e ci permettono di esplorare nuovi risvolti del rapporto tra tempo, lavoro e denaro. Il primo fotografa l’andamento dei contratti a termine21. I temporary workers, nelle loro varie forme, crescono dal 1998 al 2014 dal 12 al 22 per cento degli occupati. L’incidenza complessiva è dunque pari a un quarto dei lavoratori ed è quasi raddoppiata in poco più di quindici anni. Peraltro, il dato non fotografa la fase finale della crisi del 2008 e l’impatto della pandemia. Le stime di questa grandezza sono in verità molto variabili a seconda di quali forme di lavoro vengano conteggiate, ma la fotografia del trend è univoca, tanto che Istat ha annunciato, nel suo rapporto annuale 2021, che in quest’anno è stato raggiunto il picco storico da quando questa dimensione è rilevata, ovvero dal 1977. La varietà dei contratti temporanei non va letta soltanto in termini di incertezza rispetto al reddito, ma anche in termini di accesso agli ammortizza-

tori sociali in caso di disoccupazione. L’incidenza, poi, è incredibilmente più elevata per i giovani e per le donne. Il secondo dato riguarda la cosiddetta sotto-occupazione, termine che è recentemente entrato a far parte anche del vocabolario Treccani per definire la condizione di un lavoratore occupato per un tempo inferiore al normale, perché gli è assegnato un lavoro saltuario o con orario giornaliero ridotto. Non si tratta di persone disoccupate se non per brevi periodi – e dunque sfuggono alle misure della disoccupazione – ma sono piuttosto uomini e donne che non lavorano abbastanza nell’arco di un anno. Questa mancanza di lavoro è in parte legata alla discontinuità dell’impiego, ma può essere legata anche a una condizione di occupazione stabile ma non sufficiente a garantire un orario e un salario pieni. Il dato Eurostat a questo proposito, che parte dal 2009, mostra per l’Italia un incremento costante decisamente superiore alla media europea. Da un’incidenza del 1,9 per cento del 2009 si passa al 3,8 del 2021. Anche in questo caso il dato è doppio se si guarda alla popolazione compresa tra i quindici e i ventiquattro anni e alla sola componente femminile del mercato del lavoro. Infine, l’ultima dimensione riguarda l’andamento dei salari22. Se il trend complessivo parla di una crescita complessiva dei salari reali, al netto delle ore lavorate, del 7 per cento dalla metà degli anni Ottanta, il modo in cui questo incremento è distribuito è profondamente disuguale: i salari più alti (il top 10 per cento) sono infatti cresciuti di oltre il 27 per cento, mentre nello stesso periodo il 25

21 Elaborazioni di Mario Pianta su dati Inps-Losai, diffusi in Forum Disuguaglianze Diversità – 15 Proposte per la giustizia sociale.

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Ivi.

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Lavorare meno

per cento dei lavoratori con salari più bassi ha visto una riduzione di quasi un quarto, quasi un terzo se guardiamo solo al 10 per cento più basso. Incertezza delle posizioni, sotto-occupazione e bassi salari sono tra le principali dimensioni che una rappresentazione schiacciata sul tasso di occupazione non coglie, o meglio, che proprio quella rappresentazione contribuisce ad alimentare. Eppure l’effetto combinato della loro crescente incidenza ha dato vita a un fenomeno divenuto parte del discorso pubblico solo in un recente passato, quello dei working poor, i lavoratori poveri (su cui tornereno nel cap. VIII)23. Fino a pochi decenni fa, avere un lavoro era considerato, e almeno in parte lo era realmente, una condizione che preveniva dalla caduta in povertà. I poveri, dunque, andavano ricercati tra le fila dei disoccupati, e anche su questa logica si legittimava la retorica dell’aumento incondizionato dei tassi di occupazione. La presenza di poveri inseriti nel mercato del lavoro – e la consapevolezza ormai diffusa che questo non protegge più come un tempo dalla povertà – costituisce oggi un elemento che introduce, oltre ai rischi evidenti, un notevole elemento di complessità, che complica inevitabilmente anche la questione del «lavorare meno». Se è vero che il lavoro può essere troppo, e se è vero che l’overwork è un fenomeno in crescita, aumentano anche i casi in cui questo sembra essere troppo poco per ga23 Esiste una crescente mole di contributi su questo tema negli ultimi dieci anni. Per una rassegna dei primi studi si veda A. Meo, I working poor. Una rassegna degli studi sociologici, in La Rivista delle Politiche Sociali, n. 2, 2012, pp. 219-241. Più di recente, ha raggiunto una platea ampia il testo di C. Saraceno, Il lavoro non basta. La povertà in Europa negli anni della crisi, Feltrinelli, Milano, 2015.

III. Lavorare tutti, lavorare peggio

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rantire un’esistenza degna, soprattutto in assenza di una crescita della paga oraria e, in Italia, dell’assenza di un salario minimo. Questa non è che una delle molte facce che l’aumento delle disuguaglianze assume nelle società contemporanee, ma implica un ripensamento ampio anche delle rivendicazioni politiche. Tutte le riflessioni sulla riduzione dell’orario di lavoro nascono infatti, in passato, da una concezione del lavoro fordista, in cui si potevano assumere come relativamente costanti la durata del rapporto di lavoro e la distribuzione settimanale dell’orario. Il lavoro era, in qualche misura, continuo e continuativo, e in linea generale i salari erano sufficienti a prevenire la povertà, almeno nelle sue forme assolute. Il quanto poteva quindi essere pensato in modo pressoché monodimensionale: quante ore, e non quanti giorni o per quanto tempo. L’emergere di nuove temporalità, come vedremo, è un fattore che lega la proposta politica contemporanea a una quantità di variabili un tempo impensabili. E l’instabilità ormai strutturale chiama inevitabilmente in causa il welfare, di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo.

IV. Liberi dal lavoro, libere di lavorare

IV. Liberi dal lavoro, libere di lavorare Lo statuto incerto del welfare

Il 22 agosto 1996, alla fine del suo primo mandato e a poco più di due mesi dalle elezioni che lo avrebbero riconfermato presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton firmava, nell’elegante cornice del Rose Garden della Casa Bianca, un’attesa e discussa legge di riforma del welfare: la Legge sulla responsabilità personale e le opportunità di lavoro (Personal responsibility and work opportunity act). Accanto a lui sedeva Lillie Harden, una quarantaduenne madre sola nera di Little Rock, in Arkansas, ex beneficiaria di welfare, restituita al mondo del lavoro proprio dai programmi che Clinton, allora governatore, aveva avviato in quello Stato negli anni Ottanta. La strategia comunicativa, al tempo molto criticata dai suoi detrattori, era evidente: ribaltare lo stereotipo della welfare queen1, che aveva dominato le retoriche reaganiane sul welfare, per mostrare come un sistema riformato sarebbe stato in grado di sconfiggere pigrizia, opportunismo e frodi, restituendo ai beneficiari la propria dignità e rendendoli una forza pro1 Il termine welfare queen fu introdotto negli anni Settanta negli Stati Uniti con riferimento al caso giudiziario di Linda Taylor, colpevole di numerose frodi ai danni del welfare per un’ingente somma di denaro. La sua diffusione si deve però alla campagna presidenziale di Ronald Reagan del 1976, che ne fece l’emblema degli effetti perversi, del malaffare e del decadimento morale attribuibili al sistema delle politiche sociali.

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duttiva per il Paese. L’obiettivo di Clinton, come recitava lo slogan che accompagnava la legge, era quello di «porre fine al welfare come lo conosciamo», ovvero a quello strumento che in dodici anni di presidenze repubblicane tra Reagan e Bush era divenuto nella rappresentazione comune una trappola, un generatore di dipendenza utile solo a scoraggiare le persone dall’entrata nel mercato del lavoro o a incentivare i disonesti. E in effetti, nel firmare una legge proposta dai repubblicani, un cambiamento epocale il presidente lo aveva raggiunto. Il welfare cessava di essere nemico di imprenditori e datori di lavoro, che da lì in avanti lo avrebbero anzi valutato come un prezioso alleato: non più antitesi del lavoro, ma piuttosto strumento al suo servizio, come suggerisce anche il nome della legge. Il prezzo da pagare, come i dati degli anni a venire avrebbero mostrato, era semplicemente il venir meno del diritto a un’esistenza degna per milioni di persone2. L’interazione tra Harden e Clinton, in pieno stile cerimoniale, è uno scambio commosso di complimenti e ringraziamenti. Lei impersonifica il riscatto sociale nato da una promessa fatta a un figlio che ora «può rispondere quando a scuola gli chiedono cosa fa la mamma»; lui, l’uomo che ha reso tutto ciò possibile grazie al superamento di una visione assistenzialistica. Beninteso, non c’è nulla di male o di indesiderabile nel fatto che una persona riesca a trovare lavoro e a migliorare le proprie condizioni di vita: la storia di Harden è davvero una storia di successo e di riscatto, soprattutto se si tiene presente lo stigma di 2 J. Soss, R.C. Fording, S.F. Schram, Disciplinare i poveri. Paternalismo neoliberale e dimensione razziale nel governo della povertà, Mimesis, Milano, 2022. Il video integrale della cerimonia è disponibile su Youtube.

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cui soffrono i beneficiari di welfare. Proprio per questo, però, due cose appaiono paradossali. La prima è che, in un contesto meno incline a cogliere quelle che oggi chiamiamo dinamiche di washing, Harden rappresentava, nel suo essere donna e nera, proprio le due categorie che più sarebbero state penalizzate dalla riforma. La seconda è che in occasione della riforma del welfare, questo (il welfare) sia il grande assente dal dibattito, mentre sia il lavoro a dominare la scena. Le politiche sociali, e la loro funzione di garanzia dei diritti, non sono mai tematizzate se non in negativo: qualcosa da cui tenersi alla larga e di cui beneficiare per il minore tempo possibile, qualcosa di cui vergognarsi, un problema da superare. Per comprenderlo occorre soffermarsi ancora sulle parole di Clinton. Nel suo discorso, infatti, i beneficiari di welfare sono «esiliati da ciò che dà un senso alla nostra comunità», ovvero il lavoro. Il presidente cita a conferma le parole di Robert Kennedy: «Il lavoro è il significato di tutto ciò che è questo Paese. Ne abbiamo bisogno come individui, dobbiamo vederlo nei nostri concittadini e ne abbiamo bisogno come società e come popolo». Per questo, chiosa Clinton: La nostra risposta alla sfida sociale non sarà più un ciclo infinito di welfare: saranno la dignità, il potere e l’etica del lavoro. Oggi stiamo cogliendo l’occasione per rendere il welfare quello che era pensato per essere: una seconda occasione, non uno stile di vita.

Riformare il welfare per riaffermare la dignità del lavoro, superando un’antitesi di secoli, ma ribadendo al contempo lo statuto incerto delle politiche sociali e di quelle di sostegno al reddito in particolare.

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Redistribuzione, de-mercificazione e diritti. Il welfare come campo di battaglia Per comprendere le ambiguità del welfare e del suo rapporto con il lavoro occorre partire da un concetto noto ma spesso occultato da rappresentazioni sociali e discorsi pubblici e politici semplificati: le politiche sociali e la redistribuzione non sono per definizione strumenti neutri, che contribuiscono in egual misura al benessere di tutti i membri di una società. Al contrario, essi riflettono la struttura dei conflitti e le dinamiche di potere che attraversano il tessuto sociale. Richard Titmuss, uno dei riferimenti classici dello studio dei sistemi di welfare, metteva in evidenza queste tensioni in un celebre passaggio dei primi anni Settanta: Quando usiamo il termine “politica sociale” non dobbiamo, quindi, reagire automaticamente investendolo di un alone di altruismo, di attenzione agli altri, di preoccupazione per l’uguaglianza e così via. Né dobbiamo concludere sconsideratamente che il fatto che la Gran Bretagna – o qualsiasi altro paese abbia una politica sociale o abbia sviluppato servizi sociali – operi effettivamente nella pratica per promuovere gli obiettivi di redistribuzione progressiva, uguaglianza e altruismo sociale. Ciò che è benessere (“welfare”) per alcuni gruppi può essere malessere (“illfare”) per altri3.

Non solo, dunque, il welfare non porta vantaggi a tutti in egual misura, ma non è detto che la sua funzione sociale sia necessariamente quella di ridurre le disuguaglianze o aiutare i più poveri. Basti pensare, per fugare ogni dubbio, alle prime forme di intervento pubblico seicentesco 3

R.M. Titmuss, Social policy, Allen & Unwin, London, 1974, p. 143.

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che avevano principalmente la funzione di proteggere la società dai poveri piuttosto che il contrario. Proprio per questo non sorprende che le politiche sociali siano spesso l’esito di tensioni e lotte, e che siano al contempo generatrici di conflitti sociali. Del resto, lo stesso concetto di redistribuzione che è alla base dei sistemi di welfare è intrinsecamente conflittuale, nella misura in cui implica (a differenza della semplice distribuzione), che le risorse siano prelevate in misura differente tra i membri di una società, e ri-allocate al suo interno secondo criteri altri da quelli che ne hanno orientato la raccolta. È quindi inevitabile che, come suggeriva Titmuss, da operazioni di questo tipo qualcuno guadagni e qualcuno perda. Sulla scorta di queste considerazioni, studiosi e studiose della legittimazione del welfare4 hanno evidenziato come, ad esempio, le politiche pensionistiche implichino una redistribuzione (e dunque un potenziale conflitto) tra le generazioni, le politiche di conciliazione si riflettano sugli equilibri tra i generi o le misure di sostegno al reddito chiamino in causa il passaggio di risorse dai più ricchi ai più poveri. Per questo motivo le scelte di valore e i rapporti di potere costituiscono una componente intrinseca di qualsiasi intervento di politica sociale, nonostante dinamiche di depoliticizzazione e rimozione del conflitto tendano negli ultimi anni a occultare questa ambiguità. È per questo motivo che il welfare è a pieno titolo annoverabile tra i meccanismi di regolazione di una società in senso proprio. W. Van Oorschot et al. (a cura di), The Social Legitimacy of Targeted Welfare. Attitudes to Welfare Deservingness, Edward Elgar Publishing, Cheltenham, 2017.

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Guardando alla dimensione del conflitto tra capitale e lavoro, la caratteristica dei sistemi di welfare che dà conto della loro capacità di spostare gli equilibri di potere è ormai comunemente definita, a partire dai primi anni Novanta, attraverso il concetto di de-mercificazione (de-commodification). La diffusione del termine si deve al contributo di Gøsta Esping-Andersen, che proprio a partire da questa dimensione (insieme alla capacità di influire sulla stratificazione sociale) ha prodotto una celebre tipologia dei regimi di welfare, che muove dall’assunto che questi non siano meri correttivi delle disuguaglianze, ma una forza attiva in grado di ordinare le relazioni sociali. Volendo darne una definizione, la de-mercificazione è ciò che si ha quando un servizio è reso sulla base di un diritto, e quando una persona può mantenersi senza dipendere dal mercato. La de-mercificazione rafforza il lavoratore e indebolisce l’autorità assoluta del datore di lavoro. È proprio per questo motivo che i datori di lavoro si sono sempre opposti ad essa […]. Una sua definizione minimale deve comportare che i cittadini possano liberamente, e senza perdita potenziale di lavoro, di reddito o di benessere in generale, scegliere di non lavorare quando lo ritengono necessario5.

La de-mercificazione non deve essere confusa con la solidarietà o con il livello di protezione offerto alla platea dei beneficiari. I cosiddetti modelli occupazionali di welfare diffusi in molti Paesi d’Europa a partire dall’inizio del secolo scorso, ad esempio, garantivano tutele ai nuclei familiari

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G. Esping-Andersen, The Three Worlds of Welfare Capitalism, Princeton University Press, Princeton, 1990, p. 21-22.

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proprio attraverso l’offerta di servizi al capofamiglia lavoratore. Indipendentemente dalla generosità di questi servizi, l’inserimento nel mercato del lavoro era dunque condizione imprescindibile per potervi accedere. Questo tipo di intervento non appartiene al passato: i cosiddetti assegni familiari (in vigore fino all’inizio del 2022), ad esempio, erano una prestazione economica erogata a determinate categorie di lavoratori e pensionati, da cui erano esclusi autonomi e precari, oltre che naturalmente i disoccupati. Questo tipo di misure non rende le persone indipendenti dal mercato del lavoro, ma al contrario funge da incentivo a entrarci. Dunque, pur offrendo protezione non rappresentano forme di de-mercificazione. Non solo, tanto più cresce la loro generosità quanto più i lavoratori saranno incentivati ad accettare il lavoro indipendentemente dalle condizioni offerte, dal momento che questo rappresenta anche la porta d’accesso alle prestazioni di welfare. Al contrario, sistemi di sostegno al reddito universalistici e finanziati attraverso la fiscalità generale possono garantire una maggiore indipendenza degli individui dal mercato. Ma, come nota lo stesso Esping-Andersen, «se i benefici sono bassi e associati a stigma sociale, il sistema di aiuti costringerà tutti, con la sola eccezione dei più disperati, a partecipare al mercato»6. Non tutti gli interventi di politica sociale, dunque, hanno come esito quello di emancipare dal lavoro e dal mercato. Per questo le battaglie del capitale si sono storicamente concentrate su quelle misure in grado di de-mercificare gli individui e in particolare sulle forme di sostegno al reddito, per cercare di disinnescarne il potenziale. 6

Ivi, p. 22.

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La less eligibility e la regolazione dei poveri (e dei lavoratori) Il principio cardine che incorpora questi sforzi fa la sua comparsa con le Poor Laws inglesi del 1834, e diviene da quel momento una pietra angolare di tutte le misure pensate per offrire un sollievo alle persone in condizioni di povertà e grave marginalità. Esso è noto da allora con il nome di less eligibility, reso principalmente in italiano attraverso la traduzione di «minor preferibilità». Secondo questo principio, anche la forma più generosa di trasferimento economico non deve essere più appetibile del peggiore dei lavori. Così recita il testo originale: La prima e più essenziale di tutte le condizioni, un principio che troviamo universalmente ammesso, anche da coloro la cui pratica è in contrasto con esso, è che la sua situazione [del beneficiario delle misure di sollievo] nel complesso non deve essere resa realmente o apparentemente più eligible [cioè desiderabile] della condizione del lavoratore della classe più bassa7.

Messa in altri termini, qualsiasi forma di trasferimento pubblico non deve essere in alcun modo competitiva con il lavoro, quale che sia il salario che questo prevede, l’impegno richiesto o i rischi che può comportare. Dal punto di vista della generosità del sostegno questo principio ha l’effetto di legare qualsiasi forma di trasferimento non tanto alla media dei salari, quanto piuttosto a quelli più bassi, che come abbiamo visto nei paragrafi precedenti non 7 The Report from His Majesty’s Commissioners for Inquiring into the Administration and Practical Operation of the Poor Laws, 1834, citato in F.F. Piven, R. Cloward, Regulating the Poor. The Functions of Public Welfare, Vintage Books, New York, 1972, p. 34.

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sono già spesso in grado di proteggere dalla povertà. Non solo, impone di mantenere una «distanza di sicurezza» che prevenga dalla messa in atto di calcoli costi-benefici che incorporino elementi altri dal semplice compenso. Se le due grandezze fossero troppo vicine, si potrebbe infatti preferire un importo più basso corrisposto attraverso sussidi a una cifra di poco superiore nel caso di lavori usuranti o rischiosi. L’effetto, come notano Frances Fox Piven e Richard Cloward nel loro celebre testo del 1972 Regulating the poor, è di portare in molti casi i sussidi al di sotto della stessa soglia di sussistenza, in aperto contrasto con la ragione per cui sono stati concepiti. Per fugare ogni dubbio, però, nel testo del Commissario di Sua Maestà non ci si limita a considerare la dimensione materiale dell’una o dell’altra condizione, ma si estende la riflessione anche alla dimensione «apparente». Il passaggio ha una rilevanza cruciale, come vedremo a breve, perché allarga il campo a nuove forme di disincentivo immateriale ad accedere al welfare e, per contro, di incentivo al lavoro. Negli Stati Uniti, l’applicazione del principio nel Social Security Act del 1935 incorpora fin dalla definizione l’elemento simbolico, prevedendo che i sussidi comportino condizioni di vita «più severe di quelle della classe più bassa di lavoratori che si procurano il sostentamento con una onesta occupazione». La connotazione data dall’aggettivo onesto alla condizione di lavoratore definisce anche, per differenza, la situazione dei beneficiari di welfare, legittimando di fatto quell’atteggiamento punitivo e quei rituali di degradazione deputati a renderla «meno preferibile» ben al di là degli importi. Proseguendo nella loro analisi, gli autori notano

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come questo principio trovi precise corrispondenze nelle moderne pratiche di perquisizioni, ispezioni e incarcerazioni dei beneficiari. Lo stigma del welfare appare, alla luce di queste analisi, non tanto un «effetto collaterale» quanto piuttosto un ingrediente fondamentale per difendere il lavoro dal welfare e dal suo potenziale di emancipazione. Dinamiche simili di assoggettamento e squalificazione erano peraltro ai tempi ben note anche all’interno del lavoro salariato, in particolare tra le occupazioni manuali. Lo denunciava con estrema chiarezza, alla fine dell’Ottocento, Antonio Graziadei, economista italiano tra i fondatori del Partito comunista, osservando come la limitazione dei compensi non rispondesse unicamente a logiche di profitto: Ora, quanto più un lavoro materiale è pesante, tanto più colui che è chiamato ad eseguirlo deve trovarsi in condizioni psicologiche inferiori. Siccome infatti l’uomo, man mano che si eleva, non solo tende a sfuggire, ma diventa addirittura incapace di compiere un lavoro muscolare troppo faticoso, l’unico mezzo per costringervelo, è quello di mantenerne molto basso il livello di vita8

Ma perché, dunque, prevedere un sistema di welfare o una qualche forma di aiuto ai poveri se le condizioni di povertà di larghi strati della popolazione sono funzionali a incentivare al lavoro e a prevenire qualsiasi forma di miglioramento della propria condizione di vita? La risposta risiede nella sua capacità di «regolare i poveri», per riprendere il titolo del testo che accompagna l’analisi di A. Graziadei, Il lavoro umano e la macchina, in Giornale degli Economisti, n. 18, 1899, pp. 311-331; la citazione è a p. 311.

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questo paragrafo, ovvero di fungere da strumento di controllo sociale. Piven e Cloward spiegano che questa funzione è svolta attraverso la combinazione e l’alternanza di fasi espansive e recessive delle politiche sociali. Le prime rispondono alla fondamentale esigenza di ordine e pace sociale di cui il capitalismo ha bisogno per prosperare, garantendo una vita accettabile se non dignitosa alla forza lavoro e prevenendo dallo scoppio improvviso di conflitti e rivolte. L’equilibrio che si genera è però intrinsecamente precario: la funzione de-mercificante del welfare, infatti, allevia il controllo sui lavoratori favorendo la presa di coscienza e la lotta, o più semplicemente il rifiuto di condizioni giudicate non accettabili. Per questo, scrivono i due autori: «Il punto non è solo che quando si offre un sussidio regnano la pace e l’ordine, ma piuttosto che non appena la pace e l’ordine regnano, qualsiasi forma di sostegno viene ritirata»9. Per rinforzare l’adesione alle norme imposte dal mercato, infatti, è necessario che si verifichi un’immediata contrazione dei benefici che ri-mercifichi i lavoratori e le lavoratrici, da perseguire fin tanto che il peggioramento non metta nuovamente a rischio la pace sociale. A questo punto il ciclo è destinato a ripartire dal principio. Un’analoga alternanza si può rintracciare anche nell’impiego del lavoro stesso come strumento di disciplinamento delle classi subalterne o di quanti erano considerati devianti. Da un lato, il lavoro forzato come mezzo di punizione e rieducazione all’interno delle workhouses o delle carceri, dall’altro la privazione del lavoro e l’apatia di

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detenuti e poveri in una condizione di reclusione «come lezione oggettiva, un mezzo per celebrare le virtù del lavoro con il terribile esempio della loro agonia»10. Associare troppo a lungo il lavoro con poveri e detenuti avrebbe finito per squalificarlo, piuttosto che esaltarlo. E del resto, come nota acutamente Jonathan Simon, a un certo punto della storia il lavoro era diventato un bene troppo di lusso per poter pensare di «ricompensare» i prigionieri con esso11.

Una nuova stagione: lo Stato al servizio del mercato L’alternanza tra fasi espansive e recessive del welfare e il principio della less eligibility sono storicamente le forme più diffuse attraverso cui è stata costruita una classe di lavoratori consona alle esigenze del capitale. Eppure, la regolazione in negativo, basata cioè su una sottrazione di diritti o al più sul loro ancoraggio alla condizione di lavoratore, non era sufficiente a raggiungere i livelli di occupazione descritti nei capitoli precedenti, soprattutto quando questo passava per un drastico incremento del tasso di occupazione femminile. Il welfare dei «Trenta gloriosi», non a caso spesso definito patriarcale, aveva fornito buone protezioni alle classi lavoratrici, ma aveva al contempo istituzionalizzato la famiglia male breadwinner, rafforzando l’esclusione delle donne dal mercato del lavoro salariato e costringendole al lavoro di cura non retribuito. Con la crisi di questo modello, la sola less eligibility non era quindi più sufficiente ad aumentare 10

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F. Piven, R. Cloward, Regulating the Poor, cit., p. 347.

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11

Ivi, p. 34. J. Simon, Poor Discipline, University of Chicago Press, Chicago, 1993.

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i tassi di occupazione. Le politiche sociali dovevano, al contrario, svolgere un ruolo attivo nel promuoverne la crescita. Proprio per questo motivo, richiamando ancora Esping-Andersen, a fianco della categoria di de-mercificazione è divenuto opportuno considerare anche il potenziale di de-familizzazione dei sistemi di welfare, ovvero il grado in cui le politiche sociali riescono a liberare le famiglie, e dunque le donne all’interno di esse, dai carichi di cura. Le due categorie implicano effetti opposti del welfare sul mercato del lavoro. Se la de-mercificazione attenua la dipendenza delle persone dal lavoro retribuito, «attraverso la de-familizzazione delle responsabilità assistenziali, lo stato sociale contribuisce a mercificare le donne (e quindi a diminuire la dipendenza dagli uomini)»12. Non è un caso, infatti, che nei Paesi in cui queste politiche, di conciliazione ma anche di cura, sono più sviluppate, i tassi di occupazione femminile registrino livelli molto più elevati. Senza voler minimamente negare le ricadute positive di questo massiccio ingresso femminile nel mercato del lavoro, sia del punto di vista culturale che da quello materiale, ai fini di questa analisi è utile considerare come il concetto di «indipendenza economica» che ne consegue non sia scevro da ambiguità. In primo luogo perché, come mostra egregiamente Nancy Fraser parlando di «relazione pericolosa» del femminismo con la mercaG. Esping-Andersen, Social Foundations of Postindustrial Economies, Oxford University Press, Oxford, 1999, p. 46, corsivo mio. La categoria fu aggiunta dall’autore a seguito delle critiche femministe ricevute al suo testo del 1990.

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tizzazione13, anche il lavoro salariato costituisce una forma di dominazione e può dunque prefigurare relazioni di dipendenza, sebbene di altra natura rispetto a quelle presenti all’interno del nucleo familiare. In secondo luogo perché: In modo altrettanto importante, valorizzando il lavoro salariato la cultura politica del capitalismo organizzato dallo Stato ha oscurato l’importanza sociale del lavoro di cura non retribuito e del lavoro riproduttivo. E, istituzionalizzando le interpretazioni androcentriche di famiglia e lavoro, ha naturalizzato le ingiustizie di genere sottraendole alla contestazione politica14.

Semplificando, l’enfasi sul lavoro ha in qualche misura impedito che la ripartizione dei carichi di cura venisse debitamente tematizzata nel dibattito pubblico, favorendo la creazione di storture evidenti come quella del «doppio fardello», che vede le donne costrette a sobbarcarsi il carico del lavoro retribuito senza che venga loro sottratto quello del lavoro di cura non retribuito. La torsione del welfare da strumento per liberare dal lavoro a mezzo per rendere le persone sì libere, ma libere unicamente di lavorare, si accentua ulteriormente sul finire degli anni Novanta, con l’avvento del paradigma dell’investimento sociale, che si regge proprio sul potenziale produttivo delle politiche sociali e sulla loro capacità di supportare il mercato. Nell’esplicitare il ruolo ancillare del welfare, questo modello, nei fatti, «riduce i diritti di cittadinanza –

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N. Fraser, Fortune del femminismo. Dal capitalismo regolato dallo Stato alla crisi neoliberista, Ombre Corte, Verona, 2014, p. 27. 14 Ivi, p. 250. 13

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quali dovrebbero essere anche quelli alla conciliazione – a strumenti per perseguire occupabilità e crescita economica»15, riproponendo e amplificando la squalificazione della cura, ridotta a mero ostacolo al lavoro. La svolta degli anni Novanta, però, si pone obiettivi assai più ambiziosi di una mera «rimozione degli ostacoli» alla partecipazione al mercato del lavoro. In questi anni, infatti, cresce nella quasi totalità dei Paesi occidentali l’enfasi sulla cosiddetta attivazione, e sulla necessità di costruire un welfare che non solo non intralci le dinamiche endogene del mercato del lavoro, ma che al contrario ne soddisfi i bisogni. La retorica clintoniana con cui si apre questo capitolo ne è sicuramente un’ottima prova sul caso statunitense, ma anche in Europa è possibile rintracciare dinamiche del tutto analoghe. Gli strumenti attraverso cui questo avviene sono molteplici. Innanzitutto, la temporaneità degli interventi ne costituisce un cardine. Il passaggio da misure pensate per durare finché i bisogni permangono (il famoso slogan «dalla culla alla tomba» che caratterizzava il welfare beveridgiano del dopoguerra) a forme di intervento su un arco temporale definito a priori ha una doppia valenza pratica e simbolica. Da un lato, infatti, de-mercifica le persone per un breve intervallo di tempo per poi restituirle al mercato in una posizione di estrema debolezza. Dall’altro, trasmette il messaggio che le politiche sociali non sono qualcosa su cui si possa fare affidamento in modo stabile, e che dunque poveri e disoccupati devono responsabilizzarsi rispetto alla propria 15 M. Cannito, Congedi parentali e paternità: ambivalenze delle politiche tra Italia ed Europa, in La Rivista delle Politiche Sociali, n. 1, 2018, pp. 131-150; la citazione è a p. 148.

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condizione, non rimanendo in attesa di uno «Stato-mamma» che provveda a loro. Altro elemento cruciale è l’idea di attivazione e di potenziamento del capitale umano. Il presupposto, in questo caso, è che le persone non trovino lavoro per una loro mancanza di volontà o capacità (e non per mancanza del lavoro stesso), a cui sopperire attraverso corsi di formazione, tirocini, percorsi volti a potenziare l’occupabilità. Il nodo critico, in questo caso, è rappresentato dallo stigma per le misure definite «passive», come il sostegno al reddito, e soprattutto dall’inserimento del principio di condizionalità, che vincola qualsiasi sostegno economico all’adesione ai percorsi di cui sopra e all’accettazione di proposte non sempre, e non necessariamente, adeguate ai bisogni o alle caratteristiche dei beneficiari. Nel complesso, l’insieme di queste misure mette in atto processi di disciplinamento dei poveri e dei disoccupati che agiscono in direzione opposta a quella dell’emancipazione, e che hanno come risultato quello di produrre manodopera, spesso e volentieri a basso costo. Non solo, in senso più ampio ridefiniscono l’intera relazione tra Stato e mercato, superando ogni possibile tensione tra welfare e lavoro. In un passaggio esemplare del loro testo, Joe Soss, Richard Fording e Sanford Schram definiscono in questi termini la svolta avvenuta negli Usa: Le politiche per i disoccupati sono state riprogettate per emulare le pressioni e gli incentivi dei mercati del lavoro a basso salario, nonché per sostenere queste pressioni attraverso l’autorità statale. […] Gli adulti che partecipano ai programmi di welfare oggi non sono posizionati fuori dal mercato, bensì

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vengono attivamente spinti ad accettare i peggiori lavori ai peggiori salari. […] Il lavoro viene promosso non solo limitando la portata e la generosità dei sistemi di welfare […] bensì anche attraverso l’uso affermativo delle politiche sociali come luoghi in cui il potere dello Stato si dispiega per servire i mercati16.

Si fatica, in questo scenario, a tematizzare il welfare come baluardo contro la «messa al lavoro» del mondo, o come strumento in grado di restituire ai lavoratori voce e potere per difendere i loro diritti. Si fatica, invero, a scorgere del tutto la dimensione dei diritti nella sua pienezza. Le trasformazioni del welfare aiutano a comprendere le cause strutturali delle promesse infrante di mondo con meno lavoro. Il loro impatto, però, è ravvisabile anche nel modo in cui contribuiscono a un più ampio processo di trasformazione culturale del lavoro e della relazione con esso, che sarà al centro del prossimo capitolo.

16

J. Soss, R.C. Fording, S.F. Schram, Disciplinare i poveri, cit., p. 45.

V. Chi non lavora non fa l’amore

Etica del lavoro, passione, autosfruttamento

«Chi non lavora non fa l’amore» non è soltanto il titolo di una canzone. Anche a chi non ne ricorda la genesi la frase suona conosciuta, e con ogni probabilità anche i più giovani riconosceranno il motivetto, ripreso da più parti in trasmissioni televisive, canzoni e persino pubblicità. Si potrebbe dire che l’espressione sia entrata nel patrimonio linguistico e culturale pop del nostro Paese. La sua comparsa non è priva di interesse, soprattutto per il momento storico in cui è avvenuta. Nel 1970, infatti, Adriano Celentano vinceva con questo brano il Festival di Sanremo, cantando in duetto con la moglie Claudia Mori. Il pezzo racconta di una moglie che, come conseguenza dei ripetuti scioperi del marito, decideva di negargli «il cibo in tavola e l’intimità», tanto che allo sventurato, impedito dai picchetti a tornare al lavoro, non restava che chiedere l’aumento al «signor padrone», così che nelle case potesse tornare l’amore. Era, si diceva, il febbraio 1970. Pochi mesi prima l’autunno caldo delle lotte dei lavoratori aveva monopolizzato l’attenzione pubblica, e solo tre mesi dopo, il 20 maggio dello stesso anno, sarebbe stato approvato lo Statuto dei lavoratori (legge 300/1970), che proprio al momento del Festival seguiva il suo iter parlamentare. Non stupisce dunque che il brano abbia suscitato reazioni veementi e sdegnate, per l’invito al cru-

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miraggio oltre che per gli stereotipi di genere che conteneva. La sua vittoria finale viene presto definita come un segnale del governo alla nazione, e Corrado Guerzoni, giornalista al tempo molto vicino ad Aldo Moro, scriveva sul Radiocorriere TV che la canzone «diventerà molto probabilmente l’inno della moderazione italiana»1. E in fondo poco importa se lo stesso autore si sia difeso raccontandola nel tempo come una storia in cui la politica non c’entra, un invito a ricomporre in fretta le fratture sociali o un’ironia che, anzi, voleva raccontare la difficoltà della classe lavoratrice. La frase, nella sua semplicità ed efficacia, era entrata a far parte di un immaginario che con molti mezzi e molte voci concorreva e concorre a rafforzare il valore del lavoro su un piano simbolico e materiale, e a promuoverne un’etica che è diventata nel tempo strumento di disciplina dei lavoratori, come se non di più delle leggi stesse. L’espressione è ovviamente in buona compagnia. «Fa ciò che ami e non lavorerai nemmeno un giorno in vita tua» è il motto di senso comune con cui Sarah Jaffe, giornalista statunitense, apre il suo bestseller Il lavoro non ti ama2. O ancora, il fatto che la domanda fatta ai bambini «cosa vuoi fare da grande?» presupponga come risposta un mestiere è spesso segnalato come l’emblema della penetrazione della cultura del lavoro anche nell’educazione e nella socializzazione dei più piccoli e delle più piccole. Le sfumature di significato sono diverse, ma il comune denominatore è rintracF. Zanetti, Adriano Celentano, la storia di “Chi non lavora non fa l’amore”, www.rockol.it. S. Jaffe, Il lavoro non ti ama. O di come la devozione per il nostro lavoro ci rende esausti, sfruttati e soli, Minimum Fax, Roma, 2022.

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ciabile nell’idea che il lavoro sia fonte di gratificazione, rispetto, soddisfazione, riconoscimento, dignità e più in generale di identità, e che il suo valore vada ben oltre le ricompense materiali che può offrire. Questa considerazione non è certo sorprendente ed è anch’essa, in fondo, entrata nel senso comune. Il punto su cui è opportuno riflettere, però, è che questo valore simbolico può alimentare due strategie discorsive (e politiche) opposte. La prima è quella che proprio a partire dal riconoscimento del suo valore esistenziale reclama condizioni migliori per i lavoratori sottolineando la portata a 360 gradi di instabilità, precarietà e sfruttamento (si pensi al noto testo di Luciano Gallino Il lavoro non è una merce3). La seconda è quella che, in direzione opposta, enfatizza le ricompense immateriali del lavoro come mezzo per oscurare la miseria di quelle materiali, per giustificare sfruttamento e indurre autosfruttamento, giungendo quasi a negare lo statuto di lavoratore, perché in fondo, come si diceva poco sopra, chi fa ciò che ama non lavora davvero, e il vero amore non vuole nulla in cambio. Tra le due opposte strategie esistono punti di contatto e possono crearsi pericolosi cortocircuiti in cui l’una rischia di rinforzare l’altra, confondendo i diritti con il merito.

L’invenzione dell’etica del lavoro. Genesi ed evoluzione di un processo politico e sociale Per comprendere come l’etica del lavoro sia a pieno titolo da considerare come il prodotto di processi sociali, 3 L. Gallino, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Laterza, Roma-­ Bari, 2007.

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e non un immanente comandamento morale insito in ognuno di noi, è necessario tornare alle pagine con cui si apre questo volume, e a quelle civiltà classiche che vedevano nel lavoro un’attività squalificante da riservare unicamente a chi si trovava ai livelli più bassi della stratificazione sociale. Solo adottando una prospettiva temporale così ampia, infatti, è possibile cogliere come la rappresentazione positiva del lavoro sia un fenomeno culturale estremamente recente e sostanzialmente riconducibile alla rivoluzione industriale e al XIX secolo. Questo carattere «incidentale» dell’attuale etica del lavoro spinge a riflettere sulle sue origini e sui processi che l’hanno portata all’attuale egemonia: cosa ha reso un’attività degradante e da sfuggire con ogni mezzo quanto di più desiderabile ci sia nelle nostre società? A metà degli anni Settanta, lo storico Daniel Rodgers affrontava questa affermazione partendo da un assunto semplice quanto efficace: Di per sé il lavoro comporta solo un elemento di peso e, per la maggior parte delle persone, il pungolo della necessità. Poche culture hanno avuto la presunzione di chiamarlo qualcosa di più di un pessimo affare in un mondo imperfetto. Fu un esercizio di ingegno a trasformare l’inevitabile in un atto di virtù, un fardello nel centro vitale delle nostre esistenze4.

Il processo che stiamo osservando è quello dell’affermazione di un’etica di massa, estesa a tutti i membri della società e a tutte le professioni. Il concetto di valore morale del lavoro è ovviamente di molto precedente l’industrializD.T. Rodgers, The Work Ethic in Industrial America 1850-1920, University of Chicago Press, Chicago, 2014, p. XI.

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zazione, e il suo processo di estensione è almeno in parte graduale. Nella sua analisi, tuttavia, Rodgers nota come fino a quel momento quell’impianto valoriale era diffuso in un ambiente estremamente ristretto e dinamico che si collocava (temporalmente) «tra il feudo e la fabbrica»: era il credo del capitalismo preindustriale. Del resto, proprio a partire dalle considerazioni di Weber sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo (riferimento fondativo di qualsiasi studio sul tema), il binomio grazia-ricchezza rendeva quell’etica un tratto distintivo dei «salvati». Quello che invece succede a metà del XIX secolo è un processo di «astrazione», in cui tutti i lavori divenivano nobili, indipendentemente dal prestigio o dalla ricchezza che ne poteva conseguire, ma unicamente per l’atto in sé. Questa estensione rispondeva a un obiettivo politico: utilizzare la dimensione morale per giustificare le condizioni di lavoro di una crescente massa di proletariato e dunque garantirsi la sua «collaborazione» senza bisogno di eccessi di coercizione. Kathi Weeks evidenzia come, pur trattandosi di un processo di secolarizzazione, questa trasformazione non abbia eliminato la componente irrazionale. La nuova forma di devozione al lavoro appare anzi, semmai, ancora più difficile da spiegare in termini di ricompense attese. Il prezioso lavoro della studiosa femminista aiuta a cogliere un tratto fondamentale delle trasformazioni dell’etica del lavoro: esse non riguardano mai il «dogma» o il mandato, ma piuttosto le motivazioni e i ritorni attesi per chi lo rispetta. Le prescrizioni dell’etica del lavoro sono infatti incredibilmente stabili nel tempo, non mutano a seconda dei soggetti che la predicano

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e comportano sempre «l’identificazione e la dedizione sistematica al lavoro salariato, l’elevazione del lavoro a centro della vita e l’affermazione del lavoro come un fine in sé»5. La varietà, storica ma non solo, va dunque cercata nelle strategie utilizzate per promuovere questi comportamenti. Se l’etica puritana prometteva ricompense nell’aldilà, quella industriale scommetteva sulla mobilità sociale nella vita terrena o, in mancanza di questa, sul riconoscimento sociale. La seconda metà del XX secolo vede poi un aggiornamento delle promesse in linea con lo spirito dei tempi: le gratificazioni smettono di far leva sull’elemento sociale e il lavoro diventa terreno di espressione individuale, di creatività, di autoaffermazione e autosviluppo. Strumento di piena realizzazione del sé, che non richiede nemmeno più il riconoscimento altrui. La tesi, semplificata ma efficace, secondo cui il successo dell’etica del lavoro sta nella capacità di coniugare la stabilità dei precetti con l’estrema varietà delle motivazioni trova conferme anche in un’analisi più attuale. Ancora Weeks nota a proposito di due strategie del femminismo delle prime due ondate come tanto quella che si è concentrata sull’ingresso delle donne in tutte le forme di lavoro salariato, quanto quella mirata a ottenere il riconoscimento sociale e la pari responsabilità degli uomini per il lavoro domestico non salariato non abbiano problematizzato il lavoro, ma anzi l’abbiano considerato una leva materiale e simbolica imprescindibile. 5

K. Weeks, The Problem with Work, cit., p. 46.

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Un meccanismo analogo può essere rintracciato adottando altri sguardi. A ben vedere, per quanto eretico possa sembrare, possiamo pensare che il valore in sé del lavoro sia uno dei pochi tratti ad accomunare operai e borghesi o che si ritrovi su entrambi i lati della lotta di classe o nelle retoriche tanto di progressisti quanto di conservatori6. Addirittura, la si trova al centro della lotta generazionale7: giovani desiderosi di dire la loro nel mondo del lavoro contro anziani che rimproverano una mancanza di etica e spirito di sacrifico. Il risultato è una chiusura dello spazio discorsivo che porta con sé la scomparsa delle alternative: Quando non abbiamo memoria, o poca immaginazione di un’alternativa a una vita incentrata sul lavoro, ci sono pochi incentivi a riflettere sul perché lavoriamo come facciamo e su cosa potremmo desiderare di fare al suo posto8.

Ed è esattamente questo meccanismo che rende l’etica del lavoro uno strumento disciplinare molto efficace, che lo trasforma in un elemento che accomuna tutti e genera identità collettiva occultando come i benefici che ha portato non sembrano essere per nulla equamente diffusi. In fondo, riprendendo un aforisma attribuito al sindacalista statunitense Lane Kirkland, «se il duro lavoro fosse davvero una cosa così preziosa, i ricchi lo avrebbero tenuto tutto per loro». 6 Cfr. T. Ter Bogt, Q. Raaijmakers, F. Van Wel, Socialization and development of the work ethic among adolescents and young adults, in Journal of Vocational Behavior, n. 66, 2005, pp. 420-437. 7 R.A. Buchholz, The Work Ethic Reconsidered, in Ilr Review, n. 31, 1978, pp. 450-459. 8 K. Weeks, The Problem with Work, cit., p. 47.

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La dimensione individuale. Passione, autosfruttamento e iperlavoro L’etica del lavoro di massa, pur relativamente recente e fondata su diversi dispositivi retorici, rappresenta ormai una costante della cultura occidentale. Se guardiamo al passato, e a quella che abbiamo definito con Weeks etica postindustriale, il concetto di passione è particolarmente centrale. In un modello teso a elevare il lavoro a mezzo di espressione di sé e della propria identità, creatività e talento, l’idea di dover amare il proprio impiego subisce un processo di naturalizzazione. Con esso, suggerisce Andrew Ross9, prende corpo un immaginario in cui l’immersione nel lavoro assume contorni di intimità e sensualità, che sembrano dover premiare chi le esperisce con un «surplus di piacere e di soddisfazione». Corollario inevitabile a questa sensualizzazione è l’aspettativa irrealistica, con Jaffe, che quello stesso amore venga ricambiato dal lavoro, in una relazione in qualche misura bidirezionale. Questa torsione è, non a caso, caratteristica di un’epoca in cui le grandi battaglie per una riduzione della giornata lavorativa hanno ormai segnato il passo. L’etica industriale era segnata da un’aspettativa di mobilità e di riconoscimento esterno, e apriva in loro assenza a forme di rivendicazione di «indipendenza». Al contrario, il modello individualizzato e personalizzato trova la sua gratificazione nell’atto stesso, e tanto più duratura è l’immersione in quell’immaginario descritto da Ross tanto più grande sarà il piacere. 9 A. Ross, The New Geography of Work. Power to the Precarious?, in Theory, Culture & Society, n. 25, 2008, pp. 31-49; la citazione è a p. 34.

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La passione, proprio per questo, può facilmente trasformarsi in una trappola, secondo una felice definizione di Annalisa Murgia che ha evidenziato come i giovani e precari lavoratori della conoscenza: Pur avendo un lavoro che è fonte di passione e di piacere, sperimentano la passione – in tutti gli ambiti della loro vita – nel senso più letterale del termine: dolore, sofferenza e fatica10.

La trappola che questa relazione pericolosa genera è duplice. Da un lato, la dedizione e l’iperlavoro comportano non solo rinunce negli altri ambiti della vita, ma vere e proprie trasformazioni esistenziali, soprattutto quando questo slancio si associa alla condizione, sempre più diffusa, di precarietà. Dall’altro lato, all’interno del lavoro, la passione è fonte di forme di autosfruttamento che determinano ritmi e condizioni anche peggiori di quelli che i contratti prevedono o che le dinamiche organizzative informali impongono loro. L’autosfruttamento è senza dubbio il fenomeno in cui la funzione disciplinante dell’etica del lavoro è più evidente, e in cui è possibile cogliere a pieno la potenza di questo dispositivo culturale. Si tratta di un potere foucaultianamente inteso, che raggiunge la sua massima efficacia non tanto vietando o reprimendo, ma piuttosto producendo comportamenti, inducendo piacere, costruendo saperi. Il potere nella sua massima efficacia, potremmo dire, che porta le persone ad autoregolarsi senza bisogno di controllo esterno. E. Armano, A. Murgia, The Precariousnesses of Young Knowledge Workers. A Subjectoriented Approach, in Global Discourse, n. 34, 2013, p. 9.

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Ma quali sono le forme che questo piacere può assumere? Le ricompense immateriali del lavoro sono diverse, e dipendono ovviamente anche dalle caratteristiche dei singoli individui. È però possibile distinguere analiticamente almeno tre modelli, che aiutano a mettere ordine nella complessità11. Il primo modello è legato a un tipo di passione che potremmo definire «artigiana» o «creativa». Come suggeriva Sennett12, richiamando un fenomeno noto già ai filosofi antichi, questo tipo di piacere è quello che deriva dalla pratica del lavoro in sé, indipendentemente dai riconoscimenti esterni. L’artigiano, l’artista o il musicista sono immagini particolarmente intuitive, ma questa gratificazione si può rintracciare in una varietà di impieghi, e può derivare da semplici routine quotidiane o piccoli gesti, magari anche molto ripetitivi. In sintesi, amare ciò che si fa (e non ciò che si è) lavorando. Un secondo tipo di ricompense immateriali coinvolge la dimensione sociale più che la pratica individuale. Nell’estrema varietà di possibili articolazioni è possibile distinguere tra il prestigio sociale di una determinata professione, a cui si ambisce e da cui si trae gratificazione, e il piano delle ricadute sociali del proprio lavoro. Le due cose possono talvolta viaggiare appaiate, si pensi a un medico che scopre la cura per una malattia rara,

oppure disgiunte, come nel caso di molti lavori sociali e di cura. Infine è possibile scorgere una terza dimensione che potremmo definire relazionale o organizzativa, tipica di quelle realtà che tendono a creare ambienti contraddistinti da legami forti tra pari e non solo. Il posto di lavoro che diventa «famiglia». I tre modelli sono solo uno dei modi per mettere ordine in una varietà di possibili ricompense immateriali del lavoro. Bisogna a questo punto sgombrare il campo da un eventuale fraintendimento. Nell’evidenziare le conseguenze di questa forma di passione in termini di autosfruttamento e dedizione estrema al lavoro non si vuole negare che questo piacere possa in molti casi essere reale (per quanto socialmente costruito), né tantomeno sottovalutare il fatto che il lavoro sia davvero molto più che un semplice mezzo per guadagnarsi da vivere. Il punto è evidenziare i possibili ritorni negativi di un simile coinvolgimento, che dal livello individuale si estendono a quello collettivo. Il cortocircuito sistemico, infatti, si crea con il diffondersi di un implicito consenso intorno all’idea che le ricompense immateriali possano sostituire quelle materiali. In altri termini, che le gratificazioni rendano superfluo o comprimibile il salario, o che possano trasformare in accessori i diritti quale quello a una giornata lavorativa di durata degna.

L’articolazione proposta nasce dallo studio di popolazioni diverse. Si veda: S. Busso, P. Rivetti, What’s Love Got to Do with it? Precarious Academic Labour Forces and the Role of Passion in Italian Universities, in Recherches sociologiques et anthropologiques, n. 45, 2014, pp, 15-37; e S. Busso, S. Lanunziata, Il valore del lavoro sociale. Meccanismi estrattivi e rappresentazioni del non profit, in Sociologia del lavoro, n. 142, 2016, pp 62-79. 12 R. Sennett, The Craftsman, Yale University Press, New Haven, 2008.

Cortocircuiti e paradossi, la scomparsa del salario e la ridefinizione del lavoro. Crisi del paradigma

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L’etica postindustriale, con la sua centratura sulla realizzazione di sé e sulla dimensione espressiva, se portata

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all’estremo dà luogo a un paradosso che merita di essere sottolineato. Infatti, quell’etica che prescriveva la «dedizione totale al lavoro salariato» promuove ora un modello che dello stesso salario sembra poter fare a meno. Un esempio evidente di questa trasformazione arriva da un articolo apparso sulla Harvard Business Review13, che a partire da un’indagine quantitativa afferma che nove lavoratori su dieci sarebbero disposti a rinunciare a parte del proprio salario in cambio di un lavoro a cui attribuiscono un significato e un valore immateriale: Il vecchio contratto di lavoro tra datore di lavoro e dipendente – il semplice scambio di denaro per il lavoro – è scaduto […]. Al suo posto c’è un nuovo ordine in cui le persone chiedono un significato al lavoro e in cambio danno più profondamente e liberamente alle organizzazioni che lo forniscono. Non si limitano a sperare che il lavoro sia significativo, ma se lo aspettano, e sono disposti a pagare a caro prezzo per ottenerlo.

Questo scenario, affermano gli autori, comporta per i datori di lavoro una sfida, quella di garantire significato al lavoro, ma anche una grande opportunità: quella, letteralmente, di «mettere il significato al lavoro». Sebbene non tematizzato in termini così espliciti, il trade-­ off tra soddisfazione e stipendi era già noto da tempo. Si pensi a un settore come quello del lavoro sociale nel non profit, dove i lavoratori apertamente tematizzano la precarietà, l’iperlavoro e i bassi salari in termini di «prezzo da pagare» per «salvare il mondo» o per «stare dal lato buono S. Achor et al., 9 Out of 10 People Are Willing to Earn Less Money to Do More-Meaningful Work, in Harvard Business Review (online), 6 novembre 2018.

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del mercato». O ancora, esempi simili ci vengono dalla cronaca recente: in occasione dell’Expo di Milano aveva fatto scalpore il lavoro gratuito dei giovani coinvolti nell’organizzazione e retribuiti in «esperienza e curriculum»14, fino ad arrivare ai più recenti casi legati all’alternanza scuola lavoro. Come sintetizza efficacemente Francesca Coin, se Rifkin aveva anticipato la fine del lavoro come esito della terza rivoluzione industriale, «all’alba della quarta ha più senso parlare della fine del lavoro pagato»15. L’idea, con solide basi come si è detto, che il lavoro conti al di là del salario porta così a distorsioni sistemiche. Il modello olandese di politiche attive, ad esempio, si afferma attorno al 2010 con l’esemplificativo slogan di «work above income»: il lavoro come qualcosa da perseguire in quanto mezzo di inclusione sociale e, dunque, «al di sopra» del reddito. La portata della divaricazione tra lavoro e salario è tale da minare le basi stesse della relazione. Anzi, lo stesso salario finisce per sminuire in qualche modo la nobiltà del lavoro stesso: ritorna in auge uno scenario noto agli antichi in cui, come notava John Mirowski a proposito del pensiero aristotelico, era radicata la credenza che «tutti i lavori retribuiti assorbono e degradano la mente» e che al contrario «il piacere elevi il lavoro verso la perfezione»16. 14 A. Fumagalli, La parabola del lavoro: dall’homo faber al lavoro gratuito, tra riproduzione sociale e crisi della militanza, in Sociologia del Lavoro, n. 145, 2017, pp. 44-60. 15 F. Coin, La fine del lavoro (pagato), in Id. (a cura di) Salari rubati. Economia politica e conflitto ai tempi del lavoro gratuito, Ombre Corte, Verona, 2017, p. 19. 16 J. Mirowsky, Wage Slavery or Creative Work?, in Society and Mental Health, n. 2, 2011, pp. 73-88.

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Sulla scorta di questa considerazione, persino la parola «lavoro» può, per non dire deve, essere accantonata. Se si cercano esempi di questa dinamica, l’accademia è il posto perfetto in cui trovarli. Qui, infatti, la diffusione della nozione di lavoro precario appare relativamente recente, e strettamente connessa a una riflessione critica sull’accademia neoliberale. L’idea, e il termine, si sono fatti strada all’interno di un lessico che rimuoveva la nozione stessa di lavoro attraverso un vocabolario proprio, in cui a lavoratore si preferiva intellettuale, i «capi» erano maestri, i lavoratori precari ricercatori in formazione quando non allievi. Le ricadute in termini di traiettorie e di esclusione sono oggi evidenti per molti, e l’idea di una élite intellettuale che del vile denaro poteva (doveva) fare a meno comincia almeno in parte a scricchiolare. Il paradosso mostra una dinamica che è forse il punto da cui partire per pensare a un cambiamento di rotta. Se l’etica del lavoro portata all’estremo diventa, da strumento per garantire l’acquiescente collaborazione dei lavoratori, il mezzo per negare le basi stesse del lavoro, allora essa rischia di minare la sua legittimità. Ritorna infatti a essere qualcosa che non può essere di tutti, ma solo di quanti non hanno bisogno di salario. Rischia di creare condizioni di insostenibilità tale da squarciare il velo di sacralità che ne avevano determinato il successo. Se l’enfasi sui suoi significati esistenziali era stata per lunghi tratti un modo per difendere i lavoratori, l’attuale scenario impone (letteralmente) in molti casi di tornare a chiedere una mercificazione del lavoro. Ciò per salvaguardare, almeno, il fatto non più ovvio che come una merce esso abbia un valore economico che non può più essere sottointeso.

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La celebrazione della pratica disinteressata rischia così, quando portata all’estremo, di diventare un boomerang. È il caso della campagna dei lavoratori e delle lavoratrici del sanitario e della cura, che dopo le celebrazioni del periodo pandemico, anzi proprio a iniziare da quelle, rivendicano diritti salariali a partire dall’eloquente slogan #applause­isnotenough (gli applausi non bastano). È difficile valutare la portata delle crepe che iniziano ad aprirsi in un modello che sembra aver tirato troppo la corda. Alcuni dei contributi citati in questo capitolo (e altri su cui torneremo in conclusione) sono però il segno che qualcosa si muove. E alcune pratiche di rifiuto del lavoro o l’incredibile crescita delle dimissioni volontarie sembrano affermare che il fenomeno è uscito dai confini di una riflessione tra intellettuali. Certo non implicano necessariamente un tentativo di ripensamento sistemico, ma sono forse la base per ritenere che i tempi per immaginare un cambio di rotta siano maturi. A questo è dedicata la seconda parte del volume.

Parte II Invertire la rotta

VI. Otto ore per quello che ci pare Riduzione dell’orario e diritto al tempo

Molto prima che il celebre «lavorare meno, lavorare tutti» si imponesse nell’immaginario collettivo, il cosiddetto eight hours movement, nato nella seconda metà dell’Ottocento, aveva eletto a proprio motto «otto ore di lavoro, otto per dormire, otto per quello che ci pare». Questo slogan, che si dice coniato in Australia nel 1855, accompagnava le battaglie per la rivendicazione di un orario lavorativo più umano, che garantisse il diritto al riposo e al tempo libero. Il momento più celebre di queste lotte è forse la cosiddetta Strage di Haymarket, avvenuta a Chicago il 4 maggio 1886, quando la reazione delle forze dell’ordine allo scoppio di un ordigno durante una manifestazione di operai e anarchici provocò morti, feriti e l’arresto e la condanna a morte (dimostratasi poi priva di fondamento) di sette militanti. Proprio in memoria dei «martiri di Chicago», nel 1889 la Seconda Internazionale proclamò il primo maggio Giornata internazionale dei lavoratori1. Molto prima che una battaglia culturale, quella per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario è dunque stata una drammatica lotta, che avrebbe per sempre camTra i tanti contributi che ricostruiscono la vicenda, si veda: P.S. Foner, May Day. A Short History of the International Workers’ Holiday, 1886-1986, International Publishers Co., New York, 1986.

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biato il lavoro. Non solo, prima che una battaglia per la redistribuzione del lavoro e la lotta alla disoccupazione, come evocherà lo slogan lavorare meno, lavorare tutti, quella per le otto ore è stata innanzitutto una battaglia per una vita degna e per i diritti fondamentali al lavoro e al tempo libero. Prima di analizzare l’effetto della settimana corta sul sistema economico e sull’occupazione, dunque, è doveroso partire non tanto dal lavoro, ma da quel diritto al tempo e a un’esistenza dignitosa per cui molte vite sono state sacrificate. Se, non ci sono dubbi, esiste un diritto al lavoro, possiamo dire lo stesso del suo contrario, il diritto al tempo libero? Ribaltare la prospettiva, come detto, non è un semplice esercizio di stile. Significa piuttosto, in accordo con lo spirito di quelle rivendicazioni, anteporre anche nelle scelte argomentative la giustizia e i diritti all’efficacia delle misure, o forse più semplicemente la vita al lavoro. La Dichiarazione universale dei diritti umani dedica al tema uno dei suoi trenta articoli, in cui si afferma che «Ogni individuo ha diritto al riposo ed allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite» (art. 24). La formulazione non sembra lasciare spazio a dubbi. Il diritto al riposo e quello allo svago sono altro da quello al lavoro, che non a caso è trattato nell’articolo precedente, e la loro garanzia non può essere considerata un sottoprodotto delle norme che regolano i rapporti lavorativi. Eppure, tradotto in norme, questo principio non sembra affatto universale come la dichiarazione vorrebbe. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 9422 del 27 aprile 2011) ha fatto a proposito molto discute-

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re. Nel negare la richiesta di risarcimento di un avvocato milanese che aveva perso oltre quattro ore del suo tempo non lavorativo per un disservizio nel ripristino della sua linea internet, la Corte affermò che la normativa italiana ed europea non consentono di ritenere il diritto al tempo libero come diritto fondamentale dell’uomo […] e ciò per la semplice ragione che il suo esercizio è rimesso alla esclusiva autodeterminazione della persona, che è libera di scegliere tra l’impegno instancabile nel lavoro e il dedicarsi, invece, a realizzare il suo tempo libero da lavoro e da ogni occupazione. Questa sua caratterizzazione di autonoma opzionalità lo distingue dai diritti inviolabili, che sono, di per sé […] diritti irretrattabili della persona, perché ne fondano la giuridica esistenza sia dal punto di vista della identità individuale che della sua relazionalità sociale.

Ben più dell’esito concreto della sentenza, le motivazioni portate dalla Corte meritano di essere approfondite. L’affermazione del carattere opzionale del tempo libero, che non essendo «irretrattabile» può, vocabolario alla mano, essere revocato, sembra fornire un’ulteriore conferma del panorama culturale delineato nel capitolo precedente. Ancora, la sentenza sembra contenere un implicito: se il tempo libero non fonda l’identità individuale e la relazionalità sociale, cosa, se non il lavoro, può farlo? In assenza di una esigibilità concreta del diritto al tempo, le argomentazioni basate sugli effetti positivi della riduzione dell’orario per i singoli e per il sistema sembrano le uniche a poter trovare spazio in un dibattito di policy. Negare che questo chiami in causa questioni di giustizia e di valore rappresenta però una «via bassa» a un cambio di rotta che

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è riduttivo e politicamene rischioso, oltre che spesso doloroso, dover seguire. Eppure, nell’attuale fiorire di proposte, iniziative e sperimentazioni mirate a scendere al di sotto della storica soglia delle otto ore2, quella che abbiamo definito con Hunnicutt la «visione capitalista della liberazione»3 (cfr. cap. I) sembra avere un peso più che consistente. È dunque lecito chiedersi, in prima battuta, quali siano i registri argomentativi possibili e, soprattutto, desiderabili.

Il giusto e l’utile. Argomentazioni da maneggiare con cautela La distinzione tra ragioni economiche e sociali per la riduzione dell’orario non è certo una novità. Uno dei primi testi scientifici che, solo cinque anni dopo il massacro di Haymarket, nel 1891, fece la sua comparsa nel dibattito italiano, è il lavoro dell’economista liberale Riccardo Dalla Volta, che nel ravvisare la mancanza di studi scientifici sul tema nota come i pochi contributi esistenti distinguano ragioni «di indole strettamente economica» da altre «di indole sociale e igienica». Nell’affermare che è delle prime che l’autore intende occuparsi, egli chiarisce che: Con ciò non si vuol dire che le ragioni sociali e igieniche accampate per difendere la riduzione della giornata di lavoro siano prive di importanza, […] ma alle ragioni come ai risultati sociali ed igienici si può opporre la questione pregiudiziale dei 2 Promosse da governi nazionali e locali, tra cui Islanda, Scozia, Nuova Zelanda, Svezia, Finlandia, Giappone, Spagna, Francia, California o da importanti imprese multinazionali come Microsoft e Unilever. 3 B.K. Hunnicutt, Kellogg’s Six-Hour Day, cit.

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risultati economici che si possono prevedere […]. Se i risultati economici probabili fossero dannosi, esiziali al mondo industriale e per ciò stesso alla classe operaia, la condizione della quale fosse turbata e peggiorata, le ragioni sociali e igieniche verrebbero a perdere gran parte del loro valore, perché il risultato ottenuto da questo assetto sarebbe neutralizzato o distratto dal danno prodotto nella situazione della classe operaia4

Ed è su queste basi che l’economista esprime la propria contrarietà alla riduzione dell’orario, perché quando la riduzione dei profitti non segue le dinamiche naturali del mercato ma viene affrettata da cagioni che non sono inerenti alla concorrenza, alla accumulazione dei capitali o simili ma dalla volontà del legislatore o per la pressione degli operai […] scaturiscono effetti perniciosi [che] anziché giovare agli operai tornerebbero a loro svantaggio5.

A oltre centotrent’anni di distanza, l’argomentazione conserva tratti di sorprendente attualità. Nella maggior parte dei casi, infatti, le narrazioni che antepongono le ricadute economiche ai diritti non giocano esplicitamente sulla superiorità delle prime, scelta che potrebbe sollevare facili critiche, ma piuttosto sulla relazione tra le due. L’idea, come è evidente nella retorica liberale, è che in ultima istanza il benessere dei lavoratori dipenda dal mercato, e qualora qualsiasi forma di diritto ne impedisse lo sviluppo il problema non sarebbe la perdita dei profitti, ma piuttosto la negazione di quel benessere stesso, neutralizzato R. Dalla Volta, La riduzione delle ore di lavoro ed i suoi effetti economici, Fratelli Bocca editori, Firenze, 1891, pp. 3-4. 5 Ivi, p. 115.

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dal danno economico prodotto. Detto semplicemente, il problema della riduzione dell’orario non sarebbe degli imprenditori, ma piuttosto dei lavoratori. Ed è dunque nel loro interesse, questo l’implicito, farli lavorare di più. Giusto e utile, benessere e profitto, non sono in contrapposizione tra di loro. Il secondo è la precondizione del primo. Subordinare l’opportunità di ridurre l’orario di lavoro ai suoi esiti economici, come detto, fornisce un principio di gerarchia delle argomentazioni che si rivela utile a sciogliere eventuali contraddizioni tra benessere degli individui e salute del mercato a favore di quest’ultima. Non sempre, tuttavia, i due obiettivi entrano in tensione tra di loro. Anzi, come avremo modo di vedere a breve, la forza degli argomenti a favore della riduzione dell’orario sta proprio nel riuscire, in moltissime occasioni, a mostrare un gioco a somma positiva6 tra le due dimensioni del giusto e dell’utile, che le rendono particolarmente adatte a pubblici e interlocutori diversi. Nondimeno, prima di passare ad analizzarle nel dettaglio, è importante soffermarsi ancora sui rischi che argomentazioni che coniugano in vari modi giustizia ed efficacia comportano. Il filo conduttore che le unisce è il fatto che la centralità del lavoro nel definire chi siamo e soprattutto chi dovremmo essere ne esca rafforzata. Un efficacissimo esempio del primato del lavoro come categoria attraverso cui leggere il mondo sta proprio nella definizione di «tempo libero», con cui si apre la riflessione di questo capitolo. Come sotL’espressione nasce con la teoria dei giochi ed è usata per definire una situazione in cui tutti le parti in causa guadagnano. Si differenzia dal «gioco a somma zero», in cui il guadagno di un partecipante è compensato dalla perdita di un altro.

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tolinea Guy Aznar, infatti, l’aggettivo «libero» definisce il tempo per differenza rispetto a quello lavorativo, che sembra invece non aver bisogno di ulteriori qualificazioni. In questo senso, il diritto da perseguire non dovrebbe essere «al tempo libero», ma più semplicemente al tempo. Una simile prospettiva servirebbe a creare un «tempo nuovo» che non è più un tempo il cui contenuto è qualificato dal lavoro (studio per il lavoro, tempo libero dal lavoro, pensione dopo il lavoro), ma un tempo in sé, vuoto di contenuto, aperto a tutti i contenuti. È un tempo che non è designato da un’etichetta formale […] ma un tempo indeterminato come la vita, un tempo intermedio, uno spazio fluido e malleabile, mobile e fluttuante, tra l’universo tecnologico e quello dell’organizzazione sociale, in cui l’individuo vive secondo i propri desideri […] il “tempo nuovo” non è più contrappunto di niente, ha una sua esistenza propria7.

In fondo, se è la strada dei diritti quella che si persegue, l’attenzione a finalità e modi con cui questi vengono esercitati potrebbe quasi ridursi a zero, con la sola eccezione dell’esercizio della libertà che leda direttamente gli altri individui. Al contrario, nelle retoriche che coniugano giusto e utile la finalità è spesso definita. Un esempio chiaro di questa dinamica è ravvisabile in una delle argomentazioni su cui torneremo a breve, quella per cui «un lavoratore felice è un lavoratore più produttivo». Se è chiara la forza politica della retorica, non sfuggirà a chi legge che l’espressione contiene una chiara indicazione G. Aznar, Lavorare meno per lavorare tutti. Venti proposte, Bollati Boringhieri, Torino, 1994, pp. 21-22.

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del fine da raggiungere attraverso il mezzo tempo libero: la maggior produttività e dunque una miglior performance del sistema economico. Messaggi del tutto analoghi sono usati in altri ambiti a sostegno delle misure di welfare aziendale, anch’esso inserito in un frame di aumento della produttività. Meno evidente, ma non per questo meno rilevante, è anche il più popolare e politicamente orientato «lavorare meno, lavorare tutti» ancor più se preso nella versione in cui alla virgola si sostituisce il per : lavorare meno per lavorare tutti. Qui l’interesse individuale e quello sistemico si incrociano in modo esplicito: il benessere del singolo che lavorerà meno non è necessariamente il fine. Il fine è piuttosto la sconfitta della disoccupazione o, come abbiamo visto nel cap. III, un aumento del tasso di occupazione. Cogliere le insidie diventa più difficile: redistribuire il lavoro, dandolo a chi non lo ha e lo vorrebbe, appare un esito decisamente più desiderabile dell’aumento dei profitti dei datori di lavoro. Il discorso sulla produttività ha poi, come effetto collaterale, anche quello di supportare un processo di ri-significazione del tempo che va in una duplice direzione. Da un lato quella di esaltare la rapidità e la velocità che, come ben nota Massimo Cuono8, divengono categorie fondamentali anche nel legittimare l’azione di governo. Dall’altro quella di rafforzare la discutibile equazione per cui, nelle parole di Edward Thompson: «Il tempo è ora denaro: non viene trascorso, ma speso»9. M. Cuono, Rapidità. Teoria e storia di una categoria di legittimazione del potere, in Ragion pratica, n. 1, 2016, pp. 127-158. E.P. Thompson, Time, Work-Discipline, and Industrial Capitalism, in Past & Present, n. 38, 1967, pp. 56-97, p. 61.

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Prima di procedere, dunque, un punto va specificato con forza per evitare fraintendimenti. Quali che siano gli argomenti utilizzati nell’arena politica, il diritto al tempo rimane, nella prospettiva di chi scrive, il diritto fondamentale da perseguire attraverso la riduzione dell’orario. Per questo le argomentazioni economiche devono necessariamente essere maneggiate con cautela. Ancora con le parole di Aznar: Il ragionamento non è “per risolvere il problema della disoccupazione, bisogna cercare di redistribuire il tempo di lavoro, ciò libererà del tempo, che in seguito cercheremo di occupare”. Il ragionamento è: “è auspicabile permettere agli uomini di disporre di un volume di tempo maggiore di quello dedicato allo svago, per favorire il loro sviluppo individuale. Il disordine attuale dell’occupazione è una circostanza favorevole per raggiungere questo obiettivo: profittiamone”10.

Dalle ragioni ai motivi. Argomenti a supporto della riduzione dell’orario Chiarito l’obiettivo che qui si vuol perseguire perorando la causa della riduzione dell’orario di lavoro, si possono ora analizzare le argomentazioni a sostegno. Per usare la celebre distinzione di Charles Wright Mills, rivolgeremo l’attenzione ai motivi, ovvero ai costrutti retorici che danno forma alle interazioni sociali e che sono indipendenti dalle cause profonde da cui scaturisce l’azione, ovvero le ragioni. Finalizzati a raccogliere il consenso, i vocabolari su cui essi si basano ricorrono ampiamente all’idea di gioco a somma positiva tra benessere degli individui, crescita

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G. Aznar, Lavorare meno per lavorare tutti, cit., p. 73.

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economica e giustizia sociale; come nota Rutger Bregman, la riduzione dell’orario come «soluzione a tutti i problemi»11. In particolare, le domande a cui dare risposta sono due: come rendere sostenibile un modello in cui la riduzione non si accompagni a tagli salariali, e come far sì che le nuove assunzioni non comportino costi tali da mettere in ginocchio l’intero sistema. Al netto degli usi strumentali, poi, molti degli argomenti sono più che solidi e i giochi a somma positiva reali12. Punto di partenza è la possibilità di redistribuzione del lavoro, su cui si regge l’idea di lavorare meno per lavorare tutti, che è probabilmente l’argomentazione più nota nel discorso pubblico e quella intuitivamente più inattaccabile, dal momento che offre la quadratura del cerchio per risolvere il problema della disoccupazione e del benessere dei lavoratori. Anche in questo caso non mancano, però, argomenti o elementi di cautela introdotti dai detrattori, riconducibili alla questione della sostenibilità economica e in particolare a tre dimensioni. La prima è la presenza di costi fissi legati alle assunzioni, che si affiancano a quelli variabili legati alle ore lavorate. La seconda ha che fare con la difficoltà di trovare lavoratori equivalenti a quelli in forze, e ai rischi di una sostituzione imperfetta o impossibile in casi particolari, soprattutto quella di lavoratori molto specializzati. La terza, infine, rimanda alla presunta «indivisibilità» di alcune mansioni, che mal si presterebbero a essere R. Bregman, Utopia per realisti, cit. Per una sistematizzazione di facile lettura si rimanda, oltre al già citato lavoro di Bregman, a: S. De Spiegelaere, A. Piasna, Perché e come ridurre l’orario di lavoro, European Trade Union Institute, Brussels, 2018. Salvo dove diversamente indicato il documento è da considerarsi la fonte di questo paragrafo.

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«spezzettate». Pur non negandone in toto il fondamento, due osservazioni possono essere fatte. La prima è che questi argomenti non implicano l’impraticabilità del modello, ma al più ne limitano l’estensibilità tout court a qualsiasi lavoro e a qualsiasi lavoratore. La seconda è che nessuna riduzione è possibile senza una trasformazione sistemica di più ampia portata, che vada a limitare, ad esempio, i costi fissi o che renda più efficienti le filiere formative. Al netto di queste considerazioni, le obiezioni inducono a una più attenta analisi dei risparmi e dei vantaggi tali da giustificarne i costi. Il primo elemento è sicuramente l’incremento della produttività, che ricerche autorevoli sembrano aver dimostrato in modo molto solido13. Le ragioni a cui questo aumento è dovuto sono duplici. Per tutti vale il fatto che una minor stanchezza fisica e mentale permette ritmi maggiori e concentrazione più elevata. Nel caso di alcuni lavori, prevalentemente riconducibili all’ambito delle professioni creative, vale poi un’ulteriore dimensione: alcune delle competenze utili vengono infatti maturate al di fuori dell’ambiente di lavoro e nella sfera familiare e amicale, e spesso le intuizioni nascono in ambienti del tutto distanti dagli uffici o dalle fabbriche. Una seconda dimensione rilevante ha a che fare con la salute e il benessere dei lavoratori. Come abbiamo già avuto modo di vedere nel cap. II, da anni ormai è acclarata la crescita delle patologie legate all’iperlavoro e ne sono noti i costi sociali ed economici. Muovendo oltre la dimensione del benessere individuale, dunque, la riduzione Tra tutti: L. Golden, The Effects of Working Time on Productivity and Firm Performance, Research Synthesis Paper, Ilo, Geneva, 2012.

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dell’orario potrebbe comportare vantaggi per tutte le parti in causa, ivi compresi datori di lavoro e sistemi di welfare: i costi sostenuti per ridurre l’orario a parità di salario sarebbero infatti compensati dal risparmio sistemico dovuto alla riduzione delle assenze per malattia14. A questi si aggiungerebbe un risparmio sul cosiddetto assenteismo, la cui incidenza è correlata all’assenza di tempo libero15. Un altro elemento da considerare è poi quello degli infortuni sul lavoro, anche in questo caso correlato alla dimensione dell’orario (in termini di durata complessiva ma anche di turni), la cui rilevanza è riconosciuta anche dall’Unione Europea, che lega espressamente orario e sicurezza16. Restando nell’ambito della salute e del benessere, più complessa appare la relazione con il cosiddetto burnout, fenomeno definito in letteratura con riferimento alle sue tre componenti principali: esaurimento delle energie fisiche o mentali; cinismo, che si sviluppa come risposta emotiva o «cuscinetto protettivo»; e inefficacia professionale, reale o percepita17. Come evidenzia lo studio dello European Trade Union Institute, il fenomeno è sì legato alla lunghezza della giornata lavorativa e al tempo trascorso a lavoro, ma è anche dovuto alla pressione professionale e alla tensione alla performance. Torneremo nel prossimo capitolo su questo aspetto, ma non si può fare In Italia principalmente a carico dell’Inps ma con integrazione dei datori di lavoro sui primi giorni e un anticipo dello stesso ai sensi dell’art. 2110 del codice civile. 15 S.G. Allen, How Much Does Absenteeism Cost?, in Journal of Human Resources, n. 18, 1983, pp. 379-393. 16 Direttiva 2003/88/Ce. 17 C. Maslach, M.P. Leiter, Burnout, in G. Fink (a cura di), Stress: Concepts, Cognition, Emotion, and Behavior, Academic Press, 2016, pp. 351-357. 14

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a meno di notare qui che se l’accorciamento dell’orario non si accompagna a una corrispondente riduzione dei carichi di lavoro, il rischio è che il minor tempo a disposizione risulti paradossalmente in un maggior stress e anche in una minore produttività. Perché ciò non accada, è necessario che la riduzione si accompagni a un aumento dei lavoratori, e dunque a una redistribuzione dei carichi. Ulteriori elementi a supporto vanno nella direzione di fornire una risposta a grandi trasformazioni sociali. Qui il riferimento ai ritorni economici è, se vogliamo, più indiretto anche se non del tutto assente. Si pensi, ad esempio, ai nessi individuati con il problema del climate change, che alimentano retoriche estremamente attuali18. Semplificando, due sono le argomentazioni: la prima è che il modello dell’overwork genera consumi insostenibili (si pensi ai cibi confezionati e ai pasti pronti), la seconda è che un maggior tempo di svago incentiva modelli di consumo con minor impatto ambientale. Analogamente, la riduzione dell’orario comporterebbe una riduzione delle disuguaglianze in generale e di quelle di genere in particolare. In parte per effetto della redistribuzione dei posti di lavoro nel complesso, ma anche riducendo i salari elevati o abbassando le barriere di ingresso nel mercato del lavoro per chi ha carichi di cura. In sostanza, pur a fronte dei rischi di messa a valore del tempo libero da parte del sistema economico, non sembrano mancare gli argomenti per coniugare giustizia ed efficacia. 18 D. Rosnick, Reduced Work Hours as a Means of Slowing Climate Change, in Real-World Economics Review, n. 63, 2013, pp. 124-133.

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Stato, imprese, lavoratori. Iniziativa politica e divisione dei costi nelle esperienze recenti La molteplicità di sperimentazioni citate in apertura permette di individuare, a fianco alla riflessione teorica, diverse modalità attraverso cui l’obiettivo della riduzione dell’orario a parità di salario può essere messo in atto, e di individuare i nodi da sciogliere e le relazioni tra gli attori in gioco. Il primo spartiacque riguarda l’iniziativa: la riduzione può infatti avvenire ex lege, dunque promossa dallo Stato; essere il risultato delle richieste dei lavoratori; o può infine nascere dall’iniziativa delle aziende. Nella pratica, difficilmente questi modelli sono riscontrabili nella loro forma idealtipica, ma una recente ricerca della European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions19 ha evidenziato come esistano quattro forme possibili di regolazione dell’orario di lavoro che vanno dal «legislativo puro», in cui le norme coprono la maggior parte dei lavoratori e accordi aziendali e contrattazione collettiva sono pressoché inesistenti, a un modello definito «unilaterale» in cui sono le aziende e le associazioni datoriali, quando possibile mitigate dalla contrattazione collettiva, a definire le regole. Stato, lavoratori e datori di lavoro sono, come è noto, connessi da una fitta rete di relazioni e azioni politiche: con un qualche grado di semplificazione possiamo pensare che un allineamento degli interessi sia una condizione Eurofound, Working time developments in the 21st century. Work duration and its regulation in the Eu, Publications Office of the European Union, Luxembourg, 2016.

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necessaria e possibile, alla luce dei giochi a somma positiva esplorati poco sopra. Nella pratica, tuttavia, gli equilibri nell’iniziativa politica sembrano essere profondamente cambiati. Se il movimento dei lavoratori ottocentesco aveva preteso e ottenuto dal basso le otto ore, le attuali sperimentazioni e le discussioni politiche per scendere al di sotto delle quaranta ore sembrano avere come protagonisti principali ora l’attore pubblico, ora le imprese (che pure avevano già svolto un ruolo importante nel primo Novecento). Sul primo fronte spiccano le varie iniziative che hanno preso forma in Islanda, Scozia, Svezia, Spagna e Francia. Sul secondo le sperimentazioni messe in atto da multinazionali e celebri imprese quali Microsoft e Unilever, o le piattaforme (forse meno note in Italia) come Watch Gang o Kickstarter. L’iniziativa pubblica può, poi, assumere forme diverse come mostrano due dei più celebri casi di cronaca recente. La sperimentazione islandese20, ad esempio, è stata avviata nel 2014 (e conclusa nel 2019) dalla città di Reykjavík, a cui si è aggiunta una sperimentazione governativa partita nel 2017 (e conclusa nel 2021). La riduzione dell’orario, dalle tre alle cinque ore alla settimana senza riduzione di stipendio, era rivolta ai dipendenti pubblici di vari settori. Il numero di uffici che hanno aderito, e conseguentemente di lavoratori coinvolti, è andato crescendo in quest’arco di tempo a seguito della diffusione di risultati ampiamente positivi sia in termini di benessere che di produttività. Senza introdurre per legge la settimana corta, la pratica ha seguito la modalità del «contagio», G.D. Haraldsson, J. Kellam, Going Public: Iceland’s journey to a shorter working week, Alda, Reykjavík, 2021. 20

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per estendersi al settore privato negli ultimi tre anni. Qui, le organizzazioni sindacali hanno infatti avuto buon gioco nell’ottenere da un numero crescente di aziende forme diverse di orario ridotto, forti di una trasformazione culturale e di basi economiche solide. A oggi, otto lavoratori su dieci beneficiano di qualche forma di riduzione dell’orario. All’opposto è la proposta di legge presentata il 18 febbraio 2022 dalla deputata californiana Cristina Garcia, che mira a trasformare ex lege l’ordinamento dello Stato, portando la settimana lavorativa ufficiale a trentadue ore per le aziende con cinquecento o più dipendenti. Il lavoro svolto oltre tale limite non sarebbe vietato, ma comporterebbe un forte aumento dei salari: i datori di lavoro sarebbero tenuti a pagare una volta e mezza le ore che superano le trentadue, e due volte quelle oltre le quaranta. La legge non si applicherebbe, però, ai lavoratori rappresentati da un sindacato e coperti da un contratto collettivo di lavoro. Ai datori di lavoro soggetti alla legge, che si applicherebbe al 20 per cento della forza lavoro californiana, sarebbe inoltre vietato ridurre la retribuzione dei lavoratori che scendano al di sotto della loro settimana lavorativa standard. Lungi dal clima di collaborazione islandese, la proposta ha suscitato la reazione sdegnata della Camera di commercio della California che ha incluso il disegno di legge nella sua lista dei job killer bills, sostenendo che aumenterebbe significativamente i costi, esporrebbe i datori di lavoro a controversie legali e imporrebbe requisiti «impossibili da rispettare». Fermo restando l’esito incerto della proposta, la differenza nell’impostazione appare evidente: se il caso islandese sembra contraddistinto da

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un circolo virtuoso, la proposta californiana distingue in modo netto i tre attori. Il legislatore pubblico si porrebbe infatti in modo conflittuale con le associazioni datoriali, imponendo la propria volontà, e in una posizione di non sovrapposizione con le rappresentanze dei lavoratori, dal momento che la legge si pone apertamente come alternativa (residuale) alla contrattazione collettiva21. Al netto delle profonde differenze nell’azione politica, il nodo centrale in entrambi i dibattiti rimane quello dei costi. L’aumento della produttività di cui al paragrafo precedente può, infatti, compensare solo una parte delle spese. Si pensi agli operatori sanitari, ai camerieri o ai commessi: nel loro caso la riduzione delle ore dovrebbe essere interamente compensata attraverso nuove assunzioni. La copertura dei costi chiama di nuovo in causa la relazione tra gli attori. Gli oneri, infatti, possono essere assorbiti dall’impresa (in termini di minor profitto), dai lavoratori (a mezzo di riduzioni, anche non proporzionali, del salario) o dallo Stato (attraverso la riduzione degli oneri fiscali e le detrazioni), o coperti attraverso soluzioni ibride. Anche in questo caso la contrattazione può avvenire all’interno di dinamiche più o meno competitive o cooperative. I conflitti latenti o manifesti, però, fanno sì che la ripresa del dibattito ruoti maggiormente, nella pratica, attorno a soluzioni che non comportino costi immediati: l’idea di «lavorare tutti» non è centrale nel dibattito attuale, che sembra piuttosto concentrarsi attorno ai casi (e ai lavori) H. Smith, Proposed bill would shorten California workweek to 32 hours, in Los Angeles Times, 8 aprile 2022. Il testo integrale della proposta è disponibile sul sito California Legislative information (https://leginfo. legislature.ca.gov). 21

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in cui l’incremento di produttività del singolo è sufficiente a coprire la riduzione oraria. Anche per questo le sperimentazioni hanno coinvolto, nella grande maggioranza dei casi, lavoratori stabili e a tempo indeterminato. Il caso di Microsoft Japan, che si inscrive in questo quadro, ha però sollevato un problema importante. Nel contesto di una valutazione sostanzialmente positiva, tra gli elementi critici figurava un forte aumento delle tensioni tra lavoratori stabili e precari22. A fronte dell’aumento esponenziale di questi ultimi, dunque, quali elementi occorre considerare per una proposta mirata a garantire il diritto al tempo che non si traduca in un’ulteriore crescita delle disuguaglianze tra i lavoratori e le lavoratrici?

Una valutazione dell’esperienza è disponibile sul sito di Microsoft Japan. Si veda anche C. Gatlin-Keener, R. Lunsford, Four-Day Workweek: The Microsoft Japan Experience, in Conference in the cloud: Criminal justice/case studies track, n. 32, 2020.

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Abbattere i falsi miti della flessibilità e della performance

Si chiamano zero hours contracts e sono usati, principalmente nel Regno Unito, da ormai diversi decenni. Con una certa dose di amara ironia potrebbero essere visti come l’emblema della riduzione perfetta dell’orario di lavoro, ma la realtà è ovviamente molto differente. Sono, al contrario, il simbolo della flessibilità, della precarizzazione e della destrutturazione dell’orario di lavoro, esempio evidente di come il dibattito sul lavorare meno non possa essere ristretto a interventi ex lege su quelle forme contrattuali che possono beneficiare delle sperimentazioni discusse nel capitolo precedente. Ma che cos’è un contratto a zero ore? È un rapporto stabile tra un lavoratore e un datore di lavoro, dunque diverso dal lavoro occasionale o a chiamata, che non prevede però alcuna definizione ex ante del numero di ore lavorate. Il datore di lavoro, infatti, non è tenuto a fornire un orario regolare al dipendente, né deve garantire un monte ore minimo (da qui l’etichetta zero hours), ma quest’ultimo deve essere reperibile nel caso in cui sia necessario lavorare1. Negli ultimi anni, a seguito A. Adams, M. Freedland, J. Prassl, The ‘Zero-Hours Contract’: Regulating Casual Work, or Legitimating Precarity?, Oxford Legal Studies Research Paper, n. 11, 2015.

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delle dure critiche a questo modello «puro e duro» di contratto, sono state introdotte alcune forme di tutela del lavoratore, quale il diritto a rifiutare le ore proposte se indisponibili, la possibilità di stipulare più contratti con più enti contemporaneamente, il diritto al salario minimo e a ferie e trattamenti previdenziali proporzionati alle ore lavorate. Resta però la sostanza: chi beneficia di questi contratti non è in grado di prevedere quanto e quando lavorerà e dunque quanto guadagnerà, dal momento che le chiamate arrivano spesso all’ultimo minuto, come richiede il dogma della flessibilità. Inoltre, l’evidente vulnerabilità di lavoratori che possono essere «licenziati senza essere licenziati» (ovvero tenuti a zero ore a tempo indeterminato), prefigura uno scenario in cui la possibilità di fare valere i propri pochi diritti è prossima allo zero. Il dibattito oltremanica negli ultimi dieci anni si è notevolmente acceso, di pari passo con la diffusione di questa forma contrattuale, che dal 2020 riguarda oltre un milione di lavoratori2. E come spesso accade in questi casi, la polarizzazione delle posizioni è aumentata e il dibattito si è sviluppato a partire dai dati. Chi sostiene questa forma contrattuale ne valorizza il grande contributo al tasso di occupazione del Paese, e porta a sostegno il numero di ore lavorate (circa ventidue di media, equivalenti a un part-time) e il tasso di soddisfazione per questa quantità di impegno, che è pari al 63 per cento. Sul versante opposto, ovviamente, si evidenzia come il 20 per cento circa si senta sottoimpiegato, come la distribuzione del numero

di ore lavorate sia molto eterogenea e come, infine, quel milione di posti di lavoro non è creato dagli zero hours contracts, e che contratti più tutelanti avrebbero sortito un esito analogo se non migliore. Ma più dei numeri, a parlare della brutalità di questo contratto sono le storie raccolte da una advocacy coalition variegata, che si riunisce nella campagna «Zero hours justice». Storie come quella che segue, che raccontano di una flessibilità imposta che diventa incertezza e poi paralisi, disinnescando le retoriche della libertà e dell’autoimprenditorialità e le pretese di soddisfazione reciproca:

Elaborazione su dati Office for National statistics – Uk (www.ons. gov.uk).

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Era del tutto imprevedibile e in alcune settimane non lavoravo affatto. Era frustrante perché avrei potuto accettare altri lavori, ma non ero in grado di impegnarmi su nessun altro fronte, rimanevo in attesa nel caso in cui fossi stata chiamata all’ultimo minuto (Julia, 28 anni, insegnante)3.

All’intreccio tra discorsi e pratiche, i contratti a zero ore sono davvero un simbolo delle trasformazioni in atto nel mondo del lavoro. Basti pensare che questo tipo di occupazione è arrivato a penetrare nel luogo sacro della monarchia britannica: Buckingham Palace. Il trionfo della flessibilità istituzionalizzata, l’ossimoro della «precarietà a tempo indeterminato», il paradosso dell’esercito di riserva incorporato all’interno della schiera degli occupati4. Se, come vedremo a breve, l’incertezza dell’orario può riguardare anche le fasce più alte della Fonte: https://www.zerohoursjustice.org/. L. Elliott, Zero-hours contract workers - the new reserve army of labour?, in The Guardian, 4 agosto 2013.

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gerarchia professionale, storie come quella di Julia suggeriscono che sia proprio la precarietà il punto (politico) da cui partire. Quel che è certo, è che nell’assetto economico attuale la partita della riduzione dell’orario di lavoro non può passare unicamente per un dibattito sulla regolazione delle forme standard di inquadramento contrattuale. A monte dell’orario legale sta la regolazione della flessibilità, e in un quadro normativo che diventa un’inestricabile matassa acquisisce un valore ancora maggiore la battaglia culturale per la decostruzione di falsi miti e retoriche pericolose.

Un esercito di senza orario. Il tramonto delle quaranta ore e la de-istituzionalizzazione del tempo di lavoro Che fine ha fatto la cosiddetta settimana tipo, composta da cinque giornate di otto ore dal lunedì al venerdì, che è l’immaginario diffuso su cui poggiano le proposte di riduzione ex lege dell’orario di lavoro? Le battaglie per le otto ore avvenivano in un periodo in cui la grande industria era il principale datore di lavoro e la flessibilità non era ancora un mantra, e per questo coprivano una grande mole di lavoratori. Oggi, con il passaggio dalla società salariale allo scenario di frammentazione, individualizzazione e insicurezza che caratterizza il postfordismo5, il quadro appare decisamente diverso. Ma chi sono e quanti sono i «senza orario»? E quanti sono i lavoratori e le lavoratrici che lavorano davvero quaranta ore? R. Castel, L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti?, Einaudi, Torino, 2004.

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Fig. 7 - Occupati per profilo professionale, valori in migliaia e percentuali, 2021

Dipendenti con contratto a termine; 3.138; 13%

coadiuvante familiare 4%

indipendenti; 5.008 ; 22%

collaboratore 5%

lavoratore in proprio con dipendenti 18%

imprenditore 7%

libero professionista senza dipendenti 23%

lavoratore in proprio senza dipendenti 39%

libero professionista con dipendenti 4%

Dipendenti a tempo indeterminato; 15.107 ; 65%

Fonte: elaborazione su dati Istat.

Fornire una stima dei lavoratori con orario flessibile è operazione assai complessa e che richiederebbe ben altro spazio, in primis perché l’eterogenea (e sfumata) categoria dei precari non è utile a rappresentarla. Tra questi, infatti, un’ampia quota è costituita da lavoratori dipendenti con contratto a termine, che dal punto di vista dell’orario hanno inquadramenti del tutto analoghi ai colleghi a tempo indeterminato, per quanto non vada dimenticato che la condizione di precarietà rende più vulnerabili a richieste di lavoro straordinario formali o informali. Partire dai profili professionali utilizzati dall’Istat aiuta però a fornire un primo ordine di grandezza delle categorie (Fig. 7). Degli oltre ventitré milioni di occupati in Italia poco meno di un quarto, il 22 per cento, figura tra i cosiddetti lavoratori indipendenti, ovvero coloro che prestano la loro

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opera senza vincolo di subordinazione e che dunque non sono per definizione soggetti a orari. La categoria è estremamente eterogenea e contiene figure imprenditoriali di varia natura insieme ad altre più tipicamente annoverate tra i precari, in particolare quei «lavoratori in proprio senza dipendenti», che incorporano il fenomeno dei cosiddetti falsi autonomi6. Particolare poi è il caso dei collaboratori (a progetto e non) che spesso condividono con i dipendenti l’ambiente di lavoro e le mansioni, ma entro una natura contrattuale che li esclude dal lavoro subordinato. Ciò non significa che il restante 78 per cento di dipendenti abbia necessariamente un orario definito. In primis perché, come è noto, la pratica degli straordinari può determinare variazioni talvolta notevoli nelle ore complessive lavorate. I dati Istat7 mostrano una notevole variabilità del valore medio delle ore di straordinario, che in settori quali quelli dei servizi alle imprese o della fornitura di energia e del magazzinaggio si attestano in media attorno alle sei ore ogni cento sul totale dei dipendenti. A fianco degli straordinari esistono poi diverse pratiche di flessibilità oraria entro il lavoro subordinato che possono portare a variazioni anche notevoli dell’orario giornaliero o settimanale. Si pensi, ad esempio, al meccanismo della banca ore, che non prevede il pagamento delle ore eccedenti, ma semplicemente un accantonamento che può essere recuperato in momenti di minor pressione: tempo in cambio di tempo. Se per gli straordinari esistono limiti N. Giangrande, La precarietà occupazionale e il disagio salariale in Italia. Le conseguenze della pandemia sull’occupazione e sui salari, Working papers Fondazione Giuseppe Di Vittorio, n. 2, 2021. 7 Rilevazione su ore di straordinario e Cig.

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di legge, l’entità massima della banca ore non è definita dalla norma, ma affidata al più alla contrattazione collettiva quando non ai singoli contratti. Emergono qui tutti i rischi legati all’asimmetria di potere: chi decide quando lavorare di più e quando di meno? Ancora, i contratti di lavoro subordinato possono non prevedere per nulla una definizione dell’orario: è il caso, ad esempio, del cosiddetto trattamento economico onnicomprensivo, applicato ai dirigenti pubblici, secondo cui la retribuzione prescinde dalla mole di lavoro. La cosiddetta legge Biagi del 2003 prevede questa flessibilità in deroga alla normativa per quei «lavoratori la cui durata dell’orario di lavoro, a causa delle caratteristiche dell’attività esercitata, non è misurata o predeterminata o può essere determinata dai lavoratori stessi»8. Il comma cita le figure di personale direttivo delle aziende o di altre persone aventi potere di decisione autonomo. È il caso dei dirigenti e dei quadri, che non a caso figurano tra le categorie con orari di lavoro più alto. Al netto del monte ore complessivo, all’interno della società delle 24 ore la settimana tipo è, come vedremo, un miraggio per molti anche per via della distribuzione dei turni settimanali. Da ultimo, la dimensione del tempo e del «lavorare di più» può in qualche misura prescindere dal monte ore formale. Come nota Gallino, infatti: Ricerche condotte per campione in vari paesi europei descrivono, al contrario, situazioni diffuse di intensificazione del lavoro (che vuol dire fare più cose nel medesimo lasso di tem-

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Art. 17, comma 5.

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po) unite a varie forme di densificazione del medesimo (che significa invece soppressione di ogni tipo di pausa nel calcolo dell’orario). In questo caso, un’ora di lavoro può durare, per dire, 95 minuti – come nel basket9.

Ma, dunque, quanti sono i lavoratori per cui non esiste la settimana tipo? Dal punto di vista del monte ore settimanale i dati Eurostat10 per l’Italia mostrano un valore apparentemente sorprendente: solo il 40,1 per cento (9.258.000 occupati) si colloca in un range compreso tra le 38 e le 42 ore di lavoro settimanale. Del resto, poco meno di un terzo lavora meno di 35 ore e ben il 18,4 per cento (oltre 4 milioni e 200.000) supera le consuete quaranta ore. Più della metà di questi (2 milioni e mezzo) supera addirittura le cinquanta. L’incidenza dell’overwork varia ovviamente per categoria professionale: tra i lavoratori indipendenti raggiunge quasi la metà (48,4 per cento) mentre il dato è di poco inferiore al 10 per cento per il lavoro subordinato. Quanto alla distribuzione di queste ore, l’Italia mostra un’incidenza di orari non standard di molto superiore alla media europea. Nel 2021 lavorava nel weekend il 34,5 per cento dei lavoratori (contro il 22,4 europeo), dato che sale al 40,5 per cento per i giovani tra i 15 e i 34 anni (contro una media europea del 28,4 per cento). Inoltre il 5,9 per cento lavorava anche di notte contro il 4,3 europeo, ma prima della pandemia il valore era addirittura dell’8,3 per cento. I dati restituiscono un affresco che mostra in modo evidente la de-istituzionalizzazione del tempo di lavoro. L’e9

L. Gallino, Il lavoro non è una merce, cit., p. 98. Elaborazione su dati Eurostat Database, anno 2021.

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sercito dei «senza orario» emerge così come un insieme composito e fortemente polarizzato per quanto riguarda i livelli di reddito, la mole di lavoro e soprattutto la volontarietà della scelta. Proprio a partire da quest’ultimo punto esploreremo, nei paragrafi che seguono, il sistema di incentivi e sanzioni materiali e immateriali che porta all’iperlavoro, e le retoriche che lo rappresentano nel quadro di una flessibilità (troppo) spesso dipinta come desiderabile.

Capitani di ventura e penne che non cadono. Svelare e combattere la faccia pulita della flessibilità (imposta) La chiave della volontarietà appare cruciale nel dar vita a retoriche che legittimano e riproducono un modello di flessibilità che è responsabile dell’iperlavoro. Quando, nel 2008, l’allora ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione Renato Brunetta fu chiamato a commentare gli effetti, sui precari della ricerca, di una legge finanziaria che rischiava di lasciare senza lavoro migliaia di ricercatori e ricercatrici la sua risposta fu emblematica: Non saranno a spasso, si cercheranno qualcos’altro da fare. Altri progetti, altre esperienze, magari in giro per il mondo. Siamo chiari: la ricerca è questa. I ricercatori sono un po’ capitani di ventura, stabilizzarli è un farli morire11.

Soprassedendo sul modo in cui l’affermazione fu accolta da quanti al tempo vedevano compromessa la propria carriera, la retorica è esemplare di un processo che anche L. Grion, Brunetta: “Potrò assumere solo il 40% dei ricercatori precari”, in la Repubblica, 12 ottobre 2008. 11

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oggi non sembra arrestarsi: la demonizzazione del posto fisso e la valorizzazione della dimensione imprenditoriale del lavoro flessibile (e precario). Il processo di costruzione della flessibilità come opportunità si avvale di diversi canali. La frase di Brunetta ben esemplifica una retorica istituzionale che trova buona compagnia e nuove nuances in celebri passaggi quale l’invito della ministra Fornero a non essere «choosy» e a non disdegnare i «lavoretti», che declina il tema flessibilità non in chiave di libertà ma di gavetta e costruzione di esperienze e curricula. Allo stesso obiettivo però concorre anche un discorso che si avvale di testimonial pop e giovani, che forti del loro successo veicolano un messaggio analogo: dall’invito di Vittoria Zanetti, executive director di Poke house, a fare la gavetta (divenuto celebre per essere stato postato più e più volte dai quotidiani nazionali) alle esternazioni di Riccardo Pozzoli, co-fondatore con Chiara Ferragni del blog che ha lanciato quest’ultima, che afferma che è per «l’ossessione del posto fisso» che l’Italia sta oggi «agonizzando»12. Uscendo dal registro narrativo, e guardando a queste retoriche in modo analitico, è possibile individuarne tre componenti discorsive fondamentali, che si combinano poi in vari modi. La prima è quella della libertà, contrapposta ai vincoli del posto fisso. È l’elemento fondamentale della trasformazione da precari a free-lance: vittime i primi, vincitori i secondi, spesso a parità di condizioni di lavoro ma grazie all’enfasi sulla possibilità di essere padroni di sé stessi e del G. Fantasia, Riccardo Pozzoli: “Basta con l’ossessione del posto fisso, l’Italia sta agonizzando su quel sistema. I giovani devono osare e restare in Italia”, in Huffington Post, 14 aprile 2019.

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proprio tempo. L’universo simbolico positivo legato al termine free-lance, che pure curiosamente nella sua traduzione letterale significa «mercenario», ovvero qualcuno libero di vendere sé stesso (e la propria lancia), tende a oscurare la dura realtà quotidiana di molte categorie. Omette, poi, anche un dato fondamentale: il contratto a tempo indeterminato, il vituperato posto fisso, non implica l’obbligo del dipendente a lavorare a vita nello stesso posto. Lungi dal limitare la sua libertà, ne è anzi strumento di tutela. La seconda è quello del rischio, declinato nella sua variante «eroica» di sprezzo del pericolo e di coraggio, che distingue chi abbraccia la flessibilità da chi, pavidamente, sceglie la strada della sicurezza. È l’idea dell’imprenditore di sé stesso, che si nutre di una narrazione meritocratica e, in fondo, «mercatistica». L’immaginario non è nuovo: ma in tempi di incertezza crescente l’idea di un esercizio di agency appare particolarmente appealing. La terza componente è invece quella dell’impegno e del sacrificio, in cui echeggiano i temi discussi a proposito di etica del lavoro e passione nel cap. V. Anche in questo caso sono possibili declinazioni diverse, spesso complementari ma distinte. Da un lato il senso di responsabilità nei confronti del datore di lavoro, in particolare se pubblico, dall’altro la devozione verso il fine ultimo da raggiungere attraverso il lavoro. Ciò a dispetto del salario e del tempo, preoccupazioni «volgari» che non nobilitano. L’immagine stereotipica, nel senso comune che ha segnato una generazione, è quella del «non far cadere la penna» alla fine dell’orario, indice di un’attenzione alla sostanza piuttosto che a diritti formali, la cui rivendicazione, spogliata dal valore politico e collettivo, diventa forma di egoismo.

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La costruzione di questa flessibilità che si nutre di iperlavoro non è soltanto, è bene non confondersi, un’operazione che avviene sul piano culturale. Questa, infatti, vive di una relazione bidirezionale con le norme e con il mercato. Lasciando sullo sfondo l’impatto della cosiddetta società delle ventiquattro ore, più volte richiamata nei capitoli precedenti, altre trasformazioni dell’economia mondiale hanno infatti contribuito alla de-istituzionalizzazione del tempo di lavoro. Su tutte, la globalizzazione e la delocalizzazione giocano un ruolo cruciale, per quanto spesso oscurato da altri e più visibili impatti. La costruzione di gruppi di lavoro internazionali costringe a un lavoro su fusi orari diversi, che si traduce sempre più spesso in riunioni notturne per chi opera in alcune parti del mondo, così come la delocalizzazione dei servizi, a differenza di quella della produzione, vincola a operare nei momenti di picco della «casa base», come emerge, ad esempio, dal caso, molto studiato, dei call center indiani deputati a gestire i mercati inglesi13. Al netto di queste trasformazioni dei mercati, è cruciale il ripensamento del modo in cui il lavoro è organizzato. Due elementi, in particolare, possono essere riconsiderati dal punto di vista dell’impatto sul tempo: il lavoro per obiettivi e il cosiddetto teamwork. Il primo, ancora una volta veicolato come strumento di libertà, introduce un elemento di incertezza spesso foriero di stress e autosfruttamento. Se, infatti, è vero in linea di principio che gli obiettivi possono essere raggiunti in un tempo minore di P. Taylor, P. Bain, ‘India calling to the far away towns’. The call centre labour process and globalization, in Work, Employment and Society, n. 19, 2005, pp. 261-282.

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quello stimato, non si può non considerare l’eventualità tutt’altro che remota di un gioco al rialzo nel tempo, che passa per la ridefinizione di obiettivi che sono considerati troppo facili da raggiungere. Tempo e obiettivi divengono così due modi alternativi per misurare il lavoro. Nella discussione esplosa durante la pandemia sul lavoro agile, i due modelli vengono esplicitamente tematizzati come alternativi, e il protocollo nazionale approvato il 7 dicembre 2021 stabilisce che il lavoro agile «si caratterizza per l’assenza di un preciso orario di lavoro e per l’autonomia nello svolgimento della prestazione nell’ambito degli obiettivi prefissati»14. Per quanto sia meno intuitivo, anche il lavoro di gruppo (soprattutto se combinato con gli obiettivi) ha impatti in questo senso. Infatti, nella misura in cui il (mancato) lavoro di uno si ripercuote su tutti i membri del team, la responsabilità a fare di più diventa duplice, nei confronti della propria carriera e di quella degli altri. In questo senso, notano David Knights e Darren McCabe, il teamworking può essere visto come un vero e proprio dispositivo governamentale in senso foucaltiano, uno strumento che sostituisce il controllo esterno con l’autodisciplina15. Il tempo governato «meccanicamente» dalla catena di montaggio è in questo senso un lontano ricordo, ma pur mutando gli strumenti l’esito rimane del tutto analogo. Art. 3, comma 1. Si veda: R. Cetrulo, M. Rinaldini, Lavoro agile e organizzazione del lavoro: quale scenario dopo la pandemia, in Lavoro, Diritti, Europa, n. 1, 2022. 15 D. Knights, D. McCabe, Governing through Teamwork. Reconstituting Subjectivity in a Call Centre, in Journal of Management Studies, n. 40, 2003, pp. 1587-1619. 14

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Fuggire dalla rat race. Riprendersi il tempo nella società della prestazione Le dinamiche tratteggiate sopra sono emblematiche di quella che Federico Chicchi e Anna Simone, riprendendo e sviluppando un concetto in parte già presente in alcuni studi classici, definiscono in un prezioso testo «società della prestazione», che emerge da un processo di progressiva fusione tra ordine sociale e ordine economico innescato e voluto dal capitalismo. In questo sistema: il soggetto prestazionale per formarsi in quanto tale, come soggetto generatore di valore, deve necessariamente imparare a concorrere attivamente sul mercato, e la sua cifra sociale sarà il frutto del potenziale che riuscirà a mobilitare durante questo percorso di continua messa alla prova del suo capitale umano16.

Una corsa contro sé stessi e gli altri per affermare il proprio valore, un paradigma «fondato sullo sfruttamento del desiderio. Un modo di trattare, condurre il desiderio e renderlo commerciabile» attraverso l’unica modalità legittima, quella della «forma impresa»17. Il concetto fa eco con la metafora di senso comune, piuttosto diffusa in inglese, della rat race (letteralmente la corsa dei topi) usata per descrivere la ricerca perenne del successo lavorativo in un sistema ipercompetitivo. Una sorta di inseguimento senza fine, come topi col formaggio, dagli esiti devastanti per i soggetti che la compiono. F. Chicchi, A. Simone, La società della prestazione, Ediesse, Roma, 2017, p. 61. 17 Ivi, p. 161. 16

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In questo scenario, riprendendo ancora Chicchi e Simone, il lavoro diventa «smisurato» non solo per estensione, ma anche nell’accezione di impossibile da misurare, vuoi perché nel lavoro cognitivo il rapporto tra tempo e valore prodotto diventa instabile, vuoi perché il tempo di vita e il tempo di lavoro vengono a sovrapporsi. E proprio questo tempo smisurato diventa il segreto del successo nella rat race, se è vero, come mostrano diversi studi, che proprio il numero di ore lavorate è una delle variabili più solidamente correlata con gli avanzamenti di carriera18. Nonostante il fatto che questo modello che intende premiare chi lavora duro finisca per produrre esiti perversi, riducendo la produttività e il benessere fino a rivelarsi controproducente19. Cosa significa, dunque, riprendere il controllo del tempo in una società flessibile e precaria? La durata della giornata lavorativa non sembra più un dato sufficiente a rendere la complessità e le molteplici sfaccettature che l’idea di lavorare meno assume in questa configurazione. Riprendersi il tempo significa poter esercitare un controllo sul quanto, ma anche sul quando lavorare. Quanto nella giornata o nella settimana, quando il lavoro è relativamente stabile, ma anche quanto nell’anno o negli anni quando il lavoro diventa precario o intermittente. Significa però anche una ragionevole previsione del per quanto tempo, operazione necessaria a circoscrivere un’incertezza del futuro i cui esiti A. Frederiksen, T. Kato, N. Smith, Working Hours and Top Management Appointments. Evidence from Linked Employer-Employee Data, Iza Discussion Paper, n. 11675, 2018. 19 R.M. Landers, J.B. Rebitzer, L.J. Taylor, Rat Race Redux. Adverse Selection in the Determination of Work Hours in Law Firms, in The American Economic Review, n. 86, 1996, pp. 329-348. 18

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possono essere paralizzanti o patologici. È però necessario che questa mole di lavoro da contenere possa anche essere distribuita in modo ragionevole. Decidere il quando non ha solo a che fare con gli orari notturni o concentrati oppure con i turni, ma anche con un orizzonte temporale più lungo che riguarda l’intero corso di vita. Se nel principio del «lavorare meno, lavorare tutti» è implicita una redistribuzione orizzontale del lavoro, appare altrettanto importante la possibilità per ogni individuo di una «redistribuzione verticale» del lavoro nel tempo, per correggere le asimmetrie di un’entrata tardiva nel mercato del lavoro, di periodi di intensità elevata che spesso coincidono con il periodo riproduttivo o di maggior salute, o dalla mobilità e incertezza dell’età di pensionamento. Cruciale in questo percorso è la distinzione tra tempi di lavoro e tempi di vita, che tende a sfumarsi sempre più nelle pratiche quotidiane ma anche in alcune analisi, che troppo spesso tendono a guardare i primi dimenticando i secondi. Il presupposto, suggerisce Murgia, è quello

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è, tra l’altro, fondamentale anche per comprendere come il concetto di libertà, centrale nelle retoriche della flessibilità, vada drasticamente rivisto se inserito in una dimensione relazionale. La «libera scelta» di lavorare dodici ore al giorno può infatti spesso comportare, come impone di considerare una prospettiva attenta alla dimensione di genere, una forma di vincolo del tempo altrui. Questa dinamica definisce «nuovi tipi di differenze e disuguaglianze tra individui che possono gestire il proprio tempo e altri che non dispongono al contrario di alcun controllo su di esso»21. Altre, vecchie, disuguaglianze ne sono tuttavia spesso la causa, e in particolare quelle reddituali che definiscono i margini di scelta degli individui. Per questo, nei prossimi due capitoli ci occuperemo di salari e sostegno al reddito, intesi come precondizioni necessarie a un qualsivoglia esercizio di agency.

di guardare al lavoro (retribuito) come un carattere particolarmente saliente dell’organizzazione sociale del tempo, tenendo tuttavia conto del fatto che il lavoro non è l’unico principio regolatore della temporalità, dal momento che è sempre interconnesso ad altri aspetti della vita sociale che ne hanno una propria20.

La destrutturazione dei tempi di lavoro ha infatti investito anche il tempo delle altre sfere della vita quotidiana degli individui e della socialità in generale. Questa visione A. Murgia, Dalla precarietà lavorativa alla precarietà sociale. Biografie in transito tra lavoro e non lavoro, Odoya, Bologna, 2010, p. 100.

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Ivi.

VIII. Un’esistenza libera e dignitosa

VIII. Un’esistenza libera e dignitosa Salario minimo e redistribuzione attraverso il lavoro

Un’interessante sentenza del Tribunale di Torino (n. 7790/2019) ha come oggetto il ricorso di un dipendente contro il suo datore di lavoro. Il lavoratore, pur ricevendo un trattamento economico conforme a quanto previsto dal Contratto collettivo nazionale dei servizi fiduciari, lamentava che tale importo violasse i propri diritti e fosse insufficiente a garantirgli un tenore di vita minimo. Il riferimento è, come naturale, all’art. 36 della Costituzione, che recita: Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.

A supporto della sua rivendicazione, il ricorrente portava la differenza con altri Ccnl e la vicinanza del suo salario con la soglia Istat di povertà. Per contro, il datore di lavoro poggiava la sua difesa sul fatto che, applicando un contratto nazionale sottoscritto dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, la retribuzione rispettava i dettami della Carta. Le motivazioni con cui la Corte accoglie il ricorso e condanna l’impresa a versare un’integrazione al lavoratore sono di particolare interesse. Semplificando, la linea argomenta-

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tiva si regge su un passaggio chiave dell’art. 36, ovvero l’espressione: «in ogni caso». Infatti, se l’adozione di un contratto collettivo nazionale garantisce la «proporzionalità» del salario, ovvero la sua comparabilità con altri lavoratori, il principio per cui «in ogni caso» la somma deve garantire un’esistenza libera e dignitosa non sembra rispettato dall’importo definito. Da qui il problema: come tradurre i principi di libertà e dignità in un corrispettivo economico? Il parametro Istat della soglia di povertà, scrive la Corte, non può essere utilizzato, dal momento che si tratta di un valore mobile e definito al termine di ogni anno a soli fini statistici. Per contro, però, un ruolo fondamentale ha giocato il fatto che il salario mensile per un impegno a tempo pieno fosse inferiore a quanto al ricorrente sarebbe spettato come beneficiario del Reddito di cittadinanza. Quest’ultima misura, infatti, fissa per legge un importo che, nel preambolo del testo normativo, è definito utile a garantire «un livello minimo di sussitenza». L’operativizzazione del principio di vita libera e dignitosa trova così un fondamento non nella normativa sul lavoro, quanto piuttosto in una misura di politica sociale. Al di là delle sue ricadute limitate a un singolo caso, la sentenza suggerisce che la contrattazione collettiva, strumento prezioso per la difesa dei lavoratori, non garantisce di per sé il rispetto del mandato costituzionale. In particolare, sotto accusa finisce un Ccnl, quello dei servizi fiduciari, che è divenuto nel tempo uno dei cardini del «sistema appalti», a cui molto si deve del deterioramento del mercato del lavoro. Inoltre, suggerisce che i confini di cosa sia un’esistenza libera e dignitosa sono una materia che esula dalle sole competenze delle norme sul lavoro.

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Il nesso tra la questione salariale e una riflessione sul lavorare meno è evidente. La capacità del lavoro di garantire la sussistenza è prerequisito fondamentale, senza il quale la riduzione dell’orario, anche a parità di stipendio, perderebbe di qualsiasi valore, se non quello di liberare tempo per cercare altre occupazioni. I salari miseri spingono all’overwork per garantire la sopravvivenza, e non la realizzazione personale. A livello simbolico, poi, il salario non definisce solo il valore della prestazione resa, ma anche quello del tempo impiegato. A partire da queste basi, nelle pagine che seguono si ripercorrerano gli elementi di un discorso sulla caduta e sulla difesa dei salari, senza la quale qualsiasi inversione di rotta è, semplicemente, impensabile.

Dalle disuguaglianze salariali alla in work poverty Nell’attuale dibattito attorno alle crescenti disuguaglianze, economiche ma non solo, che contraddistinguono le società contemporanee, grande attenzione è stata dedicata alle dinamiche di finanziarizzazione e alle differenze tra redditi da capitale e redditi da lavoro. Se è vero che queste ultime sono in larga parte responsabili dei dati spesso abnormi con cui dobbiamo confrontarci, i divari reddituali interni al lavoro salariato non vanno messi in secondo piano. Nella loro analisi a tutto tondo sulle disuguaglianze, Maurizio Franzini e Mauro Pianta1 evidenziano come, a partire dalla crisi del 2008, si sia assistito a un’inversione di tendenza. Fino a quel punto, infatti, le disparità salariali in Europa erano andate diminuendo sia 1

M. Franzini, M. Pianta, Disuguaglianze, cit.

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tra i Paesi che all’interno degli stessi. Con l’avvento della crisi, tuttavia, il trend cambia, per effetto di una crescita della concorrenza interna, del forte ridimensionamento della contrattazione collettiva e della diffusione di forme di lavoro cosiddette atipiche o precarie, di cui abbiamo parlato più volte. La polarizzazione dei salari è frutto di trasformazioni che avvengono ai due poli della distribuzione: diminuiscono gli stipendi bassi e aumentano quelli elevati, basti pensare all’andamento dei compensi dei top manager, che spesso in questi anni ha guadagnato gli onori delle cronache. Ma a cosa si deve questo andamento? Seguendo ancora il filo dell’analisi dei due economisti è fondamentale chiedersi se questo rifletta una differenziazione delle caratteristiche della forza lavoro (l’offerta) o se invece sia dovuto a trasformazioni che riguardano le imprese (il lato della domanda). Un’interpretazione diffusa, ma come vedremo insoddisfacente, è infatti che i differenziali riflettano una polarizzazione della forza lavoro dal punto di vista delle competenze, ovvero che le disuguaglianze salariali riflettano quelle del capitale umano. Questa lettura è alimentata dall’enfasi sulla cosiddetta economia della conoscenza, che premierebbe i titoli di studio più elevati. Il portato politico di questa linea argomentativa non va sottovalutato: essa sostiene infatti, più o meno esplicitamente, che ci sia una connessione tra salario e merito. Chi più ha investito nella propria istruzione potrà trarne i maggiori benefici, come «è giusto che sia». Anche tralasciando il fatto noto che pure i titoli di studio raggiunti riflettono la struttura delle disuguaglianze economiche, le analisi recenti mostrano che i livelli di istruzione spiegano solo una minima parte

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delle disuguaglianze salariali. Molto ha a che vedere, invece, con altri fattori: i dipendenti con contratto a tempo determinato hanno, ad esempio, una retribuzione media oraria più bassa del 29,7 per cento di quelli con contratto a tempo indeterminato; e nel part-time, che interessa soprattutto donne, il divario rispetto al full-time sale al 31,1 per cento. In generale, poi, le donne guadagnano meno degli uomini e il differenziale retributivo di genere è più alto tra i dirigenti (27,3 per cento) e i laureati (18 per cento)2. Le ragioni vanno dunque cercate nella trasformazione del lavoro, non in quella dei lavoratori. Prima di tornare, nel prossimo paragrafo, sulle cause strutturali dell’indebolimento dei salari bassi, occorre riconnettere la questione al tema dei working poor, a cui avevamo accennato nel cap. III. La loro crescita, mostrata nella Figura 8, rappresenta in modo plastico gli esiti perversi delle trasformazioni: quasi un lavoratore su otto si trova al di sotto della linea di povertà relativa. La complessità del fenomeno è tale da non poter essere qui sviluppata in modo compiuto3, ma ai fini della nostra analisi è importante ricordare come il dato sia il risultato di due fenomeni. L’indebolimento dei compensi e la discontinuità o bassa intensità del lavoro. Ne deriva che un intervento normativo volto a contrastarlo dovrebbe avere due diverse anime: la tutela dei redditi di lavoro in generale e l’inserimento di un salario minimo, di cui parleremo a breve, ma anche la limitazione della flessibilità. Istat, La struttura delle retribuzioni in Italia, anno 2018, comunicato stampa, 18 marzo 2021. Per un’analisi aggiornata si rimanda a M. Filandri, Lavorare non basta, Laterza, Roma-Bari, 2022.

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Fig. 8 - Working poor sul totale degli occupati (%), 2005-2021 13 12 11 10 9 8 7

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Fonte: elaborazione su dati Eurostat. Nota: percentuale di persone che lavorano e hanno un reddito disponibile equivalente inferiore alla soglia di rischio di povertà, fissata al 60 per cento del reddito disponibile equivalente mediano nazionale (dopo i trasferimenti sociali).

Al netto di un calcolo puramente reddituale, però, esiste un altro elemento su cui le politiche e i servizi pubblici incidono in maniera rilevante, e che permette di riconnettere la riflessione a quell’idea di «riprendersi il tempo» con cui abbiamo chiuso il capitolo precedente. Indipendentemente dal salario percepito, infatti, lavorare ha un costo, che varia sensibilmente per effetto dei contesti territoriali e delle composizioni dei nuclei familiari. Ma quali sono i costi che ciascuno di noi sostiene per poter lavorare? Innanzitutto esistono quelli che potremmo definire diretti, ovvero necessari a poter svolgere la propria mansione, come i costi dei trasporti e le spese di mobilità (si pensi ai pendolari), quelli legati all’abbigliamento o all’attrezzatura che non viene fornita dall’azienda (dall’abito del commerciale alla bicicletta del rider), quelli legati ai pasti consumati, qualora non coperti da mense o ticket.

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A fianco a questi, esiste una notevole varietà di costi indiretti, ovvero sostenuti non per lavorare, ma per il fatto di essere lavoratori. La voce più nota è sicuramente rappresentata da quelli legati all’esternalizzazione della cura dei figli, degli anziani, delle persone con disabilità: le tariffe degli asili nido, ad esempio, possono in molti casi erodere una quota consistente di stipendio. Inoltre, occorre considerare anche il caso in cui il tempo dedicato al lavoro non permette una gestione oculata della cosiddetta economia domestica: le spese (onerose) dell’ultimo minuto al supermercato ne sono un esempio chiaro. Proprio l’effetto di questi costi può rendere lavorare più dispendioso che stare a casa, soprattutto nel caso delle famiglie cosiddette dual income. Si tratta della trappola dei doppi redditi4, che si manifesta quando il secondo introito, di fatto, costa di più di quanto non renda. Il risultato è l’esclusione delle donne dal mercato del lavoro retribuito, dato che evidenzia ancora una volta la portata della battaglia per salari degni.

La guerra ai salari. Tre casi emblematici Tre casi, nel recente passato, sono emblematici delle trasformazioni che fanno da sfondo a un indebolimento dei salari e dei lavoratori in genere e che rendono drammaticamente attuale il tema dell’introduzione di un salario minimo. Il 13 gennaio 2011, dopo giorni di intensi dibattiti e in una città in attesa, si tenne il referendum con cui i lavoE. Warren, A.W. Tyagi, The Two-Income Trap. Why Middle-Class Parents are Going Broke, Basic Books, London, 2004.

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ratori dello stabilimento di Mirafiori erano chiamati a votare l’accordo separato proposto dall’allora guida di Fiat Sergio Marchionne, preceduto da un voto analogo a Pomigliano nel giugno 2010. Il nuovo accordo, accolto dalle principali sigle sindacali con l’eccezione di Fiom, prevedeva l’uscita dal Ccnl dei metalmeccanici, una riduzione delle pause e alcune modifiche dei turni, escludendo le rappresentanze sindacali che non lo avessero sottoscritto. In cambio, l’azienda prometteva di non chiudere lo stabilimento e investimenti che, di fatto, avrebbero permesso di non ridurre il numero dei lavoratori. In uno scenario più prossimo al ricatto che alla contrattazione, 5.130 lavoratori si espressero, e i sì vinsero per poco (54 per cento) e grazie al voto decisivo degli impiegati. Il Tribunale di Torino si espresse nel luglio 2011, respingendo il ricorso Fiom sulla legittimità dell’accordo ma condannando Fiat per comportamento antisindacale, e disponendo che a Fiom fosse garantita la rappresentanza. Al di là dell’impatto sulle condizioni dei singoli lavoratori, l’accordo separato Fiat è un passaggio emblematico dell’indebolimento di quel sistema della contrattazione collettiva che, riprendendo Franzini e Pianta, aveva segnato un progressivo miglioramento delle condizioni di lavoro. Il secondo momento emblematico è assai più recente e ha luogo nell’estate del 2021. Il caso qui è la nascita di Ita, nuova compagnia di bandiera che a partire dal 15 ottobre di quell’anno subentrava ad Alitalia, il cui mancato salvataggio aveva indotto le istituzioni europee a chiedere una forte discontinuità. La posta in gioco è un altro baluardo della difesa dei lavoratori, l’art. 2112 del codice civile che prevede che «in caso di trasferimento d’azienda, il rappor-

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to di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano». L’articolo tutela i lavoratori in caso di cambi di proprietà o di titolarità di appalto, disponendo il trasferimento diretto al subentrante. Il caso Ita è il primo triste esempio in cui l’articolo sarà esplicitamente aggirato, per di più da un attore pubblico. Come? Grazie al cosiddetto decreto infrastrutture (Dl 121/2021) che all’art. 7 autorizza la cessione di «singoli beni» alla nuova compagnia: Ita non comprerà da Alitalia una «azienda» o un suo ramo, ma singoli assets per quanto legati tra loro e acquisiti dallo stesso venditore nello stesso momento. E in virtù di questo artifizio retorico non sarà obbligata a riassumere i lavoratori. Di nuovo, la portata dell’evento va oltre il singolo caso, ma impatta su un quanto mai esteso sistema-appalti, che non riguarda solo l’outsourcing pubblico ma anche le sempre più frequenti esternalizzazioni tra privati. E a proposito di esternalizzazioni, il terzo passaggio chiave lo si ritrova nel Pnrr, approvato in via definitiva il 13 luglio 2021. A pagina 80, in un paragrafo dall’emblematico titolo «Concorrenza e valori sociali», si legge: In materia di servizi pubblici, soprattutto locali, occorre promuovere un intervento di razionalizzazione della normativa, […] che in primo luogo chiarisca il concetto di servizio pubblico e che assicuri […] un ricorso più responsabile da parte delle amministrazioni al meccanismo dell’in house providing. In questa prospettiva, pur preservandosi la libertà sancita dal diritto europeo di ricorrere a tale strumento di auto-produzione, andranno introdotte specifiche norme finalizzate a imporre all’amministrazione una motivazione anticipata e rafforzata che dia conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato, dei benefici della forma dell’in house dal punto di vista fi-

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nanziario e della qualità dei servizi e dei risultati conseguiti nelle pregresse gestioni in auto-produzione, o comunque a garantire una esaustiva motivazione dell’aumento della partecipazione pubblica.

Insieme al cosiddetto Ddl concorrenza, approvato in via definitiva dal Senato il 2 agosto 2022, e alla liberalizzazione del subappalto5 il quadro che si delinea è chiaro: una forte spinta alle esternalizzazioni nel quadro di un sistema appalti sempre più deregolamentato. Lo stesso sistema dentro cui si colloca il contratto fiduciario di cui abbiamo detto in apertura. Tre casi, tre momenti, accomunati da una persistenza formale delle regole (esiste ancora la contrattazione collettiva, l’art. 2112 non è stato abrogato, l’in house providing6 è tollerato), ma da un indebolimento delle tutele dei lavoratori. È in questo quadro che un sistema di potere così sbilanciato rende quanto mai attuale e necessario un intervento a monte, che tuteli il salario a prescindere dalle forme economiche entro cui il lavoro avviene, affermando il principio di esistenza libera e dignitosa sempre e comunque.

Tra contrattazione e salario minimo legale. Un equilibrio incerto Esistono due principali modi per tutelare i salari più bassi: la contrattazione collettiva e il salario minimo legale. A 5 Decreto legge n. 77, 31 maggio 2021, «Governance Pnrr e semplificazioni». 6 L’in house providing rappresenta una forma di «internalizzazione» dei servizi. L’ente pubblico, invece di rivolgersi al mercato (esternalizzazione), affida direttamente la gestione a una società compartecipata di cui ha il controllo.

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oggi, tra i ventisette Paesi dell’Ue, ventuno dispongono di un salario minimo valido per tutti i lavoratori, mentre sei (tra cui l’Italia) si avvalgono dello strumento del contratto collettivo nazionale. Il fenomeno dei working poor ha negli ultimi anni rilanciato il dibattito a livello continentale, culminato nel 2022 in una direttiva europea (2022/2041), che invita a difendere i redditi da lavoro senza però incidere sul sistema adottato dagli Stati membri. Per questo l’invito è quello di valutare soglie adeguate per il salario minimo legale o, al contrario, di estendere l’applicazione e promuovere l’adeguamento dei contratti collettivi. Ma cosa è successo in Italia? Dopo anni di discussioni infruttuose e di numerose proposte di legge sul salario minimo mai approdate a esiti concreti, l’attuale Governo Meloni sembra avere messo almeno per il momento la parola fine alla discussione, con l’approvazione a novembre di una mozione di maggioranza in cui ci si impegna a tutelare i lavoratori con forme altre dall’introduzione di un salario minimo. Le precedenti richieste di adozione di una misura legale, non necessariamente alternativa alla contrattazione, poggiavano su una serie di considerazioni relative alla debolezza di quest’ultima. Il punto centrale non sembra essere il livello di copertura, che pur con qualche incertezza nelle cifre sembra raggiungere la quasi totalità dei lavoratori dipendenti. Piuttosto, i limiti dell’attuale sistema sembrano riguardare altre questioni. In primis la proliferazione dei contratti, che al 31 dicembre 2021 erano 9927. In secondo luogo il loro scarso aggiornamento: alla stessa 7

Cnel, 14° Report periodico dei contratti collettivi vigenti, Roma, 2022.

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data il 62,7 per cento di questi era scaduto. Questa proliferazione non è solo indice di confusione, ma spesso il frutto del cosiddetto dumping contrattuale, etichetta che descrive la pratica di applicare contratti collettivi sottoscritti da organizzazioni sindacali e datoriali scarsamente rappresentative per abbassare il costo del lavoro. Inoltre, come visto poco sopra con il caso Fiat, la contrattazione collettiva non rappresenta a oggi un obbligo, e la sua applicazione, anche quando esiste, non è un vincolo per i datori di lavoro. Inoltre, tra le critiche più frequenti vi sono la mancata copertura dei lavoratori e delle lavoratrici precarie e la presenza, all’interno delle tabelle stipendiali di molti Ccnl, di retribuzioni molto basse per i livelli inferiori, incredibilmente prossime alla soglia della povertà. Ciononostante, le azioni politiche intraprese si sono scontrate con una certa freddezza, quando non aperta ostilità, di praticamente tutte le parti in causa, per ragioni diverse che è utile ripercorrere. Innanzitutto è ravvisabile il timore che l’introduzione di un salario minimo legale possa segnare de facto la morte del sistema della contrattazione collettiva, e di conseguenza indebolire ulteriormente il peso politico della componente sindacale, dato che può spiegare una certa freddezza di quest’ultima. Non si tratta ovviamente solo di una difesa della propria posizione. Il punto fondamentale delle obiezioni ha a che fare con la competenza delle decisioni in materia di lavoro. Devono spettare a governi e parlamenti, o a rappresentanze dei lavoratori e dei datori di lavoro? La questione si presta a interpretazioni diverse in termini sia di priorità e valori, sia di valutazio-

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ne dell’impatto reale dell’uno e dell’altro modello, che dipende da quanto i sindacati sono rappresentativi, dagli esiti delle contrattazioni pregresse, o dai rischi legati alla presenza dell’una o dell’altra maggioranza. Inoltre, non va dimenticato che la contrattazione regola non solo i salari, ma anche altri aspetti del lavoro, tra cui proprio gli orari. Questo primo elemento di opposizione grava sulla scelta del mezzo, ma non certo su quella del fine, che rimane la tutela dei salari. Di segno completamente opposto è invece il secondo ordine di argomentazioni, più caro alle associazioni datoriali e, almeno in questa fase storica, al Governo: l’idea di fondo è semplice: la difesa dei salari comporterebbe costi troppo elevati per imprese e pubblica amministrazione, traducendosi di fatto in un ostacolo per l’erogazione dei servizi e per il mercato del lavoro. Queste argomentazioni sono rintracciabili proprio nella mozione recentemente approvata, che definisce i vari istituti che compongono il salario minimo legale non compatibili «sia con il costo del lavoro, […] sia con i conti dello Stato, stante il rischio di compromettere i costi di tutti gli appalti pubblici»; per questo, oltre alla riduzione dei servizi pubblici, si correrebbe «il serio pericolo di favorire la tendenza alla diminuzione delle ore lavorate, l’aumento del lavoro nero, l’incremento della disoccupazione e l’aumento dei contratti di lavoro irregolare e dei contratti “pirata”»8. In altri termini, se le imprese non possono permettersi il costo del lavoro dovranno licenziare o assumere in nero, e a pagarne le spese saranno i lavoratori. Al netto della ovvia consideAtti della Camera dei Deputati, Mozione 1/00030 del 29 novembre 2022.

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razione per cui spetterebbe proprio allo Stato vigilare sul fatto che questo non accada, è dunque lecito chiedersi di quale ordine di spesa si parli e quanto siano fondati i timori di ricadute sul tasso di occupazione. Rispetto al primo punto, una stima dell’Inapp9 su dati 2015 ipotizzava che un salario minimo legale a 8,5 €/h avrebbe avuto un costo totale (per le imprese o per lo Stato) di 4,4 miliardi di euro, e che per contro ne avrebbero beneficiato quasi due milioni di lavoratori (il 15 per cento dei dipendenti del settore privato). Quanto al secondo punto, studi e ricerche hanno da tempo decostruito l’idea di un impatto negativo sull’occupazione. Tra i più celebri e primi in ordine di tempo, la ricerca del recente premio nobel per l’economia David Card, che insieme al collega Alan Krueger già nei primi anni Novanta aveva mostrato, studiando l’industria del fast food, come un aumento del salario minimo si fosse tradotto in un incremento dell’occupazione, sfidando le teorie economiche classiche10. Di certo, l’impatto sistemico della misura rende riduttivo un solo calcolo domanda-offerta che non tenga conto degli impatti complessivi, che proveremo a ricostruire nel paragrafo successivo.

Salario minimo legale: le ragioni del sì Pur consapevoli della complessità del dibattito, lo scenario attuale offre numerosi elementi per sostenere l’urgenza Inapp, L’introduzione del salario minimo legale in Italia. Una stima dei costi e dei beneficiari, Nota per il Presidente della XI Commissione della Camera dei Deputati, 2019. 10 D. Card, Do Minimum Wages Reduce Employment? A Case Study of California, 1987-89, in Ilr Review, n. 46, 1992, pp. 38-54. 9

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dell’introduzione di un salario minimo legale. La considerazione a monte è che quando esistono contratti collettivi che non garantiscono un’esistenza dignitosa, affermare la necessità di una soglia stabilita per legge e sottratta alla contrattazione non significa negare l’importanza di quest’ultima, ma semplicemente reclamare l’affermazione a mezzo di norme di un diritto fondamentale. A che altro, sennò, servirebbe la legge? Un salario minimo è essenziale innanzitutto perché, anche in tempi di globalizzazione, non si può pensare di fare a meno della domanda interna. Certo, l’assetto economico attuale ha disancorato territorialmente i consumatori, e dunque alle imprese potrebbe non interessare il potere d’acquisto dei loro lavoratori o di chi abita il loro territorio. Ma la nostra economia è ancora fatta anche di attività che richiedono il qui e ora, ovvero la compresenza geografica e temporale tra chi vende e chi compra. Per queste, la difesa dei salari è un elemento cruciale. Inoltre, il salario minimo è anche una forma di contrasto alle disuguaglianze, e non solo perché è in grado di alzare la parte bassa della distribuzione dei redditi avvicinando, per quanto in modo impercettibile, i più poveri tra i lavoratori ai più ricchi. Le disuguaglianze salariali incorporano a oggi molte delle disuguaglianze sociali più odiose, quali quelle di genere o di cittadinanza. Torniamo per un momento alle simulazioni Inapp, che stimavano la platea interessata nel 15 per cento dei lavoratori delle imprese. Se guardiamo alle sole lavoratrici, infatti, quel dato salirebbe al 23 per cento, per i lavoratori e le lavoratrici del Mezzogiorno al 27 per cento, e infine per i lavoratori stranieri al 32 per cento. Ciò significa, semplicemente, che a

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beneficiarne in misura maggiore sarebbe proprio chi oggi è oggetto di maggiori discriminazioni. Sempre a livello sistemico, poi, la sua introduzione potrebbe mettere in crisi il sistema di privatizzazioni, appalti ed esternalizzazioni, non solo quelli pubblici ma anche quelli tra privati. Significherebbe discutere una pratica dilagante di estrazione del valore, che dà vita al paradosso, colto tra gli altri da Colin Crouch, di servizi meno efficienti e, a conti fatti, non meno costosi11 per effetto di una catena di intermediazione che in ultima istanza scarica i costi sui lavoratori. Il rischio paventato dal Governo di una insostenibilità del sistema appalti, a ben vedere, potrebbe essere piuttosto una grande opportunità. Quale sarebbe, infatti, il senso di garantire servizi ai cittadini se per farlo è necessario impoverirli a tal punto da aver bisogno di nuovi servizi? Ampliando lo sguardo, e riprendendo alcuni dei temi trattati nel cap. IV, si può ipotizzare tra le conseguenze anche un cambio di rotta nel rapporto tra lavoro e politiche sociali. Non solo perché un salario minimo alleggerirebbe un sistema sempre più oneroso di politiche di sostegno al reddito, ma perché sarebbe l’occasione per ribaltare il principio della less eligibility (secondo cui il welfare deve essere sempre e comunque meno appetibile del lavoro), trasformandolo in more eligibility. Perché non pensare semplicemente di rendere il lavoro preferibile? Infine, cambiando piano, un salario minimo legale costituirebbe un argine a quel processo di sostituzione delle ricompense materiali con quelle immateriali discusso nel C. Crouch, The Paradoxes of Privatisation and Public Service Outsourcing, in The Political Quarterly, n. 86, 2015, pp. 156-171.

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cap. V, semplicemente eliminando la possibilità di comprimere all’infinito le prime. in questo senso, la dimensione vocazionale e di autorealizzazione potrebbe, almeno in parte, cessare di essere una trappola. Si scioglierebbe un’ambiguità fondamentale dell’affermazione del valore del lavoro oltre il (e non al posto del) salario, che cesserebbe di essere retorica strumentalizzata e strumentalizzabile. Il salario non rappresenta solo una garanzia di libertà per gli individui, ma anche uno strumento di redistribuzione dei profitti. Dunque, non si tratta solo di redistribuire il lavoro, ma anche di redistribuire le risorse attraverso il lavoro. Ma se l’automazione limita il numero dei posti necessari, allora non si può fare a meno di pensare a forme di redistribuzione oltre il lavoro. Di queste ci occuperemo nel prossimo capitolo.

IX. Dobbiamo davvero lavorare tutti? Reddito di base, libertà e lavoro

Il 14 maggio 2016, alla presenza degli ispettori del Guinness dei primati, veniva srotolato sulla pavimentazione del Plaine de Plainpalais di Ginevra quello che, al tempo, era il più grande manifesto mai realizzato al mondo. Costrui­ to grazie a un crowdfunding a cui parteciparono più di milleduecento persone, l’installazione di ottomila metri quadrati e dal peso di sette tonnellate constava di uno sfondo nero su cui spiccava una semplice scritta: «What would you do if your income were taken care of»? Cosa faresti se qualcuno si occupasse del tuo reddito? Gli organizzatori, con un efficace gioco di parole, la definirono «la domanda più grande del mondo»: con la sua imponenza costringeva i passanti a immaginare davvero una vita in cui non è necessario lavorare per procurarsi un reddito. L’iniziativa si deve al Grundeinkommen, il comitato promotore di un referendum popolare che meno di un mese dopo, il 5 giugno, avrebbe chiamato i cittadini svizzeri a pronunciarsi sull’introduzione di un reddito di base universale (Universal basic income, Ubi). Il progetto era ambizioso: attuare una misura di cui sempre più spesso si sente parlare nel dibattito pubblico ma che raramente, e mai in una forma pura come quella proposta, si era tramutata in una policy reale. Il disegno di legge prevedeva

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l’introduzione di un trasferimento fisso per tutti i cittadini, corrisposto su base mensile, di un importo suggerito pari a 2.500 franchi svizzeri (2.500 €) per ciascun adulto e di 625 per ogni minorenne. L’entità della somma non deve trarre in inganno, dal momento che per effetto del costo della vita l’importo si collocava di poco al di sotto della soglia di povertà (allora fissata a 2.600 franchi). Il carattere rivoluzionario stava nell’idea di una misura realmente universalistica, rivolta letteralmente a tutti: ricchi e poveri, giovani e anziani, lavoratori e disoccupati, senza condizioni o requisiti di sorta. Il risultato del referendum, peraltro atteso, fu la bocciatura della proposta, con poco più del 23 per cento degli elettori che si espresse a favore. Un peso rilevante fu senza dubbio giocato dal parere fortemente negativo del Consiglio federale (il governo svizzero), che nell’avversare l’iniziativa di legge popolare aveva, non sorprendentemente, espresso tutte le obiezioni che popolano il discorso pubblico: i lavori a basso salario sarebbero scomparsi con conseguente crisi per le imprese (ma, verrebbe da dire, forse non dei lavoratori), le tasse sarebbero aumentate notevolmente, e in generale gli incentivi al lavoro sarebbero venuti meno. Pur riconoscendo il diritto delle persone a una vita dignitosa, affermò il Consiglio, l’idea era che il sistema attuale fosse il modo migliore per garantirlo1. Sicuramente non fu questa l’unica causa del risultato. Sull’iniziativa pesava il parere contrario dei sindacati, che temevano una perdita di centralità del lavoro e del peso

della contrattazione in modo sostanzialmente analogo a quanto visto, nel capitolo precedente, per il salario minimo, e un’adesione timida e parziale della sinistra. Analisti osservarono come l’eterogeneo comitato promotore avesse giocato troppo sulla dimensione utopica senza fornire un’adeguata proposta di copertura finanziaria e, infine, non è da escludere che anche tra le persone a più basso reddito abbia pesato una certa diffidenza nei confronti dell’idea di dare i soldi anche ai ricchi2. Torneremo nel dettaglio sui pro e i contro di questa misura. Quel che è certo è che l’iniziativa svizzera ha messo sulla mappa della politica una proposta il cui carattere rivoluzionario risiede nel modo in cui sfida le categorie con cui guardiamo alle politiche. La proposta di un reddito di base universale rompe infatti i tradizionali confini delle politiche sociali o assistenziali, ridisegna alleanze e, soprattutto, rappresenta forse la misura con l’impatto maggiore sul mercato del lavoro pur non riguardandolo direttamente. Non è un caso se nella campagna di comunicazione per il referendum svizzero campeggia l’immagine di una schiera di robot con lo slogan «un reddito necessario nell’era dell’automazione». L’idea di fondo è che al paradosso della jobless growth, una crescita che non crea posti di lavoro, si possa e si debba rispondere non solo redistribuendo il lavoro (lavorare meno, lavorare tutti), ma anche redistribuendo oltre il lavoro, facendo in modo che la ricchezza che si genera per effetto della maggiore produttività (cfr. capp. 1 e 2) non sia trattenuta da pochi. Lavorare meno,

K. Widerquist, Switzerland: Government reacts negatively to Ubi proposal, Basic Income Earth Network, 29 agosto 2014.

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U. Geiser, Basic income plan clearly rejected by Swiss voters, swissinfo.ch, 5 giugno 2016.

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e forse non lavorare tutti, attraverso un ripensamento radicale della nostra società.

Una politica nuova, un’idea dalle radici lontane Nonostante lo scenario attuale sia particolarmente fertile per il dibattito e persino per alcune sperimentazioni, l’idea (e in qualche caso la pratica) di un reddito di base non legato al lavoro precede di molto l’automazione e anche la stessa rivoluzione industriale. Molti teorici sono soliti far risalire l’intuizione a Thomas More, che nella sua Utopia del 1516 affida al viaggiatore Raffaele Itlodeo una celebre affermazione a commento della durezza delle leggi inglesi contro i ladri: In questa faccenda mi pare che non solo noi, ma buona parte del mondo facciamo come quei cattivi maestri, che preferiscono picchiare i ragazzi anziché istruirli. Si stabiliscono infatti, per chi ruba, pene gravi, pene terribili, mentre meglio era provvedere a qualche mezzo di sussistenza, acciocché nessuno si trovasse nella spietata necessità, prima, di rubare, e poi di andare a morte3

Eppure, l’idea di un trasferimento non condizionato ai cittadini compare in forme diverse molto prima. Nella sua ricostruzione storica, Guy Standing4 ne rintraccia l’origine nell’Atene di Efialte e Pericle del 461 a.C., quando una forma di trasferimento ai cittadini fu introdotta come forma di remunerazione del tempo speso nella partecipa3 T. Moro, L’Utopia, o la migliore forma di repubblica, Laterza, Roma-­ Bari, 1993, p. 20. 4 G. Standing, Basic Income. And How We Can Make It Happen, Penguin, London, 2017.

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zione al governo della polis. Sorprendentemente, il trasferimento non era condizionato alla partecipazione effettiva: prendere parte era un imperativo morale incentivato con altri metodi, mentre il reddito fungeva unicamente da precondizione. Esperienze riconducibili alla logica di un diritto alla sussistenza indipendente dal lavoro attraversano anche il Medioevo e, da More in avanti, l’età moderna. Ma è nell’epoca contemporanea che si assiste a un fiorire della riflessione teorica e al nascere di proposte. In questa fase, ancor prima della comparsa dell’idea di automazione, il nesso con il lavoro diventa più forte. Nel 1918, Bertrand Russell5 vedeva addirittura il reddito di base come la misura in grado di coniugare le istanze anarchiche con quelle socialiste: Il piano che stiamo sostenendo consiste essenzialmente in questo: che un certo piccolo reddito, sufficiente per le necessità, sia assicurato a tutti, che lavorino o meno, e che un reddito più grande – tanto più grande quanto può essere giustificato dalla quantità totale di beni prodotti – sia dato a coloro che sono disposti a impegnarsi in qualche lavoro che la comunità riconosce come utile. Quando l’istruzione è terminata, nessuno dovrebbe essere obbligato a lavorare, e coloro che scelgono di non lavorare dovrebbero ricevere una mera sussistenza ed essere lasciati completamente liberi.

È solo a partire dagli anni Sessanta, con quella che Standing definisce la terza ondata di studi, che il tema del progresso tecnologico diviene centrale. In questa fase il dibattito riprende quota e l’idea di un sostegno al red5

B. Russell, Roads to Freedom, Routledge, London, 1996, pp. 80-81.

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dito, pur non nella forma dell’Ubi ma in quella dell’imposta negativa6, viene caldeggiata da esperti e politici di tradizioni e orientamenti diversi, come dimostra una petizione firmata nel 1968 da milleduecento economisti di centocinquanta università. In tutt’altro ambito, anche Martin Luther King si pronunciò a favore di un reddito garantito, convinto che fosse la soluzione più semplice e anche la più efficace, perché «la dignità dell’individuo fiorirà quando le decisioni sulla sua vita saranno nelle sue mani»7. Questo breve excursus, pur nella sua inevitabile incompletezza, restituisce lo spessore storico di un’idea di reddito garantito, e aiuta a mettere a fuoco la varietà di temi a cui, nel tempo, l’idea è stata legata. Dalla sconfitta del crimine che nasce dal bisogno, come in Thomas More, alla garanzia delle precondizioni necessarie alla partecipazione politica e civile, com’era nella sua concezione ateniese e come, millenni dopo, sarà tematizzata dal celebre studioso Tony Atkinson8, fino alla lotta alle disuguaglianze e alla discriminazione. Sullo sfondo di questa varietà rimangono due temi fondamentali. Il primo è che il diritto a una vita dignitosa e all’accesso alle risorse fondamentali non soltanto libera gli individui che ne beneficiano, ma ha ricadute sociali importanti in termini di benessere collettivo, tali da giustificare non solo 6 Si tratta di una forma di imposta sul reddito che, al di sotto di una determinata soglia, prevede il riconoscimento automatico di un trasferimento (imposta negativa) al contribuente. 7 M.L. King, Where Do We Go From Here? Chaos or Community?, Harper & Row, New York, 1967. 8 A.B. Atkinson, Inequality. What can be done?, Harvard University Press, Cambridge, 2015.

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in termini etici ma anche opportunistici una spesa collettiva di questa portata. Il secondo è che l’obiettivo di un’esistenza libera e dignitosa non deve necessariamente essere raggiunto attraverso il lavoro, e men che meno l’iperlavoro, ma può poggiare sull’idea di redistribuzione. E questo, come dimostra la profondità storica delle riflessioni, a prescindere dal modo in cui l’automazione cambierà il mercato del lavoro.

Il reddito di base universale oggi. Definizioni e ripresa del dibattito In uno dei testi di riferimento per l’attuale dibattito Philippe Van Parijs, filosofo ed economista belga riconosciuto come il maggior sostenitore e teorico sul tema negli ultimi trent’anni, sostiene insieme al collega Yannick Vanderborght che la concomitanza di una crescente disuguaglianza, una nuova ondata di automazione e una più acuta consapevolezza dei limiti ecologici della crescita lo ha reso oggi oggetto di un interesse senza precedenti in tutto il mondo9.

Tale visibilità è cresciuta di pari passo con la polarizzazione degli argomenti riguardanti le misure di sostegno al reddito che ha seguito la crisi finanziaria del 2008. Da un lato, infatti, la crescita dei tassi di povertà e la diffusa sensazione di vulnerabilità hanno favorito la richiesta di una maggiore protezione sociale e, in molti casi, l’auP. Van Parijs, Y. Vanderborght, Basic Income. A Radical Proposal for a Free Society and a Sane Economy, Harvard University Press, Cambridge, 2017, p. 1.

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mento della spesa in sussidi per i disoccupati. Dall’altro lato, la rinnovata attenzione per i deficit pubblici ha determinato un crescente sostegno ai pacchetti di austerità introdotti in vari Paesi, spesso comprendenti tagli al welfare, minando la legittimità della spesa sociale, sempre più spesso dipinta come inefficiente e destinata a persone non meritevoli10. In questo scenario il dibattito ha preso rapidamente quota, vedendo la crescita di una vera e propria advocacy coalition che raccoglie accademici e attivisti, la cui espressione più nota è rappresentata dal Bien (Basic income earth network, attivo in realtà già dal 1986) e un fiorire di pubblicazioni divulgative e prese di posizione di personaggi pubblici11. Per effetto di questa rinnovata attenzione, la questione è approdata anche al livello delle istituzioni politiche. L’appoggio del Segretario generale delle Nazioni Unite Antònio Guterres, nel 2018, fu salutato con grande favore dai sostenitori, e oltre al citato referendum svizzero presero forma diverse sperimentazioni anche in Europa, le più note delle quali sono avvenute in Finlandia e Olanda. Tanto nel dibattito pubblico quanto in quello di policy sembra però regnare almeno in parte una certa confusione su cosa sia, esattamente, un reddito di base universale e su P. Taylor-Gooby, B. Leruth, H. Chung, After Austerity. Welfare State Transformation in Europe after the Great Recession, Oxford University Press, Oxford, 2017. 11 Tra i molti testi di carattere divulgativo che hanno visto una rapida diffusione negli Stati Uniti e non solo, ricordiamo: Andrew Yang, The War on Normal People; Annie Lowrey, Give People Money; Andy Stern, Raising the Floor e il già citato lavoro di Bregman, Utopia for realists. Di recente ha suscitato un discreto clamore la presa di posizione di Chris Hughes, co-fondatore di Facebook, a favore di un reddito di base (sebbene non nella forma dello Universal basic income). 10

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come differisca da altre forme di sostegno al reddito (come l’assai più diffuso reddito minimo). È quindi opportuno, muovendosi in una vasta letteratura12 individuare alcune caratteristiche imprescindibili che lo definiscono, al netto delle possibili varianti. La prima è che si tratta di un trasferimento economico erogato a intervalli regolari per l’intero corso di vita, in modo automatico e senza doverne fare richiesta o sottostare alla prova dei mezzi. Trattandosi di un diritto fondamentale non può essere cancellato, ritirato o rimborsato in nessuna forma. Semplicemente è pensato per esserci, sempre. La seconda caratteristica è l’universalismo, ovvero l’essere rivolto a tutti i membri di una comunità, a prescindere dal loro reddito o dalle risorse detenute, dalla condizione professionale o dalla volontà o meno di lavorare, o da qualsiasi altra caratteristica che definisce un individuo e il suo comportamento. In questo differisce in modo radicale dai cosiddetti redditi minimi, rivolti unicamente a chi si trova in condizione di povertà. Tradurre nella pratica il concetto presenta qualche inevitabile scelta: se la comunità sarà fatta sovrapporre con lo Stato allora la membership sarà definita dalla cittadinanza, se si ragionerà su base territoriale potrebbe essere la residenza, e così di seguito. Definire i confini è operazione complessa, ma l’idea è quella della massima inclusività e della riduzione al minimo dei criteri di distinzione. Oltre ai testi già citati in questo capitolo, si segnala, nel dibattito italiano: E. Granaglia, M. Bolzoni, Il reddito di base, Ediesse, Roma, 2016. Questi contribuiti sono da considerarsi le fonti delle considerazioni che seguono. 12

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La terza caratteristica ha che vedere con l’importo, che presuppone l’uguaglianza di trattamento tra tutti gli individui e l’invariabilità a fronte del mutare delle condizioni di reddito. Quanto alla generosità del trasferimento, l’idea è quella di fornire una base necessaria a un’esistenza degna e alla garanzia dei diritti fondamentali. Definire però quale sia la linea di base è anche in questo caso operazione complessa, che risente in sostanza dal modo in cui ciascuna società tematizza i «bisogni fondamentali». Tanto più ampia sarà la concezione di diritti di base, che possono, ad esempio, arrivare a considerare il tempo libero (cfr. cap. VI), tanto maggiore dovrà essere l’importo. Un quarto elemento distintivo è che la titolarità del contributo spetta ai singoli individui e non ai nuclei familiari, coerentemente con l’idea che si tratti di un diritto fondamentale della persona. In questo senso la discontinuità con la quasi totalità dei trasferimenti assistenziali è molto forte, dal momento che in questi casi si assume quasi sempre che al crescere del numero dei componenti si realizzino economie di scala, e che dunque l’incremento diminuisca al crescere dei membri. Infine, quinto ma non meno importante, è l’assenza di condizionalità, ovvero di vincoli di alcun tipo nell’accesso e nella fruizione. Questo tratto rafforza il carattere universalistico, ma soprattutto segna la differenza tra un approccio basato sul diritto e uno basato sul merito, in tutte le sue forme. Dal momento che, per definizione, i diritti non vanno meritati, il reddito di base non solo non prevede condizioni per l’accesso, ma altrettanto non prevede vincoli o restrizioni rispetto al modo in cui la cifra viene

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spesa o requisiti comportamentali di sorta. Questa è forse la maggior differenza con i sistemi di reddito minimo che conosciamo. Le caratteristiche definiscono il carattere radicale della proposta: non una misura assistenziale o contro la povertà, semplicemente un livello zero uguale per tutti di reddito, di dignità e di libertà.

Perché pensarci davvero, e perché un reddito di base cambierebbe il mondo del lavoro Fermo restando l’imprescindibile presupposto etico di un diritto a una vita dignitosa e libera dal bisogno, esistono numerose riflessioni sui presupposti di una misura come il reddito di base universale. Alcune di esse sono già emerse nel breve excursus storico del paragrafo precedente, ma è ora importante soffermarsi su quelle che più direttamente hanno a che fare con il lavoro. Una parte consistente delle sperimentazioni di misure simili e vicine al modello ideale proposto sopra origina, ad esempio, dall’idea di un diritto a beneficiare delle risorse comuni13: è il caso del noto esperimento dell’Alaska o di quello dell’Iran, che muovono dal presupposto di una redistribuzione dei proventi petroliferi. L’idea di base è che le risorse comuni (petrolio, minerali, ma anche clima, paesaggio, natura) generano una ricchezza di cui, allo stato attuale, beneficiano unicamente quanti se ne appropriano direttamente (dalle enclosures in avanti) o quanti lavorano per metterle a frutto. Senza negare la legittimità della retribuzione del lavoro necessario per trasformarle 13

Si veda E. Granaglia, M. Bolzoni, Il reddito di base, cit.

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in ricchezza, è possibile che una parte di quei proventi, la cui esistenza non dipende dal merito o dal lavoro, possa essere destinata a quanti non hanno la possibilità di trarne benefici. Semplificando, il lavoro non può essere l’unico criterio di distribuzione della ricchezza derivante dalle risorse comuni, dal momento che ad esso si deve la loro valorizzazione ma non la loro esistenza, e per effetto del fatto che il lavoro stesso è una risorsa a cui non tutti accedono in egual misura. Esiste poi un altro ordine di motivazioni in cui è centrale la dimensione del lavoro e del suo rapporto con le altre attività di vita. Andrea Fumagalli nota, ad esempio, che nell’attuale scenario economico «occorre avere il coraggio di affermare che se la vita (nei suoi vari tempi […] di lavoro, di opera, di ozio e di svago) viene messa a valore, allora è la vita intera che deve essere remunerata»14. Il principio è portatore di una prospettiva rivoluzionaria. Da un lato, la crescente sovrapposizione tra tempo di lavoro e tempo di vita rende difficile distinguere il primo (remunerato) dal secondo. Dall’altro, se vivere crea ricchezza perché non pensare a tutto il tempo come degno titolare di una qualche forma di compenso? Gli esempi che rendono tangibile questo approccio sono molti. Dalla nota ma mai scontata questione del lavoro di cura non retribuito, la cui unica forma di remunerazione passa (auspicabilmente, ma non necessariamente) dal salario del capofamiglia breadwinner, a scenari più moderni quali quelli della diffusione dei social media, esempio plastico di come attività di ozio e svago generiA. Fumagalli, Lavoro male comune, Bruno Mondadori, Milano, 2013, p. 101.

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no una ricchezza (ingente) per i colossi della tecnologia dell’informazione. In questo senso, suggerisce Fumagalli, il reddito di base è la remunerazione di quell’attività di vita produttiva di valore, che oggi non viene certificata come prestazione lavorativa. […] è quindi la remunerazione diretta dell’opera, dell’ozio, dello svago, diventati, oggi, produttori di valore15.

Tornando poi sul caso del lavoro di cura, la natura individuale del diritto garantito potrebbe attenuare le cosiddette dipendenze intranucleo e le loro conseguenze sui rapporti non solo tra i generi, ma anche tra le generazioni. Muovendo dai presupposti ai possibili esiti, la relazione con il lavoro rimane centrale e si declina in due dimensioni che alimentano un serrato dibattito. La prima è senza dubbio la questione dei possibili disincentivi al lavoro, che abbiamo già incontrato nelle critiche sollevate dal Governo svizzero, e che rappresenta in assoluto la maggior preoccupazione degli oppositori. Se è vero che la disponibilità di un reddito rende il lavoro meno necessario, non per questo significa che lo renda indesiderabile. Questo innanzitutto per due ragioni legate alla determinazione dell’importo. La prima è che la generosità (vedi sopra) è pensata per soddisfare i bisogni primari, ma non per tutto ciò a cui le persone attribuiscono un valore. In questo senso si potrebbe dire che pur essendo uguale per tutti, il reddito di base ha un’utilità marginale decrescente a seconda delle aspettative e dell’ambizione

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di chi lo riceve16. Chi si accontenterà di una vita «al minimo» potrebbe dunque non aver bisogno di lavorare, ma a quante persone basterebbe una simile prospettiva? Inoltre, l’importo fisso disinnesca quello che in altre misure di sostegno al reddito è chiamato «effetto di sostituzione». Nei regimi di reddito minimo che conosciamo (tra cui il Reddito di cittadinanza italiano), al crescere del reddito da lavoro diminuisce il sussidio, il cui importo è calcolato come differenza tra reddito disponibile e una data soglia. In questo caso, per redditi bassi, guadagnare di più riduce semplicemente il trasferimento senza aumentare la somma complessiva disponibile, e dunque gli incentivi al lavoro esistono solo da stipendi sopra una certa soglia. Al contrario, il reddito di base universale non decresce all’aumentare dei guadagni, e di conseguenza rende il lavoro più remunerativo. C’è poi un altro elemento da considerare. Se è vero che una misura simile si tradurrebbe in maggiore costo per lo Stato, non bisogna dimenticare che tutelare il reddito aumenta i consumi, e dunque la domanda di beni e servizi che dovrebbero comunque venire prodotti. Il nodo sta nella risposta alla domanda con cui si apre il capitolo: cosa faremmo se disponessimo di un reddito di base? Raramente, come mostrano anni di esperimenti, la risposta sarebbe «non fare niente dal mattino alla sera». Il punto dunque non sembra essere se le persone smetterebbero di lavorare, ma piuttosto quanto e come lavorerebbero. A leggere con attenzione le dichiarazioni del P. Van Parijs, Why Surfers Should Be Fed. The Liberal Case for an Unconditional Basic Income, in Philosophy and Public Affairs, n. 20, 1991, pp. 101-131.

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IX. Dobbiamo davvero lavorare tutti?

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governo svizzero, in effetti, la maggior preoccupazione era la scomparsa dei lavori a basso salario. Il reddito di base, riprendendo le considerazioni del cap. IV, ha un enorme potere di de-mercificazione delle persone, e sposterebbe in modo consiste gli equilibri di potere verso i lavoratori. Quella che garantisce non è tanto una libertà dal lavoro, a meno che non si accettino condizioni minime di vita, quanto piuttosto una libertà nel lavoro. Non scomparirebbero dunque le settimane corte o i part-time, e forse nemmeno il fenomeno dell’overwork. Si creerebbero però le condizioni per rifiutare i cosiddetti cattivi lavori, e la sotto-occupazione assumerebbe forse un carattere maggiormente volontario. Occorre a questo punto considerare seriamente anche le obiezioni, per non rischiare che un approccio eccessivamente naive possa danneggiare le argomentazioni. Non c’è dubbio che una misura simile comporterebbe un incremento della spesa pubblica, che si riverbererebbe sulla pressione fiscale, e un aumento dei costi sostenuti dalle imprese per i salari, partendo dal presupposto che i lavori meno desiderabili dovrebbero essere pagati di più. È però altrettanto vero che la presunta «insostenibilità» va letta alla luce di due fattori. Il primo è il già citato aumento della domanda. Siamo sicuri che una società senza povertà non produca dei ritorni anche economici? Il secondo, ribaltando la prospettiva, ci riporta al cap. II e alla progressiva divaricazione tra la crescita della produttività e quella dei salari. Quanto è «sostenibile» un modello in cui benefici dell’automazione non vengono redistribuiti, attraverso i salari o misure come un reddito di base? O più semplicemente, a fronte dell’aumento di guadagni e

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patrimoni monstre, è davvero impensabile un aumento di tasse e di stipendi? Ancora una volta, non si tratta di una misura di cui tutti beneficerebbero, e sarebbe sbagliato dipingerla in questi termini. Proprio per questo, però, si tratta di una scelta di natura politica.

X. Resistenze, fughe, conflitti

Immaginare una politica del tempo tra individuale e collettivo

Negli Stati Uniti il fenomeno è ormai da tempo noto come The great resignation, la grande dimissione, termine coniato da Anthony Klotz, professore di management della Texas A&M, giocando sull’ambiguità semantica con la grande recessione post 2008. La fortunata etichetta fotografa un trend reso evidente dalla pandemia ma in realtà già in essere da diversi anni: il numero di dimissioni volontarie ha raggiunto livelli senza precedenti e fa registrare una crescita costante. Negli Stati Uniti, il numero di licenziamenti volontari ha ormai stabilmente raggiunto un livello superiore a 4 milioni ogni mese dal 2021, contro un valore che nel 2010, nel pieno della crisi, si aggirava attorno al milione e mezzo1 e che da allora non ha mai smesso di salire, se si esclude il primo periodo della pandemia. Anche in Italia il trend sembra essere analogo e comincia a guadagnare gli onori delle cronache. L’inversione di tendenza, analizzando i dati del Ministero del lavoro2, si ha nel 2016. In soli cinque anni il numero di cessazioni volontarie è salito Elaborazione su dati Us Bureau Labour statistics. Elaborazione su dati Ministero del lavoro – Report annuali sulle comunicazioni obbligatorie (2016-2022).

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costantemente, passando da un milione e trecentomila a oltre due milioni nel 2021, e i dati dei primi tre trimestri del 2022 fanno registrare un ulteriore incremento e valori mai raggiunti prima. La crescita annua è in media del 16 per cento, ma supera il 20 per cento nel periodo postpandemico. Le dimissioni volontarie possono naturalmente rappresentare anche un indicatore di salute del mercato del lavoro: al crescere delle opportunità aumenteranno le persone che scelgono di lasciare il proprio impiego per passare a uno migliore. Quello che colpisce della congiuntura attuale, però, è che a differenza del passato la rinuncia al posto di lavoro non avviene solo in presenza di un’alternativa, come accade quando l’occupazione è in salute, ma si configura spesso come un salto nel buio3. Negli Stati Uniti, una survey realizzata da un’agenzia che si occupa di trovare lavori flessibili, ibridi o a distanza (flex jobs) ha rapidamente raggiunto un sorprendente livello di visibilità sui principali media del Paese. Su oltre duemiladuecento intervistati nel 2022, il 68 per cento di quanti avevano lasciato il proprio lavoro dichiarava di averlo fatto senza averne un altro in prospettiva. Al di là dei numeri e della loro attendibilità, la questione è uscita dal perimetro delle riflessioni sull’andamento del mercato del lavoro, e ha assunto i contorni di un vero e proprio fenomeno culturale. L’hashtag #IQuitMyJob conta decine di migliaia di post su Instagram, e con una ricerca analoga si può facilmente accedere a migliaia di J.C. Hopkins, K.A. Figaro, The Great Resignation. An Argument for Hybrid Leadership, in International Journal of Business and Management Research, n. 9, 2021, pp. 393-400.

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X. Resistenze, fughe, conflitti

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video su Youtube. Si tratta, per la maggior parte, di condivisioni di storie personali, di motivazioni e di aspettative, che ha generato una e vera e propria community con cui condividere (per quanto virtualmente o indirettamente) un’esperienza che spesso richiede coraggio. Chi sceglie di rinunciare al lavoro, oggi sa di non essere solo ma di essere parte di un processo più grande. Come spesso accade in questi casi, si costruisce un immaginario collettivo che ha i propri lemmi, come quello di Yolo Economy, acronimo di you only live once (si vive una volta sola), entrato tra i neologismi Treccani nel 2022. Una rassegna anche non sistematica di questa enorme produzione fa emergere la quasi totalità dei temi che sono stati sviluppati fin qui, a partire dalla distinzione tra una componente materiale e una culturale, o tra un livello individuale e uno collettivo (tra «il mio lavoro» e «il lavoro»). Da un lato, infatti, sono numerose le critiche legate alla qualità degli impieghi: bassi salari, orari insostenibili, ambienti di lavoro «tossici» e ipercompetitivi, ripetitività e alienazione. Dall’altro, non mancano le testimonianze di chi, pur non avendo problemi con il proprio impiego, mette in discussione il lavoro e il suo posto nella contemporaneità. Una presa di coscienza su un modello, mai contestato prima, che si regge sull’assoluta centralità del lavoro, che porta a rifiutare l’idea stessa di essere occupati. Se talvolta può emergere un tratto di ingenuità o un elemento di privilegio che porta a non considerare le ricadute, in molti casi si assiste a una consapevolezza che la scelta sarà gioco forza temporanea per ovvi motivi materiali. Il rifiuto assume però un valore simbolico molto forte, quasi identitario,

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la cui portata sembra poter andare oltre la durata reale del distacco dal mercato. Non siamo ancora di fronte a quello che Aznar (cap. VI) definisce un «tempo nuovo». Il processo di riappropriazione che questo fenomeno sociale porta con sé è ancora basato su un tempo per differenza rispetto al lavoro. La sua centralità, in questo senso, non è ancora messa pienamente in discussione, dal momento che, per un verso o per l’altro, continua a essere ciò che costruisce le identità. Lavoratori o non-lavoratori, il termine di paragone rimane sempre lo stesso. Nondimeno, si tratta di una profonda contestazione di quell’etica e di quel processo di naturalizzazione che sgombravano il campo da qualsiasi messa in discussione di un modello di organizzazione della società e della vita. Quel che appare cruciale, in questo particolare momento storico, è capire se e in che misura si possa cogliere una dimensione politica e collettiva, in grado di estendere oltre i confini della scelta individuale il progetto di lavorare meno.

Il rifiuto del lavoro. Elementi per una ri-politicizzazione tra agency individuale e collettiva In un testo divenuto in breve tempo un punto di riferimento nel dibattito sul rifiuto del lavoro4, David Frayne afferma, riprendendo un altro caposaldo della letteratura in materia, Reclaiming Work di André Gorz5, che la bat-

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taglia a cui siamo di fronte deve necessariamente essere combattuta a livello collettivo e non individuale. Concepito in termini di fuga, cinismo o disillusione, infatti, non solo il rifiuto del lavoro, ma qualsiasi comportamento individuale rischia di trasformarsi in null’altro che «una forma di ribellione che lascia intatte le fondamenta del potere»6. L’opzione egoistica e tutta individuale, peraltro, è fortemente favorita da un’evidente contraddizione: a fronte di retoriche che ne rafforzano il valore normativo, l’azione politica degli ultimi decenni non sembra aver fatto nulla per difendere il lavoro. Se, dunque, le istituzioni collettive non se ne curano, perché i singoli dovrebbero sentire la responsabilità (e accollarsi lo sforzo) di guarire il lavoro? In termini sociologici la problematica va inquadrata entro l’ampio dibattito sull’agency, ovvero la capacità degli individui di essere attori autonomi, creativi e dotati di un obiettivo, capaci di esercitare un certo grado di scelta7. Questo spazio di manovra viene solitamente declinato a vari livelli, che vanno dalla semplice possibilità di compiere scelte nel proprio quotidiano a quella di modificare lo status quo o, riprendendo Giddens, di «fare la differenza» esercitando su di esso una qualche forma di potere8. Un contributo utile a comprendere le forme di rifiuto del lavoro, esplorandone la politicità, è offerto dalla sistematizzazione dei tipi di agency offerta da Ruth Lister in un suo D. Frayne, The Refusal of Work, cit., p. 213. La letteratura sul tema è naturalmente sconfinata e le definizioni molteplici. Quella qui proposta è ripresa da: R. Lister, Poverty, Polity, Cambridge, 2004. 8 A. Giddens, The Constitution of Society. Outline of the Theory of Structuration, Polity, Cambridge, 1984. 6 7

D. Frayne, The Refusal of Work. The Theory and Practice of Resistance to Work, Bloomsbury Publishing, London, 2015. A. Gorz, Reclaiming Work. Beyond the Wage-Based Society, Polity, Cambridge, 1999.

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fondamentale studio sulla povertà9. L’autrice distingue una dimensione personale da una politica o di cittadinanza. All’interno della prima si collocano strategie che vanno dal semplice «tirare avanti» alla definizione di piani di uscita da una situazione indesiderata. La seconda racchiude invece un range di pratiche che vanno dalla resistenza quotidiana (e dunque individuali) a vere e proprie forme di organizzazione in soggetti collettivi. In questo senso, il rifiuto del lavoro, pur compiuto da un singolo, può avere una dimensione politica nella misura in cui ha ricadute collettive, anche solo in termini di visibilità. Sarebbe dunque un errore derubricare come meramente individuali o egoistiche le esternazioni a mezzo video di #IQuitMyJob, come dimostra la crescente visibilità e la breccia nel dibattito pubblico che sembrano avere aperto. Nondimeno, continuando a seguire il ragionamento della studiosa britannica, la costruzione di un soggetto collettivo in grado di dar forza alle istanze politiche necessita la definizione di un’identità collettiva che sia «politicamente praticabile». È questo il nodo forse più complesso. Se torniamo per un momento all’etica del lavoro più volte discussa in questo testo, possiamo aggiungere che non solo questa dà forma ai comportamenti degli individui, ma definisce spazi di legittimità per le rivendicazioni anche per i soggetti che le portano avanti. Se storicamente il lavoro è stato la forma per eccellenza di costruzione delle identità politiche, le soggettività costruite per negarne la centralità saranno assai meno spendibili sulla scena pubblica. La questione fondamentale è, naturalmente, quella del merito. In una 9

R. Lister, Poverty, cit.

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cultura in cui lavorare molto è motivo di apprezzamento, costruirsi come soggetto collettivo a partire dal suo rifiuto può essere problematico: la società rispetta i «gran lavoratori», per gli altri utilizza epiteti assai meno lusinghieri e che abbiamo già incontrato: da coloro a cui «cade la penna» (non disposti ad andare oltre all’orario) fino, ovviamente, ai pigri e ai fannulloni. Creare spazi di agibilità politica e di legittimazione per categorie non conformi a determinati standard sociali richiede dunque una battaglia che ha innanzitutto molto di culturale, e di cui manifestazioni spontanee e individuali possono rappresentare, anche se talvolta inconsapevolmente, le fondamenta preziose. Si tratta, in ultima istanza, di proseguire un processo di ri-politicizzazione del tempo che sembra ormai in atto. Riprendendo la letteratura sul tema, e in particolare il contributo fondativo di Colin Hay10, possiamo ipotizzare che questo richieda tre passaggi, spesso co-­occorrenti ma analiticamente distinti. Il primo consiste nel rompere i confini di uno spazio discorsivo che sottrae un’istanza alla discussione pubblica, inscrivendola nel «regno della necessità», del naturale (meglio sarebbe dire naturalizzato) e dell’inevitabile. Creare orizzonti di possibilità generando quindi lo spazio per scegliere, suggerisce Frayne, richiede di aprire le porte alla discussione e di «unirsi alla battaglia sulle parole, e di presentarsi armati». Il secondo passaggio ha a che fare con il salto dalla dimensione individuale a quella collettiva. Ciò significa 10

C. Hay, Why We Hate Politics, Polity, Cambridge, 2007.

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rompere in prima istanza la gabbia dei processi di (iper) responsabilizzazione dell’individuo, che molto spesso si uniscono a quelli di colpevolizzazione. Tornando ancora al contributo di Frayne: La serie di iniziative di formazione che ha ispirato work­shop su “come affrontare lo stress”, “come affrontare il cambiamento” e “come gestire il tempo”, alla fine ha trasmesso lo stesso messaggio: che siete solo voi i responsabili dei vostri impegni e che siete voi personalmente i colpevoli se avete difficoltà a farvi valere11.

Il nodo centrale è che se sono le persone a essere responsabili dei problemi, a loro spetta trovare le soluzioni e non c’è bisogno di una dimensione collettiva e dunque politica. Nella pratica, si tratta quindi di costruire soggetti collettivi nuovi o più semplicemente di trovarne di esistenti disposti a portare avanti l’istanza. A ben vedere, la centralità della rivendicazione del diritto al tempo potrebbe trovare (e in una certa misura già trova) facili sponde, dal movimento femminista, che per primo l’ha sollevata, a quello ambientalista, che nella lotta all’iperproduttività e all’iperconsumo guarda con favore a un rallentamento. Terzo e ultimo passaggio è quello dell’approdo all’arena delle istituzioni politiche in senso stretto, o alla sfera del governo della società. Il dibattito sull’orario di lavoro (cap. VI) ci dice che anche questo processo è in atto, anche se spesso marginale rispetto alle «vere» priorità della crescita e dei bilanci. La complessità dell’obiettivo, per come è emersa fin qui, richiede però un’azione che vada oltre la 11

D. Frayne, The Refusal of Work, cit., p. 218.

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regolazione dell’orario di lavoro: una vera e propria «politica del tempo».

Tre caratteristiche di una politica del tempo. Possibilità, conflitto e legittimità Nel percorso di questa seconda parte del volume è centrale l’idea che lavorare meno sia un obiettivo possibile solo attraverso un processo di cambiamento che vada molto al di là della semplice regolazione dell’orario di lavoro. La politica del tempo è dunque una politica a trecentosessanta gradi, non una politica del lavoro. Riprendendo Gorz, infatti, le soluzioni si trovano nella definizione di nuovi diritti, nuove libertà, nuove garanzie collettive, nuove strutture pubbliche e nuove norme sociali, in base alle quali il tempo di lavoro e le attività scelte non saranno più marginali per la società, ma parte di un nuovo progetto di società: una “società del tempo scelto” e della “multiattività”12.

Per questo, se si vuole far sì che la riduzione non crei nuove disuguaglianze o acuisca quelle esistenti non si può prescindere dalla lotta alla precarietà, dalla difesa dei salari, dalla garanzia di un reddito oltre il lavoro. Ma la politica del tempo, per come qui la si vuole intendere, non si distingue solo per essere una politica ad ampio raggio, ed è definita da almeno tre ulteriori caratteristiche. Primo, la politica del tempo non è solo una politica per gli individui, ma è innanzitutto una politica sui contesti e sulle possibilità. Riportare il contesto al centro della di12

A. Gorz, Reclaiming Work, cit., p. 65.

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scussione politica, pubblica e scientifica è necessario per molte ragioni, prima fra tutte quella di mettere un freno alla confusione tra volontà e possibilità, che ben si presta a strumentalizzazioni e che alimenta processi di stigmatizzazione. Detto in altri termini, significa creare società in cui il diritto al tempo sia sostanziale e non formale, e dunque direttamente esigibile. Perché questo accada, è necessario che la variabile tempo diventi centrale nel progettare gli spazi e i servizi. Le connessioni in questo senso sono pressoché infinte: dal dibattito sulle disuguaglianze e sulle condizioni che permettono forme di accumulazione smisurata della ricchezza, alle politiche urbane della ormai nota «città dei 15 minuti». Vista in questi termini, nessuno è escluso dalla partita, ma le possibilità e i fronti d’azione si moltiplicano. Prima di valutare qualsiasi scelta, non bisogna dimenticare che a oggi, per molti, lavorare meno semplicemente non è possibile. Secondo, la politica del tempo è inevitabilmente conflittuale, e lavorare meno non è un gioco a somma positiva. Da questo punto di vista, come evidenziato nel cap. VI, le giustificazioni basate sull’efficacia e sulla sottolinea­tura degli effetti positivi per tutti possono forse risultare strumentalmente utili, ma rischiano di diventare fuorvianti quando non controproducenti. Certo, situazioni in cui vincono tutti sono possibili se circoscriviamo lo sguardo nello spazio e nel tempo, ma una visione di insieme suggerisce che a livello macro, nell’assetto attuale, la garanzia del diritto al tempo di qualcuno si traduce spesso nella sua negazione per altri. Dall’aumento della conflittualità tra precari e lavoratori a tempo indeterminato creata dall’esperimento della settimana

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corta di Microsoft Japan (cap. VI), alla redistribuzione su scala mondiale delle ore lavorate che porta l’Occidente a spostare lavoro in altre parti del mondo (cap. II), i segnali sono molteplici. La chiave di lettura, per quanto banale, ha ancora a che fare con la domanda posta in apertura: chi si appropria dei profitti dell’automazione e del valore generato dall’aumento della produttività? La soluzione in questo senso è sempre la stessa, e il campo di battaglia rimane quello del conflitto tra capitale e lavoro. In assenza di questa dimensione conflittuale, come notano Federico Chicchi ed Emanuele Leonardi a proposito del reddito di base13, anche una misura apparentemente rivoluzionaria può trasformarsi in «una regalia da parte di imprenditori straricchi in cambio della rinuncia al potere decisionale sui modelli di vita e di lavoro della società». O ancora, il diritto allo svago come un modo per ottenere la pace sociale. Panem et circenses. Per questo, l’adagio per cui un lavoratore riposato è anche più produttivo rischia di consolidare gli assetti piuttosto che sovvertirli. Il tempo è, e deve rimanere, un fine, non un mezzo. Infine, la portata politica della partita da giocare richiede non solo un riconoscimento della legittimità delle istanze di riduzione del tempo di lavoro, ma anche dei repertori d’azione messi in campo da chi le sostiene. Non è certamente questa la sede per ricostruire le profonde trasformazioni che le forme di mobilitazione hanno subito negli ultimi decenni, per affrontare il tema della crisi delle istituzioni della democrazia rappresentativa o tantomeno F. Chicchi, E. Leonardi, Manifesto per il reddito di base, Laterza, Roma-­ Bari, 2018, p. 21. 13

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per ricostruire gli effetti che i processi di individualizzazione o globalizzazione hanno avuto sulla partecipazione politica14. Quello che conta ricordare, però, è che il ben noto indebolimento del cleavage di classe, da un lato, e la frammentazione delle condizioni di lavoro, dall’altro, hanno profondamente alterato le premesse che sottendono alla costruzione di identità collettive nel, o a partire dal, lavoro. Anche a questo si deve l’abbassamento dei tassi di sindacalizzazione o di iscrizione ai partiti, che perdono centralità nell’essere riferimento di battaglie di questo tenore. Non si tratta certo di affermare la loro irrilevanza o la loro fine, quanto piuttosto la necessità di riconoscere il valore di forme di integrazione e ibridazione tra vecchi e nuovi repertori di azione e la loro dignità nel rappresentare le istanze. È questo, ad esempio, il caso del cosiddetto social movement unionism15, che integra le pratiche sindacali tradizionali con quelle dei movimenti, spostando il focus dalla sola contrattazione e mirando a includere quelle fasce più difficilmente integrabili nella rappresentanza. Partendo dalla complessità del processo di ri-politicizzazione descritto poco sopra, è necessario considerare come necessità la moltiplicazione delle forme di azione, e tenere conto delle trasformazioni di una partecipazione che si fa discontinua e frammentata, e segnata da un complesso incrocio di appartenenze multiple e più fluide. Per una sintetica ma efficace ricostruzione si rimanda al capitolo introduttivo del volume: L. Alteri, L. Raffini (a cura di), La nuova politica. Mobilitazioni, movimenti e conflitti in Italia, Edises, Napoli, 2014, da cui alcune delle considerazioni che seguono sono tratte e i cui autori ringrazio per il confronto. 15 Cfr. L. Caruso, Il ritorno del rimosso. Conflitti di lavoro nella crisi italiana, in L. Alteri, L. Raffini (a cura di), La nuova politica, cit., pp. 29-49. 14

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Utopia, futuro e unthinkable politics. O delle ricadute pratiche di un necessario esercizio di immaginazione Una trasformazione radicale, dunque, passa per un processo di ripoliticizzazione che si può ottenere solo criticando gli ordini normativi liberali di governance […] (che definiamo pensabili) e rivolgendo l’attenzione alle politiche ribelli, creative e insorgenti (definite impensabili) che forgiano nuovi futuri16.

Lo sforzo di immaginazione che questa prospettiva richiede non può non rimandare, in conclusione, allo storico e sconfinato dibattito sulle utopie. In un suo recente saggio, Manuela Ceretta individua ne La democrazia in America di Tocqueville, e in un emblematico capitolo sul perché le rivoluzioni diventeranno rare, i prodromi di una riflessione che rintraccia nella tendenza all’immobilismo politico e nella rinuncia all’immaginazione “in grande” la patologia distintiva delle società democratiche17.

Nell’affrontare il tema di una supposta affermazione del «principio di rassegnazione», l’autrice osserva però che: L’utopia, si sa, non è nuova a questi rovesci di fortuna, essa ciclicamente entra in crisi, viene messa sotto attacco, dichiarata moritura o estinta, inutile o pericolosa e poi risorge dalle 16 A. Crane, S. Elwood, V. Lawson, Re-Politicising Poverty: Relational Re-conceptualisations of Impoverishment, in Antipode, n. 52, 2020, pp. 339351; la citazione è a p. 339. 17 M. Ceretta, Al di là del principio rassegnazione. La riscoperta dell’utopia da parte delle scienze sociali, in Meridiana, n. 100, 2021, p. 121.

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proprie ceneri come l’Araba Fenice a testimonianza della sua resilienza18.

Nel pensare a un futuro con meno lavoro, il nodo del dibattito centrale ai fini del nostro ragionamento non riguarda però tanto la possibilità di (continuare a) immaginare scenari alternativi anche radicali, quanto piuttosto le possibili ricadute pratiche di questo esercizio, troppo spesso oscurate da un utilizzo di uso comune del termine utopia, che assume proprio il valore di sogno irraggiungibile. Al contrario, l’utopia non ha che fare con l’irrealizzabile, quanto piuttosto, con l’intangibile o il non ancora realizzato. Qualcosa che non c’è, ma che non è destinato, o addirittura condannato, a non esserci per definizione. Nel suo trentennale lavoro sul reddito di base universale, per l’appunto una misura che a conti fatti praticamente non esiste, Van Parijs ha affrontato più volte questo nodo, giungendo a due conclusioni interessanti sul rapporto tra la dimensione astratta e quella concreta. In primo luogo, un pensiero utopico non solo permette di individuare mete e obiettivi, ma se sviluppato nel modo corretto costringe a elaborare strategie per raggiungerli. In questo passaggio, in prima battuta, si gioca il rapporto tra tangibile e intangibile. A un secondo livello, poi, la definizione di strategie comporta necessariamente l’elaborazione di «risposte a molte domande fattuali»19, che implicano l’osservazione del mondo com’è, e non di come vorremmo che fosse. Le varie dimensioni su cui è stato declinato Ivi, p. 127. Su tutti, si veda: P. Van Parijs, The Universal Basic Income. Why Utopian Thinking Matters, and How Sociologists Can Contribute to It, in Politics & Society, n. 41, 2013, pp. 171-182, la citazione è a p. 173.

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l’obiettivo di lavorare meno vogliono, in fondo, rappresentare questo esercizio di messa a terra di un progetto che è solo apparentemente astratto. Se le profezie di inizio volume possono apparire lontane da un piano di realtà, la regolazione dell’orario e dei salari, la limitazione della flessibilità del lavoro, le misure di redistribuzione dalle più semplici alle più radicali sono invece assolutamente tangibili e decisamente più a portata di mano. Così inteso, questo esercizio di immaginazione è quanto di più distante a un genere letterario, ma chiama piuttosto in causa anche le scienze sociali nel cuore del loro campo di competenza, senza in alcun modo implicare una pratica inutile, distorta o non oggettiva della disciplina. Proprio per questo Van Parijs, con una fortunata formulazione di assoluto impatto, sottolinea come: il pensiero utopico non è solo un hobby un po’ imbarazzante, praticato da una manciata di membri marginali della professione, ma può rivendicare di essere una dimensione centrale del lavoro di ogni sociologo rispettabile20.

Un simile approccio vale tanto nell’esercizio dell’attività scientifica quanto nel rapporto con i soggetti in carico di pensare e formulare le politiche, come è noto nell’ampio dibattito sui rapporti tra scienza e politica, dove studiosi come Roger Pielke21 hanno denunciato da tempo la necessità «disperata» di ampliare il ventaglio delle opzioni politiche, più che di fungere da meri suggeritori di strumenti entro obiettivi ristretti. Anche le scienze sociali pos-

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Ivi, p. 172. R.A. Pielke Jr, The Honest Broker. Making Sense of Science in Policy and Politics, Cambridge University Press, Cambridge, 2007, p. 141. 20 21

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sono dunque offrire il loro contributo a quel processo di allargamento dello spazio discorsivo che, come si diceva poc’anzi, necessita di argomenti, canali e repertori diversi e complementari. Ciò per far fronte all’impasse che denunciava quasi trent’anni fa Jacques Rancière, notando come la politica istituzionale avesse ormai rinunciato «alla sua lunga complicità con le idee di tempi futuri e di altri luoghi», abbandonando «il viaggio verso le isole dell’utopia [...] e abbracciando le onde, nel movimento naturale e pacifico della crescita»22. Le profezie del passato su una società senza lavoro o quasi non si sono avverate, e la fotografia del presente ritrae un mondo molto diverso da quello che queste prefiguravano. Ma forse è presto per dismetterle come sguardi miopi di un mondo passato. Quei sogni non si sono realizzati, ma molte delle trasformazioni e delle innovazioni che li avevano alimentati sono reali, attuali e tangibili. Continuare a studiarle, coltivando l’immaginazione, è un modo per credere che, nonostante tutto, siamo ancora in tempo.

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J. Rancière, On the Shores of Politics, Verso, London, 1995, pp. 5-6.

Stampato per conto delle Edizioni Gruppo Abele presso LegoDigit srl - Lavis (TN) aprile 2023