L’acino fuggente : sulle strade del vino tra Monferrato, Langhe e Roero [6 ed.] 9788858108598, 8858108590

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L’acino fuggente : sulle strade del vino tra Monferrato, Langhe e Roero [6 ed.]
 9788858108598, 8858108590

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L’acino fuggente Sulle strade del vino tra Monferrato, Langhe e Roero

Editori Laterza

© 2013, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione settembre 2013

Edizione 1

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Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018 Le cartine sono state realizzate da Enrico Remmert

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0859-8

Partirono verso le somme colline (...) sentendo com’è grande un uomo quand’è nella sua normale dimensione. Beppe Fenoglio Bèive, mangé e litighé: tut a stà ancaminé. Proverbio piemontese E di qua, di là, eccetera. R&R

Indice

Premessa (Confini ripieni)

3

Roero 7 Le strategie oblique di Brian Eno, p. 9 - Bra, p. 10 - A Bra cada Bra, p. 12 - Le Rocche di Pocapaglia, p. 15 - Micilina, Calvino e il Bric Milleocchi, p. 17 - Malamassa, p. 20 - Teoria dei liquidi, p. 21 - Teoria delle Termopili, p. 23 - I vini del Roero, p. 24 - Teoria dei colori, p. 25 - La pera e la Piera, p. 26 - Priocca, Govone e Magliano Alfieri, p. 28 - La questua delle uova, p. 30 - Marcondirondirondello, p. 32 - Inciso, p. 34 - La terza via della tinca, p. 35

Langhe 39 La terra di mezzo, p. 41 - Delle betulle, della primavera e dell’ingresso in Langa, p. 42 - Adozioni e terapie, con una puntatina in zona Cesare Pavese, p. 43 - Sweet Home Bassa Langa (intermezzo con indovinello musicale), p. 45 - Mango (tre castelli e un barile di acciughe), p. 46 - Breve ricetta in versi ottonari della bagna caùda, p. 47 - Fine dei versi e una domanda: ma il castello superstite di Mango com’è?, p. 48 - Mango: dai gioiellini ai partigiani, p. 49 - Un borgo birichino, p. 50 - La Donna Selvatica e il grappaiol’angelico, p. 51 - Bababa-ba-barbaresco, p. 55 - Treiso, p. 56 - Las Vegas, Stati Uniti di Langa, p. 58 - I sogni nascono all’Alba, p. 61 - Alba: vini e ciuchini, p. 64 - Cherasco: architettura, baci, lumache, e di qua, di là, eccetera, p. 65 - L’Università dei cani da tartufo, p. 69 - Barolo, p. 71 - Tutto è legato a grappolo, p. 71 - Il miglior Barolo, p. 74 - Un acino di qua, un acino di là, p. 75 - Jay-Z in Langa, p. 78 - Dogliani: vindimiar qualche dozzetti, p. 79 - Com’è bello il Belvedere (specie se poi si va vii

a bere), p. 81 - La Sindrome di Venere ovvero il Santo Filare, p. 82 - Murazzano, p. 85 - Paroldo e la Regola della Cima, p. 86 - Tonda e Gentile (Monesiglio, Cortemilia, Bergolo, Borgomale, e di qua, di là, eccetera), p. 88 - Verrà la morte e avrà i tuoi mosti, p. 90 - La supercazzola della Langa, p. 90

Monferrato 93 Partiamo dall’alto, cioè da sud, p. 95 - “Enumera”, disse la carta, p. 96 - Paesi suoi, p. 97 - Canelli: cantine, bollicine & scrittori maltesi, p. 98 - Mombaruzzo, p. 99 - Castelnuovo Belbo, p. 99 - Nizza Monferrato, p. 99 - Av-vinchiati a un asparago antico, p. 102 - Educazione siberiana a Mombercelli, p. 103 - Dall’Emilio di Rousseau all’Emilio de noantri (Rocchetta Tanaro e il Parco Naturale), p. 103 - Il conte Nuvolone e la bacca nera del Piemonte, p. 105 - Andiamo a stappare i campi di battaglia (Refrancore Bound), p. 107 - Breve ma densa storia del Ruché, p. 110 - Refrancore, p. 111 - Torto a torta a Montemagno, p. 112 - Grana e Moncalvo, p. 113 Alfiano Natta e il castello di Razzano, p. 113 - La Regola della Cima versus i gioielli dell’interrato, p. 114 - Maria di Villadeati (finalmente si mangia e si beve), p. 116 - La bagna caùda coi due Carli, p. 116 - In Val Rilate, p. 118 - Soglio o son desto?, p. 119 - La legge delle tre f (feste, farina e fantasmi), p. 121

Sconclusioni 125 Indice dei luoghi

127

L’acino fuggente

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Biella

LOMBARDIA

Novara Vercelli

Torino Asti

Alessandria Bra

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MONFERRATO ASTIGIANO LANGHE

Piemonte visto dall’alto (ma rimpicciolito sennò non ci stava tutto, e con evidenziate a pois, crocette e righe le zone dell’acino fuggente, di cui il lettore avrà tosto conoscenza, e di qua, di là, eccetera)

Premessa (Confini ripieni)

Roero, Langhe, Monferrato. Sono i nomi dei territori in cui intendiamo farvi perdere: nomi storici per territori storici, con confini a volte precisi a volte più sfumati, frutto di discussioni infinite, sberleffi campanilisti e musi lunghi, risollevati solo da un buon bicchiere (meglio se di provenienza neutrale). Proviamo a fare un po’ di chiarezza. Il Monferrato è un territorio estesissimo: Cortazzone, mezz’ora a est da Torino, è in Monferrato. Così come Villanova Monferrato, che molto più a nord sfiora le risaie vercellesi. E se andiamo a sud, troviamo Tagliolo Monferrato, attaccato a Ovada, a ridosso dell’Appennino Ligure. E non finisce qui. Secondo la cartografia più accreditata esistono quattro Monferrati: a nord-ovest di Asti troviamo il Basso Monferrato Astigiano mentre a sud-est l’Alto Monferrato Astigiano (questi due territori, spesso accorpati nella definizione unica di Monferrato Astigiano, sono quelli di cui ci occuperemo in questo libro). Esiste poi il Basso Monferrato Casalese, che si estende fino a Valenza, verso la Lombardia. E a sud, infine, abbiamo l’Alto Monferrato, che comprende comuni come Acqui Terme, Ovada e Gavi, e lambisce il confine regionale ligure. Vi gira la testa? Non preoccupatevi, il 3

più è fatto. Inoltre, se avrete pazienza, tra poco imparerete un metodo infallibile per orientarvi e scoprirete come una forchetta può sostituire una bussola. I confini di Langhe e Roero sono molto più semplici: lo spartiacque, in tutti i sensi, è il fiume Tanaro. Alla sua sinistra troviamo il Roero, alla destra le Langhe. Queste, a loro volta, sono divise in due: la Bassa Langa, tra il Tanaro e il Belbo, comprende nomi quali Alba, Barolo, Barbaresco, Dogliani e ci siamo capiti; l’Alta Langa invece va dal Belbo fino al confine con la Liguria. Secondo alcuni, va detto, esiste poi una terza Langa a sud di Asti, definita appunto Langa Astigiana, che racchiude comuni che alcuni incorporano nell’Alto Monferrato Astigiano, altri in Bassa Langa e altri ancora nel Monferrato Acquese. Morale. Alcuni confini sono facili: se siete in Langa e attraversate il Tanaro finite dritti in Roero. Ma, più a nord, al confluire di Langa, Monferrato Astigiano e Alto Monferrato Acquese, cominciano i problemi. Ad esempio: Canelli si trova in Langa o in Monferrato? Secondo la mappa sul dépliant dell’Ente Turismo Alba Bra Langhe Roero, Canelli non fa parte delle Langhe. Secondo la mappa di Wikipedia, invece, Canelli è in Langa. Secondo il sito del Comune di Canelli, infine, la città fa salomonicamente parte della Comunità delle Colline tra Langa e Monferrato. Insomma, per orientarsi da queste parti ci vorrebbe un cartografo di grande esperienza. E invece basta un cuoco. Sì, perché se siete in queste zone e volete stabilire con sicurezza il confine tra Langa e Monferrato, vi basta entrare in una trattoria e ordinare un piatto di agnolotti. Se vi servono i classici agnolotti quadrati, siete in Monferrato. Se invece in tavola arrivano gli agnolotti del plin – fagottini ripieni grandi la metà di un agnolotto classico e caratterizzati dal pizzicot4

to nel mezzo, il plin per l’appunto, che conferisce loro una forma arricciata – siete in Langa. Perciò, da ora in poi, non vi parleremo più di confini. Come promesso, gettiamo via la bussola e ci armiamo di forchetta.

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Roero (visto da molto in alto)

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Le strategie oblique di Brian Eno Che cosa sono le strategie oblique di Brian Eno? E, soprattutto, cosa c’entrano con il Roero (e con le Langhe e il Monferrato, come presto vedrete)? Brian Peter George St. John le Baptiste de la Salle Eno, elegante signore britannico classe 1948, oltre a essere stato il cofondatore dei Roxy Music, oltre ad avere prodotto la musica più intelligente degli anni Settanta e quella più roboante degli anni Ottanta, oltre a essere riconosciuto universalmente come uno stratega sonoro, è soprattutto un guru dell’organizzazione del caso e della casualità. Aspetto, quest’ultimo, che interessa da vicino la filosofia itinerante del volume che avete tra le mani. E come ha fatto a dare delle regole a ciò che per definizione non ne ha? Disegnando, insieme all’artista Peter Schmidt, un mazzo di 124 carte o, per meglio dire, di 124 indicazioni (in Italia erano pubblicate all’interno del libro Strategie oblique, Gammalibri 1983, ora fuori catalogo). Si tratta di brevi frasi concepite per sbloccare una situazione di stallo creativo dalle eteree o, se volete, espressionistiche caratteristiche. Insomma, un po’ Musée d’Orsay, un po’ I-Ching al netto delle interpretazioni junghiane e un po’ indovinelli zen. 9

Queste frasi contengono a volte la composizione degli opposti, altre la sovrapposizione dell’intelletto all’intuizione (o viceversa) e altre ancora degli scartamenti di (buon)senso che, a seguirli, si sa da dove si parte ma si ignora dove si arriva. Abbiamo deciso di consultarle con una certa assiduità ogniqualvolta ci siamo trovati a dover scegliere (e perciò prendere una strada e abbandonarne un’altra) gli itinerari di questo volume, e il risultato state per scoprirlo. Buono smarrimento, dunque. O, come direbbe Mr Eno, carta numero 119, “Vai fino a un estremo, ritorna verso una maggiore comodità”. Bra Sponda sinistra del Tanaro. Va in scena il Roero. Un fratello che non ha nulla da invidiare ai dirimpettai delle Langhe: paesaggi struggenti, tappeti di vigne, frutteti, boschi, borghi medievali, aneliti romantici, vita semplice e vera legata ai ritmi della natura e, dietro ogni curva, la porta spalancata di un oste sincero o di un cantiniere da grandi vini e piatti schietti, che sono come i capitoli di un racconto, una trama di storie dove perdersi è ritrovarsi. Una terra di tradizioni tenaci, di campanilismi e sudori, in cui l’enogastronomia ha funzionato da scintilla per innescare la miccia di un turismo ruspante, vicino ai ritmi della natura, che sta a un carpaccio di rotonda di vitello come i giapponesi che fotografano il Colosseo stanno a un arancino unto e sfatto. Scendendo da Torino in autostrada decidiamo di uscire a Carmagnola, perché la carta della nostra strategia obliqua, la numero 23, dice: “Metti in ordine”. Lo scopo è dunque quello di entrare in Roero da nord, verso Ceresole d’Alba, e 10

poi aprirci a delta come l’esplosione di un nervo terminale, dove ogni filamento diventerà una strada. Distratti dal casello d’ingresso della Torino-Savona, a Carmagnola ovviamente ci dimentichiamo di uscire e andiamo lunghi fino a Marene. A questo punto è di nuovo l’ora di un’indicazione obliqua. Siamo serviti con una nuova carta, la numero 77: “Scegli qualcosa di breve”. Detto, fatto: Bra. Il nome deriva dal termine longobardo brayda, che significa masseria, e molti lo associano alla sede internazionale di Slow Food, mentre per noi significa: salsiccia cruda, formaggio dop, pasticcerie storiche, vini, grandi cucine, e di qua, di là, eccetera. Salutiamo il genius loci del Macabre, storico locale scomparso ma per anni simbolo della vitalità di questa cittadina, e ci inoculiamo nella capitale mondiale del gusto come l’ago di un termometro da carne affonda nella commovente tenerezza di una Granda. Bra, la mecca dei buongustai, dove in occasione di Cheese, il famoso mercato internazionale settembrino dei formaggi, convergono stagionatori selezionati, ghiottoni professionisti, e curiosi affamati per degustare prelibatezze reperibili unicamente qui, nella più grande manifestazione mondiale dedicata ai derivati del latte. Cheese è una delle tante iniziative di Slow Food, l’associazione internazionale no profit fondata nel 1986 da Carlin Petrini proprio qui a Bra. Oggi conta centomila iscritti tra volontari e sostenitori in centocinquanta paesi, interessati a promuovere piacere, cultura e identità del cibo, oltre che uno stile di vita rispettoso dei territori e delle tradizioni locali. Il tutto al motto “buono, pulito e giusto”. La sede di Slow Food è in via della Mendicità Istruita, proprio nel cuore di Bra, tra gioielli del barocco piemontese e rococò. Le chiese da segnalare sono tante (Santa Maria degli Angeli, Santa Chiara, la Chiesa dei Battuti Bianchi o 11

Chiesa della Confraternita della Santissima Trinità, Santa Croce e di qua, di là, eccetera), ma anche gli edifici civili (il Teatro Civico Boglione, Palazzo Traversa, Palazzo Mathis, Palazzo Comunale, Palazzo Garrone e di qua, di là, eccetera). Tra questi ultimi va ricordato l’edificio simbolo della città, la Zizzola, che domina dall’alto della collina di Monte Guglielmo. È un edificio a pianta ottagonale, nel cui parco si organizzano eventi culturali, eventi tout court, eventi di qua, di là, eccetera. Prodigiosa è la faccenda del santuario della Madonna dei Fiori, costruito a ricordo del miracolo del 1336, quando la Madonna apparve a una giovane che fuggiva inseguita da due soldati. L’apparizione fu accompagnata dalla fioritura straordinaria di quello che ancora oggi si chiama prunus braydensis e fiorisce in pieno inverno. A Bra ci sono musei e tante altre cose che potete trovare nelle guide turistiche tradizionali. A noi preme invece segnalare la parte godereccia. A Bra cada Bra Tanti luoghi danno il loro nome a una specialità alimentare: Roccaverano per la robiola, Colonnata per il lardo, San Daniele per il prosciutto, e di qua, di là, eccetera. Bra raddoppia: il toponimo viene infatti utilizzato sia per indicare un formaggio, il pregiato Bra dop, sia per indicare una salsiccia, tra le più singolari della tradizione piemontese. Un tempo la salsiccia di Bra (o “Salciccia di Bra”) veniva preparata solo con carne bovina, poiché nella vicina Cherasco esisteva un’importante comunità ebraica che esigeva dal mercato braidese insaccati senza carne suina. Questa tradizione venne ufficializzata dai Savoia, che autorizzarono i ma12

cellai di Bra a utilizzare carne bovina nella preparazione della salsiccia fresca, proibendone invece l’uso in tutto il resto del territorio italiano. Il prodotto, non avendo bisogno di stagionatura, viene consumato fresco tutto l’anno ed è una classica componente dell’antipasto cuneese. Se vi sembra troppo leggera potete anche cuocerla alla griglia e abbinarla a una peperonata. Il formaggio Bra, invece, è una toma stagionata ed esiste in due varianti: il generico (tenero o duro) e quello d’alpeggio, prodotto solo d’estate nei comuni montani del Cuneese. Una terza variante l’ha inventata Fiorenzo Giolito, un importante affinatore braidese, che nel 1997 ha ideato il Braciuk (cioè Bra ubriaco) stagionando il formaggio nelle vinacce di Barbera, Nebbiolo e Pelaverga. Se volete abbinare la teoria alla pratica, come ristoranti consigliamo innanzitutto l’Osteria del Boccondivino, la cui vicenda s’intreccia indissolubilmente a quella di Slow Food e le cui specialità sono ovviamente la salsiccia e il formaggio, la cruda battuta al coltello, ma anche il coniglio all’Arneis, l’immancabile uovo al tartufo, e di qua, di là, eccetera. La carta dei vini è enciclopedica e difficilmente non troverete ciò che cercate. Non perdete poi il bollito al Battaglino, la gastronomia dello Zenzero, un gelato al Chiosco, un pasticcino allo storico Converso (una deliziosa bomboniera foderata di boiseries), un aperitivo da Alessandro Monchiero, all’antico Caffè Boglione, aperto nel 1947 da una famiglia di produttori di vino e ancora oggi centro della movida braidese, o una bignola al Caffè Arpino, fondato dal grande cuoco Carlo Arpino, fratello dello scrittore Giovanni. Tutto questo, naturalmente, non l’abbiamo provato in un giorno, ma nelle tante volte in cui siamo venuti qui, in occasione di Cheese, di Corto in Bra (rassegna internazionale 13

di cortometraggi) o delle numerose visite agli amici di Slow Food. Ma torniamo ad Arpino, lo scrittore, al quale Bra, città della sua giovinezza, ha dedicato un centro culturale e un premio letterario. Nel suo romanzo L’ombra delle colline, che vinse lo Strega nel 1964, dà conto di cosa significhi pranzare da queste parti in certe occasioni. A metà della vicenda il bambino Stefano e l’amico di scorribande Francesco osservano con un pizzico d’invidia un pranzo estivo di soli uomini. Venti commensali danno fondo a un pasto rabelaisiano: «una fila continua di nere bottiglie correva da un capo all’altro dell’ininterrotta tovaglia». La salsiccia di Bra cruda viene «mangiata a metri», e poi vitello tonnato, ravioli al Barolo e al sugo, risotto con i passeri e bollito di polenta, che è l’occasione per ricordare un mitologico pranzo da quattordici portate condite nei modi più svariati: «con l’aglio e l’acciuga, al verde, al burro e formaggio, col merluzzo, coi funghi, con la fonduta, fritta o arrostita con l’uovo sopra, e poi non so più come, ma c’è chi arriva fino a polenta e gorgonzola e chi invece finisce a polenta e latte». Ma il finale da premio Strega è il dessert, quando il pasticcere Berzia serve in tavola venti vasi da notte in cui riposano serpenti di cioccolato in brodo di Moscato. Il disgusto dura appena un attimo, poi parla Pantagruele. Con Arpino nelle orecchie e nello stomaco, lasciamo Bra e scendiamo verso il Tanaro, a Pollenzo, l’antica Pollentia già citata da Plinio, risalente al II secolo d.C. e nota per la produzione di ceramiche e lane. La città è un esempio di rimodellamento curato nella prima metà dell’Ottocento da Carlo Alberto di Savoia, sulle memorie dell’insediamento romano. Gli architetti Ernest Melano e Pelagio Palagi costruirono qui esattamente ciò che il sovrano chiedeva: un borgo senza tem14

po, dove dimenticare gli affanni del governo e dedicarsi agli amori sentimentali, alle ricerche agricole e alle sperimentazioni enologiche. Le ex tenute reali sono oggi sede dell’Università di Scienze Gastronomiche e della Banca Mondiale del Vino, centri per quella formazione internazionale al gusto che costituisce il punto di arrivo di anni di impegno di Slow Food. L’Università, la prima nel suo genere, è organizzata come un campus universitario, dove le lezioni sono in inglese e studenti provenienti da tutto il mondo imparano la cultura del cibo e del vino. La Banca del Vino, l’unica banca che amiamo, è un Fort Knox dell’ubriacatura: riempie le sue cantine ottocentesche con oltre centomila bottiglie appartenenti a trecento delle migliori aziende vitivinicole nazionali. Questo tesoro, come in ogni banca che si rispetti, può essere prelevato attraverso degustazioni, verticali, laboratori e semplici bancomat (di sughero?). A questo punto dobbiamo staccare per intercorsa vertigine. Fermiamo la macchina e ci inoltriamo nel bosco, verso il fiume, dove affiora la sorprendente Spiaggia dei Cristalli, costituita da gesso risalente al Messiniano, depositato a causa del prosciugamento del Mediterraneo, oltre cinque milioni di anni fa. Il Roero, infatti, è un territorio che ha un’affascinante storia geologica. Sui sentieri intorno a Montà è possibile cercare tra le stratificazioni a vista tracce fossili di organismi che si sono sedimentati nell’antico fondale marino, risalente a tre milioni di anni fa (Pliocene), mentre le celebri Rocche di Pocapaglia meritano di essere trattate a parte. Le Rocche di Pocapaglia Le Rocche di Pocapaglia sono uno dei più impressionanti risultati dei fenomeni geologici che hanno dato origine al 15

paesaggio roerino. Le Rocche, una serie di canyon profondi e scoscesi, sono l’effetto di una grandiosa erosione in cui il Tanaro incise con forre e calanchi i materiali depositati milioni di anni fa, quando questi territori erano sommersi dalle acque. Le Rocche tagliano il Roero in diagonale da Bra a Cisterna d’Asti per dodici chilometri: tra prati intatti e boschi di castagni si aprono profondissimi burroni dov’è possibile leggere gli strati delle diverse ere geologiche segnati dalla sedimentazione dei fossili di conchiglie marine e pesci primordiali. Salendo da Pocapaglia a Saliceto ci fermiamo davanti al sentiero della masca Micilina, una strega di cui vi parleremo a breve. Sì, perché di fianco alle spiegazioni scientifiche, ne esistono altre molto più affascinanti su come questi luoghi si siano formati. La più nota ce la fornisce la scrittrice Gina Lagorio, anche lei nata a Bra, che nel romanzo Tra le mura stellate racconta la leggenda popolare: Belzebù alzò verso il cielo un cesto tanto grande che avrebbe potuto contenere un castello; con quello brandito come un’arma attraversò il piano alla sinistra della Stura e si avviò verso la collina di Pocapaglia. Là una vanga pesante e lunga come nessuno ne aveva mai immaginato fiorì nelle sue mani, il diavolo l’affondava nella terra e ne traeva palate gigantesche che depositava nella cesta. La riempì e ripassò il fiume: là giunto la rovesciò fra Tanaro e Stura. Tutta la notte durò il viavai del demonio in quella parte del mondo; la terra tremava sotto il suo piede biforcuto, mentre poco a poco ne cresceva il livello tra i due fiumi, finché al primo baluginare dell’alba il promontorio fu finito, e diavolo vanga e cesta dileguarono nell’ultimo buio della notte che moriva. Di quella notte una sola testimonianza: le rocche profonde di Pocapaglia scavate dalla forza sovrumana del demonio.

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Comunque sia andata, la metamorfosi del paesaggio fu un’opera d’arte: in una sola notte il diavolo aveva creato un mondo fantastico alla sinistra del Tanaro. Tutto era diventato un eclettico mosaico: strapiombi improvvisi, macchie di boscaglia, pendii vertiginosi, forre, calanchi, antri e caverne, cucuzzoli coltivati a frutteto e pareti rocciose. Sembrava la casa ideale per folletti, animali fantastici e masche. Abbiamo detto masche? Adesso ci arriviamo. Micilina, Calvino e il Bric Milleocchi Intanto siamo all’ingresso del sentiero e un cartello bianco avvisa: «Attenzione, questa è una zona di sensazioni forti. Sgranate gli occhi. Sentitela. Odoratela. Toccatela. Rispettatela, e non lasciate tracce. Come se qui non fosse mai passato nessuno». In realtà qui, secondo la tradizione, oltre al diavolo, sono passati in parecchi. Si racconta soprattutto la leggenda della masca Micilina. Nell’immaginario popolare le masche erano tetre figure di streghe, che avevano venduto l’anima al diavolo in cambio di infernali poteri, come ad esempio la capacità di assumere le più strane sembianze e compiere fatture malvagie anche con il semplice sguardo. La storia della masca Micilina lasciamola raccontare a lei stessa, come la immagina Donato Bosca in Cento storie di masche tra finzione e realtà (Gribaudo Editore): Quello che hanno scritto su di me risponde a verità. Sono nativa di Barolo e mi hanno battezzata Michelina. Quel Sebastiano di Pocapaglia, che Dio l’abbia in gloria, è venuto a maritarmi che io non avevo ancora diciotto anni. Solo che non aveva cognizione; di giorno mi faceva filare come se io fossi stata di ferro, sempre ad usarmi in campagna nei lavori pesanti, e di notte mi voleva ac-

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condiscendente a soddisfare tutte le sue perversioni, quel brutto animale. Ero spaesata, malinconica, spaventata quando era l’ora di andare a letto e le botte del marito non mi aiutavano certo a rinsavire. Lui, detto con licenza parlando, aveva la faccia come il sedere, faceva il prepotente e mi maltrattava tutta la settimana, poi alla domenica andava a messa e sussurrava all’orecchio degli amici che io ero un po’ masca e che mi aveva sorpreso con dei libri in mano. La verità vera è che i libri mi incantavano, specie quelli con delle figure ed avrei dato dieci anni della mia vita per essere capace di leggere. Invece non potevo permettermi neppure questo sfogo innocente, intristivo, mi chiudevo in me stessa. Il giorno che ho cercato un rapporto umano e che ero vogliosa di un gesto affettuoso, la ragazzina cui mi ero rivolta con una semplice carezza si ammalò improvvisamente e raccontò a casa di essere stata toccata da Micilina. Un’altra volta mi è successo di passare davanti ad una porta aperta e di sentire i pianti di un neonato. Non ho saputo resistere e sono entrata per vedere se aveva bisogno di aiuto. La mamma era uscita perché il bambino era in preda alle convulsioni, ma poi mi vide vicina alla culla e pensò bene di far ricadere su di me la colpa della malattia del figlio.

E ancora: Le chiacchiere crescevano come un torrente in piena che scende a valle impetuoso. E il giorno per me benedetto che finalmente avevo motivo di sentirmi un po’ risollevata nello spirito, quando mio marito buon’anima cadde dal ciliegio rompendosi l’osso del collo, si coalizzarono tutti per incriminarmi e farmi processare come la più incallita delle masche. Chiamarono il tribunale dell’Inquisizione oltre che il giudice civile e quella era gente che non faceva tanti chilometri per cavare un ragno dal buco. L’ho capito scrutandoli negli occhi ed ho pensato che l’unica cosa era abbreviare il supplizio, confessando quello che loro erano convinti io avessi commesso. Così mi presi anche la colpa del cattivo raccolto, delle grandinate,

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delle disgrazie accadute negli ultimi cinquant’anni. Non potevo fargli un regalo migliore. Mi condannarono “ad essere bruciata viva su una rocca a nord di Pocapaglia, accompagnata da un lungo corteo di confratelli della Misericordia, col parroco e il seguito di tutti i paesani dei dintorni”. Dell’avvenuto rogo potete osservare ancora oggi le tracce sul cosiddetto “bric d’la masca Micilina”, un poggio sopraelevato che si nota anche a distanza proprio per le macchie rossastre di sangue che lo segnano. Solo che quel sangue non era il mio, bensì del gattaccio nero che all’ultimo momento sono riuscita a chiamare al mio posto, approfittando di una folata di nebbia che aveva avviluppato tutt’intorno il falò.

La leggenda della masca Micilina è raccontata da tanti: Euclide Milano, Edoardo Mosca e anche da Italo Calvino nelle Fiabe italiane (La barba del Conte). Il finale più interessante è quello di Euclide Milano (Nel regno della fantasia. Leggende della provincia di Cuneo, Fratelli Bocca Editori, Torino 1931): Giustizia era fatta. E la moltitudine che aveva assistito al supplizio si disperse soddisfatta, sperando che ora il paese fosse purificato. Ma s’ingannava. Se Micilina era morta, – e non ne era morta che la parte corporea – restavano, ahimè, le sue men note, ma pur evidenti compagne. Evidenti nel fatto che dopo il supplizio si ebbero stranissime apparizioni. Furono viste chiocce disperse con miriadi di pulcini, i quali, invece del solito pigolio, emettevano uno stridore simile a quello della lima del fabbro, e scomparivano appena osservate con attenzione; fu visto un ragno colossale con gambe cortissime, che camminava come un parapioggia aperto radendo la terra, e appena scorto grugniva come un maiale fuggendo a rintanarsi tra le rocce; si videro branchi di montoni dalle corna smisurate e con setole irte sulla schiena, che lanciavano sibili come le serpi... Cos’erano tutti quei mostri? Non altro che le streghe com-

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pagne di Micilina; le quali andavano in cerca di lei o volevano vendicarla. E chissà che tutt’oggi non ve ne siano ancora, nascoste fra i cespugli o nell’imo degli abissi, in vicinanza di quell’erto poggio che porta sempre il nome di “bric d’la masca Micilina”. E quando la notte incombe su quei dirupi, e il cielo è fosco di nembi o livido di lampi, Micilina e le sue compagne vi si riuniscono forse ancora su qualche spiazzo fra i boschi e vi fanno la loro ridda selvaggia, saltando, correndo, gesticolando, gettando fischi ed urli assordanti, volando a cavallo di scope, irti i capelli, truci gli occhi, aguzzi i denti delle bocche orribili, lunghe le lingue forcute, squamosa la pelle, unghiute le mani e i piedi. Alla larga!

Ma noi ormai siamo qui e proseguiamo lungo il sentiero, reso fangoso da una recente nevicata, e costellato di rovi spinosi e dalle decine di leggende locali. Del resto un luogo così selvaggio, vertiginoso e inquietante non poteva che accendere l’immaginario popolare e diventare scenario d’elezione per storie di mostri, fattucchiere, briganti ed eremiti. Del misterioso Bric Mileui (“Milleocchi”) non osiamo neanche parlare, né del terribile brigante Delpero e neppure dell’eremita che vivrebbe tuttora in queste zone. Ma la storia di Giacu Furfè vogliamo raccontarvela, perché questo – l’abbiamo detto – è un libro di storie. Malamassa È sempre Euclide Milano a raccontare: Nella singolare storia di Giacu Furfè, originario di Corneliano, questo sito – la Rocca dell’Eremita – è considerato il teatro dei “Sabba delle Masche”, dove si teneva il falò del terzo plenilunio. L’uomo voleva espiare i suoi peccati, diventando aderente della Confraternita dei Batù e, secondo i consigli del Santo Eremita della

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grotta di Lemonte, doveva trascorrere quaranta giorni e quaranta notti di digiuno, sul sagrato della chiesa vecchia di Corneliano, aven­do cura di scavare un solco, riempito poi di acqua benedetta, per tenere lontana la masca Malamassa. Prima di iniziare la lunga penitenza Giacu Furfè decise però di partecipare almeno una volta alla festa delle masche sulle Rocche di Pocapaglia. Ballò tutta la notte la manfrina con la masca Malamassa, la più giovane di tutte, anche se aveva cento anni, più cento passati sotto le radici della quercia grande ed altri cento passati sotto il porcile del Castellano. Allo spuntar dell’alba la masca suggerì a Giacu Furfè di portarsi il vino bianco al posto dell’acqua per il periodo del digiuno, così il tempo sarebbe passato più velocemente; promise altresì di riempirgli il barilotto tutte le notti, a patto che non riempisse il solco con l’acqua benedetta come indicato dall’Eremita. Giacu Furfè seguì i consigli e trascorse cantando in allegria la quarantena, ma al termine della prova, salì, come previsto, in cima al campanile per impetrare il perdono, ma, ubriaco fradicio, cadde a testa in giù.

Secondo la tradizione sono ancora Micilina e Malamassa a guidare i balli del Gran Sabba della notte di San Giovanni, e quella notte la rugiada è miracolosa e la camomilla raccolta è terapeutica. In quella data, per esorcizzare la paura, a Pocapaglia si organizzano i falò contadini e ha luogo la rappresentazione del processo e del rogo di Micilina. In questa atmosfera d’antan, tra bagliori di fuochi, musiche e canti popolari, si beve il vino dei produttori di Pocapaglia. Perché il vino – fatta l’eccezione di Giacu Furfè – aiuta a sconfiggere le streghe. Tutte quante. Teoria dei liquidi Da Pocapaglia andiamo verso Canale. Sorpassiamo Piobesi d’Alba e rendiamo omaggio all’antica Distilleria Sibona, dove 21

si producono finissime grappe monovitigno (Nebbiolo, Barbera, Dolcetto, Moscato, Chardonnay, Arneis e Brachetto, e di qua, di là, eccetera) tra cui la pregiata riserva Tuttogrado Campione di Barile. Deviamo verso Vezza d’Alba, sulla cui piazza va segnalato il ristorante Östu d’la malora, uno dei luoghi d’eccellenza per Nebbiolo, Arneis e Favorita. Da Vezza parte anche un percorso panoramico che attraversa le più nascoste località di questi territori e arriva a Camerana, in Alta Langa. Si compone di undici tappe segnalate da pannelli didattici a tema, ovvero “alberi parlanti” che raccontano gli aspetti letterari, storici e artistici delle zone toccate (per esempio: “Uomo e terra di Langa”, “Tartufi e sapori”, “Il teatro delle colline”). Questo itinerario, denominato Strada romantica delle Langhe e del Roero, si sviluppa per oltre cento chilometri su strade secondarie e tortuose adatte soprattutto ai viaggiatori in motocicletta o agli automobilisti che non patiscono i saliscendi. Tra Vezza d’Alba e Canale ci imbattiamo in tre enormi insegne che segnalano il microcosmo dello Spritz: gli stabilimenti Barbero 1891 (prima insegna), già proprietari di Aperol (seconda insegna) e successivamente acquisiti dal gruppo Campari (terza insegna). Proprio così: l’aperitivo simbolo delle Tre Venezie, anche noto come Spriss, Spriz o, talvolta, Sprisseto, che è oggi uno dei fenomeni alcolici italiani più diffusi, trova in questi luoghi due delle sue varianti fondamentali. Il cocktail ha infatti mille ricette, ma gli ingredienti base sono sempre gli stessi: 40% di vino bianco e 30% di acqua gasata, meglio se gasatissima. E il restante 30%? È affidato alla creatività del barista, ma in genere è proprio a base di Aperol o Campari (oppure, in seconda battuta, a base di qualunque tipo di alcolico prodotto sul pianeta, purché alla 22

fine il risultato cromatico sia invariabilmente tra l’arancione e il rosso). L’acino fugge, ma non tanto lontano. A Canale, proprio su via Roma, si affaccia l’edificio settecentesco che fu convento e oggi ospita l’Enoteca Regionale del Roero, presieduta da Luciano Bertello. Al piano terra si trovano le strutture espositive, la cantina e la sala di degustazione dove provare i tipici vini roerini: Roero, Arneis, Favorita, Moscato, Barbera, Nebbiolo e il Birbèt (li raccontiamo più avanti), mentre al piano superiore c’è il ristorante stella Michelin di Davide Palluda. Intorno tutto urla vino: le Cantine Enrico Serafino, Malabaila, Cascina Chicco, Monchiero Carbone, Deltetto, Matteo Correggia, e di qua, di là, eccetera. Teoria delle Termopili Secondo la teoria del nostro amico Graziano Dell’Anna, «se considerate che il cervello umano contiene mediamente venticinque miliardi di neuroni, mentre un litro di rosso contiene circa cento grammi di etanolo, il fatto che un etto di agguerrito etanolo riesca a sbaragliare un’armata neuronale di miliardi di unità vi apparirà come una prodezza da spartani, un’impresa degna delle Termopili. E questo non fa che confermare la mia teoria: c’è qualcosa di eroico – di neurologicamente epico – in un’ubriacatura». Tutto ciò per rammentarvi una semplice, ma spesso dimenticata, verità: ciò che stiamo raccontando non avviene in diretta. Mentre vi mostriamo cantine, prati, torri merlate, e di qua, di là, eccetera, siamo in realtà davanti a una tastiera di computer, in una giornata uggiosa e cittadina, distante nel tempo e nello spazio da quelle cantine, da quei prati, da 23

quelle torri merlate, da quei di qua, di là, eccetera. Morale: in questo momento, per meglio entrare nell’argomento, stappiamo una bottiglia di Nebbiolo del 2009, che si rivela eccellente oltre ogni di qua, di là, eccetera. I vini del Roero Il Roero è un vino. Un Nebbiolo fine, gentile, aggraziato, cresciuto in queste terre sabbiose. Se ne coltivano più di duecento ettari e il disciplinare prevede venti mesi di affinamento per il Roero e trentadue per il Riserva. La sbronza è armonica e vellutata: si crede di ricavarne un’impressione di equilibrio, ma ovviamente ci si sbaglia. La Favorita è un vino. Il vitigno, a sentire gli ampelografi (come il conte Nuvolone, che conoscerete più avanti), arriva dalla Liguria attraverso le strade del sale e dell’olio e va assimilato al Vermentino. Nell’Ottocento si usava come uva da mensa e la sua grande diffusione rese Corneliano, fino agli anni Cinquanta, il più importante centro piemontese per la produzione di ceste da uva, con almeno cinquanta botteghe nel paese. Nel 1901, a Vezza d’Alba, nacque la Cantina Sociale Cattolica che ne faceva vino da messa. Oggi questo vino dal colore giallo paglierino, dal profumo fruttato e dal gusto intenso, è una delle eccellenze del Roero. La sbronza è ascensionale e confessionale: si crede di ricavarne un’impressione di equilibrio, ma ovviamente ci si sbaglia. La Barbera è un vino. Come nel resto del Piemonte è un cultivar primo amore anche da queste parti. Fino a qualche decennio fa era un vino da pintone, il bottiglione da due litri col tappo a molla, non particolarmente sofisticato e di qualità modesta. Oggi ha la caparbietà di un grande vino da tavola e anche di più, spesso in barrique e in riserva, doc e docg. La 24

sbronza è corposa e verace: si crede di ricavarne un’impressione di equilibrio, ma ovviamente ci si sbaglia. L’Arneis è un vino. Il vitigno è autoctono e il nome deriva probabilmente da Renesio, nei pressi di Canale, ma in dialetto significa sia “arnese, affare di poco conto”, sia “personaggio intraprendente e un po’ bislacco”. Nel 1989 ha ottenuto la doc e la produzione è quintuplicata: oggi si è conquistato un posto nell’élite dei bianchi piemontesi come vino da aperitivo o per accompagnare gli antipasti. La sbronza è morbida e trasparente: si crede di ricavarne un’impressione di equilibrio, ma ovviamente ci si sbaglia. Il Moscato è un vino. Citato già nel 1903 in riferimento a due carrate «de bono, puro vino moscatello» che tal Guglielmo Bayamondo di Canale deve al suo signore. Il colore giallo paglierino, il perlage finissimo e persistente, il bouquet intensamente aromatico e di qua, di là, eccetera. La sbronza è frizzante e seduttiva: si crede di ricavarne un’impressione di equilibrio, ma ovviamente ci si sbaglia. Il Birbèt, strano a dirsi, è un vino. Dolce e profumatissimo, non può avvalersi della denominazione Brachetto per motivi territoriali, perciò i produttori lo hanno battezzato Birbèt, che in dialetto significa “birichino” ed è ottimo come vino da dessert. La sbronza è romantica e zuccherina: si crede di ricavarne un’impressione di equilibrio, ma ovviamente ci si sbaglia. Consigli: bevete solo due volte al giorno. A pasto e fuori pasto. Teoria dei colori Torniamo al nostro viaggio. L’itinerario ora si snoda sul territorio collinare (la carta numero 35 consiglia: “Ascolta la dolce voce”), tra vigne, ampi panorami, salite e discese, ville 25

secentesche, rustici, piloni votivi, capannoni, condomini e soprattutto case e villette anni Cinquanta, Sessanta, Settanta e Ottanta, e di qua, di là, eccetera, che ammaccano l’occhio per l’insensatezza architettonica e cromatica. Passi il rosso casa cantoniera, spesso però troppo acceso, ma altri colori farebbero invidia a Van Gogh: il rosa confetto, l’azzurro Tenente García e soprattutto il giallo scuolabus che infesta il paesaggio come una peste al tuorlo d’uovo. La campagna però dà altre soddisfazioni, a forma di pera. La pera e la Piera Siamo a Madernassa, una piccola frazione di Vezza d’Alba che si affaccia a metà di una collina esposta a est, verso Guarene. Ma perché fermarsi proprio qui? Perché Madernassa ha dato i natali e il nome a uno dei frutti più squisiti del Piemonte: l’omonima pera – parente non troppo lontana della quasi scomparsa martin sec – che oggi si coltiva diffusamente in tutta la zona tra Castagnito, Guarene e Canale. La pianta madre ha una data di nascita praticamente certa: il 1784. Infatti, mentre in Francia l’atmosfera cominciava a riscaldarsi e il collo di Luigi XVI a prudere, un piccolo semino cadde qui dando origine a un albero che, dalla Rivoluzione francese, arrivò fino alla prima guerra mondiale e fu abbattuto proprio nel 1914, alla veneranda età di 130 anni. Il frutto di quest’albero venne catalogato per la prima volta da un grande enologo – Domizio Cavazza, celebre per essere considerato il padre del Barbaresco – che ne descrisse con minuzia forma, colore e periodo di raccolta (il mese di ottobre). La pera Madernassa, secondo il Cavazza eccellente al palato sia cruda che cotta, ha un colore che varia tra il verde scuro e il giallo, spesso ornato da una lieve sfumatura tendente 26

al rosso nella parte esposta al sole. La buccia è liscia, dura e sottile, punteggiata da macchioline grigie e rugginose. La polpa è dolce e profumata e al palato lascia una sensazione lievemente tannica che la fa sposare con la ricetta tradizionale piemontese della pera cotta nel vino rosso (una sorta di “pera brûlé”, con zucchero, chiodi di garofano e cannella). Una ricetta assai più originale ce la racconta Piera, unica passante della mattinata: ha un’età indecifrabilmente vecchia ma uno sguardo indomito e allegro. Ci elenca gli ingredienti e la preparazione in piemontese stretto e più volte, incerti, le chiediamo di ripetere. Il risultato è questo. Ci vogliono 4 pere Madernassa, 4 uova, mezzo litro di vino bianco, burro e un p’ch ad s’cher (nei ricettari si scriverebbe: zucchero q.b.). Per prima cosa si mescola qualche cucchiaio di zucchero al vino e poi si versa in una casseruola. A questo punto si aggiungono le pere, sbucciate e tagliate a fettine, e si fa cuocere il tutto a fuoco basso. Nel frattempo si rompono le uova separando gli albumi che, dopo aver aggiunto tre cucchiai di zucchero, vanno montati a neve. Quando le pere hanno assorbito il vino sono cotte e perciò si possono togliere dal fuoco e mettere a raffreddare. Intanto si unge con il burro una teglia – «Va bene anche una pirofila?» «A l’é bin a fé.» – e poi si versano, a strati alternati, le pere e gli albumi montati. Non rimane che infornare a calore moderato e mettersi a tavola. Sembra proprio squisito, cara signora Piera. Ma come si chiama questa ricetta? Pera Madernassa al forno, risponde lei. A questo punto la ringraziamo per la sua gentilezza, ma Piera non ci molla e parte con una rassegna di ricette a base di Madernassa da far invidia a quelle a base di gamberetti che Bumba snocciola a Forrest Gump nell’omonimo film: Madernassa in composta, Madernassa in marmellata, Madernassa a l’ula, Madernassa al vino, Madernassa al cioccolato, ciam27

bella di Madernassa, Madernassa alla grappa, Madernassa alla panna, Madernassa al marsala, Madernassa all’amaretto, Madernassa al miele, Madernassa in budino, Madernassa in yogurt, Madernassa in timballo, Madernassa fritta, meringata, mandorlata, gratinata, candita, piccante, secca e... Guardi, scusi, ma dobbiamo andare. Priocca, Govone e Magliano Alfieri Lasciata la signora Piera rimaniamo con un grande appetito, alimentato dal pensiero delle tante eccellenze che la zona offre: il miele del Roero, la pesca del Roero, i vini del Roero, e di qua, di là, eccetera. Inoltre, scendendo lungo la provinciale, la strada procede sinuosa, zigzagando tra vigne e frutteti in un morbido saliscendi che accarezza le creste delle colline e ci porta a Priocca. In un altro momento sarebbe stato opportuno un salto a San Vittore, la pieve romanica sopraelevata sulla collina più alta della zona. Noi invece siamo attratti dall’arte della Cooperativa Agricola Priocchese la cui insegna recita “Vendita carni, formaggi e salumi”. Ci accoglie un bancone lungo come una portaerei che alleggeriamo di marmellatine, composte, bagnetti, salumi, conserve, tome, pasticceria secca e quattro mele rosse e lucide come quelle della strega (masca?) di Biancaneve. Ora si pone il problema: picnic o ristorante? A Prioc­ ca c’è infatti Il Centro di Elide ed Enrico, stella Michelin e apoteosi della tradizione roerina, con una cantina spettacolare (che si può visitare) e un fritto misto da urlo. Noi però a pranzo vogliamo rimanere leggeri, perciò optiamo per la Sinfonia dei Sapori, dove Ilenia e Paolo al modico prezzo di 18 euro ci servono tre portate di ottimo livello: battuta di carne cruda con parmigiano, agnolotti al sugo d’arrosto e ossobuco. 28

A quel punto rimarrebbe da visitare la parrocchiale neogotica di Santo Stefano, che ritaglia la propria sagoma sull’orizzonte del paese. Ma, come dire, e di qua, di là, eccetera... In uscita da Priocca scendiamo verso Govone. La strada fiancheggia numerose cappelle campestri, retaggio di una forte devozione popolare. A Govone, aggirando il poggio su cui sorge, saliamo al castello progettato da Guarino Guarini e Benedetto Alfieri, un singolare ibrido tra fortezza e palazzo signorile che dal 1997 è Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco. Nel 1730, appena diciottenne, vi soggiornò il filosofo Jean-Jacques Rousseau, entrato al servizio del conte Ottavio Solaro. Tra la fine del Settecento e la fine dell’Ottocento il castello entrò nell’orbita sabauda e divenne meta dei soggiorni estivi di Carlo Felice, che insieme alla moglie Maria Cristina lo fece completamente restaurare, come l’adiacente parco con giardino all’italiana. La facciata è ornata da raffinate statue provenienti dalla Venaria Reale, mentre all’interno giganteggia il salone centrale che, giocando sul chiaroscuro della tecnica trompe-l’œil, simula con realismo l’illusione della presenza di statue. Ma a Govone potete fare anche altre esperienze poco comuni: se amate gli asini per esempio – e, se non li amate, leggete Platero e Yo di Jiménez e li amerete – trovate un originale ranch dedicato a questo intelligentissimo animale: l’Asintrekking. Noi invece estraiamo la carta numero 67: “Considera l’approccio eroico”. Così, mentre digeriamo, scendiamo verso Canove, in un paesaggio in bilico tra antica vocazione rurale e odierna corsa all’ultimo capannone, per poi raggiungere un altro castello, quello di Magliano Alfieri. In salita. Fortificazioni e castelli – l’avrete capito – caratterizzano fortemente tutto il paesaggio di Roero, Langhe e Monferrato, testimonianze della passata feudalità del territorio. 29

Magliano è legato alla famiglia Alfieri. Qui, tra il 1660 e il 1680, i conti astigiani fecero edificare in forme barocche il castello che domina il centro abitato, nelle cui stanze soggiornò il giovane Vittorio. In una lettera da Parigi così si rivolge alla madre: «Ella è in villa, nel suo bel castello di Magliano, dove gode un’ottima aria e una perfetta quiete. Spero ch’ella stia bene di salute e che l’aria del suo bel Magliano le avrà giovato». Anche Beppe Fenoglio parla del castello, nel romanzo Il partigiano Johnny (va detto che a sinistra o a destra del Tanaro è difficile trovare un luogo di cui Fenoglio non abbia mai scritto): «Procedettero (...) mirando alle erte guazzose tenebre del crinale di Magliano (...) Johnny sgusciò verso il margine del villaggio per gettare un’occhiata preventiva sulla loro destinazione, e sulle colline, come denicotinizzate da vapori transeunti che inghirlandavano la torricciuola del castello». Al primo piano è ospitato il Museo dei Gessi, visitabile solo la domenica, che riunisce molti esempi di quest’arte popolare. Caratteristica la sezione dedicata ai solai di gesso, particolarissima tecnica costruttiva assai diffusa in alcune zone del Roero, dove il gesso era materiale apprezzato per la presenza in zona di numerose cave. In gesso si decoravano i soffitti e si rifinivano le porte e i davanzali. A proposito: dal belvedere rinicotinizziamo il limpidissimo panorama e scendiamo, non senza prima raccontarvi una nuova storia. La questua delle uova Siamo partiti dalle nostre case, che era appena sera, per venirvi a salutare, darvi la buona sera.

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Sembra una canzone, vero? Infatti lo è. Ecco, se fossimo a Sanremo, si potrebbe discutere sulla rima fotocopiata “serasera”, polemizzare sulla poca fantasia dell’autore, indignarsi persino. E invece, questo verso cantabile, di fantasia e storia ne porta dietro un quintale. Chissà quante volte i roerini saranno stati svegliati da questa nenia secolare, accompagnata dalla fisarmonica, dal clarino e, a volte, dalla tromba. Una canzone che si cantava nelle notti di Quaresima, partendo dai crinali delle colline che incastonano il paese per arrivare nelle strade del centro e che aveva uno scopo diverso da quello di far cagnara o, meglio, di fare impazzire i cani e gli umani. Si chiama Canté j’euv o questua delle uova e funzionava così: nei giorni precedenti la Pasqua i giovani si riunivano in gruppo e intonavano la loro hit – Soma partì da nòstra cà / ca l’era prima sèira / per amnive a saluté / deve la bon-a sèira – uscio dopo uscio, in attesa che il padrone di casa scendesse con una dozzina di uova e le consegnasse al direttore d’orchestra – si riconosceva perché era mascherato da frate –, il quale ringraziava a nome della combriccola e le depositava in un enorme cesto (ma certamente più modesto di quello che Belzebù utilizzò a Pocapaglia). A cosa serviva tutto questo, vi chiederete, a parte cuocere frittate? A tante cose. Serviva a salutare simbolicamente l’arrivo della primavera, a blandire i castighi della Quaresima, a fare la corte alle belle ragazze del paese e anche, più pragmaticamente, a ridistribuire il reddito tra possidenti e questuanti. Eppure, nonostante i molteplici e nobili motivi, il Canté j’euv lentamente scomparve fino a dissolversi del tutto. Ma le tradizioni sono tenaci e continuano a vivere anche quando nessuno le segue più. E infatti, intorno alla metà degli anni Sessanta, si forma il Gruppo Spontaneo di Magliano 31

Alfieri – creato da Antonio Adriano – che rilancia le passeggiate canterine dalla sponda sinistra del fiume Tanaro. Con gli anni, grazie anche al sempre presente Carlin Petrini, il Canté j’euv riprende vita fino a diventare una manifestazione ufficiale e itinerante. Nel 2012, per esempio, si è svolta a fine marzo a Sommariva Perno, dove un fiume di ventimila persone ha invaso la città, seguendo oltre sessanta gruppi folkloristici. Vi consigliamo di non perdere l’evento e se passate da quelle parti con la fidanzata che dopo un po’ si lamenta delle orecchie che fischiano, non litigate: ditele di non stare a cercare il pelo nell’uovo. Marcondirondirondello Di castello in castello – uno di qua, uno di là, eccetera – arriviamo a Guarene. Anche qui la vista è spettacolare: dall’altra parte del Tanaro si scorge nitidamente la torre di Barbaresco e, più a destra, Alba. Scrive Claudio Magris in Microcosmi che «Viaggiare, come raccontare – come vivere – è tralasciare. Un mero caso porta a una riva e perde un’altra». Noi siamo da questa parte, e tant’è: di Barbaresco avremo modo di parlare, per lungo e per Langa (citando l’amico Dario Voltolini). È tempo di un caffè e lo prendiamo al bar csi, che non omaggia la band di Giovanni Lindo Ferretti ma un centro sportivo italiano o qualcosa del genere. L’ambiente è classico, quattro anziani che giocano a scopa circondati da altri quattro che si scambiano battute in dialetto piemontese: di argomento licenzioso, crediamo, perché ne tratteniamo il suono ma non il senso. La correzione Sambuca si rivela una sorta di benedizione: praticamente ce ne versano mezza bottiglia, ma d’altronde da queste parti sono abituati a servire i discendenti di Giacu Furfè e ogni barista è una Malamassa. 32

Guarene è un gioiellino: la Chiesa dell’Annunziata, il Palazzo Comunale, l’hotel ristorante Miralanghe, dalla cui grande sala ricevimenti si gode una vista mozzafiato della sottostante valle del Tanaro, la Fondazione Re Rebaudengo – nell’omonimo palazzo dalle maniglie a stella, che ospita mostre di arte contemporanea –, la Chiesa SS. Pietro e Bartolomeo, il camminamento del Paramuro, ricavato sul vertice del bastione che sostiene il paese. Qui tutte le strade portano al castello, detto anche il Palazzo, uno dei più sontuosi esempi di dimora signorile di tutto il Roero. Attualmente è privato, perciò ci limitiamo a una breve passeggiata tutt’intorno, rammaricati di non poter visitare una vera e propria reggia settecentesca. Per fortuna la Sambuca addolcisce il dispiacere. Da Guarene riscendiamo verso il Tanaro, ma siamo indecisi sul da farsi. È il momento di una Strategia obliqua e la carta numero 12 dice: “Visualizza la vittoria”. Cartina alla mano, ne cerchiamo una. E la troviamo. Nella piana, prima di salire a Santa Vittoria d’Alba, incontriamo la frazione Cinzano, celebre per la produzione dello spumante. Anzi, per esserne stata la patria elettiva. Infatti, nella prima metà dell’Ottocento, il solito e immancabile Carlo Alberto avviò la costruzione di un labirintico e formidabile complesso di cantine sotterranee. L’opera non venne portata a termine ma nel 1887 Francesco Cinzano, ormai famoso per i suoi vermouth prodotti a Torino, acquistò la casa di proprietà reale per produrvi sia i vermouth che Barolo, Barbera e Moscato. Si legge, in documenti del tempo, che questi ultimi «vennero specialmente perfezionati, e ridotti a squisiti vini spumanti, che cominciarono ad acquistare rinomanza per aroma e limpidezza». Un salto a Santa Vittoria d’Alba, a vedere gli affreschi quattrocenteschi nella Chiesa di San Francesco, un paio di 33

brindisi a spumante per la vittoria, e ci rimettiamo in strada in direzione Sommariva Perno, cittadina cara a Vittorio Emanuele II, che trascorse nel castello lunghi soggiorni insieme a Rosa Vercellana, la Bela Rosin, e meditò le mosse del Risorgimento, raggiunto qui dalle carrozze di ministri e cortigiani. Il percorso si snoda tra boschi, frutteti e vigneti (e case giallo scuolabus): se amate gli itinerari a piedi ricordate che qui è tutto un fiorire di “sentieri del Roero”, “strade del miele”, “rotte romantiche”, “punti panoramici”, “cammini fisici e spirituali” – di qua, di là, eccetera – attraverso cui approfondirete la conoscenza di monumenti, leggende, personaggi storici, miti popolari, e soprattutto prodotti della terra e del lavoro dell’uomo (in particolare liquidi). A Sommariva Perno, in località Cascina del Mago, vale la pena di inoltrarsi nel Parco Forestale del Roero: oltre centosessanta ettari di bosco, alberi secolari, ciliegi, farnie, roveri, roverelle, castagni, aceri, carpini, faggi, betulle e ontani, due laghetti, vallate di anemoni, mughetti, viole, primule e ginestre selvatiche. Il Parco dispone anche di aree picnic e barbecue, ma in queste zone sono molte di più le diramazioni enogastronomiche che potrete percorrere. Il bivio principale dice: di qua Sommariva, fragole, di là Ceresole, pesci. Inciso Non siamo gli unici a scapicollare da una collina all’altra, andare su e giù e poi giù e su, ritornare sui nostri passi, shakerare tradizioni e novità, ricordi, tempi, cibi, vini: in questi luoghi, infatti, passeggi e assaggi sono abbinamenti familiari. A fine maggio, per esempio, a Vittoria d’Alba si svolge il Saliscendi, cinque chilometri di camminata con stazioni mangerecce e beverecce nei punti più interessanti e panoramici. Nello stesso 34

periodo dell’anno tra Montà e Canale c’è il Portè disnè, giunto alla ventesima edizione, dove centinaia di persone marciano allegramente per la campagna pronte ad assaggiare ogni ben di dio: dalla bruschetta con lardo al salame cotto, dal risotto alla carne alla piastra, fino ai formaggi e alle immancabili fragole. La serie di camminate enogastronomiche prosegue in settembre a Castellinaldo con Non solo Arneis, una giornata a spasso tra vigneti e cascine con il conforto di vini e cibi tipici: battuta di fassone, peperoni grigliati, agnolotti, formaggi e tante altre specialità che aiutano a camminare leggeri. Fine dell’inciso. Torniamo ai pesci. La terza via della tinca I nonluoghi di Marc Augé li conoscete: sono spazi fisici multiuso, anonimi e stereotipati, che possiedono la medesima identità delle persone che li attraversano. Gente distratta, in transito, in perenne perdita: di identificazione, di interrelazione, di concentrazione e di memoria. Qualche esempio? Le autostrade, gli aeroporti, i motel, i grandi magazzini. Anche i luoghi fossili di frontiera avete imparato a identificarli. Sono agglomerati, spesso città d’antico fasto e a volte intere aree geografiche, che per secoli sono stati crocevia culturali, rose dei venti linguistiche, e che hanno ospitato, anzi mischiato, le tradizioni, le credenze, le religioni, l’intero patrimonio popolare, creando dalla scomparsa di tutti questi elementi un nuovo essere architettonico e umano che permea tutto, anche se non si vede. Come l’aria. Qualche esempio? Praga, la Mitteleuropa, Trieste, Palermo e la Sicilia. Ricapitoliamo: i nonluoghi ci sono ma non esistono, i fossili di frontiera non ci sono ma esistono. E fin qui tutto bene (si fa per dire). 35

E che cos’ha a che fare tutto ciò con l’acino fuggente? C’è qualcosa che vi sfugge, vero? Bene: se c’è qualcosa che vi sfugge siete sulla strada giusta. La terza. La terza strada, ad esempio, ce l’abbiamo sotto le ruote adesso: è un altopiano. Per l’esattezza, si chiama Pianalto di Poirino, ed è la vasta area che comprende i ventiquattro comuni che dal Roero si distendono verso la pianura del Po, toccando le province di Asti, Torino e Cuneo. Se la prima strada è un nonluogo e la seconda un fossile, questa, allora, è un’impronta. L’impronta del mare. Perché il Piemonte, ormai lo sapete, era una terra di mare, un tempo. E il mare si è asciugato nelle rughe dei vecchi battitori di sentieri che vanno su e giù seguendo i guizzi dell’acciuga, in quell’itinerario meraviglioso che con tanta sapienza il nostro amico Nico Orengo raccontò nel suo Salto dell’acciuga. Ma il mare piemontese non termina nel ristagno della terracotta illuminata a candela della bagna caùda. Ci sono anche le tinche. Le guizzanti tinche gobbe dorate di Ceresole. Sono esseri antichi: già nel Medioevo i contadini costruivano degli invasi artificiali dove raccogliere l’acqua da utilizzare nei periodi più caldi dell’anno e, dato che all’epoca non c’era da mangiare in abbondanza, ci buttarono dentro le tinche, docili da allevare. Le tinche vennero su dorate in omaggio alle terre argillose del Pianalto che circondano gli stagni d’allevamento. Un omaggio che giunge perfino nel piatto di portata sotto forma di profumo (qualcuno usa termini meno rispettosi) di fango e di terra. Il mare dentro la terra e la terra dentro il mare, insomma. Piaccia o meno, la tinca gobba è stata inserita in un presidio Slow Food, non solo perché l’allevamento è in forte 36

diminuzione, ma anche e soprattutto perché la signorina è erbivora e svolge una fondamentale funzione nell’ecosistema, mantenendo a lustro gli alvei delle superfici d’acqua. E se non vi piace avere una conoscenza diretta delle cose (ad esempio mangiando una manciata di terra per conoscerne la storia), da queste parti abbiamo imparato che la frittura o la carpionatura ammorbidiscono i pensieri, rendendo più delicata l’evocazione di una geografia che non si trova più in nessuna cartina o mappa moderne. Tutto questo ha un indirizzo: quando uscite da Ceresole, girate a destra al cartello Cascina Italia, andate fino in fondo e chiedete del signor Giacomo Mosso. Noi l’abbiamo fatto e suo fratello ci ha detto: non c’è.

Langhe

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Langhe (viste da molto in alto)

La terra di mezzo La carta numero 10 delle Strategie oblique consiglia: “Definisci l’ambito”. E noi ci atteniamo all’indicazione. La parola Langhe (“lingue”) indica il territorio compreso tra il Tanaro a ovest e la Bormida di Spigno a est, e allude all’insieme di lunghe dorsali collinari allineate ordinatamente in direzione nord-sud e divise tra loro dalle valli scavate da fiumi e torrenti (Belbo, Bormida di Millesimo, Michelone, Uzzone e Bormida di Spigno – uno di questi l’abbiamo inventato, giusto per favorire una vostra lettura più attiva). Siamo dunque a fiumi e torrenti: acqua non è la nostra parola preferita e ci piacerebbe finire subito, invece tocca parlarne ancora. Le Langhe infatti sono nate nel Miocene a opera del mare, che a quei tempi arrivava fino qui. E allora proviamo a immaginarle come tracce di un’onda gigantesca che si ritira, lasciando dislivelli notevoli (dai 170 metri di Alba agli 896 di Mombarcaro), sedimenti e conglomerati, arenarie, argille, sabbie, marne, calci e gessi, e di qua, di là, eccetera. Insomma: questa terra di mezzo, stretta tra Liguria e Monferrato, deve tutto al mare. E quando diciamo tutto, intendiamo tutto: perché proprio quelle arenarie, quelle argille, sabbie e mar41

ne compatte si sono rivelate suolo ideale per la vite. E qui arriviamo al secondo punto fondamentale: se è vero che il mare ha reso caratteristico il paesaggio di Langa, l’uomo l’ha reso unico. Chiunque percorra i saliscendi di queste colline, come noi, non può non accorgersi di quanto il paesaggio sia modellato sul lavoro secolare dell’uomo: i versanti collinari sono tutti “pettinati” dai vigneti, che qui prosperano con eccellenti risultati di qualità e prestigio. Perché la Langa, questa terra di mezzo, è considerata in tutto il mondo uno dei cuori pulsanti del vino. Quanto sopra si poteva anche dire diversamente. Il raffinato gustosofo Renato Eduardo Garis, che nel 1898 trascorse alcuni mesi nella zona di Barolo, lo riassume in quattro versi tra il classico e il goliardico: Illo tempo qui c’era il mare che Nettuno regnava divino. Era facile all’uomo annegare or è dolce nuotare nel vino.

Delle betulle, della primavera e dell’ingresso in Langa Dolce, morbida, ariosa, lieve primavera di Langa! Abbiamo atteso il principiare della gentile stagione per venirti a trovare, e abbiamo fatto male. Ai primi di aprile saltiamo in macchina e infiliamo la strada indossando due giacche a vento guadagnate grazie a una lettura pubblica sulle sbronze letterarie tenuta in un negozio di vestiti sportivi, guanti da pilota (e da co-pilota), berretti di lana e doppi calzini. La temperatura esterna oscilla tra i quattro e i cinque gradi, il cielo ha un colore che si potrebbe pesare in migliaia di tonnellate di oscurità tanto appare denso e minaccioso e, all’ingresso 42

dell’autostrada Cuneo-Alba, vale a dire là dove parte la Strada del Vino Astesana, incominciano a scorrere degli imbiancati filari di betulle. Se, proseguendo, trovassimo poi le vigne della vodka non ci stupiremmo più di tanto. Il freddo però non ci spaventa, anzi, ci rallegra. Perché con il freddo arriva la fame e con la fame la sete e così, dopo avere attraversato la Strada Valle Tanaro, scivoliamo, eleganti come un’acciuga da bagna caùda su una saponetta alla lavanda, fino a Castagnole delle Lanze. Adozioni e terapie, con una puntatina in zona Cesare Pavese La prima mossa è uno sconfinamento: facciamo un piccolo salto in Monferrato. A Castagnole delle Lanze si entra passando in mezzo alle vigne. In alto, in basso, a destra e a sinistra, e di qua, di là, eccetera. Procura una certa ebbrezza questo saliscendi, quasi un mal di filare, che vorremmo al più presto neutralizzare con un buon bicchiere di vino. Perfino la ferrovia è a scartamento ridotto: un treno alla volta, direzione unica, a fondo valle. Ma, niente paura, che da queste parti le farmacie sono molto ben fornite: siamo in zona di Moscato, Freisa e Grignolino. E di filari ce ne sono così tanti che, se vi piace l’idea, potete adottarne uno, compilando un apposito modulo. Funziona così: voi scegliete la vigna, il proprietario scrive il vostro cognome sul palo di testa del filare e vi tiene informati tramite newsletter e webcam su come gli va la vita (al filare, non a lui). Poi, quando arriva l’età della vendemmia, vi invita ad assistere al processo di lavorazione che parte dal raccolto e termina con la vinificazione. Alla fine diventerete genitori di dodici figli da 0,75 litri che porteranno appesa al collo l’etichetta di battesimo. 43

Se il mestiere di genitori non fa al caso vostro, ché non siete ancora pronti all’impresa, e avete bisogno di un po’ di tempo per voi, e sentite la necessità di coccolarvi con momenti di calma e di silenzio, allora vi conviene spostarvi in direzione Santo Stefano Belbo dove, in località San Maurizio, troverete l’omonimo Relais, un monastero del XVII secolo inginocchiato in laica preghiera sulla sommità di una delle tante colline di Langa, nel quale potrete provare ogni forma di benessere e la vinoterapia alla piemontese. Piccola spiegazione. Che il vino faccia bene all’anima è risaputo. Che faccia bene anche al corpo è una scoperta recente. Con il termine vinoterapia, infatti, si intende una serie di speciali trattamenti di benessere basati sull’utilizzo di vino e uva in modo un po’ diverso da quello a cui siamo abituati. Come al solito, i primi ad arrivare a questa nuova pozione magica sono stati i francesi (Panoramix insegna). La vinoterapia, infatti, è nata nella zona di Bordeaux, raccogliendo il suggerimento del professor Vercauteren della Facoltà di Farmacia di Bordeaux che, vedendo buttare i vinaccioli d’uva – siamo negli anni Novanta –, esclamò: «Sapete che state sprecando dei tesori?». Già, perché i semi dell’uva, considerati materiale di scarto durante il processo di vinificazione, sono in realtà ricchi di polifenoli dalle straordinarie proprietà antiradicali. Le ricerche affermano addirittura che tali qualità sarebbero più sviluppate ed efficaci di quelle contenute all’interno della vitamina E, da sempre alleata della cosmesi e delle cure del corpo. Morale: da quel giorno vino e benessere sono diventati un binomio indissolubile e oggi la vinoterapia si è trasformata in un business mondiale, cavalcato da molte aziende e improntato sulla continua ricerca di nuovi trattamenti estetici a base di vino e uva. Tra gli altri: l’idromassaggio con vino ed estratti 44

di bucce d’uva, la maschera viso con polvere di vinaccioli, il massaggio corpo con la grappa, lo scrub viso con polvere di bucce d’uva, il bendaggio corpo con il vino rosso, l’aromaterapia al Moscato, il trattamento corpo con schiacciata d’uva, e poi ancora impacchi, creme, tisane, e di qua, di là, eccetera. Qualcosa del genere, fino a pochi anni fa, era disponibile anche al Relais San Maurizio, ma poi deve aver trionfato la proverbiale praticità piemontese: «Vinoterapia, per salutare che tu sia, preferiamo la tradizionale terapia». Dal bicchiere allo stomaco. Fine della spiegazione. Ma torniamo a Castagnole delle Lanze, che qua di storia ce n’è tanta. Per dirne una, qui, in epoca romana, passava una diramazione della via Emilia che collegava Acqui a Pollentia. A un certo punto sono arrivati i Visconti e perfino gli Orléans, e di qua, di là, eccetera. Non mancano i castelli e le dimore dei Savoia ma, soprattutto, ogni quattro di maggio c’è la Festa della Nocciola e della Barbera. Ci si ritrova nel centro del paese e al pronti-via si visitano scientificamente tutti i cortili delle case per trovare un modo per capire, per capirsi e forse anche per capirci, quando un nuovo giorno è appena incominciato, e sarà sicuramente un giorno in più per amare, per sognare ma soprattutto per bere e mangiare (op. cit.). Purtroppo siamo in anticipo di un mese e così decidiamo di proseguire, direzione Mango. Sweet Home Bassa Langa (intermezzo con indovinello musicale) La temperatura si è sollevata di una manciata di gradi alcolici – diciamo quelli necessari a imbottigliare un Moscato – e anche il cielo si è rischiarato. Ora è proprio di un bel blu musicale. Ci ricorda il ritornello di quel fantastico gruppo di 45

Jacksonville, con un nome così impronunciabile che il primo disco lo intitolarono Pronounced Leh-Nerd Skin-Nerd, quelli che poi a un certo punto, quando tutti in America sapevano pronunciarli correttamente, han fatto una copertina che li ritraeva superstiti tra fuoco e fiamme. Un lavoro di grande impatto visivo che però pochi di loro ebbero il piacere di apprezzare in quanto mezzo gruppo, poco prima della pubblicazione del disco, fu vittima di fuoco e fiamme in un incidente aereo. Sì, stare a becco asciutto per tanto tempo ci mette in circolo delle associazioni un po’ troppo catastrofiche ma, in ogni caso, la canzone ce l’abbiamo e così, mentre intorno a noi scorrono l’Osteria della Gallina Sversa, la frazione Madonna del Buon Consiglio e decine di villette incastonate in vigna, la mettiamo ad alto volume e quando Mango si profila all’orizzonte intoniamo a squarciagola: «Sweet Home Bassa Langa, where the skies are so blue...». Mango (tre castelli e un barile di acciughe) A Mango c’è per caso un castello, e di qua, di là, eccetera? Eh, un attimo. Al bar della piazza ci raccontano che di castelli una volta ce n’erano addirittura tre, uno per ogni borgo della zona. E allora giù tre brindisi, uno per Frave (“un bicchiere è appena lieve”), uno per Vaglio (“due bicchieri, e dacci un taglio”) e uno per Vene (“tre bicchieri, e che ci preme?”). Ci prestiamo volentieri a questo omaggio postumo, ma vorremmo saperne qualcosa di più e veniamo subito accontentati. Frave, Vaglio e Vene sono i nomi dei tre antichi borghi che nel Medioevo furono unificati, dopo che gli astigiani ebbero raso al suolo i rispettivi simboli architettonici, andando a formare il paese di Mangano, sul cui stendardo compaiono appunto i tre castelli. 46

Mangano dal Trecento in avanti fu un centro di piacevole confusione (“gradite un quarto bicchiere?”), in quanto crocevia di un percorso meraviglioso per viandanti salati che si chiamava Magistra Langarum. Di cosa si tratta? Di un antico tragitto che congiungeva il Piemonte alla Liguria e veniva percorso da carovane di mercanti in un senso e nell’altro. Dall’alto verso il basso partivano uva e vino e da sotto in su giungevano sale, olio e pesce. Il risultato di questo vaso comunicante ha un nome che ancora oggi è sulle labbra dei chimici illuminati: bagna caùda. E qui occorre dedicare qualche parola in più. Magari in versi. Breve ricetta in versi ottonari della bagna caùda Leva l’anima allo spicchio, quella parte verde al centro: nulla è meglio d’un bell’aglio che profuma fuori e dentro. Schiaccialo con la forchetta, pronto è per la sua cottura. Poi l’acciuga si sfiletta, lava e asciuga la verdura. Nel fuiot o fornellino metti l’olio, il burro sciogli, chiedi scusa al dio Nettuno, quindi adagia i pesci spogli. Mentre il fuoco fa il suo giro e di fiamma mette addobbo, nella stanza, s’alza il tiro col sublime cardo gobbo.

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La cipolla va lessata, arrostito il peperone, cotti cavolo e patata, e la verza? Nel girone! Per il crudo si discetta: niente sedano o finocchio, ché l’intingolo s’infetta di un perfetto e scemo accrocchio. Luce verde per la rapa, la scarola è benvenuta, benedetta è quella guapa della bietola barbuta. Se volete esagerare in eleganza à la Cavour, allor tocca poi scolpire dadi di topinambur. Quando infin consegnerete questa bagna al crudo uovo, con la fame e con la sete fatto avrete l’Uomo Nuovo.

Fine dei versi e una domanda: ma il castello superstite di Mango com’è? Chiuso. Peccato, perché all’interno del castello, oggi e da circa vent’anni, si trova l’Enoteca Regionale Colline del Moscato, vino che, l’abbiamo detto, si produce nelle province di Asti, Alessandria e Cuneo. Tanta roba. Infatti sono più di settanta 48

i produttori che hanno aderito all’ente e cinquantadue i comuni rappresentati. È un vino anzianotto, il Moscato. Se ne hanno tracce già nel 1300, quando il muscus, un’essenza usata nella più raffinata profumeria, viene prestata alla vocazione viticola. Anche il vino diventa prezioso e pregiato e, due secoli dopo, Testa d’Fer gli fa girare intorno la sua politica di riorganizzazione dello Stato. Stiamo parlando di Emanuele Filiberto, duca di Savoia, detto il Testa di Ferro. Quei vitigni non si toccano, dice il capoccione, sono dei gioiellini! E infatti, nel 1606, ne parla diffusamente Giovanni Battista Croce nell’opera Della eccellenza e diversità dei vini che nella Montagna di Torino si fanno. Mango: dai gioiellini ai partigiani Anche se abbiamo già precisato che a sinistra o a destra del Tanaro è difficile trovare un luogo di cui Fenoglio non abbia mai scritto, va detto che Mango è uno dei paesi più citati nelle opere di Beppe: ne parla in Una questione privata, lo accarezza negli Appunti partigiani, lo nomina ripetutamente nei racconti e, soprattutto, nel Partigiano Johnny. Mango accoglie Fenoglio negli anni in cui le Langhe tutte erano il territorio che proteggeva i protagonisti della Resistenza. Dopo aver fatto esperienza nella Langa di Murazzano, presso un distaccamento di partigiani garibaldini (o rossi) al comando del tenente Biondo, lo scrittore decide di passare ai badogliani (o azzurri), che operano nella Bassa Langa, ad Alba e dintorni. Viene assegnato al presidio di Mango, agli ordini di Pierre, che nella realtà si chiamava Piero Ghiacci. Non si può non omaggiare la figura di Fenoglio se ci si trova, come noi ora, da queste parti. L’Osteria, che più tar49

di diventa Albergo Italia... il peso pubblico... la chiesa... la farmacia... il cimitero... e poi la casa del medico, la casa di Costantino... e i sentieri tutti, il bosco. Il bricco e il borgo... e di qua, di là, eccetera. Un borgo birichino Salutiamo con un inchino Mango e Beppe Fenoglio e ci rimettiamo in macchina, direzione Trezzo Tinella. Ci hanno raccontato che sul bricco, cioè sulla cresta di una delle tante colline delle Langhe albesi, da quelle parti, c’è una magia medievale: un antico borgo – per la precisione l’Antico Borgo del Riondino – che permette al visitatore di attraversare una porta spazio-temporale e lo catapulta dritto nell’affascinante e pericoloso anno Mille. Ci siamo preparati con un rispettoso studio preventivo e – mentre sbagliamo una collina dietro l’altra e ai pochi anziani umani che incontriamo per la strada, o forse dovremmo dire ai pochi Maschi, intesi come controparte maschile delle streghe locali, dobbiamo certamente sembrare dei turisti neozelandesi o eschimesi o africani bianchi – ci ripetiamo ad alta voce la formula magica per riprendere la giusta direzione. Ecco la nostra bussola prodigiosa: In cima alla collina c’è un monaco guardone laghetti, una cantina un cane con il nome. Poi c’è una sala nera di un re una statua equestre e quando viene sera stelle dalle finestre. Giramondi impenitenti bricùlun e malamassi

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do’ sta ’sto bel Riondino? Lo sanno pure i sassi.

Ecco, invece, non lo sa nessuno, altroché. Qui ci serve una Strategia obliqua. Brian Eno serve sul cruscotto la seguente mano, numero 44: “Consulta altre fonti – Promettenti/Non Promettenti”. Infatti, e non sappiamo come, ci viene incontro da un cancello tornito un gatto certosino che ci degna appena d’uno sguardo piuttosto deluso e scompare nel principiare di un bosco. Un bosco? Un gatto? Un cancello? E cosa c’è dietro il cancello? Un terrazzo a picco sulla valle, un belvedere, attrezzi contadini antichi messi a nuovo. Anche i muri perimetrali di mattone e pietra sono splendidamente conservati. La struttura è circolare, c’è una grande lettera D che si annuncia da un sottotetto. L’Antico Borgo del Riondino! Chissà come sarebbe stato viverci dieci secoli fa... Ci accontenteremmo di visitarlo oggi, ma, dopo un’attenta analisi (e un paio di telefonate), arriviamo a una conclusione che, chissà come mai, non ci stupisce più di tanto. È chiuso. La Donna Selvatica e il grappaiol’angelico Pien di stupore son io pei venditori di vino, ché quelli che cosa mai posson comprare migliore di quel che [han venduto?

Così si chiedeva secoli fa il poeta Omar Khayyam (ai cui versi Fabrizio De André attinse per la strofa finale de La collina: «Sembra di sentirlo ancora / dire al mercante di liquore: / tu che lo vendi cosa ti compri di migliore?»). Pieni di stupore per i venditori di vino siamo anche noi mentre facciamo il 51

nostro ingresso in Neive, uno dei tre vertici, insieme a Treiso e Barbaresco, di un astratto, liquido triangolo: la zona dove si producono i vini a denominazione di origine controllata e garantita Barbaresco. Insomma, una delle docg più amate del mondo. Il paese si arrampica a chiocciola su un poggio e la ricchezza di edifici storici, sia civili che ecclesiastici, è valsa l’inserimento nella lista dei cento borghi più belli d’Italia. Così sfilano uno accanto all’altro secoli di architettura: il rigore medievale della Torre Comunale, l’eleganza barocca di Palazzo Bongioanni Cocito, il rococò della Casa dell’Orologio, il mattone dell’Arciconfraternita di San Michele, e di qua, di là, eccetera. Ma anche quando l’acino sembra sparire tra le architetture, qualcosa ci riporta a inseguirlo: la Casaforte dei Conti Cotti di Ceres ha un ruolo importante nella storia dell’enologia. In questa casa, infatti, il vicario Francesco Cotti scrisse il più antico testo piemontese sulla coltivazione della vite e sulla produzione del vino. Non è un caso: il borgo di Neive accoglie grandi cantine così come tutto il territorio circostante, che è punteggiato dalle cascine delle grandi aziende vinicole. Ci sembra un torto nominarne qualcuna a dispetto di altre, perché qui il livello medio si chiama eccellenza, ma abbiamo un debito di riconoscenza sia con la Cantina del Glicine che con le bottiglie di Bruno Giacosa. Un altro debito di riconoscenza è con uno dei grandi personaggi di Neive, che abbiamo avuto la fortuna di conoscere nel 2005: Romano Levi, l’ultimo grapat (distillatore di grappa) a fuoco diretto del mondo, produttore artigianale, poeta e disegnatore di etichette. Per riavvicinarci a lui, scomparso nel 2008, saliamo prima due gradini e poi due rampe di scale fino alla Casa della Donna Selvatica, ospitata in una sala del 52

Comune, proprio nella piazza principale di Neive. Il luogo ospita una serie di cimeli e foto del “grappaiol’angelico”, come Luigi Veronelli definì Romano Levi, tra cui parecchie bottiglie da lui prodotte, tutte ovviamente con le etichette scritte e disegnate a mano, oggi considerate opere d’arte (oltre che nettare d’arte...) con valutazioni minime intorno ai duecento euro l’una. Ma cosa c’entra la “donna selvatica”? C’entra, perché si tratta di uno dei nomi che Levi utilizzava per le sue etichette e perché ha a che fare con la tradizione di questi luoghi. Le Donne Selvatiche sono figure ricorrenti nelle storie langarole e rappresentano le radici più profonde, corporee e istintuali del femminile: l’archetipo di una natura libera e selvaggia, incontaminata dal disagio della civiltà. Levi le raccontava così: «Da ragazzino andavo a scuola attraversando le vigne. Tra i filari c’erano spesso i ciabòt, minuscoli ripari dove i vignaioli e i contadini si rifugiavano... Io passavo di lì al mattino e a volte vedevo sbucare da questi ripari donne belle e scarmigliate, un po’ pazze, solitarie, che vivevano spesso ai margini della società paesana. Erano misteriose, senza vincoli, sparivano e poi tornavano, un po’ streghe e un po’ fate. Erano libere, come dovrebbero essere tutte le donne per vivere la parte migliore della vita». Adesso possiamo avvicinarci a Romano Levi ancora di più. Ai piedi del paese continua a vivere la distilleria, con alambicco a fuoco diretto, dove Levi produceva quelle poche bottiglie al mese che lo hanno reso una leggenda. Nel 2005, quando ci entrammo la prima volta, questo era un antro dall’atmosfera indescrivibile dove erano le reazioni del gatto di casa a stabilire quali ospiti erano graditi e quali sgraditi, e per questi ultimi c’era solo la porta. Dopo un po’ che stavi lì dentro ti sembrava di essere “dappertutto” e “sempre”, le 53

coordinate spazio-temporali si allentavano e solo gli sciocchi astemi possono pensare che fosse effetto dei cinquanta gradi della grappa: la verità – e siamo sicuri che sia capitato a molte persone – è che quello era davvero uno dei pochi, unici, magici luoghi “senza tempo” al mondo. Dentro c’era un uomo dalla sterminata semplicità e cultura, che disegnava etichette perfette con nomi perfetti (Grappa Nera Dimenticata, Distilleria degli Ignari, Grappa della Donna Selvatica Innamorata...); c’era l’impressione che da un momento all’altro potesse entrare dalla porta una strega (Micilina, Malamassa o Donna Selvatica che fosse); c’era un miscuglio perfetto di letteratura e alcool, un miscuglio primordiale stringente come il torchio da uve che Gutenberg utilizzò, non dimenticatelo mai, per inventare la stampa. La casa-distilleria rimane oggi come allora un’isola nel tempo, e il genius loci di Romano Levi continua ad aleggiare ovunque. Nei modi e nei tempi di lavoro, negli oggetti semplici ed essenziali, nei profumi, nella determinazione di chi continua la tradizione di Levi (meglio: dei Levi, visto che si tratta di generazioni di distillatori) con disciplina totale. La distilleria è ancora aperta a tutti e, come da tradizione, continua a essere difficile trovare qualche bottiglia pronta per la vendita, poiché la ridottissima capacità produttiva non è in grado di soddisfare la domanda che arriva da ogni parte del mondo. Ma i conoscitori lo sanno, si godono la serenità del luogo, non si arrabbiano, aspettano o riprovano con pazienza. Ogni settembre Romano Levi eseguiva una sorta di cerimonia per l’accensione dell’alambicco: un fiammifero, uno solo. L’ha acceso 63 volte. Ha disegnato la sua ultima etichetta la sera del primo maggio 2008. Come sottolineano i suoi amici: non è mai uscito da questi confini, non ha visto il mondo. Non ce n’era bisogno: il mondo è andato da lui. 54

Bababa-ba-barbaresco Da Neive a Barbaresco in auto ci vogliono pochi minuti di strada ma conviene farla piano piano, magari a piedi, gustando il paesaggio, respirando l’aria. Il nome Barbaresco, che deriva dal latino barbarica sylva, rivela come anticamente questa fosse una vasta e densa foresta. E, ancora oggi, molti toponimi locali ci raccontano delle popolazioni che abitarono qui: Asili, Rabajà, Martinenga sono echi lontani di denominazioni romane, saracene e germaniche. Proprio per difendersi dai saraceni, altrimenti detti “barbareschi”, intorno all’anno Mille, nel punto più alto del pae­ se venne costruita la struttura fortificata del castello, con due torri merlate e una possente torre quadrata che oggi, restaurata, è ancora il simbolo del paese. Venne costruita nel Medioevo con funzione di sorveglianza ed era parte di un sistema di torri di avvistamento che si sviluppava su entrambe le rive del Tanaro, da Alba ad Asti. Nel XIII secolo il paese fu conteso a lungo proprio da queste due città finché passò ai Savoia, mentre il castello nel corso del tempo venne inglobato da edifici di diverse epoche e infine riedificato nel Seicento, e di qua, di là, eccetera. Anche questa volta, per Destino, l’architettura riporta al Vino: torre e castello vennero infatti acquistati a fine Ottocento da quel Domizio Cavazza di cui abbiamo già parlato a proposito della pera Madernassa, professor enologo e direttore della Scuola Enologica di Alba. Cavazza, grande innovatore nella coltivazione dei vigneti, istituì nel 1894 la cooperativa Cantine Sociali di Barbaresco, una delle prime strutture del genere in Italia. Detto questo, cosa fare? Se volete potete dare un’occhiata alla parrocchiale di San Giovanni Battista, ma forse è più 55

interessante una visita alla chiesa della Confraternita di San Donato che oggi, sconsacrata al divino e consacrata al vino, è sede dell’Enoteca Regionale del Barbaresco: una vetrina della produzione vinicola locale dove potrete degustare e acquistare le bottiglie di circa 130 produttori (e ben 190 etichette di Barbaresco). A pochi metri vale la pena fare un salto anche alla Cantina Rocche dei Barbari, dove Ottavio e mamma Vincenza vi racconteranno la storia di tre generazioni di vignaioli (se ne hanno voglia) davanti a una stufa, un formaggio e un buon bicchiere. Qui tutto è vino: la superficie dei vigneti tocca il 55% dell’intero territorio del comune; potete fare un’escursione in carrozza da Alba a Barbaresco, trainati da poderosi cavalli verso altrettanto poderosi vini; potete trovare un enologo neozelandese (Jeffrey Chillcot) in una delle cantine più piemontesi (Marchesi di Grésy); potete, nel mese di maggio, partecipare a Il Barbaresco a Tavola, quando una ventina di ristoranti della zona presentano in contemporanea la stessa selezione di vini, in degustazione cieca, abbinati a una sequenza di piatti della tradizione langarola. Insomma, come dice l’amico e collega Paolo Ferrero, «la Toscana è chic ma il Piemonte è terrific!». Treiso Da Barbaresco a Treiso in auto «ci vogliono pochi minuti di strada ma conviene farla piano piano, magari a piedi, gustando il paesaggio, respirando l’aria» (op. cit.). Il nome del paese risale alla dominazione romana e indicava il “terzo miglio” di distanza da Alba, quindi circa cinque chilometri. Il territorio, come detto, è interamente compreso nel disciplinare di produzione del Barbaresco: pertanto qui 56

si coltivano soprattutto vigneti di uva Nebbiolo, anche se abbiamo una rilevante produzione di Moscato e poi, in misura minore ma non in qualità, Dolcetto, Barbera, Langhe Chardonnay e altri vini con denominazione generica “Langhe”, e di qua, di là, eccetera. Ma basta parlare di vino! Beviamolo. In paese, affacciata sulla piazza che domina un mare di vigneti, potete trovare la Bottega dei Grandi Vini di Treiso, e dentro potete trovarci tutte le bottiglie che volete, e dentro le bottiglie i vini, e dentro i vini le storie di questi luoghi. Noi, dentro una bottiglia di Moscato, abbiamo trovato questa (è una storia ma, presto lo capirete, è anche una geo­grafia). Si racconta che tra Cappelletto e Treiso vivesse una famiglia composta da sette fratelli e una sorella. La donna, religiosa e pia, frequentava quotidianamente le funzioni in chiesa, mentre i fratelli erano sette miscredenti votati unicamente alla cura delle loro viti. Un venerdì, mentre erano intenti a lavorare in vigna, i sette vennero raggiunti dalla sorella che recava un cesto per il pranzo, assai magro come prevedeva l’astinenza per quel giorno della settimana. I fratelli, risentiti, cominciarono a insultare la donna e bestemmiare. Come se non bastasse, di lì a poco passò la processione del Viatico: era infatti uso, ai tempi, che il sacerdote portasse la Comunione agli anziani del paese in forma solenne. La sorella invitò i fratelli a sospendere il pasto e inginocchiarsi in preghiera con lei, ma quelli rifiutarono l’invito riprendendo a bestemmiare ancora più forte. Fu allora che il terreno si aprì sotto i loro piedi inghiottendoli per sempre, ma lasciando salva la devota sorella (e la processione, ça va sans dire). Quel che rimane si può vedere ancora oggi: una spettacolare voragine ad anfitea­ tro, denominata Rocche dei Sette Fratelli, a sud di Treiso. Potete arrivarci a piedi attraverso uno scenografico sentiero, ma dipende da quanto avete bevuto prima. 57

A questo punto possiamo lasciare il triangolo del Barbaresco e scendere verso l’ormai vicinissima Alba. Ma prima, visto che Brian Eno e Treiso hanno in comune una “Eno-logia” (il vino Long Now delle Cantine Pellissero), non possiamo esimerci dall’estrarre una nuova carta delle Strategie oblique, la numero 1: “La distorsione spaziale”. Ottimo, finalmente possiamo parlare di Las Vegas. Las Vegas, Stati Uniti di Langa Fate bene attenzione a quello che ora vi raccontiamo. Dovete sapere che ogni anno, durante la Fiera del Tartufo Bianco di Alba, viene messo all’asta almeno un pezzo da capogiro, un tartufo da centomila euro, per intenderci. In genere se lo aggiudica il grande ristorante pluristellato, il tycoon asiatico o lo sceicco che vuole mettersi in mostra. Ma quell’anno, stiamo parlando di tempi recenti, il Grande Tartufo venne acquistato da una nota casa da gioco di Las Vegas, con l’idea di metterlo nuovamente all’asta, questa volta per beneficenza. Emerse subito il problema del trasporto: gli Stati Uniti infatti hanno un regime doganale severissimo che prevede, per esempio, il divieto di introdurre qualsiasi tipo di terra o terriccio nel paese. Ma privare il tartufo del suo velo terroso sarebbe una pazzia, perché se ne comprometterebbe la conservazione. Questi dubbi assillavano il comitato albese, finché arrivò la proposta: «Spediamolo con un corriere espresso, no?». Ma l’idea fu rigettata immediatamente: «Un cliente spende centomila euro e tu gli mandi la merce con il corriere? Neanche per scherzo». Senza contare che laggiù, a Las Vegas, stava per partire una festa di beneficenza stellare, con quaranta 58

giornalisti e cinquanta fotografi e non si sa quante tv pronte a immortalare vip e ricconi: e proprio la volta che il Grande Tartufo di Alba figurava come star della serata si doveva rinunciare a un’entrata in scena da prima donna? Non fosse mai. All’unanimità si decise di rischiare. Venne chiamato il buon Giacomo (anche se il nome vero è un altro...). Lo vestirono con un bel completo giacca e pantalone nero, con tanto di croce di Alba nell’asola del reverse, dopodiché, fornito di borsa con il prezioso tartufo, venne imbarcato sul primo volo verso gli States. Il buon Giacomo si presentò all’arrivo con un certo affanno: è vero che il rischio era minimo (i metal detectors non detectano tartufi) ma la dogana americana è sempre un brutto affare, e forse una sorta di ricordo ancestrale degli interrogatori di Ellis Island patiti dai nostri bisnonni lo rendevano inquieto e in allerta. Invece tutto filò liscio. Passati controlli e colloqui, Giacomo procedeva tranquillo verso l’uscita dell’aerostazione quando un beagle della sicurezza si lanciò sul borsone abbaian­do all’impazzata. La frittata era fatta. Quattro energumeni saltarono addosso allo spacciatore di Tuber e lo portarono in una di quelle stanzette che si vedono solo nei film, dove lo fecero energicamente accomodare. «Cosa c’è qui dentro?», chiese subito quello che sembrava il capo della sicurezza, un uomo in camicia bianca e cravatta nera, con due occhi da iguana. «Truffle», rispose timidamente Giacomo. I quattro si guardarono perplessi. «Mushroom», specificò allora. Sui volti degli americani si dipinse un’espressione allarmata, quasi avesse confessato di trasportare un cadavere imbottito di esplosivo al plastico, granate e cocaina («the dark side of the mushroom»). 59

L’uomo con gli occhi da iguana gli ordinò di aprire la borsa, azione che lui eseguì con enorme calma. Svolse il pacco e mostrò il Grande Tartufo, spiegando che si trattava di una prelibatezza gastronomica cui solo il caviale poteva tener testa. La parola caviar non fece molta impressione sui quattro. Sembravano osservare qualcos’altro: quel robo, qualunque cosa fosse, era ricoperto di uno strato di spaventosa, pericolosissima e vietatissima... terra! Il capo passò l’indice sul tartufo e sventolò sotto il naso di Giacomo il velo di terriccio rimasto sul polpastrello. «What is this?», lo incalzò. Giacomo spiegò che si trattava di pochi grammi di terra, indispensabili alla conservazione della preziosa leccornia. L’uomo andò su tutte le furie. Partì con un discorso animoso e violento, in cui Giacomo, benché conoscesse la lingua, distinse solo poche parole: “Italians”, “cheat”, “mafia” e – così almeno gli parve – “pizzamandolino”. Alla fine il doganiere capo, irato come un supereroe dei fumetti davanti al suo peggiore nemico, spiegò che il tartufo non poteva entrare in terra americana e perciò si doveva incenerirlo seduta stante. Il buon Giacomo fissò il terriccio sul tartufo, ricordò il detto «terra sei, terra ritornerai», e la sentì mancare sotto i piedi. Non vedeva più la stanzetta ma l’ingresso della sala da gioco di Las Vegas, le limousine, e poi, all’interno, i tavoli apparecchiati, i quaranta giornalisti, cinquanta fotografi e non si sa quante tv, tutti pronti a immortalare vip e ricconi e lì, al centro di tutto, un’urna con le ceneri del “fu tartufo”. Centomila euro in fumo, letteralmente. Il doganiere capo gli scosse una spalla e lui si riprese. Deglutì e decise di giocare fino in fondo le poche carte a disposizione. Spiegò che quel Tuber costava un occhio della testa 60

e che lo stava portando a Las Vegas dove sarebbe stato il protagonista di un’asta di beneficenza. Alla parola “beneficenza” il doganiere capo sembrò illuminarsi. Vagò con lo sguardo sul malcapitato e poi, sgranando gli occhi da iguana, indicò in sequenza, lentamente, prima il volto di Giacomo, poi gli abiti neri e infine la croce sull’asola. A quel punto, con l’acume di un tenente Colombo in lsd, domandò: «Father Giacomo?», scambiandolo in tutta evidenza per un prete. Giacomo, dopo un istante di esitazione, rispose con uno sguardo indulgente e annuì con gravità. Si alzò in piedi, riavvolse lentamente il tartufo nel suo involucro, quindi lo infilò nella borsa e si avviò a testa alta verso la porta. Sulla soglia si voltò verso i presenti e, con un sorriso benevolo, alzò una mano: «God bless you. God bless America». I sogni nascono all’Alba Alba è la capitale delle Langhe. La conosciamo bene, ma ogni volta che ci capita, ritorniamo con la dovuta rispettosa gioia. Oggi ci capita. La storia non ve la facciamo, se non vi dispiace. Non so, per dire, non vi raccontiamo che viene chiamata la città delle cento torri – cento a significare tante – e che oggi ne sono rimaste una decina a solleticare il cielo – una decina a significare una decina. Prima delle torri c’erano i romani, molto dopo i romani ci fu Napoleone, un bel po’ dopo Napoleone il tempo si fermò e ricominciò da uno, per terminare a ventitré: una storia di libera repubblica e di resistenza che Beppe Fenoglio – come già detto, a sinistra o a destra del Tanaro è difficile trovare un luogo di cui Fenoglio non abbia parlato – narrò da par suo nel primo dei dodici racconti di un volume che da queste parti è 61

una bibbia (e che dovrebbe esserlo anche fuori zona): I ventitré giorni della città di Alba. Ma torniamo un attimo indietro, nel Quattrocento, per l’esattezza, il secolo in cui furono inventati i tajarin. I tajarin sono una pasta fresca all’uovo di origine piemontese e appartengono alla tradizione culinaria di Langhe e Monferrato. La loro forma ricorda una sottile tagliatella. Si preparano impastando a mano farina e un quantitativo massiccio di uova intere, fino a creare un pane di pasta che viene successivamente steso con il mattarello in modo da ottenere sfoglie sottilissime. Le sfoglie vanno spolverizzate con farina di meliga, tagliate in striscioline, sempre a mano, quindi lasciate asciugare. Tajarin in piemontese significa “tagliolini”. Qui ad Alba vanno fortissimo e non vi sarà difficile incappare in veri e propri laboratori alchimistici, capitanati da maître à penser con il camice bianco. Si condiscono con il sugo di arrosto di vitello, con un sugo di selvaggina in salmì, con un particolare preparato di fegatini di pollo e polpa di vitello tritata o, più “semplicemente”, con burro fuso, parmigiano e tartufo bianco che, ad Alba, regna incontrastato in virtù di quella fiera internazionale che è stata punto di partenza della storia di Giacomo. Ma dicevamo delle torri nel centro storico: ecco, il centro storico è un trionfo di Medioevo vivente, con la Torre Artesiana, la Loggia dei Mercanti, il Palazzo Comunale, e di qua, di là, eccetera. E su tutto domina la Cattedrale di San Lorenzo, imponente edificio che forse già esisteva, in linee romaniche, nel 1100, ma che venne ricostruito completamente nel 1486. Poi ci sono le cattedrali magiche, quelle che piacciono a noi, à la Fulcanelli. Sono costruzioni prodigiose, stratificate, restie a manifestarsi (ma non da queste parti), e velocissime a dissolversi nei bui anfratti della conoscenza 62

pochi minuti dopo essere comparse. Ora, siccome non siamo architetti, e questa non solo non è una guida turistica ma è anche piuttosto lontana dall’essere un trattato architettonico, vi proponiamo una veloce panoramica in sezione di un esemplare di tale magia a scomparsa. Fondamenta: carne all’albese. È un carpaccio di vitello di razza fassone “cotto” nel succo di limone e condito con olio extravergine di oliva, sale, pepe nero e tartufo bianco di Alba (quando c’è). Navate laterali e transetto: vitello tonnato. È un girello (sempre di fassone) marinato per ore e ore nel vino bianco secco con carote, cipolle, sedano e alloro e successivamente bollito in acqua in compagnia dell’intera marinata, fatto raffreddare, tagliato sottilmente e infine servito con una salsa a base di tonno. Abside, coro e portico: la bagna caùda, di cui sapete già abbastanza. Torri: brasato al Barolo. Uno stufato cotto e stracotto in un vino di cui tra poco saprete tutto. Abside: torta di nocciole delle Langhe. Deambulatorio: pesche ripiene. Cappelle absidali: paste di meliga. Ma basta parlare di religione. Parliamo di sport. Il re delle competizioni di Langa è il pallone elastico (che qui tutti chiamano pallapugno): si gioca in due squadre, quattro contro quattro, e c’è bisogno di un alto muro d’appoggio. Un contrafforte va benissimo. I contrafforti da queste parti non mancano di certo e così la pallapugno si è sviluppata in questa piccola porzione del Piemonte, ma anche in Val Bormida e nell’entroterra ligure di ponente. Il campo si chiama sferisterio e quello di Alba, costruito nel 1855, è lungo novanta metri per diciotto di larghezza. La pallapugno si pratica fasciandosi il pugno con una serie di strisce di stoffa (mediamente per un totale di 12 metri) alle quali si sovrappone un pezzo di cuoio opportunamente modellato e una striscia di gomma che serve per ammortizzare il colpo e aiutare il giocatore nell’indirizzarlo. Si 63

colpisce una palla che ricorda un piccolo uovo di struzzo – anzi, ne approfittiamo per segnalarvi che a Diano d’Alba, a pochi chilometri a sud da qui, c’è un simpatico allevamento di struzzi alpini. Ci siamo andati. Chiuso. – e si conteggia la partita in una maniera molto simile al tennis (i polsi, però, a fine gara stanno peggio). È uno sport testardo, abbarbicato alla tradizione, con molteplici sottotesti sociali e locali. Un vero e proprio “affare di paese”, con gli spettatori che, oltre a scommettere sull’esito della sfida, approfittavano per dare consigli di genere sportivo ma anche no a destra e a manca. In Langa hanno giocato, nel tempo, dei campioni saliti nell’Olimpo del mito: Augusto Manzo, “l’uomo del balon”, protagonista di molte pagine di Giovanni Arpino e, soprattutto, Massimo Berruti e Felice Bertola, rivali storici, praticamente dei Coppi e Bartali indigeni. Se vi abbiamo incuriosito, vi consigliamo di fare un salto in una delle tante ottime librerie di Alba, ad esempio alla Milton, nel centro storico. Troverete pubblicazioni sul pallone elastico, sul vitello tonnato, sul Palazzo Comunale, su Beppe Fenoglio – Milton è appunto il nome del protagonista di Una questione privata –, su via Maestra, che è la principale arteria cittadina, sul vitello razza fassone, sui tartufi, ovviamente sui vini, e persino sui ciuchini. Alba: vini e ciuchini Non ci piace nominare un produttore, poiché ciò significa non nominarne un altro, quindi partiamo dagli asini. Nel 1275 Alba e Asti erano in guerra. Gli astigiani corsero il loro tradizionale Palio sotto le mura di Alba in segno di vittoria sulla città nemica. Gli albesi, a loro volta, decisero di correre un palio all’interno delle loro mura con gli asini, in segno di irrisione verso gli avversari. Nasce così il Palio degli Asini 64

di Alba, che viene rievocato ogni anno la prima domenica di ottobre in Piazza Cagnasso. Qui i diciotto asini delle borgate si contendono il Palio con i borghigiani che incitano e urlano e i fantini che tentano di farsi obbedire dagli asini, operazione dagli esiti imprevedibili. I ciuchini scalciano, arretrano, a volte s’impuntano e non si muovono più o, nella suprema perfezione della beffa, incominciano a correre ai mille all’ora ma in senso contrario a quello della gara. Asini in contromano a parte, la giornata del Palio è abbellita e colorata da una sfilata storica con oltre mille figuranti, sbandieratori, madamigelle damascate e matrone invellutate, soldati, alabardieri, cavalieri e popolane, mentre Alba, tra drappi e stendardi appesi alle finestre e sui balconi, ritorna per un giorno a essere una città medievale. Chissà come terminavano le giornate dispendiose, intense e polverose del Medioevo. Secondo noi come queste del Palio degli Asini: tutti assetati. Se vivete nel 2013 come noi, allora vi consigliamo di visitare Tenuta Ceretto, un luogo in cui la bellezza del territorio si sposa con la tradizione, la cultura, la conoscenza, il benessere, il bello (e la sete). Inoltre qui l’acino è stato catturato. Sulla sommità della collina Monsordo in Alba, infatti, troverete una grande bolla ovale, trasparente e sospesa tra le vigne, battezzata appunto Acino. Oppure fate una visita alle musicali Cantine Pellissero che, come direbbe la nostra guida Brian Eno con una Strategia obliqua, la numero 96, “incrementano i modi di connettere”. Cherasco: architettura, baci, lumache, e di qua, di là, eccetera A Cherasco arriviamo lentamente, perché la benzina sta terminando. Potremmo tentare l’esperimento di riempire il 65

serbatoio con il pintone di Nebbiolo che sta sonnecchiando comodamente seduto sul sedile posteriore, ma ne saremmo piuttosto dispiaciuti. E poi la lentezza è una qualità che non sfigura da queste parti. Ve ne parleremo tra poche righe. Cherasco, da qualsiasi parte la si rivolti, è un gioiellino. Per i cenni storici vi rimandiamo a una classica guida turistica. Lì, per dirne una, imparereste che la storia di Cherasco incomincia nell’autunno del 1243, quando il marchese Manfredi Lancia, vicario imperiale, e Sarlo di Drua, podestà di Alba, ordinano la costruzione della città sul pianalto alla confluenza dei fiumi Tanaro e Stura, nelle vicinanze di un villaggio di origine ligure che si chiama Cherascotto. Appena terminata l’edificazione arriva Carlo d’Angiò e la giovane Cherasco si unisce ad Asti, Alba e Chieri nella lega antiangioina e si dichiara indipendente, cosa che solletica il duca di Milano, tal Luchino Visconti, che arriva, la assedia e la occupa. Ma non finisce lì. Nei secoli successivi ci saranno Austria, Francia, Spagna, Mantova, Monferrato, il cardinale Mazzarino, il generale Massena, Napoleone (all’insegna di liberté, fraternité, beaujolais), e di qua, di là, eccetera. A questo punto, urge un santo patrono di una certa consistenza. Il santo patrono di Cherasco è il Cristo Risorto. Ma parlavamo di gioielli: sempre in quei tempi là, Cherasco era racchiusa da un tracciato murario quadrangolare – una struttura difensiva che, comprensibilmente, aveva il suo bel perché – e le case, per statuto, non dovevano oltrepassare l’altezza delle mura. Fu fatta un’eccezione per l’immancabile castello, che qui arrivò a metà del Trecento e che oggi rimane la testimonianza superstite di quel periodo invadente (e invaso). Un’altra caratteristica che è rimasta, luccicando come un gioiello prezioso, è la struttura a castrum romanum: Cherasco 66

è a pianta quadrata, con due grandi quartieri che si intersecano perpendicolarmente dividendo la città in quattro parti, con le vie che, a loro volta, li scompongono in isole regolari di ottanta metri per lato. Qui, insomma, anche se non siete più dei bambini, potete giocare al Gioco del Mondo, saltando da un quadrato all’altro, da un’isola all’altra, premurandovi di fare delle soste (non di penitenza, ma di piacere) al Palazzo del Municipio, alla Torre Municipale, all’Arco Trionfale – un vero capolavoro –, alla Chiesa di San Pietro, il monumento più antico della città e, ovviamente, al Castello Visconteo dove, tra l’altro, vi verrà offerta una vista mozzafiato sulle colline di Novello, La Morra e Vergne. Ma ora passiamo dalle soste di piacere alle camminate di goduria pura. Dovete sapere che Cherasco e le sue frazioni offrono in ogni periodo dell’anno manifestazioni artistiche, folkloristiche, culturali, sportive e, soprattutto, grandi mercati. Vi consigliamo spassionatamente di raggiungere la zona se vi interessate di: libri antichi, filatelia, musica, antiquariato, collezionismo, modellismo, giocattoli antichi, mobilio, vintage vario ed eventuale, vetro, ceramica, orologi d’epoca, cicli, motocicli, fotografia, cioccolato d’autore (la cui summa è raccolta nel ripieno dei baci di Cherasco, cioccolatini con cacao di alta qualità e nocciole delle Langhe) e lumache. E già, perché a Cherasco c’è la lumaca. La lumaca, o chiocciola per gli italianisti toscaneggianti (noi, suvvia), raggiunge la sapiente velocità massima di quattro metri all’ora e a tale velocità ha attraversato il mondo, dalla scoperta del fuoco fino alle coltivazioni di elicicoltura, che da queste parti abbondano. Lungo questa infinita strada temporale la lumaca ha conosciuto i greci e i romani, è finita nel trattato di cucina di Marco Gavio Apicio – che la spur67

gava nel latte e poi la arrostiva –, è diventata protagonista di alcune pagine di Plinio il Giovane (nulla di commestibile gli è mai sfuggito) e di Seneca, ha viaggiato in traghetto verso la futura Capitale dalla Sardegna e dalla Sicilia, da Capri e dalle coste spagnole e nordafricane e i romani, che, si sa, insegnavano a tutti la gastronomia caput mundi, spiegarono per filo e per bava ai galli l’arte dell’escargot. Il libro delle lumache del grande palotino Camillo Giuseppe Vezza ci racconta che il mondo delle lumache non è molto diverso da quello degli uomini: c’è la lumaca montagnina, scorbutica e solitaria, che si chiama Helix pomatia e borbotta su tutto l’arco alpino e sugli Appennini; c’è la più solare Helix aspersa, che abbellisce i giardini liguri e siciliani; in Puglia e in Calabria e nelle due isole italiche vive l’Helix aperta, detta anche cozza di terra; e ancora l’Helix lucorum o vignaiola scura, un vero gigante della categoria, che si trova a suo agio nei boschi; la rigatella laziale, l’Helix pisana che, a dispetto del nome, vive in Sicilia, dove i nipotini del Gattopardo la chiamano “babbalucio” (se poi il babbalucio invece di essere bianco e aperto come una nuvola è chiuso e otturato come una seduta in Parlamento, i nipotini di Pirandello lo chiamano “attuppateddu” e, infine, se l’attuppateddu è bello ciccio, allora i nipotini di Capuana lo chiamano simpaticamente “crastuni”; fine della parentesi siciliana). E a Cherasco? A Cherasco, come a Sanremo, fanno il Festival. Si svolge ogni anno a settembre e ci sono le majorettes, la banda musicale del paese, gli sbandieratori, ma anche i ristoratori, gli allevatori, gli studiosi, i commercianti e quelli come noi, i golosi. Tutti a festeggiare il mollusco. Frittatine, spiedini, risottini, lumachine piccine e anche no. Se ci capitate nell’anno fortunato, rischiate persino di incontrare l’esimio letterato Camillo Giu68

seppe Vezza che, tra un guscio e l’altro, declama in quartine il suo amore per queste creature: La lumaca l’ansia placa Brezzolina sull’amaca Bei ricordi nella teca E a Cherasco tanto amor.

L’Università dei cani da tartufo Da Cherasco ci riavvolgiamo a spirale come un guscio di lumaca (chiocciola!) e torniamo indietro fino a Roddi, primo comune di un Grand Tour che sogniamo da sempre: le Baroliadi. Qui la Langa offre il suo meglio: il “re dei vini”, il Barolo, abbinato al “diamante della cucina”, il Tuber magnatum Pico noto al mondo (con l’eccezione dei doganieri americani) come tartufo bianco. Roddi si presenta come il “borgo dei tartufi”: sotto il tiglio all’entrata del paese un’installazione sottolinea il legame tra i tartufi e le radici degli alberi; davanti al Palazzo Comunale c’è la sagoma del trifolao (il cercatore di tartufi); il sottoportico dello stesso edificio ospita il Grande Libro dei Cercatori di Tartufi e all’interno è allestita un’esposizione di documenti storici prestati dall’Archivio Storico del Tartufo, e di qua, di là, eccetera. Uno di questi eccetera però merita un approfondimento, anche in virtù della nostra carta numero 7: “Quando la ricerca avrà progredito, qualche cosa si troverà”. Dalla fine dell’Ottocento, infatti, a Roddi esiste l’Università dei cani da tartufo, fondata dalla famiglia Monchiero e oggi alla quarta generazione: l’attuale Magnifico Rettore è Giovanni Monchiero detto Barot IV. Questa particolare scuola 69

divenne famosa a partire dagli anni Trenta grazie al celebre ristoratore albese Giacomo Morra e a suo figlio Mario, i primi a condurre clienti e giornalisti provenienti da tutto il mondo a caccia di tartufi, un tipo di ricerca che oggi attira turisti e rapper (come vedremo più avanti). Come è noto, Langhe, Roero e Monferrato sono da secoli riconosciuti come terre da tartufi: sia i preziosi bianchi autunnali, sia i pregiati neri invernali, sia i neri estivi. Mentre del Tuber parla già il naturalista greco Teofrasto nel III secolo a.C., e poi ovviamente Plinio il Vecchio (come al Giovane, nulla di commestibile gli è mai sfuggito), poco si sa dei metodi di ricerca del tartufo fino al Seicento. Le scuole sono due: quella francese, in cui si utilizzano i maiali (cochon, porc, goret, verrat, pourceau, marcassin, sanglier, truie, porcelet, cochonnet, e di qua, di là, ecceterà), e quella piemontese, in cui si utilizzano i cani (vedi in proposito il poema Tubera terrae carmen, pubblicato a Torino da Giovanni Bernardo Vigo nel 1776, quando ancora i letterati si occupavano di cose serie). Morale: dicono che la scuola, così come molte istituzioni, sia in crisi, ma questa di Roddi gode di ottima salute. Ogni anno, infatti, all’Università dei cani da tartufo si laureano degli allievi molto speciali, assecondando tra i latrati il motto dei Monchiero: «Beato il cane che studia». A dirla tutta pare che negli anni Quaranta il primo professor Barot esponesse un cartello un po’ diverso: «Felice quel cane che studia. E per quello che non studia la dieta è rigorosa». Ma, si sa, i tempi cambiano e anche i metodi d’insegnamento si son fatti più fiacchi e lassi. Già che siamo in argomento – di scuola e di tartufo – cogliamo l’occasione per dare qualche consiglio. Il primo è sull’utilizzo in tavola: il tartufo va servito crudo, tagliato a fettine molto sottili (foglioline) su piatti semplici e poco 70

conditi. Ogni altro uso è ignoranza (e in giro abbonda). Il secondo consiglio, più utile, è su come andare a caccia del tartufo bianco: in autunno avventuratevi nei boschi e nei terreni coltivati con il vostro maiale francese o con il vostro cane cuneese e prestate attenzione alle radici di tigli, farnie, cerri, noccioli, pioppi, roveri, roverelle, salici bianchi e carpini neri. Quando vi siete stufati cercate un negozio specializzato o visitate una delle tante fiere o aste che si tengono da queste parti. Barolo Bel posto. Buoni vini. Tutto è legato a grappolo Carta 11 delle Strategie oblique: “Continua”. Secondo la disciplinare, la zona del Barolo docg comprende i territori dei comuni di Barolo, Castiglione Falletto e Serralunga d’Alba e parte dei territori dei comuni di Cherasco, Roddi, La Morra, Monforte d’Alba, Verduno, Diano d’Alba, Novello e Grinzane Cavour. Morale: siamo in piene Baroliadi. Come il Barbaresco anche il Barolo si produce dai vitigni di Nebbiolo, coltivato in queste zone da tempo immemorabile. Ma fu grazie a Camillo Benso conte di Cavour e a Giulia Colbert Falletti, ultima marchesa di Barolo, che si cominciò a produrre questo vino ottenuto dopo lungo invecchiamento in botte: un vino eccezionalmente ricco e armonioso, dal colore rosso granato con riflessi aranciati, dal bouquet pieno, morbido, austero, complesso e avvolgente, e di qua, di là, eccetera (scrivere di vini è come ballare di architettura, per parafrasare Frank Zappa). 71

La tradizione racconta che in quegli anni il re, Carlo Alberto di Savoia, chiese alla marchesa Falletti di poter assaggiare quel «suo nuovo vino» e lei, con una mossa che oggi in marketing si chiamerebbe product placement, lo omaggiò di un esagerato numero di carra di Barolo (le carra erano l’equivalente delle moderne autobotti, ovvero botti da trasporto su carro della capacità di circa 492 litri). Il re fu così entusiasta del vino che ne fece una sorta di ambasciatore dei Savoia nelle corti di tutta Europa e comprò la tenuta di Verduno per avviarvi una sua produzione personale. Ora provate a ripensare a questa storia in altri termini: Camillo Benso conte di Cavour soggiornò dal 1832 al 1849 nel castello di Grinzane, oggi sede dell’Enoteca Regionale Piemontese Cavour; il castello di Barolo, dove visse la marchesa Falletti (alle cui dipendenze, come bibliotecario, lavorava Silvio Pellico), è sede del WiMu, il più innovativo museo del vino d’Italia, il cui percorso espositivo è stato curato da François Confino, già autore del geniale allestimento del Museo del Cinema di Torino; il castello di Verduno, dal 1953, è una rinomata struttura ricettiva, con hotel, ristorante, cantina e agriturismo. Il succo della faccenda è proprio questo: qui è tutto legato. Storia, territorio, cultura, vino ed enogastronomia sono un tutt’uno inscindibile: tanti acini di uno stesso grappolo (di Nebbiolo, ça va sans dire). Perciò noi, nell’impossibilità di esaurire perechianamente questi luoghi, li spiccheremo come chicchi, un po’ di qua, un po’ di là, eccetera. Ripartiamo da Barolo. Il borgo è un gioiellino di pietra, porfido e cantine, circondato da colline di vigneti a perdita d’occhio. Potete visitare il WiMu, di cui si è detto, o il Museo del Cavatappi (con più di cinquecento esemplari dal Settecento ai giorni nostri, a T, a vite, a leva, in legno, ottone, 72

osso, corno, ebano, avorio, argento, tartaruga, e di qua, di là, eccetera); potete perdervi tra cantine e botteghe, pranzare o cenare sulla meravigliosa terrazza del ristorante Brezza (un nome che qui fa rima con ebbrezza), o capitare in una delle tante fiere, per esempio ad “A tutta trippa” o alla “Festa del Barolo”, entrambe in ottobre, oppure in luglio al “Festival di letteratura e musica Collisioni”, che un tempo si teneva nella vicina Novello e che negli anni ha visto suonare in Langa star internazionali del calibro di Bob Dylan e Patti Smith; potete abbuffarvi di cioccolato, torte alla nocciola, e di qua, di là, eccetera. Questo è quello che potete fare. Ora passiamo a quello che dovete fare. Comprarvi qualche bottiglia di Barolo. I produttori sono tantissimi e, se ne citiamo uno, facciamo un torto all’altro, perciò non ci piace. Ma possiamo fare i fagiani: se per esempio diciamo solo Borgogno, senza specificare, prendiamo almeno quattro produttori diversi. E poi i nostri preferiti: Vajra, Boschis, Damilano e... ma abbiamo detto di non fare nomi. Quindi ne facciamo un altro: Bartolo Mascarello che, come Romano Levi, è stato uno dei leggendari produttori di Langa, quello che sulle etichette del suo Barolo scriveva «No Barrique No Berlusconi»: no alle diavolerie francesi del vino profumato dal legno e no all’avventurismo della politica. Ci fu chi lo denunciò per offesa al capo del governo e allora lui appiccicò un’etichetta sull’etichetta, con scritto: censura. Per ricordarlo, rubiamo le parole sentite di Giorgio Bocca, in occasione della sua morte, nel 2005: Alla sua scrivania Bartolo, nel suo italiano einaudiano, scriveva lunghe lettere agli incauti metà di rimprovero metà di consiglio fraterno per ricordargli i genius loci, i delicati rapporti fra stagioni

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e microclima, fra i sapori e i furori della natura, per ricordargli che quella conca perfetta tra Monforte e la Morra, in vista delle grandi Alpi bianche di neve è un bene raro e prezioso che andava trattato con sapienza e delicatezza.

E ancora: Si aprivano su di noi le distanze senza confine delle idee e delle affinità e le seguivamo nell’ufficio con le pareti coperte dai libri giusti, ci sedevamo attorno alla scrivania, sempre quella, con le matite, le penne, i registri, l’ordine di un mondo ordinato, dove vive gente che conosce il posto in cui lavora, i suoi geli e i suoi tepori, come si alzano a forza di braccia le capezzane della vigna, come si pianta, come si pota e come si vendemmia. Andare a trovare Bartolo salendo in Langa dalla grande città sporca e confusa era ritrovare la ragione di una vita che ha un senso dalla nascita alla morte, una vita che si prende sul serio anche nelle cose mini­ me, dove tutto ha una sua ragion d’essere, tutto è una conquista della umana intelligenza e applicazione e pazienza.

Il miglior Barolo Questo è un argomento delicato e i produttori permalosi dovrebbero saltarlo. Siamo all’Enoteca Vicolo del Pozzo, proprio nel centro di Barolo, e questo è il nostro dialogo con Gianni, il proprietario. Luca: «Ci rendiamo conto della difficoltà della domanda, ma tu che hai quasi tutti i produttori hai sicuramente il tuo Barolo preferito. Qual è il più buono?». Gianni: «Certo, secondo me...». Enrico: «Sappiamo che è una questione delicata, e poi magari lo mettiamo nel libro...». Luca: «E sai, la diplomazia, tu sei di qui e...». 74

Gianni: «No, no, ma ce l’ho e...». Enrico: «E non ce lo vuoi dire?». Luca: «Non vogliamo insistere, ti capiamo...». Gianni: «Ma ce l’ho, vi dico». Enrico e Luca: «...». Gianni: «Il Barolo migliore è... quello che ti piace di più». Un acino di qua, un acino di là Non vi raccontiamo che Grinzane è un posto magnifico. Il castello, realizzato intorno alla torre centrale della prima metà dell’XI secolo, ospita la sede dell’Enoteca Regionale Piemontese Cavour, la prima della regione: una vetrina prestigiosa dove è possibile degustare e acquistare i migliori vini e le migliori grappe piemontesi. Ogni anno qui, la seconda domenica di novembre, ha luogo l’Asta Mondiale del Tartufo Bianco di Alba. Il castello era anche la sede del premio letterario Grinzane Cavour, prima che il suo patron, Giuliano Soria, fosse travolto da uno scandalo epocale. Di qui sono perciò passati molti Nobel per la letteratura e il fior fiore degli scrittori italiani e internazionali. Rimane sede di un museo di cimeli cavouriani, di un ristorante, e dell’Ordine dei Cavalieri del Tartufo e dei Vini d’Alba. Non vi raccontiamo che Verduno è un posto magnifico. Qui – oltre al castello, di cui abbiamo già detto – c’è lo studio del pittore Valerio Berruti: una chiesa sconsacrata del XVII secolo da lui acquistata e restaurata nel 1995. Qui si produce il Verduno Pelaverga, un eccellente rosso doc, e di qua, di là, eccetera. Non vi raccontiamo che Novello è un posto magnifico. Un balcone affacciato sulle Langhe con in cima l’immancabile castello (stavolta neogotico) oggi adibito a hotel-ristorante. Ai 75

tempi in cui il paese era sede del Festival “Collisioni”, uno di noi due ha parlato con Paul Auster. Questa informazione piacerà al Grande Capo Estiqaatsi. Non vi raccontiamo che La Morra è un posto magnifico. C’è la Cantina Comunale (ricavata nei locali settecenteschi del palazzo dei Marchesi di Barolo) e, nella frazione Annunziata, il complesso romanico-barocco dell’ex convento benedettino, le cui cantine ospitano il Museo Renato Ratti dei Vini d’Alba; ci sono tanti produttori eccellenti (per non fare un solo nome: Dosio); be’, poi ci sono torri e parrocchiali e confraternite ed enoteche, e di qua, di là, eccetera. Ma chi insegue l’acino fuggente non può perdersi la Mangialonga di fine agosto (la prima, la storica, l’originale, la più imitata): una camminata mangereccia lungo quattro chilometri di colline e vigneti, un appuntamento festoso dove il vero sport consiste nel degustare le prelibatezze tipiche di Langa accompagnati dai vini più pregiati. Non vince chi arriva primo: l’impresa è arrivare al traguardo. Non vi raccontiamo che Castiglione Falletto è un posto magnifico. C’è un grande castello che domina dall’alto tutto il territorio e tanti produttori eccellenti (per non fare un solo nome: Livia Fontana). Non vi raccontiamo che Monforte d’Alba è un posto magnifico. In realtà non lo fu per i catari che qui, nel 1028, vennero sconfitti dall’armata inviata dall’arcivescovo Ariberto d’Intimiano e deportati a Milano, dove si trovarono costretti a scegliere tra abiura e rogo, e molti scelsero il rogo. (D’altronde con i catari non si andò mai per il sottile: celebre è ciò che avvenne circa due secoli dopo a Béziers, quando il legato pontificio Arnaud Amaury, non sapendo come distinguere, tra i ventimila assediati, i catari dai cattolici, decise cristianamente: «Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi».) A Mon76

forte – oltre a due chiese, due oratori, sette cappelle e molte grandi cantine (per non fare un solo nome: Conterno Fantino) – esiste l’Auditorium Horszowski, inaugurato nel 1986 dal pianista Mieczysław Horszowski: un anfiteatro naturale dall’acustica perfetta, ricavato dalla pendenza morfologica naturale del terreno e sede di concerti, spettacoli teatrali e del Festival “Monfortinjazz”. Poi ci sono i sette sentieri di Monforte, e ancora il Museo Civico con oltre cento esemplari di uccelli tassidermizzati, e di qua, di là, eccetera. Non vi raccontiamo che Serralunga d’Alba è un posto magnifico. Il castello è un gioiello medievale dalle caratteristiche uniche e fa parte del circuito degli otto castelli doc, insieme a quelli di Grinzane Cavour, Barolo, Govone, Magliano Alfieri, Roddi, Mango e Benevello. Nei dintorni ci sono alcuni dei più celebri produttori del Piemonte (per non fare un solo nome: Fontanafredda, proprietà del patron di Eataly, Oscar Farinetti). Non vi raccontiamo che xxx (mettete un nome a caso tra quelli sopra) è un posto magnifico. Le colline di Langa si specchiano intorno in un vivace gioco di profili, poggi, bricchi e file di vigneti. In cima c’è un castello, e poi ci sono torri e parrocchiali e confraternite ed enoteche, vinerie, cantine, wine shop, e di qua, di là, eccetera. Morale Uno: ci spiace passare su queste zone senza gli approfondimenti che meriterebbero, ma sono luoghi già famosi e soffermarsi su tutto è impossibile, ci vorrebbe un libro ad hoc. Perciò facciamo un patto: lo scriveremo quando questo qui arriverà alla quattordicesima edizione, in onore della gradazione. Ok? Morale Due: correre le Baroliadi è impossibile.

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Jay-Z in Langa A questo punto – anche se il generoso lettore se ne sarà già accorto – va ribadita una cosa: questa è una guida un po’ anomala. Non segue strade dritte, non enumera chiese, non si sofferma troppo su architetti e pittori, ma spulcia qua e là il territorio fino alla pelle cruda, come la vecchia langarola fa con il cappone ruspante. In una cosa però questo libro è assai coerente: qui si raccontano molte storie. Ed eccovene un’altra. Qualcuno di voi, soprattutto i più giovani, conoscerà certamente il rapper Jay-Z. Secondo la bibbia dei tycoon – la rivista americana «Forbes» – Jay-Z è al secondo posto nella classifica delle stelle della musica più ricche al mondo. Il suo patrimonio supera infatti il mezzo miliardo di dollari, e a questo va aggiunto quello della moglie Beyoncé (per molti versi ella stessa un patrimonio). Ora, si chiederà qualcuno, cosa diavolo c’entra un rapper di colore con la Bassa Langa? C’entra, c’entra. Perché il nostro uomo è un appassionato gourmet nonché un notevole intenditore e collezionista di vini. Capita così che, in un vicinissimo novembre, Jay-Z piombi in Langa, ovviamente sul suo aereo privato, insieme a un’allegra brigata composta da una quindicina di amici newyorkesi. Ora: non ci interessa troppo raccontare la loro gita nei dettagli, ma sicuramente ci interessano le tappe, perché chiunque di voi le può percorrere anche senza possedere un aereo personale. La prima è a Castiglione Falletto. Qui, alla Cantina Vietti, Jay-Z è stato accolto dal barolista Luca Currado e ha assaggiato bottiglie che forse non tutti si possono permettere (ma ce ne sono molte altre che chiunque può permettersi). La seconda tappa è stata in una delle più famose cantine del Piemonte, quella di Angelo Gaja a Barbaresco, una sorta di sancta sanc­ 78

torum per tutti gli amanti del vino a livello internazionale. Le notti della brigata newyorkese sono trascorse prima al Relais Villa Pattono di Costigliole d’Asti, della famiglia Ratti, e poi al Relais San Maurizio di Santo Stefano Belbo. C’è stata poi la consueta gita nei boschi a caccia di tartufi, conclusa con una tattica ritirata ad Alba per acquistare ben tre chili e mezzo di trifole (da Morra e da Tartufingros) e una cena al Tornavento di Maurilio Garola, a Treiso. Perché vi raccontiamo tutto questo? Perché questa è una guida, e tutti questi indirizzi sono aperti anche a portafogli molto meno gonfi di quello di Jay-Z, ma anche perché siamo orgogliosi che le scelte enogastronomiche di una star d’oltreoceano – non certo l’unica appassionata del Piemonte, come avete già notato nel libro, e come noterete ancora – ricadano su luoghi che amiamo e sentiamo vicini. Ma c’è un terzo motivo. Una riflessione. E cioè che il mondo va così, è in continua evoluzione. Negli anni Sessanta i Beatles si rinchiusero a meditare e recitare mantra nell’ashram del guru Maharishi, alle pendici dell’Himalaya, e ne venne fuori l’Album Bianco. Negli anni Dieci Jay-Z planò in Langa, per cantine e colline, e ne venne fuori con il Tartufo Bianco. Dogliani: vindimiar qualche dozzetti Noi il tartufo bianco non ce lo possiamo permettere, non perlomeno in quantità hip hop (e hurrah), perciò ci spostiamo a Dogliani, altro importantissimo centro di Langa di origine preromana e ceppo ligure, passato di marchesato in marchesato, dai Saluzzo agli immancabili Savoia, e di qua, di là, eccetera. Dogliani è un piccolo capolavoro di torrette, campanili e chiesette. È anche un luogo di spaesamenti e accavallamenti 79

e, se fosse una poesia, si reggerebbe sull’enjambement. Apposta lì per dimostrarlo c’è l’ingresso del suo cimitero, una sorta di portale spazio-temporale arabo-gotico-disneyano che, comparso dal nulla dopo una curva in salita (Dogliani è una città di curve in salita. Be’, certo, dipende se ci si arriva o se si va via), ci insuffla il desiderio di brindare al più presto al Tempo (e all’Acino) Fuggente. Niente di più semplice: qui, da che mondo è mondo, Dogliani uguale Dolcetto. Ma attenzione, non si dice più Dolcetto di Dogliani: la doc ha eliminato la parola Dolcetto e oggi si chiama solamente il Dogliani. Ah, i nomi dei vini, che delizia, che filosofia! Sentite un po’ come andò qui, quando per la prima volta il nome fu pronunciato, anzi scritto. Siamo nel 1593 e la municipalità di Dogliani emana un severo documento: «Ordini per le vindimie. Niuno ardischi, al di qua della festa di San Mateo del 21 settembre vindimiar le uve, et se qualcheduno per necessità od altra causa, dovrà vindimiar qualche dozzetti dovrà prender licenza dal deputato; sotto pena della perdita delle uve». Vino segretamente prezioso, dunque. Vino estraneo alla precocità, maturo, giusto, equilibrato. E, se vi interessa abbinare alla storia la vista, l’olfatto e il gusto, nel Palazzo Comunale di Dogliani, da trent’anni a questa parte, ha sede la Bottega del Vino, ente che promuove e valorizza i migliori produttori doc e docg della zona, ammettendo nelle proprie cantine solamente quelli che hanno superato un’accurata selezione degustativa. In chiusura, anche se è appena fuori zona, va citato il motto della Cantina Clavesana: «Esistiamo in virtù di una coscienza coraggiosamente semplice e vera: siamo Dolcetto».

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Com’è bello il Belvedere (specie se poi si va a bere) Il Piemonte è l’area più terroiristica d’Italia. Ha una forte somiglianza con la Borgogna e i suoi due vini più amati nel mondo – Barolo e Barbaresco – sono la risposta italiana alla Côte d’Or. Ma poi qui c’è l’Asti, il Moscato, il Nebbiolo, la Favorita, l’Arneis, la Barbera, l’Erbaluce, il Dolcetto, il Grignolino, la Freisa e di qua, di là, eccetera. Morale: facciamo un’adeguata scorta e ci rimettiamo in macchina. Ciò che colpisce, appena usciti dal centro abitato, con una singolare appendice di costruzioni in pietra, e ponti e contrafforti, che nominiamo arbitrariamente “Dogliani Alta”, sono i cigli della strada, ridiventati subito vigna e poi vigna e poi ancora vigna. Passiamo alcuni relais – tra cui un Poderi Einaudi, che salutiamo –, uno dei tanti santuari (questo è dedicato alla Madonna delle Grazie) e ci accorgiamo che da qualche chilometro, in direzione Belvedere Langhe, molti filari dalla morbida collina terminano mansueti ai piedi della strada con un pilone votivo, spesso affrescato. Ce ne sono a decine. Eh, sì, le vigne hanno bisogno di molta cura, ma anche di protezione. Arriviamo a Belvedere Langhe, nell’alta valle del Tanaro. Da qui è possibile ammirare l’arco alpino quasi a giro di compasso: dalle Alpi Marittime alle Alpi Cozie, Monte Rosa compreso. Siamo a poco meno di settecento metri d’altitudine, più una scala in ferro su un rudere in mattoni. Eh, sì, il Belvedere di Belvedere Langhe è proprio un bel vedere. Noi, però, siamo più sensibili a un altro inaspettato e sorprendente cambiamento di visuale. Ci siamo accorti che da una manciata di chilometri in qua le vigne sono andate via via diradandosi fino a scomparire del tutto, per lasciare il posto a 81

frutteti a perdita d’occhio, di un unico, inequivocabile frutto: la nocciola. Perciò, prima di entrare nella Langa dei noccioleti, ci pare necessario un utile monito a voi, come noi visitatori non astemi. La Sindrome di Venere ovvero il Santo Filare Dunque, giunti a questo punto della nostra guida passionale, ecco di che cosa si tratta. Questi sono luoghi che vanno assaporati in dosi omeopatiche. Parliamo del sapore visivo, ovviamente, se così si può dire, non certo di quello più tradizionale che passa dal palato. Lì potete commisurarvi liberamente con la vostra personale capienza, pantagruelica o scricciolina che sia (in quest’ultimo caso, però, vi consigliamo di scegliere altre terre per le vostre escursioni). No, no, qui scende in campo la Sindrome di Venere. Vi ricordate la Sindrome di Stendhal? Ecco un succinto ripassino: lo scrittore francese, nel 1817, compie un Grand Tour nella sua adorata Italia e, quando giunge a Firenze, sta male. Cediamogli per un attimo la voce: «Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti e i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere». Ecco: anche se, come già vi sarete accorti, le chiese non mancano di certo da queste parti, né santi protettori di un certo livello, il problema della bellezza ad abundantiam, quella che provoca tachicardia, capogiri, vertigini, confusioni di variegati livelli e allucinazioni che ora andremo a elencare, è celato nella via di fuga del Santo Filare. Sì, perché scavallare una collina via l’altra, cambiare direzione allo sterzo del 82

volante, procedere lentamente sui crinali delle colline, che spesso sono gli unici punti in cui è stato possibile disegnare una strada asfaltata, e continuare ad avere davanti e dietro gli occhi, così come di lato e di lato ancora dall’altra parte, filari e poi filari e ancora filari di vite, può provocare a un certo punto un lieve senso di inadeguatezza. Cosa intendeva dire Stendhal con la descrizione di quel malessere? Ma è elementare: che non è solamente il dolore a rendere l’uomo un insulso, insufficiente, troppo piccolo e ridicolo contenitore di contenimento; a volte ci si mettono pure la meraviglia e il godimento. I recettori, qui nelle Langhe, filare via filare via filare, si confondono mischiando gioia e malessere in una cosa scollegata eppure unitaria che ricorda vagamente un grappolo d’uva e che vi può pesare sul cuore come una catena di ferro. Noi la chiamiamo la Sindrome di Venere (anche se un po’ c’entra Bacco). Attraversando da cittadini moderni la Langa (ma anche il Roero e, come presto vedrete, il Monferrato), siamo spesso rimasti a fiato mozzato per la concentrazione di legno, foglie e zolle, che sono poi gli elementi costitutivi delle anime antiche, quali queste zone sono, e ci è capitato, come dicevamo, di cascare a peso lieve dentro le terre analoghe delle allucinazioni: il fianco pettinato di una collina che diventava, dapprima, un immenso pentagramma in movimento, un Vertigo hitchcockiano, per trasformarsi senza soluzione di continuità in una chioma medusea, un nido di serpi del paradiso, degli indici ammonitori, dei volti conosciuti, perduti, e dei lineamenti del futuro, ancora in là da perdere. L’intreccio fitto, il denso, il labirinto... Come se provaste a raccogliere amorevolmente due litri di Barolo in una bottiglia regolamentare da settantacinque centilitri. È troppo. Ma un motivo meno poetico, filosofico, metafisico e psichiatrico esiste. Proprio a proposito di Barolo, inteso come 83

vino, e delle terre in cui è consentito produrlo, ebbene, sapete quanto costa un metro quadrato di vigna, a fronte dei due euro di un metro qualunque altrove meno benedetto dalla perfezione? Cento euro, signore e signori. Un valore assolutamente adeguato, visto l’esito finale di ognuno di quei quadratini di terra. E non l’abbiamo certo scoperto noi l’incanto pericoloso delle Langhe (e del Roero, e del Monferrato). Questo è Cesare Pavese, il poeta, quello che amiamo di più: Anche tu sei collina e sentiero di sassi e gioco nei canneti, e conosci la vigna che di notte tace. Tu non dici parole. C’è una terra che tace e non è terra tua. C’è un silenzio che dura sulle piante e sui colli. Ci son acque e campagne. Sei un chiuso silenzio che non cede, sei labbra e occhi bui. Sei la vigna.

E ancora: Per la vuota finestra il bambino guardava la notte sui colli freschi e neri, e stupiva di trovarli ammassati: vaga e limpida immobilità. Fra le foglie che stormivano al buio, apparivano i colli

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dove tutte le cose del giorno, le coste e le piante e le vigne, eran nitide e morte e la vita era un’altra, di vento, di cielo e di foglie e di nulla.

E se sconfiniamo in Monferrato, la Sindrome di Venere persiste. Questa è Vinchio, l’amato paese vicino a Nizza Monferrato, di Davide Lajolo: Radici profonde, ancestrali, maliarde, persino morbose, come se potessi respirare libero solo tra quella polvere, in quell’aria di piante amiche, nella linea diritta seguendo i filari delle vigne, esattamente come soltanto in questi posti potessi spaziare con la fantasia da un colle all’altro, e alzarmi in volo.

E ancora, a proposito della vigna del padre: La potatura non è solo un mestiere, è un’arte. I tralci tagliati mettono lacrime. Se passi tra i filari è come assistere a un pianto silenzioso e sei portato a sentire la vite come una creatura.

Brindiamo alla sua eternità stappando e bevendo il suo cuore, e continuiamo. Murazzano La strada che stiamo percorrendo l’ha fatta prima di noi uno scrittore dei destini umani altrui, tale Napoleone Bonaparte. Sì, poggiamo le ruote sui cosiddetti itinerari napoleonici anche se, ne siamo quasi certi, da queste parti deve avere dormito o ammirato il panorama o perlomeno sostato per cinque minuti tra un crinale e l’altro, aspirando un sigaro, il signor Garibaldi. Sia come sia, ciò che vediamo è un paesaggio nuo85

vo rispetto alle Langhe che abbiamo imparato a conoscere. Qui l’apertura del panorama è più ampia, si respira già l’aria misteriosa del mare e c’è un venticello che asseconda i pensieri della partenza. A Murazzano tutta questa improvvisa e piacevole malinconia assume un’identità precisa, geografica: il paese si adagia su tre dorsali come un placido animale fantastico. È un unicorno, Murazzano, con la sua torre a base quadrata alta trentatré metri, poggiata direttamente sul tufo, senza fondamenta, forte di un unico desiderio: sovrastare la linea lontana dell’arco alpino. Ci raccontano che alla fine dell’Ottocento, quando un terremoto nella zona imperiese rase al suolo Bussana Vecchia – paese di streghe dispettose e oggi meta turistica e oasi posticcia per pittori e artigiani –, la torre fu vista ondeggiare come una spalla scossa da un pianto a singhiozzo. È un racconto commovente che ci mette un certo appetito, e siamo fortunati: torre a parte, Murazzano è ben nota per l’omonimo formaggio dop, un piccolo gioiellino a forma cilindrica, di pasta fresca e latte ovino che affonda le sue profumate radici nei pascoli dell’Alta Langa medievale. Per dirne una (e soprattutto perché non pensiate che qui dentro si parla solo di mangiare e bere, e di qua, di là, eccetera), già nel 1477 il Pantaleone da Confienza ne disquisiva nella sua Summa Lacticiniorum... Paroldo e la Regola della Cima Ci spostiamo nella vicina Paroldo. Qui la Liguria s’infila ancora di più: una lingua di cose di mare dentro la linguaLanga. Siamo nel cuore della metafisica dei confini, ci viene naturale volgere spesso lo sguardo verso l’alto. E in alto, Pa86

roldo, ci arriva davvero: 640 metri d’altitudine, è un paese di poche centinaia di volatili anime, che fa parte della comunità montana Alta Langa e Langa delle Valli Bormida e Uzzone. Un paese di streghe, masche, baggie, strie, bàsure, e di qua, di là, eccetera. Un paese che mischia Eastwick e acciughe, dal momento che, nella Sagra della Bagna Caùda, le donne sbucciano aglio per una settimana – la nube chimica è rilevata dai satelliti geostazionari – e gli ospiti vengono adottati dalle famiglie residenti e immersi in un pericoloso maelström di masche, sabba e topinambur. Qui, da quel che ci hanno raccontato, vive uno dei Massimi Studiosi di Faccende Stregonesche, il signor Romano Salvetti. Qualcosa ci fa pensare che non lo troveremo tanto facilmente. Comunque: qua siamo e qua giriamo, camminando un po’ a caso. Non sembra un granché, Paroldo, ma ci sbagliamo. Arrivati nel punto più alto, la vista è spettacolare, così come le casette antiche, alcune chiaramente disabitate, che ci attorniano. Ci serve una regola da viandanti. Da turisti della vita. Qui la troviamo e ora ve la proponiamo. Si chiama Regola della Cima ed è molto semplice: non giudicare un paese finché non sei arrivato in cima, anzi, non giudicare proprio niente se non sei ancora nel punto più alto raggiungibile. Vale per tutto, neh? Come al solito, la speculazione filosofica ci mette appetito, così decidiamo di fermarci qui. Nella piazza principale del paese troviamo, ma guarda un po’, un’Osteria Salvetti. Entriamo. Bell’ambiente, raccolto, minuscolo, silenzioso, misterioso, c’è qualcuno?, profumato, due salette, una biblioteca in legno a due campate stracolme di vini di un certo livello, belle tovaglie, c’è nessuno?, un tavolino con appoggiati libri di vario formato dedicati alle streghe di questi luoghi, tutti a firma di Romano Salvetti, collane di lana multicolore appese 87

a una struttura nodosa che ricorda un albero biblico in miniatura, yuu-uuh? Dalla cucina si manifesta la figura di un giovane cameriere vestito impeccabilmente da giovane cameriere, gentilissimo, che ci fa accomodare a un tavolo accanto a una vetrata che affaccia sulla piazza. Mangiamo splendidamente, e anche il cibo ci ricorda che siamo quasi all’ingresso della Liguria: tonno di coniglio, peperoni con salsa alla bagna caùda, tortino di carciofi con castoni di bacon, carpaccio di carne. Saremmo anche sazi, ma di fronte a tanta sapienza gastronomica sorge spontanea una domanda: chissà come saranno gli agnolotti? Il cameriere sorride, quindi scompare nell’antro della cucina, per tornare dopo nemmeno un minuto con la risposta: la signora Clelia, se abbiamo la pazienza di aspettare dieci minuti, se non abbiamo fretta, se non dobbiamo correre, se non di qua, di là, eccetera, preparerà seduta stante gli agnolotti del plin. La nostra intenzione di muoverci è pari a quella di un cippo sepolcrale. E gli agnolotti al burro della signora Clelia, cuoca, proprietaria dell’Osteria, nonché sorella dello stregofilo Romano Salvetti, ripagano a dovere tale fermezza d’intenti. A proposito: e Romano Salvetti dov’è? Non c’è. Tonda e Gentile (Monesiglio, Cortemilia, Bergolo, Borgomale, e di qua, di là, eccetera) Rifocillati e rilassati, salutiamo la signora Clelia, risaliamo in macchina e, come dei Coppi-Bartali dei cavatappi, incominciamo a macinare l’asfalto in saliscendi. Si diceva del cambio repentino del paesaggio. Noccioleti, noccioleti, noccioleti. Già, perché dovete sapere che il noc88

ciolo è spesso associato al mistero e al soprannaturale, quindi, in zona di masche, non ci sta affatto male. Per dirne una, in legno di nocciolo si intagliavano le bacchette degli dei e, per dirne un’altra, tra i cespugli di noccioli prendono il fresco le fate. Inoltre con il legno di nocciolo si costruivano i bastoni da rabdomante per la ricerca dell’acqua. Acqua??? Da queste parti, siamo tra Monesiglio e Cortemilia, si coltivano a nocciola tremila ettari, vale a dire trentamila quintali all’anno. Non ditelo a Cip e Ciop. La qualità si chiama Tonda Gentile di Langa. Tonda perché è tonda; gentile perché è facilmente pelabile, ben calibrata – che non sappiamo che cosa significhi ma ci piace –, con una buona resa di sgusciato e lungamente conservabile senza irrancidire. Ci sono i laboratori, un produttore illuminato che offre al turista interessato una visita alla filiera completa, dall’alberello alla pasticceria casalinga (non lo nominiamo per un preciso motivo: era chiuso), a Cortemilia hanno perfino fondato la Confraternita della Nocciola Tonda Gentile di Langa con sede in un palazzo settecentesco, e un po’ qua un po’ là eccetera potrete trovare tracce di nocciola anche nelle farmacie locali (il simbolo di Esculapio, dio della medicina, è un ramo di nocciolo con due serpenti attorcigliati). Morale Uno: a Monesiglio c’è un castello, a Cortemilia c’è una torre, a Borgomale c’è un castello, a Bergolo ci sono i fiori e le case di pietra. Difettano tutti di vigne. Morale Due: va detto che in Piemonte, per trovare il senso compiuto nelle cose che valgono, occorre saper “trovare la quadra”. Noi la quadra l’abbiamo trovata nella tonda. Gentile.

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Verrà la morte e avrà i tuoi mosti Belbo è un cognome che merita un grande rispetto, per ragioni letterarie, partigiane e di qua, di là, eccetera, perciò siamo certi che perdonerete a queste righe la serietà istituzionale. Partiamo da Cossano Belbo, e le vigne già da un pezzo hanno ripreso il dominio sui noccioleti. Il primo documento che accerta l’esistenza del luogo è un editto imperiale, promulgato il 31 luglio 1001, il famoso Coxani, con il quale Oddone III conferma in feudo al marchese Oldrico Manfredo il territorio della valle Belbo fin giù a Murazzano. Meno nota, ma tramandata oralmente in ogni osteria, l’ordinanza che stabilisce che «qualunque essere umano che veda il bicchiere vuoto o mezzo vuoto di un altro essere umano e non provveda immantinente a riempirlo è un bastardo». Ora, spostiamoci a Santo Stefano Belbo. A Santo Stefano Belbo è nato Cesare Pavese. E non solo. Ma ne riparleremo. Care Langhe, qui vi salutiamo. Ma è soltanto un Arrivederci. Arrivederci Tajarin! Arrivederci Ravioli al plin! Arrivederci Salamin! Arrivederci Trifolin! Arrivederci farina del Mulin! Arrivederci Furmentin! E, come dire, arrivederci, a presto presto, a Te, Buon Vin! Hic! Hic! Hic! La supercazzola della Langa A fussa pa a-i é gnun bon a fé ’d a l’é bin a fé a l’é mal a fé a l’é lòn che ampajé ij tond ampajé pro cheandé a baron andé a 90

rabél andé a la maròda ëd avèj nen un pich da fé balé un givo bondì barba cà ’d ringhera ciama n’autr! ciapésse pijésse un passaròt com at diso? com a-j diso? cuché an sël lobiòt dé da mentdé dël cul sla pera déjla për ël bél temp dé la fuga dé ’l bleu a quaidun désse dël pento dì che ’d nò dì che ’d sì esse al pian dij babi esse ancamin che esse ant la bagna esse bon aesse na pieuva esse nen vàire lòn esse un barbis esse un pito esse un subrich esse scus ëd verbo esse scus ëd bele vòlte fà nen ël pito fé cassul fé flanelafé mës-cëtta fé San Martin fé schissa fé seta fésse pijé an brass fin-a ant un finì ant la bagna gavé quaidun da l’umid gavte la nata gran-e dij poj lassé boje lenghe ’d canarin mandé a spané ’d melia na patela na strivassà parla pà! paté j’òri perde la bagna pijé ’d gandole pijé j’avèrtole pijésse ciapésse un passaròt pieuve pere da mulinporté le busche rangé a quaidun la pipa che a tira spòrze la gheuba spussé ’d rat sté da pocio sté lì ’ndé dì taché tacà ai di ten-se ai branch tireje vërde và a spané ’d melia vardé j’arsivòli vate a caté ’n casul boja faus, e di qua, di là, eccetera.

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Monferrato Astigiano (sempre visto da molto in alto)

Partiamo dall’alto, cioè da sud Peschiamo una nuova carta delle Strategie oblique, la numero 22, e il responso è chiaro: “Enumera”. Facile. Uno. Lo abbiamo detto all’inizio e lo ribadiamo ora: questa guida enodelirante non prende in considerazione tutto il Monferrato ma solo quello astigiano. Due. Lo abbiamo detto all’inizio e lo ribadiamo ora: il Monferrato Astigiano si divide in Alto Monferrato Astigiano e Basso Monferrato Astigiano. Tre. Non lo abbiamo detto all’inizio ma lo ribadiamo ora: siccome nel Basso Monferrato, ogni volta, ci prende il “rovello basso-monferrino” (lo scoprirete più avanti), il nostro ennesimo itinerario parte dall’Alto Monferrato, che sta a sud di Asti e scende fino ai confini con la Langa. Quattro. Siamo in mezzo a «borghi e paeselli, pievi e castelli, vigne e cantine, bricchi e colline», come chiosava a inizio Ottocento il letterato locale Emanuele Felice Cagna. In somma. Siamo nel contesto perfetto per andare alla scoperta delle eccellenze culturali del territorio: aziende vitivini95

cole, enoteche, taverne, osterie, botteghe artigiane, prodotti tipici, e di qua, di là, eccetera. “Enumera”, disse la carta Scendendo da Asti a Isola d’Asti si arriva a Costigliole d’Asti, che nel 1815 venne così descritta da Gian Secondo de Canis: Giace Costigliole sul dorso ed attorno d’una collinetta di figura conica, sulla cui vetta sta il massiccio quadrato castello in ottimo stato, fiancheggiato da quattro grosse rotonde torri.

Qualcuno noterà come la vita sia qualcosa di lucidamente semplice per le anime più rudimentali e invece sfuggente alle intelligenze più fini – e qualcuno noterà anche, in proposito, come in questo libro le citazioni vere siano più assurde di quelle che inventiamo – ma Costigliole è oggi esattamente identica ad allora e molti buongustai la conoscono, per almeno due motivi. Uno. Questa fu la sede storica del ristorante Da Guido, una delle vette enogastronomiche piemontesi, oggi trasferito all’interno della tenuta Fontanafredda a Serralunga d’Alba. Due. Qui ha sede l’icif – Istituto di Cucina, Cultura ed Enologia delle Regioni d’Italia – che in questi anni ha diplomato studenti provenienti da Australia, Brasile, Canada, Cina, Corea, Filippine, Germania, Giappone, Hong Kong, India, Israele, Messico, Russia, Stati Uniti, Singapore, Svezia, Thailandia, Taiwan, Venezuela – enumera, s’era detto – e di qua, di là, eccetera. Da Costigliole, dopo un doveroso salto all’Enoteca Comunale, potete puntare su Agliano Terme (test di intelligenza: che tipo di cure potete scegliere qui?), farvi un giro 96

verso Moasca e San Marzano Oliveto e ancora più giù a Calamandrana, oppure risalire verso Castelnuovo Calcea e Montegrosso. Con un minimo di attenzione scoprirete un bel po’ di locali, più o meno nascosti, dove mangiare magnificamente. La verità è che in queste zone la cucina, di solide radici contadine piemontesi, ha assimilato nei secoli caratteristiche della tradizione savoiarda, ligure e lombarda, che le famiglie e i ristoratori hanno saputo conservare e tramandare: qui si possono davvero apprezzare profumi e sapori antichi, esaltati dai grandi vini locali e da un alone di generale schiettezza. Ma non si era detto enumera? E dunque: vitello tonnato, carne cruda battuta al coltello, acciughe marinate, bagna caùda, fritto misto, finanziera, agnolotti, tajarin, arrosti, farciti, bolliti con bagnet, brasati, salumi, cotechini, bunet, zabaglione al Moscato, tirà, turcet e amaretti, e di qua, di là, eccetera. In fin dei conti il mondo è immenso. È quella cosa che nessuno riesce a spiegare. Paesi suoi Avevamo promesso che ci saremmo tornati, ed eccoci qui, tra Langa e Monferrato. A Santo Stefano Belbo, com’è giusto che sia, c’è il Centro Studi Cesare Pavese. L’han fatto qui perché Pavese è nato qui. Invece, all’Albergo Roma di Piazza Carlo Felice a Torino, dove Pavese si è tolto il mestiere di vivere, non c’è nessun Centro Studi Cesare Pavese. C’è la sua stanza. Al Centro Studi Cesare Pavese di Santo Stefano Belbo, paese dove Pavese è nato nel 1908, oltre a un direttore davvero competente, ci sono tante cose. Quelli che sanno come si 97

maneggiano queste faccende della cultura le chiamano complessivamente “materiali”. I materiali del Centro Studi Cesare Pavese riguardanti Cesare Pavese sono manoscritti originali, opuscoli, atti di convegni, filmati, guide ai luoghi pavesiani, vale a dire guide che parlano delle Langhe e del Basso Monferrato (non c’è bisogno di dilungarsi sull’Albergo Roma di Torino, primo perché è fuori zona rispetto al Centro Studi Pavese, secondo perché, se uno ha voglia di vedere che aria tira dentro una stanza d’albergo in cui sei decenni prima uno scrittore si è tolto dal mestiere di vivere, l’Albergo è sempre là, funzionante, a Torino, in Piazza Carlo Felice). Al Centro Studi Pavese dedicato a Cesare Pavese organizzano dei cicli di lezioni, dei seminari, delle ricerche sul campo (Albergo Roma escluso), si fa il turismo culturale. A scanso di malintesi, a noi Cesare Pavese piace molto (Albergo Roma escluso). Canelli: cantine, bollicine & scrittori maltesi A Canelli arriviamo commossi ed evocativi. Insieme a Nizza, è uno dei centri nevralgici per cultura, grandezza e tradizione del Monferrato Astigiano. Non solo: come ogni città che si rispetti, nei sotterranei si trova la sua anima imperitura – chilometri e chilometri di cantine per l’invecchiamento dello spumante: una cittadella à la Pietro Smiccia e Stappa armata con un esercito di milioni di bottiglie, che lì sotto fremono e fermentano: e già, qui si producono alcune delle eccellenze mondiali dell’enologia italica, il Moscato d’Asti, l’Asti Spumante, in tutte le sue varianti, Chardonnay, Fermo, Tranquillo, Frizzante. Proprio agli Spumanti Metodo Classico, all’Asti e al Moscato è dedicata l’Enoteca Regionale di Canelli e dell’Astesa98

na. Accanto ai tre vini-star questa cattedrale sotterranea offre bianchi (Loazzolo, Cortese dell’Alto Monferrato, Piemonte Chardonnay), rossi (Barbera d’Asti, Barbera del Monferrato, Dolcetto d’Asti, Grignolino d’Asti, Freisa d’Asti, Brachetto d’Acqui e Ruché), vini aromatizzati, vermouth e grappe. Non solo: a Canelli, dal 1989 al 2006, si è fatto «Il Maltese». Che non è un vino ma una rivista letteraria pensata da sei personaggi con molto da dire e pochissimo da perdere, i colleghi cavalieri indigeni (o limitrofi) Marco Drago, Matteo Galiazzo, Sergio Varbella, Roberto Rivetti, Sergio Ponchione e il compianto Gianrico Bezzato. Da quelle pagine sono passati quasi tutti gli scrittori italiani che negli ultimi vent’anni hanno espresso qualcosa di significativo. Un brindisi a voi, cari amici. Mombaruzzo Qui c’è una piccola azienda agricola in mezzo alle vigne, lo Spaventapasseri, a cui dobbiamo almeno un grazie. Hic, grazie. Castelnuovo Belbo Qui c’è una casetta in mezzo alle vigne dove abbiamo fatto alcune delle migliori mangiate e bevute della nostra vita. Hic, grazie. Nizza Monferrato La carta 186 delle Strategie oblique di Brian Peter George St. John le Baptiste de la Salle Eno dice espressamente: “Bagna caùda”. 99

Abbiamo già parlato di bagna caùda? Come dite? Un mucchio di volte? Abbiamo perfino scritto una ricetta? In versi ottonari? Ma scherzate? Pazienza: ci torniamo sopra ancora una volta. Sì, perché non c’è bagna caùda senza il cardo. E da queste parti il cardo deve essere gobbo e di Nizza Monferrato. La faccenda funziona così: a primavera, nelle terre sabbiose che costeggiano il Belbo, si pianta il cardo; a ottobre si raccoglie; ma prima si adatta la tecnica dell’imbianchimento, che prevede di piegare le foglie e coprirle di terra in modo che le coste diventino bianche e perdano parte del sapore amaro. Morale Uno: il cardo così trattato presenta la caratteristica gobba. Morale Due: la bagna caùda con il cardo meno amaro è più buona. Detto questo, Nizza è uno dei centri più grandi del Monferrato. Dentro trovate la solita infilata di chiese e palazzi storici, e di qua, di là, eccetera. Tra i palazzi storici però uno merita una visita approfondita: nelle cantine del settecentesco Palazzo Crova, infatti, si trova l’Enoteca Regionale di Nizza, che svolge attività promozionale dei vini regionali – in particolare della Barbera – e rappresenta un punto di riferimento per appassionati, operatori e turisti. Per inciso: il presidente dell’Enoteca Regionale, nonché produttore di vini lui stesso, si chiama Piergiorgio Scrimaglio. È un nostro amico, dei pochi veri che abbiamo. Ogni anno, all’inizio di maggio, Nizza si trasforma per tre giorni in una grande capitale del vino in occasione di “Nizza è Barbera”, dove la parola “Nizza” ha un duplice significato, sia come toponimo della città sia come denominazione della sottozona della Barbera d’Asti Superiore. La manifestazione si svolge per vie e piazze del centro storico, e celebra la “Signora in Rosso” per eccellenza, con spazi espositivi, degusta100

zioni, mercatini e premiazione dei migliori produttori piemontesi di Barbera. A proposito, non ci piace citarne alcuni a scapito di altri, perciò facciamo solo tre nomi: Bersano, La Barbatella e Olim Bauda. Nizza, come l’intero Monferrato, è un pullulare di feste, ricorrenze e sagre, ma non possiamo non citare “L’Aperitivo del Lardo”, che si tiene ogni 26 dicembre sotto il Campanon in Piazza del Municipio, a ricordo della ribellione dei nicesi contro i sostenitori dei Savoia in epoca napoleonica. State bene attenti a quello che ora vi raccontiamo. Nella primavera del 1796 Napoleone, sempre lui, sbaraglia le truppe austro-piemontesi a Montenotte, Dego e Millesimo obbligando i Savoia a firmare l’armistizio di Cherasco (e lumache per tutti!). Da quel momento l’influenza della Rivoluzione francese in Piemonte si fa sempre più forte fino a costringere Carlo Emanuele IV, due anni dopo, ad abbandonare Torino e riparare in Sardegna. È in questo quadro politico che il 6 Nevoso anno 7° succedono a Nizza i seguenti fatti. Verso l’una del pomeriggio tre colonne di irregolari, armati di fucili, pistole, sciabole e tridenti, e radunati dai comuni di Costigliole, Montegrosso, Agliano, Mombercelli, Moasca, Castelnuovo Calcea, Canelli, San Marzano, e di qua, di là, eccetera, piombarono su Nizza con tamburi battenti e, al grido «Viva il Re!», assalirono e disarmarono il corpo di guardia, abbatterono l’albero della libertà, la bandiera tricolore e le altre insegne della Repubblica. Poi ferirono, arrestarono e oltraggiarono i cittadini più in vista, pretendendo la consegna di pane e vino. I nicesi, intanto, anche se allarmati dal suono del Campanon, si mantennero calmi e, mentre una commissione fingeva di parlamentare con i nuovi venuti, uno stuolo di giovani, 101

provvisti di nodosi randelli, si radunò in disparte pronto a intervenire. «Cosa volete?», chiesero i parlamentari alla turba che inneggiava al re e ai Savoia. «Vogliamo pane e vino buono!», ribadirono quelli. «Se aspettate vi daremo anche il lardo!», tuonò una voce, e in quel momento i giovani nicesi si scatenarono contro gli assalitori mettendoli in fuga. Morale: da quel giorno, a Nizza “dare il lardo” significa dare una severa lezione. Av-vinchiati a un asparago antico Affinché poi non si dica che qui dentro si parla solo di bicchieri pieni, vuoti, semivuoti o semipieni, sappiate che nel Piemonte Fuggente degli Acini abbondano anche coltivazioni per impestati astemi: aglio e sedano dorato, rape e porri dolci, pomodori piatti e costoluti, melanzane violette e lattughine verdine, cicorie e cavoli verza, cipolle e carciofi, bietole e zucche e di qua, di là, eccetera. A Vinchio, giustamente, vanno fieri dell’asparago. Lo chiamano “saraceno” perché qui nei paraggi c’è una cresta di colline coltivate a vite conosciuta come il Bricco dei Saraceni. Andò così: una volta fecero degli scavi, trovarono degli scheletri armati di spade e tutti pensarono che si trattasse di una residua e sparuta rappresentanza dei mitici pirati saraceni, che dal mare arrivavano e distruggevano tutto (“Mamma, li turchi!”). Forse alcuni di loro – questi qui, in scheletro e spada, per la precisione – dall’approdo presero una rincorsa talmente forsennata che giunsero fino a Vinchio e anche oltre. Morale Uno: ai Saraceni a Vinchio qualcuno diede il lardo. Morale Due: l’asparago di Vinchio si sposa a molti vini. 102

Educazione siberiana a Mombercelli Ci hanno detto che a Mombercelli c’è una donna siberiana che produce il vino Barbera. Ci siamo andati. Mombercelli era chiusa. Dall’Emilio di Rousseau all’Emilio de noantri (Rocchetta Tanaro e il Parco Naturale) Adesso vi parliamo di un parco, così, tanto per variare un po’. Siamo al confine nord dell’Alto Monferrato Astigiano, sulla sponda destra del fiume Tanaro – che da queste parti ha il brutto vizio di esondare tanto che nel 1994 sommerse l’abitato – e siamo due puntini all’interno dei centoventitré ettari del Parco Naturale di Rocchetta Tanaro. Siamo venuti a trovare Emilio. Ci piacerebbe essere dei poeti, inginocchiarci al cospetto della sua imponente ombra e parlare a lui, a noi stessi e magari a un selezionato uditorio delle cose importanti della vita. Invece gli carpiamo un po’ di fresco, in attesa del prossimo bicchiere. Emilio è un faggio ultrasecolare. È alto venticinque metri, il diametro della sua chioma supera i venti e rappresenta, nella sua ostinata individualità, un residuo delle faggete diffuse nella zona fino al termine dell’ultimo periodo glaciale. Salutiamo anche castagni e robinie, entrambi usati in altri tempi per la palatura delle vigne, e ora sì che ci arriva in grazia la visita di un refolo di poesia vera. Possiamo lasciarvene in testamento un pezzetto? Nel querceto trovi il rovere (presto, che qui viene a piovere) guarda, c’è pure un orniello (non abbiam manco l’ombrello)

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qui ci andrebbe tosto un trespolo (ecco, appare pure un nespolo) toh, rimira, un biancospino! (qui ci andrebbe proprio il vino) caprifoglio e ciavardello (nella botte col succhiello!) nel farneto c’è il nocciolo (l’acqua è bianca, il vino è oro) tiglio, carpino ed ontano (un bicchiere sempre in mano) pioppo ed acero campestre (vin che al senno fa palestre) poi c’è un sottobosco vasto: (con il vino si fa un pasto) orchidea, mughetto, giglio (con il vino è Padre e Figlio) il Sigillo di Salomone (bere vino è dare un nome) lilioasfodelo, Dente di Cane (dentro il vino un mondo immane) guarda c’è il campanellino (bere il vino è bere il vino). Per non dire poi del bosco (bere è biancheggiare il fosco) di animali e specie casa (bevi il vino, l’acqua sgasa) ad esempio tasso e volpe (con il vino, via le colpe) lo scoiattolo ed il riccio (toglie il vino da ogni impiccio) donnola e moscardino (quanto è buono e saggio il vino). l’avifauna è molto ricca (il cavatappi come picca)

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per esempio il picchio rosso (bevi il vino, fermo o mosso) il luì verde e la ghiandaia (il vino scaccia la vecchiaia) e il cantante rampichino (bevi il vino, bevi il vino).

Il conte Nuvolone e la bacca nera del Piemonte Fate bene attenzione a quello che ora vi raccontiamo. C’era una volta il conte Nuvolone, e non è una favola. Era un signore buono e gentile che, a cavallo fra il Sette e l’Ottocento, lavorava alla Società Agraria di Torino. Erano tempi strani per il Piemonte, eccezionali: anni vissuti sotto una bandiera straniera, e per di più francese. Così avvenne che un giorno il nostro Nuvolone, grigio come un cumulonembo, fu convocato da Napoleone Bonaparte – ancora lui! – in persona. Il conte entrò timoroso ma si rischiarò subito nell’apprendere a quale incarico lo destinava l’Imperateur: stendere la prima ampelografia del territorio piemontese. Come (quasi) tutti sapete, l’ampelografia – dal greco ampelos, vite, e graphia, descrizione – è la disciplina che studia, identifica e classifica le varietà dei vitigni. Così il conte Nuvolone si mise all’opera. Attraversò boschi, scavallò torrenti, solcò campi e colline. Misurò foglie, annusò bacche, esaminò radici. Pesò dati, enumerò casi, compilò tabelle. Finché, nel 1798, il conte arrivò a un risultato: aveva individuato il vitigno caratteristico del territorio, la Vitis vinifera Montisferratensis. Tale denominazione si doveva al nome storico della regione collinosa che ancora oggi è uno dei principali centri di coltivazione del vitigno Barbera: il nostro Monferrato. 105

A dirla tutta Nuvolone arrivò per secondo. Infatti, la prima traccia formale della Barbera è raccontata addirittura in un’ode. E qui comincia una storia nella storia. Il monaco, storico, poeta e scrittore longobardo Paolo di Varnefrido (conosciuto anche come Paolo Diacono) compose infatti versi immortali, dedicati al ruolo storico della Barbera nella battaglia che avvenne nel 663 a Refrancore, a tredici chilometri da Asti. E qui comincia una storia nella storia della storia. Si racconta infatti che in quell’occasione i Longobardi di Grimaldo, in guerra contro i Franchi, escogitassero uno stratagemma degno di Ulisse. Minori in forze decisero di affrontare il nemico sul campo per interposto esercito: riempirono di vino centinaia di anfore e le disseminarono per i campi prima dello scontro. Non è difficile immaginare il seguito: i Franchi trovarono le anfore e, inebriati dalla bontà del vino, le svuotarono avidamente. La battaglia non ebbe storia: trionfò la Barbera. A tal punto che il sangue dei vinti andò a colorare il torrente vicino, che da allora venne chiamato Rivus ex sanguine Francorum, nome che poi passò al piccolo borgo sorto nelle vicinanze, Rivus Francorum, divenuto nel tempo Refrancore. Ma proseguiamo il gemellaggio Barbera & Guerra. Andò avanti per lungo tempo: basti pensare che gli ufficiali dell’esercito sabaudo appellavano il vino «sincero compagno», per la sua capacità di infondere calore e coraggio, mantenendo la calma nei frangenti più drammatici della battaglia. Alla fine dell’Ottocento il celebre enologo Arnaldo Strucchi si espresse addirittura così: «quando il vino Barbera ha raggiunto cinque o sei anni di età, riesce adattissimo come vino da arrosto, come il Barolo, al quale allora viene da molti preferito», sfatando l’immeritata fama della Barbera come vi106

no popolare. Poi vennero il Carducci della «generosa Barbera», il Pavese del «leggendario Barbera», il Gaber del «Barbera e champagne stasera beviam» e di qua, di là, eccetera. Oggi il Barbera, o meglio la Barbera – perché è così che viene tradizionalmente chiamata in loco – rappresenta circa il 50% dell’intera produzione viticola del Piemonte ed è diventata il vino piemontese per antonomasia. Ma, a partire dalla vendemmia 2008, la Barbera si è ulteriormente innalzata nell’apprezzamento internazionale entrando a pieno titolo nell’eccellenza mondiale dei vini, grazie alla docg per la Barbera d’Asti. Chissà come sarebbe stato contento l’ex presidente della Repubblica Saragat che, secondo la leggenda, tutte le mattine, nel cortile del Quirinale, faceva l’Alzabarbera. Andiamo a stappare i campi di battaglia (Refrancore Bound) La leggenda di Refrancore ci mette una certa acquolina in bocca, un’acquolina, come dire, ben poco acquosa, così decidiamo di puntare il campo di battaglia, come due novelli buoni soldati Švejk alla ricerca di reperti se non barbarici almeno barberici. Sì, sarebbe commovente trovare laggiù un qualche minuscolo frammento di anfora e, come si conviene davanti alla sacralità delle cose perdute, metterci anche noi sull’attenti, in un postumo e glorioso Alzabarbera. Refrancore, dunque, è la nostra meta. Armiamo i ferri del mestiere per il rovello basso-monferrino (tra poco lo scoprirete). «Ah, – come disse un turista americano, di quelli che hanno studiato – Monferrato! What a lovely place! Is it in Rome?». Ecco, certamente il Basso Monferrato Astigiano non è a Roma, però c’è da dire che è un po’ di qua, un po’ di là, un po’ 107

eccetera. Gli indigeni colti hanno stabilito una ripartizione a quattro, basata su alcune specificità accorpabili e, ovviamente, mantenendo una certa continuità geografica: le Terre dei Santi (sono le più vicine a Torino, ma le teniamo per ultime, che non si sa mai), le Colline Alfieri (a sud-ovest di Asti, verso il Roero), il Percorso del Romanico (una dorsale da Cocconato ad Asti) e le Terre d’Aleramo – intese non come Sibilla, ma come marchese fondatore degli Aleramici, nel X secolo – che si estendono a est verso il Monferrato Casalese. Un’altra divisione geografica distingue invece in Nord Astigiano, Sud Astigiano, Val Rilate, Scurzolanga, Moncalvese (una di queste è inventata per favorire una vostra lettura più attiva), e infine Terre del Ruché, proprio dove ci troviamo noi. Perciò, metodologicamente, come ci muoviamo nel rovello basso-monferrino? Semplice: seguiamo percorsi legati al vino. Quindi, prima di parlare di quisquilie quali musei, castelli, chiese romaniche, torri antiche, belvederi e condottieri, vorremmo anticiparvi, in stretto ordine sparso, i regnanti invincibili dei paraggi. Eccoli: Barbera d’Asti Superiore docg, Barbera del Monferrato Superiore docg, Albugnano Superiore doc, Cisterna d’Asti Superiore doc, Freisa d’Asti Superiore doc, Grignolino d’Asti doc, Grignolino del Monferrato Casalese doc, Malvasia di Casorzo doc, Malvasia di Castelnuovo Don Bosco doc, Terre Alfieri Nebbiolo doc e, last but not least, Ruché di Castagnole Monferrato docg. Se volete mettervi al servizio di uno qualsiasi di tali eserciti regali, i periodi buoni per l’arruolamento e relativi luoghi di raccolta sono i seguenti (e scusateci per il quarto elenco di fila, promettiamo che sarà l’ultimo per un po’, diciamo fino alla fine del paragrafo): ad aprile, a Coccona108

to, troverete “Riviera in Fiera”; a maggio, a Buttigliera “Le Contrade del Freisa”, a Villafranca “Maiale d’Autore”, a Montemagno “Pane al Pane” e a Castagnole Monferrato la “Festa del Ruché”; a giugno, a Tigliole “Stelle in Stalla”; ad agosto, a Cinaglio “Dolci e Colline”; a settembre, a Piea “La Zucca delle Meraviglie”; a ottobre, a Villanova l’“Elogio della Bionda”, a Castellero “Città della Nocciola”, a Calliano “L’asino vola”, e di qua, di là, eccetera. Ma voliamo anche noi, da Torino in direzione Asti Est, sotto un’inusitata nebbiolina medievale, e poi fino a Portacomaro. Il panorama è, come dire, ordinato, addolcito, le colline sono basse, non c’è la forsennatezza pettinata delle Langhe, c’è semmai tutt’intorno una gentilezza quieta, omogenea, appena interrotta da minuscoli nuclei abitativi, dei piccoli borghi, e poi, ogni tanto, tutto s’interrompe, inghiottito da un bosco, per poi riprendere come prima dopo una decina di fresche e verdi curve. Sbagliamo strada e riscendiamo verso Scurzolengo che ci regala, appena fuori dal centro abitato, una fabbrica di mattoni con annessa una grotta a forma di occhi. Dalle sue gigantesche orbite escono, salutando, due gazze. Anche noi, salutando, usciamo da un bosco e troviamo, nell’ordine, una frazione “Gioia”, una cascina “Terra Felice”, un’upupa sul ciglio della strada e decine di coppie di gazze ladre che entrano basse e per nulla timorose nel campo visivo del parabrezza. Per raggiungere Refrancore arriviamo a Castagnole Monferrato, che è un paese che c’interessa per almeno un paio di motivi: uno è l’ex asilo infantile “Regina Elena”, un complesso architettonico che, per quanto non antico – risale alla metà dell’Ottocento –, possiede la bellezza arcana dei labirinti, con 109

la sua forma a C, il cortiletto interno con i suoi giardini e i suoi giochi di rampe e terrazze; l’altro... be’, l’altro... anch’esso per certi versi è architettonico. È che siamo attratti da una costruzione dall’innervamento quantomeno curioso: pare una cittadella medievale, ma di un Medioevo futuribile, con le sue torri di guardia monolitiche, lisce e cromate, svettanti sotto un cielo che al momento non le fa luccicare, in totale assenza di feritoie o merlettature. È l’Enoteca Sociale. Breve ma densa storia del Ruché Siamo certi che ormai un’idea più che precisa ve la sarete fatta su che cosa significhi il vino nel patrimonio culturale del Piemonte e, soprattutto, su quali siano la sua qualità media e le sue punte di diamante. Qui ci sono vitigni importanti, vitigni-corazzata in grado di conquistare il mondo intero. Nebbiolo, Barbera... A Castagnole Monferrato fanno il Ruché. Una piacevole anomalia. Il Ruché è un ben singolare vitigno. Possiede una vegetazione molto rigogliosa e difficile da gestire, che produce una quantità di germogli secondari, le cosiddette femminelle. Che cosa comportano a livello produttivo questi germogli? Eh, tante cose, e di qua, di là, eccetera. Per decenni il Ruché è stato relegato a produzione secondaria nelle aziende agricole dove la Barbera e il Grignolino facevano da padroni. Quando il vino era la bevanda tradizionale del pasto dei contadini, che lasciavano la tavola per riguadagnare la terra e la vigna, il Ruché non poteva di certo essere il vino adatto, con il suo elevato grado alcolico ben celato all’interno di una spiccata morbidezza al palato. No, semmai poteva solamente 110

essere un vino domenicale. Un vino da meditazione e non da intermezzo. E a noi piacciono tanto le meditazioni. Anche se coltivato e vinificato da generazioni di produttori, solo di recente si è scoperto che il Ruché ha caratteristiche sensoriali intense, tali da trovare quasi a colpo sicuro il consenso del consumatore. Qui non siamo nelle Terre dei Santi ma vorremmo ugualmente levare una prece alla figura di don Giacomo Cauda, il parroco di Castagnole Monferrato che mezzo secolo fa, arrivando in paese e prendendo possesso dei suoi benefici parrocchiali, scoprì che essi includevano un minuscolo appezzamento di terreno coltivato con vigneti a bacca rossa e che diedero i natali al miracolo del Ruché. Amen! Refrancore Tra la scrittura bianca, nera e blu delle gazze nel cielo basso e quella rossa rossa dei papaveri che crescono in quantità nei campi coltivati e nei frutteti, dopo avere passato due frazioni dai significativi nomi di Versò e Valvinera, arriviamo a Refrancore. Né anfore né rivoli, solo sensi unici in salita e discesa e anche in curva. Quasi ci perdiamo in mezzo a una sessantina di case. Facciamo appena in tempo ad ammirare, nella vetrina di una pasticceria, un’esposizione di scatole di latta antiche che contenevano la specialità del luogo, i finocchini di Refrancore, biscottini a mezza luna e di pasta dura, aromatizzati al finocchio, che s’approssima borbottando nello stomaco l’ora del desco. Prima, però, c’è un castello da visitare.

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Torto a torta a Montemagno Imbocchiamo la statale e oltrepassiamo la tenuta La Mercantile, dove si trova il torchio più grande d’Europa, e raggiungiamo Montemagno. Andare nei luoghi con un’idea precisa in mente non è mai un male, però lasciarsi sorprendere dal caso è una faccenda che a noi piace molto di più, e così, prima di raggiungere il castello, uno dei più sorprendenti di queste zone, alziamo un brindisi virtuale a un giardino privato che indubbiamente appartiene a un fanatico delle girandole – anche se a breve ben più gustose collezioni stanno attendendo il nostro stupore –, a una meravigliosa chiesa romanica intitolata a San Vittore, a una parrocchiale antica dedicata a San Martino e di qua, di là, eccetera. Poi, arriva lui. «Nacqui di sito irregolare e torto dalla testa d’un frate» è quanto si recita all’ingresso del castello. Ci piace. Ma perché «torto»? Era forse ubriaco codesto frate? Ci risponde l’unica regola che non sbaglia mai, quella della cima. Infatti, se si osserva Montemagno dall’alto, ci si accorge di poggiare i piedi su un colle che di più stortignaccolo e nodoso non ci viene in mente nulla se non forse un tralcio di vite. Dall’anno Mille in avanti, fortificazione su fortificazione, il castello ha assunto le caratteristiche di una torta multistrato, coronato com’è da merlature ghibelline e abbellito da dodici vicoli che si dipartono a raggiera dai resti delle antiche mura e, come una sapiente radice d’imponente albero, penetrano nel corpo abitato del paese. Sì, bello, direte voi, perfino un po’ aulico. Ma dentro, dentro, com’è ’sto benedetto castello? Mah, dunque, siccome nel Settecento è stato trasformato in privata dimora di campagna, be’... insomma... non sappiamo come dirvelo, ma... è chiuso. 112

Grana e Moncalvo La strada che attraversa Grana e Calliano non ha nulla da invidiare alla campagna senese. O meglio: la campagna senese non ha nulla da invidiare alla strada che attraversa Grana e Calliano. Moncalvo è un paese che risuona, con il suo importante Festival Blues, addirittura gemellato con lo storico Montreaux Jazz Festival, e poi, lo mangeremo più avanti, si serve il bue grasso. Bue o non bue, di affamati ce n’è due. E già: com’è che invece in questo libro, da un po’ di tempo in qua, non si mangia più? Sarebbe ora di provvedere. Prima, però, c’è un castello da visitare. Alfiano Natta e il castello di Razzano Si sente parlare in tedesco, in inglese, perfino in francese. In italiano un po’ meno. Intorno c’è un silenzio universale, multilingua. E vallate profonde dietro e davanti, quasi a raccogliere e sommare tutte insieme le pendenze gentili delle colline del Monferrato. “Davanti” significa all’interno della costruzione, nell’aia o corte. Solo che qui le misure sono di ben diversa imponenza. Sì, perché il castello di Razzano, costruito alla fine del Seicento, è una raffinatissima dimora conchiusa, oggi (e da mezzo secolo ormai) sapientemente condotta dalla famiglia di Augusto Olearo, che ne ha fatto un resort di rara ispirazione. State scrivendo una sinfonia? Una saga famigliare? Avete voglia di leggere le opere complete di Balzac senza troppe interruzioni? Questo è il posto che fa per voi. La corte ospita un ampio giardino all’italiana, con statue, siepi a labirinto e, sulla linea di confine che porta lo sguardo 113

davanti alla ripida infilata di vigneti, troverete delle sedie a sdraio. Ecco, questa è una cosa che abbiamo appena visto, venendo qui: lungo la statale, sui cigli della strada, tra il marciapiede e le vigne, qualche illuminato ha fatto mettere delle panchine pubbliche. La meditazione del vino, sul vino, con il vino e di qua, di là, eccetera, merita sempre un più o meno piccolo investimento. La famiglia Olearo, invece, l’investimento l’ha fatto mastodontico, a partire dalla gentilezza con la quale veniamo accolti dal signor Augusto. Troviamo un cicerone-enologo di grande disponibilità (un po’ il nostro sogno di scrittori in gita) che ci mostra gli appartamenti, le suite, i saloni, alcune delle quattordici stanze, la cucina, la grande sala per le degustazioni. Ogni ambiente è arredato con mano di appassionato collezionista. Camminiamo tra velluti, broccati, orci secenteschi per l’olio, quadri d’epoca romantica; attraversiamo tendaggi, sfioriamo con i polpastrelli legni antichi lucidissimi, serramenti massici di ferro lustro; ammiriamo composizioni floreali, lampadari di cristallo spiovente, tappeti e nicchie, tendaggi increspati di grazia dai tenui colori, studiati appositamente per assorbire la luce naturale e distribuirla all’interno in misura riposante; alziamo lo sguardo e troviamo soffitti a cassettoni oppure archi e volte. E il meglio, almeno per quanto ci riguarda, deve ancora arrivare. La Regola della Cima versus i gioielli dell’interrato Ve la ricordate la Regola della Cima? Quella per cui per valutare un luogo, una situazione o una persona, è necessario dapprima raggiungere la sua vetta, reale o metaforica che sia? Ebbene, non vorremmo confondervi le idee, ma in questo 114

paragrafo si narra di come tale regola raggiunga una totale veridicità solamente laddove sia abbinata alla sua gemella opposta, la Regola del Fondo. Il Fondo, quando parliamo del castello di Razzano, significa andare a visitare le cantine. Ecco, anche qui la passione del signor Augusto si dispiega a dovere: non ci troviamo solamente davanti a bottiglie e botti, ma a un vero e proprio museo del vino, esattamente siamo nel cuore del Museo ArteVino Razzano. Mentre scendiamo nell’Averno più dolce ci sia dato immaginare, l’ospite ci spiega che il museo vuole innanzitutto essere un omaggio al territorio, vale a dire un omaggio al vino Barbera, ma anche alla vita contadina di un tempo. E infatti stiamo entrando in una casa di un altro secolo, con la ricostruzione di alcuni suoi ambienti privati e lavorativi. Passiamo una cucina, il laboratorio di un fabbro e quello di un bottaio – un mestiere che ha il suo piccolo museo ad hoc a Castell’Alfero, dai Gamba –, quindi, attraverso un’infilata di corridoi che servono per raccontare la memoria del vino ma anche la sua formazione tecnica  – la solforazione delle foglie, le bilance per il commercio, i misuratori di gradazione alcolica, i soffietti e i mantici spargizolfo e di qua, di là, eccetera. Ma i veri gioielli dell’interrato – cantine di invecchiamento a parte, con le loro botti di varia dimensione e materiale – sono i centocinquanta barlett che il signor Augusto ha trovato e acquistato in decenni di fiere in giro per l’Italia e che ora abbelliscono le pareti di mattone delle scalinate, dei saliscendi che portano da una cantina nuova a un infernott (la vecchia cantina, tradizionalmente proprietà privata del produttore), delle nicchie, di ogni superficie verticale libera, insomma. Barlett significa “barilotto” e a noi, oltre alla fame, viene anche un po’ sete. 115

Perciò salutiamo e ci rimettiamo in macchina per una breve, brevissima, si spera quasi nulla, tappa che ci porterà al traguardo della trattoria della signora Maria, in quel di Villadeati. Maria di Villadeati (finalmente si mangia e si beve) Insalata russa. Peperone con bagna caùda e uovo sodo. Fagioli di Saluggia in sala di cipolle. Tartare di fassone piemontese. Vitello tonnato. Tomino al verde. Agnolotti burro e salvia. Spezzatino di coniglio. Torta di mele. Caffè. Grappa. Grazie, Piemonte. La bagna caùda coi due Carli La carta numero 18 comanda: “Sconfinamento” – forse vi sarete resi conto che queste carte ce le stiamo inventando di sana pianta, ma non tutte – e perciò ubbidiamo sconfinando a nord, a saper dov’è il sud, come direbbe Iosif Brodskij. A Murisengo si potrebbe andare a bere sotto la croce verde: nel senso che qui c’è un farmacista che si chiama Enrico Druetto che fa un vino a 17 gradi, anche se non passato dal Servizio Sanitario Nazionale. C’è anche una sagra di funghi e tartufi, e di qua, di là, eccetera, ma noi proseguiamo verso Cocconato, zona di wellness vinicola dove è impossibile citare alcun produttore (per esempio le Cantine Bava, Nicola e Poggio Ridente). Siamo in zone di prati, vigne, boschi e frutteti, case padronali settecentesche, vecchi rustici ottocenteschi, villette novecentesche, tutto a un passo dalla collina torinese. Si potrebbe scendere a Castelnuovo Don Bosco e, poco sotto, all’omonimo santuario oppure salire verso Canterbury. 116

Canterbury? Certo, perché siamo in piena via Francigena, lo storico collegamento tra Roma e Canterbury che passava più o meno da qualsiasi comune compreso in diagonale tra le due città, visto che il navigatore satellitare era ancora da inventare e la gente batteva mulattiere e non autostrade, imboccando la via sbagliata a ogni bivio e a ogni fine fiasca. Questo almeno stando alla novella trecentesca di Landolfo Andreuccio da Cinzano, dal titolo Madonna Pampinea impoverita, avendo due figliuoli perduti, ne va da Vezzolano in Roma. Ed è proprio di fronte all’Abbazia di Vezzolano che finiamo anche noi. Abbiamo più volte accennato alle tante testimonianze romaniche nell’Astigiano, ma qui siamo al capolavoro. Nascosto tra boschi e vigneti, colline e prati, in una quiete d’altri tempi, nei pressi di Albugnano, sorge da quasi un millennio il complesso di Santa Maria di Vezzolano, uno dei più rappresentativi monumenti del romanico italiano. E qui incontriamo Carlo Magno e, ancora una volta, la bagna caùda. La leggenda numero uno narra che l’imperatore, nel 773, si trovasse a caccia proprio in queste selve. Inseguendo un cervo fu colto da un’inquietante visione: tre scheletri umani, usciti da un sepolcro, cominciarono a danzargli intorno. Carlo Magno, invaso dal terrore, prese a galoppare senza meta finché arrivò nell’attuale Vezzolano, dove trovò conforto da un eremita che, confessatolo, gli indicò la strada della salvezza: chiedere aiuto alla Vergine Maria. Fu così che l’imperatore, ripresosi dunque grazie all’intercessione della Madonna, dispose l’edificazione della chiesa. La leggenda numero due narra di un altro Carlo, il VII di Francia, che, devastato dal vaiolo, soggiornava nel 1495 ospite dei Solaro di Moncucco. Il canonico-cerusico-erborista di 117

Albugnano lo guarì con una terapia molto piemontese: una bagna caùda preparata con il peperoncino piccante selvatico in luogo dell’aglio. Cosa c’entra con il vino? Si usa per la messa. In Val Rilate Un giro tra le Colline Alfieri ci porta in luoghi divini (di vini) come Cisterna d’Asti e San Damiano, poi risaliamo verso nord (a saper dov’è il sud). La carta numero 6 raccomanda “Cambiate piano”, e troviamo quasi subito il modo di assecondare il consiglio. Arrivando da Villanova d’Asti, raggiungiamo la frazione Stazione, attraversiamo il ponte sopra la massicciata ferroviaria, giriamo a destra e poi ancora a destra, verso Montafia. A questo punto percorriamo circa un chilometro su una stradina ritagliata tra i campi e arriviamo a un incrocio. C’è una casa sulla destra e lo spazio per fermare la macchina e osservare quello che ci circonda: a sinistra una pianura tanto liscia e livellata da poterci mettere sopra una tovaglia da picnic larga come l’isola d’Elba senza che si formi neppure una piega. A destra invece, di colpo, la strada s’inabissa, sprofondando in un grandioso fondale verde, e il paesaggio è tutto nuovo: laggiù non più campi ma chilometri di boschi e colline, picchi e avvallamenti, forre, prati e saliscendi e di qua, di là, eccetera. È raro trovare un punto di cesura così nitido tra due territori tanto diversi: è come essere in riva a un bosco. Siamo in Val Rilate, l’ingresso sud-ovest del Basso Monferrato Astigiano. Proseguendo lungo la strada principale troviamo, nell’ordine: una “agrimacelleria” dove è possibile acquistare carni e salsicce di ogni tipo (e salami di gallina) e mettersi a grigliare all’aperto sotto uno dei tantissimi gaze118

bo forniti di panca, tenda e barbecue (a Pasquetta in questi prati la concentrazione umana supera il numero dei fili d’erba); la Paracca, la casa di campagna della nostra amica Dada Rosso, scomparsa ma non dimenticata; la frazione Zolfo con la sua fontanella di acqua fresca sulfurea che secondo molti locali è un toccasana da utilizzare al posto della minerale; la chiesetta di San Secondo, appena prima di Cortazzone, ennesimo gioiel­lino romanico perfettamente conservato, le cui chiavi sono sempre disponibili da un vicino di chiesa; un bel numero di maneggi per cavalli, posti dove dormire, posti dove mangiare oppure posti dove mangiare e dormire, non necessariamente in questo ordine. Per non fare nomi citiamo l’Aradia Mater e il Bricco dei Ciliegi a Cortazzone, La Luna Nera a Viale, il Chicco di Caffè a Soglio, e di qua, di là, eccetera. Ma questi son posti dove, se in un ristorante si mangia male, l’insegna cambia nell’arco di qualche settimana. Perciò ogni posto è buono oppure eccellente: fate un salto alla bocciofila di Cortazzone, che ospita il ristorante Macao, e poi ci direte. Vorremmo essere noi a dirvi: ma c’è qualcosa di più odioso di quelli che passano la settimana in giro per ristoranti, da una sbafata all’altra, postando foto di piatti luculliani e segnalando quanto venga appagata la loro Gola? No, non c’è. Soglio o son desto? Soglio è un paesino di centocinquanta anime. Non è particolarmente bello (per dire: sta a Barbaresco come Gorizia sta a Venezia). A parte il già citato ristorante Chicco di Caffè, Soglio non ha nessuna attrazione particolare (né fontane di acque sulfuree, né chiese romaniche, né di qua, di là, eccetera). Va bene: qualcuno dei centocinquanta abitanti ci farà notare che a Soglio ci sono un castello e un paio di chiese, ma 119

noi ribatteremo che da queste parti è la dotazione minima, non stiamo a questionare. Insomma: Soglio non ha dato i natali a personaggi illustri, non è stata sede di trattati, non ha fatto da set a Barry Lyndon, non ha visto azioni militari eclatanti, invasioni di cavallette, atterraggi di ufo. Eppure a Soglio, negli ultimi anni, sono passati un centinaio di scrittori italiani (compresi noi due). Il fatto è che a Soglio vive Davide Ruffinengo, libraio itinerante (ma con una base alla Libreria Therese di Torino, insieme a Davide Ferraris), infaticabile organizzatore di eventi, appassionato promotore del libro e della lettura, e di qua, di là, eccetera. Ai due Davidi si deve il ciclo Scrittori in cucina, che ogni anno porta in Val Rilate autori da ogni parte d’Italia, ecco svelato l’arcano. Tributato questo doveroso omaggio alla cultura italiana, occorre farne un altro alla tradizione locale: il già nominato “bue grasso” piemontese. Ora: parlando di bue grasso non si può non citare Carrù, in provincia di Cuneo (anche se fuori dalla zona presa in considerazione dal nostro libro). A Carrù, fin dal 1473 sede di un grande mercato di bestiame, si tiene ai primi di novembre, da oltre un secolo, la Fiera del “bue grasso”. Sono ammessi esclusivamente bovini da macello di razza piemontese, rigorosamente allevati (guai a usare estrogeni, naturali o sintetici, pena la squalifica) e suddivisi nelle seguenti categorie: buoi, vacche; manzi, manze; vitelli, vitelle; tori e torelli. Le giurie redigono le classifiche e i capi migliori – grossi come dinosauri – si aggiudicano le ambite gualdrappe e le fasce decorate a mano, nonché medaglie d’oro, coppe, targhe, diplomi e di qua, di là, eccetera. Contestualmente alla mostra zootecnica – per chi, come noi, non solo non distingue un bue da un toro, ma neppure un toro da una vacca – esistono altre attrazioni: 120

nei ristoranti, fin dalle sei del mattino, è possibile fare una leggera colazione con i piatti tipici locali, quali il bollito con le salse, la coda di bue e la minestra di trippe. Ma perché parliamo di Carrù se siamo in Monferrato? Semplice: perché il bue grasso si trova anche da queste parti, ed è eccellente. Ma cos’è ’sto benedetto bue grasso? Si tratta di un ruminante di razza piemontese, a cui da sempre si riconoscono due grandi qualità: attitudine al lavoro nei campi e capacità di fornire carne e latte eccellenti. Ai bei tempi il mercato regionale poteva contare su ottomila buoi grassi l’anno che, alla fine della loro carriera di trattori a quattro zampe, venivano ingrassati fino a pesare una tonnellata e mezzo. Ingrassare un bue è considerata ovunque una faccenda antieconomica, ma all’epoca era giustificata dal risultato: carne di ottima qualità venduta a prezzi significativi. Verso la metà del Novecento, però, a causa dell’avvento dei trattori, l’allevamento del bue grasso si ridusse fino al rischio di sparire. Solo in tempi recenti, passo dopo passo, un numero crescente di allevatori ha ripreso la tradizione del bue grasso: un animale le cui carni, una volta bollite, si sciolgono deliziosamente in bocca perché non hanno mai visto un mangime, né un estrogeno né altri ormoni. Morale: il primo bue grasso della nostra vita l’abbiamo assaggiato a Soglio. Seduto al tavolo accanto a noi c’era il padrone della bestia. Per inciso, era il sindaco e anche il produttore del vino che stavamo bevendo. Questa è la politica che ci piace: gente che sa cosa mangia e cosa beve. La legge delle tre f (feste, farina e fantasmi) La Val Rilate, come tutto il Monferrato, non fa eccezione: qui è tutto un fiorire di feste patronali, sagre dell’agnolotto, 121

fiere del tartufo, mercatini, rassegne, ricorrenze, pranzi di primavera, cene sotto le stelle, concerti di Natale, degustazioni di vini, bagne caùde, fritti misti, polentate e di qua, di là, eccetera. In Val Rilate c’è Cinaglio, dove abita l’amico e collega Pao­ lo Ferrero, eclettico organizzatore di tour enogastronomici e culturali tra Monferrato e Langhe; c’è Cossombrato, dove operava uno dei nostri produttori di vino preferiti; c’è Montechiaro d’Asti, e la torta di nocciole della pasticceria Panzini, c’è questo e quello, e di qua, di là, eccetera. C’è perfino una bella storia senza vini, anzi addirittura esangue, ma dobbiamo andare a Cortanze. Da mille anni il paese è dominato dal castello dei Roero, che si presenta ancora oggi uguale a come venne ricostruito nel Trecento. Se passate da queste parti in una giornata limpida, chiedete di salire in cima alla torre merlata e potrete abbracciare con lo sguardo l’intero arco alpino: una vista mozzafiato a nord, ovest e sud. (E a est? Lì dipende da quanto si è bevuto: qualcuno vede solo nebbia, qualcun altro riesce a vederci addirittura la Padania.) Se invece passate da queste parti di notte, soprattutto in certe notti, fate attenzione alle luci e ombre che potreste intravedere nella torre: il fantasma di una donna dai capelli lunghi, con una lunga veste chiara, si aggira ancora tra le stanze del castello. Secondo la leggenda il fantasma appartiene a Viola Maria Galante dei Roero di Cortanze, figlia del conte Ercole, scomparsa in giovane età dopo una sfortunata vicenda amorosa alla Uccelli di rovo. Viola, infatti, si era sciaguratamente invaghita del giovane parroco. Dimenticarlo era impossibile: ogni volta che la ragazza si affacciava alla finestra della sua stanza lui era 122

lì. Il perché lo si capisce ancora oggi, visto che la torre del castello domina la Chiesa dell’Annunziata. L’amore della fanciulla non era corrisposto dal religioso ma lei, tenace, non si diede per vinta finché lui cedette. Ma qui, come altrove, il paese era piccolo e la gente mormorava: ci volle poco perché la tresca finisse sulla bocca di tutto il Monferrato. L’ultimo a saperlo, com’è ovvio, fu il padre di Viola, il sanguigno conte Ercole, e la sua reazione per l’onta subita fu tremenda: si affacciò alla finestra galeotta imbracciando una spingarda e fulminò il parroco sull’altare, cogliendolo durante la celebrazione della Messa Grande. Quanto a sua figlia, venne chiusa a chiave nella torre dove morì pochi anni dopo, condannata da tutti. Poiché non aveva trovato pace “né da viva né da morta”, in certe notti e in certe circostanze Viola si aggira ancora nella stanza circolare della torre, oggi diventata una suite per gli ospiti del castello. Brrr, che storia, che paura! Sapete cosa vi diciamo: ci ha fatto venire fame! E anche sete. Chi viene a farsi un bicchiere con noi?

Sconclusioni

Esistono sei Strade del Vino operanti e riconosciute dalla Regione Piemonte con le seguenti denominazioni: Alto Monferrato, Astesana, Barolo e grandi vini di Langa, Monferrato Astigiano, Colli Tortonesi e Reale dei Vini Torinesi. Le ultime due non riguardano questo libro, le altre sì, ma noi le abbiamo imboccate a piacimento, con corsi, ricorsi, smarrimenti, e di qua, di là, eccetera. Ci scusiamo con i tanti luoghi, le tante cantine e i tantissimi osti che non abbiamo nominato ma, come osservava il signor Palomar, «la superficie delle cose è inesauribile». L’anima no. Crediamo di averla mappata a dovere. E se qualcuno ha qualcosa da dire gli facciamo la brochure aziendale (a pagamento, trattabile, anche in bottiglie e cestelli). Ci preme invece ringraziare alcune persone senza le quali questo libro sarebbe ancora più incompleto: Mauro Carbone, Paolo Ferrero, Piergiorgio Scrimaglio, Silvia Ceriani, Davide Valpreda, Veronica Rossi, Marco Tamagnone, Davide Ruffinengo, Davide Ferraris, Francesco Forlani, Piero Negri Scaglione, Graziano Dell’Anna, Riccardo Agnello (che ci ha 125

suggerito il titolo Acino fuggente), tutti quelli della pagina Face­book Rinnovare i modi di dire e, naturalmente, Brian Eno. A proposito: giunti alla fine estraiamo l’ultima carta, la numero 80. Dice: “Se sarai perseverante, laborioso e tenace arriverai a quello che stai cercando. E sai come lo troverai? Chiuso”.

Indice dei luoghi*

Acqui Terme, 3, 45. Agliano Terme, 96, 101. Alba, 4, 32, 41, 49, 55, 56, 58, 59, 61, 62, 63, 64, 65, 66, 75, 79. Alessandria, 48. Alfiano Natta, 113. Asti, 4, 36, 48, 55, 64, 66, 96, 106, 108, 109. Barbaresco, 4, 32, 52, 55, 56, 78, 119. Barolo, 4, 17, 42, 71, 72, 74, 77. Belbo, 4, 41, 100. Belvedere Langhe, 81. Benevello, 77. Bergolo, 88, 89. Béziers, 76. Bordeaux, 44. Borgomale, 88, 89. Bormida, 41. Bottigliera, 109. Bra, 10, 11, 12, 13, 14, 16. Bussana Vecchia, 86. Calamandrana, 97. Calliano, 109, 113.

Camerana, 22. Canale, 21, 23, 25, 26, 35. Canelli, 4, 98, 99, 101. Canterbury, 116, 117. Cappelletto, 57. Capri, 68. Carmagnola, 10. Carrù, 120, 121. Cascina del Mago, 34. Castagnito, 26. Castagnole delle Lanze, 43, 45. Castagnole Monferrato, 109, 110, 111. Castell’Alfero, 115. Castellaro, 109. Castellinaldo, 35. Castelnuovo Belbo, 99. Castelnuovo Calcea, 97, 101. Castelnuovo Don Bosco, 116. Castiglione Falletto, 71, 76, 78. Ceres, 52. Ceresole d’Alba, 10, 34, 36, 37. Cherasco, 12, 65, 66, 67, 68, 69, 71, 101. Cherascotto, 66.

* I nomi in corsivo si riferiscono a luoghi non piemontesi oppure a fiumi piemontesi.

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Chieri, 66. Cinaglio, 109, 122. Cinzano, 33. Cisterna d’Asti, 16, 118. Cocconato, 108, 116. Colonnata, 12 . Corneliano, 20, 21, 24. Cortanze, 122. Cortazzone, 3, 119. Cortemilia, 88, 89. Cossano Belbo, 90. Cossombrato, 122. Costigliole d’Asti, 79, 96, 101. Cuneo, 36, 48, 120.

Mantova, 66. Marene, 11. Milano, 76. Millesimo, 41, 101. Moasca, 97, 101. Mombarcaro, 41. Mombaruzzo, 99. Mombercelli, 101, 103. Moncalvo, 113. Moncucco, 117. Monesiglio, 88, 89. Monforte d’Alba, 71, 74, 76, 77. Montà, 15, 35. Montafia, 118. Montechiaro d’Asti, 122. Montegrosso, 97, 101. Montemagno, 109, 112. Montenotte, 101. Murazzano, 49, 85, 86, 90. Murisengo, 116.

Dego, 101. Diano d’Alba, 64, 71. Dogliani, 4, 79. Elba (Isola d’), 118. Ellis Island, 59.

Neive, 52, 53, 55. Nizza Monferrato, 85, 98, 99, 100, 101, 102. Novello, 67, 73, 71.

Firenze, 82. Frave, 46. Gavi, 3. Gorizia, 119. Govone, 28, 29, 77. Grana, 113. Grinzane Cavour, 71, 72, 75, 77. Guarene, 26, 32, 33.

Ovada, 3.

La Morra, 67, 71, 74, 76. Las Vegas, 58, 60, 61. Lemonte, 21.

Palermo, 35. Parigi, 30. Paroldo, 86, 87. Pianalto di Poirino, 36. Piea, 109. Piobesi d’Alba, 21. Pocapaglia, 15, 16, 17, 19, 21, 31. Pollenzo, 14, 45. Portacomaro, 109. Praga, 35. Priocca, 28.

Madernassa, 26. Magliano Alfieri, 28, 29, 30, 31, 77. Mangano, 46, 47. Mango, 45, 46, 48, 49, 50, 77.

Refrancore, 106, 107, 109, 111. Renesio, 25. Roccaverano, 12. Rocchetta Tanaro, 103.

Isola d’Asti, 96. Jacksonville, 46.

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Roddi, 69, 70, 71, 77. Roma, 107, 117. Saliceto, 16. San Damiano, 118. San Daniele, 12. San Marzano Oliveto, 97, 101. Sanremo, 31, 68. Santa Vittoria d’Alba, 33, 34. Santo Stefano Belbo, 44, 79, 90, 97. Scurzolengo, 109. Serralunga d’Alba, 71, 77, 96. Soglio, 119, 120, 121. Sommariva Perno, 32, 34. Spigno, 41. Stura, 16, 66. Tagliolo Monferrato, 3. Tanaro, 4, 14, 16, 17, 32, 33, 41, 49, 55, 61, 66, 103. Tigliole, 109. Torino, 10, 33, 36, 70, 72, 97, 98, 105, 108, 109, 120.

Treiso, 52, 56, 57, 58, 79. Trezzo Tinella, 50. Trieste, 35. Uzzone, 41. Vaglio, 46. Valenza, 3. Valvinera, 111. Venaria Reale, 29. Vene, 46. Venezia, 119. Verduno, 71, 72, 75. Vergne, 67. Versò, 111. Vezza d’Alba, 22, 24, 26. Vezzolano, 117. Viale, 119. Villadeati, 116. Villafranca, 109. Villanova d’Asti, 118. Villanova Monferrato, 3, 109. Vinchio, 85, 102.