Giardini e strade 9788823512382, 8823512387

In queste pagine, puntuale registrazione dei giorni compresi fra il 3 aprile 1939 e il 24 luglio 1940, la testimonianza

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Giardini e strade
 9788823512382, 8823512387

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Table of contents :
Presentazione
Frontespizio
Pagina di copyright
Giardini e strade
Kirchhorst, 3 aprile 1939
Kirchhorst, 4 aprile 1939
Kirchhorst, 5 aprile 1939
Kirchhorst, 7 aprile 1939
Kirchhorst, 8 aprile 1939
Kirchhorst, 9 aprile 1939
Kirchhorst, 10 aprile 1939
Kirchhorst, 11 aprile 1939
Kirchhorst, 12 aprile 1939
Kirchhorst, 13 aprile 1939
Kirchhorst, 14 aprile 1939
Kirchhorst, 16 aprile 1939
Kirchhorst, 18 aprile 1939
Kirchhorst, 21 aprile 1939
Kirchhorst, 22 aprile 1939
Kirchhorst, 25 aprile 1939
Kirchhorst, 26 aprile 1939
Kirchhorst, 28 aprile 1939
Kirchhorst, 29 aprile 1939
Kirchhorst, 30 aprile 1939
Kirchhorst, 1º maggio 1939
Kirchhorst, 3 maggio 1939
Kirchhorst, 4 maggio 1939
Kirchhorst, 6 maggio 1939
Kirchhorst, 9 maggio 1939
Kirchhorst, 10 maggio 1939
Kirchhorst, 14 maggio 1939
Kirchhorst, 15 maggio 1939
Kirchhorst, 17 maggio 1939
Kirchhorst, 19 maggio 1939
Kirchhorst, 26 maggio 1939
Kirchhorst, 27 maggio 1939
Kirchhorst, 29 maggio 1939
Kirchhorst, 1º giugno 1939
Kirchhorst, 4 giugno 1939
Kirchhorst, 5 giugno 1939
Kirchhorst, 10 giugno 1939
Kirchhorst, 11 giugno 1939
Kirchhorst, 15 giugno 1939
Kirchhorst, 18 giugno 1939
Kirchhorst, 21 giugno 1939
Kirchhorst, 25 giugno 1939
Kirchhorst, 3 luglio 1939
Kirchhorst, 4 luglio 1939
Kirchhorst, 7 luglio 1939
Kirchhorst, 9 luglio 1939
Kirchhorst, 17 luglio 1939
Kirchhorst, 18 luglio 1939
Kirchhorst, 19 luglio 1939
Kirchhorst, 23 luglio 1939
Kirchhorst, 28 luglio 1939
Kirchhorst, 9 agosto 1939
Kirchhorst, 10 agosto 1939
Kirchhorst, 12 agosto 1939
Kirchhorst, 16 agosto 1939
Kirchhorst, 19 agosto 1939
Kirchhorst, 26 agosto 1939
Kirchhorst, 28 agosto 1939
Celle, 30 agosto 1939
Celle, 31 agosto 1939
Celle, 1º settembre 1939
Celle, 2 settembre 1939
Blankenburg, 6 settembre 1939
Blankenburg, 10 settembre 1939
Blankenburg, 12 settembre 1939
Blankenburg, 17 settembre 1939
Blankenburg, 20 settembre 1939
Blankenburg, 21 settembre 1939
Blankenburg, 25 settembre 1939
Blankenburg, 26 settembre 1939
Blankenburg, 29 settembre 1939
Blankenburg, 4 ottobre 1939
Halberstadt, 5 ottobre 1939
Kirchhorst, 8 ottobre 1939
Bothfeld, 10 ottobre 1939
Kirchhorst, 17 ottobre 1939
Belsen, 3 novembre 1939
Dintorni di Greffern, 11 novembre 1939
Dintorni di Greffern, 15 novembre 1939
Dintorni di Greffern, 18 novembre 1939
Dintorni di Greffern, 22 novembre 1939
Karlsruhe, 28 novembre 1939
Karlsruhe, 2 dicembre 1939
Dintorni di Greffern, 4 dicembre 1939
Dintorni di Greffern, 8 dicembre 1939
Capanna di giunchi, 17 dicembre 1939
Capanna di giunchi, 25 dicembre 1939
Capanna di giunchi, 26 dicembre 1939
Capanna di giunchi, 27 dicembre 1939
Kirchhorst, 1º gennaio 1940
Capanna di giunchi, 4 gennaio 1940
Capanna di giunchi, 5 gennaio 1940
Capanna di giunchi, 6 gennaio 1940
Baden-Oos, 8 gennaio 1940
Ettlingen, 9 gennaio 1940
Wössingen, 10 gennaio 1940
Flehingen, 11 gennaio 1940
Flehingen, 14 gennaio 1940
Flehingen, 15 gennaio 1940
Kirchhorst, 18 gennaio 1940
Kirchhorst, 25 gennaio 1940
In viaggio, 29/30 gennaio 1940
Capanna di giunchi, 31 gennaio 1940
Capanna di giunchi, 2 febbraio 1940
Capanna di giunchi, 3 febbraio 1940
Capanna di giunchi, 4 febbraio 1940
Capanna di giunchi, 7 febbraio 1940
Capanna di giunchi, 12 febbraio 1940
Capanna di giunchi, 13 febbraio 1940
Capanna di giunchi, 14 febbraio 1940
Capanna di giunchi, 15 febbraio 1940
Capanna di giunchi, 22 febbraio 1940
Karlsruhe, 24 febbraio 1940
Karlsruhe, 25 febbraio 1940
Karlsruhe, 28 febbraio 1940
Karlsruhe, 1º marzo 1940
Karlsruhe, 10 marzo 1940
Iffezheim, 17 marzo 1940
Capanna nell'Auwald, 28 marzo 1940
Capanna nell'Auwald, 29 marzo 1940
Capanna nell'Auwald, 7 aprile 1940
Capanna nell'Auwald, 8 aprile 1940
Capanna nell'Auwald, 10 aprile 1940
Capanna nell'Auwald, 14 aprile 1940
Friedrichstal, 16 aprile 1940
Friedrichstal, 20 aprile 1940
Friedrichstal, 23 aprile 1940
Friedrichstal, 28 aprile 1940
Friedrichstal, 8 maggio 1940
Friedrichstal, 10 maggio 1940
Friedrichstal, 14 maggio 1940
Speyer, 15 maggio 1940
Weidenthal, 16 maggio 1940
Kaulbach, 17 maggio 1940
Grumbach, 18 maggio 1940
Idar, 19 maggio 1940
Idar, 20 maggio 1940
Bescheid, 21 maggio 1940
Welschbillig, 22 maggio 1940
Lintgen, 23 maggio 1940
Rambruch, 24 maggio 1940
Neufchâteau, 25 maggio 1940
Givonne, 26 maggio 1940
Boulzicourt, 27 maggio 1940
Doumely, 28 maggio 1940
Bucy-les-Pierreponts, 29 maggio 1940
Landifay, 30 maggio 1940
Landifay, 31 maggio 1940
Gercy, 1º giugno 1940
Gercy, 2 giugno 1940
Gercy, 3 giugno 1940
Gercy, 4 giugno 1940
Gercy, 5 giugno 1940
Toulis, 6 giugno 1940
Laon, 7 giugno 1940
Laon, 8 giugno 1940
Laon, 10 giugno 1940
Laon, 11 giugno 1940
Laon, 12 giugno 1940
Laon, 13 giugno 1940
Laon, 14 giugno 1940
Laon, 15 giugno 1940
Essommes, 16 giugno 1940
Essommes, 17 giugno 1940
Montmirail, 18 giugno 1940
Montmirail, 19 giugno 1940
Romilly-sur-Seine, 20 giugno 1940
Romilly-sur-Seine, 21 giugno 1940
Bourges, 22 giugno 1940
Bourges, 23 giugno 1940
Bourges, 24 giugno 1940
Bourges, 25 giugno 1940
Bourges, 26 giugno 1940
Bourges, 27 giugno 1940
Bourges, 28 giugno 1940
Bourges, 29 giugno 1940
Bourges, 30 giugno 1940
Bourges, 1º luglio 1940
Bourges, 2 luglio 1940
Les Tallans, 3 luglio 1940
Parassy, 4 luglio 1940
Ferme Les Cadoux, 5 luglio 1940
Maison La Fumée, 6 luglio 1940
La Tuilerie, 7 luglio 1940
La Tuilerie, 8 luglio 1940
Paisy-Cosdon, 9 luglio 1940
Villechétif, 10 luglio 1940
Dienville, 11 luglio 1940
Vaux-sur-Blaise, 12 luglio 1940
Claire-Fontaine, 13 luglio 1940
Claire-Fontaine, 14 luglio 1940
Neuville-les-Vaucouleurs, 15 luglio 1940
Neuville-les-Vaucouleurs, 16 luglio 1940
Gondreville, 17 luglio 1940
Salonnes, 18 luglio 1940
Edelingen, 19 luglio 1940
Edelingen, 20 luglio 1940
Edelingen, 21 luglio 1940
Edelingen, 22 luglio 1940
Edelingen, 23 luglio 1940
Wadgassen, 24 luglio 1940
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PRESENTAZIONE

In queste pagine, puntuale registrazione dei giorni compresi fra il 3 aprile 1939 e il 24 luglio 1940, la testimonianza di un osservatore d’eccezione come Ernst Jünger si dipana in un suggestivo intreccio di esperienze privatissime e accadimenti storici di importanza epocale: gli ultimi mesi di pace tra i suoi cari nella quiete di Kirchhorst, in cui si intensifica e conclude il lavoro alle Scogliere di marmo; le avvisaglie del conflitto imminente; la chiamata alle armi, le marce incessanti verso ovest per raggiungere il fronte, il sentimento di fraterna solidarietà e a tratti di schietta ammirazione nei confronti di ufficiali e sottoposti; lo sconfinamento in Lussemburgo, Belgio e poi in Francia, su strade disseminate di bottiglie di spumante vuote abbandonate dagli invasori; lo strazio sui volti di prigionieri e profughi; e finalmente, quando «ormai era diventato del tutto chiaro il valore inestimabile della pace», la notizia dell’armistizio. Ma non meno affascinante del vivido racconto della Storia è in questo libro il contrappunto e – nelle parole dello stesso Jünger – il paradosso, anche nel «pieno della catastrofe», delle proprie passioni mai accantonate, che assumono anzi nei giorni più duri il valore simbolico di «azione civilizzatrice», di «riserva di stabilità». Si dà quindi scrupolosamente conto delle letture, che si tratti della Bibbia, di Esiodo o di un volume di Maupassant trovato per caso in un alloggio di fortuna; del piacere raffinato provato alla vista delle cose belle, per la buona cucina o per i vini pregiati; dell’incanto e dello stupore 3

inesauribile per il grande rebus della natura: i paesaggi, le piante, gli animali, il mondo misterioso degli insetti e dei fossili, nella convinzione che le cose «traboccano contenuti – e parlano, non appena si rivolge loro lo sguardo». Opere di Ernst Jünger (1895-1998) nel catalogo Guanda: Il contemplatore solitario, Irradiazioni. Diario 1941-1945, Nelle tempeste d’acciaio, La forbice, Cacce sottili, L’operaio, Giardini e strade. Diario 1939-1940. In marcia verso Parigi, La capanna nella vigna. Gli anni dell’occupazione, 1945-1948, Eumeswil, Heliopolis, Il cuore avventuroso. Figurazioni e Capricci, Ludi africani, Rivarol, massime di un conservatore, La pace, Boschetto 125. Una cronaca delle battaglie in trincea nel 1918, Lo stato mondiale. Organismo e organizzazione, Il tenente Sturm, Le api di vetro, Due volte la cometa, Sulle scogliere di marmo, Tre strade per la scuola. Vendetta tardiva, Maxima-Minima, Sulla questione degli ostaggi. Parigi, 19411942.

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www.guanda.it

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@GuandaEditore

www.illibraio.it Titolo originale: Gärten und Strassen Disegno e grafica di copertina di Guido Scarabottolo ISBN 978-88-235-1238-2 © Ernst Klett, Stuttgart 1979 © 2008 Ugo Guanda Editore S.r.l., Via Gherardini 10, Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol

Prima edizione digitale 2015 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.

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GIARDINI E STRADE

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Kirchhorst, 3 aprile 1939 Lavorato nella casa nuova, per la prima volta. «La regina dei serpenti» – forse mi viene in mente un titolo migliore, così che non ci prendano per ofiti. Se immagino di leggerne mentalmente la stesura mi sembra di non percepirne appieno l’efficacia. Lo deduco forse dal fatto che una proposizione breve mi pare incompiuta, mentre so perfettamente che spesso è proprio la frase corta a suscitare una forte impressione. La frase, così come la scrive l’autore, è diversa da quella che legge il lettore. Se mi capitano in mano appunti o lettere e non ricordo più che sia stata la mia stessa penna ad annotarli, la loro prosa mi risulta migliore, più vigorosa. Pomeriggio in giardino. Il terriccio si scava con facilità: è sabbia di brughiera, venata da neri strati di humus. Poiché sono ancora abituato al suolo duro dei vigneti di Überlingen, mi piace sentire come scivola via dalla pala.

Kirchhorst, 4 aprile 1939 Lavorato male, cosa che si poteva prevedere già da come avevo sognato e dormito. Sebbene non tutti i giorni siano giorni di cattura, pure sono sempre giorni di caccia per me – in altre parole, trascorro il pomeriggio costruendo e gettando via le frasi come un vasaio che frantumi i suoi vasi. 9

Mi rendo subito conto della situazione, e in effetti potrei andarmene a fare una passeggiata. Se tuttavia resto qui, suppongo sia perché anche questo sforzo nasconde un significato. Poche sono le cose che si fanno invano. Nel pomeriggio, vangate le aiuole. Seminati i ravanelli e il cerfoglio. Lettura: Thornton Wilder, Il ponte di San Luis Rey. C’è un passo in cui l’autore elenca le caratteristiche dell’autentico avventuriero – tra cui il dono di saper avviare una conversazione con gli estranei. Questa può essere in effetti una eccellente qualità. Passando in rassegna le nostre conoscenze, ne troveremo ben poche che non ci siano state presentate grazie alla mediazione di un terzo. Le persone con cui siamo entrati direttamente in contatto sono quelle incontrate in circostanze eccezionali – in viaggio, durante una festa o per un incidente. Anche nella sfera erotica vige lo stile diretto, così per esempio nell’approccio, o nell’invito alla danza. È un gesto avventuroso quello dell’uomo che, nel buio di una sala, di un teatro, allunga la mano verso una sconosciuta. Del resto, accade più spesso di quanto generalmente non si creda. Edmond era davvero un esperto in quest’arte, sulla cui strategia mi tenne una volta una vera e propria lezione. E, a proposito, mi viene in mente di aver conosciuto anche lui senza l’intervento di mediatori; mi rivolse la parola in metropolitana. Accediamo a tutte le cerchie umane quasi esclusivamente perché qualcuno ci introduce, come si addice alle nature sociali. L’avventuriero, che è asociale, si avvale del suo personale talento. Anche l’autorialità può essere considerata un’avventura spirituale, e ciò implica che qualsiasi autore disponga di un certo numero di conoscenti conquistati con un approccio diretto. Sembra che la conoscenza immediata sia considerata un 10

tipo più elevato di legame. Così agli amanti pare straordinaria la circostanza che li ha portati casualmente a incontrarsi. Anche nei romanzi si impiega volentieri come avvio un evento che avvicina due sconosciuti.

Kirchhorst, 5 aprile 1939 «La regina dei serpenti.» Quel che ho annotato oggi sul conto dei Mauretani non mi soddisfa; è un ordine, questo, più vivido nella mia immaginazione che nella mia scrittura. Va descritto come al tramonto, quando si accumula molta materia sordida, e quando il razionalismo rappresenta il principio decisivo più di ogni altro. Inoltre: se si costituiscono circoli attorno a una dottrina di immorale tecnicità, si attribuiranno loro, vista la malvagità che li contraddistingue, forze autoctone, così da realizzare con nuovo slancio l’antica potenza la cui nostalgia vive da sempre nel fondo dei loro cuori. In tal modo continua a tralucere in Russia l’antico impero zarista. Lo stesso vale per il Forestaro; in figure simili il nichilismo trova il proprio signore. D’altra parte, nella relazione tra Pëtr Stepanovič e Stavrogin, la situazione appare rovesciata: il tecnico cerca di stringere un legame con l’autoctono, sentendosi privo di una forza legittima propria. Sebbene per descrivere simili progetti la cosa migliore sia affidarsi totalmente alla fantasia creativa, non sarà male congegnarli fin nei dettagli. Si dovrà in tutti i casi evitare che il racconto acquisti un carattere meramente allegorico. Dovrà poter vivere di vita propria, libero di qualsiasi riferimento al tempo, e sarà anzi un bene se vi restino punti 11

oscuri che nemmeno l’autore sia in grado di spiegarsi. Proprio questi, come so per esperienza, sono spesso germi di una futura fecondità. Così per esempio il personaggio del Forestaro mi appariva ancora oscuro quando lo sognai in una notte di tempesta nello Harz. Eppure oggi vedo che i tratti che mi annotai allora conservano il loro significato in una cornice più ampia. Pomeriggio alla palude. Vicinissimo, da un piccolo fosso, si è alzata in volo una coppia di anatre, descrivendo un cerchio attorno a me. Il maschio è in amore, con quei riccioli sul codrione che gli danno un’aria da ragazzotto arruffato e il collo setoso splendente di un metallico verde. Bellissimi i punti in cui quel colore vira su un nero sontuoso e assai morbido; quel nero è un verde elevato alla massima potenza. Lo immagino come una polvere d’inchiostro che, in soluzione, dia grandi quantità di tintura di un verde magnifico. Poi nell’orto. Seminati piselli, insalata, bietole, cipolle, carote. Come brillavano i piselli, in file di un tenue grigioverde, nei solchi scuri. Guardandoli, ho pensato che li avrei subito ricoperti di terra, e mi sono d’un tratto reso conto di quanto inconsueto, perfino incantato, sia il lavoro nelle aiuole. Mentre si scava nel terreno, la terra trasmette una metamorfosi anche alle mani; le rende più secche, levigate e, credo, più spirituali. A contatto col suolo la mano subisce una purificazione. Muovere le dita nel terriccio frollo, soffice, riscaldato dal sole, e anche dalla fermentazione, è una sensazione piacevolissima. Tra la posta, una lettera di Elisabeth Brock da Zurigo. Mi scrive che una delle sue alunne, per un tema dal titolo 12

«Description exacte d’un objet», le ha consegnato la descrizione di un’aragosta bollita che mi avrebbe incantato. Certo, devo riconoscere che già l’idea mi pare ben trovata; si tratta infatti di un esemplare di lusso, dell’occasione per un pezzo da virtuoso.

Kirchhorst, 7 aprile 1939 Lavorando mi sono accorto di evitare forse troppo scrupolosamente le E mute. C’è comunque una bella differenza nella frase se, pronunciandola, si dice «erfreuen» («rallegrarsi») invece di «erfreun». D’altra parte credo che il lettore – come noto anche in me – pronunci o trascuri le E mute a seconda delle circostanze. Egli collabora spontaneamente alla buona riuscita di una prosa. In particolare mi pare auspicabile usare prudenza laddove la caduta di questa vocale conferisca alla parola un carattere desueto, rasente quasi la poesia. Lo stesso vale per la dislocazione delle parole in una frase, dettata per lo più dall’esigenza di conferire enfasi – anche in questo caso la poesia gode di una libertà maggiore della prosa. Il lavoro che, in prosa, si compie a beneficio del ritmo non deve lasciare tracce; è una fatica tanto più lodevole quanto meno la si percepisce. Si obbedisce così a una legge universale secondo cui l’ultimo gesto della mano ordinatrice dev’essere quello di cancellare le impronte visibili del proprio lavoro. Inoltre credo di dover evitare un uso smodato della parolina quel. «I suoi occhi brillavano di quello splendore che si acquisisce con il consumo della belladonna.» L’effetto peculiare di questo pronome sta tutto nella pretesa del 13

consenso o del riconoscimento da parte del lettore. Può riuscire particolarmente efficace nel caso di una constatazione bizzarra, o di un fatto raro. Valga tuttavia, come per ogni altro vezzo, il principio dell’economia. Al mattino, nella chiesetta il cui cimitero confina con il mio giardino. È molto bella. Predica del Venerdì Santo su Cristo e i due ladroni sulla croce. Il tono sacrale avvolge la predica come una sottile lamina che si sfalda. Nei protestanti è udibile anche più che nel meridione, dove per giunta non si è rimessi all’ausilio «della sola fede». In Norvegia ebbi l’impressione di assistere a rappresentazioni in cui, reggendosi a funi immaginarie, ci si innalzasse a somme altezze. Nel pomeriggio, visita al mio nuovo vicino; caffè e torta, giro del cortile e della casa. Poi, con Perpetua e Louise, riordinata la biblioteca; il trasloco, purtroppo, ha danneggiato i libri. Attraverso i secoli si conservano solo i buoni vecchi volumi rilegati in pergamena.

Kirchhorst, 8 aprile 1939 Avanti con la biblioteca. Sistemati alcuni manuali anche nei ripiani più in alto. Vangato in giardino, in un punto in cui la terra è di un luminoso rosso brunito e, dove incide la pala, risplende come rame. L’Attagenus, di solito il mio primo nunzio di primavera, stavolta è comparso a stagione avanzata, e ha fatto un giro d’ispezione sulle mie carte. Il piccolino è grosso come un grano di riso, ha graziose antennine a sbuffo e due macchie bianco gesso sul nero scudo del dorso. E qua e là, sul suo 14

abitino scuro, compare una spruzzata di bianco. Dimora nei serramenti delle finestre o nelle scanalature delle assi, e il calore della stanza, quasi fosse un’incubatrice, favorisce la sua nascita precoce. Ma è pur sempre un ritrovarsi quando la bestiolina vola nell’alone di luce della lampada e poi attraversa la pagina di un manoscritto come fosse un campo coltivato. Se lo guardo, la stanza mi appare più animata e più ampia.

Kirchhorst, 9 aprile 1939 Tra i campi, sulla cui distesa sono qua e là disseminati piccoli boschi scuri. Lungo i sentieri le betulle sono ancora spoglie. Sull’orlo dei fossati, l’amento in fiore, impollinato da api e mosche gialle. Grossi grappoli di uova di rana, annidate tra le alghe come un budino di sagù, e con il tuorlo nero già ben sviluppato. Ovunque poi, risonante in profondità, il loro vitreo richiamo. La primavera ha anche un suo lato anfibio, un fresco, tenero incanto, con giochi d’amore tra il ghiaccio stillante. Proprio delle rane, quando, immerse nell’acqua, sembrano reggersi in piedi sulle zampe posteriori allungate, mi ha sempre colpito la somiglianza con gli uomini, che certamente poi si perde in rami di vertebrati ben più evoluti. Fa l’effetto di un primo affondo della natura verso l’essere umano: uno slancio che si rinnoverà con urgenza sempre maggiore. Da ciò dipende senza dubbio anche il fatto che la rana, proprio come la scimmia, ci riesca comica. Anche nell’accoppiamento il maschio afferra la femmina con le braccia alla maniera degli uomini. 15

Da parte sua, l’uomo rivela corrispondenti tratti anfibi. Lo noto soprattutto quando, piegando la testa molto all’indietro, egli offre allo sguardo il rovescio del mento e della gola. Così rimangono sempre certi punti in cui la natura ha tagliato troppo frettolosamente su di noi vesti animali. Mi ricordo che da bambino la vista delle rane mi divertiva moltissimo. Una mattina, tornando dall’asilo, vidi una grossa ranocchia a macchie verdi e nere esposta nella vetrina di un negozio di acquari. Che si potessero acquistare creature tanto meravigliose mi stupiva, così entrai, un po’ intimidito, spinto tuttavia dalla smania di appropriarmi di un simile esemplare. Purtroppo mi raggiunse il nonno, e mi trascinò fuori. Quella volta devo avere almeno parzialmente assaporato la sensazione che si prova nel possedere uno schiavo – intendo quel piacere squisitamente antico, preromano, prealessandrino anzi. «Quest’uomo mi appartiene, è una mia proprietà, un mio completo, sicuro possesso; mi piace tanto giocare con lui.» Sarei portato a credere che qui si celi una delle relazioni più profonde che esistano. D’altra parte però: «Io sono il tuo schiavo» – non ci si può forse immaginare questa frase pronunciata in un tono che finora nessuno dei nostri storici è riuscito a indovinare? Cose del genere appartengono all’infanzia della nostra specie, a quell’oscuro, sontuoso regno di fiaba che Erodoto poté ancora vedere con i propri occhi. Ciò conferisce ai suoi libri un rango incomparabile. Rileggendo questi appunti, noto che, nella terza frase, l’espressione «l’amento in fiore» mi suona male. E senza dubbio a ragione, perché vi si cela un pleonasmo, che andrà però lasciato lì dov’è, come un monito. Lodevole, per 16

converso, la maniera in cui esso mi si è reso percepibile – attraverso un disagio estetico a priori, che ha anche una sua giustificazione logica.

Kirchhorst, 10 aprile 1939 «La regina dei serpenti.» Stai attento alla descrizione delle scogliere di marmo, in modo che non ne venga fuori un affresco sontuoso, nello stile, per esempio, dell’Isola Bella nel Titan. L’autore cerca di trasmettere l’impressione della bellezza ubriacando il lettore di parole. Il massimo effetto del bello non sta però nel rapimento; il bello ci imprigiona nella malia dell’incanto. Può così suscitare in noi un piacere più profondo dell’ebbrezza, la quale, alla fine, sfocia nel vuoto, e ci rende incapaci di sopportare le figure. Ammaliati dall’incanto, invece, che ci fa spalancare gli occhi anziché chiuderli, otteniamo l’impressione più profonda che alla coscienza sia dato di percepire. Al cospetto del bello l’osservazione deve accrescersi; vi è una condizione in cui il tempo comincia a scorrere più lentamente, e i colori a brillare più intensamente, come nel vuoto. La descrizione del bello presuppone misura, distanza e acutezza di sguardo; un mero balbettio non porta da nessuna parte. Perciò parole tipo «indescrivibile» vanno escluse dalla composizione del quadro. Ugualmente, eccedere nei comparativi è un segno di impotenza. Naturalmente si raggiungono sempre stadi in cui la forma non riesce più a reggere la pienezza, né l’ardore della fiamma, ed esplode. Ma qui si tratta di regioni poste oltre il confine delle parole; e allora si dovranno mutare anche i mezzi di espressione. Così per esempio le pure 17

melodie si spingono ancora più lontano, e recano un peso ancora più leggero. Trovo che nel celebre quadro dell’Incantesimo amoroso sia ben colta l’essenza di una simile malia – tanto più che trasmette anche quel senso di spavento che ci coglie appena prima della rivelazione. Modelli per le scogliere di marmo: il dirupo roccioso accanto al faro di Mondello dove m’inerpicai con il Magister. Poi il passaggio che porta a Canoni da Corfù, la valle di Rodino a Rodi, la vista di Corzula dal monastero di Sottomonte, il sentiero che dalla fronte del ghiacciaio scende a Sipplingen lungo il lago di Costanza. I nidi dei falchi e delle civette sulle pareti a strapiombo del Canale di Corinto. L’Acropoli; quel modo in cui, a Rio, le rocce spuntano fuori dal suolo, e fanno pensare ai serpenti o alle orchidee. L’autore ha il dovere di viaggiare molto, per conoscere ciò che la terra ha da offrire. Poi però le immagini devono mescolarsi e fondersi, come miele raccolto da molti fiori. Solo dagli elementi del ricordo stilla il nutrimento per lo spirito. Nel pomeriggio, con un bel sole, nella palude e là tra il muschio acquatico, caccia a specie idrofile. Ero intento a questo lavoro, quando una grossa argironeta è sgattaiolata fuori dai giunchi sullo specchio scuro della torbiera dov’ero accovacciato – di un intenso marrone vellutato, con il corpo di feltro orlato di bianco. In questi giorni di primavera i virgulti delle betulle e gli steli dell’erica tremolano tutt’attorno nella luce accecante, e paiono freschi di bucato. L’insolito sta certo nel contrasto tra la vegetazione ancora invernale e la luce già quasi estiva.

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Kirchhorst, 11 aprile 1939 Seminato porri, spinaci, rafano. Ho visto germogliare anche i piselli – con vero sollievo, perché ormai ho quasi l’idea fissa che niente debba spuntare. A mia discolpa devo dire che tutto quanto possiamo intraprendere oggi contraddice quella crescita che procede da sé, nottetempo, senza il nostro contributo. A noi manca in primo luogo una virtù, che potremmo chiamare l’arte del lasciarsi fare regali. Per quella si deve restare bambini, e allora la fortuna arriverà da sé. Credo anche di avere osservato come il denaro – e non intendo in astratto, bensì la moneta sonante, ricevuta per un’eredità, un dono o un guadagno – si indirizzi verso chi sappia riceverlo. Ed è meno raro di quanto si creda, perché ciascun donatore preferirà sempre colui che sappia ricevere un dono. Ecco perché facciamo tanto volentieri regali ai bambini. Questa relazione ha un suo peso nella divisione delle eredità, e costituisce la ragione segreta delle controversie che ne derivano. I genitori vorrebbero sempre che i loro figli si dimostrassero in gamba crescendo, eppure il loro affetto va a quelli rimasti fanciulli. Sono perciò inclini a favorire i più giovani, gettando così il seme della fraterna discordia. In questo modo il più meritevole alla fine ne patisce, come Caino.

Kirchhorst, 12 aprile 1939 Sogno. Qualcuno mi faceva un racconto in stile cronachistico, o era come se mi si aprisse davanti la pagina 19

di un’antica cronaca con il titolo: «Supplizio dell’acqua». La donna trascina via la vittima, molto provata, dalla folla che si è raccolta sul luogo della tortura, portandola sulla schiena. Purtroppo si verifica ancora una piccola scaramuccia con uno degli astanti, e il supplizio viene ripetuto, questa volta fino alla morte del torturato. La fredda meccanica della violenza in cui l’uomo viene preso come dentro un ingranaggio automatico, poi ne sfugge, ne viene catturato di nuovo, e infine ne è sopraffatto. La scena si svolgeva su una piazza del mercato; le case, gli abiti e anche i volti erano tutti in perfetto stile dell’epoca, solo l’acqua veniva somministrata per mezzo di un moderno idrante, di quelli col boccaglio di rame che si vedono sulle nostre strade. Significativo anche il risveglio. Sono riemerso dalle profondità del sonno come da un gorgo e ho udito, molto prima di risalire in superficie, la sirena di un’auto che passava qui fuori sullo stradone. Ho riconosciuto quel suono, e l’ho immediatamente classificato mentre ancora mi trovavo sprofondato, seppure come dall’esterno, come farebbe chiunque viva in altri mondi senza essere estraneo a questo. Nell’istante in cui sono riemerso, ecco che subito la coscienza è scattata come una molla, e la causalità si è ristabilita.

Kirchhorst, 13 aprile 1939 Gita a Burgdorf, uno di quegli antichi villaggi annidati nella Bassa Sassonia che sembrano essersi essiccati per via di una lunga affumicazione. Comprato dal giardiniere dei cuori di Maria, che mi piacciono molto. Per darmi l’idea di 20

quanto abbondantemente si debba innaffiarli mi ha detto che dovrebbero «sguazzare». Gli artigiani parlano quasi sempre meglio degli eruditi, i quali maneggiano le parole con troppa leggerezza, come fossero spiccioli da spendere. Di recente, per esempio, ho ricevuto da uno sconosciuto una poesia in cui si cantano «i rintocchi della campana di un palombaro negli abissi» – un buon esempio di immagine nata da un vuoto pneumatico di concetti. Sulla strada, una giovane lucertola dal manto rosso. Ve ne sono di due razze, una chiara e una scura – vistosa, in entrambe, la vitalità di uno spirito focoso. Si potrebbe credere che un intimo tratto, forse di natura oroscopica, le avvicini spontaneamente alla catasta del rogo. Anche la stregoneria sugli animali si è modernizzata; recentemente per esempio ho letto di una vecchia condannata perché aveva gettato della paglia infettata dal virus dell’afta epizootica nella stalla di un altro.

Kirchhorst, 14 aprile 1939 Per la prima volta al microscopio nella casa nuova. Mentre in giardino spaccavo il grosso ramo di un faggio tutto crivellato da grossi buchi, su uno dei ciocchi è rimasto un animaletto nero dai riflessi verde metallo e dalla lunga peluria: Xestobium plumbeum. Nella collezione ho ritrovato solo la variante con le elitre rosso-brune, che era rimasta impigliata al mio retino mentre lo strusciavo tra l’erba cresciuta sotto gli alti faggi del bosco di Harli. La cattura di animali che vivono nel legno è un’arte a sé.

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Kirchhorst, 16 aprile 1939 «La regina dei serpenti.» Sto pensando di dare al capriccio un titolo nuovo, e cioè «Sulle scogliere di marmo». Forse vi si esprime ancor meglio l’unità di bellezza, altezza e pericolo così come la intendo io. Intento a questo lavoro, guardando dalla finestra, ho visto sulla strada i cannoni affrettarsi l’uno dietro l’altro verso est, quasi come in guerra alla vigilia di un grande combattimento. In queste settimane i tedeschi hanno occupato la Boemia, la Moravia e il Territorio di Memel, gli italiani sono entrati in Albania. Tutti segnali che indicano guerra in tempi brevi; farò bene a mettere in conto di dover presto interrompere il lavoro. E ciò accade a un punto in cui sento che mi si sta facendo un po’ più chiaro, e in cui il valore del tempo per me è molto aumentato. In tutti i casi, la penna dovrà riposarsi, perfino sul diario. Toccherà agli occhi, invece, farsi carico del lavoro, perché gli spettacoli non mancheranno.

Kirchhorst, 18 aprile 1939 In giardino, scavato sentieri. I vermi che la vanga, affondando, fa a pezzi si attorcono saltellando – il dolore, di fronte a simili visioni, ci tocca per un momento, come con la punta di un bulino. Appare lampante perché il dolore trovi il suo simbolo nel verme, e perché l’uomo, fintanto che soffre inerme, sia paragonato a esso. C’è anzitutto la posizione, tutta a terra, che dà concretezza fisica all’idea di bassezza senza offrire, come alla serpe, la gratificazione della 22

sveltezza nell’incedere, delle squame e delle armi d’attacco. E poi la pelle nuda, glabra e assolutamente priva di difese, la cecità e soprattutto la torsione, che trasforma l’intero corpo in uno specchio di vulnerabilità. Sempre, vedendo un verme che si attorciglia, si prova un misto di ribrezzo e compassione, proprio come alla vista di un maiale, cui il verme sembra apparentato nel modo di soffrire. Suppongo che sia questa la liquidazione dell’esistenza spensierata – il verme vive nella terra grassa come nel paese di Cuccagna, e il maiale si è fatto degradare al ruolo di robusto mangione per il quale mostrava, se non proprio gradimento, per lo meno un’inclinazione. D’altra parte ci sono animali che si vedono soffrire con grande dignità. Tra gli altri vermi che vivono da predatori, come gli erranti, e in particolare le sagitte, vi sono specie di bellezza superiore, che ho spesso ammirato in prossimità del mare. In questi casi si vede come sia lo stile di vita, e non già la parentela del sangue, a nobilitare. Il ceppo dei vermi è misterioso, e dovrebbe essere interpretato da occhi capaci di leggere la scrittura ideografica – vi è inscritto molto di quanto è in noi di natura sessuale. Ancora sulla bassezza del dolore: non è forse vero che anche tra gli uomini siano inflitti aspri tormenti solo a caratteri molto ben determinati? Che certe atrocità siano cioè più facilmente dirette contro tipi che hanno un rapporto particolare con la sostanza materiale e corporale del soffrire? Proprio come ci sono femmine capaci di suscitare manifestamente la lussuria, così esiste un habitus che provoca il bruto alla violenza. Quel tipo di angoscia e di dolore sarà spesso riscontrato in persone completamente 23

possedute dalla smania per i piaceri grassi e opulenti. I più esposti al rischio sono, per esempio, quelli che il popolo chiama vampiri, e le prostitute attraggono i carnefici. Anche la paura nuda e cruda si attira sempre addosso cose terribili. Così chi si dà alla fuga induce all’inseguimento; e così chi trama il male spia la sua vittima – l’ultima barriera cadrà non appena riconoscerà in lei un segnale di timore. Perciò è molto importante in caso di incontri sospetti, per esempio quando qualcuno ci rivolge la parola in un bosco, mantenere la sicurezza. In quanto uomini, portiamo impresso il sigillo della superiorità, assai difficile da infrangere, a meno che non siamo noi stessi a intaccarlo, e il cui potere è avvertito anche dagli animali. Basta sapere – come Mario – di essere inviolabili.

Kirchhorst, 21 aprile 1939 Il boschetto dietro casa nostra si chiama «Fillekuhle», e un tempo era il luogo dove si sotterrava il bestiame morto: fillen è appunto una forma verbale caduta in disuso che stava a significare «togliere il pelo», «scuoiare». Potrei forse impiegare questa parola nelle Scogliere di marmo: là dove si deve descrivere lo scorticatoio. Del resto anche qui, sebbene da lungo tempo non vi si seppellisca più nulla, aleggia l’alito dei luoghi infausti. Alla casa, all’immagine dell’insediamento umano, appartiene sempre un posto del genere, dislocato per lo più ai margini della vista. Finito: le lettere di Erasmo, un dono dell’astrologo Lindemann. Molte di esse, soprattutto quelle scritte in gioventù, sono imbevute di un’essenza ciceroniana che 24

sempre mi disturba negli epistolari. Il fuoco del retore non riscalda e il piacere vanesio del discorso distrugge l’elemento comunicativo che deve in tutti i casi costituire il nocciolo della lettera. È sempre spiacevole per il destinatario notare che l’autore lo sta prendendo a pretesto per fare degli esercizi di fioretto. Certo poi vengono anche descrizioni molto belle, come quella di Tommaso Moro, del quale loda la vita domestica come una felicità predestinata di cui chiunque vivesse con lui poteva godere. Nel suo incontro con Lutero si manifesta la differenza tra gli spiriti che vivono nell’alveo dell’ordine e gli spiriti straordinari. Lo stesso Erasmo ha ben espresso questa distinzione in un passo di una lettera indirizzata a Caesarius: «Sono arrivato fino al limite estremo, quasi fino alle rive del mare; tradirò me stesso se non mi spingerò tra i flutti?» L’ingresso negli elementi gli è così precluso. La differenza che corre tra loro è anche quella tra due spiriti dei quali l’uno è fondamentalmente critico, e l’altro non conosce esitazioni. Considerando questi due schermitori si riconosce anche come erroneo quel passo in cui Nietzsche rimpiange che la Chiesa non sia giunta ad autosublimarsi. Anche il sistema storico, come il cosmo, si distrugge periodicamente tra le fiamme per potersi conservare. In maniera del tutto simile mi sono a volte augurato che la successione dei sovrani francesi proseguisse fino a oggi; vivremmo allora in un raffinatissimo Rococò e, invece della tecnica, avremmo una sofisticata chinoiserie. Ma lo spirito del mondo tollera i lavori di filigrana solo laddove un poco tentenna – così come dobbiamo le cose più raffinate agli attimi in cui quello spirito era distratto. I buoni insegnamenti che Erasmo impartisce a Lutero 25

sono di quelli che l’uomo d’azione disprezza. Se tuttavia si vive tra le scartoffie è necessario avere anche uno spirito volpino per cavarsela in simili passaggi epocali. È una caratteristica che viene fuori bene in certi disegni di Dürer e, in maniera anche più riuscita, nella medaglia di Metsys, su cui si vede come tale spirito volpino faccia spesso il paio con la forza. Assolutamente inconfondibili sono poi i tratti di una potenza spirituale superiore. Sotto questa luce l’Europa era più piccola, e le sue capitali erano più vicine l’una all’altra di quanto non sia oggi che si sorvola il continente in poche ore.

Kirchhorst, 22 aprile 1939 Tra la posta, la lettera di un signor Reynier da Parigi. «Donner tout Stendhal pour une seule poésie de Hölderlin. Donneriez-vous une bouteille de Chambertin pour un civet de lièvre? On a besoin de Stendhal comme on a besoin de Hölderlin. Dans l’ordre des nourritures il n’y a pas plus d’hiérarchie que dans une vue que le regard découvre d’une montagne.» Questo passo della lettera appare tra altre notazioni sul Cuore avventuroso del quale, vedo, costui ha letto la prima redazione. Si riferisce infatti alla valutazione comparativa tra Stendhal e Hölderlin che si trova appunto in quella versione, e mette in evidenza la falsa pista in cui, con simili azzardi, si finisce per incorrere. Certo, fintanto che la nostra volontà si mantiene vivace, siamo inclini a mettere in questo modo i grandi in relazione l’uno con l’altro; d’altra parte, in tale giudizio, vi è sempre un che di simile allo stato d’animo 26

che deriva da una guerra perduta. È questa la ragione per cui, nella seconda stesura, apparsa neanche un anno dopo, non l’ho più ripreso. Quel passo, all’epoca, era tra quelli che più piacquero nel libro; fu preso come il colpo ben assestato da uno schermitore. Così ci sono sempre gli spiriti che ci incoraggiano nel nostro punto debole, se solo ci schieriamo al loro fianco nella polemica; e purtroppo capita di incontrarli molto più spesso di quelli capaci di azzeccare un buon giudizio, che davvero colpisca nel segno.

Kirchhorst, 25 aprile 1939 Con la posta, il mio libretto di servizio, che mi arriva dal comando della circoscrizione di Celle, e da cui apprendo di essere inserito nelle liste dello Stato nel rango di sottotenente a disposizione. La politica di queste settimane ricorda la vigilia della Guerra mondiale. La novità sta tuttavia nell’estrema sensibilità delle masse, in crescente contrasto con lo spaventoso incremento dei mezzi. Ne deduco perciò che i due fenomeni derivino da un’unica e medesima causa, e che al momento prevalgano le apparenze. Tremenda è e rimane in ogni tempo una sola grandezza – l’uomo, per il quale le armi altro non sono che membra aggiuntive e pensieri in forma plastica. C’è poi una cartolina di Friedrich Georg, che per la fine della settimana tornerà da Leisnig. Stamattina, in giardino, con un tempo finalmente mite dopo tanti giorni, ho riflettuto ora sul lavoro alle Scogliere di marmo, ora sulla piaga delle talpe. In giardino le cose vanno 27

sempre come nella vita: per ogni vantaggio ci è sempre inflitta anche una noia. Non appena il terreno si fa più soffice, ecco che si secca anche più facilmente; chi ai tropici riesce a mietere un raccolto dieci volte più grande, dovrà mettere in conto nove piaghe. A noi spettano guadagni miseri adesso, e dobbiamo esserne contenti.

Kirchhorst, 26 aprile 1939 Trafficato in giardino, perché possa passare l’esame del fratello. Ancora piselli, che hanno il bel nome di sciabole inglesi, seminati e protetti dai passeri con una copertura di vecchie tendine. E ancora caccia alle idrofile nella palude, voglio infatti fissarne al cellofan alcune specie per studiarne il rovescio. I punti dove il terriccio d’erica è lisciato dalla vanga. Su quella torba grassa, come su un’aia nera, campanule di brughiera e rugiada del sole, poi erbe in fiore e giovani germogli di betulla. Sui margini, coi fiorellini rosa ancora chiusi, un alto arbusto simile all’erica, sicuramente il calamo aromatico, trasportato fin qui dal Canada. La superficie animata è terreno di caccia per il carabo di campo, ora splendente di un verde di seta, ora un po’ più opaco, del colore del muschio. Un esemplare, che ho catturato più che altro per mio diletto, si è rivelato della varietà chiamata Connata – sul suo scudo dorsale, le due macchie chiare sono unite nel mezzo in forma di nastro. Scogliere di marmo. Non mi è ancora venuto in mente il nome giusto per la figura del fratello, che sulle prime ho chiamato Profundus, anche se in quanto trisillabo ha un peso eccessivo nella frase. Perciò gli ho dato 28

provvisoriamente l’appellativo di Felix, che suona piuttosto sbiadito. Forse mi deciderò per Otto, oppure Otho, che in maniera puramente vocalica si adatta a ogni espressione.

Kirchhorst, 28 aprile 1939 Notte turbolenta. Dapprima mi è apparso Kniébolo,1 che mi sembrava fiacco, melanconico e bisognoso di affetto. Mi ha offerto dei bellissimi confetti dorati; gliene avevano donati – diceva – in gran quantità per il suo onomastico. Subito dopo ecco apparirmi un’immagine del corso della vita, configurato come un percorso a ostacoli. C’erano barriere da scavalcare in una sola direzione; e porte, che conducevano all’aperto. Poi mi è apparsa una nuova fluorescenza – in oro e azzurro. Agitavo in una coppa cristalli e piccole biglie, che scintillavano talvolta in oro puro, talvolta in azzurro splendente e, con questa oscillazione, saliva dal recipiente un debole tuono. In un circolo di illustri artigiani mi presentai come incisore di monogrammi. A mezzogiorno nella stanza di Perpetua, ad ascoltare la radio. Perpetua, Louise e la grassa Hanne sedevano sulle seggiole, io invece ero disteso sul sofà, quasi come in Mauretania. Dopo, piantate le patate, con una zappa ad ampie lame – come si usa da queste parti –, e un grosso rastrello per tracciare i solchi. Questo arnese si chiama Tog – pronuncia Toch –, termine che è sicuramente legato a ziehen, tirare. Trapiantate le malvarose. Chiacchierata con il vetraio e, guardandolo, per la prima volta in vita mia, ho 29

pensato: «vorrei che fosse questo il tuo aspetto tra qualche tempo», perché i segni dell’età si sposavano in lui a un che di piacevolmente infantile. Il piccolo Alexander, che chiama tutti «zio»: i bambini sanno ancora che tutti gli uomini sono fratelli. La grossa trave sulla porta del fienile è qui chiamata Dössel.

Kirchhorst, 29 aprile 1939 Prima di addormentarmi ho ripensato a lungo al colore azzurro visto ieri all’interno della coppa. Volevo dargli un nome, e solo nella difficoltà di trovare un termine di paragone, anche approssimativo, mi sono reso conto della natura del mio sguardo. Avevo indugiato al di là del mondo dei colori. In sogno ho udito un dialogo di contadini a proposito del paesaggio. Uno di loro diceva: «In estate si dovrà spaccare la palude» – e, come ho subito afferrato, intendeva penetrarla in profondità con un vomere pesante. Verso le quattro mi sono svegliato, e ho sentito fino alle cinque e mezzo i rintocchi della campana della chiesa. Quando in casi come questo crediamo di essere svegli, in realtà il più delle volte ci troviamo in uno stato di lucido torpore – allora fendiamo appena il sonno. Da Parigi, spedito da Hercule, l’ultimo numero del «Crapouillot»: Les Bas-Fonds de Paris, con foto e disegni dei lupanari e un piccolo dizionario di argot. Per «piangere» ci trovo: chialer, che propriamente vuol dire: «chier des yeux». Lo annoto come esempio di quanto il linguaggio possa 30

infarcirsi di sterco. Spesso una parola ha tanti sinonimi quanti sono i gradini della scala sociale. A sera, andato a prendere Friedrich Georg all’autobus.

Kirchhorst, 30 aprile 1939 Le cattedrali sono fossili racchiusi nelle nostre città come dentro tardivi sedimenti. Eppure siamo ben lontani dal trarre, in base alle loro proporzioni, deduzioni sulla potenza vitale che fu loro associata e che le costruì. Ciò che visse in quei gusci colorati, ciò che li creò, è per noi più remoto delle ammoniti del cretaceo; e riusciamo più facilmente a ricostruire da un osso di dinosauro ritrovato in una fossa di ardesia la costituzione dell’animale cui appartenne. Si potrebbe anche dire che gli uomini di oggi vedono simili opere come un sordo vede le forme di trombe e violini. Nel pomeriggio, con un tempo afoso, insieme a mio fratello nella palude. Conversazione sulla differenza tra nichilismo e anarchia. Friedrich Georg trova che si distinguano anche per il fatto che il nichilismo può appropriarsi di ampie forme di ordinamento. Si potrebbe forse enunciare in senso generale il principio secondo cui gli ordinamenti visibili debbano crescere nella stessa misura in cui va perduta l’intima armonia. Allo stesso modo il numero dei medici cresce in proporzione diretta alla perdita della forza vitale. Sul tardi, un temporale, venuto con la grandine dalla palude.

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Kirchhorst, 1º maggio 1939 La grandine ha davvero danneggiato le piante; ha strappato ai nostri piccoli arbusti di mandorlo la loro fioritura, che ora è stesa al suolo come una camicetta rosa. Il primo mese nella nuova dimora. Ciò che più mi piace dell’abitazione è la mancanza di quella comodità che ormai trovo sgradevole nelle recenti edificazioni. La casa è costruita come una cascina della Bassa Sassonia; attiguo ai locali d’abitazione c’è il grande fienile con la stalla, che con il tempo vorrei riempire di animali.

Kirchhorst, 3 maggio 1939 Gita a Burgdorf insieme a Friedrich Georg. Lungo il sentiero, i fiori giallo oro del dente di leone, Leontodon. Il nome di questa pianta è appropriato; essa è infatti, come il leone, di natura solare. Nei villaggi si vedono querce possenti, gli ultimi alberi di Donar. Di frequente è come se mi cadesse una benda dagli occhi; e allora le cascine mi si spalancano davanti nitide nel loro antico splendore pagano. Arrivo a guardare fin nell’intimo, nel nucleo inviolabile della patria antica, e credo che così, nella morte, vediamo dispiegarsi le ali della casa paterna con le aie che risplendono in una luce solenne. Una volta giunti a Burgdorf, siamo entrati nella bottega di un giovane fabbro, perché alla bicicletta di Friedrich Georg si era rotta la molla della sella. La piccola officina, che sapeva di ferro, era stracolma di cose ormai prive di significato, soprattutto ruote smontate, accantonate negli 32

angoli impolverate e arrugginite. Altre erano appese alla pareti come doni votivi nel tempio del dio Vulcano. Se si osserva un posto simile con uno sguardo del tutto distaccato, come ho fatto io, spesso il lavoro umano acquista un senso meraviglioso.

Kirchhorst, 4 maggio 1939 Siccome qui lo studio si trova per i miei gusti troppo all’interno della casa, ho predisposto, con l’aiuto di Perpetua e di Louise, una cella da eremita nella soffitta. Ho sempre avuto una predilezione per le soffitte polverose; in esse ci si muove come nel regno dell’oblio. Mi sembra quasi che nelle stanze disabitate si depositi una materia, un humus spirituale da cui la forza creativa trae un nutrimento sostanzioso. Così a Überlingen, quando dormivo in cantina, i sogni affluivano a ondate. Spaventoso divenne poi questo influsso quando, in guerra, a Douchy, occupai un rifugio vuoto che si trovava nel giardino. Lo abbandonai già dopo la prima sera. Una simile atmosfera avvolge anche gli ospiti che passano la notte nelle camere polverose di vecchi castelli, dove hanno visioni spettrali. Nelle stanze che abitiamo da lungo tempo questa forza ignota si logora; sono come terreni di antica coltivazione. E si capisce anche perché il popolo attribuisca alla prima notte trascorsa in una nuova casa e ai suoi sogni un significato mantico.

Kirchhorst, 6 maggio 1939

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Sul dolore. Se dovessi rivedere questo lavoro, ci sarebbe da aggiungere un capitolo sull’amarezza. L’amarezza dell’invecchiare, specie per le donne, e l’amarezza delle delusioni, quella che deriva dall’ingiustizia e quella che fa seguito agli sbagli irreparabili, e infine l’amarezza della morte, cui nessuno sfugge. L’amarezza compare solo nella seconda metà della vita quando, con le rughe sul volto, anche le linee del destino appaiono nel loro carattere ineluttabile. Anch’essa rivela un tratto di innocenza perduta.

Kirchhorst, 9 maggio 1939 Con un tempo sempre fresco e umido, piantati cavoli e sedano. L’umidità come elemento vitale. Afflusso dei succhi nell’accrescersi del piacere: l’acquolina che si raccoglie in bocca di fronte a un boccone prelibato, i bollori del sangue e le secrezioni nei giochi amorosi. Siamo immersi nei succhi. Anche sudore e lacrime significano che la vita è in fermento nelle regioni più profonde della salute. Grave è lo stato di chi non suda più, di chi non può più piangere. L’umidore, poi, dello spirito: l’umore succoso, di muschio, di rugiada nella poesia. Soprattutto lo sprizzare sorgivo, l’ondata di immagini e parole in cui si incanalano e nuotano le particelle più solide. L’umidità in Rubens, specie nei punti in cui la carne si colora di rosa. Insuperabile vi appare allora tutto ciò che è voglia di vivere. Nei latini l’elemento umido è più nascosto, spesso come racchiuso in una conchiglia. A ciò si collega anche la fame, o piuttosto la sete di sangue nordico. 34

Diversa la qualità della secchezza. Dolcezza, aroma. Nietzsche che si rivolge al secco, al deserto, ai datteri stillanti oro, da Wagner a Bizet. La vita intensa che sgorga dall’infusione. Oasi. Cisterne. Harem. Intarsi.

Kirchhorst, 10 maggio 1939 Seminato rape rosse, ravanelli, fagioli nani nelle aiuole, cavolo e navone nei vivai. Del cavolo, oltre a quello comune, anche una varietà rosso scura dai riflessi quasi neri – per amore della vista. Per la stessa ragione voglio far arrampicare alla pergola dei fagioli turchi, per via dei loro fiori rossi. Anche i polli dovranno essere di una razza che sia una gioia per gli occhi. Solo così potrà prosperare pure l’economia. Si deve sentire più volte al giorno il desiderio di dare uno sguardo alle piante e agli animali per godere della loro vista, e anche la sera, prima di addormentarsi, si deve continuare a contemplarli nello spirito. Quando un uomo ha conquistato una donna, ecco che diventa più audace anche con le altre; il successo si estende in un attimo a tutto il genere.

Kirchhorst, 14 maggio 1939 Oggi, nel pomeriggio domenicale, mi ha fatto visita un lettore ventitreenne che presta servizio da caporale a Braunschweig. Abbiamo bevuto il caffè sotto i faggi, poi siamo andati nella palude. Tutti quelli che ho conosciuto in 35

questo modo, sto notando, hanno l’aria di soffrire senza che li si possa aiutare. Il tempo assomiglia a una brutta strettoia; le persone vengono spinte in mezzo. Soprattutto ho l’impressione, anche fisiognomica, che vivano quasi costantemente in piena coscienza, presi da un’eccessiva preoccupazione per la situazione nella quale si trovano. Rivelano i sintomi del panico da esame; sono inoltre sempre vigili, ed è strano che la volontà di essere felici, o di esplorare l’ignoto, sia in loro tanto debolmente sviluppata. In questi casi si ha sempre la sensazione di parlare con dei podisti o, cosa anche più imbarazzante, con delle podiste. Ma dov’è che oggi lo spirito del mondo tiene le sue riserve di sognatori e di dormienti?

Kirchhorst, 15 maggio 1939 Il giglio scuro che, simile a una piccola palma, sboccia ai margini dell’aiuola dei crisantemi. Ruota il verticillo dei suoi petali sottili gettandoli via da sé in un’audace torsione, come fa una ballerina con la sua veste. Vedo e apprezzo in questa pianta il benessere che essa trae dal suolo e dalla propria crescita. Anche la forza vi è tanto meravigliosamente costretta e trattenuta, come in una statua. Non conosce fretta; sa che giungerà a maturazione a tempo debito.

Kirchhorst, 17 maggio 1939 Da quando abito nella mansarda, spesso non vedo Friedrich Georg che a mezzogiorno. Oggi, dopo mangiato, 36

abbiamo parlato dello «style imagé» ripudiato da Marmontel. Di quanto in proposito ha detto Friedrich Georg ho trovato particolarmente bella l’osservazione secondo cui nel linguaggio non si deve solo distinguere la scrittura immaginifica da quella concettuale – una terza possibilità è lo stile ispirato. Poi, di Bruegel, e del Figliol prodigo di Bosch. Questo quadro, che alcuni anni fa potemmo vedere da vicino a un’asta, ha lasciato in entrambi una forte impressione. Il figlio: con i capelli bianchi, esausto fino all’estremo nei beni, nel corpo e nell’anima. Si vede che non riuscirà più ad arrivare a casa, e in ciò la durezza del pittore supera quella del testo biblico. Sullo sfondo, lo scenario della bettola, rappresentata come un covo di imbroglioni e di impostori, davanti al quale un ubriaco sta pisciando mentre una puttana fa spenzolare i seni dalla finestra. Da tempo è stato dimenticato colui che qui si lasciò alle spalle eredità, dignità, salute. Il male gli è arrivato fino all’osso. Orribile è soprattutto il fatto che, in questa scena, l’intera vita dissoluta si condensi nella prospettiva di un attimo. Per tale sintesi la pittura resta ineguagliata da qualsiasi altra arte. Dopo il tramonto, piantato i pomodori. Le piantine crescono senza soffrire se si immergono le loro radici in un intruglio d’acqua, torba concimata e terra. È una ricetta che mi ha consigliato Belz, il sensale di Überlingen. Così nella nostra scuola di vita abbiamo tanti maestri, e ad alcuni di loro dobbiamo un solo insegnamento isolato.

Kirchhorst, 19 maggio 1939

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Mio cognato è venuto a prenderci in automobile, e abbiamo passato la giornata nel distretto di Lippe e sul lago di Steinhude. A Rehburg abbiamo girato a lungo nei pressi della casa paterna, e abbiamo visto la finestra del sottotetto al di là della quale io e Friedrich Georg abbiamo abitato per tanto tempo, fino allo scoppio della guerra. Abbiamo visto anche la vetrata del bovindo davanti alla stanza in cui, quando i genitori erano in viaggio, celebravamo in quattro le nostre prime feste galanti. Quanto tempo è già passato da allora. Quanto agli alberi, il cui profilo, dopo tanti anni, è ancora nitidamente impresso nella mia memoria, ho notato che i tigli e le acacie erano cresciuti poco, ben di più, invece, gli alberi da frutto e i faggi, ma più di tutti il salice piangente che avevamo piantato intorno al 1912 – era appena un ramoscello – accanto a uno specchio d’acqua e che nel frattempo si era fatto possente. Certo tali differenze dipendono molto anche dalle risorse del suolo. Quanto però sia diverso il tempo in cui adesso ci troviamo mi è apparso chiaro nelle distanze, che nell’insieme ricordavo come tratti da percorrere a piedi. Adesso invece, in pochi minuti d’automobile siamo volati da un punto all’altro. In certi momenti però, tornavo a calarmi completamente nel tempo andato, che si insinuava nel nuovo come in un labirinto. A pranzo a Bad Rehburg, nell’hotel di Tegtmeyer, che era in classe con Friedrich Georg. Ci siamo scambiati ricordi bevendo del vino. Era bello il modo in cui, nel vivo della conversazione, egli si alzava con molta sicurezza per andare a servire altri ospiti, e poi tornava con un sorriso, come togliendosi una maschera. Abbiamo ritrovato in lui un tratto che ben gli si sarebbe adattato in veste di pastore, ma certo 38

anche all’oste non stava male. Comunque ciascuna classe sociale riposa su di un fondamento sacrale. Su al castello di Matte, abbiamo bevuto il caffè nella piccola mescita della torre, da cui si domina il paesaggio originario con le sue acque, le paludi, le faglie – le selve attraversate da Germanico. In esso vi è tanta malinconia, amarezza perfino. Poi a Stadthagen, dove nell’acqua solforosa di una sorgente vulcanica abbiamo visto cespi di fiori che, da anni, vi crescono immutati nella forma e nel colore – uno spettacolo che mi pareva incantato e anche un poco ripugnante. Allo stesso modo, forse, un tiranno potrebbe conservare presso di sé le teste dei nemici ammazzati, per poter godere con gioia sempre rinnovata della loro vista ogni volta che passeggia nel suo giardino. In autostrada, su cui viaggiavo per la prima volta e di cui mi stupiva l’alto livello tecnico – machina machinarum – di ritorno a Kirchhorst. Tra la posta, un album di quadri di Toulouse-Lautrec, con un biglietto di René Janin. Per godere di questi colori si dovrebbe essere sensibili al fascino dei fiori che appassiscono. Vi è pure un che di satanico, come appare con particolare evidenza nel quadro dell’inferno di lussuria tinto di granato dal titolo Au salon. Altrove quel satanismo si accende anche di una luce positiva, nel Mailcoach per esempio, che irrompe tempestoso sul suo telaio ardente mentre il terreno esplode sotto gli zoccoli dei focosi purosangue. Certo di fronte a pezzi del genere si proverà piacere ancora per molto tempo; eppure, osservandoli, si nota quanto l’immagine del XIX secolo sia per noi ancora fluttuante. 39

Kirchhorst, 26 maggio 1939 Malumore, che non aveva alcuna ragione di essere dal momento che tutto fiorisce così splendidamente. Le grandi mimose, che risplendono tanto magnificamente in giardino, dimostrano che l’abbondanza non ci manca. Né procede male, tutte le mattine, il mio lavoro alle Scogliere di marmo, in cui ho ultimato la descrizione del padre Fillobio, evitando, spero, tutti i cliché cattolici. Nel pomeriggio a Burgdorf, dove vado sempre volentieri. La città ha come un’asciuttezza inossidabile, che nella sostanza sembra renderla immune a tutte le devianze della storia. D’altra parte non vi è in essa traccia alcuna di elevazione né di alti voli. La vista delle sue vecchie case mi infonde la speranza che il genere umano non andrà in rovina tanto in fretta. Con ritardo, ma con grande vigore, incomincia per me a farsi chiaro il senso dell’eternità nella vita. Al cimitero, che era tutto in fiore. Mi fa sempre piacere assistere allo spettacolo dei bambini che giocano mentre le madri sono affaccendate tra le tombe. Su uno dei monticelli di terra, un arbusto di cuori di Maria, assai adatto come ornamento tombale, in piena fioritura. Le gocce rosse dei suoi fiori tremavano come medaglioni nella brezza tenera. Ho pensato alla mia lapide, sulla quale vorrei fosse inciso solo il nome con le due date, ed era un pensiero gradito per me. Sulla via del ritorno ho fatto una breve sosta in una piccola radura nei dintorni di Beinhorn, seduto su un ceppo di quercia, al sole, tra le felci semidischiuse dai polloni ancora ricoperti di velluto bruno. Stavo un po’ meglio qui, 40

deliziandomi, come sempre in un’atmosfera simile, della caccia sottile. Già sul sentiero mi è volato incontro il piccolo proboscidato Magdalis armiger, che deve il suo nome ai due aculei che gli spuntano dal collare della corazza. Subito dopo, sotto la corteccia della quercia, ho trovato il minuscolo Laemophloeus duplicatus, che ho potuto riconoscere osservando più tardi al microscopio non solo i due listelli che gli adornano testa e collare, ma distinguendo addirittura con grande chiarezza la sottile linea mediana che solo di rado si riesce a vedere. Da quel ciocco di quercia fiorito di funghi estrassi inoltre uno Scolytus intricatus – un maschio per l’esattezza, come rivelavano i due fini pennelli di setole che si allungavano sulla sua fronte. Resta infine da menzionare il Litargus maculato, con il quale ho fatto conoscenza solo l’estate scorsa nei boschi del monastero tra Überlingen e Birnau. Come accade spesso in casi simili, da allora non è più affatto raro che lo incontri – perché non solo si fa conoscenza con nuovi animali, ma si impara anche a vederli nel grande rebus della natura.

Kirchhorst, 27 maggio 1939 Progressivo miglioramento. Nelle Scogliere di marmo ho provvisoriamente sostituito il nome della Kupferottern, la «vipera comune», con quello della Lanzenottern, il «ferro di lancia», che ha un’ambiguità zoologica maggiore. Concederei anche che sulle scogliere di marmo nidifichino degli avvoltoi. Devo infine informarmi sulle razze dei cani di grossa taglia, affinché il combattimento dei molossi risulti sufficientemente preciso. Ho in mente lo scontro dei cani 41

contro le serpi come l’incontro del sangue con una delle sue quintessenze, il veleno. Nel pomeriggio, con Friedrich Georg a Moormühle dove, bevendo caffè, abbiamo fatto studi sugli automobilisti. Subito dopo a Heeßel e, attraverso stretti sentieri, nei boschi attorno a Kolshorn. A un incrocio ci ha rallegrato trovare un vecchio segnavia in legno di quercia, simile a quelle figure saturnine tanto care a Kubin. Proprio qui, tre le chiome delle querce, ho udito per la prima volta quest’anno il rintocco cristallino delle note del rigogolo. Durante il tragitto Friedrich Georg, che in genere parla assai di rado del suo lavoro, mi ha esposto la struttura di uno scritto di cui si sta occupando, e che si intitola Le illusioni della tecnica. Ha citato a tal proposito lo zoppicare di Wieland e di Efesto come difetti tipici. Poi la natura del fuoco sottratto da Prometeo agli dèi. La conversazione ci ha poi portati a parlare dell’orgia di Dimitri Karamazov: un pezzo da virtuoso, e un quadro spaventoso della lussuria slava. Sullo sfondo vi si erge simbolicamente il parricidio. Mentre discorrevamo, nel caldo dell’abetaia ci è volata davanti una tortora, dalla figura aggraziata, col ventaglio delle ali orlato di chiaro. Sul tardi, di nuovo nell’orto, concimati per bene cavoli, sedano e pomodori. Anche in questo caso vale il mio piccolo motto: per gli aromi si prende la mano solo con gli anni.

Kirchhorst, 29 maggio 1939 Per Pentecoste, una visita da Goslar: Meister Lindemann. Parlato di oroscopi, erbe, giardini, medicina. Dopo averlo 42

accompagnato all’autobus, abbiamo raccolto dei fiori d’ortica, che crescono in abbondanza nel giardino e che lui ci ha consigliato per il tè. Il raccolto è ora qui accanto a me, un piatto fondo ricolmo di petali bianchi che virano teneramente al verde, tutti con quattro minuscoli puntolini neri.

Kirchhorst, 1º giugno 1939 La vecchia quercia abbattuta di Großhorst. Andiamo a farle visita nei pomeriggi afosi, per dedicarci alla caccia sottile. I cerambicidi di velluto nero, con geroglifiche striature di velluto giallo. Vagano nella smania dell’accoppiamento sulla corteccia rovente, barcollando di lussuria e di voglia di sole, poi, dopo la separazione, si trattengono ancora per un attimo, come in meditazione, e ronzano via fuggendo. Quindi il Phymatodes rosso, di feltro porporino che, prima d’ora, avevo incontrato solo una volta, nel 1915, a Saint-Léger, in Francia. Poi i buprestidi, rappresentati al meglio dalla Chrysobothris. Di color bronzeo, e con incisioni dorate, spiega le sue ali, sotto le quali appare un secondo paio, come una serica sottoveste di un verde luminoso. E molti altri ancora.

Kirchhorst, 4 giugno 1939 Nell’orto vi è grande siccità, perciò dopo il tramonto ci siamo incamminati imbracciando secchi e brocche. Dopo una simile campagna di irrigazione vanno in fumo le due ore 43

lavorative della sera in cui riordino carte e scrivo lettere, ma non è certo tempo male impiegato. In autunno provvederò a sotterrare della torba con del fogliame, affinché il suolo trattenga meglio l’umidità. La mattina, in chiesa, dove il nuovo pastore venuto da Isernhagen ha tenuto il suo sermone. Nel pomeriggio, sulla strada per Fillekuhle, Friedrich Georg ha tenuto per me una seconda conferenza sulle Illusioni della tecnica. La sera ho letto tre sue poesie in bozza spedite da Herbert Steiner da Zurigo. Tra esse una in particolare, quella intitolata La madre, mi è piaciuta moltissimo per la sua forza. Lui mi dice che versi come questi, in cui gli elementi si muovono, oggi non gli riescono più, perché il suo linguaggio si è rivolto con maggior vigore alla rappresentazione di ciò che è immobile. Discusso poi del quadro dell’incantesimo amoroso, di Rimbaud e di Rodin, dell’Eretteo sull’Acropoli. La vicinanza di Friedrich Georg è dai giorni dell’infanzia una grande consolazione per me.

Kirchhorst, 5 giugno 1939 Nella calura ardente, sarchiato patate, affinché la malerba appassisca più rapidamente. Eppure trovo queste giornate molto meno estenuanti di quelle afose sul lago di Costanza, che in piena estate si vede quasi sempre ardere come fosse sotto una campana di vetro. Direi addirittura che questo tipo di caldo sia stimolante. Chateaubriand. Luigi XVIII scrive a Decazes, a proposito dei suoi libri, che li legge «un peu en diagonale». Villèle ha di Chateaubriand questa opinione: 44

«Non sono geloso di lui, egli ha evidentemente più spirito di me. Io però ho una capacità di giudizio maggiore della sua, e non è lo spirito ad ammaestrare la facoltà di giudizio, semmai il contrario». Osservazione che, tra l’altro, di per sé presuppone dello spirito. Stasera ho servito una bibita di fiori d’acacia, di cui Friedrich Georg ha manifestamente apprezzato l’aroma orientale. Ghiacciata sarebbe forse anche migliore.

Kirchhorst, 10 giugno 1939 Nella grande calura abbiamo spuntato l’erba alta del prato di fronte ai susini e ai meli cotogni, ai quali toglieva luce e aria. Fu il vicino di casa Colshorn, che ora sta per morire, a consigliarmelo. Abbiamo parlato di quanto profondo sia il legame tra il suo destino e quello dell’albero. Poi del mandarino in Diderot, descritto appunto in una circostanza simile. Credo che si tratti in sostanza di questo: il modo in cui a Parigi si commette un parricidio è correlato secondo una precisa armonia al fatto che, in Cina, il suddetto mandarino si alzi dal letto con il piede destro o con il sinistro. È un pensiero questo che, nella sua meccanica spirituale, suona assai settecentesco, tuttavia è anche molto istruttivo riguardo alla recondita magia che si cela nei ghirigori. Profumo delizioso del legno di salice scortecciato e della sua corteccia, che nella calura esala un aroma frizzante di fresca polpa di cetriolo.

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Kirchhorst, 11 giugno 1939 Ancora alla quercia di Großhorst. Sui campi roventi, conversazione su come la creazione sembri ritoccata dal darwinismo con la punta di un pennino. Friedrich Georg: «Gli animali assomigliano a fiori riprodotti su una lamiera di zinco». L’eccellenza con cui Schopenhauer, nei suoi trattati di anatomia comparata, ha in un certo qual modo confutato ogni tentativo simile prima ancora che venisse formulato, almeno per chi abbia la testa per intenderlo, resterà sempre una pagina gloriosa per noi. Rientra tuttavia nella meccanica dello spirito che simili dottrine debbano essere sviluppate in tutta la loro portata, e in tal modo danno anche frutti perché, almeno entro i loro limiti, restano vere. Certo nei ranghi più bassi ed empirici, la verità è più faticosa, connessa a un movimento maggiore. E anche in questo caso si potrebbe citare il motto secondo cui chi non ha testa deve avere gambe. Per il caffè ci ha fatto visita un professore finlandese con moglie e figlio, e ci ha portato da Oslo i saluti del Magister. Crede che la Polonia andrà in pezzi in autunno, il che mi pare dubbio. In quest’ospite mi è apparsa evidente la condizione dello scienziato solitario, una figura oltremodo minacciata. Si è resa simile a quella del lavoratore che sta dietro a una macchina. L’uomo si è ritratto dall’opera, che è divenuta autonoma, e si è fatto sempre più sostituibile e superfluo. Si può rimpiazzarlo come il pezzo di una macchina, e i risultati a cui approda, persino le sue conoscenze, si generano al di fuori di lui e valgono da strumenti del processo più di quanto non ve lo coinvolgano. L’imprescindibilità dell’uomo svanisce con la sua originalità 46

e insieme con il rispetto che si può avere di lui. D’altra parte, la sicurezza di un uomo come Paul Gerhardt nel pieno delle persecuzioni è ancora smisuratamente grande.

Kirchhorst, 15 giugno 1939 Finito, di Spengler, Zur Weltgeschichte des Zweiten vorchristlichen Jahrtausends («Sulla storia mondiale del secondo millennio precristiano»), uno degli ultimi scritti, in cui tira le fila in maniera piuttosto grossolana. Tuttavia, pur con i suoi errori, questo autore è più significativo di quanto non lo siano i suoi avversari con le loro verità. Il segreto del suo linguaggio sta nel fatto che ha cuore, e ha retto a grandi catastrofi. La sua prosa tende al limite.

Kirchhorst, 18 giugno 1939 Sabato e domenica, visita di Edmond e Arnolt Bronnen, trascorsa piacevolmente. Edmond aveva portato con sé il figlio, che assomiglia molto alla madre scomparsa. Lo stesso sguardo morbido, notturno, delle civette, e la palpebra greve, orlata di bianco. Ma per azzardare simili osservazioni si deve diventare più vecchi – si devono vedere le generazioni. Tra la posta, una lettera di Storch, che in Brasile sta dodici ore di fronte a un forno rovente in compagnia di un negro a essiccare banane, e la notte riempie i suoi diari. Dice di meravigliarsi della propria capacità lavorativa. Davvero vi sono in noi riserve di natura sconosciuta. Ed è vero il detto 47

secondo cui, insieme con un compito, Dio ci assegna anche la forza per assolverlo. Lo stesso vale per il bisogno.

Kirchhorst, 21 giugno 1939 Scogliere di marmo. Il lavoro procede lentamente, perché mi do pena di impunturare alla perfezione il testo e ogni sua frase, sebbene, forse, l’impressione sarebbe la stessa se trattassi certi passaggi in modo più fuggevole. Me ne manca, purtroppo, la nonchalance. La fuggevolezza mi costa anzi doppia fatica, perché ritorno su passi già perfetti per imprimervela. Ciò contraddice le regole dell’economia. Allora mi torna in mente la piccola statuetta che vidi in un monastero di Bahia: il fondo era dorato ed era dipinta solo sulla doratura, invece del contrario. Nell’opera vi è un tutto che non risulta dalla somma delle frasi. Il tutto assomiglia a un binario che, come in volo, conduce il lettore al di sopra di tutte le irregolarità e le imperfezioni del progetto. E suscita in lui l’entusiasmo della lettura, un dono prezioso.

Kirchhorst, 25 giugno 1939 Per il caffè, il dottor Ostern, tornato da Rodi. Abbiamo parlato del lungomare di Trianda e della valle di Rodino, ancora vivida nei miei ricordi in tutta la sua freschezza. Egli ritiene che proprio in quel punto sorgesse la scuola di retorica. Poi di Creta, dove vorrei passare la prossima estate, e anche lui me l’ha consigliata. 48

Tra la posta, i diari di Gide, dal 1889 al 1939, un dono di Hercule.

Kirchhorst, 3 luglio 1939 L’orto comincia davvero a dare buoni frutti. E le aiuole sono già pronte per la seconda semina. In sogno, al di sopra di un paesaggio morto, ho visto una squadriglia di aerei da combattimento uno dei quali, al terzo sparo della contraerea, è precipitato in fiamme. Lo spettacolo si è svolto al centro di un mondo totalmente meccanizzato; lo osservavo con una soddisfazione maligna. L’impressione era più significativa, più penetrante che durante la Guerra mondiale, perché la razionalità del processo era maggiore. Niente di episodico – gli aerei si muovevano come componenti elettrizzate al di sopra di un mondo ugualmente in tensione. Il colpo messo a segno ha catalizzato il contatto mortale. Poi vasti campi, su cui procedevano falciatrici meccaniche; non c’era traccia di assistenza umana. Solo su un campo di stoppie qualcuno conduceva un grosso erpice. Era attaccato a schiavi dalla pelle ocra, guidati da un gigantesco sorvegliante. Li frustava fino a farli gridare e cadere, poi continuava a frustarli finché smettevano di gridare. La scena conteneva un controsenso, uno sciocco ricorso alla violenza e una sciocca sofferenza, che mi portava alla disperazione. Durante il giorno, mentre ero in giardino, mi è tornata in mente la scena del sogno. Ma allora ci ho visto un’ammonizione; mi sono reso conto della responsabilità 49

che una simile visione porta con sé.

Kirchhorst, 4 luglio 1939 Nel pomeriggio si è trattenuto un po’ con noi il dottor Gerstberger, arrivato da Fischerhude, dove abita dalla signora Rilke. Ho sentito dire da alcuni intenditori che, nella musica, è una delle nostre forze più straordinarie. Sebbene io non abbia un’opinione in merito, la cosa mi appare evidente. Dall’esterno si può riconoscere molto chiaramente se un uomo eccella nel suo campo – ammesso che si colga quel lato di lui che non emerge. Nel baricentro calcoliamo anche il peso nascosto. Parlato di Wagner, Verdi, Bizet. In giardino, alte sulle staccionate, sono sbocciate le veccie, da semi sparsi dal vento. Colori magnifici – un tenero rosa salmone, il giallo crema, il violetto: come deposti col pennello su un fondo umido.

Kirchhorst, 7 luglio 1939 Finito, di Léon Bloy, La Femme pauvre. Il più grande scoglio di ogni romanzo sta nella tentazione di infilare riflessioni nella trama, e sono proprio i più acuti a soccombervi con maggior sicurezza. Anche qui vi è disseminato materiale sufficiente per un volume di saggi. Bloy è un cristallo geminato di diamante e sterco. La sua parola più frequente: «ordure». Il suo eroe, Marchenoir, dice di sé che entrerà in paradiso con una corona intrecciata nella merda umana. La signora Chapuis è buona solo come 50

strofinaccio per l’obitorio di un lebbrosario. In un parco parigino da lui descritto regna un tale tanfo che un derviscio dalle gambe a sciabola, divenuto scotennatore di cammelli appestati, ne impazzirebbe. La signora Poulot porta sotto la camicetta nera un bustino che assomiglia a un pezzo di carne di vitello rivoltolato nella sporcizia e lasciato in giro da una muta di cani dopo averlo scompisciato per un poco. E così via, all’infinito. Intanto, tra un passaggio e l’altro, si trovano anche sentenze perfette ed esatte, come questa: «La Fête de l’homme, c’est de voir mourir ce qui ne paraît pas mortel». A pagina 169 l’esempio di un’immagine che si dovrebbe evitare: «La ligne impérieuse du nez aquilin, dont les ailes battaient continuellement».

Kirchhorst, 9 luglio 1939 Scogliere di marmo. Curioso come, nel corso del lavoro, ne perdo di vista l’insieme. Così, nel ricamo, solo il punto dove si infila l’ago è osservato alla luce; il resto del tessuto resta nell’ombra. La «confezione» delle frasi, le cui parti mi sono, di regola, immediatamente familiari. Eppure faccio fatica a impacchettarle, a prenderle e riporle, per così dire, in una scatola – con la massima economia concepibile. Nella frase ideale ogni parola dovrebbe avere la porzione di gravità e di accento che le spetta.

Kirchhorst, 17 luglio 1939 51

Dal 13 al 15 luglio è stato qui in visita Nigrinus, che ora studia etnologia ad Amburgo. Abbiamo fatto un giro in macchina nelle calde pinete attorno a Kolshorn e là abbiamo parlato di maschere, armi, pesca, delle isole nei mari del Sud e della vita all’età della pietra, che occupa un posto di tutto rispetto tra i paradisi perduti. Se la si guarda nella prospettiva dell’accresciuto movimento, la modernità incomincia già con i metalli. Qui corre anche il discrimine che separa la fiaba dal mito. Mi ha fatto piacere sapere che egli si occupa di queste cose, ma ha espresso la sua smania per una prossima guerra. Di lui mi ha colpito la trasformazione fisiognomica. Quando ci sfiora il fuoco vitale, si imprimono in noi segni che sembrano ustioni – specie sulle guance, dove i bambini hanno la fossetta, si formano tracce come lasciate da una fiammata di polvere da sparo. Gli occhi, dapprima simili a lucidi specchi, acquistano allora acutezza, ma vi è rimasto anche lo sguardo degli animali costretti a saltare nel cerchio di fuoco. L’uomo ne esce spesso ferito, bruciato, come ho notato nella principessa. Il 15 luglio è poi arrivato Carl Schmitt, i due però si sono visti appena. Di C.S. mi ha sempre colpito la coscienziosità e il buon ordine dei pensieri, che genera l’impressione di una potenza presente. Quando beve diventa anche più vigile, siede immobile, con un’ombra di rossore sul viso, come un idolo. Tra molte altre cose, parlammo anche dell’imperatore Andronico, al quale io ero arrivato attraverso Bloy. Dopo che ebbe regnato molti anni come un tiranno, finì per cadere, e fu dato in pasto alla plebe di Bisanzio, che lo torturò fino alla morte per lunghi giorni durante i quali egli 52

cercò tuttavia di tenersi angosciosamente attaccato alla vita e alla coscienza, come si protegge un lume da una folata di vento troppo forte. Gli oppressi regolarono i conti con lo spodestato come uno sciame di insetti. Le sue ultime parole: «Mio Dio, perché ammetti che si calpesti ancora con tanto accanimento uno stelo già reciso?» Poi lo si vide portare la mano alla bocca, certo per detergere il sangue che vi scorreva da una ferita. Amabile in Carl Schmitt è il fatto che, sebbene abbia compiuto cinquant’anni, sia ancora capace di stupirsi. Per la maggior parte gli uomini sono disposti ad accogliere nella propria vita un fatto nuovo solo nella misura in cui esso rientri nel loro sistema o addirittura nei loro interessi. Ciò che manca è il gusto per i fenomeni in sé e per la loro varietà – l’Eros con cui lo spirito accoglie la nuova impressione come un seme.

Kirchhorst, 18 luglio 1939 Durante l’epidemia di colera ad Amburgo, la parola «amburghese» fu impiegata in Germania come un insulto. All’epoca mio padre udì a Hannover due ragazzi di strada urlare alle spalle di un viaggiatore: «Quello è un amburghese!» La cosa gli fece una grossa impressione. La strana insoddisfazione nel ricordo di certe esperienze. Si vorrebbe goderne ancora una volta; è come se la prima volta ci si fosse scordati della cosa più importante. Sarà forse il segno dell’esistenza di un’esperienza assoluta, che nella dimensione empirica non può essere gustata fino in fondo. L’idea che, nel paesaggio della vita, si aprano bocche di 53

caverne invisibili alla luce del sole. Penetriamo in esse nel crepuscolo, e poi ce ne andiamo dimenticati dal mondo, come il monaco di Heisterbach. Tali sono l’Inferno,2 la follia, la magia, la morte. Spaventoso vedere coloro che ci sono più vicini sparire così dentro l’invisibile. La voce umana, quando suscita l’eco, ha un suono peculiare, affine solo a questo genere di rapporto.

Kirchhorst, 19 luglio 1939 Dopo il bagno, conversato oziosamente sulla costellazione dominante di quest’anno. Gli uomini vivono come animali immersi nell’acqua torbida e ignorano la propria posizione. Un occhio di maggiore perspicacia saprebbe invece coglierli in bell’ordine, come bandierine su di un campo. Forse tale conoscenza lacunosa delle cose è essenziale per il meccanismo della storia, perché essa è accompagnata da una cecità di fronte al pericolo e quindi da una sorta di coraggio fatale. D’altra parte vi sono segni la cui forza può d’un colpo rendere visibile la situazione. Si incendiano come razzi nel buio della campagna. Il bagno: un bacino d’acqua in una vecchia cava di argilla che si trova sulla strada per Lohne. Lo specchio circolare è invaso quasi fino al centro dalle foglie brune della mestolaccia; i tafani vi disegnano figure in superficie. L’acqua è profonda e tranquilla, e dalla cava affiorano bolle di melma e fanghiglia fresca. Sulle rive il bestiame al pascolo ha impresso orme profonde, mentre libellule e sposette prendono il sole nel canneto – ramate di rosso, azzurro cenere, di nero e di verde, oppure pallide, con la striscia 54

scura delle ali, i corpi come intagliati nelle canne sottili e lucenti del bambù. Le rondini arrivano in volo dai cortili e si bagnano il petto tuffandosi nella caccia alle effimere. Un piccolo sboffo, incorniciato dalle canne e dagli alti giunchi come da ciglia, non privo di pesci però, sul fondale, e visitato dalla cicogna di Neuwarmbüchen, che infilza col becco le rane. Anche qui regna Nettuno, al comando dei suoi servitori: le ninfe e tutti gli spiriti che abitano le sorgenti. Di qui anche il perfetto ristoro che l’elemento concede.

Kirchhorst, 23 luglio 1939 Con Friedrich Georg, che ieri ha finito il suo lavoro sulla tecnica, allo zoo, dov’era squallidamente domenica. La vista delle masse è opprimente, ma non si deve dimenticare che le vediamo con l’occhio freddo delle statistiche. Il singolo è sempre più significativo di quanto non appaia in simili contesti. Spesso assomiglia a un seme che con la siccità si è prosciugato e immiserito eppure, nel profondo del suo intimo, dorme il verde germoglio. Soprattutto però conviene preoccuparsi di generare per prima cosa in sé stessi l’uomo. Tra gli animali, il guardiano dei coccodrilli, un uccello della grandezza di uno storno, rapido nei movimenti e variopinto in un piacevole gioco di grigi e di rosa. Se tutti gli animali della terra, come spesso mi capita di temere nei miei momenti cupi, dovessero essere sterminati, ne sopravvivrebbe l’invulnerabilità. Riposano nella mente del Creatore, e solo la loro parvenza potrebbe estinguersi. Ogni distruzione non toglie all’immagine che la sua ombra. 55

Kirchhorst, 28 luglio 1939 Nel tardo pomeriggio ho concluso la stesura delle Scogliere di marmo. Mi pare che sia venuto pressappoco come pensavo – a eccezione dei passi in cui lo spirito si è teso troppo, sicché il linguaggio ha finito per comprimersi e cristallizzarsi; allora assomiglia a un fiume che trascina zolle di terra. Dovrebbe sfociare in una prosa scevra di oscillazioni e contorcimenti, di grande solidità. Le frasi dovrebbero entrare nella coscienza come i combattenti nell’arena. Ma questo non dipende dalla volontà.

Kirchhorst, 9 agosto 1939 Bogo è stato in visita qui per qualche giorno, sempre con quella sua vecchia sicurezza di spirito che spesso mi fa pensare alla mania. Ciò che fa specie in lui è il connubio tra l’intelletto sempre acuto e vigile e la persona stravagante, sotto certi aspetti al limite dello scurrile. In tal senso egli ha tratti hoffmanniani, per altri versi ricorda certi kantiani di talento quali si incontravano centinaia di anni fa. In quanto slesiano, è abitante di una delle province che conosco di meno, d’altra parte è abitato da un che di assolutamente straniero, tamerlanico, come appare evidente anche nella sua fisionomia. Di qui anche il suo pensiero, che spazia grandemente, e i tratti di astratta crudeltà. Oltre a tutto questo possiede una certa affabilità e ricordo serate piacevoli trascorse con lui bevendo del punch. Una volta, facendogli visita nel suo appartamento berlinese, lo trovai nella sua biblioteca, sprofondato in una grande mappa del 56

Reich da lui stesso disegnata. Sul davanzale della finestra aveva sparso del becchime per gli uccelli; di là, pregevoli collane di semi si stendevano lungo gli scaffali della libreria e attiravano i fringuelli e le cinciallegre fino all’interno della stanza, sicché egli sedeva come dentro una voliera. Due caratteristiche sono oltremodo apprezzabili in lui – anzitutto il senso infallibile per le gerarchie spirituali e poi la predisposizione teologica. Intanto sto proseguendo la trascrizione in bella copia delle Scogliere di marmo. Raddrizzare le frasi, come se le si dovesse fissare a un binario. Ho deciso proprio oggi di eccepire in certi casi alla regola secondo cui, con una pluralità di soggetti, anche il verbo va messo al plurale. Ciò si rende superfluo laddove i soggetti possono essere considerati come un unico concetto ed essere messi per così dire tra parentesi. (Pane e sale) le guance fa arrossare. È una di quelle controversie di confine tra il contenuto logico e quello grammaticale della lingua, e ce n’è tutta una serie. In maniera simile ci si comporta con una pluralità di soggetti la cui enumerazione intende produrre l’effetto retorico di un crescendo. «È inteso qui l’uomo, il marito, il padre!» In questo caso il carattere del soggetto scorre su di una serie di nomi e finisce per consegnare all’ultimo lo scettro che regge la frase. Si può anche pensare alle palle da biliardo, in cui la forza del colpo si trasmette dall’una all’altra. E non vi è dubbio che una delle radici della grammatica risalga alla meccanica.

Kirchhorst, 10 agosto 1939

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A Lohne a cercar funghi, ma non abbiamo trovato che qualche gallinaccio sui prati e un solo boleto castano nella pineta. Discusso alla vista di una colomba morta – della colomba che vive in ciascuna colomba, e che nessun falco potrà mai dilaniare. Poi dell’idea platonica, questa sorgente, inestinguibile da millenni, dei dialoghi e delle distinzioni. L’autunno comincia ad annunciarsi, molto lievemente, e io allora torno all’abitudine deliziosa di trascorrere talvolta, la mattina, una mezz’ora a letto, a leggere. Oggi era De dea Syria, un saggio di Luciano la cui autenticità viene – certamente con ragione – messa in dubbio. Perfino a quei tempi sussisteva ancora molto dei regni incantati, multicolori e spaventosi di Erodoto. Così, da romano illuminato e già a conoscenza dei cristiani, era possibile scorgere al tempo stesso anche i due enormi falli nel vestibolo del tempio dove si trovava il membro di bronzo di Combabo. Due volte l’anno, per un rituale mantico, un uomo si arrampicava su uno di questi due falli come si potrebbe salire su una palma, e restava sette giorni sulla cima, in una specie di nido di cicogna. Ma l’autore non fa parola del vero contesto in cui ciò avveniva: non è da Luciano, sarebbe invece da Erodoto.

Kirchhorst, 12 agosto 1939 Stamattina ho finito di trascrivere in bella copia le Scogliere di marmo e ho riposto la stesura originale, con tanto di data, nell’archivio. Nel pomeriggio, al piccolo caffè di Burgdorf, dove a volte sediamo, ne ho discusso i personaggi con Friedrich Georg, che ne è il primo lettore. 58

Stanno già sviluppando tratti cui io, mentre scrivevo, non avevo pensato e che mi appaiono tuttavia assai evidenti. Così le immagini si separano dall’autore, per continuare a crescere in luoghi che egli non conosce. Ma perché ciò accada, dev’esserci nel linguaggio un che di non plasmato, del materiale grezzo, altrimenti, al contrario, esse rischiano di appassire presto. Hanno bisogno di terra. Abbiamo anche sfiorato nel discorso gli auspici politici, e in proposito Friedrich Georg pensava: «Te lo vietano nei primi quindici giorni o mai più».

Kirchhorst, 16 agosto 1939 Il sogno della sedia a rotelle, sgradevole come quasi tutti i sogni che hanno a che vedere con la tecnica. Vi rientrano anche le scale cui manca il corrimano, o che si interrompono e, al di sotto dei loro brandelli, lasciano intravedere il baratro. Il mondo come architettura scompigliata. Il disordine del mondo in certe giornate appare quasi soverchio, tanto che si dispera di arginarlo. Allora riordino la scrivania, la biancheria, gli attrezzi del giardino, ma in fondo lo faccio controvoglia. Di questo stato d’animo fa parte anche l’intuizione che tutto quanto intraprendiamo e accumuliamo andrà distrutto. La cosa migliore, in giornate simili, sarebbe mettersi a letto e, soprattutto, non incominciare niente di nuovo. Con la posta, un romanzo portoghese di Guedes de Amorim, Aldeia das Águias, con una dedica dell’autore che non riesco a decifrare.

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Kirchhorst, 19 agosto 1939 Due giorni ad Amburgo. Anche se ci si reca nelle grandi città a brevi intervalli, ogni volta balza all’occhio la crescita del loro carattere automatico. Curioso è però come, al tempo stesso, in eguale misura dilaghi anche il tratto letargico, di assenza, di oblio. Lo si legge sul volto dei singoli, nella maniera in cui circolano le masse, nel modo in cui il guidatore siede al volante nelle automobili. Si direbbe che quel tanto di coscienza trasmessa alle forme si ritragga e vada perduta negli esseri. Senza dubbio la tecnica ha momenti paralizzanti – per esempio nella pura geometria delle forme: quadrati, cerchi, ovali e linee rette che nelle autostrade si dovettero evitare, perché gli autisti non si addormentassero. Lo stesso vale per i suoi ritmi: per il loro tactus rapido, rallentato o melodico, per le loro variazioni di velocità di proporzioni mutevoli, la loro cadenza fluente e soprattutto per la ninnananna insistente della loro monotonia. Ciò fa effetto soprattutto laddove ci si rivolga alla pura intuizione – nella propaganda per esempio, che col netto contrasto di bianco e nero delle sue forme, e con la sua monotona ripetitività, si rivela una variante della tecnica. Gli spettatori che si riversano fuori dalle sale del cinema sembrano una massa di dormienti appena risvegliati, ed entrando in un locale pervaso dalla musica meccanica si è facilmente presi dalla sensazione di aggirarsi in una fumeria d’oppio. La condizione della completa automatizzazione è descritta al meglio nel racconto Una discesa nel Maelstrom di E.A. Poe, che assai presto e a ragione i Goncourt già designavano nei loro diari il maggiore autore del XX secolo. 60

Ben distinto è, in quelle pagine, il comportamento dei due fratelli, l’uno dei quali, accecato dalla vista spaventosa del meccanismo, si muove per riflessi condizionati, mentre l’altro agisce in piena coscienza e sentimento – e sopravvive. Emblematica, in questa figura, anche la responsabilità che si incomincia ad assegnare a élite sempre più ristrette.

Kirchhorst, 26 agosto 1939 Alle nove del mattino, mentre me ne stavo a letto piacevolmente sprofondato nello studio di Erodoto, Louise è arrivata su con l’ordine di mobilitazione totale, che mi richiama a Celle per il 30 agosto e che da parte mia ho ricevuto senza troppa sorpresa, visto che l’immagine della guerra andava profilandosi di mese in mese e di settimana in settimana sempre più nitidamente. Pomeriggio a Hannover, dove avevo ancora qualcosa da sbrigare e organizzare, per esempio acquistare della canfora per le mie collezioni.

Kirchhorst, 28 agosto 1939 La mobilitazione prosegue in tutti i Länder. Ci sarebbe ancora tempo per il deus ex machina. Ma che cosa potrebbe recare? Al massimo una proroga. La materia del contendere si è tuttavia accumulata a tal punto che solo il fuoco potrebbe liquidarla.

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Celle, 30 agosto 1939 Partenza. Di sopra mi sono guardato allo specchio, nella mia uniforme di sottotenente, non senza ironia. Intanto in Europa oggi sta andando allo stesso modo a molti uomini che mai più avrebbero pensato di dover riprendere servizio. Per quanto mi riguarda, imputerei la cosa all’influsso del segno del cancro nel mio oroscopo, che non di rado mi rimanda indietro a situazioni già vissute, spesso con successo. Mentre scendevo le scale, all’ingresso hanno consegnato un telegramma che recava la firma di von Brauchitsch e mi comunicava la mia promozione a capitano. L’ho preso come un segno del fatto che Ares, nel frattempo, non mi è divenuto ostile. Davanti casa ho fermato una delle auto dirette a Celle; era di due commercianti amburghesi che, interrotti gli affari, erano di ritorno da Parigi. Notifica al comandante del battaglione di riserva nella gigantesca caserma nella brughiera verso cui affluiscono le masse dei chiamati alle armi. A tavola ho fatto conoscenza con gli ufficiali, per lo più decorati durante la Guerra mondiale, tra cui giuristi della corte d’appello. In città, a comprare accessori d’equipaggiamento. Al momento, trasferito nel Sandkrug.

Celle, 31 agosto 1939 Altri acquisti. Ci si deve abituare all’uniforme. Durante la notte, nel dormiveglia, ho udito voci dalla radio, e ho creduto di ricavarne la notizia di un accordo raggiunto con 62

la Polonia. Poi mi sono addormentato pensando a come avrei voluto trascorrere l’autunno a Kirchhorst.

Celle, 1º settembre 1939 Stamattina, a colazione, il cameriere mi ha chiesto, con un’espressione eloquente sul volto, se avessi sentito le notizie di oggi. Si diceva che le nostre truppe sarebbero entrate in Polonia. Nel corso della giornata, nell’andirivieni delle faccende da sbrigare, ho poi appreso ulteriori novità, che confermavano anche nei particolari lo scoppio della guerra contro la Francia e l’Inghilterra. La sera, annunci stringati, disposizioni, oscuramento della città. Alle dieci sono andato al ponte del castello, per un appuntamento. L’antica città di brughiera era al buio, e le persone vi si aggiravano come creature incantate nella luce ridotta al minimo. Il castello, circonfuso da un fioco splendore azzurro, si levava come il vecchio palazzo di una fiaba. Simili a ballerini senza peso gli uomini scivolavano in bicicletta nell’oscurità. E ogni tanto si udiva il tonfo di una grossa carpa nel fossato che cingeva il parco del castello. Come questi pesci, anche noi siamo presi dalla smania di affrettarci in un altro elemento, sconosciuto e più leggero. Passai davanti a una panchina su cui sedevano due vecchie signore; una delle due disse: «Devi pensare che c’è anche una volontà in tutto questo». Poi al caffè. Si incede tra luci, musica e tintinnii di bicchieri come in una festa segreta, o nella penombra di una grotta. E anche qui voci dalla radio, che annunciano bombardamenti e recano minacce. 63

Celle, 2 settembre 1939 Il bel sentiero che attraversa il giardino francese fino alla base di servizio e passa accanto alla statua della regina Carolina Matilde e alle arnie con le api e i bachi da seta. La distesa verde dei prati nella prima frescura dell’autunno; a tratti li sorvolano le gazze. E gli stagni, il cui specchio trema in molti punti per il guizzo lieve della coda dei pesci, con cigni e anatre colorate sulle rive. È il momento in cui, compiuta ormai la vera e propria crescita, le piante assumono un atteggiamento come di meditazione, e resta loro soltanto il dovere di maturare. Ciò affiora soprattutto sui contorni – nella magnificenza tranquilla, la sicurezza, spesso l’impronta metallica delle forme viventi. Nei frutti regna la forma plastica, come nei fiori regnavano il colore e il profumo, ed è un dominio che impone la sua figura all’intera pianta. Così è bellissimo come la foglia comincia a gonfiarsi alla radice prima di staccarsi dal ramo, specie sui platani e sui castagni.

Blankenburg, 6 settembre 1939 Per una breve licenza a Blankenburg, dove devo partecipare a un corso. Ogni guerra inizia con dei cicli di lezioni. A Kirchhorst, dove sono giunto tardi, ho trovato la piccola comunità domestica raccolta nella sua tana di luce. I frutti dell’orto stanno maturando bene. Anche la vite prospera in modo affatto sorprendente per quest’angolo nordico e paludoso, certo per merito di un muro di mattoni che conserva ogni raggio del sole come un’imbottitura. 64

L’atmosfera della licenza ha un che di Paradise lost, perché le relazioni in cui viviamo quotidianamente ci vengono ora concesse come un’eccezione. Dopo un’assenza più lunga la figura di colui che torna acquista un che di spettrale, qualcosa del revenant. La vita tende a crescere occupando gli spazi vuoti. Ciò fornisce, dai tempi di Agamennone, materiale alle tragedie, e ne avvertiamo un alito già rivedendo un giardino che avevamo abbandonato. Adesso fiori e frutti sbocciano e maturano senza di noi.

Blankenburg, 10 settembre 1939 Domenica, dedicata quasi completamente alla correzione delle bozze delle Scogliere di marmo. Dalla fatica necessaria per trovare l’espressione più azzeccata già si vede come Ares sia nemico alle Muse. Ma non serve comunque a niente impuntarsi in uno sforzo di volontà – per la volontà i pesi da tarare nella prosa sono troppo leggeri, troppo imponderabili. Strano però come io abbia terminato questo lavoro giusto in tempo «per l’appuntamento». Ci sono forse istanze che provvedono affinché, per i piatti che il tempo si appresta a cucinare, ciascuno sia pronto al suo posto col suo ingrediente. Accorgermene è per me il più delle volte penoso, sgradevole quanto vedere i fili cui sono appese le marionette. La potenza della libertà è tanto forte che ne basta il sogno. Tra la libertà e il destino vi è lo stesso rapporto che tra la forza centrifuga e la forza di gravità – come l’orbita dei 65

pianeti è definita dal gioco reciproco tra due forze contrapposte, così anche il comportamento propriamente umano, vale a dire il comportamento onesto, si riconduce a una analoga reciprocità.

Blankenburg, 12 settembre 1939 L’autunno avanza lentamente. Ho scoperto che Blankenburg è una perla tra le cittadine dello Harz, e mi sembra da molti punti di vista assai più accogliente di Goslar, più rustica e inquieta. L’aria è più mite, il suolo più tiepido, come si vede già dalla vegetazione. Gruppi di castagni occupano le superfici erbose che, a strisce e ad anelli, rinverdiscono la contrada allungandosi fino ai piedi del promontorio. Su aiuole lunghe e circolari cresce in ordine sparso la canna indiana dai fiori rosso fuoco, o fiammeggianti di giallo e porpora sul fusto di un verde rigoglioso. In questo fiore il rigoglio si sposa al rigore della forma, che pare sbalzata nel metallo. Perciò si addice ai parchi, dove si abbinano gusto e abbondanza. È anche un vanto delle colture tropicali, dei giardini di Paolo e Virginia.

Blankenburg, 17 settembre 1939 Seconda domenica a Blankenburg, una giornata di pioggia. Alle sei in punto mi sveglia l’argentino scampanio; allora, di solito, siedo ancora una mezz’ora al piccolo secrétaire della mia camera d’albergo. Il servizio giornaliero nel promontorio, al poligono di tiro 66

e al maneggio, ha di buono che scaccia i piccoli acciacchi – come una congiuntivite che ho preso immergendomi per la pesca nell’acqua salata del mare e che negli ultimi due anni mi ha spesso dato noia. Si può paragonare la malattia a un bollore nefasto che resta sopito nelle acque dei nostri fondali. È bene allora prosciugare la fonte di tanto in tanto – e ciò può verificarsi grazie al contatto con gli elementi, come pure grazie a uno sforzo. Il forno di Eraclito.3 Celsus, che non credeva per niente nelle operazioni, mi ha talvolta espresso il suo stupore di fronte al fatto che certi pazienti, dopo interventi del genere, effettivamente guarivano, e riconduceva l’effetto al cambiamento d’umore provocato dal taglio. Quando approdiamo in una nuova città, in un primo momento le belle ragazze e le donne fluttuano davanti a noi come apparizioni da sogno. E com’è che poi i nostri sensi si orientano su una sola di loro, magari nemmeno la più bella? Sarà forse per uno sguardo particolare, un sorriso, che balza all’occhio come una scintilla, e allora siamo stregati.

Blankenburg, 20 settembre 1939 Triste serata di pioggia, ardono solo le sigarette nel buio della strada. Oggi pomeriggio, mentre andavo al poligono, una vecchia è crollata di fronte a me; è caduta mentre camminava, come colpita in volto da uno sparo. L’ho portata nel giardino di un’osteria, dove si è subito ripresa. Così i nuotatori si immergono in acqua per un attimo con il mare mosso.

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Blankenburg, 21 settembre 1939 Ho sognato di essere condannato a morte. La condizione assolutamente disperata, in sogni simili, sovrasta di gran lunga la realtà della vita – l’archetipo che ne è alla base è quello dell’uomo che ha perduto la salvezza. Ugualmente significativi sono i sogni di esami. La vita si trasforma in una prova, e noi non riusciremo a superarla. Che sensazione di gioia, allora, quando ci si sveglia. Dev’essere un’anticipazione della Luce perpetua.

Blankenburg, 25 settembre 1939 Visita di una lettrice sconosciuta. Le conversazioni con persone che da tempo si occupano del mio lavoro si muovono per così dire dentro stanze che io ho arredato con arazzi e dipinti. Osservazioni davvero acute mentre parliamo – per esempio riguardo alla responsabilità che circonda tutti i nostri passi come una rete, la quale tuttavia perde forza grazie alla désinvolture. O si finirebbe in effetti per inciampare in un filo di paglia. Si è parlato anche della tavola di questa vita, imbandita di piatti godibili – o addirittura visibili – solo in numero esiguo per i più. Così per esempio esistono certe specie di trifoglio dal calice profondo di cui solo le api di un determinato genere arrivano a succhiare il nettare. In generale mi sembra che le donne stiano guadagnando in intelligenza e, più ancora, che si stia trasformando il loro atteggiamento verso lo status dell’intelligenza maschile. Il fenomeno rientra senza dubbio nell’evoluzione dei caratteri 68

lavorativi e si direbbe, in generale, preoccupante. Ma è piacevole constatarlo nei casi singoli. In fondo è un processo di decomposizione quello che vi si compie; gli atomi si consumano mutandosi in movimento.

Blankenburg, 26 settembre 1939 La somma totale del lavoro è distesa sulla campagna come una coltre. Mentre oggi guidavo lungo lo Harz, diretto al comando generale, ho visto una donna slanciata, con indosso pantaloni azzurri e in testa un fazzoletto rosso, dritta su un campo di rape accanto ai silos. Ha fatto un cenno, alzando la mano, e il suo gesto mi ha dato l’impressione di trovarmi negli abissi marini, sotto una pressione spaventosa, e di vedere da lontano un camerata che mi indicava la via per risalire verso la luce. Così, nel concerto spesso demoniaco delle tempeste, si ode il richiamo della patria, e non si fallirà obbedendogli. Ancora una volta mi rendo conto di quanto magico sia il massiccio dello Harz. Anche la linea delle colline che lo cingono ha un che di misterioso. Nell’entroterra riposano antichi santuari e altari, racchiusi dalla cinta dei castelli sulle alture circostanti, e infine seguono, certo ormai completamente cristallizzate, le residenze principesche e le elevate cattedrali, sul margine dove incomincia la pianura. Simili patrimoni si dovrebbero abbracciare in un solo sguardo, fuori dal tempo. La forza originaria riposa nei monti stessi, come oro massiccio. Poi si aggiungono gli insediamenti umani, e alle loro costruzioni si trasmette un poco di quel segreto splendore. Ma il più ricco anello di 69

città, castelli, cattedrali, è solo un simulacro della ricchezza e dell’inesauribilità della terra. E le pietre, impiegate per edificare, sono solo moneta tratta dal tesoro di lingotti; essa recherà il conio dei principi, ma il tempo la rifonderà ancora e la restituirà priva di forma all’abbondanza su cui poggia la ricchezza della terra.

Blankenburg, 29 settembre 1939 Nelle valli dello Harz, per verificare le strade destinate alle unità motorizzate di ritorno in questi giorni dalla Polonia. In uno di questi campi, sulla via che da Hohegeiß porta a Rothehütte, si è alzata in volo dal torrente una poiana con una vipera nel becco. I dettagli di quest’immagine nella quiete della valle boschiva sono balenati davanti a me, nella fretta, col nitore di una miniatura in un mondo immobile – tanto nitidi che ho visto brillare persino l’orlo d’argento delle scaglie sul corpo scuro e metallico della serpe. In simili immagini l’acqua, l’aria e la terra vivono fresche e prive di dolore come nell’antica età degli eroi; il cantore le vide, trasparenti e immediate, attraverso il concetto.

Blankenburg, 4 ottobre 1939 Esercitazione a cavallo da Blankenburg fino alla piazza d’armi di Halberstadt, accanto al Gläserne Mönch, in una condizione di assenza che contrastava fortemente con l’ordine rigoroso mantenuto nella persona. Ho visto dunque 70

come in sogno un campo bruno, e la paglia che vi era sparsa sopra come vi fosse stata gettata dall’infinito. Accanto gli succedeva un prato verde con cespi di rose su cui fiammeggiavano le coccole. Le cose apparivano come attraverso una lente, che ora mette a fuoco, ora si fa sfocata. Non viviamo completamente dentro il mondo, né completamente dentro il nostro corpo – ma un giorno le nostre due parti, l’interna e l’esterna, si sommeranno.

Halberstadt, 5 ottobre 1939 Un improvviso ordine di chiamata a Halberstadt. Quando arriviamo tardi e affaticati, magari con la pioggia, in un posto sconosciuto, perdiamo la facoltà di vedere le cose a colori. E allora ci appaiono grigie, disperanti persino. In questi casi bisogna andare subito a dormire. Al risveglio in compenso non solo riappaiono i colori, ma anche le forme si colmano di un nuovo vigore. Mi ricordo di una mattina in cui, nella trama di una tendina, vidi rettangoli intrecciati con una valenza etica che fino ad allora mi era rimasta ignota. Le cose dunque traboccano contenuti – e parlano, non appena si rivolge loro lo sguardo. Sgradevole è invece destarsi poco dopo essersi addormentati, per esempio due ore dopo la mezzanotte. È un’ora oltremodo piatta; assomiglia al punto morto che precede una nuova oscillazione del pendolo. Ecco perché Napoleone loda «il coraggio delle due del mattino». Era questa un’ora temuta anche negli eremi e nei monasteri della Tebaide; vi grava infatti con una forza particolare la minaccia di determinate forme di malumore. E a ragione 71

una simile tristezza era considerata peccato, perché apriva la strada alle potenze del male. Perciò le malinconie sono in assoluto funeste; creano punti deboli come la foglia di tiglio di Sigfrido. In momenti di maggiore forza siamo quasi invulnerabili; perfino i proiettili devono in un certo senso aprirsi dei canali per farsi strada fino a noi. In Islanda, le madri tastavano il corpo dei guerrieri prima dello scontro, per sentire dove vi fosse un punto debole.

Kirchhorst, 8 ottobre 1939 Un altro cambio, stavolta per Bothfeld, tra quelli del 73º che raggiungerò domani. Fino ad allora passo le ore in cortile e in giardino e in compagnia di Perpetua. Gli alberi sono carichi di frutti, belli e pesanti. A proposito di astrologia. Nel corso della nostra vita incontriamo sempre colei, la sola, che ci spinge fuori dai nostri itinerari prescritti, e ci costringe a seguirla, che lo vogliamo oppure no. In confronto, gli altri contatti fiammeggiano soltanto, come comete, o meteore; e tutto ciò che Eros reca in più, resta sotto l’influsso di quella sovrana. Ecco perché persino la fedeltà è in fondo al di là del nostro volere; nella sua essenza essa agisce su di noi più come la forza di gravità che come una virtù. Lo si nota anche nelle coppie separate: i due tornano sempre a ripensare l’uno all’altro – e la forza costrittiva dei grandi incontri fa sentire i suoi effetti sin nelle forme dell’odio.

Bothfeld, 10 ottobre 1939 72

Nella brughiera di Vahrenwald. Al trotto per i fossati, tra i canneti che sfiorano la sella con le loro punte slanciate. La magnifica aria frizzante del mattino, in cui l’occhio afferra gocce d’acqua zampillanti in volo, e le vede brillare nel sole fresco. La guerra assomiglia al Leviatano, di cui solo un paio di scaglie, o una pinna, affiorano tra i flutti – la sua materia è troppo massiccia perché l’occhio possa comporla nello sguardo, e cresce pertanto una condizione di irrealtà. Gli uomini avvertono movimenti di grandi masse nelle proprie vicinanze, senza tuttavia coglierne la meta e la direzione; e forse presagiscono anche altre cose nascoste nel guscio di queste giornate – spettacoli di un genere nuovo e ignoto. Ecco perché lasciano cadere ogni difesa: perché non sanno su quale strada li condurrà il destino.

Kirchhorst, 17 ottobre 1939 Due o tre volte alla settimana vado in bicicletta da Bothfeld a Kirchhorst. Mi accorgo che questa strada si accorcia sempre di più quanto più spesso la percorro – ciò deriva sicuramente dal fatto che lo spirito ne articola lo snodo, e la suddivide così in una quantità di piccole tratte, e crede poi di poter superare più rapidamente anche il tutto.

Belsen, 3 novembre 1939 Sono appena arrivato alla piazza d’armi di Bergen in qualità di capitano della seconda compagnia del 287º 73

reggimento, e di qui, apprendo, già dopodomani ci metteremo in marcia per una destinazione sconosciuta. Il commiato da Perpetua – in una di queste stipate camere borghesi del 1905, divenute ora però perfino accoglienti. Quel che chiamiamo romanticismo esiste in tutti i tempi e assomiglia all’ombra che segue la lancetta mentre, inesorabile, indica le ore. L’orologio ticchettava, cosa che di solito, dormendo, non riesco a sopportare. Questa volta, invece, teneva desta la coscienza che, ora, godeva dell’assopimento anche nella sua prospettiva. E la notte si è distesa così all’infinito, in un tempo misurato come su leggerissime bilance. L’idea che ogni uomo sia un universo. Così, nelle persone che ci sono vicine, i nostri genitori, i fratelli, le mogli, dopo che abbiamo vissuto con loro per anni, per decenni, spesso capita che ci si riveli una nuova, sconosciuta profondità. Certo, per riconoscerla dobbiamo noi stessi trasformarci – e allora forse, nell’enormità di queste metropoli che ci appaiono tanto insignificanti, scopriremo ancora dei tesori, come nelle ignote miniere del Perù. Chi saprà dischiuderle, riprodurrà la mobilitazione in forme sublimi.

Dintorni di Greffern, 11 novembre 1939 Il 6 novembre, alle due del mattino, siamo partiti da Bergen. L’oscuro trambusto, tipico delle operazioni di caricamento, mi ha colpito come una prima rinascita delle cose conosciute nella Guerra mondiale. In tutto questo, è calato nitidamente su di me un senso di orrore, il raggio di un freddo lavoro demoniaco, specie con lo sferragliare di 74

magli e catene che fendeva l’aria gelata. Il respiro, che in nuvolette bianche si fermava davanti alle bocche degli uomini, alle froge delle bestie. I cavalli si spaventano davanti a una cucina, allo sprizzare delle scintille, e un gruppetto diligente si raduna per slegarli e attaccarli ai carri – formiche indaffarate a proteggere i loro beni e i loro simbionti. In questi momenti si vede un po’ più chiaramente quanto ci sia di istintivo nella vita. Pensiero: il pallido sciame delle mosche effimere, e il meccanismo del mondo che unge i propri assi con i loro corpi. Si spiaccicano contro il ferro gelido. Nello scompartimento, dove il mio nuovo attendente, Rehm, mi porta due coperte. Il suo contegno è ottimo, quello di un uomo giunto al termine di una rigorosa e impegnativa educazione. Quando gli rivolgo la parola, gli si corruga il mento, piegato in cerca della cravatta, e i tratti del suo volto sembrano pietrificarsi. Le due dita medie puntano dritte verso il basso, i palmi delle mani sono belli tesi, senza quei nidi di rondine che si formano allorché la disciplina perde la sua freschezza. Nel corso delle successive ventiquattr’ore ritorna a intervalli regolari con il caffè, un pasto caldo, del pane. Ugualmente appaiono il maresciallo capo e il comandante delle compagnie comando; entrambi fanno una buona impressione. La compagnia comando, un organo ancora sconosciuto ai tempi della Guerra mondiale, allevia piacevolmente la trasformazione degli ordini in azione. Oltre a me, nello scompartimento c’è Spinelli, il mio braccio destro, il solo ufficiale della compagnia. È dotato di una bella sicurezza, un po’ americana, come quei giovani che nei film vedi affrontare avventure pericolose delle quali 75

però sono già venuti a capo. Lo vedo prendere una serie di provvedimenti che in parte riguardano il suo reparto, in parte il suo proprio comodo; si sente evidentemente nel suo elemento. E soprattutto è una presenza per me piacevole. Dormiamo, facciamo colazione, chiacchieriamo o leggiamo, e intanto attraversiamo la Germania diretti a ovest. A volte ci viene distribuito del cibo, a volte appaiono davanti ai finestrini ragazze con del tè o del caffè. Di questo passo domani notte, verso le due, arriveremo a Pforzheim. La falce sottile della luna e Orione scintillano sulle rotaie. Mentre attendiamo ordini, improvvisamente, come un cristallo di ghiaccio, lampeggia un pensiero nella mia mente: quanto incommensurabili restano i mondi delle stelle fisse, anche dietro gli spazi abitati – nell’istante della morte corriamo via al di là di essi. Ci sono secondi in cui il nostro spirito si inoltrerà attraverso distanze di anni luce, spaventato davanti a quegli abissi. Altri viaggi inauditi lo aspettano ancora. Le avventure su questa terra non sono che simboli dell’ultima avventura, la più grande – si recitano nei vestiboli, lungo il frangiflutti dell’oscura, spaventosa maestà. Alla fine il nostro ordine arriva, e per assolverlo ci mettiamo in marcia verso Höfen sull’Enz, dove giungeremo domattina. La compagnia viene suddivisa tra case e cascine e io, con Spinelli, mi sistemo in un bel possedimento sul pendio, dove Frau Commerell ci aspetta con la colazione. Stanchissimi ci corichiamo sui letti soffici dove, dopo neanche un’ora, un attendente viene a stanarci. Spinelli deve immediatamente condurre un comando d’avamposto sul vallo occidentale, mentre a me sono affidate le tre compagnie di tiro che durante la notte devono attraversare la Foresta Nera. Il tempo trascorre tra preparativi e 76

disposizioni, e solo nel tardo pomeriggio riesco a trovare un momento per riposare. Ecco come ci si concede il sonno, a spizzichi e bocconi. Cena dai Commerell: trote, che l’arte della cuoca ci presenta lessate, azzurre e finemente decorate, con le pinne aperte come se nuotassero serpeggiando nell’acqua. Ci sediamo poi sul divano, per un bicchiere di Borgogna; conversazione con il padrone di casa, sui funghi soprattutto, in particolare sulle vesce stellate e sulle specie che crescono sottoterra intrecciate alle radici di determinati alberi. È sempre bello scoprire che qualcuno, oltre al proprio mestiere, padroneggia alla perfezione un dominio di sua preferenza – dà un’idea del lusso di questo mondo. «Le ricchezze ricevute in eredità mi hanno imposto il dovere di studi molto accurati» – recita più o meno così un passo di E.A. Poe. Dopo mezzanotte vengo svegliato da Rehm, e di sotto trovo del pane e un termos pieno di caffè. Alle due, in marcia. Appena superato il paese, in direzione di Dobel, ripide salite. Sebbene siano stati presi tutti i provvedimenti, in particolare agganciando dei ramponi agli zoccoli delle bestie, i cavalli avvezzi soltanto ai bassopiani iniziano subito a sudare. Sbuffano e, nonostante il föhn tiepido che soffia nella valle, esalano nuvole di vapore. Li faccio fermare spesso, per rifocillarsi e per bere, stando attento però che nell’acqua galleggi della paglia, in modo che gli animali non plachino la sete troppo precipitosamente. I conducenti devono smontare, i copiloti devono sistemare grossi fermi dietro le ruote affinché il carro scivolando all’indietro non affatichi inutilmente gli animali. La notte trascorre tra pause e spinte. Nei pressi di Herrenalb inizia a farsi giorno – qui le rocce si slanciano in verticale come grandi canne d’organo 77

grigie, incoronate da una faggeta rosso rame. Ordino di marciare a colonne aperte e di togliere la sicura alle mitragliatrici. Intanto viene il momento di occuparsi degli alloggiamenti, e di costruire i rifugi per la protezione antiaerea. Procedo dunque a cavallo fino a Gernsbach. Per la strada mi supera in auto il comandante di divisione, generale Vierow, di cui faccio la conoscenza durante il mio rapporto. Mi esprime il suo disappunto per le condizioni dei cavalli, ma diventa subito più socievole, e ricorda di essere stato al comando della compagnia di addestramento a Wünsdorf quando io ero nella commissione direttiva locale. Chiaramente in questa circostanza beneficio del capitale di meriti accumulati di cui dispongo, e di cui vorrei invece raccogliere una nuova riserva. Da apprendisti non ci è permesso di invecchiare, dobbiamo sempre avere sedici anni. A Gernsbach la giornata trascorre come quella di ieri. Nel quartiere prendo alloggio insieme a Rehm nella casa di un medico. Sua moglie, una donna piacevolissima, mi dà l’impressione di averla già vista – una sensazione risvegliata più dal suo habitus che dalla sua persona. Poi, nonostante lo sfinimento, un sonno agitato, in un turbine di visioni oniriche. Udivo il richiamo di una voce: «Il nulla dà il suo ballo in maschera». E rispondevo: «Truccatevi di rosso». Appena apro gli occhi vedo che si è fatto tardi e trovo Rehm, che avrebbe dovuto svegliarmi, profondamente addormentato, col respiro affannoso, come stordito. Al momento di metterci in marcia, in uno stretto vicolo si forma un ingorgo che ci fa perdere tempo. All’uscita, un cavallo di riserva precipita in una gola. Proseguiamo per 78

Lichtental, Malchbach, Neuweier fino a Steinbach, una località nella piana del Reno. Ed ecco che si accendono i colori – risplendono soprattutto nelle pannocchie di mais, rosse e gialle, appese alla rovescia alla fragile rafia del loro involucro sotto la tettoia. È una vista che infonde un sentimento di abbondanza, come le spighe di grano che Gulliver vide nel paese dei giganti. Accanto a esse, sono messe a seccare le foglie di tabacco, in fasci bruni. Come arriviamo a Steinbach si è fatta l’ora di mangiare; poi procedo, per assumere il comando del mio reparto, lungo il vallo d’occidente. Il cielo si oscura, e inizia a piovere prima che trovi il bunker nascosto tra il fogliame estivo dove infine mi accoglie il capitano Zink. A un tavolo su cui gocciola la pioggia, mi mette a parte di un sistema di bastioni dotato di una potenza di fuoco tale da poter fermare l’attacco di una divisione. Dopo mezzanotte, bagnata fradicia, sopraggiunge la truppa. I gruppi vengono condotti dal capitano ai loro alloggiamenti. Con la compagnia comando entro nel bunker che ci è assegnato, dotato di venti brande e, poiché qui non mi riesce tanto facile prendere sonno, ho tempo di dare un’occhiata in giro nel nuovo ambiente. È più freddo e inospitale di altri luoghi simili visti durante la Guerra mondiale – già solo per il fatto che le dimore di allora erano costruite in legno e terra, rimpiazzati oggi da ferro e cemento. L’architettura è bassa e greve, neanche fosse progettata per delle tartarughe, e le pesanti porte di acciaio, che si chiudono ermeticamente, con uno scatto, contribuiscono a dare l’impressione di essere costretti dentro una cassaforte. Lo stile è tetro, sotterraneo, un intreccio tra l’opera vulcanica di un fabbro e quella 79

grossolana di un ciclope. Proprio accanto all’ingresso c’è un recipiente con una soluzione calcarea, certo per prevenire la corrosione del materiale bellico. L’aria calda, oleosa, si condensa colando umida giù per le pareti; sa di gomma, di combustibile, di ruggine. Poiché è presto viziata, a ogni cambio turno la sentinella deve azionare per un quarto d’ora la manovella di un grosso aeratore che sospinge aria fresca nel locale attraverso un filtro. Intanto si sentono mormorare nel sonno i dormienti, e scricchiolare lo sportello dell’apparecchio dove siede la guardia al centralino. Risponde «Qui comando cella frigorifera» quando viene chiamata dai miei plotoni «Clara», «Cespuglio di lillà» o «Limburgo». Oppure il forte «Alcazar», che mi è sottoposto, si annuncia come «ovolaccio», il battaglione come «luce del crepuscolo» e il reggimento come «Adone». Questa incomprensibile lingua cifrata non stona con l’architettura. In più c’è che sono nuovo nella truppa. Il mio compito mi viene assegnato quasi come un anagramma, di cui devo solo ricomporre il testo.

Dintorni di Greffern, 15 novembre 1939 I francesi si fanno vedere senza che noi gli spariamo contro e viceversa. Tra gli alloggiamenti e le trincee, i contadini arano i campi e raccolgono le rape. Sulla strada per Rastatt, che corre a ridosso del mio bunker, sfrecciano le automobili – forse uomini in viaggio d’affari o una coppietta di fidanzati. Tale contiguità, tale compenetrazione di sfere diverse, ricorda l’ottica dei sogni, ed è caratteristica di questo nostro mondo, di cui accentua i tratti pericolosi. Gli 80

spazi e le loro atmosfere si intersecano come al cinema. La sera sono stato ospite alla «Villa Goldfasan», dove Spinelli alloggia con la sua truppa. C’erano zuppa, arrosto, contorno e perfino un pudding, anche birra e vino. Si è banchettato più che bene, dunque, alla tavola della piccola casetta di legno, sulle cui pareti nude, come unico decoro araldico, non c’era che una fila di elmetti di acciaio disposta su di una mensola. Spinelli è uno di quegli uomini che sanno immediatamente scorgere tutte le risorse disponibili in un ambiente nuovo.

Dintorni di Greffern, 18 novembre 1939 Dall’altro ieri, inondazione. Il Reno scorre via a grande velocità. La corrente trascina con sé travi, bottiglie, bidoni, animali morti. Dove arriva a lambire il reticolato, deposita fasci di piccole alghe, la cui membrana verde tenero, esposta all’aria imperlata, si fa d’argento. È l’azolla americana, una felce acquatica che, dalle nostre parti, in certi punti cresce in abbondanza, selvatica. È la prima volta che mi capita di vederla nascere spontanea in Germania. A volte vengono giù per il fiume anche barconi, o pezzi di ponte, scatenando una sparatoria vivace su entrambe le rive. Si vede bene che le armi non mancano da queste parti. E se anche sulla terraferma ci si può mostrare disarmati, l’acqua e l’aria restano tabù. Diversi bunker, prima dell’argine di piena, sono quasi isolati e rischiano di allagarsi se l’acqua sale un po’ di più. Tengo perciò pronta una batteria di zattere e canotti. I genieri costruiscono anche delle rampe, che hanno d’altra 81

parte lo svantaggio di essere visibili dall’alto. Vengono perciò mimetizzate con delle canne. Approfitto dell’occasione per procurarmi della legna al deposito dei genieri, perché voglio farmi costruire una capanna come rifugio solitario. Bisogna organizzarsi.

Dintorni di Greffern, 22 novembre 1939 L’ondata ha raggiunto il culmine, e retrocede. Durante i miei giri per la postazione vedo svariati uccelli, come l’airone, che pesca su una banchina di ghiaia vicino alla dogana di Greffern. Al crepuscolo i fagiani arrivano tanto numerosi dalla cinta di ontani che certi prati assomigliano a un cortile popolato di polli. Il martin pescatore. Vedendo l’animaletto splendente che frulla nel canneto ingiallito, ci si domanda perché mai, in un paesaggio così opaco, la natura lo abbia ornato come una pietra preziosa. Gli scienziati dimostrano l’esistenza di resti dell’era glaciale – forse ce ne sono anche altri, provenienti dall’era delle fiabe.

Karlsruhe, 28 novembre 1939 Da alcuni giorni, qui a Karlsruhe, sto partecipando a un breve corso di addestramento e alloggio al «Reichshof», un hotel vicino alla stazione. Il sonno in un letto, dopo un periodo nel bunker, è molto gradevole, un vero piacere. Lo si vorrebbe sorvegliare, per prolungare il tempo. In una città in cui potessi governare, darei la disposizione di «far ardere a lutto tutti i lumi colorati delle chiese, eccetto quelli rossi». 82

L’età di Esiodo, prima che gli dèi celassero il nutrimento, è il paradiso cristiano. I primi uomini vivevano nell’abbondanza, tra gli elementi a cui, dopo la morte, faremo ritorno. Nel frattempo l’economia, la morale, la tecnica, l’industria si sono allontanate dagli elementi, e continuano a reggersi su di essi, nutrendosene in maggiore o minore misura. E se il sole poi, nel gelo dell’universo, dispensa il suo ardore attraverso gli eoni, è perché continua a vivere negli elementi. In ciascun miracolo si compie un ritorno agli elementi. E così pure in ogni guarigione.

Karlsruhe, 2 dicembre 1939 Uscendo sulla piazza, un’alba magnifica. Nubi dorate sullo sfondo verde. La volta occidentale fredda, verde pallido. I grandi edifici sono ancora silenziosi e deserti. In questa luce sembrano più alti, più chiari, e appare anche il loro piano spettrale – qualità che li rivela progettati non solo per gli uomini. La sera, oscuramento. La merce nei negozi è illuminata da deboli sorgenti di luce e gli oggetti esposti sembrano fosforescenti. È una vista che desta una sensazione di preziosità – e ciò dipende sicuramente dal fatto che non si crede tanto di scorgere dei beni, quanto l’idea di beni. Iniziato: le lettere di Hebbel, una lettura che, come pure i suoi diari, mi ha spesso corroborato e rafforzato nella vita. Ci fa sempre bene sapere che qualcun altro si è già trovato una volta su questa galera, e che vi ha mantenuto un contegno più che degno.

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Dintorni di Greffern, 4 dicembre 1939 Ancora nel reparto. La sera arriva il grande sacco a pelo che mi ha procurato Spinelli. È rivestito di seta rossa, così ora posso sdraiarmi nel bunker come un mandarino in abiti di gala.

Dintorni di Greffern, 8 dicembre 1939 Stasera abbiamo preso un monello, più o meno quindicenne, nel reticolato che corre a ridosso del Reno: vi si era appostato come un tordo nella macchia. Me lo hanno condotto in abiti strappati e mi ha raccontato d’essere scappato da Pforzheim, «per vedere la fortificazione». Poiché il ragazzino sembrava innocuo, gli ho fatto servire da mangiare nella nostra mensa e preparare una branda nel bunker. Poi sono venuti a prenderlo due gendarmi, evidentemente meno affabili di noi soldati, visto che gli hanno frugato le tasche e slacciato le bretelle. Mentre lo portavano via, si è girato ancora una volta verso di me: «Lui è uno perbene, un bel tipo in gamba». I poliziotti sono tarati sul peggio che c’è in noi. Ecco perché il più delle volte finiscono per averla vinta.

Capanna di giunchi, 17 dicembre 1939 La notizia della morte del dottor Ostern mi ha turbato. Il tempo non ci dona più nature simili, o non ne crea proprio più. Da Zwickledt Kubin mi ha spedito un volumetto di 84

racconti. Di notte, una leggera nevicata. Mi sono trasferito nella mia nuova capanna, che profuma piacevolmente di legno fresco. Le pareti sono rinforzate con delle fascine, il tetto è fatto di giunchi che ora, dopo aver fissato tanto a lungo il cemento del bunker, sono molto gradevoli e caldi da vedere.

Capanna di giunchi, 25 dicembre 1939 La vigilia di Natale, prima un giro per tutti i bunker, poi cena con la compagnia comando: fagiani, molto ben frollati nel nostro magazzino delle munizioni che funge anche da deposito per la selvaggina. Stamattina, poi, passeggiata lungo lo Schwarzbach, con la brina, ricordando Natali trascorsi. C’è solo una cosa che non ci abbandona mai – il sentimento della vita che, dal primo istante di coscienza, rimane identico, come una melodia che ritorna sempre, e i cui ritmi ancora risuonano mentre la nave affonda. Un predatore ha preso il volo dai rami di un pioppo nero, si è poi lasciato cadere su di un campo e ne è saltellato via, a balzi al tempo stesso sgraziati e araldici. Poiché l’ho seguito, ha cercato di oltrepassare lo Schwarzbach, poi però si è tuffato in acqua e si è messo di nuovo all’opera risalendo sulla riva. Quando l’ho raggiunto, ho visto che la sua ala sinistra era ferita; il sangue gocciolava rosso minio sulla neve. L’uccello mi ha guardato fisso con i suoi occhi gialli: lo sguardo diritto, audace, assolutamente indomito. L’ho osservato a lungo, poi, senza toccarlo, l’ho lasciato tra le stoppie. 85

Pensiero: «Lo hai lasciato stare, dunque, forse, si salverà». Subito dopo, di fronte a un crocifisso. Gelida la brina pendeva dalla corona di spine in lunghi fili d’argento. Anche gli occhi si erano ornati di ciglia argentate che, leggere, tremavano nell’alito di vento.

Capanna di giunchi, 26 dicembre 1939 Dall’egittologia mi riprometto di trarre una spiegazione del passaggio dalle figure alle lettere – là si cela la chiave della differenza tra il vecchio e il nuovo mondo. Ecco perché Erodoto è una fonte di prim’ordine: in lui entrambi i mondi restano vitali. Greci e persiani. Cesare e Cleopatra. Occidente e Oriente. L’iconoclastia bizantina. I cinesi quali membri del mondo antico. Napoleone, e il modo in cui conta le finestre.4 Le lettere portano in sé anche una tensione che le spinge a ritrasformarsi in immagini, nell’impiego ornamentale, per esempio. Ma in questi tentativi acquistano, come nelle moschee, un che di rigido – come uno che racconti sogni inventati. Il gattino resta qui con me nella capanna di giunchi. Si vede il suo respiro salire in piccole nuvole nell’aria fredda, confondersi con il mio, poi, quasi in forma d’una spirale, ricadere su di noi, come se fosse una fonte che ci dà vita. Sto notando questo, ed ecco che lui salta qui vicino a me sul tavolo, e mi butta via la penna con la zampina. Piccolo ruffiano.

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Capanna di giunchi, 27 dicembre 1939 Gelo, nebbia e calma di vento hanno creato incantate figure di brina, quante non ne ho viste mai. Gli alberi e i cespugli erano cristallizzati fino alle punte più sottili come rami immersi nell’acqua madre. Nel più tenero rigore apparivano silenziosi e stupefatti, mentre stamattina camminavo verso il forte «Alcazar». Affioravano dalla nebbia densa, umida di neve, spesso difficili da scorgere, come bianchi decori incisi su una lamina grigia con la punta di un bulino. Poi però l’occhio li abbracciava tutti assieme in uno sguardo, neanche fosse dotato di una nuova arte del vedere. E le leggi del mondo cristallino si applicavano anche, su scala maggiore, all’intera visione del paesaggio, che sembrava colpire la coscienza all’improvviso. Perfino le forme più esigue lasciavano una loro impronta – così, stamattina, sulla neve gelata erano caduti ancora piccoli fiocchi, disegnando un ricamo sullo sfondo cristallizzato, un velo d’Iride intessuto di stelline. L’acqua del torrente scorreva nera e senza vita in questo mondo chiaro. La sua vista mi fece tornare in mente il mio vecchio progetto di lavoro sul «bianco e nero». È molto più difficile che scrivere qualcosa sui colori, e questa trattazione mi pare perciò un pezzo da virtuoso per il quale ancora mi mancano gli strumenti.

Kirchhorst, 1º gennaio 1940 In licenza a Kirchhorst. La mansarda reca già l’impronta del luogo disabitato; come fa presto ad andarsene il genius 87

loci. Ieri sera, per la notte di San Silvestro, Martin von Katte ha tenuto un discorso. Ha raccontato dettagli della campagna in Polonia che in un’altra stagione avrei trovato avvincenti, ma la nostra capacità di assimilare eventi è limitata. Oltretutto ogni cosa letta e udita dell’altra parte della Vistola mi è sempre parsa di minore significato storico, quasi si trattasse di fatti accaduti in una terra nebulosa dai contorni indefiniti. Non sono mai riuscito a immaginare il palazzo di Etzel se non come un luogo caotico.

Capanna di giunchi, 4 gennaio 1940 Tornato dalla licenza, cui un telegramma ha messo fine dopo due giorni. Perpetua mi ha dato la notizia nella mia cameretta, dove stavo osservando una bella sternocera di Gibuti. Poi l’ho ritrovata tutta triste in cucina. Come lettura ferroviaria, il libro di Brousson su Anatole France. A pagina 16, la famosa citazione di La Bruyère: «Un po’ più di zucchero nell’urina, e il libertino finirà per andare a messa». In effetti incominciamo a credere quando le cose incominciano ad andarci male. Ma allora percepiamo anche profumi, colori, suoni che ci sarebbero altrimenti inaccessibili.

Capanna di giunchi, 5 gennaio 1940 Trascorro l’ora del caffè nella capanna di giunchi, impegnato nella stesura del diario. In un azzurro barattolo di zenzero vuoto è accesa una candela di cera della 88

Lüneburger Heide che, sciogliendosi, ha avvolto in una rete di fili giallini. Giallina è l’aura che trema attorno alla fiamma azzurra, finissimo pulviscolo luminoso in cui la materia si disperde. Dei candelotti bruciaprofumi ho fino a oggi impiegato la varietà verde, dolce e gradevole, poi anche quella bruna, al legno di sandalo, e infine gli incensi giapponesi, sulla cui cenere bianca appare un motto in lettere scure. Nei luoghi umidi e bui, anche nelle vicinanze dei ratti, si acquista sensibilità per simili scienze. La particolarità delle costruzioni non appare molto nitidamente quando vi si abita dentro. Mi si è resa chiara solo ieri, passando in rassegna il bunker 14, non lontano dalla dogana di Greffern, abbandonato dalle truppe di presidio. Dopo aver aperto, con grande fatica, l’enorme porta d’acciaio ed esser disceso nella cripta di cemento, me ne sono stato tra le macchine da guerra, gli aeratori, le bombe a mano e le munizioni, da solo, e ho trattenuto il respiro. A tratti cadeva una goccia dal soffitto o squillava, con diversi segnali, il telefono della fortezza. Soltanto allora ho riconosciuto quel luogo come la dimora di industriosi ciclopi metallurgici, privi dell’occhio interiore – in una maniera del tutto simile a quando, nei musei, spesso si intuisce più chiaramente il senso degli oggetti di coloro che li utilizzarono e fabbricarono tanto tempo prima. Così, come fossi nel ventre delle piramidi, o nel fondo delle catacombe, avevo di fronte lo spirito del tempo, che vedevo come un idolo, spogliato del bagliore tremulo delle sofisticherie tecniche, e del quale coglievo la forza spaventosa. Tra l’altro, la compressione, la durezza di carapace di 89

queste costruzioni, ricordava le architetture azteche, e non solo esteriormente. Ciò che in quelle era il sole è in queste l’intelletto, ed entrambi hanno a che fare con il sangue, con la potenza della morte.

Capanna di giunchi, 6 gennaio 1940 Su «Corona», che ho portato con me da Kirchhorst, ho letto un racconto, Bartleby lo scrivano, di Herman Melville, che morì a New York nel 1891. Sebbene, come già in Oblomov, vi sia descritto un personaggio del tutto passivo, la trama è così ben sviluppata che la partecipazione non cede un solo istante. Tra le doti che uno scrittore può possedere, il talento narrativo e affabulatorio non è certo la più preziosa, ma accresce tuttavia l’effetto di tutte le altre forze in gioco, proprio come la salute acuisce ogni espressione vitale. Finito: la Teogonia di Esiodo. Una scena grandiosa: quando Urano discende nella notte, e stringe in un abbraccio la Terra, Crono gli miete via il pene con la falce dentata, e lo getta dietro di sé. Dalle gocce di sangue piovute sulla terra lungo la traiettoria di lancio, spuntano le Erinni, le Ninfe e i Giganti, mentre il membro cade nell’Oceano e dalla sua carne bianca, beccheggiante tra le onde, sboccia Afrodite. Sono altre genesi, tanto diverse dai piccoli infusori che ci stupivano all’Istituto zoologico di Lipsia.

Baden-Oos, 8 gennaio 1940 90

Alle cinque è arrivato il cambio, e nel buio ci siamo messi in marcia per Baden-Oos attraverso campi e boschi. Alla partenza, mal di stomaco, che poi è passato. In qualità di fante si dispone di un rimedio tra i migliori: la lunga marcia. La postazione di Greffern, con tutte le sue pene ufficiali e segrete, scivola ora nel passato, come un capitolo del quale si serberà il ricordo. Nel mero resistere c’è già un merito oggi. Entro questa cintura di bunker si udivano pochi spari, solo qualcuno contro gli aerei e contro i numerosi fagiani e le lepri in cerca di una tana nel reticolo del filo spinato già fittamente intrecciato di stoppie. Eppure regnava un certo rigore. Per esempio quando il maresciallo Köhler ha voluto arrampicarsi su un albero, ha suscitato una cortina di fuoco. E così, nel reparto vicino, ci sono stati dei feriti quando vi è stato esposto uno spaventapasseri con la maschera di Chamberlain. Nell’esercito, il numero degli uomini uccisi per disgrazia travalica di gran lunga quello dei caduti sotto il fuoco nemico. Uno dei primi morti fu, d’altra parte, un maresciallo della compagnia di propaganda, caduto mentre parlava al megafono. A mezzanotte ci siamo insediati in una caserma di BadenOos dove per via del freddo ho dormito vestito su un letto da campo. Allo stesso modo in cui, nei sogni, spesso le figure ci appaiono più nitide che di giorno, così mi si è presentato qui il tipo del seccatore, in una piccola bottega di frutta e verdura, dove avevo ordinato un’anatra arrosto. Accanto alla commessa c’erano altre due o tre vecchie donne, una delle quali, senza creanza e sebbene la pregassi di smetterla, continuava a toccare il volatile. Dava mostra di farlo per darmi consigli su come disporre e servire quella leccornia – in realtà era solo per leccarsi poi le dita, e 91

l’operazione in effetti ha tolto via a poco a poco all’arrosto la sua ghiotta crosticina bruna. Da ultimo quell’essere, che appariva secco, vispo, occhiuto e indagatore come una mosca, ha infilato ancora l’indice adunco nel posteriore dell’uccello, e ne ha cavato fuori, per sua delizia, un pezzetto di budello. Poi se n’è filata via, lasciando l’anatra, sventrata e impresentabile, sul banco del negozio. Solo allora le altre donne hanno incominciato a inveire contro la fuggiasca, al che ho concluso dovesse essere posseduta da forze maligne. Alla fine, non solo il mio pasto era guastato, ma anch’io ero ormai oppresso dal presagio che quell’incontro avrebbe avuto funeste conseguenze.

Ettlingen, 9 gennaio 1940 Marcia notturna in mezzo a pioggia, grandine e gelo fino a Ettlingen. Il ghiaccio cadeva vitreo sugli elmetti, le redini e le mantelle. Gli isolatori degli elettrodotti erano immersi in una fredda nebbia di luci azzurrognole e schiumose. Le notti come questa sono quasi colme del tintinnio innumerabile dei passi di stivali chiodati – sono le monetine della guerra, una somma di ignote sofferenze e fatiche che, in battaglia, si rivela un capitale.

Wössingen, 10 gennaio 1940 Di buon mattino, in marcia oltre Durlach e i suoi vigneti rosso splendente, diretti verso Wössingen, e laggiù acquartierati nella casa parrocchiale evangelica. Durante la 92

marcia c’era un freddo secco di un’asprezza che ricordo di aver provato solo nel duro inverno tra il 1928 e il 1929. Camminando lungo la colonna ho visto per la prima volta un orecchio assiderato – il muscolo, orlato di bianco, si presentava come se avesse attaccato un anello di polpa di pesce. Come si addice al comandante attento, sono stato il primo ad accorgermi del guaio, prima dei commilitoni vicini nella fila e dello stesso ferito, che immediatamente ho fatto condurre in infermeria con una vettura di emergenza. La sera sono rimasto ancora un poco a sedere assieme al tenente colonnello Vogler in compagnia della moglie del pastore e della figlia, mentre il marito era in viaggio. Se ne avvertiva tuttavia l’influsso, come di una presenza potente, in tutta la casa. Ci sono due tipi di disciplina – l’una agisce dall’esterno verso l’interno, come un mordente, e tempra gli uomini, l’altra invece irraggia dal cuore verso l’esterno, come una luce e, senza toglier loro la mitezza, li rende impavidi. Per la prima ci occorrono sempre dei padroni, l’altra invece spesso cresce dentro di noi come un seme. I registri parrocchiali, conservati dal 1690. In uno di essi trovo la menzione curiosa di una domestica che, dopo aver portato il grembiule per quattordici anni, ne mise incinta un’altra, e proseguì la sua vita da uomo, fino alla tarda età. Cronaca spassosa di un mio predecessore che stava come una sorta di Falstaff nel quartiere d’inverno. È un tipo di quelli che la guerra non cesserà di generare, e resterà sempre identico l’universo di comparse che lo circonda: servitori scaltri e ladri, oche grasse, ragazze lascive, sbevazzate e bische.

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Flehingen, 11 gennaio 1940 Nel gelo acuto verso Flehingen e Sickingen, due località dove dovremmo sostare più a lungo e che il nostro comandante, in un accesso di malumore per via degli alloggiamenti, ha definito Flöhingen e Stinkingen, «pulciosi e puzzolenti». Dove il carriaggio non è riuscito a passare per i monti innevati, la colonna di marcia si è rotta in gruppi costretti a spingere i carri. A Flehingen, acquartierato dal parroco cattolico, con il quale la sera ho conversato a lungo.

Flehingen, 14 gennaio 1940 Una fredda domenica, che trascorro a letto con l’influenza. Lettura: Lo scudo di Eracle, che è attribuito a Esiodo. I canti dello scudo presentano miniature dell’universo così come lo immaginavano gli antichi. È come se lo sguardo cadesse sulla creazione dall’alto, a volo d’aquila, e la vedesse ridotta a dimensioni minuscole, eppure con acutezza non comune. Si spiega così la molteplicità raccolta su di uno spazio tanto ristretto, che viene attribuita all’arte di un fabbro divino. Di conseguenza l’espressione e lo stile del resoconto acquistano un carattere metallico; il linguaggio raffigura la creazione come fosse sbalzata nel bronzo, in estrema concentrazione e chiarezza. Poi la Bibbia, nella traduzione di Henne che mi ha prestato il mio ospite di quartiere. Strano come il tempo di Mosè paia più antico che quello di Giuseppe e Giacobbe – dipende certamente dall’effetto pietrificante della Legge. La selezione operata dalla legge, forse solo grazie alla solennità 94

dei riti egizi e alla conoscenza dell’arte antichissima della mummificazione, indurisce la vita, trasformata nel serpente di ferro. Nelle storie di Giuseppe, invece, tutte le relazioni vitali appaiono nel loro pieno dispiegamento e nella maniera più nitida. È sempre questo il senso della preistoria: rappresentare la vita nel suo significato atemporale, mentre nella storia la si raffigura nel suo svolgimento temporale. La preistoria è dunque sempre la storia, la storia che ci è più vicina, la storia dell’uomo in sé.

Flehingen, 15 gennaio 1940 Digiunato. Nella notte, forti attacchi allo spirito; febbre anche, dovuta alla marcia. Presto in servizio però, e in marcia con gli altri. Marciando ho sempre permesso che gli uomini cantassero, e ciò fa bene sia a loro sia a me. Tutto quel che ha a che vedere col ritmo è un’arma contro il tempo, ed è contro di esso, in fondo, che lottiamo. L’uomo combatte sempre contro la potenza del tempo. Nel pomeriggio, riunione degli ufficiali presso il reggimento a Bretten; qui ho appreso dal colonnello che mi spetta il recupero della licenza e poi l’incarico di addestrare le truppe d’assalto del reggimento.

Kirchhorst, 18 gennaio 1940 Da ieri di nuovo a Kirchhorst, dove Perpetua mi vizia con tutte le arti della padrona di casa. La cucina è molto accurata e, in più, abbiamo ricevuto dall’«Hecht» di 95

Überlingen anche le lumache delle vigne, in ricordo delle merende consumate lì con Friedrich Georg Mezger, che si concludevano il mercoledì delle ceneri. Sono ancora preparate alla maniera del buon vecchio Feuchti, che due anni fa, mentre per il carnevale svevo faceva la guardia in costume da eunuco al chiosco dello spumante, fu atterrato da un colpo che ci portò via uno dei rari maestri che ancora sapevano cosa vuol dire cucinare. Come tutti gli svevi, abili a rimpicciolire graziosamente ogni cosa, egli disse alla sorella, appena lei lo trovò, che si era preso un «colpettino» – e questo fu il suo addio; il suo spirito, però, sopravvive ancora nelle ricette. Il gelo è aumentato ancora, sicché me ne resto in casa, sprofondato negli appunti su Gavarni dei Goncourt, nello Schatzkästlein («Il cofanetto del tesoro») di Hebel e nella storia del principe giapponese Genji. Mi sono anche dedicato un poco alla collezione, e mi è venuta l’idea di cimentarmi poi nella descrizione del genere Sternocera, sia secondo le regole della sistematica, sia secondo l’arte dell’orafo. Gioielli della natura. Le condotte dell’acqua sono gelate da giorni – adesso non funziona più neanche la pompa nel lavandino in cucina. Alle sette di sera il termometro che ho appeso alla finestra del bagno segnava già meno venti. Si direbbe che l’anno inizi anche sotto il profilo dei meri elementi in maniera straordinaria.

Kirchhorst, 25 gennaio 1940 Lettura: Hasper, Über die Krankheiten der Tropenländer 96

(«Sulle malattie dei paesi tropicali»), Lipsia, 1831 – un’opera che si trova da tempo nella mia biblioteca. Un tempo mi piaceva comprare cose del genere. Contiene belle raffigurazioni della vita nelle zone paludose, per esempio di certi tratti di costa della Guinea secondo le descrizioni di Lind. Foreste sommerse, sepolte nel fango, dove miriadi di insetti oscurano la luce con le loro ali e il concerto dei piccoli animali impedisce il sonno. L’aria è viziata, densa, e talmente fitta di mefitici miasmi che le torce rischiano di spegnersi. Perfino la voce umana perde la sua risonanza naturale. «Soprattutto si deve sapere, grazie ai capitani di marina delle Indie Orientali, che sulle navi, dopo i pasti, non si faceva girare la bottiglia più di sei volte al massimo.» Il movimento delle epidemie somiglia alla campagna di un esercito di demoni. «Dopo che quella malattia ebbe imperversato cinque anni nell’Indostan e nel Deccan, portandosi via innumerevoli uomini… nell’ottobre del 1821 si diresse a occidente fino a Shiraz in Persia, dove nel giro di otto settimane si portò via 60.000 uomini, e comparve quindi a Bassora, a Baghdad, a Moscat e ad Aleppo in Siria.» La raffica di vento, menzionata per la prima volta in Europa nell’«Asiatic Journal» del 1822, deve essere formata da correnti d’aria surriscaldata in cui ci si imbatte, per esserne poi fulmineamente abbattuti. Si ipotizza che, in certi punti serrati tra le rocce, ci siano focolai dove i raggi del sole arroventavano tanto l’aria da provocare danni ai polmoni. In India Orientale la raffica viene chiamata La, che deve avere lo stesso significato del persiano Loh e del nostro Lohe: «vampa». 97

In viaggio, 29/30 gennaio 1940 Sulla via del ritorno. Questa volta, partendo, ho avuto la sensazione di andare incontro a cose strane, ignote, prossime, che nessuna fantasia può indovinare. Non appena il treno si è messo in moto, Perpetua ha iniziato a piangere ed è scesa veloce giù per le scale scure, mentre io lentamente mi allontanavo dalla stazione. A Northeim ho visto il rosso del tramonto come una fioca brace sul grigio del cielo e sulla neve polverosa. Nel grigiore di simili deserti il colore si accende misteriosamente, quasi fosse un principio diverso e superiore. Spesso sembra infiammarsi negli atomi, come si vede nelle perle, nella madreperla e negli opali. Il grigio vi si accende e conferisce al colore una cangiante profondità – non è quella dello spazio, bensì quella dell’incanto, che porta in superficie i tesori nascosti nella materia. Su quest’immagine si fonda il pregio delle perle: vi sono punti in cui riconosciamo come inestimabilmente prezioso un pezzetto di materia della grandezza di un pisello. Karlsruhe. Stanotte, tra le due e le tre, in sala d’attesa, lettura delle Consolationes di Boezio. Le masse nella grande stazione – viaggiatori, dipendenti ferroviari, operai del primo turno, ubriachi anche, e donne solitarie, grigie, assonnate e sofferenti come in sogno. Davvero strano quando qualcuno di loro ride. Nella casa parrocchiale ho appreso che la truppa si è trasferita da ieri nel bunker. Breve sonno nella stanza fredda, poi partenza per Rastatt. Lo scompartimento per i non fumatori è sempre un po’ più vuoto – così, già solo 98

un’ascesi di rango inferiore crea spazio per l’uomo. A chi vive in santità si riserva l’infinito.

Capanna di giunchi, 31 gennaio 1940 Dopo una breve sosta nella casa parrocchiale di Stollhofen, torno a occupare con la truppa la vecchia postazione sull’ansa dello Schwarzbach, sicché sono di nuovo sistemato nella mia capanna di giunchi.

Capanna di giunchi, 2 febbraio 1940 Sogno. Immerso a metà in un corso d’acqua, allontanavo da me con due deboli giunchi una creatura in cui erano congiunti un corpo di ratto e una testa e una coda di serpe. Riuscivo a mantenerla in equilibrio, cosicché la corrente non me la spingesse addosso, ma di tanto in tanto se ne staccavano piccoli parassiti neri e scivolavano via molto vicini a me, formicolando con le zampe. Una randellata, infine, mi liberò da quella situazione: inferta con un tonfo da dietro le mie spalle, diede il colpo di grazia a quell’essere, scagliandolo bocconi giù per la corrente. Veniva da un contadino che se ne stava dietro di me in maniche di camicia sulla riva erbosa e mi guardava ammiccando benevolmente. Invece di ringraziarlo, gli voltai le spalle, dopo avergli urlato: «Don’t disturb me!» Svegliandomi ho riconosciuto quel che c’era di vero in quella scena, perché spesso nella vita mi è capitato di 99

partecipare tanto ardentemente alle situazioni che mi coinvolgevano da rischiare di dimenticare le avversità che esse recavano con sé. Ciò mi fa tra l’altro venire in mente mio fratello fisico, che una volta mi ha raccontato di quando, nel corso di una zuffa onirica, un colpo gli tolse la vita, ma la curiosità di sapere come andava a finire lo scontro non lo lasciò in pace nemmeno dopo morto. E siccome in quello stato gli mancavano gli strumenti sensibili per guardare, il suo spettro si mise dietro a uno dei sopravvissuti e, come approfittando della lente di un occhiale, guardò attraverso di lui. Sulla désinvolture. Si potrebbe ancora menzionare al riguardo la parola gracious, per la quale pure ci manca un termine corrispondente. L’abbinamento di potenza e grazia è per noi troppo raro per dare luogo a una parola appropriata, e per questa debolezza, in fondo, ci siamo giocati nel corso della storia tante buone occasioni. Ecco perché anche le eccezioni, come certi Hohenstaufen per esempio, sopravvivono nel ricordo come creature fantastiche. La mattina presto gli uomini hanno portato un capriolo che si era ferito malamente nel reticolo di filo spinato. L’animale stava in mezzo a noi, apparentemente senza timore, e tingeva di sangue la neve, e mi ha colpito la tranquillità, l’intelligenza anzi, con cui sembrava soffrire. Poi sono rientrato nella mia capanna per una telefonata e, quando sono uscito fuori di nuovo, la bestiola era già sventrata e appesa per aria allo steccato. Il portaordini, non 100

appena l’ho chiamato a rapporto: «Se lo avessimo lasciato andare, sarebbe stato qualcun altro a catturarlo e macellarlo. Almeno così ne abbiamo cavato qualcosa anche noi». Quell’«anche» contrapposto a quegli altri immaginari macellai mi è parso tanto azzeccato dialetticamente che ho lasciato perdere la cosa. Nel pomeriggio, in mezzo alla neve alta, verso Stollhofen. Sulla destra ho udito per la prima volta in questa guerra una sparatoria, che mi ha fatto pensare di cercare un riparo. Il fuoco diretto contro un singolo bunker risuona, nella vastità del paesaggio, quasi puntiforme e assai preciso. Si distinguono ritmi diversi – quelli rapidi, fugaci di un gruppo di mitragliatrici e, in mezzo, più lento, più forte e più roco, il lavoro dell’artiglieria pesante e perforante. A una certa distanza, come per gli incidenti d’auto, si fa appena caso a quanto è accaduto.

Capanna di giunchi, 3 febbraio 1940 Mattinata a Stollhofen, dal sindaco, per chiedere l’apertura della casa del custode sul Reno, che secondo la nuova suddivisione si trova nel mio reparto. Sulla via del ritorno mi è volato accanto un uccello sconosciuto, dal lungo collo sottile e dal lungo becco. Che certe bestie, come questa, ci paiano assurde, dipende da una distorsione prospettica e attesta la lontananza della nostra posizione da quella del Creatore. Analogamente le costellazioni, così come le vediamo, mi 101

paiono formare figure eccentriche, e credo ci siano punti nell’universo in cui diviene visibile l’armonia dei mondi nel loro supremo ordine.

Capanna di giunchi, 4 febbraio 1940 Ieri sera, con una bottiglia di Affentaler Klosterrebberg del 1921 che andava giù a meraviglia, mi sono preso, da bevitore solitario, la prima sbornia in questa capanna. Una delle migliori direi: di quelle che, quando ti svegli, ti senti più sano e soddisfatto. Tra l’altro, per tutta la notte, in una maniera leggera e piacevole, mi ha fatto scorrere visioni serene dallo sfondo colorato. Arti di tal genere sono una prerogativa del vino, e solo della più pura e migliore qualità, e anche queste sono chiavi che non aprono a tutti. Ne ricordo ancora uno simile, un Parempuyre che bevvi con papà, soprattutto però un vino locale, un bianco, leggero, che ci fece passare la nottata a Carcassonne e ci rasserenò fino all’ultimo atomo. Quando volli ordinarne una botte mi sentii dire che quella qualità perdeva il suo aroma già a poca distanza dal suo terreno di coltura. Un vino assomiglia dunque a un reperto archeologico, a un amico, per il quale bisogna darsi pena allorché arrivano quelle annate in cui non si può bere alla leggera.

Capanna di giunchi, 7 febbraio 1940 Continua il disgelo. Nel pomeriggio si è levata dal reparto vicino sulla sinistra una vivace sparatoria, di armi 102

automatiche, su tre tonalità diverse; si è riaccesa più volte. Colpi andati a vuoto cadevano in direzione di Greffern sulla nostra ala sinistra. È tempo che faccia ricoprire i camminamenti di raccordo, ormai completamente invasi dal fango, con delle fascine. Anche alla capanna non guasterebbe una cintura di sacchi di sabbia. Di notte giù in fondo si leva spesso una mongolfiera, con una luce che pare una stella rossa. Quando viene ammainata, a volte la navicella è illuminata da raggi provenienti dal suolo, le sentinelle del forte «Alcazar» hanno anche udito lo strepito dell’argano che la trascina. Ieri e oggi i francesi hanno mimetizzato la riva boscosa che ci sta di fronte con alte stuoie di canne. Certi segnali indicano così la fine dell’idillio in questo reparto. Lettura: Ludwig Devrient di Altmann, un regalo di Natale del fratello fisico, pieno di nuovi dettagli sul conto di Hoffmann e sull’ambiente attorno a Lutter e Wegener. Qui fiorì per pochi anni uno di quei rari circoli a proposito dei quali si può parlare di una cultura dell’ebbrezza, mentre in generale l’archetipo del luogo dove gozzovigliano i nostri beoni va piuttosto ricercato nelle cantine di Auerbach. Ecco perché il desolato Grabbe non rientra in questa cerchia. Vi si colgono anche idee significative sull’essenza dell’ebbrezza stessa – per esempio nell’osservazione hoffmanniana secondo cui, grazie al vino, non si creino tanto delle idee nel bevitore, ma si favorisca piuttosto in lui un rivolgimento repentino delle idee. Con ciò egli paragona la fantasia alla ruota di un mulino, che con l’ondata di piena si muove più svelta – il meccanismo si volge più brillantemente e più rapidamente se il beone vi versa sopra del vino. A ciò corrisponde anche la mia personale 103

esperienza – l’ebbrezza non assomma, moltiplica. Nelle rotture arriva addirittura a rimpicciolire. A proposito dell’arte retorica in uso in un’azione drammatica, l’autore, cogliendo nel segno, nota come si possa conferire un senso più elevato al linguaggio innalzando la parola al di sopra del suo significato fino a farne un veicolo dell’affetto. Per conto mio, invece, io direi che questo sia il senso più profondo della parola – con il suo puro significato fonetico, il linguaggio sprofonda giù fino all’alfabeto delle passioni. D’altra parte esso dispone anche di una sfera superiore, quella in cui la parola diventa per così dire insignificante – si dissolve nel puro etere. Essa si assottiglia e svanisce nei gradi estremi del sensibile e dello spirituale. Con la parola cogliamo solo la zona mediana; è la moneta che ha corso tra gli uomini. Ottimo anche riguardo all’espressione più vigorosa delle passioni, in cui gli accenti si trasformano mutando, per esempio, l’esternazione dell’orrore in quella di una gioia stravolta. A ciò corrisponde anche l’atteggiamento del pubblico, che allo spettacolo non concede come al solito il fragore dell’applauso, bensì attende, in silenzio e senza emozione, nella trepidazione dell’incantesimo. Secondo quanto si tramanda, in Devrient doveva sprigionarsi una forza che si manifesta soltanto con estrema rarità. Stilisticamente: «Succedeva anche che il gioco troppo marcato delle dita gli procurasse qualche critica». L’impressione di ambiguità viene qui resa a forza di enfasi, conferendo una sfumatura d’imprecisione tanto alla frase principale quanto alla subordinata, così che la doppiezza dell’illuminazione crea un’ambiguità logica. Quando cita Terenzio, a pagina 186, traducendo così: 104

Und so, ein Gläschen nach dem andern schlürfend, soll mir gemächlich dieser Tag vergehe5 la frase participiale non è introdotta da un soggetto grammaticale. Difficilmente si noterà un errore simile, non dovrebbe però comparire in un buon testo. Devrient divenne famoso anche per il fatto che gli a parts si intendevano davvero pronunciati per sé, e non per gli spettatori. Questa è, in effetti, non solo una distinzione dei mimi, bensì di tutti gli artisti di classe. Le parole e le opere sono colloqui e soliloqui che l’uditorio origlia. Il ruolo del pubblico è diverso da quello che gli assegna la grossolana apparenza – esso offre solo il pretesto per il dispiegamento delle forze dell’arte e non ne è affatto il destinatario. Il suo compito è tuttavia significativo, non fosse che in qualità di testimone.

Capanna di giunchi, 12 febbraio 1940 Poco fa, mentre me ne stavo disteso sulla branda guardando il soffitto di canne, mi è venuto in mente il giorno in cui mi fermai a Segesta con il Magister. Non fu tanto la visione delle colonne del tempio a farmi presagire quel che erano i greci – lo vidi, piuttosto, guardando attraverso di esse, verso le nuvole, mentre ero là in piedi sulle sue gradinate. È così che si deve leggere anche la prosa: come attraverso una grata.

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Capanna di giunchi, 13 febbraio 1940 Nelle ore del mattino fa freddo nella mia capanna. Sebbene sia disteso dentro il sacco a pelo, sotto tre coperte e il mio cappotto, il gelo mi scende giù a tastoni lungo il corpo fin dentro le vene e, dopo una fase di torpore agitato, accendo la candela che sta sulla mensola. Il suo bagliore si riflette sul tetto intrecciato con le lunghe canne gialle che crescono qui nell’umidità del bacino e sull’orlo del laghetto. I loro fusti seccati, alti e nodosi, vengono impiegati in questa zona in tante e tali maniere diverse da conferirle inevitabilmente un’impronta e una tonalità. Sono utilizzati soprattutto per mimetizzare le strade e i sentieri di marcia, schermati e al tempo stesso resi visibili da lunghi paraventi. Anche le rive del Reno sono protette su entrambi i versanti da simili cortine di canne. E infine gli steli slanciati servono a guarnire le pareti e i tetti di tutte le costruzioni che non siano, come i bunker, destinate esclusivamente al combattimento – le latrine, i posti di guardia delle sentinelle, le capanne in cui gli uomini si lavano, cucinano, ripuliscono le armi e che, come nidi, o come intrecci di foglie, sono precariamente attaccate al cemento degli edifici. Se i bunker e i recinti di filo spinato spiccano con la loro pesantezza plumbea nel paesaggio invernale, le fasce gialle e le capanne vi aggiungono un particolare tratto di libertà. Così potrebbero essere popolati i mondi abitati da uccelli intelligenti. Accanto alla candela c’è sempre un libro, che leggo ancora per un poco, di solito è la Bibbia, in questi giorni è Boezio. Altri libri, tra cui prescrizioni sulle sparatorie e i combattimenti, sono accatastati sullo scaffale di legno che si 106

allunga sulla parete fino al tetto di canne. Appena sopra al giaciglio, appese a dei chiodi, ci sono la pistola, la maschera antigas e il cannocchiale. L’unico altro decoro esibito sulle assi grezze è una mappa della postazione. Resta da menzionare solo il tavolo, fittamente ricoperto di carte e di fogli, vicino a questo una cassapanca e il telefono, la valigia e la piccola stufa, nel suo angolino annerito dalla brace. Lì accanto vanno essiccandosi dei corti rami di ontano che mi sono fatto tagliare sullo Schwarzbach. Sono di un legno splendente, venato di chiaro e tinto di giallorosa sulle incisioni. Il calore della stufa ne trae un aroma che risveglia il ricordo di torride ore estive nelle paludi. Poco prima delle otto entra Rehm e accende il fuoco. Poi versa l’acqua e mi porge il necessario per lavarmi e per radermi, sempre con molta attenzione e sempre un attimo prima di quando mi occorrano, come se partecipasse a un rituale solenne. Intanto quel che resta dell’acqua incomincia a bollire e servirà per l’infusione del tè. Segue la colazione, con panini e burro arrivati dal villaggio di Greffern; subito dopo, le prime incombenze della giornata. Leggo dunque il rapporto degli ufficiali e dei sottufficiali del servizio di leva mentre si accomiatano i soldati destinati alla licenza o al comando dei lavoratori. Accanto alla capanna di giunchi c’è una seconda costruzione, che le assomiglia, dove si reca a lavorare il comandante della compagnia comando quando la mattina esce dal bunker. A mezzogiorno giunge qui da Stollhofen il maresciallo del plotone, con gli ordini e la cartella dei documenti per la firma. Durante la colazione, Rehm ha scostato la tenda dalla finestrella; guardo fuori, come ho fatto spesso nella mia vita, 107

l’intreccio e gli spuntoni del reticolato che, con il materiale esplosivo e le schegge rientra fra i simboli del nostro tempo. Più in là, sullo sfondo, brilla la cupola del campanile di Stollhofen, e se mi chino per accostarmi al vetro riesco a scorgere anche la chiesa di Schwarzach, un possente edificio rosso bruno che si trova alle nostre spalle. Sembra imponente per un paese tanto piccolo, ma ciò si spiega con il fatto che siano i resti di un monastero distrutto tanto tempo fa. A volte, quando ho qualcosa da fare a Schwarzach, salgo oltre ambienti deserti e attraverso un intrico di scale fin sopra il campanile, dove sta in osservazione la batteria di guardia assegnata al mio reparto. È molto piacevole lassù; una stufa elettrica riscalda la celletta della torre dove, sulle pareti, sono appese traiettorie di tiro, piani di fuoco e tabelle, e da cui, attraverso le feritoie, nelle giornate limpide si riesce a vedere il duomo di Strasburgo. Di regola si fanno le dieci, o anche più tardi, prima che incominci il giro di perlustrazione attraverso la postazione. Incomincio dopo aver ispezionato il bunker di riserva oltre l’accesso al ponte degli Elefanti sull’ala destra. Le guardie e i comandanti mi fanno rapporto nella maniera prescritta, e a volte entro con un’intenzione precisa in uno degli stabili. Così, ora controllo se le granate a mano sono sistemate al loro posto, ora se le porte si chiudono ermeticamente, se le armi sono puntate verso gli obbiettivi indicati dagli ordini e se il diario del bunker viene compilato quotidianamente secondo lo schema stabilito. In questo modo, al di là dei bunker dei comandanti di plotone, arrivo fino al fortino numero III con le sue due torri e, di là, al grande complesso fortificato «Alcazar», che si trova quasi sull’ala sinistra. 108

Durante la perlustrazione si presentano a rapporto i comandanti dei genieri e degli operai assegnati al reparto, come pure i due sottufficiali cui sono affidati in particolare i lavori di fortificazione e la sorveglianza del nemico. Poiché la riva che sta di fronte è fittamente boscosa, c’è ben poco da vedere dei francesi, a eccezione di una postazione avanzata che tra di noi chiamiamo «la grande mimetica». È una costruzione di cui non ci sono chiare forma e dimensione, perché si nasconde completamente dietro pesanti stuoie e fronde di abete. Ma è ben guarnita, come si può dedurre dalle sentinelle che si mettono in mostra senza timore; al di sopra delle mura verdi salgono vorticando anche nuvole di fumo da tabacco. Infine, possibilmente verso mezzogiorno, mi riservo ancora di passare dalla cucina, che si trova nella dogana di Greffern. Qui va esaminata la conservazione, la bontà, la preparazione e la quantità del cibo, il che a volte richiede un certo tempo. Prendo poi la via del ritorno lungo la trincea «Toledo», che dall’«Alcazar» porta fino al posto di comando attraverso i campi aperti. La strada è deserta, dato che in parte si insinua attraverso prati allagati dove si è costretti a cercare il sentiero a tentoni con gli stivali di gomma. Eppure è il tratto del giro che preferisco, e considero la mezz’ora che vi trascorro come una mia personale proprietà. È l’unica che mi posso godere in perfetta solitudine, e ha qualche somiglianza con la mia vita degli anni passati. Allora torno a tessere i piani che mi furono stracciati. Questo percorso, con la sua mutevole vegetazione, invita all’esercizio di raccogliere i pensieri in un ordine provvisorio per poi tornare a disperderli. Corre lungo vecchi pascoli su 109

cui i tronchi cavi sono mezzo nascosti tra le canne ingiallite, e sbocca qua e là nei campi non mietuti di granturco e di tabacco. Queste colture si alternano alle piante alte e rinsecchite dei topinambur, che il popolo chiama patate da grappa, le cui radici, divaricate come dita, sono impiegate come foraggio. Stessa destinazione hanno certe grosse rape bianche, che su quella fetta di buccia che affiora dal suolo, si arrossano alla luce del sole. Prima però si raccolgono le loro foglie verdi, che vengono ammucchiate sul posto in piccoli covoni che in inverno vengono via via svuotati secondo la necessità. A volte indugio per osservare con l’ausilio del mio buon binocolo la fauna dei campi deserti. La pavoncella svolazza stridendo ai margini dei tratti allagati, mentre sugli isolotti emersi vegliano stormi di corvi neri. Nell’intrico di ostacoli che, come un labirinto snodato su più file, seguono il fronte, e si intrecciano fino in alto con l’erba secca, hanno nidificato le starne e i fagiani; frullano via di fronte al passo del viandante. L’aspetto del maschio del fagiano è magnifico. Spunta come la bambola di un carillon nel suo splendore di metallo variopinto, con il lungo strascico della coda ondulato dal vento. Anche i caprioli appaiono nel folto degli ontani sul terreno lambito dallo Schwarzbach, mentre dalle cime nude dei pioppi sbirciano gli uccelli rapaci. Sembrano spiare soprattutto le talpe, costrette dall’acqua alta a costruire a fior di terra le loro tane. Sono perciò talmente a buon mercato che i predatori ne estraggono col becco solo le interiora, disdegnando il piccolo costato rosso rimasto a brillare al sole sulle colline abbandonate. Attraversando il ponte mediano sullo Schwarzbach, ritorno al posto di comando. A quest’ora Rehm mi sta ormai 110

cercando, e quando apro la porta della capanna la zuppa già mi aspetta fumante sul tavolo. Di solito c’è della pasta, orzo, cavolo bianco, del navone oppure del riso, se va bene lenticchie, gulasch o una fetta di carne. Poiché al comandante della compagnia comando, un ispettore forestale, accordo il permesso di cacciare nel territorio del reparto, a volte nella nostra armeria è appesa anche della selvaggina, che ci riserviamo per piccole festicciole. Il pomeriggio di solito trascorre tra piccole pratiche di servizio e scartoffie. A volte la capanna di giunchi si trasforma anche in un tribunale, per penosi processi a lume di candela. Sono sempre le solite cose: licenze prolungate indebitamente, fughe senza permesso nelle taverne del villaggio per sbevazzare o cercare ragazze, infrazione degli ordini di guardia. La guerra dei nervi mette i soldati in una condizione di mancanza di libertà in cui già solo il trascorrere del tempo è percepito come una pena. Non appena il singolo cerca di sfuggirgli, finisce per mettersi nei guai. Certi pomeriggi mi concedo anche il piacere di un buon caffè, che alcuni amici mi forniscono in porzioni finemente macinate. Sul davanzale della finestrella, fringuelli, cinciarelle e fanelli becchettano le briciole della cucina che una topolina rosso ruggine si premura di racimolare. Abita nelle pareti della capanna rinforzate da un intreccio di vimini e ogni volta che rientra nella sua tana è accolta dai suoi piccoli con delicati fischi gioiosi. In altri punti dell’intreccio si aggirano le talpe, che Rehm chiama «i criceti» – scavatori che si muovono sgomberando carichi che producono un rumore che sembra di gran lunga travalicare la forza di bestioline tanto piccole. 111

Poi arriva l’ora gradita in cui, con il boccone serale, mi si porge anche la posta in arrivo da fuori. Rientrano anche gli uomini del reparto spediti a turno a fare il bagno a Schwarzach – di solito sono un po’ alticci, ma il disordine è regolare visto che, dopo un bagno caldo, è prescritta dagli ordini della compagnia una capatina in un’osteria, per prevenire i raffreddori. Per la cena Rehm accende delle candele, che diffondono un piacevole profumo. Segue poi un prolungato affaccendarsi tra i libri poiché, al di fuori della corrispondenza, la lettura resta l’unico degli impegni abituali che si può continuare a coltivare qui. Nelle prime settimane avevo cura di bere del tè, come a casa, a quest’ora, ma ho notato con l’esperienza che, vivendo così a contatto con la terra, va meglio il vino rosso. Ho scoperto in questo modo il Borgogna tedesco, verso il quale, come pure verso il caviale tedesco, nutrivo un pregiudizio negativo e ingiustificato. Nelle sue annate migliori, nelle zone e nelle colture propizie, acquista uno spirito capriccioso cui le alture meridionali non sono capaci di dar vita. Naturalmente anche queste ore, come tutte le ventiquattro della giornata, rientrano nel servizio e l’ozio sembra quello del ragno al centro della tela. E così, non appena in qualche punto del campo si verifica un movimento o si nota qualche cosa, il telefono incomincia a suonare. Verso le undici arrivano i messi dei plotoni e a mezzanotte partono le comunicazioni mattutine al battaglione. Il giorno è così concluso, a meno che non segua ancora un ultimo giro notturno d’ispezione nel reparto. 112

Finito: le Consolationes di Boezio, che avevo iniziato a leggere nella stazione di Karlsruhe in mezzo agli ubriachi. Il culmine dell’opera sta nella correlazione tra libero arbitrio e predestinazione divina – Boezio, però, assegna il libero arbitrio al tempo e la predestinazione all’eternità. Dacché viviamo in entrambi, regoliamo ogni nostro atto in piena libertà, tuttavia ognuno di essi è nel contempo predeterminato in ogni dettaglio. In tal modo colui che agisce dispone di due qualità, delle quali l’una è infinitamente superiore all’altra. Nei quadri superiori possiamo muoverci come vogliamo, eppure restiamo presi dentro di essi. In ogni cosa, come un condimento, è al tempo stesso prodigiosamente presente l’eternità. Tale visione è uno dei punti, uno dei capi del promontorio, che il pensiero umano è stato in grado di raggiungere. Kant traccia le distinzioni teologiche secondo la logica; la sua verità, che macina ogni cosa, è dunque una riproduzione della verità per eccellenza. In fondo non esistono verità nuove – la novità è in tal senso una qualità contraddittoria. Certe relazioni mi sono parse chiare anche leggendo Tolstoj – soprattutto la stupefacente prefazione a Guerra e pace. Tolstoj vi analizza il fatto che l’uomo, come singolo, prende in piena libertà le sue decisioni, le quali tuttavia rientrano in una rigida statistica. Così per esempio il numero dei suicidi si mantiene più o meno identico nel corso degli anni, cambiano solo le cause. Quanto maggiore è il numero delle libere decisioni che si assommano, tanto più la libera volontà scompare in quella somma. Ciò, per converso, permette di concludere che nel libero arbitrio del singolo si cela un fattore incognito che si manifesterà nelle risoluzioni 113

della specie. Secondo Tolstoj il libero arbitrio che ci è assegnato è poi tanto minore, quanto più è decisiva la posizione nella quale agiamo. Per quanto concerne d’altra parte le Consolationes di Boezio, credo che il dolore non possa esserne in alcun modo diminuito. Dobbiamo gustarlo fino in fondo. Se però il dolore, nei circuiti vitali inferiori, possiede una potenza caotica, al contatto con l’essere più elevato e nobile acquista invece la sua forma. La consolazione lo chiude in una gabbia dorata, o meglio: lo pone su un altare dotato di un valore più alto di tutti i mali che la breve vita di un uomo può patire. La consolazione offerta da Boezio sortisce dunque il suo effetto ancora oggi; e tale effetto nel tempo è solo un riflesso del superiore guadagno che la poesia promette così bene nel verso: «O terra sconfitta, donaci le stelle».

Capanna di giunchi, 14 febbraio 1940 Di notte, meno diciotto gradi. Sebbene fossi disteso sotto le coperte vestito, e con uno scialle attorno alle orecchie, verso le quattro mi sono alzato rabbrividendo e ho acceso il fuoco nella capanna. Appena prima, mi trovavo in un magnifico negozio dove, come in certe pescherie della Chiaja di Napoli, si vendevano delizie marine, come tartarughe, coralli e ostriche. Ero entrato nel reparto paleontologico, dove le vetrine di cristallo proteggevano fossili preziosi, capolavori della natura – su di essi gli eoni avevano lavorato di cesello. Vi erano esemplari magnifici – sul velluto blu, accanto a pesci 114

di metallo verde e violetto, erano disposti trilobiti d’oro puro, e conchiglie dalla lunga nervatura rilucevano in un radioso splendore d’iride. Accanto a me c’era il principe Pignatelli, in cerca di piastrelle di marmo rosa per la sua casa di città. Le sceglieva dello stesso colore di quelle che adornano lo zoccolo delle colonne bronzee del Bernini nella chiesa di San Pietro, e in ognuna di esse doveva essere racchiusa una vena di quarzo della forma di uno stelo di crinoide. Mentre egli raccoglieva le sue mattonelle come pedine di un domino, io ressi tra le mani una Loligo sottile, che pareva una freccia di marmo del colore di una rosa tea. L’eccezionalità dell’esemplare stava nel fatto che le chiazze rosso-purpuree con cui l’animale si adorna per mimetizzarsi da vivo e che scoloriscono nella morte, come pure l’iride verde dei suoi grandi occhi, fossero visibili, trasformate in pietra. Eppure esitavo ancora, incerto se preferirgli la corazza di un coccodrillo che si era mineralizzata in una giada verde pallido. La pietrificazione era riuscita con una tale arte che ogni scaglia sembrava il dentello di una cerniera e, sollevando la sua corazza, risuonava un tintinnio argentino. Ero nell’imbarazzo della scelta quando il gelo mi ha svegliato. E sedendo come la Cenerentola tornata dal ballo di fronte al mio focolare mi sono detto: «Tu partecipi a feste simili notte dopo notte, e solo qualche volta un risveglio improvviso te ne concede una visione». Ho aggiunto anche: «La nostra ricchezza è immensa, perché abita dentro gli atomi. Scendiamo giù come in un pozzo dentro le nostre profondità, nei nostri recessi di miniera».

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Capanna di giunchi, 15 febbraio 1940 Sulla parete della capanna di giunchi, accanto alla stufa, mentre sfoglio il registro: una figura grigia, levigata come pelle d’asino, costituita da un collo di serpe piegato ad arco sulla sua estremità recisa e da una testa di serpe che, appena sopra la punta della mascella dentata, termina in un teschio umano. È mezzo appesa al muro con un grosso chiodo per l’estremità della nuca e mezzo incollata come con un morsetto. Dal collo, come pure dal mento, pende il lembo di una pinna; si intuisce che quella cervice ha sorretto un corpo singolare e sconosciuto. Poiché non ho mai visto niente di simile così da vicino, né così desto, né così nitidamente, ne tratteggio all’istante un disegno su un blocco per gli appunti che ho a portata di mano e, nel farlo, mi imbatto in dettagli anatomici sottili e significativi, che sfuggono alla mia matita fuori esercizio. Mi balzano all’occhio anche i tratti del dolore – meccanici, sordi, concentrati in se stessi, come è proprio di simili creature. Poi mi avvicino di più, e il tutto si trasforma in uno straccio di lana grigia appeso al chiodo vicino alla stufa, messo lì per pulire le scodelle.

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Capanna di giunchi, 22 febbraio 1940 Ieri, la notte precedente il cambio turno, c’è stato il primo attacco contro il reparto. Dapprima ho udito nel dormiveglia spari isolati ed esplosioni che mi sono parse sospette, poi ho appreso da una telefonata ai comandanti del plotone che si trattava di una rappresaglia alle porte di Greffern. Subito dopo, il comandante del grosso complesso fortificato «Elefant» mi ha comunicato di essere stato colpito, e mi ha chiesto il permesso di rispondere al fuoco. Gliel’ho accordato, stabilendo il limite di un centinaio di colpi. Ha avuto così inizio il concerto nel reparto, cui ho preso parte dapprima in sogno poi sempre più desto, finché è venuto il momento in cui mi pareva ora di sgusciar fuori dal pigiama e di alzarsi dal tiepido giaciglio. Non mi ero ancora vestito quando il telefono è squillato di nuovo e dal plotone di sinistra mi è stato comunicato che il fuciliere Walter della postazione 3 aveva riportato una ferita alla testa. In tutta fretta mi sono messo in cammino con il comandante della compagnia comando e con un barelliere. La notte era rischiarata dalla luna, e la pianura allagata era gelata e attraversata da praticabili strati di ghiaccio che si stendevano bianchi nel chiarore della luce. Più avanti, accanto all’argine di piena, ho visto fiammeggiare la vampa degli stabilimenti, e ho udito anche il fischio stridulo della scarica che proveniva dall’interno. Soprattutto mi ha stupito il fascio di luce che fiancheggiava la diga sulla destra e che, percorrendo una traccia luminosa, correva vicino all’«Alcazar». Ho capito così che i francesi avevano studiato 117

per bene il reparto. È un genere di attenzione che si rende visibile solo nel risultato. Nel bunker del plotone «Limburg» ho trovato il ferito che, già bendato, era disteso su una branda. La fasciatura era già inzuppata, e l’uniforme impregnata di sangue. Dal braccio colava un altro rivolo di sangue, giù fino agli stivali. Giaceva così, come estratto dalla robbia, come un ritratto dell’orrore, in silenzio, e girato verso la parete. Non ho permesso che fosse disturbato fino all’arrivo dell’ambulanza. Il mattino dopo ho saputo dal medico che lo aveva fasciato che c’erano prospettive di guarigione, e che la grossa emorragia era dovuta alla recisione della temporale. Ho disposto che la postazione dalla quale il fuciliere era stato colpito fosse coperta dal fuoco, poi ho raggiunto il forte, dove ho visto gli uomini diligentemente seduti accanto alle loro armi. Dopo aver fatto rapporto, verso le quattro mi sono diretto di nuovo alla mia capanna.

Karlsruhe, 24 febbraio 1940 Nella notte del 23 febbraio ci siamo allontanati dalla posizione, e abbiamo pernottato a Rastatt, uno dei punti cruciali di questo fronte sull’alto Reno. Nelle due notti successive abbiamo poi proseguito la marcia fino a Karlsruhe, sempre nel chiarore della luna piena che faceva brillare in lontananza le cime della Foresta Nera. Strani i colori in notti come queste – colori lunari, quasi solo il presagio di un colore. Li si vede solo se li si cerca. Ma sono tante le cose del mondo che si percepiscono solo se le si conosce. E ce ne sono altre che non si vedranno mai. 118

Alloggiamo qui nella caserma forestale, dove occupo un comodo appartamento nel reparto della mia compagnia.

Karlsruhe, 25 febbraio 1940 L’inquieta ricerca del soprasensibile e di segni visibili provenienti dalle sue sfere tradisce gli adepti di rango minore – ignari della potenza dello spirito che, come l’etere, tutto pervade e anima. In tal senso gli spiritisti hanno superato tutti. Se, come costoro, aspettandosi visitazioni soprasensibili si comincia con l’acuire i sensi fino all’estremo, si finirà per ricordare quel fisico che vuol mettere una fiamma sotto vuoto per studiarla in assenza di aria. In simili precauzioni si finisce per cadere solo quando si creda di godere della massima sicurezza. La fede è, come l’ossigeno, qualcosa che sopraggiunge. Ecco perché i miracoli non accadono a chiunque, né dappertutto. Il roveto ardente.

Karlsruhe, 28 febbraio 1940 Per certe cose in questa vita servono catalizzatori – così per esempio, se si vogliono conoscere ragazze leggere, serve un compagno alla buona. Nel pomeriggio ho udito per la prima volta la mia voce,

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grazie a una registrazione di guardia. Con mia meraviglia aveva esattamente quell’intonazione da schizzinoso e inveterato intellettuale di Hannover di mezza età che da sempre mi suona sgradita. Ci conosciamo davvero poco. Stasera ho inaspettatamente ricevuto la nuova raccolta poetica di Friedrich Georg, Der Missouri, che ho subito letto e riletto più volte con sempre maggiore divertimento. Rinnovata, e ancora più intensa che nel Taurus, l’impressione di una forza elevata, inarrestabile. Lo spirito della patria vi si prolunga come il raggio di luce sulla sua retta. Ho interpretato come positivo, nel senso di un crescente risanamento, il volgersi dal secco all’umido – dalle scogliere di roccia riarsa dove si contorcono le serpi, al grande fiume. Molto bello che, in tutto ciò, la misura non si allenti, che diventi anzi più rigorosa, seppure più misteriosa, segretamente cristallina.

Karlsruhe, 1º marzo 1940 Il clima è un po’ più tiepido, ma c’è ancora la neve nelle radure del bosco e il gelo resta nascosto nelle profondità del terreno. Di notte poi risale fuori di nuovo. È stato un inverno tale da risvegliare una più acuta nostalgia della primavera, come quello tra il 1928 e il ’29, durante il quale partii per Marsiglia e per le Baleari. Di ritorno dalle esercitazioni, cavalcavo attraverso un querceto dello Hardt e pensavo a mezza voce: «Questo sarebbe il pascolo ideale per un picchio nero». In quel momento, come nato dai miei pensieri, per la seconda volta 120

in vita mia, vidi l’animale, con quel suo ciuffo rosso ardente, uscir fuori ondeggiando in volo dalla cima rinsecchita di un albero. L’ho preso per un miracolo, per una mia creatura – simile alle cose che, in sogno, ci si avvicinano mentre le pensiamo. Eppure mi è successo tante volte nella vita, con i fiori, gli animali, perfino con gli uomini. Corrisponde anche al livello più elevato, al fascino inaudito, della caccia agli insetti, e tutto l’apparato di erudizione che l’accompagna non è che un accessorio in più. Ogniqualvolta ci afferra potentemente il sentimento dell’armonia, ecco che i dettagli, le ultime pennellate, scaturiscono come per incanto. È così soprattutto per l’attimo della felicità. Le cose sono intonate; il mondo è accordato. E allora dipende solo da noi pronunciare l’«Apriti Sesamo!» che ci dischiude il tesoro.

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Karlsruhe, 10 marzo 1940 Per un’arte della fortificazione erotica: evitare soprattutto quel tipo di fortezze complicate in cui i fortini esterni cedono al primo assalto, mentre la cittadella resta inespugnabile. Nella notte ho sognato un evento del tutto privo di senso, e intanto udivo una voce che diceva: «Come può accadere una cosa simile, se non se ne dovrà ricavare qualche insegnamento?» Non è sbagliato, sempre che il cosmo, in una delle sue prospettive, riveli un ordine meramente pedagogico.

Iffezheim, 17 marzo 1940 A Iffezheim, in qualità di comandante della compagnia di riserva. Le belle giornate di Karlsruhe, in cui si viveva come vive il soldato nelle retrovie, sono passate. Come responsabile di una spedizione in trasferta, sono riuscito a fare una sosta di un giorno a Kirchhorst, da Perpetua, i bambini e Friedrich Georg. Com’è preziosa la possibilità di rivedersi, anche se tanto brevemente – preziosa quanto la conferma di essere vivi nel cuore dei propri cari. Poi una tappa a Friburgo, una perla tra le città, dove ci è permesso di sognare. A un tavolino del «Falken» ho brindato in silenzio a Erasmo, uno spirito che si sottovaluta

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con leggerezza in tempi sicuri. Tra l’altro sto incominciando a familiarizzare con il vino rosso tedesco; mi sembra che sappia dischiudere i recessi più sottili, più segreti, della fantasia. La cameriera della piccola locanda alemanna dove ho pranzato due volte – una creatura di cui mi piace sentire la vicinanza. Le donne lo notano anche senza parole e sguardi. A fine pasto, ha tolto la bottiglia dalle mani del cameriere, che stava per portarla via – un bel gesto, conforme allo spirito del suo stato: «Mi riservo di occuparmi io di questo servizio».

Capanna nell’Auwald, 28 marzo 1940 Da un paio di giorni risiedo nel mio nuovo posto di comando, una capanna di legno al centro di una radura nella cinta boschiva dell’Auwald che circonda il Reno e i bracci d’acqua morta di fronte a Iffezheim. Passerelle sopraelevate conducono ai bunker di combattimento sulla riva del fiume. Di notte è ancora fresco, risuonano tuttavia i gracidii dell’ululone negli stagni nel bosco. Dai cespugli d’ontano risuona il chiocciare rapido, meccanico del fagiano maschio in calore, e nella fascia del canneto echeggiano i frullii delle anatre e i richiami striduli delle gallinelle. Ci sono anche grigi aironi che pescano sulle banchine di sabbia. Vicinissima alla mia capanna, una lepre protegge i suoi due piccoli nella tana, li ripara con le foglie dal vento feroce. Subito dopo il mio arrivo a Iffezheim un’influenza mi ha costretto a letto. Mi sono giovato di una potente cura del sudore. Molto efficaci sono state anche le cure del dottor 123

Eiermann e della sua consorte, presso i quali mi ero acquartierato. La malattia pone domande alla nostra forza vitale; e noi rispondiamo aumentando i nostri segnali di vita, quali il flusso e la temperatura del sangue, o la forza dello spirito, che con la febbre diventa tropicale. Significativi sono anche gli sforzi labirintici che ci vedono impegnati nel delirio onirico febbrile; andiamo cercando a tastoni i tesori nascosti della salute. In fondo quel che si verifica è una prova del cuore. Letture della convalescenza: Moltke, Gespräche («Dialoghi»), appena pubblicati ad Amburgo. Di spiriti simili colpisce soprattutto la parsimonia, fisiognomicamente visibile nelle labbra sottili. Se si vuol paragonare l’antica cavalleria a un cristallo ricco e finemente ramificato, qui si rinuncia e si risparmia allora ogni decoro. Eppure restano intatti gli assi e le coordinate principali; ecco perché uomini tanto asciutti sono circonfusi d’un mitico splendore. Com’è tenera la sua compassione per l’avversario sconfitto, per Napoleone e Benedek. Nelle gerarchie assolute, il suo rango è più elevato di quello di Bismarck, che era fuso in una lega certo più preziosa, ma comunque ibrida. A costui era più prossimo lo spirito del tempo, e poteva perciò ripagare il nemico con la stessa moneta, una daga di metallo puro invece poteva darsi soltanto nell’esercito e nelle antiche unioni feudali. Ho poi sfogliato diversi fascicoli dell’«Atlantis», una rivista davvero ben riuscita in certe annate, che mi ricorda il buon vecchio «Pfennig-Magazin» letto, anche allora febbricitante, in Norvegia, da Celsus. Da un articolo sulla Cina ho tratto alcune sentenze che mi andavano a genio: 124

«Se uno tiene la bocca chiusa, le sue parole diventano proverbiali». «Non puoi rivolgerti, dall’oceano, a un ranocchio dello stagno.» «Uno che cavalca una tigre, non può più smontare.» Infine ho letto l’ultimo libro di Henry de Montherlant, che è migliorato molto. Lo annovero, insieme con T.E. Lawrence, Saint-Exupéry e Quinton, tra i membri di una ristretta, ma elevatissima cavalleria costituitasi durante la Guerra mondiale. Solo quando le braci si raffreddano saltano fuori diamanti dal nero fiume di carbone.

Capanna nell’Auwald, 29 marzo 1940 La mattina di questo quarantacinquesimo compleanno il sole splendeva bellissimo nel rado boschetto di pioppi. Come sempre il primo a entrare nella capanna è stato Rehm, mi ha fatto gli auguri e ha sistemato dei fiori e delle arance sul mio tavolo. Poi mi sono vestito e ho letto, alla finestra aperta, il salmo 73. Dopo colazione sono andato sotto i pioppi, dove il cornista suonava il benvenuto mentre la truppa della compagnia mi aspettava sull’attenti. Il suo comandante, il sottufficiale Fasbinder, mi ha consegnato una bottiglia di vino rosso, con il collo adorno di una ghirlanda di viole. Poi sono arrivati Spinelli e il maresciallo; l’uno mi ha fatto gli auguri a nome degli ufficiali, l’altro a nome della compagnia. Mi hanno donato un pugnale d’avorio. Poi, come al solito, ho fatto un giro per la postazione e, tornando indietro, ho incontrato il colonnello, i medici e i 125

comandanti del reparto vicino, che ho invitato offrendo loro liquore, sigarette e dolci. Erano arrivate lettere e pacchetti, così che la capanna aveva un’aria davvero festosa. Più di tutto mi piaceva un diario rilegato in pelle granitata, cucito per me da una lettrice e ornato dal simbolo del cuculo rosso, che è uno dei miei animali araldici segreti. È giunto così un mezzogiorno sereno. Con il caffè ho pensato di tagliare, in compagnia di Spinelli, la grande torta che il tenente colonnello Vogler mi ha fatto arrivare in dono da Baden-Baden, e stavo giusto per alzare il ricevitore del telefono quando nell’Auwald ha iniziato a rimbombare il rumore martellante di una mitragliatrice pesante. Subito dopo è stata richiesta un’ambulanza dalla postazione 47; mi sono fatto perciò portare una bicicletta per andare a vedere che cosa stesse accadendo. In quella postazione c’è un cannone difensivo sistemato dietro un panzer troppo leggero, già colpito di recente da alcuni proiettili che avevano lasciato le loro tracce sullo scudo di protezione. Ho incontrato il comandante, il sottufficiale Neumann II, che si trovava con i suoi uomini sul piazzale di fronte al bunker, e ho ascoltato il suo rapporto. Era andata così: poco dopo mezzogiorno un brigadiere e un caporale erano giunti dal vicino osservatorio d’artiglieria, entrambi nuovi del posto. Il brigadiere aveva espresso il desiderio di fotografare il muro frontale del bunker, disseminato di spari e, senza ascoltare il monito del sottufficiale, si era arrampicato, seguito dal caporale, sul terrapieno del rifugio, fino alla riva del Reno. In quello stesso istante, era partita dall’altra parte, dal fortino «Reno rosso» dove sono appostati dei tipi furibondi, una scarica di mitraglia, che aveva atterrato i due artiglieri sul pendio 126

verde, visibile in lontananza. Uno dei due ancora gridava, da parte dell’altro non si udiva più nulla. Dopo aver dato un’occhiata al posto, ho deciso di recuperarli entrambi, il che ovviamente era impossibile lungo il sentiero che avevano preso. Bisognava invece tagliare un largo reticolato che correva a sinistra del bunker, di modo che tutta l’operazione restasse mascherata da una striscia di erba secca che cresceva tra gli alberi sulla riva. Nel frattempo era arrivato anche Spinelli, e abbiamo seguito gli uomini che, strisciando, facevano strada finché, dopo una buona mezz’ora, è stata aperta una via. Tra gli alberi erano ancora appese delle stuoie mimetiche di canne ingiallite, che riparavano alla bell’e meglio dagli sguardi, poi, per raggiungere i due corpi stesi a terra, si dovevano percorrere ancora più o meno quindici passi. Il fortino corazzato «Reno rosso» distava circa quattrocento metri. D’accordo con Spinelli, che non è soltanto un viaggiatore astuto e dotato di fiuto, ma anche un sottotenente piuttosto sveglio e un ottimo braccio destro, ho deciso che avremmo percorso quel tragitto; mi sentivo pronto per farlo. Anche Spinelli era dell’umore giusto, e mi ha preceduto a grandi passi fino al limite della protezione mimetica. Mi accingevo a seguirlo quando dietro, sul sentiero, è apparso il sottotenente Erichson, del quarto reparto, chiedendomi eccitato di potersi unire a noi, perché «non aveva mai fatto niente del genere». Mi sembrava che la squadra fosse già al completo, e l’ho dunque incaricato di guardarci le spalle, tenendo d’occhio la feritoia del fortino. Poi ho raggiunto alla svelta Spinelli sul pendio verde. Qui ho visto il caporale a terra; l’ho afferrato, sentendo che era ancora caldo. Le sue membra erano tuttavia già un poco irrigidite. Il brigadiere 127

gli stava accanto; mi ha urlato che lo avevano preso solo di striscio, e che altrimenti era illeso. Allora gli ho ordinato di afferrare il morto per la testa, mentre Spinelli lo teneva per le gambe e io per il cinturone. In quest’ordine abbiamo fatto alcuni passi, dopodiché ci ha avvolto, fischiando e rintronando, il fascio dei proiettili d’artiglieria pesante sparato dal forte. I colpi sono esplosi attraverso il fitto dei pioppi, hanno colpito il bunker di schianto, sono guizzati ronzando attraverso il reticolato e hanno scavato solchi nel verde del suolo. Ci siamo gettati a terra; steso sotto la rete del filo spinato dentro una lieve conca, sentivo accanto alla testa le gambe del morto raspare come polli. Poi il colpo di un nuovo proiettile che gli ha spezzato il braccio destro. Ci tenevano sotto tiro, mentre il terriccio polveroso ci impregnava i capelli e si spandeva tutt’intorno un vapore di metallo lampeggiante. Tra l’altro, in quel lasso di tempo Spinelli mi ha pregato di ritrarre un po’ di più il mio ginocchio sinistro, che era troppo in vista. Ho particolarmente apprezzato il consiglio perché egli di fatto era ancora più esposto di me sull’orlo della riva. Poi Erichson si è piazzato in posizione di tiro con le sue armi e ha arrestato il fuoco con il fuoco contrario. Siamo rimasti ancora qualche istante schiacciati al suolo; infine, nascosti dietro la stuoia, siamo arretrati strisciando lungo il sentiero. Ora volevo far predisporre il cannone, ma si è scoperto che un proiettile della rosa sparata contro di noi era volato attraverso la feritoia ed era andato a colpire il freno di rinculo così che l’arma era danneggiata. Siamo rimasti in piedi dietro la parete del bunker, mentre una nuova grandinata di spari ha polverizzato il muro frontale della 128

costruzione vicina. Un frammento di piombo fuso ha centrato la spallina di un assistente medico; ci si è incollato sopra come la stelletta di un direttore di reparto, dando così il la a un coro di congratulazioni scherzose. Al crepuscolo abbiamo recuperato il morto, assieme al suo comandante di batteria. Ero là quando il capitano medico lo ha fatto spogliare per osservare la ferita e ho visto il grave colpo al braccio, che già non sanguinava più, e molte altre lesioni sul corpo da una delle quali è uscita fuori una pallottola di rame. Immediatamente mortale però doveva essere stato un pesante colpo alla nuca; aveva scavato nel cranio un solco lungo quasi una spanna. Ancora una volta, come già in altre occasioni simili, ho notato chiaramente l’atmosfera di fascinazione che regnava attorno al caduto. Manifesta in coloro che lo avevano spogliato e che si erano tenuti le sue cose, ma anche in coloro che stavano a guardarlo. È un segno profondo, in cui si rivela un segreto senso di colpa. E così si è concluso un compleanno di cui conserverò il ricordo.

Capanna nell’Auwald, 7 aprile 1940 La stufa di zinco che accendevo nella mia capanna di giunchi era di un metallo povero. La brace innalzava il suo colore a un bel rosso trasparente. Secondo lo stesso modello, le cose celano – e la vita cela – qualità che nella quotidianità ci restano nascoste, mentre il trapasso ad altri livelli, ad altri gradi e tempi, le rivela. Così la vita ha i suoi miracoli di maggio, miracoli di fiori, 129

ignoti a chi conosce solo il rigoglio del fogliame. Anche la potenza superiore può dispiegarsi in membra, particelle e strati – nella veste sfarzosa del maschio degli uccelli e degli insetti, nel seno delle femmine che, secondo Novalis, è un’incarnazione del petto elevato al suo stato di mistero, nella genuina nobiltà con cui un popolo risplende nel suo aspetto aristocratico, e nel poeta, in cui il linguaggio fa sbocciare il suo fiore. Nell’uomo sono sopite anche qualità che solo la morte porterà a dispiegare. Allora la metamorfosi avrà luogo non più negli strati, bensì nella pienezza. Grandi avventurieri – questa sarà per voi l’ultima e suprema avventura.

Capanna nell’Auwald, 8 aprile 1940 Al mattino ho perlustrato come al solito la postazione, che qui è molto più ristretta di quella presso Greffern. La bella strada solitaria del ritorno dietro l’ala sinistra, sul ripido sentiero che porta oltre il vecchio Reno. Qui mi prendo il mio divertimento, tirando con la pistola ai numerosi recipienti buttati tra le sterpaglie. Le bottiglie saltano per aria e ricadono in cocci, mentre le taniche vanno giù lentamente, esitanti. Poi sull’argine del vecchio Reno, da cui ho osservato a lungo l’Yburg. Costruzioni come questa, che paiono edificate su tronchi di cono, hanno un impatto visivo particolarmente forte. Rodolphe ne ha di simili nel quadro di Atlantide che, a Goslar, era appeso in camera mia. L’impressione deriva dal fatto che la fantasia vede l’edificio 130

come sostituto della montagna mozzata. E allora nella costruzione si dispiega la piena potenza della roccia originaria. Similmente avviene per le costruzioni erette in forma di tronco di cono. La punta vi appare sostituita da una cappa magica. Percepiamo alla vista una riserva di forza materiale amorfa, e perciò la vicinanza della potenza immediata. Nelle nostre torri puntute, invece, la materia è affinata all’estremo, così che prevale il senso di una tensione spirituale, di una spirituale audacia. Il fiume può rifluire nell’etere. Nel quadro della Torre di Babele di Bruegel vediamo entrambe le cose: in primo piano il colosso spaventoso e, alle sue spalle, nella nebbia verdastra, una città gotica. In questo caso, come in certe sue opere, magia e mistica si fondono l’una nell’altra. Egli vede due mondi, come Erodoto. Mentre osservavo così il pendio della Foresta Nera, dal canneto giallo sulle rive del vecchio Reno è saltato fuori agilmente un animale, scuro come ruggine e debolmente maculato, con la punta della coda nera, e si è messo a rovistare tra gli arbusti. Ho poi fatto chiamare il comandante del plotone di destra, che è ispettore forestale, e ne ho appreso che si trattava di una puzzola. Mi piace servirmi in questo modo della compagnia: come di un dizionario. Siccome i francesi del fortino «Reno rosso» hanno sparato anche stamattina, senza motivo, una serie di colpi contro le nostre postazioni, e poiché io non ho dimenticato ciò che è successo il giorno del mio compleanno, nel pomeriggio ho fatto sparare duecentocinquanta colpi di munizioni pesanti 131

traccianti contro la feritoia del loro rifugio, dalla quale lampeggiava la bocca di fuoco di una mitragliatrice. Sedevo assieme a Spinelli al cannocchiale a forbice, mentre Erichson stava alla mitragliatrice. Dirigeva i proiettili come frecce ardenti verso la torre, e li infilava poi nella fessura, dove esplodevano sprizzando fluorescenti con un improvviso vapore bianco. Dopo che ebbe esaurito la cartucciera, dalla feritoia è sgorgato fuori a lungo del fumo, come se la torre andasse arrosto. Anche sopra, dall’apertura del periscopio, saliva una nuvola giallina, come da una grossa pipa. Subito dopo aver aperto il fuoco, abbiamo visto che gli occupanti cercavano di ritirare la mitragliatrice, inutilmente, come fosse fissata con dei chiodi; poi, da un altro punto, hanno rastrellato la riva con le loro armi pesanti. Il tempo era mite, e gli uomini, che in questi giorni si erano annoiati, si sono rianimati, tanto che prenderò più di frequente misure simili.

Capanna nell’Auwald, 10 aprile 1940 A Rastatt, testimone nella causa contro un tiratore accusato di essersi allontanato senza permesso. La corte marziale si è riunita in una bella sala dell’antico castello, e mi si è presentata una forte visione d’insieme del processo. Vedevo i giudici, i testimoni, la guardia, lo scritturale, l’accusato, perfino me stesso, intenti all’opera con molta attenzione e profondamente immersi nel sogno della vita. In un’atmosfera simile, stanze di questo tipo mi appaiono come le cellette di un grande, antichissimo alveare; non ci 132

comportiamo diversamente da come ci si comportava migliaia di anni fa in Egitto, in Cina o a Babilonia. Questo tratto immutabile e insettiforme mi ha dato un po’ di conforto e di serenità, perché mi ha fatto pensare: «Vi è in ogni cosa una legge più profonda delle civiltà, e perfino quando queste vanno in rovina, essa si rigenera nuovamente». Lo stesso imputato ha tratto profitto da questo ottimismo, la mia testimonianza gli è stata infatti più favorevole di quanto, a rigore, si sarebbe meritato. La sera, bevendo il tè nella mia capanna nell’Auwald, ho finito per ridere tra me di questo mio capriccio: «Accanto alle belle donne tutti quanti restiamo alla fine sempre gli stessi. Finché ce ne saranno su questa terra, la vita non sarà mai priva di senso». Poi sono tornati a riaffiorarmi alla memoria animali marini quali ne ho visti al di là delle Azzorre – una creatura simile a un’anguilla, o a una serpe, grigio-azzurra e con striature chiare, la fisalla del Portogallo, di un rosso acceso, pesci volanti dei colori degli occhi del pavone e con una collana di perle d’acqua che, sgocciolando dall’orlo delle pinne, tracciava un segno nell’acqua. Passavano via come fiori lanciati nell’abisso, o come le figure disegnate nelle sale da pranzo di Pompei, ma su un fondale blu lapislazzulo. E tutti questi tesori equivalgono certamente solo a frammenti di monili che il caso butta fuori da forzieri di cristallo, non sono che un riflesso dell’invisibile ricchezza celata nelle profondità. Ecco perché, se cerchiamo di afferrarli con le mani, spesso in un attimo si coagulano in una gelatina colorata, o si sciolgono in schiuma variopinta. Laddove si lascia distrattamente che simili gioielli vadano 133

in rovina, deve esserci alle spalle una ricchezza enorme. Conosciamo le monete, non la moneta. Ugualmente conosciamo la vita, ma non il vivere. Procediamo brancolando tra le nostre astrazioni. Nessuno conosce il mare, se non ha visto Nettuno.

Capanna nell’Auwald, 14 aprile 1940 Al mattino presto mi hanno svegliato le mitragliatrici del fortino «Reno rosso» – quella nuova dall’alta feritoia della torre, e quella pesante che batte d’infilata la nostra ala destra. Ho chiamato Erichson e ho dato l’ordine di aprire il fuoco. Poi, dopo essermi vestito in fretta e furia, sono andato avanti di corsa in bicicletta attraverso l’Auwald. A poca distanza dalla postazione sono finito nel mezzo di una raffica di proiettili che crepitavano fra i tronchi dei pioppi e ho cercato alla svelta la trincea di collegamento. Spinelli, che era già sul posto, e si teneva con la truppa dietro la parete di cemento del bunker, mi ha fatto un cenno per indicarmi la direzione. Ho dunque fatto puntare due mitragliatrici pesanti contro la fessura, e ho distribuito i cecchini. Poi, per chiamare un altro tiratore, ho raggiunto Erichson, nella cui postazione di combattimento ho trovato un barelliere. Era impegnato a fasciare Erichson che sanguinava copiosamente dal collo, e aveva anche medicato con dello iodio tre cecchini colpiti da schegge. Erano tutti quanti storditi, come pesci tirati improvvisamente fuori dall’acqua. Mi hanno detto che un proiettile era entrato dalla feritoia scoppiando nel locale, con forte strepito e una fiammata di 134

fuoco. Altri colpi avevano centrato le mitragliatrici in azione e mozzato il cannocchiale di puntamento che era sistemato sul tavolo. Per fortuna anche Erichson era ferito lievemente, così, subito dopo, ho potuto avviarmi alla postazione, che è il nostro punto cruciale. Raffiche di spari continuavano a fischiare nel bosco dove mi è tornata utile la trincea di raccordo. Certo non era ancora del tutto praticabile, ed era necessario, in alcuni tratti, saltare fuori allo scoperto. Ottima la valutazione dei segmenti da percorrere senza copertura. Lo spirito esegue sempre un acuto calcolo della probabilità prima che il corpo spicchi il salto. Davanti alla postazione, Spinelli aveva già predisposto tutto. Mi sono avvicinato ancora una volta al cannocchiale a forbice e ho messo a fuoco la feritoia dalla cui fessura sporgeva una nuova mitragliatrice, ancora più potente di quella della nostra ultima affumicatura. Dopo aver fatto le debite raccomandazioni ai cecchini, perché da loro dipendeva l’efficacia della nostra risposta al tiro nemico, ho fatto aprire il fuoco. In quel momento, come per incanto, due gazze hanno spiccato il volo dagli alberi, sfiorando la cupola, splendenti in un lampo di bianco e di verde metallico. Poi è iniziato il martellamento delle mitraglie, e le loro raffiche ardenti convergevano verso la feritoia. A tratti i proiettili colpivano più in alto e andavano a recidere i rami dei pioppi che crescevano nel cortile interno del fortino, oppure scivolavano giù, e nell’impatto polverizzavano il cemento del muro e ricadevano nel Reno. Altri sfilacciavano il tricolore che sventolava accanto alla torre. Vedevo bene che le armi avversarie rispondevano al fuoco 135

all’istante, eppure, dopo un breve intervallo, l’assalto della bocca di fuoco avvolta da una leggera nuvola di vapore è cessato. Lo avevo previsto, perché il fuoco continuo tiene l’arma come stretta nella morsa di una tenaglia e i suoi manovratori non osano ritirarla durante l’attacco. Così, si finisce facilmente per mandarla in pezzi. Dopo questo interludio, me ne sono andato a far colazione e, più tardi, come ogni domenica, ho fatto visita al dottor Eiermann a Iffezheim, per luccio e mosella. La mattinata era pura, chiara, fresca nei colori; in mezzo al fuoco la coscienza – che, certo, in parte si trova sempre al di fuori – ritorna nel corpo come un guardiano più vigile. Nei momenti di crisi si reclamano i propri crediti. La sera ho saputo che la scheggia da cui Erichson era stato colpito, delle dimensioni di una moneta da un centesimo, era penetrata in profondità. Le ferite al collo sono sempre critiche perché le vie vitali vi scorrono come attraverso un istmo. Nelle scaramucce come quella di oggi ci si sente assai meglio dietro la mitragliatrice, in una postazione aperta di tiro, che chiusi dentro il bunker. Le minuscole fessure e le feritoie, attraverso le quali l’occhio dei difensori spia dal fortino la zona circostante, assomigliano a magneti che, dall’ampio spazio attorno, attraggono a sé le masse di fuoco. In tal modo gli uomini si ritrovano schiacciati da un’enorme pressione, come nelle campane pneumatiche in fondo agli abissi marini. I rifugi fortificati sono mammut di resistenza, ma forse appunto per questo li minaccia l’estinzione, perché l’idea della difesa trova in essi un’espressione tanto pura.

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Friedrichstal, 16 aprile 1940 Ieri, a mezzogiorno, una ventata di föhn ha fatto irruzione nella valle del Reno e, tra l’altro, contrariamente al solito, mi ha rianimato e rasserenato. Lo Auwald mi è apparso molto regale nell’aria schiarita – l’erba giovane e trasparente, risplendente di smeraldo, e i pioppi, luminosi fusti slanciati nei quali abita la grazia, e la cui altezza riempie di orgoglio colui che passeggia sotto di essi. Le prime rondini giocavano tra le chiome ancora spoglie, le anatre si libravano in volo, a coppie, dal canneto attorno allo stagno tranquillo, la folaga si tuffava silenziosa nel fondo delle sue acque. Alle undici ci siamo dati il cambio e ci siamo messi in marcia al chiaro di luna fino a Baden-Oos, dove abbiamo pernottato in caserma. Allo spuntar del giorno siamo partiti in treno in direzione di Bruchsal e di qui, sotto la pioggia scrosciante, abbiamo raggiunto gli alloggi, sparpagliati in tante piccole località. Due compagnie, inclusa la mia, si sono accampate nel quartiere di Friedrichstal, tra i principali centri di coltivazione del tabacco nel Baden. Io ho preso alloggio al piano superiore di una piccola villa di proprietà di una fabbrica di sigarette, e dalla finestra della mia camera si gode una bella vista sullo Hardt. Per alcune settimane ce ne staremo qui, per riposarci e addestrarci.

Friedrichstal, 20 aprile 1940 La mattina, nel bosco. Staccando una falda di corteccia dal tronco di un ippocastano, vi ho trovato nascosto un 137

esemplare a me sconosciuto di Mycetophagus – una creatura allungata di forma ovale e di color bruno scuro, con riflessi violetti, strisce dentellate e macchie stellate di peluria d’oro. È una vera e propria caccia al tesoro. Lo studio degli insetti è uno di quei piaceri che crescono con l’età. La conoscenza delle specie, conquistata nell’arco di trenta, quaranta o anche sessanta anni di osservazioni, assomiglia a una piramide in cima alla quale si depone ogni volta l’ultimo ritrovamento. Appare allora evidente che, con la massa dell’esperienza, anche il singolo esemplare acquista pregio. Si può pensare anche a un cruciverba in cui il divertimento aumenta con il numero delle caselle compilate. Per questo motivo la vita di uomini come Rösel, Dohrn, Fabre, Reitter, Seitz e Ganglbauer dovette certamente essere assai piacevole. Quel che ci resta da fare quando ci sia toccato in sorte un simile campo di felicità è di astenerci dalle scappatelle, quelle cui cede il giovane botanico nel Datura Fastuosa di Hoffmann. Nel pomeriggio, sonnecchiato nella mia stanza – intanto notavo, come già più volte mi è capitato, che in certe circostanze i posti chiusi come questo si trasformano in una camera obscura. Si vedono gli uomini che camminano fuori per la strada stagliarsi con grande nettezza sul soffitto o contro la parete. Perché mai però nell’osservazione di un tale gioco di ombre si nasconde una gioia maligna? La sera, un bel plenilunio chiaro. Quando, con una luce come questa, si delineano sul terreno i contorni delle siepi, dei recinti, delle fronde e di altre figure, a volte ci assale uno stato d’animo che coniuga la paura all’incanto. Spesso mi 138

sono chiesto da che cosa dipenda, e credo sia così perché in questi giochi di ombre le forme nel contempo si svelano e si spiritualizzano. Entrano in un ordine più elevato, nell’invulnerabilità che abita le loro sagome. Le cose appaiono nella loro cifra matematica, immateriali e al tempo stesso possenti. Entriamo con timore in questa griglia d’ombra e, attraversandola, ci sembra di disporre di una forza spirituale notturna. Intanto però tratteniamo il respiro – se qualcuno pronunciasse ora una parola magica, saremmo irrimediabilmente banditi dalla materia. Casanova. Gli storici che fanno congetture sul suo conto sono oltremodo noiosi. Le fonti di prima scelta scaturiscono in questo caso dalle sue memorie, e non dai pubblici registri di Venezia, Parigi o Vienna. L’uomo non si rivela qualora si dimostri che mentiva – egli stesso, piuttosto, si rivela nella maniera in cui sa mentire. Casanova come attore. Figlio di attori, compagno di attori. Il suo aspetto, i suoi pizzi, i suoi diamanti, le sue tabacchiere, i suoi gioielli. Chiede al papa se possa ornare di diamanti l’ordine dello Sperone d’Oro che gli è stato conferito. Quando Bernis gli affida un incarico politico, egli non lo esegue da diplomatico, bensì da attore. Come attore trionfa durante il banchetto di Colonia sul buon Ketteler, che gli era probabilmente superiore nella sostanza. Simili tratti giocano un ruolo anche nel duello con Branicki, fonte inestinguibile per la sua vanità. In Polonia, come ovunque Casanova si sia trattenuto più a lungo, è presto sminuita la considerazione che si ha di lui. Egli vi fa cenno nei suoi appunti, senza che ciò getti nel ricordo una sola ombra sui suoi trionfi. È un tratto attoriale; gli basta abbagliare e 139

risplendere per una sera. Non si può tuttavia dire che abbia capovolto il motto «meglio essere che apparire» nel suo contrario – proprio per il fatto che essere e apparire erano per lui in maniera affatto singolare equivalenti. Egli è un attore di razza; i successi sulla scena sono pertanto successi reali per lui. E del resto – che cosa avrebbe potuto darci a intendere? Di aver posseduto, lui, il grande artista in materia, solo donne di second’ordine? Ci sono sempre le attrici, le avventuriere, le signore, Henriette compresa, che prima o poi restano a corto di quattrini. Per quanto riguarda la selezione, si possono citare anche altri amatori, come Byron, che possono fungere da esempio. Strano che il supremo cavaliere non dedichi che un cenno fugace a Manon Baletti. Eppure costei ebbe una parte di grande rilievo nella sua vita – certo recitata dietro le quinte, e di questo non si parla. Come si può spiegare l’attrazione che questo veneziano pieno di difetti esercita su di noi? Qual è il modello di cui si avvale la nostra memoria per scegliere tra la quantità enorme di coloro che vissero e si distinsero nel passato? Perché un vagabondo come Villon ci è ancora tanto familiare, mentre innumerevoli gentiluomini che ebbero un nome ai tempi loro sono caduti nell’oblio? Deve dipendere dalla quantità di forza vitale indifferenziata che, come linfa dalle radici, scorre nelle opere e nelle azioni – una forza in cui ci riconosciamo al di là di qualsiasi merito e di qualsiasi morale, perché costituisce la nostra eredità comune.

Friedrichstal, 23 aprile 1940

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Raffreddore, nello stadio fastidioso in cui stenta a scoppiare. In più, stamattina, caduta da cavallo, che è entrato in una buca sulla piazza d’armi, a testa in giù, per fortuna su un terreno morbido. Mentre gli uomini mi scuotevano di dosso la polvere sentivo tuttavia un leggero stordimento, che ancora persiste; stavo tra di loro come un oggetto. A sera, con la posta, cattive notizie. Nel pomeriggio, al castello di Bruchsal, con il famoso scalone di cui purtroppo non è possibile scattare alcuna buona fotografia. Con le scalinate del castello di Meißen, che sembrano scolpite come piantoni nella roccia massiccia, è il più bello che abbia mai visto. La sorpresa che suscita una simile costruzione sarebbe anche maggiore se non se ne fossero già viste di tanto in tanto delle riproduzioni. Certo l’impressione che fa a prima vista6 è una gioia riservata ai contemporanei. Quando digiuniamo allo scopo di curarci, ci comportiamo come il padrone di casa che dispensa per un periodo il suo cuoco dal servizio per liberarsi di un ospite sgradito. Il digiuno è una grandiosa medicina; dona non solo salute, ma anche ozio e potenza spirituale.

Friedrichstal, 28 aprile 1940 Nello Hardt, dove ancora si conserva un alito di antichissima solitudine boschiva. Temporale, con lampi e guizzi di sole, e il tamburellare vicino e lontano del picchio. Un picchio nero è volato sopra di me mentre ero disteso sul muschio umido di una radura tra le querce, ed è risalito poi 141

a spirale su per un alto tronco. Questo animale ha un che di sinistro, specie nelle proporzioni tra il collo sottile e la grossa testa. Le ali rigide producono in volo un fischio di corno; il suo grido stridulo è più querulo di quello del picchio verde. Il suo nome popolare, Feuerhenne, «gallina del fuoco», è appropriato. Dopo ore come queste, mi riesce difficile tornare a immergermi nelle incombenze; mi abbandono ai sogni, come se dovessi adattare gli occhi ad altre lontananze. La solitudine dei boschi è talmente magnifica da eguagliare l’ingresso dei luoghi solenni. Sul mio tavolo fiorisce in un vaso una pianta di cuori di Maria – è un’altra delle mie prove. Calcolo la portata della gioia che ne ricevo, e mi sembra che non sia mai stata tanto grande. Quanto esiguo è, al confronto di un simile ramo fiorito, il nostro intero sistema. Non sono che illustrazioni della miseria – chi ci illustrerà però l’abbondanza?

Friedrichstal, 8 maggio 1940 Esercitazione del reggimento, eseguita sul tratto dello Hardt che si allunga fino a Teutsch-Neureuth, a cui io ho preso parte in qualità di arbitro. La mattinata era fresca e chiara; nel bosco gli zoccoli dei cavalli strusciavano tra ciuffi di mughetti fioriti. Dopo un breve combattimento sul margine del bosco, il «fermi tutti». Il generale, nel suo discorso, ha sostenuto la tesi secondo cui questa guerra si deciderà soltanto con un attacco e una successiva avanzata, a ovest. Anche nell’addestramento della compagnia puntiamo 142

all’attacco contro obiettivi posti in lontananza; dovrebbe concludersi a metà mese con un’ispezione. Oltre a questo, per due giorni alla settimana sono alla guida del servizio delle truppe d’assalto, cui prende parte un gruppo selezionato di ciascuna compagnia. Ci esercitiamo sfondando con una potente carica una piccola fortezza, oppure dando l’assalto nel bosco a bunker e casematte.

Friedrichstal, 10 maggio 1940 Nella notte, sogni di squadre che passavano in volo sopra casa mia. Al mattino, al poligono di tiro, ho poi appreso che davvero c’è stata agitazione nell’aria. Si trattava dei trasporti diretti in Olanda e in Belgio. Così la guerra entra veramente nella sua fase di crisi senza che se ne riesca nemmeno a valutare la durata. Nel pomeriggio abbiamo fatto una lunga cavalcata con il colonnello per i bei boschi, e la sera abbiamo fatto tappa a Graben per mangiare gli asparagi. Durante la cavalcata giungevano diversi ufficiali e attendenti in motocicletta con delle comunicazioni – una di queste rendeva noto il blocco delle licenze. Ci teniamo dunque pronti per la chiamata. È solo controvoglia che ci separiamo da Friedrichstal, dove avevamo già fatto amicizia con gli abitanti. Questa gente discende alla lontana dagli Ugonotti di sangue vallone. Hanno nomi come Lacroix, Borel, Gorenflo – che deriva da cœur-enfleurs. Giunsero portando con sé la coltura del tabacco nel 1720, e riforniscono oggi tutto il Baden con piante giovani che si vedono crescere dappertutto nei dintorni, in aiuole protette da carta oleata. Con questo 143

sistema la terra rende loro dieci volte tanto. Certo è un genere di coltivazione che richiede un’estrema cura e una grande fatica e, come recita un proverbio di queste parti, i valligiani di Friedrichstal dormono in ginocchio, e appoggiano sul letto soltanto la testa. Ecco perché sono così agiati, sereni, sempre pronti a divertirsi, sempre disposti a lasciar correre.

Friedrichstal, 14 maggio 1940 Ordine di marcia per questa sera, con meta sconosciuta. Proprio l’altro ieri, appena in tempo, ho organizzato una piccola festa per la compagnia, cui abbiamo invitato anche i nostri ospiti di quartiere. C’erano gli asparagi di Graben, caffè, vino, torta, e poi un cabaret in cui si è esibita anche una scuola di ballo di Karlsruhe. Verso il mattino, dopo che, in qualità di comandante militare del luogo, ho protratto di qualche tempo l’ora del coprifuoco, l’atmosfera si è vivacizzata nei saloni e nei corridoi – tanto più che io, da vecchio comandante delle truppe di combattimento, recito piuttosto male la parte del custode delle virtù. Oltretutto, avevo l’impressione che lo spirito della piccola unità fosse risultato vincitore. Gli uomini sono per la maggior parte magdeburghesi e, come tali, secondo me, più strettamente imparentati con i sassoni di coloro che provengono dalla Bassa Sassonia. Sono più vivaci, più socievoli, abili con le armi meccaniche e avvezzi al lavoro duro. Un’imprecazione che sentivo dire piuttosto spesso da loro di fronte a noie o contrarietà mi è piaciuta così tanto che l’ho introdotta come grido di riconoscimento e di 144

battaglia. È «Ran wecke!», «Dài sveglia!», che in realtà significa «Ran welche!», vale a dire «Sotto!», «Forza!», e si esclama quando c’è urgenza di mettersi all’opera. È così che gridavano i capisquadra sui campi di rape quando il lavoro incalzava. Per pura esercitazione manca ancora solo un ultimo complemento affinché la truppa sia al meglio, e cioè la relazione tra uomo e uomo che cementa la coesione tra le singole unità. Ma per questo ci vuole sempre un po’ di tempo; prima si deve aver filato insieme una certa quantità di stoffa vitale, aver raccolto una scorta comune di piccoli dolori e di piccole gioie. Si deve, insomma, far maturare della storia. Commiato dallo Hardt, con il richiamo del picchio e del cuculo, e con l’accompagnamento di un usignolo del Baden pieno di grazia e di talento vocale, come Jenny Lind. La profonda, muscosa abetaia tra l’Hirschgraben e Linkenheim. Lo scricchiolio fine e secco delle pigne da cui lo splendore del sole fa sprizzare i semi. Poi l’arnia nascosta nel sottobosco, allestita per la fecondazione delle regine.

Speyer, 15 maggio 1940 Verso sera, siamo partiti da Graben con il morale piuttosto alto. I valligiani di Friedrichstal avevano riccamente ornato noi e i nostri cavalli di fiori, e ci hanno accompagnato fin nello Hardt. Ci siamo separati malvolentieri da queste brave persone, che ci hanno viziato. Poi è arrivato il crepuscolo. Nuvole di maggiolini ronzavano sui sentieri del bosco, o turbinavano attorno ai meli già 145

quasi sfioriti sulla strada maestra. In circostanze simili, c’è sempre qualche seccatura che ci disturba, questa volta era un catarro a darmi pena; così mi sono portato le pastiglie Emser. Dopo una buona marcia, verso il mattino siamo arrivati a Speyer.

Weidenthal, 16 maggio 1940 Marcia notturna da Speyer a Weidenthal. Mentre attraversavamo Neustadt, sullo Hardt, le sirene annunciavano l’allarme aereo senza che tuttavia arrivassero i bombardieri, che ci avrebbero dato un bel daffare su queste stradine. La marcia è stata faticosa. Come sempre, sotto simili pressioni vengono alla luce talenti insospettati. Come nel primo gruppo alle mie spalle, dove a un certo punto hanno preso a scherzare. Verso le sette siamo rientrati nel quartiere. Dopo un buon sonno, sono andato alla posta e ho spedito a Kirchhorst i miei manoscritti e i miei diari. Ormai porto con me solo questo quadernetto. Ottima cena d’addio, con i miei due ufficiali, Keunecke e Spinelli, dal sindaco, presso il quale avevamo alloggiato in tre. Sua moglie ci ha condito l’insalata direttamente in tavola.

Kaulbach, 17 maggio 1940 Un’altra buona marcia notturna tra i monti dello Hardt, oltre Hochspeyer, Kaiserslautern, Otterberg, verso Kaulbach. A Kaiserslautern, durante una sosta, ho domandato la strada a una sentinella della protezione 146

antiaerea. Questi, un uomo di una certa età, deve aver poi chiesto informazioni su di me ai miei uomini, perché dopo un po’ mi ha raggiunto di corsa e si è presentato come un mio lettore. Portava con sé una bottiglia di eccellente vino del Palatinato, e mi ha allungato un bicchiere che, accompagnandomi per un tratto, non ha mai lasciato vuoto. Questo incontro nel buio aveva un che di particolare, di spirituale. Sentivo che, in quanto scrittore, si è di casa anche nelle tenebre. Poi sosta in una faggeta, ai cui margini i rami degli alberi arrivavano giù fino al suolo, formando come delle tende sotto le quali abbiamo fatto merenda. Dopo Otterberg, un cavallo morto sul ciglio del strada – la prima perdita. Alloggio a Kaulbach, dove abbiamo dormito in una fattoria fino a pomeriggio inoltrato, dopodiché abbiamo festeggiato con un piccolo banchetto il compleanno di Keunecke. Marciamo dunque diretti a ovest attraverso il Palatinato, per partecipare al grande scontro, o ad azioni pianificate. E quanto più lontano ci porta la marcia, tanto più aumenta anche la possibilità che ci facciano deviare a sinistra. Mi sento più o meno come nel 1914, allorché temetti di non riuscire a vedere più nulla degli scontri.

Grumbach, 18 maggio 1940 Attraverso Lauterecken verso Grumbach, che è graziosamente incuneata tra pendii coperti di frutteti. Ho preso alloggio con i miei due ufficiali presso il pastore. Il corso della nostra giornata è regolato in maniera tale che al calare delle tenebre ci mettiamo in marcia e 147

proseguiamo fino al mattino. Poi dormiamo fino al pomeriggio, pranzo, pulizia delle armi, in fila per l’appello e attesa del nuovo ordine di partenza. Sono acquartierato in una cameretta sotto il tetto, con una bella vista sui prati in fiore e sui castagni. Tra gli arredi mi ha colpito un lavabo consunto col piano di marmo nero in cui, oltre a pezzetti di corallo chiaro, si è fossilizzata anche una conchiglia grande come un uovo di gallina, in fine sezione trasversale, con i lunghi denti della cresta simili a spine, e la cerniera come uno smerlo. Il piccolo fenomeno, come ho appreso più tardi a tavola, non era ancora stato notato, sebbene quel piano fosse in casa da decenni.

Idar, 19 maggio 1940 Sveglia verso mezzanotte. Il pastore ci ha invitati ancora per una tazza di caffè nel suo studio, dove stava preparando la predica per la domenica. Poiché negli ultimi mesi ho vissuto a lungo in case parrocchiali, ho acquistato una speciale sensibilità per le differenze tra l’atmosfera che regna in quelle evangeliche e in quelle cattoliche. Sono cose che non si imparano nei libri di storia. Dai protestanti si ha la sensazione di particelle minuscole tenute sospese da un’agitazione magnetica. È anche la differenza che passa tra l’antica aristocrazia e l’aristocrazia del lavoro. Pensieri sull’inevitabilità della Riforma. Si deve fare uno sforzo per cogliere tutto questo nella sua unità – come nella guida di un veicolo, quando la salita aumenta, occorre innestare un’altra marcia. Lo stimolo diventa più etico. Niente impedisce che, in uno sviluppo ulteriore, si torni a una sola 148

chiesa, nell’organizzazione della cristianità. Marcia attraverso Wolfstein, Oberjeckenbach e il campo di esercitazione di Baumholder, con i suoi insediamenti abbandonati. Poi per Bollenbach fino a Idar-Oberstein. Qui avremmo dovuto bivaccare presso Tiefenstein, ma nel pomeriggio siamo stati invece acquartierati nella cittadina. Mentre ci mettevamo in marcia, uno dei cavalli ha urtato all’inguine con lo zoccolo il sottotenente Wanckel; abbiamo dovuto così portarlo via. In montagna abbiamo preso alloggio presso un artigiano che si è rivelato un esperto guaritore, e mi ha preparato un buon rimedio contro il mio catarro. Durante la cena, conversazione sulle pietre dure di cui da queste parti fioriscono il commercio e la lavorazione. Già i romani avevano qui cave di agata e, come ci ha detto il nostro ospite, tra le famiglie di Idar ci sono ancora cognomi romani che risalgono a quell’epoca. In effetti, entrando in città con l’esercito, avevo notato lo stemma di una ditta con la sigla di un tal Cäsar che, come se non bastasse, portava anche il nome proprio di Julius.

Idar, 20 maggio 1940 Giorno di riposo a Idar. Al mattino, nel Salone dei Mestieri, una sorta di museo dei commerci in cui sono esposte pietre dure per tutti i gusti. Mi è piaciuto in modo particolare un taglio a calotta ricavato da un grosso blocco di ametista, con intarsi di agata i cui occhi scintillanti sbocciavano sulla neve di cristallo violetto. E intanto sentivo la particolare inquietudine che sempre ci trasmette la 149

prossimità del regno minerale, con le sue conche, le grotte, le gole in cui lo spirito, inghiottito in profondità come per un sortilegio, è stretto in catene tra fredda bellezza. Per l’intera giornata si è udito il ronzio degli aeroplani, solo velivoli da trasporto, che passavano sopra la conca valliva. A sera, col plenilunio, abbiamo bevuto una caraffa di succo di fragole sulla terrazza.

Bescheid, 21 maggio 1940 Alle tre, sveglia, che mi ha permesso di gettare uno sguardo dentro un sogno speciale – discutevo dello stile di Cassiodoro con un cacciatore a cavallo dell’Alto Medioevo, un fine conoscitore degli antichi. Durante la conversazione non mi procurava alcuna fatica il fatto d’essere ora un contemporaneo dell’autore, ora del cacciatore, e infine un uomo del XX secolo. Era come guardare attraverso un vetro in cui si sovrapponessero tre colori. Nonostante fosse molto presto, mi sono svegliato di ottimo umore, sapendo che lo humus dal quale provengono le mie parole è ancora ricco di inesauribili potenzialità. Nella deliziosa frescura mattutina, attraverso la valle dell’Idar dove, tra i campi verdi, si annidano i piccoli mulini per la lavorazione dell’agata, fatiscenti, isolati come covi di alchimisti o di veneziani. La loro vista fa presagire che l’artigianato vi abbia raggiunto livelli magici. Accanto ad alcuni di essi, i blocchi di agata erano accatastati a mucchi, grigi e grossi come la testa di un bambino. Mulini per le pietre preziose. Dove i tesori diventano possenti, si perde il loro rapporto col denaro; accedono a un grado più alto di 150

preziosità. Poi, nella calura crescente, per i boschi dello Hunsrück, attraverso i quali squadre su squadre marciano dirette a ovest. Pausa di mezzogiorno a Talling; qui una contadina mi ha rifocillato con un bicchiere di latticello. Quando infine, dopo una lunga marcia, la compagnia si è distribuita nei quartieri, per la mia truppa mi è stato assegnato il villaggio di Bescheid, che si trova sulla sommità di un monte. Anzitutto abbiamo scaricato il bagaglio, perché il carriaggio sarebbe rimasto a valle; poi, per incoraggiare un poco la soldatesca, io e i miei due ufficiali ci siamo caricati sulle spalle tre zaini ben equipaggiati. In mezzo a dense nubi di polvere, sul ripido sentiero serpeggiante, il sudore scorreva a fiumi. Eppure questa marcia è stata forse il rimedio migliore per combattere il catarro, perché non appena siamo arrivati in cima, ho sentito sollievo al petto. Ho pernottato in una casetta in cui ogni stanza era decorata da belle incisioni. È nei quadri che si riconosce il valore di un arredo; essi sono il sigillo del gusto.

Welschbillig, 22 maggio 1940 Di nuovo sveglia presto, e marcia per Fell e Longuich attraverso la valle della Mosella, ai piedi delle possenti alture coltivate a vigneti. Mi ha dato l’impressione di un’estrema accuratezza, ulteriormente accresciuta dalla vista dei ponti, degli edifici, e degli abitanti in piedi davanti a casa. In più, nomi come Dezem e Quint. Mi sono venuti in mente i bei versi di Ausonio. È questo il nostro angolo romano, se si prescinde dal Sud Tirolo. La scelta della striscia di terra 151

dove si insediarono i romani non cadde certo a caso. Noi uomini siamo esseri dotati di radici invisibili che sanno vivere dappertutto; prosperare, però, possiamo solo nel luogo adeguato. Il clima era opprimente, afoso; stavolta non era tanto il male ai piedi, quanto allo stomaco, con nausee, sangue dal naso, mal di testa, malumore. Dopo che ci siamo fermati per la pausa di mezzogiorno nel sole accecante di una cava di pietra nei pressi di Ehrang, ho sentito un dolore alla nuca, e sono salito in groppa al buon Justus, che bene o male procedeva, incespicando qua e là. Durante la marcia, nei villaggi e nelle piccole cittadine, siamo venuti a sapere dalla radio dei grandi successi nell’attacco e per me che, dopo centinaia di esperienze, credo nella tenacia dei fronti come in un dogma, sono stati una vera sorpresa. Questa guerra si discosta in tutti i dettagli dallo schema di quella precedente a cui, per tale ragione, non voglio restino aggrappati troppo a lungo i miei pensieri. Alloggio a Welschbillig. Qui in paese sono stato acquartierato in una casa che si erge su fondamenta romane, da un contadino. Dopo un breve sonno, il mio ospite mi ha fatto portare da Rehm un piatto di patate arrosto con del manzo in scatola che sarebbe bastato a saziare tre taglialegna. Il rapporto dei padroni di casa con i soldati acquartierati è del tutto speciale nel senso che, un po’ come il sacro diritto di asilo, rientra tra le forme più antiche di ospitalità, osservate al di là delle relazioni individuali. Il soldato ha il diritto di essere ospite in tutte le case, e questo privilegio è tra i più belli che gli garantisce il suo stato. Lo condivide soltanto con il perseguitato e con il sofferente.

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Lintgen, 23 maggio 1940 In marcia, come sempre. Caricando le armi, ho colto la risposta di un sottufficiale che replicava a un autista: «Preferirei…» «Chiudi il becco! Io per me preferirei avere uno stabilimento balneare, qui.» Vicino a Echternach, attraverso il confine lussemburghese. Varcandolo, ho incitato la marcia con un «Ran wecke!» La prima casa dopo il confine era stata distrutta dall’esplosione di un ponte. Dalle finestre pendevano giù le persiane. Sulla strada dietro il paese, pulitissimo, altri crateri; anche qui è certamente stato fatto saltare uno sbarramento. Attraverso Altrier. Pausa di mezzogiorno in una piccola cascina e conversazione con il proprietario, un guardiacaccia. Di quest’uomo, come di molti lussemburghesi, mi ha colpito il linguaggio forbito. Dipende forse dal fatto che, in questi incontri, anziché parlare, come di consueto, la lingua d’uso del Lussemburgo, si ricorre al tedesco elevato appreso sui libri. In tal modo si ha l’impressione che il discorso sia preparato da una riflessione e da uno sforzo accurato – e che, di conseguenza, sia rivolto a un ascoltatore attento e riflessivo. Dura marcia alla volta di Lintgen, qui alloggiato da un fornaio. Il paese era affollato da soldati e rifugiati. Anche dal mio panettiere ho trovato profughi lussemburghesi. Così a cena ho avuto modo di conversare con una donna sulla cinquantina che, se non ho capito male, aveva abitato a Düttweiler, dove prese avvio l’avanzata verso il confine francese. Durante i combattimenti che vi erano in seguito scoppiati, si era rifugiata in cantina, e ci era rimasta per alcuni giorni mentre 153

le granate devastavano il suo giardino. Una di esse divelse il cornicione della casa, un’altra abbatté il vecchio melo. Le schegge crivellarono il tetto, i polli giacevano senza testa in cortile, i porci scapparono dal porcile sfasciato; il letto che aveva sistemato in cantina oscillava. La donna, una persona energica – che di sicuro non aveva mai immaginato niente del genere nemmeno nel più profondo dei suoi sogni – raccontava tutte queste cose con serenità, quasi ridendo, o meglio, con un’intensa, intima allegria che mi ha fatto un’impressione profonda. Si sarebbe trattenuta anche di più, ma nel frattempo avevamo sgomberato il posto. Durante la marcia ho saputo da soldati di ritorno dalla licenza che gli stabilimenti di Mißburg, vicinissimi a Kirchhorst, sono stati bombardati. Ho pensato subito a Perpetua, ai bambini, alle mie collezioni e ai manoscritti che si trovano là nel solaio senza che ancora io sia degno della lanterna di Nigromontanus. Questa è davvero la guerra totale, durante la quale si è minacciati in ogni punto dell’esistenza.

Rambruch, 24 maggio 1940 Attraverso Rollingen e Reckingen, con l’obiettivo di raggiungere Hemstert, in Belgio. A Säul, però, abbiamo trovato il comandante del reggimento con l’ordine di ripiegare a destra e di puntare su Rambruch – evidentemente una mossa che rientra nel piano delle operazioni. Pausa di mezzogiorno su un prato vicino a Ospern. Il cibo, come sempre, è stato preparato per tempo e ben 154

cucinato, visto che i cuochi lavorano giorno e notte, quasi ininterrottamente. Al momento di ripartire, dunque, ho fatto chiamare dalla cucina il fuciliere Rumke e, quando si è presentato, l’ho promosso caporale, adducendo la motivazione che ancora una volta la zuppa di lenticchie era eccellente. Poiché il mio argomento faceva riferimento a un’esperienza appena condivisa da ciascuno, ha riscosso un grande consenso. Abbiamo poi marciato per i bei pascoli lussemburghesi fino a Rambruch; qui mi sono acquartierato in un piccolo caffè. Il proprietario era un uomo corpulento e gioviale, sulla trentina, un tipo fiammingo. Se fossero tutti così, non ci sarebbe più nessuna guerra, solo bevute senza fine in questo mondo. «Ragazzi, non berrete mica acqua voialtri?» ha detto salutando quattro giovani operai appena entrati mentre già spillava per loro della birra.

Neufchâteau, 25 maggio 1940 Al mattino, in marcia per Martelange. Qui il ponte era distrutto, come pure molte case, certamente a seguito di un’esplosione. Qua e là si vedevano contadini già ritornati a lavorare nei campi. È la fiducia? È un istinto da insetto ciò che spinge l’uomo, imperturbato, a mettersi all’opera anche in mezzo alla distruzione? Mentre lo annoto, ecco che si leva in me questa strana risposta: «E tu? Non stai forse tenendo un diario?» Bolanges, Fauvillers, Vitry. Su questo percorso, tracce di scontri fra pattuglie di esplorazione, assai vistose, come 155

predisposte per un itinerario tattico. C’erano cumuli di cartucce sul ciglio della strada e, accanto, trincee. C’erano poi impronte di cingolati, che si prolungavano per i campi dove uno era rimasto carbonizzato. Infine c’era uno sbarramento e, intorno, altre trincee ed elmetti belgi. A Traimont, sosta di mezzogiorno. Il padrone di una casupola dalla cui fonte avevo fatto attingere dell’acqua mi ha invitato a bere una tazza di caffè. Era un contadino di settantasei anni – tra l’altro ha detto septante-six anziché soixante-seize. Ha visto tre guerre, possiede tre ettari di terra e, in più, ha un figlio, una nuora, e sette nipotini. Ho dato ai piccoli, assai fiduciosi, qualche soldino per il tirelire. A Neufchâteau abbiamo piantato le tende ai margini della città, che dà un’impressione di anarchia. La maggior parte degli abitanti è fuggita, le case sono vuote, gli arredi sottosopra. Ho disposto una ronda notturna a salvaguardia dell’ordine e ho istruito ancora una volta gli uomini riguardo al fatto che nessun grado di devastazione può giustificare l’appropriazione di beni altrui. A dimostrazione di quanto dicevo, ho fatto valutare dal contabile davanti ai soldati la paglia presa per le tende da un fienile, e ho fatto immediatamente pagare il suo prezzo alla proprietaria. L’ingresso in zone come queste produce sempre un effetto di rilassatezza – si nota anche nell’ordinaria divisione dei compiti, durante la quale, per una banale faccenda di cavalli, è sorto un diverbio tra gli ufficiali. Ero curioso di vedere come se la sarebbe cavata il comandante. Si è limitato a dire: «Signori miei, vogliate dimostrarvi cavalieri, o non andremo molto lontano». La breve frase ha prodotto il suo effetto: come una sveglia. Verso le due del mattino, fuoco antiaereo in paese, ma 156

niente bombardamenti. Durante il giorno, come sempre, solo apparecchi tedeschi.

Givonne, 26 maggio 1940 Verso le cinque, in marcia attraverso Bertrix e Fays-lesVeneurs. Riecco i segni di pesanti distruzioni. Si direbbe che gli abitanti siano fuggiti in fretta e furia. Spesso, dall’esterno, le case sembrano ancora ben tenute e abitabili. Ma, guardando dentro attraverso la finestra, si vede l’impronta dell’abbandono e dell’estremo disordine. Le vacche nei pascoli hanno le mammelle gonfie da scoppiare, e i loro muggiti risuonano lamentosi. Solo per le strade sfilano le truppe, altrimenti il paesaggio, morto e disabitato com’è, appare assolutamente spettrale. Non appena ci siamo schierati in fila, è passato il generale, e abbiamo appreso che oggi, anziché a Bouillon, dove avevamo fatto predisporre in anticipo il quartiere, arriveremo fino a Givonne. È il secondo cambiamento nel nostro programma di marcia. Nel bosco antistante Fays-les-Veneurs, ci siamo imbattuti in una colonna di oltre quattromila prigionieri, quasi tutti di colore, che sfilavano davanti a noi come un corteo folcloristico in costume. Tra di loro c’erano anche alcuni europei, per lo più decorati della Guerra mondiale e già bianchi di capelli. Dopo un acquazzone ci siamo fermati su un prato fradicio per la pausa di mezzogiorno. Per tutto il pomeriggio abbiamo marciato per i vasti boschi delle Ardenne, in salita e in discesa. Passato il confine francese, visto che avevo condotto il battaglione in assenza del comandante, ho rimandato indietro il 157

portaordini perché trasmettesse a Spinelli il «Ran wecke!» Lungo la strada, sempre auto bruciate, aerei abbattuti, trincee, suppellettili. Le vetture dei fuggiaschi sembrano navi; se ne scorgono i relitti dove hanno fatto naufragio. Anche cavalli morti – mentre passavamo di fronte a una carogna coperta di mosche, un attendente ha detto: «Dentro sta già cuocendo», descrivendo così in maniera davvero indovinata lo stato in cui si trovava. In mezzo a questo caos già si fanno correre grossi cavi con appesi qua e là piccoli cartelli che minacciano di morte chiunque li danneggi. Sono i fasci di nervi dell’esercito. Durante una delle tappe, ho osservato un piccolo fortino che, certo allo scopo di arrestare i carri armati, si ergeva ben incassato in una curva della strada. I graziosi cannoni spuntavano ancora dalle feritoie e, intorno, erano sparsi mucchi di bossoli. Poi nelle postazioni che circondavano il forte, finché il pensiero improvviso che davanti potessero esserci delle mine mi ha dissuaso dall’intenzione di esaminarle. Attraverso Bouillon, sovrastato da un’antica fortezza. Nel centro cittadino, case diroccate, strade dissestate, specie attorno al vecchio ponte dove è il loro snodo principale. Passavano uomini con bottiglie di vino; ho mandato avanti Rehm in bicicletta per capire da dove provenissero, ed egli è ritornato con alcune bottiglie di Borgogna. Ha raccontato poi di essere stato in un magazzino dell’esercito, nella cui cantina si era riunita una vivace compagnia. Tutta la strada dell’avanzata militare è disseminata di bottiglie di spumante, Bordeaux e Borgogna. Ne ho contata almeno una a ogni passo, a parte i bivacchi, dove sembrava che ci fosse stata una pioggia di bottiglie. Ma questa, per una campagna militare in Francia, è tradizione. Ogni marcia dell’esercito 158

tedesco è accompagnata da una bella bevuta, come facevano gli dèi dell’Edda, senza lasciare alcuna riserva. Quartiere a Givonne, con grande adunata nel castello. In paese, gravi devastazioni; spesso laddove prima c’erano le case non restavano che enormi crateri, pieni di un’acqua gialla. Nel parco, tombe scavate di fresco di soldati tedeschi del corpo sanitario, uccisi sul posto dai bombardamenti. L’auto del proprietario sta a ruote all’aria nello stagno del castello. Ho dormito nella cameretta dei bambini, steso a terra accanto a uno scaffale pieno di libri e, prima di addormentarmi, ho sfogliato per un poco i quaderni di scuola.

Boulzicourt, 27 maggio 1940 Verso le otto, in marcia. Ovunque un silenzio di morte, che già in Belgio mi aveva colpito. Il paesaggio è deserto, e vi si scorgono solo soldati, che avanzano per le strade con i loro carri e cavalli. Prima di mezzogiorno siamo entrati a Sedan. La città è stata colpita pesantemente; grosse case sono state rase al suolo dalle bombe, altre mutilate della facciata, tanto che, come in un plastico architettonico, si poteva vedere l’interno delle stanze e di sontuose sale, e così anche scale a chiocciola sospese a mezz’aria. È stato divertente attraversare un vicoletto per il quale abbiamo tagliato. Si vedevano soldati che allungavano la testa dai travetti lucenti dei tetti, altri affacciati a mezzo busto dalle finestre. Lasciavano penzolare giù, appese ai fili delle tende, bottiglie di Borgogna; passando a cavallo, come un pesce che se ne va 159

con l’esca, ne ho afferrata una: uno Châteauneuf-du-Pape del 1937. Ci siamo quindi lasciati alle spalle la città lungo la via che porta a Donchery, dove ho visto i discendenti dei famosi pioppi, ma anche alcuni olmi. A destra giaceva nella polvere un magnifico gatto d’angora dal pelo nero striato di un bruno vellutato. Era però schiacciato come un tappeto, e quando mi sono chinato sulla sella piegandomi in avanti per guardarlo meglio, è salito un vapore di carogna. In giardino, peonie fiammeggianti e, tra queste, conigli che rosicchiavano l’insalata. Breve sosta, per fortuna in un magazzino pieno di stivali e di coperte, dove ho provveduto a rifondere quel che ci mancava. Il sottufficiale addetto alle cucine, che ha marciato per un tratto accanto a me, mi ha detto che già suo nonno – nel 1870 –, suo padre – nel 1914 –, e ora lui – nel 1940 –, erano passati in questo stesso posto. Poco lontano dalle famose casette, c’era il generale in piedi sulla strada, ha salutato la compagnia e, mentre gli passavo accanto a cavallo e facevo rapporto, mi ha chiesto come stavo. «Bene, grazie, signor generale! Possiamo sperare di arrivare in tempo per combattere?» «Ci arrivate, ci arrivate – a Saint-Quentin.» Avanti allora, tra questi paesaggi sorprendenti. Nei villaggi e nelle città non vi è un comignolo che fumi, non un bambino per strada, non un solo essere vivente sul nostro cammino. Di tanto in tanto, con la faccia premuta sui vetri delle finestre, guardavo all’interno delle case, e vedevo nelle sale tavole apparecchiate, con piatti e bicchieri, ma senza alcun commensale – la scena di un pasto interrotto all’improvviso. Nelle chiese c’erano ancora le suppellettili 160

d’oro e d’argento sull’altare, e nei palazzi la vita sembrava addormentata come nel castello di Rosaspina – morta, morta, morta. La stranezza era che, in paese, lunge file di sedie orlavano il marciapiedi: dai semplici sgabelli di cucina alle sontuose poltrone rosso e oro – tutte vuote però, come se vi sedessero degli spiriti. Allora ho chiesto all’unico abitante nel quale mi sono imbattuto che cosa fosse successo – egli mi ha raccontato che erano arrivati dei militari con i carri per eseguire uno sgombero in fretta e furia. Il sindaco era ubriaco, e il disordine incredibile. Ciò mi ha consolato un poco, perché mi sono reso conto che le scene per me opprimenti sono insite nella natura stessa della situazione, e non vanno attribuite soltanto a noi stessi. Le cose si sono messe in maniera tale che Nomos fugge via dalla casa abbandonata; e non vi restano nemmeno i Lari e i Penati. In ogni caso, spettacoli come questo ci insegnano ad apprezzare l’opera grandiosa, e quasi invisibile, che si compie nella famiglia. Il quadro d’insieme è quello di un enorme foyer della morte, e passarci attraverso mi ha scosso profondamente. In uno stadio precedente del mio sviluppo spirituale mi sprofondavo di frequente in visioni di un mondo del tutto desolato e disabitato, e non voglio negare che quell’oscura rêverie mi procurasse anche piacere. Ora vedo qui la realizzazione di quell’idea, e mi piacerebbe credere che, se mancassero anche i soldati, presto lo spirito ne sarebbe turbato – già solo negli ultimi due giorni ho sentito quanto fosse gravosa la vista dell’annientamento. Durante la marcia mi sono intrattenuto chiacchierando di tanto in tanto con il nostro sottufficiale armaiolo, il quale faceva osservazioni acute e, vedendo che la cosa mi 161

interessava, correva avanti in bicicletta e poi tornava indietro per descrivermi le scene che era riuscito a cogliere di volata. Così per esempio mi ha detto che, curiosamente, la prima cosa ad andare distrutta erano sempre gli strumenti musicali – a simboleggiare quanto il carattere di Marte sia avverso alla musica. E, se ben ricordo, già lo si nota in un grande dipinto di Rubens, dedicato al tema «Marte e le Muse». Gli specchi, al contrario, sono per lo più intatti – secondo lui è perché servono per radersi; di sicuro però ci sono anche altre ragioni. Rientra nella demonologia il fatto che, a dispetto della furia dell’avanzata, si trova sempre gente che si prende il tempo di esporre oggetti assurdi alle finestre delle case abbandonate – uccelli impagliati, cappelli a cilindro, busti di Napoleone III, manichini e simili. Sulla strada, aerei spezzati, uno dei quali, dopo Sedan, era caduto su un tetto, e lo teneva stretto tra le ali. Nello schianto non aveva solo carbonizzato la casa, ma anche il verde degli alberi che vi crescevano attorno in un ampio cerchio, ormai sbiadito e rinsecchito. In un tratto di bosco c’erano carri armati, da cui proveniva un odore di cadaveri. Nel primo pomeriggio, a Boulzicourt, dove ci siamo acquartierati. Rapporto in un giardino; ho trovato i volti degli ufficiali segnati da tratti più marcati, le loro fisionomie sembravano fuse nel metallo puro. Sulla via del ritorno, attraversando la piazza del mercato completamente dissestata, mi sono ritrovato in mezzo a una specie di ballo in maschera. Gente col cappello a cilindro, o con cappelli di paglia, berretti da ferrovieri e caschi coloniali, sfilavano in un carosello a bordo di motociclette e auto senza cerchioni che erano a malapena riusciti a mettere in moto. Come se non bastasse, le case avevano i serramenti scardinati, le 162

porte recavano cartelli con l’avvertimento «Cadaveri in cantina» oppure «Attenti alle mine» – scritti probabilmente da qualcuno che preferiva avere il proprio quartiere tutto per sé. Inoltre la bottega di un macellaio, dove la carne era ancora esposta a mucchi sui ganci e sul bancone, emanava dall’inferriata rossa un fetore terribile. Diretto al quartiere, attraverso un ponticello, passo accanto a un cavallo morto. Altre bestie giacciono nei giardini, come un grosso mastino col mantello giallo scolorito dal sole della giornata torrida. In camera poi mi sono bevuto la bottiglia di Châteauneufdu-Pape, e intanto pensavo a Burckhardt, che aveva una passione per questo vino. Si può dire che quanto egli temeva si sia verificato. Intanto sfogliavo le carte che il proprietario aveva evidentemente messo assieme in fretta e furia e poi dimenticate. C’era anche il suo certificato di matrimonio.

Doumely, 28 maggio 1940 Dopo la sveglia, passeggiata nei giardini, dove saltellavano i conigli, mentre i polli si erano già spinti un po’ più fuori, per i campi. Li si vedeva starsene lì intimiditi oltre le siepi dei primi pascoli. Più tardi, il caffè, e verso le dieci, in cammino. Siccome due dei cavalli zoppicavano, ho lasciato indietro un carro bagaglio, con somma meraviglia del capo del carriaggio, che ha trovato l’ordine del tutto incomprensibile. Avanti, attraverso Villers-sur-Mont, Poix-Terron, Montigny-sur-Vence, mentre ci accompagnavano sempre le stesse scene. Case vuote, deserte, cavalli morti e, per i 163

pascoli, il bestiame abbandonato e mugghiante. Pausa di mezzogiorno a La Lobbe. Abbiamo sistemato un tavolo sulla strada e bevuto una bottiglia di Borgogna per accompagnare un brodo cucinato con i polli di Boulzicourt. La sera, a Doumely, in una casa già piuttosto cadente. Ho dormito ancora in un letto, completamente vestito però, e con la bisaccia sotto la testa.

Bucy-les-Pierreponts, 29 maggio 1940 In marcia di buon’ora, dopo nemmeno cinque ore di riposo, come al solito ridotte della metà dalla ricezione degli ordini, la distribuzione dei viveri e da altre faccende del genere. Oltretutto oggi abbiamo di nuovo percorso un bel tratto di strada, tanto che, con qualche lunga sosta, abbiamo già macinato novanta chilometri. Attraverso Porcien, Wadimont, Fraillicourt. È la zona dove ero stato nel 1915, con le sue case bianche di pietra calcarea, spesso assai graziosamente incorniciate da un orlo di mattoni rossi alle porte e alle finestre. Sotto l’intonaco dei muri, slavato nel corso degli anni, apparivano segnavia e iscrizioni del tempo della nostra occupazione. Mi hanno fatto uno strano effetto – come se trasparissero sotto i raggi X. Già nel primo paese, Adon, fosse scavate di fresco sulla piazza dove l’altro ieri una cucina da campo, per distribuire il rancio, aveva acceso la luce delle lanterne, offrendo così a un pilota l’occasione di scaricare le sue bombe. C’erano ancora brandelli di uniformi sparsi attorno. La marcia è stata faticosa; gli uomini si sono comportati 164

bene. Altri non saranno da meno nel combattere – eppure resta straordinario come questi, dopo una dura marcia, senza poter riposare, abbiano accolto il nuovo ordine di partenza senza una parola di protesta, né di disappunto. In silenzio, di buon grado, marciano fino ai confini delle forze umane. Nel pomeriggio, a Bucy-les-Pierreponts, uno di quei tipici nidi calcarei dove cuochi e conducenti hanno fatto ore di fila per attingere acqua all’unica fontana rimasta. Sulla piazza del paese, due carri d’assalto, uno piccolo, tedesco, e uno più pesante, francese, di nome «Athos», evidentemente battezzato da un lettore dei Tre moschettieri. Ci sono strisciato dentro, per constatare ancora una volta quanto, in questi aggeggi puzzolenti di petrolio, di benzina e di gomma, non mi senta affatto a mio agio. Passeggiata nei giardini, dove pascolavano polli, conigli e maiali. Vi giacevano anche dei cadaveri, disseminati nelle aiuole. Ho sgranocchiato dei piselli freschi e delle radici, e ci ho cavato anche qualche ravanello. Altri due cavalli azzoppati. Mi sono quindi lasciato dietro un altro carro. Verso sera, oltre mille prigionieri francesi hanno attraversato il paese. Ho parlato con alcuni di loro; mi hanno raccontato che per loro la guerra non era durata più di dieci minuti, nel giro dei quali, come ha detto un alsaziano, erano stati «messi fuori combattimento» da un reggimento corazzato tedesco.

Landifay, 30 maggio 1940 Assegnazione degli ordini a mezzanotte. Subito dopo, 165

sveglia e partenza per Ebouleau, Marle, le Hérie-la-Viéville. A Marle siamo passati di fronte a un gigantesco deposito di vino che è stato distribuito alla truppa. Ho fatto spillare due piccole botti di rosso, e ho ricevuto perfino una bottiglia di cognac. Animali morti: cavalli soprattutto, gonfi all’inverosimile, e con i genitali vistosamente protesi. Mosche azzurre, verdi e dorate ronzano sul loro mantello tanto teso che quasi si spacca, anche le vespe ne punzecchiano la pelle. Muoiono per lo sfinimento; quando passano altri cavalli, li si vede impennare le zampe anteriori e tendere il collo, come per un estremo richiamo. E poi carogne di cani, investiti o morti di fame alla catena; vacche, polli, pecore, moltissimi conigli e gatti. A volte mi sembrava anche di udire dall’interno degli edifici abbandonati il grido di bestie rimaste imprigionate. Quartiere a Landifay, in una casa vuota.

Landifay, 31 maggio 1940 Giornata di riposo a Landifay. Durante la notte ho sognato di essere di nuovo in marcia. Nel pomeriggio, passeggiata tra le cascine morte e la vicina campagna. Il tempo era umido e ventoso. Ho notato che, in perfetta solitudine, lontano dalla truppa, si prova presto un sentimento di paura. Ho letto alcune lettere, ho osservato dei quadri nelle abitazioni abbandonate, come fossero documenti di una civiltà del passato. Al castello sono giunti degli aviatori, a predisporre il quartiere per un comando. Arrivano da Boulogne, mi ha detto un maggiore con il quale mi sono intrattenuto. Da lui 166

ho appreso certi dettagli oltremodo sorprendenti per un vecchio esperto della guerra di materiali. I grandi sbarramenti di allora, come la Somme, Verdun e le Fiandre, si sono impressi tanto profondamente nella memoria che si è troppo facilmente portati a ritenere inespugnabili le postazioni fortificate. Intanto si direbbe che nell’eterna gara tra fuoco e movimento il fuoco abbia avuto la peggio, nel senso che i reparti celeri hanno spesso operato molto prima della fanteria. Così, per esempio, il maggiore aveva preso alloggio in un castello due giorni prima dei propri fanti, ed era venuto a sapere dalla castellana, la quale evidentemente non conosceva le uniformi tedesche, che le stanze erano già pronte – pronte, certo, ma, come poi si scoprì, per un comando inglese, che si era annunciato per quello stesso giorno. Tutto ciò ricorda la guerra dei Sette Anni.

Gercy, 1º giugno 1940 Di notte, sogni intensi, come se nelle case abbandonate si agitasse una materia in cui la vegetazione onirica può iniziare a prosperare. È stato per me come scorgere il nocciolo, o l’ossatura di questa guerra. Un altro giorno di riposo a Landifay. In mattinata, appello in uniforme e stivali, poi passeggiata fino a una fattoria. Un tacchino, polli, anatre con le piume metalliche e rossi becchi di corno nel cortile vuoto. Nel granaio, lana, canapa, granturco e frumento. In sala da pranzo era stato apparecchiato per un grande banchetto su una tovaglia bianca, con molti bicchieri di foggia diversa. Avanzi di oche e pollame già andati a male erano rimasti nei piatti, e tra due 167

bottiglie di vino mezze vuote ce ne era anche una piena di olio di oliva e un’altra con dei medicinali per animali in cui di certo i bevitori frettolosi avevano sperato di trovare del liquore. Anzitutto ho perlustrato il pollaio in cerca di uova poi, come inebriato dalla solitudine, mi sono dato alle scorribande. Sono salito, per esempio, in cima a un grande serbatoio d’acqua. In uno dei locali ho scorto un grande estintore rosso e, poiché non avevo mai visto questi aggeggi in funzione, l’ho battuto sul pavimento e ne ho fatto uscire un raggio bianco e spumoso. All’improvviso, però, ne ho avuto abbastanza, e me ne sono ritornato alla base. Qui ho fatto riordinare il quartiere, e perfino macellare un toro. Non appena tutto era stato rimesso a posto, è arrivato l’ordine di marcia. Con una marcia notturna abbiamo raggiunto Gercy, dove non abbiamo incontrato che pochi abitanti. Ci hanno alloggiati in tre presso una vecchia signora, che ci ha accolti come se si aspettasse il peggio da noi.

Gercy, 2 giugno 1940 Conversazione con la vecchia signora, che ha almeno settant’anni. I suoi figli, e i figli dei suoi figli, sono scappati, senza che lei sappia dove. Mi ha raccontato che, quando eravamo ormai vicini, si è diffusa una sorta di panico. Sua figlia, mentre era in corso un piccolo scontro nei dintorni di Gercy, si è precipitata in auto con i bambini e si è data alla fuga mentre gli spari già sibilavano attorno alla vettura. La vecchia deperisce come una pianta che è stata scossa alle 168

radici. Ho cercato di consolarla, e ho ordinato agli attendenti, i quali sono assai comprensivi, di sollevarla di ogni incombenza, anche della cucina. In chiesa, che è abbandonata. Eppure l’aumônier, che è ancora qui, continua a suonare le campane. In sacrestia c’è una piccola dispensa con il vino per la comunione. Nel frattempo si direbbe che gli spiriti assetati l’abbiano trovato conforme alla prescrizione canonica: «Vinum sacramentale debet esse de gemine vitis et non corruptum», perché le bottiglie erano sparpagliate dappertutto sul pavimento, vuote. La sera, dal comandante. Da lui ho sfogliato un’opera in più volumi con le riproduzioni dei dipinti del Louvre, e nel far ciò pensavo a Nietzsche e Burckhardt, che settant’anni fa dialogavano sulla sorte di queste collezioni.

Gercy, 3 giugno 1940 Ancora un giorno di riposo a Gercy, cui forse se ne aggiungeranno altri. Dopo le operazioni al Nord, si stanno di nuovo preparando le truppe corazzate per attaccare Parigi. Anche la nostra divisione sarà della partita, ma purtroppo credo che, vista la nuova e inattesa rapidità degli assalti, noialtri riusciremo appena a vedere le armate, a meno che non subisca un arresto l’avanzata nella zona della Marna. Soprattutto mi sembra preoccupante per l’avversario che non si veda nessuno dei suoi velivoli. Converso a lungo con la vecchia signora, Madame Robeau, la quale mi racconta che, da quando siamo in casa sua, riesce a dormire di nuovo. 169

Gercy, 4 giugno 1940 Cavalcata per i prati e per i campi, dove l’erba non falciata era in pieno rigoglio – attraverso radure di composite giallo-dorate, margherite che sfioravano con le loro stelle la pancia del cavallo, e il trifoglio chiaro, rosso acceso come ne ho visto solo sui pendii montuosi della Sicilia. Nel pomeriggio, a rapporto dal colonnello Köchling; pare che non rimarremo qui ancora a lungo. La sera, di nuovo un giro per le case vuote; aprendo la porta di una stanza, mi sono trovato davanti un grosso cane nero che mi fissava con uno sguardo ardente. Sono entrato di corsa in una camera attigua, e ho visto un mastino fulvo sul divano e un danese bianco sul pavimento, che mi abbaiavano contro furiosamente. Sembrava il locale di raccolta dei cani randagi. I fiori in giardino – un iris viola pallido con i piumini gialli sul sepalo che fanno un effetto erotico. Il godimento delle api e dei calabroni che ci volano sopra deve essere straordinario. Forse tutte le nostre teorie sugli animali sociali sono sbagliate e quello che prendiamo per lavoro è invece piacere. Poi, gli ultimi fiori della pianta di cuori di Maria e della peonia, anche il phlox, che nel crepuscolo profumava tanto da stordire. A quest’ora si risvegliano anche i suoi colori, e allora gli sciami lo avvolgono. Il phlox, la fiamma, non si nota quando è da solo, ma appare sontuoso se cresce in macchie più allargate – è la trasformazione hegeliana nella qualità.

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Gercy, 5 giugno 1940 Al mattino, di nuovo a cavallo attraverso i bei campi, per andare al rapporto sulle novità riguardo le azioni di attacco. Adesso si può procedere come ce lo sognavamo nel 1918. La Piccardia, con i suoi dolci pendii, i villaggi incastonati tra i frutteti, le sterrate orlate dai filari di pioppi – quante volte mi ha incantato il suo paesaggio. Qui si avverte in modo più elementare di essere in Francia; ecco perché una patria non potrà mai perdere le sue valli e le sue colline. Ogni giorno, anche solo per esercizio, mi intrattengo diffusamente con la nostra ospite, e c’è sempre da imparare. Così, per esempio, le api si chiamano les abeilles, in linguaggio colloquiale anche les mouches. La sera, a cena dal comandante. Al dessert compare un messo del reggimento con l’ordine di essere pronti a mettersi in marcia entro un’ora. Il nuovo attacco dev’essere cominciato questa mattina; non ne avevamo saputo nulla. Scrivo queste righe mentre Rehm prepara i bagagli.

Toulis, 6 giugno 1940 Marciato fino a Toulis, dove siamo arrivati alle quattro del mattino. Acquartierati in una grande fattoria, gli uomini nei granai, i cavalli all’aperto, carri e cucine nel cortile. A letto, ma dormito sulle bisacce in una stanza piccola e oltremodo spoglia in cui era appeso un grande ritratto di donna, una fotografia dei tempi di Flaubert – dalla sostanza erotica ancora molto intensa. Prima di addormentarmi, dal letto ho puntato la torcia su quella bellezza stretta dentro il 171

suo corsetto e ho provato invidia per i nostri nonni. Spigolavano le primizie della decomposizione. La marcia notturna ci portava spesso ad accostare dei cadaveri. Per la prima volta ci siamo trovati davvero in prossimità del fuoco, che si udiva poco lontano – con colpi pesanti e fragorosi. A destra, gruppi di riflettori, in mezzo gialle pallottole traccianti, a lungo sospese nell’aria, certamente inglesi. Poiché possiamo ritrovarci a dover combattere in ogni momento, nel pomeriggio, sotto un sole accecante, ho provato con i comandanti del mio plotone la pistola mitragliatrice, e ho trovato la sua potenza di fuoco più che soddisfacente. Ho fatto allineare di fronte a un pagliaio una lunga fila di bottiglie di vino vuote, che qui certo non mancano, e poi ho fatto aprire il fuoco. A ogni breve scarica, una di esse saltava per aria. L’esercizio si è poi ripetuto a scapito di un vecchio e grasso topo che è sgusciato fuori all’improvviso dal suo nascondiglio tra la paglia con il muso insanguinato, e che Rehm ha finito con un colpo di bottiglia. Sulla via del ritorno, conversazione con un vecchio francese che assiste alla sua terza guerra, visto che ancora si ricorda di quella combattuta nel 1870, quando aveva cinque anni. Sposato, tre figlie; gli chiedo se siano belle e lui, imparziale, con una mossa della mano, «comme ci, comme ça». Comunque, in quest’incontro, ho percepito la dignità che una lunga vita laboriosa conferisce a un uomo. Caldissimo. In chiesa. In una delle navate laterali, un gruppo di donne decrepite, sulla paglia, sorbiva con bocche sdentate, da scodelle tonde, una zuppa servita loro da una ragazza che ora sedeva su una delle panche in preghiera. Poi al cimitero. Qui, due uomini intenti a scavare una 172

fossa – per un vecchio, il terzo profugo morto negli ultimi due giorni. Rivoltavano il terreno dei morti, coltivato da tempi antichi; uno di loro ha portato alla luce un teschio. Significativo nelle guerre e nelle catastrofi fatali: il tira e molla per cui prima il combattimento sembra impossibile e, subito dopo, è cosa sicura. Restiamo così sospesi nell’incertezza, fino al momento in cui, alla fine, si apre il fuoco. Ma tutto ciò era già stato messo in conto dai grandi generali. È un simbolo della condizione esistenziale in assoluto. Non ci sottrarremo alla prova suprema. Pensieri durante la cavalcata notturna di ieri – riguardo ai macchinari della morte, alle bombe degli aviatori all’assalto, ai lanciafiamme, a tutte le specie di gas tossici – insomma, all’intero, possente, arsenale di distruzione che si dispiega minaccioso al cospetto dell’uomo. Ma tutto ciò non è che un teatro, pura messinscena, che muta con il tempo e che non era di minore portata sotto l’imperatore Tito. Nemmeno i primitivi si sottraevano a simili pene; esistono tribù capaci di torturare con ricercata raffinatezza. Gli orrori dell’annientamento, come nelle antiche raffigurazioni dell’inferno, si mostrano sempre con estrema dovizia di dettagli tecnici. Eppure resta eternamente la stessa la distanza assoluta che ci separa dalla morte. Basta un passo per misurarla; qualora ci decidiamo ad azzardarlo, tutto il resto appartiene alla rappresentazione o alla tentazione. Le visioni che ci appaiono su questo cammino sono riflessi della nostra debolezza – cambiano a seconda del tempo in cui siamo nati. 173

Laon, 7 giugno 1940 Di notte, ancora a Toulis, certo a causa della resistenza che ha incontrato l’assalto del nostro reparto. I francesi si difendono sulle alture lungo il canale Aisne-Oise, e durante il pomeriggio di ieri la 25a divisione è riuscita a sfondare nel tratto di bosco a sud di Sancy. La nostra divisione, la 96a, mantiene per ora la sua posizione, ma può entrare in azione da un momento all’altro. Verso mezzogiorno, in marcia verso Laon, visibile in lontananza in cima al suo monte. La città, dove fui già nel 1917, vive nei miei ricordi come una fortezza di avamposto della romanità, e non credo che questo sentimento mi inganni. Si avverte lo stesso sentore che avvolge antichissimi sacrari. Lungo la strada, ancora cavalli morti, due dei quali galleggiavano nell’acqua ristagnante di un gigantesco cratere scavato da una granata. Anche carri armati sfondati. Grandi cumuli di macerie alle porte della città e nei suoi sobborghi: un paesaggio di barricate. Canicola ardente, anche in città. Ho fatto deporre i fucili e ho mandato il furiere d’alloggiamento nel quartiere che ci era stato assegnato. Mentre, durante questa sosta, io e Spinelli ce ne stavamo comodamente seduti su due poltrone da barbiere che avevamo fatto portare fuori sulla strada, è passato il generale e mi ha chiamato per dirmi che proprio oggi Soissons era stata occupata e il canale dell’Aisne attraversato in tre punti. Quartiere sul limitare della città; con due ufficiali mi sono sistemato in una villa con un grande giardino e un’ampia terrazza. Siccome le cantine sono ancora ben fornite, ci 174

mando un veicolo che presto ritorna con damigiane e bottiglie di vino rosso. Per incarichi come questo occorre scegliere uomini acuti, che si distinguono molto in fretta. Gli altri arrivano con dell’aceto, vinaigre, al posto del vino, e con barattoli di colore al posto di scatole di conserva. Ho fatto anche macellare un manzo, perché la carne che ci hanno fornito era maleodorante. L’ho indicato dalla terrazza in una grossa mandria che pascolava nel campo. L’abbondanza di carne è, dalla notte dei tempi, uno dei segnali di una vittoria recente. Gran parte della compagnia si è munita di biciclette, e non mancano perfino dei tandem, biciclette da donna e una motoretta. Per il colonnello tutto questo, esattamente come i simboli grotteschi che decorano i veicoli, è un orrore. Si è appostato intenzionalmente vicino a una fonte per fermare un uomo che marciava accanto alla colonna con in testa un elmetto coloniale. Scrivo queste righe dopo che ci siamo fatti innaffiare con dell’acqua nel bagno, mentre siedo sulla terrazza bevendo del liquore – Cointreau e Fine Champagne –, trovato nella mescita locale. A poca distanza, dal Chemin des Dames, risuona fin qui da noi il concerto dell’artiglieria: è un lento susseguirsi di colpi, come montagne che franano. Si prolungano intrecciandosi tra loro in uno spaventoso botta e risposta. Quando li si ascolta come li ascolto io oggi, all’improvviso si sa che per gli uomini, parlassero pure la lingua degli angeli, esiste un confine della parola. E allora si levano queste voci, dal ferro e dal fuoco, studiate per generare la paura – e davvero i cuori ne sono messi intimamente alla prova.

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Laon, 8 giugno 1940 La sera letto ancora Bernanos – il primo libro di questo autore pubblicato dopo il suo trasferimento in Sud America. L’ho trovato qui in casa e prima di addormentarmi ho di nuovo ripensato alla condizione di questo spirito, connotata da tanti tratti simbolici. Prima ch’io partissi per Parigi, Steiner mi aveva caldamente invitato ad andarlo a trovare; e probabilmente è stata solo la sua celebrità a trattenermi dal farlo, perché tra tutte le conoscenze cui si possa aspirare, quella di persone famose non mi ha mai attirato particolarmente. È come se, man mano che ci facciamo un nome, perdessimo in proporzione anche di qualità – quella qualità che contraddistingue colui che chiamiamo il prossimo. Quanto più un uomo diventa significativo per la massa, tanto più, proporzionalmente, diminuisce il suo valore per il prossimo. Lo si osserva soprattutto nelle donne: come è più generosa la nostra vicina di colei che, come una stella, sfavilla sui manifesti. Nel cuore della notte, svegliato da un bombardamento non troppo lontano di qui. Volevo scendere in cantina, ma non ho trovato i miei stivali. Così ho lasciato perdere, e mi sono presto riaddormentato. Prima di mezzogiorno ho fatto con Spinelli una volata per i campi roventi sui pendii della montagna. Rose, peonie bianche, gelsomini. Dentro molte case, in parte colpite dai proiettili. In una di esse, attraverso la parete della sala da pranzo, si vedeva un pupazzo di seta: troneggiava lascivo sul buffet, sospeso su un baratro. Da un armadio per la biancheria ho preso un asciugamano, di cui avevo bisogno. Per quel che riguarda l’appropriazione dei beni altrui, ci 176

sono dei limiti ben precisi, che cerco di insegnare ai miei uomini. Così, per esempio, un soldato può impadronirsi di un cucchiaio se ha smarrito il suo – in certe circostanze perfino di un cucchiaio d’argento, se gli capita di trovarne uno, ma assolutamente in nessun caso se accanto ce n’è un altro di stagno. Abbiamo raggiunto le mura della cittadella in un punto in cui vi erano incise le date 1598 e 1498. Per il pranzo Rehm aveva raccolto nell’orto le prime patate e le prime ciliegie. Ma prima io avevo già fatto onore alla mia antica passione di raccogliere i piselli verdi dalla pianta. Mi sembra che in essi si possa gustare un estratto delle più fini forze della natura.

Laon, 10 giugno 1940 Ieri, mentre gli altri battaglioni del reggimento già si muovevano verso Soissons, il nostro, con sommo disappunto di tutti noi, è stato trattenuto ancora per un poco a Laon dalla IX armata, per assicurare il mantenimento dell’ordine fino all’arrivo di altre unità. Nell’ambito di questo incarico, mi è stata affidata la cura della città alta, e in particolare della cittadella, del museo e della cattedrale. Nella città alta, soprattutto di notte, regna ancora uno stato di anarchia. In effetti essa si trova in una condizione di quasi totale abbandono, eppure, in posti simili, resta sempre un certo qual residuo di fondo, che facilmente si combina con gli elementi peggiori presenti in ogni truppa. Perciò faccio girare per i vicoli numerose ronde e pattuglie, che fermano chiunque sia trovato senza motivo nelle case, come pure gli ubriachi e gli individui sospetti. Costoro vengono 177

tutti rinchiusi nelle casematte della cittadella e smistati da me verso mezzogiorno. La cittadella, una costruzione arroccata dei tempi antichi, oggi non ha più alcun valore militare. Serviva solo come alloggio per le truppe, e ho trovato il suo grande cortile, i fossati difensivi, le casematte e le dispense in un disordine incredibile. Pezzi di equipaggiamento, armi gettate via, mobili, auto, botti piene di vino e casse di conserve si ammucchiavano come relitti di navi affondate o come i resti di un mercato delle pulci su cui si fosse abbattuto un uragano. Nel museo, che conserva una modesta collezione di provincia, ho messo un gruppo di sentinelle. Ho visto lì un ritratto di Greuze, oltre ai quadri dei fratelli Le Nain, originari di Laon, e una bella riproduzione di Rubens eseguita da Delacroix. In particolare mi piaceva un dipinto floreale donato dalla città a Napoleone III – astri e fiori di pesco in un lucente raggio di sole, e un iris, di un azzurro chiaro che risplendeva con sublime raffinatezza nell’oscurità dell’ombra. Calore e frescura si mantenevano qui in un equilibrio prodigioso. Ho fatto fare un inventario. Mancavano tre quadri; una teca che custodiva delle monete era stata svuotata. Alla fine ho fatto montare la guardia anche alla cattedrale. Ci sono un osservatore che vigila sugli aeroplani, due sentinelle sul portale e una ronda all’interno, che sostituisce il guardiano e controlla che i visitatori mantengano un atteggiamento adeguato. Dopo aver già velocemente visitato ieri la costruzione, questa mattina mi sono trattenuto a lungo nelle sue alte navate, e l’ho trovata, come il primo giorno, magnifica. In particolare mi ha colpito la purezza 178

delle sue linee – la semplicità con cui le colonne portanti fioriscono nei capitelli. Qui si avverte un presagio dell’immensa forza di secoli ancora da venire: è chiusa nel bocciolo. In cima alla torre, da cui abbracciavo con lo sguardo, in lontananza, i binari della ferrovia, le strade percorse dal traffico dei veicoli, le piste degli aerei con l’andirivieni dei velivoli che decollavano e atterravano, coglievo l’unità tra quei tempi lontani e il nostro tempo. Sentivo che proprio questa unità non deve sfuggirmi, e ho giurato a me stesso di non dimenticare mai il mio debito verso gli avi. Le chimere che guardano verso la campagna. Certune hanno un’evidente somiglianza con il mondo zoologico: con il pipistrello per esempio, la lince, il lupo, il gatto e, in basso a sinistra, di fronte al portale maggiore, ce n’è anche una simile all’ippopotamo, al punto che, di questo animale, riproduce scrupolosamente perfino la posizione delle orecchie. In altre, come nelle teste dei monaci maligni, si esprimono i tratti di una fisiognomica trascendentale. Le più strane però sono quelle provenienti dal regno dei demoni; in essi si è pietrificata un’esperienza ormai estinta, e il nostro sguardo se ne pasce con orrore. Sentiamo che cose simili non si possono inventare a capriccio. Ho pensato all’Acropoli – a come, lassù, figure simili siano state trovate in profondità sotto le fondamenta. Che differenza con questo sciame, con questa ridda di spiriti nell’aria e nel vento! E com’è strano l’aspetto delle mandrie di buoi che si vedono pascolare attraverso il folto delle colonne delle torri. Oggi mi ha assalito il presentimento che queste cattedrali siano opere, opere della vita, estranee alle morte misure del mondo dei musei. Aveva un suo peso anche il pensiero che 179

questa chiesa è posta sotto la mia protezione; me la sono stretta al cuore come se all’improvviso fosse diventata minuscola. Abito con i miei due ufficiali in rue du Cloître, nel quartiere dei notabili che, gambe in spalla, hanno tutti quanti tagliato la corda lasciandosi dietro le loro lussuose dimore. Ritroviamo qui quel gusto di vivere da lungo tempo sconosciuto in Germania. Siamo davvero i Sansculotte, i vincitori, non senza le braghe, ma con braghe in fibra di legno e scopriamo con un certo stupore che razza di tesori ci siano ancora in questo mondo – come nelle cantine del mio ospite sconosciuto, con la collezione di Borgogna che, esposta su mensole e scaffali, copre le pareti fino al soffitto. Sarebbe una follia non approfittare di questo ben di Dio; pertanto giusto ieri, in tre, a lume di candela, abbiamo fatto una degustazione, e abbiamo assegnato a un dolce Vougeot il primo premio e a un Chambertin il secondo. Molto forte era anche un Beaune del 1934, con il bel motto «J’aime à vieillir». Di notte, afa. Ancora bombe nei dintorni, crepitii – a letto, leggendo, ho udito l’aereo ronzare sui tetti come un insetto pericoloso. Proseguita la lettura di Bernanos. Discussioni come, in questo caso, con Maurras, mi sono note a sufficienza dal nazionalismo tedesco – è un bene quando tutto questo va a sfociare nell’esercito, come gli anonimi acquazzoni di giorni e notti, la cui forza, giù a valle, fa girare i mulini. La polemica da parte di uno spirito così significativo è sempre un po’ penosa, per quanto possa avere le sue ragioni. A ogni osservazione polemica che viene taciuta corrisponde un merito guadagnato, e tanto più si guadagna quanto maggiore è la ricchezza di spirito che la 180

polemica potrebbe contenere. In alternanza, Maupassant, che ho trovato in una piccola edizione economica tra scatole di caramelle e cosucce assai intime lasciate sul comodino accanto al letto. È uno degli autori che vado apprezzando sempre di più – in lui la forza individuale si mantiene ancora in equilibrio con l’eredità ricevuta dalla tradizione. Vi è un certo tipo di leggerezza che nasconde la fatica e l’inimitabilità del lavoro, al punto da indurre a sottovalutarli. Solo l’originale può darne un’idea adeguata. Leggendo, ho notato chiaramente la perfetta eleganza di una semplice espressione come «nous faisons» – l’ho vista lampeggiare nella frase come un pesce che guizza sul pelo dell’acqua. Insuperabili i finali, che danno un ultimo bagliore, nel quale risplende nuovamente il contenuto della narrazione; è come se, in un certo modo, ne svelassero la formula. Ritorno a Bernanos: egli teme che le formazioni statali moderne non crescano più secondo regole e misure umane, ma avanzino come una sorta di insetti giganteschi. Una preoccupazione che, a prima vista, si direbbe giustificata, ma in fondo si tratta di un fenomeno storico che sempre si ripete e che, in sé, è oltretutto di secondaria importanza – nel senso che si verifica per rispondere a un disagio più profondo, forse addirittura per curarlo. La storia umana recede per lasciare spazio a quella meccanica, o anche demoniaca, ma ritorna poi alle norme, creando un nuovo equilibrio. Il segreto sta nel fatto che la sofferenza genera forze più alte, risanatrici. Riflettuto su parole come beaucoup. Per una relazione così semplice sono in fondo un po’ eccessive – probabilmente 181

sono nate entro cerchie particolari, magari di cacciatori o di pescatori, e poi si sono introdotte nel linguaggio di uso comune. Così anche oggi si riprendono espressioni dai gruppi studenteschi o altri simili, riconoscibili dal sapore. Del resto, la paroletta «molto» genera sinonimi piccanti più o meno in tutte le lingue.

Laon, 11 giugno 1940 Ancora nella cattedrale, stavolta nelle cripte, che proseguono in profondità tra una selva di colonne e si perdono in un labirinto di recessi; poi sulle scale a chiocciola delle torri laterali, e nei matronei, dalla cui altezza lo sguardo scopre sempre nuovi segreti. In questo giro, a colpirmi è soprattutto l’invincibile solidità dell’edificio, che non si potrebbe immaginare costruito meglio. E poi la forza spaventosa del progetto che, di per sé quasi fuori dal tempo, è in grado di asservire generazioni. In uno dei matronei ho trovato un minuscolo pipistrello rinsecchito, e l’ho raccolto per ricordo. Ancora sulle torri, per studiare i demoni. Sulla via del ritorno mi è venuto in mente che dovevo ancora scrivere una lettera a Friedrich Georg, e che non avevo una penna. Mi sono guardato in giro per cercare una cartoleria, ma poiché non ne ho trovate, mi sono diretto verso il tribunale, una costruzione gotica attigua alla cattedrale. Dopo aver attraversato l’ingresso e le sale d’attesa, mi sono ritrovato nell’aula magna, dove sul tappeto verde del tavolo dell’assisa ho visto i tocchi dei giudici, come deposti per una breve pausa. Mi sono seduto sul seggio del presidente, e mi sono messo a studiare gli atti, 182

lasciati interrotti. Però non ho trovato alcuna penna, e ho proseguito allora la mia ricerca nei locali dei vigili del fuoco, dei segretari, degli avvocati e del giudice. Infine sono capitato nello studio del presidente e, siccome dopo la salita sulla torre avevo bisogno di riposarmi, mi sono concesso una sosta per riprendere fiato alla sua scrivania. Aprendo le cartellette, ho trovato una messe di documenti, lettere, verbali. E mi sono anche reso conto di quanto un così alto incarico sia logorante per i nervi, come mi confermavano tubetti e vasetti pieni di medicinali. Soprattutto però ho trovato un astuccio con delle penne, la ragione per cui ero entrato là dentro. Dunque avrei potuto lasciare il posto, se uno slancio di curiosità non mi avesse spinto a salire ancora ai piani superiori. Ci ho trovato degli appartamenti dove, avvalendomi del mio diritto di soldato, mi sono preso una spugna di gomma di cui avevo bisogno. Ancora più su, in soffitta, erano accatastate montagne di atti, chiusi dentro custodie azzurre, certo archiviati da chissà quanto tempo. Ne ho estratto un fascicolo che conteneva i verbali di un contenzioso degli anni Sessanta su delle case, e mi ci sono sprofondato finché la scrittura non ha iniziato a dissolversi nella penombra del crepuscolo. Poi, quasi al buio, ronda con Spinelli per controllare le pattuglie, durante la quale la zona di annientamento mi è apparsa sotto un profilo del tutto diverso. Abbiamo attraversato cortili dove i gatti stavano in cerchio immobili – terribili e solenni. I negozi, soprattutto le macellerie, esalavano un sentore di putrefazione. Passare per gli edifici abbandonati era dapprima eccitante, poi spossante, infine angosciante. Siamo entrati in un caffè, dove i bicchieri, mezzi pieni, erano ancora posati sul bancone di marmo, e ci 183

siamo messi a colpire con la stecca l’unica palla da biliardo rimasta sul tavolo verde. Poi abbiamo acceso gli apparecchi automatici. Dopo alcuni giri, siamo finiti in una grande casa, con saloni pieni di cartoteche; era l’ufficio del catasto, come ho visto dalle mappe e dai disegni. Poi alla stazione della gendarmeria; mandati di cattura, passaporti e una macchina da scrivere in cui era infilata una lettera con una parola interrotta a metà. Al buio, ancora nella biblioteca, dove siamo entrati passando per il portone sfondato. Abbiamo attraversato le sale in cui ho illuminato qua e là dei libri con la pila tascabile – tra gli altri un’edizione dei Monumenti antichi, di valore inestimabile. Riempiva un intero scaffale. In parte sul pavimento, in parte su un lungo tavolo, c’era un’imponente collezione di autografi, in circa trenta volumi. Ne ho aperto uno a caso, e conteneva lettere di celebri botanici del XVIII secolo, per lo più scritte in una fine ed elegante calligrafia. Da un altro fascicolo ho sfilato uno scritto di Alessandro I, e anche pagine di Eugène de Beauharnais e Antommarchi, il medico personale di Napoleone. Con la sensazione di aver varcato un antro di Sesamo, ho lasciato quel luogo e me ne sono tornato al quartiere. Dopo mezzanotte, di nuovo bombe sulla città.

Laon, 12 giugno 1940 Al mattino mi hanno condotto settecento prigionieri da alloggiare e tenere in custodia nella cittadella. Mi sono accostato alla colonna assortita alla bell’e meglio con uomini 184

provenienti da armate e reggimenti diversi, e ne ho chiamato fuori uno: un maresciallo dall’aria intelligente. Gli ho affidato un alsaziano per interprete, e il compito di nominare sei capisezione, ciascuno dei quali avrebbe poi a sua volta scelto dieci caporali da prendere con sé. Infine, ogni caporale si è preso dieci uomini. Intanto, di sopra, ho segnato la suddivisione degli alloggi con un pezzetto di gesso. Così, nel giro di una mezz’ora, quell’intera massa era organizzata e accasermata. Avendo poi saputo che molti di loro non mangiavano nulla da un pezzo, ho chiamato i cucinieri, e ne ho visti uscire dai ranghi circa una dozzina. Li ho fatti immediatamente andare in cucina, dove c’erano ancora molte provviste, e li ho messi al lavoro. Prima però ho chiesto loro: «Chi di voi sa come si prepara la sole à la meunière?» Si è presentato allora un piccoletto arzillo, Arthur, che aveva un incarico di attendente nel reparto dei marocchini. «Non è difficile, mon capitaine.» Oltre a lui si è fatto avanti anche un altro tipo, un uomo placido, tranquillo, Monsieur Albert. L’ho nominato mio cuoco personale, e gli ho assegnato Arthur come aiutante. Ecco poi la serie di provvedimenti che occorreva prendere: collocazione delle sentinelle all’uscita, divisione e alloggiamento dei prigionieri, riordino, allestimento delle latrine, assegnazione degli ordini di polizia. Per il resto ho lasciato in pace quella povera gente e ho trasmesso loro i miei ordini per voce del loro capo, che era per così dire il perno attraverso cui venivano messi in movimento. Più tardi mi sono accorto che la presenza dei settecento francesi non mi aveva procurato il minimo disagio, sebbene avessi accanto a me una sola guardia, puramente simbolica. 185

Quanto incomparabilmente più spaventoso era stato quel solo francese che, a Priesterwalde, nel 1917, mi aveva lanciato addosso una granata a mano nella foschia mattutina. Fu un episodio istruttivo, che rafforzò la mia decisione di non arrendermi mai, cui sono rimasto fedele fin dalla Guerra mondiale. Gettare le armi è sempre un gesto irrimediabile, che va a intaccare la forza originaria del combattente. E sono convinto che perfino la lingua abbia a risentirne, per compassione. Si nota con particolare evidenza nelle guerre civili, in cui la prosa delle fazioni sconfitte perde per così dire la sua forza. Preferisco piuttosto impedirlo con il «Lasciatevi ammazzare!» di Napoleone. Questo vale naturalmente per gli uomini che sanno che cos’è che conta in questo mondo. Sbrigate queste faccende, sono tornato in biblioteca per dare ancora un’occhiata alla collezione degli autografi, che oggi mi appariva perfino più significativa. Nei suoi poderosi volumi erano raccolti numerosi documenti: dalle pergamene carolinge, nelle cui artistiche scritture il signore apponeva la sua firma con un tratto, fino ai manoscritti dei contemporanei; inoltre lettere e decreti dei Capetingi, fino ai Breves di Luigi XV e al Louis di suo nipote, che sembra stranamente esitante. Nel primo volume ho trovato uno scritto di Lotario, datato 972 se ben ricordo, e nell’ultimo due lettere del maresciallo Foch al presidente del tribunale civico di Laon, Berthault. Erano state pinzate assieme nel 1920, secondo la brutta consuetudine dei bibliotecari francesi, con uno spillo che aveva ampiamente macchiato di ruggine la carta, e che mi sono premurato di rimuovere. Rovistavo in questo luogo silenzioso come un’ape nel trifoglio appassito, finché è scesa la penombra del 186

crepuscolo. Sono queste le ore privilegiate per contemplare la grandezza e il suo tramonto – tra polvere di alloro. Quanto al valore: simili tesori sono inestimabili – li si abbandona solo quando si è stati colpiti nell’intimo. Posso dire in tutta sincerità: non mi ha quasi sfiorato il pensiero che i fogli che mi rigiravo tra le mani avessero un valore monetario di milioni, forse perché sono verosimilmente il solo in questa città a comprendere il loro significato. Per un attimo ho pensato di trasferire i documenti che avevo osservato, come pure gli elzeviri, nel museo, e di metterli sotto sorveglianza, ma alla fine, anche solo questo spostamento mi è parso una responsabilità troppo grossa. Così li ho lasciati incustoditi al loro posto. Ancora nella cittadella, dove mi è stato condotto un giovane da una colonna di fornai, che era stato trovato mentre dormiva in una delle case distrutte. Mi è stata anche mostrata la manciata di monete che aveva in tasca – monetine bucate di nichel, senza alcun valore. Poiché la cosa poteva prendere una brutta piega, e invece a me sembrava più che altro una ragazzata, mi sono deciso a lasciarlo andare, soprattutto perché il ragazzo aveva un viso particolarmente trasparente e ingenuo. In questi casi si deve studiare la fisionomia come il principale e sostanziale passaporto di cui la natura ci ha dotati. La giornata era stata torrida, e ho trascorso con Spinelli una parte della notte sulle sedie a sdraio che ci eravamo fatti portare sul tetto terrazzato della cittadella, per osservare il consueto attacco aereo. Ma questa volta non c’è stato. Prima di addormentarmi ho ripensato ancora una volta alle disposizioni della giornata, soprattutto riguardo ai prigionieri. È certamente dipeso da un momento di 187

buonumore il fatto che abbia saputo gestirle con tanta disinvoltura; specie se si considera che vado sempre più perdendo il senso delle cose pratiche. Eppure anche in esse vi è un godimento dello spirito. In certi momenti di svolta della nostra gioventù possono presentarsi davanti a noi Bellona e Atena – l’una con la promessa di insegnarci l’arte di condurre abilmente venti reggimenti in modo che siano tutti schierati per bene al momento dello scontro, l’altra invece con il dono di saper disporre venti parole, in modo da formare una frase perfetta. Potrebbe accaderci di scegliere il secondo alloro, che fiorisce più raro e invisibile sulla roccia.

Laon, 13 giugno 1940 Al mattino, ronda per la cittadella – soprattutto nelle sue gallerie sotterranee, dove svolazzavano i pipistrelli. Qui mi sono trovato di fronte a una lapide di marmo dedicata al comandante che, nel 1870, si è fatto saltare per aria con la polvere da sparo – ricordavo vagamente di aver letto qualcosa al riguardo. Nel pomeriggio ho riordinato la cantina del nostro quartiere – è anche questo un lavoro pour le roi de Prusse, visto che ormai la nostra partenza da qui è questione di giorni. Il padrone di casa era un appassionato di vini di Borgogna: ne teneva oltre trenta varietà, tra cui sei solo di Beaune. Per questo lavoro mi ero scelto tra i prigionieri il cameriere di un caffè di Montmartre, che era esperto in materia. Chiacchieravamo mentre lui rimetteva a posto le bottiglie che bevitori precipitosi avevano tirato via dalle 188

mensole e io redigevo un inventario: si parlava di vini, ostriche, antipasti e bouillabaisse. In simili questioni di gusto il mio interlocutore aveva un’esperienza straordinaria, e lo stesso in fatto di donne, che classificava in base alla provincia di appartenenza. Contrapponeva, per esempio, le marsigliesi alle parigine – le prime, secondo lui, sarebbero meno fredde, dunque più accessibili. Nel congedarlo gli ho permesso di scegliersi una bottiglia; ha optato per un vecchio Pommard, col tappo già mezzo marcio. A dormire presto, ho letto però fino a mezzanotte. Prima ho finito lo studio di Crépet su Baudelaire, che mi pare esemplare in questo ambito di ricerca. Comprende una biografia, una parte aneddotico-documentale e un’appendice con lettere di e a Baudelaire. In tal modo l’uomo viene rappresentato con la sua aura. I dettagli: la lettera di Victor Hugo in cui si proclama che l’arte è l’ancella del progresso. Bellissima per contro l’osservazione di Baudelaire riguardo a Hugo, in una lettera del 1864: «Questo poeta in cui Dio, per uno spirito di imperscrutabile mistificazione, ha creato un amalgama di stupidità e genio». È, in effetti, una delle commistioni più fatali, sebbene di sicuro anche una chiave per il successo e la popolarità. Libri come i Misérables sembrano relitti buttati a riva per le masse. Gli altri perdono certamente ogni curiosità per le muse che mettono al mondo figli del genere. Ciò mi ricorda una conversazione avuta nel 1938 con Janin, dopo un pomeriggio trascorso da Gide – è come se allo straniero mancassero determinati presupposti per poter comprendere la non comune ammirazione che i francesi nutrono per Hugo. Ma è anche vero che il giudizio sul suo conto, come sulla maggior parte delle grandi figure del XIX 189

secolo, a cominciare da Napoleone, non è ancora definitivo. Nel 1866 un certo Pechmeja scrisse da Bucarest una lettera a Baudelaire. In essa loda, tra l’altro, la poesia Élévation, e dice che le lettere impiegate per comporre quei versi, se traslate in colori e figure geometriche, si intreccerebbero in un disegno simile a quello intessuto nei tappeti persiani o nelle stoffe indiane. Poi ho sfogliato ancora per un poco una biografia di Gauguin, una figura in cui traspare l’annuncio di molte delle cose che verranno, specie nella combinazione di nervosismo e brutalità. All’improvviso ecco apparire tipi senza vestiti addosso. Profondamente addormentato, sono stato svegliato di soprassalto da un forte colpo d’aria. Formazioni nemiche volavano in cerchio sulla città lanciando bombe. Ora vicino ora lontano scoppiavano catene di esplosioni, a tratti interrotte da lanci isolati, di una forza spaventosa che invadeva la notte fino a grande distanza. Poi gli apparecchi riprendevano a ronzare rasente i tetti. L’attacco è durato due ore buone, durante le quali mi sono addormentato più volte per tornare a sedere sul letto puntellandomi ai gomiti. In città c’era un silenzio assoluto, come se fosse morta; solo di sotto, nello studio, un orologio batteva i quarti d’ora, con un allegro rintocco di campanelli.

Laon, 14 giugno 1940 Al mattino, ispezionate le nuove sentinelle, che ho disposto accanto all’arsenale e in altri punti. Sul ciglio della strada, velivoli precipitati e animali morti. All’ingresso della 190

fabbrica dei filtri antigas, un carro pesante aveva schiacciato un cane o un gatto al punto che non ne rimaneva più di una larga macchia rossa. Mai più avrei sospettato che si trattasse dei resti di un essere vivente se non avessi visto sei corpi non nati, sei embrioni che orlavano quella chiazza disegnando un esagono. Come pallottole di gelatina, chiusi dentro la loro pellicola scivolosa, avevano schivato il peso della ruota ed erano i soli ad aver conservato la loro forma in quella poltiglia. Ho avuto la sensazione che così, sia pure solo nell’ossatura meccanica, si fosse dispiegata una cura – la cura amorosa della grande madre della vita, di cui le madri degli uomini o degli animali sono immagine. Come già altre volte, è sorta allora in me la solita domanda: «Perché mai ti si presenta questo spettacolo?» Ho sempre avuto cuore per le sciagure – e, seppure a mio discapito, per quelle fuori moda. Quest’ultima mi pare anzi una delle caratteristiche da cui si riconosce un’autentica sciagura.

Laon, 15 giugno 1940 La mattina, nell’arsenale, dove ho ispezionato le sentinelle. Poi, su invito di Keunecke, abbiamo giocato a sparare alle bottiglie lanciate in aria. C’erano anche delle provviste; ho trovato una lunga rimessa piena di spezie, e ne ho fatto riempire una cesta per Monsieur Albert. In un’altra rimessa c’era una montagna di oggetti strani, tra cui spiccavano coltellini tascabili, rasoi, chiavi, portafogli e taccuini. Ne ho dedotto che fosse stata radunata lì dentro 191

una moltitudine di prigionieri, e che fossero state tolte loro tutte quelle cose. Ho trovato anche il dettagliato diario di un capitano francese, e l’ho preso con me. Già solo sotto l’aspetto grafologico, offre un esempio di come sia possibile passare da una solida sicurezza a uno stato di grande ansietà. Costui cominciava infatti con una linda scrittura a penna, per finire con appunti concitati buttati giù prima a matita, e infine con una sanguigna.

Essommes, 16 giugno 1940 Improvvisamente sono stato richiamato con la compagnia a Château-Thierry. Siamo passati per Soissons a bordo di autocarri. Anzitutto ho fatto sgombrare il quartiere, dove si era venuta a creare un’atmosfera confortevole pur tra le rovine, un po’ come a Mosca sotto Napoleone. Poi congedato Arthur, per la sua condotta un po’ troppo marocchina. Si è presentato a rapporto e mi ha pregato di farlo restare: preferiva servirmi piuttosto «de faire ce qu’on appelle des traveaux de pisse». Siccome però era sempre inspiegabilmente ubriaco già dopo la prima colazione, e la sera, come una gazza, aveva le tasche piene di oggetti raccattati qua e là, l’ho fatto condurre alla cittadella assieme agli altri prigionieri – ho tenuto invece con me Monsieur Albert. Le vie, i villaggi, le città che attraversavamo scorrevano via tra le macerie lungo la strada fittamente orlata di carri bruciati; c’erano anche dei carri armati carbonizzati. Cavalli morti, rovine, fosse. Dal folto dei boschi, odore di cadaveri. 192

In molti punti, monumenti del 1870 e della Grande guerra, spesso distrutti dai proiettili. In mezzo a questo mondo di rovine risuona per le strade e sui ponti ricostruiti il rullio delle ruote pesanti nell’avanzata di colonne interminabili dirette a ovest. Cannoni, batterie antiaeree, munizioni, fanterie sui trattori, carri armati, autoambulanze, riflettori, compagnie di disinfezione e altri veicoli di cui tutti ignorano la forma e il contenuto. Domina un senso di stanchezza e, nel contempo, una consapevolezza da superpotenza invincibile. Sui radiatori dei carri pesanti, strane mascotte: scarpacce di legno, elmetti rubati, allampanate maschere antigas ed eleganti bamboline cui nella corsa il vento rovescia sopra la testa le gonne di seta. Il carro di un reparto d’assalto reca un teschio che, come si vede dalla calotta recisa e lievemente tintinnante, proviene da un gabinetto anatomico. A Soissons, sulla piazza invasa dal terriccio e dai mattoni, sono esposti i manichini dei negozi di moda. Sembrano gesticolare con le mani e conversare tra di loro; un poliziotto col berretto rosso alza le sottane di una giovane contadina. Poiché la città è stata danneggiata dai colpi d’artiglieria, procedo verso Essommes, che si trova a circa venti minuti di distanza, sulla Marna. Anche là regna una confusione indescrivibile, con barricate sulle strade e, in mezzo, solitudine di giardini. Nel castello, dove ci siamo acquartierati, stavano prima di noi gli Alpenjäger – ci sono dei mobili nel parco e, davanti all’entrata, è steso un cane morto. In un angolo è ammucchiata una riserva di mine francesi, con un cartello che invita a fare attenzione. Nelle stanze si sono già annidati i conigli, al primo piano salta fuori un gatto d’angora. 193

Dopo l’arrivo e l’alloggiamento degli uomini nei giardini, dove fioriscono i primi gigli e maturano i frutti. Più in alto, sul pendio del monte, in pieno sole, una piccola coltivazione solitaria. Fragole, ribes di tre colori, lamponi rossi e bianchi. Tra le fragole, una specie più piccola, quasi nera, dolce fino all’inverosimile. I soldati trasportano damigiane di vino e sacchi di caffè, impiegati per imbottire le barricate. Crolla così il valore delle cose quando ne va della vita. A sera, e ancora adesso, una strana sensazione, come di ubriachezza. Sono stracolmo di immagini come un recipiente che trabocca. Scorrono fuori da me, giù per i miei fianchi.

Essommes, 17 giugno 1940 Stamattina ho fatto uccidere da Monsieur Albert quattro anatre che vagavano ancora nel parco, poi sono andato in bicicletta fino a Château-Thierry, per prendere ordini dal generale Schellbach, di stanza laggiù al Blauen Kloster. Mentre ero in cerca di questo edificio, ho attraversato aree deserte, dove carogne di cavalli ostruivano il passaggio. Sul ciglio della strada principale c’era un groviglio di vetture accartocciate l’una sull’altra. Il tutto appare come un grande mosaico, e si notano appena i piccoli dettagli che vi si celano innumerevoli come in un rebus. Così, per annotare un ordine da consegnare a un messo, ho appoggiato la cartelletta a un carro armato di cui non restava che il telaio. Solo dopo che me ne ero già andato via, mi sono reso conto che, scrivendo, il mio occhio si era posato su questa massa di ferro simile a una graticola riarsa dal fuoco. E su questo 194

braciere spaventoso non mancava nemmeno la carne. Scatto così, quasi automaticamente, fotografie che un oscuro processo spesso mi presenta sviluppate solo dopo alcuni minuti, perfino dopo ore. Da un lager ho preso cento prigionieri perché riordinassero il castello e il suo parco. Si lamentavano per la fame; ho disposto perciò che si andasse a prendere del vino dalle cantine, e si raccogliessero provviste dagli orti, e ho promesso loro una cena prima di rimandarli indietro. Dopo aver bevuto un boccale di vino per ciascuno, hanno rimesso tutto quanto in ordine come se fossero i geni di Aladino. Intanto, anche Monsieur Albert aveva messo le anatre in forno, farcite delle olive trovate in un barattolo in cucina. Nel pomeriggio il castello era perfettamente riordinato, e stavamo giusto sperando di metterci a tavola quando è arrivato l’ordine di partire. Dovevamo incamminarci per Montmirail, per compiervi un’azione simile a quella di Laon. Non ho potuto perciò mantenere la mia promessa ai prigionieri, perché la loro minestra era stata appena messa sul fuoco. Ho fatto così dividere tra loro le anatre, il che è stato certo un gesto simbolico più che una distribuzione di cibo.

Montmirail, 18 giugno 1940 Ancora una volta mi ha stupito il comportamento degli uomini alla partenza. Sebbene avessero lavorato tutto il giorno, e ora sperassero nel riposo, nessuno ha battuto ciglio quando è arrivato l’ordine di marcia. La loro virtù sta nella perfetta comprensione della necessità. 195

Per fortuna sono riuscito a risparmiare loro di camminare a piedi, e li ho fatti montare a gruppi sui carri delle munizioni vuoti. Ci siamo radunati a Montmirail. Qui, nei pressi dell’uscita dal paese, ho ordinato l’alt di fronte a un carro armato dal cui ventre era appunto sgusciato fuori un pilota piccolo e magro con indosso una tuta imbevuta d’olio. Ho preso a conversare con lui, e intanto avevo l’impressione che in tipi così Vulcano già avesse impresso fortemente i caratteri delle figure marziali. E la cosa si addiceva tra l’altro al nostro tema di conversazione – che riguardava la combustibilità. Finora, mi ha detto costui, aveva «partecipato guidando» a otto attacchi, e aveva già visto incendiarsi parecchi veicoli accanto al suo – in certe circostanze si fa ancora in tempo a uscirne, come di recente aveva fatto un camerata che però aveva lasciato all’interno gran parte della propria pelle. La questione del fuoco mi interessa da un pezzo; rivela i profondi mutamenti occorsi tra i combattenti. Mi sono sistemato nel magnifico castello di Montmirail, che ha purtroppo a sua volta subito dei danni, e ci abito solo in compagnia di Spinelli e di alcuni attendenti. Nel parco sono cadute bombe aeree, e hanno infranto una fila di finestre; un padiglione alla destra del portone ha preso fuoco. Gi abitanti, e certo anche i soldati, negli ultimi tempi si erano trasferiti nelle cantine, scavate in profondità nella roccia calcarea, come si vede dai bivacchi disseminati qua e là. Montmirail è il castello di La Rochefoucauld, e per me, che da tempo mi nutro delle sue Massime per assumere la mia buona razione di ferro, rappresenta un atto di gratitudine spirituale conservarvi quel che c’è da conservare. Perciò l’ho fatto immediatamente mettere sotto 196

sorveglianza, e ho dato inizio allo sgombero. Per patrimoni di questa entità, spesso tutto sta nel proteggerli da una serie di brutte giornate. Al mattino è passata una processione di oltre diecimila prigionieri francesi. Quasi non era scortata: solo di tanto in tanto si scorgeva una guardia che, con la baionetta inastata, la accompagnava come un cane pastore. L’impressione era che queste stanche, profondamente esauste masse di uomini, si spingessero avanti da sole verso una meta sconosciuta. Io ero nella scuola, e poiché disponevo di cento prigionieri tra belgi e francesi per i lavori di riordino, ho fatto portare da un magazzino depredato casse piene di gallette e scatolette di carne per distribuirle fra di loro. Ho fatto distribuire anche del mosto, ma le schiere avanzavano in una colonna tanto allargata che a mala pena un ventesimo di quegli uomini è riuscito ad avere qualche cosa. La sofferenza di masse tanto imponenti in uno spazio così ristretto era nuova per me; si avverte in questi casi che non è più possibile riconoscere il singolo. Si nota anche il tratto meccanico, travolgente, tipico delle catastrofi. Ce ne stavamo dietro il cancello del cortile della scuola, e porgevamo scatolette e gallette, o le allungavamo su un intrico di mani che premevano contro le inferriate. Proprio in questi dettagli c’è un che di sconvolgente. Quelli più indietro spingevano sulle prime file che si accalcavano per chinarsi a raccogliere da terra una galletta. Per raggiungere anche l’altro lato della colonna, ho fatto lanciare in un’ampia parabola le lattine di carne, ma non erano che gocce sulla pietra rovente. Una dozzina di volte ho cercato di mirare con le scatolette un vecchio, che avanzava lentamente, zoppicando – immancabilmente gli venivano 197

strappate da una confusione di mani, finché non l’ho visto sparire nel flusso della corrente. Poi ho dato a una guardia l’ordine di far avvicinare un ragazzo giovanissimo per dargli da mangiare – e quella me ne ha condotto un altro, che era comunque a sua volta digiuno da due giorni. Nel frattempo la voce di un altoparlante disposto in cima al muro da Spinelli chiedeva se vi fosse tra loro un sarto, perché la nostra biancheria aveva bisogno di rammendi. Così passavano via come l’immagine dell’oscura corrente del destino, ed era stranamente eccitante e istruttivo stare a guardare quello spettacolo da dietro le inferriate sicure. Quasi tutti erano già completamente storditi, e domandavano due sole cose – se si sarebbe dato loro da mangiare e se la pace fosse conclusa. Facevo comunicare che Pétain aveva proposto l’armistizio e allora, disperata, seguiva sempre la solita domanda: se fosse già «firmato». Era diventato del tutto chiaro il valore inestimabile della pace. In coda alla colonna, la cui sfilata è durata quasi due ore, ho visto un gruppo di ufficiali con i capelli grigi e le decorazioni della Guerra mondiale. Anch’essi avanzavano a fatica, trascinando i piedi e con il capo chino. Il loro aspetto mi ha commosso; ho fatto aprire il cancello e li ho fatti condurre nella corte. Qui li ho invitati per la cena e a trattenersi per la notte. Dopo averli affidati alle cure del barbiere, li ho visti sedersi risollevati a una lunga tavolata apparecchiata in cortile vicino alle cucine. È stata servita una zuppa eccellente, e anche carne, e vino in abbondanza e, soprattutto, la compagnia era di una gentilezza talmente naturale che l’ospitalità è stata impeccabile. Quegli uomini provati si risollevavano come il dormiente che vede un 198

incubo trasformarsi in un bel sogno. Erano ancora come storditi dalla disfatta. Quando ho chiesto loro come si spiegassero una rotta così improvvisa, mi sono sentito dire che l’attribuivano all’attacco degli aerei lanciati in picchiata e a volo radente. In tal modo venivano interrotti alla fonte collegamenti, rifornimenti e trasmissione degli ordini, poi le armate venivano tagliate dalle armi veloci come da fiamme ossidriche. A loro volta mi hanno chiesto se le ragioni del successo si lasciassero condensare in una formula – e io ho risposto che ci vedevo una vittoria del lavoratore, ma ho avuto l’impressione che non comprendessero le mie parole nel senso in cui le intendevo. Non sanno come abbiamo vissuto gli anni dopo il 1918, né conoscono gli insegnamenti che ne abbiamo tratto, raccogliendoli in una sorta di crogiolo bollente. A sera, dopo aver fatto riordinare la piccola cucina del castello, sono rimasto a sedere nel salone rotondo in compagnia di Spinelli. Di là la vista è straordinaria. Il paesaggio sembra un proscenio di cui le distese rasate del prato costituiscono la pedana fiancheggiata sui due lati da alte cortine di alberi. Questi drappi di bosco delimitano anche lo sfondo, come fossero quinte; tagliano un morbido pendio con verdi pascoli e legna. In mezzo, come un’orchestra, si apre una valle invisibile da cui svetta il campanile di un villaggio. Una dolce curva chiude l’orizzonte. In tal modo, il parco e la campagna antistante fungono da riuscita delimitazione architettonica, perfetta nella misura delle sue proporzioni. In vita mia ho visto prospettive più imponenti e sontuose, ma nessuna conchiusa e armoniosa come questa. Sul tardi, un’altra passeggiata per il parco, giù fino alla 199

valle. In una cascina abbiamo incontrato un prete con sua sorella e un gruppo di donne e bambini che avevano attraversato il campo di battaglia. Poi gli aerei si erano abbattuti su di loro con le sirene spiegate, ma se n’erano poi andati senza colpirli perché – come ha detto la sorella – avevano visto che c’era un prete tra loro. Entrambi, dopo diversi giorni, erano ancora assai eccitati, e si sono rivolti a noi con discorsi animatissimi. Erano in uno stato che nel tumulto di queste settimane ho osservato spesso e di cui il popolo, assai felicemente, dice che è come se si fosse allentata una vite. Mentre annoto queste righe, sono ancora seduto, a tarda ora, alla scrivania della duchessa, i cui scomparti parzialmente scassinati sono pieni di libri con la dedica di autori noti. Mentre ne sfoglio uno, si sfila la lettera di un figlio più o meno quindicenne, François, del 1934, che è deliziosa. Vi scopro che lo scrivente vorrebbe fare l’aviatore, e ormai avrà certo l’età per esserlo. Per quanto riguarda il castello, ho provveduto fino a sera con tale cura a rassettarlo che adesso tutto è in ordine perfetto, inclusi i vetri delle finestre.

Montmirail, 19 giugno 1940 Ho dormito in una stanza attigua alla cappella. In sogno mi è apparso vividamente Carl Schmitt: era caduto in una stazione e si era fatto male. Lo presi tra le braccia che piangeva. C’era un particolare strano, che al risveglio mi è parso assai nitido, ma che adesso cerco invano di ricordare. Siedo qui nelle prime ore del mattino, con gli occhi 200

puntati sull’ingresso e la portineria da cui sale ancora del fumo. Delle vetrate attraverso cui sto guardando questa scena, la centrale si è scardinata dal telaio, e i pezzetti ancora trattenuti dal collante disegnano la precisa silhouette della testa della regina Vittoria. Perfino la sua bocca un po’ altezzosa è tratteggiata da una crepa sottile. Dopo colazione, ho mandato a Laon gli ufficiali prigionieri, che intanto si sono riposati a dovere nella scuola, a bordo di un carro di munizioni vuoto. Prima però, in segno di commiato, ho fatto ancora versare loro un bicchiere di vino. Al momento di salire sul carro, il più anziano di loro, un maggiore, ha ringraziato a nome di tutti gli altri per l’accoglienza ricevuta a Montmirail. Sulla via del ritorno, nel giardino di un’altra scuola, ho scorso un cedro magnifico con gli aghi cerulei e il tronco di velluto bruno, sottilmente scanalato. Non ne ho mai visto uno più bello, né sull’isola di Mainau, dove ne crescono esemplari giganteschi, né tra i boschi di montagna nell’arcipelago delle Canarie. A mezzogiorno, di nuovo nel salone, con il magnifico panorama che, mi pare, abbia un effetto immediato sulle parole e sull’ordine dei pensieri. Prima di pranzo mi è capitata una cosa che mi ha molto colpito. Ero sceso nel parco e vi cercavo, per conservare un ricordo di queste giornate, schegge di granata rimaste nei bianchi crateri scavati tra l’erba. Già al primo giro di perlustrazione mi ha sorpreso un ritrovamento di qualità di gran lunga superiore – il bellissimo fossile di una chiocciola strappato alle profondità del terreno calcareo da un’esplosione. L’ho stretto nella mano come un dono personale: una creatura a forma di clava della lunghezza di un avambraccio, 201

attorcigliata a spirale e aperta sul davanti. Nel taglio si scorgevano la struttura e le volute interne di cui ancora si conservava lo splendore di madreperla. Ho colto subito l’ammonimento, io che nelle ultime belle giornate ero stato accompagnato dalla prossimità della distruzione come da un’ombra: il Mont Mirail era stato un tempo una scogliera a picco sul mare cretaceo, e indistruttibile resta il suo fondo di meraviglia. Questo castello, con i suoi giardini, non ne è che un’immagine: un simbolo fugace come la conchiglia di questo mollusco. Vi era, in questo ritrovamento, anche un che di alchemico – un frammento della pietra della saggezza capace di trasformare le cose per un miracolo che si compie nel nostro intimo. Così, se mi avessero detto di scegliermi un ricordo da portare con me tra questi quadri antichi, i libri, o i tesori del castello, niente mi sarebbe parso più desiderabile di questo guscio di lumaca. Dobbiamo raggiungere uno stadio che sia all’altezza delle ricchezze della terra, in cui si tramuti in oro tutto ciò che tocchiamo con le mani. Al tramonto abbiamo fatto nuovamente la nostra sortita nella valle, con i fucili da caccia. Questa volta siamo finiti in una grande cascina, affollata di bestie ma deserta di uomini. Perlustrando i pollai in cerca di uova, abbiamo udito un canto da uno dei locali e, di fronte al focolare della cucina, abbiamo trovato un oscuro gnomo, completamente ubriaco. Sul tavolo c’erano bottiglie vuote o semivuote che di tanto in tanto egli si portava alla bocca tremando. Ci ha accolto giubilante, e dal pesante rigonfiamento che la camicia gli formava fuori dai pantaloni ha tratto una manciata di banconote per farle poi cadere a terra svolazzanti. Se abbiamo ben interpretato il suo balbettio da ubriaco, la sua 202

padrona lo aveva lasciato nella fattoria per mungere le vacche. Quando però gli abbiamo chiesto del burro, ci ha detto che non era buono, che le donne erano troppo sporche – «Moi, je suis prop’», ha detto invece per suo proprio vanto mostrandoci i suoi stracci e tentando un vacillante passo di danza. Poi è stato come se un impeto di ebbrezza gioiosa si impadronisse di lui, si è voltato ad abbracciare con un gesto il camino, le sedie, il tavolo, perfino le pareti della stanza: «Tutto questo è mio, e anche questo, e anche questo» e, alla fine – ho trovato il crescendo niente male – ha indicato pure il suo berretto a brandelli: «anche questo è mio, tutto è mio». Quindi, affilando un lungo coltello, e guardandosi attorno circospetto: «La padrona non c’è, aspettate, vi ammazzo un’oca, non la femmina, che adesso ha i piccoli, il maschio, che è anche più saporito. Adesso è tutto mio». Alla lunga, abbiamo incominciato a provare disagio, e ce ne siamo andati. Lo gnomo ci ha seguiti ancora per un tratto per richiamarci indietro; lo abbiamo visto acchiappare dei polli e lanciarli per aria facendoli volar via strepitando. Tornando indietro, accanto al terrapieno della ferrovia, siamo passati vicino a un prato, dove una colonna di mitraglieri francesi aveva abbandonato i suoi carri. Tra i bagagli sparpagliati ho trovato delle camicie, di cui ho giusto bisogno. Abbiamo concluso la giornata con una bottiglia di AloxeCorton, stappata davanti al camino del salone mentre il ciocco di betulla che avevamo trovato sugli alari scoppiettava tra le fiamme. Sulla parete di fondo si vedeva un’antica placca di ferro con la scena di Ercole nella sala di Onfale. E intanto ci chiedevamo se questo posto fosse 203

destinato ad assistere al passaggio degli eserciti, e ad alloggiare di quando in quando gli ufficiali prussiani, come nel 1814, nel 1870, nel 1914, e adesso un’altra volta ancora. Spinelli era di buon umore; aveva acceso tutte le candele del gran lampadario a corona, da cui la cera cadeva in grosse gocce gialline sul pavimento. Dopo che io mi sono ritirato, egli si è trattenuto là ancora per un poco, con una bottiglia di spumante. Osservo la sua nuova intelligenza, sempre desta e precisa – non esistono difficoltà tecniche per lui, nel trasporto come pure nella sua organizzazione personale. Il giorno più felice per lui è stato quello in cui abbiamo di nuovo potuto udire la radio a Laon. Ottime osservazioni su tutte le faccende concrete e, per giunta, anche tratti cavallereschi, amabili, che cerco di coltivare in lui e che ho visto manifestarsi anche oggi, nei confronti degli ufficiali prigionieri. A letto tardi e, qui, a lume di candela, sfogliato prima un catalogo di Goya, poi un saggio illustrato su Marie Laurencin e i suoi dipinti di maschere rosa. Intanto, pensieri sulla perdita dell’individualità. È come se qui si sciogliesse nel succo di lampone. Alla fine, nella «Revue de l’art» del settembre 1924, ho notato un quadro del pittore svizzero Heinrich Füssli, Sogno di una notte d’estate. È un dipinto che rivela non solo la conoscenza degli antichi maestri e la lettura di Cazotte, bensì al tempo stesso anche uno sguardo diretto sulle caverne della realtà e poi la sua traduzione nel gusto del tempo. Perciò mi è parso strano che il nome di questo pittore mi fosse fino a ora sfuggito. Poi sogni. Era una bella giornata, e ricca di figure grandi e piccole come un tappeto. Nemmeno un po’ di fatica; ho avuto qualche presagio del perpetuum mobile dello spirito, 204

cui solo il tempo pone un limite. È stata soprattutto la chiocciola a rallegrarmi.

Romilly-sur-Seine, 20 giugno 1940 A mezzogiorno, addio al mons mirabilis. In viaggio attraverso Sézanne e Saint-Just-Sauvage, verso Romilly. Lungo la strada, masse di cavalli morti, di fronte ai carri delle munizioni e alle cucine da campo, alcuni di essi ancora tra gli spasmi. I cadaveri sono orribilmente rigonfi, con i genitali turgidi come trombe. Le labbra sono semiriverse, in un’espressione di sofferenza, tanto da mostrare i lunghi denti bianchi. Vengono così a configurarsi strane maschere – come fossero facce di demoni affioranti sul terreno da cui defluisce la vita. Poi morti. Prima uno soltanto, a sinistra, nel campo, coperto con il telone di una tenda, così che se ne scorgeva solo l’avambraccio. Lo puntava verso l’alto, con il pugno semichiuso, come a stringere il collo di un violino. Più in là, sulla destra del bosco, un’intera distesa di corpi. Qui evidentemente la truppa aveva preso posizione lungo la strada, e aveva poi cercato di guadagnare il riparo del bosco; il fuoco doveva averla sorpresa durante la breve corsa, e l’aveva annientata. Volti e mani di questi morti erano già tumefatti e anneriti, e infarinati poi dalla polvere della strada, con un velo sottile. Lo spettacolo era assai tetro, come affiorato dai pensieri notturni di uno spirito dalla forza spaventosa. Poi ancora carri armati, appostati nei punti strategici e in mezzo al paese; a tratti, vicinissime, tombe, ed elmetti con 205

gli occhiali appoggiati alla croce. Subito dopo, per la prima volta durante l’avanzata, schiere di profughi. Si vedevano carretti a due ruote, con materassi accatastati su cui sedevano ragazzini che dondolavano ceste di polli; sono passati anche un autobus e una locomobile che trainava una fila di trattori. Frattanto giungevano truppe in bicicletta, e altre che spingevano carri, e altre ancora a piedi. In mezzo a questa gente si vedevano coppie di oltre settant’anni che si trascinavano lentamente, madri con in braccio neonati in fasce, bambini di tre anni già costretti a portare in mano piccoli cesti. Poco dopo, a Romilly, dove le strade erano già popolate di civili, e dove regnava un gran caos. Ho trovato qui anche il battaglione e il mio terzo plotone.

Romilly-sur-Seine, 21 giugno 1940 Alloggio in una casetta vicino alla scuola e al grande mulino a vapore. Al mattino ho saputo dai portaordini che finalmente stavamo andando incontro alla truppa, e che in giornata saremmo partiti con gli autocarri; e nessuno più di me potrebbe essere lieto per il fatto che avrà fine il nostro vagare nel caos di questa tempesta. Sono già quattordici giorni che siamo distaccati, e a volte si aveva l’impressione di venire semplicemente trascinati nel grande risucchio che l’attacco dei mezzi corazzati si lascia alle spalle. Ora non c’è più neanche da sperare che questa campagna militare ci riservi ancora uno scontro diretto, e sebbene io lo rimpianga come soldato, me ne rallegro per coloro che soffrono. 206

Per saperne di più, al comando locale, dove ho trovato ancora una confusione spaventosa. Da una parte, il sindaco della piccola comunità, un uomo sulla settantina, mi parlava con un’apparenza di rigorosa razionalità. Fisiognomicamente mi appariva chiaro nella sua espressione che in Francia la Rivoluzione si è combinata a certi processi innescati dalla Riforma e li ha ulteriormente sviluppati. Mi chiedeva come avrebbe potuto sbarazzarsi delle carogne di oltre cinquanta cavalli che appestavano il territorio di sua competenza. Quando, per tutta risposta, ho fatto spallucce, egli mi ha detto che la cosa era assai pericolosa «pour la santé publique». Mentre ancora lo stavo ascoltando, una donna è intervenuta per sapere da me che misure dovesse prendere contro una muta di cani randagi che si erano radunati attorno a casa sua. E poi altri casi anche più gravi. Allora me ne sono andato via di là avendo ormai imparato da un pezzo che non si può mettere a posto tutto. Ci si deve limitare a tener d’occhio l’ambito di cui si è responsabili. Quando si tratta di portare soccorso, le risorse del singolo sono limitate, esattamente allo stesso modo in cui una scialuppa di salvataggio ha solo un certo numero di posti. Vi sono tuttavia situazioni in cui la mera presenza di un’autorità sortisce un effetto benefico, chiudendo le falle da cui sgorga la cieca materia elementare. Sono i momenti in cui il mysterium che abita in ogni carica si rende visibile in quanto tale.

Bourges, 22 giugno 1940 Siccome la partenza si procrastinava, mi sono trasferito in 207

una nuova casa, per via del letto migliore. Ma sono stanco di entrare e uscire da queste dimore abbandonate e in disordine. Comprando verso sera un paio di calze in un negozio appena riaperto, mi sono anche reso conto che la mera possibilità di fare degli acquisti suscita una sensazione di piacere. Anche il commesso sembrava provare lo stesso, e abbiamo così in certa misura riscoperto lo scambio del denaro con la merce. A mezzogiorno siamo montati sulla nostra vettura nella piazza del mercato. Il comandante della colonna incaricata del nostro trasporto era un certo sottotenente Backhaus, che mi piaceva: un ragazzo vivace, con una profonda cicatrice sul collo, e un orecchio di cui non gli restava che un mozzicone sottile come una mezzaluna a causa di un incidente. Ha lodato gli autisti che erano rimasti seduti al volante due giorni e più, senza mai mollare, per amore del motore. Quando gli ho chiesto se alloggiasse ogni notte in un castello diverso, ha risposto battendo con la mano sulla vettura: «Questo è il mio château». Man mano che cresceva il trambusto per le strade e sui ponti, lo vedevo farsi prendere da una sorta di ebbrezza; si eccitava via via che aumentava il lavoro. Queste persone sono invulnerabili, rari centauri, astorici eppure dotati di forze all’altezza del secolo in cui sono nati. Attraverso Sens, con la sua bella cattedrale, poi per le rovine di Allant e per Toucy, diretti a Châtillon, dove abbiamo trovato il grande ponte distrutto. Abbiamo perciò fatto una sosta piuttosto lunga e siamo ricorsi a un traghetto. A bordo ho conversato con dei profughi parigini sorpresi dalle operazioni militari in località di mare o di campagna e ora in marcia per raggiungere a piedi la metropoli. Poiché si 208

accalcavano davanti al ponte, ne ho presi alcuni con me. In parte erano abbigliati con abiti davvero leggeri, in parte indossavano vestiti alla moda; questo vestiario, abbinato alle nostre uniformi grigie, conferiva alla traversata un’aria da «ritorno dal ballo in maschera». Ho preso posto tra due ragazze giovani, una carina e una bruttina e, chiacchierando, ho presentato loro il nostro bravo cuoco, Monsieur Albert, che ci accompagnava da Laon. La bruttina ha detto: «Sarebbe un buon impiego anche per me». Al che la bella: «Per te forse, ma certo non per me». Sull’altra riva abbiamo dovuto aspettare la vettura e durante questa pausa, davanti a una semidistrutta osteria del ponte, abbiamo bevuto un bicchiere di vino. Vi sedeva anche un possidente parigino, proprietario di una villa a Châtillon la quale, com’egli raccontava con la massima tranquillità, era stata saccheggiata da cima a fondo dalla fanteria coloniale francese prima della ritirata. Poi avanti verso Gien – qui, come in un quadro sbiadito, ho visto sullo sfondo torri medievali e, in primo piano, uno scenario di devastazione, ancora fumante, con cadaveri di uomini, cavalli e animali domestici. All’uscita c’era il corpo di un maiale: lungo, bianchiccio, rigonfio come una larva gigantesca. Sulle strade e lungo le siepi nei campi c’erano numerosi carri armati fuori combattimento. Sul posto devono essersi scontrati due grossi reparti corazzati – un evento che può ridurre in cenere una città di media grandezza. Lo spettacolo suscita l’impressione di una catastrofe tecnica di proporzioni inaudite. Invece la campagna circostante era completamente intatta, così i boschi e i campi sui due lati di un magnifico viale di castagni tra i cui tronchi possenti sfilavamo lungo il 209

rettilineo. Prigionieri quasi privi di scorta, e poi un’altra processione di profughi, con tanti bambini, piccoli, stanchi, tenuti per mano. Siamo giunti così fino a Bourges, dove siamo smontati per pernottare nella prima tenuta in cui ci siamo imbattuti. Nella cucina della casa padronale abbandonata, mi sono imbarcato con Keunecke e Spinelli in una conversazione così animata che in un attimo ci siamo scolati una bottiglia di spumante e tre di Borgogna, cosa di cui noi per primi siamo rimasti sbalorditi.

Bourges, 23 giugno 1940 Al mattino, per ricevere gli ordini, al comando, dove ho trovato una ragazza che ieri un ubriaco ha cercato di violentare minacciandola con un pugnale. La giovane era un’alsaziana, una personcina vispa e risoluta; l’avevano convocata come testimone perché l’uomo era stato immediatamente arrestato. Quando, scherzando, le ho chiesto se l’aggressore avesse raggiunto il suo scopo, mi ha risposto piccata: «Certo che no! Prima avrebbe dovuto pugnalarmi». Abbiamo rivisto qui anche il colonnello, e abbiamo saputo da lui che negli ultimi giorni anche altri reparti del reggimento erano incappati in uno scontro. Tra questi, la V compagnia, il cui comandante, il tenente Schrapel, già ferito a un braccio, non ha voluto rinunciare a condurre personalmente i suoi uomini, e si è preso una sventagliata di colpi nel petto. Nel frattempo le operazioni si sono interrotte; non abbiamo immerso che la punta delle dita nel 210

fuoco e abbiamo dovuto accontentarci di lavorare. Da quanto ho sentito dire, è questo in generale il destino della fanteria di linea, a meno che non si sia trovata a combattere sui fiumi. L’esperienza di questa campagna comporterà certo significative trasformazioni negli eserciti mondiali. In città regna la confusione; a parte gli abitanti, non ci sono solo le nostre truppe e molti prigionieri di guerra, ma anche quarantamila fuggiaschi. A mezzogiorno sono passato per caso davanti alla stazione, dove avevo disposto delle sentinelle, e ho visto un’enorme massa di uomini accalcarsi alla porta di entrata. Erano profughi che volevano approfittare del primo collegamento con Orléans e Parigi. Sebbene il treno fosse già fermo al binario e avesse ancora molti posti liberi, era scoppiato un pericoloso parapiglia. Si udivano piangere bambini rimasti a terra, mentre altri traballavano nelle carrozzine incastrate tra la folla e cariche, tra l’altro, di bagagli e maschere antigas. In mezzo a tutto questo, vecchie, e madri con i poppanti al petto. Altre donne si erano già spinte nell’ingresso, e chiamavano i loro figli nel trambusto. Per fare un po’ di ordine, ho anzitutto fatto sgomberare un’area dalle guardie, sono montato poi su un carro rovesciato e ho dato disposizione che chiunque spingesse per farsi avanti fosse escluso dalla partenza. Poi ho indicato le famiglie con bambini e le ho fatte passare. Nel frattempo però si è presentata un’altra difficoltà: grappoli di uomini cercavano continuamente di accodarsi mentre altri mi rivolgevano la parola a dozzine. Poiché mi sono accorto che contribuiva a calmare la folla, di tanto in tanto tiravo su un bambino. Dopo due ore avevamo fatto salire tutti quanti in vettura. Ho percorso ancora una volta il convoglio su cui le 211

parigine stavano già ridipingendosi le labbra e ho udito una di esse – che evidentemente mi aveva preso per un ferroviere – dire: «C’est celui, qui a dit: ’doucement’». Andandomene, ho incontrato l’ufficiale dello stato maggiore che aveva fatto riprendere la circolazione del traffico e, come un dio minore, già prevedeva che quegli uomini avrebbero tutti trascorso una brutta nottata, visto che il ponte di Orléans era ancora inagibile. Si è presentato come un lettore dei miei libri e ha detto di essere stato sbattuto in una postazione in cui aveva potuto conoscere soprattutto il lato notturno della guerra. Mi ha invitato a cena per domani, alla Boule d’Or. Nel pomeriggio, rapporto degli ufficiali, in seguito al quale sono stato trattenuto dal colonnello insieme al comandante. Mi ha consegnato la mostrina bianca e nera con il fermaglio d’argento, comunicandomi che per aver salvato gli artiglieri feriti sul fronte del Reno, mi veniva conferita la Croce di Ferro. Sono stato indotto così a ricordare l’episodio di Iffezheim, che nel vortice degli eventi delle ultime settimane avevo dimenticato. Ho pensato subito a Spinelli; mi è tornata in mente la cura che aveva avuto per il mio ginocchio. Siccome avevamo condiviso l’azione ho pensato fosse giusto condividere anche l’onorificenza. Ho avanzato la proposta e la sera stessa ho avuto la soddisfazione di vederlo a sua volta decorato della croce. In questa circostanza mi è apparso con chiarezza quanto diversa dalla prima sia per me questa seconda Guerra mondiale. Allora le alte onorificenze per le vittorie sugli avversari, oggi il nastrino per un’azione di salvataggio. Da notare anche la distanza che ho mantenuto dal fuoco. Ha 212

ragione Eraclito: nessuno si bagna due volte nello stesso fiume. Il mistero di questa trasformazione sta tutto nella sua corrispondenza con i mutamenti occorsi nel nostro intimo – noi stessi ci costruiamo il nostro mondo e ciò che vi esperiamo non dipende dal caso. Le cose sono attratte e selezionate dalla nostra condizione: il mondo è tale e quale al nostro modo di essere. Ciascuno di noi ha perciò la facoltà di cambiare il mondo – è questa l’enorme importanza attribuita all’uomo. Ed ecco perché è tanto importante lavorare su noi stessi. Il sommo compenso non è quello elargito dal sovrano, bensì dal cantore. Ecco perché di quella Prima guerra non mi è tanto cara la stella di Federico il Grande, quanto mi è cara la poesia A mio fratello Ernst. La sera, in un piccolo bar, dove ho ordinato due bottiglie di Veuve Clicquot. Mi sono divertito a raccontare agli astanti che quella era la mia razione consueta per la cena, al che quelli mi hanno guardato come fossi una bestia rara. In quest’occasione ho appreso da Monsieur Albert, mentre mi apparecchiava la tavola, che i calici allungati si chiamano «flûte à Champagne» – un’espressione che ancora ignoravo, e che ho trovato divertente. Del resto, in certi circoli di buontemponi, ci sono anche calici «à pompette», con un anello al posto del piede, in modo che li si possa posare sul tavolo solo alla rovescia – bisogna quindi averli prima vuotati.

Bourges, 24 giugno 1940 213

Al mattino ho fatto partire altre donne con bambini. Mi ero informato sulla partenza del treno, perché è un evento che richiede la presenza di un’autorità. Stavolta è andata meglio; avevo anche portato con me una grossa scatola di biscotti per i bambini. Poi ho ispezionato le sentinelle; nel farlo, ho notato i tratti marcatamente romani della gente, specie nei sobborghi. La sera, con Steinitz, alla Boule d’Or. Buona intelligenza, precisa. In tutte le cose pratiche c’è un certo numero di uomini che rappresentano gli ingranaggi minuti e meglio configurati: quelli che mettono in moto e in opera l’insieme. Ho trovato ben marcato in lui anche uno dei tratti distintivi di questo livello – vale a dire una certa ironia nell’impartire i suoi ordini. Pensieri riguardo al comando: non esistono geni disconosciuti. Ciascuno trova nella vita il posto che gli conviene. Nasciamo con l’esatto potenziale sociale che potremo realizzare. È un fenomeno che si può studiare sulle navi, dove alla partenza la società si ricostituisce per così dire ex novo, e dove si troveranno sempre individui che aspirano ad accampare e a realizzare pretese superiori alla media. In tal modo lo spazio sociale viene nuovamente suddiviso, e nel giro di tre giorni l’antico, innato ordine è bell’e che ristabilito. Già solo uno spettacolo simile val bene un viaggio per mare. Verso le dieci è stata resa nota la firma dell’armistizio, al che il Borgogna è sparito da tutti i tavoli e vi è apparso in abbondanza lo Champagne.

Bourges, 25 giugno 1940 214

La casa in cui mi sono trasferito è comoda perché ha solo una facciata che dà sul giardino, ed è difficile da scovare. Si trova in riva allo Yèvre, un fiumiciattolo tranquillo, silenzioso e molto ramificato, con le alghe che risplendono sul fondale e alberi che si protendono a ombreggiarlo. Davanti alla veranda verdeggia la distesa di un prato; è cinto da folti cespugli e protetto dall’acqua da una cortina di gladioli. Nel mezzo vi è una vecchia colonna, la cui pietra grigia è abbracciata da una rosa rampicante rosso chiaro, e una grossa pianta di ciliegie tenerine dai frutti meravigliosi. Siccome nessuno li raccoglie, si spaccano perché troppo maturi. Così anche le fragole nelle aiuole si tingono di nero e cascano dallo stelo; il calice bianco resta lì vuoto come una scodellina da dessert. In questo giardino tranquillo, incorniciato da una vegetazione selvaggia, mi prendo a mezzogiorno il mio bagno di sole leggendo, e la sera, dopo cena, scendo in canoa lungo il fiume, dove guizzano le trote. Anche Monsieur Albert viene giù a gettare le sue lenze. Questa solitudine ombrosa, in cui arte e natura stanno in armonioso equilibrio, si estende fin sull’orlo dell’animata Avenue Jaurès, che percorro spesso mentre sono in servizio, e mai senza gioire della vista di due platani straordinariamente possenti; di analoghe proporzioni, ne ho visti solo sulle isole di Kos, di Rodi e a Smirne. Questo albero è il più bel simbolo del contegno, capace di dare una realtà concreta alla dignità e alla potenza con il solo fatto di esistere, e merita certo che lo si adorni di collane d’oro e che lo si affidi alle cure di un guardiano, come si legge in Erodoto. Notevole è il modo diverso in cui si guardano anche piante e alberi noti quando si trovano nel loro spazio. Sono 215

variazioni del peso degli atomi che si sottraggono alla descrizione: cambiamenti dell’aria, dell’acqua e della terra esercitano il loro influsso sulla vita e sul flusso degli umori. Percepiamo l’inesprimibile, il gusto degli elementi del suolo natio, e solo la poesia può rifletterne il ricordo. Per quanto mi riguarda, colgo qualcosa di simile anche dagli insetti, dalla novità delle loro forme e da come mutano i rapporti tra i generi. Oggi ho sistemato alcune prede catturate durante l’avanzata – per esempio la Leptinotarsa, che negli orti selvatici di Essommes, con le sue larve rosso acceso, divorava come una peste corrosiva le piante delle patate. Il paradosso di queste mie attività nel pieno della catastrofe non mi è sfuggito, l’ho trovato però al tempo stesso rassicurante – tradisce una riserva di stabilità, un’azione civilizzatrice persino. A parte questo, dal 1914 ho imparato a lavorare nei luoghi pericolosi. Nel nostro tempo si deve disporre della calma della salamandra se si vuole raggiungere i propri obiettivi. Ciò vale soprattutto per la lettura, e la sua prosecuzione nelle fasi positive e negative; se ogni giorno si mette un mattone, in sessanta o ottanta anni si abiterà dentro un palazzo. L’inclinazione per le cacce sottili è sempre stata per me piena di significato, mentre tutti i miei amici, a eccezione di Friedrich Georg, l’hanno sempre guardata come un angolo remoto, hoffmanniano, del mio mondo. Certo, al singolo resta per lo più segreta la ragione per cui egli si occupi di certe cose. Per me è come se l’alfabeto non mi bastasse più. Mi serve una scrittura che assomigli a quella egizia, o a quella cinese, con i suoi centomila ideogrammi; perciò adotto questa, e ne suggo gli interi alveari dell’erudizione di due secoli, colmati per il mio diletto. Mi avvalgo in questo 216

modo delle scienze del XIX secolo: come di strutture all’interno delle quali faccio quel che mi piace. In questa maniera raccolgo una serie di punti, tipi, intarsi variopinti dei quali il mondo si riveste come dei nodi intrecciati in una rete. Così si sezionano le cose più finemente che con le parole e, in più, l’aspetto lussuoso della faccenda sta nel fatto che la si intraprende per il proprio esclusivo piacere, e che la si sottrae alla comunicazione. Non posso considerarla una deviazione. È lo stesso che con i sogni – in essi non mi allontano dalla mia sfera, ma anzi la approfondisco e la espando. Portiamo i secoli davanti agli occhi come filtri frapposti fra noi e le cose, a cui conferiscono il loro colore. Posso ben dire che il XX secolo crei per me l’esposizione che arriva fin nella profondità del sogno. Ma è così anche per il XIX, e poi per il XVIII. Al cospetto dei morti di Montmirail avevo la sensazione che questi filtri mancassero – il quadro cadeva cioè fuori dalla cornice della storia. Ho visto così l’assoluto, la spina dorsale, e ho avvertito la presenza di forze di cui da lungo tempo conosciamo soltanto i nomi astratti – non sono eterne, eppure il loro dominio durerà finché durerà il tempo. Ne ho avvertito il trionfo spaventoso. L’assoluto arrivava a esprimersi anche nella sazietà che, per la prima volta in vita mia, placava la mia fame di immagini. Di più, anzi – perché avevo visto molto più di quanto volessi; ero come lo spettatore invitato a una rappresentazione che prende una piega ignota, il viandante in un paesaggio di una ricchezza travolgente che, dopo una

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strettoia, si fa semplice e pauroso. Allora ci assale un senso di impotenza; ci rendiamo conto che i nostri mezzi storici, filosofici, morali, dei quali andavamo tanto fieri, vengono meno, e che abbiamo bisogno di altre armi. Un pensiero che ci sfugge è come un pesce che si sgancia dall’amo. Non dovremmo dargli la caccia; continuerà a nutrirsi in profondità, e tornerà su più robusto.

Bourges, 26 giugno 1940 A sera, una visita, che si era fatta annunciare con circospezione da Monsieur Albert – un giovane che mi scrutava con sguardo interrogativo. Era il fratello della padrona di casa, e mi pareva probabile che, solo fino a pochi giorni prima, avesse indossato l’uniforme. Mi ha comunicato di essere diretto, in qualità di ingegnere, a Sens, per rimettere in attività certe fabbriche distrutte, e di approfittare del passaggio per chiedermi se potesse prendere il ritratto della sorella che era appeso in camera da letto. Sebbene il suo contegno fosse composto, mi è sembrato che soffrisse profondamente, glielo leggevo negli occhi. Perciò l’ho accompagnato subito di sopra, e vedendo che scrutava i corridoi con aria triste e interrogativa, ho finto di non capire e, sebbene mi avesse indicato l’ultima stanza sulla sinistra, l’ho condotto dall’ala destra lungo tutta la fuga del corridoio. Ha avuto così modo di guardare liberamente tutta la proprietà. Poi ha staccato il quadro dal chiodo, e io gli ho consegnato un piccolo anello d’oro con sigillo che mi 218

ricordavo di avere visto, e del quale egli portava al dito un gemello. L’ho invitato anche a far ritornare sua sorella, che si trovava a Limoges, perché potesse sorvegliare una casa tanto bella – al che egli, sempre con quel suo sguardo indagatore, mi ha chiesto se davvero fosse possibile. Poiché il francese possiede belle, consolidate espressioni per dire cose del genere, ho potuto limitarmi a rispondere: «Non ci vedo niente di sconveniente». Poi si è allontanato in fretta e, così mi è parso, un po’ più sereno di quando era arrivato. La sua visita ha fatto sorgere in me interrogativi sulla proprietà, ma soprattutto sulla felicità e l’infelicità. Che cosa sono i beni che ci circondano – nel momento in cui tutto crolla, corriamo ancora una volta fino alla nostra ricca casa, e non ne prendiamo che un piccolo ritratto. Ho creduto anche di aver guardato un poco in fondo alla sua anima, e di avervi letto cose che già conosco per esperienza personale. In quei momenti di svolta in cui la patria giace a terra, veniamo a conoscenza della sorgente più profonda del dolore, di cui tutte le singole sofferenze che ci opprimono non sono che vene sottili. La sera, davanti alla cattedrale, c’è stata una grande fiaccolata dell’esercito, alla quale ci siamo uniti in processione. Vi ho preso parte nel gruppo dei nuovi decorati con la Croce di Ferro. Le antiche colonne e gli archi erano illuminati dal riverbero rosso delle fiaccole e dai raggi dei riflettori; purtroppo il grande portale con la raffigurazione del Giudizio Universale, che tanto mi sarebbe piaciuto vedere, era ancora avvolto in una spessa cintura di sacchi di sabbia. Nella vita ci imbattiamo continuamente in attimi in cui il 219

teatro del mondo e la sua realtà si sovrappongono nella coscienza – attimi che mi nutrono di storia, e mi impediscono di scivolare del tutto nella contemplazione. Sembra allora che gli uomini siano dotati di una carica magnetica – così adesso avevo l’impressione che l’orchestra non stesse suonando, bensì venisse suonata. La bacchetta del suonatore del timpano, e perfino quella del direttore, erano solo secondariamente sollevate da un impulso umano. Scorgevo i fili di un teatro di burattini. Talvolta ci riuniamo a formare simili costellazioni, per poi tornare a disperderci, come le carte messe da parte dopo la partita.

Bourges, 27 giugno 1940 A pranzo è venuta a farmi visita Madame Cécile, che avevo conosciuto davanti al treno per Parigi dandole un’informazione. Monsieur Albert aveva comprato in città ogni sorta di prelibatezze, in più c’era un bicchierino – grande come un ditale – di Hospices de Beaune. E a più riprese abbiamo fatto musica sul flûte à champagne. Molto charme, quasi niente di personalità; il che, a essere sinceri, è sempre meglio del contrario. Divorziata, due bambini piccoli che sono dalla nonna e dei quali parla amabilmente, un po’ come un giardiniere. «Nei giorni caldi li metto in costume da bagno e li lascio giocare. Poi, la sera, si fanno la doccia con l’acqua riscaldata dal sole. Hanno corpicini bellissimi.» Più tardi, in giardino, dove mi sono fatto insegnare i nomi dei fiori: del garofano piumato per esempio, «œillet de poète», dell’alchechengi, «amour en cage», e quello un po’ 220

ruspante del dente di leone, «pissenlit». Poi sono di nuovo andato in cucina da Monsieur Albert, perché mi pareva che, mentre ci serviva a tavola, non fosse sereno come al solito. Ma lui, appena gliene ho chiesto la ragione, mi ha guardato dritto negli occhi e ha risposto: «Quanto a voi, mon capitaine, non vi dimenticherò mai per tutta la mia vita. E se mai capiterete al mio paesello, vi sarà offerto il miglior pranzo ch’io abbia mai cucinato». Più tardi ecco arrivare Rehm, con due lettere di Perpetua.

Bourges, 28 giugno 1940 A mezzogiorno, colazione a Palais Bourbon. Nella sala da pranzo un po’ spoglia è appeso un arazzo ingiallito nel corso dei secoli, e pur sempre magnifico, raffigurante Niobe con i suoi figli. La singolarità e il lusso di questo genere elevato di manifatture sta nei panneggi, a un tempo materia prima7 ed elaborazione artistica dell’immagine. Vale a dire: se altrimenti lo sfondo si limita a sostenere, entro certi limiti, l’impressione dell’immagine, qui diventa immagine esso stesso, dato che l’intreccio in cui è intessuta la figura coincide con la stessa tessitura del panneggio. Così i personaggi affiorano dalla profondità corporea e saltano fuori vivi dalla cornice che, d’altra parte, resta assolutamente irraggiungibile. Assomigliano a farfalle dipinte decorate con ali vere. Ecco perché a quest’arte si addicono motivi in cui figurino personaggi molto numerosi e riccamente vestiti. Nel pomeriggio, visita di Madame Cécile; mi ha dato lezione di francese. Differenze – dapprima in giardino, tra le 221

châtaignier e le marronier. Di seguito a tavola, tra goûter e déguster. Infine sulla riva, vicino a un’isoletta, dove si pescano le trote, tra pêcher e pécher: evidente.

Bourges, 29 giugno 1940 Caccia a cavallo dietro l’arsenale e sulla piazza d’armi. Poi colazione al castello, cucinata dal signor Cambut dell’Escargot d’Or. Si è aperta con il suo animale araldico, la lumaca delle vigne, cucinata in maniera eccellente, con erbe aromatiche, e si è chiusa con una macedonia aromatizzata da fini liquori. Su tutto, il fuoco di fila del Veuve Clicquot. Dopo gli strapazzi delle marce ora ce ne stiamo qui immersi in un bagno tiepido, e viviamo come normanni che si siano infiltrati in una terra di viticoltori. Sono contento, già solo per amor di completezza, che anche da quest’altro punto di vista la guerra mi abbia reso partecipe delle sue visioni – dalla prospettiva del movimento nel libero spazio, nel quale naufragammo nel 1918.

Bourges, 30 giugno 1940 Passeggiata domenicale al cimitero di Saint-Lazare. Perfino in posti come questo si sente che i romani ebbero con la natura un debole rapporto, fortissimo invece con la società. Il giro mi ha fatto venire in mente il cimitero di Montparnasse, in cui vagai come attraverso una necropoli, e quello palermitano, con il suo fasto di marmi. Il pomeriggio l’ho trascorso con il disbrigo di un 222

«rapporto contro ignoti»: ancora un lavoro pour le roi de Prusse. Soprusi, ogni esercito deve metterne in conto; non che abbiano importanza, purché non vada mai perduta la misura dell’onore. Lo stesso vale per la vita del singolo e per noi tutti: l’uomo può sbagliare, ammesso però che il germe, il seme della vita retta si conservi intatto in lui. Allora si sanerà di nuovo. Il processo si avvarrà della pena, si reggerà cioè sul dolore – e in ciò sta non tanto il suo significato pedagogico, quanto il suo significato trascendentale. Nei casi più gravi, la morte sarà l’ultima possibilità di salvezza.

Bourges, 1º luglio 1940 Madame Cécile. Chiacchierato in giardino sulla buona cucina, per esempio sulla zuppa di cipolle: quella che si mangia tutti i giorni e quella che si serve la domenica. Poi del pasticcio di coniglio selvatico: prima di avvolgerlo in uno strato di pasta e di farlo gratinare, vi si praticano delle aperture con le dita e lo si riempie di cognac. Infine delle allodole sul canapé. Laddove noi usiamo l’espressione «brunire», bräunen, il francese impiega il più eloquente «indorare», dorer. Tutt’affatto diversi i modi in cui si colgono i significati con le parole – come con delle pinzette che afferrano gli stessi oggetti, pur distinguendosi nella forma. Spesso, anche con le espressioni più strane, si finisce per approdare alla stessa soluzione, come ho notato oggi per «la capriola», la culbute: il «Purzelbaum». Poi si è parlato del marito, da cui ha divorziato. Gli uomini, quando si riesce a osservarli in un’ottica femminile, appaiono in un’altra luce – in una luce che non cade come 223

un raggio diritto, e che perciò rende visibile anche il rovescio. Tra di noi, ci vediamo in effetti solo en face. Seduto comodamente al sole in giardino, ho goduto un poco della segreta, felina alterigia con cui una personcina come questa vede gli uomini che entrano nel suo campo visivo. In simili gabinetti, dove crediamo di essere i più forti, spesso siamo solo fonte di ridicolo.

Bourges, 2 luglio 1940 L’ultimo giorno a Bourges. Mattinata con Spinelli da antiquari, in cerca di stampe e disegni a colori, ma non c’era niente di particolare. Nel pomeriggio, Madame Cécile, che si è fermata anche a pranzo e mi ha dato una lettera di addio che devo aprire solo domani. Da quanto sento dire, marceremo a piedi fino a Zweibrücken e, di là, il 25 luglio, ci dirigeremo in treno fino a Bergen, per poi andare in licenza per un tempo indeterminato. Così questa campagna sarebbe conclusa prima di quanto avessimo mai immaginato.

Les Tallans, 3 luglio 1940 Marcia fino alla contrada di Henrichemont, dove abbiamo pernottato nell’isolata fattoria di Les Tallans. Per la strada, cavalcavo accanto a Hilbrecht, che ascolto volentieri quando racconta, e nel quale ho colto un tipo particolare di soldato. «Quando per la prima volta sentii dire ’Caricare e 224

puntare!’, provai la stessa sensazione di un cresimando di fronte all’altare.» Dopo l’arrivo a Les Tallans, ho vuotato una mezza bottiglia di vino e dormito una mezz’ora in camera mia, una stanza rivestita in pietra che, nonostante la calura che si riversava sui campi, era gradevolmente fresca e in penombra. In questa antica masseria, parte della quale si erge immutata dal XIV secolo, sembra che il tempo trascorra più tranquillamente – l’ambiente, per esempio, è riscaldato solo con camini e illuminato solo con candele di cera. Ho trovato i cassetti del mio comodino foderati con un giornale del 1875. Col sole più basso all’orizzonte ho fatto un giro per i campi – siamo qui nell’antico ducato di Berry, che tanto mi piace. La coltura è insolita: grandi pascoli, campi esigui – tutto quanto cinto di alte siepi, da cui svettano querce possenti, meli, pioppi e castagni con i loro bianchi corimbi. I sentieri si allungano ombrosi, come folti pergolati, e però in cima alle colline si conquista il panorama. La campagna offre così, al tempo stesso, un lato aperto e uno labirintico.

Parassy, 4 luglio 1940 Non molto dopo la mezzanotte ci riuniamo nelle cucine di Les Tallans per il caffè, durante il quale la proprietaria, una maestra e la cuoca ci hanno tenuto compagnia. Sedevano sulla base sopraelevata del camino quando il legno che, carbonizzato, era appoggiato sugli alari, è divampato all’improvviso, dando adito a ogni sorta di facezie. Eravamo dell’umore che, a volte, è tipico in ore come queste; c’è una 225

sorta di ubriachezza mattutina. In questo stato d’animo abbiamo chiacchierato delle bassinoires: larghe pentole tonde di rame rosso sbalzato impiegate per raccogliere i tizzoni ardenti. Hanno coperchi forati, spesso riccamente ornati. Ci si scaldano i letti prima di andare a dormire, reggendole per lunghi manici; ma sono passate di moda oramai, perché presuppongono la presenza della servitù. La padrona vantava le virtù di simili padelle, e così siamo andati a parare in una discussione, disputata in parte à la Rabelais, sui vantaggi dei diversi metodi di riscaldamento dei letti. Alla fine è stata «la schiava circassa sedicenne» a vincere il primo premio. Abbiamo marciato fino a Parassy, dove ho pernottato nella casetta di un operaio. Qui il tenente colonnello Vogler si è congedato da noi. Gli succede il maggiore dottor Otto al comando del battaglione.

Ferme Les Cadoux, 5 luglio 1940 All’una mi ha svegliato il mio ospite di quartiere: «le réveil sonnait». Marcia, prima notturna, poi a giorno fatto. Verso mezzogiorno, quando abbiamo attraversato il grande ponte di barche sulla Loira nei pressi di Bonny, era molto afoso. Alloggiamento nella piccola Ferme Les Cadoux. Gli inquilini sono tornati da poco, e sono felici di essere di nuovo a casa loro. Sebbene durante l’assenza avessero perduto parecchi capi di bestiame e suppellettili, li ho trovati sereni, di un’intima luminosità che mi ha commosso vivamente. Ho avvertito in essa le seconde nozze con la terra 226

d’origine, il ricordo della sacralità del primo approdo. In questo stato d’animo, ogni lavoro, ogni gesto, si trasforma in una fonte di gioia – vi si scopre un che di irripetibile, di eternamente significativo intessuto nella trama del quotidiano; e, al di là del dolore, la vita risplende in una nuova, gioiosa profondità.

Maison La Fumée, 6 luglio 1940 Alle quattro ci hanno dato la sveglia. Abbiamo marciato nella calura crescente fino a Mezilles, dove ci siamo fermati su un’altura spoglia per il pranzo. Il pozzo della piccola fattoria, in cui ho fatto lavare le marmitte, era scavato a oltre cinquanta metri di profondità nella marna. Nell’afa crescente, abbiamo raggiunto verso sera i dintorni di Toucy, e siamo rimasti nella fattoria sopra menzionata. Gli uomini si sono comportati come si comportano i soldati in marcia: vale a dire, procedere fino a che si riesce a reggersi in piedi. Qui e là, ce n’era uno che usciva dalla fila senza che la velocità della marcia ne fosse rallentata. Anch’io ero davvero stremato. Siamo arrivati con un acquazzone. Dopodiché, come ogni anno, mi ha rallegrato la vista dei gigli; ce n’era un cespuglio fiorito nell’orto della fattoria. Ne ho parlato con la padrona, ed ella mi ha raccontato che con i fiori e le foglie di questa pianta si ottiene per fermentazione alcolica un ottimo rimedio emostatico. Questa donna, sotto il profilo del carattere: piccola, magra, estremamente energica, con gli occhi acuti di un rapace e il mento affilato. Si è rivelata di gran lunga 227

superiore al marito, che davanti alla folla di uomini piovutigli in casa, aveva subito perso la testa. Così, per esempio, si è preoccupata di far immediatamente allontanare i cavalli non appena si sono messi a brucare le foglie dei cavoli e l’insalata dell’orticello, e lo ha fatto dicendo che alle bestie fa malissimo infradiciarsi. Ha accompagnato poi di persona i soldati, per mostrare loro dove fossero le stalle e il fieno, non senza aver prima provveduto affinché io, individuato come colui che faceva il bello e il cattivo tempo, ricevessi delle uova e del vino. Ho riflettuto su questo tipo umano, anche sul fatto che tutto questo dispendio di volontà non assicura che un posticino modesto nella vita.

La Tuilerie, 7 luglio 1940 Già verso le due ci è stata di nuovo data la sveglia. Poiché per l’ulteriore durata della marcia ero stato designato comandante del comando di avanguardia, che si occupa degli alloggiamenti, ho viaggiato in automobile attraverso Aillant, Senan, Joigny, Bussy, fino nei dintorni di Dixmont, e ho preparato il quartiere per il battaglione a La Tuilerie. Qui sto in una casetta graziosa: «Clos des Roses», in cui il proprietario vive da mezzo funzionario di polizia in pensione e da mezzo contadino. Da lui, io e Rehm ci godiamo quel che – dacché esistono le guerre e le marce – si dice «un buon quartiere». Bisogna però anzitutto saper dischiudere le fonti dell’abbondanza; così, appena arrivati, ho fatto entrare i bambini e ho regalato loro qualche spicciolo da mettere nel salvadanaio. E, come previsto, ecco 228

poi per noi uova al burro, conigli, fagiolini, patate in olio e aceto e formaggio; alla fine, uno dietro l’altro sono arrivati anche i piccoli, come formichine, portando ciascuno qualche cosuccia per dessert. Tra loro c’era anche la figlioletta Léonne, con il rum per il caffè che il suo fratellino ci aveva già versato. Si trovano dunque sempre case che, all’arrivo di un soldato, si animano di una generosa eccitazione, come se a tavola si fosse seduto l’insaziabile Ercole in persona. Nella mia stanza ho ritrovato il pavimento che già aveva attirato la mia attenzione a Montmirail: piastrelle di mattoni rossi tagliate come i favi delle api e tirate a lucido con la cera. È un pavimento fresco, semplice, di tranquilla razionalità. Nel pomeriggio, passeggiata per i campi e le colline, sui cui pendii ampie distese di scabiose lilla formavano con i ciuffi solitari dell’iperico giallo oro un disegno schiettamente estivo. Su tutto, il sonoro ronzio dei calabroni e del coleottero dorato. La vista delle scabiose ha da sempre per me un effetto come di eccitazione elettrica: da bambino credevo che chi la raccoglieva provocasse il temporale. Sul ciglio dei sentieri e nei dintorni ci sono mucchi di pietre focaie che sembrano affiorare in superficie dalla marna e che sono impiegate qui per la costruzione delle case. Alla luce del sole brillano nelle tonalità delle nuvole scure, nelle tinte rosate e rosso corniola, come mucchi di pietre preziose nella terra dei tesori.

La Tuilerie, 8 luglio 1940

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In sogno ho avuto una disputa con il colonnello von Taysen. Sedeva alla scrivania e, dopo un breve scambio di battute, mi porgeva un grosso incartamento. Me lo portavo a casa per studiarmelo, e lo trovavo pieno di verbali, interrogatori, attestati. Si trattava di una questione d’onore, sorta allorché, dalla rappresentazione di un dramma guerresco che aveva per soggetto la battaglia di Salamina, erano nate certe discussioni che opponevano la massa degli ufficiali, dalla parte dei persiani, al nuovo comandante schierato invece dalla parte dei greci. Nei singoli interrogatori leggevo con stupore una serie di argomentazioni significative in cui i greci venivano additati come i rappresentanti di principi inferiori e come sovvertitori di antichi ordini e dinastie. Vi leggevo anche belle descrizioni della vita nelle guarnigioni di Babele, Sardi, Ecbatana. Tutto ciò però non era che una panoramica, quasi un arabesco, dei miei rapporti con Taysen. È davvero strano il modo in cui i conoscenti mi appaiono in sogno – tra costoro vi è spesso anche qualcuno cui ho fatto un torto e al quale ripenso sempre con un certo imbarazzo. Una volta che ho sognato di loro, poi, è come se mi avessero perdonato, e se tutto fosse finito.

Paisy-Cosdon, 9 luglio 1940 Precedo nuovamente gli altri, passando per Dixmont, oltre Villeneuve, verso Paisy-Cosdon. In macchina mi ha colpito il modo in cui i fari riflettono la strada. Nella loro sagoma metallica tagliata a parabola, oggetti come alberi e 230

case si riproducono con grande nettezza per rimpicciolirsi poi non appena sopraggiunge una curva. Vengono così incessantemente riportati al punto zero e spariscono nel nulla. Il tutto assomiglia a una macchinetta escogitata per illustrare i filosofemi indiani, sulla cui teoria mi converrà consultare il fratello fisico. Nel pomeriggio, bagno in uno stretto ruscello cinto di alti giunchi, dove scorreva un’acqua impetuosa e ghiacciata, di un grigio-verde lattiginoso. Poi, nel sole cocente, ho riflettuto sulla progressione creativa di uno scrittore. L’opera è paragonabile a una casa in cui si entra da un ingresso aperto sulla pubblica via. Le prime prove si attengono a modelli già noti, e solo nel corso degli anni ci si forma uno stile proprio. Lo scrittore, attraverso recessi che vanno via via modificandosi, conduce il lettore nel proprio mondo. A sera, conversazione con il mio ospite, un vecchio operaio che, durante la Prima guerra mondiale, si trovava a Regniéville sul fronte opposto al mio al momento dell’attacco. «Ci dovevamo lasciare le penne.» Durante questo colloquio, ho notato ancora una volta la differenza che corre tra «hommes» e «Menschen». Curioso è il sentimento di comunanza, di cameratismo, che la Grande guerra ha lasciato nei suoi combattenti, quale che fosse la loro lingua. È il segno di un impatto potente.

Villechétif, 10 luglio 1940 Oltre Troyes, verso Villechétif. A Troyes, grandi devastazioni. I sobborghi occidentali erano bruciati, e le 231

mura erano ridotte a una sorta di intreccio di favi disegnato al suolo. Nel pomeriggio, passeggiata verso Belly; nel mezzo di un bosco ho trovato una tomba modesta con una croce che recava sulla sommità una scatola di conserva. Sembra che sia innato nell’uomo l’istinto di incoronare le tombe; è un pensiero che mi è venuto in mente per la prima volta quando vidi i turbanti di pietra nei cimiteri maomettani. In un carro armato distrutto ho trovato delle lettere: lettere d’amore di soldati, e anche documenti segreti che indicavano le posizioni delle mine.

Dienville, 11 luglio 1940 In viaggio attraverso Piney e Brévonnes, fino alla già affollatissima Dienville. Un miracolo potervi alloggiare ancora un battaglione con una compagnia sanitaria. Mi è riuscito di farlo perché sono andato a far visita ai comandanti, e li ho pregati di stringersi un po’. L’uomo onesto pensa a se stesso come ultima cosa – così nel pomeriggio ero l’unico ancora senza quartiere, e sono stato davvero felice di scoprire in un vicolo una cameretta che sembrava non avere ancora trovato un pretendente. L’ostessa, un donnone, me l’ha presentata in modo convincente, e alla fine mi ha detto che, per dovere di responsabilità, doveva menzionare un ultimo dettaglio, e cioè che alcune settimane prima suo marito vi era morto di una malattia contagiosa. Ho lasciato perdere allora, e ho preferito, di certo come molti altri prima di me, proseguire oltre la mia ricerca – in posti simili non si abita solo con il 232

corpo, bensì anche con la fantasia. Alla fine sono capitato in un’altra casetta che, abbandonata dai suoi inquilini, aveva l’aspetto di un covo di briganti. Con l’aiuto di due vispe signore del vicinato, una madre con la figlia, e di due attendenti, ho messo in ordine quel mucchio di macerie e ho preso in prestito l’occorrente per prepararmi un letto. Sembrava che fossi finito in un angolo più sereno perché ci è poi venuta in aiuto anche una terza vicina, che, energica ed elastica come certe belle donne descritte da Villon, si abbandonava a mille civettuole svenevolezze – proprio nella maniera più eccitante per gli uomini. Così per esempio, prima di salire nel solaio con gli attendenti, ha chiesto se non corresse il pericolo che lassù qualcuno la mangiasse e, per finire, andandosene, ha detto che la casa era ben rifornita di tutto l’occorrente, donne comprese. Subito dopo, però, è tornata indietro di corsa, tutta accaldata: «Capitaine, dalle vostre parti è forse permesso di agguantare una signora sotto le sottane?» «Certamente – se costei è d’accordo.» «Ah ecco, grazie, è quello che volevo sapere.» Poi è corsa via di nuovo. Si incontrano sempre tipi che amano il disordine. Nel pomeriggio, in chiesa, dove c’era un funerale. Il sacerdote, già in età avanzata, un uomo di forte dignità, e dal profilo ben delineato: contadino, aristocratico, spirituale. I paramenti: cappa nera, ricamata di cardi d’argento, copricapo nero con sopra una nappa rossa. Ha girato attorno alla bara, una volta avvolgendola di nuvole d’incenso, una volta aspergendola di acqua benedetta. Chierichetti con la tunica bianca e stole nere; sorridevano 233

tra loro fra un canto e l’altro, a tratti con fanciullesca malizia. Fedele alla mia abitudine di accompagnare i morti sconosciuti, in tutti i possibili paesi del mondo, mi sono accodato alla processione. Più tardi, passeggiata sulle rive dell’Aube, nel giardino del castello. L’acqua era impetuosa, fredda, di un bel verde, quasi come nel corso superiore dell’Inn. L’impatto del colore dell’acqua sfiora l’incantesimo quando scorre in un letto di ghiaia bianco lucente. Qui ho riflettuto sui miei compiti, sui viaggi, soprattutto però sull’effetto che devo ripropormi di ottenere con la parola. Un anno fa, l’obiettivo supremo mi sembrava l’alchimia, l’influsso invisibile delle formule magiche, dell’incantesimo, sulle forze e sulle cose. Meglio ancora, però, mi pare che la parola, con le sue ali, ci conduca là dove l’etere imponderabile vanifica ogni fluttuazione. Verrà il giorno in cui ci sbarazzeremo anche di questi involucri variopinti.

Vaux-sur-Blaise, 12 luglio 1940 Dopo aver mangiato nel mio covo da briganti, mi sono messo in viaggio attraverso Chaumesnil, Soulaines, Doulevant, Dommartin, diretto a Vaux-sur-Blaise. Al municipio ho trovato impiegati in gamba, precisi e solleciti nella ricerca degli acquartieramenti e, in generale, per tutto quanto riguardava l’attività del comando di avanguardia. Anche il sindaco, che ieri mi aveva accompagnato a Dienville è stato, benché settantaduenne e sofferente, molto cordiale. Ho dunque conosciuto qui un tipo di funzionario che mi piace – capace di venire a capo anche di situazioni 234

difficili e dotato di un innato senso del bene pubblico. Dopo l’assegnazione dei quartieri, mi sono sistemato dal parroco, che mi ha invitato a cena con del buon vino di Anjou – giallo brunito come certe specie di ambra scura e dal sapore gradevole. A tavola conversazione sul confratello di Dienville, che conosceva e di cui ha tessuto le lodi, confermando l’impressione fisiognomica che ne avevo avuto, e poi sul simbolismo delle esequie. Su questo punto il mio ospite si è sciolto, scuotendo il capo con un disinvolto «Tiens, tiens, tiens». Mi ha spiegato che il cardo sulla cappa è una decorazione personale; e che ha però un valore simbolico nell’ordinamento cristiano. Come tutti gli altri abitanti della cittadina, anche il parroco e la sua perpetua erano scappati; si diceva che i preti venissero fucilati. Il suo resoconto di questa fuga è stato istruttivo, perché mi ha fornito una spiegazione per la presenza delle numerose auto incendiate che orlavano la strada. Erano partiti la mattina presto, il parroco su un grosso carro per il raccolto, la perpetua su una vettura già danneggiata che, man mano che si procedeva, ha dovuto essere trainata a rimorchio. Le strade erano gremite di truppe in marcia e di fuggiaschi. Prima ancora di arrivare a Dommartin, già si udivano echeggiare grida di terrore: «Arrivano – les voilà!» Apparvero nove stukas a grande altezza, che scesero in picchiata a sirene spiegate sparando con le mitragliatrici e lanciando bombe. Tutti saltano giù dai carri, corrono al riparo sul bordo della strada perforata dalle esplosioni. Il parroco si rialza e sente gridare: «State giù! Tornano indietro!» «Era impossibile per me. Sentivo gli urli dei feriti e dei 235

moribondi. Dovevo dar loro l’assoluzione. Siccome erano troppi, ho impartito un’assoluzione generale.» In quel momento giunse il secondo attacco, e il parroco fu atterrato da una scheggia che gli perforò una coscia. Anche l’auto prese fuoco, e la perpetua fu investita da una fiammata. Lo portarono via in barella mentre stringeva tra le braccia un sacco con i tesori della chiesa. La donna ne perse le tracce: proseguì a piedi fino alla Côte d’Or, e fu infine ricoverata in un ospedale tedesco dove le curarono la pelle che le si staccava a brandelli dai piedi. Poi la donna tornò a Vaux, dove nel frattempo era ricomparso anche Toto – il cane, che dopo l’esplosione era sparito ed era poi stato riacchiappato nei boschi. Il parroco era stato dimesso dall’ospedale solo da qualche giorno e, considerato quel che gli era capitato, mi ha meravigliato il suo buonumore. Se ne usciva con un sacco di battute e di aneddoti, con cui condiva la conversazione. Così per esempio, quando ho rifiutato la sigaretta che mi offriva: «Il papa offre una presa al cardinale». «Ringrazio Sua Santità, ma non ho questo vizio.» «Se fosse un vizio, ce l’avreste.» Oppure, a riprova dell’incremento degli adulteri nei dintorni: «Un sordo vede il portavoce del comune che annuncia qualcosa e chiede al suo vicino che ci sia di nuovo». Questi, un burlone, gli risponde: «Tutti i cornuti devono trovarsi in municipio oggi pomeriggio». Al che il sordo: «Allora passa a prendermi quando ci vai». 236

Sulla differenza tra la cucina francese e la svizzera – a tavola in un albergo di Ginevra. Lo svizzero: «Voi mangiate tanto pane!» Il francese: «E voi mangiate tanto di tutto!» La perpetua, Madame Louise, era ancora sotto choc, parlava in continuazione, non sopportava la vista di un’arma né il rombo di un aereo, e perfino il campanello la spaventava. Ho preso a stuzzicarla dicendo che, come membro del clero, non doveva avere nulla da temere. «Già, ma poiché sono molto utile qui, il buon Dio non dovrebbe ancora aver bisogno di me.» Così la serata è trascorsa piacevolmente, tra uno scherzo e l’altro.

Claire-Fontaine, 13 luglio 1940 Passeggiata mattutina, prima a una fonderia vicina, dove ho osservato una gigantesca ruota ad acqua che girava con vigore. Poi verso Domblain. Qui mi sono riposato in una chiesetta sulle cui pareti scalcinate, sotto l’intonaco sfaldato, trasparivano affreschi antichissimi. Il tetto era sconnesso; colombi e passeri già svolazzavano per il coro. Ho proseguito il mio giro per i campi brulicanti di dorifore delle patate. Ho visto un’enorme quantità di larve, ma poche imagines. Al contatto usciva dalle pieghe un liquido giallo – sembra che questi animali, come molte crisomelidi, non vengano catturati dagli uccelli. D’altra parte, questo succo è la tinta di fondo della tavolozza della quale, con molto 237

gusto, si tingono gli insetti, dal giallo chiaro al bruno quasi nero – la natura lo impiega ora diluito, ora concentrato. A mezzogiorno, dal parroco, per una jardinière preparata da Madame Louise: piselli, patate, fagiolini, carne di montone. Poi il commiato, al che il parroco ha detto che ci si conosce, si impara a stimarsi e già ci si deve lasciare. Mi ha fatto piacere; per i quartieri vado un po’ a caccia di esseri umani. Oltre Morancourt, Joinville, verso Pancey, uno dei buchi più piccoli e miseri, con rovine ancora risalenti alla Prima guerra mondiale, e case deserte semplicemente perché chi vi abitava ha deciso di piantare in asso i suoi possedimenti, senza che gli si possa dare torto. Sebbene abbia esteso la ricerca di una sistemazione fino a Effincourt, non sono riuscito a far saltare fuori che un bivacco di poco migliore. Sono allora ritornato indietro a Thonnant, e ho preso quartiere in una casa sulla strada offertami da una donna cordiale non appena gliel’ho domandato. Malesseri di stomaco; mi è stato preparato del tè e, alla richiesta di una boule per l’acqua calda, mi è stato portato un ferro da stiro avvolto in un panno di flanella. Sebbene la mia camera dia sulla strada, e non sia troppo sicura, ho tenuto fede anche in questa occasione alla mia scelta di non chiudere a chiave la porta – un tratto da avventuriero. Non si deve chiudere fuori la Fortuna. Certo poi la realtà non fa entrare che ubriachi e furfanti.

Claire-Fontaine, 14 luglio 1940 Al mattino ho cercato di migliorare un poco il mio 238

alloggiamento, poi ho fatto una passeggiata per gli sterili campi dell’alta Marna. Povertà, fattorie abbandonate, sporcizia. La donna che mi ospita ha perso il marito. È rimasta al villaggio finché le bombe non sono cadute nelle vicinanze della casa, e poi è strisciata con i due bambini della sua domestica in un condotto dell’acqua che correva sotto la strada e che mi sono fatto mostrare. Quindi è scappata come tutti gli abitanti della zona, in una corsa forsennata, e solo dopo lungo girovagare è tornata indietro. Conversando, mi rispondeva con espressioni malinconiche. Così per esempio, a una mia domanda sui bambini: «No, perché mai dovrei averne? Per vederli arrivare a questi risultati?» Alle mie scuse per il fatto che la nostra presenza in casa sua le desse da fare: «Il lavoro è la sola cosa che scaccia i pensieri». Come tutti i francesi con i quali ho parlato finora, l’ho trovata molto scontenta del governo e della sua politica. In effetti, la cecità dimostrata, per esempio, dalla drastica riduzione della settimana lavorativa prima della guerra, fu piuttosto sbalorditiva. Chi vuol vivere tanto bene deve tenersi lontano dalle armi. Ho sempre trovato strana anche la paura che hanno sempre dimostrato verso di noi, già assai prima del nostro riarmo, subito dopo la Guerra mondiale, quando materialmente ci erano di gran lunga superiori. Simili segnali permettono di presentire le decisioni prima ancora che siano prese. La paura corrisponde poi naturalmente anche a una depressione barometrica; attira il temporale.

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Neuville-les-Vaucouleurs, 15 luglio 1940 Nel pomeriggio, per Houdelainecourt, Montigny, Vaucouleurs, fino a Neuville-les-Vaucouleurs, dove ho trovato alloggi un po’ migliori. Mi sono sistemato presso un pensionato delle ferrovie settentrionali che, come molti suoi colleghi, terminato il suo servizio è tornato nel suo luogo natio. Purtroppo le pulci di tutte le stalle del vicinato tengono adunata nella mia camera. A letto, che, come sempre, era davvero comodissimo, ho letto una traduzione francese del Carbonchio azzurro di Conan Doyle. L’appassionante di queste descrizioni sta nei dettagli della caccia all’uomo e nel raffinato intuito.

Neuville-les-Vaucouleurs, 16 luglio 1940 A causa di un ingorgo stradale dalle parti di Nancy, la prosecuzione della marcia della divisione è ritardata di un giorno. Sono perciò tornato indietro a Pancey, e a pranzo ero di nuovo a Neuville. Nel pomeriggio, dato che eravamo molto vicini, ho fatto una scappata a Domrémy. Il paese è attorniato da tombe scavate di fresco, quella del sottotenente Jakob Reiners per esempio, caduto all’età di 23 anni, che è stato seppellito qui il 26 giugno a ridosso della strada per Greux. Ho visto la casa con le stanze modeste e la cameretta dove nacque la Pulzella. Mi pare che sia tutto conservato con semplicità, senza l’effetto da museo che ho invece riscontrato nella chiesetta. Qui ho letto su un’insegna il bel motto: «Vitam pro fide dedit» – mi pare che certe cose, con 240

questa pregnante brevità, si possano dire solo in latino. Sono entrato in una piccola locanda per bere un caffè e l’ostessa mi ha subito salutato con il consueto: «Ah, mon pauvre monsieur, tout est pillé». Abbiamo proseguito oltre, verso Neufchâteau. La città vecchia, stretta, sembrava danneggiata dai bombardamenti; anche sui muri delle case correvano strisciate di proiettili. Si scorgevano segni evidenti del passaggio dei carri armati. La vita per le strade sembrava paralizzata, come per una recisione dei tendini; non si era ancora riavuta. Dopo catastrofi simili, il primo a riprendere è il lavoro nei campi, poi vengono i collegamenti, i commerci, le manifatture. Ma come primissima cosa l’essere umano ricomincia a giocare, come ho visto fare ai bambini. Un ufficiale che ha partecipato all’ingresso delle truppe a Parigi mi ha raccontato che il primo uomo in cui si sono imbattuti per le strade deserte era un vecchio pescatore, tranquillamente seduto in riva alla Senna. Abbiamo poi visitato l’alto castello medievale di Bourlemont, circondato da un magnifico parco, dove gruppi di alberi possenti, fronzuti fino al suolo, si levavano sui prati come isole e scogliere da un mare verde. Dalla balaustrata ho visto la campagna, con le sue colline e i boschi scuri; mi è parsa chiusa, e freddamente misteriosa, come un terreno su cui la verginità possa toccare il grado più elevato e inviolabile. Tornato indietro, mi sono trattenuto ancora un poco a parlare con i miei ospiti. La donna è curiosa, per una convergenza di tratti – premurosa benevolenza nei confronti della sua cerchia, estrema durezza e cecità verso tutti gli estranei – tradita da espressioni ingenue. Per esempio, mi ha 241

raccontato che, prima della nostra avanzata, truppe di neri si erano accampate nelle vicinanze e avevano bivaccato nei boschi umidi. Alla mia domanda: «In tenda, naturalmente?», ha replicato con un diniego: «C’est des sauvages. Ils vivent comme ça». A proposito della preparazione dello sciagurato coniglio che doveva servirmi per cena: «Gli strappo gli occhi perché si dissangui meglio». E tutto ciò era detto in tono cortese, perfino amabile. Prima di addormentarmi ho letto un secondo racconto di Doyle, Il pollice dell’ingegnere. La pena dell’uomo spinto nella camera di una pressa idraulica ha il suo modello nel Pozzo e il pendolo di E.A. Poe, la cui opera rappresenta il fiume principale e originario da cui si diramano i generi del fantastico e dello spaventoso. D’altra parte, nella sua immagine del pendolo si cela un mistero di cui nessuno cui manchi l’esperienza di fatti concreti saprà cogliere il senso.

Gondreville, 17 luglio 1940 Nel pomeriggio sono partito in anticipo per Gondreville. Per strada ero preso da pensieri o, piuttosto, prefigurazioni di pensieri, di cui lo spirito non può non tener conto. È come se la materia dei pensieri fosse preceduta da un altro materiale più sottile, che in certa misura la ammorbidisce, come per un’erosione, e fa sì che la si possa incidere in un modo nuovo. Così lo spirito, quasi sognante, gioca con le cose e, prima ancora di vederle, le tasta con le antenne. La luce è preceduta dal buio.

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Toul, che attraversiamo alla svelta, era pesantemente distrutta. L’unica torre della cattedrale sembrava essere stata colpita; era mezzo crollata. Anche il grande tetto della chiesa era bruciato. A Gondreville ho preso alloggio dal sindaco, o piuttosto dal suo vice. È uno di quei piccoli centri lorenesi, come ne ho già notati durante la Guerra mondiale. In essi, venendo dall’Est, si riscontra per la prima volta un tipo di architettura che si adatta al sole, e che fa perciò un’impressione simile a quella che si ha viaggiando dal Nord verso il Sud Tirolo. Le facciate senza intonaco né finestre sono spente, le tegole dei tetti piatti sono grigie, rosa, o di un rosso pallido, chiazzate di macchie smorte, ancora fresche, e dorate sui cornicioni. Il tutto è immerso in una gamma di colori che si imbeve di luci variopinte nel pieno splendore del sole, e che assomiglia ai metalli la cui potenza luminosa si accende solo tra le braci. La sera, mentre passeggiavo tra gli orti, ho visto nella penombra una sagoma scura sgusciare via sulla mia strada, con due ali che sbattevano davanti alla testa. Solo dopo che è scomparsa in un fienile ho compreso che si trattava di un gatto nero che teneva tra le fauci una colomba nera dalle ali bianche. Avevo scorto così la figura di uno di quei rebus in cui piacere e dolore si confondono l’uno nell’altro in un disegno indecifrabile, e che nella vita sono così frequenti. Ne distinguiamo le linee tanto più chiaramente e tanto più correttamente quanto più elevata è la nostra posizione, e quanto più intensa è la luce che ci avvolge.

Salonnes, 18 luglio 1940 243

Al mattino, passeggiata tra i pascoli della Mosella dove, nei bracci morti delle antiche acque del fiume, si poteva osservare una flora palustre e acquatica di straordinario rigoglio. Il sentiero correva attraverso un esteso lavatoio, dove erano intente al lavoro donne ridanciane e chiassose. Stavano in ginocchio dentro cassette aperte sul retro, immergevano i panni nella corrente, li insaponavano sulla pietra bianca dell’argine e li battevano a lungo con una spatola piatta prima di risciacquarli. Il bucato, che dalle nostre parti si sbriga tra le mura domestiche, rientra qui tra le attività sociali; i lavatoi sono edifici pubblici. A mezzogiorno la moglie del sindaco mi ha servito un pollo poi, passando per Nancy, mi sono recato nel paesino di Salonnes, dove ho preso alloggio presso un ferroviere. Qui abbiamo trovato i primi sprazzi di lingua tedesca; questa località faceva parte della Germania, prima della Guerra mondiale. Nel piccolo cimitero che cinge la chiesa abbiamo visto una serie di tombe di caduti scavate di fresco. Tra gli elmetti che vi erano appoggiati sopra ce n’era uno con i segni di cinque spari sulla visiera e, sopra, la lunga spaccatura che lo ha spezzato.

Edelingen, 19 luglio 1940 Per Château-Salins, Mörchingen, Baronville, in direzione di Adelange, che sui nuovi cartelli stradali già vanta il suo nuovo nome di Edelingen. Qui il tedesco è non solo la lingua predominante, bensì l’unica che si parli. Acquartierato dal sindaco. A sera ho fatto ancora un giro per i campi, dove la terra 244

pesante, rosso-bruna, cela spesso una conchiglia della forma di una cornucopia o, meglio, di una lampada funeraria romana. Ne ho trovato un esemplare con il guscio ancora chiuso. La metà destra di questo fossile è delineata con maggiore nettezza; la sua irregolarità è non solo compensata, bensì addirittura elevata a decoro dal fatto che il lato più largo è graziosamente articolato in una piega. Così, nella natura e nella sua evoluzione sono già prefigurate tutte le proporzioni che l’arte umana potrebbe inventare. La nostra libertà sta tutta nella scoperta di forme preesistenti – la nostra creatività attinge alla creazione. Il massimo che in tal modo ci è dato di raggiungere è un presagio dell’immutabile misura del bello – come lo sguardo puntato sull’Egeo che, tra il gioco delle onde del mare, indovina sul fondale le antiche urne e le statue. Lo stesso vale per la nostra vita – essa riesce con successo laddove riusciamo anche solo a intravedere e a far intravedere ciò che di eterno vi si nasconde. Nel buio della stanza ho riflettuto ancora sul significato delle conchiglie e delle chiocciole nell’architettura barocca. L’inclinazione di questi animali per le volute e per l’asimmetria esprime fin già nella natura la tensione verso nuove forme. Allo stesso modo, in architettura, la rocaille mostra i germi del mutevole, dell’individuale, della fantasia. Si dovrebbe studiare come se ne sviluppano poi i virgulti. D’altra parte, anche questo ornamento di conchiglie, come tutto ciò in cui vediamo un significato simbolico, contiene al tempo stesso il suo contrario – la pulsione alla durata, all’irrigidimento matematico, alla fossilizzazione. Nello sviluppo dei giardini, in particolare, si vede l’azione 245

reciproca di queste due tendenze. Ma è soprattutto la predilezione per gli specchi a contenere in sé un contrasto diretto – essa si fonda sull’intuizione della minaccia che grava sulla simmetria: vorrebbe dunque ricostituirla, aggiungendo l’immagine riflessa. Nella lingua segreta dei modelli in base ai quali realizziamo oggi le nostre costruzioni si annunciano le epoche prolungate ed equilibrate che faranno seguito all’inquietudine. Si può arrivare alla stessa conclusione anche osservando come masse sempre più grandi di lavoratori siano messe in relazione tra di loro da progetti; così il tempo futuro partecipa alla propria costruzione.

Edelingen, 20 luglio 1940 Trascorreremo ancora una serie di giornate in questo buco. Nelle case si ha la sensazione che tarli e pulci riducano in polvere le scorte, e che fuori tutto affondi nel letame. Rigagnoli bruni che qua e là formano lucide pozze scolano giù per le strade del villaggio. Parecchie case sono distrutte o bruciate, e lungo i sentieri sono ammucchiate montagne di materiale bellico abbandonato. In mezzo a tutto questo, gli uomini vivono in un clima opaco, direi quasi fuori dal tempo; nell’insieme potrebbe trattarsi di una scena della guerra dei Trent’Anni. Il mio ospite è sulla sessantina, secco, con un lungo naso appuntito un po’ storto, per lo più assente e malinconico, ma con uno sguardo astuto. Fisiognomicamente ricorda un uccello, ma non di una specie vivente. Ci sono volti che corrispondono a un tipo del quale si ha un presagio ma 246

nessuna conoscenza. Bisognerebbe studiare i fauni sotto i cornicioni delle grandi cattedrali per avere un’idea di simili caratteri. Al mattino è venuta una donna di circa trent’anni, in cerca di aiuto per disseppellire suo marito caduto qui nei dintorni cinque minuti prima del cessate il fuoco. Si abbandonava a un eccesso di dolore che le stravolgeva il viso e che il mio ospite ha definito sconveniente. Diceva, per esempio, che avrebbe tirato fuori il marito dalla terra con le sue stesse mani pur di vederlo ancora. Simili incontri non sono rari da queste parti, dato che le fortificazioni erano presidiate in parte da gente del posto. In questo modo si viene a conoscenza anche delle conseguenze indirette degli spari, di solito sottratte alla vista del tiratore. Il proiettile colpisce molti uomini; si vede l’uccello che cade e si esulta guardando le sue penne che si disperdono, non se ne vedono però le uova, né i piccoli, né la femmina rimasta nel nido cui non farà ritorno. A sera ho fatto un altro breve giro in direzione di Buschdorf, per una visita a Spinelli e, come d’abitudine, ho fatto tappa anche al cimitero che, come accade spesso nei paesi della Lorena, cinge la chiesa a ferro di cavallo. Vi ho scoperto una grande rarità: un ossario scavato come una grotta nel muro del camposanto. Doveva custodire almeno milleduecento teschi, con un fregio di tibie a coronare la costruzione e, nello spazio circostante, lunghi femori e bacini tondi. L’impressione generale era quella di un banco d’ossa pallide, un po’ inverdite, con l’inserto di un mosaico di orbite scure. Il suo disegno mi ha turbato; avevo la sensazione che un’onda sottile venisse a frangersi su questa scogliera di morte. «Tutti noi abbiamo vissuto», era il coro 247

che si levava di lì. Certo è un peccato che oggi si rifugga con timore da simili rappresentazioni tanto istruttive, dalla grande pompa della morte per la quale il Barocco mostrava ancora una viva sensibilità. La grotta era chiusa da un cancello di legno e da un basso parapetto di pietra che recava un incavo a forma di tazza, certo per l’acqua benedetta. A Edelingen ne ho parlato con il mio ospite il quale, come mi aspettavo, si è dimostrato molto coinvolto dall’argomento. Mi ha detto che un tempo i morti di tutto il circondario venivano seppelliti a Buschdorf, ecco perché ancora oggi la strada che ci arriva da Edelingen si chiama Via dei Morti. Il becchino che scavava le nuove tombe portava le vecchie ossa nell’ossario e ce le ammonticchiava. Una volta il mucchio di teschi arrivava su fino alla volta della grotta; quando il mio ospite lo vide da ragazzo era ancora così. Ma poiché con il tempo gli strati inferiori lentamente si logorano, l’altezza decresce. La gente riconosceva i teschi; avrebbero potuto «indicare i propri nonni», visto che si sapeva chi giaceva dentro le fosse.

Edelingen, 21 luglio 1940 Acquazzone. Tuttavia, poiché il mio pulciaio si faceva tetro, me ne sono andato un po’ fuori per la caccia sottile. In un campo di patate infradiciato mi sono nuovamente studiato il coleottero del Colorado – quando il sole è alto è assai vivace, si arrampica fino in cima alle piantine e poi se ne vola giù con slancio. L’ho visto sciamare come le api e, a vederlo così, mi è parso dubbio che in Europa possa esserci 248

una zona che, alla lunga, riesca a sottrarsi alla sua immigrazione. Ho cercato anche altre conchiglie, tra le migliaia però non ho trovato neanche un esemplare così perfetto come quello che mi era balzato all’occhio al primo sguardo. A sera, la posta, con una significativa confessione. Anche qualora a una lettera del genere non si dia alcuna risposta, si assolve un compito già solo con l’atto di leggerla. Quando incontro qualcuno degli uomini per le strade del villaggio, spesso discorriamo delle ultime settimane e degli ultimi mesi. E allora ho sempre motivo di meravigliarmi per le differenze di percezione. Così, per esempio, uno pretende di avere visto dei morti dove non ce n’erano, e simili. Spesso queste fantasie derivano dal ripetere in forma diretta quel che si è solo sentito dire – per esempio, non «Un artigliere mi ha raccontato che laggiù è saltato per aria un deposito», bensì «Laggiù è saltato per aria un deposito». Nello scambio dei ricordi, si elabora dunque una sorta di interpretazione; i dati di fatto vengono in certi punti sottolineati, in altri ricostruiti. Tale elaborazione ha la sua importanza, perché i fatti affluiscono verso di noi scorrendo su una superficie ruvida, grezzi e frammentari e, spesso, simili a lava commista a terriccio e pietrisco. Nella riflessione lo spirito cerca di afferrare il tutto racchiuso nelle parti, il senso della figura. Ciò può accadere per via di un’abbreviazione; quel che è casuale viene scremato nella fusione. D’altra parte, anche delle aggiunte possono servire a rendere il quadro più chiaro, come gli aneddoti azzeccati, che sono, alla fine, il nocciolo stesso della storia. 249

Edelingen, 22 luglio 1940 Tra le immagini votive si vede spesso in questa zona la raffigurazione del martirio di sant’Erasmo che, incatenato, giace a terra con una piccola ferita sotto il costato mentre già si vede un bel pezzo del suo intestino, dipinto di un rosso squillante, arrotolato su un argano. I due servi addetti alla macchina stanno accanto a essa, uno a destra e uno a sinistra, in atteggiamento risoluto, come dopo un lavoro ben fatto – nel complesso tutta la scena ha un che di simile a una parata. Come mi ha raccontato il mio ospite, questi quadri furono realizzati molto tempo fa, in occasione di una moria di colera che spopolò il paese. Rehm, che ormai mi accompagna da quasi un anno, ha un tic nel parlare: quando ci si rivolge a lui cerca invano una risposta con una leggera contrazione del viso. Ma è solo la prima parola a creargli difficoltà; il resto della frase segue senza fatica. Soltanto oggi, e solo perché me lo ha detto Spinelli, mi sono accorto che si tratta di un difetto di pronuncia – finora l’avevo preso per una sua caratteristica peculiare. È sempre così nei miei rapporti con le persone, anche in senso morale. Lettura: Il condor di Stifter, un lavoro giovanile che risente ancora dell’influenza di Jean Paul. Ma i tralci selvaggi sono già stati potati, il che, anche nella prosa, giova alla maturazione dei frutti. Il pezzo da virtuoso che un autore sacrifica a vantaggio dell’insieme non va perduto; fa crescere l’invisibile armonia.

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Edelingen, 23 luglio 1940 Come sempre dopo una guerra capitano numerosi incidenti a causa delle munizioni ancora sparse dappertutto. Qualche giorno fa cinque uomini al lavoro nel bosco dietro a Buschdorf si divertivano a lanciare le granate a mano trovate dentro una fabbrica abbandonata. Una scheggia deve essere andata a finire in un grosso mucchio di materiale esplosivo, probabilmente un deposito di mine da campo. C’è stata una deflagrazione che ha abbattuto gli alberi in un ampio raggio, ha scosso i villaggi nei dintorni e ha squassato i cinque uomini. Ieri, nel villaggio vicino, alcuni bambini giocavano con della polvere da sparo compressa in tavolette e sparsa ovunque nelle postazioni di tiro. Avevano visto i genitori impiegarla per accendere il fuoco, e ci hanno riempito una stufa di ferro che avevano adocchiato nel bosco. Non appena l’hanno accesa, ne è uscita una fiammata che ha procurato loro ustioni mortali. È soprattutto in questa zona fortificata che bisogna prestare attenzione, per via delle mine seppellite dappertutto. Ares ha seminato a ogni passo i suoi giocattoli rossi.

Wadgassen, 24 luglio 1940 Marcia attraverso Falkenberg, Sankt Avold, Lauterbach, fino a Wadgassen, la nostra stazione ferroviaria. Abbiamo varcato la Linea Maginot e attraversato il campo antistante con i suoi villaggi deserti, dai cui giardini selvatici, tra i fiori 251

violetti del cardo, risplendeva da lontano il verbasco. Davanti alla porta di una stalla giaceva un caprone morto, completamente disseccato, con la pelle perforata attraverso cui si vedevano le costole simili a una gabbia. Mostrava i denti come per rivolgerci, ultimo degli innumerevoli cadaveri che abbiamo visto, un sorriso di commiato. Sul confine. Sfilata davanti al colonnello, con musica da parata. A Wadgassen abbiamo trovato i primi abitanti tornati a sistemarsi nelle loro case e nei loro giardini. Che tutti possano ritornare così nella propria terra.

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NOTE

1.

Appellativo satanico con cui Jünger si riferisce a Hitler. (N.d.T.)

2.

In italiano nel testo originale. (N.d.T.)

3.

Riferimento all’episodio, tramandato da Aristotele, secondo il quale, ad alcuni visitatori giunti per incontrare Eraclito e delusi nel trovarlo a scaldarsi accanto a un forno, il filosofo disse: «Anche qui gli dei sono presenti». (N.d.T.)

4.

Ci si riferisce qui probabilmente all’imposta francese del 1798 che tassava porte e finestre delle case come segno di ricchezza immobiliare (Contribution des portes et fenêtres), e che fu estesa in seguito ai territori annessi e occupati dall’impero francese. (N.d.T.)

5.

«E così, buttando giù un bicchierino dopo l’altro, / questa giornata dovrà per me pian piano trascorrere.» (N.d.T.)

6.

In italiano nel testo originale. (N.d.T.)

7.

In italiano nel testo originale. (N.d.T.)

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INDICE

Presentazione Frontespizio Pagina di copyright Giardini e strade Kirchhorst, 3 aprile 1939 Kirchhorst, 4 aprile 1939 Kirchhorst, 5 aprile 1939 Kirchhorst, 7 aprile 1939 Kirchhorst, 8 aprile 1939 Kirchhorst, 9 aprile 1939 Kirchhorst, 10 aprile 1939 Kirchhorst, 11 aprile 1939 Kirchhorst, 12 aprile 1939 Kirchhorst, 13 aprile 1939 Kirchhorst, 14 aprile 1939 Kirchhorst, 16 aprile 1939 Kirchhorst, 18 aprile 1939 Kirchhorst, 21 aprile 1939 Kirchhorst, 22 aprile 1939 Kirchhorst, 25 aprile 1939 Kirchhorst, 26 aprile 1939 Kirchhorst, 28 aprile 1939 Kirchhorst, 29 aprile 1939 Kirchhorst, 30 aprile 1939 Kirchhorst, 1º maggio 1939 Kirchhorst, 3 maggio 1939 Kirchhorst, 4 maggio 1939 Kirchhorst, 6 maggio 1939 Kirchhorst, 9 maggio 1939

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Kirchhorst, 10 maggio 1939 Kirchhorst, 14 maggio 1939 Kirchhorst, 15 maggio 1939 Kirchhorst, 17 maggio 1939 Kirchhorst, 19 maggio 1939 Kirchhorst, 26 maggio 1939 Kirchhorst, 27 maggio 1939 Kirchhorst, 29 maggio 1939 Kirchhorst, 1º giugno 1939 Kirchhorst, 4 giugno 1939 Kirchhorst, 5 giugno 1939 Kirchhorst, 10 giugno 1939 Kirchhorst, 11 giugno 1939 Kirchhorst, 15 giugno 1939 Kirchhorst, 18 giugno 1939 Kirchhorst, 21 giugno 1939 Kirchhorst, 25 giugno 1939 Kirchhorst, 3 luglio 1939 Kirchhorst, 4 luglio 1939 Kirchhorst, 7 luglio 1939 Kirchhorst, 9 luglio 1939 Kirchhorst, 17 luglio 1939 Kirchhorst, 18 luglio 1939 Kirchhorst, 19 luglio 1939 Kirchhorst, 23 luglio 1939 Kirchhorst, 28 luglio 1939 Kirchhorst, 9 agosto 1939 Kirchhorst, 10 agosto 1939 Kirchhorst, 12 agosto 1939 Kirchhorst, 16 agosto 1939 Kirchhorst, 19 agosto 1939 Kirchhorst, 26 agosto 1939 Kirchhorst, 28 agosto 1939 Celle, 30 agosto 1939 Celle, 31 agosto 1939

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Celle, 1º settembre 1939 Celle, 2 settembre 1939 Blankenburg, 6 settembre 1939 Blankenburg, 10 settembre 1939 Blankenburg, 12 settembre 1939 Blankenburg, 17 settembre 1939 Blankenburg, 20 settembre 1939 Blankenburg, 21 settembre 1939 Blankenburg, 25 settembre 1939 Blankenburg, 26 settembre 1939 Blankenburg, 29 settembre 1939 Blankenburg, 4 ottobre 1939 Halberstadt, 5 ottobre 1939 Kirchhorst, 8 ottobre 1939 Bothfeld, 10 ottobre 1939 Kirchhorst, 17 ottobre 1939 Belsen, 3 novembre 1939 Dintorni di Greffern, 11 novembre 1939 Dintorni di Greffern, 15 novembre 1939 Dintorni di Greffern, 18 novembre 1939 Dintorni di Greffern, 22 novembre 1939 Karlsruhe, 28 novembre 1939 Karlsruhe, 2 dicembre 1939 Dintorni di Greffern, 4 dicembre 1939 Dintorni di Greffern, 8 dicembre 1939 Capanna di giunchi, 17 dicembre 1939 Capanna di giunchi, 25 dicembre 1939 Capanna di giunchi, 26 dicembre 1939 Capanna di giunchi, 27 dicembre 1939 Kirchhorst, 1º gennaio 1940 Capanna di giunchi, 4 gennaio 1940 Capanna di giunchi, 5 gennaio 1940 Capanna di giunchi, 6 gennaio 1940 Baden-Oos, 8 gennaio 1940 Ettlingen, 9 gennaio 1940

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Wössingen, 10 gennaio 1940 Flehingen, 11 gennaio 1940 Flehingen, 14 gennaio 1940 Flehingen, 15 gennaio 1940 Kirchhorst, 18 gennaio 1940 Kirchhorst, 25 gennaio 1940 In viaggio, 29/30 gennaio 1940 Capanna di giunchi, 31 gennaio 1940 Capanna di giunchi, 2 febbraio 1940 Capanna di giunchi, 3 febbraio 1940 Capanna di giunchi, 4 febbraio 1940 Capanna di giunchi, 7 febbraio 1940 Capanna di giunchi, 12 febbraio 1940 Capanna di giunchi, 13 febbraio 1940 Capanna di giunchi, 14 febbraio 1940 Capanna di giunchi, 15 febbraio 1940 Capanna di giunchi, 22 febbraio 1940 Karlsruhe, 24 febbraio 1940 Karlsruhe, 25 febbraio 1940 Karlsruhe, 28 febbraio 1940 Karlsruhe, 1º marzo 1940 Karlsruhe, 10 marzo 1940 Iffezheim, 17 marzo 1940 Capanna nell’Auwald, 28 marzo 1940 Capanna nell’Auwald, 29 marzo 1940 Capanna nell’Auwald, 7 aprile 1940 Capanna nell’Auwald, 8 aprile 1940 Capanna nell’Auwald, 10 aprile 1940 Capanna nell’Auwald, 14 aprile 1940 Friedrichstal, 16 aprile 1940 Friedrichstal, 20 aprile 1940 Friedrichstal, 23 aprile 1940 Friedrichstal, 28 aprile 1940 Friedrichstal, 8 maggio 1940 Friedrichstal, 10 maggio 1940

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Friedrichstal, 14 maggio 1940 Speyer, 15 maggio 1940 Weidenthal, 16 maggio 1940 Kaulbach, 17 maggio 1940 Grumbach, 18 maggio 1940 Idar, 19 maggio 1940 Idar, 20 maggio 1940 Bescheid, 21 maggio 1940 Welschbillig, 22 maggio 1940 Lintgen, 23 maggio 1940 Rambruch, 24 maggio 1940 Neufchâteau, 25 maggio 1940 Givonne, 26 maggio 1940 Boulzicourt, 27 maggio 1940 Doumely, 28 maggio 1940 Bucy-les-Pierreponts, 29 maggio 1940 Landifay, 30 maggio 1940 Landifay, 31 maggio 1940 Gercy, 1º giugno 1940 Gercy, 2 giugno 1940 Gercy, 3 giugno 1940 Gercy, 4 giugno 1940 Gercy, 5 giugno 1940 Toulis, 6 giugno 1940 Laon, 7 giugno 1940 Laon, 8 giugno 1940 Laon, 10 giugno 1940 Laon, 11 giugno 1940 Laon, 12 giugno 1940 Laon, 13 giugno 1940 Laon, 14 giugno 1940 Laon, 15 giugno 1940 Essommes, 16 giugno 1940 Essommes, 17 giugno 1940 Montmirail, 18 giugno 1940

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Montmirail, 19 giugno 1940 Romilly-sur-Seine, 20 giugno 1940 Romilly-sur-Seine, 21 giugno 1940 Bourges, 22 giugno 1940 Bourges, 23 giugno 1940 Bourges, 24 giugno 1940 Bourges, 25 giugno 1940 Bourges, 26 giugno 1940 Bourges, 27 giugno 1940 Bourges, 28 giugno 1940 Bourges, 29 giugno 1940 Bourges, 30 giugno 1940 Bourges, 1º luglio 1940 Bourges, 2 luglio 1940 Les Tallans, 3 luglio 1940 Parassy, 4 luglio 1940 Ferme Les Cadoux, 5 luglio 1940 Maison La Fumée, 6 luglio 1940 La Tuilerie, 7 luglio 1940 La Tuilerie, 8 luglio 1940 Paisy-Cosdon, 9 luglio 1940 Villechétif, 10 luglio 1940 Dienville, 11 luglio 1940 Vaux-sur-Blaise, 12 luglio 1940 Claire-Fontaine, 13 luglio 1940 Claire-Fontaine, 14 luglio 1940 Neuville-les-Vaucouleurs, 15 luglio 1940 Neuville-les-Vaucouleurs, 16 luglio 1940 Gondreville, 17 luglio 1940 Salonnes, 18 luglio 1940 Edelingen, 19 luglio 1940 Edelingen, 20 luglio 1940 Edelingen, 21 luglio 1940 Edelingen, 22 luglio 1940 Edelingen, 23 luglio 1940

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Wadgassen, 24 luglio 1940

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Indice Presentazione Frontespizio Pagina di copyright Giardini e strade

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Kirchhorst, 3 aprile 1939 Kirchhorst, 4 aprile 1939 Kirchhorst, 5 aprile 1939 Kirchhorst, 7 aprile 1939 Kirchhorst, 8 aprile 1939 Kirchhorst, 9 aprile 1939 Kirchhorst, 10 aprile 1939 Kirchhorst, 11 aprile 1939 Kirchhorst, 12 aprile 1939 Kirchhorst, 13 aprile 1939 Kirchhorst, 14 aprile 1939 Kirchhorst, 16 aprile 1939 Kirchhorst, 18 aprile 1939 Kirchhorst, 21 aprile 1939 Kirchhorst, 22 aprile 1939 Kirchhorst, 25 aprile 1939 Kirchhorst, 26 aprile 1939 Kirchhorst, 28 aprile 1939 Kirchhorst, 29 aprile 1939 262

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Kirchhorst, 30 aprile 1939 Kirchhorst, 1º maggio 1939 Kirchhorst, 3 maggio 1939 Kirchhorst, 4 maggio 1939 Kirchhorst, 6 maggio 1939 Kirchhorst, 9 maggio 1939 Kirchhorst, 10 maggio 1939 Kirchhorst, 14 maggio 1939 Kirchhorst, 15 maggio 1939 Kirchhorst, 17 maggio 1939 Kirchhorst, 19 maggio 1939 Kirchhorst, 26 maggio 1939 Kirchhorst, 27 maggio 1939 Kirchhorst, 29 maggio 1939 Kirchhorst, 1º giugno 1939 Kirchhorst, 4 giugno 1939 Kirchhorst, 5 giugno 1939 Kirchhorst, 10 giugno 1939 Kirchhorst, 11 giugno 1939 Kirchhorst, 15 giugno 1939 Kirchhorst, 18 giugno 1939 Kirchhorst, 21 giugno 1939 Kirchhorst, 25 giugno 1939 Kirchhorst, 3 luglio 1939 Kirchhorst, 4 luglio 1939 Kirchhorst, 7 luglio 1939 Kirchhorst, 9 luglio 1939 263

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Kirchhorst, 17 luglio 1939 Kirchhorst, 18 luglio 1939 Kirchhorst, 19 luglio 1939 Kirchhorst, 23 luglio 1939 Kirchhorst, 28 luglio 1939 Kirchhorst, 9 agosto 1939 Kirchhorst, 10 agosto 1939 Kirchhorst, 12 agosto 1939 Kirchhorst, 16 agosto 1939 Kirchhorst, 19 agosto 1939 Kirchhorst, 26 agosto 1939 Kirchhorst, 28 agosto 1939 Celle, 30 agosto 1939 Celle, 31 agosto 1939 Celle, 1º settembre 1939 Celle, 2 settembre 1939 Blankenburg, 6 settembre 1939 Blankenburg, 10 settembre 1939 Blankenburg, 12 settembre 1939 Blankenburg, 17 settembre 1939 Blankenburg, 20 settembre 1939 Blankenburg, 21 settembre 1939 Blankenburg, 25 settembre 1939 Blankenburg, 26 settembre 1939 Blankenburg, 29 settembre 1939 Blankenburg, 4 ottobre 1939 Halberstadt, 5 ottobre 1939 264

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Kirchhorst, 8 ottobre 1939 Bothfeld, 10 ottobre 1939

72 72

Kirchhorst, 17 ottobre 1939 Belsen, 3 novembre 1939 Dintorni di Greffern, 11 novembre 1939 Dintorni di Greffern, 15 novembre 1939 Dintorni di Greffern, 18 novembre 1939 Dintorni di Greffern, 22 novembre 1939 Karlsruhe, 28 novembre 1939 Karlsruhe, 2 dicembre 1939 Dintorni di Greffern, 4 dicembre 1939 Dintorni di Greffern, 8 dicembre 1939 Capanna di giunchi, 17 dicembre 1939 Capanna di giunchi, 25 dicembre 1939 Capanna di giunchi, 26 dicembre 1939 Capanna di giunchi, 27 dicembre 1939 Kirchhorst, 1º gennaio 1940 Capanna di giunchi, 4 gennaio 1940 Capanna di giunchi, 5 gennaio 1940 Capanna di giunchi, 6 gennaio 1940 Baden-Oos, 8 gennaio 1940 Ettlingen, 9 gennaio 1940 Wössingen, 10 gennaio 1940 Flehingen, 11 gennaio 1940 Flehingen, 14 gennaio 1940 Flehingen, 15 gennaio 1940 Kirchhorst, 18 gennaio 1940

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Kirchhorst, 25 gennaio 1940 In viaggio, 29/30 gennaio 1940 Capanna di giunchi, 31 gennaio 1940 Capanna di giunchi, 2 febbraio 1940 Capanna di giunchi, 3 febbraio 1940 Capanna di giunchi, 4 febbraio 1940 Capanna di giunchi, 7 febbraio 1940 Capanna di giunchi, 12 febbraio 1940 Capanna di giunchi, 13 febbraio 1940 Capanna di giunchi, 14 febbraio 1940 Capanna di giunchi, 15 febbraio 1940 Capanna di giunchi, 22 febbraio 1940 Karlsruhe, 24 febbraio 1940 Karlsruhe, 25 febbraio 1940 Karlsruhe, 28 febbraio 1940 Karlsruhe, 1º marzo 1940 Karlsruhe, 10 marzo 1940 Iffezheim, 17 marzo 1940 Capanna nell'Auwald, 28 marzo 1940 Capanna nell'Auwald, 29 marzo 1940 Capanna nell'Auwald, 7 aprile 1940 Capanna nell'Auwald, 8 aprile 1940 Capanna nell'Auwald, 10 aprile 1940 Capanna nell'Auwald, 14 aprile 1940 Friedrichstal, 16 aprile 1940 Friedrichstal, 20 aprile 1940

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Friedrichstal, 23 aprile 1940 Friedrichstal, 28 aprile 1940 Friedrichstal, 8 maggio 1940 Friedrichstal, 10 maggio 1940

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Friedrichstal, 14 maggio 1940 Speyer, 15 maggio 1940 Weidenthal, 16 maggio 1940 Kaulbach, 17 maggio 1940 Grumbach, 18 maggio 1940 Idar, 19 maggio 1940 Idar, 20 maggio 1940 Bescheid, 21 maggio 1940 Welschbillig, 22 maggio 1940 Lintgen, 23 maggio 1940 Rambruch, 24 maggio 1940 Neufchâteau, 25 maggio 1940 Givonne, 26 maggio 1940 Boulzicourt, 27 maggio 1940 Doumely, 28 maggio 1940 Bucy-les-Pierreponts, 29 maggio 1940 Landifay, 30 maggio 1940 Landifay, 31 maggio 1940 Gercy, 1º giugno 1940 Gercy, 2 giugno 1940 Gercy, 3 giugno 1940 Gercy, 4 giugno 1940 Gercy, 5 giugno 1940

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Toulis, 6 giugno 1940 Laon, 7 giugno 1940 Laon, 8 giugno 1940 Laon, 10 giugno 1940

171 174 176 177

Laon, 11 giugno 1940 Laon, 12 giugno 1940 Laon, 13 giugno 1940 Laon, 14 giugno 1940 Laon, 15 giugno 1940 Essommes, 16 giugno 1940 Essommes, 17 giugno 1940 Montmirail, 18 giugno 1940 Montmirail, 19 giugno 1940 Romilly-sur-Seine, 20 giugno 1940 Romilly-sur-Seine, 21 giugno 1940 Bourges, 22 giugno 1940 Bourges, 23 giugno 1940 Bourges, 24 giugno 1940 Bourges, 25 giugno 1940 Bourges, 26 giugno 1940 Bourges, 27 giugno 1940 Bourges, 28 giugno 1940 Bourges, 29 giugno 1940 Bourges, 30 giugno 1940 Bourges, 1º luglio 1940 Bourges, 2 luglio 1940 Les Tallans, 3 luglio 1940

182 184 188 190 191 192 194 195 200 205 206 207 210 213 214 218 220 221 222 222 223 224 224

268

Parassy, 4 luglio 1940 Ferme Les Cadoux, 5 luglio 1940 Maison La Fumée, 6 luglio 1940 La Tuilerie, 7 luglio 1940

225 226 227 228

La Tuilerie, 8 luglio 1940 Paisy-Cosdon, 9 luglio 1940 Villechétif, 10 luglio 1940 Dienville, 11 luglio 1940 Vaux-sur-Blaise, 12 luglio 1940 Claire-Fontaine, 13 luglio 1940 Claire-Fontaine, 14 luglio 1940 Neuville-les-Vaucouleurs, 15 luglio 1940 Neuville-les-Vaucouleurs, 16 luglio 1940 Gondreville, 17 luglio 1940 Salonnes, 18 luglio 1940 Edelingen, 19 luglio 1940 Edelingen, 20 luglio 1940 Edelingen, 21 luglio 1940 Edelingen, 22 luglio 1940 Edelingen, 23 luglio 1940 Wadgassen, 24 luglio 1940

229 230 231 232 234 237 238 240 240 242 243 244 246 248 250 251 251

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