La tirannia della scelta 9788858107102, 8858107101

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Italian, English Pages 169 st [176] Year 2013

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La tirannia della scelta
 9788858107102, 8858107101

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Economica Laterza 642

Renata Salecl

La tirannia della scelta Traduzione di Francesco Orsi

Editori Laterza

Titolo dell’edizione originale Choice Profile Books Ltd, London 2010 © 2010, Renata Salecl Edizioni precedenti: «i Robinson/Letture» 2011 Nella «Economica Laterza» Prima edizione aprile 2013 1

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Edizione 5 6

Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018 www.laterza.it

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0710-2

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Indice



Introduzione

3

1. Perché la scelta ci angoscia

17

La mia vita, la mia azienda, p. 25 - Autoaiuto, p. 31 - Il coach, p. 35 - La mia casa – me stesso, p. 36 - Scelta e negazione, p. 39 - Ansia e scelta, p. 43

2. Scegliere attraverso lo sguardo degli altri

47

La scelta e gli altri, p. 49 - Il culto del vip, p. 51 - Il mio corpo, la mia responsabilità, p. 55 - Il «grande Altro» e la scelta, p. 60 - Come è cambiato il grande Altro?, p. 66 - I problemi del tardo capitalismo, p. 68

3. Scelte d’amore

73

La scelta del partner, p. 75 - La scelta come autotutela, p. 78 - La scelta come ideale e la scelta ideale, p. 80 - Ansie d’amore, p. 83 - Amore e divieti, p. 87 - La scienza come cura delle nostre ansie, p. 90

4. Figli: averne o non averne?

93

Dai diritti alle scelte, p. 95 - Scelta e maternità surrogata, p. 98 - Come scegliere se stessi scegliendo un figlio, p. 101 - Dai desideri alle pretese, p. 105 - La scelta impossibile, p. 109

5. Scelte obbligate

113

Scelte impossibili, p. 115 - La psicoanalisi e la scelta, p. 118 - La morte e la mancanza di scelta, p. 126

­v

Conclusione La vergogna e l’assenza di trasformazioni sociali 133

Note

147



Bibliografia

155



Ringraziamenti

159



Indice analitico

161

La tirannia della scelta

Introduzione

Mentre curiosavo nel reparto di autoaiuto di una libreria di New York, vidi per caso un libro intitolato Tutto su di me. Il libro era quasi del tutto bianco. In ogni pagina c’erano solamente una o due domande su cosa piacesse o non piacesse al lettore, i suoi ricordi e i suoi programmi per il futuro – nient’altro. Quegli spazi vuoti illustrano alla perfezione l’ideologia dominante del mondo industrializzato: l’individuo è padrone assoluto della sua vita, libero di determinarne ogni dettaglio. Nella moderna società dei consumi non ci viene chiesto solo di scegliere tra prodotti diversi: siamo tenuti a contemplare la nostra vita intera come un unico grande insieme di scelte e decisioni. Durante lo stesso tragitto di treno, ad esempio, mi viene ricordata insistentemente la mia libertà di fare ciò che voglio della mia vita. La pubblicità di un’università mi incoraggia: «Diventa ciò che vuoi essere». Una marca di birra mi raccomanda: «Sii te stesso». Un’agenzia di viaggi mi esorta: «La vita – prenota ora». La copertina di «Cosmopolitan» titola: «Diventa te stesso – solo un po’ meglio». Quando uso lo sportello della Chase Manhattan Bank, lo schermo mi dice: «La tua Chase. La tua scelta». Perfino nei paesi post-comunisti la pubblicità ci ricorda che dobbiamo sempre decidere la vita ­3

che vogliamo vivere. In Slovenia una marca di intimo su un enorme cartellone pubblicitario ci domanda: «Che donna vuoi essere oggi?» Lo slogan di una compagnia di telefoni cellulari bulgara asserisce: «È la tua voce», mentre il suo analogo in Croazia ripete il solito mantra: «Sii te stesso!». Diventare se stessi non pare un’impresa facile. Uno sguardo rapido alle classifiche dei bestseller indica quanto tempo e denaro investono le persone nello sforzo di diventare se stesse. Cambia pensiero: cambia te stesso; Tu: manuale per l’utente; Scopri ora quello che vali; Cambia la tua immagine – ognuno offre una strategia diversa per ridefinire da capo la propria vita. I siti internet di astrologia promettono la conoscenza totale, e gratuita, del «vero tu», gli spot televisivi raccomandano la trasformazione integrale del corpo, e ormai in ogni ambito della vita privata o pubblica esistono professionisti pagati per far sì che le persone trovino il loro stile di vita ideale. Tutti questi consigli però non sempre producono risultati soddisfacenti; al contrario, possono avere l’effetto di accrescere ansia e insicurezza. Jennifer Niesslein, direttrice editoriale di una rivista, decise di provare a risolvere tutti i problemi della sua vita servendosi esclusivamente dei consigli offerti da una serie di libri di autoaiuto, che promettevano di assisterla nella ricerca della felicità e della soddisfazione personale. Nel suo libro Praticamente perfetta sotto ogni punto di vista, Niesslein racconta come, dopo due anni passati a seguire consigli su come perdere peso, come tenere la casa in ordine, come essere una madre e una partner migliore, e come avere nel complesso un’esistenza più serena, cominciò a soffrire di gravi attacchi di panico1. Si trovò a essere meno soddisfatta, non il contrario. Non solo gli sforzi tesi al miglioramento di sé le portavano via tutto il ­4

tempo; il problema era che non riusciva a godersi i risultati ottenuti: una cucina immacolata, i pasti preparati in casa invece che comprati già pronti, le nuove doti comunicative che aveva sviluppato. Anche i chili persi grazie al duro esercizio si ripresentarono dopo qualche mese. Al termine di questo periodo, Niesslein spiegò perché a suo avviso le persone si affidano ai libri piuttosto che cercare di cambiare secondo il proprio giudizio: «Credo che la gente già si senta responsabile per parecchi aspetti della propria vita. C’è il lavoro, ci sono i bambini, c’è l’impegno di un matrimonio. È confortante potersi rivolgere a qualcun altro che ti dica cosa fare»2. Com’è possibile che, nel mondo industrializzato, quest’aumento della capacità di scelta, grazie a cui dovremmo essere in grado di plasmare le nostre vite e renderle perfette, conduce non a una maggiore soddisfazione ma a un’ansia crescente e a un maggior senso di inadeguatezza e di colpa? E come mai le persone, nel tentativo di alleviare l’ansia, sono disposte a seguire i messaggi raccolti a caso qua e là da campagne pubblicitarie e oroscopi, ad accogliere i suggerimenti estetici dalle industrie di cosmetici, a lasciarsi guidare dalle previsioni economiche dei consulenti finanziari e ad accettare i consigli sulla vita di coppia degli autori di libri di autoaiuto? Se è vero che sempre più persone si rimettono all’opinione dei cosiddetti esperti, si direbbe che scegliere sia in effetti divenuto un peso dal quale siamo ben contenti di essere sollevati. Le persone si trovano spesso intrappolate in un circolo vizioso quando cercano di migliorare con l’aiuto degli esperti. Ad esempio, alcuni psicoanalisti hanno riscontrato un tipo particolare di comportamento ossessivo tra le frequentatrici del sito web di autoaiuto FLYlady.com («FLY» sta per «Finally Loving Yourself», cioè Finalmente amare te stessa). Le lettrici sono invitate a tenere un diario delle loro occupazioni ­5

quotidiane, a seguire consigli particolareggiati su come mettere in ordine i loro spazi, corpi, sentimenti e rapporti personali. Gli utenti del sito hanno raccontato agli psicoanalisti la frustrazione costante di non riuscire a raggiungere gli obiettivi assegnati loro e di vedere allungarsi sempre più l’elenco delle attività da portare a termine. Alcune si comportavano proprio come se tutta la loro vita non fosse che un elenco di risultati da conseguire: impegnarsi in un determinato compito, perdere un certo numero di chili, sposarsi a una certa età, avere un figlio, mettere su la casa perfetta. Tuttavia, lamentarsi della propria inadeguatezza, per quanto autoindotta, sembrava dar loro un piacere tutto particolare. Fenomeni simili di autotortura vanno a braccetto con la ricerca di forme sempre nuove di piaceri. L’ideologia del capitalismo post-industriale tende a trattare le persone come individui per i quali il godimento non ha limiti. Si viene ritratti come esseri in grado di spingere fino all’infinito i confini del piacere, impegnati senza sosta a soddisfare desideri in perenne espansione. È allora paradossale come molte persone, non trovando appagamento in una società apparentemente senza ostacoli, spesso vadano a sbandare su percorsi di autodistruzione. Un consumo illimitato può facilmente portare al consumo di se stessi: l’autolesionismo, l’anoressia, la bulimia e le dipendenze ne sono solo le forme più visibili. Quando nel 2008 cominciò l’attuale crisi economica, sembrò dapprima che avrebbe prevalso la moderazione rispetto alla scelta, la tristezza rispetto alla felicità e l’esigenza di figure autorevoli che si incaricassero di rimettere le cose a posto rispetto alla libertà individuale. I portabandiera di questi sentimenti, come il «Financial Times», pubblicarono articoli sulla deprimente situazione economica con titoli come Un futuro in prestito, La resa dei conti, Wall Street annega il suo ­6

dolore. Un’analisi della società in generale iniziò attraverso la richiesta di un ritorno alla realtà, di un «taglio netto». Ogni cosa si diceva pervasa da un «senso di irrazionalità». Perfino negli articoli sull’arte sembrava emergere un nuovo discorso dai toni fatalistici. Alla domanda «Come sopravvivere alla fine della “civiltà”» si rispondeva ricorrendo ai «maestri dell’equilibrio e dell’armonia», alla «voce del futuro», o ai «cantori della semplicità»3. Ma non appena apparve un barlume di speranza che la crisi non avrebbe comportato un tracollo economico totale, il concetto di scelta riemerse come il potente strumento ideologico della società dei consumi. Stavolta lo si trovava annidato in discussioni intorno alla questione se la ricchezza incrementi davvero la felicità e se consumare in abbondanza sia il modo migliore di impiegare il proprio tempo libero. Ma le proposte stesse di rendere la vita più semplice restavano invischiate in un’ulteriore versione dell’idea di scelta. Il consumatore doveva ora scegliere di non scegliere, e non di rado doveva pagare per avere consigli su come farlo. Semplicemente gettare via le proprie cose o donarle ad altri non era possibile: era necessario essere consigliati su come farlo. Questo spostamento della percezione della ricchezza, tuttavia, non è avvenuto da un giorno all’altro. Non è che la gente si sia svegliata una mattina e abbia improvvisamente visto la propria vita in modo diverso. I semi dell’incombente crisi economica erano stati gettati diverso tempo prima. Allo stesso modo, le perplessità circa l’ideologia della scelta avevano già permeato periodi di maggiore esuberanza, come si vede dall’ansia e dall’insicurezza presenti nell’ultima decade del capitalismo post-industriale. È quasi come se la crisi avesse rappresentato, da un lato, la realizzazione del desiderio, esplicitato solo in parte, di porre limiti alla sovrabbondan­7

za di scelta disponibile negli anni di maggiore prosperità, e dall’altro, la liberazione concomitante dalla pressione creata dal sovrappiù di scelta. La crisi ha perfino arrecato una strana forma di sollievo o soddisfazione in certi settori, che a lungo avevano auspicato, più o meno consapevolmente, un freno alle spese eccessive – o almeno alle innumerevoli possibilità di spesa consentite dal benessere economico. Il «New York Times» catturò questo rinnovato spirito puritano prospettando feste e vacanze all’insegna del risparmio, in un articolo intitolato Festeggiamo come nel 1929. Il pezzo suggeriva come organizzare una cena decorosa con il budget modesto della crisi al suo culmine. Un personaggio mondano intervistato nell’articolo osservava: «Il buono della recessione è che allenta la pressione [...]. Ti permette di fare a meno di tutto il superfluo e di concentrarti su quello che conta veramente: gli amici, la famiglia, lo stare insieme»4. Resta il fatto che i padroni di casa sentissero il bisogno di un consulente che dicesse loro come intrattenere gli ospiti in tempo di crisi. Vi era un’ambiguità evidente nel loro desiderio di rinunciare alle gioie dei consumi. Si voleva certo limitare le scelte, ma non troppo, e si voleva che qualcun altro lo facesse per loro. La questione da esaminare qui non è solo perché la gente va per negozi, o come vede la propria vita, ma perché si abbraccia l’idea di scelta, e cosa si guadagna e si perde nel farlo. La gente si preoccupa sì della minaccia del terrorismo, di nuovi virus, dei disastri ambientali, ma le preoccupazioni maggiori riguardano di solito il proprio benessere privato: il lavoro, le relazioni, i soldi, il proprio ruolo all’interno della comunità, il significato della propria vita, l’eredità che ci si lascerà dietro5. Ognuno di questi aspetti implica delle scelte. E dal momento che esigiamo da noi stessi la perfezione, non solo nell’immediato, ma anche nel futuro, le scelte diventa­8

no ancora più ardue da compiere. La scelta porta con sé un senso schiacciante di responsabilità, e questo è strettamente legato alla paura di fallire, al senso di colpa e all’ansia per il rimorso che ci assalirà se abbiamo fatto la scelta sbagliata. Tutto questo contribuisce al carattere tirannico della scelta. Il sociologo Richard Sennett ha osservato: Secondo uno degli usi più antichi di «tirannia», il termine è sinonimo di «sovranità». Quando tutto è sottomesso all’autorità di un principio o di una persona, questo principio, o persona, esercita una tirannia sulla vita della società. [...] Un’istituzione può regnare come fonte suprema di autorità, oppure un’ideologia può operare come criterio esclusivo di commisurazione della realtà6.

Negli ultimi decenni l’idea di scelta, come viene presentata nella teoria della scelta razionale, è divenuta un esempio di idea tirannica nel mondo industrializzato. La teoria della scelta razionale presuppone che le persone riflettano prima di agire, e che siano sempre intente a massimizzare i benefici e minimizzare i costi in ogni situazione. A seconda delle circostanze esistenti, e date sufficienti informazioni, le persone pertanto sceglieranno sempre l’opzione che è nel loro migliore interesse. I critici della teoria della scelta razionale, tuttavia, hanno fatto notare che non sempre l’essere umano agisce nel proprio migliore interesse, anche quando sa quale sia. Di qui i numerosi casi in cui le persone agiscono in maniera generosa o altruista piuttosto che sulla base del mero interesse. Anche la psicoanalisi ha dimostrato che le persone spesso si comportano in modi che non ne massimizzano il piacere o ne minimizzano il dolore, e che talvolta provano perfino un piacere particolare ad agire contro il proprio benessere. Quand’anche ritengano di avere tutte le informazioni necessarie per compiere la migliore scelta ­9

possibile, le loro decisioni subiranno il peso non trascurabile di fattori esterni, come l’influsso di altre persone, o interni, come pulsioni e desideri inconsci. Nella società contemporanea, in cui si glorifica il concetto di scelta e l’idea che esercitare la capacità di scelta sia sempre nell’interesse delle persone, il problema non è solo la quantità di scelta a disposizione, ma la maniera stessa in cui la scelta viene rappresentata. Le scelte di vita vengono descritte in termini analoghi alle scelte consumistiche: ci mettiamo a cercare il tipo «giusto» di vita così come ci metteremmo a cercare il tipo giusto di carta da parati o di balsamo per capelli. La cultura del consiglio da parte di esperti ci presenta la ricerca di un compagno o di una compagna secondo modalità non così dissimili dalla ricerca di una macchina da comprare: prima si soppesano vantaggi e svantaggi, poi si sigla un patto prematrimoniale; se qualcosa non funziona, si cerca di aggiustarlo, e infine si scambia il modello vecchio con uno nuovo, finché non ci stufiamo di tutti i fastidi di un impegno serio e decidiamo di optare per un contratto di leasing temporaneo. La questione della scelta ha dapprima interessato solo le classi medie del mondo industrializzato. Ma anche molti abitanti dei paesi poveri devono vedersela con le contraddizioni insite nell’ideologia della scelta. Finalmente liberi, sulla carta, di fare ciò che vogliono della propria vita, in realtà sono soggetti a numerose restrizioni. Le persone vengono rappresentate come creatori in grado di fare della propria vita un’opera d’arte, plasmandone ogni elemento a piacere. Le si incoraggia ad agire come se vivessero in un mondo ideale, in cui la scelta abbonda e nessuna decisione è irreversibile. La realtà è che le condizioni economiche impediscono loro di godere di una sufficiente libertà di scelta, e una sola decisione errata può avere conseguenze disastrose. Anche nei paesi ricchi le ­10

persone più povere sono prive della possibilità di approfittare delle scelte loro offerte. Negli Stati Uniti, ad esempio, esiste una gamma vastissima di cure e tecnologie mediche tra le quali poter scegliere se si possiede un’assicurazione sanitaria e i mezzi per permettersele. Ma senza un’assistenza sanitaria universale i poveri non possono scegliere neanche tra le cure più essenziali. Inoltre, anche per chi non ha problemi di denaro la scelta può costituire un onere e una fonte di confusione: da un lato, la ricerca scientifica più recente dice loro che i geni hanno già determinato le malattie che avranno e la durata della loro vita; dall’altro, li fa sentire responsabili del loro benessere e della loro salute attraverso la scelta di un certo stile di vita. L’obiettivo di questo libro è esplorare come l’idea di poter scegliere chi vogliamo essere e l’imperativo «diventa te stesso» abbiano cominciato a lavorare contro il nostro interesse, rendendoci più ansiosi e più avidi invece di promuovere la nostra libertà. Secondo il filosofo francese Louis Althusser, «la difesa da parte del capitalismo post-industriale dell’ideologia della scelta non è una coincidenza, ma è ciò che gli permette di perpetuare il suo dominio». Il problema, osserva Althusser, è che non facciamo caso alle forme attorno alle quali è costruita la nostra vita. La società funziona come qualcosa di dato, di ovvio, quasi naturale per noi. Per comprenderne gli imperativi nascosti, i codici non scritti del suo essere, le norme latenti che i filosofi chiamano «ideologie», dobbiamo rimuovere il velo di ovvietà e apparente naturalezza. Solo allora si potrà scorgere la logica bizzarra, ma perfettamente coerente, alla quale obbediamo, senza pensarci, nella vita quotidiana. Alcuni di noi possono anche sentirsi in disaccordo con la «società» o con lo «status quo»: tuttavia, paradossalmente non è essenziale che le persone sostengano o credano ­11

in un’ideologia particolare affinché essa sopravviva. Il fatto cruciale è che il dissenso non venga pubblicamente espresso. Per conformarsi all’opinione della maggioranza, tutto ciò che serve è che si creda che la maggior parte delle persone intorno a noi la ritenga vera. L’ideologia si nutre del «credere che gli altri credano». Questa verità era forse più evidente negli ex regimi comunisti, in cui la maggior parte della popolazione non abbracciava del tutto l’ideologia dominante. I cittadini ragionavano grossomodo così: «Io non credo nel Partito, ma ce ne sono molti, più numerosi e più potenti di me e di quelli come me, che ci credono (e non solo i burocrati di Partito), quindi resterò nei ranghi». (Oggi risulta che in realtà nemmeno molti dei burocrati di Partito credessero genuinamente nel comunismo. Spesso si vedeva con sospetto chi sostenesse un ritorno ai classici dei fondatori del socialismo, Marx ed Engels.) In ultima analisi, ciò che manteneva la società intatta era la credenza che esistessero degli immaginari «altri» che presumibilmente credevano nell’ideologia, e così facendo imponevano la credenza in generale. La stessa logica della credenza si applica al concetto di scelta. Noi stessi possiamo anche dubitare che le nostre scelte siano illimitate, o che siamo pienamente capaci di determinare la direzione della nostra vita e fare di noi qualunque cosa vogliamo essere; tuttavia, normalmente riteniamo che qualcun altro creda in queste idee, e siamo dunque restii a esprimere il nostro scetticismo. Tutto ciò che serve affinché l’ideologia della scelta mantenga la sua presa sulla società post-industriale è che le persone si tengano per sé il proprio dissenso. È nel processo del sentirsi in colpa per quello che siamo, e quindi sforzarsi senza sosta di «migliorare» noi stessi, che perdiamo la prospettiva necessaria per stimolare qualsiasi ­12

cambiamento sociale. Lavorando duramente al nostro stesso perfezionamento perdiamo l’energia e la capacità di partecipare a qualsiasi forma di cambiamento sociale, e viviamo costantemente nella paura di un fallimento imprecisato. Se vogliamo alleviare quest’ansia, dobbiamo comprendere come si impossessa di noi e come funziona. E se speriamo di cambiare il funzionamento della società, dobbiamo saper riconoscere le alternative alla tirannia della scelta, che gioca un ruolo così centrale per l’ideologia del capitalismo avanzato. Invece di glorificare la scelta razionale, dovremmo esaminare come le scelte vengano spesso compiute a livello inconscio e come siano influenzate dalla società nel suo complesso. In tempi di crisi economica sorgono anche altre questioni. Come si fa a passare da una scelta libera e senza confini a una scelta drasticamente limitata? Come si fa a credere che nulla sia più possibile dopo aver creduto che niente era impossibile? Com’è possibile lasciare da parte le promesse e affrontare la realtà? Con queste domande restiamo invischiati dentro la complicata logica della perdita. Nel mondo industrializzato, gli ultimi decenni hanno creato l’illusione di un eterno presente: il passato non conta e il futuro attende solo di essere creato da noi. In mezzo a tutto questo, viene celata la realtà della perdita. Le decisioni diventano ancora più difficili da prendere quando ci si raffigura come padroni del proprio destino, della propria felicità e della felicità di chi ci sta accanto: ad esempio dei nostri figli. Il rimorso per le decisioni già prese, insieme al timore di compiere altri errori, possono diventare stati d’animo opprimenti. Per evitare i rimorsi e il senso di perdita, oltre all’ansia che ci pervade, si cerca di minimizzare i rischi, o almeno di far sì che siano prevedibili. La società che premia la scelta si basa sull’idea che ogni rischio sia da prevenire o quantomeno da prevedere. ­13

La crisi si può definire come il momento esatto in cui perdiamo il controllo – il momento in cui il mondo che conosciamo viene distrutto e ci si trova di fronte all’ignoto. Qualunque ne siano le conseguenze sul piano sociale, la crisi può essere per il singolo individuo un’occasione per riflettere su cosa conti veramente. Nel momento in cui la crisi economica spinge la gente a risparmiare, ci si trova costretti a riconsiderare i propri desideri. Risparmiare significa sacrificare alcuni desideri – o quantomeno rinviarne il soddisfacimento. Fino a poco tempo fa, la società della scelta promuoveva la gratificazione immediata ed esortava a non rinviare alcunché. Tuttavia, anche nel pieno di questo processo, le persone hanno fissato limiti sempre nuovi per tenere vivo il desiderio: hanno concepito nuove proibizioni per tenere a freno la spinta al piacere della società. Per questo non concordo con la teoria secondo cui viviamo in una società senza limiti. C’è differenza tra una società in cui non esistono limiti e un’ideologia che raffigura quella società come priva di limiti. Mentre l’ideologia attuale rappresentata dai mezzi di comunicazione insiste sull’idea di un piacere senza limiti, l’individuo ancora si affanna a rispettare i propri divieti autoimposti. Ivan Karamazov, un personaggio nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij, concludeva che, se Dio non esiste, allora tutto è permesso. Lo psicoanalista francese Jacques Lacan ha rovesciato il detto: «Se Dio non esiste, allora tutto è proibito»; vale a dire, la fine della credenza in un’autorità che pone un freno alle nostre azioni apre la porta non alla libertà ma piuttosto alla creazione di nuovi limiti. L’ideologia della scelta pone di fronte a rovesciamenti analoghi. La scelta senza limiti di cui presumibilmente godiamo nelle nostre vite si è tramutata in una serie di nuovi divieti. Tuttavia, oggi questi limiti non vengono imposti da un’autorità esterna, come i genitori ­14

o gli insegnanti, ma siamo noi stessi a creare tali divieti. E la vasta industria dei consigli degli esperti e dell’autoaiuto ci permette di scegliere ulteriori autorità alle quali delegare il diritto di porre limiti alle nostre scelte. Questo libro mostrerà quanto può essere fuorviante l’ideologia della scelta, nel momento in cui opprime l’individuo con l’idea che si possa essere padroni assoluti della propria felicità e del percorso della propria esistenza. Inoltre, si metterà in rilievo quanto poco contribuisca questa ideologia a possibili trasformazioni nell’organizzazione della società nel suo complesso. Naturalmente ci sono situazioni in cui la scelta razionale è possibile per l’individuo, e ci sono casi in cui le scelte che facciamo sono irrazionali o persino dannose. La scelta è un meccanismo potente nelle mani delle persone. Dopotutto, è la base di ogni impegno politico e di ogni processo politico stesso. Tuttavia, se si glorifica la scelta come lo strumento fondamentale grazie al quale poter plasmare la propria vita privata, rimane ben poco per operare una critica della società. Mentre siamo ossessionati dalle nostre scelte individuali, non riusciamo a notare che, lungi dall’essere individuali, in realtà le scelte sono di frequente soggette all’influsso decisivo della società in cui viviamo.

1.

Perché la scelta ci angoscia

Qualche tempo fa mi fermai da un alimentari di lusso di ­Man­hattan a comprare del formaggio per una cena con amici. Erano tutti lì: innumerevoli ripiani colmi di latticini classici, modelli esemplari di stagionatura perfetta: quello molle, quello blu, quello olandese duro, quello inglese friabile, quello francese di qualità superiore; tutti con pari diritto alla mia attenzione e al mio portafoglio. Avevo, come si suol dire, l’imbarazzo della scelta. Si attivarono i meccanismi da studentessa diligente: cominciai a leggere le etichette. Se il mio primo errore era stato entrare nel negozio senza un’idea precisa del formaggio che cercavo, questo fu il secondo, dato che, alla vastità spiazzante dell’offerta, si aggiungeva la retorica presente sugli involucri. Cos’è che rendeva un certo formaggio così diverso dagli altri cento che gli stavano intorno? Ciascuno declamava le proprie virtù con passione e precisione. Cominciò a girarmi la testa, e non solo per l’odore del Camembert. La cosa più strana era che, invece di prendermela per il fastidio del tutto evitabile che mi stava dando la ricerca di un formaggio decente – a questo punto mi sarei anche accontentata di un formaggio spalmabile o «che fila e fonde» invece delle varietà «affumicate» o «melliflue» che mi allettavano –, ben presto rimpro­17

verai a me stessa la mia indecisione. Come si chiamavano tutti quei buonissimi formaggi che avevo provato? A che mi era servito tutto il tempo passato in Francia? Il terzo dei miei errori quel giorno fu di chiedere consiglio al commesso del banco dei formaggi. Si aggirava per il reparto nel suo immacolato grembiule a mo’ di livrea, le mani conserte con fare sussiegoso dietro la schiena, con l’aspetto di chi se ne intende e non vede l’ora di far valere la propria autorevolezza; ciononostante, qualcosa mi diceva che probabilmente il suo vero obiettivo era solo quello di sbarazzarsi dei formaggi costosi che altrimenti non sarebbe riuscito a vendere. Così la mia confusione si tramutò prima in sospetto e poi in rancore. Alla fine, ignorando i suoi consigli e resistendo al canto delle sirene proveniente dai brie e dai cheddar, decisi di scegliere più o meno a caso cinque formaggi, o perché avevano un bell’aspetto, oppure per il suono intrigante dei nomi. Una scenetta di vita borghese, si dirà, ma l’episodio illustra alcuni dei motivi per cui una scelta illimitata può aumentare l’ansia e il senso di inadeguatezza. Italo Calvino racconta un’esperienza simile – quella del suo protagonista, il signor Palomar, alle prese con una fromagerie di Parigi – in cui la scelta illimitata che gli si pone innanzi ha i tratti del dilemma esistenziale: L’animo di Palomar oscilla tra spinte contrastanti: quella che tende a una conoscenza completa, esaustiva, e potrebbe essere soddisfatta solo assaporando tutte le qualità; o quella che tende a una scelta assoluta, all’identificazione del formaggio che solo è suo, un formaggio che certamente esiste anche se lui ancora non sa riconoscerlo (non sa riconoscersi in esso).

Sopraffatto dall’esperienza da visita museale e dalla conoscenza enciclopedica che intuisce dietro la vasta gamma ­18

di formaggi, il signor Palomar cerca dapprima di annotarsi i nomi dei formaggi sconosciuti, con l’idea di tenerne conto per il futuro; ma quando alla fine fa la sua scelta, sceglie un formaggio piuttosto comune: L’ordinazione elaborata e ghiotta che aveva intenzione di fare gli sfugge dalla memoria; balbetta; ripiega sul più ovvio, sul più banale, sul più pubblicizzato, come se gli automatismi della civiltà di massa non aspettassero che quel suo momento d’incertezza per riafferrarlo in loro balia1.

Il personaggio di Calvino, che si immagina la storia dietro ciascun formaggio, è oppresso dal pensiero che «dietro ogni formaggio c’è un pascolo d’un diverso verde sotto un diverso cielo»2. La banale scelta finale perciò è simile all’atto di chiudere l’enciclopedia perché contiene semplicemente troppe informazioni. Il formaggio più pubblicizzato è fonte di conforto, poiché rimuove l’incertezza della scoperta di qualcosa di nuovo. Quando ero alle prese con la mia piccola avventura al banco dei formaggi, non provavo ansia per via del «verde diverso» e del «cielo diverso» da cui proveniva ciascun formaggio, ma piuttosto perché esaminavo criticamente i miei desideri alla luce dei desideri degli altri. In primo luogo, ero preoccupata dal modo in cui gli altri avrebbero giudicato la mia scelta. Cercavo di immaginare quali tipi di formaggi sarebbero piaciuti ai miei amici e con quali insolite varietà avrei potuto sorprenderli; inoltre, mi metteva a disagio il modo arrogante in cui mi guardava l’uomo dietro al banco, il quale evidentemente provava gusto a costatare la mia ignoranza nell’ambito di sua competenza. In secondo luogo, ero ansiosa per la percezione che avevo di me stessa – me la prendevo con me stessa per il fatto di non essere una consumatrice più ­19

informata. Dopo questa vicenda, fui in grado di comprendere l’ansia che, per sua stessa ammissione, coglie un mio amico, un noto professore di diritto, quando deve scegliere il vino al ristorante. Ha paura che gli altri ridano della sua scelta. Per via di quest’ansia, di solito ordina vini assai costosi, insistendo per pagarli lui alla fine della cena. Quando si chiede alla gente cosa vi sia di traumatico riguardo alla scelta, generalmente le risposte sono di questo tipo: ◇

il desiderio di fare la scelta ideale (ad esempio, è per questo che cambiano di continuo il loro operatore telefonico); ◇ il pensiero di come gli altri giudicheranno la propria scelta e quali tipi di scelte farebbero gli altri; ◇ la sensazione che non vi sia nessuno nella società al quale delegare le decisioni (ad esempio, gli intervistati non sono veramente convinti di voler essere loro a scegliere il proprio fornitore di energia elettrica. Si chiedono: è giusto che questa sia una questione di scelta individuale?); ◇ il timore di non poter fare una scelta veramente libera (poiché sospettano che altri, o persino le imprese con le loro strategie di marketing, stiano già «scegliendo» per loro). Negli ultimi anni, libri e articoli sul tema della felicità hanno esaminato come mai l’abbondanza di scelta nelle società capitalistiche avanzate non produca soddisfazione e perché la ricchezza non riesca a rendere le persone più felici3. Sebbene si tratti di tesi in larga parte critiche verso il sistema esistente, tuttavia condividono il credo fondamentale di questa società: la felicità e la realizzazione di sé devono essere i nostri obiettivi primari. ­20

Ma il capitalismo fiorisce e si rafforza senza curarsi troppo di questi obiettivi. Nel romanzo Felicità®, lo scrittore canadese Will Ferguson gioca con questa idea, immaginando cosa accadrebbe se gli abitanti del mondo occidentale diventassero veramente e universalmente felici4. L’autore descrive una società in cui le persone vengono stregate dalla lettura di un libro di autoaiuto, che indica una via sicura e facile per la realizzazione di sé. Il libretto contagia tutti come un virus. Chi lo legge abbandona subito la vita precedente, comincia a vestirsi in modo più semplice, smette di truccarsi o di ricorrere alla chirurgia estetica, cancella l’abbonamento alla palestra, rinuncia alla macchina, infine lascia il proprio lavoro. Dovunque, sulla porta degli uffici, appare lo stesso bigliettino: «Sono andato a pescare!». Queste persone, colte da un nuovo risveglio, traboccano di felicità: anche fisicamente appaiono più rilassate, sono sempre sorridenti, si muovono con grazia e allegria, sprizzano serenità da tutti i pori. Ma, con le masse che ottengono la felicità vera, il capitalismo viene scosso alle fondamenta. Le industrie vanno in rovina una dopo l’altra. Seriamente preoccupati, gli editori del miracoloso libro decidono di fermare questo movimento della felicità, per conto dei loro azionisti e dei leader del mondo capitalista. Si mettono alla ricerca dell’autore del libro. Presto si viene a sapere che lo scrittore non è il guru indiano di cui parla la copertina, ma un vecchio lupo solitario che vive in una roulotte. Si scopre che l’uomo, al quale è stato diagnosticato un cancro, aveva pensato al libro come a una maniera per fare qualche soldo da lasciare al nipote. Con questo scopo in mente, egli aveva semplicemente messo insieme alla bell’e meglio le principali idee contenute nei libri di autoaiuto già esistenti. La storia termina quando l’editore convince il vecchio che la sua opera ha arrecato più danni che benefici al progresso della società. ­21

Lo esorta a scrivere un nuovo libro, su come essere infelici, così che il capitalismo possa rifiorire ancora una volta. Il capitalismo ha sempre fatto leva sul senso di inadeguatezza, così come sull’impressione di essere liberi di decidere il percorso da prendere nel futuro e, dunque, di migliorare la propria vita. A partire dalla fine del diciassettesimo secolo, il progetto illuminista ha promosso l’idea di scelta, dando origine alle concezioni moderne sulla libertà politica, la relazione tra mente e corpo, il rapporto tra amante e amato, e quello tra genitori e figli. E il capitalismo, naturalmente, ha favorito non solo l’idea della scelta consumistica, ma anche l’ideologia dell’uomo che si fa da sé, facendo in modo che ogni individuo veda la propria esistenza come una serie di scelte e di possibili trasformazioni. Il concetto di scelta comparve per la prima volta in questo contesto come il tentativo di combinare l’idea di successo nella vita professionale dell’individuo con la devozione agli ideali religiosi. Nella Gran Bretagna del primo Seicento già esistevano libri che dispensavano consigli su come trarre il massimo dalle proprie capacità e accumulare ricchezza e fortuna, rimanendo allo stesso tempo fedeli servitori di Cristo e svolgendo un ruolo utile per la comunità5. L’espressione inglese «self-made man» viene però in genere attribuita a Henry Clay, egli stesso un self-made man e tra i principali industriali americani della prima ora. (Paradossalmente, Clay era anche fautore del cosiddetto «sistema americano», un programma dirigista dell’economia in cui, sostenevano i critici, i singoli lavoratori venivano ridotti al livello di scimmie ammaestrate.) Anche Benjamin Franklin aveva a cuore l’ideale dell’uomo che si fa da sé: sottolineava come i personaggi di maggior successo della storia fossero di umili origini e spesso autodidatti. Uomini simili erano caratterizzati dall’abilità di ergersi al di ­22

sopra delle difficoltà della vita, e di afferrare ogni opportunità volta alla realizzazione di un fine onesto e degno di esser perseguito. Alla base dell’ideale dell’uomo che si fa da sé vi era una convinzione: diventare ricchi non è che l’esito naturale della realizzazione dei propri talenti personali. Emerson scrisse che nessuno «può far giustizia al suo ingegno, se non esige dal mondo molto più di una mera sussistenza»6. Il settecentesco sogno americano dell’uomo che si fa da sé ispirò le popolari storie di poveri che diventano ricchi firmate da Horatio Alger nella seconda metà dell’Ottocento, in cui lustrascarpe, venditori ambulanti, artisti di strada e altri individui provenienti dai ceti più infimi raggiungevano la rispettabilità della classe media. Qui «farsi da sé» significa giungere in cima alla scala del successo. Soprattutto, l’uomo che si è fatto da sé è libero dai vincoli sociali. Con la forza della determinazione e il duro lavoro, egli può superare la condizione sociale ed economica di nascita. Si pone di fronte al mondo con la mentalità del vincente e gli ostacoli contribuiscono soltanto a renderlo più forte. Affrontando con eroismo le avversità sulla sua strada, un uomo può divenire un vero conquistatore, di se stesso e del mondo. Il dibattito, di lungo corso e ancora oggi irrisolto, sui doveri che lo Stato ha verso i suoi cittadini e che hanno i cittadini gli uni verso gli altri, raggiunse il culmine nel diciannovesimo secolo. La questione era se l’individuo avesse l’obbligo di considerare il benessere di tutti, o se fosse giusto dare libero corso alla sua ambizione. Se da una parte i critici di un approccio laissez-faire insistevano sulla funzione regolatrice delle leggi e l’intervento attivo dello Stato negli affari economici, dall’altra i difensori del libero mercato rimanevano radicati nella credenza che le buone intenzioni, l’onestà personale, e i meccanismi della lode e del biasimo morale, universalmente ­23

presenti, avrebbero fornito una protezione sufficiente. Alcuni libri di autoaiuto della fine del diciannovesimo secolo, dai toni ancora fortemente religiosi, sostenevano che l’uomo che si fa da sé ha bisogno di risorse morali supplementari, e che il suo successo è la dimostrazione che tali risorse sono state trovate e ben utilizzate. In queste opere si sottolineava anche la responsabilità dell’uomo d’affari per il benessere dei suoi simili, rifiutando l’idea che il successo eccezionale di uno potesse significare il fallimento di molti altri. A detta degli ottimisti, insomma, ogni trionfo avrebbe aperto la strada a ulteriori trionfi, fintantoché si fosse stati onesti nella propria condotta. Da parte loro, i libri di autoaiuto a sfondo cristiano d’impronta calvinista cercavano anche di riconciliare i lettori con la loro sorte in questo mondo: proprio come il paradiso aveva posti limitati, così era impossibile per tutti quanti conseguire il successo terreno. C’erano sì vincitori e vinti, ma in verità non era contro gli altri individui che si combatteva: la lotta costante era quella con gli istinti più bassi del proprio io. Al volgere del ventesimo secolo, tuttavia, cambiarono gradualmente i toni di numerose guide di autoaiuto agli affari. Riscosse sempre più consensi l’idea di abbattere i contendenti e di prenderne lo scalpo. Quando qualcuno cercava di riuscire nella vita, non solo si impegnava in una lotta con il proprio io interiore, o con le circostanze della propria nascita; doveva anche concentrarsi sulla sconfitta di chiunque altro fosse alla ricerca del proprio successo. La scelta della strada da prendere nella vita si legava così al concetto postdarwiniano di sopravvivenza del più adatto: l’esistenza era vista come un campo di battaglia, dove solo il più forte o il più furbo possono farcela. Nel corso del secolo, l’ingresso delle donne nella forza lavoro modificò ulteriormente l’idea ­24

di uomo che si fa da sé. Potevano mai esserci donne che si fanno da sé? E, se sì, c’era ancora qualcosa di specificamente maschile nella nozione di «farsi da sé»? Oggigiorno, non è così chiaro cosa significhi «farsi da sé». Nel mondo industrializzato, una persona giovane non segue necessariamente un percorso definito che la porti in cima alla scala sociale ed economica: la sussistenza, e anche un relativo benessere economico, possono essere dati per scontati. La missione è ora quella di inventare se stessi. Secondo i professionisti del postmoderno, la vita stessa sarebbe una specie di opera d’arte o di impresa: un oggetto da rifinire, rielaborare, perfezionare, e il successo consiste nello svilupparne l’espressione più completa possibile. L’idea di scelta si radicalizza: ogni aspetto della vita diventa una questione di decisioni da prendere con cura, in modo da avvicinarsi quanto più all’ideale di felicità e realizzazione di sé promosso dalla società. La mia vita, la mia azienda I tempi in cui viviamo sono dominati dall’impazienza del capitale. Prevale il desiderio continuo di profitti immediati. Ma non sono solo le aziende e la finanza a essere sotto pressione per gestire ogni rischio e massimizzare i profitti. Tutti noi siamo invitati a comportarci come le aziende: fare un piano per gli obiettivi della nostra vita, compiere investimenti a lungo termine, essere flessibili, riorganizzare l’impresa della nostra esistenza e rischiare il dovuto in modo da incrementare gli utili. Un imprenditore informatico che mise su una società enorme durante la bolla speculativa legata a internet, una volta mi raccontò quanto fosse stato difficile, dopo lo scoppio della bolla, licenziare i suoi impiegati più giovani ed en­25

tusiasti. Ricordava una conversazione come particolarmente angosciosa. Quando gli fu riferita la cattiva notizia, il giovane impiegato sembrò per un attimo che stesse per scoppiare in lacrime. Ma subito si ricompose, tirò fuori un blocchetto per gli appunti, e domandò con precisione in cosa aveva sbagliato, in quali aree non aveva lavorato abbastanza alacremente e, soprattutto, come avrebbe potuto far meglio nel prossimo impiego. Toccato dall’intensità della reazione del giovane, il capo ripeteva che non c’era nulla che non andasse nelle sue prestazioni; era solo il mercato che costringeva la compagnia a ridurre il personale. Ma il giovane insisteva; voleva maggiori risposte. Era determinato a «lavorare su se stesso» per diventare, la prossima volta, un impiegato ancora migliore. Fino a non molto tempo fa, una persona che veniva licenziata avrebbe certamente dato la colpa a fattori esterni; ora, sentiamo la necessità di valutare noi stessi e comprendere le ragioni per cui non siamo riusciti a tenere il nostro posto. Valutazione è l’ultima parola chiave della cultura del lavoro moderna. Nelle università britanniche, i professori passano metà del loro tempo a compilare rapporti sugli studenti, sui programmi di studio e sui colleghi docenti. Nelle multinazionali di tutto il mondo, gli impiegati non solo vengono valutati dai propri capi, ma gli si chiede di valutare se stessi. Il processo costante di valutazione e monitoraggio, essenziale per la produzione industriale, è stato interiorizzato come un modo per controllare i nostri comportamenti. E diviene esso stesso una fonte notevole di ansia, nel momento in cui l’«accuratezza» della propria autovalutazione viene giudicata in base alla valutazione data da un manager o da un superiore. Più si resta isolati da un rapporto reale con la sfera sociale e politica, più si è spinti verso il controllo di se stessi. Se il tragitto delle nostre vite diventa sempre meno prevedibile e ­26

gestibile, a maggior ragione veniamo spronati a disegnarlo da soli, a «comandare» il nostro destino e a rimodellare noi stessi. In aggiunta alle ore di lavoro effettive che già svolgiamo, aumentate a vista d’occhio, siamo tenuti a darci da fare con corsi di formazione e di riqualificazione professionale per ambire a nuovi tipi di lavori, siamo tenuti a rimanere giovani e sani nell’aspetto, e continuare nella ricerca della nostra «vera vocazione». Avere successo nella vita oggi significa essere un investitore di successo. Non si tratta solo di imparare la logica delle Borse, diventando così il consulente finanziario di noi stessi; siamo esortati a vedere la nostra stessa vita come un investimento. La banale espressione «investire il proprio tempo e i propri sentimenti in una relazione» è di uso comune già da parecchio, ma ora ci viene detto che anche il tempo e l’amore che diamo ai nostri figli costituiscono, letteralmente, un investimento. Il tempo che passiamo in modo proficuo con i nostri bambini dovrebbe, si dice, aiutare a farne dei figli di cui si possa essere soddisfatti: figli che ci facciano fare bella figura, realizzino i nostri sogni e le nostre aspirazioni frustrate, e ci sostengano economicamente quando saremo vecchi. È solo da questo punto di vista che il tempo e le forze necessariamente sottratte al lavoro appaiono spese in modo utile. Anche con partner e amici investiamo le nostre energie, in modo da poter attingere a piene mani ai fondi di investimento affettivi creati da queste relazioni. Willard F. Harley, un famoso consulente matrimoniale americano, ha spiegato in modo preciso come dovrebbero funzionare questi fondi d’investimento affettivi, al fine di garantire una relazione ottimale. Immaginate una coppia in cui lui ama il calcio, mentre lei ama fare lunghe passeggiate con il marito. Quando la relazione è ancora solida, una coppia intelligente depositerà ­27

i propri risparmi in questo «conto corrente affettivo». Lei, per esempio, accompagnerà il marito a vedere le partite di calcio, anche se lo odia, e lui andrà a passeggio con lei, anche se preferirebbe stare davanti alla televisione. Nei periodi di crisi, un partner può cominciare a prelevare affetto; lui o lei può essere in collera e smettere di partecipare alle attività che facevano insieme. I fondi della banca dell’amore, allora, lentamente diminuiscono, fino al punto in cui si esauriscono o vanno addirittura in rosso. Quando insorge una crisi del genere, il consulente matrimoniale raccomanda alla coppia di cercare l’assistenza di una persona come lui che li aiuti a ristrutturare la banca di investimento affettivo e ricostruirne i fondi. Nessuno può negare che un matrimonio funziona meglio se la coppia passa del tempo insieme, e che talvolta ciò significa giungere a compromessi sulle attività da svolgere in comune. Ma la cultura del consiglio dell’esperto vuole dipingere l’amore e i sentimenti come elementi della vita che possiamo controllare razionalmente, malgrado si tratti di un ambito in cui gli impulsi e i sentimenti inconsci vanno al massimo. C’è oggi un desiderio diffuso di padroneggiare le pulsioni dell’inconscio, per trovare la maniera di modificare i sentimenti sgraditi, come pure di controllare i meccanismi dell’attrazione. Con l’idea, sempre dominante, che quello che si fa della propria vita sia solo una questione di scelta e che dipenda solo da noi come vogliamo viverla, si vuole far apparire l’amore e la sessualità tanto facilmente gestibili quanto, ad esempio, una carriera o la scelta di una vacanza. Le riviste e i giornali più letti danno l’impressione che ognuno dovrebbe essere in grado di avere i rapporti sessuali più straordinari e creativi possibili, e che esistano modalità infinite e sempre nuove di aumentare la soddisfazione sessuale. Le ­28

nostre vite sessuali appaiono piatte e banali, se confrontate con le idee, prevalenti nei mezzi di comunicazione, su quello che dovremmo fare, vedere e provare durante un rapporto sessuale. Se nell’epoca vittoriana il sesso era un tabù, oggi si potrebbe dire che è tabù non fare sesso, e la gente tende a non parlare della propria vita sessuale, immaginandosi che tutti gli altri abbiano una vita sessuale come quella raccontata sulle riviste o alla televisione. Credenze simili aumentano il senso di inadeguatezza e allo stesso tempo alimentano il desiderio su cui si basa una vasta industria. L’ideologia della scelta ha permeato così a fondo le nostre idee riguardo la natura della soddisfazione sessuale che, quando la nostra vita amorosa si allontana dagli ideali culturali di un piacere erotico eterno e di un divertimento senza fine grazie a tecniche sempre nuove, ci sentiamo costretti a prendere provvedimenti, spendendo tempo e denaro per migliorare le cose. Il finto documentario Unscrewed offre un esempio di questo approccio consumistico nei confronti del sesso7. Il film segue le vicende di una giovane coppia che ha problemi a letto. Frustrati perché la loro relazione, per quanto tenera, non è sessualmente appagante, decidono di fare il possibile per trovare la scintilla mancante. Prima consultano un urologo, il quale verifica la loro abilità fisica di avere rapporti sessuali e, dopo una serie di sgradevoli test, dà loro svariate medicine e pomate per risolvere il problema. Quindi la coppia si rivolge a un maestro tantrico, che insegna loro alcune tecniche di rilassamento e suggerisce come fare per entrare in contatto con il loro io sessuale interiore. Infine decidono di provare un terapeuta sessuale, che non si limita ad ascoltare i loro pensieri sul sesso ma vuole anche vedere come affrontano fisicamente il rapporto sessuale. Su un letto improvvisato, alla coppia viene chiesto di mostrare come si posizionano ­29

di solito all’inizio del rapporto. Il terapeuta conclude immediatamente che la posizione di partenza, con lui sopra di lei, è troppo autoritaria nei confronti di lei. Ai due viene allora consigliato di cambiare le abitudini a letto e vengono incoraggiati a concedersi un fine settimana di vacanza insieme per provare a fare sesso in ambienti diversi. A sorpresa, l’idea funziona, e durante la vacanza la coppia riesce finalmente ad avere rapporti. Tuttavia, una volta tornati a casa decidono di separarsi. Il film mostra bene come un soggetto possa decidere razionalmente di raggiungere un obiettivo, mentre inconsciamente fa tutto il possibile per evitare di conseguirlo. Se l’esito positivo della ricerca di una soluzione si è dimostrato insoddisfacente, allora forse quello che teneva unita la coppia era proprio la mancanza di soddisfazione sessuale, oppure la volontà comune di trovare una soluzione. Afflitti dal senso di colpa per quella che percepiamo come mancanza di soddisfazione sessuale, cerchiamo in tutti i modi di manipolare il desiderio nostro e del nostro partner per migliorare la vita sessuale. Allo stesso tempo, cerchiamo in tutti i modi di «fare qualcosa» riguardo ai nostri sentimenti. L’idea di scelta è penetrata in profondità nella nostra visione dei sentimenti, come se potessimo «scegliere» se provarli o meno. In particolare, cerchiamo di liberarci dei sentimenti dolorosi. Una ricerca della parola «rabbia» sul sito Amazon.com riporta decine di migliaia di risultati relativi a libri sull’argomento. Uno sguardo rapido ai titoli più venduti dà l’impressione che la rabbia sia un problema enorme nella società di oggi: innumerevoli libri si offrono di aiutarvi a liberarvene. Gestire della rabbia, Superare la rabbia, Oltre la rabbia, Vincere la rabbia, Far andare via la rabbia, Controllare la rabbia, Guarire dalla rabbia, Lavorare con la rabbia, e Assumere il comando della propria rabbia sono solo alcuni dei titoli che promettono di ­30

aiutarci a dominare questo sentimento ribelle. Il passo successivo è quello di Rispettare la tua rabbia, quindi passare Dalla rabbia al perdono e, infine, comprendere che La rabbia è una scelta. Introdurre l’idea di scelta nell’area dei sentimenti, tuttavia, serve solo ad accrescere ansia e sensi di colpa. Per quanto si possa cercare di manipolare il sentimento della rabbia con le tecniche suggerite in questi libri, probabilmente finiremo per volgere la rabbia contro noi stessi per non essere riusciti a superare questo penoso sentimento. Ma anche se la rabbia appare come un qualcosa da dominare o di cui liberarsi, non dobbiamo dimenticare che si tratta di un sentimento necessario a precipitare il cambiamento sociale. Il tentativo di liberare le persone dalla rabbia può dunque essere considerato come un altro modo di tenerle tranquille e spostare la loro attenzione dai problemi sociali a quelli personali. Autoaiuto La percezione diffusa che la direzione della propria vita, e delle proprie emozioni, sia qualcosa che si possa scegliere ha contribuito alla grande industria dell’autoaiuto. Tra il 1972 e il 2000 c’è stata una crescita esponenziale nel numero dei libri di autoaiuto pubblicati negli Stati Uniti. Durante questo periodo una media che oscilla tra il 33 e il 50 per cento degli americani ha acquistato un libro di autoaiuto. L’industria ha subìto un’accelerazione in modo particolare verso la fine del ventesimo secolo, con un rapporto dei librai americani a mostrare che nel quinquennio tra il 1991 e il 1996 c’è stato un incremento di quasi il 100 per cento nelle pubblicazioni di quel tipo8. Vedendo che molti intorno a lui sembravano voler cambiare vita leggendo libri scritti da ­31

altri, George Carlin ha osservato: «Questo non è autoaiuto, è aiuto e basta». Parlando in generale, i libri di autoaiuto mirano ad alleviare l’ansia circa il nostro personale benessere, il nostro ruolo nella società, e a suggerirci come migliorare la nostra vita. Tuttavia tendono anche a offrire le spiegazioni e le soluzioni più varie per i problemi delle persone. Alcuni esprimono punti di vista religiosi, e quindi, ad esempio, consigliano alle persone di sottostare a una potenza superiore quando si trovano in difficoltà, e di accettare ogni cosa così com’è; altri spiegano che il mondo esiste solo nella forma in cui lo percepiamo, e che quindi tutto si può cambiare sfruttando la forza del pensiero nel modo giusto. Ci sono libri che descrivono la mente come fosse un computer, un meccanismo che ha solo bisogno di essere programmato con i sentimenti e i comportamenti giusti. Altri ancora raccontano come il nostro successo sia legato alla potenza creativa dell’universo. Shakti Gawain, ad esempio, ci spiega che il successo materiale arriva quando «impariamo ad ascoltare l’universo e ad agire in sintonia con esso; allora il denaro entra sempre più nella nostra vita. Fluisce facilmente, senza sforzo, e con gioia, perché non richiede alcun sacrificio»9. Negli anni Settanta, quando il mondo si trovò ad affrontare numerose crisi petrolifere, la retorica dell’autoaiuto prese una piega interessante. Molti libri cominciarono a promulgare gli ideali di sopravvivenza e di potere personale, e la necessità di pensare prima di tutto a se stessi. La vita veniva descritta come un campo di battaglia, una partita in cui bisogna giocare «duro», un’avventura nel mezzo della giungla10. Ci si rivolgeva al lettore come a un combattente, uno sfidante, un esploratore, o un viaggiatore alla ricerca di un grande tesoro (in genere da conquistare facendo fuori i concorrenti). Il tesoro consisteva nel successo materiale o spirituale. L’idea ­32

che la vita sia un percorso di guerra, una corsa a ostacoli, o una partita di poker, in cui solo i più forti sopravvivono, era legata al messaggio, psicologicamente efficace, secondo cui non dobbiamo sentirci vittime. Nelle discussioni sul concetto di vittima, l’ideologia della scelta ha portato all’idea che si possa scegliere di essere una vittima oppure uno che non molla, e che ciascun individuo sia libero di rapportarsi alla propria sofferenza e decidere cosa fare al riguardo come meglio crede. Il mantra ossessivo di tanti libri di autoaiuto, secondo cui solo noi possiamo avere il controllo di noi stessi, e possiamo scegliere come interpretare eventi e circostanze negative, è diventato tutt’uno con l’ideologia del pensiero positivo, che in genere fornisce indicazioni passo per passo su come superare gli imprevisti della vita. Se alcune teorie dell’autoaiuto promuovono azioni e comportamenti positivi, altre raccomandano il pensiero positivo. Le prime finiscono per incoraggiare aspettative irreali su ciò che è in nostro potere fare, mentre le seconde generano false speranze sul potere del pensiero. Queste teorie giocano sul concetto di onnipotenza dell’individuo in un modo particolare. Da una parte, c’è la rappresentazione di un individuo onnipotente che con la sola forza di volontà può cambiare il mondo che lo circonda, e quindi promuovere il proprio benessere. Dall’altra, c’è un rifiuto della realtà in quanto tale, e l’idea che l’individuo, essendo padrone del modo in cui percepisce la realtà che lo circonda, sia addirittura in grado di cambiare le cose solo vedendole in modo diverso. In questi tempi di crisi e di incertezza, l’ideologia del pensiero positivo svolge un ruolo importante nell’oscurare la necessità di ripensare la natura delle disparità sociali, e di cercare alternative al modo in cui il capitalismo si è sviluppato. Quando gli individui si sentono padroni del proprio ­33

destino, e quando il pensiero positivo viene offerto come la panacea di tutti i mali sofferti a causa dell’ingiustizia sociale, l’analisi critica della società non può che lasciare il posto all’autoanalisi. Ma l’obiezione fondamentale ai manuali di autoaiuto è che è dimostrato che non funzionano. Malgrado tanti lettori accaniti, non sono riusciti a creare una società più felice e più sana mentalmente. In questo sta il loro vero risultato: invece di curare l’infelicità, questi libri hanno rafforzato l’idea che la sofferenza si trovi dovunque. Hanno attirato l’attenzione sugli innumerevoli difetti e imperfezioni dell’uomo medio, ricordando a ognuno i propri fallimenti. Perciò sentiamo ancora più bisogno di autoaiuto. Persino più importante è il fatto che questo genere di pubblicazioni è solo uno dei tantissimi meccanismi subliminali che vanno a stuzzicare i punti dolenti della psiche collettiva e individuale. Questi promemoria di come potremmo migliorare non fanno che perpetuare il senso di inadeguatezza, incitandoci a perseverare nel tentativo di migliorare e a lavorare sempre più duramente. Il cosiddetto autoaiuto si basa sull’incapacità delle persone di soddisfare le aspettative create, e quindi sul loro bisogno di altro sostegno, altri libri, altri consulenti. In altri termini, l’autoaiuto accentua il senso di inadeguatezza e paranoia che in teoria dovrebbe alleviare. È un mercato che si autoalimenta. Per quanto riguarda gli obiettivi sociali più ampi, è abilissimo a creare sensi di colpa e ansie, invece di eliminarli, come illustra la storia di Jennifer Niesslein raccontata nell’Introduzione. Se la vita è un campo di battaglia, allora siamo in guerra continua; se i pensieri positivi cambiano la vita in meglio, allora dobbiamo guardarci da quelli negativi; e se tutto dipende dall’individuo, allora la colpa è solo nostra se la cura fallisce. ­34

Il coach Il paradosso della promozione della scelta, ultimo ritrovato ideologico del capitalismo post-industriale, sta nel fatto che ha aperto la strada a tutta una serie di nuovi ambiti professionali che si offrono di assisterci nella miriade di scelte da affrontare, e di porre un freno ai nostri desideri illimitati. La scelta implica la libertà dell’individuo di determinare il corso della propria esistenza, ma paradossalmente, spesso rinunciamo in fretta a tale libertà per cercare una figura autorevole che ci aiuti a vagliare tutte le opzioni, a condizione che si possa scegliere a quale figura rivolgersi. La proliferazione di vari tipi di coach ai quali affidarsi per qualche tempo è la risposta a questa esigenza. Il coach è qualcuno al quale rivolgersi per sapere quale direzione prendere, ma è essenziale che non appaia o si comporti come un’autorità che esige la nostra obbedienza: è più un aiutante benevolo che l’individuo ha scelto di stare a sentire. Il termine «coach» in origine significava solo l’allenatore di una squadra sportiva o di un atleta, ma nell’ultimo decennio è arrivato a denotare anche colui che è in grado di dirigere la vita di una persona, proprio come un allenatore di calcio organizza il gioco in difesa della squadra. Nello sport il coach (diversamente dal semplice istruttore) ha il compito di sovrintendere alla performance dell’atleta a ogni livello. È qualcosa a metà tra il genitore, l’amico, il terapeuta, e il tifoso. Perché il rapporto tra coach e atleta funzioni, l’atleta deve avere una fiducia completa nella capacità del coach di giudicare il suo rendimento in qualunque contesto. Il coach è un’autorità che l’atleta sceglie liberamente di seguire. Nella vita moderna guardiamo al coach come a qualcuno che aumenterà le nostre possibilità di successo, o le farà risor­35

gere durante i periodi di insicurezza e sfiducia nelle nostre capacità11. Dalla prospettiva del coach, l’obiettivo principale è motivare. Il coach risponde all’ansia diffusa che è parte della vita contemporanea. Ma l’ideologia stessa del «coach della vita» presuppone che crisi e ansie esistenziali rappresentino solo una semplice mancanza di forza di volontà o di fiducia in noi stessi. Il coach non si interessa delle cause dell’ansia, ad esempio quelle presenti nell’ambiente professionale del suo allievo, ma si concentra su come cambiare il comportamento dell’allievo12. L’obiettivo ultimo della pratica del coaching è reintegrare l’allievo all’interno del meccanismo tradizionale di produzione e consumo. In quanto nuova forma di controllo sociale, il coaching incoraggia l’individuo a dominarsi sempre più, e ad adattarsi ai cambiamenti della società che lo circonda. Chiunque sia capace di un autocontrollo totale e di determinare completamente i propri desideri realizzerà il proprio potenziale e raggiungerà i propri obiettivi. Sotto la guida del coach l’allievo impara che può diventare padrone della propria vita. L’aspetto ironico, tuttavia, è che questa padronanza arriva solo dopo essersi messi nelle mani del coach ed aver appreso da lui a conformarsi all’ambiente circostante. La mia casa – me stesso Mentre siamo impegnati a migliorare noi stessi e la nostra vita, sentiremo la necessità di creare attorno a noi l’ambiente che meglio si adatta alla nostra esistenza ideale. Dal momento che il potere di cambiare la società in cui viviamo va sempre diminuendo, cerchiamo di cambiare l’ambiente a noi più vicino: la nostra casa. La casa è stata da tempo interpretata ­36

come un’estensione dell’io: ora è diventata parte essenziale del nostro percorso personale. La casa è quasi una creatura vivente, qualcosa che acquisisce un certo potere sul soggetto che vi abita. Il luogo in cui viviamo viene percepito come una protesi di noi stessi, capace di influenzare segretamente il nostro io creativo. La casa è a un tempo specchio dell’io e sua incubatrice. «Tu sei la casa in cui vivi» è un’osservazione che può capitare di sentir dire. «Il tuo io interiore troverà soddisfazione a patto di dargli l’ambiente giusto» può invece riassumere un diverso punto di vista circa il rapporto delle persone con la propria casa. Queste due concezioni, per quanto contraddittorie, trovano posto entrambe all’interno dell’ideologia contemporanea dello spazio privato. Il mantra «La tua casa – te stesso», tuttavia, ci affida l’onere temibile di dover scegliere tra tutti i vari arredamenti, stili, e accessori oggi disponibili. La pratica del Feng Shui, come altre forme di coaching, si propone come un modo per sollevarci dalla «tirannia della scelta» nelle questioni domestiche, delegandole ad altri. Il Feng Shui, che letteralmente significa «vento e acqua», è un’antica arte cinese di design di interni che mira a mettere l’individuo in armonia con il proprio ambiente. Decorando, arredando, e disponendo le cose nel modo corretto, si aumenta il proprio «chi» personale, migliorando così la salute e favorendo la crescita a livello di relazioni e di opportunità di ricchezza, benessere e successo. «Applicare i concetti del Feng Shui alla vostra casa», suggerisce un sito web specializzato, «potrebbe essere proprio quello che vi serve per riempire un vuoto nella vostra vita. Studiando l’arte del Feng Shui, cambierete il modo di guardare la vostra casa, e cambiando la qualità della vostra casa migliorerete al tempo stesso la qualità della vostra vita»13. Questo antico sapere dunque ci aiuterebbe a perfezionare i nostri destini ­37

semplicemente sistemando diversamente il mobilio. Secondo i saggi del Feng Shui, se voglio diventare ricco, nella mia camera devo mettere soldi finti o una ciotola con monete estere. Però devo stare attento a non avere il bagno all’interno dell’area adibita alla prosperità, perché il denaro può facilmente cadere nello sciacquone. La soluzione offerta è: tenete abbassata la tavoletta. Inoltre bisogna controllare che genere di immagini sono appese alla parete. Un altro sito dedicato al Feng Shui consiglia: «Evitate di esporre vostre fotografie di quando eravate al verde (come quando eravate studenti universitari, o immediatamente dopo un divorzio) in quest’area. La situazione si potrebbe ripetere!»14. L’idea che ottimizzare e snellire siano la chiave della ricchezza ha recentemente preso piede anche in altre forme nel mondo industrializzato. Negli Stati Uniti, è possibile assumere un consulente per fare un inventario della propria vita e «semplificarla», per una parcella non indifferente. Ecco i consigli che danno per invogliare potenziali clienti: Per ogni oggetto che tenete in casa, che sia il vecchio orologio sul caminetto (che non funziona più dal 1974), o la macchina per fare il pane nuova di zecca che vi ha regalato la mamma a Natale, DOVETE domandarvi: ◇ Mi rende felice questo specifico oggetto? ◇ Mi fa amare di più la casa in cui vivo? ◇ Lo porterei con me nella vita dei miei sogni?



Se sì, via libera – l’oggetto rimane. Se no – LIBERATEVENE! Gettatelo nella spazzatura, donatelo a una buona causa, oppure mettete su un bel mercatino dell’usato come si faceva una volta.

Perché è così importante snellire? Questa è la spiegazione dell’autore (gratuita; ovviamente per quella più elaborata bisogna aprire il portafoglio): ­38

Una volta ho prestato consulenza a una donna che diventava depressa in modo insopportabile quando passava molto tempo in casa. Mentre eravamo seduti in soggiorno, la invitai a osservare tutti i pezzi del mobilio, tutti i gingilli che aveva, e quindi a chiedersi quali erano i suoi sentimenti riguardo ciascuno di essi. Risultò che la ragione della sua tristezza era il vaso, bello e assai costoso, che stava nell’angolo. Il vaso le era rimasto in seguito a un brutto divorzio e lei, per via del suo valore economico, si era sentita in dovere di tenerselo. Ma i ricordi associati all’oggetto lo avevano trasformato in un buco nero, che le succhiava tutte le energie ogni volta che si trovava in quella stanza. Stasera, fate un giro per casa, e fate attenzione al livello della vostra energia: vi garantisco che rimarrete colpiti dallo scoprire quanti sentimenti sono legati indissolubilmente alle vostre cose.

Quindi, se siamo tristi o depressi, la soluzione va cercata tra un mobile e l’altro. Forse non è un caso che l’ossessione di rimodernare la casa sia particolarmente diffusa durante i periodi di recessione. In tempi di crisi economica, le persone seguono di più i consigli della televisione su come ritinteggiare a basso costo, come rendere la casa più attraente per potenziali compratori, e come vivacizzare un po’ la vita facendo qualche modifica all’appartamento; anche solo dando una mano di vernice fresca. Scelta e negazione Paradossalmente, l’ideologia che promuove la scelta con tanta insistenza richiede una qualche forma di negazione che, secondo la psicoanalisi, è un meccanismo essenziale con cui l’individuo affronta i propri conflitti interiori. Nel caso del consumatore, il primo livello di negazione consiste nell’idea che il consumo non abbia limiti e che chiunque possa con­39

sumare all’infinito; il secondo livello invece riguarda il bisogno di negare la quantità effettiva di consumo, di percepire il consumo come qualcosa che non è effettivamente avvenuto. Il consumatore sfrenato si illude che il suo comportamento non abbia conseguenze sgradevoli: ad esempio, che non vi siano debiti da saldare. Il consumatore che alterna ciclicamente il bisogno di consumare e quello di snellire, e che pare sempre venire meno a quella padronanza di sé promossa dall’ideologia della scelta, è spesso lacerato dal dubbio e dai ripensamenti, vista l’abbondanza di opzioni; per questo la negazione può aiutarlo a evitare questi sentimenti. In questo frangente è interessante notare la varietà dei gesti con cui i clienti dei negozi porgono la carta di credito ai commessi alla cassa. L’acquirente benestante lancia la carta sul bancone con noncuranza, a sottolineare che si tratta di una spesa insignificante, sulla quale sarebbe ridicolo esitare. Un cliente più prudente in una situazione simile indugia. Quando esibisce la carta di credito, per un attimo pare che faccia per tirarla indietro: come se al tempo stesso volesse e non volesse porgerla al cassiere. È in lotta con la consapevolezza, per quanto oscura, che un giorno dovrà ripagare quel debito. Tuttavia nella maggior parte dei casi finirà per cedere la carta, scrollandosi di dosso ogni preoccupazione. La riluttanza a confrontarsi con i propri debiti è stata alla base del consumismo dei decenni precedenti alla crisi finanziaria. Compri oggi, paghi domani. E mentre i consumatori imparavano a mischiare le carte di credito e rimandavano la resa dei conti finale, le grandi istituzioni finanziarie incoraggiavano l’illusione che il tempo di ripagare non sarebbe mai giunto su larga scala. In quegli anni, in cui i consumatori erano spinti solo a pagare gli interessi sui propri debiti, si ­40

sviluppò un modo di pensare che lo psicoanalista francese Octave Mannoni ha chiamato «lo so bene, ma...». Si tratta di un’illusione autoindotta, simile a quella che i bambini si costruiscono per continuare a credere a Babbo Natale anche oltre il punto in cui razionalmente sanno che non esiste. Il consumatore sa che ci saranno debiti da pagare, ma inconsciamente fa in modo di illudersi che tutto andrà bene, che i debiti si ripagheranno da soli. Questa forma di oblio intenzionale riguardo al denaro è simile al modo in cui molti affrontano l’idea della morte. In un articolo sugli effetti del collasso economico, il «New York Times» ha esaminato gli elevati tassi di depressione nelle comunità di pensionati in cui la gente si è ritrovata con perdite enormi nei propri fondi pensionistici. In queste comunità c’era un clima di lutto. La gente si comportava come se fosse morto qualcuno. La psicoterapeuta Barbara Goldsmith, che assiste persone in lutto come queste, afferma che proprio di morte si tratta: «il loro denaro era morto». Come spiegare questo collegamento tra morte e perdita economica? Spesso si risparmia denaro per ingannare la morte, o per continuare a vivere attraverso l’eredità che lasciamo ai figli. (Per non smettere di avere a che fare con il denaro, scriviamo testamenti in modo da non allontanarcene mai.) Il denaro è percepito come una coperta di Linus contro il decadimento: una protezione contro malattie, infermità, solitudine. Ma allo stesso tempo proviamo una gioia speciale nello spendere liberamente, sfidando la morte. Per questo il denaro, in termini psicoanalitici, è spesso interpretato in chiave anale: è merda sublime che insieme affascina e disgusta. Non c’è altro modo per spiegare il grande piacere che si prova a buttare via i soldi, giocando d’azzardo o comprando cose che non ci servono. ­41

Alcuni psicologi americani, studiando il comportamento degli habitués di ceto medio ai casinò di Las Vegas, hanno scoperto tassi di depressione elevati. La maggior parte dei giocatori razionalmente sa che alla fine vince sempre il banco, e ripensando alla propria esperienza, ammette che per lo più ha perso. Molti giocatori fanno gli straordinari per guadagnarsi da vivere, spesso rinunciando a passare tempo in famiglia o a coltivare un hobby. Spendono in modo frugale, e sono disposti a percorrere lunghe distanze pur di risparmiare un paio di dollari in un discount. Tuttavia, quando sono a Las Vegas riempiono le macchine di monetine senza alcuna esitazione. Alla fine della giornata riprendono le abitudini frugali, formando lunghe code per risparmiare ai buffet del tipo «mangia quanto vuoi». Tutti questi atteggiamenti relativi al denaro, risparmiare per poi scialacquare, ne mostrano il lato inquietante: il denaro non è una creatura vivente, ma questo desiderio di ucciderlo ripetutamente indica che non ne conosciamo interamente i poteri. Buttandolo via è come se alleviassimo l’ansia che ci procura. Ma appena sopraggiunge il senso di colpa, torna di nuovo l’ossessione del risparmio. Anche il mondo degli affari mette in mostra questa inspiegabile altalena di rischio e prudenza eccessivi. Una volta ero stata invitata a parlare alla riunione del consiglio di amministrazione di una grande multinazionale. Gli organizzatori si raccomandarono che la relazione avesse toni allegri, dato che i partecipanti non amano i discorsi negativi. Ascoltando gli altri interventi, mi sembrava di stare in mezzo a una setta religiosa. Agli amministratori venivano presentati grafici sui ricavi futuri in cui tutte le frecce puntavano verso l’alto: il futuro sarà fantastico. C’erano psicologi che discettavano sui tratti caratteriali dei grandi leader, e anche qui ognuno di questi tratti si traduceva in una strada sicura verso maggiori ­42

profitti. L’uditorio ascoltava in trance, e alla fine di ogni relazione applaudiva come fosse una tifoseria allo stadio. La negazione era onnipresente. I capi della multinazionale evitavano qualsiasi argomento che potesse scalfire l’ottimismo imperante. I partecipanti si beavano dei loro successi congratulandosi con se stessi, senza nutrire alcun dubbio che nel futuro i profitti sarebbero aumentati e che la concorrenza sarebbe stata sbaragliata. È evidente che la nostra generazione si è basata sull’illusione del progresso, mentre nella vita privata la prospettiva di una possibilità senza limiti ci ha solo resi più ansiosi. Più ci siamo convinti che la scelta avrebbe significato una soddisfazione maggiore, meno sembriamo apprezzare tutta la scelta di cui ora disponiamo. Ansia e scelta I filosofi hanno più volte evidenziato il nesso tra ansia e scelta. Per Kierkegaard, l’ansia deriva direttamente dalla libertà, dal bisogno di affrontare la possibilità della possibilità. A questo, Sartre ha aggiunto che una persona di fronte all’abisso è ansiosa non per la paura di cadere, ma perché sa che è libera di gettarsi oltre il ciglio. Anche se ci sentiamo sopraffatti dalla scelta, in quanto consumatori, o dalla pressione di fare della nostra vita un progetto artistico o un’impresa ben diretta, dobbiamo ricordarci che il problema di oggi non è l’abbondanza di scelta che abbiamo nel mondo industrializzato. Il problema, piuttosto, è che l’idea di scelta razionale, presa in prestito dalla sfera economica, viene glorificata come l’unico tipo di scelta possibile. ­43

L’idea di scelta che permea la società dei consumi di oggi ha ricevuto diverse critiche. Ad esempio, Barry Schwartz, nel libro The Paradox of Choice: Why More is Less, offre numerosi esempi di ricerche psicologiche che dimostrano che le persone esposte a una scelta minore sono più soddisfatte15. Al fine di limitare l’insoddisfazione provocata dal peso opprimente delle scelte nell’ambito dei consumi, Schwartz propone varie forme di autocostrizione. Sostiene che dovremmo «scegliere quando scegliere», fare scelte vere e non pescate a caso, accontentarci del necessario, prendere decisioni irreversibili, coltivare un atteggiamento di gratitudine, rimpiangere di meno, mettere in conto i compromessi, tenere a freno le aspettative, astenerci dal fare paragoni in ambito sociale, e soprattutto «imparare ad amare le restrizioni». Paradossalmente, l’idea di scelta è in realtà già tutta dentro questo decalogo dell’autocostrizione. Tutti i consigli su come «snellire» la nostra vita e il nostro corpo si basano sull’idea che dobbiamo essere più organizzati, più efficienti, più in controllo di noi stessi. L’autocostrizione è il concetto chiave anche dei libri che offrono consigli su come vivere una vita sana, in particolare quelli relativi alle diete, un’industria in continua crescita. Libri di successo, con titoli del tipo Come dimagriscono i ricchi, raccontano come le donne dei quartieri snob di New York (con le quali la ragazza media americana è invitata a confrontarsi) apparentemente pianifichino alla perfezione e controllino senza affanni ogni aspetto della loro vita. Il problema però è che le donne che cercano di modellare un corpo ideale e una vita perfetta vengono continuamente spinte a voler fare sempre meglio, creando per se stesse divieti sempre nuovi. L’ideologia della scelta appare liberatoria, perché si fonda sull’idea di una molteplicità di possibilità. Se nei tempi ­44

dell’abbondanza di scelta le vecchie proibizioni cessano di esistere, vengono rimpiazzate prontamente da nuovi autodivieti. Cambiamenti simili si sono già verificati nella natura dei divieti. Dopo la rivoluzione sessuale, ad esempio, emersero movimenti a favore di un nuovo celibato, insieme a regole di corteggiamento che esortavano le donne a mostrarsi meno disponibili sessualmente, e quindi ad aumentare il desiderio dell’uomo. Il paradosso, tuttavia, è che per quanto le persone si inventino spesso nuovi autodivieti, è impossibile che questi sorgano come la proposta razionale di nuovi vincoli imposti a se stessi, come vorrebbe Barry Schwartz. La psicoanalisi ha dimostrato che è raro agire direttamente e deliberatamente in modo da massimizzare il proprio piacere e minimizzare il dolore. Spesso sappiamo, razionalmente, che una certa cosa ci nuoce, ma o non riusciamo a fermarci o arriviamo a trovare qualche forma di soddisfazione nel dolore. Ci sono persone che, razionalmente, affermano di desiderare maggiore felicità nella loro vita, ma a livello inconscio sembrano assai più attratte dall’opposto della felicità. Per quanto la scelta possa sembrare una questione individuale, il modo in cui scegliamo è essenzialmente legato alle relazioni che formiamo con gli altri, e a come pensiamo che gli altri ci vedano. Non è vero che le persone si inventano nuove autoimposizioni di testa propria: le loro scelte sono in larga parte limitate dalla percezione di quello che la società indica come una scelta accettabile. Ciò aiuta a capire perché, paradossalmente, il nuovo individuo che «si fa da sé» tende a prendere un qualche vip come modello: da una parte l’individuo è totalmente libero di crearsi un’identità dal nulla, mentre dall’altra segue un opinabile ideale riguardo chi essere che, per caso, ha avuto successo nella società, spesso sulla ­45

falsariga della vita di qualche celebrità. Questo punto segna un’evoluzione importante del modo in cui l’individuo del tardo capitalismo si identifica con i modelli sociali: uno spostamento che si verifica anche nella maniera in cui le persone oggi si identificano con autorità scelte e autoimposte, e percepiscono se stesse all’interno della società nel suo complesso.

2.

Scegliere attraverso lo sguardo degli altri

Nella società occidentale siamo liberi di scegliere la nostra identità, le nostre preferenze sessuali, la nostra religione. Possiamo scegliere se avere figli o no. Possiamo rimodellare il nostro corpo e perfino cambiare sesso. Ma se tutti questi aspetti sono in balia delle nostre decisioni, cosa rimane che possa dettare le nostre scelte? Chi diventiamo quando ogni tratto di noi stessi è qualcosa di discrezionale? In un dibattito con alcuni laureati in legge riguardo la scelta della propria identità, uno studente sosteneva in tono stridente che, in quest’era postmoderna, si sente del tutto libero di giocare con diverse identità, arrivando ad affermare che anche la sua obbedienza alle regole era collegata con le diverse scelte che compie ogni giorno riguardo alla propria identità. Ad esempio, la sua obbedienza ai divieti sociali dipende dall’identità che assume in un dato momento. Al mattino, mentre si reca allo studio legale dove lavora, rispetta il cartello ai bordi del giardino che dice «Vietato l’ingresso». Nel pomeriggio, indossati i jeans e libero dagli obblighi lavorativi, è già meno incline all’obbedienza. E di sera, nel suo tempo libero, si sente libero di assumere tante identità diverse su internet: partecipa a un forum sull’Islam fingendo di essere musulmano; a volte frequenta siti per omosessuali fingendo ­47

di essere gay; occasionalmente si presenta come donna o come straniero. Una fluidità simile è possibile anche riguardo all’identità nazionale. Quando incontrai per la prima volta Annu, una giovane antropologa che studiava in Gran Bretagna, appresi che era nata in India, ma mi era anche stato detto che la sua famiglia aveva origini francesi. In seguito incontrai i suoi genitori. Dall’aspetto sembravano entrambi chiaramente indiani. La madre era alta e scura di carnagione, con lunghi capelli neri, e indossava un sari. Sulla fronte aveva il tilaka, il punto rosso che indica lo status di donna indù sposata. Il padre aveva i capelli scuri e poteva passare per indiano anche lui. Entrambi parlavano inglese con un accento hindi. Dato che erano appena arrivati da Calcutta, dove vivevano, pensai che dovevano essere entrambi indiani, e che magari avevano trascorso del tempo in Francia quand’erano più giovani. Fu una sorpresa non da poco venire a sapere da Annu che erano indiani per scelta. Nati e cresciuti in Francia, negli anni Settanta decisero che ne avevano avuto abbastanza dello stile di vita occidentale, e si trasferirono in India. Lì abbracciarono la cultura e lo stile di vita indiani, fino al punto di vestirsi con gli abiti indiani tradizionali, parlare hindi, e crescere i loro figli come fanno le famiglie indiane. Erano fuggiti dal capitalismo occidentale, e dalla sua esaltazione dell’idea di scelta: ma avevano portato con sé tale idea. La loro assimilazione nella società indiana non era dovuta a ragioni di necessità economica, come per la maggior parte degli immigrati, ma rifletteva la scelta di uno stile di vita dal quale erano rimasti attratti. Per quanto la scelta della propria identità possa sembrare a prima vista un atto del tutto autonomo di autocreazione, in genere dipende da molti altri fattori. Alcuni anni fa, nel 2004, la vincitrice del Grande Fratello inglese, Nadia Almada, ­48

rivelò di essere una donna transgender. Quando seppe della vittoria, la sua risposta fu: «Ora mi sento riconosciuta come donna». Quello che il pubblico televisivo britannico trovava avvincente in lei era il fatto di aver realizzato il sogno di fare di sé qualcosa di completamente differente. Con la sua autotrasformazione, Nadia incarnava l’idea stessa di autocreazione. Tuttavia, il fatto di aver partecipato a una competizione televisiva, e la sua soddisfazione nel vedersi pubblicamente riconosciuta come donna, dimostrava anche quanto abbiamo bisogno delle altre persone per sostenere le nostre scelte, pur liberamente compiute, e definire chi siamo. La scelta e gli altri Nel libro Perché le donne scrivono lettere che non spediscono? lo psicoanalista britannico Darian Leader ha osservato che quando una donna fa shopping di solito vuole acquistare abiti che nessun’altra donna possiede, mentre l’uomo normalmente fa l’esatto contrario, e desidera comprare gli stessi vestiti degli altri1. Lo stesso dilemma affligge oggi entrambi i sessi nel mondo industrializzato. Uomini e donne sono spinti a fare di se stessi qualcosa di unico e di diverso dagli altri, ma poi sono invitati a seguire direttive ben precise circa l’aspetto fisico di questo presunto individuo unico, o il tipo di carriera da intraprendere, o, in particolare, a quale celebrità dovrebbero rassomigliare. Nel programma televisivo I Want a Famous Face2 si vedono persone che decidono di sottoporre il volto alla chirurgia estetica per rassomigliare di più al loro vip preferito3. Extreme Makeover4, un format leggermente meno assurdo, presenta la chirurgia estetica come la via definitiva verso una vita migliore, e segue passo passo coloro che affrontano questa salvifica ­49

autotrasformazione. A intervento avvenuto, spesso finiscono per assomigliare a qualcun altro. Non vogliono solo apparire diversi; vogliono che gli altri li vedano in modo differente. Ad esempio, in un episodio, una donna di nome Melissa decide di rifarsi il look per la decima rimpatriata tra compagni di scuola. Sempre presa in giro a scuola per il suo aspetto fisico, ora vuole prendersi la rivincita. Per lei, un corpo nuovo è la soluzione al trauma e al rancore di un’adolescente emarginata. Anche gli psicoanalisti ricevono quotidianamente simili richieste di cambiamenti rapidi e radicali, con persone che affermano: «Voglio reinventare me stesso». Ovviamente in psicoanalisi l’obiettivo non è venire incontro alle richieste di cambiamento del paziente, ma aiutarlo a comprendere cosa sta alla base di tale desiderio. Ma a rispondere alle esigenze del paziente ora ci pensa la chirurgia estetica: diventata una scienza onnipotente, essa incarna la promessa di un cambiamento istantaneo e integrale. Proprio come una persona può pensare che il proprio corpo non sia adatto a esprimere la propria identità, e quindi desidera costantemente la trasformazione fisica, così una persona può sentirsi inadeguata nei panni delle varie identità assunte nel corso della vita. Il problema principale del crearsi un’identità è che a volte si trova un conforto solo momentaneo nel definirsi, ad esempio, insegnante, padre, marito, o musicista. Ma nessuna di queste identità cattura tutto quello che c’è da dire circa chi siamo realmente. A prescindere da quanto l’individuo voglia «diventare se stesso», non ci riuscirà mai, perché ci sarà sempre qualcosa dentro di lui che non potrà essere definito a sufficienza da un’identità esteriore. L’ego (la percezione di se stessi) è una struttura molto instabile, facilmente insidiata da pulsioni e desideri inconsci. È possibile reprimere per un po’ queste pulsioni, e agire da ­50

soggetto capace e razionale, ma prima o poi si riaffacceranno, sotto forma di comportamenti idiosincratici, lapsus freudiani, o perfino malesseri. L’idea che ci si possa forgiare un’identità, ricopiando quella di qualcun altro, ha creato particolari problemi nella società contemporanea. Il culto del vip Il messaggio secondo cui chiunque può ambire alla vita affascinante delle celebrità, posto che la scelga e vi si applichi, ha portato moltissime persone a perdere di vista elementi essenziali della loro vita alla ricerca di una fantasia irrealizzabile. Ad esempio, in seguito al clamoroso successo delle tenniste russe Anna Kournikova e Maria Sharapova, nei villaggi sperduti di ogni parte della Russia sono cominciati a spuntare campi da tennis. Le famiglie russe più povere si sono attaccate al sogno che la loro bambina potesse diventare una campionessa, una stella e un modello di vita. Molti di questi genitori hanno fatto sacrifici enormi in termini di tempo e denaro per sostenere gli allenamenti intensivi delle ragazze, talvolta fino al punto di vendere tutti i propri averi5. Eppure le probabilità che chiunque possa diventare una stella del tennis, a prescindere da quanto duramente ci si alleni, sono infime. Una ricerca americana stima che negli Stati Uniti solo 1 ragazzo su 10.000 ottiene una borsa di studio universitaria per meriti sportivi6, e solo 6 su 10.000 hanno l’opportunità di diventare atleti professionisti7. Anche se venisse detto ai genitori russi che la loro figlia ha pochissime possibilità di diventare la nuova Sharapova, la maggior parte di loro non si convincerebbe a lasciar perdere. Quando Serena Williams vinse il primo torneo US Open nel 1999, disse: «Questo era ­51

il sogno di mio padre, ed ora è il mio». Spesso si sente dire, quando un giovane tennista raggiunge la vetta, che il sogno di diventare famoso non era originariamente il suo, ma proveniva dai genitori. L’immagine diffusa dello sport e dello spettacolo trasmette l’idea che chiunque deve cercare di diventare una star e innalzarsi al di sopra della propria condizione sociale. Ma in molti casi il sogno è lungi dall’essere una scelta individuale: primo, l’ambizione appartiene ai genitori prima che ai figli; secondo, la carriera desiderata è ricalcata sulla figura di qualcun altro, ad esempio, quella di Maria Sharapova nel caso delle giovani tenniste russe. Può non essere facile accettare che quella che ci sembra una scelta puramente individuale spesso è dipendente dal modo di vedere e dall’influenza altrui. Ci piace credere di godere di un’autonomia e un controllo totali. Eppure siamo tormentati dall’impressione di non saperne abbastanza, o di non avere i mezzi giusti per compiere una scelta informata. Poi, quando sentiamo il parere di un esperto, mettiamo in discussione la bontà di tale opinione. Nel libro Drogati di fama: la verità nascosta dietro la dipendenza preferita d’America, Jake Halpern ha studiato come gli assistenti personali delle celebrità sviluppino identità influenzate in modo potente e spesso inquietante dal loro datore di lavoro8. Nelle prime fasi del rapporto gli assistenti vivono ogni attimo della loro vita all’ombra della celebrità che li ha assunti, e gradualmente perdono la loro identità di persone indipendenti. La prima crisi arriva quando l’assistente è costretto a trascorrere un periodo lontano dal capo. Si fa strada un senso di perdita, e l’orrore di fronte al fatto di non essere una persona importante. Prima o poi l’assistente si rende conto che nessuno conosce il suo nome. Quando lascia il lavoro, dovrà abituarsi al peso dell’assenza del capo. Da una parte, avverte la perdita ­52

dello status di cui godeva in quanto protesi umana del vip, ma dall’altra riconosce per la prima volta quanto della sua vita normale ha sacrificato per il lavoro. Ha abbandonato gli amici più cari, si è estraniato dalla famiglia, e ha perso di vista altre opportunità per il proprio futuro. Le richieste imposte all’assistente di un vip sono simili a quelle di un membro di una setta. Come osserva Halpern: «I servitori di celebrità e di sette religiose si sentono importanti: assistendo i capi nelle loro funzioni sono così vicini al potere che possono vederlo e quasi toccarlo, ne sono inebriati»9. Ma il prezzo da pagare è alto: sette e celebrità sono creature mai sazie. Halpern perciò conclude: «Portiamo vestiti abbelliti dal loro nome, ne compriamo tutti i prodotti, viaggiamo negli stessi posti, ne parliamo ininterrottamente, e il massimo che otteniamo è quel lieve brusio che arriva alle orbite più remote della stella»10. Immedesimarsi con coloro che prendiamo come modelli di comportamento, tuttavia, non è mai una faccenda semplice, e può rispecchiare l’atteggiamento che abbiamo verso figure autorevoli più tradizionali, come i nostri genitori. Se a un certo livello li amiamo e rispettiamo, capita anche che si abbia da ridire sul loro conto, specialmente quando si cresce. Lo stesso accade con le celebrità: le mettiamo sul piedistallo per poi provare piacere a ridimensionarle e dipingerle come persone normali, proprio come noi. La popolare rivista «US Weekly» fa di tutto per presentare le celebrità come persone affabili, socievoli, e con i piedi per terra. Il titolo di una delle rubriche è Celebrità – Sono proprio come noi! «I nostri lettori vedono in Jennifer Aniston la loro amica del cuore», ha affermato il direttore della rivista; «Jen è diventata l’amica del cuore di tutti, prima con il telefilm Friends, poi quando si è lasciata con Brad [Pitt] e ne è rimasta traumatizzata». Questi eventi ­53

hanno favorito le vendite della rivista? «Assolutamente sì!»11. Usando il diminutivo del nome della star (Jen), si vuole creare l’impressione che non ci sia alcun divario tra lei e noi, che i vip siano persone normali con gli stessi problemi di tutti. Questa (falsa) intimità incoraggia la gente a pensare che ognuno possa diventare una celebrità: basta avere la giusta presenza sui mezzi di comunicazione. Diventare vip è una scelta aperta a tutti. Il desiderio di immedesimarsi con le celebrità può essere inquadrato in maniera un po’ più approfondita tramite il concetto di «interpassività», coniato dal filosofo austriaco Robert Phaller12. L’interpassività è il rapporto che si instaura tra un individuo e un suo rappresentante, incaricato di vivere esperienze per conto dell’altro. Ad esempio, in Serbia ci sono persone che assumono donne per piangere ai funerali, portando il lutto al posto loro; i buddisti hanno ruote (o mulinelli) di preghiera che pregano per loro; allo stesso modo, la gente registra film che non vedrà mai: in un certo senso è il videoregistratore a vedere il film per loro. Quanto alle celebrità, ci sono persone che si comportano in modi assurdi pur di imitare i vip con cui si identificano, mentre per altri la celebrità assume il ruolo di rappresentante, che si comporta in modo eccentrico così che il seguace non debba comportarsi in modo analogo, e possa sperimentare indirettamente le esperienze emozionanti e gli eccessi del vip senza doverne affrontare le conseguenze. L’immedesimazione con la celebrità, quindi, spesso non avviene ricopiandola, ma frapponendo una certa distanza da essa. Una ragazzina può benissimo copiare l’abbigliamento di Paris Hilton senza condividerne lo stile di vita: Paris Hilton è una rappresentante; vive la sua vita affascinante, compromettente e avventurosa al posto della ragazzina. Identificarsi con qualcuno, però, non significa solo imitar­54

ne l’aspetto esteriore: è un processo che ha a che fare con la formazione di un io ideale. Ci prefiggiamo un ideale, per poi subire il trauma di non riuscire a esserne all’altezza. I ricercatori Lori Neighbors e Jeffrey Sobal hanno studiato le abitudini alimentari di 272 fidanzate, in media a sei mesi di distanza dal matrimonio. Il settanta per cento di loro era impegnato a perdere più di 9 chili, mentre un altro venti per cento vigilava attentamente sul proprio peso perché non aumentasse. «Le persone trattano il proprio corpo alla stregua di un progetto», scrivono i ricercatori. «E una delle occasioni in cui si vuole che tale progetto riesca perfettamente è il giorno del proprio matrimonio»13. Le promesse spose saltavano i pasti, facevano diete di liquidi, digiunavano, prendevano lassativi, pillole dietetiche e integratori non prescritti dal medico. Sia che continuassero a soffrire le stesse privazioni, o che riprendessero tutto il peso dopo il grande giorno, tutte erano determinate a rendere il giorno del matrimonio un momento di perfezione pura. L’immagine del proprio corpo perfetto nella fotografia del matrimonio costituiva per la sposa l’identificazione suprema con il proprio io ideale. Il mio corpo, la mia responsabilità La ricerca di un corpo ideale all’interno del quale l’individuo possa finalmente essere «se stesso» è accompagnato dal rischio di insidie e continui fallimenti, che vanno ad alimentare i sensi di colpa. Questo ciclo perpetuo di autoperfezionamento fa crescere vertiginosamente l’ansia. Come osserva Stephen Covey, autore dei fortunati libri di autoaiuto First Things First. Le prime cose al primo posto14 e Le sette regole per avere successo15, oggi non basta essere sposati e impiegati in qualche professio­55

ne: bisogna essere sposabili e impiegabili. Lavorare su se stessi (sul proprio corpo, la propria carriera, o la propria identità) è l’imperativo essenziale per chi non vuole rimanere escluso dalla rete sociale e spera di avere successo tanto nel mercato del lavoro che in quello dei rapporti di coppia. Nel contesto di questi nuovi imperativi di mercato, anche la nostra salute viene vista come un bene commerciabile; ciò a sua volta ha cambiato il modo di praticare la medicina nel mondo industrializzato. La medicina oggi esalta l’idea di scelta e autodeterminazione. Il dottore non svolge più il ruolo della figura autorevole chiamata a raccomandare al paziente ciò che è meglio per lui; ora illustra semplicemente al paziente le alternative che ha, lasciando a lui la decisione e la possibilità di dare o negare il suo consenso informato16. Spesso si tratta di prendere decisioni ardue, complesse, dalle conseguenze di vasta portata; senza il sapere specialistico e l’esperienza del medico, il concetto di consenso informato si svuota di significato, diventando solo una maniera per evitare le responsabilità e le possibili conseguenze legali di un intervento malriuscito. Ma siamo così sicuri che la gente voglia scegliere le cure che riceve quando è gravemente malata? La libertà di scelta è un bel concetto in astratto, ma quando le cose si mettono male, le persone sperano che sia qualcun altro a scegliere per loro: un’autorità dotata delle conoscenze necessarie. Barry Schwartz riporta che in un gruppo di persone sane alle quali era stato chiesto se volessero essere loro a scegliere la propria cura, nell’eventualità che gli venisse diagnosticato un cancro, il 65 per cento ha risposto di sì. Nel gruppo di chi aveva veramente un cancro, invece, solo il 12 per cento voleva che la scelta fosse lasciata loro17. L’etica del fai da te ora si è estesa anche al corpo. Ma più assumiamo il controllo del nostro corpo, più diventa spaventoso qualsiasi problema: una malattia, uno stato di debolezza, ­56

un ricovero ospedaliero. I problemi di salute sono diventati il peccato massimo dell’individuo. Come l’impiegato è indotto a sentirsi in colpa per aver perso il lavoro, perché prima che questo finisse non si è messo a cercarne uno nuovo, così le persone malate si sentono in colpa per non aver prevenuto la malattia. Si parla addirittura di persone capaci di «gestire bene lo stress»! E se sembra che non riusciamo a superare la nostra malattia, ci sentiamo in colpa per aver fallito in un ambito ulteriore, quello dell’autoguarigione18. Non stupisce che l’ideologia dell’autoguarigione abbia preso piede esattamente nel momento in cui, in molti paesi, i politici hanno cominciato con decisione ad aprire le porte alla privatizzazione dei servizi di sanità pubblica. Un numero via via crescente di persone si è mostrato insoddisfatto delle cure ricevute nelle istituzioni ospedaliere, mentre allo stesso tempo diveniva evidente che, in futuro, ben pochi di questi sarebbero stati in grado di permettersi adeguate cure private, dai costi sempre in aumento. Se da una parte l’ideologia dell’autoguarigione promuove l’idea che la responsabilità della propria salute, e perfino il potere di guarire, siano nelle nostre mani, dall’altra incoraggia nuovi modi per far soldi. Di qui la folla di guru new age della salute che propongono modi alternativi per entrare in contatto con i nostri poteri interiori di guarigione. Quando si è di fronte alla malattia, l’ideologia dell’autoguarigione spesso porta a fantasticare sulla presenza nel nostro corpo di forze soprannaturali, o comunque non riconosciute dalla scienza, e sul modo per evocarle ai fini della guarigione. Nei momenti di maggiore debolezza, accettiamo qualsiasi spiegazione e qualsiasi aiuto possiamo trovare. Un antropologo britannico, che stava combattendo contro un tumore, un paio di anni fa decise di realizzare una piccola ­57

ricerca antropologica chiedendo ai pazienti nella sua stessa condizione come percepivano la loro malattia. Rimase particolarmente sorpreso da quanto rapidamente le persone accettino diverse forme di superstizione quando si ammalano. Un paziente, pure persona ben istruita, credeva di potersi liberare del tumore all’intestino se fosse stato in grado di defecare; un altro cercava di uccidere le cellule cancerose bevendo la propria urina; un altro ancora sperava di eliminare il tumore dal corpo immaginando che non esistesse. L’atteggiamento delle persone di fronte alla malattia si è spesso improntato alla ricerca di soluzioni magiche. Pandemie come la peste o l’AIDS sono state interpretate come punizioni divine; c’è stato chi ha pensato di curarle con rituali di purificazione. In alcune zone dell’Africa, ad esempio, è diffusa la credenza che si possa guarire dall’AIDS avendo rapporti con una donna vergine. Questo connubio tra la ricerca di un potere superiore che si faccia carico dei nostri problemi e l’insistenza sulla libertà di scelta non deve stupire. Quando siamo ansiosi, e scegliere implica sempre un elemento di ansia (stranamente legata, come si vedrà nei capitoli successivi, non tanto a quello che potremmo ottenere con il nostro atto di fede, quanto a quello che abbiamo da perdere), spesso ci guardiamo intorno per trovare qualcuno o qualcosa che si prenda la responsabilità. Nella speranza di placare l’ansia, possiamo decidere di consultare una guida religiosa, un guaritore, o perfino un astrologo19. Riconoscendo che lo stress causato dall’incertezza è in se stesso un male, il ministero della Salute canadese ha apportato alcune modifiche radicali al sistema sanitario nazionale. Innanzitutto ha fatto riorganizzare le liste d’attesa degli ospedali, in seguito a uno studio che sconsigliava alle autorità ­58

sanitarie di lasciare le liste d’attesa degli interventi chirurgici nelle mani dei dottori. Si è scoperto che è probabile che i medici usino le liste a proprio vantaggio, spesso mantenendole lunghe per garantirsi un’agenda di lavoro piena per parecchio tempo a venire. Inoltre, una lista d’attesa lunga in fondo è un segno di successo. Dal punto di vista del paziente, però, una lunga coda può indurre panico. Gli studi hanno mostrato che quando i pazienti credevano che non sarebbero stati curati presto, senza possibilità di saltare la fila, i loro sintomi peggioravano. Se i pazienti sanno che il sistema è equo, che le liste d’attesa sono gestite in modo onesto e rigoroso (salvo che nei casi di emergenza assoluta), allora sono in grado di aspettare senza che i loro sintomi peggiorino. E quando i pazienti sono certi che riceveranno controlli regolari, visite specialistiche pre-intervento, e una risposta immediata, nel caso le loro condizioni dovessero peggiorare, i danni causati dall’ansia possono essere minimizzati. Alla luce di questi dati, il governo canadese ha creato organismi locali indipendenti per gestire le liste d’attesa, e ha reso le liste consultabili su internet. Il benessere dei pazienti ne ha tratto un significativo giovamento. I canadesi hanno anche scoperto che un sistema sanitario pubblico efficiente può essere un motivo di orgoglio nazionale. Infine, i politici canadesi sono riusciti a convincere le imprese che il sistema sanitario pubblico ne avrebbe accresciuto i profitti. Il contrasto è netto con gli Stati Uniti, dove le aziende spendono cifre enormi per l’assicurazione sanitaria dei loro impiegati (e dove la gente spesso cambia lavoro sulla base dell’assicurazione sanitaria offerta). Negli Stati Uniti, con gli oppositori della sanità pubblica che continuano a promuovere la privatizzazione, le scelte disponibili nell’ambito della sanità hanno ormai prodotto livelli notevoli di ansia nella vita della maggior parte dei cittadini. ­59

Il «grande Altro» e la scelta Come fa una semplice riorganizzazione istituzionale delle liste d’attesa a ridurre l’ansia? E perché mai, quando qualcun altro si assume la responsabilità, o quando un’autorità (un coach, ad esempio) ci dice come scegliere, ci sentiamo improvvisamente più sereni? La percezione di cosa sia la scelta varia a seconda del contesto sociale. Il modo in cui un individuo compie le scelte è influenzato non solo dalle scelte che fanno gli altri, ma anche dal significato che la società nel complesso dà alla scelta. La psicoanalisi lacaniana ha introdotto il termine «grande Altro» per designare il linguaggio, le istituzioni, e la cultura: tutto ciò che costituisce lo spazio sociale in cui viviamo come collettività. Questo spazio ci definisce nel corso della nostra vita, e in genere ce ne facciamo un’idea nostra, concependolo come un tutto sufficientemente coerente, e denso di simboli che interpretiamo in modo simile a coloro che occupano lo stesso ambiente sociale. Tuttavia, con il tempo cambia la nostra percezione del grande Altro e del suo funzionamento. Ne denunciamo le contraddizioni, e costruiamo fantasie di ogni tipo per spiegare cos’è che non va. Quando le persone si lamentano che la società contemporanea le costringe a dover decidere su cose la cui scelta preferirebbero lasciare ad altri (come la scelta del fornitore di elettricità), in genere sperimentano il timore che nessuno abbia veramente il controllo, o che tutte le decisioni siano già state prese da qualche entità superiore, come le multinazionali. In altre parole, il grande Altro è fonte di preoccupazioni per le persone. I lacaniani ritengono che il grande Altro, in verità, non esista: l’ordine simbolico in cui viviamo non è affatto coerente e contiene falle notevoli al suo interno. In effetti è un ordine irreale. Ma la tesi più interessante di Lacan è che, ­60

sebbene il grande Altro non esista, nondimeno funziona come se esistesse, perché il fatto che la gente lo prenda per vero è essenziale per il modo in cui comprende la propria vita. Al fine di trovare un’identità che sia almeno temporaneamente stabile, creiamo uno scenario di fantasia in cui la nostra esistenza ha luogo in una realtà sociale in sé coerente. Ora, l’atto della scelta è traumatico precisamente perché non c’è nessun grande Altro a vegliare su di noi. Fare una scelta è sempre un atto di fede. Quando cerchiamo la serenità attraverso meccanismi di autocostrizione, tutto quello che facciamo è «scegliere» un grande Altro; inventiamo una struttura simbolica che ci sollevi dall’ansia della scelta. Questo è quanto accade quando riponiamo la nostra fede nell’oroscopo, o in un politico carismatico, o in un dio che vegli su tutte le nostre azioni. Ma l’esistenza stessa del grande Altro è sempre una nostra «scelta», una nostra fantasia. E, dandogli vita, scegliamo l’opzione di non scegliere, di lasciare che altri scelgano per noi. L’esperienza del grande Altro assume modalità differenti a seconda delle persone. I nevrotici sono pieni di dubbi, incertezze e lamentele nei confronti del grande Altro. Gli psicotici, invece, lo vedono come una minaccia, e credono di essere disturbati da voci e perseguitati da presenze invisibili. Una donna nevrotica protesterà continuamente che nessuno è in grado di comandare, che il capo è un impostore, che il marito è impotente, che i politici sono tutti corrotti, e che nessuna autorità è in grado di tenere insieme la società. Se il nevrotico è ossessionato dall’assenza di una guida, e dall’impotenza delle autorità, lo psicotico è tormentato dalla minaccia dell’autorità nei confronti della propria persona. Ad esempio crederà che il capo lo perseguiti e gli rubi le idee, che Dio sia in contatto con lui e gli mandi messaggi segreti, ­61

o che i politici tramino contro di lui e ne mettano a rischio l’esistenza. I nevrotici si preoccupano del fatto che il grande Altro non sia un tutto sufficientemente coeso e potente. Per rimediare all’incoerenza, spesso si impegnano nel gioco di cercare un capo che possa comandare (e si presenti, quindi, come un Altro coerente), mentre al tempo stesso sono portati a minare l’autorità del capo. Gli psicotici, al contrario, non hanno simili preoccupazioni. Spesso trasudano certezza e hanno una percezione sicura di chi è il grande Altro: uno sguardo minaccioso, una voce ossessiva. Schiavo delle sue proiezioni sulla realtà, lo psicotico sembra stare al di fuori dello spazio sociale, con la presenza materiale del grande Altro a esercitare il suo potere esclusivamente su di lui. Negli ultimi anni ha avuto luogo un dibattito su come sia cambiata la nostra percezione del grande Altro. È il risultato di un’evoluzione della logica del capitalismo? O è il prodotto della decadenza delle grandi narrazioni degli ultimi decenni, dell’indebolimento dell’autorità di Stato, chiesa, e nazione? È a causa di questi cambiamenti che troviamo così difficile compiere le scelte? E se l’ideologia dominante della scelta è parte di un cambiamento più ampio del grande Altro, quali sono le conseguenze di questo cambiamento per l’individuo? Una quindicina di anni fa il giurista francese Pierre Legendre prevedeva la catastrofe: «Non abbiamo capito che al cuore della cultura ultramoderna c’è sempre e solo la legge; che questa nozione tipicamente europea implica una specie di legame atomico, il cui dissolvimento porta con sé il pericolo che il simbolico scompaia per le generazioni a venire»20. Facendo riferimento alla psicoanalisi, Legendre osservava che l’ingresso di un soggetto nel linguaggio richiede un atto di separazione. La separazione può essere vista dapprima come il distacco del neonato dalla figura primaria preposta al ­62

suo bene (normalmente la madre), ma la separazione implica anche l’interiorizzazione dei divieti attraverso la parola; in altri termini, la trasmissione culturale della legge. In aggiunta, ogni separazione implica uno scarto (écart), la rappresentazione di un vuoto. A causa di questi atti di separazione, la società e il soggetto hanno bisogno di qualcosa che li aiuti ad affrontare la categoria della negatività21. In questo contesto, è sorta la questione se la cultura occidentale abbia rinunciato a «familiarizzare il soggetto con l’istituzione del limite», rinunciando insieme alla categoria della negatività, e se abbia perciò creato un’ideologia che induce il soggetto a godere costantemente, ad alleviare qualsiasi impressione che nella propria vita manchi qualcosa. Cosa intendono dire i filosofi come Legendre, quando affermano che viviamo in un mondo senza limiti, o gli psicoanalisti che sostengono che un numero sempre maggiore di persone vivono senza interiorizzare divieti sociali22, o i sociologi che spiegano l’insicurezza e l’infelicità delle persone proprio con la sovrabbondanza di scelta nella loro vita? Viviamo davvero in un mondo senza limiti? Prima di azzardare una risposta alla domanda, è necessario spiegare cosa intendiamo per limite. Una delle idee fondamentali della teoria lacaniana è la tesi che con l’apprendimento del linguaggio subiamo un processo di castrazione simbolica, e che a partire da questo momento rimaniamo segnati da una mancanza. Il responsabile della castrazione è il linguaggio stesso. Quando diventiamo esseri parlanti, viviamo un cambiamento radicale: le azioni «naturali» diventano molto più complicate, e la nostra esistenza appare in sé priva della jouissance primordiale, della beata gioia pre-linguistica23. Da un giorno all’altro ci troviamo a dover utilizzare il linguaggio per rapportarci ai nostri desideri, e dopo non molto dobbiamo fare i conti anche con impulsi e passioni che non ­63

hanno legami diretti con la nostra biologia, ma che lo stesso influenzano profondamente il nostro benessere. Linguaggio e cultura, in cui ci imbattiamo venendo al mondo, presto diventano non solo una risorsa per espandere i nostri orizzonti, ma anche uno spazio di divieti e limiti imposti a quelli che prima erano solo impulsi naturali. Una delle proibizioni che impariamo è il divieto di legarsi intimamente (in modo incestuoso) con la figura primaria preposta al nostro bene. Nelle società patriarcali questa norma è in genere trasmessa dal padre. Ma il divieto non nasce da un semplice «no!» che limiti la stretta relazione tra madre e figlio. Affinché il divieto sia instillato nel bambino, il padre non deve neanche essere presente, poiché quello che è cruciale è il modo in cui la proibizione è insita nei discorsi stessi con cui una madre (o una figura analoga) si rivolge al figlio. È per questo che Lacan usa l’espressione «Nome-del-Padre» per riferirsi alla legge simbolica. Sebbene la mancanza che segna l’individuo venga vissuta come la perdita di una jouissance originaria, in effetti si tratta di un elemento indispensabile della soggettività. L’individuo, segnato dalla mancanza, cercherà in tutti i modi di recuperare l’oggetto che, a suo modo di vedere, incarna la gioia perduta e compenserà la mancanza. Il fatto stesso di essere segnati dalla mancanza è il motore che tiene acceso il desiderio. Così ci troviamo ininterrottamente alla ricerca di qualcosa che possa procurarci la soddisfazione anelata (un partner, un figlio, un semplice oggetto di consumo) e spesso rimaniamo insoddisfatti dalle nostre scelte. Al tempo stesso, però, abbiamo spesso l’impressione che gli altri abbiano trovato la jouissance che cerchiamo, il che a sua volta è fonte di invidia e gelosia. Nell’affrontare questa mancanza, l’individuo si imbatte in un’altra serie di problemi: anche il grande Altro, dopotutto, è manchevole. E l’ordine simbolico della società è incoerente. An­64

che gli altri sono segnati dalla mancanza. Perciò non c’è un Altro coerente che sia in grado di soddisfare l’individuo, e di rispondere al bisogno di sapere che tipo di oggetto l’individuo sia per questo Altro. Così l’individuo si trova sempre a dover interpretare quello che dicono gli altri, a leggere tra le righe e a fare congetture sul significato dei gesti altrui. Il dilemma più ansiogeno per l’individuo diventa: «Come appaio nel desiderio dell’Altro?». Fin qui, si tratta delle normali preoccupazioni che la gente ha in conseguenza della mancanza che caratterizza tanto loro, quanto l’ordine simbolico della società. È cambiato qualcosa nel capitalismo di oggi? All’inizio degli anni Settanta Lacan sosteneva che nella società capitalista matura le persone vedono la realtà sociale in modo diverso. In questo «Discorso del capitalismo» siamo giunti a pensare a noi stessi come padroni; crediamo non solo di avere il controllo di noi stessi, ma anche che in qualche modo ci sia possibile ritrovare la jouissance perduta24. Qual è il significato di tutto questo potere? In primo luogo, non ci consideriamo più schiavi della nostra storia o del nostro albero genealogico, e quindi siamo liberi dai segni identificativi tradizionali. Riteniamo di poter scegliere non solo gli oggetti che ci procurano soddisfazione, ma anche il percorso completo della nostra vita. In altre parole, scegliamo il nostro io specifico. In secondo luogo, ci comportiamo come se, compiendo le scelte giuste, possiamo davvero avvicinarci a questa jouissance perduta e sempre sfuggente. Si fa strada così l’idea che il soggetto sia un essere onnipotente, capace di orientare la propria vita nel modo che preferisce e di individuare gli oggetti del desiderio e la jouissance a questi collegata, ottenendo finalmente la soddisfazione cercata. La felicità sembra essere alla nostra portata, ed è compito nostro fare tutto il possibile per afferrarla. ­65

Lacan si chiedeva se questo «Discorso del capitalismo» rappresentasse un rifiuto o, meglio, un’esclusione della castrazione. Tale esclusione si presenta quando la società, abbandonati tutti i limiti, spinge con forza verso una jouissance senza limiti. Non c’è più un padre simbolico che trasmetta principi di legalità. Il desiderio di jouissance a tutti i costi porta con sé ogni genere di eccessi e manie dagli effetti tossici: l’alcol, le droghe, lo shopping compulsivo, l’ossessione per il lavoro25. Il capitalismo libera lo schiavo e lo trasforma in consumatore, ma il consumo senza limiti finisce con il consumatore che consuma se stesso. Questa linea di pensiero pessimista ha stimolato un dibattito circa le conseguenze del capitalismo sulla psiche soggettiva. È vero che le persone nelle società capitalistiche provano sintomi psicologici nuovi? Il cambiamento radicale avvenuto nella natura stessa dei divieti sociali, e nella nostra percezione dell’ordine simbolico, ha contribuito ad aumentare il numero delle psicosi nelle società capitaliste mature? Come è cambiato il grande Altro? Lo psicoanalista francese Charles Melman vede una relazione tra il cambiamento moderno della percezione del grande Altro e il presupposto che il mondo sia organizzato razionalmente26. Egli sostiene che la credenza in un mondo razionale talvolta pregiudica la possibilità di pensare all’Altro, e di immaginare il mondo come un tutto imprevedibile e privo di un grande progetto che lo tenga insieme. Più di dieci anni fa, altri due psicoanalisti francesi, JacquesAlain Miller ed Eric Laurent, hanno ipotizzato che il grande Altro non esista più, indicando nella moderna ossessione per ­66

i comitati etici la prova di ciò27. Il progresso scientifico ha sollevato un numero di domande pari a quelle a cui ha dato una risposta, mentre d’altra parte non abbiamo più fiducia nelle risposte fornite da qualsivoglia autorità. Per questo creiamo strutture ad hoc temporanee, come i comitati etici, volte ad aiutarci a superare l’incoerenza del grande Altro. Naturalmente, anche queste strutture portano in sé le loro contraddizioni. Ma devono davvero preoccuparci i cambiamenti strutturali dell’ordine sociale in cui viviamo? Il filosofo francese DanyRobert Dufour, tracciando la storia della percezione del grande Altro, ritiene che non possa essere altrimenti. Partendo dalla tesi di Freud che ogni cultura forma soggetti che cercano di ritrovare le orme, sempre specifiche, che conducono alla propria origine, Dufour sostiene che questa è la ragione per cui «dipingiamo l’Altro, lo cantiamo, gli diamo una forma, una voce, lo mettiamo in scena, ne forniamo rappresentazioni e persino super-rappresentazioni, fino ad arrivare alle forme dell’irrappresentabile»28. L’Altro sorregge per noi quello che noi non siamo in grado di sorreggere: è il terreno sul quale ci formiamo. Per questo la nostra storia è sempre storia dell’Altro, o meglio, di immagini dell’Altro. Dufour nota inoltre che il soggetto è sempre soggetto all’Altro, e che questi nel passato ha in genere preso la forma di un qualche grande Soggetto: Dio, il Re, le leggi fisiche, «la nazione». Nel corso della storia dell’Occidente la distanza tra il soggetto individuale e questo grande Soggetto è andata assottigliandosi. Dufour individua nell’inizio dell’Illuminismo il periodo in cui l’individuo diventa un’entità autoreferenziale. È il momento in cui il soggetto cessa di fare affidamento su un Essere esterno, Dio, la terra, il sangue, per giustificare la propria esistenza, e diventa in qualche modo il proprio luogo di origine. Nell’era moderna, di pari passo con il declino del potere religioso e la vasta ­67

espansione del progresso scientifico, emergono una pluralità di grandi Soggetti. In tutto questo, il soggetto umano diventa sempre più decentrato rispetto a se stesso. La conclusione di Dufour è che nella postmodernità non c’è più alcun grande Altro simbolico, quella entità incompleta che costituisce un’«autorità» alla quale il soggetto può rivolgere le sue richieste, porre domande, o presentare le sue rimostranze. Sulla scia di Walter Benjamin, per cui il capitalismo era destinato a funzionare come una nuova religione, alcuni oggi sostengono che il mercato sia il nuovo Dio: fino alla recente crisi economica chiunque si opponesse ai dogmi dell’economia del libero mercato era etichettato come eretico. Il soggetto umano è ora decentrato a tempo indeterminato; lo spazio simbolico che lo circonda è sempre più anomico e indefinito. Per questo il dibattito sul postmoderno si è concentrato sulla scomparsa delle grandi narrazioni e delle autorità su cui fare affidamento. L’individualismo ha raggiunto un nuovo stadio in cui il soggetto vede sempre più se stesso nel ruolo di artefice di sé. I problemi del tardo capitalismo È evidente che si è modificata la percezione sia di noi stessi sia del grande Altro. Ma è corretto dire che la tendenza a promuovere la creazione di sé, che ho analizzato in precedenza, ha contribuito a una crescita dei disturbi psicologici, e in particolare a un aumento delle psicosi, come affermano diversi psicoanalisti? Nella psicoanalisi lacaniana gli psicotici sono coloro che non osservano le stesse norme sociali della maggioranza. Nell’educazione dello psicotico la legge sociale simbolica, denominata ­68

Nome-del-Padre, è stata esclusa, e la «castrazione» non ha avuto effetto. Gli psicotici hanno una loro personale concezione della realtà; nella celebre formulazione di Freud, non hanno accettato di rinunciare a qualcosa per essere parte della società. Vi sono psicoanalisti francesi che affermano di assistere, oggi, a un numero sempre crescente di casi di cosiddette «psicosi latenti». I deliri che normalmente accompagnano le psicosi qui non sono presenti. Per descrivere questi casi, comunemente noti come «disturbi della personalità borderline», è stato riesumato il concetto di personalità «come se», teorizzato dalla psicoanalista di origine polacca Helene Deutsch. Una personalità «come se» è un soggetto che, pur non avendo sviluppato una psicosi conclamata come quella di Daniel Paul Schreber, il paziente di Freud che credeva di essersi trasformato in donna, può tuttavia manifestare i segni di una struttura psichica di base psicotica. Alcuni analisti la chiamano «psicosi ordinaria» o «psicosi bianca». Quello che distingue questi individui dai nevrotici è la loro assenza di dubbi. Il caso lampante di un paziente che nella vita ha collezionato diverse carriere di successo può servire da esempio. Da giovane, diventò amico di un avvocato di uno studio importante. Finì per essere egli stesso un avvocato di successo. In seguito conobbe un marinaio per strada, e ne seguì i passi nella marina mercantile. Quindi incontrò un uomo d’affari, e dopo non molto diventò anche lui un uomo d’affari di grande successo. A differenza di Schreber, questo soggetto non soffriva di una forma maniacale di psicosi, scatenata da un evento particolare. La sua psicosi consisteva invece in una serie fortunata di identificazioni, nel corso delle quali non solo imitava il comportamento di altre persone, ma si immedesimava totalmente con l’altro per modificare radicalmente ­69

la propria vita, senza essere colto da dubbi o ansie circa tutte queste trasformazioni. Quando il suo psicoanalista gli chiese come mai, con tutto il successo che aveva, avesse sentito il bisogno di entrare in analisi, lui rispose semplicemente: «Mia moglie mi ha detto di farlo». Durante l’analisi recitava il ruolo del paziente diligente: ancora una volta era portato a immedesimarsi con la persona più vicina a lui. Nel 1956 Lacan definì il «come se» un meccanismo di compensazione immaginaria. Gli individui con una personalità «come se» sono inclini all’imitazione. A volte hanno veri e propri disturbi dell’identità: tendono a sovrapporre identità diverse, o sono convinti di avere dei sosia. Una delle caratteristiche degli psicotici è la loro ossessione per le imitazioni degli altri. Quando si immedesimano fortemente con un’altra persona, modellano se stessi secondo un certo ordine di idee, per poi abbandonarlo altrettanto rapidamente. Molto spesso tali psicosi rimangono latenti finché dura la relazione con la figura oggetto dell’identificazione. Ad esempio, un ragazzo può non manifestare alcun sintomo esplicito di psicosi durante gli anni di scuola, finché rimane saldamente legato a un amico stretto di cui imita il comportamento. La crisi può verificarsi quando l’amico, ad esempio, si trasferisce per motivi di studio in un’altra città. Un evento simile può provocare la fine dell’identificazione e scatenare un attacco di psicosi. La struttura psicotica del ragazzo è già predisposta, ma non è visibile prima che si manifestino i sintomi di delirio o i disturbi del comportamento seguiti all’evento traumatico che li ha scatenati. L’attacco di psicosi può anche essere provocato da un cambiamento nel valore simbolico di una determinata relazione. Nel caso di un fratello e una sorella che avevano un legame particolarmente forte, questo si è verificato quando la sorella si è sposata. Il fatto di aver assunto il nuovo ruolo simbolico di moglie ­70

significava che il rapporto con il fratello non sarebbe stato più lo stesso. A sua volta questo ha precipitato la crisi del fratello, che ha finito per essere ricoverato in seguito a un esaurimento nervoso. Un caso analogo ha riguardato una giovane stella dello sport che partecipava alle finali di un importante torneo internazionale. Diventare campionessa mondiale avrebbe determinato un cambiamento radicale della sua posizione all’interno del gruppo di atlete con cui si identificava. Nei panni della vincitrice, avrebbe ottenuto un nuovo status simbolico dentro e fuori dal gruppo. La ragazza, incapace di affrontare questa eventualità, diventò preda di gravi deliri, e appena prima del torneo si dovette ritirare. Anche lei dovette essere ricoverata. Possiamo quindi dire che l’io moderno è in un certo senso delirante, privo di contatto con la realtà? Possiamo sostenere che il tardo capitalismo è portatore di nuove psicosi? Di certo alcuni fenomeni indicano che i processi di autoidentificazione sono diventati più flessibili. Gli individui impegnati nei giochi di ruolo su internet di rado si presentano per quello che sono, preferendo in molti casi cambiare non solo genere e orientamento sessuale, ma anche razza, religione, ed età. Non c’è nulla di nuovo nel fantasticare di essere qualcun altro, ma le tendenze moderne suggeriscono che in gioco vi è qualcosa di più profondo. Ad esempio, è in crescita il numero di giovani britannici nella fascia di età dai 18 ai 25 anni che non solo riferiscono di aver avuto almeno un’esperienza sessuale con persone di entrambi i sessi, ma che sono anche restii a classificare o categorizzare la loro sessualità sulla base delle loro abitudini sessuali. Quando sono chiamati a categorizzare se stessi e gli altri, la distinzione tra etero- e omosessuale non sembra avere grande rilevanza per questi giovani. Come ha osservato un commentatore, «l’omosessualità non esiste più!»29. Tuttavia, giocare con la propria identità sessuale e rifiutare ­71

di essere categorizzati sono fenomeni del tutto diversi dalla convinzione delirante di Schreber di essere trasformato in donna. Schreber non aveva dubbi circa la mutazione in corso nel proprio corpo. E sono fenomeni diversi anche rispetto alle imitazioni ripetute del «paziente di successo» descritto prima, le cui metamorfosi non gli provocavano né ansia né incertezza. Quelli di noi che si reinventano ininterrottamente da un momento all’altro hanno parecchi dubbi, e sono spesso sopraffatti dalla paura del fallimento. Chi si diverte a giocare con identità diverse è radicalmente differente dallo psicotico che imita le vite degli altri, convinto di essere qualcuno che non è. La certezza dello psicotico nella maggior parte delle persone lascia oggi il posto a qualcosa che ricorda più l’indecisione patologica del nevrotico. Perciò non ci sono prove sufficienti che la società contemporanea sia sempre più psicotica. A differenza degli psicotici, la maggioranza delle persone si preoccupano ancora di come sono visti dagli altri, e di come devono interagire con gli altri. Anzi, questa forse è una delle ragioni che spiega l’ossessione crescente per i libri di autoaiuto, i quali ricordano alla gente che, per riuscire nei rapporti con gli altri, bisogna prima di tutto imparare ad amare se stessi. Ma amare noi stessi non è così semplice. Da una ricerca sul sito Amazon.com risulta che esistono ben 138.987 libri che si propongono di aiutarci ad amare noi stessi, incluso uno intitolato Libro degli esercizi per imparare ad amare te stesso, il che dimostra che rimboccarsi le maniche, per un fine o per un altro, fa ancora parte dell’ideologia del capitalismo. Il problema grave è che, in una cultura che promuove in modo insistente l’amore di noi stessi, amare qualcun altro è diventato sempre più difficile, per quanto ognuno speri ancora di essere amato dagli altri.

3.

Scelte d’amore

«Agganciare qualcuno» (hooking up) è diventata una pratica amorosa diffusa nei campus universitari americani. Ai genitori ansiosi si può perdonare l’associazione del termine con la prostituzione (hooker significa «prostituta»), o con altri richiami alla sfera dell’illecito suggeriti dall’espressione inglese. Non a caso hook fa rima con crook (imbroglione)1. Uno sguardo al dizionario conferma che hooking onto something or someone (lett. «agganciarsi a qualcosa o qualcuno») può anche indicare un legame non desiderato, un adescamento, un inganno. Per far abboccare qualcosa o qualcuno all’amo (hook) ci si serve in genere di un’esca o di un raggiro, che si tratti di andare a pesca o di vendere un prodotto. C’è sempre un cacciatore e una preda, un adescatore (hooker) e un adescato (hookee). Nella boxe, chi ha subito un gancio (hook) di solito non si trova in una bella condizione. Essere un fissato di qualcosa (hooked on something), dal canto suo, anche qualora la fissazione in questione sia un salutare esercizio fisico o un’attività di beneficenza, comunica sempre un’idea di assoggettamento, di diminuzione del libero arbitrio. Suggerisce uno stato di schiavitù e dipendenza. Una volta che si è stati agganciati (hooked), si viene lasciati a morire sulla riva. Queste ramificazioni semantiche lasciano intendere che ­73

l’agganciare (o il «beccarsi») possa essere una faccenda un po’ più sinistra rispetto a quanto indicato dal modo in cui gli studenti americani di oggi usano il termine. Per loro, si riferisce solo a un legame non importante. «Ci becchiamo!» vuol dire semplicemente «ci vediamo in giro», o «rivediamoci – senza stare a specificare dove e quando». C’è un’espressione di simpatia verso l’altra persona, ma senza nessun impegno. Forse è questa incapacità o riluttanza a impegnarsi che mette in risalto il lato oscuro dell’«agganciare»: quest’ultimo dà l’idea di un legame occasionale, per quanto ne possa scaturire un coinvolgimento sentimentale più profondo. Tuttavia, la persona che si lega affettivamente più di quanto all’inizio non desiderasse, non riesce facilmente ad ammetterlo a se stessa o al partner occasionale. Se lo ammettesse, rischierebbe di passare per uno che non osserva le «regole» dei rapporti occasionali. L’incontro occasionale ha assunto un ruolo di primo piano nella vita di americani e britannici. La prima volta che sono stata negli Stati Uniti, quando i colleghi dell’università mi proposero: «Pranziamo insieme qualche volta», per me fu normale prendere l’agenda dalla borsa e controllare le date possibili. Ma dall’espressione dei miei colleghi presto mi resi conto che il mio comportamento era fuori luogo. Non mi servì più di quell’istante per afferrare il corretto protocollo. Non si parlava veramente di futuri programmi mangerecci. Quando qualcuno propone: «Pranziamo insieme qualche volta», la risposta appropriata è: «Benissimo, mangiamo insieme qualche volta. Chiamami quando sei libero». «Pranziamo insieme?» è solo un’altra versione di «Come stai?». Non ci si aspetta che l’interlocutore risponda in modo dettagliato, ma che dica (ottimisticamente) «Benissimo», e magari anche «E tu?». Si tratta di formule di cortesia, usate per stabilire ­74

legami superficiali. I veri programmi si fanno con le persone con cui «ci si becca» o si va a mangiare veramente insieme: quelle con cui si usa la formula «Sei libero per (un pranzo/un caffè/una cena/un cinema?)», e si specifica un orario preciso. Al centro dei rituali contemporanei dell’incontro amoroso c’è l’imperativo di evitare le espressioni di affetto e di concentrarsi sulla meccanica del contatto fisico. L’«aggancio» ne è l’esempio più puro. La scelta stessa di questo termine la dice lunga sulla percezione del sesso e dell’amore ai tempi della tirannia della scelta. Il piacere non ha più a che fare con la ricerca del partner o di un amico, l’avvicinarsi alla persona prescelta, il tentativo di comprendere o penetrare la sua, talvolta sconvolgente, alterità. Oggi la gratificazione deriva dal processo di «aggancio»: adescare qualcuno, sedurlo, intrappolarlo, e quindi scartarlo – sganciarsi – e cercare un nuovo oggetto. La mancanza di qualsiasi impegno è la nuova tendenza nelle relazioni. La scelta del partner La ricerca del compagno ha sempre seguito norme sociali ben precise. Un secolo fa, il corteggiamento poteva iniziare con il giovanotto che cercava di ottenere il permesso di andare a far visita alla ragazza cui era interessato. Se e quando le faceva visita, la madre della ragazza o altri familiari erano quasi sempre presenti. Durante la seconda guerra mondiale, il «far visita» fu rimpiazzato dal «fare coppia fissa». La possibilità concreta che l’uomo potesse essere chiamato alle armi esigeva un rituale che prevedesse un po’ più di impegno, come se fare coppia fissa potesse calmare l’ansia di una possibile perdita, suscitata dalla guerra. Dopo la guerra furono in tanti ad andare all’università, e fu allora che l’appuntamento divenne, d’un tratto, il rito ­75

principale del corteggiamento. La pressione dei coetanei, sotto varie forme, prese il posto dell’influenza dei genitori. Si affermarono nuove modalità di corteggiamento basate su gerarchie create dagli studenti stessi. Ad esempio, tra i ragazzi c’era una competizione agguerrita per uscire con le ragazze universalmente riconosciute come tipo «A», e guadagnarsi così il titolo di «maschio alfa»2. La rivoluzione sessuale degli anni Sessanta e l’arrivo delle donne nella forza lavoro portò all’espansione del movimento femminista e al rilassamento delle vecchie regole del corteggiamento. L’idea di liberazione sessuale giocò una parte importante nell’evoluzione dei rapporti sessuali tra le persone. Quando poi l’omosessualità divenne un fenomeno più largamente accettato, anche altre norme sessuali si fecero più flessibili e meno discriminatorie. La scelta è l’elemento portante di quella cultura. Le alternative, in ogni aspetto della nostra vita, sono così tante, che la scelta di legarsi sentimentalmente non solo è un peso in più, ma è anzi un ostacolo alla libertà totale a cui dovremmo aspirare. Una persona che si lega troppo velocemente a un’altra non trae pienamente vantaggio da questa libertà. I sostenitori dell’«aggancio» diranno che tale pratica aiuta soprattutto a evitare legami prematuri, e permette alle persone di fare la migliore scelta possibile del partner futuro3. Sono in particolare le ragazze ad avere bisogno di proteggersi da un coinvolgimento eccessivo nei rapporti, o da un impegno troppo precoce nei confronti del partner, così si sostiene4. Mantenendo aperte le loro opzioni, saranno in grado di concentrarsi a fondo sulla carriera ed essere più flessibili nelle loro scelte future. Al centro di tale cultura ci sarebbero dunque le donne, e le nuove regole da loro dettate. Esse sono finalmente capaci di comportarsi come nel passato si sono spesso comportati gli uomini. Possono abbordare un partner ­76

qualunque per una notte, e dopo fare come se nulla fosse successo. Non chiedono e non promettono nulla. E dal momento che non vogliono essere continuamente ferite, cercano di non investire troppi sentimenti nel rapporto5. Il paradosso, tuttavia, è che, malgrado l’insistenza sulla scelta e il controllo, la cultura dell’agganciare si basa sull’incertezza. «Inventata» per liberare i giovani dai legami impegnativi, finisce per accrescere l’insicurezza, l’ansia, e i sensi di colpa. Per alleviare questi effetti, il rito molto spesso prevede il consumo di alcol per rendere il dopo più semplice. Se le cose non vanno come si era sperato, si può sempre raccontare agli amici: «Ero ubriaco, non sapevo quello che facevo». Agganciare significa anonimità, assenza di impegno e di responsabilità. Proprio come possiamo chattare piacevolmente con i nostri «amici» di internet, senza avere molta voglia di incontrarli di persona, così possiamo avere rapporti sessuali semi-anonimi con qualcuno senza sentire la necessità di conoscerlo meglio. Come ha detto un giovane studente universitario: «Puoi comportarti come se non fosse mai successo»6. Forme simili di rifiuto della realtà sono presenti nella comunicazione via internet, dove le persone si liberano di qualsiasi freno: al sicuro nella propria stanza, lanciano violenti attacchi che non sarebbero mai tollerati nel mondo reale. Nell’istante in cui si preme il tasto di invio, il messaggio aggressivo fuoriesce dal proprio campo visivo, e quindi anche dal proprio ambito di responsabilità. Di nuovo, ci si può comportare come se lo scambio non fosse mai accaduto. La mancanza di riguardi, per gli altri e per le conseguenze, che caratterizza gli incontri occasionali e gli incontri virtuali ha molto in comune con il modo, precedentemente analizzato, in cui le persone si rapportano ai debiti economici. Proprio come chi contrae debiti enormi con la propria carta ­77

di credito sembra ignorarne le conseguenze nel momento in cui effettua i suoi acquisti, così molti si comportano come se niente fosse successo dopo un rapporto occasionale o un’esibizione di bullismo su internet. La scelta come autotutela Dal momento che l’ideologia della scelta ci ha insegnato che è possibile controllare le proprie emozioni, e compiere sempre scelte razionali, ne consegue che dovremmo essere in grado di gestire le nostre relazioni amorose in modo da produrre la maggiore felicità possibile7. Eppure, nella nostra cultura l’ideale di amore romantico viene apprezzato proprio in quanto non è una questione di ragione. Le storie d’amore tragiche riguardano tipicamente le pene di due persone che non possono fare a meno di amarsi, che non riescono a contenere la loro passione. Questo è l’amore al di là della scelta razionale. È fatto di desideri, pulsioni, e fantasie, tutti prerequisiti per elevare l’altra persona al rango di oggetto dell’attrazione suprema. Ci innamoriamo di volti, gesti, vezzi che toccano in noi qualcosa che in genere non riconosciamo in noi stessi. L’amore è spesso responsabile di quelle scelte inconsce che possono mandare in rovina le nostre intenzioni razionali. Il film hollywoodiano Laws of Attraction – Matrimonio in appello illustra il conflitto tra scelta razionale e attrazione irrazionale, giocando sul tradizionale cliché per cui «le persone non sanno cos’è meglio per loro». Audrey (interpretata da Julianne Moore), avvocatessa divorzista di prim’ordine, ha deciso di rinunciare all’amore. Un giorno in tribunale nota un attraente avvocato, Daniel (Pierce Brosnan), che rappresenta la parte avversa in una causa di divorzio. Audrey fa di tutto ­78

per apparire indifferente alle sue avances. Anche dopo essere finiti a letto insieme, la sua convinzione di rimanere single non sembra vacillare. I suoi sentimenti cambiano quando i due si recano in Irlanda per lavoro: dopo una notte di bisboccia, si svegliano rendendosi conto di essersi sposati per sbaglio. Sebbene verrà alla luce che il matrimonio era fasullo, l’evento cambia qualcosa nella prospettiva di Audrey. È come se fosse in grado di riconoscere i suoi sentimenti verso Daniel solo grazie all’operato della legge, cioè, dopo la proclamazione pubblica del matrimonio. Per quanto all’inizio cerchi di ribellarsi al fatto di trovarsi in una condizione di non-scelta, è evidente che il «matrimonio» l’ha resa felice; per questo appare delusa quando si rende conto che la cerimonia era stata solo una farsa. Quando pensava di essersi sposata contro la propria volontà (ovvero, quando le era stata tolta la possibilità di scegliere) era in grado di riconoscere il proprio desiderio. Alla fine decide di risposare Daniel, questa volta da sobria e con un rito valido. Ma questo matrimonio non sarebbe stato possibile senza la lezione ricevuta quando la libera scelta le era stata sottratta. Negli affari di cuore, ci ricorda il film, alcune scelte avvengono solo retrospettivamente. Quando siamo confusi riguardo all’amore, di solito cerchiamo consiglio. Nel film appena menzionato la madre di Audrey le offre una quantità di consigli non richiesti, incitandola a sedurre Daniel. La madre appartiene alla generazione degli anni Sessanta, che ha fatto proprio un atteggiamento liberale verso l’amore e la sessualità, mentre la figlia ha scelto un’esistenza quasi monacale, tutta votata alla carriera. Invece di mettere alla prova i limiti morali dell’autorità genitoriale, si è formata dei vincoli interiori proprio per reazione alla permissività della madre. Le persone hanno sempre avuto difficoltà a trovare chi possa dare consigli validi sull’amore. Durante i primi tempi ­79

della psicoanalisi, un amico di Freud gli chiese se era il caso di sposare una certa donna. Freud rispose che nelle questioni di poco conto è bene riflettere molto e a lungo, mentre in quelle più importanti (se sposarsi o meno, se avere figli) dovremmo agire senza esitazioni. Questa risposta, apparentemente paradossale, va letta nel contesto della società assai più conservatrice nella quale viveva Freud. Tuttavia, l’idea in sé può essere liberatoria, se accettiamo che le scelte riguardanti amore e famiglia di rado sono razionali. Possiamo pure pensare che siamo noi a scegliere da che parte andare, ma il più delle volte sono i nostri desideri inconsci a guidarci. I bestseller più recenti sull’amore e la scelta del partner danno l’idea che si vogliano ignorare i desideri e le fantasie dell’inconscio che riguardano l’amore. Moltissimi di questi libri pretendono di dirci come dovremmo scegliere negli affari di cuore. Volumi con titoli del tipo Come scegliere il partner e tenerselo stretto o L’amore è una scelta offrono soluzioni veloci e razionali alla complessa questione della seduzione, cercando di dimostrare come il desiderio si possa suscitare deliberatamente, e gestire oculatamente. Il mercato dell’autoaiuto trabocca di libri su come fare innamorare qualcuno di voi, come evitare che qualcuno vi lasci, e come manipolare qualcuno perché vi dia quello che volete. A volte sembra che la scelta riguardi solo la persona che cerca consiglio, e che l’obiettivo sia quello di togliere al partner futuro la possibilità di scegliere8. La scelta come ideale e la scelta ideale Le scelte d’amore sono oggi particolarmente problematiche, dal momento che siamo continuamente a caccia del compagno ideale. A volte la ricerca dell’amore segue le stesse di­80

namiche della ricerca del migliore operatore di telefonia: si passa da uno all’altro, con la sensazione costante che una volta fatta una scelta potremmo esserci persi un affare migliore. L’ansia circa la scelta ideale da fare è diffusa in modo particolare anche negli ex paesi comunisti. Qui l’idea che bisogna essere in grado di compiere scelte in ogni ambito della propria vita si è affermata solo dopo l’introduzione del capitalismo. Mi è capitato di osservare questa forma d’ansia un paio di anni fa, quando fui invitata a tenere una lezione in Lituania. Dopo aver socializzato per qualche giorno con i miei ospiti, mi resi conto che erano tutte donne. Nell’organizzazione della mia visita era coinvolto un gran numero di donne colte e interessanti. Mentre parlavo con loro, rimasi profondamente colpita da come riuscivano a districarsi tra lavoro, figli e interessi culturali. Ma ero curiosa: dov’erano gli uomini lituani? Mi spiegarono che gli uomini erano stati catturati dall’idea di scelta. Secondo il loro ragionamento, con l’arrivo del capitalismo, l’idea di scelta aveva contagiato la popolazione del paese. Tutto ciò che desideravano appariva improvvisamente possibile. Tanti uomini quindi avevano scelto carriere più redditizie di quella accademica, e non pochi di loro avevano abbandonato le mogli che avevano per trovarne delle nuove, una tendenza che aveva contribuito alla drastica crescita dei divorzi nel paese dopo la caduta del comunismo. Nel puntare il dito contro l’idea di scelta per spiegare l’assenza di uomini nelle istituzioni culturali, queste donne, molte delle quali divorziate, concludevano che i lituani non sanno compiere le scelte; in particolare, ritenevano che i lituani non sono in grado di scegliere tra quello che ha valore e quello che non ne ha. Le mie interlocutrici cercavano di convincermi che, mentre i lituani hanno appreso solo da poco l’idea di scelta, e sono abbagliati da tutte le possibilità che improvvisamente si sono aperte, gli americani nascono in ­81

una società che, fin dalla tenera età, educa le persone all’idea di scelta. Naturalmente, se si chiedesse alle donne americane come loro vedano la scelta, potrebbero esprimere ansie molto vicine a quelle delle donne lituane. Il concetto di scelta ideale trova un’espressione potente nei siti internet di incontri. Qui si può rilevare la stessa logica che è all’opera nel mercato. Gli iscritti non solo fanno un elenco delle caratteristiche che cercano in un partner: desiderano anche presentarsi agli altri in quanto dotati di un certo valore di mercato. Nella sua analisi dei siti di incontri, Eva Illouz fa notare che in questo contesto il concetto di mercato, rimasto sempre implicito nel gioco della ricerca del compagno, esce decisamente allo scoperto. Tutti vogliono fare il miglior affare possibile: trovare qualcuno che, a loro giudizio, abbia un «cartellino» con un prezzo più alto del proprio9. Internet offre dunque un nuovo contributo alla strumentalizzazione delle relazioni intime, presentandole attraverso l’ottica del «valore» presunto che ognuno ha nel mercato cibernetico dell’amore10. Negli incontri virtuali di solito è in gioco una particolare logica del desiderio. Gli utenti scorrono il sito per un po’, scoprendo quanti meravigliosi potenziali partner ci sono, e le loro aspettative arrivano alle stelle. Si immaginano che tutte le persone visualizzate siano in offerta e disponibili, a prescindere dal fatto che alcune di loro sembrino al di fuori della propria «portata». Ma quando il cercatore d’amore invia un messaggio e riceve una risposta positiva, il suo interesse cala di colpo. In quell’istante riaffiora l’insicurezza e si insinua il dubbio: «Perché mai una persona così attraente dovrebbe essere interessata a me? In lei ci dev’essere qualcosa che non va». Alla base c’è la percezione istintiva che anche gli altri sono sempre in cerca di qualcosa di meglio di quello che hanno, e che quindi passano senza sosta da una relazione all’altra. ­82

Gli incontri via internet, caratterizzati dall’abbondanza di scelta e dall’intercambiabilità delle persone, rispecchiano i principi dominanti del mercato nelle società capitalistiche post-industriali. L’ideologia che organizza la vita lavorativa in base a efficienza, selettività, razionalizzazione, e omologazione, si riflette anche nella ricerca altamente personalizzata del partner. Illouz osserva inoltre che internet produce un interessante divario tra le aspettative delle persone e la loro esperienza: «Internet rende di gran lunga più difficile l’esplicarsi di una delle componenti centrali della socievolezza, e cioè la capacità di negoziare con se stessi i termini in cui siamo disposti a entrare in relazione con gli altri»11. Quando ci mettiamo alla ricerca del compagno con una lista di requisiti, valutando in pochi istanti la compatibilità di un potenziale partner, stiamo precludendo a noi stessi la possibilità di relazioni che esulino dal controllo della mente razionale. Malgrado il particolare interesse contemporaneo per le scelte e le valutazioni razionali, i siti di incontri in realtà fanno rivivere una concezione dell’amore piuttosto obsoleta12. Invece di incontrarci spontaneamente, in giro, allo scoperto, dove nessuno sa niente dell’altro, ci siamo imposti dei meccanismi di selezione analoghi ai procuratori e ai matrimoni combinati del passato13. Ma incontrarsi nella realtà è tutta un’altra cosa. È solo a quel punto che i calcoli razionali cedono il passo alle fantasie e ai desideri inconsci, e l’inafferrabile jouissance è finalmente in gioco14. Ansie d’amore Uno dei problemi sempiterni delle relazioni amorose è che spesso capita di amare nell’altro qualcosa che non possiede realmente, qualcosa di sublime che l’amante crede di vedere ­83

nell’amato, e con cui si costruisce una fantasia che tiene vivo il suo amore. Ma l’incanto per un oggetto sublime non esistente può rapidamente trasformarsi in disgusto; per questo amore e odio sono due facce della stessa medaglia15. All’inizio della relazione è facile rimanere ammaliati dalla voce dell’amato, o essere affascinati dal suo modo particolare di giocare con i capelli. Quando l’incantesimo svanisce, può darsi che troveremo la sua voce insopportabile all’udito, e i suoi vezzi irritanti. Le caratteristiche dell’altro che avevano fatto nascere in noi il sentimento di amore con il passare del tempo possono contribuire alla rovina del legame romantico. Nella società di oggi, le difficoltà nel campo dell’amore sorgono direttamente dal nostro tentativo di eliminare l’ansia che l’amore porta con sé, e di alleviare l’incertezza che accompagna sempre il desiderio. Non finiremo mai di domandarci chi siamo precisamente noi per gli altri, e di preoccuparci di cosa realmente vogliono. Nelle relazioni sentimentali questi dilemmi affliggono specialmente i nevrotici, i quali spesso cercano soluzione alle loro difficoltà formando triangoli amorosi. Questi triangoli a volte esistono solo nella mente: ad esempio, un maniaco ossessivo, mentre è a letto con una donna, può immaginare di fare l’amore con qualcun altro, un’altra donna che conosce, o magari una celebrità. In una situazione analoga una donna isterica può immaginare che accanto a lei vi sia un’altra donna nel letto con il suo uomo, oppure che il suo compagno sia Brad Pitt. Se il partner in quello stesso momento immagina che lei sia Angelina Jolie, nella situazione si viene a creare una simmetria piuttosto divertente. Il nevrotico ossessivo teme che, avvicinandosi troppo all’oggetto del desiderio, questo lo divorerà o lo farà scomparire. Al fine di proteggersi, si inventa tutta una serie di regole, divieti e ostacoli, che diventano la struttura portante della sua vita ­84

amorosa. Ad esempio, una volta un uomo in cura presso uno psicoanalista argentino era rimasto seduto accanto al telefono per un paio di notti, aspettando una chiamata della donna che amava. In quel periodo in Argentina le linee telefoniche erano spesso fuori servizio, perciò l’uomo alzava continuamente la cornetta per vedere se funzionava. Tutto preso dal suo rituale ossessivo, l’uomo aveva finito per far sì che la donna non riuscisse a trovare la linea libera per parlare con lui. I nevrotici ossessivi attuano diverse strategie di autodifesa per tenere a bada l’oggetto del loro desiderio, in modo da prevenire il pericolo che venga turbata la loro esistenza accuratamente costruita. I rituali ossessivi quindi hanno come fine la protezione di se stessi, spesso portando il soggetto a rinchiudersi in un’esistenza solitaria. Le persone isteriche, al contrario, in genere cercano di suscitare il desiderio degli ammiratori, ma dopo poco tempo il loro interesse viene meno. Dal momento che ricercano una conferma della propria identità attraverso le reazioni degli altri, hanno bisogno di tenere vivo il desiderio altrui, ragione per cui agli isterici piace apparire difficili da conquistare. Nella società di oggi, fortemente basata sull’individuo, i meccanismi di protezione messi in atto da nevrosi ossessive e isterie sembrano presenti, in qualche forma, nella popolazione nel suo complesso. L’incapacità di formare relazioni amorose a lungo termine è sempre più diffusa. Nel tentativo di comprendere il fenomeno, alcuni psicoanalisti si sono chiesti se i cambiamenti della società abbiano accresciuto l’incapacità di amare e di aprire se stessi alle complesse richieste del desiderio. C’è ancora posto in noi per l’amore sublime, romantico, oppure siamo diventati una cultura narcisistica, interessata meno all’amore e al desiderio e più a trovare una soddisfazione sessuale immediata e temporanea? La ricerca ­85

del piacere appare più un tentativo di recuperare un po’ di jouissance perduta che un desiderio di relazionarsi all’altro come persona; per questo una volta consumato il rapporto affiora spesso un senso di solitudine. Lo psicoanalista francese Jean-Pierre Lebrun apporta un altro elemento all’analisi, domandandosi se le persone oggi abbiano un problema specifico riguardo a come affrontare la differenza sessuale. La questione è se i cambiamenti nel processo di socializzazione abbiano contribuito alla preoccupazione crescente nei confronti della propria identità sessuale. Ogni essere umano, quando completa il processo di socializzazione, cioè quando viene segnato dai divieti sociali non scritti, assume un’identità sessuale che, naturalmente, può non corrispondere necessariamente al proprio sesso biologico. In psicoanalisi questo processo di socializzazione è detto «castrazione simbolica». Il punto non è che l’individuo viene castrato fisicamente; piuttosto, una volta che il linguaggio, i riti culturali, e i divieti hanno «operato» su di lui, il soggetto viene segnato da un mancanza. Neanche l’identità sessuale che adotterà lo aiuterà ad affrontare tale mancanza, ma creerà solo una nuova serie di interrogativi circa i suoi desideri e le sue pulsioni. Lebrun esamina come i cambiamenti sociali attuali abbiano portato a un’evoluzione nel processo della castrazione simbolica. In una società dove l’autorità ha perso forza, pare esserci una svolta verso l’androginia e la bisessualità. Parallelamente, la nostra sessualità sembra presentarsi sotto forme narcisistiche. La conclusione pessimistica di Lebrun è che la sessualità sta diventando sempre più «una questione di rivalità agonistica e di consumo che non ha più a che fare con la scelta di un oggetto duraturo. È prima di tutto una questione di seduzione»16. La cultura dell’aggancio avvalora questa tesi: siamo in cerca di qualcuno da attrarre, sedurre, e quindi abbandonare quan­86

do troviamo un rimpiazzo di valore pari o superiore. Il potere del seduttore entra in azione nel momento in cui ottiene una risposta positiva. Ma il seduttore tiene il suo obiettivo a distanza: si rifiuta di pensare che l’obiettivo abbia i suoi stessi desideri e le sue stesse fantasie. Quando il seduttore si imbatte in tali desideri e fantasie, cercherà di far finta che nulla sia veramente successo. In questo modo difende le proprie fantasie da un possibile turbamento, e se stesso dal ruolo di oggetto del desiderio e delle fantasie altrui. Alla base di questi tentativi di apparire indifferente all’incontro amoroso, tuttavia, c’è anche il bisogno di tenere vivo il desiderio del partner temporaneo. Mantenendo una certa distanza, il seduttore spera di accrescere il proprio valore, fino a diventare un oggetto sublime del desiderio, impossibile da possedere completamente. Per Jacques Lacan il fascino di Don Giovanni sta nel fatto che nessuna donna lo può possedere. Le donne si invaghiscono di lui proprio perché sanno che non è possibile tenerlo per sé. Ciascuna donna è libera di crearsi una propria fantasia su di lui, senza il timore che lui possa rovinare tale fantasia sistemandosi stabilmente con lei. Questa logica della disponibilità potenziale è al centro della cultura dell’aggancio. Una persona, non solo si mostrerà disponibile a più di un pretendente temporaneo, ma metterà in chiaro che farà di tutto per non rimanere coinvolta. Almeno in apparenza, sembrerà avere il controllo totale della situazione. Amore e divieti Nelle questioni di amore e sessualità l’idea di una totale autonomia di scelta può a prima vista apparire liberatoria. Cosa c’è di meglio della libertà totale dai divieti sociali quando ab­87

biamo a che fare con il piacere sessuale? Che cosa meravigliosa finalmente non preoccuparsi più di quello che i genitori e la società considerano giusto e normale! Quant’è liberatorio poter cambiare le preferenze sessuali o addirittura i connotati fisici del proprio sesso! Nella sua analisi del desiderio umano la psicoanalisi ha sempre collegato i desideri con i divieti. Quando qualcuno sta male perché non può avere ciò che vuole, la soluzione non è liberarsi di quello che ne ostacola il raggiungimento, ma imparare in qualche modo ad «amare» la limitazione, e a vedere che l’oggetto del desiderio è attraente proprio perché impossibile. Al giorno d’oggi ben poco è categoricamente proibito nell’ambito della sessualità, eccetto la pedofilia, l’incesto, e lo stupro. Siamo spinti in maniera compulsiva a godere. La trasgressione sessuale viene venduta come la forma suprema di piacere. L’idea è che se ci alleniamo per migliorare le nostre prestazioni sessuali, imparando nuove tecniche e quindi praticandole senza sosta, la soddisfazione che possiamo ottenere non avrà limiti. «Cosmopolitan» incoraggia chi ancora non padroneggia le ultimissime tecniche del piacere ad andare a scuola di sesso. Ma, accanto al mercato del piacere, gli strumenti di comunicazione di massa ci informano anche circa la diminuzione del desiderio sessuale in molte relazioni consolidate. John Gray, autore di Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere, ora si domanda: «Perché mia nonna fa più sesso di me?»17. La risposta ha i toni, di nuovo, del consiglio: siate più rilassati, e adottate questa o quella strategia per stimolare il desiderio. I divieti ci sono sempre stati, e permangono ancora oggi, ma la dinamica è diversa. Nel passato i divieti venivano trasmessi attraverso rituali socialmente riconosciuti (come i riti di iniziazione nelle società pre-moderne e i divieti ­88

paterni nelle società patriarcali tradizionali), mentre oggi è l’individuo a fissare i propri limiti. È insieme artefice e legislatore di se stesso. I divieti sociali portano sempre con sé qualche forma di insoddisfazione. Spesso ci lamentiamo quando la nostra soddisfazione incontra degli ostacoli: ad esempio quando vogliamo possedere un oggetto che non possiamo permetterci, o quando siamo innamorati di una persona che non corrisponde il nostro amore. Ma, stranamente, quando gli impedimenti alla soddisfazione vengono rimossi e otteniamo quello che desideriamo, capita di avere la sensazione che ciò non fosse quello che davvero volevamo, e ci mettiamo a cercare qualcos’altro. Queste manifestazioni di insoddisfazione sono un aspetto essenziale di come funziona il desiderio. In una società che promuove una soddisfazione e una realizzazione di sé illimitate, ma che allo stesso tempo si basa sull’insoddisfazione (altrimenti non saremmo i consumatori accaniti che siamo!), anche il senso di frustrazione aggiunge altri problemi. Per l’individuo la frustrazione è spesso più penosa dell’insoddisfazione. Quest’ultima si intreccia con il desiderio, mentre la frustrazione è collegata al problema della jouissance, all’esperienza stessa del piacere. Jean-Pierre Lebrun scrive: «Quando la volontà di jouissance domina la sfera sociale, la solidarietà fraterna del proletariato lascia il posto alla competizione e alla rivalità agonistica. Da qui trae origine l’esacerbazione dell’odio sociale»18. A questo proposito, un aspetto del razzismo contemporaneo raramente discusso è la tendenza di alcuni a criticare la maniera in cui gli altri traggono piacere. Ci sono persone che si lamentano di come altri popoli e razze parlino a voce troppo alta o mangino cibi puzzolenti, oppure ne mettono in ridicolo i presunti eccessi sessuali. Alla base di queste critiche ­89

c’è il timore che gli altri abbiano accesso a una jouissance, a un piacere sconfinato oltre la propria portata. A sua volta ciò provoca un tipo particolare di frustrazione o invidia. Non si tratta solamente dell’insoddisfazione che ci procura il sapere che gli altri possiedono qualcosa che noi vogliamo: critichiamo il modo stesso in cui gli altri traggono piacere. Questa frustrazione per il presunto piacere provato dagli altri si può tramutare velocemente in violenza. Non vogliamo togliere agli altri un oggetto particolare del desiderio: vogliamo rovinare il loro presunto piacere e svilirli come esseri umani. Nelle relazioni personali i nostri tentativi di raggiungere vette immaginarie di godimento si concludono spesso senza successo. Per reazione, abbandoniamo il partner. La frustrazione si impossessa di noi, e la nostra incapacità di trovare la jouissance porta alla violenza contro l’altro. A quel punto alcuni cercano di ritrovare la jouissance perduta sviluppando dipendenze di qualche tipo, oppure compensano la mancanza cambiando un partner dopo l’altro. La scienza come cura delle nostre ansie Un modo per delimitare le nostre scelte è ricorrere alla nuova «scienza» della ricerca del partner. Helen Fisher è diventata celebre per l’idea che bisognerebbe studiare i livelli di serotonina e dopamina delle persone per sapere quali tipi di personalità possono andare bene insieme e dare vita a una relazione felice. Alle sue ricerche si ispira il funzionamento del sito di incontri Chemistry.com (eHarmony.com ne ha uno simile); attraverso lunghi questionari, il sito cerca di valutare il carattere della persona e il comportamento del cervello che lo influenza. I nomi stessi dei siti, «chimica» e «e-armonia (ar­90

monia elettronica)», ci ricordano che alla base della ricerca c’è l’ideale della coppia perfetta. Eppure il concetto stesso di «coppia perfetta» potrebbe non essere che un mito. Le persone si costruiscono regolarmente fantasie su ciò che vedono nell’altro. La psicoanalisi lacaniana chiama «oggetto a piccola» l’oggetto sublime che si suppone essere presente nell’altro. È qualcosa che non esiste realmente nell’altro, e neppure in noi stessi. Si tratta semplicemente di un surrogato per quella stessa mancanza che ci definisce. È questa mancanza costitutiva in noi che mette in movimento il desiderio e il piacere. Sono le fantasie circa quello che esiste nell’altro che rendono possibile l’amore. Lacan osserva che in amore diamo quello che non abbiamo, e vediamo nell’altro quello che l’altro non ha. Studi in apparenza scientifici come quello di Fisher cercano di catturare precisamente la natura di questa mancanza. Ma, sperando di trovare «certezze» nella misurazione di dopamina e serotonina, queste ricerche, più che superare la logica della fantasia, la reinterpretano, riformulandola nel linguaggio contemporaneo della scienza. Non finiremo mai di raccontarci storie intorno alle qualità sublimi percepite in un altro, perché non potremo mai afferrare la natura della nostra attrazione (o del nostro odio) per vie razionali. Queste nuove narrazioni, che si basino sugli oroscopi o su dati neurochimici, non sono così diverse nella loro logica: cercano di dare un nome a ciò che ci distingue come individui, un elemento che non può che sfuggire a ogni definizione. Sia nelle scelte razionali che in quelle inconsce, quando si sceglie si perde sempre qualcosa. I soggetti affetti dalla paura di impegnarsi spesso temono solo di essere privati di un’opzione alla quale, al momento della scelta, dovranno rinunciare. Alcuni di loro possono trovare arduo rinunciare a ­91

un oggetto proibito della libido (ad esempio, la madre). Altri possono avere problemi a rinunciare al fatto stesso che la loro soggettività è sempre incompleta, segnata da una mancanza. Dal momento che nulla potrà mai colmare tale mancanza, può essere di conforto tenere a distanza tutti i possibili sostituti, in modo da mantenere viva la ricerca. Anche se la paura di impegnarsi non è un fenomeno nuovo, di recente sembra essere assurta al livello di ideale di vita. La molteplicità delle alternative rafforza la credenza in quest’ideale, e la prospettiva di una relazione fissa viene rimandata sempre più lontano nel futuro. Il risultato di tutto questo scegliere può effettivamente consistere nel non avere niente in mano: un’esistenza da single. Anche le persone di mezza età citano la paura di impegnarsi per spiegare il loro girovagare da un partner all’altro. Una volta due stimati agenti di borsa britannici di mezza età mi raccontarono come mai cambiavano sempre le loro compagne. Il primo mi spiegò che non poteva mangiare la stessa cosa ogni sera. L’altro, rincarando la battuta, aggiunse che quando si fossero incontrati, negli anni a venire, vecchi e soli, avrebbero potuto dire: «Almeno ci siamo sempre riservati tutte le opzioni».

4.

Figli: averne o non averne?

Facciamo un bambino! La straordinaria toccante storia di una donna determinata ad avere una famiglia. Questo il titolo di un numero dell’«Observer». All’interno c’era un articolo su una donna di mezza età in cerca di un uomo che la mettesse incinta. Jenny Withers veniva descritta come una donna di 41 anni, «sentimentale, allegra e single», che non aveva mai pensato di spingere una carrozzina in un supermercato, terrorizzata com’era da tutto ciò che è «banale e domestico». Ma tutt’a un tratto il desiderio di un figlio si era impossessato di lei. Stanca di relazioni problematiche, logorata dalla sua vita egocentrica e apparentemente guarita dalle sue nevrosi grazie ad anni di terapia, Jenny aveva deciso di agire. Non voleva crescere un figlio tutto da sola, come avrebbe fatto se avesse usato lo sperma di un donatore anonimo. Perciò si era messa a cercare un uomo disposto non solo a offrire il proprio sperma, ma anche il proprio impegno quale presenza più o meno stabile nella vita del figlio. Aveva quasi convinto una coppia omosessuale a darle una mano, ma quando la coppia si separò, riferì il suo caso a un giornalista dell’«Observer». Cosa vuole Jenny? Chiunque risponda alla sua richiesta è invitato a spedire una foto, un curriculum, e una lettera in ­93

cui spiega perché vuole essere il suo co-genitore. Questi sono i criteri di Jenny: Immagino un co-genitore di ceto medio, un professionista, e con valori simili ai miei. Età e origine etnica non sono importanti. Le caratteristiche fisiche non contano un granché, anche se ovviamente preferirei un padre di bell’aspetto per mio figlio. In effetti, tutto ciò che veramente conta è che condivida gli stessi valori. Che sia eterosessuale, omosessuale, o impegnato in un’altra relazione è irrilevante. Voglio solo qualcuno che sia disposto a fare da padre e da co-genitore. Gradirei anche che fosse in grado di offrire un qualche supporto economico.

Il tono è quello di un annuncio di lavoro. Anche se dice di essere molto aperta riguardo al tipo di uomo, è evidente che ha alcune idee molto precise. Nello specifico, la persona deve essere una versione di lei al maschile: di ceto medio, di bell’aspetto, con gli stessi valori. Con questa controfigura, questo alter ego maschile, stipulerebbe un contratto da lei giustamente chiamato «divorzio prima del matrimonio», concepito in modo da eliminare ogni area di conflitto potenziale (altri figli, altri partner). Jenny rientra nella nuova categoria delle future madri «realiste». Sono donne che sanno cosa vuol dire crescere un figlio da sole (ad esempio, perché sono rimaste incinte da un donatore anonimo), e hanno deciso di prendere un’altra strada. Jenny spera di trovare una persona che la aiuti a tirare su il figlio, ma vuole anche avere controllo totale sul ruolo che questa persona svolgerà. Sarà preparata per ogni evenienza, e sta già pensando di rivolgersi a un terapeuta per aiutare il figlio a confrontarsi con la sua situazione, quando sarà il momento. Tuttavia, per quanto possa programmare tutto con cura, prima o poi dovrà accettare che le altre persone coinvol­94

te (il figlio e il co-genitore) sicuramente avranno aspettative e desideri in conflitto con i suoi. Il caso di Jenny è estremo. Ma un ideale analogo di controllo razionale ha ispirato per diverso tempo l’organizzazione di donne americane «Madri single per scelta». Di quest’organizzazione fanno parte donne che sono diventate genitori single per volontà propria. Il loro desiderio di avere un figlio evidentemente non prevedeva la presenza di un’altra persona. Anche se in seguito entrano a far parte di una coppia, il fatto che in origine si sono dedicate alla maternità da single dà loro il diritto di (continuare a) far parte dell’organizzazione. Ma fino a che punto la riproduzione è una questione di scelta razionale, e qual è il ruolo dei meccanismi inconsci? Fino a che punto siamo responsabili del nostro desiderio o del desiderio del nostro compagno, così come dei desideri dei nostri genitori e della società in generale, quando decidiamo se avere o no figli? E che conseguenze ha sul modo di riprodursi l’atteggiamento della società nei confronti della scelta? Dai diritti alle scelte La questione della scelta nella riproduzione è all’ordine del giorno da un paio di decenni. Un evento importante che ha dato più scelta alle donne, in Occidente, è stata l’invenzione della pillola contraccettiva, che ha permesso loro di separare il sesso dalla riproduzione, e di avere maggiore controllo sul proprio corpo. Ma anche al di là della disponibilità di tecnologie mediche per controllare la riproduzione, la percezione di cosa significhi avere un figlio è fortemente influenzata dal particolare contesto culturale in cui viviamo. Nella Jugoslavia comunista, dove sono cresciuta, l’aborto era largamente ­95

accessibile e la contraccezione era gratuita. Crescendo, mi hanno insegnato che la decisione se avere o no figli è personale. Ma questa autonomia di scelta non fu molto liberatoria quando affrontai la questione in prima persona. Non mi sembrava mai il momento giusto per fare un figlio. C’era sempre qualcos’altro di più urgente da fare: scrivere un libro, assumere incarichi di insegnamento in altre università, comprare un appartamento, visitare posti nuovi. Al dottore, chiedevo quanto ancora potevo attendere. Agli amici che avevano figli, chiedevo se si fossero mai pentiti della scelta. Cercavo di capire se coloro che non avevano figli erano comunque felici. Volevo fare una scelta ideale. Dopo i cambiamenti della situazione politica jugoslava, la decisione se avere o no figli venne presentata dai partiti nazionalisti di destra in bianco e nero. Le donne avevano sì il diritto di scegliere tra maternità e carriera, ma la maternità era la scelta giusta. In Croazia, il presidente Franjo Tudjman arrivò a sostenere che il diritto all’aborto aveva senso solo nella misura in cui rafforzava un altro diritto: il diritto di ogni famiglia di avere il numero di figli che vogliono. Sulla questione del diritto all’aborto, i paesi comunisti hanno cambiato idea diverse volte. Alcuni regimi consentivano l’aborto, poiché le difficoltà di un aborto illegale tenevano le donne al di fuori della forza lavoro. Altri (come il regime di Ceaus¸escu in Romania, per esempio), proibivano l’aborto al fine di accrescere la popolazione1. Purtroppo sono numerosi i paesi nel mondo che ancora oggi negano alle donne il diritto di abortire. In quei paesi che hanno conosciuto un dibattito pubblico di lungo corso intorno all’aborto, ha avuto luogo una sottile battaglia ideologica sulla differenza tra scelta e diritti. Ad esempio negli Stati Uniti, dopo che l’emendamento Hyde nel 1977 tolse i finan­96

ziamenti a Medicaid per gli aborti delle donne più povere, nei discorsi pubblici sull’argomento il «diritto all’aborto» venne gradualmente sostituito dal «diritto di scegliere». In modi spesso impercettibili, il linguaggio del consumismo cominciò a penetrare nel dibattito sulla riproduzione, relegando quegli ambiti politici che sono associati all’uso del termine «diritti» sempre più ai margini della discussione pubblica. Nella sua analisi del diritto all’aborto negli Stati Uniti, Rickie Solinger osserva che l’uso del termine «scelta» fu, fin dall’inizio, carico di connotazioni di classe. Le donne di ceto medio che avevano difficoltà a restare incinte erano viste come il gruppo privilegiato. Avevano numerose alternative per far fronte alla loro sfortunata condizione. Potevano sperimentare costose procedure di riproduzione assistita, potevano pagare qualcuno che portasse in grembo il bambino per loro, oppure potevano adottare. Le donne meno abbienti, al contrario, prive degli stessi mezzi economici, non avevano tutte queste opzioni a disposizione. Ma quando una donna povera faceva un figlio, tale scelta veniva spesso considerata sbagliata, in quanto irresponsabile dal punto di vista economico. Ragazze madri e donne povere non sposate venivano di frequente spinte dai medici a non fare più figli, o a dare i loro bambini in adozione. In alcuni stati dell’America la sterilizzazione forzata di donne povere di colore o native americane proseguì anche dopo l’approvazione, all’inizio degli anni Settanta, di una legge che ne vietava la pratica2. Nei dibattiti pubblici sui diritti riproduttivi divenne evidente che solo le donne che avevano risorse finanziarie godevano legittimamente dell’accesso a una maternità socialmente accettata, mentre alle donne che non avevano tali risorse veniva negato il diritto stesso di diventare madri3. Nel caso di madri povere che ricevevano sussidi sociali, la scelta era più complicata. Da ­97

una parte la decisione di concepire era bollata come ingiusta nei confronti del figlio; dall’altra era vista come una particolare scelta economica che permetteva alla donna di ricevere i sostegni dallo Stato. In molti ritenevano che una donna di ceto medio non avrebbe deciso di avere un figlio se non fosse stata in grado di mantenerlo, mentre una donna povera di colore sarebbe rimasta incinta solo per poter richiedere i sussidi sociali4. Secondo i conservatori, critici verso il sistema del welfare, le donne povere erano povere perché facevano scelte sbagliate. Inoltre non incarnavano l’ideale di legittimo consumatore affermatosi negli Stati Uniti a partire dagli anni Sessanta. Considerate approfittatrici del sistema del welfare, e quindi un onere per la società, venivano anche viste come persone che non contribuivano al rapido sviluppo della società dei consumi. Dato che molte di queste donne povere non avevano né lavoro né soldi, non erano in grado di consumare tanto quanto era ritenuto auspicabile per la prosperità della nazione. I diritti e le scelte conobbero un’ulteriore evoluzione negli anni Settanta: da una parte vennero assegnati diritti ai feti, mentre dall’altra anche ai padri vennero riconosciuti diritti speciali nei confronti dei propri figli. Allo stesso tempo, prese piede il concetto di diritti dell’infanzia. In tutto ciò, come nota Solinger, alle donne americane veniva riconosciuta solo la «scelta», ovvero una «versione light dei diritti»5. Scelta e maternità surrogata Nell’immaginario americano, la scelta di una donna povera di avere figli era vista in termini sempre più negativi. Fu allora che nel dibattito pubblico sui modi di limitare tali scelte ­98

emersero a fasi alterne proposte quali la sterilizzazione, l’uso a lungo termine della contraccezione, e soprattutto l’affidamento in adozione. Le donne di ceto medio, invece, venivano giudicate economicamente capaci di scegliere non solo di avere il proprio figlio biologico, ma anche di adottare un bambino o pagare, per una maternità surrogata, quelle donne che non erano ritenute capaci di compiere scelte razionali. Prendiamo il caso della giornalista Alex Kuczynski, donna benestante la quale, a causa della sua infertilità, decise di rivolgersi a Cathy, una madre surrogata di bassa estrazione sociale, perché portasse in grembo suo figlio. Alex apre il racconto della sua esperienza con questa osservazione: Mentre passavano i mesi, accadde una cosa curiosa: più la pancia di Cathy si ingrandiva, più mi accorgevo di essere contenta, se non euforica, di non essere io incinta. Ero inebetita dall’idea di avere un figlio, ma mi sentivo anche segretamente, stranamente, continuamente sollevata, alleggerita dagli aspetti fisici della gravidanza. Se avessi potuto sostenere una gravidanza completa, lo avrei fatto. Ma quando, durante le escursioni, trasportavo il mio cane di quattro chili e mezzo con un’imbracatura come quelle per i neonati, già dopo un’ora mi faceva male la schiena. Più il corpo di Cathy si allargava, più crescevano le sue limitazioni. Io, al contrario, mi godevo allegramente i miei ultimi mesi da non-mamma, facendo rafting sulle rapide di livello 10 del fiume Colorado, sfrecciando a quasi cento all’ora sulle piste di sci, bevendo bourbon, e andando al Superbowl6.

Alex prosegue nel giustificare la sua soddisfazione nell’aver affidato a terzi la sua gravidanza, osservando che lei stessa non ne sarebbe stata capace, che probabilmente ne avrebbe sofferto troppo fisicamente e psichicamente, mentre Cathy era semplicemente più adatta. Cathy stessa si paragonava a uno «sforna-tutto», affermando che essere incinta non co­99

stituiva nessun problema per lei, né dal punto di vista fisico né da quello emotivo. La decisione di Cathy di affrontare la gravidanza per un’altra donna può esser letta come l’esercizio supremo della scelta: la scelta di usare il proprio corpo come risorsa per il proprio vantaggio personale. Tuttavia, lei stessa offriva una spiegazione diversa del proprio comportamento. Essere incinta per conto di un’altra persona le conferiva il ruolo di benefattrice, qualcuno capace di realizzare il sogno di un’altra donna. Cathy si era costruita una fantasia personale su cosa volesse dire essere una madre surrogata. Non si trattava solo di essere pagata per le sue fatiche; a detta sua, stava compiendo una buona azione per qualcun altro. È naturale chiedersi quale storia personale ci sia alla base di questa fantasia. Forse qualcosa riguardante il modo in cui era stata educata? Come considerava il bambino che portava dentro di sé? Era un dono che sentiva continuamente il bisogno di fare? E a chi? L’idea del bambino come dono ha spesso un particolare valore simbolico per la madre surrogata. Può avere a che fare con l’immagine di un sacrificio dal significato religioso, oppure con il desiderio inconscio di saldare un debito oneroso di qualche tipo verso una persona particolare del suo passato, alla quale, nella sua immaginazione, il bambino viene offerto in dono. Per la madre surrogata l’evento della gravidanza è in sé pieno di possibilità. Oltre a considerare il processo della gravidanza come un dono a un’altra donna, è possibile che tragga un particolare piacere dall’alterazione del proprio corpo, o dallo status di cui gode una donna incinta nella famiglia e nella società; è persino possibile che tragga una soddisfazione stoica dal mostrarsi capace di superare il distacco dal bambino quando se ne dovrà separare. Quanto ad Alex, il suo racconto di come si sia rivolta a ­100

una madre surrogata può essere letto in una chiave velatamente classista. La gravidanza surrogata viene presentata come un tipo di attività che ogni donna dalla mentalità aperta dovrebbe affidare a terzi. Proprio come è normale rivolgersi a persone di diversa estrazione sociale perché svolgano certe mansioni per noi, così una donna benestante e impegnata con il lavoro può vedere nella surrogazione una comodità che ogni brava consumatrice può concedersi. Come scegliere se stessi scegliendo un figlio Nelle questioni riproduttive, scelta non significa solo la scelta dei genitori di avere o no figli. Quando scelgono di averne, in qualche modo sono anche chiamati a «scegliere» di diventare genitori. Sono chiamati a identificarsi con il ruolo della madre o del padre. A volte sembra che questa scelta non l’abbiano mai compiuta; è il caso di madri che si comportano come sorelle maggiori verso le proprie figlie, o di uomini che si rifiutano di assumere il ruolo paterno. La pubblica messinscena del dramma della ricerca del padre è diventata un fenomeno fin troppo comune. Al Maury Povich Show, programma televisivo americano, quando l’argomento della puntata riguarda una disputa sulla paternità, ai partecipanti viene offerta la possibilità di un test gratuito del DNA. Ma essere riconosciuti come padri biologici, e assumere il ruolo di padre in quanto figura preposta al bene del figlio sono due cose assai diverse. Altri problemi sorgono quando una donna sceglie di rimanere incinta attraverso lo sperma di un uomo defunto: in casi del genere, è in questione la natura del consenso da parte del padre. In Francia è nata una disputa legale intorno al diritto di un figlio di portare il ­101

nome del padre deceduto, in un caso in cui la madre aveva usato il suo sperma congelato per restare incinta. In Israele un tribunale ha decretato che una coppia di genitori poteva usare lo sperma del loro figlio morto per inseminare una donna che lui non aveva mai conosciuto. I genitori sostenevano che una decisione simile avrebbe permesso la continuazione della stirpe familiare. Anche se non c’era alcuna testimonianza scritta della volontà del figlio di diventare padre, la famiglia affermò che questo era sempre stato il suo desiderio. In un caso simile, un tribunale americano decretò che la madre di un ragazzo morto a 21 anni in un incidente aveva il diritto di farne conservare il corpo, in modo tale che nel futuro i medici ne avrebbero potuto prelevare lo sperma. Secondo la donna, il figlio le aveva comunicato il desiderio di avere tre figli, dei quali aveva persino scelto i nomi. Per esaudire questo desiderio, e tenere in vita una parte del corpo del figlio, si era rivolta al tribunale. In casi del genere, in cui per l’inseminazione artificiale viene chiesto di usare lo sperma di un defunto, spesso le idee di scelta e di diritti vengono reinterpretate in maniera nuova. La compagna (o i genitori, nel caso israeliano e in quello americano), in genere cita il diritto di avere un figlio dallo sperma del defunto, e il tribunale cerca di stabilire quale sarebbe stata la scelta dell’uomo se fosse stato ancora vivo. Se poi guardiamo ai figli concepiti per mezzo dello sperma di una persona defunta, bisogna chiedersi come saranno in grado di distaccarsi dai padri che non ci sono più, dal momento che la loro nascita è in qualche modo legata alla volontà di perpetuare il ricordo del caro estinto. Penseranno di essere stati creati su misura, una specie di replica della persona defunta? Può benissimo darsi che alcuni di questi figli si sentiranno oppressi dalle fantasie di chi li ha fatti venire al ­102

mondo. Si chiederanno inoltre se chi li ha voluti non avesse anche altri scopi in mente, e potrebbero essere in collera per il fatto di non avere avuto scelta al riguardo. Certi tipi di fantasie si manifestano nella scelta del nome del figlio. Il filosofo francese Louis Althusser, ad esempio, rimase profondamente segnato dal fatto di essere stato chiamato con il nome di una persona morta. Da giovane, la madre era stata innamorata di un uomo di nome Louis. Dopo la tragica morte di Louis, sposò un uomo che non amava veramente, e decise di chiamare il loro figlio Louis. Questa scelta segnò per sempre il giovane Louis; si sentiva il sostituto dell’amante scomparso. Anche in questo caso, dunque, una madre, che non riusciva ad affrontare la perdita, cercava simbolicamente di tenere in vita il suo amato per mezzo di un figlio che ne facesse le veci. Il problema, tuttavia, era che il ragazzo, nel ruolo simbolico di sostituto della vecchia fiamma, aveva perso la possibilità di avere un’identità solo sua e di essere amato dalla madre a prescindere dalla relazione con l’amante perduto. La difficoltà di compiere scelte nell’ambito della riproduzione è un dilemma oggi sempre più comune. C’è chi cerca di scendere a patti con questi dilemmi inventandosi i più astrusi accordi contrattuali. Negli Stati Uniti due uomini gay decisero di avere un figlio rivolgendosi a una donna per il dono degli ovuli, e a una seconda per la gravidanza. La coppia stabilì che la madre «genetica» avrebbe potuto contattare il figlio solo dopo il compimento dei sei anni, mentre la madre «di grembo» avrebbe visto il neonato solo per pochi istanti dopo il parto. Accordi così complessi cercano di rendere vaga la questione di chi sia la madre, e di limitare ogni possibile pretesa sul bambino. Se da un lato la coppia spera di risolvere il problema razionalmente, dall’altro non sarà mai in grado di ­103

controllare il modo in cui il bambino si creerà le sue fantasie e vivrà i suoi dilemmi sul ruolo della madre nella sua vita. La psicoanalisi riconosce che molti aspetti della decisione di avere figli non possono essere spiegati in termini di scelta razionale. In primo luogo, è possibile che la decisione sia fortemente influenzata dai propri genitori. Alla base del desiderio di una donna o di un uomo di avere un figlio vi possono essere i desideri della madre o del padre dell’uno o dell’altra. Per l’uomo, il figlio può avere il significato di un dono fatto alla propria madre. La donna, d’altro canto, può sminuire il ruolo genitoriale del compagno (il padre biologico), affidando al proprio padre il ruolo di autorità genitoriale più importante. In secondo luogo, è possibile che una donna insista per avere un figlio perché cerca una conferma dei sentimenti del partner. Potrebbe affermare: «Se mi ami, fai un figlio con me». In questo modo non esprime il desiderio di avere un figlio, ma piuttosto mette in discussione il desiderio del partner verso di lei. Da parte sua, un uomo dal quale la compagna esige un figlio potrebbe facilmente vedere il suo amore per lei diminui‑ to dopo la nascita del figlio. È possibile che all’inizio abbia idealizzato la compagna, e abbia provato per lei un amore profondo, ma che in seguito alla maternità veda affiorare in superficie i desideri inconsci verso la propria madre. Poiché la madre è un oggetto d’amore proibito, la compagna, una volta diventata mamma, finisce per assumere il ruolo di quell’oggetto del desiderio incestuoso. Freud ha osservato che alcuni uomini risolvono il dilemma scindendo l’oggetto del loro amore in due: da una parte la donna verginale, idealizzata (che rimane proibita), dall’altra la puttana (una donna disprezzata, ma di cui l’uomo può godere sessualmente). Parecchi casi di donne in cerca di un donatore di sperma evidenziano il desiderio di una persona idealizzata che sarà ­104

per sempre inaccessibile. Il «New York Times» riporta che le donne in cerca di donatori di sperma per prima cosa richiedono informazioni di ogni tipo sul donatore: risultati scolastici, costituzione fisica, dentatura. Può capitare che queste donne si innamorino del donatore idealizzato, e il fatto che sia inaccessibile non fa che rafforzare il loro sentimento. Per quanto razionale possa apparire, la scelta di un donatore particolare fra tanti tocca sempre da vicino le intricate dinamiche del desiderio. È possibile che la donna scelga un donatore che assomigli a suo padre, o all’amante perduto, oppure un donatore che non potrà competere con lei per l’amore del figlio. Potrebbe scegliere qualcuno che in un certo senso sarà sempre suo: dato che è irraggiungibile, le fantasie su di lui non saranno mai infrante dalla realtà7. Non c’è modo di sapere, però, come il figlio reagirà di fronte ai complessi desideri che hanno animato la decisione della madre di farlo venire al mondo. Dai desideri alle pretese Il caso recente di un parto ottogemino negli Stati Uniti ha stimolato nuovi dibattiti sulla scelta e le pretese procreative. Il fatto che Nadya Suleman, la madre degli otto gemelli, fosse una donna sola con già sei figli a carico, tutti concepiti per mezzo della fecondazione in vitro (FIV), ha sollevato la questione se si debba porre un tetto al numero di figli che è possibile concepire attraverso la riproduzione assistita, e in particolare al numero di ovuli fertilizzati da impiantare simultaneamente. All’epoca dell’ultima seduta di FIV alla Suleman vennero impiantati sei ovuli fertilizzati rimasti dalla seduta precedente. (Due ovuli in seguito si separarono, di qui gli otto figli.) La Suleman rispose alle critiche affermando: ­105

«Questi ovuli sono figli miei, era tutto quello che avevo, e li ho utilizzati. Sì, ho rischiato. È stata una scommessa, ma fare un figlio è sempre una scommessa». Quello che aveva sempre voluto, raccontò la Suleman, era avere una famiglia grande. Figlia unica, senza un legame forte con i genitori, da grande aveva voluto rimediare a questa mancanza votandosi al ruolo di madre amorevole. Sua madre, Angela, ha osservato che Nadya si è servita del compagno come donatore di sperma per tutti e quattordici i figli, ma si è sempre rifiutata di sposarlo: «Lui era innamorato di lei e voleva sposarla», raccontò Angela. «Ma Nadya voleva avere figli per conto proprio». È importante tenere presente che Nadya è una donna devota, il che spiega i nomi biblici dati a ciascuno degli otto gemelli. Alla domanda se avesse riflettuto sul fatto di non avere risorse sufficienti per far fronte a una famiglia così grande, Nadya rispose: «Ho sempre creduto nell’aiuto di Dio». Il caso della Suleman solleva molteplici problemi riguardo ai limiti delle scelte riproduttive. È compito della professione medica imporre dei limiti alle pretese dei pazienti di ricorrere alla FIV, specialmente nei casi in cui una donna ha già tanti figli o è per qualche ragione incapace di provvedere al loro sostentamento? Dovrebbe esserci un limite al numero di ovuli fertilizzati che è possibile impiantare volta per volta? (Dato che l’impianto di molti ovuli fertilizzati implica rischi notevoli sia per la madre che per i figli, quantomeno il medico dovrebbe avere l’obbligo di informare sui potenziali rischi.) È giusto che il donatore di sperma (il padre biologico) abbia il diritto di imporre un limite al numero di volte che il suo sperma viene utilizzato nel processo di inseminazione? Ed è giusto che ci sia un limite al numero di figli che contribuisce a generare, o al numero di donne che ne utilizzano lo sperma? ­106

Se si esaminano queste domande attraverso l’ottica delle teorie psicoanalitiche, la questione è se ci si trovi di fronte a una qualche struttura di base di tipo psicotico. Quando una persona ha il desiderio insaziabile di avere tanti figli, cosa simboleggiano per lei i figli? Nel caso della Suleman, la gente rimase colpita dal fatto che la donna considerava gli ovuli fertilizzati come un’estensione di se stessa, come risorse da non sprecare, e che il parere del donatore non la riguardasse minimamente. Né sembrava preoccupata da come avrebbero reagito i figli di fronte alla scelta di averne così tanti. Inoltre, furono in molti a notare l’impressionante somiglianza del volto della Suleman con quello di Angelina Jolie, e a ipotizzare che fosse ricorsa alla chirurgia estetica per ottenere quella rassomiglianza. Anche la famiglia della Jolie è in rapida espansione: l’affinità estetica suggeriva perciò un livello più profondo di immedesimazione con l’attrice. Gli psicoanalisti hanno osservato un’altra importante evoluzione nel desiderio di maternità delle donne di mezza età. Una donna in carriera può temere le conseguenze per il proprio lavoro; una donna sposata può essere preoccupata dell’impatto che un figlio avrà sul suo matrimonio; un donna single può chiedersi se ce la farà da sola con un figlio. Ansie di questo tipo possono spingere le donne verso la psicoanalisi, perché le aiuti a decidere se veramente vogliono avere un figlio. La paziente allora dovrà affrontare la questione di quanto lei stessa era stata desiderata dai propri genitori. E talvolta scoprirà di non essere stata desiderata affatto, e di essere stata in qualche modo rifiutata, più o meno direttamente. Come futura madre, farà di tutto per evitare di compiere lo stesso errore. Ma la peculiare evoluzione cui si assiste oggi è quella dal desiderio alla pretesa. Invece di chiedersi se sono pronte a ­107

far fronte a un figlio, le pazienti esprimono la pretesa di avere un figlio. Alcune affermano: «Voglio avere un figlio. È mio diritto averne uno, ma mio marito me lo impedisce». Altre ritengono che sia un medico a ostruire l’esercizio di tale diritto. L’ideologia della scelta ha determinato questo passaggio dal desiderio alla pretesa. Ciò solleva il problema di quali saranno le conseguenze per i figli futuri. Un conto è affrontare il problema di quanto ci hanno voluto i nostri genitori, un altro è accettare che ci abbiano «preteso». Una donna che «pretende» di avere un figlio probabilmente crede che il figlio la completerà come persona. Per questo potrà trovare difficoltoso distaccarsi dal neonato, il che a sua volta potrà risultare soffocante per il bambino una volta cresciuto. Inoltre, nel caso in cui un figlio sia stato concepito con l’aiuto di un donatore, la madre dovrà spiegare al figlio tale scelta, e raccontargli come mai abbia deciso di procreare in quel particolare modo. È probabile che il figlio a questo punto ponga una serie di domande relative al padre. La madre dovrà accettare queste domande, e offrire al figlio il conforto di sapere che è stato voluto fortemente e che, anche se il padre biologico è assente, ci sono tante altre persone a volergli bene. In un’intervista televisiva Nadya Suleman ha ammesso che i suoi figli più grandi le chiedono ogni giorno del padre. La sua risposta è che rivelerà loro l’identità del donatore quando compiranno diciotto anni. Tuttavia, quando arriverà quel momento, i figli si troveranno di fronte alla «scelta» se provare o meno a rintracciare il padre. Far pesare sui figli questa scelta può fornire alla madre il modo per scansare un argomento delicato. Ma il padre/donatore non sembra avere scelta alcuna su cosa sarà della propria vita dopo che ha donato il suo sperma a un’amica. ­108

La scelta impossibile Molte donne, tormentate da desideri contrastanti circa la decisione se avere figli o no, spesso si pongono, consciamente o inconsciamente, il problema di come loro stesse sono venute al mondo. Alcune di loro raccontano di aver riflettuto sulla natura del desiderio delle loro stesse madri, riconoscendo che la decisione di avere (o non avere) figli è stata influenzata dal modo in cui hanno interpretato il desiderio delle loro madri di metterle al mondo. In una serie di colloqui con donne che avevano difficoltà a decidere se avere un figlio, la psicoterapeuta americana Phyllis Ziman Tobin ha scoperto che parecchie di loro ricollegavano la loro incertezza all’atteggiamento ambivalente delle proprie madri. Ciò si verificava soprattutto nelle donne le cui madri erano state influenzate dai contraddittori stereo‑ tipi culturali degli anni Sessanta e Settanta. Se da una parte moltissime donne americane entravano allora a far parte della forza lavoro, dall’altra la casalinga rimaneva l’ideale di donna. Molte donne poi dichiaravano di temere il cambiamento, e la perdita di controllo che ne consegue. Erano preoccupate dal cambiamento del proprio corpo e dello stile di vita, e la responsabilità di un figlio era per loro fonte di ansia. Alcune si domandavano il significato vero di «madre»: quali sono i comportamenti e i sentimenti di una madre? Quale il suo aspetto fisico? «Non voglio diventare tarchiata come mia madre» era un ritornello costante. L’idea dell’aspetto esteriore di una madre aveva un significato diverso per queste donne indecise se avere o meno figli. Una paziente, Jean, raccontò che, dopo aver partorito, sia sua madre che sua nonna avevano sofferto di depressione. Era preoccupata dalla possibilità di continuare su quella strada. A ciò si aggiungevano i racconti ­109

della madre: per quest’ultima era stato un sacrificio rimanere a casa per i figli, e la situazione era migliorata solo quando era potuta tornare al suo lavoro di insegnante. Un’altra paziente, Diana, non riusciva a superare il timore di venire abbandonata da sola con un bambino, come era successo a sua madre quando lei era nata. Alla paura della solitudine si aggiungeva la paura che il matrimonio potesse crollare se avesse avuto un figlio. Vinta da queste preoccupazioni, Diana era giunta alla conclusione che non voleva ripetere la storia della madre, la quale aveva fatto scappare il marito ed era finita divorziata e infelice. Per lei la decisione di avere un figlio era strettamente legata a quello che la sua nascita aveva rappresentato per la madre. Ma quando fu diagnosticato un cancro a suo marito, Diana decise infine di fare un figlio. L’idea di perdita aveva assunto un nuovo significato: se la paura di perdere il marito prima le aveva impedito di avere un bambino, ora la stessa paura la spingeva a voler diventare madre. Una donna che abbia deciso, dopo tanto riflettere, di fare un figlio, ma si scopre incapace di concepire, subisce un nuovo trauma. Non ha più la sensazione che tutto sia possibile. Nell’ideologia corrente, per la quale vale l’imperativo «avere tutto», a quella perdita corrisponde direttamente un senso di impotenza totale. La scelta è uno strumento potente nelle questioni procrea‑ tive. Anche se le scelte che facciamo riguardo all’avere figli sono spesso del tutto inconsce, non possiamo fare a meno del potere che ci dà il sapere di avere una scelta. Persino quando una donna scopre di essere biologicamente incapace di fare un figlio, a volte si consola dicendo a se stessa che comunque non avere figli è una propria scelta. Non è raro che una coppia sterile continui a usare metodi contraccettivi anche dopo aver saputo che non può concepire. È segno che, nonostante ­110

tutto, considerano ancora la riproduzione una questione di scelta. Da qualunque lato la si guardi, la decisione se avere figli o no mette le persone di fronte alla perdita. Può essere la paura di perdere la propria autonomia, di rovinare la relazione con il compagno, di perdere il controllo, di perdere la linea, o di perdere il proprio fanciullino interiore. Dall’altra parte, la decisione di non avere figli porta con sé la perdita di un futuro immaginato, di un legame ardentemente desiderato con un altro essere umano, della possibilità di continuare la stirpe familiare, o di un dono da fare al compagno o ai propri genitori. Può persino comportare la perdita di un’immagine narcisistica: l’immagine di se stessi da giovani riprodotta sul viso di una figlia o di un figlio.

5.

Scelte obbligate

Quando riflettiamo su come sposarci e con chi, che lavoro fare e dove, dove e come abitare, le alternative abbondano: in ognuno di questi casi ci troviamo di fronte alle realtà, molto diverse, prospettate da ciascuna decisione. I dilemmi più gravosi, tuttavia, si verificano quando, per chi decide, c’è in gioco più di un risultato immediato. Le scelte di vita importanti non solo creano scenari futuri alternativi; reinterpretano anche il nostro passato. Mihnea Moldoveanu e Nitin Nohria, docenti di gestione d’impresa specializzati in psicologia della motivazione, scrivono che «l’ansia che caratterizza le decisioni non deriva da un desiderio nascosto di fermare il tempo, e diventare quindi senza tempo e immortali, ma dal desiderio, non appagato, di armonizzare quello che siamo con quello che avremmo potuto essere»1. Poi, naturalmente, ci sono le scelte che all’epoca sembravano innocue, ma in retrospettiva scopriamo che hanno cambiato tutto. Per il soggetto di oggi, pienamente in grado di scegliere, non è solo la molteplicità delle possibilità che produce ansia, ma soprattutto la paura della perdita. Quando corriamo un rischio, tendiamo a dare maggior peso a quello che possiamo perdere che a quello che abbiamo da guadagnare2. ­113

La poesia di Robert Frost La strada non presa riassume questo dilemma sulla scelta; M. Scott Peck, riutilizzandone un verso per il titolo del suo fortunato libro di autoaiuto La strada meno battuta, non fa altro che attingere all’eco che ha nella cultura americana questa riflessione sulla scelta, tra le più celebri e ambigue del ventesimo secolo. Divergevano due strade in un bosco, e io – Io presi la meno battuta, E di qui tutta la differenza è venuta.

Decidere per la «strada meno battuta» sembra un proposito coraggioso: riassume in sé tutta l’ideologia del rischio, del farcela da soli, incamminandosi per sentieri solitari. Eppure la strada non presa continuerà ad assillarci. Per resistere al tarlo del dubbio, imbastiamo storie, discorsi per giustificare la nostra scelta, citando i presagi che avevamo, e quello che oggettivamente distingueva un’opzione dall’altra. Ma in verità, come i due sentieri simili nel bosco di Frost, all’epoca è probabile che non vedessimo alcuna differenza. La scelta che ha di fronte un individuo che vive nel ventunesimo secolo è quella tra due sentieri assai simili nell’aspetto. Ciò che ci rende ansiosi è il fatto che una scelta a prima vista indifferente può avere ripercussioni notevoli. Tutto dipende da svolte apparentemente casuali, anche se in seguito racconteremo di aver compiuto scelte coraggiose in situazioni dove, in verità, era impossibile fare previsioni. La memoria, attraverso un meccanismo di compensazione selettivo, produce l’immagine della «strada meno battuta». Ammanta di valore ed eroismo una linea d’azione, all’epoca magari scelta a caso. E conferisce fascino al sentiero che non si è preso. Rievocando quello che avremmo potuto essere è possibile ­114

alleviare l’insoddisfazione per quello che siamo e per quello che eravamo. È fonte di profonda disperazione pensare che per noi non ci potesse essere altro che noia e infelicità, a prescindere da quale strada avremmo preso. Si tratta di un pensiero, tra l’altro, vicino al senso calvinista del tragico che tormentava Robert Frost. Scelte impossibili Se al centro della poesia di Frost vi è il desiderio di sapere cosa sarebbe potuto accadere se si fosse fatta una scelta diversa, e un accenno di rimpianto per la perdita di tale possibilità, oggi, all’inizio del ventunesimo secolo, molte persone devono fare i conti con l’impossibilità di fare qualunque scelta. Quando ci sono tante opzioni tra cui scegliere, quando la scelta diventa qualcosa di opprimente, e quando la responsabilità per aver compiuto una scelta sbagliata è causa di tanta ansia, sprofondare nell’indecisione può sembrare l’unica salvezza dai rimpianti e dalla delusione che possono seguire a una scelta. A differenza dell’uomo nel bosco di Frost, l’individuo di oggi non ha davanti solo due strade tra cui scegliere, ma un crocevia dove si incontrano molte strade. Quando le possibili direzioni da prendere sono così numerose, e quando è così importante prendere quella giusta, l’individuo può procrastinare all’infinito, informandosi minuziosamente sulle diverse opzioni, e non decidendosi mai, in modo da prevenire la possibilità del fallimento. Sopraffatte dalla gamma sconfinata di possibilità, le persone trovano centinaia di modi per evitare di compiere scelte. In un libro dal provocatorio titolo Dovremmo lasciarci? lo psichiatra americano Peter D. Kramer esamina il comportamen­115

to delle persone nelle scelte riguardanti la vita sentimentale3. Chiunque abbia vissuto una relazione a lungo termine ha affrontato in un momento o nell’altro la domanda di Kramer. Alcuni la scartano immediatamente, altri ci riflettono per anni. La variabile centrale è quanto questa domanda divenga ricorrente e pressante nella coppia. Ma molti di noi negano semplicemente che sorga la questione. Ci si può persuadere, ad esempio, che rimanere all’interno di una relazione sia l’unica opzione coerente con la propria identità; oppure è possibile giustificare la continuazione del rapporto usando l’argomento opposto: che anche lasciandosi, in fondo non cambierà niente. In entrambi i casi, il soggetto si convince di non avere davvero scelta. Inoltre, possiamo negare il fatto che le nostre azioni spesso hanno effetti irreversibili. Una persona può lasciare il partner, pensando che se lo vuole potrà tornare sui suoi passi e cancellare quello che ha fatto. Anche questa è una negazione della scelta: si dà per scontato che, pur avendo preso una strada, si possa sempre ritornare indietro e prendere l’altra. La storia d’amore che abbandoniamo proseguirà, per così dire, anche in nostra assenza, e perciò ci rifiutiamo di ammettere la perdita che consegue alla decisione di andarsene. Oppure, conserviamo l’illusione che una svolta si trovi appena dietro l’angolo. «Posso andarmene domani», «Sono liberissimo di fare le cose in modo diverso». Magari non lasciamo mai il partner, ma anche soltanto concepire l’eventualità che questo accada ci fa sognare cambiamenti radicali, senza spingerci mai a scegliere e ad accettare la perdita. Così facciamo di tutto per posporre la scelta o renderla impossibile. Nella sua analisi della dialettica servo-padrone, Hegel osserva che il padrone rischia la vita in cambio del riconoscimento pubblico. Il servo rinuncia al riconoscimento in cambio della certezza riguardo al futuro. Chi evita la scelta ­116

si comporta come il servo: si aggrappa alla certezza anche a costo di rimanere intrappolato nell’infelicità. La paura dell’ignoto può essere più difficile da sopportare degli imprevisti di ciò che conosciamo bene. Tuttavia, la scelta può essere impossibile non solo in situazioni che implicano un salto nell’ignoto, ma anche in casi in cui l’idea di dover scegliere sembra semplicemente inconcepibile. Uno degli esempi più strazianti di scelta impossibile compare nel romanzo di William Styron La scelta di Sophie. Al centro della storia ci sono i terribili ricordi di Sophie del periodo vissuto in un campo di concentramento, quando un dottore nazista la costrinse a scegliere quale dei suoi due figli dovesse vivere e quale invece sarebbe stato mandato nelle camere a gas. Il dottore le dice che se non sceglie, moriranno entrambi i figli. Sophie sceglie il figlio e sacrifica la figlia. L’evento la segnerà per sempre. Per qualche tempo cerca una qualche consolazione nel pensiero che potrebbe aver salvato il figlio, ma alla fine scoprirà che anche lui è morto nel campo. Durante la conversazione con il dottore, Sophie spera di ottenere un qualche vantaggio spiegandogli di essere una polacca cattolica e non un’ebrea. Il dottore le risponde: «Sei una polack, non una yid. E questo ti dà un privilegio, una possibilità di scelta»4. La devozione religiosa del medico, che Sophie spera possa salvarla, diventa il pretesto per una particolare forma di tortura morale. Stando alle voci che Sophie ricorda di aver sentito, il dottore sarebbe un uomo pio, e da giovane avrebbe aspirato al sacerdozio. Il padre, un uomo venale, lo aveva costretto a studiare medicina. Essendo stato egli stesso posto in una situazione di non-scelta, il dottore forse prova ora un piacere particolare a offrire scelte impossibili a persone come Sophie. Stingo, la voce narrante, spiega in modo diverso il comportamento del medico: ­117

Per i delitti bestiali di cui era stato complice aveva provato noia e angoscia, e anche disgusto, ma non il senso del peccato, e non aveva mai pensato, mandando a morte migliaia di poveri innocenti, di trasgredire la legge divina. Era stato tutto indicibilmente monotono. Tutte le sue depravazioni erano avvenute in un vuoto di assenza di peccato e di metodica assenza di Dio, mentre la sua anima era assetata di beatitudine. Non era dunque supremamente semplice, per ritrovare la fede in Dio e affermare completamente la propria capacità umana di fare il male, commettere il peccato più intollerabile che che si potesse immaginare? Per la bontà ci sarebbe stato tempo dopo. Ma prima un grande peccato. Un peccato la cui gloria consistette nella sua sottile magnanimità: una scelta5.

Per il dottore, costringere Sophie a compiere la scelta impossibile è un modo per richiamare l’attenzione di Dio; macchiandosi di un peccato tanto crudele, Dio non potrà fare a meno di intervenire6. In un certo senso il dottore ha trovato il modo di accogliere il grande Altro, l’ordine coerente delle cose, di nuovo nella sua vita, e di assegnargli quel significato che sfugge a noi tutti quando siamo di fronte a scelte difficili. La psicoanalisi e la scelta Il dilemma ultimo della scelta sta nel fatto che ogni vita umana è, nel senso più profondo, facoltativa. Albert Camus la mette così: «Che faccio, prendo un caffè o mi uccido?». Al di là di tutte le piccole decisioni che decidono che tipo di vita vivremo, c’è la questione se continuare a vivere o no. In ogni scelta che effettuiamo, non prendiamo in considerazione la possibilità di non fare alcuna scelta, o di distruggere la nostra stessa capacità di scegliere. Ma se continuiamo a vivere, anche la nostra sofferenza diventa una scelta che abbiamo compiuto. La psicoanalisi ci offre una chiave di lettura radicale ­118

della responsabilità per ogni individuo di questa scelta, che è decisamente lontana dall’idea di scelta razionale. Un momento importante nella storia della psicoanalisi giunse quando Freud iniziò a usare il termine Neurosenwahl, «scelta della nevrosi». Freud arrivò al concetto attraverso l’autocritica dei suoi primi lavori. Dapprima aveva ritenuto che il tipo di nevrosi che una persona può sviluppare dipendesse dagli eventi sessuali della prima infanzia; ma in seguito era giunto alla conclusione che le nevrosi dipendono molto più dalla natura della rimozione e delle difese dell’ego. «Non tanto contava ciò che un individuo aveva sperimentato nella sua infanzia in fatto di eccitamenti sessuali, ma soprattutto la sua reazione verso queste impressioni: e se cioè egli aveva risposto con la “rimozione” a tali impressioni, oppure no»7. La reazione quindi è una forma di scelta, e in questo senso l’individuo è responsabile delle sue nevrosi8. L’individuo non è semplicemente un prodotto di forze esterne (la società e i genitori, ad esempio), ma è anche un «autore», in quanto artefice del modo in cui risponde a queste forze. Ma queste risposte non sono sue scelte razionali; al contrario, sono «scelte» compiute al livello dell’inconscio. Anche secondo Jacques Lacan la formazione della soggettività (da lui detta «soggettivizzazione») è legata alla scelta. Tuttavia, in questo caso la scelta non è concepita come una specie di autocreazione: non si tratta di decidere razionalmente chi siamo, o di fare di noi stessi un’opera d’arte. La soggettivizzazione per Lacan riguarda il processo con il quale il soggetto viene segnato in un modo particolare dal grande Altro, la struttura simbolica (ad esempio, linguaggio, cultura, istituzioni) all’interno della quale nasce il soggetto. Non si tratta solo del fatto che il soggetto deve affrontare il processo di socializzazione, al termine del quale diventerà senza voler­119

lo un essere sociale; diventare un soggetto prevede un momento particolare in cui si sceglie, attraverso non una scelta razionale ma quella che Lacan chiama una «scelta obbligata». Lacan spiega la logica della «scelta obbligata» raccontando un aneddoto su tre prigionieri condannati. La guardia carceraria informa i prigionieri che se risolveranno un particolare enigma potranno evitare la pena capitale: ciascuno di loro ha un disco, o bianco o nero, attaccato alla schiena. In tutto ci sono tre dischi bianchi e due neri. Di questi la guardia ne ha scelti tre: un disco per ciascun prigioniero. Ciascun prigioniero non può vedere il colore del proprio disco, ma può vedere il colore dei dischi degli altri. Ciascun prigioniero deve cercare di indovinare il colore del proprio disco senza parlare con gli altri. Il primo che ci riesce verrà liberato. Ora, se un prigioniero ha un disco bianco mentre gli altri due ne hanno uno nero, quello con il disco bianco ha un compito facile, poiché vedrà immediatamente i due dischi neri e subito concluderà che ha quello bianco. In questo caso, la sola vista gli basterà per vincere il gioco. Le cose si fanno più complicate se un prigioniero ha un disco nero e gli altri due lo hanno bianco. Il prigioniero che vede un disco nero e uno bianco ragionerà così: «Se ho un disco nero, il prigioniero con il disco bianco avrebbe visto due dischi neri e avrebbe potuto lasciare la stanza; visto che non è successo, devo per forza avere un disco bianco». Un ragionamento ancora più tortuoso sarà necessario se tutti e tre i prigionieri hanno un disco bianco. In questo ciascuno ragiona nel modo seguente: «Vedo due dischi bianchi. Se ho un disco nero, gli altri due prigionieri devono tirare a indovinare se lo hanno nero o bianco, come si darebbe il caso se in tutto avessimo due dischi bianchi e uno nero. Dato che nessuno dei due ha fatto un passo, io devo averlo bianco, e quindi è meglio che mi alzi subito ed esca». In questo caso la scelta dei prigionie­120

ri dipende dall’esitazione degli altri. Ciascuno dei prigionieri esita, ma solo percependo l’esitazione da parte degli altri, il prigioniero è in grado di fare una mossa e alzarsi. Possiamo interpretare questo enigma come una spiegazione del modo in cui un soggetto «sceglie» se stesso. Tutti si sentono sempre terribilmente incerti su chi siano. E assumere una certa identità simbolica (ovvero, proclamare ad alta voce: «Questo sono io!») richiede un percorso tortuoso attraverso il grande Altro. In primo luogo, c’è il linguaggio in cui il soggetto viene inserito ed entro il quale, con l’ausilio di significanti appropriati, il soggetto assumerà la sua identità simbolica. In secondo luogo, c’è il soggetto che riflette sul desiderio per l’Altro, sia il grande Altro, lo spazio sociale complessivo in cui vive il soggetto, che gli altri esseri umani più vicini. Il soggetto è sempre costretto a indovinare che tipo di oggetto sia agli occhi della società in quanto tale (il grande Altro) e agli occhi delle altre persone. È osservando gli altri e facendo congetture su cosa vedono in noi che cerchiamo di capire chi siamo noi per loro e per noi stessi. Ed è attraverso il tentativo di ottenere il riconoscimento sociale che speriamo di comprendere come ci vede il grande Altro. Riguardo entrambe le questioni (cosa significhiamo per gli altri, e quale sia il nostro posto nella società in generale) ci troviamo regolarmente senza una risposta adeguata. Gli altri non possono veramente dirci quello che rappresentiamo per loro, perché non sono sempre consapevoli a livello razionale dei desideri e delle fantasie che si costruiscono su di noi. E nella società in generale non esiste un’autorità che da sola possa dotarci di un’identità fissa, o rispondere alla nostra esigenza di riconoscimento. Perciò ci ritroviamo per sempre a dover formulare da soli le nostre interpretazioni, a leggere tra le righe, a cercare di indovinare quello che gli altri dico­121

no veramente su di noi, cosa significhiamo per loro. Inoltre cerchiamo di comprendere quale posizione occupiamo nella società: quando attribuiamo a noi stessi un qualche merito, o desideriamo un certo status sociale, speriamo che il grande Altro riconosca il nostro valore. Ma anche in questo caso ci ritroviamo a interpretare da soli cosa sia il grande Altro e quali siano i suoi parametri di giudizio. Ma il problema non è solo che siamo costantemente messi nella condizione di dover scegliere da soli in merito a ciò che gli altri dicono. Il fatto stesso di imparare a parlare e di diventare membri della società implica una particolare scelta. Per imparare a parlare, sostiene Lacan, dobbiamo superare un processo di perdita e alienazione. Lacan illustra questo punto con un diagramma in cui due cerchi si intersecano (il campo del soggetto e il campo del grande Altro). Dal lato del soggetto c’è l’Essere, e dal lato del grande Altro c’è il Significato: linguaggio, istituzioni, cultura, e ogni altro elemento che definisce il mondo in cui nasce una persona. Nella parte sovrapposta tra il soggetto e il grande Altro c’è un luogo di non-significato. Il soggetto, tuttavia, non ha altra scelta che porsi in questa zona di mezzo vacante. Non ci sarà mai nessun significato che gli sia chiaro, o che possa creare da solo. Dovrà sempre fare congetture sul significato in base a come lo determina la sua cultura. Lacan osserva: Il velo di alienazione è definito da una scelta le cui proprietà dipendono da ciò: c’è, nella giunzione, un elemento che, qualunque sia la scelta operata, non ha come conseguenza né l’uno né l’altro. La scelta è perciò una questione di sapere se si desidera preservare una delle parti, in quanto l’altra scomparirà in ogni caso9.

Lacan illustra tale scelta attraverso il dilemma posto dal ladro: «O la borsa o la vita!». Se scegliamo la borsa, perdere­122

mo entrambe le cose, dato che finiremo uccisi; ma perdiamo anche se rinunciamo alla borsa, in quanto avremo una vita priva di denaro. Per quanto riguarda la definizione di chi sia il soggetto per se stesso, Lacan sottolinea il «futuro anteriore» rispetto al tempo «imperfetto». In altre parole: «Sarò quello che sono ora attraverso la mia scelta», invece di «sono quello che già ero». Come Freud, Lacan riconosce che siamo tutti determinati dal nostro passato. Ma possiamo sempre scegliere come reagire al nostro passato, per quanto questa «scelta» venga vista come una scelta obbligata, legata ai meccanismi di difesa del soggetto. La scelta è profondamente traumatica, poiché comporta una perdita e apre un vuoto. L’avvento del simbolico, introdotto dalla scelta obbligata, porta alla luce qualcosa che prima non «esisteva», ma che nondimeno è anteriore a esso, un passato che non è mai stato presente10. Attraverso l’atto della scelta obbligata veniamo privati di qualcosa che non abbiamo mai avuto, ma che siamo comunque riusciti a perdere. L’aspetto più importante di tutti questi esempi di cosiddetta «scelta obbligata» è che non si tratta semplicemente di un’assenza di scelta. La scelta viene offerta e negata con lo stesso gesto. Tuttavia, il fatto stesso che possiamo compiere il gesto della scelta, per quanto sia in sé una scelta obbligata, è la ragione per cui il soggetto non è completamente determinato da forze esterne o interne. A sua volta, ciò spiega perché la soggettività comporta sempre un certo grado di libertà, anche quando tale libertà sia solo la libertà di formarsi le proprie autodifese. Ad esempio Freud, quando studiò il caso di Dora, la giovane affetta da isteria che durante la sua analisi dava la colpa a relazioni familiari complicate, alla traumatica seduzione da parte di un amico di famiglia, e ad altre soffe­123

renze personali, evitò di trarre la conclusione che in questa situazione era all’opera un semplice meccanismo di causa ed effetto. Le complesse relazioni sociali e sessuali nell’ambiente culturale di Dora non ne erano la causa diretta della sofferenza. I suoi sintomi isterici erano la risposta che la donna dava alla situazione e ai propri desideri inconsci, per lei impossibili da interpretare razionalmente. Per quanto potesse sembrare la vittima dei modi in cui gli altri giocavano con i suoi sentimenti, in realtà in questi giochi investiva i propri desideri. I sintomi erano il risultato del modo doloroso in cui viveva tali desideri; tuttavia, è proprio in questi sintomi che possiamo riconoscere il momento della soggettivizzazione, in quanto il loro manifestarsi è comunque opera del soggetto. Un contesto differente in cui emerge la scelta obbligata è quello della politica. L’esercito della ex Jugoslavia prevedeva un rituale per i coscritti che iniziavano il servizio militare, una cerimonia in cui i giovani soldati facevano un giuramento e firmavano una dichiarazione in base alla quale sceglievano liberamente di diventare membri dell’esercito jugoslavo. Ogni tanto capitava che qualche giovane soldato prendesse sul serio questa scelta, e si rifiutasse di firmare il giuramento. Atti di disobbedienza simili venivano severamente puniti, con il coscritto che normalmente finiva in prigione. Veniva rilasciato solo quando decideva di firmare «liberamente» il giuramento. Un caso simile si è verificato a Bagdad, quando un uomo iracheno è stato rilasciato dall’esercito americano dopo aver passato più di due anni in un centro di detenzione, anche se non era stato accusato di alcun crimine. Quando fu finalmente rilasciato, i militari gli diedero da riempire un questionario riguardo al trattamento ricevuto durante la prigionia. L’uomo doveva mettere una croce accanto alla frase che descriveva meglio il suo trattamento. La prima frase di­124

ceva che non aveva subito nessun abuso durante la detenzione, la seconda diceva che ne aveva subiti. Doveva riempire il questionario di fronte a tre guardie americane armate del manganello elettrico che viene usato per punire i prigionieri. Persino l’interprete disse all’uomo di mettere la croce sulla prima frase. Quando l’uomo gli chiese cosa sarebbe successo se avesse scelto la seconda, l’interprete alzò le braccia per dire che non lo sapeva. Non si fa fatica a immaginare che se avesse scelto la seconda frase, non sarebbe mai stato rilasciato dalla prigione. Nei casi in cui a qualcuno la scelta viene offerta e allo stesso tempo sottratta, naturalmente non gli viene data scelta alcuna. Ma la scelta obbligata ha comunque un suo significato in quanto componente importante del patto sociale. Il fatto stesso che esistono casi simili di scelte obbligate dimostra che per la società ognuno è capace di essere libero. La società non può semplicemente negare questa libertà. Anche le forme più dure di regime totalitario hanno spesso fatto ricorso ad atti di scelta obbligata, segno che la coercizione può facilmente basarsi sull’illusione che l’individuo si sottometta liberamente agli ordini del regime. Questi esempi quotidiani e politici di scelta obbligata sono comunque distanti dalla concezione psicoanalitica per cui l’individuo avrebbe la scelta obbligata di formarsi le proprie difese (o nevrosi). Negli esempi politici, c’è la scelta di un’azione (entrare nell’esercito o andare in prigione, segnare la casella «niente tortura» o morire, seguire la procedura richiesta da un «atto di cortesia» o essere scortesi). Ma è evidente che in casi del genere la scelta non riguarda una modalità di difesa. Il prigioniero o il coscritto possono salvare la pelle, ma non la loro verità. Il soggetto lacaniano, invece, affronta un dilemma più difficile nel processo di socializzazione. Se ­125

il soggetto non compie la scelta obbligata di formarsi delle difese individuali, può cadere vittima di qualche psicosi. E tuttavia anche la psicosi è una questione di scelta, sebbene, di nuovo, obbligata. Anche quando è vittima di una psicosi, sostiene Lacan, l’individuo è responsabile; la struttura psicotica non viene semplicemente imposta al soggetto, ma è una sua creazione, anche se inconscia. La morte e la mancanza di scelta Se certe forme di sofferenza (come le nevrosi) vengono lette dalla psicoanalisi come casi di scelta obbligata, cosa rimane da dire su ciò che pone fine a tutte le sofferenze: la morte? L’ansia riguardo all’idea della morte è in genere legata a due fattori contraddittori: primo, la consapevolezza che non abbiamo scelta, visto che tutti dobbiamo morire; secondo, la coscienza del potere che abbiamo di terminare la nostra esistenza di nostra spontanea volontà. Al fine di placare quest’ansia, le religioni in genere offrono l’idea di una qualche continuazione dell’esistenza spirituale dopo la morte del corpo. Oggi, tuttavia, cerchiamo di tenere sotto controllo l’ansia della morte inventandoci modi sempre nuovi per rimandare la morte, o per vederla come qualcosa di cui siamo padroni, ad esempio attraverso l’eutanasia. Il modo in cui le società post-industriali si rapportano alla morte evidenzia di nuovo una versione dell’ideologia della scelta. Se nel passato eravamo impotenti di fronte a quella che Baudelaire chiamava la figura del Tempo, l’unico predatore che non rischia nulla ed esce sempre a mani piene, oggigiorno l’individuo è indotto in vari modi a far attendere questa figura. Con l’ampliamento della nostra libertà di scelta è di­126

ventato più difficile invecchiare, morire, e definire il nostro posto nella successione delle generazioni11. Le nostre scelte sembrano senza tempo, come se non stessimo procedendo inesorabilmente verso il declino e la morte, come se la vita fosse solo un girare attorno allo stesso punto e non un incedere verso una fine inevitabile. L’ideologia del tardo capitalismo promuove l’illusione di un presente eterno, per questo si trova a disagio con la vecchiaia e la morte. I mezzi di comunicazione occidentali dipingono la vecchiaia come inaccettabile, presentandola come fosse una questione di scelta: sta a ognuno di noi fare qualcosa per combatterla, sforzarsi per nasconderne i segni, e trovare il modo per rimandare o persino eludere la morte. Da qui nasce l’ossessione contemporanea per la rappresentazione realistica della morte e del morire. Promotori di questa attenzione morbosa sono sia la cultura popolare, con la sua carrellata infinita di corpi feriti, assassinati, e dissezionati, che le forme culturali di livello superiore. Le celebrità di oggi mantengono lo stesso aspetto per tutta la vita. I loro volti sembrano bloccati nel tempo, spesso a costo di suggerire l’immagine inquietante di una morte vivente. Le questioni traumatiche che affronta la società trovano spesso un riflesso eloquente nelle tendenze artistiche che in un dato momento riscuotono successo e visibilità pubblica. L’ossessione dell’arte contemporanea per la morte e il morire non è una novità. Oggi, però, l’arte tende a trattare l’argomento secondo modalità che evidenziano il tentativo della società di posporre la morte a ogni costo. Oppure, si trasforma la morte in una creazione artistica tra le altre. L’artista americano Stephen Shanabrook, ad esempio, ritorna costantemente sulle tematiche della morte, della medicina, e del cioccolato. È diventato famoso per avere realizzato delle praline di cioccolato modellate prendendo come forme ­127

le piaghe di cadaveri trovati in obitori russi e americani. Una volta domandai a Shanabrook da dove nascesse questa combinazione di cioccolatini e cadaveri, e lui mi rispose facendomi un profilo della sua infanzia. Suo padre era un medico, e da piccolo Shanabrook era affascinato dalla chirurgia e dal pensiero di suo padre che eseguiva autopsie. Allo stesso tempo era ossessionato dal profumo di cioccolato che proveniva da una fabbrica dolciaria lungo la strada percorsa ogni giorno per andare a scuola. Da adolescente, cominciò a lavorare in quella fabbrica in modo da poter godere ancora di più di quel profumo. Illustrando la propria produzione artistica, Shanabrook osserva che il cioccolato fonde a una temperatura molto simile alla temperatura normale del corpo umano. Modellare le praline secondo la forma delle piaghe dei cadaveri è per Shanabrook un modo per difendersi dall’orrore di quelle piaghe. A quanto pare, più la gente guarda le praline, più è incline a dimenticarsi dell’origine della loro forma e a godere del profumo seducente del cioccolato. Quando le parti di un corpo morto vengono foggiate a mo’ di cioccolatini, si ha la sensazione inquietante che l’artista stesso nella sua vita sia stato profondamente toccato dalla morte e dal processo del morire, e che attraverso l’opera artistica voglia sia suscitare sia negare l’orrore associato alla morte. La psicoanalisi interpreta questa tematizzazione creativa ripetuta di un determinato soggetto come una forma di sublimazione. L’individuo, invece di «scegliere» un sintomo attraverso il quale comunicare la propria sofferenza, si dedica a un’occupazione professionale, o in altre parole, sublima le sue pulsioni. La sublimazione ha come risultato la produzione di un’opera d’arte che gli altri possono ammirare. Tuttavia, il processo diventa più difficile da comprendere quando l’unica opera in esposizione non è altro che il corpo stesso dell’arti­128

sta. La body art è in questo caso particolarmente interessante. L’artista francese Orlan modifica continuamente il proprio volto con l’aiuto della chirurgia plastica: prima, decide di somigliare alla Gioconda; successivamente, si fa impiantare delle corna sulla fronte. Orlan sembra aver preso alla lettera l’appello ideologico a fare del proprio corpo un’opera d’arte. Al tempo stesso, l’artista sublima a modo suo le proprie pulsioni inconsce; per questo la continua alterazione del suo corpo rappresenta un tipo particolare di scelta obbligata. Si direbbe che non abbia altra scelta che dedicarsi a questa alterazione, anche se naturalmente nessuno la costringe a farlo. L’artista che modifica costantemente il proprio corpo e ne fa un oggetto artistico spinge l’idea di scelta fino ai limiti più estremi. Tuttavia, a modo suo riflette anche l’idea di negazione che, come si è osservato nei capitoli precedenti, nella nostra società è strettamente legata alla promozione della scelta. Questa negazione la si vede all’opera nella body art, in cui il corpo ha l’aspetto di una macchina immortale, capace di trasformarsi all’infinito. È inoltre presente nell’arte incentrata su incidenti e catastrofi. Il fotografo messicano Enrique Metinides è diventato un esponente famoso delle cosiddette «arti della catastrofe», che mostrano il morire in sé come un evento artistico, al fine di cancellare gli elementi traumatici della morte. L’ascesa alla notorietà di Metinides è paragonabile ai reality show della televisione di oggi, in cui gente normale diventa famosa per il solo merito di trovarsi al posto giusto nel momento giusto. Da quarant’anni, Metinides colleziona in modo compulsivo immagini di disastri: incidenti d’auto, scontri fra treni, suicidi, incendi. Come Stephen Shanabrook, Metinides non riesce a staccarsi dal suo tema prescelto. E anche nel suo caso, un evento particolare risalente all’infanzia sembra contenere il germe della sua ossessione. All’età di ­129

dodici anni, il padre gli comprò la sua prima macchina fotografica, e Metinides cominciò a registrare gli incidenti d’auto che avevano luogo all’incrocio nei pressi del negozio del padre. Presto venne assunto da un giornale importante: lui, il fotografo più giovane di tutti, con il compito di immortalare la sofferenza umana. Quest’abitudine ha accompagnato Metinides per tutta la vita, anche se a un certo punto ha smesso di usare la macchina fotografica per registrare i disastri su video, installando nel suo appartamento sette diversi schermi che lo assistono nella sua opera. Metinides ha dedicato la sua vita intera a registrare e catalogare incidenti e suicidi. Nelle sue fotografie, cerca di trasformare l’imponderabile, come disastri e incidenti, in qualcosa che possa essere controllato e messo in ordine attraverso la catalogazione. Nel suo fervore organizzativo, Metinides è arrivato a creare codici speciali per le squadre di emergenza, in modo da comunicare loro le tipologie di infortuni che incontreranno sulla scena. Inoltre, è collezionista di modellini in scala di vari veicoli di pronto intervento, dalle ambulanze fino ai camion dei pompieri e alle macchine della polizia. Si direbbe che Metinides abbia un problema personale con la morte, un fenomeno spesso osservato dagli psicoanalisti nei nevrotici ossessivi. Gli ossessivi vogliono avere il controllo di ogni aspetto della vita, e soprattutto della morte. In un’intervista Metinides una volta ha affermato che le sue due paure più grandi erano quelle di venire sepolto vivo e di essere sottoposto a un’autopsia. Le sue foto in genere o si concentrano del tutto sugli occhi dello spettatore, e in qualche modo ignorano l’incidente stesso, oppure cercano di catturare gli occhi aperti del defunto, così che non sembri morto. Per qualche strana ragione, i cadaveri fotografati da Metinides danno l’impressione di essere ancora vivi. La mor­130

te viene presentata come qualcosa di diverso da quello che è, per aiutare l’artista a superare il terrore della propria morte. Se l’arte cerca di fare i conti con il trauma della morte mostrandocene ripetutamente l’aspetto, nella vita siamo più portati a dimenticarcene. Gli psicoanalisti alle prese con pazienti affetti da disturbi della memoria hanno scoperto gli effetti calmanti di tali disturbi. Persino nei casi clinici di demenza senile è possibile notare i benefici dell’oblio. Dimenticare è legato non solo agli eventi del passato, ma anche alla capacità di pensare al futuro. La demenza senile aiuta in questo modo il paziente a dimenticare il futuro, e quindi anche a eliminare l’ansia legata alla propria mortalità. Per gli ossessivi, è proprio la questione della mortalità a non poter essere dimenticata. Jacques Lacan ha caratterizzato l’ossessivo come colui che si chiede continuamente: «Sono vivo o morto?». Dato che l’ossessivo è terrorizzato non solo dal desiderio proprio ma soprattutto dal desiderio dell’Altro, per prima cosa cerca di liberarsi di questo Altro desiderante. Solo allora può prendere il posto dell’Altro e assumere il controllo che l’altro deteneva. In altri termini, al fine di prevenire qualsiasi imprevisto, l’ossessivo diventa egli stesso un Altro. Spera che, con la morte dell’Altro desiderante, sarà finalmente libero di vivere. Tuttavia, imponendo a se stesso regole e divieti sempre nuovi, l’ossessivo diventa al contrario un morto vivente, un automa, una creatura svuotata di desiderio. Possiamo dire che la nostra società, insistendo sulla scelta e sul controllo che questa richiede, privilegia in qualche modo un atteggiamento ossessivo nei confronti della vita? Piuttosto che sostenere che le psicosi siano in crescita, sembra più prudente concludere che l’insistenza sulla scelta in ogni ambito della vita ha dato origine a un bisogno ossessivo di controllo e capacità di previsione, accanto a una paura paralizzante della ­131

morte e dell’annichilimento. Facendo costantemente ricorso ai consigli degli altri su come modellare il nostro corpo, come porre un freno ai desideri, quale direzione far prendere alla nostra vita, e soprattutto su come prevenire la morte, di certo non otterremo una certezza o un controllo maggiori. Al contrario, l’ideologia della scelta «sceglierà» per noi una personalità ossessiva, selezionando il tipo di nevrosi che faccia maggiormente gli interessi del capitalismo in questa sua fase attuale. Il paradosso è che gli atteggiamenti ossessivi promossi dall’ideologia del tardo capitalismo in realtà lasciano ben poco spazio alla scelta. Un individuo iper-controllato, sempre vigile, terrorizzato dal disordine, e impietrito di fronte all’idea della morte trarrà ben poco piacere dalle possibilità apparentemente illimitate che gli prospetta la scelta. Egli cade preda dell’ansia di fallire in quanto «sceglitore» ideale. Per questo inventa modi sempre nuovi per restringere la scelta.

Conclusione

La vergogna e l’assenza di trasformazioni sociali

In Slovenia il capitalismo ha trasformato i riti funebri. In passato di solito i familiari del defunto si recavano in un’agenzia di pompe funebri dello Stato, dove sceglievano uno dei servizi funebri di base, poi tra due tipi diversi di bare, oppure, in caso di cremazione, di urne per le ceneri. Oggi tale scelta segue le stesse dinamiche dello shopping, ed è diventata motivo di vergogna o imbarazzo. Quando i familiari del defunto si recano in un’agenzia funebre, vengono chiamati a decidere su ogni minimo dettaglio della cerimonia. La maggior parte di queste decisioni riguarda oggetti che nessuno vedrà mai, o che verranno distrutti immediatamente. Ad esempio, se il defunto sarà cremato, la famiglia deve comunque decidere sul costo e sulla tipologia della bara. Poi quanto spendere sull’urna per le ceneri, che in seguito verrà interrata. E oltre a stabilire quanto sarà elegante quest’urna, ci sono da scegliere le decorazioni floreali, i musicisti per il funerale, e perfino le dimensioni del necrologio da pubblicare sul giornale. Perché tutto ciò può provocare vergogna? I familiari alle prese con le loro scelte di fronte all’impiegato dell’agenzia funebre sentono puntati su di sé due tipi di sguardi: lo sguardo del commesso, e lo sguardo di un altro incorporeo, che appare come un soggetto astratto che osserva dall’alto. Si tratta di nuo­133

vo del grande Altro che già abbiamo conosciuto. L’imbarazzo e la vergogna sono in genere connesse al nostro senso di identità. Ci si può sentire in imbarazzo in quanto poveri, in quanto uomini «poco virili» o donne «poco femminili», oppure in quanto cittadini di una certa nazione. Si può essere in imbarazzo perché incapaci di osservare una serie di regole implicite o esplicite, oppure perché, ad esempio, incapaci di attenersi ai principi indicati dal grande Altro di riferimento. Un soldato può provare vergogna per non aver agito coraggiosamente in battaglia; un padre può provare vergogna per non essere riuscito a realizzare il proprio ideale di figura paterna; un giudice, per non aver fatto valere la propria autorità. L’imbarazzo che si prova quando si organizza un rito funebre suscita un senso analogo di fallimento, di inadeguatezza per come ci si è comportati. Si fallisce, comunque ci si muova di fronte alle scelte prospettate dall’agenzia funebre. Se ci si rifiuta di comprare l’urna più elegante, si rischia di fare la figura degli avari agli occhi dell’impiegato; se invece si sceglie il modello più costoso, può sembrare che si voglia fare sfoggio delle proprie possibilità, e che tanto lusso sia fuori luogo. Il fallimento è inevitabile. In situazioni del genere proviamo spesso rimorso. Tuttavia, esistono numerosi modi per combattere questa sensazione. «L’affetto d’autoaccusa», come lo chiamava Freud, si può trasformare, attraverso vari stati psichici, in altri affetti che, poi, penetrano nella coscienza più distintamente: per esempio in angoscia (relativa alle conseguenze dell’azione alla quale si applica l’autoaccusa), in ipocondria (paura dei suoi effetti somatici), in deliri di persecuzione (paura delle sue conseguenze sociali), in vergogna (paura che la gente sappia), e così via1.

Quando proviamo vergogna, c’è qualcosa di noi che temiamo che gli altri vedano. Cosa? Non si tratta solo della ­134

sensazione di essere dei falliti, poiché a livello razionale normalmente sappiamo di non aver fatto alcun errore. La vergogna serve a ricordarci che, per definizione, non possiamo mai soddisfare completamente le aspettative che abbiamo riguardo a noi stessi. Quello che non vogliamo che gli altri vedano in noi è il nostro essere impostori per natura. Per qualche tempo assumiamo un ruolo simbolico, e ci culliamo nell’illusione che duri per sempre, ma prima o poi verremo smascherati, e sarà rivelato il carattere fittizio della nostra identità, segnata da una mancanza costitutiva. L’iconografia della vergogna in genere ritrae persone con l’aria da cane bastonato e lo sguardo distolto. Da una parte, evitano lo sguardo rivolto loro dagli altri, ma dall’altra cercano anche di non guardare gli altri. In molte culture quando si è vicini a una figura che rappresenta un’autorità si abbassa lo sguardo. Cos’è che non vogliamo che l’autorità veda? Non sta bene guardare gli altri nella loro nudità. Quando abbassiamo lo sguardo per mostrare rispetto verso qualcuno, facciamo in modo di non percepire la mancanza che sta al di là della facciata. Nel Mago di Oz è esattamente così che si comporta Dorothy quando alla fine incontra il Mago. La vergogna è legata alla nostra incoerenza, all’incostanza delle figure che reputiamo autorevoli per noi, e all’incostanza dell’Altro. Quando provo vergogna, non intendo solo evitare lo sguardo di rimprovero dell’Altro, di fronte al quale mi sento umiliato. Abbassando lo sguardo, cerco di non vedere che anche l’Altro è incostante, o meglio che l’Altro, in ultima analisi, non esiste. Come osserva Joan Copjec: La vergogna si desta non quando guardiamo noi stessi, o le persone a cui teniamo, attraverso gli occhi di un altro, ma quando improvvisamente percepiamo la mancanza nell’Altro. In questo ­135

momento il soggetto non vede più se stesso come l’appagamento del desiderio dell’Altro, come il centro del mondo, dal quale ora si allontana leggermente, aprendo una distanza all’interno di sé. Tale distanza non è quella del super-io, che produce sensi di colpa e grava il soggetto di un debito incancellabile verso l’Altro, ma, al contrario, è una distanza che estingue completamente tale debito. Nella vergogna, diversamente dal senso di colpa, percepiamo la nostra visibilità, ma non c’è un Altro esterno a osservarci, perché la vergogna è la dimostrazione stessa che l’Altro non esiste2.

Quando una società impone rituali mirati a far provare vergogna ai suoi cittadini, si tratta dello sforzo disperato di sostenere la finzione di un Altro costante e coerente. Ma in questo modo una società rivela tutta la propria incoerenza. Il fenomeno è particolarmente evidente nella prassi giudiziaria di alcuni paesi. In Cina la famiglia di un condannato a morte è tenuta a pagare per le munizioni che lo uccideranno. Tale richiesta in parte ha a che fare con l’onta della famiglia. Quel pagamento è un modo simbolico di scontare il debito verso la società. Ma può anche essere letto come il segno che il sistema giudiziario non può agire da solo con piena autorità: ha bisogno dell’«aiuto» della famiglia per dispensare la pena. Il governo britannico ha commissionato una ricerca su come riuscire a coinvolgere la comunità nella lotta al crimine e incrementare la fiducia della gente nel sistema di giustizia penale. La proposta redatta da Louise Casey, già a capo della «Respect Task Force» nel governo di Tony Blair, raccomanda che i trasgressori condannati a svolgere servizi per la comunità siano mandati a lavorare con una pettorina che li identifichi chiaramente come criminali3. L’idea è che i cittadini rimangano soddisfatti nel vedere che i criminali vengono puniti in un modo socialmente utile, piuttosto che venire lasciati inoperosi in una cella. Ma queste pettorine non solo rendono i criminali visibili al pubblico: distolgono ­136

anche lo sguardo della collettività da se stessa – dalla propria incapacità di prevenire i reati. Quando ci vergogniamo delle scelte che abbiamo fatto, distogliamo lo sguardo dalla società nel suo complesso e ci concentriamo su noi stessi. Chiudiamo gli occhi davanti alle ingiustizie sociali e proviamo vergogna per non aver compiuto le scelte giuste. Invece di cercare falle nell’ordine sociale, vediamo solo le falle in noi stessi, e consideriamo come un nostro grande fallimento non essere riusciti a massimizzare il piacere e la realizzazione di noi stessi. La situazione è ancora peggiore per i più poveri: autorealizzazione e felicità sono mete più lontane per loro, e in più devono accollarsi la colpa di non essere all’altezza come individui. Nell’era della tv-verità, dei parchi d’avventure, e di nuove infinite forme di intrattenimento, la povertà può facilmente essere letta dall’esterno come una condizione facoltativa, come un gioco al quale partecipare e poi abbandonare a piacere. Poco prima dell’inizio dell’attuale crisi economica, un giornale britannico raccontò la storia di un giornalista che aveva vissuto per due settimane come un senzatetto. Il giornalista incaricato del servizio voleva capire se era possibile sopravvivere a Londra senza soldi né carte di credito. La narrazione veniva accompagnata dalle scioccanti immagini del reporter che rovistava tra la spazzatura, dormiva in una casa occupata, si lavava in un bagno pubblico, e si presentava non invitato a inaugurazioni di mostre e feste in cerca di cibo gratis. Un altro giornalista britannico, che aveva finalmente ottenuto il ruolo di rubricista, in uno dei primi articoli scrisse: Venerdì scorso ho pianto di fronte a una braciola di maiale [...]. Nell’ultimo anno ho mangiato solo cracker, pane da quattro soldi, marmellata fatta con le polverine, e pasta liofilizzata [...]. Ma essere ­137

sul lastrico è stata anche una fortuna. Con il senno di poi, mentre i miei amici cercano l’illuminazione viaggiando per il mondo in condizioni precarie, io posso dire di essere sopravvissuto a Londra senza un quattrino. Provateci voi, gli dico quando mi scrivono dall’India. Ho imparato a ignorare le date di scadenza, a non disprezzare la posta ordinaria, e persino a usare dentifrici non di marca.

A detta del giornalista, resistere alla povertà può dare alle persone una forza, sconosciuta a chi non l’abbia mai provato. I poveri sono in grado di superare situazioni imbarazzanti che spaventano gli altri – vedersi rifiutare la carta di debito, ad esempio, e dover ridurre l’entità della spesa finché non venga autorizzato il pagamento. Su un sito internet di temi economici, Donna Freeman ha raccontato con orgoglio la sua decisione di vivere con 12.000 dollari all’anno. «Ho fatto le mie scelte», ha detto, e vogliono dire niente più mariti, studiare all’università, e cambiare radicalmente il modo di spendere i soldi [...]. Sono povera per scelta, perché avevo bisogno di cambiare vita. Ho scelto di troncare il matrimonio, e ho scelto di diventare studentessa. Riesco a vivere così perché so che non durerà per sempre. Tra due anni avrò la mia laurea, e tornerò al lavoro4.

Dunque la scelta può essere un potente fattore di motivazione quando una persona decide di cambiare strada. Ma l’idea che la povertà sia una scelta è un classico argomento usato dai conservatori per giustificare la perpetuazione delle divisioni di classe. Fin dall’inizio l’ideologia capitalista ha fatto leva sull’idea che ognuno può diventare ricco, e che coloro che rimangono poveri semplicemente non hanno lavorato abbastanza sodo. Negli Stati Uniti, Barbara Ehrenreich, autrice di Una paga da fame. Come (non) si arriva a fine mese nel paese ­138

più ricco del mondo5, e altri scrittori hanno deciso di vivere come lavoratori sottopagati per un paio di mesi, dimostrando che il lavoro non può da solo sostituire i sussidi sociali, e che, a prescindere dagli sforzi che fanno per prendere il controllo della propria vita, i poveri non possono superare il loro stato di indigenza con la sola forza di volontà. Prima che si facesse sentire l’impatto dell’attuale crisi economica, l’idea di consumo dominava a tal punto che spendere di meno (e magari lavorare di meno) era addirittura visto come un esperimento interessante da provare. All’inizio del 2007, una coppia californiana decise di trascorrere un anno intero senza spendere alcunché. Hanno raccontato la loro esperienza in un blog6. Simultaneamente, in diverse parti degli Stati Uniti altri piccoli gruppi di persone si riunirono e si misero d’accordo per ridurre i loro consumi, dichiarando pubblicamente su internet che per un anno non avrebbero comprato nuovi prodotti, eccezion fatta per cibo, articoli per l’igiene, e altri oggetti essenziali. Alcuni gruppi stabilirono che al massimo fosse permesso comprare articoli di seconda mano, e riparare oggetti vecchi oppure darli in noleggio. Anche un certo numero di scrittori americani esplorarono la questione del ridimensionamento delle proprie vite. Judith Levine, ad esempio, pubblicò Io non compro. Un anno senza acquisti: un’esperienza per riflettere sul potere del mercato7. Ma con l’avvento della crisi economica, quando la gente cominciò a perdere il lavoro e la casa, queste avventure alla scoperta della povertà da parte di intellettuali benestanti sembrarono evidenziare un atteggiamento cinico di fronte alle difficoltà economiche. Questi movimenti per la semplificazione della vita in realtà condividono a modo loro l’ideologia della scelta, a dispetto della retorica moralistica con la quale cercano di ingannare se stessi e gli altri. Il movimento in effetti accetta la premessa di una società fortemente individualistica. L’ideologia che inse­139

gna che tutto è in nostro potere e siamo liberi di fare ciò che vogliamo della nostra vita, non fa altro che ripetere lo stesso mantra nel linguaggio della «semplificazione della vita». La tendenza a semplificare la vita è in questo senso una reazione al potere opprimente della scelta consumistica, che tuttavia non fa che riprodurre in forma diversa la scelta consumistica. Dal momento che una fetta enorme della popolazione mondiale gode di ben poca scelta, e ogni giorno deve fare i conti con una povertà estrema, questa proposta occidentale di semplificare la propria vita (accanto ad altri tentativi di esaltare la povertà), fatta da persone fondamentalmente benestanti, sembra un modo piuttosto ipocrita e ambiguo di affrontare la questione delle divisioni di classe. All’interno di questo movimento, poi, l’idea di scelta razionale dominava il dibattito. Nell’articolo Vivere poveri e felici Donna Freedman osserva, in modo alquanto semplicistico, che lo strumento più importante di gestione del denaro è il cervello di ognuno di noi8. Come ho sostenuto in precedenza, la scelta in realtà ha poco a che fare con la razionalità. Il modo in cui una persona affronta le scelte spesso riflette le sue strutture psicologiche più profonde. È probabile che una donna isterica sia cronicamente delusa dai risultati delle proprie scelte. Quando compra qualcosa, si rende conto immediatamente di non essere soddisfatta: «Non è quello che cercavo!». Quindi esce di nuovo in cerca di qualcos’altro da acquistare, invece di fermarsi a comprendere la vera causa del suo malcontento. Un maschio ossessivo, al contrario, potrebbe evitare anzitutto di fare una scelta, rinviandola a lungo. Scegliere lo costringerebbe ad agire sulla base dei propri desideri. Uno psicotico può rimanere ancor più paralizzato, dato che dal suo punto di vista non gode di alcuna libertà, e qualcun altro ha già scelto per lui, ragion per cui si sente osservato e oppresso dagli altri. ­140

Le scelte che facciamo sono spesso irrazionali. Quando compriamo una macchina costosa, può ben darsi che lo facciamo per suscitare invidia, e non perché razionalmente abbiamo concluso che si tratta proprio del modello di cui avevamo bisogno. Suscitare invidia è una componente importante del marketing di oggi. Una nuova tendenza è quella di aggiungere al tutto l’umiliazione del cliente. In Giappone un certo numero di negozi sono diventati famosi per le limitazioni che impongono alla scelta delle persone. Uno di questi negozi alla moda, alla periferia di Tokyo, ha orari d’apertura totalmente imprevedibili. I clienti arrivano, formano lunghe code all’entrata, e quando il negozio finalmente apre, spesso scoprono che i commessi si rifiutano, in modo del tutto arbitrario, di vendergli l’articolo che desiderano. I clienti non si sentono offesi. Anzi, ne sono attratti e si accalcano a frotte davanti a tali negozi. Spesso è difficile scegliere cosa mangiare in un ristorante cinese, per il semplice fatto che ci sono tantissime opzioni. Menù tanto ampi ora sono visti come adatti a una clientela meno raffinata. Questa, almeno, l’idea alla base della prassi di numerosi ristoranti di lusso di scegliere le pietanze dei clienti per loro. Gli avventori della catena Nobu pagano cifre enormi per farsi portare dallo chef qualsiasi cosa voglia servire quella sera. Gordon Ramsay, a Londra, offre ai suoi clienti l’opportunità di consumare il pasto nella cucina del ristorante. Ovviamente non si può scegliere cosa mangiare. A Londra un tempo c’era un ristorante che non riportava i prezzi sul menù, e chiedeva ai clienti di decidere loro stessi quanto volevano pagare per il pasto. Non stupisce il fatto che la maggioranza pagasse più di quello che ci si aspettava. Se è vero che ci sono alcuni che cercano di insegnare alla gente a limitare le proprie scelte, la mia tesi è che le persone si formano già da sé i propri meccanismi autovincolanti, an­141

che se non vengono elaborati consapevolmente: non si tratta di «strategie razionali». Le persone limitano le proprie scelte per conto proprio, oppure si comportano come se qualcun altro imponesse loro delle limitazioni. Un professore una volta decise, prima di un esame, di dare agli studenti la possibilità di scegliere la domanda alla quale volevano rispondere. Gli studenti non trovarono la cosa niente affatto liberatoria. Al giorno dell’esame, furono profondamente scioccati di dover rispondere alla stessa domanda che avevano scelto in precedenza, e si comportarono come se la domanda posta fosse stata particolarmente oscura, e del tutto imprevista. Uno studente arrivò a protestare perché la domanda non c’entrava con gli argomenti studiati durante il corso. Dunque, anche quando una persona compie da sé le proprie scelte, in seguito può comportarsi come se qualcun altro gliele avesse imposte. I desideri implicano sempre qualche divieto. Ci creiamo in fretta nuovi ostacoli quando quelli vecchi smettono di esistere. Il proprietario del negozio Conran a Londra lo sa molto bene quando dice: «Le persone non sanno quello che vogliono finché non glielo si dà». Dopo l’11 settembre, ci fu un boom turistico in Slovenia (poiché era considerato un luogo sicuro da visitare), e l’ente per il turismo del paese decise di sfruttare l’idea di divieto al fine di accrescere il desiderio. Nella pubblicità campeggiava lo slogan: «Non andate in Slovenia!». Il bisogno di limiti si nota anche nei bambini piccoli. Se ci sono troppe opzioni, si agitano e supplicano i genitori di aiutarli. Anche quando finiscono per scegliere esattamente il contrario di quanto suggerito dai genitori, trovano conforto nel non dover affrontare una scelta illimitata. Il fatto stesso che cerchiamo così spesso consigli per le nostre scelte indica quanto sia essenziale per l’individuo trovare una rete di protezione in una comunità – virtuale o reale che sia. Fare una ­142

scelta è diventata un’azione estremamente solitaria. Nel passato potevamo contare sulla famiglia o su altri gruppi sociali. Ora siamo da soli. Eppure la gente trova modi sempre nuovi per andare in cerca di consigli. Negli Stati Uniti mi è capitato di notare quante donne nei camerini in comune dei grandi magazzini chiedono consiglio ad altre clienti per l’acquisto di un particolare capo di abbigliamento. L’opinione di una donna anonima in genere è davvero sincera, assai più che quella di una parente o di un’amica. I nostri conoscenti potrebbero mentire per non ferirci, oppure per invidia o semplice noia, mentre una consulente anonima può essere lusingata per la richiesta, ed è forse più sincera perché non c’è in gioco alcun legame affettivo profondo. Il «New York Times» ha riferito che alcuni americani che avevano accumulato debiti enormi con le loro carte di credito hanno cominciato a tenere dei blog personali, in cui descrivere candidamente quello che stavano passando9. Una donna non riusciva a confidare al compagno o agli amici i propri debiti, ma dopo aver espresso le sue ansie sul blog, ha trovato a poco a poco la forza di tagliare le spese e ridurre i debiti. Il blog le dava un senso di responsabilità: quando andava per negozi, sapeva che avrebbe dovuto confessare i suoi acquisti sul blog. Nella sua mente i lettori anonimi del blog diventavano monitori, autorità in grado di suscitare il suo senso di colpa. I lettori senza nome di una pagina su internet venivano incorporati nel super-io, rafforzandolo; grazie a questo percorso psicologico nel ciberspazio, la donna divenne molto più capace di passare all’azione di quanto non lo sarebbe stata affidandosi alle persone a lei vicine, le quali non riuscivano a esercitare lo stesso peso. Il fatto stesso di ritenere necessaria una strategia simile illustra la debolezza della sua comunità vera – cioè quella non elettronica. Inoltre, questo caso mostra come le scelte siano più difficili da compiere quando le comunità perdono il loro potere di sostenere e guidarci, e ­143

perché mai un individuo angosciato possa trovare una fonte di conforto (e di sofferenza) nello shopping compulsivo. Ma, per quanto possa essere traumatico l’esercizio della scelta, si tratta di una capacità umana essenziale. Il fatto di essere capaci di compiere scelte apre la possibilità del cambiamento. Il problema è che oggi vediamo la scelta in sé come una questione interamente razionale, e perciò l’immagine che ne abbiamo tende a conformarsi a quella delle teorie economiche e delle abitudini consumistiche. Ci lasciamo governare da queste teorie. In realtà, abbiamo bisogno di una visione psicologica molto più ampia della scelta. La psicoanalisi considera le persone responsabili dei propri sintomi, ma questo non significa che ciascuno di noi ha scelto razionalmente la propria sofferenza. Vuol dire però che la persona è un soggetto – è un qualcuno che si crea sempre un sintomo individuale (o una nevrosi). Il cambiamento è possibile, e come abbiamo la facoltà di creare la sofferenza individuale, così abbiamo il potere di superarla. La società capitalista di oggi, con la sua insistenza sull’idea di scelta, maschera le differenze di classe così come le disuguaglianze razziali e di genere. Risale al 1987 la celebre affermazione di Margaret Thatcher: «La società non esiste. Esistono individui, uomini e donne, e famiglie». Questa concezione da allora ha pervaso ogni settore della società contemporanea. Il senso di vergogna per la propria povertà e quello di colpa per non essere arrivati più in alto sulla scala del successo economico hanno preso il posto della lotta alle ingiustizie sociali. E l’ansia di non essere abbastanza bravi ha pacificato le persone, portandole non solo a passare più tempo al lavoro, ma anche a dedicarsi con lo stesso zelo al proprio aspetto esteriore. La scelta può aprire possibilità di cambiamento a livello sociale, ma solo quando non sarà più vista come una prerogativa esclusivamente individuale. In questo consiste ­144

il successo dell’ideologia della scelta nella società odierna: aver reso le persone cieche di fronte al fatto che le scelte effettive vengono gravemente limitate dalle divisioni sociali, e che questioni quali l’organizzazione del lavoro, la salute, la sicurezza, e l’ambiente si allontanano sempre più dalla loro scelta. Dunque, stiamo perdendo, come società, la possibilità della scelta come mezzo per cambiare le relazioni di potere per come le conosciamo. Non stupisce che l’ideologia della scelta vada di pari passo con l’ideologia new age che esorta a vivere nel presente e ad accettare le cose come stanno. Tuttavia, chi si oppone all’ideologia della scelta come panacea ultima di tutti i mali ha la possibilità di sfruttare l’idea di scelta, in modo da sovvertire l’ideologia dominante. Ciò è accaduto a Londra, quando gruppi di giovani decisero di combattere contro i giornali gratuiti spesso sbattuti in mano alla gente alla fermata dell’autobus o in metropolitana. Si tratta di giornali pieni di servizi scandalistici e storie sulle abitudini e sui comportamenti delle celebrità. Con lo slogan «Scegli cosa leggere», un gruppo di oppositori di questi giornali gratuiti si misero a offrire alla gente libri usati invece dei giornali. La speranza era che un gesto simile ostacolasse l’inquinamento mentale generato da quella stampa gratuita. Quando in una particolare società, in un momento particolare, viene glorificata un’idea, quale che sia, è bene essere prudenti. Nel comunismo, si trattava dei diritti dei lavoratori e dell’ideale di una società senza classi. Nel tardo capitalismo, la stessa cosa è vera relativamente all’idea di scelta. Quando la gente si opponeva agli ideali comunisti, i burocrati di partito rispondevano loro con l’argomento che il potere era già nelle mani del popolo, e che quindi non c’era alcun bisogno di combattere il regime. Il capitalismo interpreta la scelta effettuando un’operazione ideologica analoga. La scelta circa l’organizza­145

zione della società viene al tempo stesso offerta e negata. Il capitalismo liberaldemocratico esalta l’idea di scelta, ma con la condizione che quello che viene offerto è soprattutto un modello consumistico della scelta. La scelta di una nuova forma di organizzazione sociale, di differenti modalità di sviluppo per il futuro, e in particolare la possibilità di rifiutare la società capitalista per come la conosciamo, non sembrano scelte disponibili. In questo libro si è sostenuto che la scelta non è una questione semplice, né, in genere, razionale. Proprio come la scelta entra nelle nostre vite individuali quando meno ce l’aspettiamo – il che non significa che la scelta non fosse già motivata da desideri e pulsioni inconsci – così a livello sociale la scelta spesso si presenta in momenti imprevedibili. Il giornalista polacco Ryszard Kapus´cin´ski, descrivendo nel libro Shah-in-Shah10 la rivoluzione iraniana del 1979, indica come punto di svolta il momento in cui i poliziotti tentarono di fermare un uomo per strada, che invece proseguì ignorandoli. Seguirono le manifestazioni, e quindi il definitivo crollo del regime. Il cambiamento fu sì una questione di scelta, ma fu anche imprevedibile e incontrollabile. Se la nostra ideologia ci insegna che la scelta razionale ci aiuterà a mantenere il controllo, a prevedere gli eventi della vita, ed eliminare i rischi, la realtà è che la scelta ci toglie precisamente l’abilità di prevedere il futuro. Da un lato apre la porta ai rimpianti per quello che poteva essere, dall’altro spalanca la finestra della speranza per quello che sarà. In una famosa canzone John Lennon diceva che «la vita è quello che ti capita mentre sei impegnato a fare altri programmi». Lo stesso vale per la scelta: pensare alle scelte e compierle sembrano essere due cose distinte. Tuttavia, possiamo scegliere se accettare o rifiutare la tirannia della scelta – e possiamo cominciare cercando di capire cosa ci viene veramente offerto. ­146

Note

Introduzione 1 J. Niesslein, Practically Perfect in Every Way, Putnam Adult, New York 2007. 2 http://women.timesonline.co.uk/tol/life_and_style/women/the_way_we_ live/article2467750.ece. 3 «Financial Times», 29 e 30 novembre 2008. 4 «The New York Times», 28 novembre 2008. 5 Si veda R. Salecl, On Anxiety, Routledge, London 2004. 6 R. Sennett, Il declino dell’uomo pubblico, Bruno Mondadori, Milano 2006 [ed. or., 1986], pp. 413-414.

Capitolo 1 I. Calvino, Palomar, Mondadori, Milano 1994 [prima ed. 1983], pp. 74-76. Ivi, p. 75. 3 Si veda in particolare G. Easterbrook, The Progress Paradox: How Life Gets Better While People Feel Worse, Random House, New York 2004. 4 W. Ferguson, Felicità®, Feltrinelli, Milano 2004 (ed. or., 2003). 5 William Perkins, un teologo di Cambridge del diciassettesimo secolo, elaborò una forma di riflessione vicina all’autoaiuto nell’opera A Treatise of the Vocation, or, Callings of Men, with the sorts and kindness of them, and the right use thereof (1603). Tra gli altri lavori della stessa epoca sullo stesso tema vi sono The Pious Prentice, di Abraham Jackson, e The Godly Mans Guide, di Immanuel Bourne. Per un’analisi di questi testi, si veda L.B. Wright, Middle-Class Culture in Elizabethan England, University of North Carolina Press, Chapel Hill, NC, 1935. 6 R.W. Emerson, Ricchezza, in Condotta di vita [1860], a cura di B. Soressi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, pp. 93-126, qui p. 95. 7 Scritto e diretto da Leslie Shearing (2003). 8 M. McGee, Self-Help, Inc.: Makeover Culture in American Life, Oxford University Press, Oxford 2005, p. 11. 1 2

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9 S. Gawain, Living in the Light: A Guide to Personal and Planetary Transformation, New World Library, New York 1998, p. 145. 10 Si veda McGee, Self-Help, Inc., cit. 11 Persino in famiglia l’idea è che bisogna negoziare e programmare gli incontri. Un genitore ideale viene visto come un coach familiare in grado di incoraggiare gli altri, promuoverne il pensiero positivo, e dotarli degli strumenti necessari a concentrarsi sui propri obiettivi. 12 Il «New York Times» ha rilevato un aumento delle donne che si rivolgono al coaching spirituale. Grazie a quest’ultimo, le donne impegnate dal lavoro possono trovare consigli su dieta, sentimenti e relazioni, oltre che tecniche di guarigione da cancro, dipendenze, e altre malattie legate allo stress del loro stile di vita. Si veda A. Salkin, Seeing Yourself in Their Life, «The New York Times» (18 settembre 2009); disponibile all’indirizzo internet http://www.nytimes. com/2009/09/20/fashion/20Guru.html?hpw. 13 http://fengshui.happyhomezone.com/fengshui/. 14 http://fengshui-rockies.com. Come si fa a ottenere successo nella vita? Questo il consiglio offerto: «Per prima cosa dovete comprarvi una buona bussola e determinare cosa c’è nell’angolo sudest della vostra casa. Il settore sudorientale della casa governa sia il flusso di denaro che la fiducia nelle vostre possibilità di creare denaro. Secondo le regole classiche e tradizionali del Feng Shui (l’antica arte di disporre gli oggetti per incrementare l’energia positiva nella vostra vita), gli oggetti che mettete in questa parte della casa dovrebbero essere tali da richiamare le energie della prosperità personale». 15 B. Schwartz, The Paradox of Choice: Why More is Less, Harper Perennial, New York 2005. Un altro libro sulla scelta pubblicato recentemente è E.C. Rosenthal, L’età della scelta. Scegliere è diventata la questione più importante del nostro tempo, Apogeo, Milano 2006 [ed. or., 2005]. Il libro si concentra più sulla dimensione politica ed economica della scelta. Il mio interesse invece è per le difficoltà che la scelta pone all’individuo nella sua vita privata.

Capitolo 2 1 D. Leader, Perché le donne scrivono lettere che non spediscono?, Feltrinelli, Milano 1997 [ed. or., 1997]. 2 Voglio un volto noto (N.d.T.). 3 Il programma è stato trasmesso negli Stati Uniti da MTV. 4 Trasformazione estrema; il programma è stato trasmesso in italiano da Rai 2 e Fox Life con il titolo Extreme Makeover – Belli per sempre (N.d.T.). 5 Negli Stati Uniti l’ossessione dei genitori per l’impegno precoce dei loro figli viene a volte chiamata «sindrome Tiger Woods». I genitori assillanti, che sperano che allenandoli da piccoli potranno fare dei propri figli stelle future dello sport, non solo impongono ai bambini ritmi di allenamento sfibranti, ma diventano spesso aggressivi verso gli altri genitori quando le prestazioni dei figli sul campo non rispondono alle loro attese. Si veda http://www.msnbc.msn. com/id/4556244. 6 B. Pennington, Expectations Lose to Reality of Sports Scholarships, «The New York Times» (10 marzo 2008).

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7 http://www.drjimtaylor.com/blog/2008/08/the-dark-side-of-youth-sportssuperstardom/. 8 J. Halpern, Fame Junkies: The Hidden Truth Behind America’s Favourite Addiction, Houghton Mifflin, New York 2007. 9 Ivi, p. 98. 10 Ivi, p. 99. 11 Ivi, p. 152. 12 R. Phaller (a cura di), Interpassivität. Studien über delegiertes Genießen, Springer, New York-Vienna 2000. 13 Si veda P. Wingert e S. Elkins, The Incredible Shrinking Bride: How the Pressure to Look Perfect on the Big Day is Leading Some Women to Extremes, «Newsweek» (26 febbraio 2008). 14 Trad. it., Gribaudi, Milano 2008 [ed. or., 1994]. 15 Trad. it., Franco Angeli, Milano 2005 [ed. or., 1989]. 16 Alla base del consenso informato vi è l’idea che la persona voglia prendere decisioni razionali circa la propria salute. Tuttavia, numerosi studi indicano che la negazione è spesso uno strumento assai potente nella guarigione del paziente. Alcuni cardiologi israeliani, ad esempio, hanno analizzato la differenza nel tasso di sopravvivenza dei pazienti colpiti da infarto tra coloro che tendevano a negare di avere problemi al cuore e coloro che invece ne erano ben consapevoli. Quest’ultimo gruppo dopo l’infarto viveva prendendo numerose precauzioni riguardo alla propria malattia, mentre quelli inclini a negare spesso vivevano la loro vita come se nulla fosse successo. Stupisce il fatto che le persone che dopo l’infarto si preoccupavano meno della propria salute vivevano più a lungo di quelli che monitoravano continuamente il proprio stato di salute. Per un’analisi del consenso informato, si veda A. Gawande, Salvo complicazioni. Appunti di un chirurgo americano su una scienza imperfetta, Fusi Orari, Roma 2005 [ed. or., 2003]. 17 Si veda Schwartz, The Paradox of Choice, cit. 18 Nella storia della cura del cancro c’è stata un’evoluzione dalle aspettative collettive a quelle individuali per la cura dei tumori. Ad esempio, negli anni Settanta, dopo che l’America era riuscita a portare l’uomo sulla Luna, emerse nella società un marcato ottimismo verso il progresso scientifico, e in particolare la possibilità di trovare una cura per il cancro. La cosiddetta guerra al cancro fu promossa da Richard Nixon. L’idea alla base della «guerra» era che molto presto la scienza sarebbe stata in grado di offrire una cura per i tumori. Se all’epoca la spinta a debellare il cancro era legata all’iniziativa dello Stato, con lo sviluppo di un individualismo più forte, e lo scarso successo di questa guerra, la malattia divenne sempre più un problema dei singoli. Con l’affermarsi dell’idea di autoguarigione, l’individuo è divenuto completamente responsabile per la prevenzione del tumore e, una volta diagnosticato il male, persino per la vittoria contro di esso. Si veda il libro di S. Mukherjee, The Emperor of All Maladies: A Biography of Cancer, Scribner, New York 2010. 19 Talvolta la medicina ufficiale riconosce il bisogno della gente di trovare conforto nella religione e nella spiritualità quando deve affrontare una malattia. Alcuni ospedali della California, dove vengono curate molte persone appartenenti a comunità indocinesi, adesso hanno consentito le visite da parte di sciamani che eseguono particolari riti di guarigione. I dottori favorevoli a questa disposizione hanno notato che le credenze hanno effetti di vario tipo sulla capacità delle persone di rimettersi in salute. La credenza nel potere di uno scia-

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mano per alcune persone ha lo stesso effetto che per altre può avere la credenza nell’efficacia di un farmaco. Si calcola che l’effetto placebo sia all’origine della risposta positiva agli antidepressivi di oltre metà dei soggetti che ne fanno uso. Si veda P. Leigh Brown, A Doctor for Disease, a Shaman for the Soul, «The New York Times» (20 settembre 2009); disponibile all’indirizzo internet http://www. nytimes.com/2009/09/20/us/20shaman.html. 20 P. Legendre, The Other Dimension of Law, «Cardozo Law Review», vol. 16 (1995), n. 3-4, p. 943. 21 Ivi, p. 950. 22 Si vedano, in particolare, C. Melman, L’uomo senza gravità. Conversazioni con Jean-Pierre Lebrun, Bruno Mondadori, Milano 2010 [ed. or., 2002], e J.-P. Lebrun, Un monde sans limite: essai pour une clinique psychanalytique du social, Erès, Paris 2002. 23 La traduzione italiana della parola jouissance è «godimento». Tuttavia, quest’ultimo termine non cattura tutto il significato della parola francese, che denota non solo il piacere ma anche il piacere per la sofferenza, ossia, per un certo dolore che non procura necessariamente piacere o godimento per la persona, ma di cui la persona non può fare a meno. 24 Jacques Lacan elaborò questa teoria in una conferenza tenuta all’università di Milano il 12 maggio 1972; cfr. Del discorso psicoanalitico, in G.B. Contri (a cura di), Lacan in Italia 1953-1978, La Salamandra, Milano 1978, pp. 186-201. 25 Una posizione critica nei confronti del tardo capitalismo sostiene che il consumatore sia solo in apparenza un agente, e che solo in apparenza si comporti liberamente. In realtà, si trova sotto la pressione delle necessità. Queste necessità non derivano dal Padrone Significante, ma dal luogo della jouissance – l’«oggetto a piccola». 26 Melman, L’uomo senza gravità, cit. 27 J.-A. Miller ed E. Laurent, The Other Who Does Not Exist and His Ethical Committees, «Almanac of Psychoanalysis», vol. 1 (1998), pp. 15-35. 28 D.-R. Dufour, The Art of Shrinking Heads, Polity Press, Cambridge 2007, p. 44. 29 Devo ringraziare Henrietta Moore per questa osservazione sulla cultura britannica.

Capitolo 3 1 Una rima presente nell’espressione by hook or by crook: con le buone o con le cattive, di riffa o di raffa (N.d.T.). 2 Si veda K.A. Bogle, Hooking Up: Sex, Dating, and Relationships on Campus, New York University Press, New York 2008. 3 Ivi, p. 184. 4 L. Sessions Stepp, Unhooked: How Young Women Pursue Sex, Delay Love and Lose at Both, Riverhead Books, New York 2007. Dal momento che le relazioni sono complicate, portano via tempo, e spesso comportano delusioni, molte giovani preferiscono optare per il rapporto occasionale, senza impegni. Ma, come mostra Stepp, il prezzo affettivo da pagare è in genere molto alto, poiché, nonostante il presupposto accordo di non affezionarsi troppo l’un l’altro, spesso le ragazze si fanno coinvolgere profondamente dalle relazioni.

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5 L’idea che, a livello di legami affettivi, le donne debbano comportarsi come gli uomini, e che debbano essere in grado di separare amore e sesso, veniva già promossa nei libri di consigli per donne usciti a partire dagli anni Ottanta. Con l’affermarsi di questo nuovo codice dei sentimenti «unisex», si può notare una certa freddezza di toni nei testi sull’amore scritti da donne per altre donne. In queste opere i legami sentimentali vengono visti sempre più attraverso l’ottica delle priorità economiche. Gli affetti diventano oggetto di investimento, e qualcosa che è bene avere sotto controllo. Per un’analisi di questa evoluzione, si veda A. Russell Hochschild, Per amore o per denaro. La commercializzazione della vita intima, Il Mulino, Bologna 2006 [ed. or., 2003]. 6 Bogle, Hooking Up, cit., p. 169. 7 Ovviamente una parte importante della vita sessuale di alcune persone è occupata dagli incontri a pagamento con prostitute. Nel suo studio sulle professioniste del sesso nel capitalismo post-industriale, Elizabeth Bernstein osserva che nella società di oggi si è verificata un’evoluzione significativa con il diffondersi del tipo di scambio sessuale noto come «prestazione da fidanzata» (girlfriend experience). A differenza degli incontri sessuali di breve durata con le prostitute tradizionali, le «prestazioni da fidanzata» prevedono preliminari prolungati, lunghe conversazioni, e il desiderio da parte del cliente di procurare piacere sessuale alla prostituta. «Per questi uomini, quello che si acquista (almeno idealmente) è un rapporto sessuale basato sull’autenticità vincolata». Si veda E. Bernstein, Temporaneamente tua. Intimità, autenticità e commercio del sesso, a cura di M. Pedullà, Odoya, Bologna 2009 [ed. or., 2007], p. 150. Arlie Russell Hochschild presenta un esempio opposto di relazione a pagamento: ci sono uomini ricchi che mettono annunci per donne attraenti le quali, dietro lauto compenso, svolgano le mansioni di accompagnatrici, compagne di viaggio, e talvolta massaggiatrici, ma senza esserne partner sessuali. Hochschild osserva che oggi assistiamo a una nuova modalità di esternalizzazione dei sentimenti: «Mezzo secolo fa potevamo immaginare che un uomo facoltoso si comprasse una bella casa o una macchina, e che pagasse per una vacanza con la famiglia; oggi ci viene proposta l’immagine di un uomo che si compra una bella famiglia, o per lo meno le attività che si associano all’idea di un vissuto familiare». Si veda Russell Hochschild, Per amore, cit., p. 46. Sia l’esempio della prestazione da fidanzata che la ricerca di una compagna che non prevede rapporti sessuali ruotano attorno a una qualche fantasia da parte del maschio pagante. L’uomo che acquista la prestazione da fidanzata si crea una fantasia circa il piacere dell’altra (la prostituta), mentre l’uomo che paga una partner non sessuale si crea la fantasia di una relazione perfettamente armoniosa che non venga rovinata dai sentimenti (né i suoi né quelli della donna). In entrambi i casi la protagonista della fantasia privata maschile è una partner ideale, tenuta a distanza per via del denaro. È proprio perché la donna viene pagata per svolgere un ruolo ben preciso che l’uomo si sente al sicuro dalle complicazioni che normalmente implica l’incontro con l’altro sesso. Questi uomini si accontentano di creare nella loro immaginazione un’idea di come dovrebbe essere il desiderio dell’altra. Così facendo, cercano di proteggersi dagli imprevisti e dalle inquietudini che spesso genera l’incontro reale con l’altro desiderante. 8 A tale ideologia si accompagna l’idea che l’amore per gli altri debba avere le basi nell’amore di sé. 9 Cfr. E. Illouz, Intimità fredde. Le emozioni nella società dei consumi, Feltrinelli, Milano 2007 [ed. or., 2006], p. 129.

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10 Anche se i siti di incontri sembrano grandi centri commerciali, in cui è possibile scegliere all’infinito tra possibili candidati all’accoppiamento, le persone inventano modi sempre muovi di limitare le loro possibilità di scelta. In alcuni siti indiani gli utenti possono limitare la loro ricerca selezionando, tra le altre cose, anche il ceto o la casta del partner ideale. In questo caso l’utente (spesso genitori di partner potenziali) si affida a ideali del passato per cercare una caratteristica particolare tra le persone in offerta. 11 Illouz, Intimità fredde, cit., p. 144. 12 Nell’epoca dell’aumento dell’informazione c’è stata un’evoluzione nel modo in cui valutiamo gli altri. Arlie Russell Hochschild, ad esempio, parla di nuovi tipi di travaglio affettivo ai quali assistiamo nella società contemporanea. Questa evoluzione dei travagli affettivi è legata al fatto che «buona parte della vita moderna è fatta di scambi tra perfetti estranei che, in assenza di contromisure e spinti da interessi personali a breve termine, perlopiù agiscono in base a sospetti e rancori più che in base alla fiducia e alla buona volontà». Si veda A. Russell Hochschild, The Managed Heart: The Commercialization of Human Feeling, University of California Press, Berkeley, CA, 1983. 13 Oggi esistono nuove tipologie di procuratori che forniscono partner temporanei per ogni occasione in cui una persona deve apparire in pubblico con un partner, un amico, o persino un testimone di matrimonio. Un’agenzia giapponese che ha iniziato a fornire ai clienti partner temporanei di questo genere ha visto un aumento costante delle richieste. Vi sono donne che noleggiano uomini perché le accompagnino a eventi mondani fingendosi loro partner; vi sono poi mogli che richiedono uomini che si mettano a flirtare con loro mentre sono fuori con i loro mariti, in modo da rendere questi ultimi gelosi e farli rigare dritto. Si veda J. McCurry, Lonely Japanese Find Solace in «Rent a Friend» Agency, «The Guardian» (20 settembre 2009), disponibile all’indirizzo internet http://www. guardian.co.uk/world/2009/sep/20/japan-relatives-professional-stand-ins. 14 Qualche tempo fa in Giappone è stato inventato un congegno per dare una mano alle persone single. Queste possono registrare i propri interessi su uno speciale apparecchio, e quando incontrano un altro single con interessi simili dotato dello stesso apparecchio, il dispositivo emette un suono. L’idea alla base di quest’invenzione è che le persone preferiscono incontrare altri che abbiano interessi simili. In realtà, tuttavia, non sono gli interessi che si manifestano razionalmente a tenere unite le persone. 15 Si veda R. Salecl, (Per)versions of Love and Hate, Verso, London 1998. 16 Ivi, p. 251. 17 Questo tema è stato affrontato sul sito web di John Gray: si veda http:// www.marsvenus.com. 18 Lebrun, Un monde sans limite, cit., p. 250.

Capitolo 4 1 Ho approfondito questo tema in R. Salecl, The Spoils of Freedom: Psychoanalysis and Feminism after the Fall of Socialism, Routledge, London 1994. 2 R. Solinger, Pregnancy and Power: A Short History of Reproductive Politics in America, New York University Press, New York 2005, p. 198.

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3 Id., Beggars and Choosers: How the Politics of Choice Shapes Adoption, Abortion, and Welfare in the United States, Hill and Wang, New York 2001. 4 Per un’analisi approfondita del rapporto tra aborto e differenze razziali negli Stati Uniti, si veda L.J. Ross, African-American Women and Abortion, in R. Solinger (a cura di), Abortion Wars: A Half Century of Struggle, 1950-2000, University of California Press, Berkeley, CA, 1998, pp. 161-207. Ross sostiene che le donne, contrariamente alla scelta, di certo imperfetta, che attualmente hanno a disposizione nell’ambito della riproduzione, devono lottare per una «scelta perfetta»: «Una scelta perfetta vuol dire non solo accesso alla pratica dell’aborto, ma anche cure mediche prenatali, un’educazione sessuale di buon livello, contraccettivi, servizi medici per la madre, il neonato, e il bambino, un alloggio dignitoso, e una riforma del sistema di erogazione delle cure sanitarie» (p. 200). 5 Ross, African-American Women, cit., p. 193. 6 A. Kuczynski, Her Body, My Baby, «New York Times Magazine» (28 novembre 2008). 7 Un altro esempio di come si possa provare piacere a costruirsi fantasie su uomini inaccessibili è quello delle donne che si innamorano di uomini prigionieri nel braccio della morte.

Capitolo 5 1 Secondo Mihnea Moldoveanu e Nitin Nohria le decisioni ci spaventano in quanto «al loro interno il possibile diventa fin troppo visibile nella realtà perché lo si possa ignorare». Si veda M. Moldoveanu e N. Nohria, Master Passions: Emotion, Narrative, and the Development of Culture, MIT Press, Cambridge, MA, 2002, pp. 48-49. 2 Si vedano gli studi contenuti in D. Kahneman, P. Slovic e A. Tversky (a cura di), Judgment under Uncertainty: Heuristics and Biases, Cambridge University Press, Cambridge 1982. 3 P.D. Kramer, Should You Leave?: A Psychiatrist Explores Intimacy and Autonomy – and the Nature of Advice, Penguin, New York 1999. 4 W. Styron, La scelta di Sophie, Mondadori, Milano 2002, p. 582 [ed. or., 1976]. Per un’analisi femminista del romanzo si veda R. Sirlin, William Styron’s «Sophie’s Choice»: Crime and Self-Punishment, UMI Research Press, Ann Arbor, MI, 1990. Sirlin analizza la relazione travagliata, spesso remissiva, di Sophie con gli uomini, a partire dal padre fino agli ufficiali del lager, e quindi con i suoi partner. Inoltre, Sirlin mette a fuoco l’aspetto di genere della scelta di Sophie, stabilendo una particolare analogia tra il sacrificio della figlia Eva e la biblica cacciata di Eva dal giardino dell’Eden. «Sophie sa per esperienza che la vita sarebbe più difficile per Eva, come per qualunque donna, che per Jan. Purtroppo, il sacrificio è per lei fonte di odio verso se stessa, quando oggetto del suo odio dovrebbero essere i suoi oppressori» (p. 33). 5 Styron, La scelta di Sophie, cit., p. 586. 6 Luke Rhinehart, nel romanzo L’uomo dei dadi, Marcos y Marcos, Milano 2004 [ed. or., 1998], elabora un altro scenario diabolico con al centro l’idea di scelta. Il personaggio principale del romanzo decide che tirerà i dadi per ogni decisione da prendere nella vita, senza curarsi delle possibili conseguenze per

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sé e per chi gli sta accanto. Questa prassi finisce per provocare il caos più totale, creando una specie di mondo psichedelico in cui il caso diventa un nuovo, folle ordine. 7 S. Freud, La mia opinione sul ruolo della sessualità nell’etiologia delle nevrosi [1905], in Opere, vol. 5, Il motto di spirito e altri scritti, 1905-1908, a cura di Cesare L. Musatti, Boringhieri, Torino 19916, p. 222. 8 Sulla «scelta della nevrosi» si veda anche C. Soler, Hysteria and Obsession, in R. Feldestein, B. Fink e M. Jaanus (a cura di), Reading Seminars I and II: Lacan’s Return to Freud, SUNY Press, Albany, NY, 1996. 9 J. Lacan, The Four Fundamental Concepts of Psychoanalysis, a cura di J.-A. Miller, Norton, New York 1981, p. 211 [cfr. trad. it., Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2003]. 10 Si veda M. Dolar, Beyond Interpellation, «Qui Parle», vol. 6 (1993), n. 2, pp. 88-89. 11 Si veda Lebrun, Un monde sans limite, cit., p. 250. Si veda anche Melman, L’uomo senza gravità, cit.

Conclusione 1 S. Freud, Minute teoriche per Wilhelm Fliess: Minuta K. Le nevrosi da difesa (Favola di Natale) [1895], in Opere, vol. 2, Progetto di una psicologia e altri scritti, 1892-1899, a cura di Cesare L. Musatti, Boringhieri, Torino 19908, pp. 52-53. 2 J. Copjec, Imagine there is no Woman: Ethics and Sublimation, MIT Press, Cambridge, MA, 2004, p. 128. 3 Cfr. R. Ford, Offenders to wear ‘badge of shame’ to restore faith in justice ­system, in «The Times» (16 giugno 2008); disponibile all’indirizzo internet http://www.timesonline.co.uk/tol/news/politics/article4144470.ece. 4 http://articles.moneycentral.msn.com/SavingandDebt/LearnToBudget/ SurvivingAndThrivingOn12000AYear.aspx. 5 Trad. it., Feltrinelli, Milano 2004 (ed. or., 2001). 6 http://byebyebuy.blogspot.com/2006/12/preparing-for-year-of-not-spend ing.html. 7 Trad. it. a cura di S. Valenti, Ponte alle Grazie, Milano 2006 (ed. or., 2006). 8 http://articles.moneycentral.msn.com/SavingandDebt/LearnToBudget/ LivingPoorAnd. 9 Blog the Debt Away, «The New York Times» (5 marzo 2007); disponibile all’indirizzo internet http://www.nytimes.com/2007/03/05/opinion/05mon4. html. 10 Trad. it., Feltrinelli, Milano 2001 [ed. or., 1988].

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Ringraziamenti

Vorrei ringraziare la mia agente, Sarah Chalfant, per i suoi utilissimi consigli nel delineare i contorni del libro, e John Stubbs per le correzioni al mio inglese e per il considerevole aiuto. Il manoscritto ha tratto grande giovamento dall’editing di Lisa Appignanesi, che ringrazio per la pazienza e i commenti importanti. Anche Sarah Caro, il mio editor presso Profile Books, mi ha dato un feedback notevole. Devo molto a tutti quelli della casa editrice, per il sostegno entusiasta al mio progetto. I miei colleghi all’Istituto di criminologia della Facoltà di giurisprudenza sono stati molto collaborativi, fornendomi le loro idee e l’ambiente perfetto per scrivere il testo. Anche i colleghi presso la Cardozo School of Law, la London School of Economics e la Birkbeck College School of Law hanno contribuito con idee stimolanti e osservazioni preziose. Mio figlio Tim non mi ha lasciato scelta quando era il momento di giocare. Il che mi ha fatto distrarre dal testo e guardare al progetto con lo spirito di cui sono capaci solamente i bambini.

Indice analitico

aborto, 95-97, 153. adozione, 97, 99. «agganciare», 73-77, 86-87. agire nel proprio interesse, 9. AIDS, 58. alcol, 66, 77. Alger, Horatio, 23. alienazione, 122. Almada, Nadia, 48. Althusser, Louis, 11, 103. Altro, l’, 131, 135-136. altruismo, 9. Amazon.com, 30, 72. ambiente, 145. amore, 27-28, 72; – «agganciare», 73-77, 87, 150; – ansie d’amore, 83-87; – e divieti, 87-90; – la scelta del partner, 75-78; – romantico, 85; – scelta come auto-tutela, 78-80; – scelta come ideale e scelta ideale, 80-83; – scelte relative alla vita amorosa, 116; – scienza come cura delle nostre ansie, 90-92. amore di sé, 72, 151. amore/odio, 84. androginia, 86. Aniston, Jennifer, 53. anoressia, 6. ansia: – ansie d’amore, 83-87;

– e atto di fede, 58; – e autoaiuto, 32, 34; – e auto-perfezionamento, 55; – e coach della vita, 36; – e consigli, 4; – e cultura dell’«aggancio», 77; – e debiti, 143; – e ideologia della scelta, 7; – e l’imperativo «diventa te stesso», 11; – e liste d’attesa degli ospedali, 5860; – e paura del fallimento, 13; – e paura della perdita, 113; – e paura dell’ignoto, 117; – e ricerca della perfezione, 8; – e rischio, 13; – e scelta, 43-46; – e superare i sentimenti, 31; – e valutazione, 26; – per aver fatto la scelta sbagliata, 9, 115; – scegliere cibi/vini, 17-20. antidepressivi, 250. arte contemporanea: – ossessione per la morte e il morire, 127. «arti della catastrofe», 129. assicurazione sanitaria, 11. assistenza sanitaria, 11. astrologia, 4; si veda anche oroscopi. atto di fede, 58, 61. attrazione, 78. autoaccusa, 134.

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autoaiuto, 31-34. autoaiuto, libri di, 3-5, 21, 31-34, 55, 72, 114; – azioni e comportamenti positivi, 33; – cambiamento dei toni delle guide di autoaiuto agli affari, 24; – fallimento dei, 34; – pensiero positivo, 32-33; – religiosi, 24, 32; – sull’amore, 80. autocontrollo, 33, 36. autocostrizione, 44. autocreazione, 48-49, 68. autodistruzione, 6. autoguarigione, 57, 149. autoidentificazione, 71. autolesionismo, 6. autotortura, 6. autotrasformazione, 49-50. avidità, 11.

capitale, impazienza del, 25. capitalismo: – consumo, 66; – e felicità, 20-21; – e idea di scelta, 81-82; – e psicosi, 71; – e religione, 68; – e riti funebri sloveni, 133; – e senso di inadeguatezza, 22; – e soggettività, 66; – ideologia del, 13, 127, 132, 138; – liberaldemocratico, 146; – modo in cui si è sviluppato, 33; – occidentale, 48; – post-industriale, 6-7, 11, 35, 151; – problemi del tardo capitalismo, 6872. Carlin, George, 32. carte di credito, 40, 77-78, 143. carte di debito, 138. casa, 36-39; – costruire la casa perfetta, 6; – Feng Shui, 37-38; – vista come estensione dell’io, 36-37. Casey, Louise, 136. castrazione simbolica, 63, 69, 86. Ceaus¸escu, Nicolae, 96. celebrità: – aspetto fisico, 127; – assistenti personali, 52; – culto delle celebrità, 45, 49; – culto del vip, 51-55. celibato, movimenti per il, 45. cene per amici, 8. Chase Manhattan, 3. Chemistry.com, 90. chi, 37. chirurgia estetica, 49-50. cibo: – ansia nel compiere una scelta, 1720; – pasti preparati in casa, 5; – scelte al ristorante, 141. Cina: – pagare per le munizioni, 136; – scegliere cosa mangiare al ristorante cinese, 141. classe, differenze di, 144. classe media, 10;

Bagdad: decisione del prigioniero iracheno, 124. Baudelaire, Charles, 126. benessere, 11, 13, 15, 32-33, 64. Benjamin, Walter, 68. Bernstein, Elizabeth, 151. bisessualità, 86. Blair, Tony, 136. body art, 128-129. braccio della morte, innamorarsi di uomini nel, 153. Brosnan, Pierce, 78. buddisti: mulinelli di preghiera, 54. bulimia, 6. bullismo su internet, 78. Calvino, Italo, 18-19. Cambia la tua immagine, 4. cambiamento, la possibilità del, 144. cambiamento di sesso, 47, 71-72. Cambia pensiero: cambia te stesso, 4. Camus, Albert, 118. canadese, ministero della Salute, 58. cancro: – cura del, 148-149; – e auto-guarigione, 57, 149; – guerra contro il, 149.

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Croazia: proposta di Tudjman circa l’aborto, 96.

– rispettabilità, 23; – scelte delle donne come genitori potenziali, 97-99. Clay, Henry, 22. coach, coaching, 4, 35-36, 148. codice dei sentimenti unisex, 151. coercizione, 125. co-genitori, 94-95. «come se», personalità, 69-70. comitati etici, 67. comportamento, cambiare, 36. comunicazione via internet, 77. comunismo, 12, 145. concorrenza, 24, 43, 89. Conran (negozio di Londra), 142. consenso informato, 56, 149. consulenti finanziari, 5, 27. consumismo, 144; – consumo illimitato, 6, 66; – ridurre i consumi, 139; – società dei consumi, 3, 7. contraccettiva, pillola, 95. contraccezione, 96, 99. controllo, bisogno di, 131. Copjec, Joan, 135. corteggiamento, 75-76. «Cosmopolitan», 3, 88. Covey, Stephen, 55. credenza: – e ideologia, 11-12, 14; – religiosa, 32. crisi, 14; – di fiducia, 35-36; – esistenziale, 35-36. crisi economica: – ed economia del libero mercato, 68; – e precedenti avventure alla scoperta della povertà, 139; – e riluttanza a confrontarsi con i debiti, 40; – e rinnovato spirito puritano, 8; – e sovrabbondanza di scelta, 7-8; – richiesta di un ritorno alla realtà, 6-7; – riemersione del concetto di scelta, 7; – risparmio, 14; – semi gettati, 7. crisi petrolifere (anni Settanta), 32.

debiti, riluttanza a confrontarsi con i, 40, 77-78. decisioni, 12, 25, 56, 113. demenza senile, 131. denaro: – buttare via i soldi, 42; – percepito come coperta di Linus contro il decadimento, 41; – risparmio, 14, 41-42. depressione, 41-42. desiderio: – dell’Altro, 131; – determinare completamente i propri desideri, 36; – di profitti immediati, 25; – di relazionarsi all’altro come persona, 86; – di un figlio, 95, 104; – e divieti, 142; – e incertezza, 84; – e incontri virtuali, 82; – e insoddisfazione, 89-90; – esaminare criticamente i propri desideri, 19; – inconscio, 10, 124; – in perenne espansione, 6; – manipolazione del, 30; – sacrificare il, 14; – suscitare e gestire il, 80. Deutsch, Helene, 69. dialettica servo-padrone, 116. Dio, non esistenza di, 14. dipendenze, 6. diritti dei feti, 98. diritti dei padri, 98. diritti dell’infanzia, 98. diritti riproduttivi, 97. «Discorso del capitalismo», 65-66. dissenso, 12. disturbi della memoria, 131. «disturbi della personalità borderline», 69. «diventa te stesso», 3, 11, 50, 55. divieti paterni, 88-89. divorzio, 81. dolore, 45.

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dominarsi, 36. Don Giovanni, 87. donne native americane, 97. donne nella forza lavoro, 76. donne povere: – che ricevono sussidi sociali, 98; – di colore, 97; – non sposate, 97. dopamina, livelli di, 90-91. Dora (paziente di Freud), 123-124. Dostoevskij, Fëdor, 14. doti comunicative, 5. droghe, 66. Dufour, Dany-Robert, 67-68.

fornitore di energia elettrica, 20. forza di volontà, 36, 139. Franklin, Benjamin, 22. Freeman, Donna, 138. Freud, Sigmund, 67, 69, 80, 104, 119, 123, 134. Friends (show televisivo), 53. Frost, Robert, 114-115. frustrazione, 89-90. funerali, 54, 133. Gawain, Shakti, 32. gelosia, 64. genetica, e predeterminazione delle malattie, 11. genitori, essere, 4, 27; – atteggiamento verso i genitori, 53; – divieto di legarsi in modo incestuoso, 64; – e culto della celebrità, 51, 148; – gay, 103-104; – pressione dei coetanei prende il posto dell’influenza dei genitori, 76. genitori single per scelta, 93-95. Giappone: – agenzia di noleggio partner maschili, 152; – negozi che limitano la scelta, 141; – tecnologia per aiutare le persone single, 152. giochi di ruolo, 71. gioco d’azzardo, 41. giornali gratuiti, 145. giornalisti: storie di povertà, 137-138. Goldsmith, Barbara, 41. grande Altro, 60-62, 64, 66-68, 118119, 121-122, 134. Grande Fratello (show televisivo), 48. Gray, John, 88.

economia di libero mercato, 68. ego, 50, 119. eHarmony.com, 90. Ehrenreich, Barbara, 138. emendamento Hyde (1977), 96. Emerson, Ralph Waldo, 23. Engels, Friedrich, 12. esercizio fisico, 5. estetici, suggerimenti, 5. eterno presente, illusione di un, 13. eutanasia, 126. Extreme Makeover (show televisivo), 49. fallimento, paura del, 9. fecondazione in vitro (FIV), 105-106. felicità, 20-21, 25, 45, 65, 78, 137. Feng Shui, 37-38. Ferguson, Will, 21. figli, averne/non averne, 6, 47, 80, 93-122; – come scegliere se stessi scegliendo un figlio, 101-105; – dai desideri alle pretese, 105-108; – dai diritti alle scelte, 95-98; – la scelta impossibile, 109-111; – scelta e maternità surrogata, 98-101. «Financial Times», 6. finanza, 25. Fisher, Helen, 90-91. FIV, si veda fecondazione in vitro. FLYlady.com, 5. fondi d’investimento affettivi, 27-28. formazione, 27.

Halpern, Jake, 52-53. Harley, Willard F., 27. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 116. Hilton, Paris, 54. Hochschild, Arlie Russell, 151-152. identità: – crearsi una, 50-51; – nazionale, 48;

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– scelta della, 47; – sessuale, 71, 86; – simbolica, 121. ideologie: – capitaliste, 13, 132, 138, 145-146; – della scelta, 7, 10-12, 14-15, 29, 40, 44, 62, 78, 108, 126, 132, 145; – del rischio, 114; – fondate sul «credere che gli altri credano», 12; – new age, 145; – pensiero positivo, 33. Illouz, Eva, 82-83. Illuminismo, 22, 67. imbarazzo, 133-134. imitazione, 70, 72. immedesimazione: – con un ideale, 51-55; – e attacchi di psicosi, 69-70. inadeguatezza, senso di, 5-6, 18, 22, 29, 34. incesto, desiderio incestuoso, 64, 88, 104. incontri virtuali, 82-83, 90, 152. indecisione, 115. individualismo, 68. industria dei cosmetici, 5. inseminazione artificiale, 102. insicurezza, 4, 7, 77. insoddisfazione, 89-90. interesse personale, 9. internet, bolla speculativa legata a, 25. interpassività, 54. invecchiare, 127. inventare se stessi, 25. investimenti, 25, 27; – affettivi, 151. invidia, 64, 90, 141. io ideale, 55. ipocondria, 134. isteria, 84-85, 123-124, 140. I Want a Famous Face (show televisivo), 49.

– giuramenti «liberamente» firmati dai coscritti, 124; – scelta tra maternità e carriera, 96. Kapus´cin´ski, Ryszard, 146. Kierkegaard, Søren, 43. Kournikova, Anna, 51. Kramer, Peter D., 115-116. Kuczynski, Alex, 99. Lacan, Jacques: – definisce il «come se», 70; – e castrazione simbolica, 63; – e il fascino di Don Giovanni, 87; – e il grande Altro, 60, 122; – e le scelte obbligate, 120-123; – e non esistenza di Dio, 14; – e psicosi, 126; – la realtà sociale nella società capitalista matura, 65; – Nome-del-Padre, 64; – sugli ossessivi, 131. laissez-faire, approccio, 23. Las Vegas, casinò di, 42. Laurent, Eric, 66. lavoro, organizzazione del, 145. Laws of Attraction – Matrimonio in appello (film), 78. Leader, Darian, 49. Lebrun, Jean-Pierre, 86, 89. Legendre, Pierre, 62-63. legge: – «al cuore della cultura ultramoderna», 62; – simbolica, 64, 68; – trasmissione culturale della, 63. Lennon, John, 146. Levine, Judith, 139. liberaldemocratico: – capitalismo, 149. libero mercato, 23. libertà politica, 22. Libro degli esercizi per imparare ad a­mare te stesso (Gay Hendricks), 72. linguaggio: – come agente della castrazione simbolica, 63-64; – e cultura, 64;

Jolie, Angelina, 84, 107. jouissance (godimento), 63-66, 83, 86, 89-90, 150. Jugoslavia: – aborto e contraccezione in, 95;

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– il processo di perdita e alienazione, 122. liste d’attesa ospedaliere, 58-59. Lituania: idea di scelta, 81.

– suicidio, 118-119, 126. motivazione, 36, 113. movimento femminista, 76. multinazionali: – e il grande Altro, 60; – ottimismo presso la riunione di un consiglio di amministrazione, 4243; – valutazione all’interno delle, 26.

«Madri single per scelta», 95. Mago di Oz, Il (film), 135. Mannoni, Octave, 41. marketing: – campagne pubblicitarie, 5; – suscitare invidia, 141. Marx, Karl, 12. maschi alfa, 76. maternità surrogata, 99-101. matrimonio, 5, 10, 27, 79. matrimonio, giorno del: – abitudini alimentari, 55. Maury Povich Show, 101. Medicaid, finanziamenti per gli aborti di donne povere, 96-97. medicina: – auto-guarigione, 57, 149; – consenso informato, 56, 149; – religione e spiritualità, 57-58, 149. Melman, Charles, 66. mente e corpo, 22. mercato, e incontri virtuali, 82. Metinides, Enrique, 129-130. miglioramento di sé, 4, 12, 55. Miller, Jacques-Alain, 66. modelli di comportamento, 53. modernità, 67. Moldoveanu, Mihnea, 113. mondo razionale, 66. Moore, Julianne, 78. morte: – ansia circa l’idea di morte, 126-127; – «arti della catastrofe», 129; – dell’Altro desiderante, 131; – e arte contemporanea, 127; – e demenza senile, 131; – eutanasia, 126; – nascondere i segni della vecchiaia, 127; – paura paralizzante della morte e dell’annichilimento, 132; – rappresentazione realistica della morte e del morire, 127; – riti funebri, 54, 133-134;

narcisismo, 85-86. negatività, categoria della, 63. negazione, scelta e, 39-43. Neighbors, Lori, 55. neurochimici, dati, 91. Neurosenwahl (scelta della nevrosi), 119. nevrosi ossessive, 84-85, 130, 140. nevrotici: – e il grande Altro, 61-62; – e psicotici, 61-62, 72; – e triangoli amorosi, 84. new age, guru della salute, 57. «New York Times», 8, 41, 105, 143. Niesslein, Jennifer, 4-5, 34. Nixon, Richard, 149. Nobu, ristorante di Londra, 141. Nohria, Nitin, 113. «Nome-del-Padre», 64, 68. non affezionarsi troppo, 150. nuova categoria delle future madri «realiste», 94. obiettivi: – concentrarsi sui propri, 148; – felicità e realizzazione di sé come, 20, 25; – raggiungere gli, 36. «Observer», 93. omosessualità, 71, 76, 93-94, 103. operatore telefonico, 20, 81. ordine sociale simbolico, 64, 66. Orlan, 129. oroscopi, 5, 61, 91; si veda anche astrologia. ossessione per il lavoro, 66. paesi poveri, 10. paesi ricchi, 10.

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– psicoanalisi e scelta, 118-126; – psicoanalisi lacaniana, 60, 91. psicologi, 42. psicosi: – attacco di, 70; – aumento delle, 66, 68-69; – come questione di scelta, 126; – e capitalismo, 71; – «psicosi bianca», 69; – «psicosi latente», 69; – «psicosi ordinaria» («psicosi bianca»), 69. psicotici: – e affrontare le scelte, 140; – e il grande Altro, 61-62; – e nevrotici, 61-62, 68-69; – imitazione, 70. pubblicità, 3-4.

parchi d’avventure, 137. partner, scelta del, 75-78. patto prematrimoniale, 10. paura di impegnarsi, 91-92. pazienti colpiti da infarto, 149. Peck, M. Scott, 114. pedofilia, 88. pensiero negativo, 34. pensiero positivo, 33-34, 148. percezione di sé, 19. perdita: – e imparare a parlare, 122; – evitare il senso di perdita, 13; – paura della, 113; – realtà della, 13. perdite dei fondi pensionistici, 41. perfezione, ricerca della, 5, 8, 55. persecuzione, deliri di, 134. peso, perdere, 4, 6, 55. peste, 58. Phaller, Robert, 54. piacere: – agire contro il proprio benessere, 9; – nel lamentarsi della propria inadeguatezza, 6. Pitt, Brad, 84. placebo, effetto, 150. postmoderno, 68. potere religioso, declino del, 67. povertà, avventure alla scoperta della, 139. preghiera, mulinelli di, 54. pressione dei coetanei, 76. «prestazione da fidanzata», 151. prevedere il futuro, abilità di, 146. previsioni economiche, 5. procuratori matrimoniali, 83, 152. profitto, 25, 42-43, 59. progresso scientifico, 67-68. prostituzione, 151. psicoanalisi, psicoanalisti, 5-6, 9, 39, 45, 50; – considera le persone responsabili dei propri sintomi, 144; – desiderio legato ai divieti, 88; – e avere figli, 107; – e relazioni amorose, 85; – e sublimazione, 128; – Legendre sulla, 62-63;

rabbia, 30-31. ragazze madri, 97. Ramsay, Gordon, 141. razzismo, 89. reality show, 129. realizzazione di sé, 20-21, 25, 89. realtà, rifiuto della, 33. relazioni, 45; – consigli sulle relazioni, 5; – investire energie nelle, 27. religione: – e capitalismo, 68; – e medicina, 56, 149; – e morte, 126; – scelta della, 47. «Respect Task Force», 136. responsabilità, 5, 9, 143; – dell’uomo d’affari, 24; – per aver compiuto la scelta sbagliata, 115; – per la propria salute, 57. Rhinehart, Luke, 153. ricchezza: – e felicità, 7; – relativo benessere economico, 23; – spostamento della percezione della, 7. rimorso, 13. rimozione, 119. rimpianto, 115.

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riproduzione assistita, 97. riqualificazione, 27. rischio, 13, 25, 42, 113-114. risparmio, 14, 41-42. riti di iniziazione, 88. rituali ossessivi, 85. rituali socialmente riconosciuti, 88. rivoluzione iraniana (1979), 146. Romania: divieto di aborto, 96. Russia: stelle del tennis, 51.

– psicoanalisi e scelta, 118-126; – scelta impossibile, 115-118. Schreber, Daniel Paul, 69, 72. Schwartz, Barry, 44-45, 56. sciamani, 149. scienza come cura delle nostre ansie, 90-92. Scopri ora quello che vali (Marcus Buck­ingham), 4. seduzione, 80, 86. semplificare la propria vita, 139-140. Sennett, Richard, 9. senso di colpa: – e aumento della capacità di scelta, 5; – e autoaiuto, 34; – e cultura dell’«aggancio», 77; – e denaro, 42, 143; – e malattie, 57; – e rabbia, 31; – e ricerca del corpo ideale, 55; – e senso di responsabilità, 9; – e vita sessuale, 30; – per non essere arrivati più in alto sulla scala del successo economico, 144; – per quello che siamo, 12. sentimenti, 27-28. separazione, 62-63. Serbia: donne assunte per portare il lutto, 54. serotonina, livelli di, 90-91. servizi della sanità, 57; – in Canada, 58-59. sesso, scuola di, 88. sessuale, liberazione, 76. sessuale, rivoluzione, 45, 76. sessuale, scelta dell’orientamento, 47, 71. sessuale, terapeuta, 29. sessuale, trasgressione, 88. sessualità: – approccio consumista alla, 28-29; – e mezzi di comunicazione, 29; – Lebrun sulla, 86; – rifiuto di categorizzazioni, 71. sette, 53. Shanabrook, Stephen, 127-129. Sharapova, Maria, 51-52. shopping compulsivo, 66.

salute e sicurezza, 145. Sartre, Jean-Paul, 43. scelta: – aspetti traumatici della, 20, 144; – come auto-tutela, 78-80; – consigli per la, 4-8, 10, 142; – e ansia, 43-46; – e gli altri, 49-51; – e il processo politico, 15; – e negazione, 39-43; – glorificazione della, 10, 15; – ideologia della, 7, 10-12, 14-15, 29, 40, 44, 62, 78, 108, 126, 132, 139, 145; – impossibile, 115-118; – inconscia, 78, 91, 119; – libertà di, 10, 13, 56, 126; – limiti imposti alla, 7-8, 13-15, 141142; – perplessità circa l’ideologia della, 7; – pressione creata dalla, 8; – psicoanalisi e scelta, 118-126; – razionale, 9, 13, 15, 43, 78, 80, 91, 95, 104-105, 119, 144, 146; – riemersione durante la crisi economica, 7; – ritenuta sempre nell’interesse delle persone, 10; – scelta come ideale/scelta ideale, 80-83; – scelte consumistiche, 10, 22, 40; – scelte di vita, 10; – svantaggi dell’aumento della capacità di scelta, 5; – tirannia della, 9, 13, 37, 75, 146. scelte obbligate, 113-132; – morte e mancanza di scelta, 126132;

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Stato: il dibattito sullo Stato e i suoi cittadini, 23. sterilizzazione, 97, 99. Styron, William, 117. stupro, 88. sublimazione, 128. sublime, oggetto, 84, 87, 91. successo: – e concorrenza, 43; – materiale, 32; – spirituale, 32. suicidio, 118-119, 129. Suleman, Nadya, 105-108. Suleman, otto gemelli, 105-106.

«sindrome Tiger Woods», 148. Sirlin, Rhoda, 153. «sistema americano», 22. sistema di giustizia penale, 136. Slovenia: – riti funebri, 133; – sfruttare l’idea di divieto al fine di accrescere il desiderio, 142. snellire, 4-5, 38, 40, 44. Sobal, Jeffrey, 55. sociale, cambiamento, 13, 31. sociale, controllo, 36. sociale, ingiustizia, 34, 137. sociale, rete, 56. sociale, riconoscimento, 121. sociali, divieti, 63, 66, 86-87, 89. socialismo, 12, 81. socializzazione, 86. società, 11, 13; – adattarsi ai cambiamenti della, 36; – credo fondamentale della, 20; – disaccordo con la, 11; – divisioni sociali, 145; – raffigurata come priva di limiti, 14; – Thatcher sulla, 144. società patriarcali, 88-89. soddisfazione, 4, 20; – illimitata, 89; – ostacoli alla, 89; – ricerca ininterrotta di, 64-65; – sessuale, 85. soggettività, 64, 119, 123. soggettivizzazione, 119, 124. Solinger, Rickie, 97-98. sopravvissuti, 33. sopravvivenza del più adatto, 24. sovranità, 9. sperma di uomini deceduti, 101-102. spettacolo, 52. spiritualità, e medicina, 57-58, 149. sport, immagine diffusa dello, 52. Stati Uniti: – aborto negli, 97, 153; – «agganciare», 73; – assistenza sanitaria, 11; – borse di studio per meriti sportivi, 51; – otto gemelli Suleman, 105; – sistema del welfare, 98.

tantrico, maestro, 29. tennis, stelle del, 51. teoria della scelta razionale, 9. testamenti, 41. test del DNA, 101. Thatcher, Margaret, 144. Tobin, Phyllis Ziman, 109. transgender, 49. trasformazioni, 4. travaglio affettivo, 152. triangoli amorosi, 84. Tudjman, Franjo, 96. Tu: manuale per l’utente, 4. Tutto su di me, 3. universo, potenza creativa dell’, 32. Unscrewed (finto documentario), 29. uomo che si fa da sé, 22-25, 45. urologi, 29. «US Weekly», 53. valutazione, 26. vergogna: – abbassare lo sguardo, 135; – Copjec sulla, 135; – della propria povertà, 144; – famiglia, 136; – legata alla nostra incoerenza, 135; – riti funebri in Slovenia, 133. vittima, essere, 33. Williams, Serena, 51. Withers, Jenny, 93.

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