La tirannia della valutazione

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La tirannia della valutazione

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Indice

Prefazione

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di Francesco Codello Tirolo originale: La 1jrannie de L'évaluation Traduzione dal francese di Andrea Libero Carbone © 20 13 Éditions La Découverte, Paris © 2018 elèuthera

Opera pubblicata con il sostegno del Programma di aiuto alla pubblicazione Casanova dell'lnsticut français Italia Progetto grafico di Riccardo Falcinelli

il nostro sito è www.eleuthera.it e-mail: [email protected]

INTRODUZIONE

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Comprendere la «follia valutativa» PRIMA PARTE

Il paradosso delle «nuove» valutazioni CAPITOLO PRIMO

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La meritocrazia traviata CAPITOLO SECONDO

Un'efficacia dagli effetti perversi CAPITOLO TERZO

Il potere dell'oggettività

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SECONDA PARTE

Cosa comporta la nostra sottomissione?

Prefazione CAPITOLO QUARTO

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di Francesco Codel/Q

Il panopticon CAPITOLO QUINTO

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Valutato, ergo sum TERZA PARTE

«Valutare uccide»: un'altra valutazione è possibile? CAPITOLO SESTO

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Valutare uccide CAPITOLO SETTIMO

Per una valutazione .. . riterritorializzata Conclusione

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Nel 1958 Michael Young pubblicava a Londra il suo profetico libro The Rise o/ the Meritocracy 1980-2033 1, una distopia in cui delinea l'avvento al potere, su scala mondiale, di una Meritocrazia. I nuovi padroni governano in base a una selezione fondata non sulla nascita, né sulla ricchezza, ma sull'intelligenza misurata scientificamente. La nuova classe dirigente arriva al potere grazie a una serie di riforme scolastiche e socio-economiche ispirate al principio dell'uguaglianza delle opportunità. Le classi inferiori, lavoratori e lavoratrici, hanno inesorabilmente perso tutti i loro saperi e il loro ingegno e, con il loro consenso «democraticamente» ottenuto, si auto-dichiarano e si riconoscono come esseri inferiori. Nell'anno 2034, però, le masse di esseri sottostanti si rivoltano mettendo in discussione l'intero sistema meritocratico. Nel Manifesto che descrive le intenzioni dei rivoltosi si può leggere: «La società senza 7

classi sarà quella che avrà in sé e agirà secondo una pluralità di valori. Giacché se noi valutassimo le persone non solo per la loro intelligenza e cultura, per la loro occupazione e il loro potere, ma anche per la loro bontà e il loro coraggio, per la loro fantasia e sensibilità, la loro amorevolezza e generosità, le classi non porrebbero più esistere[ ... ]. Ogni essere umano avrà quindi eguali opportunità non di salire nel mondo alla luce di una qualche misura matematica, ma di sviluppare le sue particolari capacità per vivere una vita ricca» 2• Non esiste oggi esponente politico di destra o di sinistra, manager di aziende pubbliche o private, economista o opinionista televisivo e della carta stampata (tranne pochissime eccezioni), che non metta al primo posto dei propri obiettivi, nell'indicare la soluzione ai guasti di queste nostre società, proprio la mancanza della selezione sociale fondata sul merito3 • Certamente in una società che premia il demerito appare del tutto evidente che invocare e aspirare a una società meritocratica non può non essere un obiettivo da tutti facilmente condivisibile. Il problema, come già Michael Young aveva intuito, è che valorizzare le attitudini personali, i singoli talenti e le specifiche sensibilità è una cosa, il merito un'altra, la meritocrazia un'altra cosa ancora. Innanzitutto è palese la difficoltà (impossibilità) di definire in modo assoluto il merito, poi è evidente quanto arbitrario possa essere organizzare una comunità secondo la regola del premio all'individuo meritevole, infine sono facilmente intuibili i danni irreparabili che ne deriverebbero. Il merito è una variabile che dipende da numerosi fattori e da diversi parametri: tempo in cui si verifica, spazio in cui avviene, contesto che permette all'individuo di dimostrarsi merite8

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vole. Il merito è una variante altamente aleatoria, mai una costante, pertanto premiare il merito (in senso assoluto) è impossibile. La meritocrazia è di conseguenza impraticabile perché considera il merito un valore assoluto (e non relativo) e costante (anziché variabile). Possiamo dunque dire che la meritocrazia è la negazione del merito stesso4 • Eppure «meritocrazia» è la parola chiave, il concetto per eccellenza, che ispira tutti coloro che si propongono come i veri riformatori di queste nostre società. Strettamente collegato a questo, un altro mantra ormai risuona dentro ciascuno di noi: «valutazione». Valutare vuol dire dare valore, quindi pesare, quantificare, attribuire un peso spendibile nel mercato a qualche cosa. Valutare contiene il verbo valere, avere forza, potenza, autorità, comprende valenza, valevole (utile, valido, efficace), ma soprattutto richiama il sostantivo va/,ore (avere valore di, con valore di, valore di scambio, valore d'uso, valore nominale, valorizzare, valoroso, valùta nel senso di moneta). La valurazione è l'atto effettivo del valutare ·e il suo significato (nella molteplicità di derivati e di sensi che le si attribuiscono) è preminentemente legato al concetto di valore o stima, alla determinazione di un prezzo, trasformandosi così in un potente strumento di potere (nel senso di poter «far fare» e non di poter «fare»). Come ben sottolinea Angélique del Rey in questo suo lavoro, la valutazione è lo strumento centrale della flessibilizzazione contemporanea del lavoro, che produce inevitabilmente una precarizzazione psicologica dell'essere umano. Si caratterizza come controllo a posteriori attraverso la performance, con una pretesa di oggettività (una semplice informazione diviene un discorso di verità). Il 9

significato che la società (post)moderna attribuisce ali' oggettività implica l'equivalenza tra le cose e gli esseri: la valutazione oggi oggettivizza i soggetti e li sradica da se stessi, cioè dalla loro interiorità e specificità. In sostanza, ci suggerisce ancora Angélique del Rey, il razionalismo valutatore, vera tirannia del visibile e del!' esplicito, sviluppa e realizza una deterritorializzazione della misura e del giudizio presente nella valutazione. Pertanto è l'intero soggetto che, nel momento in cui viene valutato, è sradicato dalla propria reale condizione. Ancor di più, chi valuta pensa a un soggetto che è divenuto e si conferma come oggetto medio, così ipotizzato da parametri generali e generici, completamente senza storia, senza presente e con un futuro che sta per essere determinato dal suo esterno. Cideologia di fondo di questa società ossessionata dal valutare tutto, sempre, comunque, è propria di una nuova economia che potremmo definire «cognitiva», nella quale l'impresa (nel senso ampio del termine) investe nel «capitale umano,> (vero orrore espressivo), secondo equazioni come «ricchezza e sviluppo nazionale = innovazione». In altre parole, l'individuo è chiamato a forza ad aumentare le sue competenze per rendersi più competitivo. Una nuova logica biopolitica e totalitaria del dominio enuncia e persegue il passaggio dal saper-fare al saper-essere. Con il pretesto dell'efficienza, in realtà si valuta solo la capacità di adattamento al sistema complesso e globale di valutazione, ai suoi tempi, spazi, luoghi, modi, relazioni, incitando a una competizione esclusivamente finalizzata al raggiungimento del risultato (a qualsiasi costo), promuovendo questo nuovo soggetto-oggetto dal «cervello aumentato»\ piegando l' espressione libera e spon tanea del proprio specifico sé alle

esigenze delle batterie valutative appositamente confezionate. In nome della performance, sottolinea Angélique del Rey, abbiamo creato una misura che misura solo la capacità di conformarsi alla misura stessa. Adattarsi alle richieste significa adattarsi alla norma: le valutazioni disciplinari scolpiscono ognuno dall'interno, a partire da un modello dato e interiorizzato. I.:esito è il riconoscersi come soggetti-(oggetti) proprio in quanto si è valutati: valutato dunque sono. Insomma, l'idea dominante è che ogni individuo, attraverso la valutazione, si possa ritenere soddisfatto del posto che occupa nella piramide sociale perché è quello che gli compete in base agli sforzi (esiti) che ha saputo mettere in campo, perché è quello che si è meritato. In ogni ufficio in cui entriamo, di fronte a ogni prestazione che espletiamo e a ogni servizio di cui ci avvaliamo, nei tempi del nostro relax organizzato, nei prodotti che acquistiamo e ormai in tutte le nostre interazioni sociali, siamo chiamati a valutare, e siamo valutati, attraverso forme diverse ma comunque riconducibili a questa logica imperante. Un esempio particolarmente significativo di tutto questo lo possiamo rilevare nei sistemi scolastici. La logica meritocratica si propone di trasformare i giovani da soggetti a oggetti, e la funzione dei sistemi scolastici è innanzitutto quella di fornire al mercato del lavoro globalizzato e fluido soggetti-oggetti malleabili e utilizzabili (spendibili) in contesti diversi, privi di contenuti problematizzati, ma ricchi di capacità d i adattamento psicologico e professionale (imparare a imparare). Abbiamo ormai consumato il passaggio strategico dall'idea di istruzione obbligatoria a quello di formazione obbligatoria, dall'uomo produttore a quello consumatore. Ecco perché in passato l'attenzione li

era rivolta all'acquisizione delle conoscenze mentre adesso è rivolta all'acquisizione delle competenze. Il sistema scolastico è transitato dal!' essere al servizio dell'economia ali' essere al servizio di uno dei settori strategici dell'economia. La sua mission è infatti quella di formare adeguatamente i lavoratori alle esigenze della logica capitalistico-finanziaria, di educare e stimolare il consumatore, di aprire le scuole stesse alle strategie pervasive dei mercati6 • Il futuro lavoratore (fin da studente) deve essere flessibile, adattabile, competitivo, animato da spirito d'impresa e soprattutto responsabile, ovvero conscio che il suo interesse coincide con quello generale (cioè con quello delle classi dominanti). La pedagogia delle competenze, cosl come delineata nelle otto competenze-chiave contenute nelle Raccomandazioni del Parlamento europeo e del Consiglio d'Europa del 18 dicembre 2006, ha colonizzato l'insieme dei sistemi educativi del globo, oltrepassando le frontiere del vecchio continente e governando il sistema di istruzione di Stati Uniti, Canada, Australia, Argentina, Algeria, Togo, ecc. Tutto ciò si è imposto senza che governi nazionali, sindacati tradizionali e forze politiche abbiano speso una parola di condanna o abbiano allertato i loro iscritti rispetto alle conseguenze che questo fenomeno trasversale e internazionale sta producendo. l.:internazionalizzazione dei sistemi valutativi risponde in pieno a un modello educativo che è divenuto irrimediabilmente «formativo» e che ha trasformato la Scuola in una fabbrica di allievi performanti, in una fabbrica di «risorse umane». Si è così imposta una valutazione che poggia su una filosofia comune caratterizzata da una misurazione standardizzata e da un approccio quantitativo, una valutazione del tutto estranea al contesto quotidiano della dinamica l2

apprendimento/insegnamento/apprendimento. Le tecnologie e gli strumenti valutativi (definiti dal ;ISA, Pro~ram~e for International Student Assessment dell OCSE, e m Italia tradotti da INVALSI) stanno trasformando l'intero sistema di istruzione, diventando ormai il presupposto e non la conseguenza delle pratiche quotidiane del fare scuola. Questi sistemi pretendono di misurare ciò che non è misurabile, cioè si propongono di dare un valore quantitativo a una qualità. La competenza è infatti quella capacità tutta personale di tradurre concretamente in un contesto specifico le proprie abilità e conoscenze. Pertanto, non può essere misurata quantitativamente ma solo qualitativamente, poiché dipende da un insieme di fattori che esigono continue verifiche nella pratica. La competenza dunque definisce la capacità di portare a termine una funzione, un insieme di compiti. Tradizionalmente, è vista come il risultato di un~ padronanza delle conoscenze acquisite, del saper-fare, dei comportamenti adeguati e delle esperienze pratiche. Ma dalla fine del xx secolo, questo buon senso ha lasciaro il posto a una nuova interpretazione del termine «~ompe~ tenza», che ora non significa più solo una somma d1 sapen efficaci, ma rimanda sempre più a una capacità astratta di mobilitare le proprie conoscenze (qualunque esse siano). Ciò che caratterizza l'approccio a queste nuove competenze, predominante a partire dagli anni Novanta, è che gli obiettivi educativi, più che a trasferire contenuti, mirano a conseguire una capacità di azione. Una competenza non è riducibile a specifici saperi, né a specifici saper-fare o comportamenti. Questi sono solo risorse che l'alliev? non dev~ necessariamente possedere, ma che deve essere m grado d1 mobilitare, in un modo o nell'altro, per la realizzazione di 13

un compito panicolare. Queste nuove modalità valutative inducono perciò a insegnare solo ciò che è misurabile o che si ritiene tale. Quindi non solo condizionano le modalità di insegnamento e le didattiche che ne conseguono, ma soprattutto plasmano e rendono validi solo alcuni modi di apprendere. Con un'operazione arbitraria e pericolosa la qualità viene fatta coincidere con la quantità senza considerare realmente che l'essere vivente non è mai uguale a se stesso (cambia, si evolve) e soprattutto non è mai uguale a un altro, neanche nel modo, nello stile e nei tempi del suo apprendimento. Questo fenomeno sta producendo l'insegnamento dell'ignoranza7 , depauperando i saperi, abbassando i livelli, svuotando di criticità i contenuti. Quello che è .ormai divenuto una sorra di supermarket dell'istruzione, l'istituto scolastico, dà spazio a una didattica che produce segmentazione e meccanizzazione dell'apprendimento, attraverso una pratica valutativa standardizzata che si basa sul rispondere a domande (test) e che ha ormai rinunciato a stimolare la proposizione di domande e a mantenere acceso un pensiero critico e divergente. La filosofia dell'utilitarismo governa il processo di trasmissione del sapere e plasma le metodologie di insegnamento, producendo nei fatti un «uomo senza qualità,,8. Come scrive giustamente Angélique del Rey, la valutazione per competenze si propone di «valutare l'attitudine dei giovani quindicenni a cavarsela nella vita reale. Vita reale? Appare chiaro che nello scenario definito dalla valutazione la nozione di competenza impone una visione normativa della vita e della sua riuscita. Di ciò che la vita reale è, e di ciò che non è. Di ciò che significa riuscire nella vita reale, e di ciò che significa fallire»9• Tutto questo significa forse che il valutare deve essere

bandito da ogni forma di relazione e di organizzazione sociale? Ovviamente no! Neanche all'interno delle scuole. Ma occorre riprendere significati più autentici, più consoni a relazioni umane ispirate ai valori della cooperazione piuttosto che della competizione. Ciò che va dunque respinto è quel dispositivo di potere che assume le caratteristiche di un controllo totale funzionale alla diffusione di un «essere senza qualità,,, funzionale al mercato del lavoro globale, un dispositivo prodotto da un sistema scolastico fondato sulla cultura dell'utilitarismo e organizzato su tempi «spesi bene» (dove per bene si intende qualcosa di specifico e predefinito). Come sottolinea Angélique del Rey, ciò che urge modificare è proprio il paradigma di fondo: accettare la complessità, l'incertezza, l'imprevedibilità, la specificità, la singolarità, la contestualizzazione, rimpiazzando la linearità e il riduzionismo sistematico. Ecco dunque che, in ambito valutativo, prevarrà l'osservazione e la registrazione sul giudizio, l'attenzione al processo più che al prodotto. In questo ambito si recupera tutta una tradizione libertaria fatta di innumerevoli esperienze concrete, realizzate anche nell'attualità, che hanno privilegiato queste modalità alternative e fortemente anriautoritarie. Modalità che spingono per intervenire il meno possibile nella relazione educativa (secondo l'insegnamento di Tolstoj e della Montessori), per ritenere strategico il fatto di valutare anche l'intervento dell'adulto, per considerare l'errore uno strumento e un'occasione irrinunciabile di crescita (e non una condanna), per mettere in pratica confronti diretti tra pari, il tutto partendo dalla convinzione che l'apprendimento è una costruzione sociale e non esclusivamente individuale. La valutazione pertanto risulterà funzionale al lavoro che si sta

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svolgendo e perderà ogni valenza assimilabile a un rito da tribunale (Ferrer). Valutare è funzionale a imparare: all'opposto, nella scuola istituzionalizzata gli errori si nascondono all'insegnante perché si vogliono evitare i giudizi. Questo libro di Angélique del Rey rappresenta un punto di inizio per un'analisi radicale di come, attraverso questa ossessione valutativa, si stia imponendo un tipo di essere umano privo di autonomia, servile e ignorante, ma fortemente disponibile, perché ne ha interiorizzato i fondamenti, a essere consumato in modo assolutamente a-critico.

INTRODUZIONE

Comprendere la «follia valutativa»

Note alla Prefazione Michael Young, The Rùe ofthe Meritocracy 1980-2033, Thames and Hudson, London 1958 (trad. it.: L'avvento della meritocrazia, Edizioni di Comunità, Milano 1962, nuova edizione 2014). 2. Ibid., p. 174. 3. Segnalo qui un libro (una specie di bibbia per i suoi seguaci) su tutti: Roger Abravanel, Meritocrazia, Garzanti, Milano 2008. 4. Cfr. Carmelo Albanese, Il feticcio della meritocrazia, Manifescolibri, Roma 2013. 5. Cfr. Miguel Benasayag, Il certJel/q aumentato, l'uomo diminuito, Erikson, Tremo 2016. 6. Cfr. Nico Him, L'Étole prostitt,ù, Éditions Labor, Bruxelles 200 I. 7. Cfr. Jean-Claude Michéa, L'enseignement de l'ignorance, Édicions Climats, Castelnau-le-1.ez, 1999. 8. Su tutte queste question.i rimando a diversi miei scritti precedenti e a un altro testo di Angélique del Rey, À l'é,ole des compitences. De l'éducation à la fabrique de l'élève pnfonnant, La Oécouverte, Paris 2013. 9. Angélique del Rey, À l'icole des compitences, cit., pp. 58-59.

La valutazione, nel nostro mondo neoliberista, è diventata un potente strumento di potere. In primo luogo nelle scuole, dove il sistema di valutazione basato sui punteggi è stato affiancato sin dagli anni Duemila da valutazioni di una nuova natura, che pretendono di individuare gli alunni «a rischio di fallimento scolastico» già ali' asilo, predisponendo la loro «conformità occupazionale» attra-

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Se la vira avesse uno scopo, non sarebbe più la vita. Paul Valéry

Dobbiamo costantemente combattere l'idQlatria della ragione, che tuttavia è il nostro unico strumento affidabile di conoscenza. Edgar Morin

verso «un registro personale delle competenze» che sempre più rimanda a patologie e handicap, nonché a una potenziale propensione criminale. In secondo luogo nei posti di lavoro, dove similmente, a partire dagli anni Ottanta, la «logica della competenza» affianca un sistema di valutazione basato da oltre un secolo sulle qualifiche, con l'intento di sostituirvisi. Questa nuova logica rende la valutazione uno strumento centrale nella flessibilizzazione del lavoro, portando a una «precarietà psicologica» che, come dimostrano esempi sempre più numerosi, può anche condurre al suicidio! In terzo luogo nelle politiche e negli atti pubblici, dove l'avvento negli anni Ottanta del New Public Management, nel mondo anglosassone prima e poi in tutto il mondo, ha sconvolto la precedente modalità burocratica di valutazione basata sulla legittimità democratica e sul controllo a posteriori, imponendo una «gestione delle prestazioni» in cui la valutazione è ancora una volta centrale, fino a divenire onnipresente, diffusa e riconducibile a parametri di efficacia basati sul denaro. Quest'ultima forma di valutazione, che ha cominciato a imporsi in Francia nel 2000, ha avuto ricadute in tutti i settori, in tutte le organizzazioni e istituzioni, in tutti i mestieri e professioni. I:università e la ricerca sono state tra le prime istituzioni coinvolte, in particolare attraverso una classificazione bibliometrica autoreferenziale delle riviste e i nuovi criteri formali per la classificazione di ricercatori e università. Il fenomeno ha riguardato anche l'intero sistema di istruzione pubblica, con la drastica riduzione dei posti di lavoro, l'abolizione della formazione degli insegnanti, la concorrenza indotta tra le scuole... tutte conseguenze di valutazioni «basate sulle prestazioni». Nell'am-

bito della sanità, il New Public Management ha portato alla chiusura di alcuni centri di cura, ai servizi a pagamento e a una valutazione del personale sanitario basata su logiche estranee alla professione. In ambito giudiziario, questa evoluzione si è tradotta in un irrigidimento delle pene e in misure di detenzione preventiva ... Perfino i settori legati alle funzioni sovrane dello Stato, come la polizia, non sono immuni da valutazioni manageriali, e sempre più poliziotti lamentano di doversi occupare di «raggiungere i parametri assegnati» invece di svolgere efficacemente il proprio lavoro. Queste «nuove» valutazioni sono soprattutto legate a nuove istituzioni, ma non sempre: quando un giovane delle classi popolari valuta di essere, come la maggior parte dei giovani della sua classe, incapace di scudi di lunga durata, quando un direttore delle risorse umane bombarda i suoi «collaboratori» con valutazioni spontanee della loro performance o quando un sito di incontri online fa dipendere l'iscrizione da una valutazione curiosamente incentrata sul salario mensile, è ali' opera la stessa tirannia delle valutazioni istituzionali che creano ingiustizia in nome del merito, ovvero inefficienza in nome della performance. La tirannia delle nuove forme di valutazione si basa anche sulla loro presunta oggettività. Benché tendano a imporsi sulla totalità della vita individuale e sociale, danno di sé un'immagine ben diversa da quella di un potere: si presentano cioè come una semplice «informazione», se non come un discorso di. . . verità. E con l'avanzare delle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione, il giudizio di valore presente in ogni valutazione tende a svanire dietro l'imposizione automatica di una misura... autoreferenziale: se un blog o un sito web riceve molti «mi piace»,

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vuol dire che è di buona qualità e merita di essere frequentato; se lo spettacolo attrae pochi spettatori o non partecipa attivamente alla «creazione di legame sociale» (premio di consolazione), non vale niente; se per un progetto sono stati spesi un sacco di soldi, bisogna valutare il rapporto costi/benefici (anche se è un progetto incentrato sulla salute dei beneficiari); e così via. Valutare vuol dire sempre più misurare tutto con lo stesso metro: il denaro, il capitale. Tuttavia, le critiche rivolte alla valutazione vengono generalmente percepite come irresponsabili: lo dimostra, per esempio, la reazione indignata di un consulente a un convegno di psicoterapeuti tenutosi alla Mutualité di Parigi nel febbraio 201 O il cui titolo era Valutare uccide-. «Non vogliamo forse ambulatori efficaci? Non abbiamo forse bisogno di servizi pubblici capaci di sfruttare al meglio i mezzi a disposizione? È la valutazione di ciò che è stato fatto a rendere possibili i progressi. Per esempio, se si valutano i risultati di un esperimento scientifico, non è per stigmatizzare le persone che lo hanno condotto, ma per trarne degli insegnamenti». E ancora, nella critica della valutazione «si intravede, in filigrana, l'idea che non si debbano fare distinzioni tra il lavoro degli uni e quello degli altri, per non correre il rischio di ricadere in una pratica manageriale liberista, secondo cui l'impiegato buono è quello che finisce per suicidarsi perché è sotto pressione. [ ... ] Questo modo di pensare porta a una posizione estrema: viva la pigrizia in quanto forma di resistenza ali'oppressione!» 1• Uno sfogo che forse farà eco a una domanda che alcuni lettori di questo breve saggio magari si porranno: «Ma è incomprensibile! Che senso ha criticare una pratica umana 20

universale e naturale come quella della valutazione? l'atleta non valuta forse l'altezza o la lunghezza prima di saltare? il chirurgo e il paziente non valutano forse le possibilità di successo e i rischi prima di operare? i politici non dovrebbero forse valutare i vantaggi e gli svantaggi di una riforma prima di proporla?». Il presupposto implicito è che la valutazione, nel duplice significato di conoscenza (immagazzinamento di informazioni, confronto, misurazione) e giudizio («è lontano», «è rischioso», «è veloce o lento», «è troppo», «è troppo poco», «è buono», «è cattivo», «è beli~», «è brutto» ecc.), è un prerequisito di qualunque scelta razionale: quindi non si può essere ragionevolmente «contro»! In realtà, l'importante non è essere p ro o contro la valutazione in generale. Piuttosto, dobbiamo capire come mai si è prodotto, lì dove si tratta di valutare, un tale degrado della vita sociale: curiamo sempre peggio, educhiamo meno di prima, lavoriamo con sempre maggiore sofferenza. Le nuove forme di valutazione hanno l'intento di «ottimizzare» il «capitale umano» e l'azione pubblica, ma chiaramente ottengono il risultato opposto ... Se vogliamo dare una spiegazione a tale paradosso, dobbiamo ricostruire la genesi di queste forme per comprendere i processi in atto, ovvero comprendere in che modo la valutazione abbia finito per produrre, globalmente, una caricatura della meritocrazia, dell'efficienza, dell' oggettività; in che misura partecipi di un nuovo sistema di potere, molto normativo, in cui tutti sono portati a identificarsi con le proprie valutazioni; fino a che punto questa nuova «servitù volontaria» rappresenti una minaccia per i processi organici che stanno alla base di tutta la vita sociale. Questo libro si basa sulla convinzione che la problematicità delle 21

nuove forme di valutazione, più che nella loro illegittimità (che pure sussiste), sta nell'incapacità di rispettare i processi che sono ali' origine di ogni vitalità sociale. C'è chi dà a questa incapacità il nome di «ossessione» o «follia», alludendo così al fatto che si tratterebbe di un fenomeno inesplicabile, che va oltre la ragione, e rispetto al quale l'unico atteggiamento possibile è gridare allo scandalo. Al contrario, a noi sembra cruciale cercare di comprendere questa «follia valutativa», e almeno per due ragioni. La prima è, come dice Spinoza nella sua Etica, che spiegare è meglio di giudicare e deplorare. Perché, dopo tutto, chi giudica e deplora? E come si può onestamente credere che prima la valutazione fosse una pratica normale e che improvvisamente sia diventata «una sciocchezza»? La seconda ragione è legata al fatto che le nuove forme di valutazione soffrono di un eccesso di ragione o, come direbbe Edgar Morin, di un eccesso di razionalismo. Dire che sono «folli» significa quindi non vedere che c'è proprio questo «razionalismo» dietro l'attuale evoluzione dei valori su cui poggiano quelle pratiche valutative. I.:equivalenza degli esseri e delle cose, processo implicito nella moderna attribuzione di valore all' «oggettività», è oggi centrale in questo tipo di valutazione, che oggettivizza i soggetti e li sradica da se stessi, svuotandoli della loro interiorità. La credenza nella cosiddetta libertà del lavoro sta alla base di una simile caricatura della meritocrazia, che induce il dipendente a credere di meritare di essere licenziato perché il suo «bilancio delle competenze» non è soddisfacente. Fondamento esplicito di questa ideologia, che impedisce alle persone di lavorare (bene) in nome di una maggiore efficienza, è l'idea che essere efficaci significhi raggiungere obiettivi razionalmente mirati. 22



Ma veniamo ora all'ipotesi centrale di questo breve saggio: il razionalismo valutatore, vera e propria tirannia del visibile e dell'esplicito, rivela un processo di «deterrit0rializzazione»2 della misura e del giudizio insiti nella valutazione. Questo processo è un risultato di lungo periodo, ma se da tempo, e oggi più che mai, va incontro a una resistenza passiva (che tende per definizione a forzare), si pone allora la questione di comprendere se tale resistenza possa diventare attiva grazie a una riterritorializzazione delle pratiche di valutazione. È possibile che queste, riagganciandosi alla «situazione», riacquistino significato ed efficacia? È la questione con cui ci confronteremo, richiamandoci lungo il percorso ai diversi punti di vista espressi da una storia della valutazione, così come da una sociologia e da una psicologia della valutazione, al fine di condurre una riflessione a tutto campo su questo inconsueto potere, oltre che su una resistenza possibile.

Note all'Introduzione

I. Intervento del 4 marzo 20 I O pubblicato sul blog dei consulenci APEC: . 2. Concetto che prendiamo in prestito da Gilles Dclcuze e Félix Guattari, in particolare da L'Anti-CEdipe, Minuit, Paris 1972 (trad. it.: L'anti-Edipfl. Capitausmfl e schizofrenia, Einaudi, Torino 2002).

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Prima parte Il paradosso delle «nuove» valutazioni

CAPITOLO PRIMO

La meritocrazia traviata

La valutazione non è sempre esistita. Questa pratica, così naturale per le società capitaliste, si trova solo in poche società «precapitaliste», dove rimane limitata a specifici organismi sociali, senza legami con l'arricchimento delle persone valutate: in queste società, a determinare il valore è l'origine, non l'impegno! Con la nascita del capitalismo, viene istituito un meccanismo di selezione sociale e di riconoscimento delle capacità insJ.ividuali e degli sforzi che le sottendono: è la valutazione moderna. Questo meccanismo, cui siamo così , abituati da non metterlo più in discussione, è diventato il nostro orizzonte di pensiero e di azione. Pensare che una donna delle pulizie «meriti» uno stipendio più basso di un dirigente d'azienda, che un insegnante sia competente perché occupa un posto in cui svolge una funzione didattica, che uno studente delle scuole di alta formazione sia intel27

ligente perché ha superato i test di ammissione, o ancora che se ho un «voto» più alto di quello del mio compagno di classe è perché «valgo» più di lui, è una cosa cosl scontata che non badiamo più a mettere in discussione queste idee, né a fortiori la pratica che le sottende, ovvero la valutazione. Ma quel che il paradosso di queste «nuove» valutazioni, che generano ingiustizia in nome della giustizia, ci impone di fare è di mettere in discussione la «meritocrazia». Se si presume che la valutazione debba rispecchiare i meriti di ciascuno, così da garantire che l'assegnazione dei posti di lavoro e delle responsabilità si basi sugli sforzi, la capacità lavorativa e le competenze (piuttosto che sui diritti di nascita e di sangue), com'è possibile che, una volta fatte le valutazioni, alcuni individui meritevoli si ritrovino a bocca asciutta? Come si spiega che le valutazioni basate sul merito producono l'effetto opposto a quello cui dicono di mirare?

Due principi fondamentali della meritocrazia Nella percezione comune, la valutazione è legata a esami, concorsi, titoli, diplomi, certificati ecc. Questa forma di valutazione ci è tanto familiare che sembra esistere da sempre. In realtà, i dispositivi di scolarizzazione che ne costituiscono il presupposto sono abbastanza recenti, almeno come dispositivi unificati, autonomi, chiaramente finalizzati e soggetti a una legislazione comune (e non solo locale) che disciplina esami e concorsi: in Europa, la loro istituzione risale al periodo delle rivoluzioni e all'inizio del XIX secolo.

In origine, queste istituzioni nascono nel segno degli ideali che informano i diritti dell'uomo, in particolare la parità di diritti. E anche se il sistema scolastico creato da queste istituzioni è nella pratica «a due velocità», idealmente è progettato per essere accessibile a tutti, con il proposito di offrire pari opponunità di successo a ciascuno. Al contempo, però, è concepito in modo da riconoscere i meriti individuali attraverso la valutazione e un'organizzazione a più livelli. Dicendo «merito», mi riferisco alla concezione che ne abbiamo oggi (e che proviene dagli ideali rivoluzionari) e non all'idea di un merito innato, prevalente nel Medio Evo, secondo cui lo sforzo è spregevole e non rende «meritevoli». Nella concezione moderna del merito, gli individui sono responsabili del loro destino grazie agli sforzi e alle performance che mettono in atto. Idealmente, se le capacità di ciascuno con il tempo si differenziano, alla nascita sono invece tutte uguali. Formare le proprie capacità è possibile e necessario .. . ed ecco com'è che si merita quel che si ottiene. Benché la valutazione venga associata spontaneamente al riconoscimento del merito scolastico, questo presuppone tuttavia una concezione più ampia del merito, in cui il lavoro stesso (nel senso della funzione svolta nella società, nonché del salario ricevuto in cambio) dovrebbe a sua volta dipendere dalla «riuscita scolastica». Come afferma la Costituzione emanata nel 1791 dal nuovo Stato rivoluzionario francese: «Tutti i cittadini hanno accesso ai posti di lavoro e alle cariche, senza distinzione alcuna se non per talenti e virtù». Ora, questi talenti e virtù non sono più innati, ma acquisiti: per lo spirito rivoluzionario, si tratta di edificare un sistema di istruzione che consenta di scegliere i più capaci e di prepararli a questi posti di lavoro e a 29

Questi due principi costituiscono lo sfondo giuridicopolitico dell'importanza assunta nella modernità dalla valutazione delle capacità. Da un punto di vista mate-

riale, tuttavia, è il capitalismo a svolgere un ruolo determinante per il futuro di questa valutazione. In primo luogo, la rivoluzione industriale crea un nuovo bisogno di «competenze» (capacità frutto di formazione) che vanno valutate nell'ambito di un sistema scolastico allora in costruzione. In secondo luogo, il capitalismo dà origine a ciò che Marx chiama «lavoro astratto» (in altri termini, separabile dalla forma di attività del lavoratore, che si tratti di un calzolaio, di un medico o di un musicista), che diviene valutabile sul «mercato del lavoro». Tale lavoro diviene allora, come scrive Adam Smith ne La ricchezza delle nazioni, la «misura reale del valore di scambio di tutte le merci». In terzo luogo, questo lavoro si trova a essere caratterizzato in modo puramente quantitativo, sbarrando la strada fin dalle origini a un tipo di valutazione che pure i nuovi ideali avevano reso possibile. La sua caratterizzazione, da parte sia degli economisti che del capitalismo reale, si basa infatti su un compromesso che diventa un classico nel diritto del lavoro: il lavoro sarà valutato in base alla quantità dei giorni o delle ore lavorate. Non conta dunque la natura o l'intensità dello sforzo, non conta la qualità del lavoro. Quello che conta è l'orario di lavoro - quello della bottega, della manifattura, del!'opificio, della fabbrica e, in seguito, della catena di montaggio con i ritmi e tempi propri della produzione. Questo compromesso invaliderà fin dalle origini l'ideologia del merito, la valutazione del lavoro, comportando piuttosto la sua «svalutazione»: il tempo di lavoro non dipende infatti daJla natura della mano d'opera impiegata, né dalla sua formazione, né dall'intensità degli sforzi che hanno portato il lavoratore a svolgere quella funzione. «I lavoratori non sono tenuti a pensare, altri sono pagati per que-

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queste cariche. Il valore non è più dato dai natali, ma dalla valutazione. Il valere si forma e si valuta. Un altro ideale rivoluzionario svolge un ruolo essenziale nella creazione di questo sistema di riconoscimento del merito sociale: quello della libertà del lavoro. Nelle società antiche e medievali, il lavoro non è libero, è inquadrato nelle corporazioni, quando non è assimilato alla servitù. Listituzione della «meritocrazia» si fonda dunque sul rovesciamento di un sistema e dei suoi valori, il che fa sì che ciascuno sia considerato libero di lavorare, e che quindi se ne possano riconoscere le capacità sul «mercato» del lavoro. Come dispone la legge rivoluzionaria del 16 febbraio 1791, nota come decreto Allarde, «è libenà di ciascuno fare il commercio o esercitare la professione, l'arte e il mestiere che ritiene». Questa libertà non è scontata, ma si fonda sulla «liberazione» del lavoro dal quadro giuridico e istituzionale delle corporazioni: il divieto di ogni forma di organizzazione collettiva dei «cittadini di uguale stato e professione» (la cosiddetta legge Le Chapelier). Lazzeramento del luogo tradizionale dell'operaio, del lavoratore, permette ora una ricostruzione basata sul merito. Non essendo più inquadrati e regolamentati, i ruoli e le funzioni sociali saranno d'ora in poi sottoposti a una valutazione delle «competenze» di chi li deve espletare.

Quando ci si mette di meZZ,, come si direbbe oggi, finalizzata a rispondere a una questione duplice: da un lato, la gestione di una mano d'opera che arriva in massa e all'improvviso dalla campagna e, dall'altro, la gestione del lavoro, vale a dire come sfruttare al massimo la forza lavoro disponibile, disciplinarla, renderla «docile e utile». La disciplina di cui si fa strumento il libretto operaio si fonda in questo caso su una dimensione della valutazione così articolata: rilevare e registrare i dati per iscritto, al fine di rendere possibile l'onnivisibilità, la trasparenza del panopticon, il cui potere, come rileva Foucau!t, è «come quello del sole, della luce perpetua»2 • In secondo luogo, la statistica è un dispositivo al servizio della trasparenza in quanto crea, con il fatto stesso di esi99

stere, un luogo di osservazione dall'alto, aprendo con questo «punto di vista senza collocazione» un campo di visi-. bilità panottica. Non contenta di registrare informazioni e dati, la statistica crea in realtà (cfr. supra, capitolo terzo) degli spazi di equivalenza al fine di confrontare e ridurre questi dati a una misura comune. Ora, questa omogeneizzazione aumenta il controllo, nella misura in cui aggiunge la norma allo sguardo. La valutazione assume qui il suo pieno significato dal momento che non si tratta più solo di informarsi sulle persone, ma di confrontarle con un tipo ideale, con un «uomo normale», giudicandone il grado più o meno elevato di conformità. Un esempio è l'istituzione da parte del capitalismo sociale di un'equivalenza tra valutazione scolastica (concorsi ed esami) e qualifiche riconosciute sul mercato del lavoro. Abbiamo analizzato questo sistema dal punto di vista del merito: meritare il proprio «posto» perché si è superato, per esempio, un concorso. Ma al di là o a prescindere dalla questione del merito, le valutazioni permettono di stabilire corrispondenze, stabilendo legami tra rapporti di potere un tempo non sovrapponibili. Sotto l'Ancien Régime, i rapporti di potere si incrociavano senza sovrapporsi e non riguardavano solo gli individui, perché potevano investire una famiglia, una comunità, o anche qualcosa di diverso dalle comunità umane: una terra, una strada, uno strumento di produzione. Ora, il rovescio della meritocrazia moderna (e più ancora postmoderna) è una riduzione della molteplicità di dimensioni dalle quali si può essere guardati, considerati, trattati, giudicati (in altri termini, i rapporti di potere), a un'unica dimensione: quella valutata da istituzioni ad hoc.

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Valutazione e servitù volontaria

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Da un punto di vista strettamente giuridico - punto di vista classico sul potere - l'avvento delle democrazie in Occidente in epoca moderna ha certamente comportato un avanzamento delle libertà: libertà di lavoro, pari opportunità, mobilità sociale legata all'impegno individuale piuttosto che al sangue ... La valutazione si intreccia a questo avanzamento delle libertà, in quanto permette di basare la selezione su qualcosa di diverso dal ceto di origine: sul merito individuale. Avere un certo status sociale, godere di questa o quella ricchezza secondo la valutazione dei meriti individuali, sembra un sistema più giusto di quello che basava la ripartizione e la distribuzione della ricchezza sul diritto di nascita! Ma il rovescio della meritocrazia, q uesto ordinamento sociale in cui ci si «merita» un posto in base alle valutazioni cui si viene sottoposti, non è altro che la società disciplinare: una società in cui - grazie a un insieme di discipline che riguardano i corpi, i gesti, i comportamenti, i tempi - si producono individui docili, «utili», che vivono nell' angoscia di essere respinti dalla società come anormali. Certo, generalmente gli individui in questione non se ne rendono conto. D'altro canto, non è mille volte meglio un potere così che un potere violento? Per esempio, valutare un operaio non è mille volte meglio che prenderlo a bastonate? Eppure, anche se la prima pratica sembra non colpirlo, può però portare a declassarlo o a licenziarlo, è questi sono effetti piuttosto concreti! Attraverso la valutazione viene esercitato un potere, ma senza violenza: agisce sui corpi senza che questi «accusino il colpo». Perché, come dice IOI

Foucault a proposito di una scena famosa, fondativa della psichiatria, cioè la liberazione dei folli, «si andrà a sostituire la violenza selvaggia di un corpo che prima era in catene con la sottomissione costante di una volontà a un'altra» 3• Il potere disciplinare è un potere senza corpo, immateriale. Si esercita senza strumenti, a parte la scrittura, grazie a un semplice gioco di luci, uno sguardo che in ogni momento può notare, giudicare, individuare, punire fin dal primo gesto, dal primo atteggiamento, dalla prima distrazione. La volontà che sottomette non ha alcun bisogno di essere incarnata. Perché, come mostra chiaramente il modello del panopticon, chiunque può sorvegliare. Il sistema disciplinare è una macchina che, al limite, potrebbe funzionare senza che vi sia qualcuno al comando. È, dunque, secondo Bentham, una macchina molto «democratica»: il potere stesso non sfugge al dominio della macchina. Di fronte ai problemi sollevati dalla valutazione, tutti - inclusi quelli che valutano - dicono: «Valutiamo i valutatori». Ma come possiamo comprendere la portata degli effetti di potere dei discorsi di verità? Come funziona questo «potere della luce»? Producendo individui alla luce, li sottomette e agisce sui loro corpi. Questo processo prosegue poi nell'individuo, che mediante l'interiorizzazione della legge lo applica a se stesso. La trasparenza porta quindi alla sorveglianza, che a sua volta porta all'interiorizzazione. È questa interiorizzazione a spiegare il potere della verità. La legge diventa una norma cui l'individuo giura fedeltà, non essendo più in grado di riconoscere gli effetti della legge, di distinguerli da quello che «vuole». Ormai, quello che vuole è quello che deve. Il folle, una volta calmatosi, riconoscerà che era troppo violento e che non doveva esserlo; il lavora-

tore che è stato licenziato penserà che «in qualche modo» ha meritato il suo licenziamento; l'alunno che prende un brutto voto penserà di non aver fatto abbastanza, di essere «un buono a nulla», o di non essere integrato, cioè di essere «anormale». Basandosi su norme (vincoli interni) piuttosto che leggi (vincoli esterni), le discipline producono un nuovo tipo di servitù volontaria che, venendo ad aggiungersi alle forme esistenti (la religione, i giochi ecc.), risulta più adatta alle forme emergenti del capitalismo e dello Stato amministrativo, in quanto corrisponde all'invenzione di tecnologie positive di potere. Il potere disciplinare non è un potere che impedisce, proibisce, reprime, o in altri termini che agisce negativamente sui soggetti, ma un potere che fabbrica, produce, trasforma: «crea» l'individuo. Per il potere disciplinare, un soggetto è un individuo, unidimensionale, trasparente alle sue valutazioni, che (idealmente) sono senza soluzione di continuità rispetto a tutta la sua vita. Di qui la difficoltà di resistere a questo potere. D'altronde, chi dovrebbe opporre resistenza? Se si tratta dell'individuo standardizzato e disciplinato, la domanda allora è: che cosa dovrebbe renderlo capace di resistere? !.:impossibilità di separare l'individuo dal sistema disciplinare che agisce su di lui solleva la difficile questione del «soggetto» della resistenza. La differenza tra la potenza del panopticon e i meccanismi classici della servitù volontaria deriva da questa tecnologia «positiva» del potere. Mentre la religione o i giochi sono governati da meccanismi in cerco modo conservativi (il loro scopo è preservare l'ordine esistente, riprodurre i rapporti di classe), le discipline assecondano la mobilità sociale e tendono a ottimizzare l'uso degli uomini e della

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Il potere delle nuove forme di valutazione è al contempo simile e diverso da quello che abbiamo analizzato finora. È simile nel senso che ha sempre la natura della luce: del panopticon. In compenso, l'avvento delle ,muove tecnologie dell'informazione e della comunicazione», moltiplicando le fonti di informazioni relative all'immediato presente e alle reazioni anch'esse immediate, ne ha modificato il principio. Da un lato, infatti, il vecchio sistema dell' onnivisibilità basata sulla scrittura viene gradualmente sostituito da un altro in cui il fatto stesso di entrare in una macchina infocomunicativa (lV, telefonia mobile, internet, blog, foroblog, socia! network) crea trasparenza. Come la televisione del Grande Fratello immaginata da George Orwell in 1984, presente in ogni casa, i nuovi mezzi di comunicazione proiettano l'intimità nello spazio pubblico, annullando i contorni della «vita privata»: una trasparenza che rende la valutazione un vero e proprio modo di essere, diffuso e «democratico». Su internet, le pratiche di valutazione si diffondono, permeando le relazioni virtuali. Ma sono gli stessi comportamenti virtuali a lasciare una traccia passibile di entrare nell'ingranaggio contabile e di servire per una valutazione: quanti visitarori ha questo sito?

quanti dollari sono stati spesi oggi sul gioco e sul socia! network Second Life? quanti «amici» hanno visitato ieri il mio profilo Facebook dopo che ho condiviso mie foro di viaggio? quanti «mi piace» ha questo post? La valutazione diventa allora una vera e propria ossessione quotidiana, dal momento che ognuno anela, desidera, vuole essere catturato dall'occhio della macchina: vuole essere visibile. Perché in questa «società dello spettacolo», come la chiamava Guy Debord, «ciò che è buono appare e ciò che appare è buono» 4 • Ciò che è invisibile non esiste (non deve esistere), a cominciare da tutti coloro che non hanno accesso ai nuovi mezzi di comunicazione (due terzi del pianeta): sono gli esclusi di oggi. D'altra parte, questa valanga di informazioni eterogenee (numero di visitarori, numero di «mi piace», settori in cui si trova lavoro, opportunità di mobilità sociale in base alla classe di provenienza, malattie che si ha la probabilità di contrarre a seconda del luogo di nascita, di residenza, dell'età, delle attività svolte ecc.) produce l'interiorizzazione dell'ingiunzione fondamentale: bisogna adattarsi, rimanere in corsa, restare competitivi. Le statistiche sull'utilizzo di un sito web portano all'idea che bisogna cambiare la propria immagine, quelle sulla disoccupazione che bisogna accettare di tutto per rimanere in gioco, quelle sui settori economici in crescita che bisogna puntare proprio su quei settori formandosi adeguatamente e riducendo così ogni altro desiderio o interesse all'interesse economico. Oppure, per riprendere l'esempio portato da un'esperta in management internazionale in un libro già citato\ le informazioni in tempo reale fornite dai sistemi informatici sulle possibili oscillazioni permettono ai manager amministra-

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forza lavoro, a sorvegliare con meno mezzi e meno energia, a generare «progresso» e «performance». Il loro scopo non è la riproduzione, ma la produzione, o più precisamente l'efficienza della produzione. È in questo senso che sono il contraltare della società del merito sociale.

Il panopticon in versione postmoderna

civi di adattarsi costantemente alle mutevoli situazioni. La celebre formula di Alfred Konybski (1879-1950), «una mappa non è il territorio» (in altri termini, i nostri giudizi sono relativi e non hanno presa sulla «cosa in sé»), viene qui relativizzata dal fatto che questo Ausso di valutazioni ininterrotte (i giudizi) rende caotica la realtà sociale stessa. IJngiunzione ad adattarsi conduce a sua volta a decisioni ininterrotte che influenzano il «territorio» (e non solo la «mappatura»). In altre parole, le nuove forme di valutazione non si limitano a classificare gli uomini per renderli più performanti, ma intervengono sulla natura stessa della realtà sociale, facendo della sincronia l'asse principale di un adattamento che non è più quello della specie ma quello... dell'individuo! Ne consegue una «selezione sociale» che i neoliberisti presentano come un dato scientifico (il darwinismo sociale), ma che in realtà è una costruzione legata a questo gioco che riduce il mondo e gli esseri a una sola dimensione. La riduzione della vita ali' economia diventa quindi un vero modo di essere e di pensare. Un modo di essere che svuota gli individui della loro interiorità, in quanto consiste nell'adottare i comportamenti «giusti», acquisire le abilità «giuste», investire nei capitali «giusti»: insomma, nell'adattarsi. Si tratta verosimilmente di quella che possiamo considerare come una vera e propria mutazione, perché per la prima volta una specie passa dalla selezione «naturale», basata su caratteristiche a lungo termine (diacronia), a un adattamento permanente dei suoi individui.

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Una normalizzazione senza uomo normale

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Comunque sia, queste nuove forme di valutazione normalizzano in modo diverso dalle precedenti valutazioni disciplinari. Non dicono «sei inadatco», bensl «se non fai in modo di acquisire questo o quel saper-essere sul mercato del lavoro, nessuno sarà interessato a retribuire le tue competenze». La definizione del valore si identifica quindi con la determinazione di un prezw per «cose» che sempre più includono non solo le materie prime, i prodotti, i servizi, ma anche le capacità e perfino le qualità umane: quel che gli economisti neoliberisti chiamano «capitale umano». E soprattutto in questo sistema, se c'è normalizzazione, non è perché qualcuno cerca di renderti normale, ma perché sei tu che lo desideri. Sei tu a cercare costantemente di investire e di acquisire investimenti come un complesso di capitali in grado di produrre qualcosa: nel caso del consumatore, per esempio, un po' di soddisfazione. Di conseguenza, si tenderà sempre di più a negare gli effetti stigmatizzanti della valutazione. Nel mondo dell'impresa si dice che le valutazioni non riguardano la persona ma quello che fa (quando invece le competenze più valutate non riguardano il sapere o il saper-fare ma il cosiddetto saper-essere). Si parlerà di «audit» piuttosto che di valutazione, spiegando che si tratta di una confusione nociva, perché l'audit non ha funzione di giudizio (e come no!) ma solo di raccolta dati, aggregazione di informazioni, osservazione di processi. Come scrivono gli aucori di un articolo sulla valutazione cui abbiamo già fatto riferimento6, «dobbiamo barrare la parola 'vocazione', come farebbero Lacan o Derrida, per rendere conto della veemenza di 107

quel diniego». Un diniego che attiene al giudizio presente in ogni valutazione. I nuovi valutatori in sostanza sostengono: «Non ti giudichiamo, non facciamo altro che guardarci, osservarci». Solo che il giudizio è nello sguardo. Uno sguardo che mette in competizione senza neppure aver bisogno di giudicare, dare voti, punire, come avveniva con le valutazioni disciplinari. Gli effetti di potere di queste valutazioni riguardano il fatto che esse - idealmente, com'è ovvio - rientrano nel gioco della concorrenza. Sono effetti molto negativi perché pervadono il tessuto sociale, destrutturando o spezzando i legami e producendo uomini «senza qualità»: pure esteriorità assetate di riconoscimento, che sentono di esistere solo perché vengono valutate. Di fatto, in questo sistema essere vuol dire valutare ed essere valutati. A mano a mano che il panopticon configura la società, con la sua onnivisibilità rafforzata dai continui scambi info-comunicativi (in particolare grazie alle tracce lasciate dagli scambi informatici), l'interiorità di ciascuno in qualche modo «si dispiega», tanto che c'è sempre meno bisogno di disciplinarla perché sia controllata e controllabile. In questo senso, essere è essere visti, o quanto meno essere visibili. In un sistema del genere il controllo si esercita non tanto attraverso una «normazione» di ciascuno, quanto in modo più globale attraverso il marketing e le forme di valutazione che ne derivano. Come scrive Gilles Deleuze nel suo Postscriptum sulle società di controlfq, «gli individui sono div~ntati dei 'dividui' e le masse dei campioni, dei dati, dei mercati o delle banche,►7 . La regolazione politico-economica passa dalla sorveglianza delle persone alla gestione della popolazione fonI 08

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data su dati econometrici, i quali «dimostrano» che la sorveglianza è meno efficace del laissez-faire, in base all'idea neoliberista secondo cui la società obbedisce a un «ordine spontaneo». Il controllo, in un cerco senso, si «raffina», avvicinandosi al reale funzionamento delle popolazioni grazie alle conoscenze acquisite sulle regolarità comportamentali e sulle interazioni con l'ambiente circostante. A livello di politica governativa, la questione è ora di capire quali popolazioni «conviene» normare e quali al contrario è meglio «lasciare in pace». Facciamo un esempio: per regolare i flussi di compravendita delle droghe, la proibizione apparirà meno efficace rispetto alla tolleranza di un certo tasso di tossicodipendenza nella società. Si cercherà di normare i piccoli consumatori attraverso l'aumento dei prezzi, ma si lasceranno in pace i forti consumatori, perché i primi sapranno adattarsi alle nuove condizioni create, mentre gli altri continueranno a consumare quali che siano le condizioni. Qui, invece di normare ogni singolo individuo, la valutazione ha l'effetto di normalizzare intere «popolazioni», categorizzate e differenziate su base statistica: non si cerca più di punire i tossicodipendenti, ma di fare in modo che la maggior parte di essi si adatti, mentre gli inadattabili restano ai margini della società, incarnando per gli altri lo spettro del disadattamento e dando loro l'energia per «rimanere in . . .. . gioco», c1oe compeuuv1. Il laissez-faire non è altro che uno slogan, in quanto le discipline sono sostituite da altre forme di potere, basate su una gestione e un controllo globali. La condizione di questo controllo e di questa gestione, come della loro efficacia, è la visibilità permanente di tutto: la spinta che porca l'in\

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dividuo ad adattarsi quanto più possibile alla norma, nelle condizioni imposte dal suo ambiente, deriva dal fatto che la sua adattabilità, le condizioni di questa adattabilità e perfino lo spettro del disadattamento siano per lui costantemente visibili e noti. Per gli individui che vi soggiacciono, questo tipo di governo si presenta come un potere che «vuole il loro bene» (un biopotere) e che si basa sulle loro libertà. Ma quel che la libertà concreta.mente realizza in un sistema come questo è il fatto che ognuno cerca di adattarsi a ciò che crede essere la norma. Il significato di questa «libertà» è il principio stesso dell'obbedienza: adattarsi. Adattarsi però non significa esattamente obbedire. Non c'è una regola alla quale obbedire. A costruire questa regola sono in realtà gli individui stessi rendendosi «efficienti», mettendosi spontanea.mente in concorrenza con gli altri: insomma ... adattandosi. Si aderisce alla norma adattandosi al proprio ambiente, e la norma cui ci si conforma è quella che al contempo «fa esistere». Per comprendere questo potere di normalizzazione si può richiamare l'immagine di una statua che si scolpisce da sé, dall'interno. Le valutazioni disciplinari scolpivano per così dire dall'esterno, sulla base di un modello (anche se ciascuno era portato a interiorizzare quel modello). Le nuove forme di valutazione generano invece un meccanismo di creazione della norma ... privo di un'istanza valutativa esterna. Il potere che incarnano è integrato.

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Note al capitolo

I. Michel Foucault, Sécurité, territoire, population, Gallimard/Seuil, Paris 2004, p. 4 (trad. it.: Sicurezza, terriwrio, popolazione. Corro al Co//)ge de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano 2005). 2. Michel Foucaulr, Pouvoir psychiatrique, Gallimard/Seuil, Paris, 2003, p. 30, p. 79 (trad. ic.: Il potere psichiatrico. Corro al Collège de France (1973-1974), Feltrinelli, Milano 2004). 3. lbid., p. 30. 4. Guy Dcbord, La Société du spectacle, Gallimard, Folio, Paris, 1996, p. 20 (trad. it.: La società dello spettacolo, Baldini & Cascoldi, Milano 2017). 5. Sylvie Trosa, ~rs un management postbureaucratique, cic., p. 99. 6. Philippe Biittgen e Barbara Cassin, J'en ai 22 sur 30 au vert, cic., p. 27. 7. Gilles Deleuie, Pourparlerr, Minuit, Paris 1990, p. 244 (crad. ic.: Pourparler, Quodlibet, Macerata 2000).

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CAPITOLO QUINTO

Valutato, ergo sum

Quando un individuo (o un gruppo di persone) si oppone alle nuove forme di valutazione, di solito pensa che questo sia un tipo inedito di potere e, soprattutto, che questo potere gli sia estraneo: se finora, pur non essendo d'accordo, ha obbedito senza fiatare, stavolta «non gliela darà per vinta»! Dietro le lamentele che hanno per oggetto le nuove forme di valutazione, c'è l'idea che gli individui siano stati in qualche modo aggrediti da valutazioni ingiuste e alienanti, che debbano essere spazzate via in vista di valutazioni più eque. Ora, se è vero che parallelamente alla valutazione si è sviluppato un sistema di controllo che assoggetta gli individui, questi tuttavia non esistono se si prescinde da queste forme di valutazione. A dipendere dal modo in cui si viene valutati non è solo ciò che si crede di essere, ma il fatto stesso di essere degli individui. Ne sono una dimostrazione gli studenti che, avendo preso un brutto voto a scuola, 113

Cominciamo con un esempio: un'esperienza nel volontariato viene registrata nel «libretto delle competenze» 2

sotto forma di un elenco di competenze, acquisite in quel contesto, che potrebbero interessare un potenziale datore di lavoro. A pensarci bene, è al contempo molto banale e molto sorprendente: come è possibile che qualcosa che a priori rientra nell'ambito del dono e dell'apertura al mondo venga ridotto non solo a un'esperienza di vita individuale, ma a un elenco di abilità acquisite che gli