La teologia biblica. Itinerari e traiettorie
 882501807X, 9788825018073

Table of contents :
Copertina
Frontespizio
Premessa
Introduzione
Prima parte. TEOLOGIA BIBLICA: ITINERARI
Cap. 1 - Itinerario teoretico
1. Fondazione epistemologica e legittimità della teologia biblica
2. La questione metodologica e l'opzione ermeneutica
3. Aspetti ermeneutici della teologia biblica
4. I modelli interpretativi
5. Bilancio
Conclusione
Cap. 2 - Itinerario storico
1. La preistoria
2. L'esordio della teologia biblica e il suo processo di autonomia: Johann-Philipp Gabler
3. L'opea di Georg Lorenz Bauer e i tentativi successivi
4. Lo sviluppo della scuola di Tubingen: Ferdinand Christian Baur
5. La scuola liberale (H.J. Holtzmann) e il modello storico-relogioso (W. Wrede)
6. Il modello descrittivo: la "storia della salvezza" (Heilsgeschichte)
7. Gli inizi del XX secolo e l'affermazione della teologia kerigmatico-esistenziale
8. Un duplice approccio: il kerigma e la "storia della salvezza"
9. Il pluralismo metodologico e nuovi orientamenti ermeneutici
10. Il profilo odierno della "teologia biblica": punti fermi e principi acquisiti
Conclusione
Seconda parte. TEOLOGIA BIBLICA: TRAIETTORIE
Premessa. Un itinerario per la rilettura unitaria della teologia biblica
Cap. 3 - Traiettoria vocazionale
1. La "vocazione", categoria interpretativa della Bibbia
2. Itinerario anticotestamentario
3. Itinerario neotestamentario
Conclusione
Cap. 4 - Traiettoria antropologica
1. Alle origini del racconto biblico
2. Profili dell'Antico Testamento
3. La centralità antropologica della persona di Gesù Cristo
4. Profili del Nuovo Testamento
Conclusione
Cap. 5 - Traiettoria escatologica
1. Come sentinella nella notte
2. Antico Testamento
3. Nuovo Testamento
Conclusione
Conclusione
Bibliografia
Indice

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Giuseppe De Carlo - [email protected] - 04/12/2014

Dabar - Logos - Parola Lectio divina popolare

Collana diretta da

Gastone Boscolo Gianni Cappelletto Tiziano Lorenzin

Giuseppe De Carlo - [email protected] - 04/12/2014

Giuseppe De Carlo - [email protected] - 04/12/2014

Dabar - Logos - Parola Lectio divina popolare

Giuseppe De Virgilio

LA TEOLOGIA BIBLICA Itinerari e traiettorie

Giuseppe De Carlo - [email protected] - 04/12/2014

ISBN 978-88-250-1807-3 ISBN 978-88-250-3800-2 (PDF) ISBN 978-88-250-3801-9 (EPUB) Copyright © 2014 by P.P.F.M.C. MESSAGGERO DI SANT’ANTONIO – EDITRICE Basilica del Santo - Via Orto Botanico, 11 - 35123 Padova

www.edizionimessaggero.it

Prima edizione digitale 2014

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Premessa

La collana «Dabar – Logos – Parola» propone il presente volume come compendio del percorso dei commenti biblici proposti ai libri dell’Antico e del Nuovo Testamento. In tal modo la lettura «popolare» dei testi scritturistici culmina con una riflessione sulla natura, i compiti e le prospettive della disciplina denominata «teologia biblica». La finalità della presente pubblicazione non è quella di commentare i libri della Bibbia o di elaborare temi monografici, che sono facilmente reperibili nei preziosi contributi della collana. Il libro si propone di aiutare il lettore a sintetizzare la ricchezza del messaggio biblico emerso dall’analisi dei commenti e di elaborare una visione unitaria e organica del contenuto teologico-salvifico della Sacra Scrittura. Il percorso si caratterizza per la sua complessità. Diversi aspetti del dibattito sull’identità della «teologia biblica» non hanno raggiunto un consenso ampio tra gli studiosi. Per tale ragione il libro non ha la pretesa di risolvere in modo esaustivo le vaste problematiche sollevate nel corso della trattazione, ma di orientare il lettore ad acquisire le categorie adeguate al fine di pervenire a una sintesi chiara e fondata del messaggio centrale della Sacra Scrittura. Il volume offre un itinerario ragionato del percorso teoretico e storico riguardante la nascita, lo sviluppo e l’attuale sistematizzazione della «teologia biblica», intesa come sistema scientifico e teologico. Dopo aver presentato in forma essenziale, gli aspetti formali della disciplina e l’itinerario storico che ha segnato 5

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Premessa

le vicende del dibattito epistemologico, si indicano alcune traiettorie unitarie di rilettura del messaggio teologico che attraversa i due Testamenti. Il volume è dedicato a monsignor Giuseppe Segalla, che è stato tra i maggiori protagonisti italiani della riflessione sulla «teologia biblica», autentico testimone e servitore della Parola, nella ricerca scientifica e nella vita.

Abbreviazioni

AT Antico Testamento NT Nuovo Testamento PCB Pontificia commissione biblica 6

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Introduzione

Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. (Lc 24,13-14)

Nell’esortazione apostolica Verbum Domini Benedetto XVI rileva la necessità di saper coniugare la ricerca esegetica con la «dimensione teologica» dei testi biblici. Egli scrive: I Padri sinodali hanno affermato giustamente che il frutto positivo apportato dall’uso della ricerca storico-critica moderna è innegabile. Tuttavia, mentre l’attuale esegesi accademica, anche cattolica, lavora ad alto livello per quanto riguarda la metodologia storico-critica, anche con le sue più recenti integrazioni, è doveroso esigere un analogo studio della dimensione teologica dei testi biblici, affinché progredisca l’approfondimento secondo i tre elementi indicati dalla Costituzione dogmatica Dei Verbum1.

L’esigenza di elaborare una «teologia biblica» è costante nello sviluppo della riflessione magisteriale e teologica, soprattutto partendo dalle istanze del concilio Vaticano II. Anche se l’espressione tecnica «teologia biblica» non appare nei documenti conciliari, 1 Benedetto XVI, Verbum Domini, Esortazione apostolica postsinodale, LEV, Città del Vaticano 2010, n. 34.

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Introduzione

tuttavia non mancano riferimenti che corrispondono a ciò che s’intende come «teologia biblica». La relazione tra teologia e Bibbia è focalizzata maggiormente nella costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei verbum, che afferma: La sacra teologia si basa come su un fondamento perenne sulla parola di Dio scritta, inseparabile dalla sacra Tradizione; in essa vigorosamente si consolida e si ringiovanisce sempre, scrutando alla luce della fede ogni verità racchiusa nel mistero di Cristo. Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente parola di Dio, sia dunque lo studio delle sacre pagine come l’anima della sacra teologia2.

Trattando della formazione sacerdotale, nel decreto Optatam totius si dichiara: Con particolare diligenza si curi la formazione degli alunni con lo studio della Sacra Scrittura, che deve essere come l’anima di tutta la teologia. Premessa una appropriata introduzione, essi vengano iniziati accuratamente al metodo dell’esegesi, apprendano i massimi temi della divina Rivelazione e ricevano incitamento e nutrimento dalla quotidiana lettura e meditazione dei libri santi3.

Si tratta di due importanti asserti conciliari che pongono le fondamenta per elaborare la giusta relazione tra Bibbia e teologia. L’indissolubile relazione tra le due realtà rende possibile la costruzione di una teologia biblica intesa come un sistema scientifico autonomo, in grado di offrire la necessaria mediazione sia nell’ambito della ricerca biblica caratterizzata dalle sue complesse articolazioni, sia nel più vasto panorama teologico e interdisciplinare della ricerca. 2 3

Dei Verbum, n. 24. Optatam totius, n. 16.

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Introduzione

Il volume si propone di presentare la natura della teologia biblica, intesa come una disciplina in grado di offrire una «visione unitaria e dinamica» del messaggio teologico contenuto negli scritti della Bibbia. L’esigenza di conoscere tale disciplina nasce dall’urgente bisogno di unire allo studio esegetico dei testi un’adeguata rielaborazione teologica, che costituisce la mediazione necessaria per cogliere il messaggio biblico nella sua integralità. Annota Benedetto XVI: Il Sinodo ha sentito, inoltre, il bisogno di interrogarsi sullo stato degli attuali studi biblici e sul loro rilievo nell’ambito teologico. Infatti, dal fecondo rapporto tra esegesi e teologia dipende gran parte dell’efficacia pastorale dell’azione della Chiesa e della vita spirituale dei fedeli. Per questo ritengo importante riprendere talune riflessioni emerse nel confronto avuto su questo tema nei lavori del Sinodo4.

L’itinerario che guida la presente proposta si articola in due parti. Nella prima parte: gli itinerari; nella seconda parte: le traiettorie. Partendo dalla «natura e il metodo della teologia biblica» (capitolo I), si ripercorre in modo essenziale «la storia della disciplina» (capitolo II), per rielaborare alcune traiettorie contenute nella Bibbia e rilette in chiave unitaria. Mentre la Prima parte è consacrata all’approfondimento del livello teoretico e storico della materia, la Seconda parte rilegge le prospettive teologiche della Bibbia secondo una triplice traiettoria, assunta come chiave ermeneutica e teologica di tutta la Scrittura: la traiettoria vocazionale; la traiettoria antropologica; la traiettoria escatologica. Si rende necessaria una raccomandazione di metodo: la lettura del presente volume richiede la conoscenza dei testi della Bibbia, unica e principale fonte 4

Benedetto XVI, Verbum Domini, n. 31. 9

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Introduzione

per poter cogliere lo sviluppo della teologia biblica. A tale proposito s’invita il lettore a un’attenzione particolare nel saper «partire e ritornare» costantemente alla fonte stessa dei testi scritturistici, per ritenere con frutto lo sviluppo del pensiero teologico proposto. Roma, 19 marzo 2013 Solennità di san Giuseppe Inizio del pontificato di papa Francesco

Giuseppe De Virgilio

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Prima Parte

teologia biblica: Itinerari

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

In questa prima parte si propone un duplice itinerario: teoretico e storico. Nel capitolo 1 il lettore è chiamato ad approfondire la complessa problematica dell’identità della «teologia biblica», intesa come un sistema scientifico che ha come oggetto la rivelazione di Dio mediata storicamente nella Sacra Scrittura. L’ampio dibattito circa il ruolo specifico della disciplina testimonia il processo di graduale comprensione che la teologia biblica ha suscitato nell’ambiente della ricerca esegetica e teologica. Il capitolo 2 presenta la parabola storica della teologia biblica dalle sue origini fino ai nostri giorni. Le tappe che hanno segnato l’emancipazione della nostra disciplina dalla teologia sistematica e la caratterizzazione degli orientamenti teologici rappresentano un’eloquente testimonianza della interazione tra interpretazione del testo e vita ecclesiale. 12

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Capitolo 1

itinerario teoretico

Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». 

(Lc 24,15-18)

In un interessante contributo del 1998 il compianto teologo biblista P. Beauchamp si domanda se sia possibile «una teologia non-biblica», riflettendo sull’identità stessa e sulla natura del fare teologia. Egli annota: Una teologia biblica è finalmente chiamata a onorare il diritto di questa istanza superiore che chiamiamo «la Bibbia», la quale riunisce in un solo libro due Testamenti la cui unità è stata tanto radicalmente affermata dai cristiani, quanto contestata dagli Ebrei. Per tagliar corto, mi domando se sia possibile una teologia che attraversa i due testamenti. Questa è la vera domanda1.

Sviluppando il suo pensiero Beauchamp risponde affermativamente: non solo la teologia biblica è possibi1 P. Beauchamp, È possibile una teologia biblica?, in G. Angelini (a cura), La rivelazione attestata. La Bibbia tra Testo e Teologia (raccolta di studi in onore del cardinale Carlo Maria Martini), Glossa, Milano 1998, 320.

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

le, ma è necessaria per rispondere all’urgenza delle sfide e alla complessa riflessione che investe l’uomo contemporaneo e la sua ricerca di verità. Il nostro punto di partenza è l’affermazione secondo la quale lo studio della Bibbia «deve essere come l’anima di tutta la teologia» (Optatam totius, 16), ripresa dall’immagine contenuta nell’encilcica di Leone XIII, Providentissimus Deus2. Tale affermazione illumina la connaturale relazione che sussiste tra il pensiero teologico e l’identità della Sacra Scrittura. Il concilio intende ribadire che non ci può essere una elaborazione del dato teologico dell’evento cristiano che non prenda le mosse da una «teologia biblica». In questo primo capitolo ci proponiamo di rispondere ad alcune domande circa l’identità della teologia biblica, la sua natura epistemologica e i suoi presupposti teoretici, il corredo metodologico, la sua eventuale articolazione interna e le relazioni interdisciplinari a cui è chiamata. Si tratta di questioni complesse che interessano diversi ambiti della ricerca teologica e biblica. Partendo da una definizione di teologia biblica, la nostra analisi si attesta su tre punti centrali che aiutano a chiarire le questioni sollevate: la fondazione epistemologica e la legittimità della teologia biblica; la questione metodologica e l’opzione ermeneutica; i punti critici e i modelli di soluzione. Una definizione

Per accedere alla riflessione sulla teologia biblica assumiamo come punto di partenza la definizione proposta da G. Segalla secondo cui «la teologia biblica è la comprensione unitaria espressa in una sintesi 2 Leone XIII, Providentissimus Deus, 18 novembre 1893, in ASS 26 (1893-1894), 283.

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Cap. 1  -  Itinerario teoretico

dottrinale, critica, organica e progressiva della rivelazione storica della Bibbia attorno a categorie proprie, alla luce della fede personale ed ecclesiale»3. Tale definizione è formulata al termine di un percorso ampio e articolato4, in cui si ribadiscono alcuni elementi centrali della disciplina. In primo luogo s’intende affermare che la teologia biblica è una disciplina autonoma. In quanto tale essa si avvale di una serie di metodi collegati all’approccio storico-critico applicato alla Bibbia5. Un’ulteriore considerazione riguarda la finalità della disciplina: essa tende alla sintesi dottrinale che si realizza mediante lo sforzo di dimostrare e di presentare in forma unitaria il significato teologico contenuto nella Bibbia, partendo dai risultati della critica storico-letteraria e dell’analisi esegetica. In questo procedimento ermeneutico risulta di fondamentale importanza il tema dell’unità teologica della Bibbia. Essa va coniugata con la varietà delle teologie individuabili nella tradizione e nella redazione dei testi. Di conseguenza la disciplina è chiamata a svolgere un compito ermeneutico complesso: salvaguardare la singolarità delle teologie contenute nelle tradizioni bibliche in armonia con il «centro» della rivelazione. In definitiva la teologia biblica si presenta come disciplina con una rilevante funzione ermeneutica, finalizzata a produrre l’incontro efficace tra il messaggio unitario della Bibbia e il lettore (o la comunità) del nostro tempo. 3 G. Segalla, Introduzione alla teologia biblica del Nuovo Testamento, vol. 2, Problemi, pro manuscripto, Milano 1981, 137; cf. Id., Teologia biblica, in Nuovo dizionario di teologia biblica, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1989, 1533. 4 Cf. G. Segalla, Introduzione, vol. 2, Problemi, 135-137. 5 Cf. Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, LEV, Città del Vaticano 1993.

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

1. Fondazione epistemologica e legittimità della teologia biblica La denominazione di «teologia biblica» e il suo significato

Una prima questione, per nulla formale, concerne la stessa denominazione «teologia biblica» come disciplina unitaria, a cui seguono le specificazioni relative all’Antico o Nuovo Testamento (teologia biblica dell’Antico/Nuovo Testamento). Tale denominazione, inizialmente attribuita alle raccolte di testimonianze e di loci biblici nei secoli XVI-XVII, incontrò una prima contestazione teoretica con W. Wrede, il quale propose di sostituire la formulazione con una alternativa, denominandola: «storia delle religioni o della teologia cristiana primitiva». Condizionato da un metodo puramente storico senza badare ai presupposti della fede (l’ispirazione, il canone), gli autori che s’ispirarono alle posizioni «religioniste» della scuola di Göttingen abbandonarono la denominazione di «teologia» per adottare quella di «religione». In tal modo l’orientamento «religionista» ha limitato la ricerca biblica al solo dato testuale e contestuale, finendo per costruire una «sociologia religiosa» e associando le origini del cristianesimo al sincretismo dei movimenti religiosi del tempo. Agli inizi del XX secolo l’autore cattolico A. Lemonnyer classificò la «teologia biblica» fra le scienze storiche e non fra quelle teologiche, anche se essa va distinta dalla «storia di Israele», dall’archeologia biblica e da altre denominazioni che intersecano l’oggetto della ricerca. Sotto l’influsso dominante della tendenza «religionista» propugnata da Wrede, Lemonnyer evidenziava il disagio di dover denominare «teologia biblica» una disciplina così diversa dalla «teologia» conosciuta e praticata al suo tempo. D’altra parte anche i teologi sistematici contemporanei 16

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Cap. 1  -  Itinerario teoretico

mostravano le medesime perplessità. Trattando della relazione tra rivelazione e teologia, A. Gardeil prende posizione contro la teologia positiva in cui si include anche la teologia biblica e rifiuta a essa il titolo di «teologia», definendo quest’ultima «storia del pensiero dell’Antico e del Nuovo Testamento». Medesimo orientamento è assunto da J. Congar, secondo il quale la teologia in senso sistematico procede utilizzando la ratio philosophica, mentre la cosiddetta teologia biblica utilizza la ratio historica. In tal modo il metodo utilizzato nel procedimento sistematico è di tipo regressivo: parte dalla verità com’è attualmente creduta o definita dalla chiesa per riandare alla Sacra Scrittura, mentre il metodo storico-esegetico impiega un procedimento genetico-progressivo, privilegiando l’aspetto storico-letterario dell’analisi e dei messaggi contenuti. Perciò la teologia biblica, vista dal teologo sistematico, sarebbe da considerare piuttosto come «una storia della dottrina biblica». Anche per il grande teologo domenicano rimane problematica la pretesa della teologia biblica di essere pienamente una «teologia», mentre anch’egli sembra orientare la sua riflessione sul versante storico della disciplina. Unità e pluralità

Collegata con la dimensione storica della disciplina, s’impone una seconda questione: com’è possibile formulare una teologia biblica di fronte all’impossibilità di individuare un’unità teologica tra le diverse tradizioni contenute nella Sacra Scrittura (Antico Testamento-Nuovo Testamento)? La questione sollevata inerisce all’unità teologica della Sacra Scrittura, che rimane una delle problematiche più rilevanti della nostra disciplina, costantemente presente nella sua parabola storica. Diversi autori come E. Käsemann, S. Schultz, G. Strecker, E. Lohse, hanno evidenziato l’estrema diffi17

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

coltà se non addirittura l’impossibilità di scrivere una teologia biblica del Nuovo Testamento, per il fatto che non è possibile dare unità alle varie tradizioni che caratterizzano i libri biblici. Secondo Lohse una tale «teologia» sarebbe un’utopia, un’impresa impossibile; anche nel caso si riuscisse a formulare una sintesi, questa non potrebbe definirsi teologia «biblica». Una tale posizione tuttavia appare condizionata dal pregiudizio storicistico di alcuni teologi del XX secolo (W. Wrede, R. Bultmann, H. Conzelmann), nei quali sembra prevalere una «sottile ideologia» che porta a un sostanziale pessimismo nelle possibilità affidate alla ricerca biblico-teologica e ai suoi effettivi esiti storiografici. Secondo Segalla il teologo biblico potrà realizzare una teologia biblica unitaria solo a condizione di applicare una circolarità ermeneutica nel proprio metodo di ricerca. Rifacendosi alle indicazioni che R. De Vaux ha esposto nell’introduzione all’opera di M.J. Lagrange, Segalla segnala una triplice dimensione della lettura biblico-teologica della Sacra Scrittura: la Bibbia può essere letta come documento storico, o come documento della fede di Israele (Antico Testamento) e della chiesa primitiva (Nuovo Testamento) o, infine, come documento della «mia» fede (punto di vista del lettore). Solo unendo anche questa terza prospettiva si perviene a una teologia biblica intesa come «scienza della fede». Infatti la teologia biblica adempie al proprio compito non solo per l’analisi del suo oggetto materiale (le verità contenute nella Bibbia: fides quae), ma anche per il suo oggetto formale, rappresentato dal dialogo tra Dio che parla e l’uomo che ascolta e risponde (la risposta personale del credente di fronte alla Bibbia: fides qua). Pertanto la teologia biblica implica la fede personale ed ecclesiale sotto la cui luce procede il lavoro del ricercatore e l’atteggiamento corretto del credente di fronte alla Bibbia. 18

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Cap. 1  -  Itinerario teoretico

Questo modo di fare teologia non esclude gli apporti storici e religiosi: al contrario è proprio a partire dalla visione illuminata dalla fede personale ed ecclesiale che si possono leggere «in unità» le tradizioni letterarie e la storia della religione contenuta nei testi ispirati. «Solo nel presupposto e nella ricerca di questa unità fondamentale si realizza una teologia biblica» (G. Segalla). In definitiva il compito della ricerca teologicobiblica è quello di «far emergere, nella maniera più plausibile anche scientificamente, quell’unità storico-teologica, che è postulata dalla fede; un’unità che non è certo uniforme, ma organica e che tiene conto dell’evoluzione della rivelazione storica» (G. Segalla). La valenza progettuale della definizione

Focalizzando meglio la definizione della nostra disciplina occorre fare riferimento all’importante contributo di G. Ebeling, racchiuso nella relazione tenuta a Oxford il 30 marzo 1955 dal titolo: The Meaning of “Biblical Theology”. In questo studio il noto teologo luterano chiarisce i termini dell’interrogativo circa l’identità e la natura della teologia biblica. Seguendo W. Wrede, Ebeling rileva anzitutto l’uso ambiguo di questo termine, illustrando i problemi suscitati nel corso della storia dall’indeterminatezza del concetto. In particolare egli si sofferma sull’uso della Sacra Scrittura nel periodo medievale, tratteggiando l’impiego del tema nel contesto della riforma luterana, la successiva caratterizzazione del movimento pietistico e le istanze biblico-teologiche dell’Illuminismo. Il dibattito riguardante la nostra disciplina ha evidenziato come per «teologia biblica» non deve intendersi né una «teologia secondo la Bibbia», né una «teologia della Bibbia» e neppure una serie di «temi teologici della Bibbia». Nel primo caso si tratterebbe di una teologia sistematica che si fonda sulla Bibbia, 19

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

vale a dire una disciplina prevalentemente orientata per contenuto e metodologia secondo una prospettiva dogmatica. Nel secondo e nel terzo caso si pone in risalto il «contenuto teologico» della Bibbia, lasciando non risolta la relazione tra dimensione storica e dimensione dogmatica, che rappresenta una delle questioni costitutive della disciplina. Inoltre lo sforzo dell’esegesi teologica, per quanto importante nell’orizzonte dell’atto ermeneutico, rimane pur sempre limitato al testo e al contesto, mentre la nostra disciplina è chiamata a rendere ragione dell’unità dinamica del messaggio di tutta la Bibbia. Secondo G. Ebeling la Bibbia non contiene solo teologia, «ma testimonia ciò che è successo e succede all’uomo fra Dio e il mondo». In questo senso si deve distinguere l’idea di «rivelazione» da «teologia» e fede nel senso di fides quae da fede nel senso di fides qua. Rileva Segalla: La Bibbia va considerata anche come storia di salvezza e come kerigma. Se la Bibbia fosse identificata con la rivelazione = teologia = proposizioni rivelate, cui si risponde con la fides quae, allora basterebbe nucleare e descrivere le verità ivi contenute. Ma se invece è il racconto significativo di una storia di salvezza che mi coinvolge e un messaggio che richiede una risposta di fede totale a Colui che mi parla attraverso di esso, allora il compito della teologia biblica risulta diverso. In questo caso il suo compito è quello di spiegare scientificamente e comprendere ciò che essa contiene. È cioè un compito ermeneutico.

La questione decisiva della «teologia biblica» non è data dal contenuto teologico rilevabile nella Bibbia, bensì dalla sua comprensione storica e teologica, che richiede una permanente rielaborazione critica dei modelli ermeneutici proposti dai singoli autori. Pertanto: 20

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Cap. 1  -  Itinerario teoretico

il compito di una teologia dell’Antico e del Nuovo Testamento [...] dovrebbe essere definito in questo modo: il teologo che si dedica alla ricerca nell’ambito dell’Antico o del Nuovo Testamento, deve offrire un resoconto conclusivo della sua comprensione dell’Antico o del Nuovo Testamento che, al di sopra dei problemi che presenta la varietà delle testimonianze bibliche, sia messo in stretto rapporto con la sua interna unità.

In definitiva la teologia biblica come disciplina non deve essere identificata né con la storia biblica in sé, né con una «storia della religione», ma come un processo graduale di comprensione teologica che si estende sia al versante storico-critico (ricostruzione dello sviluppo storico) sia a quello teologico-ermeneutico (interpretazione della fede). Occorre inoltre evitare due rischi che emergono dalla vicenda storica della disciplina: ritenere il compito della teologia biblica come quello di una scienza descrittiva, che enumera i contenuti della Bibbia come verità da credere, ovvero considerare il messaggio biblico esclusivamente di carattere esistenziale-personale, escludendo o riducendo al minimo la ricerca scientifica del testo ispirato. Sul piano epistemologico la teologia biblica si presenta come una disciplina scientifica, rivendicando la propria legittimità e coerenza di sistema, in virtù del suo metodo e del suo compito. Essa ha in comune con la teologia sistematica il fatto di definirsi «teologia», cioè comprensione di fede della rivelazione contenuta nella Bibbia, propria del suo oggetto di ricerca. Allo stesso tempo essa rivendica un metodo proprio, diverso dal quello della teologia sistematica, in quanto fondato sull’approccio storico-critico ai testi ispirati. A partire da queste coordinate, è necessario puntualizzare alcuni aspetti che costituiscono i presupposti discriminanti per la formulazione della teo21

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

logia biblica. Considerando il dibattito storico della formazione e della legittimazione della disciplina, il ruolo che la «teologia biblica» è chiamata svolgere si attesta su tre aspetti cruciali: ❑❑La «teologia biblica» come scienza storico-critica è

chiamata ad affrontare il problema della comprensione e insieme dell’unità di tutta la Bibbia. La vicenda storica della disciplina si caratterizza per il suo processo di separazione dalla teologia dogmatica (secolo XVIII) e per la sua articolazione in teologia biblica dell’Antico/Nuovo Testamento (secolo XIX). L’esito dello sviluppo scientifico ha reso problematica la possibilità di elaborare una teologia biblica «integrale», in grado di preservare il valore fondante dell’unità dei due Testamenti, che contengono raccolte di libri strettamente congiunti tra loro. Un’ulteriore questione riguarda la stessa unità interna delle singole parti della Bibbia, che presenta convergenze, assonanze ma anche notevoli differenze storico-letterarie.

❑❑L’oggetto

della «teologia biblica» è costituito dai libri racchiusi nel «canone delle Scritture». La teologia biblica è chiamata ad affrontare la questione di «come» intendere il processo canonico, la sua limitazione e lo stesso valore teologico attribuito al «canone» delle Scritture consegnato alla chiesa attraverso la «Tradizione» (cf. Dei Verbum 8). Esso rappresenta, allo stesso tempo, una questione letteraria e insieme ermeneutica per la ricerca storico-critica. Ugualmente la teologia biblica è chiamata a riflettere sulla relazione tra i libri canonici e la letteratura intertestamentaria, che assume un ruolo sempre più rilevante grazie alle scoperte archeologiche e allo studio dell’ambiente vitale in cui nacquero gli scritti biblici.

❑❑I

primi due aspetti in precedenza segnalati comprendono un altro aspetto, che costituisce la proble-

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Cap. 1  -  Itinerario teoretico

matica principale della disciplina, il suo compito ermeneutico. La teologia biblica è chiamata a riflettere su «come» va inteso e applicato il concetto di «teologia» riguardo al contenuto storico della Bibbia e sul ruolo che essa deve e può svolgere nell’ambito delle scienze bibliche e nel dialogo interdisciplinare. Rileva Segalla: il compito del teologo biblico è quello di evidenziare scientificamente l’unità del messaggio biblico con una comprensione attuale. Dato che si tratta di un compito molto difficile e molti sono i problemi implicati, la teologia biblica spinge oggi a una stretta collaborazione fra studiosi dell’Antico e del Nuovo Testamento [...]. Essa deve adempiere il suo ruolo unendo insieme la metodologia storico-critica a quella ermeneuticoteologica, per offrire una sintesi unitaria del messaggio biblico. I presupposti della teologia biblica

Presentando la dimensione dell’«ermeneutica della Sacra Scrittura nella Chiesa» Benedetto XVI annota: Il legame intrinseco tra Parola e fede mette in evidenza che l’autentica ermeneutica della Bibbia non può che essere nella fede ecclesiale, che ha nel sì di Maria il suo paradigma [...]. Questo ci permette di richiamare un criterio fondamentale dell’ermeneutica biblica: il luogo originario dell’interpretazione scritturistica è la vita della Chiesa. Questa affermazione non indica il riferimento ecclesiale come un criterio estrinseco cui gli esegeti devono piegarsi, ma è richiesta dalla realtà stessa delle Scritture e da come esse si sono formate nel tempo. Infatti, «le tradizioni di fede formavano l’ambiente vitale in cui si è inserita l’attività letteraria degli autori della Sacra Scrittura. Questo inserimento comprendeva anche la partecipazione alla vita liturgica e all’attività esterna delle comunità, al loro mon23

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

do spirituale, alla loro cultura e alle peripezie del loro destino storico. L’interpretazione della Sacra Scrittura esige perciò, in modo simile, la partecipazione degli esegeti a tutta la vita e a tutta la fede della comunità credente del loro tempo. Di conseguenza, «dovendo la Sacra Scrittura esser letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta», occorre che gli esegeti, i teologi e tutto il Popolo di Dio si accostino ad essa per ciò che realmente è, quale Parola di Dio che si comunica a noi attraverso parole umane (cf. 1Ts 2,13). Questo è un dato costante ed implicito nella Bibbia stessa: «nessuna Scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione, poiché non da volontà umana fu recata mai una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio» (2Pt 1,20-21). Del resto, è proprio la fede della Chiesa che riconosce nella Bibbia la Parola di Dio; come dice mirabilmente sant’Agostino, «non crederei al Vangelo se non mi ci inducesse l’autorità della Chiesa cattolica». È lo Spirito Santo, che anima la vita della Chiesa, a rendere capaci di interpretare autenticamente le Scritture. La Bibbia è il libro della Chiesa e dalla sua immanenza nella vita ecclesiale scaturisce anche la sua vera ermeneutica6.

Si tratta di una puntualizzazione riguardante la realtà della «fede ecclesiale» contenuta nelle stesse Sacre Scritture. Essa implica una riflessione circa i «presupposti» collegati all’esercizio della comprensione teologica degli scritti biblici e ai principi che regolano l’atto ermeneutico del singolo ricercatore e più in generale alla comunità interpretante. Nel procedere al lavoro di ricerca e di elaborazione, si richiede al teologo biblico una chiara presa di coscienza circa i presupposti di fede teologica, di metodo e di orientamento ermeneutico che guidano esplicitamente o tacitamente il proprio lavoro critico. 6

Benedetto XVI, Verbum Domini, n. 29.

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Cap. 1  -  Itinerario teoretico

Alcuni presupposti sono direttamente collegati con l’oggetto della ricerca, come il metodo impiegato, l’indirizzo ermeneutico che governa l’impostazione e determina l’orientamento del lavoro sui testi scritturistici. Altri presupposti costituiscono l’orizzonte interpretativo (la fede personale ed ecclesiale, il contesto culturale in cui si opera, le esigenze dei destinatari, ecc.) e non rientrano nell’oggetto della teologia biblica, ma rappresentano la premessa necessaria e restano comunque costituitivi della «precomprensione teologica» assunta dal ricercatore. Segalla elenca cinque presupposti che concorrono a valutare il modello della teologia biblica e quale sia il concetto di «teologia» implicitamente applicato nel procedimento scientifico. Li riassumiamo in forma assiomatica. ❑❑Il

primo presupposto è costituito dall’assunzione della «rivelazione di Dio» come «storica» e della sua relazione con la Sacra Scrittura, che ne è lo strumento privilegiato. Nell’accogliere la pienezza della rivelazione compiutasi in Gesù Cristo, parola incarnata di Dio (Gv 1,14), il teologo è chiamato a interpretare la Sacra Scrittura come privilegiata «forma attestata» della verità rivelata, che la viva tradizione della chiesa della fede ha consegnato ai credenti (cf. Dei Verbum, 7).

❑❑Il secondo presupposto è riferito all’ispirazione bi-

blica della Sacra Scrittura, la cui interpretazione verte principalmente su «come» vada concepita l’azione carismatica dell’ispirazione e quali conseguenze derivino nella comprensione della Bibbia come opera ispirata da Dio (cf. Dei Verbum, 11). Afferma Benedetto XVI a proposito: Un concetto chiave per cogliere il testo sacro come Parola di Dio in parole umane è certamente quello dell’ispirazione. [...] Come hanno affermato i Padri si25

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nodali, appare in tutta evidenza quanto il tema dell’ispirazione sia decisivo per l’adeguato accostamento alle Scritture e per la loro corretta ermeneutica, la quale a sua volta deve essere fatta nello stesso Spirito in cui è stata scritta. Quando si affievolisce in noi la consapevolezza dell’ispirazione, si rischia di leggere la Scrittura come oggetto di curiosità storica e non come opera dello Spirito Santo, nella quale possiamo sentire la stessa voce del Signore e conoscere la sua presenza nella storia7. ❑❑Il

terzo presupposto tocca direttamente la complessa problematica del canone biblico, particolarmente discussa nel contesto teologico attuale, a partire dallo studio pionieristico di H. Strathmann (1941) e del dibattito seguito negli anni successivi (E. Kasemann; N. Appel; K.H. Ohlig) fino ai nostri giorni (B.S. Childs; J.A. Sanders)8. Non si tratta solo del problema storico dei criteri d’individuazione-ammissione dei libri ispirati, ma della questione teologica che sussiste nella relazione tra canonicità e autorità intrinseca delle Scritture e conseguentemente del problema ermeneutico di fronte alla verifica dell’analisi storico-critica. ❑❑Il

quarto presupposto pone in relazione la Bibbia con l’idea della «storia della salvezza» e più specificamente l’incontro tra esigenza dell’analisi storicosociale e dell’interpretazione religiosa dei fatti narrati nel testo sacro. Nel quadro di un’ermeneutica dei testi biblici, ritenuti documenti storici e insieme teologici, occorre assumere come presupposto l’idea che la storia narrata nei libri biblici corrisponda sostanzialmente alla «storia vera», che diventa oggetto indagabile da parte della ricerca. Evidenziando le probleIvi, n. 19. Cf. Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, C.1. 7 8

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Cap. 1  -  Itinerario teoretico

matiche di un’ermeneutica parziale, fondata sulla netta separazione tra esegesi e teologia, Benedetto XVI segnala le conseguenze negative di un approccio «dualistico» ai testi ispirati: Occorre segnalare il grave rischio oggi di un dualismo che si ingenera nell’accostare le sacre Scritture. Infatti, distinguendo i due livelli dell’approccio biblico non si intende affatto separarli, né contrapporli, né meramente giustapporli. Essi si danno solo in reciprocità. Purtroppo, non di rado un’improduttiva separazione tra essi ingenera un’estraneità tra esegesi e teologia, che «avviene anche ai livelli accademici più alti». Vorrei qui richiamare le conseguenze più preoccupanti che vanno evitate. a)  Innanzitutto, se l’attività esegetica si riduce solo al primo livello, allora la stessa Scrittura diviene un testo solo del passato: «Si possono trarre da esso conseguenze morali, si può imparare la storia, ma il Libro come tale parla solo del passato e l’esegesi non è più realmente teologica, ma diventa pura storiografia, storia della letteratura». È chiaro che in una tale riduzione non si può in alcun modo comprendere l’evento della Rivelazione di Dio mediante la sua Parola che si trasmette a noi nella viva Tradizione e nella Scrittura. b)  La mancanza di un’ermeneutica della fede nei confronti della Scrittura non si configura poi unicamente nei termini di un’assenza; al suo posto inevitabilmente subentra un’altra ermeneutica, un’ermeneutica secolarizzata, positivista, la cui chiave fondamentale è la convinzione che il Divino non appare nella storia umana. Secondo questa ermeneutica, quando sembra che vi sia un elemento divino, lo si deve spiegare in altro modo e ridurre tutto all’elemento umano. Di conseguenza, si propongono interpretazioni che negano la storicità degli elementi divini. c)  Una tale posizione non può che produrre danno alla vita della Chiesa, stendendo un dubbio su misteri fondamentali del cristianesimo e sul loro valore stori27

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

co, come ad esempio l’istituzione dell’Eucaristia e la risurrezione di Cristo. Così, infatti, s’impone un’ermeneutica filosofica che nega la possibilità dell’ingresso e della presenza del Divino nella storia. L’assunzione di tale ermeneutica all’interno degli studi teologici introduce inevitabilmente un pesante dualismo tra l’esegesi, che si attesta unicamente sul primo livello, e la teologia, che si apre alla deriva di una spiritualizzazione del senso delle Scritture non rispettosa del carattere storico della Rivelazione9.

Tali conseguenze non sono unicamente relegate alla sola ricerca biblica, ma hanno ripercussioni sull’intero sistema teologico e sulle sue relazioni interdisciplinari. ❑❑L’ultimo

presupposto, estrinseco all’oggetto della teologia biblica, è costituito dall’importanza della tradizione del magistero ecclesiale e dalla sua interpretazione attraverso la molteplice «storia degli effetti» (Wirkungsgeschichte). Tale presupposto non fornisce al teologo biblico risultati specifici intorno all’oggetto della sua ricerca, ma influisce notevolmente sulla comprensione del dato scritturistico, favorendo l’apertura a una prospettiva universale ed ecumenica della «teologia biblica» e del suo ruolo di mediazione interdisciplinare.

2. La questione metodologica e l’opzione ermeneutica

Oltre che dal versante del modello teologico, occorre sottolineare come la ricerca in teologia biblica sia determinata dall’applicazione di un serie di metodologie critico-letterarie, anch’esse caratterizzate da presupposti relativi sia ai diversi approcci dell’esegesi 9

Benedetto XVI, Verbum Domini, n. 35.

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Cap. 1  -  Itinerario teoretico

attuale che alla sottostante opzione ermeneutica del singolo ricercatore. Una corretta e riuscita teologia biblica deve saper comporre, nella dialettica del proprio sistema scientifico, che è sempre in movimento, un equilibrato dialogo tra le due istanze metodologiche contenute nella sua stessa definizione. La «teologia biblica» è anzitutto una «teologia», in quanto è la comprensione critica della fede rivelata. Allo stesso tempo la «teologia biblica» è uno «studio storico» della rivelazione, contenuta nei libri che formano il canone della Sacra Scrittura. Circa la valutazione dei presupposti dell’approccio storico-critico, la questione non verte tanto sulla tecnica del metodo in sé, bensì sul «modo» di praticarlo. Nel documento della Pontificia commissione biblica sull’Interpretazione della Bibbia nella Chiesa, si ribadisce come esso sia indispensabile per lo studio scientifico del significato dei testi antichi. Poiché la Sacra Scrittura, in quanto «Parola di Dio in linguaggio umano», è stata composta da autori umani in tutte le sue parti e in tutte le sue fonti, la sua giusta comprensione non solo ammette come legittima, ma richiede, l’utilizzazione di questo metodo10.

Pertanto l’acquisizione dell’approccio storico-critico rimane ancora un riferimento necessario per l’investigazione biblica, in vista dell’individuazione del senso letterale degli scritti. Pur costituendo un «passaggio obbligato» per la costruzione della teologia biblica, l’applicazione del metodo storico-critico non deve finire per porre in alternativa la storia e la teologia, con la conseguente frammentazione del messaggio biblico. Il naturale processo evolutivo che segna la specializzazione della ricerca esegetica rappresenta una sfida per la teologia biblica. Essa è chiamata a ri10 Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, I.A.

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

elaborare i dati della ricerca attraverso un crescente sforzo ermeneutico di rilettura e riunificazione del proprio messaggio. È proprio nella nostra disciplina che va ponderato l’equilibrio tra ricerca storica e riflessione teologica: essa deve fungere da elemento di verifica della giusta relazione tra storia e teologia. Scrive Segalla: Sia l’una esagerazione che l’altra hanno delle conseguenze negative sulla teologia biblica, che rimane sempre la teologia di una rivelazione storica. La storia narrata e la storia vera non dovrebbero mai venire in conflitto. Anche se possono essere in tensione, si dovrebbe sempre poter armonizzare il fatto con il suo significato [...]. Il teologo biblico, che ha fede, deve accettare a mio avviso, il presupposto di una sana critica storicoletteraria, pur esigendo la massima correttezza e serietà nell’uso del metodo.

Nondimeno occorre avere chiari anche i presupposti ermeneutici che guidano e orientano l’interpretazione del testo e del suo messaggio teologico. Una consistente funzione ermeneutica è data dal «contesto» della teologia biblica, che è costituito dalla storia, dal linguaggio e dalle stesse categorie contenute nella Bibbia. In secondo luogo lo studio del testo biblico implica l’esigenza di «avanzare verso un’interpretazione adeguatamente teologica che riconosca ed esprima l’unità della Bibbia, come unità ermeneutica di senso». Una tale precomprensione ermeneutica è determinante per l’esito della disciplina, come anche la necessità di comprendere la storia biblica come «processo organico» che si sviluppa verso un compimento escatologico. Un ulteriore principio ermeneutico è dato dal contesto ecclesiale in cui si opera e ultimamente dalla stessa fede personale del ricercatore. Trattando dei presupposti con cui l’esegeta si pone di fronte ai testi 30

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Cap. 1  -  Itinerario teoretico

della Sacra Scrittura, la Pontificia commissione biblica riflette sulla relazione tra «teologia e precomprensione dei testi biblici»: Quando affrontano i testi biblici, gli esegeti hanno necessariamente una precomprensione. Nel caso dell’esegesi cattolica, si tratta di una precomprensione basata su certezze di fede: la Bibbia è un testo ispirato da Dio e affidato alla Chiesa per suscitare la fede e guidare la vita cristiana. Queste certezze di fede non arrivano agli esegeti allo stato bruto, ma dopo essere state elaborate nella comunità ecclesiale dalla riflessione teologica. Gli esegeti sono quindi orientati nella loro ricerca dalla riflessione dei teologi dogmatici sull’ispirazione della Scrittura e sulla funzione di questa nella vita ecclesiale. Ma, reciprocamente, il lavoro degli esegeti sui testi ispirati apporta loro un’esperienza di cui i teologi dogmatici devono tenere conto per meglio chiarire la teologia dell’ispirazione scritturistica dell’interpretazione ecclesiale della Bibbia. L’esegesi suscita, in particolare, una coscienza più viva e più precisa del carattere storico dell’ispirazione biblica. Essa mostra che il processo dell’ispirazione è storico, non soltanto perché ha avuto luogo nel corso della storia d’Israele e della Chiesa primitiva, ma anche perché si è realizzata con la mediazione di persone umane segnate ciascuna dalla sua epoca e che, sotto la guida dello Spirito, hanno avuto una funzione attiva nella vita del popolo di Dio. D’altronde, l’affermazione teologica dello stretto rapporto tra Scrittura ispirata e Tradizione della Chiesa è stata confermata e precisata grazie allo sviluppo degli studi esegetici, che ha portato gli esegeti a prestare un’attenzione crescente all’influsso del contesto vitale in cui i testi si sono formati (Sitz im Leben)11.

La reciprocità tra «testo storico» e «contesto ecclesiale» determina la condizione di un corretto e fe11

Ivi, I, D.1. 31

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

condo atto ermeneutico in vista dell’elaborazione del messaggio teologico della Bibbia. In definitiva la ricerca della «teologia biblica» deve avvalersi di un metodo che sia in grado di situare storicamente la rivelazione «storica» attestata nella Sacra Scrittura, e allo stesso tempo, di formulare in un messaggio unitario e significativo tale rivelazione per la comunità dei credenti. Per tale ragione il teologo biblico deve essere consapevole dei presupposti ermeneutici e di fede che determinano il proprio approccio alla ricerca. 3. Aspetti ermeneutici della teologia biblica

Dal percorso storico è possibile constatare come il problema di fondo della «teologia biblica» sia costituito dal cruciale rapporto tra ricostruzione storica e interpretazione teologica. La ricostruzione parte dall’approccio storico-critico e, mediante l’ausilio di ulteriori applicazioni metodologiche, perviene alla comprensione letteraria del testo ispirato. L’atto interpretativo utilizza i risultati della ricerca storica e li rielabora secondo un proprio metodo teologico, avendo alla base l’opzione ermeneutica che sostiene, guida e motiva l’intero processo della disciplina. È proprio nel procedimento dialettico che combina i tre elementi della ricerca, quello storico, quello critico e quello ermeneutico, che vengono alla luce le difficoltà della «teologia biblica» e in ultima analisi, la verifica della validità dell’intero sistema. È opportuno soffermarsi su quattro «punti critici» che determinano e condizionano l’esito di ogni ricerca in «teologia biblica». Essi consistono nell’esito di una quadruplice relazione: 1) la relazione tra teologia biblica e storia; 2) la relazione tra approccio storicocritico e fede teologica; 3) la relazione AT-NT: unità e diversità nella teologia biblica; 4) la relazione tra Vangelo e kerigma. 32

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Cap. 1  -  Itinerario teoretico

La relazione tra teologia biblica e storia

Un primo punto critico, che ha segnato significativamente lo sviluppo della disciplina, è costituito dalla permanente tensione tra la storia e la teologia biblica. La teologia biblica ha come oggetto della propria indagine i fatti storici narrati nei testi ispirati. In tal modo la dimensione storica dell’avvenimento della Parola rivelata da Dio all’umanità, costituisce un aspetto teologico di primaria importanza per cogliere la verità di Dio e la condizione dell’uomo chiamato alla redenzione. Inoltre la teologia biblica è «storica» perché interpreta e cerca di comprendere lo sviluppo degli avvenimenti sia della storia della salvezza che della rivelazione in quanto accade e si sviluppa «nella storia». A tal fine il teologo biblico applica le metodologie della scienza storica e le elabora secondo un proprio sistema ermeneutico per comprendere i contesti e gli ambienti a cui fanno riferimento i racconti biblici. Pertanto i tentativi di porre in contrapposizione storia e teologia o di assecondare l’una rispetto all’altra hanno avuto come conseguenza effetti negativi, producendo risultati parziali e dissonanti per gli esiti della nostra disciplina. Al fine di evitare risultati parziali, il compito del teologo biblico sta proprio nella capacità di mediazione e d’integrazione reciproca tra storia e teologia. Scrive Segalla: La teologia biblica deve quindi evitare la duplice tentazione di ridursi solo a storia, sia pure storia di salvezza e a «rivelazione come storia», oppure invece solo a kerigma; la riduzione a dottrina sembra ormai superata, anche se non del tutto. Tenendo conto della sua mediazione tra storia e teologia, la teologia biblica potrebbe essere definita: teologia della storia salvifica mediante la parola e teologia della parola mediante la storia. 33

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

La relazione tra approccio storico-critico e fede teologica

In conseguenza della sua natura «storica», la teologia biblica sperimenta un’ulteriore tensione che si consuma nel confronto tra la fede teologica e l’impiego del metodo storico-critico applicato agli scritti ispirati. La questione si pone soprattutto quando tale metodo è usato in modo autonomo e quasi fine a se stesso, producendo una ricerca puramente storica, con la conseguenza dell’assolutizzazione di alcuni aspetti a detrimento dell’unità del messaggio teologico. Da più parti ormai si riconosce la necessità di superare un pluralismo interpretativo della Bibbia in senso soggettivistico che genera frammentazione e relativismo, e ci si interroga sull’integrabilità dei vari metodi e approcci. Questa ricomposizione potrà realizzarsi nel solco del metodo storico, a patto che quest’ultimo, a sua volta, non si chiuda in uno sterile isolamento ma sappia mettere a frutto i progressi di tutte quelle discipline che si occupano dello studio del testo, del linguaggio e dell’interpretazione. A uno sguardo complessivo sugli esiti metodologici delle opere di teologia biblica, occorre notare come gli autori hanno subito l’inevitabile conseguenza della svolta «storico-scientifica» sopravvenuta alla metà degli anni Sessanta e della proliferazione di ulteriori approcci testuali e contestuali alla Bibbia. Trattando della relazione tra teologia biblica e dogmatica, Segalla sottolinea l’esigenza di perseguire un’analisi esegetica che risulti aperta a un contesto più ampio e unitario, in modo da creare un circolo ermeneutico fra la parte e il tutto; il singolo testo e il tutto di un libro, un singolo libro e un complesso di libri com’è il NT e addirittura la Bibbia intera. Questo circolo ermeneutico fa comprendere meglio anche il singolo testo e da esso si 34

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Cap. 1  -  Itinerario teoretico

può ricavare un’interpretazione di più ampio respiro, che si coordina col risultato finale della stessa esegesi, appunto una teologia biblica.

Semplificando le diverse posizioni espresse nel complesso e articolato panorama letterario del secolo XX, si possono individuare tre principali orientamenti che hanno segnato la relazione tra approccio storicocritico e fede teologica: ❑❑Un primo orientamento è stato caratterizzato dall’accoglienza entusiastica e acritica del metodo storico-critico, con la pretesa che tale metodo potesse offrire la medesima certezza scientifica anche nel campo interpretativo. Segalla menziona come esempi di tale atteggiamento i casi di E. Renan e A. Loisy in campo cattolico e di F. Overbeck per l’ambiente protestante. ❑❑Opposta al precedente orientamento s’impone una seconda posizione, derivata dalla vecchia apologetica, che consiste nel rifiuto netto del metodo storico-critico, da parte di autori come J. Bovon per l’area protestante e J. Fontaine per l’ambiente cattolico. Tale posizione radicale, pur rifiutando i postulati del metodo storico-critico, finisce per assumere inconsciamente il presupposto stesso del positivismo storico. ❑❑Un terzo orientamento cerca di elaborare un dialogo critico e costruttivo tra l’uso del metodo storicocritico e la riflessione sulla fede teologica. Tale elaborazione ermeneutica, caratterizzata da sensibilità e gradazioni diverse, è finalizzata a rispondere insieme alle esigenze della scienza e a quelle della fede. Quest’ultimo orientamento è stato rielaborato attraverso alcuni modelli, che seguono due principali opzioni. Una prima opzione propone di costruire la teologia biblica sulla base del coordinamento tra i due metodi, storico-letterario e teologico. In questa 35

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

linea interpretativa vanno i lavori di A. Schlatter e R. Bultmann. Una seconda opzione ritiene che la elaborazione di una teologia biblica implichi la netta separazione tra il metodo storico-critico e la riflessione teologica sulla Sacra Scrittura come «Parola di Dio». Si tratta di due percorsi di ricerca che richiedono una necessaria autonomia. In questa linea interpretativa si collocano i modelli proposti da K. Barth e A. Descamps. L’esito del dibattito teologico ha evidenziato la fragilità di entrambi gli orientamenti, com’è stato riconosciuto dalla successiva valutazione critica (cf. le ricerche di P. Stuhlmacher). In definitiva tali proposte, pur nell’originalità dei loro tentativi, non sembrano aver risolto la relazione tra approccio storicocritico e fede teologica, che esige l’individuazione di una nuova prospettiva ermeneutica, in cui si superi lo scetticismo circa l’accordo fra scienza storico-critica e fede teologica in relazione al loro oggetto comune, che è rappresentato dalla Bibbia. P. Stuhlmacher: l’«ermeneutica dell’accordo»

Un interessante modello è rappresentato dalla cosiddetta «ermeneutica dell’accordo» (des Einverständnisses) proposta dal P. Stuhlmacher. Ispirandosi alla filosofia di H.G. Gadamer, Stuhlmacher sottolinea la relazione tra i testi biblici e il processo della tradizione che ha influenzato la loro interpretazione (storia degli effetti: Wirkungsgeschichte). Tale correlazione permette di fondare una corretta ed equilibrata ricerca del messaggio veritativo dei testi ispirati. A tal fine l’autore propone una nuova prospettiva ermeneutica in grado di superare la concezione naturalistica e oggettivizzante della storia che aveva caratterizzato il secolo XIX. Il credente si deve fare interprete delle nuove esigenze che segnano le relazioni tra l’uomo e il mondo, aprendosi alla tradizione del passato, alla complessità del presente e alla di36

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Cap. 1  -  Itinerario teoretico

mensione trascendente della vita. Mediante il principio dell’analogia e della correlazione, l’esegeta è in grado di elaborare un dialogo critico con il testo biblico, avendo presente la tradizione ecclesiale, il mondo contemporaneo e la dimensione trascendente di Dio che si rivela. Per realizzare questo nuovo approccio è necessario – secondo Stuhlmacher ‒ praticare una riflessione critica sul metodo storico, distinguendo la critica «letteraria», che riguarda le fonti, dalla critica «storica», che interessa i fatti cui rimandano i testi e le loro fonti. Tale distinzione permette di valorizzare la ricchezza della ricerca esegetica e di individuare un itinerario metodologicamente controllabile e produttivo per la riflessione teologica. Un terzo elemento del nuovo modello ermeneutico è l’inclusione tra passato e presente nell’interpretazione dei testi. Essa permette al ricercatore di considerare in modo efficace il legame tra l’origine del testo ispirato e il suo sviluppo nella tradizione che arriva fino a oggi. L’aspetto metodologico rilevante è rappresentato dal ruolo che assume la tradizione del testo e dei suoi effetti nell’atto ermeneutico odierno. Infine questa interpretazione dei testi biblici, insieme critica e comprensiva, si caratterizza per la sua apertura alla fede teologica e alla verità trascendente di Dio. Com’è possibile constatare, la proposta di P. Stuhlmacher rimane ancorata al testo della Bibbia e, allo stesso tempo, si accorda con le istanze di fede personale ed ecclesiale insite nell’atto ermeneutico, rendendo possibile l’elaborazione di una teologia biblica. Commenta G. Segalla: Per arrivare a una teologia biblica è necessario quindi praticare un modello ermeneutico, che faccia spazio sia a un metodo storico-critico aperto all’accordo con i testi biblici, sia alle istanze teologiche della fede [...]. Solo un dialogo critico e positivo tra scienza e fede è la via attraverso cui può passare una moderna teologia biblica. 37

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

La relazione tra Antico e Nuovo Testamento: unità e diversità nella teologia biblica

Una conseguenza dell’applicazione del metodo storico-critico è data dalla relazione tra unità e diversità nella Bibbia e più specificamente dalla dialettica AT-NT, che costituisce uno dei punti più dibattuti della teologia biblica. Fin dagli esordi dell’approccio storico-critico si è posto in evidenza il motivo della diversità dei due Testamenti e della loro correlazione teologico-letteraria. Tale differenziazione fu la ragione primaria che indusse gli autori della fine del XIX secolo (G.L. Bauer) a elaborare separatamente una «teologia dell’Antico Testamento», distinguendola da una «teologia del Nuovo Testamento». Le questioni sollevate in questa relazione sono principalmente due: a) la prima è rappresentata dal posto che l’AT deve avere in una teologia del NT; b) la seconda riguarda direttamente la possibilità di costruire una teologia unitaria di tutta la Bibbia. Circa la prima questione si segnalano alcune soluzioni ermeneutiche che sono state avanzate nel corso del XX secolo, avendo presente la rilevanza quantitativa e qualitativa che riveste l’Antico Testamento nel Nuovo Testamento, dal momento che «non si può fare una teologia biblica del NT, ignorando l’Antico o addirittura mettendolo in dialettica, come fa R. Bultmann. Il NT è troppo radicato nell’Antico per potervi passare sopra, pur lasciando da parte il principio teologico-ermeneutico del canone biblico» (G. Segalla). In modo particolare viene analizzata la questione relativa al ruolo che assume l’AT in rapporto alla costruzione di una teologia neotestamentaria. PCB: Il popolo ebraico e le sue sacre scritture nella Bibbia cristiana

Un rilevante contributo circa il rapporto tra i due Testamenti e i criteri ermeneutici connessi, proviene dal do38

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Cap. 1  -  Itinerario teoretico

cumento della Pontificia commissione biblica, Il popolo ebraico e le sue sacre scritture nella Bibbia cristiana (LEV, Città del Vaticano 2001). In esso si richiama il valore letterario e teologico dell’Antico Testamento (cf. Dei Verbum, 14-16) in relazione alla fede cristiana e alla teologia neotestamentaria. Il documento è frutto di un’ampia riflessione svoltasi nel corso di diversi anni, da cui emerge la necessità di elaborare una visione teologica tendenzialmente «unitaria e dialettica», in grado di collegare l’Antico al Nuovo Testamento. Dopo aver presentato la natura della relazione tra le tradizioni letterarie ebraiche e cristiane, nel capitolo II del documento si riassumono i «temi» che sono presenti nelle Scritture del popolo ebraico e la loro accoglienza nella fede di Cristo (cf. nn. II, nn. 2365). È interessante notare come la rassegna dei nove «temi comuni fondamentali» e la loro rilettura unitaria (dall’Antico al Nuovo Testamento) rappresenta una sintesi di teologia biblica: 1) rivelazione di Dio (nn. 23-26); 2) la persona umana: grandezza e miseria (nn. 27-30); 3) Dio liberatore e salvatore (nn. 3132); 4) l’elezione d’Israele (nn. 33-36); 5) l’alleanza (nn. 37-42); 6) la Legge (nn. 43-45); 7) la preghiera e il culto, Gerusalemme e il Tempio (nn. 46-51); 8) rimproveri divini e condanne (nn. 52- 53); 9) le promesse (nn. 54-63). Oltre all’indicazione tematica, il documento segnala tre principi ermeneutici con cui i cristiani rileggono il rapporto tra i due Testamenti: continuità, discontinuità e progressione. Al n. 64 si legge: I lettori cristiani sono convinti che la loro ermeneutica dell’Antico Testamento, molto diversa, certo, da quella del giudaismo, corrisponda tuttavia a una potenzialità di senso effettivamente presente nei testi. Come un «rivelatore» durante lo sviluppo di una pellicola fotografica, la persona di Gesù e gli eventi che la riguardano hanno fatto apparire nelle Scritture una pienezza di significato che prima non poteva essere percepita. 39

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

Questa pienezza di significato stabilisce tra il Nuovo Testamento e l’Antico un triplice rapporto: di continuità, di discontinuità e di progressione12. ❑❑Circa

il principio della «continuità», il documento evidenzia come gli autori e le comunità cristiane fin dall’inizio hanno riconosciuto l’autorità delle Scritture ebraiche, mostrando come gli eventi nuovi apportati dall’evento cristologico sono «conformi» a quanto era stato annunciato e sono «collegati» ai grandi temi della teologia d’Israele nel loro triplice riferimento al presente, al passato e al futuro. ❑❑Circa il principio della «discontinuità», il documento riconosce che il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento comporta alcune «rotture», riguardanti una serie di temi e di ambiti di tipo istituzionale, legale, cultuale, rituale, interpretativo, ecc. Nondimeno queste rotture non sopprimono la continuità, ma la presuppongono su ciò che è essenziale. Annota il documento: «È chiaro che, da un certo punto di vista [ quello del giudaismo] si tratta di elementi di grande importanza che vengono meno. Ma è altrettanto evidente che il radicale spostamento di accento realizzato nel Nuovo Testamento era avviato già nell’Antico Testamento e ne costituisce pertanto una lettura potenziale legittima»13. ❑❑Circa il principio della «progressione», la focalizzazione teologica è centrata sulla persona e la missione salvifica di Gesù Cristo, che «porta a compimento» le Scritture di Israele. Asserisce il documento: «Il Nuovo Testamento attesta che Gesù, ben lontano dall’opporsi alle Scritture d’Israele, dall’esautorarle o dal revocarle, le porta a compimento, nella sua perso12 Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue sacre scritture nella Bibbia cristiana, LEV, Città del Vaticano 2001, n. 64. 13 Ivi.

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Cap. 1  -  Itinerario teoretico

na, nella sua missione, e in modo particolare nel suo mistero pasquale. A dire il vero, nessuno dei grandi temi della teologia dell’Antico Testamento sfugge alla nuova irradiazione della luce cristologica»14. PCB: Bibbia e morale. Radici bibliche dell’agire cristiano

Un ulteriore intervento della Pontificia commissione biblica riguardante il rapporto tra Bibbia e teologia morale completa la riflessione circa il rapporto tra i due Testamenti15. Dopo aver presentato il ricco percorso teologico dei due Testamenti, nella seconda parte del documento sono proposti «alcuni criteri biblici per la riflessione morale». È importante sottolineare come i «criteri fondamentali e specifici» indicati nel testo sono il frutto di un processo interpretativo basato sull’antropologia biblica, così come emerge dall’analisi della prima parte del documento. Nel n. 93 vengono indicati i criteri ed esplicitati i passi determinanti del progetto ermeneutico: Nell’esposizione, per rischiarare quanto si può, a partire dalla Scrittura, le scelte morali difficili, distingueremo due criteri fondamentali (conformità alla visione biblica dell’essere umano e conformità all’esempio di Gesù) e sei altri criteri più specifici (convergenza, contrapposizione, progressione, dimensione comunitaria, finalità, discernimento)16.

La Commissione biblica sostiene che nel giudizio «di scelte morali difficili» esegeti e teologi moralisti «insieme» devono ispirare la loro valutazione privilegiando le due prospettive ermeneutiche convergenIvi, n. 65. Cf. Id., Bibbia e Morale. Radici bibliche dell’agire cristiano, LEV, Città del Vaticano 2008. 16 Ivi, n. 93. 14

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ti: la prospettiva antropologica e quella cristologica. La ragione di questo doppio riferimento, che parte dalla Sacra Scrittura e arriva alla teologia morale per «un giusto discernimento morale» nell’attualità odierna, è fondata sulla convinzione secondo la quale i due criteri fondamentali «svolgono un doppio ruolo essenziale... servono come ponte fra la prima parte (assi fondamentali) e la seconda (piste metodologiche) e dunque assicurano la coerenza globale dell’argomentazione»17. Questi due criteri fondamentali «introducono e inglobano in qualche modo i sei criteri specifici». Così delineati: 1) un’apertura alle diverse culture e dunque un certo universalismo etico (convergenza); 2) una presa di posizione ferma contro i valori incompatibili (contrapposizione); 3) un processo di affinamento della coscienza morale che si trova all’interno di ognuno dei due Testamenti e soprattutto dall’uno all’altro (progressione); 4) una rettifica della tendenza, in buon numero delle culture attuali, a relegare le decisioni morali nella sola sfera soggettiva, individuale (dimensione comunitaria); 5) un’apertura a un avvenire assoluto del mondo e della storia, suscettibile di segnare in profondità l’obiettivo e la motivazione dell’agire morale (finalità); 6) e finalmente una determinazione attenta, secondo i casi, del valore relativo o assoluto dei principi e precetti morali della Scrittura (discernimento)18.

Il documento precisa gli ambiti tematici a cui si legano i criteri, focalizzando i passaggi più importanti del rapporto tra Antico e Nuovo Testamento. La sistematizzazione di questi criteri riposa sulle seguenti osservazioni: 1) Convergenza: la Bibbia manifesta un’apertura alla morale naturale nell’enunciazione di un gran numero di leggi e orientamenti mora17 18

Ivi. Ivi.

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li. 2) Contrapposizione: la Bibbia prende posizione in modo molto netto per combattere i controvalori. 3) Progressione: la Bibbia attesta un affinamento della coscienza su certi punti della moralità, anzitutto all’interno stesso dell’Antico Testamento, poi sulla base dell’insegnamento di Gesù e sotto l’impatto dell’evento pasquale. 4) Dimensione comunitaria: la Bibbia mette fortemente l’accento sulla portata collettiva di tutta la morale. 5) Finalità: fondando la speranza nell’aldilà sull’attesa del regno (Antico Testamento) e sul mistero pasquale (Nuovo Testamento), la Bibbia fornisce all’uomo una motivazione insostituibile per tendere verso la perfezione morale. 6) Discernimento: in fine, la Bibbia enuncia principi e offre esempi di moralità che non hanno tutti lo stesso valore: di qui la necessità di un accostamento critico19.

Al criterio della convergenza è collegato il motivo della «sapienza», che rappresenta un’apertura alle diverse culture, nella prospettiva di un universalismo etico. Al criterio della contrapposizione è collegato il motivo della «fede», per la quale si prende posizione contro i valori incompatibili con gli orientamenti di fondo. Al criterio della progressione è collegato il motivo della «giustizia», che consiste in un processo di affinamento della coscienza morale, presente nella Sacra Scrittura e soprattutto in progressione dall’Antico al Nuovo Testamento. Al criterio della dimensione comunitaria è collegato il motivo dell’«amore fraterno», che supera il limite del personalismo ed evita di relegare alla sola sfera soggettiva il giudizio morale. Al criterio della finalità è collegato il motivo della «speranza», che implica un’apertura al futuro, oltre la storia e il mondo presente ed è in grado di segnare profondamente l’obiettivo e la motivazione dell’azione morale. 19

Ivi, n. 104. 43

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Al criterio del discernimento è collegato il motivo della «prudenza», che comporta una determinazione attenta, secondo i casi, del valore relativo o assoluto dei principi e dei precetti morali desunti dalla Sacra Scrittura. Per ogni criterio si propone una selezione essenziale di specifici temi, secondo uno schema consolidato (dato biblico / evoluzione AT-NT / conclusione), che interpreta il dato biblico nello sviluppo canonico dall’Antico al Nuovo Testamento e culmina con «gli orientamenti per l’oggi». L’aspetto applicativo del dato ermeneutico, nel quale si nota maggiormente lo sforzo del dialogo interdisciplinare, è fornito negli «orientamenti per l’oggi»20. Occorre infine sottolineare la rilevanza ermeneutica del sesto criterio specifico, quello relativo al «discernimento», che fa da ponte tra l’ermeneutica biblica e la riflessione teologico-morale. Nel testo è segnalata la convergenza di «tre piani» su cui si compie il discernimento: «In materia di morale la Sacra Scrittura fornisce i gavitelli essenziali di un sano discernimento. Questo si effettua su tre piani: letterario, spirituale comunitario e spirituale personale»21. Circa il piano letterario occorre evitare di procedere nella valutazione di una norma estrapolata dal suo contesto letterario e privata di un’effettiva analisi morfo-sintattica e strutturale. In secondo luogo il documento ricorda che per fondare una decisione morale oggi, il discernimento deve accordare una particolare attenzione a quelle norme bibliche «che sono fornite d’un fondamento o d’una giustificazione teologica. Si giunge così a distinguere meglio ciò che riflette la cultura di un’epoca e ciò che ha valore transculturale»22. Il riferimento alla teologia biblica Cf. Ivi, nn. 110; 117; 125; 135; 147; 154. Ivi, n. 150. 22 Ivi.

20 21

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è dunque imprescindibile. Il processo che focalizza la relazione tra Bibbia e teologia morale può essere rappresentato come nello schema nella pagina seguente. Con la designazione di «scienze bibliche» s’intende l’insieme delle discipline che concorrono a formulare un giudizio di verità sui dati letterari, storici e teologici contenuti nel canone ebraico-cristiano della Bibbia. Tra queste discipline, sul versante dell’ermeneutica biblica, sono coinvolte in modo diretto la linguistica, la storiografia, l’archeologia, mentre sul versante critico del contenuto dottrinale, la ricerca biblica implica l’elaborazione di una «teologia biblica». All’interno della teologia biblica, con i medesimi procedimenti dell’analisi esegetica e i rispettivi presupposti ermeneutici, si elabora l’«etica biblica». Pertanto quando si evoca il rapporto tra «Bibbia e morale», si presuppone l’utilizzazione e la mediazione necessaria delle «scienze bibliche» al fine di pervenire a una «teologia biblica» e segnatamente a un’«etica biblica», in grado di comunicare le sue conclusioni utili per la riflessione sistematica nel campo della morale. In definitiva un’approfondita analisi delle formule criteriologiche proposte nel documento offre un vero e proprio «paradigma ermeneutico» che inerisce alla teologia biblica e alla sua relazione attualizzante con la teologia morale. Lo sforzo consiste nel creare un «ponte comunicativo» tra il dato della rivelazione biblica e l’esigenza teologica della ragione morale, mediante categorie che abbracciano in modo unitario e dialettico i due Testamenti. La verifica del recente documento Bibbia e teologia morale costituisce un autorevole esempio di mediazione interdisciplinare tra la ricerca esegetica e l’elaborazione teologica. 45

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Bibbia

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bibliche

Scienze



linguistica storiografia archeologia discipline ausiliarie



ambito storico-letterario

sintesi del messaggio biblico con categorie proprie

biblica

Etica

ambito etico-morale



sintesi del messaggio morale unitario (AT-NT) della Bibbia

Teologia ➔ biblica (AT-NT)

ambito teologico

elaborazione speculativa con categorie proprie

morale

teologia

ambito sistematico-morale

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Cap. 1  -  Itinerario teoretico

4. I modelli interpretativi Il dibattito intorno alla teologia dell’Antico Testamento

A proposito della riflessione sull’Antico Testamento, diversi autori hanno intrapreso l’ardua strada dell’individuazione di temi e categorie in grado di rileggere e riassumere l’esposizione unitaria della teologia biblica dell’Antico e del Nuovo Testamento. Partendo dall’idea che la teologia biblica non può avere solo un carattere meramente sistematico-descrittivo, ma è caratterizzata da una connotazione storico-religiosa, W. Eichrodt nei suoi lavori (1964; 1967) assume come principio ordinatore unificante il concetto base di «patto» (Bund). Nella medesima linea metodologica, altri esegeti scelgono categorie unificanti o temi consistenti quali «la signoria o regno di Dio» (L. Koehler; G. Klein), «il nome di Yhwh» (W. Zimmerli, J.L. McKenzie), l’«elezione» (H. Wildberg), il «primo comandamento» (Schmidt), la «vita» (H. Haag). L’apporto del pensiero e dell’opera di G. von Rad pubblicata negli anni 1957-1960, risulta fondamentale per lo sviluppo della ricerca. Il grande esegeta tedesco concepisce l’idea di elaborare una teologia biblica dell’Antico Testamento unificando la sua analisi, non dal punto di vista tematico ma genetico. Il processo unitario della teologia anticotestamentaria va ricercato nella sua «struttura di avvenimento», configurabile in uno sviluppo graduale dell’elemento più arcaico della fede ebraica, che egli denomina «credo di Israele» (cf. Dt 26,5b-9; 6,20-24; e Gs 24,2b13). La via metodologica per elaborare una visione unitaria dell’Antico Testamento è di recuperare ciò che Israele ha annunciato su Dio come effetto dell’incontro con la sua parola attestato nelle Scritture. Per47

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tanto è possibile fare teologia dell’Antico Testamento attraverso l’annuncio della fede e la sua «ri-narrazione» (Nacherzählung) vitale. Secondo von Rad «in questo consiste l’autenticità storica dei fatti d’Israele da un punto di vista teologico, altrimenti non si viene più a capo dei risultati concreti che l’indagine storico-critica raggiunge» (M. Nobile). Tale procedimento «kerigmatico» si applica anche allo sviluppo della teologia neotestamentaria e pertanto rende possibile e auspicabile la connessione tra i due Testamenti. L’eredità di von Rad è stata sviluppata da due discepoli: W. Pannenber e R. Rendtorff. Il primo ha posto l’accento sui fatti biblici narrati nelle Sacre Scritture, che definiscono la rivelazione di Dio nella storia («Rivelazione come storia»: Offenbarung als Geschichte). Oltrepassando l’idea del kerigma, Pannenberg sottolinea come l’interpretazione dell’agire di Dio nella storia costituisca l’unica possibilità di fare teologia biblica. Similmente Rendtorff ha evidenziato l’importanza delle modalità di trasmissione della storia di Israele. Quanto è avvenuto di volta in volta, è divenuto esistenzialmente efficace nella sua tematizzazione verbale: «un evento nella e della parola». È importante segnalare come il concetto di «storia della salvezza» abbia caratterizzato la riflessione circa l’unita della teologia biblica, soprattutto a partire dalla promulgazione della costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione Dei Verbum (1965). Adottando tale criterio ermeneutico, comprensivo dei due Testamenti, autori cattolici e protestanti hanno dato apporti notevoli alla teologia biblica. Negli ultimi decenni diversi autori (O. Cullmann, E. Käsemann, N. Lohfink) hanno contribuito a valorizzare la categoria «storica» in prospettiva teologica. Nell’orizzonte della riflessione storico-salvifica, si evidenziano quattro modelli interpretativi dell’evoluzione tra l’Antico e il Nuovo Testamento: 48

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a) Il modello «promessa-compimento» nell’evento

Cristo, secondo cui l’Antico Testamento è intrinsecamente aperto al futuro e trova la sua realizzazione messianica in Cristo. b) Il modello «elezione-sostituzione-rappresentanza» raffigurabile come una piramide che, partendo dalla base si restringe fino al vertice: dalla pluralità all’unità, per poi proseguire in un processo di dilatazione dall’unità alla pluralità. c) Il modello «abbassamento-esaltazione» che evidenzia il compiersi del progetto salvifico di Dio che rovescia le sorti degli uomini, abbassando ed esaltando, umiliando e glorificando (cf. 1Sam 2,7). d) Il modello «dialogo Dio-uomo» nel quale si pone in risalto l’avvenimento della parola divina che agisce efficacemente nella storia, salvando e benedicendo. Alla parola «appellante» di Dio segue la risposta umana compresa come obbedienza della fede. Sul versante della ricerca scientifica degli ultimi anni, il confronto teologico sull’unità e la diversità dei due Testamenti è cresciuto notevolmente (cf. P.M. Baude, P. Beauchamp, D.L. Baker, B.E. Childs, C.-H. Dodd, J.M. Efird, L. Goppelt, P. Grech, M. Grilli, A.T. Hanson, H. Reventlow, L. Sabourin, G. Segalla). Considerando l’esito del dibattito, un consistente numero di autori considera il modello «promessa-compimento» come più efficace in vista di una teologia biblica unitaria. Il binomio unità-diversità che caratterizza i due Testamenti e, al loro interno, le singole tradizioni teologiche, trova nel modello «promessa-compimento» un importante leitmotiv che percorre l’intero filo narrativo della Bibbia. L’Antico Testamento assume un ruolo determinante per la teologia del Nuovo Testamento, a par49

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tire dalla stessa menzione del kerigma apostolico (cf. 1Cor 15,3-5: «secondo le scritture») e dall’attestazione dei testimonia dell’Antico Testamento nella letteratura neotestamentaria (cf. gli studi di C.H. Dodd). Per il teologo biblista la precomprensione metodologica di partenza è la seguente: nel cercare l’unità teologica del Nuovo Testamento occorre tenere presente il «processo di rielaborazione» delle Scritture d’Israele, attestate nella predicazione della chiesa primitiva e in seguito fissate nei testi canonici. Tale procedimento dinamico è svolto in vista della comprensione dell’evento cristologico e soteriologico e come tale definisce la circolarità ermeneutica interna ai testi biblici. Il dibattito sul tema si può sintetizzare in tre orientamenti: – la preferenza del modello ermeneutico «promessacompimento», inserito nella linea interpretativa della «storia della salvezza»; – il «circolo ermeneutico» ruota intorno alla persona del Cristo (cristocentrismo), fulcro della storia della salvezza, che assume l’AT e ne conferisce un’interpretazione «teologica»; – nella relazione tra AT e NT si evidenzia l’autorità dell’AT come rivelazione di Dio e di conseguenza come chiave ermeneutica valida per illuminare il suo compimento in Cristo. G. Segalla annota: Seguendo questa strada, che ci aiuta a scoprire anche uno degli elementi di unità del NT, si apre la via anche a una teologia vera e propria, perché l’AT diviene così la chiave ermeneutica per eccellenza del mistero della persona e dell’opera salvifica di Cristo. Una buona teologia del NT dovrebbe partire proprio da qui. Il NT è completamento e superamento dell’Antico. Ma proprio per comprendere il compimento bisogna sapere di che cosa è compimento, bisogna cioè sapere l’AT. 50

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Pur in presenza di diverse questioni di natura contenutistica e metodologica, va riconosciuto il ruolo insostituibile che l’AT assume nell’elaborazione della teologia neotestamentaria. Tale relazione rimane vitale per la fondazione della disciplina. Una specifica attenzione va rivolta alla proposta di B.S. Childs (cf. Biblical Theology of the Old and New Testament, London 1992), per la singolarità della sua impostazione metodologica «unitaria». Per elaborare la sua corposa teologia biblica, l’autore statunitense assume come criterio ermeneutico fondante l’approccio «canonico», senza escludere il ruolo dell’approccio letterario e del metodo storico-critico. Poiché tale metodo incontra talvolta delle difficoltà a raggiungere, nelle sue conclusioni, il livello teologico, l’approccio «canonico», intende portare proprio al compito teologico dell’interpretazione, partendo dalla cornice esplicita della fede: la Bibbia nel suo insieme. Secondo Childs l’atto interpretativo non può ignorare la connotazione canonica delle Scritture, cioè il fatto che la Bibbia è stata trasmessa e accolta come norma di fede da una comunità di credenti. Per tale ragione egli focalizza il suo interesse sul testo nella sua forma canonica finale (libro o collezione), accettata dalla comunità come un’autorità per esprimere la propria fede e orientare la propria vita. Così egli espone il suo pensiero: La mia tesi è che la teologia anticotestamentaria sia una disciplina essenzialmente cristiana, e non per il semplice uso cristiano di riferirsi alle Scritture ebraiche come all’Antico Testamento, ma per una ragione ben più profonda. Alla base della disciplina si situa un concetto di primaria importanza riguardante i modi di interpretare e di «recepire» le Scritture anticotestamentarie, concetto che evidenzia in maniera inequivocabile... la sua filiazione dall’ambito teologico cristiano. 51

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Con straordinaria efficacia Childs salvaguarda l’integrità testuale e contestuale dei due Testamenti, riconoscendo le differenze e le convergenze attestate nelle Scritture. Entrambi i Testamenti posseggono una loro autonomia e originalità e sarebbe un’ingenuità tentare di circoscrivere la complessità dei due Testamenti intorno a un tema o un modello neutrale. La ricerca esegetica ha mostrato come la Sacra Scrittura sia stata costantemente rielaborata e reinterpretata nelle sue tradizioni da parte dei diversi soggetti nel corso della storia. Non si capisce perché, dopo aver stilato una serie diacronica d’interpretazioni teologiche dell’Israele antico, che hanno originato il testo biblico, si dovrebbe dare una preferenza a una piuttosto che a un’altra di esse. Il nostro autore sostiene che l’elemento sicuro, a partire dal quale è possibile elaborare una lettura teologica unitaria, è costituito dall’atto canonico con cui il testo biblico è stato definito e trasmesso. Pertanto non bisogna cadere nella tentazione di subordinare l’Antico Testamento al Nuovo o di ritenere che l’Antico sia solo l’origine e la fonte del patrimonio religioso e culturale a cui attinge il Nuovo Testamento. Invece: si può sostenere con pieno diritto che la teologia biblica di entrambi i Testamenti deve sfociare in una riflessione teologica capace di muoversi anche nella direzione inversa: dal Nuovo Testamento all’Antico, e che una tale dialettica teologica cruciale è minacciata da qualsiasi richiamo acritico a seguire una traiettoria unilaterale, unidirezionale, verso il futuro.

In definitiva non solo è possibile elaborare una teologia biblica di tutta la Scrittura, ma questo compito è necessario e richiesto dal processo canonico che sancisce allo stesso tempo l’autorità testuale della Bibbia e la sua pluralità teologica. 52

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Il dibattito intorno alla teologia del Nuovo Testamento. La relazione tra Vangelo e kerigma

Un ulteriore aspetto riguarda specificamente la relazione tra la teologia del Nuovo Testamento e la predicazione del Gesù storico, tra Vangelo annunciato da Gesù nel corso della sua missione e il kerigma rielaborato e proclamato in seguito dalla comunità post-pasquale. Si tratta di una questione che inerisce all’impianto stesso della disciplina nella sua declinazione neotestamentaria, influenzata dalle conseguenze della complessa e ampia problematica circa la storicità dei Vangeli negli ultimi secoli. La questione affonda le sue radici nella cosiddetta «ricerca della vita di Gesù» (Leben Jesu Forschung), le cui fasi hanno notevolmente segnato anche l’evoluzione e lo sviluppo della teologia del Nuovo Testamento. Per quanto riguarda l’elaborazione della nostra disciplina, la domanda principale concerne il posto e il ruolo del «Gesù storico» nell’ambito del «messaggio originario» che in seguito la comunità post-pasquale ha rielaborato in fase di predicazione. Dagli esiti della riflessione sulla natura della teologia biblica svolta da W. Wrede all’inizio del XX secolo, gli autori si sono posti la domanda se il «Gesù della storia» vada interpretato solo come il «presupposto» necessario per una teologia biblica del NT, oppure se il messaggio del «Gesù storico» e il suo modo di agire possa essere considerato già come il «primo nucleo» della teologia biblica neotestamentaria. Inoltre occorre rispondere alla questione se la predicazione del «Gesù storico» sia da considerare come «teologia» o sia meglio qualificarla come «rivelazione». A prima vista sembrerebbe che solo il Cristo predicato debba essere oggetto della teologia, mentre il Gesù storico (o dello storico) sia da relegare alla ricerca storica, con la conseguenza di separare anche gli ambiti e i metodi della ricerca. 53

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Verso la metà del Novecento le due posizioni furono tematizzate nei lavori di R. Bultmann e di J. Jeremias. Il primo considerava il messaggio profeticoescatologico di Gesù come il presupposto della teologia neotestamentaria, poiché questa prende le mosse propriamente con il kerigma, ovvero con il «Cristo predicato». Contrariamente alla posizione bultmanniana, Jeremias conferisce un’importanza essenziale alla predicazione di Gesù, costruendo su questo dato storico l’intero impianto della sua teologia biblica, pubblicata nel 1971. Soltanto poggiandosi sull’autorità del Figlio dell’uomo in persona e della sua parola storicamente annunciata in modo unico e irripetibile, si può elaborare una teologia biblica del Nuovo Testamento come «risposta alla chiamata di Dio» rivolta all’uomo per mezzo di Cristo. Alla luce degli sviluppi successivi, diversi autori propongono di ricomporre la frattura tra il «Gesù della storia», e il «Cristo della fede» riscoprendo al di là del kerigma, il Vangelo. Il compito della teologia biblica non è quello di investigare sulla ricerca storica del Gesù pre-pasquale e del suo messaggio: questo compito spetta alla critica storico-letteraria. Il teologo biblista deve conoscere e assumere i risultati della ricerca letteraria per presentare una comprensione storico-teologica del Nuovo Testamento. Secondo Segalla occorre evitare di presentare una teologia di Gesù fondata solo sul suo messaggio storico (J. Jeremias) oppure solo sul kerigma (R. Bultmann). La teologia neotestamentaria deve riflettere il «Cristo reale: come fu e come fu compreso alla luce della Pasqua». Si tratta di un recupero della storicità dei Vangeli contro il pericolo di una nuova mitizzazione della figura del Cristo, ma allo stesso tempo della storicità della rivelazione accaduta in un preciso tempo e spazio del mondo. La relazione tra Vangelo e kerigma va interpretata non più in opposizione 54

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polemica e apologetica, bensì in una correlazione reciproca. Va infine evidenziata la continuità fra Vangelo e kerigma: il kerigma è annunciato in quanto testimoniato e il Vangelo è fondato sulla testimonianza storica. In definitiva la teologia neotestamentaria ha quindi il compito di mettere in luce l’unità-continuità nella diversità tra Vangelo e kerigma. L’unità «nascosta» della teologia biblica

Oltre alla relazione tra AT e NT, un ulteriore aspetto della riflessione ermeneutica verte sul problema della sua unità interna, a fronte della varietà letteraria e teologica degli scritti che compongono il canone biblico. Per l’Antico Testamento l’applicazione teologica si presenta ardua e complessa, data la vastità e la diversità delle tradizioni letterarie che formano le collezioni e i singoli libri canonici. Similmente avviene anche per il canone neotestamentario: anche riunendo gli scritti del NT in gruppi teologicamente omogenei (epistolario paolino, scritti giovannei, Vangeli sinottici, ecc.), troviamo comunque orientamenti teologici ben diversi e parzialmente conciliabili. Il problema si pone a livello della visione globale della teologia biblica considerata come «unità di significato». In essa si evidenzia una delle questioni cruciali e allo stesso tempo uno dei compiti principali che gli studiosi devono affrontare: andare alla ricerca di un’«unità nascosta». Lo sviluppo della vicenda storica relativo alla ricerca dell’unità nella teologia biblica, dalla fine del XVIII secolo a oggi, evidenzia proposte diverse: si va da tendenze più possibiliste e concilianti a soluzioni dubbiose e negazioniste. R. Gyllenberg in uno studio del 1938 sostiene la necessità di partire dal Nuovo Testamento per raggiungere una comprensione unitaria 55

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della teologia biblica che racchiuda anche l’Antico Testamento. Infatti l’interpretazione teologica dell’Antico Testamento trova la sua collocazione certa solo nell’esposizione teologica del Nuovo, compimento della storia della salvezza. Il principio cristologico rappresenta la «novità assoluta» della storia salvifica e universale e in quanto tale fonda e unifica la teologia biblica nella quale coesistono dialetticamente Antico e Nuovo Testamento, come promessa e compimento. La problematica è stata estremizzata soprattutto da H. Braun (1961; 1975), il quale ha negato qualsiasi unità nel NT, ammettendo unicamente quella antropologico-esistenziale. Dalle posizioni estreme di Braun il dibattito sull’argomento ha conosciuto un ampio progresso che apre a prospettive più positive. In questi ultimi decenni vi sono tentativi rilevanti per rispondere alla questione dell’unità-diversità teologica del Nuovo Testamento (cf. gli studi di J.D.G. Dunn e F.M. Braun). Alla luce degli sviluppi delle teologie bibliche degli ultimi decenni, si comprende come una delle principali condizioni per la rielaborazione della disciplina sia costituito dal rinvenimento del principio di «unità nascosta». Segalla sostiene che il modo con cui viene affrontato il problema della «unità e diversità» della Bibbia può apparire equivoco, in quanto inteso in relazione a un sistema dottrinale. Occorrerebbe parlare di «unità nella continuità storicoteologica», perché una tale lettura dinamica (polarità: unità-diversità) dà la possibilità di coniugare l’unità con la diversità non solo nel senso qualitativo dell’autore, ma anche nel senso storico. Scrive Segalla: L’unità-identità nella continuità storico-teologica può sopportare di stare insieme con la diversità. La continuità storico-teologica, condizione essenziale per una vera teologia del NT, la si può considerare a diversi livelli storico-letterari successivi: la continuità del NT con l’Antico, la continuità del Cristo kerigmatico col 56

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Gesù della storia, l’unità-continuità attraverso la diversità delle teologie del NT, la continuità fra passato e presente della fede, espressa nel NT, attraverso un incremento di significato, che si apre anche al futuro, per cui la teologia del NT è una continua scoperta e riscoperta della rivelazione storica avvenuta in Cristo. La polarità unità-diversità nella continuità guiderà la nostra riflessione sulla teologia biblica del NT. Con ciò difendiamo la possibilità stessa di una vera teologia biblica23.

Circa la teologia dell’Antico Testamento, sintetizzando i risultati della ricerca spiccano due temi principali. Poiché la complessa articolazione letteraria e teologica contenuta nei racconti biblici procede secondo uno sviluppo temporale progressivo, un primo tema unificante della teologia anticotestamentaria è costituito dalla singolarità della «storia della salvezza» che ha come protagonista il Dio dell’esodo di Israele. Un secondo tema è rappresentato dalla dialettica promessa-compimento riletta secondo l’approccio canonico. In tal senso, la teologia del’Antico Testamento è essenzialmente «un disciplina cristiana» (B.S. Childs), per il fatto che la reinterpretazione delle Scritture di Israele è frutto di un processo di canonizzazione definitosi rispetto alla profezia messianica e cristologica. Relativamente al Nuovo Testamento l’elemento unificante presente nelle «grandi teologie» del NT (Paolo, Giovanni, lettera agli Ebrei, Sinottici) è data dall’unità del Gesù storico con il Cristo esaltato, tra il Vangelo come evento storico e il kerigma, che rappresenta la rilettura teologica. Tale soluzione rimanda al problema dell’«unità ermeneutica» della teologia biblica. È proprio da questo versante ermeneutico che dovrebbe prendere le mosse la ricerca teo­ logica. 23

G. Segalla, Introduzione, vol. 2, Problemi, 63. 57

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5. Bilancio Il compito della teologia biblica

Un utile approfondimento ci proviene da una nota definizione di H. Schlier secondo cui la teologia biblica del Nuovo Testamento ha «il compito di ricavare, ordinare e presentare nella loro connessione intrinseca le idee teologiche, che vengono enunciate esplicitamente o implicitamente nel Nuovo Testamento». Cogliamo da tale affermazione alcuni elementi utili per riassumere e puntualizzare l’identità della teologia biblica: – si tratta di una «teologia», cioè di una riflessione metodica sul dato della rivelazione di e su Dio così come viene attestato negli scritti della Sacra Scrittura e sulla fede comunitaria che ha come oggetto questa specifica rivelazione; – il procedimento riflessivo insito nella teologia biblica presuppone la conoscenza interdisciplinare dei risultati delle discipline e lo studio esegetico dei singoli scritti e gruppi di scritti; – la teologia biblica si sforza di conseguire una conoscenza complessiva di uno scritto o di un gruppo di scritti, compito che risulta impraticabile alla sola esegesi e non proponibile alla dogmatica (la teologia biblica nacque dalla distinzione con la dogmatica). In ragione di tale collocazione la teologia biblica consente di preservare l’esegesi dall’isolamento e dall’eccessiva accentuazione di un singolo passo, così come l’esegesi in progresso può esercitare una funzione critica nei riguardi di un metodo teologico che tentasse di eludere la ricchezza e la pluriformità letteraria della Parola rivelata nel tentativo di imporre un globale progetto teologico. La specificità della teologia biblica si distingue dal metodo dogmatico non già per la rinuncia alla 58

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Cap. 1  -  Itinerario teoretico

riflessione razionale sul dato biblico e sui fondamenti della fede, bensì per le diverse modalità di pensiero e di espressioni esistenti tra le due discipline. Infatti la teologia biblica deve mantenersi consapevolmente nell’ambito della rivelazione presente nella Bibbia, studiandone i temi, i fatti e i contenuti, mentre la teologia dogmatica è chiamata a una riflessione globale sull’intero patrimonio della fede della chiesa che oltrepassa negli ordini e nelle categorie i limiti della stessa teologia biblica. In questo contesto l’esposizione della teologia biblica è da considerarsi come la «vetta a cui conducono i faticosi sentieri dell’esegesi neotestamentaria e da cui li si può abbracciare globalmente con sguardo retrospettivo» (L. Goppelt). L’istanza metodologica

È generalmente riconosciuto che la problematica decisiva di ogni modello teologico verte intorno all’individuazione e alla corretta utilizzazione funzionale della metodologia. L’unitarietà del materiale evangelico costituito dalle diverse teologie richiede un metodo adeguato che possa rendere correttamente visibile «una sintesi dottrinale critica, organica e progressiva della rivelazione storica dei sinottici, attorno a categorie proprie, alla luce della fede personale ed ecclesiale» (G. Segalla). La teologia biblica neotestamentaria non può prescindere dal far fronte ad alcuni rilevanti problemi di metodo, che determinano i risultati della ricerca. Richiamiamo le principali questioni: a) se e fino a che punto si debba esplicitare l’accennata intima coesione dei pensieri teologici degli scritti biblici, oppure se si deve procedere in forma puramente descrittiva; b) quale importanza può e deve avere la posizione della storia o almeno della persona e missione di 59

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

Gesù all’interno della elaborazione teologica dei libri biblici; c) quale deve essere il rapporto esistente tra la teologia dei singoli scritti e l’unità progettuale che è alla base della teologia biblica; d) se la «teologia dei Vangeli» è da considerarsi centro dinamico della teologia biblica in quanto investiga sull’identità di Gesù Cristo così come emerge dai racconti evangelici, in che termini essa può collegarsi con il resto del Nuovo Testamento e relazionarsi con l’Antico Testamento. L’esigenza del metodo storico-critico

La prima fondamentale esigenza richiesta al nostro studio è di comporre una riflessione teologica ancorata alla storia, all’ambiente di formazione della Bibbia, alla sua configurazione letteraria a partire dalla verità del testo, così come gli scrittori lo hanno inteso redigere. In questa direzione va inteso l’impiego del metodo storico-critico e lo sviluppo dei nuovi approcci ermeneutici. Il metodo è «storico» in un duplice significato: perché si applica a testi datati nell’antichità e perché ne studia la portata storica, i processi di formazione nel tempo, le tappe di comprensione, le diverse categorie di destinatari, di ascoltatori e di lettori differenziati nelle situazioni spaziotemporali. Inoltre il metodo è «critico» nella sua accezione positiva (dal greco krinein = giudicare), poiché permette un «discernimento» mediante l’ausilio di criteri scientifici il più possibile obiettivi in ciascuna delle sue tappe (analisi della critica testuale, storia redazionale, fonti e tradizioni fino alla redazione finale), in modo da rendere accessibile nel tempo presente il significato complesso dei testi antichi. Le tappe essenziali del metodo storico-critico sono: a) la critica testuale; b) l’analisi linguistica (morfologica e sintattica) e semantica; c) la critica della storia della 60

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Cap. 1  -  Itinerario teoretico

tradizione; d) la critica della storia della redazione. Occorre evidenziare come l’articolazione dei metodi esegetici si compone di due dimensioni contenute nei testi: quella diacronica (la storia della formazione del testo attraverso la storia) e quella sincronica (la configurazione strutturale e l’unità formale del testo redatto). Il metodo storico-critico è di tipo genetico e quindi necessario per la ricostruzione storico-letteraria della teologia biblica. Tuttavia il punto cruciale che ha ripercussioni direttamente sulla riflessione teologica verte soprattutto sui «presupposti ermeneutici» che orientano l’utilizzazione del metodo (sul «come» si pratica), più che sulle tecniche esegetiche. Occorre ribadire che l’interpretazione teologica del senso di un testo implica una «circolarità ermeneutica»: insieme al metodo storico-critico si esige l’intervento del metodo teologico. Non è possibile presupporre una teologia biblica senza configurare il principio ermeneutico che legittimi i metodi utilizzati e con essi i risultati. Il metodo teologico

Se per la ricostruzione dei testi la scienza biblica si avvale prevalentemente del metodo storico-critico, per l’interpretazione si esige la connessione di entrambi i metodi: storico-critico e teologico. Si tratta di operare il «passaggio» dai significati del testo al suo messaggio teologico unitario. Questa operazione è compito del metodo teologico e conseguenza della sua circolarità (evento-kerygma-teologia-lettore). Occorre sottolineare come nell’orizzonte di comprensione della fede il testo biblico non può essere isolato o limitato, ma richiede di essere interpretato secondo quattro presupposti che ineriscono alla stessa fede teologica: 61

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

– la rivelazione di Dio nella storia compiutasi in Gesù Cristo (Eb 1,1-4; Gv 1,1-18); – il carattere sacro e ispirato della Scrittura, che postula e abbraccia la questione della canonicità dei singoli libri biblici; – il rapporto della letteratura biblica con la storia ivi narrata e interpretata; – il carattere dinamico dell’interpretazione biblica implica un circolo ermeneutico fra testo, tradizione viva della chiesa e magistero. Questi presupposti vanno considerati come le basi della riflessione metodologica della teologia biblica. Il principio ermeneutico

A ben vedere, la configurazione della teologia biblica sotto il profilo teologico richiede due elementi necessari e coesistenti: a) la possibilità di una interpretazione adeguata, scientificamente corretta, storicamente plausibile e letterariamente fondata dei testi scritturistici; b) l’assunzione di un chiaro e puntuale principio ermeneutico in grado di conferire all’intera riflessione biblico-teologica la sua completa validità, senza tradire le istanze presenti nel testo né il senso teologico del messaggio ivi contenuto. Ogni elaborazione teologica presente nei vari modelli di teologia biblica dell’Antico e del Nuovo Testamento possiede alla base l’assunzione di un preciso principio ermeneutico. L’analisi dei modelli che hanno caratterizzato le teologie bibliche ha mostrato con chiarezza che l’unità tra fede biblica e pluralità storica all’interno del canone, tra esigenza teologica e ricerca esegetica rimane in un «rapporto in tensione», dai confini non sempre individuabili. Per questo la teologia biblica è da considerarsi una «disciplina di cerniera», una mediazione tra esegesi e dogmatica, storia e verità, alla ricerca di un’unità «dinamica 62

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Cap. 1  -  Itinerario teoretico

e progressiva», capace di un servizio necessario per la comprensione della parola di Dio. Le istanze ermeneutiche presenti nella configurazione della teologia biblica ineriscono direttamente alla natura stessa della ricerca contemporanea e si configurano nel più ampio dibattito epistemologico e teologico sull’esito dei sistemi scientifici (W. Pannenberg, K.R. Popper, K.P. Feyerabend, I. Lakatos, Th. Kuhn). Per la teologia dell’Antico Testamento, il principio ermeneutico si basa sulla rivelazione di Dio, creatore, liberatore e salvatore. Le tappe di questo processo ermeneutico, che si trasmette nel tempo mediante la narrazione, sono caratterizzate dalla creazione, dall’alleanza, dalla profezia e dalla sapienza. Queste quattro chiavi ermeneutiche (creazione, alleanza, profezia e sapienza) scandiscono la dialettica promessa-compimento che percorre trasversalmente i racconti anticotestamentari. Per la teologia del Nuovo Testamento, il principio ermeneutico si fonda sulla rivelazione cristologica contenuta nei Vangeli, determinata dalla «memoria storica» di Gesù di Nazaret e dalla prassi della comunità cristiana (U. Luz; G. Segalla). Infatti la persona e la missione di Cristo raccontata nei testi evangelici sta a fondamento della riflessione teologica non solo dei Vangeli sinottici ma dell’intero Nuovo Testamento. È compito dell’analisi biblico-teologica individuare attraverso la ricchezza e la molteplicità delle forme letterarie, l’unità dinamica e le sue interrelazioni contenute nella testimonianza della fede apostolica e nella tradizione dei testi biblici. Annota Segalla: Quanto più il teologo biblico riuscirà, non tanto ad affermare quanto a mostrare e dimostrare criticamente la continuità, i fili nascosti che legano insieme eventi così diversi e lontani, concezioni così diverse e lonta63

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

ne, libri così diversi nel genere e così lontani fra loro nel tempo, tanto più contribuirà alla interpretazione e comprensione propriamente teologica del Nuovo Testamento e della Bibbia24.

Conclusione

La disamina delle prospettive teoretiche presentata in questo primo capitolo ci ha consentito di gettare uno sguardo sull’ampia problematica della teologia biblica come disciplina teologica e sulle questioni più rilevanti. Riferendosi al contesto attuale degli studi biblici e teologici, Segalla parla di un significativo «cambio di paradigma» del pensiero teologico di fronte alla sfida della postmodernità. La questione più urgente è rappresentata dalla «frammentazione» del sapere teologico e dalla difficoltà di elaborare un sistema unitario del messaggio biblico-teologico. In tal senso anche nel campo della ricerca esegetica si assiste a una proliferazione di metodi e di esiti sempre più specializzati e particolari, che costituiscono una sfida per l’elaborazione di una teologia biblica aggiornata e capace di mediare la ricchezza della rivelazione biblica. Per comprendere meglio la situazione attuale occorre gettare uno sguardo sulla vicenda storica delle origini della disciplina e sul suo sviluppo recente.

24 Id., Panorama teologico del Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia 1987, 38.

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Capitolo 2

itinerario storico

Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. (Lc 24,25-27)

Avendo presentato l’identità della «teologia biblica» come disciplina, con le principali questioni che ineriscono alla dialettica del suo sistema, in questo secondo capitolo porremo l’attenzione sul processo storico della sua nascita e della sua evoluzione. Poiché tale disciplina è da ritenersi relativamente «giovane», la vicenda storica che ha accompagnato il suo cammino è molto importante per puntualizzare e chiarire il suo ruolo nell’ambito della ricerca biblica e teologica. Dopo aver segnalato le condizioni storiche che hanno costituito il terreno fecondo in cui ha preso vita la riflessione sulla teologia biblica (la preistoria), in forma sintetica si propongono dieci principali tappe comprendenti la formazione e lo sviluppo della disciplina nei secoli XVIII-XX: 1) L’esordio della teologia biblica e il suo processo di autonomia: J.Ph. Gabler. 2) L’opera di G.L. Bauer e i tentativi successivi. 3) Lo sviluppo della scuola di Tübingen: F.Ch. Baur. 4) La scuola liberale (H.J. Holtzmann) e il modello storico-religioso (W. Wrede). 5) Il modello descrittivo: la «storia della religione». 6) Gli inizi del XX secolo e l’affermazione della teologia kerigmatico-esistenziale. 7) Un duplice orientamento: il «kerigma» e la «sto65

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

ria della salvezza» (Heilsgeschichte). 8) L’apporto dei teologi cattolici nella prima metà del XX secolo. 9) Il pluralismo metodologico e i nuovi orientamenti ermeneutici. 10) Il profilo odierno della «teologia biblica»: punti fermi e principi acquisiti. 1. La preistoria

Come la maggior parte delle discipline scientifiche, la «teologia biblica» nasce per un processo di «separazione» e di «specializzazione» rispetto alle scienze che la contenevano e in qualche modo la presupponevano. La sua preistoria si colloca negli sviluppi scientifici e teologici dei secoli XV-XVII, che videro emergere sempre più la dialettica tra il movimento pietista e il successivo approccio illuminista alla Sacra Scrittura. Infatti i prodromi che portarono alla successiva riflessione sulla necessità di una «teologia biblica» furono costituiti dalla spinta dell’Umanesimo e dalla sua tradizione letteraria. Va ricordata l’opera degli umanisti quali Erasmo da Rotterdam, Lorenzo Valla e altri illustri protagonisti dell’Umanesimo europeo. In tale contesto si colloca la figura di M. Lutero e l’impulso scritturistico che il movimento luterano ha prodotto attraverso i suoi esponenti. L’insistenza sul metodo biblico propugnata dai primi riformatori ed elaborata mediante il sistema teologico, fu interpretata in chiave polemica e in funzione antiscolastica. Il dibattito tra luteranesimo e teologia cattolica produsse la nascita di una serie di atteggiamenti affettivi nei riguardi del testo sacro, non supportati da un’adeguata riflessione metodologica. Melantone fu uno degli autori che applicò con maggiore sistematicità un metodo biblico ispirato alla tipologia dell’argumentatio biblica delle università medievali, elabo66

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Cap. 2  -  Itinerario storico

rando veri e propri prontuari di passi scritturistici in appoggio alle tesi teologiche prevalenti nel periodo della Riforma. Nel corso dei secoli XV-XVII nell’ambiente europeo pullularono movimenti e gruppi locali protestanti che diedero vita ai cosiddetti collegia biblica, raccolte di loci teologici o passi scritturistici dell’Antico e Nuovo Testamento, allineati secondo uno schema catechistico luterano. Queste opere identificavano l’insegnamento della Bibbia con le tesi della teologia sistematica luterana e, pur riconoscendo la Scrittura come fondamento della teologia sistematica, tuttavia concepivano il testo biblico in chiave strumentale, subordinandolo allo sviluppo della teologia sistematica. «Si tentava così di fondare la teologia dogmatica sulla Bibbia in modo che fosse teologia biblica, cioè “teologia secondo la Bibbia”» (G. Segalla). In questo ambiente letterario, motivato dal ritorno affettivo e spirituale alla Sacra Scrittura in polemica con la teologia scolastica cattolica, compare il nome di «teologia biblica», menzionato per la prima volta in un titolo dell’opera di W.J. Christmann nel 1629. Tuttavia il primo volume con il titolo di Theologia biblica vede la luce nel 1643 per mano di Henricus a Dienst e insieme anche il tentativo di una definizione. Nella sua riflessione l’autore differenzia la teologia biblica dalla dogmatica, affermando che essa è tale perché formula i fondamenti della fede con le parole ispirate della Scrittura. Pur lasciando immutato il principio di subordinazione della teologia biblica alla sistematica, appare notevole lo sforzo di individuare la peculiarità della materia, di cui si comincia a evocare il nome. Alla contrapposizione polemica del movimento protestante si oppone l’atteggiamento nuovo che sorge sempre nell’ambito del luteranesimo verso la fine del XVII secolo e che prende il nome di pieti67

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

smo dai lavori di Ph.J. Spener (1635-1705). Tuttavia già con la pubblicazione del libro Hortulus biblicus (1608) di W. Seber si annunciava una svolta nei riguardi della precedente interpretazione luterana della Scrittura. Ai collegia biblica si contrappongono i collegia pietatis, ispirati al nuovo movimento che propugna un rinnovamento spirituale, intimo ed emotivo circa l’atteggiamento con cui accostarsi e leggere la Sacra Scrittura. La necessità di un ritorno al contatto personale con la Parola sacra spinge diversi autori a una serrata critica nei riguardi dell’approccio teologico, invocando un ritorno a una lettura personale e più semplice del testo divino. In tal modo il pietismo esercita una critica alla teologia luterana ortodossa, spingendo gli studiosi a una maggiore riflessione sull’identità stessa della materia e sulla sua autonomia. Si distingue per tale riflessione A.F. Büsching, che rivendica nelle sue opere l’autonomia della teologia biblica, propugnando in antitesi con la teologia dogmatica una «teologia problematica». «La theologia problematica è appunto la teologia biblica in quanto problematica, che mette in crisi la teologia scolastica, per cui la teologia biblica sarebbe la vera teologia, che ha in ogni caso la prevalenza critica su quella scolastica» (G. Segalla). Nello sviluppo della sua tesi, Büsching sostiene la necessità di presentare la disciplina teologica secondo i vari periodi storici, aprendo la strada alla distinzione che sarà in seguito proposta da Bauer tra teologia dell’Antico Testamento e del Nuovo. Tra ritorno affettivo alla Bibbia e movimenti antagonisti all’impostazione sistematica della teologia, inizia a farsi spazio, almeno nominalmente, la disciplina della «teologia biblica», il cui nome compare sempre più di frequente nel contesto illuministico della metà del XVIII secolo. 68

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Cap. 2  -  Itinerario storico

2. L’esordio della teologia biblica e il suo processo di autonomia: Johann-Philipp Gabler

Nella seconda metà del XVIII secolo l’ambiente illuminista, con la sua critica serrata al sistema teologico luterano e l’approccio razionalistico ai testi, costituisce senza dubbio l’humus nel quale prende avvio la «teologia biblica» come disciplina, mediante una specifica auto-riflessione sul proprio statuto metodologico. Tra i protagonisti di questo periodo, si segnalano J.S. Semler (1725-1791) e G.T. Zachariä (1729-1777). Semler riassume nella sua opera l’eredità dell’Umanesimo e della Riforma e tenta di elaborare secondo una nuova prospettiva ermeneutica la riflessione sulla teologia biblica. Mentre nell’impostazione ortodossa luterana la parola di Dio s’identificava con la Sacra Scrittura, Semler introduce l’analisi storico-critica e postula una distinzione all’interno della Bibbia intesa come fenomeno letterario, affermando che alcune sezioni del testo biblico non posseggono una «validità universale», ma costituiscono documenti storici circoscritti e limitati al tempo della loro redazione. Tale approccio letterario, per quanto metodologicamente pionieristico e ancora confuso, dischiude una prospettiva nuova rispetto alla tradizione classica della Riforma e condiziona l’elaborazione della teologia biblica alla critica delle sue fonti. Pur non avendo prodotto una vera e propria opera di teologia biblica, Semler introduce una delle questioni centrali della disciplina, cioè l’ermeneutica della Sacra Scrittura come punto di partenza per fondare l’autonomia della teologia biblica. Contemporaneo di Semler fu G.T. Zachariä, autore di una monumentale opera di «teologia biblica», completata in cinque volumi da J.C. Volborth nel 1786. 69

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

Rigettando il metodo pietistico e l’approccio scolastico alla Bibbia, Zachariä si prefigge di riorganizzare la teologia sistematica in base a una rifondazione critica della Sacra Scrittura, prefigurando un sistema non più influenzato dalla precomprensione dottrinale, bensì contrassegnato dal solo insegnamento biblico e dalla sua traduzione in un linguaggio comunicativo e popolare. Egli rimane convinto che una corretta elaborazione sistematica della fede si fonda su una solida ermeneutica biblica, corroborata da una puntuale critica delle fonti. In tal modo un’autentica teologia biblica, intesa secondo una prospettiva unitaria, migliora la teologia sistematica e le consente di acquistare maggiore sicurezza e chiarezza. Egli intende per teologia biblica «un preciso indirizzo di tutti gli assunti teologici, con tutti i dogmi che essi comportano, e la retta comprensione di tali verità alla luce delle categorie bibliche, secondo le prove della Sacra Scrittura». G.T. Zachariä, come Semler, introduce la questione ermeneutica e propugna una teologia biblica «unitaria», quale condizione indispensabile per elaborare i contenuti della fede. Tuttavia la sua visione rimane ancorata alla teologia sistematica, pur avendo percepito con acutezza i punti cruciali che caratterizzeranno lo sviluppo della teologia biblica. La teorizzazione dell’autonomia metodologica della «teologia biblica» fu introdotta propriamente da J.Ph. Gabler nel discorso inaugurale tenuto ad Altdorf nel 1787, che costituirà come un «manifesto» della disciplina, dal titolo: Oratio de justo discrimine theologiae biblicae et dogmaticae regundisque recte utriusque finibus. Fino allora la riflessione sulla teologia biblica aveva prodotto interessanti spunti e aperto prospettive, ma era rimasta subordinata nei riguardi della teologia dogmatica. Pur non avendo mai scritto un’opera di teologia biblica, Gabler per primo met70

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Cap. 2  -  Itinerario storico

te a fuoco in modo preciso la questione dell’identità e dell’autonomia della disciplina e ne profila i contorni teoretici. Presentando le problematiche contenute negli scritti biblici (l’oscurità dei testi, le precomprensioni dottrinali che influenzano gli approcci della ricerca biblica e la distanza temporale tra gli agiografi e il lettore, l’evoluzione del sistema religioso nei racconti scritturistici), Gabler mette abilmente in evidenza la sostanziale differenza tra l’approccio storico e quello teologico-didattico al testo ispirato. Sulla scorta di tali differenze egli espone la sua tesi: La teologia biblica è d’indole storica, in quanto trasmette quello che gli scrittori sacri pensarono riguardo alle cose divine; la teologia dogmatica al contrario è di indole didattica, in quanto insegna quello che ogni teologo elabora filosoficamente con la ragione riguardo alle cose divine, secondo la misura della sua abilità o secondo i tempi, l’età, il luogo, la dottrina o la scuola di appartenenza, ed altri fattori simili. La teologia biblica, proprio perché tratta di un argomento storico, rimane sempre identica in quanto viene considerata in se stessa – anche se le presentazioni elaborate della teologia biblica possono prendere diverse forme secondo la diversità degli studiosi. Ma la teologia dogmatica, come tutte le discipline umane, è intrinsecamente soggetta a una molteplicità di cambiamenti, ed una costante e perpetua osservazione su molti secoli ci mostra questo abbondantemente1.

Sviluppando tali premesse Gabler rileva la differenza delle due discipline: la teologia biblica argomenta storicamente in base all’oggetto della sua ricerca, mentre la teologia dogmatica, interessandosi al contenuto del dogma, è condizionata dalle mutazio1 J.-Ph. Gabler, Sulla giusta distinzione tra teologia biblica e teologia dogmatica e sulla corretta delimitazione degli obiettivi specifici di entrambe, Discorso inaugurale pronunciato il 30 marzo 1787, Università di Altdorf (versione italiana a cura di C. Conroy).

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

ni delle altre discipline con cui è legata ed è chiamata a dialogare sul piano delle scienze e della comunicazione culturale umana. Da qui la necessità di distinguere i due sistemi teologici e le relative metodologie. Addentrandosi nel tema specifico della teologia biblica, Gabler sottolinea la necessità di applicare la critica storica sia per l’Antico che per il Nuovo Testamento, individuando nei testi ispirati le concezioni religiose sottostanti e i generi letterari usati. In questo procedimento l’autore tedesco chiarifica la sua posizione circa il tema dell’ispirazione biblica, la cui elaborazione riguarda la materia dogmatica e non deve implicare precomprensioni ostative per l’esegeta. Per ultimo Gabler segnala il procedimento secondo cui dovrebbe operare la teologia biblica come disciplina scientifica: il primo compito consiste nell’individuazione del senso letterale dei testi scritturistici, contestualizzati nel loro ambiente di redazione e confrontati con altre parti della Bibbia. In base a un confronto tematico-letterario l’esegeta dovrà ricavare gli «insegnamenti comuni» che emergono dall’analisi biblica e riformulare una somma di dicta classica che riunisce in modo sistematico gli insegnamenti «validi per tutti gli uomini e per tutti i tempi». Gabler non contrappone le due discipline teologiche, bensì le collega mostrando come l’autonomia della teologia biblica e del suo metodo, sortisce conseguenze positive per la stessa teologia dogmatica e per il suo progresso. La proposta di Gabler, pur influenzata da una concezione illuminista secondo cui il criterio ultimo di verità rimane la ragione umana, rappresenta sicuramente una lucida base di sviluppo per elaborare quel necessario processo di autonomia della «teologia biblica», che avrà conseguenze positive per l’evoluzione del pensiero teologico successivo. 72

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Cap. 2  -  Itinerario storico

3. L’opera di Georg Lorenz Bauer e i tentativi successivi

Tra la fine del 1700 e la prima metà del 1800 si registrano diversi tentativi di sviluppo nella produzione letteraria di teologie bibliche (cf. i lavori di L.F.O. Baumgarten-Crusius, Ph.C. Kaiser, D.G.C. Von Cölln, W.M. Leberecht De Wette, S. Lutz, L. Noack, K. Schlottmann). Pioniere fu Georg Lorenz Bauer (1755-1806), autore di una voluminosa opera dedicata alla teologia dell’Antico Testamento e del Nuovo Testamento. Seguendo le indicazioni dettate dal programma «gableriano», Bauer, professore ad Altdorf dal 1789 al 1805, applica la metodologia storico-critica ai testi biblici, cercando di mettere in luce l’evoluzione del sistema religioso espresso nelle testimonianze bibliche dall’Antico al Nuovo Testamento. Egli sceglie di esporre la materia biblica secondo un paradigma evolutivo-razionale, collegando l’Antico Testamento al Nuovo, con la convinzione che un tale processo evolutivo sia governato dai canoni della ragione umana, perché il messaggio biblico si è adattato nella sua storia evolutiva alle condizioni degli uomini nel tempo. Si comprende come il principio ermeneutico che sottostà all’analisi biblica di Bauer è notevolmente influenzato da una visione illuministica della storia e dall’identificazione tra pensiero teologico e «sistema religioso». Infatti, la struttura formale della sua opera è organizzata secondo un tentativo di descrizione sistematica del processo religioso, partendo dalla teologia, attraverso l’antropologia, per approdare alla cristologia. Dopo aver considerato la situazione delle fonti anticotestamentarie, Bauer si chiede quali siano i mezzi per formulare le idee religiose contenute nei libri della tradizione ebraica e segnala tre principi metodologici: a) la lettura dei testi fatta secondo lo spirito 73

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

del tempo in cui furono redatti; b) la comparazione delle idee e dei concetti religiosi ebraici con le altre culture limitrofe coeve; c) la conoscenza delle idee religiose con cui gli ebrei entrano in contatto. Secondo l’orientalista di Altdorf il procedimento indicato permette di cogliere la continuità tra Antico Testamento e mondo neotestamentario e, come risultato finale, di individuare l’originalità e l’eccellenza del messaggio cristiano. Circa lo studio della teologia del Nuovo Testamento, Bauer articola in quattro volumi la presentazione dottrinale di ciascuna sezione (I: la cristologia; II: i Vangeli sinottici; III: la letteratura giovannea; IV: la letteratura paolina), cercando di configurare i principali insegnamenti teologici delle singole collezioni bibliche (con un’accentuazione dell’aspetto filosofico-morale) e ponendoli a confronto con le verità universali della religione. Pur avendo distinto l’Antico dal Nuovo Testamento per ragioni di critica storica, Bauer sente la necessità di unire le due trattazioni, auspicando una teologia biblica «unica», in virtù della riflessione sul canone e sull’ispirazione della Sacra Scrittura. Occorre riconoscere che la finalità della ricerca teologicobiblica del Bauer è di tipo apologetico-pastorale, ancora dipendente dall’influenza illuministica (teologia biblica come «teoria della religione»). Lo sforzo dell’orientalista tedesco si distingue per la sua erudizione, ricorrendo a un’ampia rassegna di posizioni e di autori, non sempre suffragata da una sufficiente profondità analitica e dal giudizio personale. Pur nei suoi evidenti limiti metodologici, l’opera di Bauer va salutata come uno dei primi esperimenti di teologia biblica, sorgente di notevoli intuizioni. Essa s’impone per il tentativo di interpretare in chiave evolutiva lo sviluppo degli insegnamenti biblici, favorendo un’efficace visione d’insieme dell’Antico e del Nuovo Testamento. «Per la prima volta nel74

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Cap. 2  -  Itinerario storico

la storia della teologia biblica, con la sua esposizione orientata all’idea di sviluppo, attuata mediante il metodo storico-critico e comparativo, Georg Lorenz Bauer mette in evidenza il problema della continuità e discontinuità dei due Testamenti» (H.J. Kraus). Gli storici hanno sottolineato l’influsso esercitato da Gabler e Bauer nell’elaborazione di teologie bibliche della prima metà del XIX secolo, soprattutto per via della varietà metodologica perseguita dai ricercatori dell’epoca. In Gabler si ha una concezione di teologia biblica in funzione critica rispetto alla teologia dogmatica ma ancora subordinata a essa; in Bauer si ravvisa il rischio di un’applicazione parziale del metodo storico e del principio evolutivo con la conseguente frammentazione della visione unitaria della materia. Ai fini della nostra riflessione è sufficiente segnalare sinteticamente gli indirizzi teologici che hanno prodotto alcuni tentativi di sviluppo della disciplina nella prima metà dell’Ottocento, senza entrare nel merito specifico delle opere e delle posizioni dei protagonisti. In questo periodo troviamo un primo gruppo di teologie del Nuovo Testamento contrassegnate dal metodo puramente storico e prive di una visione unitaria di base della teologia biblica (cf. i lavori di G.S. Ritter, G.W. Meyer, J.G.F. Leun, K.H.L. Pölitz, H. Heimart Clodius). Si tratta di un approccio che esalta l’autonomia dei singoli libri (o temi), intendendo il compito della teologia biblica, come «una presentazione storica in se stessa autonoma dei diversi sistemi dei più eminenti agiografi» (G.S. Ritter). Più interessante risulta la prospettiva contraria a quella storicistica, seguita dalle opere di altri autori contemporanei quali De Wette, Kaiser e Von Cölln, che reagiscono all’impiego di un metodo puramente storico e invocano la necessità di formulare un sistema teologico «unitario», per elaborare un modello 75

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

comprensivo delle diverse tradizioni letterarie della Bibbia. Nella sua opera sugli «aspetti dogmatici della teologia dell’Antico Testamento» (1813; 18313) W.M.L. De Wette teorizza una connessione metodologica tra teologia biblica e sviluppo dogmatico, concependo in modo originale la visione organica e vitale dell’insegnamento scritturistico. Tuttavia il limite della sua analisi sta proprio nell’elaborazione del principio ermeneutico che si basa sull’interpretazione dei testi secondo un approccio dipendente dalla «filosofia della religione», seguendo lo sviluppo evolutivo delle «forme religiose» ravvisabili nei periodi storici (ebraismo, giudaismo, giudeo-cristianesimo; ellenismo). In questa linea metodologica si collocano i tre volumi di G.Ph.C. Kaiser, ancora più influenzati da una «visione religionista» e sistemica dei modelli biblici, a tal punto che è difficile riconoscervi una vera «teologia» biblica nel senso proprio del termine. Commenta Segalla: Né il De Wette né il Kaiser riuscirono ad elaborare una teologia biblica del NT, con un metodo storico-critico coerente, osserva giustamente il Baur. Ambedue sono ancora influenzati dal razionalismo, nonostante che il Kaiser lo rifiuti esplicitamente. La ragione viene presa non solo nel senso del metodo storico-critico come nel Bauer, ma come principio filosofico-ermeneutico, che permetterebbe di inquadrare la religione biblica nella religione universale, quella ideale ed eterna2.

A rafforzare questa tendenza euristica troviamo la teologia biblica di D.G.C. Von Cölln, definita «l’ultima opera che tratta unitamente i due testamenti e si prefigge di utilizzare in modo proprio il metodo storico». Secondo Von Cölnn la finalità della teologia 2

G. Segalla, Introduzione, vol. 1, Storia, 34.

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Cap. 2  -  Itinerario storico

biblica deve tendere a esporre i concetti religiosi secondo la loro progressione storico-cronologica, «ma al tempo stesso deve spiegarli in tutte le caratteristiche secondo le quali furono formulati dagli agiografi nei vari tempi» (H.J. Kraus). Da tale premessa l’autore intende portare a compimento il programma teorizzato da Bauer, ma, a differenza del suo maestro, desidera salvaguardare l’unità del messaggio biblico, mediante lo studio delle «idee religiose» contenute nei testi sacri. Egli è convinto che le molteplici idee religiose siano in stretto rapporto tra loro secondo una progressione temporale, perché si basano su una comune visione religiosa fondamentale. Tale posizione porta Von Cölln a concepire la teologia del Nuovo Testamento come l’inizio di una storia delle idee secondo una prospettiva storico-evolutiva, che avrebbe dovuto confluire nella materia dogmatica («storia dei dogmi»). Sulla scia del metodo inaugurato da Bauer, gli autori iniziano dopo Von Cölnn a scrivere distintamente «teologie del Nuovo Testamento» cercando di coniugare le esigenze dell’approccio storico-critico con una visione d’insieme del messaggio biblico in connessione con la materia dogmatica. Esemplari, a tale proposito, risultano le teologie del Nuovo Testamento a opera di M.F.A. Lossius, D.L. Cramer e L.F.O. Baumgarten-Crusius, che seguono uno schema ermeneutico-strutturale orientato all’elaborazione di temi selettivi connessi con i loci theologici classici, al fine di contribuire a qualificare la riflessione filosofico-sistematica mediante l’introduzione di categorie bibliche nella dogmatica (L.G. Rückerts). Appartengono a questo indirizzo metodologico, definito «teologia positiva», opere di autori come A. Neander, J.L. Samuel Lutz, C.F. Schmidt, G.L. Hahn e H. Messner, i quali si preoccupano di salvaguardare l’unità della ricerca teologica applicata alla 77

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Bibbia, a fronte della varietà delle tradizioni letterarie contenute nei testi. Studiando la storia del cristianesimo primitivo Neander arriva a sostenere che la diversità degli orientamenti teologici presenti nel panorama neotestamentario (sinottici, Paolo, Giovanni) non provoca contraddizione, bensì favorisce l’integrazione delle singole parti di cui è composto il Nuovo Testamento. Sviluppando l’intuizione di Neander, C.F. Schmidt elabora nei due volumi della sua teologia neotestamentaria un tentativo di «lettura unitaria» centrato sull’interpretazione ecclesiale della persona di Gesù a opera degli apostoli, mediante la presentazione storico-genetica dei singoli libri ispirati. Anche secondo G.L. Hahn l’unità teologica del Nuovo Testamento andrebbe cercata nella «coscienza etico-religiosa» che la chiesa apostolica ha sviluppato e trasmesso proprio nell’elaborazione e nella successiva redazione degli scritti biblici. Tuttavia questi tentativi di elaborare un sistema teologico unitario, pur esordendo con le migliori intenzioni, non hanno avuto esiti rilevanti per la debolezza metodologica di fondo. Riassumendo le posizioni degli autori segnalati, nel contesto più ampio dello sviluppo della riflessione teologico-biblica, Segalla compendia in quattro punti il programma della corrente denominata «teologia positiva»: a) l’accettazione «moderata» dell’approccio storico-critico ai testi sacri; b) la limitazione del canone al Nuovo Testamento, come focalizzazione dell’oggetto della ricerca teologico-biblica; c) la preferenza per l’unità della teologia neotestamentaria, pur ammettendo le diversità presenti nelle singole tradizioni letterarie; d) l’influsso implicito della teologia dogmatica sul metodo della ricerca circa i temi e gli orientamenti finali derivanti dai contenuti della teologia neotestamentaria. Da quanto rilevato si può affermare che il periodo post-gableriano, fino 78

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Cap. 2  -  Itinerario storico

alla metà del XIX secolo, ha fatto registrare un visibile avanzamento della riflessione ermeneutica circa la natura e i compiti della teologia biblica e segnatamente della teologia del Nuovo Testamento. Gli sviluppi seguiti alla proposta di Gabler e al modello di Bauer furono vari e diversi. Da una parte alcuni autori estremizzarono la ricerca storica a detrimento di quella teologica; altri intrapresero una strada più moderata, seguendo lo stesso metodo storico-critico, ma privilegiando l’ambito filosofico con l’assunzione del modello «religionista»; infine gli esponenti della «teologia positiva» si adoprarono per una concezione teologica «unitaria» del Nuovo Testamento, a partire dalla storia del cristianesimo primitivo e dalla sua interpretazione cristocentrica, a opera della comunità apostolica. Non si può negare che il fermento generato dal dibattito illuministico dell’epoca circa l’identità della Sacra Scrittura, produsse da parte di molti autori e «scuole di pensiero» uno straordinario impegno nella crescita della teologia biblica come disciplina autonoma. 4. Lo sviluppo della scuola di Tübingen: Ferdinand Christian Baur

Un nuovo inizio della ricerca teologico-biblica si ha con F.Ch. Baur, fondatore della «scuola di Tubinga», il quale introdusse nella visione teologica del Nuovo Testamento un principio unitario sia ermeneutico che strutturale. La sua opera si contestualizza verso la metà del XIX secolo, periodo che vede crescere la questione storica relativa alla ricerca della vita di Gesù (Leben Jesu Forschung). Così Segalla sintetizza il cambiamento delle tendenze prevalenti del periodo, rispetto alla precedente concezione illuministica: 79

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La novità del metodo scientifico sta nell’attenzione all’ambiente vitale (Sitz im Leben), in altre parole alle comunità, che diedero origine agli scritti biblici. Nella fase precedente, la storia era lo strumento attraverso cui si potevano leggere le verità di ragione presenti nella Scrittura. L’ambiente vitale ora studiato è quello storico e culturale, nel quale e per il quale furono composti gli scritti del NT. La nuova concezione unitaria degli scritti del NT non è più dottrinale e statica, ma storica e dinamica in quanto si studia il rapporto degli scritti fra di loro e con le comunità cristiane delle origini3.

Conseguenza della visione post-illuministica, la ricerca teologica è influenzata dall’idea che la verità non è più da cogliersi nella ragione, bensì nei fatti storici, in quanto storicamente accertati. Alimentato dall’impostazione idealista e hegeliana e dall’influsso della scuola storico-genetica di L. Von Ranke (la cosiddetta Tendenzkritik), Baur formula l’ipotesi di una ristrutturazione storico-letteraria del Nuovo Testamento, il cui esito ha conseguenze notevoli sulla visione teologica neotestamentaria non solo del suo periodo. Riassumendo le posizioni dell’esponente di Tubinga, si mette in atto un tentativo di ricostruire la storia della letteratura neotestamentaria in collegamento con la storia del cristianesimo delle origini. Per Baur il primo documento letterario del NT è costituito da quattro lettere paoline (Gal, 1-2Cor, Rm), tutte collegate dal motivo comune antigiudaico (antilegalistico). Allo stesso modo egli opera una netta distinzione tra i Vangeli sinottici e il IV Vangelo, separandone la trattazione. Per poter delineare lo sviluppo genetico dei testi biblici alla luce delle dinamiche ecclesiali, Baur ipotizza un processo dialettico e afferma che la nascita 3

Id., Teologia del Nuovo Testamento, 37.

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Cap. 2  -  Itinerario storico

della letteratura neotestamentaria sarebbe accaduta secondo il principio triadico hegeliano di tesi, antitesi e sintesi: la tesi sarebbe costituita dalla tendenza petrina del giudeo-cristianesimo, cui apparterrebbero oltre a 1-2Pt anche Matteo e l’Apocalisse; l’antitesi sarebbe costituita dalla tendenza paolina del cristianesimo ellenistico (le quattro lettere e il Vangelo di Luca); infine la sintesi armonica sarebbe attestata nel Vangelo marciano, in quello giovanneo e negli Atti degli Apostoli. Ugualmente la teologia neotestamentaria avrebbe subito la medesima evoluzione e i singoli autori avrebbero condiviso un rapporto dinamico di contrapposizione o d’integrazione, a testimonianza della vitalità storica che fu alla base del processo evolutivo protocristiano. Particolarmente nell’opera postuma Vorlesungen über Neutestamentlichen Theologie (1864) si coglie la visione complessiva dell’impianto teoretico dell’interpretazione teologica di Baur. Egli considera l’insegnamento di Gesù ricavato dai Vangeli sinottici (non da Giovanni) «puramente morale», come parte di un «sistema religioso» e non come espressione di un pensiero teologico. Per tale motivo la storia del Gesù terreno e la sua predicazione sono da ritenersi per Baur non ancora «teologia». Per lo studioso di Tübingen la teologia vera e propria inizierebbe solo con la fede degli apostoli nella risurrezione di Gesù. Di fatto il processo dialettico della formazione del Nuovo Testamento, segnato da tre periodi (petrinismo, paolinismo e protocattolicesimo) considera l’insegnamento morale di Gesù e la stessa missione riportata nei Vangeli come «premessa» della teologia neotestamentaria. Il «Vangelo» come tale, ossia l’annuncio del «regno di Dio», come comunione morale e religiosa fondata sull’insegnamento di Gesù, serve a tutto questo. Per contro, dal punto di vista degli apostoli il vero e proprio centro di gravità della coscienza cristiana, il cen81

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tro sostanziale sul quale tutto si fonda, non è l’insegnamento del Maestro, ma la sua persona; tutto viene riposto nel significato assoluto di questa persona; il problema centrale non è ciò che Gesù ha insegnato per condurre gli uomini alla beatitudine con la sua parola, ma ciò che egli ha fatto e ciò che ha sofferto, per divenire il loro Redentore (W.G. Kümmel).

Tale presupposto storico-teologico sarà assunto dalla teologia liberale e dalla teologia kerigmatica, con conseguenze molteplici. Pur avendo ricevuto una notevole critica da parte di diversi autori del tempo, l’opera di Baur ebbe notevoli influssi di tipo contenutistico e metodologico sugli esiti dello sviluppo della teologia biblica. Possiamo sintetizzare in tre punti l’apporto di Baur allo sviluppo della teologia biblica4: a) l’attenzione all’ambiente storico della chiesa primitiva e il tentativo di interpretare dialetticamente il suo processo di formazione; b) la distinzione dei corpi letterari e delle relative tendenze teologiche (letteratura paolina, sinottici, letteratura giovannea); c) la distinzione tra premessa morale dell’insegnamento di Gesù e teologia sull’evento di Gesù a partire dalla sua risurrezione. Kümmel stesso evidenzia tuttavia i limiti dell’impostazione baueriana, per la quale fu fatale ridurre l’annuncio di Gesù a un «elemento puramente morale» e a dividere in modo arbitrario l’esito della sua missione (la risurrezione) dalla sua predicazione. Nondimeno l’apporto di Baur fu soprattutto quello di aver individuato e chiarito due fondamentali problemi della teologia neotestamentaria: «l’inserimento degli scritti neotestamentari in un globale contesto storico e la comprensione della successione e dello sviluppo storico e dell’universo del pensiero neotestamentario» (W.G. Kümmel). 4

Cf. Ivi, 38.

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Cap. 2  -  Itinerario storico

5. La scuola liberale (Heinrich Julius Holtzmann) e il modello storico-religioso (W. Wrede)

L’assunzione del principio storico nella ricerca biblica, portato alle estreme conseguenze, ha caratterizzato la seconda parte del XIX secolo, che ha visto l’affermarsi del metodo storico-religioso con conseguenze notevoli per lo sviluppo della teologia biblica. L’accentuazione storicistica della teologia biblica fu innanzitutto dovuta all’influenza della corrente «liberale» ispirata alla tradizione romantica. Secondo tale impostazione di pensiero l’idea di «storia» si impone per via della «capacità creativa» del genio degli autori, i quali vengono considerati come «creatori di pensiero e di modo di vivere». Su questo sfondo culturale si basa l’interpretazione «liberale» della figura e della missione di Gesù: egli fu considerato come un «predicatore di alte verità etiche», un genio dalla straordinaria personalità creatrice a beneficio dell’umanità e in vista del suo progresso. Prodotto della scuola romantico-liberale fu l’opera di H.J. Holtzmann nella quale si propone una lettura della letteratura neotestamentaria non più secondo una prospettiva teologica, bensì secondo una visione «storica», pur circoscritta nei limiti dei testi canonici. Sintetizzando la sua impostazione, l’autore vede il compito della teologia biblica in «una presentazione scientifica della religione del Nuovo Testamento o meglio del religioso (cioè del fatto religioso)... in una ricostruzione del mondo del pensiero eticoreligioso, sia dal punto di vista unitario, sia dal punto di vista della varietà condizionata da individualità e correnti». Holtzmann esamina il Nuovo Testamento sotto due principali prospettive: la storia delle verità (dogmi) frutto del genio creatore rappresentato da Gesù (per i Vangeli) e da Paolo (per il resto della letteratura neotestamentaria) e la storia del fatto religio83

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so costituito dalla singolarità del fenomeno cristiano nella sua evoluzione. Ne consegue che, per cogliere l’intero processo storico-religioso, bisogna superare i limiti del Nuovo Testamento stesso e considerare il «sistema religioso» ivi contenuto, nella sua retrospettiva giudaica e nel suo sviluppo post-apostolico. Fondata sull’autorità di personalità geniali, la letteratura biblica viene così privata della sua analisi teologica e ricondotta alla dimensione storico-religiosa e alla sua connotazione esclusivamente etica. Tuttavia la critica mossa dagli autori successivi fu quella di non essere riuscito a sintetizzare in modo unitario il processo storico-evolutivo del Nuovo Testamento, né la sua indole teologica, ma di essersi fermato solo a considerare il ruolo creativo delle due principali figure neotestamentarie (Gesù e Paolo), in una forma frammentaria e segnatamente incompleta. Un’espressiva puntualizzazione del compito della teologia neotestamentaria venne da una lezione pubblica tenuta nel 1892 da A. Deissmann, dal titolo: «Il metodo della teologia biblica del NT». Completando le prospettive del pensiero liberale di Holtzmann, il noto orientalista tedesco ribadì alcuni punti fermi circa la configurazione della teologia neotestamentaria: a) il carattere storico di tale disciplina come un dato acquisito e pacifico; b) la necessità di elaborare una teologia biblica autonoma rispetto alla dogmatica e alla sua impostazione metodologica; c) la necessità di estendere l’analisi storica oltre il limite del canone neotestamentario per poter presentare l’ambiente etico-religioso in cui è nato il cristianesimo e per poter mettere in luce la sua specificità e unità. Secondo Deissmann il compito della teologia biblica è la ricostruzione delle forme principali di pensiero dei testimoni del NT, per poter poi evidenziare l’unità profonda che collega la diversità delle tendenze letterarie. Così ricostruzione e interpretazione dei 84

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Cap. 2  -  Itinerario storico

testi e degli ambienti vanno uniti nell’elaborazione complessiva della disciplina teologica e devono essere costantemente presenti nella metodologia dei singoli autori. All’impostazione romantico-liberale reagisce criticamente W. Wrede, considerato uno dei principali teorici della «scuola storico-religiosa» fondata a Göttingen da E. Tröltsch nella seconda metà del XIX secolo (Religionsgeschichtliche Schule), a cui aderirono diversi pensatori e vari docenti universitari (A. Eichorn, W. Bousset, H. Gunkel, W. Heitmüller, J. Weiss). Seguendo l’impostazione socio-religiosa di E. Tröltsch, tale scuola sposa tre principi metodologici: a) il dubbio critico come punto di partenza della scienza storica; b) l’analogia degli eventi storici tra di loro, per cui un evento deve essere simile a uno precedente; c) la correlazione tra eventi storici come relazione di causalità. Il nascere di questo movimento fu reso possibile da due fattori concomitanti: 1) il primo positivo, è il grande sviluppo degli studi filosofici e storici dell’ambiente religioso ellenistico (religioni misteriche, ermetismo, dadaismo, gnosticismo, filosofia popolare ellenistica); 2) il secondo, teoretico, è la concezione della religione in F.D.E. Schleiermacher (1768-1834), che permetteva di porre il cristianesimo sullo stesso piano delle altre religioni, anche se collocava la religione cristiana al vertice, perché esprimeva più compiutamente l’infinito di qualsiasi altra religione.

Nel 1896 Wrede pubblica un saggio intitolato: Il compito e il metodo della cosiddetta Teologia del NT, frutto di un corso estivo tenuto al clero nella facoltà teologica di Breslau. Egli elabora le sue osservazioni sulla possibile costruzione di una teologia neotestamentaria, prendendo le mosse dalla critica all’opera di H.J. Holtzmann, soprattutto per via della prevalenza del metodo teologico su quello storico. Il teologo di Göt85

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

tingen porta alle estreme conseguenze la tendenza storico-religiosa inaugurata con il pensiero romantico-liberale, fino a ipotizzare un «nuovo modo di fare teologia del NT, che arriverà nella sua forma migliore, fino a Bultmann» (G. Segalla). È possibile riassumere la proposta di Wrede in cinque punti programmatici: a) La teologia biblica è una scienza strettamente storica e quindi indipendente in modo assoluto dalla dogmatica. b) Il Nuovo Testamento non va considerato come una storia delle idee e pertanto occorre superare quei metodi che prediligono l’analisi dei concetti dottrinali contenuti negli scritti neotestamentari. c) Il principio ermeneutico che sottostà alla teologia del NT non è la presentazione scientifica dei contenuti etico-religiosi individuabili nei libri canonici, bensì lo studio dei «fatti religiosi» intesi come fenomeno socio-culturale che ha determinato la forma del cristianesimo primitivo. d) Sussiste una superiorità del metodo strettamente storico su quello propriamente letterario. e) L’ultimo aspetto consiste nell’articolazione tematica della teologia neotestamentaria in quattro fasi: 1. una rilettura critica del’insegnamento di Gesù; 2. l’identificazione del nucleo di fede nella comunità primitiva; 3. l’apporto di Paolo, la sua relazione con gli insegnamenti di Gesù e della comunità primitiva; 4. l’analisi della fede e della teologia nell’ambiente pagano-cristiano, fino ad arrivare agli autori cristiani del II secolo d.C. (l’autore indica Ignazio di Antiochia). È chiara la differenziazione rispetto a H.J. Holtzmann, secondo il quale l’oggetto dell’indagine della teologia biblica è dato dai contenuti degli scritti (che implica l’interesse per la letteratura neotestamentaria), mentre 86

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Cap. 2  -  Itinerario storico

per Wrede si deve investigare la «forma religiosa» contenuta nel NT (l’interesse non è tanto rivolto al contenuto, ma alla storia e alle sue concrete forme di inculturazione del dato religioso). Tale distinzione rimanda alla polemica intorno all’indagine coerentemente storica del Nuovo Testamento (W.G. Kümmel).

L’elemento più evidente della sua impostazione è costituito dalla definitiva rottura tra teologia biblica e dogmatica e dal superamento della visione teologica che è ridotta a una sorta di fenomenologia religiosa, una «storia della religione». L’impostazione di Wrede da una parte esalta l’emancipazione totale della teologia biblica dalla dogmatica, e dall’altra limita a tal punto la consistenza teologica del Nuovo Testamento, da ridurlo a una somma di «esperienze religiose» legate alla vita e alla fede praticata, mutando così la natura stessa della disciplina. Se la teologia biblica non è «teologia contenuta nella Bibbia» (tesi illuminista di Gabler), né «teologia sviluppata secondo la Bibbia» (tesi pietista), né elaborazione in un sistema di idee e di verità rivelate per il progresso umano (tesi liberale), allora essa deve «presentare la religione viva della chiesa primitiva, nella vita dell’ambiente e della comunità»5. Nel suo saggio Wrede suggerisce il nuovo nome da dare alla disciplina, non più «teologia biblica del NT», ma «storia della religione o teologia cristiana primitiva». È comprensibile come una simile impostazione «ideologicamente» storica abbia determinato un «cambiamento radicale di paradigma» (G. Segalla), con notevoli influssi sullo sviluppo del pensiero teologico del XX secolo. Conseguenza del programma wrederiano furono i lavori di H. Weinel e di W. Bousset. Il primo si richiama alla metodologia storica di Wrede cercando di elaborare una concezione propria di religione 5

Id., Introduzione, vol. 1, Storia, 58. 87

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attraverso un’erudita indagine dell’ambiente neotestamentario e dell’evoluzione dei diversi sistemi religiosi. Il secondo scrive una «storia della fede cristologica» con la pretesa di ricostruire l’oggettività dell’ambiente neotestamentario e la reale consistenza e originalità del fenomeno cristiano, nel più ampio contesto del sincretismo religioso del tempo (cf. l’erudita ricerca su Kyrios Christos pubblicata nel 1913). In entrambi i tentativi, giudicati deboli e scarsamente convincenti, tuttavia prende forma il programma ipotizzato da Wrede di scrivere non più una «teologia biblica» bensì una storia della religione d’Israele, di Gesù e del cristianesimo primitivo. Altri autori si cimentarono su questa strada con scarsi risultati (cf. P. Wernle, J. Kaftan), mentre gli eventi che contrassegnavano gli inizi del XX secolo avrebbero determinato una nuova stagione per la ricerca teologico-biblica. 6. Il modello descrittivo: la «storia della salvezza» (Heilsgeschichte)

L’opposizione alla scuola di Tübingen e l’assunzione di una teologia positiva prendono forma verso la fine del XIX secolo con lo sviluppo di alcune «teologie storico-descrittive», meno condizionate dal fenomeno del positivismo e più interessate alla riflessione teologica. Sono quattro i rappresentanti di questa linea ermeneutica: B. Weiss, W. Beyschlag, J.J. Oosterzee e F. Büchsel. Weiss propugna una ricostruzione della teologia neotestamentaria fondata sull’accurata analisi letteraria dei singoli scrittori e sulla successiva interpretazione teologica. La sua opera appare piuttosto descrittiva nei contenuti, ma scarsamente efficace nell’elaborazione teologica, per via della debolezza del suo principio ermeneutico. Nella medesima linea si colloca il lavoro di W. Beyschlag, autore 88

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Cap. 2  -  Itinerario storico

anche di una cristologia (1865) e di una «vita di Gesù», pubblicata in due volumi nel 1885-1886. Influenzato dall’ambiente liberale Beyschlag ricostruisce il processo evolutivo degli scritti neotestamentari arrivando a sostenere che «la Bibbia non contiene alcuna teologia nel senso stretto della parola, nessun insegnamento scientifico delle cose divine: contiene piuttosto religione, diversa della teologia». Pertanto egli intende la «teologia del NT» nel senso più largo del termine come dottrina di tipo etico-religioso, evidenziando una sottostante confusione tra «teologia e religione», che contrassegna la debolezza della sua ricerca. Di minor tono sono i tentativi di J.J. Oosterzee e F. Büchsel, nei quali si avverte l’oggettiva difficoltà di coniugare la dimensione storica con quella teologica della ricerca neotestamentaria. Oltre alle teologie «storico-descrittive», gli inizi del XX secolo videro sorgere un’ulteriore tendenza teologica, che avrà notevole fortuna nella sua rivalutazione contemporanea: la cosiddetta teologia della «storia della salvezza» (Heilsgeschichte) ispirata dall’opera pionieristica di J.Ch. Konrad von Hofmann (1810-1877). Si tratta di un orientamento ermeneutico che affonda le sue radici nell’ambiente della teologia liberale, con l’intento di ricostruire l’unità del Nuovo Testamento a partire dalla centralità cristologica e soteriologica in esso sottesa. Questo indirizzo teologico si può riassumere in tre punti fondamentali: a) la Bibbia è considerata nel suo aspetto unitario come testimonianza della storia di Dio col suo popolo e si tende quindi a mettere in luce l’unità del NT nella sua varietà; b) l’opera di Dio è vista anzitutto come storia di salvezza e non come somma di verità dogmatiche; c) l’impianto teologico è determinato dalla centralità della persona e della missione di Cristo. Si ispirano a questo orientamento, pur nella loro diversità, i lavori di A. Schlatter, P. Feine e Th. Zahn. 89

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

Schlatter espose il suo programma ermeneutico in un articolo del 1909 (Die Theologie des Neuen Testament und die Dogmatik), sostenendo la necessità di superare le posizioni storicistiche di Wrede e favorire una necessaria unità tra storia e teologia del Nuovo Testamento. La sua tesi fondamentale consiste proprio nella composizione della frattura prodotta dal razionalismo e dall’idealismo, tra scienza storica e pensiero teologico. Tale soluzione di continuità si realizza dalla riconsiderazione dei presupposti epistemologici della ricerca scientifica, nella quale, secondo Schlatter, occorre «distinguere» gli avvenimenti storici dal loro presupposto teologico e religioso, ma non è possibile «separare» ideologicamente i due momenti. Infatti, la teologia richiede un fondamento storico e, d’altra parte, la ricerca storica non può fare a meno della precomprensione teologica. Nel porre l’accento sull’incontro tra storia e teologia, Schlatter afferma che il compito della teologia neotestamentaria è quello di studiare il cristianesimo come fenomeno vitale e segnatamente esperienziale, centrato sulla relazione con la persona di Gesù Cristo, nella cui storia si rivela l’opera di Dio e la sua salvezza. Secondo Schlatter: Il compito della teologia del NT non si esaurisce nel catalogare le idee di Gesù e degli apostoli. Questa non è che una somma astratta di dottrine atemporali, staccate dal valore e dall’agire. Per capire il pensiero di Gesù e degli apostoli bisogna chiarire a noi stessi il contesto vitale, che genera il loro pensiero, il contesto in cui i loro pensieri vengono ad essere la base di ciò che essi faranno (G. Segalla).

Possiamo constatare come la difesa della storia secondo Schlatter evita sia il cortocircuito presente nell’indirizzo storico-religioso che il ritorno alla precomprensione dogmatica della ricerca. Schlatter in90

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Cap. 2  -  Itinerario storico

tende il processo storico, cui la teologia biblica deve rifarsi, non solo come somma d’idee contenute nei due Testamenti, ma anche come processo vitale ed esperienziale che va studiato nella sua origine, nello sviluppo e nell’evoluzione storica. Segalla ha evidenziato come Schlatter esprime una «difesa appassionata di una storia fatta da Dio stesso, ed è quindi lontana dall’escluderlo o dal mettere tra parentesi la fede per una malintesa ragione metodologica. L’evoluzione attuale della ricerca storica e teologica dà più ragione allo Schlatter che a Wrede» (G. Segalla). Il compito difficile di comporre una sintesi dinamica tra storia e teologia è assunto da P. Feine, autore di una importante teologia neotestamentaria, ispirata dall’indirizzo storico-salvifico. Consapevole delle problematiche letterarie e degli sviluppi collegati al metodo storico-religioso, Feine ripropone nella sua opera la centralità della cristologia neotestamentaria, rivendicando l’originalità della persona storica di Gesù, centro unitario del Nuovo Testamento. Nel suo approccio egli tenta di valorizzare i risultati della ricerca storico-ambientale della scuola religiosa, mostrando come l’impegno prioritario della teologia dovrebbe concentrarsi maggiormente nella ricostruzione del contesto storico e del livello letterario del Nuovo Testamento. Allo stesso modo l’opera di Th. Zahn, scritta a distanza di diversi anni nel 1928, si colloca nell’indirizzo storico-salvifico e prospetta un modello di teologia biblica che descrive «la dottrina e la conoscenza contenute nella Bibbia nella loro evoluzione storica e dispone la sua materia secondo lo sviluppo della storia della salvezza». Il secolo XIX si chiude con risultati sorprendenti: si assiste a un progressivo interesse degli autori per la teologia biblica, segnato da un notevole sviluppo sul piano teoretico e metodologico, nel segno del recupero della dimensione storico-positiva. La novità è 91

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

costituita dalla sfida storico-critica e storico-religiosa che ha dominato gran parte del secolo e ha influenzato la visione della teologia biblica. Essa tuttavia presenta alcuni punti deboli, che saranno al centro del dibattito successivo. Riassumiamo quattro aspetti che hanno determinato la ricerca intorno al modello della teologia biblica neotestamentaria e che costituiscono l’eredità del XIX secolo: a) l’affermarsi del positivismo storico e dell’impiego del metodo storico-critico come strumento «obiettivo» e alieno da interpretazioni soggettive e strumentali; b) la conseguente rinuncia a formulare un sistema teologico che abbia come compito la ricerca di una verità al di là della storia fattuale; c) il Nuovo Testamento non è solo un elenco di libri canonici, bensì va inteso come il risultato di un processo veramente storico e storicamente verificabile; d) l’assolutizzazione dei criteri di analogia e di correlazione e la visione antitetica tra storia e teologia, che conduce molti autori a rifiutare il metodo teologico e a trasformare lo studio del Nuovo Testamento in una «storia della religione» (G. Segalla). 7. Gli inizi del XX secolo e l’affermazione della teologia kerigmatico-esistenziale

È stato rilevato come l’inizio del XX secolo fu caratterizzato da uno scarso interesse per la disciplina, in concomitanza con il declino del modello teologico liberale e storico-religioso. Ricostruendo le fasi dello sviluppo della teologia biblica C.F. Gamble segnalava già nel 1953 cinque cause che produssero la crisi di fine secolo: – il rinnovato interesse degli studiosi verso la ricerca storica dell’ambiente neotestamentario in una forma «neutrale» che produce lo sviluppo della scienza biblica e l’eclissi della teologia; 92

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Cap. 2  -  Itinerario storico

– la nuova interpretazione della storia nella cornice evoluzionistica limita notevolmente la possibilità di costruire una teologia biblica; – l’accentuazione della varietà del Nuovo Testamento esalta la frammentarietà piuttosto dell’unità, ponendo al centro della ricerca il processo dialettico con lo sviluppo frammentario del sistema religioso; – gli influssi della filosofia della religione inducono i ricercatori a un lavoro di comparazione del cristianesimo con le religioni etniche, più che a un approfondimento della dimensione teologica; – in conseguenza del precedente aspetto, gli studi di questo periodo sono interessati alle culture comparate più che alla Bibbia. Gli eventi della prima parte del XX secolo tuttavia determinarono un ripensamento dei paradigmi teologici e una nuova spinta ermeneutica che sarà contrassegnata dalla personalità di K. Barth e dalle conseguenze collegate al movimento della «teologia dialettica». Sempre nel suo articolo Gamble elenca tre fattori che determinarono il successivo risveglio della teologia biblica, con una produzione notevole di opere verso la metà del secolo. In primo luogo il clima culturale era cambiato all’indomani della prima guerra mondiale, determinando la crisi dei valori «borghesi» e la perdita d’interesse verso tutti quegli indirizzi di ricerca che si ispiravano alla scuola storico-religiosa. Un secondo fattore importante del cambiamento fu dovuto al superamento del positivismo storico e a un conseguente ripensamento delle capacità dell’uomo di investigare la storia. In questo contesto nasce quella che Segalla definisce «la più grande impresa di teologia biblica sul piano teologico-storico-religionista» che fu il Grande Lessico del Nuovo Testamento (Theologisches Wörterbuck zum Neuen Testament) (1932-1979), e vedono la luce gli importanti 93

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studi di W. Eichrodt per l’Antico Testamento e C.H. Dodd per il Nuovo Testamento. Il terzo fattore che favorì il rifiorire della teologia biblica fu l’emergere di un’enorme ricchezza di materiale filologico e di fonti letterarie che sviluppò una rinnovata adesione alla Bibbia, con nuove opere e una ricca stagione di ricerche. Tra le due guerre (1918-1938) si schiude in Europa un nuovo orizzonte per la teologia biblica. La critica storica distingue due orientamenti differenti nell’elaborazione teologica: l’orientamento «kerigmatico-esistenziale» che sarà seguito da G. von Rad e R. Bultmann e quello della «storia della salvezza» di O. Cullmann. La ricerca di un principio unitario e unificatore come elemento essenziale per una teologia biblica tendeva ormai ad animare anche la discussione metodologica. L’eredità dell’Ottocento soprattutto per via dell’influsso delle idee liberali e della loro applicazione biblico-teologica alla ricerca neotestamentaria, aveva determinato un pregiudizio razionalistico che riduceva la teologia a sistema religioso e la ricerca delle fonti a pura fattualità storica. Il declino di questo modello e la nuova situazione creatasi all’indomani della prima guerra mondiale determinarono la rimozione dei presupposti liberali e contribuirono a un nuovo approccio alla Bibbia, di cui fu ispiratore K. Barth autore di un famoso commento alla lettera ai Romani (Der Römerbrief ), considerato il manifesto della «teologia dialettica» di matrice protestante. Barth anticipa ed esprime l’esigenza di una fede positiva, auspicando una teologia che nasca dalla sorgente trascendente della rivelazione e concentri la sua attenzione sulla centralità della parola di Dio rivolta agli uomini, nella concretezza della loro situazione storica. 94

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Cap. 2  -  Itinerario storico

La sua preoccupazione pastorale è che la parola di Dio parli all’uomo di oggi per risolvere i suoi problemi in un’epoca assetata e affamata di giustizia. L’accettazione troppo facile dell’evoluzione e del relativismo storico era stata superficiale e acritica. Con Barth cessò la tendenza al culto della scienza storico-critica in linea con lo Schlatter e il Feine, anche se la sua opposizione fu talmente radicale da allontanare Bultmann dalla sua cerchia. In questo nuovo clima fu possibile coltivare nuovamente la teologia biblica (G. Segalla).

La ripresa della riflessione sulla teologia biblica fu segnata da questo cambiamento di paradigma, che delineò due diversi approcci ermeneutici: l’approccio kerigmatico-esistenziale di cui R. Bultmann fu protagonista indiscusso e l’approccio della «storia della salvezza» rielaborato da O. Cullmann e dai suoi discepoli. 8. Un duplice approccio: il kerigma e la «storia della salvezza» L’approccio kerigmatico-esistenziale

Negli Epilegomena della sua Teologia del Nuovo Testamento, R. Bultmann dichiara la propria posizione circa la disciplina e il suo compito: La scienza chiamata Teologia del NT ha il compito di esporre il pensiero teologico degli scrittori del NT: quelli espliciti e quelli impliciti. Si può sollevare il problema se sia conveniente trattare il pensiero teologico degli scritti del NT come un’unità ordinata sistematicamente, o trattarli nella loro varietà, ogni scritto o gruppo di scritti a sé, nel qual caso i singoli scrittori possono essere intesi come membri di una comunità storica.

Bultmann sceglie il secondo indirizzo metodologico, cercando di elaborare il proprio modello teo95

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logico alla luce dei migliori esempi sia della teologia critica che di quella positiva. Alla concezione «orizzontale» della teologia liberale si contrappone una concezione radicalmente «verticale» della Sacra Scrittura e della teologia biblica. Sulla scia della prospettiva barthiana, Bultmann pone al centro della sua visione l’annuncio di «Cristo morto e risorto» come evento salvifico imprescindibile per qualsiasi sviluppo teologico (relazione tra kerigma e teologia). Partendo da una tale visione esistenziale influenzata dal pensiero di M. Heidegger, egli fa iniziare la teologia del Nuovo Testamento dal presupposto kerigmatico, che deve trovare la sua risposta nella fede personale e giustificante del credente. Differenziandosi dalla prospettiva liberale e storico-religiosa, Bultmann non pone l’accento sulla connotazione storica dei testi biblici, né sulla loro elaborazione ermeneutica, bensì sul coinvolgimento dell’esistenza dei credenti di fronte alla trascendenza della parola di Dio. Per tale motivo egli rifiuta l’identificazione della fede come mera «esperienza religiosa» e come semplice ricerca del dato storico-fenomenologico: Dio non può essere oggetto di una ricerca asettica, ma soggetto che si rivolge all’uomo concreto ed entra in dialogo con lui. «Si perviene così ad un rovesciamento totale del programma di Wrede. Non la storia è la verità (salvifica), ma la fede che giustifica, quella con cui il credente comprende se stesso». Utilizzando il metodo storico-critico al fine di operare un processo di «demitizzazione» del linguaggio biblico, Bultmann ricostruisce la teologia neotestamentaria avendo come principio ermeneutico da una parte il kerigma e dall’altra l’autocomoprensione del credente di fronte all’annuncio del Cristo morto e risorto e la conseguente prospettiva escatologica. Annota L. Goppelt: 96

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Cap. 2  -  Itinerario storico

Questo vuol dire che il Nuovo Testamento comunica l’appello da parte di Dio, che esige la decisione della fede. Questo vuol dire in particolare che Gesù stesso è l’ultima parola di Dio agli uomini. Che fosse questo lo dovettero confessare di nuovo i suoi discepoli davanti alla croce. L’hanno fatto nella fede pasquale, che si esprime nel kerigma pasquale. Il kerigma pasquale, non il Gesù terreno, è il punto di partenza del messaggio neotestamentario come della teologia neotestamentaria.

Nella sua opera, articolata in quattro parti, il messaggio di Gesù è collocato tra i presupposti della teologia neotestamentaria (la stessa posizione di Baur), mentre il vero e proprio inizio del processo teologico si ha con l’opera geniale di Paolo e raggiunge la sua completezza e maturità nella sintesi giovannea. Attraverso la presentazione dello sviluppo kerigmatico individuabile nella prima comunità cristiana, Bultmann procede alla erudita disamina dei grandi temi paolini e giovannei fino a pervenire allo sviluppo istituzionale della chiesa antica. Nonostante i limiti della ricostruzione, mediante l’utilizzazione degli approcci storico-critici in una forma radicale, il tentativo di Bultmann perviene a una sintesi «molto ricca e piena di vitalità». Secondo Segalla la forza della sua teologia neotestamentaria sta nel significato esistenziale e salvifico della fede, che Bultmann evidenzia poggiando su una ricostruzione storico-critica «spregiudicata» delle origini cristiane. Nondimeno la debolezza della posizione bultmanniana, che rende la sua teologia parziale e problematica, è riscontrabile a partire dallo stesso principio ermeneutico del «kerigma» e dalla sua metodologia. Il principio ermeneutico è basato sulla decisione personale del credente di fronte al kerigma. Ponendo l’accento sull’esclusività dell’uomo singolo, chiamato a diventare una nuova creatura in Cristo, Bultmann 97

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provoca un «vuoto ecclesiologico» che pone in discussione l’autorità stessa della parola di Dio e del suo legittimo annuncio. Ancora più problematica e debole sarà la metodologia esegetica, applicata con erudizione e abilità, ma con esiti parziali e in alcuni casi unilaterali, contrassegnati dalla sottostante visione luterana dell’atto di fede. A proseguire nella scia kerigmatico-esistenziale di Bultmann fu il suo principale discepolo H. Conzelmann, autore di una importante teologia neotestamentaria (1967) nella quale si amplia la visione kerigmatica valorizzando la dimensione storica della fede del credente e la sua contestualizzazione ecclesiale. Mentre Bultmann faceva iniziare la teologia neotestamentaria dall’opera di Paolo, Conzelmann fonda la teologia sul nucleo kerigmatico che caratterizza la fede della prima comunità cristiana, costituito non solo dall’annuncio del Cristo morto e risorto, ma anche da una serie di confessioni di fede le quali nel loro insieme si configurano come un credo storico, che potrebbe costituire l’unità teologica del NT. Non è più l’autocomprensione dell’uomo nella fede di fronte al kerigma con l’opzione esistenziale a costituire l’unità del messaggio del NT, ma l’oggetto della fede, espresso nelle confessioni di fede, che unificano teologicamente la Teologia del Nuovo Testamento (G. Segalla).

Una tale revisione della posizione bultmanniana ha come conseguenza il recupero della «dimensione storica» della teologia neotestamentaria, fondata sulla cristologia dei sinottici, di cui l’opera lucana è espressione più elaborata. Il noto discepolo di Bultmann colloca lo sviluppo della chiesa delle origini non dopo Giovanni (come voleva Bultmann) ma dopo Paolo e in connessione con Paolo, evitando così una pregiudiziale critica negativa nei confronti del98

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Cap. 2  -  Itinerario storico

la letteratura epistolare deuteropaolina. Anche per Conzelmann il Gesù storico è considerato «premessa» della teologia neotestamentaria, mentre è il contenuto del kerigma, in quanto annunciato e narrato, a costituire il fondamento storico della teologia del Nuovo Testamento. Su questa linea kerigmaticoesistenziale si colloca anche il manuale di E. Lohse, composto nel 1974, nel quale si valorizza la cristologia paolina come punto di riferimento per la costruzione della teologia neotestamentaria. L’approccio della «storia della salvezza»

Verso la metà del Novecento si afferma un secondo approccio teologico, per molti versi antitetico rispetto a quello kerigmatico-esistenziale: l’approccio della «storia della salvezza», che avrà un ruolo importante nella riflessione sulla teologia biblica e nel successivo dibattito conciliare. Pur evidenziando alcuni collegamenti con la precedente impostazione della Heilsgeschichte (seguita da autori come A. Schlatter, P. Feine, Th. Zahn), questo nuovo indirizzo «storico-cristologico» della teologia biblica va interpretato come una risposta conseguente alla fatale scissione tra kerigma e storia seguita all’impostazione di R. Bultmann. Protagonista di questa riflessione è O. Cullmann, autore di una monografia su «Cristo e il tempo» (1957), ritenuta una pietra miliare della cristologia del Novecento, unitamente a un successivo volume che tratta della «storia della salvezza», sistematizzata nel quadro della rivelazione del Nuovo Testamento (cf. Il mistero della redenzione nella storia, Bologna 1966). Partendo dall’analisi del vocabolario biblico del «tempo», Cullmann propone una sintesi teologica offrendo una visione «lineare» della salvezza voluta e compiuta da Dio, il cui «centro» è costituito dal Cristo. In tale prospettiva il passato e il futu99

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ro vanno considerati in relazione con Cristo: il primo come promessa e preparazione al compimento, il secondo come attesa dell’éschaton (il Cristo glorioso nella parusia). L’attenzione del Cullmann si concentra sul tempo presente (il «fra-tempo»), caratterizzato dalla condizione del «già e non ancora», tensione che soggiace a tutto il Nuovo Testamento, sulla quale l’autore costruisce la sua riflessione neotestamentaria. A partire da questa tensione cristologica si può cogliere il motivo della sovranità del Cristo sulla storia universale e la risposta del singolo cristiano di fronte all’evento della salvezza. In definitiva l’orizzonte ermeneutico del Cullmann è costituito anzitutto dal collegamento tra l’Antico e il Nuovo Testamento, il cui centro dinamico rimane la cristologia. In secondo luogo la teologia della Heilsgeschichte non deve essere interpretata secondo una prospettiva deterministica, una sorta di schema fisso che escluderebbe la libertà personale del singolo credente, quasi fosse succube di una predeterminazione celeste. Al contrario la storia della salvezza «s’incontra e si scontra con la triste realtà del peccato, che ne devia la linea retta» e per tale ragione essa va concepita come un processo graduale, come una «linea a onde» che implica la risposta personale e libera di ciascun credente di fronte all’appello di Dio. Infine l’introduzione della visione storico-salvifica come principio unitario della rivelazione biblica implica l’incontro tra la verticalità della trascendenza divina e l’orizzontalità della rivelazione storica compiutasi in Cristo. Segalla riassume le tre principali obiezioni mosse alle posizioni del Cullmann: 1) La teologia in prospettiva della «storia della salvezza» non lascerebbe spazio a una decisione personale di fede. 2) L’insistenza sul tema della storia darebbe adito a una sorta di «positivismo storico». 3) L’impostazione di Cullmann farebbe prevalere la prospettica «orizzontale» 100

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Cap. 2  -  Itinerario storico

della rivelazione cristologica, a discapito della prospettiva «verticale» della salvezza. Come è possibile constatare la prospettiva ermeneutica inaugurata da O. Cullmann contribuisce a ricomporre l’unità della teologia biblica neotestamentaria, posta in crisi dalla precedente interpretazione kerigmatico-esistenziale di Bultmann. Almeno tre sono gli aspetti positivi rilevabili da questa impostazione: 1) l’aver interpretato l’evento cristiano come una storia della salvezza centrata in Cristo; 2) la portata escatologica del tempo presente in vista dell’incontro finale con Cristo (eschaton); 3) la dimensione comunitaria e liturgica del Nuovo Testamento. A una visione critica, frammentaria e soggettiva della teologia bultmanniana, si contrappone una visione cristocentrica, fondatamente storica e dinamicamente aperta all’intera rivelazione biblica di Cullmann. Entrambi hanno fornito un notevole apporto allo sviluppo della teologia neotestamentaria del XX secolo. L’orientamento della «storia della salvezza» è stato seguito in modo particolare da L. Goppelt, autore di una significativa ed equilibrata teologia del Nuovo Testamento, curata dopo la sua morte dal discepolo J. Roloff nel 1976. L’indirizzo storico iniziato da Cullmann ha avuto un ulteriore sviluppo nell’opera significativa di J. Jeremias, il quale in opposizione allo «scetticismo storico» di Bultmann, ha inteso elaborare una teologia neotestamentaria analitica, utilizzando gli stessi strumenti della critica letteraria per arrivare al «Gesù storico» e alla sua predicazione (ipsissima verba Iesu). Già nel 1954 Jeremias pubblica un importante ricerca sulle «parabole di Gesù», anticipando il metodo della sua ricerca storico-critica. Qualche anno più tardi egli inizia a scrivere la sua teologia del Nuovo Testamento con lo stesso indirizzo ermeneutico. Tuttavia l’encomiabile sforzo di sfidare il metodo stori101

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co, proprio sul suo terreno operativo, non ha permesso a Jeremias di portare a compimento la sua impresa (egli ha pubblicato solo il primo volume su Gesù nel 1971), condizionata dalla separazione tra la predicazione di Gesù e la tradizione ecclesiale posteriore. Segalla rivela le difficoltà dell’approccio di Jeremias: Jeremias rischia di ridurre la singolarità della predicazione di Gesù. Egli poi non si avvede che la parola di Gesù, come rivelazione di Dio, è allo stesso tempo nascosta e da accogliere solo nella fede. Non sta a sé, fuori di noi, ma è percepibile solo attraverso una coscienza credente e viene trasmessa soltanto da persone che hanno creduto in Gesù. La pretesa di arrivare con precisione oggettiva alle parole di Gesù, a prescindere dalla fede di chi le ha accolte e trasmesse, rimane un’illusione, evidenziata dallo sviluppo post-pasquale.

Una voce discordante nel panorama finora esposto è quella del teologo svizzero M. Albertz, autore di una voluminosa teologia neotestamentaria nella quale propone la necessità di radicale revisione della disciplina (cf. Botschaft des Neuen Testaments, I-IV, Zürich 1946-1957). Critico nei riguardi della posizione bultmanniana e della precomprensione razionalistica e storicistica che hanno condizionato la disciplina nei secoli precedenti, Albertz concepisce la teologia come «una esposizione del messaggio del Nuovo Testamento» partendo dalla connotazione trinitaria della rivelazione biblica (cf. 2Cor 13,13). Nei primi due volumi l’autore propone un’introduzione generale al Nuovo Testamento e nei volumi III-IV ne espone la teologia, seguendo l’approccio morfologico nell’esegesi dei testi. La sua opera costituisce un tentativo di sintesi unitaria e descrittiva dei contenuti della rivelazione neotestamentaria. Per quanto concerne la nostra disamina, va segnalato il tentativo dell’autore svizzero di rimuovere le principali pre102

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Cap. 2  -  Itinerario storico

comprensioni che contrassegnavano lo sviluppo dei lavori teologico-biblici nel suo contesto. Allo stesso tempo rimangono evidenti anche gli aspetti deboli che contrassegnano la sua impostazione teologica, soprattutto per via dell’utilizzazione della metodologia esegetica da lui stesso criticata. Tuttavia l’interesse suscitato dal confronto tra i due principali orientamenti porta a un notevole sviluppo della riflessione teologica sul Nuovo Testamento non solo in ambiente tedesco, favorita da un clima di cambiamento inaugurato negli anni del dopoguerra. In questo periodo vedono la luce diverse pubblicazioni di lavori teologici prodotti dal nuovo interesse verso la disciplina (cf. i lavori di F. Weidner, W.F. Adeney, G.B. Stevens, E.P. Gould, O. Cone, F.C. Grant, A.M. Hunter, A. Richardson). In questo clima di fermento e di ripensamento dei grandi valori umani e religiosi si assiste all’esordio di nuovi e diversi indirizzi metodologici, che contribuirono a favorire, non senza fatiche e difficoltà, il rinnovamento biblico con i suoi frutti conciliari. L’apporto dei teologi cattolici nella prima metà del XX secolo

La reazione alle posizioni dell’orientamento kerigmatico-esistenziale venne anche dagli ambienti cattolici, seppure vi sia stato un evidente ritardo della ricerca in questo settore. A una prima fase storico-religiosa, che vide alcuni teologi impegnati in una ricerca dottrinale intorno agli autori e agli scritti del NT (cf. per l’AT: A. Scholz, H. Zschokke, H. Hetznauer; per il NT: J.A.B. Lutterbeck), nei primi anni del XX secolo si impose una seconda fase più «apologetica», preoccupata soprattutto della difesa dei fondamenti della fede cristiana a fronte dei pericoli provenienti dal razionalismo liberale e soprattutto dal movi103

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mento modernista. L’esempio più rappresentativo di tale approccio è costituito dall’opera di J. La Fontaine (La Théologie du Nouveau Testament et l’évolution des dogmes, Paris 19075), che si propone di arginare e combattere quello che lui definisce «la scienza falsata e pervertita dal criticismo protestante e razionalista contro la teologia neotestamentaria». Per il contesto italiano relativo a questo periodo storico, va menzionato il lavoro di L. Tondelli sul pensiero cristiano antico, che si pone in un dialogo critico nei riguardi delle tendenze razionalistiche diffuse in Italia e all’estero (cf. Il primo pensiero cristiano: 1. Il disegno divino nella storia, Torino 1947; 2. I Vangeli, 1947; 3. Gesù Cristo nei primi Vangeli, 1947; 4. Il pensiero di Paolo, 1948; Gesù secondo Giovanni, 1948). Assopita la crisi modernista, anche nell’ambiente cattolico si apre la strada a una fase «teologico-positiva», nella quale è favorita l’esposizione critica della teologia neotestamentaria. L’incoraggiamento nello sviluppo degli studi biblici proveniva in particolare dall’autorevole intervento del pontefice Pio XII con la lettera enciclica Divino Afflante Spiritu (30 settembre 1943). Il primo esponente cattolico di questa nuova impostazione è A. Lemonnyer, il cui intento primario è quello di conciliare la dimensione storica con quella concettuale del NT (cf. Théologie du Nouveau Testament, Paris 1928). Dopo aver esaminato criticamente la storia della disciplina e la sua complessa evoluzione nell’area protestante, Lemonnyer articola la sua proposta teologica in tre parti, che corrispondono a tre successivi momenti storici nei quali viene rielaborato il messaggio di Gesù: 1) Vangeli sinottici; 2) Paolo e libro degli Atti; 3) scritti giovannei. Egli evidenzia per i sinottici la centralità tematica del «regno di Dio», per Paolo si mette in luce la nuova economia di salvezza, mentre per Giovanni viene accentuata 104

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Cap. 2  -  Itinerario storico

la primarzialità cristologica. Nondimeno in tutte e tre gli sviluppi storico-letterari, il messaggio rimane identico e unitario. L’autore evita il dibattito circa lo sviluppo del cristianesimo primitivo e con esso il ruolo predominante del kerigma, valorizzando l’unitarietà del messaggio cristologico. Complessivamente la proposta di Lemonnyer è da ritenersi una sintesi positiva, che mira a rielaborare la ricchezza teologica degli scritti neotestamentari, anche se ancora preoccupata della polemica modernista e protesa più al contenuto concettuale che alla sua dimensione storica. Molto efficace anche l’opera di O. Kuss (Theologie des Neuen Testament, Regensburg 1936), che presenta gli scritti neotestamentari con una maggiore attenzione alla loro evoluzione storica. Di notevole interesse risulta il lavoro di M. Meinertz (Theologie des Neuen Testament, I-II, Bonn 1950), per molti versi innovativo rispetto al precedente panorama della ricerca. Sostenitore convinto della «via storica» nell’ermeneutica biblica, Meinertz cerca di coniugare nella sua opera sia l’unità teologica che la varietà tematica del NT. Egli stabilisce uno schema interpretativo articolato in quattro punti: 1) la persona di Gesù, pienezza della rivelazione su cui si fonda l’unità di tutto il NT; 2) la comunità di Gerusalemme; 3) la figura e l’opera Paolo; 4) l’opera di Giovanni. Malgrado le sue intenzioni, l’autore non riesce a pervenire a quella visione unitaria desiderata, anche per via dei limiti metodologici della sua ricerca, che rende debole sia la ricostruzione che l’interpretazione dei testi. Tuttavia quella di Meinerts rimane «la teologia del NT più ampia e informata, prodotta finora da un cattolico». Caratterizzata da una maggiore attenzione all’aspetto filologico e culturale è la teologia di J. Bonsirven (Théologie du Nouveau Testament, Paris 1951). L’autore francese, noto conoscitore della letteratura rabbinica, adotta un criterio storico in vista di una 105

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sintesi dei dati della rivelazione biblica centrati su Gesù e considerati secondo una visione unitaria e una gerarchia d’importanza. Infine un sostanziale giudizio di mediocrità accompagna l’ampio lavoro scolastico di P.F. Cueppens, professore nella facoltà teologica domenicana di Roma, il quale pubblicò in latino una rassegna didattica di temi biblici sotto il titolo di Theologia biblica in cinque volumi, tra il 1949 e il 1958. L’impostazione del lavoro di Cueppens, rimasto incompiuto per la morte dell’autore, segue lo schema dei trattati tradizionali della teologia classica. Pur caratterizzandosi per l’erudizione esegetica, la sua impostazione rimane rigida e subordinata all’impiego miratamente dottrinale. In definitiva questo periodo rappresenta per la teologia cattolica un tempo di stasi, privo di efficaci ispirazioni ermeneutiche e di attenzione verso una disciplina come la teologia biblica del Nuovo Testamento, che si sta rapidamente evolvendo verso un pluralismo metodologico sempre più complesso e articolato. Sembra che gli autori cattolici facciano ancora fatica a sviluppare una riflessione sulla teologia neotestamentaria che sia svincolata dalla precomprensione concettuale e dogmatica nel loro sistema ermeneutico, di fronte alle nuove sfide della ricerca storico-critica. Saranno gli anni del concilio Vaticano II e gli sviluppi che caratterizzeranno la seconda metà del XX secolo a determinare un radicale cambiamento di paradigmi, con conseguenze notevoli per l’esito della nostra disciplina. 9. Il pluralismo metodologico e nuovi orientamenti ermeneutici

È stato evidenziato come nel periodo post-conciliare si sia verificato uno sviluppo notevole dei mo106

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Cap. 2  -  Itinerario storico

delli, dei metodi e degli indirizzi ermeneutici relativi alla teologia biblica. Riteniamo utile segnalare in forma essenziale e sintetica i principali orientamenti della teologia biblica dell’Antico e del Nuovo Testamento che hanno contrassegnato lo sviluppo della recente ricerca. L’elemento di novità di quest’ultimo periodo è determinato dalla varietà e dal pluralismo degli orientamenti ermeneutici. Tra le molteplici rassegne, seguiamo la proposta di classificazione di A. Bonora per la teologia dell’Antico Testamento e di G. Segalla per la teologia del Nuovo Testamento. Le relative classificazioni sono state realizzate selezionando le principali opere apparse in questi anni e valutando il loro impianto ermeneutico e metodologico6. Orientamenti di teologia dell’Antico Testamento

Dopo aver segnalato la situazione di «crisi» collegata all’impianto metodologico sottostante alla teologia biblica, per l’Antico Testamento A. Bonora indica quattro orientamenti metodologici prendendo in considerazione alcuni autori contemporanei: a) il metodo descrittivo (E. Jacob); b) il metodo dogmatico-didattico (M. García Cordero); c) il metodo diacronico (G. von Rad); d) il metodo selettivo del centro tematico (W. Eichrodt). Circa le metodologie applicate alla teologia dell’Antico Testamento dei quattro orientamenti segnalati, si evidenziano gli aspetti positivi e i limiti. ❑❑Il

metodo «descrittivo» definisce la teologia biblica come disciplina «storica» mentre la dogmatica

6 Cf. A Bonora, Teologia dell’AT: orientamenti attuali, in P. Rossano - G. Ravasi - A. Girlanda (edd.), Nuovo dizionario di teologia biblica, 1539-1546.

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come disciplina sistematica. Secondo tale metodo la teologia biblica ha il compito di «raccogliere con cura i concetti e i termini, le opinioni e le idee degli autori sacri». L’autore rappresentativo di tale orientamento è E. Jacob (cf. Théologie de l’Ancien Testament, Neuchatel 1968), che propone un’esposizione descrittiva dei temi e delle nozioni principali emergenti dai libri ispirati, individuando l’unità profonda dell’AT «intorno al tema della presenza e dell’azione di Dio». L’aspetto positivo di tale orientamento consiste nella finalità comunicativa della teologia biblica nei riguardi dell’utilizzazione sistematica del contenuto rivelato nella Sacra Scrittura. Tuttavia l’attuazione di questo progetto non sembra risolvere la questione ermeneutica, costitutiva della dialettica della disciplina, che riguarda la connessione tra storia biblica e valenza teologica del messaggio unitario dell’AT. L’elaborazione della teologia biblica non consiste solo nella descrizione ordinata delle teologie contenute nei libri sacri (descrizione fenomenologica) ma comprende un duplice compito: la «ricerca di comprensione critica delle ragioni logiche delle differenti teologie e l’intelligenza del loro reciproco nesso o coerenza all’interno del discorso biblico». ❑❑ Il

metodo «dogmatico-didattico» consiste nel riela­ borare i contenuti teologici presenti negli scritti antico­ testamentari, desumendoli dagli schemi della trattazione manualistica di tipo sistematico. In tal modo l’ordine espositivo adottato è desunto non dalla Bibbia studiata in se stessa, ma dagli indirizzi contenuti nei percorsi di teologia dogmatica. L’autore rappresentativo di tale orientamento è M. García Cordero (cf. Teología de la Biblia. Antiguo Testamento, Madrid 1970). Secondo García Cordero la teologia biblica è chiamata a ordinare e sistematizzare i dati biblici in un insieme dottrinale, tenendo conto del processo

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Cap. 2  -  Itinerario storico

evolutivo della storia della salvezza e dell’unità dottrinale della Bibbia. L’elemento positivo di tale approccio è l’individuazione della coerenza logica del pensiero anticotestamentario, che deve guidare il teologo biblico nella sua ricerca. Tuttavia il problema discriminante è rappresentato dal fatto che l’unità interna della teologia biblica non può essere dedotta da uno schema estrinseco di tipo dogmatico, senza il rischio di forzare la natura letteraria e teologica dei testi biblici. In tal modo procedendo secondo una precomprensione sistematica, l’unità teologica dell’Antico Testamento rischia di essere più presupposta che provata e mostrata. Il teologo biblista è chiamato a una delicata mediazione tra la critica storica e l’elaborazione del messaggio teologico contenuto nei libri della Bibbia. ❑❑Il

metodo «diacronico» si fonda esclusivamente sui risultati dell’analisi storico-critica dei testi biblici, non limitandosi a un’esposizione della storia della religione di Israele e dell’evoluzione del suo pensiero, ma approfondendo il messaggio dal contesto vitale in cui vengono elaborate le tradizioni anticotestamentarie. L’autore rappresentativo di tale orientamento è G. von Rad (cf. Theologie des Alten Testaments, III, Göttingen 1957; 1960). Sulla base dei risultati dell’esegesi storico-critica il teologo biblico è consapevole delle problematiche letterarie che contraddistinguono i libri sacri. La complessità della ricostruzione dei testi e delle loro redazioni non sembra consentire un’esposizione sistematica e organica del messaggio unitario dell’Antico Testamento. È questo il motivo che spinge all’individuazione di un kerigma originario su cui s’innesta la narrazione e la rilettura della storia di Israele. In questo senso il compito della teologia biblica è quello di elaborare le tradizioni principali mediante un processo di «rivisitazione» (Na109

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

cherzählung) su cui si fonda l’identità di Israele e la sua risposta «storica» di fronte all’iniziativa di Dio. Il metodo diacronico mette in evidenza la positività fenomenologica dell’approccio storico-descrittivo nei riguardi delle «tradizioni di Israele». Tuttavia gli stessi autori che hanno intrapreso questo indirizzo metodologico riconoscono la difficoltà di conciliare e unificare la mole in costante evoluzione dei dati storico-esegetici, con la rispettiva elaborazione teologica che qualifica la rivelazione biblica. ❑❑Il metodo selettivo del centro tematico si propone

di rielaborare in forma unitaria e dinamica lo sviluppo della teologia biblica assumendo un tema centrale come «chiave ermeneutica unificante» per esporre il pensiero dell’Antico Testamento. Anche tale approccio ripropone una funzione sostanzialmente descrittiva della teologia contenuta nell’Antico Testamento. L’autore rappresentativo di tale orientamento è W. Eichrodt (cf. Theologie des Alten Testaments, Göttingen 19674; 19747). Gli autori che hanno intrapreso tale orientamento ermeneutico hanno cercato di individuare un tema che consente di avere una panoramica il più possibile esauriente e convergente, confermata dall’analisi storico-genetica dei libri biblici. Il merito di tale approccio metodologico è segnato dallo sforzo di unificazione dello sviluppo teologico all’interno delle tradizioni letterarie dell’Antico Testamento. D’altra parte gli autori sono consapevoli del limite ermeneutico che segna il loro approccio. La rivelazione biblica non va intesa come un insieme di verità che il teologo deve cercare di «ridurre a unità», ordinandole e sistemandole intorno a un’idea centrale. Il centro tematico della Bibbia è costituito dall’evento cristologico e in questa dialettica tutti i temi assumono una loro valenza in quanto sono in relazione con il compimento della rivelazione in Gesù Cristo. 110

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Cap. 2  -  Itinerario storico

Orientamenti di teologia del Nuovo Testamento

Similmente alla precedente rassegna, per il Nuovo Testamento G. Segalla ha sistematizzato alcuni principali orientamenti, assumendo come criterio di qualificazione il principio ermeneutico scelto dagli autori nel realizzare le rispettive teologie bibliche7. Emergono i seguenti cinque orientamenti: a) l’orientamento storico-kerigmatico (H. Conzelmann; E. Lohse, R. Penna, P. Grech, Q. Quesnell); b) l’orientamento di «storia della salvezza» (O. Cullmann, L. Goppelt, G.E. Ladd); c) l’orientamento storico-positivo (W.G. Kümmel, J. Jeremias, S. Neill, R. Kieffer, R. Obermüller); d) l’orientamento sistematico (F. Stagg, R.H. Knudsen, M. Garcia Cordero, K.H. Schelkle); e) l’orientamento unitario di Antico e Nuovo Testamento (H. Clavier, W.T. Purkisher, R.S. Taylor, W.H. Taylor; S. Terrien). In successive rassegne, G. Segalla ha proseguito l’analisi delle più recenti proposte teologiche senza una specifica sistemazione (cf. i lavori di B.W. Childs, H. Hübner, P. Stuhlmacher, K. Berger, W. Schmithals, N.T. Wright, J. Gnilka, A. Weiser, L. Morris, G.B. Caird, L.D. Hurst). ❑❑L’orientamento

«storico-kerigmatico» intrapreso da R. Bultmann e seguito da H. Conzelmann consiste nel costruire la teologia neotestamentaria sulla base dello studio letterario dei testi e delle rispettive tradizioni storicamente collocate, individuando le primitive confessioni di fede cristologica fino a raggiungere il kerigma della chiesa delle origini. L’aspetto positivo di questo indirizzo è rappresentato dalla rivalutazione della componente storico-letteraria della teologia neotestamentaria, soprattutto per la valorizzazione della tradizione sinottica. Anche se per-

7 Cf. G. Segalla, Introduzione, vol. 1, Storia, 112-145; Id., Teologia del Nuovo Testamento: orientamenti attuali, 1546-1551.

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mane in Conzelmann lo scetticismo nei riguardi del Gesù «storico», collocato nelle «premesse» della sua teologia, l’assunzione del principio kerigmatico consente di elaborare un’interpretazione del Nuovo Testamento salvaguardando l’unità teologica nella varietà storica. ❑❑L’orientamento

della «storia della salvezza», le cui origini vanno ricondotte ai lavori di Ch.K. von Hoffmann (scuola di Erlangen), assume come criterio unificante della teologia neotestamentaria il concetto di «storia della salvezza». Tale linea ermeneutica rielaborata nelle opere di O. Cullmann e L. Goppelt si fonda su tre opzioni ermeneutiche: 1) collocare la riflessione teologica in una lettura unitaria della Bibbia attraverso la categoria di «storia della salvezza»; 2) evidenziare la singolarità dell’opera di Dio nella storia universale, ponendo in risalto la dimensione narrativa dei testi, rispetto a quella dottrinale; 3) individuare Cristo come centro del tempo e compimento della promessa in cui si concentra passato (AT) e futuro (escatologia). Tale opzione ermeneutica permette di salvaguardare una lettura unitaria del Nuovo Testamento, aperta al dialogo critico con l’ermeneutica storica ed esistenziale. L’aspetto problematico di tale orientamento è rappresentato da come va interpretato il rapporto tra «storia universale» e «storia della salvezza». Gli autori che seguono tale orientamento oscillano tra l’interpretazione sovrapposta e quella distinta del concetto di «storia».

❑❑ L’orientamento

«storico-positivo» comprende l’approccio delle teologie bibliche che seguono un’esposizione storica del messaggio teologico neotestamentario fondato sul metodo storico-critico e non sull’individuazione del kerigma o sulla concezione della «storia della salvezza». Tra le varie opere spiccano i lavori di

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Cap. 2  -  Itinerario storico

W.G. Kümmel e di J. Jeremias. L’approccio impiegato da questi autori rappresenta un superamento delle posizioni di Bultmann e della scuola kerigmatica. Il centro della rivelazione neotestamentaria è costituito dalla predicazione del Gesù storico e la teologia biblica non deve rinunciare a investigare la multiforme testimonianza della fede della comunità primitiva, a partire dal principio teologico dell’«Incarnazione». ❑❑L’orientamento

«sistematico» si propone di costruire una lettura unitaria del messaggio neotestamentario ispirandosi e richiamandosi alle problematiche e ai temi propri della teologia dogmatica. Tale orientamento si presenta utile per il collegamento tra messaggio biblico e riflessione sistematica, ma rischia di porre in secondo piano la natura storico-genetica dei testi ispirati e la completezza della loro interpretazione. Secondo Segalla un tale orientamento di fatto non è di aiuto nemmeno alla riflessione sistematica, perché risulta influenzato da una precomprensione estranea al contesto vitale della Bibbia. L’opera più rappresentativa di tale orientamento è l’articolata teologia neotestamentaria di K.H. Schelkle (cf. Theologie des Neuen Testaments: I. Schöpfung: Welt, Zeit, Mensh, Gütersloh 1968; II. Gott war in Christ; 1973; III. Ethos, 1970; IV. Vollendung von Schöpfung und Erlösung, 1974). Il noto esegeta cattolico assume come principio ermeneutico l’idea che la «Sacra Scrittura è Parola di Dio» attraverso cui l’Onnipotente si rivela all’uomo, proponendogli una nuova alleanza che comprende anche l’antica alleanza. Dallo sviluppo della sua analisi non sembra emergere un’unità ermeneutica, ma solo collegamenti teologici attraverso gli ambiti della ricerca neotestamentaria. ❑❑L’orientamento

«unitario» di una teologia biblica dei due Testamenti è una prospettiva invocata da 113

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diversi autori. Il volume del ricercatore calvinista H. Clavier (cf. Les variétés de la pensée biblique et le problème de son unité, Leiden 1976) cerca di offrire una sintesi organica del messaggio biblico, mostrando la complessa varietà dei temi e dei percorsi teologici dell’Antico e del Nuovo Testamento. Pur nei limiti metodologici della sua ricerca, la proposta di Clavier consiste nel descrivere le correnti di pensiero attestate nella Sacra Scrittura, seguendo puntigliosamente il metodo storico-critico. Egli individua l’unità teologica dei due Testamenti nella persona di Gesù, «compimento dell’AT e centro del NT». È interessante il tentativo di S. Terrien (cf. The Elusive Presence. Towards a New Biblical Theology, New York - San Francisco - London 1978) che individua la connessione tra i due Testamenti nel singolare processo di rivelazione di Dio all’uomo. L’autore statunitense individua nel Deus absconditus atque praesens il «centro unitario» della teologia di tutta la Bibbia. Non meno importante è la posizione di H. Hübner che propone di partire dalle teologie bibliche del Nuovo Testamento che rileggono e interpretano, attualizzando l’Antico Testamento (esempio: le citazioni di compimento nel Vangelo secondo Matteo; la rilettura delle Scritture di Israele in Romani). Secondo questo autore per scrivere una teologia biblica globale occorre fare una teologia biblica dell’Antico Testamento, partendo dal Nuovo. Si avrebbe così una «teologia neotestamentaria dell’AT, teologicamente giustificata dal fatto che Cristo è il compimento della rivelazione storica di Dio all’uomo» (H. Hübner). P. Beauchamp

Sulla scia di R. De Vaux che nel 1956 esprimeva l’esigenza di elaborare una «teologia biblica fondata sui due Testamenti», un posto singolare assume 114

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Cap. 2  -  Itinerario storico

la ricca e profonda proposta teologica elaborata da P. Beauchamp (cf. L’Un et l’Autre Testament: essai de lecture, Paris 1977; L’Un et l’Autre Testament. Tome II: Accomplir les Écritures, Paris 1990). Il punto di partenza dell’itinerario biblico-teologico di Beauchamp si basa su due principi ermeneutici ripresi dall’esegesi tipologica della patristica: la «totalità» della Sacra Scrittura e il suo processo di «rilettura». Circa l’Antico Testamento Beauchamp applica i due principi ermeneutici seguendo la tripartizione delle collezioni canoniche di «Legge, Profeti e Scritti». Alla Legge, che è articolata in racconti e comandamenti, appartiene la categoria dell’«origine». I profeti, attraverso il contenuto attestato dalla loro predicazione, attualizzano nel presente ciò che è archetipo (la Legge), mentre attraverso la sapienza degli Scritti si esprime il messaggio rivelato, conferendogli un valore eterno e universale. L’apocalittica chiude il percorso teologico dell’Antico Testamento mediante un processo di simbolizzazione dell’imminente compimento messianico e insieme prospetta un «nuovo inizio» contrassegnato dall’idea di un rinnovamento del mondo e dalla fede nella risurrezione finale. Beauchamp conia il termine «deuterosi» (dal greco: deuteros = secondo, nel senso di ripetizione) attribuendo questo fenomeno letterario e insieme teologico ai testi della Scrittura. La «deuterosi» è un processo ermeneutico che presenta una doppia caratteristica: il ripiegarsi del discorso su se stesso e la circolarità del suo stile. La prima caratteristica combina la chiusura del testo con il rinvio del testo all’esterno. Tale fenomeno si realizza nei tre generi che costituiscono l’Antico Testamento. In tal modo l’evento del passato viene riletto, reinterpretato e riorientato verso il futuro. La seconda caratteristica della deuterosi è la circolarità dello stile. Essa consiste nel fatto che ogni collezione biblica fa 115

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riferimento a un processo temporale: la Legge pone il «prima», i profeti sottolineano l’«adesso», mentre i sapienti confermano il «sempre». In conseguenza di tale schema interpretativo, secondo Beauchamp è possibile elaborare una teologia biblica unitaria in quanto l’«altro Testamento» (il Nuovo Testamento) risulta essere le «riscrittura» del Primo Testamento. In secondo luogo, al suo interno il Nuovo Testamento contiene i racconti evangelici, ritenuti il testo «fondatore» della teologia biblica. Le lettere paoline rappresentano il compimento della nuova Legge all’interno della storia e l’apocalittica di nuovo chiude il processo del percorso neotestamentario aprendo la prospettiva futura del mondo nuovo che verrà. In definitiva, secondo Beauchamp il «secondo Testamento» è il compimento del «primo Testamento» e su questa base non solo è possibile, ma è necessario realizzare una teologia biblica unitaria. La sfida della frammentazione teologica

La moltiplicazione dei metodi e degli approcci esegetici al testo biblico, va considerata come elemento «positivo» per il progresso scientifico nella ricerca biblica8. A proposito dell’ermeneutica applicata alla Sacra Scrittura, nel documento sull’Interpretazione della Bibbia nella Chiesa la Pontifica commissione biblica rileva: La necessità di un’ermeneutica, cioè di un’interpretazione nell’oggi del nostro mondo, trova un fondamento nella Bibbia stessa e nella storia della sua interpretazione. L’insieme degli scritti dell’Antico e del Nuovo 8 Cf. Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, vol. I, A.2. La questione è trattata in S. Muratore - G. Lorizio, La frammentazione del sapere teologico, San Paolo, Cinisello Balsamo 1998.

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Cap. 2  -  Itinerario storico

Testamento si presenta come il prodotto di un lungo processo di reinterpretazione degli eventi fondatori, in stretto legame con la vita delle comunità dei credenti. Nella tradizione ecclesiale, i primi interpreti della Scrittura, i padri della Chiesa, pensavano che la loro esegesi dei testi fosse completa solo se ne facevano emergere il significato per i cristiani del loro tempo nella loro situazione. Si è fedeli all’intenzionalità dei testi biblici solo nella misura in cui si cerca di ritrovare, nel cuore della loro formulazione, la realtà di fede che essi esprimono e se si collega questa realtà con l’esperienza credente del nostro mondo. L’ermeneutica contemporanea è una sana reazione al positivismo storico e alla tentazione di applicare allo studio della Bibbia i criteri di oggettività utilizzati nelle scienze naturali. Da una parte, gli eventi riportati nella Bibbia sono eventi interpretati; dall’altra, ogni esegesi dei racconti di questi eventi implica necessariamente la soggettività dell’esegeta. La giusta conoscenza del testo biblico è accessibile solo a colui che ha un’affinità vissuta con ciò di cui parla il testo9.

Nella stessa linea interpretativa si pone l’affermazione di Benedetto XVI, sulla necessità delle metodologie esegetiche applicate allo studio della Sacra Scrittura: Lo studio della Bibbia esige la conoscenza e l’uso appropriato di questi metodi di indagine. Se è vero che questa sensibilità nell’ambito degli studi si è sviluppata più intensamente nell’epoca moderna, benché non dappertutto in modo uguale, tuttavia, nella sana tradizione ecclesiale, vi è sempre stato amore per lo studio della «lettera». Basti qui ricordare la cultura monastica, cui dobbiamo ultimamente il fondamento della cultura europea, alla cui radice sta l’interesse per la parola. Il desiderio di Dio include l’amore per la parola in tutte le sue dimensioni: «poiché nella Pa9

Cf. Ivi. 117

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

rola biblica Dio è in cammino verso di noi e noi verso di Lui, bisogna imparare a penetrare nel segreto della lingua, a comprenderla nella sua struttura e nel suo modo di esprimersi. Così, proprio a causa della ricerca di Dio, diventano importanti le scienze profane che ci indicano le vie verso la lingua»10.

Nondimeno l’assolutizzazione di metodologie, talora usate in una forma strumentale e spregiudicata, rischia di produrre il fenomeno della frammentazione veritativa, conseguenza della comune e generalizzata condizione postmoderna. Da tale considerazione discende una visione relativistica secondo cui la ricerca scientifica con l’impiego della sua metodologia perviene a una «verità parziale», di cui ci si deve accontentare, senza poter fare riferimento a una verità ultima, metastorica e metafisica. Anche nel campo della ricerca biblica si può verificare una frammentazione di metodi e di risultati che coinvolge inevitabilmente la teologia biblica. Il pluralismo metodologico applicato nelle scienze bibliche mira per sua natura a evidenziare aspetti parziali del livello testuale e contestuale della Bibbia, mediante una sempre maggiore specializzazione delle tecniche d’indagine e del linguaggio, che tuttavia rimangono spesso inaccessibili ai «non addetti ai lavori». Fin dagli anni Sessanta i modelli ermeneutici applicati alla teologia biblica evidenziano sempre di più metodologie specializzate (di tipo storico, letterario e contestuale) che tendono a «dimenticare» o a relativizzare l’unità della rivelazione e della verità biblica. Nel caso della posizione estrema di H. Räisänen (cf. Beyond New Testament Theology. A Story and a Program, London 1990), si arriva a proporre una separazione netta tra verità storico-religiosa e verità teologica, con la conseguenza di far abdicare la discipli10

Benedetto XVI, Verbum Domini, n. 32.

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Cap. 2  -  Itinerario storico

na teologica dalla sua pretesa veritativa, in funzione della mera ricerca storica interdisciplinare idealmente aperta a un confronto aconfessionale e senza dogmatismi. Le diverse metodologie praticate nello studio della Bibbia, se usate in modo spregiudicato, conducono a mettere tra parentesi, se non a negare, la verità su Dio in relazione alla storia, che la Bibbia intende attestare. Il metodo storico può funzionare mettendo tra parentesi Dio e considerando unicamente il gioco dei fattori che hanno determinato la storia, inclusa l’esperienza religiosa. Lo stesso fa la sociologia applicata allo studio storico della Bibbia (G. Segalla).

Nel documento sull’Interpretazione della Bibbia nella Chiesa non viene formulato un giudizio teoretico sul fenomeno globale della molteplicità e della complessità dei metodi esegetici. Proprio per venire incontro al rischio della dispersione sarebbe stato utile secondo Segalla, premettere una «teoria unitaria del testo biblico in base alla quale giudicare i singoli metodi». Nondimeno il documento mette in guardia il teologo cattolico dal rischio di uno studio della Scrittura pregiudicato ideologicamente, invitando a una giusta epoché nella lettura dei testi e nel discernimento delle metodologie esegetiche. Il documento ribadisce la connotazione «spirituale ed ecclesiale» dell’atto ermeneutico riguardante la Sacra Scrittura: L’ermeneutica biblica, anche se fa parte dell’ermeneutica generale di ogni testo letterario e storico, è al contempo un caso unico di questa ermeneutica. I suoi caratteri specifici le vengono dal suo oggetto. Gli eventi di salvezza e il loro compimento nella persona di Gesù Cristo danno senso a tutta la storia umana. Le interpretazioni storiche nuove potranno essere solo uno svelamento o un’esposizione di queste ricchezze di significato. Il racconto biblico di questi eventi non può essere compreso pienamente dalla sola ragione. La sua 119

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

interpretazione dev’essere guidata da alcuni presupposti particolari, quali la fede vissuta in comunità ecclesiale e la luce dello Spirito. Con la crescita della vita nello Spirito cresce anche, nel lettore, la comprensione delle realtà di cui parla il testo biblico11.

Secondo Segalla un ulteriore possibile fattore di frammentazione è costituito da alcuni atteggiamenti indotti dal confronto interreligioso, entrato di recente anche nell’elaborazione della teologia biblica. La problematica non verte tanto sull’applicazione del metodo storico-critico ai testi, ma concerne l’«approccio contestuale» alla Sacra Scrittura, in particolar modo nei riguardi delle grandi religioni mondiali. È proprio il dialogo «di ampio respiro», non più limitato alle confessioni cristiane ma esteso ai sistemi religiosi e alle diverse forme culturali, a costituire una nuova sfida per la teologia biblica e la sua pretesa unità sistemica. Per rispondere alle mutate esigenze, gli autori, insieme al metodo storico-critico, perseguono indirizzi ermeneutici diversi, proponendo nuovi orientamenti per la costruzione di una teologia biblica che sappia affrontare le sfide della postmodernità. 10. Il profilo odierno della «teologia biblica»: punti fermi e principi acquisiti

 Al termine del sintetico itinerario storico, il punto di arrivo del dibattito odierno sembra ripercorrere gli inizi della disciplina: come deve essere pensata la teologia biblica? Quale plausibile risposta va data alla sfida della frammentazione? Quali caratteristiche deve possedere una teologia dell’Antico e del Nuovo 11 Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, II, A.2.

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Cap. 2  -  Itinerario storico

Testamento per poter riflettere la complessità dell’epoca attuale e rispondere alle sfide del tempo presente? In che modo si può cogliere la verità e l’unità della rivelazione contenuta nei testi ispirati? La vicenda storica della disciplina, così com’è nata e si è evoluta dall’originario ambiente culturale europeo, consente di fissare alcuni punti fermi che ci permettono di inquadrare la natura e il compito della teologia biblica. In primo luogo si pone la relazione tra scienza storico-critica e fede teologica, contrassegnata fin dall’esordio del XVII secolo, dal graduale processo di autonomia della teologia biblica dalla dogmatica. Tale processo è figlio della Riforma protestante e del suo principio della sola Scriptura. Per tale ragione l’area culturale tedesca del protestantesimo luterano è stata protagonista, nel corso dei secoli, di un serrato dialogo intorno alla natura e alla progettualità della teologia biblica neotestamentaria. Tale vivacità non è emersa in campo cattolico e neppure nel contesto dell’anglicanesimo, se non dopo la metà del XX secolo. La riflessione teorico-metodologica iniziata con i precursori della disciplina quali Gabler e Bauer, è gradualmente pervenuta a una maturazione scientifica, liberandosi dalla contrapposizione apologetica, dal postulato razionalistico, dal condizionamento del positivismo storico e religionista. La scienza storicocritica è divenuta oramai una «condizione inderogabile» del processo biblico-teologico, anche se gli orientamenti ermeneutici sono diversi e condizionati dai processi culturali e contestuali che si coniugano nella formazione dei singoli teologi biblici. In sintesi si possono riassumere i principi acquisiti su cui deve basarsi la costruzione della disciplina: – la teologia biblica deve fondarsi nella sua impostazione e nei suoi concetti sul testo della Bibbia (Antico e Nuovo Testamento), inteso come «sistema canonico» compiuto; 121

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Parte I  -  Teologia biblica: itinerari

– non basta solo descrivere i contenuti e classificare gli aspetti tematico-letterari presenti nella Sacra Scrittura, ma si deve attivare un processo ermeneutico di conoscenza e di comprensione dei due Testamenti nella loro totalità (esigenza ermeneutica); – nella costruzione della teologia biblica va rispettato l’aspetto storico, evitando il rischio di ridurre la teologia a un sistema dottrinale. A tale scopo la teologia biblica deve ispirarsi e fondarsi su una metodologia storico-critica, sempre aggiornata rispetto ai risultati delle scienze storico-letterarie; – per sua natura la teologia biblica implica un’esigenza di attualizzazione, che va perseguita con estrema coerenza e rispetto dell’oggettività dei testi biblici, evitando il pericolo di imporre categorie non pertinenti ed estranee, se non anacronistiche, rispetto alla Scrittura; – per costruire un sistema teologico è necessaria l’adesione di fede, che si traduce in un orientamento «credente» nell’accoglienza dei testi ispirati e più in generale nell’apertura di fronte all’autocomunicazione di Dio mediante la Sacra Scrittura. Annota Segalla: Il riflesso più forte del rapporto fra scienza storicocritica e fede teologica interpretante emerge ‒ come ha ben dimostrato Merk ‒ nel rapporto fra ricostruzione storica ed interpretazione o, in altri termini, fra struttura e principio ermeneutico. Semplificando si può dire che la ricostruzione è operata dalla scienza storico-critica e l’interpretazione è guidata dalla fede interpretante, comune agli scrittori del NT e all’interprete di oggi. Ma sia il primo che il secondo elemento del rapporto sono a loro volta complicati da fattori, che possono cambiare i risultati di una teologia del Nuovo Testamento12. 12

G. Segalla, Introduzione, vol. 1, Storia, 147.

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Cap. 2  -  Itinerario storico

Conclusione

Il disegno storico della teologia biblica aiuta a comprendere l’origine, lo sviluppo e l’evoluzione di questa giovane disciplina, che si conferma come risorsa preziosa per lo studio della Sacra Scrittura e per il necessario dialogo interdisciplinare. Senza dubbio la stagione conciliare e la riflessione teologica fiorita negli ultimi decenni hanno consentito un «salto di qualità» nella considerazione e nell’importanza della «teologia biblica». Le affermazioni conciliari riguardanti la relazione tra Bibbia e teologia (cf. DV, 24; OT, 16), i documenti della Pontificia commissione biblica e ultimamente l’esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini di Benedetto XVI (2010) focalizzano la necessità di coniugare la ricerca esegetica con la riflessione teologica. Analogamente sia sul piano istituzionale e accademico (aumento di specializzazioni, dipartimenti, master, ecc., di «teologia biblica»), sia su quello propriamente metodologico e applicativo (itinerari interdisciplinari, studi monografici, pubblicistica, riviste specializzate, progetti di ricerca, ecc.), la «teologia biblica» ha assunto in questi anni un ruolo di primo piano, a tal punto che la sua privazione o il suo indebolimento, determinerebbero negativamente l’esito della ricerca teologica tout court. Dopo aver presentato il profilo teoretico e storico, occorre passare alla lettura teologica del testo ispirato, proponendo alcune traiettorie interpretative della disciplina. È quanto ci proponiamo di svolgere nella seconda parte del nostro percorso.

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Seconda Parte

teologia biblica: TRAIETTORIE

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Parte II  -  Teologia biblica: traiettorie

Nella seconda parte si propongono tre traiettorie biblico-teologiche: vocazionale, antropologica ed escatologica. Esse rispondono a uno schema teologale: fede, carità, speranza. Nel capitolo 3 si presenta la traiettoria «vocazionale». Essa individua nell’autocomunicazione di Dio con l’uomo una chiave ermeneutica che illumina l’identità dei due partner del dialogo. L’appello di Dio trova una «risposta» nell’uomo creato a sua immagine e somiglianza. La connotazione «responsoriale» dell’essere umano costituisce la condizione fondativa dei racconti biblici. Essa si collega all’esercizio della fede. Nel capitolo 4 si analizza la traiettoria «antropologica», presentando la dinamica dell’atto creativo di Dio e la «condizione esodale» dell’uomo nel corso della storia. La Parola dialogante si trasforma in progetto di vita, scolpito nei vari «profili antropologici» emergenti dalle narrazioni bibliche. Il destino dell’uomo singolo e del popolo non appare predeterminato, ma «liberato» per l’intervento provvidente di Dio che «ama» e «fa vivere» l’uomo. Tale dinamica attraversa i due Testamenti e si collega al tema focale della carità. Nel capitolo 5 si esamina la traiettoria «escatologica» attraverso cui si descrive la tensione dialettica tra presente e futuro. La progettualità vocazionale dell’uomo in dialogo con Dio e il compimento della propria felicità nell’amore ricevuto e donato, hanno come conseguenza l’attesa dell’eternità e la condivisione della beatitudine finale. Fin dai primi racconti biblici e lungo l’intero itinerario scritturistico dell’Antico e del Nuovo Testamento emerge la tensione verso un «oltre» che pervade il cuore e il progetto vocazionale e antropologico dell’essere umano. Tale dimensione si coniuga con l’esercizio della speranza. 126

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Premessa

Un itinerario per la rilettura unitaria della teologia biblica

Un itinerario «puntiforme», tre traiettorie

L’intuizione che accompagna lo svolgimento di questa parte è di presentare un itinerario di teologia biblica mediante tre traiettorie che attraversano i due Testamenti seguendo uno sviluppo canonico e progressivo. Non un itinerario «uniforme», ma «puntiforme» nel senso che si focalizzeranno alcuni punti essenziali della rivelazione biblica, attraverso i quali si elaborano tre «traiettorie» teologiche. Focalizzando l’attenzione sull’intreccio delle tre traiettorie, colleghiamo il tema con tre testi illuminanti ripresi dall’Esortazione Verbum Domini. La traiettoria vocazionale

L’inserimento della categoria biblica di «vocazione» ingloba l’evento della Parola appellante che Dio pronuncia nella storia e rivolge alla libertà dell’uomo. Tale evento evidenzia la «dimensione responsoriale» dell’essere umano in dialogo con Dio. La risposta dell’uomo è la fede. Scrive Benedetto XVI: Sottolineando la pluriformità della Parola, abbiamo potuto contemplare attraverso quante modalità Dio parli e venga incontro all’uomo, facendosi conoscere nel dialogo. Certo, come hanno affermato i Padri sinodali, «il dialogo quando è riferito alla Rivelazione comporta il primato della Parola di Dio rivolta all’uomo». Il mistero dell’Alleanza esprime questa relazione 127

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Parte II  -  Teologia biblica: traiettorie

tra Dio che chiama con la sua Parola e l’uomo che risponde, nella chiara consapevolezza che non si tratta di un incontro tra due contraenti alla pari; ciò che noi chiamiamo Antica e Nuova Alleanza non è un atto di intesa tra due parti uguali, ma puro dono di Dio. Mediante questo dono del suo amore Egli, superando ogni distanza, ci rende veramente suoi «partner», così da realizzare il mistero nuziale dell’amore tra Cristo e la Chiesa. In questa visione ogni uomo appare come il destinatario della Parola, interpellato e chiamato ad entrare in tale dialogo d’amore con una risposta libera. Ciascuno di noi è reso così da Dio capace di ascoltare e rispondere alla divina Parola. L’uomo è creato nella Parola e vive in essa; egli non può capire se stesso se non si apre a questo dialogo. La Parola di Dio rivela la natura filiale e relazionale della nostra vita. Siamo davvero chiamati per grazia a conformarci a Cristo, il Figlio del Padre, ed essere trasformati in Lui1. La traiettoria antropologica

Alla luce della prima traiettoria si comprende la condizione dell’uomo nella storia e la sua relazione interpersonale. La possibilità di dialogare con Dio e di creare relazione con la comunità umana motiva la seconda traiettoria biblica, centrata sulla scoperta della identità «progettuale» che appartiene alla persona umana e alla sua libertà di autodeterminarsi. Se la fede è la condizione primaria che apre al dialogo con Dio e con il mondo, la «carità» rappresenta il compimento attuale e oggettivo dell’essere personale nella sua quotidianità. Benedetto XVI annota: In questo dialogo con Dio comprendiamo noi stessi e troviamo risposta alle domande più profonde che albergano nel nostro cuore. La Parola di Dio, infatti, non si contrappone all’uomo, non mortifica i suoi de1

Benedetto XVI, Verbum Domini, n. 22.

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Premessa

sideri autentici, anzi li illumina, purificandoli e portandoli a compimento. Come è importante per il nostro tempo scoprire che solo Dio risponde alla sete che sta nel cuore di ogni uomo! Nella nostra epoca purtroppo si è diffusa, soprattutto in Occidente, l’idea che Dio sia estraneo alla vita ed ai problemi dell’uomo e che, anzi, la sua presenza possa essere una minaccia alla sua autonomia. In realtà, tutta l’economia della salvezza ci mostra che Dio parla ed interviene nella storia a favore dell’uomo e della sua salvezza integrale. Quindi è decisivo, dal punto di vista pastorale, presentare la Parola di Dio nella sua capacità di dialogare con i problemi che l’uomo deve affrontare nella vita quotidiana. Proprio Gesù si presenta a noi come colui che è venuto perché possiamo avere la vita in abbondanza (cf. Gv 10,10). Per questo, dobbiamo impiegare ogni sforzo per mostrare la Parola di Dio come apertura ai propri problemi, come risposta alle proprie domande, un allargamento dei propri valori ed insieme come una soddisfazione alle proprie aspirazioni. La pastorale della Chiesa deve illustrare bene come Dio ascolti il bisogno dell’uomo ed il suo grido2. La traiettoria escatologica

Oltre alla relazione con Dio e con il mondo, la Sacra Scrittura esprime in diverse forme la dialettica presente-futuro. Venuti da Dio, a lui ritorneremo desiderando fin d’ora la vita piena ed eterna. La terza tappa che chiude l’itinerario biblico-teologico è costituita dalla traiettoria escatologica e ha come riferimento la virtù teologale della speranza. Come ci fa contemplare il Prologo del Vangelo di Giovanni, tutto l’essere sta sotto il segno della Parola. Il Verbo esce dal Padre e viene a dimorare tra i suoi e torna nel seno del Padre per portare con sé tutta la creazione che in Lui e per Lui è stata creata. Ora la chiesa 2

Ivi, n. 23. 129

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Parte II  -  Teologia biblica: traiettorie

vive la sua missione nella trepidante attesa della manifestazione escatologica dello sposo: «lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”» (Ap 22,17). Questa attesa non è mai passiva, ma tensione missionaria di annuncio della Parola di Dio che risana e redime ogni uomo: ancora oggi Gesù risorto ci dice «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16,15)3.

La successione delle virtù teologali segue l’originaria testimonianza di Paolo, che scrive alla comunità di Tessalonica, lodando Dio per la sua coraggiosa testimonianza: Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro (1Ts 1,2-3).

Nel seguente prospetto riassuntivo si mostra il percorso di teologia biblica, in cui s’intrecciano tre «traiettorie» biblico-teologiche con riferimenti alle tre virtù teologali. Tale prospetto aiuta a rileggere il percorso che viene proposto nello sviluppo tematico dei successivi tre capitoli. Teologia biblica AT – NT ___________________ Traiettoria ➔ dialettica Dio-uomo   vocazionale



fede

Traiettoria ➔ dialettica uomo-mondo ➔ carità antropologica Traiettoria ➔ dialettica presente-futuro ➔ speranza escatologica   

3

Ivi, n. 121.

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Capitolo 3

Traiettoria vocazionale

Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro.. (Lc 24,28-30)

1. La «vocazione», categoria interpretativa della Bibbia

Nel suo significato biblico il termine «vocazione» e più in generale l’atto del «chiamare» fanno riferimento a un processo che descrive la condizione dell’uomo invitato a dialogare con il Creatore e, in conseguenza di tale relazione, a scegliere di vivere secondo un progetto di felicità e salvezza. Nell’accezione teologica classica la vocazione è «la conoscenza posseduta dal singolo circa una determinata forma di vita, che per lui corrisponde al volere divino e costituisce l’attuazione del compito della sua esistenza ove operare per la propria eterna salvezza» (K. Rahner H. Vorgrimler). L’idea collegata alla vocazione è la «relazione progettuale» che interessa l’essere umano e pervade il suo destino di creatura posta di fronte al «tu» di Dio. Sul versante fenomenologico la vocazione-chiamata si può descrivere come l’intuizione fondamentale che la persona umana coglie progressivamente e in momenti successivi all’ascolto 131

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Parte II  -  Teologia biblica: traiettorie

della parola rivelata, dello Spirito illuminante nell’animo, dai moti intenzionali di adesione al Signore nella comunità ecclesiale, dalla propria disponibilità in servizio degli altri, da ideali di promozione a vita adulta, da tendenze intellettive e affettive, dall’ambiente educativo, dalle idealità dell’epoca, dagli avvenimenti quotidiani, dai rapporti con le persone, luoghi e situazioni (T. Goffi).

In questa prospettiva l’intera esistenza dell’uomo è definibile come «vocazione» permanente così come la vita è per sua natura un «compito vocazionale» fino al suo compimento ultimo. L’atto iniziale del nostro percorso biblico-teologico consiste nell’assumere la vocazione come categoria interpretativa della relazione tra Dio e l’uomo. Dalla lettura dei racconti biblici si comprende che l’uomo «non ha la vocazione» come fosse un bene di possesso, bensì «deve cercare e realizzare la propria vocazione». Essa si presenta come una graduale scoperta da compiere in vista del progetto di Dio, origine e sorgente di ogni vocazione. Insieme all’idea di «vocazione», che esprime già una connotazione teologica, si trova il termine biblico «chiamata» (klēsis), che allude all’appello contestuale, all’intervento puntuale che Dio fa giungere ai suoi destinatari in modi e forme diverse, affinché conoscano e accolgano l’invito a seguirlo nel compimento della sua volontà. Nel corso dell’esistenza intesa come «itinerario di vocazione» l’uomo sperimenta diverse «chiamate» di Dio. Le finalità possono essere diverse: Dio chiama ed elegge (cf. la rilevanza dei verbi: «eleggere» [eb.: bahar; gr.: eklegomai], «chiamare» (eb.: qārā’; gr.: kalein) perché l’uomo (e la comunità dei credenti) confermi, perseveri, testimoni il suo impegno di responsabilità. La relazione Dio-uomo è determinata dalle vicende vocazionali dei personaggi biblici e dalla loro risposta al progetto salvifico. 132

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Cap. 3  -  Traiettoria vocazionale

2. Itinerario anticotestamentario La creazione, i patriarchi, il popolo, la monarchia

Fin dall’inizio della narrazione biblica Dio «chiama» le cose all’esistenza (cf. Bar 3,33-35; Is 40,26) e dopo aver creato la coppia umana, le affida una missione secondo un progetto di benedizione (Gen 1,2830). Nondimeno l’atto della chiamata presuppone un disegno previo sulla storia e una libertà di risposta da parte di coloro che sono stati interpellati. Per tale ragione l’appello che l’Onnipotente fa sentire ai singoli personaggi biblici implica sempre una «elezione» previa in vista di una «missione». In Gen 1-11, dopo la caduta originaria e il dilagare del male sulla terra (cf. Gen 6,1-4), l’elezione-missione del «giusto e integro» Noè (Gen 6,8.13-22) costituisce un nuovo inizio della storia umana, rinnovata dalle acque del diluvio e sorretta dall’alleanza cosmica del Creatore (Gen 9,9-11). Le storie patriarcali sono connotate dalla dialettica vocazionale, in particolare l’esperienza di Abramo, che assume una posizione esemplare nei racconti genesiaci. Nella vicenda dell’arameo errante di Ur (Dt 26,5) s’inaugura la prima fondamentale «paternità vocazionale», contrassegnata dall’obbedienza piena alla Parola divina (Gen 12,1-4) e alle sue promesse (Gen 15,1-20) e allo stesso tempo forgiata dalla prova di fedeltà (Gen 22,1-19). La vicenda abramitica mette in luce gli aspetti focali della dialettica vocazionale: l’iniziativa di Dio che elegge e chiama in modo irrevocabile; la risposta di fede dell’uomo nella sua piena libertà e disponibilità (cf. Rm 4,1-25); l’inizio di una «storia vocazionale» il cui destino è nelle mani di un Dio che promuove i deboli e «rovescia le sorti» (cf. Est 4,26). Un esempio del «rovesciamento delle sorti» è scolpito nel mirabile racconto didattico di Giuseppe (Gen 37-50), l’uomo giusto «fino alla morte», che vive 133

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Parte II  -  Teologia biblica: traiettorie

la sua vocazione-missione nella fedeltà a Yhwh superando tutte le prove e infine ritrova la sua famiglia e l’affetto del vecchio padre Giacobbe (Gen 48). Nei racconti dell’Esodo la vocazione di Mosè (Es 3,1-12) anticipa profeticamente quella dei «figli di Israele», chiamati a diventare il «popolo di Yhwh» (‘am jhwh). Le vicende narrate in Es 3-6 costituiscono il primo stadio della scoperta della vocazione, un vero «esodo personale dentro l’esodo» (R. Fabris). Il Signore si manifesta imprevedibilmente al pastore di Madian come «Dio di tuo padre, di Abramo, di Isacco e di Giacobbe» (Es 3,6) e lo manda a liberare il suo popolo. Il racconto pone in evidenza l’immagine di un Dio che chiama per nome Mosè, rivelandogli una nuova paternità. Egli appartiene al suo popolo sottomesso alla schiavitù ed è chiamato a ricostruire le vere relazioni familiari che non sono quelle della corte egiziana (Es 3,14). L’ida di vocazione è costitutiva della memoria viva della comunità, che racconta e ricorda l’iniziativa di Dio. I patriarchi «appartengono» a Mosè e al suo popolo sofferente, perché sono «parte della sua storia» e senza di loro egli non potrà capirsi, né capire gli avvenimenti drammatici che stanno accadendo. Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele, verso il luogo dove si trovano il Cananeo, l’Ittita, l’Amorreo, il Perizzita, l’Eveo, il Gebuseo. Ecco, il grido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto come gli Egiziani li opprimono. Perciò va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti!» (Es 3,7-10).

Le parole della chiamata e dell’invio, sentite riecheggiare in un luogo di esilio e di emarginazione, 134

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Cap. 3  -  Traiettoria vocazionale

rivelano a Mosè che egli «appartiene a Dio» e che la terra dove risiede non è luogo straniero e maledetto, bensì «terra santa». A partire dalla teofania del roveto ardente, il protagonista intuisce che non è lui ad aver visto le sofferenze del suo popolo in schiavitù, bensì Dio (Es 2,24-25). Da una parte Yhwh si rivela come solidale con i poveri, gli oppressi, partecipe delle sofferenze del suo popolo (Es 3,7-9), dall’altra Mosè, chiamato a rendere presente in mezzo al popolo questa partecipazione salvifica di Dio, entra frequentemente in crisi e oppone resistenza. Nella prosecuzione del racconto si presenta il cammino attraverso il deserto, Mosè impara dalle sue resistenze a conoscersi e a conoscere sempre più il misterioso disegno salvifico di Yhwh. La fede del liberatore cresce in una progressiva «mediazione» caratterizzata da un rapporto intenso con Dio e nello stesso tempo dalla solidarietà con la sua gente, alla quale egli deve testimoniare la fedeltà di Dio. La vocazione personale di Mosè s’intreccia con quella del popolo di Israele, definito il «mio figlio primogenito» (Es 4,22; cf. Dt 14,1; Os 11,1ss) e invitato da Dio a fare «alleanza» presso il Sinai. L’elezione di Israele mediante il rito del sangue, in cui si riporta l’appello di Yhwh e la risposta dell’assemblea riunita (Es 24,1-8), sancisce in modo chiaro la dialettica vocazionale tra Dio e l’assemblea santa, secondo la promessa: «Se ora ascoltare la mia voce e osservate la mia alleanza, sarete mia proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra. Voi sarete per me un regno di sacerdoti, una nazione santa» (Es 19,5-6). L’intero cammino dell’esodo attraverso il deserto e l’ingresso nella terra promessa rappresenta un «itinerario vocazionale», che culmina nella risposta corale delle tribù in Sichem di fronte al compimento della promessa divina: «Noi serviremo il Signore, nostro Dio, e obbediremo alla sua voce!» (Gs 24,24). 135

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Troviamo racconti di chiamata in diversi «libri storici», a testimonianza di come Dio interviene per sostenere il suo popolo che implora la salvezza (cf. Gdc 3,9.15; 4,3; 6,6; 10,10). Tra le varie figure di giudici di Israele la storia di Gedeone (Gdc 6,11-24) rivela con straordinaria vivacità la dialettica vocazionale, impastata di insicurezze, segni prodigiosi e prove da parte di Dio. Il valoroso israelita accoglie l’annuncio dell’angelo del Signore (Gdc 6,16) riceve un «segno» di conferma delle parole profetiche circa la sua missione (cf. Gdc 6,36-40). In modo diverso la tragica vicenda di Sansone ricorda la storia di un personaggio forte e debole, che non sceglie di vivere secondo la «vocazione di Dio», ma segue il proprio istinto egoistico e autoreferenziale. Il prezzo della dura schiavitù e l’epilogo eroico ridanno valore al giudice «ribelle» e ne recuperano l’onore della memoria (Gdc 16,21-31). Nei libri di Samuele si narrano alcune importanti vocazioni, che rivelano come la storia degli uomini sia guidata dalla mano provvidente di Yhwh. Il notissimo racconto della chiamata di Samuele (1Sam 3,1-18) riassume le caratteristiche dell’incontro Diouomo: il profeta è presentato come un «dono di Dio» fin dalla nascita da una donna sterile (1Sam 1,1928), vive nel contesto templare (1Sam 2,18-21) e da bambino fa esperienza dell’incontro notturno con Dio, che lo chiama a fare giustizia nei riguardi di popolo corrotto e infedele (1Sam 3,11-14). Nella persona di Samuele s’incrociano motivi patriarcali e ruoli profetici, che rendono questo personaggio un punto di riferimento della storia di Israele e dell’istituzione monarchica. In tal senso i racconti collegati all’investitura regale esprimono una connotazione vocazionale, in quanto è Dio solo che elegge e indica chi dovrà essere consacrato re di Israele. Così accade nella scelta di Saul (1Sam 9,15-25) e nella consacrazione 136

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Cap. 3  -  Traiettoria vocazionale

del suo successore Davide (1Sam 16,1-13). Nondimeno lo sviluppo della storia monarchica conoscerà una progressiva crisi che culminerà con la dissoluzione del regno del Nord e in seguito, con la caduta di Giuda e di Gerusalemme e la tragedia dell’esilio. Il ministero dei profeti

Unitamente allo sviluppo dell’istituzione monarchica, Dio suscita profeti in Israele. È proprio nel­ l’ambito del movimento profetico che trova uno sviluppo consistente la dimensione vocazionale. Tra le costanti letterarie del genere profetico spiccano i «racconti di vocazione», che hanno la finalità di legittimare la natura divina del ministero della Parola. Nei cicli di Elia ed Eliseo (1Re 17- 2Re 11) si descrive l’esperienza vocazionale che i due «uomini di Dio» devono affrontare nella persecuzione e nella crisi religiosa (secolo IX a.C.). In 1Re 19,19-21 si narra la chiamata di Eliseo, mediante il gesto simbolico della copertura del mantello di Elia, che indica l’appartenenza del giovane discepolo a Yhwh e la determinazione a seguire il suo progetto di salvezza. Eliseo abbandonerà la propria famiglia e il proprio lavoro per mettersi a servizio del suo maestro e succedergli quando questi «sarà rapito in cielo» (2Re 2,1-13). Va notato come la vocazione-chiamata dei profeti si contrappone alle forme di successione al trono dei governanti e alle loro scelte politiche, spesso frutto di intrighi di corte e di compromessi iniqui. L’autore deuteronomista riporta la storia dei regni e dei loro governanti non come «storie di chiamate», ma come cronache politico-militari, le cui gesta sono sottoposte al giudizio di fedeltà/infedeltà da parte del Signore (cf. 1Re 13,33-34; 15,30; 16,7.13.19.26.33). L’esperienza vocazionale non è frutto di calcoli umani né di successioni dinastiche o lotte di potere, ma si 137

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Parte II  -  Teologia biblica: traiettorie

manifesta come una libera e imprevedibile elezione di Yhwh nei riguardi dei suoi consacrati, senza distinzione di persone e ceti sociali. Le storie vocazionali narrate in chiave autobiografica dagli stessi protagonisti rivelano la dinamica sconvolgente della chiamata divina, che implica un cambiamento radicale della vita del profeta. Amos ricorda ad Amasia l’origine divina della sua vocazione: «Non ero profeta né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomòro. Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele» (Am 7,14-15). L’esperienza vocazionale di Isaia è riferita dallo stesso protagonista con maggiori particolari: stando nel contesto della liturgia templare, il profeta è avvolto in una teofania, purificato nelle labbra da un serafino e destinato da Yhwh a predicare al popolo di Israele (Is 6,1-13). Poi io udii la voce del Signore che diceva: «Chi manderò e chi andrà per noi?». E io risposi: «Eccomi, manda me!». Egli disse: «Va’ e riferisci a questo popolo: “Ascoltate pure, ma non comprenderete, osservate pure, ma non conoscerete”. Rendi insensibile il cuore di questo popolo, rendilo duro d’orecchio e acceca i suoi occhi, e non veda con gli occhi né oda con gli orecchi né comprenda con il cuore né si converta in modo da essere guarito» (Is 6,8-10).

Accogliendo la chiamata divina, Isaia trasforma la sua esistenza e la mette a completo servizio della parola di Dio, affidando la sua testimonianza ai suoi discepoli (Is 8,16). Non sappiamo molto della vocazione di Michea di Moreset, a cui Dio «rivolge la Parola» (Mi 1,1) affinché possa annunciare a Giuda e a Gerusalemme il giudizio celeste e la necessità della conversione al Signore perché tutti possano ritrovarsi in Sion (Mi 4,1-5). Mentre della vicenda vocazio138

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Cap. 3  -  Traiettoria vocazionale

nale di Osea è molto nota la metafora sponsale, che raffigura il profeta nelle vesti di uno «sposo», unito a Gomer donna «infedele», la cui esperienza matrimoniale diviene «segno e testimonianza» dell’amore misericordioso (h.    esed   ) di Yhwh nei riguardi del suo popolo (cf. Os 1-3). Tra le vicende dei profeti esilici spiccano tre storie vocazionali: Geremia, l’anonimo profeta indicato come Deuteroisaia ed Ezechiele. La storia di Geremia s’impone per la sua densità autobiografia e il pathos narrativo. Sono state individuate almeno tre tipologie di testi vocazionali riguardanti l’opera di Geremia: i racconti biografici in terza persona (cf. Ger 19,1-3); le confessioni autobiografiche, molto vicine al genere delle lamentazioni e dei salmi penitenziali, in cui il profeta parla in prima persona (cf. Ger 11,18-20; 20,7-18); gli oracoli che rappresentano il modo in cui Geremia affronta concretamente la sua missione, che riguardano aspetti della vita personale e azioni simboliche (cf. Ger 16,1-6; 19,1-2; 27,1-2). È interessante constatare come lo sviluppo della vicenda vocazionale del protagonista sia contrassegnato da resistenze e crisi che faranno maturare il profeta e la sua missione. Schematizzando l’esperienza del giovane chiamato, si possono indicare tre fasi della sua evoluzione vocazionale. In primo luogo troviamo nel profeta chiamato da Dio ancora giovanissimo, una risposta di tipo «ricettivo» (Ger 1,4-9). In seguito Geremia matura una «fede oblativa», tipica dello stadio giovanile, che gli consente di mettersi a servizio di Dio e della Legge con entusiasmo e voglia di fare. Nel suo animo sensibile si riflette pungente il contrasto tra la ribellione del popolo incorreggibile e le ragioni di Dio, che egli deve far valere; piange per l’ostinazione della sua gente (Ger 4,19-22; 8,23; 9,17; 13,17; 15,10s.15-18; 21,9) e intercede a favore del suo po139

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polo (7,16; 11,24), da cui ottiene solo persecuzione, violenza e rifiuto. Tuttavia nel prosieguo della sua missione, il punto di arrivo dell’esperienza vocazionale è caratterizzato da un passaggio alla fede «adulta», secondo la quale il profeta allarga la propria visuale in prospettiva universalistica e qualifica la propria relazione con Dio. Il profeta passa dalla resistenza desolata alla «consolazione», quando comprende che è Dio il solo a «scrivere» la storia della salvezza e della liberazione del suo popolo. Gli oracoli della consolazione (cf. Ger 30-34) si aprono alla speranza nuova, che si realizzerà mediante la ricostruzione della comunità e il ritorno della pace tra il popolo. Geremia diventa il profeta della misericordia di Yhwh (Ger 31,3) e profetizza la «nuova alleanza» promessa alla comunità reduce dall’esperienza dell’esilio (Ger 31,33). La stessa speranza con cui si chiude il ministero di Geremia è cantata dal «profeta della «consolazione» (naham), l’anonimo predicatore esiliato in Babilonia che è indicato come «Deuteroisaia» (cf. Is 40-55). Della sua personale esperienza vocazionale non sappiamo nulla, ma nel libro si presenta la storia di un personaggio messianico, il «servo del Signore» (hebed jhwh) che viene chiamato, consacrato e mandato da Dio ad annunciare la salvezza a tutte le genti. La vocazione-chiamata è riportata in Is 42,1-9, il primo dei quattro carmi del servo: il Signore presenta il «servo» come un «eletto di cui si compiace» e su cui ha posto il suo spirito: Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni. Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta; proclamerà il diritto con verità. Non verrà meno e non si abbatterà, finché non avrà 140

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Cap. 3  -  Traiettoria vocazionale

stabilito il diritto sulla terra, e le isole attendono il suo insegnamento (Is 42,1-4).

Le caratteristiche della sua missione riflettono un tempo di pace e di misericordia: il servo proclamerà la giustizia di Yhwh senza violenza né prevaricazione e tutti i popoli conosceranno il diritto di Dio e la sua provvidenza (cf. Is 42,4-5). La dichiarazione finale del Signore indica la natura della missione affidata al suo servo: «Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e ti ho stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre» (Is 42,6-7).

Nel secondo canto (Is 49,1-6) viene delineata la missione universale del servo, chiamato fin «dal grembo materno» a essere «luce delle nazioni» (le ‘ôr gôyìm), per recare la salvezza fino all’estremità della terra (Is 49,6). Nel corso della sua predicazione il servo sarà provato (Is 49,7) e nel successivo terzo canto il servo è presentato come un testimone sofferente di fronte ai suoi nemici (Is 50,4-11). Egli oppone resistenza e riceve persecuzione, mostra fedeltà alla parola di Dio e subisce violenza. La vocazione-missione del consacrato culmina nella sua morte vicaria, descritta con toni lirici nel quarto canto (Is 52,13-53,12). Sfigurato, disprezzato, maltrattato «fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu percosso a morte» (Is 53,8). Per le sue piaghe offerte in espiazione a Yhwh, l’intero popolo ha ricevuto la salvezza: la morte del servo ha recato vita a tutta la comunità. La rilettura cristologica di questi carmi nella passione di Cristo pone in evidenza la correlazione tra ministero profetico e missione salvifica di Cristo, che rivela la peculiarità della vocazione cristiana. 141

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Contrassegnata da una dimensione mistica, la storia esilica di Ezechiele esordisce con una teofania (Ez 1: la rivelazione del carro di fuoco) a cui segue la visione del «libro» da mangiare e la vocazione-missione del profeta (Ez 2-3). Il profeta «ascolta» la Parola di Yhwh, obbedisce alla sua richiesta e si prepara ad annunciare al popolo «dalla dura cervice e dal cuore ostinato» (Ez 3,9) l’invito alla conversione. Con la forza dello Spirito, il profeta dovrà essere una «sentinella della casa di Israele» (Ez 3,16-21); come «figlio di uomo» in tutta la sua fragilità, egli è chiamato a vivere con la sua gente e a proteggere il popolo dal ricorrente pericolo dell’idolatria e dall’insidia dei falsi profeti. Tra i profeti post-esilici spicca la straordinaria vicenda vocazionale di Giona, rielaborata all’interno di una tradizione «universalistica», che apre l’idea della salvezza alle nazioni straniere. La costruzione del racconto è manifestamente didattica, così come l’epilogo della missione: Yhwh rivela il progetto della salvezza al di fuori dei confini di Israele, chiamando genti straniere (rappresentate dai niniviti) alla conversione e alla fede nell’unico Dio (cf. Gen 3,10; 4,11). Il racconto pone l’accento sul binomio chiamata-risposta e sulle sue conseguenze. Alla pietà divina si contrappone la contestazione e la resistenza del profeta. Di fronte alla prima chiamata Giona sceglie di fuggire in una direzione opposta (Gen 1,1-3). L’esperienza drammatica del naufragio e lo «scendere» nell’abisso della morte, spingono il profeta israelitico divorato da un pesce a implorare l’intervento salvifico di Dio (Gen 2,1-11). Dio non desiste dal suo progetto e l’avventura personale del profeta anticipa la conclusione positiva della storia: la Parola raggiunge per la seconda volta Giona che finalmente si reca a malincuore nella capitale assira per predicarvi l’imminente giudizio di condanna (Gen 3,4). Per mezzo del ministero del profeta contestatore, la chiamata 142

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Cap. 3  -  Traiettoria vocazionale

di Yhwh raggiunge il cuore dei niniviti che decidono di fare penitenza «sperando nella pietà divina», per scongiurare la distruzione della grande città «di tre giornate di cammino» (cf. Gen 3,3). La diatriba sapienziale culmina nell’epilogo del racconto, in cui si riassumono le posizioni teologiche che ruotano intorno all’esperienza vocazionale del profeta: la vocazione-missione non è opera dell’iniziativa umana, ma progetto di un «Dio misericordioso e clemente, longanime, di grande amore, che si lascia impietosire...» (cf. Gen 4,2). Dopo aver predicato la conversione ai niniviti, è proprio il profeta che scopre di essere «chiamato a convertirsi» e ad acquisire una nuova visione del Dio e della sua opera redentrice (Gen 4,10-11). Nello sviluppo finale del fenomeno profetico rappresentato dalla letteratura apocalittica, oltre allo scritto di Zaccaria, s’impone la figura vocazionale di Daniele, la cui personalità riveste un ruolo esemplare per la comunità giudaica, sottomessa e perseguitata durante il periodo seleucide (cf. Dn 1,2; 3,8-23). Pur nella complessa redazione del testo danielico, il risultato finale dell’opera pone in evidenza la dinamica appellativa di Dio nei riguardi dei suoi eletti che subiscono prove e persecuzioni: colui che è «signore della storia» non abbandona il suo popolo, ma «cambia la sorte» dei poveri e di coloro che perseverano nella fede. È proprio il motivo della perseveranza e della fortezza nelle persecuzioni che caratterizzerà l’identità ebraica di fronte alla sfida del paganesimo imperiale. La sapienza, arte della vita

Il motivo vocazionale inserito nella «domanda esistenziale» emerge in tutta la sua forza dalla ricchezza e attualità negli insegnamenti contenuti nella tradi143

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Parte II  -  Teologia biblica: traiettorie

zione sapienziale. L’attenzione degli scritti sapienziali non verte tanto sui «racconti di vocazione», bensì sul senso del vivere umano e sulle istruzioni che sostengono il retto agire dell’uomo saggio. Poiché la sapienza biblica (hôkmah) si presenta anzitutto come l’arte del saper condurre la propria vita per ottenere la felicità, sussiste una stretta relazione tra gli insegnamenti sapienziali e la dimensione vocazionale dell’uomo. L’ideale dell’uomo felice, la cui esistenza fortunata rispecchia i canoni della «visione retribuzionista», viene messo in crisi da due scritti sapienziali colti: la vicenda del giusto Giobbe e la panoramica esistenziale contenuta nelle riflessioni di Qoèlet. Entrambi i libri possono essere letti secondo la chiave vocazionale. Giobbe costituisce senz’altro la critica più serrata al dogmatismo della sapienza tradizionale, proprio perché l’autore pone in termini inquietanti la questione «vocazionale» dell’uomo (non solo dell’ebreo!) come problema teologico. Infatti la dimensione teologica rappresenta l’ossatura dell’intero scritto: la questione centrale dell’opera verte sulla credibilità di Dio di fronte all’assurdità della vita segnata dal dolore e dal male. L’intera vicenda di Giobbe è interpretata come una scommessa di Dio per l’uomo ed è in questa prospettiva che occorre leggere il superamento della teoria retribuzionista per comprendere il senso della sofferenza umana. La dimensione vocazionale è da rintracciare nel­ l’autoritratto dell’uomo di ogni tempo che è incarnato dalla figura di Giobbe. Egli è anzitutto segnato dalla fragilità e dall’inquietudine dell’essere creatura debole (Gb 14,1), simboleggiata da alcune significative metafore (l’argilla: Gb 4,19; 10,9; il fiore: 14,2; il verme: 25,6; 17,14; 21,26). In secondo luogo, in quanto l’ origine dell’uomo sulla terra è corrotta e mortale, la dimensione antropologica sarà sempre lambita dalla sofferenza e dal dolore finché non giungerà alla pie144

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Cap. 3  -  Traiettoria vocazionale

nezza di Dio. Dalla constatazione della sofferenza del giusto emerge l’interrogativo sull’identità di Dio e sul senso della sua «chiamata alla vita» (S. Parisi). Sulla medesima linea interpretativa si muove la riflessione di Qoèlet, che ruota intorno al senso e al «non senso» dell’esistenza umana. Anche in questa complessa opera il protagonista coglie la dimensione della caducità della vita dell’uomo paragonata al «vapore» (hebel) che cela fugacemente il vuoto e il limite delle cose (Qo 1,2; 12,8). La critica sapienziale tocca la dimensione vocazionale in termini profondi: perché impegnarsi in un cammino di cui non si vede la meta? Perché sperare se «tutto rimane come ieri» e non c’è «nulla di nuovo sotto il sole» (Qo 1,9)? L’uomo non vive di vocazione, bensì di rassegnazione: egli deve accontentarsi del poco che la vita gli può offrire, consumando la propria allegria finché dura (Qo 3,12; 9,7-9). Tuttavia accanto a questa posizione radicale «al limite dell’ortodossia israelitica», l’autore scorge una ragione di vita importante: egli ha compreso che la vita proviene dalle «mani di Dio» (Qo 2,25) e che all’uomo non rimane che una speranza: la fedeltà di Dio illumina anche lo scandalo della debolezza e della morte e si schiude nell’orizzonte di una «vita nuova». Mentre l’autore del Qoèlet lascia aperto questo spiraglio, l’orizzonte escatologico è dischiuso nel libro della Sapienza, composto nel contesto del giudaismo alessandrino. La vita come «vocazione» non è collegata unicamente alla dialettica agonica che domina il presente, bensì è proiettata in una visione escatologica, illuminata dall’azione della «sapienza» che ha guidato attraverso i secoli la storia di Israele (cf. Sap 10-19). La morte prematura dei giusti non può né deve nascondere la verità della nostra fede: gli empi verranno giudicati e puniti, mentre i giusti saranno «amati e beatificati da Dio» (Sap 3,1-9). Pertanto l’uomo che 145

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Parte II  -  Teologia biblica: traiettorie

sceglie di realizzare la propria esistenza nella giustizia e nella fedeltà a Dio riceverà la sua ricompensa non solo con la prosperità terrena, ma anche con la beatitudine celeste (Sal 5,15-23). La vocazione nella poesia e nella preghiera di Israele

Un ulteriore ambito che pone in risalto la dimensione vocazionale è costituito dalla poesia e dalla preghiera di Israele, con particolare riferimento al Cantico dei cantici e al Salterio. La celebrazione dell’amore umano e divino svolta nella storia poetica del Cantico lascia trasparire la «ricerca vocazionale» che culmina nell’incontro della coppia e nella celebrazione della bellezza dell’amore che si traduce in shalôm. Si tratta di uno dei libri più suggestivi della tradizione ebraica, in cui possiamo leggere attraverso i simboli del fidanzamento e della relazione affettiva, la stretta connessione tra «vocazione» e «amore nuziale». Proprio perché la chiamata di Dio è sempre una «vocazione d’amore», i protagonisti del Cantico incarnano in forma «drammatica» la ricerca e il desiderio struggente dell’altro/a come originaria dialettica vocazionale fondata sull’amore «forte come la morte» (Ct 8,6). L’intero impianto di questa singolarissima composizione poetica ha come protagonista l’amore in qualche modo «personificato» (L. Alonso Schökel). Esso viene presentato come un bisogno di senso e di appartenenza, come appassionata memoria e inappagabile desiderio dell’altro, riprendendo il motivo genesiaco della creazione della coppia (cf. Gen 2,23-24). L’amore implica un «alzarsi nella notte» e «mettersi a cercare» (Ct 1,1) affrontando ogni rischio per realizzare il progetto di felicità che nasce dall’ascolto del proprio cuore. La celebrazione della «bellezza», descritta dai due giovani con le suggestive 146

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Cap. 3  -  Traiettoria vocazionale

immagini della natura, culmina in un incontro finale nel quale i protagonisti sentono di essere «l’uno per l’altro» e di realizzare la loro vocazione sponsale, in un’alleanza eterna: «Io sono del mio amato e il mio amato è mio» (Ct 6,3). L’esperienza della vocazione si coglie nell’attrazione, nella ricerca e nella fedeltà condivisa tra i due sposi. In questa tensione dialettica si può cogliere la ricchezza simbolica e teologica della ricerca vocazionale. Nondimeno è soprattutto nel Salterio che la «poesia» di Israele si fa «preghiera». L’opera costituisce un vero «macrocosmo letterario e teologico» in cui si incrociano motivi e situazioni dell’esistenza umana che fanno emergere con gradazioni diverse una profonda dialettica vocazionale. Il dialogo tra l’orante e Dio si svolge in un atteggiamento di ascolto del cuore: Dio «conosce» fino in fondo il cuore umano (Sal 138,1.14), «scruta» i suoi pensieri (Sal 93,11) e porge l’orecchio alla voce del suo grido (Sal 5,3; 16,1; 21,5; 38,13; 39,2; 115,1). La domanda sull’uomo e il senso della sua vita riecheggia particolarmente nei salmi sapienziali: «che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi?» (Sal 8,5; 143,3) e ancora: «perché egli sa bene di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere» (Sal 102,14). Allo stesso modo la consapevolezza della chiamata rivolta al credente si evidenzia soprattutto nel dono della «sapienza del cuore» (Sal 7,10; 89,12), desiderata e invocata dall’orante (Sal 50,8). Tuttavia la tematica vocazionale viene espressa soprattutto attraverso la nota immagine della «via diritta» indicata da Dio a ciascun credente (Sal 17,37; 66,3). Si tratta di una metafora che ricorre in molti contesti biblici, soprattutto per definire la volontà di Yhwh nei riguardi dei suoi eletti (Abramo: cf. Gen 18,19; Mosè: cf. Es 33,13; Davide: cf. 2Sam 22,33) e più in generale del popolo dell’alleanza (cf. Dt 5,33; 10,12), che 147

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riecheggia con una chiara valenza vocazionale nella preghiera salmica: «Mostrami, Signore, la tua via, perché nella tua verità io cammini; tieni unito il mio cuore, perché tema il tuo nome» (Sal 85,11; cf. Sal 24,4.9). In questo modo l’invocazione salmica si traduce in un’insistente domanda dell’uomo di fronte al proprio destino (cf. Sal 117). Seguire le vie indicate dall’Onnipotente (Sal 31,8) corrisponde alla realizzazione della chiamata alla giustizia e alla santità che Dio rivolge a ciascun credente (cf. Sal 118,3.5.15.26). Così nelle diverse situazioni dell’esistenza l’orante innalza a Dio la sua supplica e contestualmente pone la questione del senso dell’esistenza: nella malattia (Sal 40,3-5), nelle persecuzioni (Sal 7,2; 142,3), nelle tragedie nazionali e familiari (Sal 40,12; 63,2; 106,2), nelle inimicizie (Sal 54,13), di fronte alla morte imminente (Sal 17,5; 21,16; 29,10; 55,14). La preghiera di Israele «nasce dalla polvere» della storia umana (P. Beauchamp) e diventa implorazione vocazionale rivolta a Yhwh, origine di ogni vocazione. In tal modo la comunità eletta può celebrare la propria «vocazione di alleanza» mediante la liturgia levitica e la preghiera salmica, riconoscendosi attraverso il tempo in quel «popolo chiamato e convocato da Yhwh» in attesa che «giunga il giorno grande e terribile del Signore» (Ml 3,23). 3. Itinerario neotestamentario Li chiamò... lo seguirono

Nel Nuovo Testamento l’evento vocazionale è contrassegnato dall’impiego del verbo chiamare (kalein) in quasi tutti gli scritti neotestamentari (148 ricorrenze), con diverse varianti di significato. Nell’uso corrente, a partire dalle sue origini extrabibliche, il 148

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Cap. 3  -  Traiettoria vocazionale

verbo indica l’atto di chiamare qualcuno a sé, di invitare o di nominare qualcuno; nell’uso passivo il verbo esprime l’essere chiamati per nome, l’essere designati o invitati da qualcuno. Appartengono allo stesso campo semantico epikaleomai e proskaleomai, composti di kalein, mentre si associa in modo significativo il verbo eleggere (eklegomai), soprattutto per l’uso teologico dell’aggettivo «colui che è eletto» (eklektos). Le ricorrenze sono prevalenti in Matteo e Luca, negli Atti degli Apostoli e nell’epistolario paolino, mentre sono più rare negli altri scritti neotestamentari. Appare rilevante l’uso teologico che il verbo «chiamare» assume anzitutto nei racconti evangelici, quando il soggetto della chiamata è Dio o Gesù Cristo. In primo luogo sono i «racconti di vocazione» nei Vangeli a evidenziare la dimensione teologica ed esistenziale della chiamata al discepolato. Si può affermare che la predicazione pubblica di Gesù inizia con i racconti di vocazione. Si legge in Mc 1,14-20: Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo». Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.

Gesù vede e chiama i primi discepoli a seguirlo (cf. Mc 1,20), li invita a liberarsi dai legami che frenano la risposta vocazionale e a passare decisamente alla sua sequela, condividendo l’avventura dell’evangelizzazione (cf. Lc 9,57-62; Mt 8,19-22). 149

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Confrontando i diversi racconti di vocazione, si nota come lo schema letterario soggiacente è quello del racconto di vocazione secondo il modello anticotestamentario costituito dalle seguenti tappe ricorrenti: – l’indicazione della situazione del chiamato: colui che è chiamato viene incontrato nell’esercizio della sua professione; – segue la chiamata da parte di Dio, effettuata mediante una parola diretta oppure attraverso un’azione simbolica; – viene riportata, talvolta, l’obiezione del chiamato (per impreparazione, senso di inadeguatezza, ecc.) alla quale risponde una rassicurazione del chiamante; – infine, inizia la sequela vera e propria, con conseguente abbandono della situazione di vita precedente (lavoro, famiglia, ecc.). Il racconto evangelico delle prime chiamate dei discepoli nella versione sinottica rispetta in sostanza lo schema narrativo, con l’omissione dell’obiezione dei chiamati. Nel contesto sinottico l’ambientazione è rappresentata da lago di Galilea. La scena ha come protagonista centrale Gesù che prende l’iniziativa nei riguardi dei suoi interlocutori. È indicativo come la pericope della chiamata di Levi, che culmina nel successivo banchetto durante il quale il Signore si autodesigna «sposo» (cf. Mc 2,19: nymphios) che accetta di condividere il cibo con i pubblicani e i peccatori (cf. Mc 2,13-17 par.). Il racconto si conclude con il logion della «chiamata» universale alla conversione: «Non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mc 2,27). In tal senso l’interpretazione teologica che Cristo conferisce alla sua missione è connotata sostanzialmente della «dimensione vocazionale». Nella medesima prospettiva vanno interpretate le scene paraboliche in cui Dio manda a «chiamare» gli «invitati» alle noz150

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Cap. 3  -  Traiettoria vocazionale

ze (Mt 22,3.8), gli operai nella vigna (Mt 20,8) e i mezzadri (Mt 21,13). L’appello di Gesù diventa costitutivo dello status apostolico nell’episodio di Mc 3,13-19, dove il Signore «chiama a sé» alcuni uomini scelti tra coloro che lo seguivano (Mc 3,13) e ne costituisce dodici, che vengono menzionati nominalmente (vv. 17-19). Saranno loro i primi a seguire l’esempio del Cristoservo, in uno stile «nuovo» di vita comune e di predicazione evangelica, evitando di «farsi chiamare» benefattori dalla gente (Lc 22,25-27). All’interno del processo vocazionale si colloca, in modo più ampio, la chiamata alla conversione e all’ingresso nel regno (cf. Mt 5,19). Gesù entra come «invitato» nelle case della gente (Lc 7,39; Gv 2,2) e il suo entrare per condividere diventa «appello di salvezza» (cf. Lc 19,9). In senso più ampio l’intera missione di Gesù, «profeta potente in opere e in parole» (Lc 24,19), rappresenta un «invito» alla conversione esistenziale e all’accoglienza del mistero del regno (Lc 5,32). È di particolare forza espressiva il racconto del «giovane ricco» (cf. Mt 19,16-22; Mc 10,17-31; Lc 18,18-23), che rappresenta un’icona vocazionale senza precedenti. Raccolta nella triplice tradizione sinottica, la scena del dialogo struggente tra il giovane anonimo e il Signore che lo «guarda dentro» e lo ama, resta scolpita nell’immaginario del lettore del Vangelo, come un’«occasione perduta» di felicità e di compimento. La «perfezione» chiede di superare i limiti della Legge mosaica e di mettersi alla sequela del Signore in modo pienamente libero. Quello che non è accaduto nella vita del giovane ricco, accade nella storia di Bartimeo (Mc 10,45-52) e di Zaccheo (Lc 19,110): il cui incontro con il Signore trasforma la vita. Una singolare utilizzazione teologica del verbo «chiamare» si ravvisa nei racconti parabolici. Nella versione lucana della parabola del banchetto viene 151

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presentata la dinamica della chiamata in due sensi: i poveri, storpi, ciechi e zoppi sono «invitati a entrare», mentre i primi invitati non hanno accolto la «chiamata» (Lc 14,16-20; cf. Mt 22,3-5) e così rimangono esclusi dal regno. Ampliando il racconto con la seconda parabola dell’abito nuziale (cf. Mt 22,11-13), il primo evangelista vuole indicare ai suoi interlocutori, che si ritenevano invitati e chiamati da Dio nella comunità cristiana, la necessità della disposizione morale a vivere secondo le esigenze del regno. Anche per questi vale il monito: «molti sono i chiamati (klētoi), ma pochi gli eletti (eklektoi» (Mt 22,14; 24,22.31). Allo stesso modo nella parabola del padrone che invia i lavoratori nella sua vigna (Mt 20,116) l’accentuazione dell’evangelista è posta sull’attività insistente del «chiamare a lavorare» (vv. 4.5.7), anche se il verbo è impiegato solo al v. 8 per indicare al fattore il dovere della paga al termine della giornata. Nella parabola delle dieci vergini la chiamata a entrare alle nozze diventa un «grido escatologico» (Mt 25,6), mentre un valore vocazionale aggiunto si può individuare nell’atto della chiamata alle responsabilità dei beni, rivolta ai tre servi della parabola dei talenti (cf. Mt 25,14; cf. Lc 19,11-27). Nella parabola del Padre misericordioso di Lc 15,13-32, il verbo «chiamare» indica il percorso interiore dell’identità ferita del protagonista, la presa di coscienza del suo peccato, che lo spinge a riprendere la strada verso la casa del padre, «non essendo più degno di essere chiamato figlio» (Lc 15,19.21). È l’appartenenza originaria alla sua condizione di figlio che permette al giovane di entrare in se stesso e sentire il bisogno di «chiamarsi fuori» dal baratro in cui era caduto. Si comprende bene che l’idea della chiamata, evocata dall’uso teologico del verbo chiamare, collega l’azione del chiamante all’identità del chiamato in un rapporto decisivo. 152

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Cap. 3  -  Traiettoria vocazionale

Attingendo alle tradizioni anticotestamentarie, nei Vangeli si evidenzia il senso antropologico-vocazionale dell’«essere chiamati per nome» (cf. Marta: Lc 10,41; Maria di Magdala: Gv 20,16; Simone il fariseo: Lc 7,40; Zaccheo: Lc 19,5; Lazzaro: Gv 11,43; Filippo: Gv 14,9; Simon Pietro: Mc 14,37; Lc 22,31; Gv 21,15-17), dell’atto di conferire il nome a un nascituro (cf. Lc 1,13.21; Mt 1,21; cf. Gen 16,11-12; 17,19; Is 7,14), di cambiarlo a un discepolo (cf. Gv 1,42), di invocare il «nome» del Padre (Mt 6,9). Da parte sua il credente deve fare attenzione a non vanificare l’invocazione del Signore, rendendo vuota la sua preghiera: «Perché mi invocate: “Signore, Signore!” e non fate quello che dico?» (Lc 6,46; cf. Mt 7,21). È nel nome del Signore che i discepoli compiranno i segni (Mt 7,22), per il suo nome saranno perseguitati (Mt 10,22 par.), come costruttori di pace «saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9) e, perseverando nella fedeltà al «suo nome» (Gv 1,12), otterranno la vita (Gv 20,30-31). Un posto di rilevo deve essere riservato all’esperienza vocazionale di Maria di Nazaret, nel racconto di Lc 1,26-38. L’ampio studio del testo mette in luce la dinamica vocazionale della chiamata di Dio, mediante l’annuncio dell’angelo e la risposta libera di Maria, che conferma il suo «sì» incondizionato alla Parola che s’incarna del suo ventre (Lc 1,38). Venite e vedrete

La presentazione del discepolato attraverso nelle tappe che segnano lo sviluppo del Vangelo costituisce una testimonianza vocazionale che connota la teologia giovannea. Partendo dall’esperienza del primo incontro, si coglie il momento vocazionale del discepolato (Gv 1,35-42), da cui inizia l’avventura missionaria insieme a Gesù. Lungo le strade della Palestina, i discepoli condividono ogni cosa, rimanendo al 153

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seguito del Signore non senza momenti di crisi (Gv 6,66). Nella seconda parte del Vangelo (Gv 13-20) si propone l’enigmatica figura del «discepolo prediletto» che vive gli ultimi giorni del suo Signore: il momento della cena (Gv 13,23-25), l’ora della prova nel Getsemani (Gv 18,1), il dramma dell’arresto e della dispersione degli apostoli, il rinnegamento di Simon Pietro (Gv 18,16), la figliolanza donata dalla croce del suo Signore (Gv 19,25-27). Nel giorno dopo il sabato il discepolo in compagnia di Simone si reca al sepolcro trovandolo vuoto (Gv 20,2-10) e nel successivo scenario post-pasquale del lago di Galilea sarà testimone dell’incontro finale con il Risorto (Gv 21,7.20.24). Focalizziamo la nostra riflessione sul racconto iniziale dell’incontro con Gesù, legato alla testimonianza del Battista in Gv 1,35-42, all’indomani del battesimo. In Gv 1,35-42 si legge: Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa Maestro –, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio. Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo –e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro.

Si tratta di un’icona che inaugura il modello di sequela nel quarto Vangelo. Il racconto si apre con la testimonianza del Battista (Gv 1,19) e si chiude 154

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Cap. 3  -  Traiettoria vocazionale

con la testimonianza diretta e fedele dello scrittore anonimo (Gv 19,35; 21,24). L’intero filo narrativo giovanneo è sorretto dalla testimonianza vissuta del «discepolo amato» ed è in questo contesto che vengono riferiti i segni e le parole di Gesù. Gv 1,35-51 si può suddividere in due parti: vv. 35-42: la vocazione dei primi tre discepoli, Andrea, Giovanni e Simone a cui Gesù cambia il nome; vv. 43-51: la vocazione di altri due discepoli e la professione di fede di Natanaele. Queste due parti sembrano strutturate in modo parallelo, con corrispondenze assai marcate: a) si parla della sequela di Gesù (vv. 37s.43); b) viene descritta la chiamata dei discepoli (vv. 40ss.45ss); c) sono riportate due professioni di fede in Gesù (vv. 41.45.49); d) sono descritti degli incontri con Gesù (vv. 42.47ss). La prima parte del brano evidenzia come la chiamata dei primi discepoli sia collegata alla testimonianza del Battista. I verbi impiegati sono molto significativi: Il Battista «fissa lo sguardo su Gesù che passa» (il verbo si ripete al v. 42). Si indica l’atto di guardare con attenzione, penetrando nell’intimo dell’animo, a cui segue la rivelazione: «ecco l’agnello di Dio» (1,29) che prepara la sequela di Cristo. I due discepoli si mettono «a seguire» Gesù dopo aver sentito la testimonianza di Giovanni. La sequela di Gesù implica il diventare discepoli di Lui (cf. Mc 2,15; Mt 9,9; Lc 5,27-28). La domanda che il Signore rivolge loro ha un profondo valore teologico: «che cosa cercate?» (1,38: cf. 18,4.6; 21,15). Alla richiesta dei due discepoli segue la risposta del Signore: «venite e vedrete» che indica l’invito a fare esperienza di un incontro personale con Cristo. Si tratta del momento culminante dell’avventura vocazionale dei primi due discepoli, evento che è restato così impresso nella memoria di Andrea e Giovanni da ricordare perfino l’ora (v. 39). Il dinamismo del discepolo si fa annun155

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cio dell’incontro: Andrea narra l’esperienza a Simone, suo fratello, e lo conduce al Signore. La vocazione di Simone, come quella dei primi due discepoli nasce anche in questo caso dalla testimonianza dell’esperienza vissuta nella fede. La seconda parte della pericope rappresenta un ulteriore momento qualificante della testimonianza dei discepoli: a fronte dell’incredulità di Natanaele (v. 46), viene riportato un singolare dialogo con Gesù che provoca un’entusiastica reazione di fede del discepolo: «Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele!» (v. 49). Analogamente alla prima parte, in questa seconda viene presentata la chiamata di Filippo e di Natanaele, che ha per protagonista Andrea. Nel suo movimento testimoniale, l’evangelista ci vuole offrire un modello di chiamata al discepolato che possiede delle analogie con i racconti vocazionali dei sinottici (cf. Mt 8,22; 9,9; 19,21; Mc 2,14; 10,21; Lc 9,59). Gesù incontra Filippo e lo invita alla sequela (v. 43); Filippo incontra Natanaele e gli testimonia la scoperta messianica che ha fatto. Di fronte alla perplessità di Natanaele, Filippo non vuole risolvere il problema del compagno, ma lo invita a un’esperienza personale con il Maestro simile a quella vissuta da lui. Vengono descritti in quest’ultimo incontro sentimenti di scetticismo, di curiosità, di meraviglia e di fede che culminano nell’affermazione misteriosa e rivelativa del Signore: «In verità in verità vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il figlio dell’uomo» (v. 51). Possiamo constatare come l’itinerario proposto dall’evangelista attraverso i personaggi introdotti nella scena costituisca un percorso di graduale approfondimento cristologico, che ruota intorno alla definizione che il Battista applica a Gesù, la metafora dell’agnello pasquale. Rileggendo il primo incontro con il Cristo, possiamo evidenziare alcuni aspetti. 156

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L’elemento di collegamento che si coglie dall’intera narrazione è costituito dal ruolo della testimonianza che diventa condizione della sequela. Si passa dalla testimonianza del Battista a quella dei discepoli, evidenziando come l’incontro con la persona di Gesù presupponga l’ascolto della testimonianza e la decisione della ricerca. La dinamica dell’incontro tra Gesù e i discepoli rivela la domanda profonda della ricerca dei discepoli, che costituisce la motivazione antropologica e il bisogno della risposta al senso della propria vita. Da qui nasce la scelta vitale della sequela: decidere di seguire Cristo «con tutto se stesso» significa abbandonare la guida del Battista per incontrare «l’agnello di Dio» e «dimorare» con lui. L’uomo che si sente raggiunto dall’invito di Dio risponde con tutto se stesso e inizia il cammino di scoperta del volto di Cristo. La primaria esperienza che fa scattare la molla della risposta non è tanto legata a considerazioni concettuali e teoriche su Cristo, bensì alla forza della testimonianza e allo stupore dell’incontro. L’evento vocazionale ha come inizio un incontro sconvolgente che nasce dall’ammirazione di una testimonianza «profetica». Un ulteriore aspetto è costituito dalla dimensione «comunitaria» dell’esperienza cristiana. Gesù invita i discepoli alla sequela esaltando la dimensione comunitaria e comunionale dell’esperienza: «venite e vedrete». Andrea annuncia a Simone suo fratello: «abbiamo trovato il messia». L’esperienza della ricerca e dell’incontro è vissuta in una dimensione comunitaria, così come la testimonianza. La testimonianza diventa una condizione del credente che vive la propria vocazione integralmente in una prospettiva missionaria. Inizia con questo incontro singolare e libero l’avventura del discepolo anonimo, che si lascia guidare dal mistero del Signore seguendo il progetto del Padre. 157

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Chi sei, o Signore?

La dimensione vocazionale giovannea evoca la dinamica del «chiamare» e del testimoniare. Con la medesima gradualità di significati, il verbo «chiamare» con i suoi derivati è attestato negli altri scritti neotestamentari. Nel libro degli Atti i verbi indicanti il chiamare/nominare sono usati quasi sempre con il significato storico-relazionale, mai in senso teologico. Sul piano narrativo la chiamata di Saulo sulla via di Damasco assume una «funzione esemplare» nello sviluppo dell’evangelizzazione e della testimonianza della prima comunità cristiana (cf. At 9,1-21; cf. 22,5-16; 26,9-18). La narrazione presenta le caratteristiche di un’esperienza «pasquale», che l’Apostolo vive in prima persona e a cui farà costante riferimento lungo la sua esistenza. Il testo di At 9,1-9 recita: Saulo, spirando ancora minacce e stragi contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco, al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme tutti quelli che avesse trovato, uomini e donne, appartenenti a questa Via. E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: «Saulo, Saulo, perché mi perséguiti?». Rispose: «Chi sei, o Signore?». Ed egli: «Io sono Gesù, che tu perséguiti! Ma tu àlzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare». Gli uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati ammutoliti, sentendo la voce, ma non vedendo nessuno. Saulo allora si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Così, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco. Per tre giorni rimase cieco e non prese né cibo né bevanda.

Come i Vangeli iniziano raccontando la vocazione dei primi discepoli, così la figura di Paolo è introdotta con lo straordinario evento di Damasco. La 158

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Cap. 3  -  Traiettoria vocazionale

chiamata dell’apostolo assume una funzione centrale per presentare la sua missione. Il racconto nella sua semplicità implica diversi messaggi: l’autorevolezza di Saulo, persecutore della chiesa, viene depotenziata da una caduta che fa crollare le sue certezze. Quelle catene che dovevano fermare i cristiani di Damasco saranno un giorno portate da Saulo, colui che è stato afferrato da Gesù Cristo. In modo particolare l’apostolo passa da un’esperienza teorica di Dio a un incontro personale e irripetibile: il Dio di Israele è il padre del Signore Gesù Cristo, che Paolo sta perseguitando e a cui ora è chiamato a obbedire. L’alzarsi da terra implica il «risorgere» a una nuova vita, il «rinascere come bambino», accecato dalla luce e guidato per mano dai compagni verso Damasco, dove rimane tre giorni senza vedere né prendere cibo. L’illuminazione di Paolo diventa segno della «nascita pasquale» del credente raggiunto dall’annuncio del Vangelo: da questo momento in poi l’apostolo vivrà solo per Gesù Cristo e lo annuncerà con la sua vita (cf. At 22; 26; Gal 1,15). La consapevolezza ecclesiale della chiamata di Dio in Cristo si fonda sull’evento della Pentecoste (cf. At 2,1-13) e si esprime mediante figure e nei molteplici discorsi che si intrecciano nell’architettura narrativa dell’opera lucana. Si stabilisce un interessante intreccio narrativo e teologico tra l’annuncio della Parola e la risposta dei credenti che entrano a far parte della comunità cristiana. Essi non vengono più designati come «discepoli», ma come «chiamati», in quanto raggiunti dalla predicazione del Vangelo (At 13,2; 16,10). In questa nuova prospettiva cristologica, ritroviamo l’uso teologico di «chiamare» attestato in modo rilevante nella lettera agli Ebrei (Eb 2,11; 3,13;5,4; 9,15; 11,8.18) e negli altri scritti neotestamentari. Nelle lettere di Pietro il verbo kalein viene impiegato in funzione parenetica: l’accoglienza del Vangelo e 159

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Parte II  -  Teologia biblica: traiettorie

il passaggio dal paganesimo alla nuova vita in Cristo implicano per i battezzati una «chiamata alla santità» mediante un coinvolgimento di tutta la condotta morale (1Pt 1,15). Nel seguire l’esempio del Cristo sofferente, «pastore e guardiano delle anime» (1Pt 2,21), l’intera comunità deve sempre più diventare «stirpe eletta» (2,9), chiamata a ottenere in eredità la benedizione (1Pt 3,9), in vista della gloria eterna a cui il «Dio di ogni grazia» chiama (1Pt 5,10), con gloria e potenza (2Pt 1,3). Nell’unica menzione di 1Gv 3,1, l’autore della lettera mette in relazione l’amore del Padre con la chiamata alla figliolanza, tema cruciale anche nel contesto dell’ambiente giovanneo. Infine nel libro dell’Apocalisse il verbo «chiamare» funge da mezzo linguistico per indicare, nell’ambito del simbolismo apocalittico, i nomi misteriosi delle figure che appaiono all’interno delle visioni (cf. Ap 11,18; 12,8; 16,16;19,11.13). La chiamata all’apostolato

Nell’epistolario paolino il motivo della «chiamata» (klēsis) assume una straordinaria rilevanza teologica. Infatti il significato del verbo chiamare (kalein) fa registrare un «salto di significato» nell’elaborazione teologica di Paolo, il quale, oltre all’impiego verbale, conia klēsis (= chiamata) come «termine tecnico» per indicare la nuova condizione dei credenti, rinnovati alla luce del mistero cristiano. A partire dall’esperienza personale del suo incontro con Cristo, Paolo riflette sulla sua vocazione e la rielabora sottolineando il valore teologico del misterioso «chiamare» di Dio. Infatti è Dio il soggetto-protagonista che chiama gli uomini, allo stesso modo come Gesù ha chiamato i primi discepoli e li ha resi apostoli del regno. A eccezione di Rm 9,7.25.29 e 1Cor 10,27 (dove kalein ha 160

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Cap. 3  -  Traiettoria vocazionale

il senso di «invitare a pranzo»), Paolo impiega kalein sempre nel senso vocazionale della sovrana chiamata di Dio, intendendo con esso quel «processo attraverso il quale Dio chiama fuori dai loro legami con questo mondo coloro che prima aveva eletto e predestinato, per giustificarli e santificarli (Rm 8,29s) e prenderli a suo servizio». In primo luogo è Paolo stesso a definire la sua missione apostolica nella luce della chiamata di Dio: egli è stato «chiamato apostolo per il Vangelo» (Rm 1,1; 1Cor 1,1: kletos apostolos) ed è stato inviato a coloro che sono «chiamati santi» (Rm 1,7; 1Cor 1,2), secondo il suo progetto salvifico (Rm 8,28), senza fare differenze tra giudei e greci (1Cor 1,24). In Rm 8,28-30 l’apostolo accentua con uno straordinario «ottimismo soteriologico» la chiamata degli eletti alla salvezza. Egli è profondamente convinto che l’origine della salvezza e le sue conseguenze nella storia dipendono unicamente della libera iniziativa del Dio «appellante» (1Ts 5,24). Egli ha chiamato in Isacco la discendenza di Abramo (Rm 9,7; cf. Eb 11,18; Gen 21,12), continua a chiamare sia tra i giudei che tra i gentili (Rm 9,24), chiama i credenti alla comunione del figlio suo Gesù Cristo (1Cor 1,9), per vivere nella pace (Col 3,15; 1Cor 7,15). Scrivendo alle comunità galate in un momento di crisi, l’apostolo ricorda loro che sono state chiamate da Dio «nella grazia di Cristo» (Gal 1,6) e tale vocazione deve significare una «chiamata alla libertà» (Gal 5,13). Secondo una possibile interpretazione, in Ef 1,11 Paolo sottolinea la condizione dei cristiani «chiamati» in Cristo secondo il progetto di Dio e introduce in Ef 4,4 il tema della klēsis, ricordando a tutti i battezzati la dignità della vocazione a cui sono stati chiamati. Nell’inno cristologico di Colossesi l’apostolo innalza un ringraziamento al Padre perché «ha chiamato» i credenti alla sorte dei santi nella luce 161

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Parte II  -  Teologia biblica: traiettorie

(Col 1,12). Nelle lettere ai Tessalonicesi ritorna l’idea teologica della chiamata di Dio nei riguardi della comunità in cammino: Dio chiama al suo regno e alla sua gloria (1Ts 1,12) e la risposta dei credenti consiste nel cammino di santificazione (1Ts 4,3) evitando ogni impurità (1Ts 4,7). Dopo aver scelto i credenti come «primizia» per la salvezza, Dio li chiama mediante la predicazione del Vangelo «al possesso della gloria del Signore Gesù Cristo» (2Ts 2,1314). Traccia di tale riflessione teologico-vocazionale è presente nei frammenti innici delle lettere pastorali. Nel dialogo con Timoteo, l’apostolo ricorda al caro collaboratore la responsabilità ecclesiale che egli deve saper esercitare, combattendo la «buona battaglia» della fede per raggiungere la vita eterna alla quale «è stato chiamato» e per la quale ha reso pubblica testimonianza (1Tm 6,12). In 2Tm 1,9-10 l’apostolo invita Timoteo a non vergognarsi della testimonianza cristiana né della sua prigionia, ricordando che solo Dio salva e che, per sua grazia, chiama gli uomini mediante una «vocazione santa» (2Tm 1,9). Oltre all’impiego del verbo chiamare, la singolarità paolina sta nell’uso del termine «chiamata» (klēsis). Infatti klēsis (tranne Eb 3,1 e 2Pt 1,10) è esclusivo dell’epistolario paolino (cf. Rm 11,29; 1Cor 1,26; 7,20; Ef 1,18; 4,1.4; Fil 3,14; 2Ts 1,11; 2Tm 1,9). Il termine compare da solo in 2Ts 1,11 e in Eb 3,1, mentre nelle rimanenti referenze figura in tre costrutti: klēsis tou theou (vocazione/chiamata di Dio), eklēthē (eklēthēte) klesei («essere chiamati a una vocazione») e klēsis hymōn («la nostra vocazione/chiamata»). Nella prima espressione il genitivo soggettivo (tou theou) conferisce al termine il senso attivo del «chiamare» da parte di Dio (cf. Rm 11,29; Fil 3,14; Ef 1,18; 2Tm 1,9; 2Ts 1,11). L’uso del passivo nel secondo costrutto indica non solo l’azione divina del chiamare, ma anche le conseguenze esistenziali avve162

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Cap. 3  -  Traiettoria vocazionale

nute nella persona chiamata e la sua «nuova situazione» non tanto sul piano socio-culturale, quanto su quello etico-teologico. Il terzo costrutto fa riferimento allo status ecclesiale di coloro che sono chiamati, con varianti interpretative a partire dal contesto letterario specifico. Abbiamo due testi molto significativi per cogliere il senso profondo della vocazione nella concezione di Paolo: 1Cor 1,26; 7,20. Scrivendo ai corinzi, l’apostolo introduce l’espressione klēsis hymōn (1Cor 1,26) nel contesto polemico del dibattito sulla sapienza e stoltezza (cf. 1Cor 1,18-31), per richiamare i credenti alla verità dello loro fede, fondata sulla «parola della croce» (1Cor 1,18), affinché nessuno possa gloriarsi davanti a Dio (1Cor 1,29). L’apostolo scrive in 1Cor 1,26-29: Considerate infatti la vostra chiamata [klēsis hymōn], fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili. Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio.

Per cogliere la valenza di klēsis occorre inquadrare l’espressione nell’unità letteraria di 1Cor 1,26-31, la cui argomentazione si muove su un piano teologico. Circa il valore da dare all’espressione «vostra chiamata» (klēsis hymōn) si possono riassumere le opzioni degli autori secondo tre interpretazioni: a) Paolo alluderebbe alla «vocazione-chiamata» in senso attivo, come originario appello di Dio, invitando i corinzi a relativizzare le posizioni sociali e culturali dei singoli membri della ekklēsia in funzione dell’eccellenza dell’evento cristologico; b) secondo altri il termine klēsis indicherebbe (nel senso passivo) la «condizione 163

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Parte II  -  Teologia biblica: traiettorie

di vita» storica e sociale nella quale erano i credenti quando furono chiamati al Vangelo; c) un’ultima interpretazione tende a identificare klēsis con gli stessi chiamati, applicando il termine in astratto per esprimere una concretezza corporativa storico-sociale dello stesso gruppo ecclesiale. L’apostolo esorta fraternamente (v. 26) i Corinzi a «scrutare» la loro klēsis, facendo allusione allo status esistenziale della comunità: l’iniziativa divina della chiamata si definisce per la «qualità» dei credenti e non per la loro condizione di privilegio sociale o economico. Da una parte l’attenzione è all’iniziativa di Dio che chiama e dall’altra alla risposta delle persone venute alla fede: tra costoro non ci sono «molti sapienti secondo la carne», non molti «potenti» né molti «nobili». Nei vv. 27-29 il tema della klēsis è ampliato e collegato con quello della «elezione» divina (eklogē), con l’implicita allusione alla storia di Israele (cf. Rm 9,1-18). Dio «ha scelto» diversamente dalla logica della potenza, secondo una logica dell’impotenza sub signo crucis, per ridurre a nulla le cose che sono (v. 28). La klēsis non è quindi solo l’atto della chiamata, bensì il processo dinamico che implica la trasformazione della realtà storica, incominciando dalla comunità stessa a cui l’apostolo si rivolge. La forza espressiva delle antitesi (sapienti/stolti; forti/deboli; nobili/plebei) travalica il livello puramente sociologico dell’argomentazione, per esprimere la valenza teologica dell’atto vocativo di Dio nella storia, dall’elezione del popolo alla vocazione della comunità. Il contenuto di klēsis si collega strettamente con quello di eklogē e sembra indicare un preciso status del credente inserito in una comunità. L’intenzione di Paolo nella lettera è quella di presentare la vocazione cristiana come «differenza qualitativa», originata dallo sviluppo teologico del concetto di «elezione» non più secondo la prospettiva dell’alleanza 164

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Cap. 3  -  Traiettoria vocazionale

sinaitica, bensì secondo la nuova prospettiva cristologico-soteriologica compiutasi in Cristo «diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione» (1Cor 1,30). La seconda attestazione di klēsis si registra in 1Cor 7,20. L’apostolo sta rispondendo alle questioni etiche circa la prassi matrimoniale e, più in generale, allo stato di vita dei corinzi (1Cor 7,1). Egli fornisce alcune soluzioni morali ai casi sollevati, lasciando intendere come le relazioni matrimoniali e i legami interpersonali vadano comunque interpretati in chiave spirituale e secondo una prospettiva escatologica (cf. 1Cor 7,31). La centralità dell’idea di klēsis viene strutturalmente evidenziata nei vv. 17-24, per la straordinaria concentrazione del verbo kalein. Per poter cogliere il senso del termine «chiamata» (klēsis) è decisivo focalizzare l’articolazione di 1Cor 7, soprattutto l’unità dei vv. 17-24 nella quale predomina il tema del chiamare. La sezione si compone di tre unità: a) nei vv. 1-16 si affrontano i temi relativi alla vita matrimoniale (vv. 1-7), allo stato dei celibi e delle vedove (vv. 8-9) e al comportamento da tenere nei riguardi del marito non credente (vv-10-16); b) i vv. 17-24 riflettono il principio generale secondo cui «ogni credente deve vivere secondo la vocazione a cui Dio lo ha chiamato»; c) nei vv. 25-38 si affronta la situazione delle persone non sposate e il comportamento che i cristiani devono avere nel mondo, compresa la situazione della vedovanza (vv. 39-40). Egli scrive in 1Cor 7,17-24: Fuori di questi casi, ciascuno – come il Signore gli ha assegnato – continui a vivere come era quando Dio lo ha chiamato; così dispongo in tutte le Chiese. Qualcuno è stato chiamato quando era circonciso? Non lo nasconda! È stato chiamato quando non era circonciso? Non si faccia circoncidere! La circoncisione non conta nulla, e la non circoncisione non conta nulla; conta invece l’osservanza dei comandamenti di Dio. 165

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Parte II  -  Teologia biblica: traiettorie

Ciascuno rimanga nella condizione in cui era quando fu chiamato. Sei stato chiamato da schiavo? Non ti preoccupare; anche se puoi diventare libero, approfitta piuttosto della tua condizione! Perché lo schiavo che è stato chiamato nel Signore è un uomo libero, a servizio del Signore! Allo stesso modo chi è stato chiamato da libero è schiavo di Cristo. Siete stati comprati a caro prezzo: non fatevi schiavi degli uomini! Ciascuno, fratelli, rimanga davanti a Dio in quella condizione in cui era quando è stato chiamato.

Circa il significato di klēsis le proposte degli autori si possono riassumere tre opzioni possibili: a) secondo alcuni il v. 20 invita i credenti ad essere fedeli allo volontà di Dio che giorno per giorno deve orientare la condizione della loro vita e la klēsis starebbe a indicare la chiamata di Dio; b) altri vedono in questa espressione semplicemente la «condizione umana e sociale» (professionale) dei cristiani nel momento in cui furono raggiunti dall’evangelizzazione; in tal caso l’apostolo nel v. 20 vuole affermare che la chiamata alla fede non implica trasformazioni esteriori né cambiamenti di condizioni sociali e professionali; c) una terza interpretazione ritiene che il v. 20 alluda all’esistenza dei credenti determinata dalla novità della vocazione cristiana, che illumina la loro condizione storica e sociale non più secondo la logica del mondo (circoncisione, schiavitù), bensì secondo il progetto salvifico di Dio. In quest’ultima prospettiva, che appare più completa delle precedenti, si può cogliere l’intento teologico di Paolo: la ragione ultima della presenza dei cristiani nella storia non sta nella ricerca di una «situazione ideale» di vita, bensì nella risposta alla radicale «vocazione» (klēsis) iscritta nel cuore dei credenti e assunta nella responsabilità personale come «compito da realizzare» per ciascun uomo di fronte al progetto di Dio. 166

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Cap. 3  -  Traiettoria vocazionale

Conclusione

La ricchezza dei racconti di vocazione e i profili dei personaggi biblici che furono protagonisti di un incontro trasformante ci hanno consentito di percorrere una prima traiettoria che attraversa i due Testamenti e che culmina nel compimento cristologico. Abbiamo potuto constatare quanto sia rilevante e attuale la dialettica vocazionale nel rapporto con il progetto di vita che ciascun uomo porta in sé. Nei diversi contesti biblici dell’Antico e del Nuovo Testamento la vocazione diventa un paradigma interpretativo dell’incontro Dio-uomo e una chiave di lettura per comprendere il messaggio contenuto nella «storia di salvezza». Le categorie «salvezza» e «vocazione» appaiono così collegate tra loro, da affermare che la storia della salvezza si realizza attraverso la «storia della vocazione». In questa prospettiva anche la stessa esistenza di Cristo va interpretata come paradigma di ogni vocazione. Dall’analisi svolta emerge un’idea che unisce i personaggi e le esperienze vocazionali rintracciabili nella Sacra Scrittura e li interpreta in modo unitario come una «categoria comprensiva della teologia biblica». La dinamica «generatrice» di questa prima traiettoria è la fede. Essa è dono e compito, consegna di Dio all’uomo e risposta di adesione e di responsabilità da parte del credente che accoglie la Parola del Signore. Questa dinamica è avvalorata soprattutto dalla sintesi paolina, che ha colto nel concetto di «chiamata» (klēsis) il fondamento teologico più maturo dell’esperienza vocazionale. Coniando il termine klēsis, Paolo definisce la realtà della relazione tra Dio e l’uomo e allo stesso tempo lo status teologico del credente inserito in Cristo. La traiettoria vocazionale aiuta a leggere la storia 167

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Parte II  -  Teologia biblica: traiettorie

biblica come le diverse situazioni di vita nell’ottica vocazionale, come dono e compito, appello e risposta, attesa di compimento futuro e impegno responsabile per il presente.

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Capitolo 4

Traiettoria antropologica

Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». (Lc 24,31-32)  1. Alle origini del racconto biblico

Strettamente collegata con la traiettoria vocazionale si inserisce una seconda traiettoria rappresentata dalla visione antropologica che si ricava dai racconti biblici. Con l’espressione «antropologia biblica» s’intende alludere a una riflessione teologica unitaria e progressiva, riguardante la visione della persona umana (uomo-donna) così come è rivelata da Dio. Essa va rielaborata nelle diverse forme e tradizioni letterarie che hanno determinato i libri della Sacra Scrittura. Ci proponiamo di illustrare tale traiettoria focalizzando alcuni aspetti della vasta problematica che accompagna l’ambito dell’antropologia biblica in vista di una visione unitaria del messaggio biblico. Dopo aver segnalato gli elementi costitutivi dell’antropologia semitica (creazione, relazione, liberazione), focalizzeremo l’analisi su alcuni profili antropologici rappresentativi della rivelazione biblica, che culminano in Gesù Cristo, centro della rivelazione per la salvezza universale. L’importanza e l’attualità di questa lettura trasversale dei testi della Bibbia integra 169

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Parte II  -  Teologia biblica: traiettorie

la precedente traiettoria e contribuisce a far emergere una visione complessiva del volto dell’uomo e della sua identità relazionale. ’Adam divenne «desiderio di vita» (Gen 2,7)

Fin dall’esordio della narrazione biblica la vita, e segnatamente la vita personale, ha origine da un atto di amore voluto e realizzato da Dio. L’autocomunicazione di Dio come «Yhwh» (dal verbo h. ayah: colui che è vivente) nella storia dell’esodo è preceduta dalla teologia della creazione e dal dono della vita primordiale. L’esperienza che l’uomo biblico fa fin dall’inizio è l’incontro con il «Dio vivente», che chiama alla pienezza della vita e che rinnova in sé tutte le cose. Tutte le volte che l’uomo invoca Dio, si presenta davanti a Lui come «servo» (cf. Dn 6,21; 1Re 18,10.15), giura per il «Dio vivente» (Gdt 8,19; 1Sam 19,6) evoca per ciò stesso la sua vitalità straordinaria, la sua eternità (cf. Ger 10,10), riconoscendolo come «colui che rimane in eterno, che salva e libera, opera segni e meraviglie in cielo e sulla terra» (Dn 6,27s.). A partire da questa esperienza di fede, percepita in diversi momenti della storia di Israele e cristallizzata nelle narrazioni bibliche, si manifesta la consapevolezza del valore della vita umana e della sua dimensione trascendente. I racconti della creazione (cf. Gen 1-2) costituiscono un’importante testimonianza della riflessione sull’uomo. Il verbo di riferimento h. ayah compare nelle ultime tappe dell’atto creativo: nel quinto giorno nascono i grandi cetacei, le acque pullulano di esseri viventi (Gen 1,21.24) fino all’atto della creazione della coppia umana (Gen 1,26). Il racconto sacerdotale sottolinea come il dono della vita nascente è accompagnato dalla benedizione sulle generazioni future (Gen 1,22.28) e questa relazione tra presente e futuro vie170

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Cap. 4  -  Traiettoria antropologica

ne ulteriormente approfondita mediante l’impiego di due espressioni: l’alito vitale di Dio (ruah h. ayyim) e la definizione dell’uomo come «essere vivente» (nefeš h. ayah: Gen 2,6). Nella tradizione jahvista il termine «respiro» (nešamat) connota la dimensione specifica dell’uomo (cf. Gb 33,4; 34,14; 32,8; 37,10; 4,9; 2Sam 22,16; Sal 18,10; Is 30,33). Le due espressioni evocano l’idea di un dinamismo che si concretizza nel «desiderio di vita»: il dono nativo della vita che il Creatore realizza nel cosmo e nell’uomo che è «a sua immagine e somiglianza», diventa «desiderio di vivere». Scrive A. Bonora: Dio plasmò l’uomo con argilla del suolo, ma l’uomo non è soltanto polvere. Dio mette in lui un «respiro di vita» (nišmat h. ayyim) e l’uomo diventa un «essere vivente» (nefeš h. ayyah). Nefeš è un termine che indica tutto ciò che è strettamente connesso con la vita: può designare la gola (per es. in Sal 107,9), il collo (per es. Sal 105,18), il desiderio (per es. in Gen 34,2), l’anima/animo (per es. in Es 23,9). Il senso fondamentale di nefeš designa la radice o la forza vitale di un essere, da cui deriva anche il senso della vita (per es. in Pr 8,35-36; Gn 4,3).

In quanto desiderio, l’atto di vita porta in sé una progettualità che si estende oltre l’esperienza della morte. La vita che oltrepassa il limite della morte costituisce una prospettiva presente nella stessa categoria biblica della vita. Le tradizioni bibliche sviluppano l’idea della vita come dono prezioso e realtà sacra riguardo al futuro del­l’umanità e al superamento della morte. Il Dio creatore «amante della vita» (Sap 11,26) rivela il valore incommensurabile del vivere, mediante la sua «benedizione» (Gen 1,22.28). La benedizione contiene una notevole valenza progettuale per l’uomo e il cosmo, nel senso che si apre al compimento futuro e può essere interpretata sia sul piano storico sia su 171

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Parte II  -  Teologia biblica: traiettorie

quello escatologico. Allo stesso tempo il possesso della vita si realizza nella precarietà, in quanto gli uomini sono soggetti alla morte. La vita è legata al respiro, cioè a un soffio fragile, indipendente dalla volontà e che un nulla basta a spegnere. L’uomo non deve dimenticare che il dono della vita dipende da Dio (Is 42,5): è lui che fa morire e fa vivere (Dt 32,39; Sal 104,22ss). Per questa ragione le immagini che accompagnano l’esistenza umana sono spesso collegate con la brevità (Gb 14,1; Sal 37,36): la vita è come un vapore (Sap 2,2), come ombra (Sal 144,4), segnata dal limite degli anni (Gen 6,3; Sir 18,9; Sal 90,10), talmente caduca da apparire un nulla (Sal 39,6). Nonostante la sua fragilità, la vita umana ha origine da Dio (Gen 2,7; Sap 15,11) e solo a lui è dato di ritirarla (Gb 34,14s; Qo 12,7; cf. Qo 3,19s). Per questa ragione Dio prende sotto la sua protezione la vita dell’uomo e vieta l’uccisione (Gen 9,5), cominciando dal racconto di Caino e Abele (Gen 4,11-15) fino all’esplicito comandamento di «non uccidere» (Es 20,13). Persino la vita dell’animale ha qualcosa di sacro; l’uomo si può nutrire nella sua carne a condizione che ne sia stato fatto uscire tutto il sangue (Lv 17,11), sede dell’anima vivente che respira (Gen 9,4). Nella stessa logica del dono vitale va interpretato l’atto sacrificale mediante lo spargimento del sangue delle vittime offerte a Dio. Pongo davanti a te la vita (Dt 30,15)

Un singolare sviluppo del valore della vita come dono si individua nella teologia della Legge, i cui comandamenti sono considerati una «via della vita». La riflessione deuteronomistica sulla «doppia via» (cf. Dt 30,15-20) segna un punto di arrivo della consapevolezza religiosa di Israele. Dio pone al cospetto del suo popolo una doppia via: la vita e la morte, 172

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Cap. 4  -  Traiettoria antropologica

mostrando come la vita costituisca un dono prezioso che ha le sue leggi e implica un impegno fattivo nel presente, in vista del futuro. L’invito rivolto al popolo nelle ultime parole di Mosè (cf. Dt 30,15-16) apre la prospettiva del suo futuro di responsabilità e di speranza di fronte alle promesse di Dio: Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male. Oggi, perciò, io ti comando di amare il Signore, tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva e ti moltiplichi e il Signore, tuo Dio, ti benedica nella terra in cui tu stai per entrare per prenderne possesso.

Il motivo che collega la vita con l’osservanza della Legge si ripropone spesso lungo la tradizione di Israele. Colui che osserva le leggi e le usanze di Yhwh troverà la vita (Lv 18,5; Dt 4,1; cf. Es 15,26) e il numero dei suoi giorni sarà pieno (Es 23,26; Bar 3,14). Seguire le vie dei comandamenti significa praticare la giustizia che conduce alla vita (Pr 11,19; cf. Pr 2,19s); mentre il giusto vivrà per la sua fede (Ab 2,4), gli empi saranno cancellati dal «libro della vita» (Sal 69,29). I motivi sapienziali fondono insieme espressioni storiche e metafore escatologiche, tra cui il «libro della vita», il giudizio finale di Dio, le immagini della beatitudine paradisiaca, la «nuova terra promessa». Sia nelle tradizioni del Pentateuco, che in quelle profetiche si coglie la consapevolezza che la vita dell’uomo sulla terra è strettamente collegata a Dio e i beni che egli riceve provengono dalla Sua provvidenza. È Dio «la fonte di acqua viva» (Sal 36,10; cf. Pr 14,27) e il «suo amore vale più della vita» (Sal 63,4). Per questa ragione il desiderio della vita si traduce in desiderio di Dio e l’anelito dell’uomo porta in sé l’aspirazione a condividere la vita divina oltre 173

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Parte II  -  Teologia biblica: traiettorie

ogni altro bene. Il dono della vita diventa «desiderio di vita» e a sua volta il «desiderio di vita» si proietta nell’attesa di una vita piena e felice, che oltrepassa i limiti della sofferenza e della morte. In questo senso è possibile interpretare il percorso concettuale di diverse preghiere bibliche contenute nel Salterio e delle varie figure profetiche e sapienziali. La felicità dell’orante sta nell’abitare per tutta la vita nel tempio del Signore, dove un giorno vale più di mille anni (Sal 84,11; cf. Sal 23,6; 27,4): la gioia più grande sarà quella che il giusto sperimenta dopo la sua morte (Sal 16). Allo stesso modo nella predicazione profetica si sottolinea che la vita per l’uomo consta nel «cercare Yhwh» (Am 5,4; Os 6,1s). Non è bene che ’Adam sia solo (Gen 2,18)

Nei racconti delle origini la presentazione di ’adam (= uomo) è collocata all’interno di una rete di relazioni. Si possono distinguere tre relazioni, che definiscono l’identità dell’uomo: a) la relazione con Dio-creatore; b) la relazione con il mondo creato; c) la relazione con Eva. «La benedizione divina qui non è intesa come un premio dovuto all’adempimento di un comando, ma è la conseguenza del patto di amore. La vita e l’accrescimento del popolo saranno il segno che il patto sussiste e che la benedizione divina è diventata realtà» (R.P. Merendino). ❑❑Nella

prima relazione si afferma la realtà dell’essere «immagine e somiglianza» di Dio. Si tratta di una caratteristica unica che non si trova nei modelli narrativi dell’antichità. L’uomo non è né un «dio decaduto», né una particella di spirito piovuta dal cielo in un corpo. Nella sua essenzialità il racconto presenta ’adam come una «creatura libera» che è in relazione costante ed essenziale con Dio. Nato dal-

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Cap. 4  -  Traiettoria antropologica

la terra, egli non è limitato a essa; la sua esistenza è sospesa allo spirito di vita che Dio gli inspira. In questo senso ’adam diventa allora «anima vivente»: si definisce come essere personale e allo stesso tempo sperimenta una vitale dipendenza da Dio. Il racconto biblico presenta la natura umana, strutturata fin dall’origine in una relazione «religiosa», senza dualismi né precomprensioni immanentistiche. Dopo aver descritto il «composto» somatico-spirituale dell’essere creato e l’ambiente vitale che permette lo sviluppo dell’esistenza (il simbolo del «giardino»), il narratore introduce il dialogo del Creatore con Adamo con cui si apre la relazione: si tratta del divieto di mangiare dell’«albero della conoscenza del bene e del male» (Gen 2,16-17). La percezione della propria autonomia nasce dall’esperienza del limite, dalla scoperta dell’alterità, dall’incontro con «colui che è di fronte». ’Adam comprende di essere chiamato alla vita in una relazione di obbedienza di fronte al volere del Creatore. In questa precisa distinzione si colloca lo «spazio di libertà» dell’uomo e del suo progetto di realizzazione. ❑❑La

seconda relazione, che concerne il rapporto con il mondo creato, è introdotta dal motivo della «solitudine», che il Signore intende risolvere mediante la creazione degli animali (Gen 2,18-20). Dio pone l’uomo in una creazione bella e buona (Gen 2,9) per coltivarla e custodirla. Presentandogli gli animali Dio vuole che Adamo esprima la sua sovranità su di essi, dando loro il nome (cf. Gen 1,28-29). In tal modo si richiama l’idea che la natura non dev’essere divinizzata, ma dominata, assoggettata. Allargando la prospettiva della relazione con il cosmo si coglie la responsabilità di conservare e trasformare il mondo mediante l’opera del lavoro umano. Nell’atto creativo l’essere umano (maschio e femmina) non riceve 175

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un ordine ma una benedizione: la specie umana si moltiplicherà dando origine ad altri popoli e riempirà la terra, esercitando su di essa il governo (Gen 1,28). Non si tratta di un brutale sfruttamento ma di una relazione finalizzata a proseguire la volontà divina di ordinare il mondo e di vincere le forze del caos. In definitiva l’essere immagine di Dio non segna una frattura tra l’uomo e il creato, ma genera una collaborazione mediante il dinamismo del lavoro. ❑❑La

terza relazione riguarda la relazione con Eva e più in generale la dimensione sociale e affettiva dell’essere umano. Nei racconti genesiaci la donna come l’uomo costituisce la riproduzione vivente dell’immagine e della somiglianza con Dio (cf. Gen 1,27). Le immagini evocate nel racconto di Gen 2,22-24 sottolineano come la bipolarità sessuale è parte essenziale dell’essere umano. Come tale l’uomo e la donna sono stati creati per relazionarsi in perfetta uguaglianza di dignità e di natura. Per completarsi e integrarsi l’uomo e la donna hanno bisogno l’uno dell’altra. La differenza fondamentale dei sessi è a un tempo il tipo e la fonte della vita in società, fondata non sulla forza ma sull’amore. Dio intende questa relazione come un «aiuto reciproco»; e l’uomo, riconoscendo nella donna, che Dio gli ha presentata, l’espressione di se stesso, si dispone alla pericolosa uscita da sé che è costituita dall’amore. Un ulteriore simbolo è rappresentato dalla nudità originaria che non produce vergogna. In questo contesto primordiale la relazione sociale è ancora senz’ombra, perché la comunione con Dio è totale e splendente di gloria.

Dove sei? (Gen 3,8)

La relazione vitale che Dio instaura con la prima coppia costituisce il fondamento della progettualità 176

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Cap. 4  -  Traiettoria antropologica

antropologica e la garanzia dell’armonia cosmica. Tale relazione viene rimessa in discussione per via della condizione di fragilità dell’essere umano. Il racconto del primo peccato in Gen 3 e le conseguenze che ne derivano all’essere umano determinano una situazione radicalmente diversa dell’essere personale nel mondo e nella storia. Tra i motivi ricorrenti nella presentazione dell’antropologia biblica spicca quello della «fragilità», collegato alla «caduta originaria». I simboli biblici sono molto espressivi nella loro connotazione popolare. Il processo di alienazione dell’identità personale e relazionale nasce da un errore progettuale determinato e sollecitato dall’«esterno». Una forza incontrollata e alternativa al cosmo s’impone alla «coscienza» della coppia e ne determina una ferita mortale. Nel giardino (immagine del cosmo) la coppia disobbedisce a Dio e innesca un caduta primordiale irreversibile. Nel racconto jahvista di Gen 3 si presenta la dinamica della tentazione previa da parte del «serpente» simbolo del male (più avanti indicato con «Satana») nei riguardi dell’uomo e della donna. Nel dialogo con la donna il serpente «astuto» illude e provoca la donna a immaginare un progetto che oltrepassa la relazione con Dio. Diventare «dio» di se stessi, interpreti assoluti della propria storia, giudici e padroni del tempo e dello spazio. L’attrazione fatale che accompagna il discernimento della coppia e definisce l’azione della disobbedienza lascia il posto alla delusione mortale di sentirsi «soli» e «nudi» (Gen 3,7-8). Nella condizione di peccato l’essere umano cerca se stesso e la sua ragione di vita. Il serpente tenta l’uomo cercando di volerlo far porre allo stesso livello di uguaglianza con Dio. Prima Eva e poi Adamo cadono nel peccato, che consiste nell’alienante autoaffermazione di se stessi dinanzi a Dio. Per questo il primo peccato è «tipo» di ciò che nel fondo è ogni peccato. Si deve sottolineare che la 177

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Parte II  -  Teologia biblica: traiettorie

rottura dell’amicizia originale ha luogo solo con l’intervento della libertà umana, per cui non si tratta di un destino fatale per l’uomo. Il racconto introduce la figura di Dio che cammina nel giardino e cerca l’incontro con l’uomo, chiamandolo: «Dove sei?» (Gen 3,8). In questa relazione si condensa la questione antropologica più profonda e drammatica dell’essere umano alla ricerca di senso. L’uomo peccatore, dunque si nasconde da Dio e non riconosce la sua colpa, scaricandola sulla donna, la quale a sua volta incolpa il serpente. Il dialogo con Dio si trasforma in una requisitoria giudiziale (Gen 3,10-12). Si prende gradualmente coscienza della fragilità con la quale l’essere umano si relaziona con il suo progetto di felicità. Il giudizio che segue ha una doppia funzione: il ristabilimento dell’ordine cosmico e la coscientizzazione della dimensione creaturale dell’essere umano. La punizione per il peccato è l’espulsione dal paradiso, la perdita della pace e dell’amicizia con Dio e con il mondo (cf. Gen 3,14-19). Il ristabilimento della «giustizia» implica la nuova relazione di Dio con l’uomo. Dio confeziona tuniche di pelli per Adamo ed Eva e apre loro la strada verso un futuro «oltre il giardino». In questa nuova situazione si trovano i primi uomini e la loro discendenza. La dimensione del peccato pervade le relazioni familiari (Caino e Abele: Gen 4,1-16) e tribali (Gen 4,17-24) fino a estendersi alle successive generazioni (Gen 6,1-4). In definitiva il dramma della colpa originaria dà inizio a una «storia» segnata dal peccato. Seguendo la narrazione genesiaca il «peccato» prosegue allargandosi, prima ai figli e in seguito a una cerchia sempre più estesa. Il racconto del diluvio universale e della torre di Babele delineano l’orientamento dell’umanità che pretende di innalzarsi allo stesso livello di Dio. A partire da Adamo ed Eva inizia il concatenamento di avveni178

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Cap. 4  -  Traiettoria antropologica

menti peccaminosi. Le conseguenze del peccato provengono dallo stato di allontanamento da Dio, in cui si trovano tutti i «figli di Adamo». Solo in tal senso si può parlare di peccato che proviene dalle «origini» e che si promana lungo la storia, avendo presente che il testo di Gen 3 non fa emergere che il peccato di Adamo si trasmetta per generazione. In questo quadro, tra libertà «decaduta» e libertà «redenta» la persona umana è chiamata sia singolarmente che comunitariamente a fare «alleanza» con Dio. 2. Profili dell’Antico Testamento

Più che un trattato di antropologia, nei racconti biblici vengono ritratti profili di uomini e di donne che illuminano la realtà della persona umana e ne caratterizzano l’identità spirituale e relazionale. Fermiamo la nostra attenzione su alcuni aspetti collegati alle figure di Abramo, Mosè Giuditta e Giobbe. La presentazione letteraria e teologica del loro profilo risulta utile per cogliere una visione globale della traiettoria antropologica presente nell’Antico Testamento. Abramo

La figura di Abramo è così fondamentale nella narrazione biblica da costituire una svolta decisiva per la stessa storia dell’umanità. Essa pone fine a un progressivo allontanarsi dell’uomo da Dio e segna l’inizio del suo ritorno al Signore. Con l’umile sottomissione di Abramo e dei patriarchi a Dio, la storia della disobbedienza e della maledizione, iniziata nel giardino in Eden (cf. Gen 3,17), si muta in storia dell’obbedienza e della benedizione (cf. Gen 12,13). Il profilo antropologico del primo grande patriar179

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ca esalta la dimensione misterica della fede. L’essere umano di fronte all’appello imprevedibile di Dio risponde con una obbedienza assoluta e incondizionata. Con la sua parola creatrice Dio irrompe nella vita di questo arameo errante e lo trasforma da politeista in monoteista, per fare di lui il padre di tutti i credenti (cf. Rm 4,11-12). Con Abram si inaugura una modalità nuova nel dialogo di amicizia di Dio con l’umanità. Il Creatore vuole aiutare l’uomo a entrare in se stesso, per meglio comprendere il disegno inscritto nella sua stessa natura attraverso una serie di interventi, che lo illuminano e lo sospingono ad agire in quella direzione. Scelto da Dio con una sua libera e gratuita iniziativa, Abram viene da lui mandato ad adempiere un compito preciso: quello di porre le basi del popolo eletto. Ripercorrendo l’intero ciclo narrativo racchiuso di Gen 11,27-25,11, si comprende come credere per Abram rappresenta un «salto di qualità» che implica fatica, audacia, abbandono di sé nelle mani di Colui che lo chiama. Abram, il cui nome sarà trasformato in Abramo (cf. Gen 17,5) è l’uomo che vive la fatica di credere soprattutto nel mistero della sua paternità e della maternità di Sara sua moglie (a cui Dio cambia il nome, da Sarai a Sara, cf. Gen 17,15). In modo particolare Abramo deve fare i conti con il limite del tempo: la sua fede non consiste nel fare, ma nel saper attendere. La progettualità antropologica dell’esistenza del patriarca si manifesta in tutta la sua paradossalità: uscire dal proprio paese per una nuova terra che gli è straniera, costruire una nuova relazione con gli abitanti di Canaan, riorganizzare la propria vita e quella della sua famiglia secondo il volere di Dio: per Abramo credere significa «ricominciare». Il racconto biblico fa emergere la condizione umana di Abramo di fronte a un progetto più grande. In questo senso Abramo è modello per eccellenza della fede. 180

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Mosè

La figura di Mosè è tematizzata nel panorama anticotestamentario come il profeta leader e la guida dell’esodo, evento di liberazione e di alleanza. La sua rilevanza domina non solo il filo narrativo del Pentateuco, ma viene rievocata ampiamente nel Salmi e nei libri profetici. Il nostro interesse verte sul profilo antropologico e sul ruolo-chiave dell’evento dell’esodo. A differenza di Abramo, che obbedì a Dio in modo incondizionato, la figura mosaica testimonia una processo di maturazione lento e ambivalente, contrassegnato da debolezze, da ribellioni e da confessioni di fede. Mosè vive un «esodo dentro l’esodo» e la sua condizione di perseguitato lo accompagnerà lungo l’intero arco della sua esistenza. Considerando il filo narrativo che percorre l’intera epopea della liberazione di Israele, va sottolineata l’ambivalenza dell’esperienza esistenziale del profeta-liberatore. Mosè è l’uomo che confida in se stesso e che sperimenta l’incostanza e la debolezza della fede. In questa incredulità si genera l’insicurezza e la radice di ogni resistenza. Significativa quanto enigmatica è l’interpretazione dell’epilogo della sua missione: Dio non gli permetterà di entrare nella terra promessa, perché la sua fiducia ha traballato (cf. Nm 20,3-13; Dt 1,37-38). Nei racconti del Pentateuco – con echi nel resto dell’AT ‒ la presentazione di Mosè si riflette in molteplici sfaccettature, che si possono riassumere nel ruolo generale di «mediatore». Mosè appare il «servo» di Yhwh per antonomasia e non si arroga mai il ruolo di protagonista dell’esodo, che spetta al Signore. La sua funzione mediatrice è inseparabile dal suo primario ruolo profetico. Pur non essendo mai chiamato sacerdote ‒ come lo sarà suo fratello Aronne ‒ Mosè ne anticipa in sé tutte le caratteristiche paradigmatiche. 181

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Un secondo aspetto dell’identità mosaica è definito dall’evento della liberazione. Mosè è il liberatore, lo strumento mediante cui Yhwh realizza l’evento fondamentale dell’esodo, che fonda la nascita d’Israele. Egli si staglia in tutta la sua potenza nel prodigioso passaggio del Mare dei Giunchi. Egli è il primo a passare dalla paura alla fede perché gli israeliti possano approdare alla sponda della libertà e credere «in Yhwh e nel suo servo Mosé» (Es 14,13.31). La tradizione biblica attribuisce all’eroe dell’esodo la funzione di «legislatore e di giudice». Mosè è il legislatore, perché al Sinai egli comunica e «trascrive» le leggi che Dio stesso ha scritto e ordinato (Es 24,4.12; 31,18; 32,16: 34,1) ed è la sua autorità a garantire l’intera legislazione e la sua legittima interpretazione (Dt 4,2; 13,1), fonte di vita per Israele (Sir 45,1-5). Tale funzione si combina a quella di giudice nelle questioni concernenti la vita del popolo (cf. Es 18; Nm 27; Nm 36). Un terzo aspetto è collegato al ruolo di intercessione. Con la forza della preghiera (Es 17,8-15) Mosè può vincere ogni ostilità insormontabile e donare speranza ai figli d’Israele che vagano nel deserto. Egli è l’intercessore che sostiene sia i diritti di Dio che le suppliche del popolo. Mosè intercede per il popolo presso il faraone (Es 5), poi per lo stesso faraone presso Dio durante le piaghe (Es 8,4.24; 9,28; 10,17; 12,32). L’intercessione decisiva è indubbiamente quella che segue l’apostasia del vitello d’oro (Es 3234), dove Mosè si «erge sulla breccia» (Sal 106,23) e «addolcisce il volto di Yhwh» (Es 32,11; cf. Gen 8,21). Diversamente da Aronne che addossa la colpa al popolo (Es 32,21-24), Mosè chiede a Dio di caricarsi della colpa degli israeliti, pronto a fungere da capro espiatorio a favore del suo popolo. Pur solidale, Mosè esige dal popolo la fedeltà all’alleanza e il pentimento, che determina l’esclusione da ogni connivenza con il peccato (cf. Es 32,25-29; Nm 25; Dt 28-29). 182

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In definitiva il pastore che guida il popolo verso la libertà è definito dalla tradizione biblica l’amico di Dio, capace di rifletterne la gloria in mezzo al suo popolo. Per questo viene presentato come il confidente di Yhwh (1Re 8,56; Sal 103,7; Gv 9,29). Ciò avviene in virtù della particolare intimità di cui egli gode. Nella Bibbia solo di Mosè si dice che Yhwh lo «conosce per nome» (Es 33,12-17) e parlava con lui «faccia a faccia» (Es 33,11; Dt 34,10), o «bocca a bocca» (Nm 12,8). Si vuole intendere non tanto una visione fisica, ma un’udienza riservata, senza intermediari, analoga ad un «tu per tu» che un sovrano concedeva a persone fidate (cf. Ger 32,4; Est 4,1011). È questa esperienza intima che trasfigura il volto di Mosè (Es 34,29-35), come anticipo della gloria divina che inabiterà Israele. Il volto di Dio traspare in quello di Mosè a vantaggio del popolo che lo interroga sulla propria vita; Israele non deve deformarlo nelle corna di un muto vitello idolatrico, ma ritrovarlo nei coni raggianti della fisionomia del suo servo per riviverne l’entusiasmo (Sal 34,6). In modo analogo alla nascita anche la morte di Mosè è speciale. Secondo la tradizione biblica, Mosè non entra nella terra promessa a causa di una mancanza di fede o trasgressione che resta enigmatica (cf. Nm 20,12; 27,14; Dt 3,26). A lui viene concesso solo la possibilità di intravederla, dall’altra parte del Giordano (Dt 34,1-4). Il fatto che egli muoia fuori dalla terra promessa, ridimensiona la mèta, per mettere l’accento sul suo rapporto con Dio, che è la vera terra. Questo poteva suonare essenziale per i lettori originari del Pentateuco che erano in esilio o nella diaspora. Nell’introduzione alla sua opera su Mosè M. Buber annota: Ciò che per noi è tanto importante nel Dio di Mosè è l’unione che gli è propria di qualità e attività. Dio 183

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è colui che guida l’esodo, il capo, il comandante in battaglia, il principe del popolo, il legislatore, e il dispensatore di un grande messaggio; egli agiste sul piano storico, sui popoli e tra i popoli; a lui interessa il popolo, pretende da esso che diventi completamente il «suo» popolo, un popolo «santo», cioè un popolo la cui vita totale sia santificata dalla giustizia e dalla fedeltà, un popolo per Dio e per il mondo. Ma egli stesso è tutto questo ed egli lo compie come un Dio che appare, interpella, si manifesta. Egli è invisibile e «si lascia vedere» e lo fa di volta in volta a sua scelta nei diversi fenomeni naturali o negli eventi storici; agli uomini ai quali si rivolge annuncia la sua parola rivelandosi dentro di loro, ed essi diventano la «bocca» di Dio. Egli fa in modo che il suo spirito prenda colui che egli ha scelto e che in quest’uomo e per quest’uomo si realizzi l’opera divina. Per aver percepito Dio in tal modo ed essersi messo al suo servizio Mosè è diventato una forza viva che agisce in tutti i tempi, anche nella nostra epoca che forse come nessun’altra ha bisogno di lui. Giuditta

Toccante testimonianza di un giudaismo perseguitato, il racconto di Giuditta esprime insieme l’orgoglio dell’identità nazionale e l’ansia per la libertà che pervade il popolo eletto sottomesso all’autorità straniera. Il quadro narrativo e teologico del libro presenta il motivo della minaccia dell’identità ebraica e ne canta la lotta attraverso l’astuzia e il coraggio della «donna giudea», che realizza una rinnovata maternità nei riguardi della comunità giudaica. Sia lo sfondo topografico, centrato sulla piccola città di Betulia (collegata all’immagine di «Betel» = casa di Dio), sia lo schema narrativo del «rovesciamento della sorte» rivelano l’azione provvidente di Dio che protegge il suo popolo e ne preserva l’identità contro l’imminente minaccia di distruzione. Il motivo della «donna eroica» che confida in Dio e diventa strumento di sal184

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Cap. 4  -  Traiettoria antropologica

vezza per il suo popolo evoca l’azione risolutrice delle donne ebree come Debora, Abigail, Giaele ed Ester. La storia di Giuditta fa emergere il profondo bisogno di riscatto e di sopravvivenza dell’identità giudaica al cospetto delle nazioni. La traiettoria sociopolitica si intreccia con i motivi teologici e religiosi presenti nel libro, che diventa un esempio epico per le generazioni sottomesse all’autorità pagana e segnatamente al soverchiante processo di normalizzazione ellenistica del popolo della promessa. Sono soprattutto tre i motivi collegati al ritratto dell’anima giudaica proposta nel libro. Il primo motivo è rappresentato dalla scoperta della propria identità a partire dal «rovesciamento della sorte». Infatti la tesi che domina la narrazione presenta Dio che solleva i piccoli e i poveri ed abbassa i potenti che confidano nella loro forza. Israele potrà comprendere la propria identità e la propria missione solo se accoglie e «fa memoria» della logica provvidenziale di Dio che cambia le sorti (cf. Sal 44,18). Lo sconvolgimento prodotto dalla minacciosa avanzata dell’esercito assiro coglie di sorpresa soprattutto la piccola comunità di Betulia, porta che immette nella Giudea, collocata di fronte alla distesa di Esdrelon (Gdt 4,6-7). L’avanzata nemica con lo straordinario potenziale distruttivo rappresenta anzitutto una minaccia all’identità di tutta la nazione ebraica. La «piccola» Betulia è chiamata a una strenua resistenza, mentre il generale Oloferne ne decreta l’assedio (Gdt 7). Tutto il popolo della Giudea invoca Dio e si riconosce nella piccola Betulia. La domanda che pervade la sezione di Gdt 1-7 riguarda il mistero che accompagna l’azione divina: cosa farà Dio per il suo popolo? L’Onnipotente non permetterà la dissoluzione dei giudei, ma interverrà al suo fianco come «prode vittorioso», punendo coloro che si sono messi contro il suo popolo (cf. Gdt 16,17). 185

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Un secondo motivo collegato con il tema dell’identità è rappresentato dal discorso di Achior, il capo degli ammoniti che riconosce la grandezza dei giudei e la potenza del loro Dio (Gdt 5,5-21). Si tratta di un’importante figura di straniero che racconta a Oloferne le origini e la singolarità di Israele. Va rilevato come il capo ammonita riconosce la presenza di un «progetto di salvezza» che ha come protagonista il Signore (Gdt 5,20). Di conseguenza chi si mette contro i giudei si pone contro Dio stesso. Rileggendo la storia di Israele, Achior sa di mettere la propria vita in pericolo; tuttavia non può fare a meno di dire la verità (cf. l’esempio di Balaam: Nm 22,22-24,25). L’esito della sua vicenda sarà positivo: il capo ammonita verrà consegnato nelle mani dei cittadini di Betulia perché condivida il destino di morte che attende i giudei. L’accoglienza di Achior da parte di Betulia simboleggia il cambiamento avvenuto nel personaggio: da nemico diventa amico del popolo eletto al punto da abbracciare la fede ebraica e essere inserito pienamente nella casa di Israele (Gdt 14,10). Nella seconda parte del libro (Gdt 8-14) Giuditta è presentata come la figura-simbolo che incarna l’anima ebraica e la sua dimensione religiosa. Dalla lettura dei testi si evince come la donna viene presentata come un «simbolo dell’identità»: se la paura e il turbamento hanno prodotto lo smarrimento di Betulia, l’entrata in scena di Giuditta, abile, bella, saggia, piena di fiducia in Dio, ottiene l’effetto contrario. Gli abitanti della cittadina vedono in questa vedova l’azione liberatrice di Dio e attraverso la sua fede ritrovano se stessi. A differenza delle logiche politiche utilizzate dagli anziani e dai capi del popolo, Giuditta dimostra come solo la fede nella provvidenza divina ottiene il trionfo sui nemici. La chiave interpretativa della sua azione è posta all’inizio del discorso, che si apre con la domanda: «Chi siete voi dunque che 186

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avete tentato Dio in questo giorno e vi siete posti al di sopra di lui in mezzo ai figli degli uomini?» (Gdt 8,12). Si tratta della domanda centrale che tocca l’identità religiosa dei giudei: non saranno le armi e le strategie a vincere contro le minacce e le violenze, ma la capacità di affidarsi all’azione liberatrice di Dio. Un ulteriore aspetto è rappresentato dall’identificazione della figura di Giuditta con la città santa. La bellezza della donna giudea richiama lo splendore di Gerusalemme e del suo santuario in cui Dio ha posto la dimora (cf. Gdt 10,8; 15,9). Il racconto termina con il solenne inno di lode a Dio e l’ingresso di Giuditta a Gerusalemme (Gdt 16,18-20), cuore pulsante della storia e della fede giudaica. Giobbe

Un ultimo profilo anticotestamentario è Giobbe. Nel noto libro sapienziale si cela la storia di «ogni uomo» posto nel crocevia del dolore, dell’oscurità, del vuoto. In Giobbe l’uomo sperimenta il silenzio di Dio e l’ansia della ricerca, il desiderio di riscoprire il vero volto di Dio rifiutando tutte le spiegazioni consolatorie. Il silenzio si trasforma in misteriosa parola, il vaniloquio dei consolatori di Giobbe si spegne, appare finalmente il volto di Dio, la vera meta a cui Giobbe voleva giungere. Il terreno minato del male, dove nascono le più terribili disperazioni, si rivela fecondo lasciando trasparire Dio. Un Dio non costruito a immagine dell’uomo, variabile secondo le sue esigenze e conosciuto «per sentito dire», ma finalmente «visto con gli occhi» (Gb 42,5). Questa è la professione di fede di Giobbe che sigilla l’intero libro e la sua personale ricerca. Giobbe fotografa la questione più acuta dell’antropologia: il dramma dell’uomo in conflitto con Dio e immerso nel dolore. Egli è un giusto che soffre 187

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ogni forma di dolore fisico e spirituale e, soprattutto, l’apparente abbandono di Dio. Nel quadro narrativo del libro, egli è messo alla prova da Satana per una scommessa con Dio. Questi, infatti, davanti al Signore ne aveva contestato la giustizia: «Forse che Giobbe teme Dio per nulla? [...] Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e i suoi possedimenti si espandono sulla terra. Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha, e vedrai come ti maledirà apertamente!» (Gb 1,9-11). Il Signore acconsente a provare Giobbe per dimostrarne la giustizia; la sofferenza ha quindi carattere di prova. Il male e il dolore che ricadono su di lui sono stati decisi dall’Onnipotente. Satana non è identificato con l’anti-dio o con il demonio, ma è una creatura funzionale all’introduzione del movimento dialettico nel rapporto tra uomo e Dio. Esso rappresenta anche le difficoltà e le afflizioni umane più segrete. Non ci sono due mondi o due progetti, uno buono e l’altro cattivo, ma c’è una sola creazione, fatta buona da Dio, e un solo progetto divino d’amore, che alla fine ha la vittoria su tutte le forme di opposizione rappresentate da Satana. La riuscita positiva del piano divino dimostra che anche la prova, pur oscura e dolorosa, è compresa nel piano d’amore di Dio. L’amore per l’uomo non è onnipotenza che impedisce il dolore, ma è libertà che dona e toglie senza mai abbandonare. Nel gioco delle due libertà, quella umana e quella divina, il dolore è il prezzo dell’amore, la condizione nella quale l’uomo matura la sua libera dedizione a un Dio buono dentro un mondo limitato. La vittoria sul male/dolore è un atto finale d’amore libero di Dio, a cui l’uomo si affida liberamente. È molto difficile sintetizzare la visione antropologica e teologica intessuta nei profondi dialoghi di Giobbe. Un primo aspetto del dramma è rappresentato dalle posizioni degli amici. Nei loro interventi, es188

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Cap. 4  -  Traiettoria antropologica

si ribadiscono sistematicamente la dottrina teologica tradizionale, quasi un dogma. È la cosiddetta teoria della retribuzione: si soffre perché si è peccato; delitto e castigo sono un binomio inscindibile e sempre verificabile nella storia. Secondo questa diffusa concezione, Giobbe deve riconoscere la sua fragilità creaturale e mortale (Elifaz), la sua fragilità peccatrice inconsapevole (Bildab) e quella conscia (Zofar): fedeltà e benedizione, infedeltà e maledizione sono il meccanismo che spiega l’apparente mistero del dolore (Gb 8). Dio è fedele, l’uomo è ingiusto, quindi da colpire; i tre esempi del papiro, della ragnatela e del rampicante (Gb 8,11-19) illustrano la fede e la giustizia necessarie per non essere condannati da Dio. La ricerca di Giobbe, invece, percorre sentieri diversi. Inizialmente la sua protesta è quella sul male del vivere, scandita nel monologo dal «Perché...?» (Gb 3,11.12.20), in una straziante maledizione della vita. Dio, amici, vita sono visti come forze avversarie che costringono il sofferente a una continua lotta e difesa. L’eccesso di dolore si rivolge anche verso Dio, che trafigge l’uomo senza pietà (cf. Gb 16,13-14). La vita stessa è maledetta e la morte è l’unico spiraglio liberatore. La totale sincerità di Giobbe rasenta la bestemmia. Abbandonato e solitario, non gli interessano le spiegazioni dei teologi, vuole che intervenga il vero responsabile. Col vuoto totale che il dolore gli ha creato intorno, Giobbe vuole soltanto che Dio, almeno alla fine della sua vita, si riveli come difensore pronto a intervenire (Gb 19,1-29), per pronunciare una parola giudicatrice e liberatrice, a riconoscimento estremo della sua innocenza. Finalmente, Dio accoglie la sfida del sofferente. Nella cornice di una tempesta, dopo l’intermezzo di Eliu (Gb 32-37), Dio accetta il dialogo, dando così una svolta alla teologia corrente del sofferente sempre peccatore. Egli pronuncia due discorsi monumentali, dai quali emerge il 189

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mondo delle meraviglie cosmiche, ma anche la sfera delle energie negative caotiche e dei misteri della storia, personificate simbolicamente dal Behemot e dal Leviatan (Gb 40,15- 41,26). Giobbe è come un pellegrino stupito di fronte a questi misteri, mentre Dio li percorre totalmente con la sua signoria onnisciente e onnipotente. La soluzione che Dio propone non è destinata a cancellare lo scandalo del male e della sofferenza innocente; Giobbe, infatti, comprende la sua piccola logica umana e si trova a disagio nell’inutile tentativo di intravedere un’armonia finale del tutto, l’esistenza di un progetto superiore di Dio infinitamente più completo degli schemi umani, capace di collocare tutta la realtà al suo interno. La logica di Dio, diversa da quella umana, ha smentito tutti, sia gli amici che Giobbe, essendo capace di sistemare il dolore nell’arco intero della storia della salvezza. 3. La centralità antropologica della persona di Gesù Cristo

Il quadro riassuntivo emerso dall’Antico Testamento rappresenta l’orizzonte nel quale si esprime l’attesa del compimento messianico. È in Gesù di Nazaret che l’antropologia biblica raggiunge il suo vertice. Nella sua persona e nella sua missione Gesù propone un modello antropologico in cui si realizzano le attese dell’uomo anticotestamentario e viene elaborata la visione della persona umana «redenta» e pienamente rinnovata nell’amore trinitario. Presentando il prigioniero flagellato al cospetto della folla di Gerusalemme, l’evangelista Giovanni pone sulla bocca del procuratore Pilato la densissima espressione antropologica: «Ecco l’uomo» (Gv 19,5). Oltre il contesto evangelico che segna la de190

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cisione di far morire Gesù, il messaggio teologico di questa dichiarazione riassume il percorso rivelativo mediante il quale Gesù ha rivelato se stesso come il «Figlio dell’uomo che doveva patire e risorgere» (cf. Mc 8,31; 9,31; 10,33-34). Gli aspetti antropologici collegati alla visione della persona umana, portatrice di valori inalienabili, come la difesa e il rispetto della vita, della libertà, della verità, della pace, della giustizia, vanno coniugati in rapporto alla rivelazione trascendente che coinvolge la dimensione spirituale della persona e la sua attesa di pienezza escatologica. Antico Testamento e Nuovo Testamento convergono sul mistero di Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo. Nell’opera salvifica realizzata nella morte e risurrezione di Gesù, nel suo insegnamento e nella prassi solidale, viene proposta una chiara visione della persona umana: essa è «compartecipe» del «mistero pasquale». Traiettorie storiche ed escatologiche, contesto socio-cultuale e dimensione religiosa, riflessione sulla realtà terrena e apertura al trascendente si intrecciano negli episodi evangelici e nello sviluppo del cristianesimo primitivo (cf. libro degli Atti degli Apostoli). In questa prospettiva una corretta antropologia «cristiana» non può prescindere dal suo fondamento cristologico, che si basa sul principio-cardine dell’intera rivelazione neotestamentaria: il mistero dell’incarnazione del Verbo (cf. Gv 1,14; Fil 2,6-11). Si possono individuare tre aspetti connessi alla missione di Gesù, il cui ministero pubblico è segnato dalla condivisione e dalla compassione per l’uomo e il suo destino. Il «volto umano» di Cristo

Alcuni tratti del «volto umano» di Gesù ci aiutano a comporre la visione antropologica attestata nella tradizione evangelica. Dai racconti emerge la «di191

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mensione incarnata» e al tempo stesso il «mistero trascendente» che avvolge la persona di Cristo. Egli ha vissuto da «uomo», maturando come tutti gli uomini (cf. Lc 2,52) e ha provato emozioni e sentimenti profondamente umani. Mediante parole e segni Gesù ha inteso presentare se stesso come modello di umanità. L’ammirazione per il valore della fede (Lc 7,9), la gioia per i piccoli e gli umili (Lc 10,21), l’amore che sa guardare dentro il cuore (Mc 10,21), la fatica che lo spinge a domandare (Gv 4,6), la commozione per la morte degli amici (Gv 11,33.35), il senso di paura e di solitudine (Mc 14,33), la volontà di servire (Gv 13,1-20), la forza di perdonare fino all’estremo (Lc 23,33). Dai racconti evangelici non emerge una figura mitica, ma quella profondamente umana di Gesù. In lui si è realizzata la pienezza antropologica universalmente attesa. Il progetto di salvezza

Il programma della missione di Cristo è ispirato dalle attese messianiche annunciate dai profeti. Nella sinagoga di Nazaret, menzionando Is 61,1-2, il Signore presenta il contenuto della salvezza decisamente centrato sulla condizione dell’uomo (Lc 4,18): egli annuncia l’evangelizzazione dei poveri, la liberazione dei prigionieri, la guarigione dei ciechi, la libertà agli oppressi e la proclamazione di un anno di grazia esteso a tutti. Due caratteristiche accompagnano l’annuncio del regno di Dio: l’attività taumaturgica che anticipa nei segni il grande dono della redenzione e annuncia l’imminenza del regno (Lc 11,20); l’apertura messianico-escatologica del dono gratuito della salvezza universale per i peccatori e i poveri (Lc 19,910; 23,43). Il cammino di Gesù verso la sua passione è un richiamo insistente all’evento della redenzione per la quale si esige l’adesione al pieno compimento 192

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della volontà del Padre (Lc 2,49; 4,43; 9,22; 13,33; 17,25; 21,9; 22,37; 24,7.26.44). In questa linea vanno correttamente interpretati alcuni aspetti antropologici: Gesù diventa «amico» dei peccatori (Lc 7,34) e non teme di avere contatti con loro (Lc 5,27.30; 15,1-2), rivelando che essi sono i privilegiati di Dio in virtù del loro pentimento (Lc 15,1-32) e della longanimità divina (cf. Lc 13,6-9 con Mt 21,18-22) e proponendo come modello del credente la sincera conversione del cuore e la giusta e intima relazione con Dio nella preghiera (Lc 18,10-14). È sempre alla luce della salvezza che Gesù accorda il perdono non solo al paralitico (Lc 5,20), ma anche alla peccatrice (Lc 7,36-50) e ai responsabili della sua morte (Lc 22,61); il suo sguardo misericordioso commuove e converte Pietro (Lc 22,61), strappa dalla morte il ladrone pentito (Lc 23,39-43). La pienezza dell’amore e lo stile della solidarietà

Un ulteriore elemento antropologico deve essere visto nell’attenzione alla povertà, contraddistinta non solo dall’aspetto spirituale, ma anche per la prassi solidale (Lc 1,46-55; 6,20-26; 16,19-31). È Gesù stesso a essere presentato in contesti di povertà: alla sua nascita lo adorano i pastori (Lc 2,8), al tempio Maria e Giuseppe fanno l’offerta degli umili (Lc 2,24), nella sua missione egli non possiede nulla (Lc 9,58). Nella predicazione Gesù definisce «beati» i poveri e infelici i ricchi: i primi entreranno nel regno mentre i secondi verranno esclusi, perché tesaurizzano per se stessi e non in vista di Dio (Lc 12,21). In questa ottica ciascun discepolo del Signore deve potersi confrontare con la beatitudine della povertà e saper mettersi nello stato dei poveri per seguire fino in fondo il Cristo, liberandosi dei propri averi (Lc 14,33; 18,22). 193

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In definitiva l’evento salvifico compiuto da Gesù si esplica come liberazione dal peccato, dalla malattia, dalla morte e dal potere diabolico, ma perché questo possa realizzarsi è necessaria la fede personale che nasce dall’incontro con il Cristo risorto. In tal modo ciascun uomo «potrà vedere la salvezza di Dio». La connotazione cristologica dell’antropologia neotestamentaria si sviluppa nella successiva missione della comunità cristiana, che si apre alla predicazione in ossequio al comando del Risorto di andare e di «fare discepole tutte le nazioni, battezzando...» (Mt 28,18-20). 4. Profili del Nuovo Testamento Maria di Nazaret

Maria di Nazaret è da sempre considerata come una delle figure più alte di tutta la Bibbia. La sua presentazione riveste un’importanza notevole anche per la riflessione antropologica nell’ottica femminile. Maria è colei che ha adempiuto le parole del Signore nella risposta pronta e generosa alla volontà divina. È lei la donna che all’annuncio dell’Angelo ha saputo rispondere con coraggio: «Ecco la serva del Signore» (Lc 1,38). A Cana di Galilea affida agli uomini il comando prezioso, ma impegnativo, di seguire il Figlio: «Fate quello che vi dirà» (Gv 2,5) ed è lei che ai piedi della croce, per il testamento d’amore del Figlio di Dio, estende la sua maternità a tutti gli uomini. In lei si rende visibile il modello femminile di donna credente da imitare e da seguire. Il Nuovo Testamento non ritrae spesso la figura di Maria. Ella compare in circa dieci contesti, presente accanto al figlio e accompagna l’esistenza terrena del figlio e della chiesa nascente con la sua presenza e il suo nascondimento. La troviamo in modo esplicito nei racconti dell’infanzia (annuciazione, visitazione, 194

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natale, presentazione, fuga in Egitto, rientro a Nazaret) e durante la vita pubblica di Gesù (Cana di Galilea, durante la predicazione di Gesù, e ai piedi della croce). Dopo la risurrezione la Vergine è con gli apostoli a Gerusalemme. In primo luogo troviamo Maria a Nazaret, piccolo villaggio della Palestina, quando Dio inviò l’arcangelo Gabriele ad annunciarle l’incarnazione del Figlio nel suo grembo verginale (Lc 1,26-38). La ritroviamo in cammino verso la cugina Elisabetta dove mostra il suo grande, ma nello stesso tempo umile, spirito di servizio e dove viene esaltata come la «benedetta fra tutte le donne» (Lc 1,39-56). La incontriamo accanto a Giuseppe che è titubante per quanto accaduto (Mt 1,18-25) e la incontriamo di nuovo in cammino verso Betlemme dove avverranno per lei i giorni del parto. A Betlemme darà alla luce il figlio e riceverà l’omaggio dei pastori e dei Magi (Lc 2,1-21; Mt 2,113). La vediamo nel presentare il figlio al tempio dove rimane turbata, ma sempre fiduciosa in Dio, per la profezia del santo vecchio Simeone (Lc 2,22-38). La notiamo preoccupata per la minaccia di Erode (Mt 2,13-18) e per lo smarrimento del figlio a Gerusalemme (Lc 2,41-52). In questi avvenimenti e in tutta la sua vita accanto al figlio, Maria «serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19). Tornata a Nazaret dopo la permanenza in Egitto (Mt 2,19-23), svolge il suo ruolo di madre nella crescita e nell’educazione di Gesù e nello svolgimento degli umili lavori domestici in uno stato continuo di docilità alla volontà di Dio. I Vangeli lasciano intendere come Maria avesse trascorso la sua esistenza nella quotidianità della famiglia a Nazaret (Lc 2,39-40). Maria ricompare all’inizio della vita pubblica del Signore, quando insieme a Gesù e ai suoi discepoli è a una festa di nozze a Cana di Galilea (cf. Gv 2,1-12). La incontriamo nel «seguito» del figlio nel contesto 195

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del ministero pubblico (Lc 8,19-21; Mt 12,46; Mc 3,31-35). I testi circa i parenti di Gesù vanno ben oltre la situazione familiare, infatti gli episodi vengono riferiti per un insegnamento fondamentale, ovvero quello della necessità di diventare discepoli. In questa prospettiva anche Maria acquista la vera fisionomia evangelica e trova il suo posto tra coloro che siedono attorno al Maestro e ne ascoltano la Parola. Ritroveremo Maria nei giorni dolorosi della passione e morte di Gesù. Maria compare ai piedi della croce dove, con cuore comprensibilmente straziato, vede morire il figlio che, prima di spirare, le affida l’umanità intera e la invita a estendere la sua maternità a tutto il genere umano (cf. Gv 19,25-30). Infine la troviamo insieme ad alcune donne e agli apostoli, raccolti dopo l’ascensione di Gesù, a Gerusalemme «al piano superiore dove abitavano» (At 1,12). Con la madre di Gesù gli apostoli «erano assidui e concordi nella preghiera» (At 1,14). Alla luce della rivelazione biblica, Maria viene presentata come l’immagine del popolo dell’antica alleanza, ossia Israele, e nello stesso tempo, del popolo della nuova alleanza, ossia la chiesa. Nella teologia patristica Maria è stata denominata la «nuova Eva»: come Eva nacque dal costato di Adamo così la chiesa nacque dal costato del nuovo Adamo ovvero di Cristo sulla croce. La rilettura unitaria della figura mariana nel quadro dei racconti evangelici consente di proporre alcune prospettive antropologiche. Ne delineiamo quattro che contribuiscono a illuminare l’orizzonte teologico entro il quale va compreso il ruolo e la funzione della madre di Gesù, in quanto associata alla missione salvifica di Cristo. – Il dono divino di essere «vergine» e «madre» colloca Maria all’interno della tradizione teologica delle donne «sterili» che per opera dell’Onnipoten196

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te sono divenute madri in virtù di un misterioso progetto di Dio e hanno così sperimentato nella loro vita come l’umiliazione e la povertà si sono tramutate, per opera della fede, in innalzamento e fecondità. – In secondo luogo Maria designandosi come «serva del Signore» di fronte all’invito dell’angelo (Lc 1,38) partecipa come tale al ruolo salvifico del Figlio-servo e si pone come rappresentante dei poveri (’anawîm) e dei perseguitati, figlia della comunità messianica derivata dal «resto di Israele» in attesa della salvezza futura. Così l’accezione di «serva del Signore» racchiude come in una definizione sintetica l’essenza della missione della Vergine, rappresentativa della comunità israelitica fedele alle promesse di Yhwh che rimane in attesa dell’opera divina. – Un terzo aspetto è determinato dalla dimensione della preghiera che in Maria unisce non solo la condizione orante delle donne dell’Antico Testamento, ma più in generale rivela la spiritualità degli umili di Israele e di coloro che attendono il compimento della giustizia finale. Tale modello di preghiera «umile» si associa alla stessa preghiera del Cristo e diventa elemento di unità e fonte di santità per la comunità primitiva (At 1,14). – Infine i racconti evangelici pongono in evidenza la centralità della fede di Maria, la totale disponibilità all’accoglienza della Parola e la dimensione vocazionale e missionaria della sua esistenza di credente. Per tale ragione la Vergine diviene «discepola» del suo Figlio e ne condivide il destino, assumendo la radicalità del distacco evangelico e della rinuncia ai beni nella prospettiva della comunione e della missione della chiesa, di cui diviene madre (Gv 19,25-27). 197

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L’intera esistenza di Maria descrive un profilo antropologico che, partendo dalla verginità-maternità nell’annunciazione, attraverso le figure dinamiche del «servizio», della «preghiera» e del «discepolato», culmina nella «maternità» vissuta ai piedi della croce del Figlio e conseguentemente nella vita della chiesa. Paolo di Tarso

Paolo è la figura di chiamato che più spicca nel quadro delle origini cristiane, perché ai Dodici aggiunge delle caratteristiche proprie: il suo spessore biografico molto più pronunciato degli altri apostoli nel Nuovo Testamento, e la sua precedente posizione di ebreo integrale che lo ha portato ad agire come persecutore della comunità cristiana e avversario di Cristo stesso. Egli è il personaggio del Nuovo Testamento che ci è noto più di tutti dalle sue lettere e dagli Atti degli Apostoli, due fonti indipendenti che si intersecano e si completano, malgrado alcune divergenze storiche e teologiche. Il coraggio di un apostolo

La personalità di Paolo così come emerge dalle lettere e dagli Atti è poliedrica: carattere appassionato, un’anima di fuoco che si consacra senza riserve a un’ideale essenzialmente religioso. Per lui Dio è tutto e lo serve con una lealtà assoluta, in un primo tempo perseguitando i cristiani in buona coscienza perché li riteneva eretici, poi, conosciuta la verità di Cristo, lo zelo incondizionato è per la causa del Vangelo, per il servizio a Colui che ama. Paolo attraversa travagli, fatiche, sofferenze, privazioni, pericoli di morte: nulla di tutto questo potrebbe separarlo dall’amore di Cristo, piuttosto tutto questo è prezioso perché lo rende «conforme» alla passione e croce del suo Signore. Il sentimento della sua elezione fa sorgere in lui am198

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Cap. 4  -  Traiettoria antropologica

bizioni immense: si attribuisce la preoccupazione di tutte le chiese (2Cor 11,28), dichiara di lavorare più di altri (1Cor 15,10), domanda ai fedeli di imitarlo (2Ts 3,7), non con orgoglio ma con legittima e umile fierezza di un santo. Attribuisce unicamente a Dio le opere che si compiono per mezzo suo (1Cor 15,10; 2Cor 4,7). Anzi all’orgoglio presuntuoso dei suoi oppositori, egli ribatte con la potenza di Dio che si manifesta principalmente nella sua debolezza (2Cor 12,1-10). Rispetta sempre l’autorità dei veri apostoli, ma non ha pietà per i falsi profeti (2Cor 11,13-15). Lasciatevi riconciliare con Cristo

L’esperienza fondamentale che ha determinato l’orientamento del suo pensiero e della sua spiritualità è stata la rivelazione di Damasco, che contiene in sé il mistero della chiamata all’apostolato (At 9,1-19). L’inatteso evento cristologico ha spinto Paolo a riflettere sul ruolo della Legge mosaica e ad aprirsi a un diverso processo di evangelizzare verso tutti i popoli (i gentili). È stato riconosciuto come la cristologia è il «centro» della teologia paolina. Questo Cristo è l’incarnazione del piano salvifico di Dio che include tutti gli uomini, sia i giudei che i gentili; per questo Paolo reinterpreta la giustizia dalla legge nella prospettiva della fede in Cristo. Questa esperienza della grazia riconciliatrice di Dio gli ha permesso di sviluppare la sua particolare dottrina della morte espiatrice di Cristo come opera di Dio che riconcilia il mondo con se stesso in Cristo. Vedere questa immagine del Cristo glorificato come l’immagine di Dio che ha redento l’umanità, ha spinto l’apostolo alla concezione dei credenti come conformati a Cristo e come nuova creazione. Paolo ha accolto il Vangelo in questa esperienza di conversione e tutta la sua teologia deriva da questa dinamica spirituale. 199

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Camminate secondo lo Spirito

Nella sua riflessione antropologica illuminata dall’evento di Cristo, Paolo elabora una visione «realistica» dell’uomo e della donna, a partire dal motivo anticotestamentario della creazione e della condizione «esodale e provvisoria» dell’umanità di fronte alle promesse di Dio. Il punto di avvio della riflessione paolina è incentrato sulla libera iniziativa di «Dio creatore» (1Cor 8,6) e sulla costituzione dell’essere umano «a sua immagine e somiglianza» (1Cor 11,7). Per cogliere la ricchezza unica del pensiero dell’apostolo sul mistero dell’uomo è necessario interpretare il concetto di creazione alla luce della relazionalità Dio-uomo-cosmo. Paolo considera l’uomo sempre posto di fronte a Dio come «persona libera» e allo stesso tempo attratta da quel «bene ontologico» che lo costituisce nella pienezza della vita e lo abilita a prendere posizione nel mondo. Dio ha fatto scaturire la luce dalle tenebre (2Cor 4,6; cf. Gen 1,3), ha dato origine al creato (1Cor 10,26; cf. Sal 24,1) e la «presenza» del creatore continua a governare e a sorreggere il mondo mediante l’intervento della sua provvidenza. L’apostolo sostiene la creazione dell’uomo secondo il modello delle origini (1Cor 11,8-12; 15,45.47; cf. Gen 1,26-27) e applica alcune categorie cosmologiche e antropologiche per definirne la valenza creaturale. La creazione (2Cor 5,17) opera di Dio è di fronte al creatore in modo tale da distinguere senza equivoci i rispettivi ruoli e le differenti dimensioni (cf. Rm 1,25). La creazione presenta un carattere duplice: da una parte è opera di Dio a servizio dell’uomo (1Cor 10,26), dall’altra è segnata dalla creaturalità e dalla caducità (cf. 2Cor 4,7; cf. Rm 1,23; 8,20) e diventa per ciò stesso campo di azione delle potenze negative e demoniache. In questo contesto creaturale si col200

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locano e si comprendono le componenti antropologiche dell’«essere creato», significate nel linguaggio paolino: corpo/anima (sōma/psychē) e carne/spirito (sarx/pneuma). L’apostolo sottolinea mediante diverse locuzioni la situazione dell’essere umano delineando un’antropologia «sfuggente» (R. Penna): il tesoro donato da Dio è conservato nell’uomo come «in vasi di argilla» (2Cor 4,7), segnato dalla caducità (2Cor 4,11), come in condizione di esilio (2Cor 5,6.8), nel desiderio di rivestire il «corpo celeste» (2Cor 5,24). Paolo descrive la creaturalità dell’essere umano di fronte a Dio nella prospettiva della dipendenza, come argilla nelle mani del vasaio (Rm 9,20, cf. Is 29,16) e associa la sua debolezza alla menzogna (Rm 3,4, cf. Sal 51,6; 116,11) dichiarando l’incommensurabilità tra la sapienza e l’onnipotenza di Dio e quella degli uomini, «perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1Cor 1,25). Secondo il vocabolario paolino, corpo e anima possono designare genericamente l’intera persona (1Cor 7,14; 13,3), la totalità della vita che viene offerta come dono (2Cor 4,10), così come l’anima (psychē) in correlazione con l’evento della creazione (cf. Gen 2,7) allude alla vita stessa dell’uomo, alla sua identità personale (2Cor 12,15). Occorre evidenziare il ruolo importante che assume la contrapposizione tra carne/carnalità/carnale e spirito/spirituale, in quanto tali categorie costituiscono l’alveo specifico della riflessione antropologica paolina. L’apostolo, fondando la propria visione soteriologica sul modello della caduta originaria di Adamo ed Eva (Gen 3), conferisce alla condizione dell’esistenza umana una dimensione debole e peccaminosa, accentuando lo stato di radicale subalternità dell’uomo alla potenzialità del peccato e della morte. In tal modo, mentre si stabilisce una netta distinzio201

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ne tra il ruolo somatico del «corpo» e la condizione teologica della «carne», questa, in quanto segnata dall’azione del peccato e della morte (Rm 7,20-24), è in grado di sottomettere la stessa dimensione corporale e mondana delle creature, a tal punto da condurre l’uomo all’umiliazione (Fil 3,21), al disonore (1Cor 15,43), alla concupiscenza (Rm 6,12), all’esistenza minoritaria e negativa resa schiava nel peccato (Gal 5,19-21) e alla morte (Rm 7,24; 8,13). Su tali presupposti si fonda la proposta del modello solidaristico ispirato alla nota tipologia che l’apostolo costruisce sulla relazione Adamo-Cristo (Rm 5,12-21; 1Cor 15,22.45-49). Affrontando la questione della sessualità in 1Cor 6,12-20, Paolo menziona il «corpo» come la «concretezza relazionale» della persona in dialogo con gli altri. In questa ottica si comprende l’affermazione secondo la quale «i credenti battezzati sono membra di Cristo e formano con Lui un solo spirito (1Cor 6,15.19-20). Paolo prolunga la sua riflessione antropologica rispondendo alle domande circa lo stato di vita coniugale (1Cor 7) e la situazione delle donne cristiane nell’assemblea (1Cor 11,2-16), prospettando una «nuova identità» per l’uomo e per la donna fondata sulla relazione vitale con il Signore. L’armonia dell’essere umano, chiamato a fare sintesi e a costruire l’unità del corpo nella molteplicità delle membra (cf. 1Cor 12,12-26) risale all’azione creatrice di Dio. Analogamente Paolo rivela tale prospettiva antropologica aperta al futuro nella riflessione circa le conseguenze della risurrezione di Cristo per l’umanità (1Cor 15,35-49): l’origine e il fondamento della novità antropologica si fonda sull’azione creatrice di Dio che ha risuscitato Gesù Cristo dai morti. Egli rivestirà di immortalità e di incorruttibilità il corpo mortale e corruttibile che viene seminato nella terra (1Cor 15,54). La condizione creaturale dell’uomo 202

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che emerge dalle lettere paoline implica una relazione solidale e imprescindibile con Dio creatore, mediante il Cristo risorto «primizia di coloro che sono morti» (1Cor 15,20). Se il peccato ostacola il processo di unificazione dell’essere umano e lo depotenzia fino a sfigurarlo e ridurlo in una situazione di solitudine mortale (cf. Fil 1,28), l’annuncio del Vangelo della salvezza deve produrre nell’uomo una «nostalgia di riconciliazione» con Dio tale da spingerlo alla conversione, mediante l’azione trasformante dello Spirito del Signore (cf. 2Cor 3,18; 5,18-21). L’unità in Cristo

Una particolare importanza è rivestita da alcune formule paoline, che rivelano la nuova identità dell’«uomo redento» dal Signore: essere «in Cristo» ed essere «con Cristo». Entrambe le espressioni indicano la condizione nuova del credente segnata indelebilmente dal legame e dall’unità con il mistero del Figlio di Dio, crocifisso e risorto. La formula «essere in Cristo», tipica di Paolo si distingue per la sua densità teologico-esperienziale e il suo valore solidaristico. Oltre che possedere un senso ecclesiologico ed escatologico, l’espressione riceve una nuova determinazione che è riassunta nell’identità dell’uomo spirituale, nell’orizzonte della traiettoria antropologica paolina. L’epistolario rivela significativamente la ricchezza della novità antropologica: colui che è in Cristo è una creatura nuova (2Cor 5,17) e tutti i credenti vivono «per Dio in Cristo Gesù» (Rm 6,11); la grazia è donata «in Cristo» (1Cor 1,4) e in lui Dio ha riconciliato a sé il mondo (2Cor 5,19), rivelandoci il suo amore (2Cor 5,14) e la sua chiamata (1Cor 1,26). Tutte le promesse di Dio in lui sono diventate «sì» (2Cor 1,20) e noi siamo in lui «giustizia di Dio» 203

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(2Cor 5,21), santificati «in Cristo Gesù» (1Cor 1,2) e chiamati a operare come uomini liberi (1Cor 10,19; 2Cor 3,17), in lui ci vantiamo (1Cor 15,31) nella consapevolezza che la fatica non sarà vana (1Cor 15,58). Scrivendo ai cristiani di Corinto, Paolo ha presente questa condizione antropologica, su cui si basa il dinamismo della prassi solidaristica. In Cristo-povero, i credenti di Corinto sono chiamati a donare a favore dei bisognosi. In tal modo la cooperazione tra i cristiani, espressa mediante la vita liturgica (preghiera, cena del Signore) e la prassi solidaristica assumono una connotazione storica ed ecclesiale, che definisce in modo unico la realtà della chiesa e il suo impegno verso il mondo e l’uomo. Un’ulteriore peculiarità è costituita dall’impiego originale della particella syn, unita al nome del Cristo e a diversi verbi a cui conferisce un carattere prevalentemente escatologico. L’unione dell’uomo con Cristo viene espressa con i verbi composti: «essere conformi con» (Rm 8,29), «morire-con; vivere con» (2Cor 7,3), «essere sepolto-con» (Rm 6,4), «essere crocifisso-con» (Rm 6,6; Gal 2,19); «essere piantato-con» (Rm 6,5), «essere glorificatocon» (Rm 8,17) a cui va aggiunto il verbo presente nelle lettere deuteropaoline: «risuscitare-con» (Ef 2,6; Col 2,12; 3,1). La novità linguistica contenuta nella forza dei verbi esprime con struggente realismo la dimensione comunionale con il Cristo risorto e prospetta una relazione mistica assolutamente unica del modello di amore tra Dio e l’uomo, che l’apostolo trae dalla sua singolare esperienza cristiana. Conclusione

La traiettoria proposta permette di cogliere una «visione dinamica» dell’antropologia biblica, tenendo conto degli elementi costitutivi della «persona 204

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Cap. 4  -  Traiettoria antropologica

umana» e dei profili narrativi rielaborati in diverse tradizioni letterarie. L’essere umano rappresentato nei racconti della Sacra Scrittura porta in sé l’«immagine e la somiglianza» del Creatore, malgrado il dramma del «peccato» (misterium iniquitatis). All’orgoglio che genera egoismo e violenza, si contrappone l’umiltà che porta frutti di pace e di concordia. Nella chiamata di Abramo l’uomo si apre alla paternità di fronte al «mistero della provvidenza divina». Nella vicenda di Mosè emerge la «responsabilità» per l’uomo e per il popolo oppresso, che invoca la liberazione. Nell’eroismo di Giuditta viene esaltato il coraggio della «donna forte» che genera nuova speranza di futuro per la sua comunità. Nella storia di Giobbe, l’uomo di ogni tempo s’interroga di fronte al dolore dell’innocente, contestando lo scandalo del «silenzio di Dio». Le attese e le domande antropologiche emerse dalla teologia anticotestamentaria trovano compimento e risposta nella persona e nella missione di Gesù Cristo. Nel mistero pasquale viene rivelato il volto del Padre e si manifesta la definitiva e integrale salvezza dell’umanità. L’amore «trinitario», maggiormente esplicitato nella prospettiva teologica giovannea, rappresenta la sorgente da cui prende vita l’uomo e l’intero creato. Il rinnovamento dell’uomo non sarebbe pienamente comprensibile senza la figura della vergine Maria, madre di Cristo e della chiesa. In Maria si manifesta l’ideale della «donna nuova», inserita nel piano della redenzione, come prefigurazione della comunità credente che cammina verso il compimento del tempo. Occorre infine sottolineare come la sistematizzazione dell’antropologia neotestamentaria è opera del genio di Paolo, che rielabora attraverso le culture e tradizioni del suo tempo, il messaggio biblico riguardante la condizione umana e il suo processo di cristificazione. 205

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Parte II  -  Teologia biblica: traiettorie

La dinamica «generatrice» di questa seconda traiettoria è la carità. Nel noto inno paolino (1Cor 13, 1-13) la carità è presentata come «soggetto» che edifica la fraternità mediante relazioni di autenticità e di misericordia. In questa prospettiva possiamo rileggere la traiettoria antropologica, contrassegnata dai profili biblici attraverso i quli si coglie l’attualità del messaggio sull’uomo e sul suo destino di felicità.

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Capitolo 5

Traiettoria escatologica

Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nel(Lc 24,33-35) lo spezzare il pane.

Il nostro percorso teologico culmina con la traiettoria escatologica che illumina il cammino biblico. Si tratta di ripercorrere l’«escatologia biblica» che contiene la riflessione teologica riguardante il «futuro rivelato» da Dio, espresso mediante forme e contenuti diversi e attestati nelle tradizioni letterarie dei libri canonici della Bibbia. Pertanto le categorie convolte nell’orizzonte biblico della riflessione escatologica sono varie: il concetto di «tempo» e di «storia» espresso mediante formulazioni specifiche che comprendono termini come eone, momento, tempo, oggi, ora, istante, giorno, ecc.; l’idea di principio (archē) e di fine (telos); lo schema promessa/compimento; i simboli appartenenti al genere apocalittico. Occorre specificare che il termine escatologia, assente nella Bibbia, è comparso nel XIX secolo e ha gradualmente sostituito quello dei «novissimi». Mentre con la designazione dei «novissimi» la riflessione teologica si limitava a considerare l’individuo nei momenti terminali dell’esistenza e oltre la vita presente, centrando l’attenzione su morte, giudizio, inferno e paradiso, l’e207

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Parte II  -  Teologia biblica: traiettorie

scatologia rappresenta uno sviluppo della riflessione aperta a nuovi orizzonti. Essa «designa la dimensione del futuro in tutti gli aspetti del credere e del riflettere, ingloba la vita individuale, l’intera umanità e il cosmo. L’escatologia pone in relazione la vita umana con l’eschaton, quale compimento dell’intera storia» (B. Marconcini). 1. Come sentinella nella notte

Nell’oracolo isaiano su Duma si legge: «Oracolo su Duma. Mi gridano da Seir: “Sentinella, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte?”. La sentinella risponde: “Viene il mattino, poi anche la notte; se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!”» (Is 21,11-12). L’immagine della «sentinella nella notte» aiuta a cogliere la dinamica della vigilanza in attesa del compimento escatologico, attestata in numerosi racconti biblici. La «notte» che quotidianamente ritorna nel ciclo cosmico simboleggia l’incapacità dell’uomo di conoscere e di controllare pienamente la realtà del creato e le stesse relazioni interpersonali. Essa genera inquietudine, produce domande, offre occasione per pensare «oltre» le possibilità dell’uomo e della sua limitata condizione storica. Da parte sua, la sentinella ha il compito di vegliare sulla sicurezza del suo popolo contro possibili nemici e di annunciare l’arrivo del mattino. Nella dialettica tra inquietudine e fede si colloca il ruolo profetico del credente, che ascolta e proclama la Parola divina tra indifferenze e durezze. Egli non deve stancarsi di ripetere l’invito a credere in Dio in vista della salvezza: «Se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!» (Is 21,12). Tale dialettica costituisce il motivo dominante della speranza che attraversa le tradizioni bibliche e ci aiuta a cogliere l’unità interna del messaggio della Sacra Scrittura 208

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Cap. 5  -  Traiettoria escatologica

La terza traiettoria è costituita da un percorso unitario, mirato a presentare l’orientamento escatologico nell’Antico Testamento come annuncio della «signoria di Dio». Esso trova il suo compimento nel Nuovo Testamento. Il centro della riflessione è dato dalla missione di Gesù Cristo, il quale nel «mistero pasquale» anticipa il futuro (l’eschaton) e inaugura l’attesa della sua parusia (cf. Mt 16,27; 26,64), quando Dio sarà «tutto in tutti» (1Cor 15,28). Considerando la complessità del tema per via delle concezioni escatologiche rielaborate nelle tradizioni bibliche, il metodo che gli autori seguono è quello di segnalare le principali categorie intorno alle quali si definisce la costante futura della «speranza oltre la morte» da parte della comunità di Israele e successivamente la novità dell’avvenimento cristologico e la sua elaborazione teologica neotestamentaria. Sussiste una sostanziale convergenza intorno alle categorie bibliche che indicano la tensione escatologica, attraverso cui si perviene alla configurazione della verità sul destino futuro dell’uomo (la promessa, la speranza, l’attesa messianica, il motivo del giorno di Yhwh, il regno apocalittico, ecc.). Intendiamo porre in rilievo il motivo dominante della «vita oltre la morte», la cui analisi completa le precedenti traiettorie proposte. Tale motivo permette di pervenire a una sintesi finale, da cui emerge una visione unitaria della concezione vocazionale, antropologica ed escatologica della teologia biblica. 2. Antico Testamento

È comune convinzione che la fede ebraica ha conosciuto l’idea della «vita dopo la morte» a cominciare dal II secolo a.C. con l’elaborazione di una consistente letteratura apocalittica. A rappresentare 209

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Parte II  -  Teologia biblica: traiettorie

l’orizzonte dell’escatologia anticotestamentaria si evidenziano due temi teologici: a) la consapevolezza del dono della vita; b) la promessa al popolo da parte di Dio. Entrambi i temi presuppongono l’intervento di Dio che dialoga con l’uomo e sceglie di rivelare il suo amore eterno a un popolo. È importante cogliere in modo essenziale il binomio vita-promessa, che risulta fondante per lo sviluppo della nostra traiettoria. Il dono primordiale

La riflessione biblica prende le mosse dall’atto creativo di Dio. Nella precedente traiettoria antropologica abbiamo evidenziato come l’autocomunicazione di Dio si realizza nella «teologia della creazione». Essa costituisce il dono primordiale, a cui ogni credente deve guardare per rileggere il proprio passato e procedere verso il futuro. Partendo dal «dono della creazione» si possono individuare alcune tappe per la teologia biblica in cui si elabora l’evoluzione della storia di Israele come sviluppo del «dono divino». — I racconti di creazione

Nei racconti di creazione (cf. Gen 1-2) vengono introdotti i temi centrali del dono primordiale, rappresentati dalla vita e dalla sua promessa futura. Al centro della riflessione si colloca l’azione gratuita del Creatore che crea la vita nel suo dinamismo ordinato gerarchicamente. Egli è la sorgente della vita e in lui sussistono tutte le cose. L’uomo e la donna sono di fronte a Dio e alla sua creazione. La traiettoria vocazionale ha posto in evidenza il ruolo progettuale del­ l’atto creativo e la rilettura antropologica ha mostrato come il compimento della creazione costituisce la realtà unica e irripetibile dell’essere umano personale in rapporto con il mondo e la storia. Nel declinare l’aspetto escatologico, l’atto creativo di Dio postula 210

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Cap. 5  -  Traiettoria escatologica

un’ulteriore prospettiva che precede e segue la creazione. La realtà misteriosa del Dio creatore rimane immutabile, mentre il mondo e l’uomo si trasformano, sperimentando progressivamente il limite della caducità. Nell’atto creativo è già presente una finalità escatologica, un «oltre» a cui il credente deve guardare. Se la creazione rende manifesta l’opera di Dio, l’essere umano, che ne è il vertice, vive il desiderio di comunione con il Creatore. Il linguaggio escatologico dell’autore biblico si avvale di metafore spaziali e temporali. Tra le metafore spaziali che ineriscono ai «racconti di creazione» si segnalano il motivo del «paradiso» e il tema del «cielo». Com’è noto il termine «paradiso» (cf. paradeison: Gen 2,8: LXX), derivante dalla tradizione iranica (pardez), designa il recinto del «giardino» denominato Eden. La metafora evoca l’originaria beatitudine, simboleggiata dal giardino protetto e armonico in cui la prima coppia è collocata secondo il progetto di Dio. L’ideale paradisiaco, infranto a causa del peccato, rappresenterà nella letteratura profetica l’oggetto della speranza escatologica. Essa è associata all’immagine della fertilità (Am 9,13; Os, 2,24), della pace (Is 2,4; 9,6) e al prolungamento di una vita beata (Is 51,3; 65,20; Ez 36,35; Zc 8,4). La seconda immagine spaziale presenta il «cielo» come una delle tre parti di cui è composto il creato (il cielo, la terra e il mare). Allo stesso tempo il «cielo» simboleggia il luogo del­l’abitazione di Dio (Sal 113.5; 115,3; 1Re 8,27; 2Re 22,19) e del futuro dell’uomo. — La promessa e la risposta di fede di Abramo

Nella vicenda del patriarca Abramo il dono primordiale della vita è rappresentato dalla «promessa della paternità», che si connette con l’immagine del cielo e del firmamento (Gen 15,1-6). Il racconto genesiaco è importante per lo sviluppo della teologia della promessa. In Gen 15,1-6 l’invito a «non temere» 211

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Parte II  -  Teologia biblica: traiettorie

che Dio rivolge al patriarca permette di cogliere il valore presente e futuro della fede. Pur essendo vincitore di fronte ai suoi nemici, Abramo teme una solitudine. Sara, sua moglie, è sterile. La promessa di Dio, per la quale Abramo ha tutto lasciato, sembra sempre più allontanarsi. Abramo parla al Dio, rivolgendosi con una domanda piena di amarezza: «Che mi darai? Io me ne vado senza figli [...]; a me non hai dato una discendenza e un mio domestico sarà mio erede» (vv. 2-3). In questo dialogo si coglie la fatica di credere e di guardare al futuro. Abramo non ricorda più il «dono primordiale»: egli vive l’oscurità della sua esistenza. La sua vocazione cominciata in un esodo, adesso si trasforma in un’esperienza notturna. Ma Dio lo chiama ancora e lo conduce fuori con questo invito: «Guarda il cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «tale sarà la tua discendenza» (Gen 15,5). Per vincere il dubbio e continuare a credere, Abramo deve uscire dal suo piccolo orizzonte, deve cambiare direzione dello sguardo («guardare le stelle») e deve non dimenticare che la potenza di Dio è grande («conta le stelle, se riesci»). L’atteggiamento del patriarca è l’obbedienza della fede: «Abramo credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia» (Gen 15,6). La forza della fede escatologica di Abramo è racchiusa in queste poche parole: «credette», cioè si fidò ancora una volta; «lo accreditò», che rinvia a un verbo ebraico impiegato dai sacerdoti per testificare che la vittima è senza difetti e, quindi, degna di essere sacrificata nel tempio. Fidandosi di Dio, Abramo ha compiuto il suo sacrificio perfetto; «la giustizia», termine che definisce la relazione fra l’uomo e Dio non solo limitata al presente, ma aperta al futuro. Il dono primordiale accolto nella fede si traduce in un’apertura verso il progetto futuro: Abramo diventa padre del suo popolo e benedizione per tutte le nazioni. 212

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Cap. 5  -  Traiettoria escatologica

— L a speranza del popolo eletto tra vittorie e sconfitte

Abbiamo sottolineato l’importanza della «via della vita», che Yhwh offre al popolo eletto attraverso la stipulazione dell’alleanza e la consegna della Legge (cf. Dt 30,15-20). Il dono primordiale, inteso come atto creativo e promessa di paternità, implica anche per Israele un impegno di fedeltà a Dio in vista del proprio futuro di pace. Israele ottiene la liberazione, entra nella terra promessa ed edifica la propria identità statuale. Tuttavia l’evoluzione della vicenda nazionale della comunità ebraica è presentata tra fedeltà e cadute. Di fronte al «dono primordiale», che implica la centralità della fede in Yhwh, il popolo eletto cade nel peccato di idolatria e sperimenta molti fallimenti che comportano solitudine e sofferenza. La vita donata attraverso la creazione e prolungata nella promessa di paternità, spesso è violata per i peccati del popolo e dei suoi capi, che dimenticano Dio, la sua alleanza e la promessa di beatitudine e di vita. La drammatica situazione nazionale di Israele, le divisioni politiche, il formalismo religioso e la corruzione sociale vengono rilette nella predicazione profetica come una «sconfitta della fede» e uno smarrimento del «dono primordiale». L’esperienza del «limite» della vita, sia a livello personale che comunitario, è contrassegnata non solo dalla storia del peccato e delle cadute che hanno portato alla «morte», ma soprattutto dalla vicenda della distruzione nazionale e dell’esilio babilonese. Venuto meno il riferimento all’istituzione templare, la comunità israelitica rielabora una radicale interpretazione della propria identità religiosa di fronte agli avvenimenti che segnano la lenta e dolorosa ricostruzione nazionale nell’ottica di una nuova comprensione della volontà di Dio. L’interpretazione dell’esilio è collegata al peccato di Israele e a una nuova promes213

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Parte II  -  Teologia biblica: traiettorie

sa, non più fondata sull’alleanza sinaitica, ma su una «nuova alleanza» (cf. Ger 31,31-34 ed Es 36,24-28). Si innesta nel periodo post-esilico un inarrestabile processo ermeneutico che spinge la comunità israelitica a interpretare la propria storia e il conseguente rapporto con Yhwh nella prospettiva della speranza escatologica. Nel corso dei secoli post-esilici (V-I a.C.) si incrociano e si sovrappongono elementi culturali e tendenze religiose diverse, che non consentono una lettura unitaria e univoca della concezione escatologica di Israele. È questo il problema di fondo che caratterizza il complesso fenomeno delle correnti giudaiche e apocalittiche, al cui interno si dipanano visioni e posizioni escatologiche diversificate con influenze culturali e religiose di origine extrabiblica. Il processo della comprensione escatologica non è definibile in una sola tradizione o in un unico genere letterario, ma implica la connessione con testi e tradizioni diversificate, il cui sviluppo riceve un’accelazione a partire dalla crisi del II secolo a.C.. Sul versante teologico-letterario questa fase post-esilica è segnata dalla ripetizione di due motivi dominanti nei quali la categoria della vita si coniuga con la promessa escatologica. Essi sono: a) l’annuncio profetico del «giorno di Yhwh»; b) l’attesa messianica. È vicino il giorno di Yhwh !

L’espressione «giorno del Signore» (jôm Jhwh) è stata ampiamente studiata nel panorama della ricerca biblico-teologica. Tipico della letteratura profetica, lo jôm Jhwh appare fin dai profeti del secolo VIII a.C. con una valenza fortemente morale e giudiziale (cf. Am 4,4-5; 5,18; 9,7-10). L’espressione ha subito una chiara evoluzione, passando dalla designazione dell’intervento liberatorio di Yhwh a partire dal contesto dell’esodo, fino all’annuncio escatologico del giudizio sulla storia. Sia l’orizzonte escatologico 214

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Cap. 5  -  Traiettoria escatologica

sia quello universalistico si incrociano nello sviluppo storico dell’espressione. Nei profeti del secolo VIII a.C. l’accentuazione del «giorno del Signore» assume una valenza morale legata a Israele. Nel secolo VI a.C. con il profeta Sofonia l’orizzonte si allarga: il giorno colpirà le nazioni nemiche (Sof 2,4-15), preparerà la conversione e la restaurazione di Israele (Sof 3,9-18). In seguito, dopo che Gerusalemme è passata attraverso il giorno dell’ira di Yhwh (Lam 1,12), compare una doppia interpretazione: si parla del «giorno del giudizio» delle nazioni e della «vittoria» per il resto di Israele. Il giorno colpisce Babele (Is 13), Edom (Is 34); per Israele che deve essere sempre purificato (Ml 3,2; Zc 13,1s) è una protezione assicurata (Zc 12,2-4), il dono dello Spirito (Gl 3; Zc 12,10), un paradiso rinnovato (Gl 4,18; Zc 14,8). Quando si compirà l’ora delle nazioni (Ez 30,3) Israele sarà vendicato dei suoi nemici (Ger 46,10) e si compirà il giorno della «vendetta del Signore» (Is 34,8). Un ulteriore sviluppo in senso escatologico si registra negli ultimi profeti: il giorno del Signore è considerato l’atto finale del giudizio di Dio. Già in Ez 7,6-7 il giorno segnava una fine, mentre in Dn 9,26; 11,27; 12,13 si tratta della fine del mondo, preceduta da un «tempo della fine» (Dn 8,17; 11,35.40; 12,4.9). Considerando le ricorrenze e i contesti della sua utilizzazione, l’espressione jôm Jhwh sembra obbedire a uno schema teologico: a fronte dalla minaccia recata al suo popolo, Dio interviene in un preciso momento della storia («il giorno») per liberare Israele dalla tragedia della morte e ristabilire una vita piena, aperta al futuro. Per rappresentare questo intervento si trovano immagini e forme descrittive che narrano simbolicamente l’intervento salvifico di Dio. L’inizio dello jôm Jhwh è descritto con un grido di guerra (Sof 1,14; Is 13,2). Esso è «vicino» (Ez 30,3; Is 13,6; 215

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Gl 1,15) e in quel giorno si raduneranno gli eserciti per il combattimento (Is 13,3ss). Sarà un giorno di nubi (Ez 30,3), di fuoco (Sof 1,18; Mal 3,19) in cui i cieli saranno arrotolati (Is 34,4), la terra tremerà (Gl 2,1.10s), il mondo sarà devastato (Is 7,23), immerso in una solitudine simile a quella di Gomorra (Sof 2,9) come in un deserto (Is 13,9). In quel giorno gli uomini saranno presi dal panico (Is 2,10.19) e si nasconderanno colti dal turbamento (Ez 7,7) e dallo spavento (Is 13,8) restando accecati (Sof 1,17). Le loro braccia cadranno (Ez 7,17) e nessuno riuscirà a mantenersi in piedi (Ml 3,2). In quel giorno ci sarà lo sterminio generale (Sof 1,18), il giudizio e la scelta (Ml 3,20), la purificazione e la fine (Ez 7,6-7). Nella predicazione etica dei profeti, accompagnata dalla vita cultuale che faceva memoria degli interventi liberatori di Yhwh, si è operato il capovolgimento dell’attesa del giorno del Signore, da giorno di luce e di vittoria per il popolo (Is 9,1-3) a giorno di tenebre, con la retribuzione dei peccati di Israele. Il dono della vita viene sottoposto alla prova della storia segnata dal limite temporale: esso è rappresentato dallo jôm Jhwh che si avvicina (Sof 1,7.14: qarôb hajjôm). Benché l’espressione «è vicino il giorno del Signore» sia attestata formalmente solo in Sofonia, l’idea dell’approssimarsi dello jôm Jhwh si ripete nella profezia post-esilica (Is 13,6; Abd 15; Gl 1,15; 2,1; 4,14). Il giorno del Signore è prospettato come una venuta (bo’), una visita (paqad) di Yhwh, la cui pazienza si è esaurita a causa dei peccati del popolo e della mancata fedeltà all’alleanza. In Sof 1,7 si chiede silenzio di fronte alla venuta del giorno, nel quale il Signore, destatosi dalla sua dimora (Zc 2,17) si rende presente più che mai (Ab 2,20) e sta per compiere un’azione terribile e definitiva che chiude un tempo e ne apre un altro (Sof 1,14). L’arrivo del «grande giorno» (jôm haggadol) coglie tutti di sorpresa (Sof 1,18), come nella storia del 216

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Cap. 5  -  Traiettoria escatologica

diluvio al tempo di Noè, come il fuoco su Sodoma e Gomorra (Sof 1,14; Gl 2,11; Ml 3,23). L’annuncio del «giorno vicino» richiede una decisione: cercare il Signore eseguendo i suoi ordini per trovare riparo in quel giorno dell’ira (Sof 2,3), invocare il suo nome per essere salvati (Gl 3,5). Gli elementi escatologici del «giorno del Signore» si possono riassumere in tre caratteristiche: la prima caratteristica è il «giudizio e il castigo» nei riguardi di coloro che sono risultati infedeli all’alleanza; la seconda caratteristica è quella di essere un «giorno teofanico», nel quale Dio manifesta la sua regalità sulla storia con sconvolgimenti cosmici e immagini apocalittiche (cf. Zc 14,6-7); la terza caratteristica è data dalla determinazione della «fine e da un nuovo inizio», in quanto l’intervento di Dio presuppone l’eliminazione del male e l’inaugurazione di un tempo nuovo e di un regno eterno (Gl 4,18; Zc 14,8). Nel contesto escatologico-profetico dell’avvento del regno emerge anche la funzione messianica del futuro re, concepito nel quadro del messianismo regale, che tende ad assumere sempre di più i tratti di un personaggio escatologico, la cui venuta concide con l’instaurazione del «giorno del Signore». In questa prospettiva la comunità di Israele interpreta la propria esperienza religiosa come «attesa messianica», desiderio di salvezza e di pace, affidamento a Dio e al suo messia. Preparate la via del Signore

L’evoluzione positiva del «giorno del Signore» si rafforza negli oracoli profetici che annunciano la «salvezza». È questa una categoria che interseca il motivo della vita come dono e il suo compimento finale. Il nuovo inizio della vita, realizzato con l’intervento di Dio nel suo «giorno», inaugura il tempo della salvezza attesa dal popolo, mediante la promessa di un inviato da Dio, un consacrato del Signore: il 217

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messia. Senza entrare nel merito della questione delle origini e allo sviluppo del messianismo in Israele, va sottolineato come la valenza messianica del messaggio profetico si evidenzia particolarmente in contesti della crisi. Nel nostro caso il messianismo è collegato con il ritorno degli esuli da Babilonia, celebrato nel Deuteroisaia e riproposto nell’elaborazione di figure e di immagini che evocano l’attesa messianica, che sarà colma di consolazione. L’annuncio della salvezza inaugurata dal ritorno degli esuli diventa il fondamento della speranza di Israele nel giudaismo del «secondo tempio». Dopo l’esperienza della distruzione e della morte, lo struggente periodo esilico (Sal 137) e il ritorno a Gerusalemme (Sal 125) incarnano il desiderio di vita che il «resto di Israele» eredita dalla transizione epocale della disfatta nazionale. Nella sua lettura escatologica e messianica delle attese del popolo, il Deuterotisaia elabora una vera e propria «teologia della storia», leggendo i segni accaduti nel quadro di un progetto più grande, in cui gli interventi divini rivelano l’amore esclusivo per Israele e il rinnovamento dell’alleanza futura. Una simile prospettiva viene espressa nella visione profetica del «ritorno» proposta negli oracoli di Geremia ed Ezechiele e nel Salterio. È soprattutto il messianismo con orientamento escatologico a giocare un ruolo importante nell’interpretazione del futuro di Israele. Secondo Marconcini tre figure interessano particolarmente la dimensione escatologica del messianismo: ‒ la figura regale del discendente di Davide annunciata nella promessa di 2Sam 7 (cf. Is 7,14; 9,4). La prospettiva del messianismo davidico si collega al contesto degli oracoli di Is 7-11. Dopo il fallimento dei piani per reinserire la dinastia davidica in seguito alla morte di Zorobabele (cf. Ez 37,1528; Ger 30,9; Ag 1,12-15; 2,20-23) si attende un uomo pieno di Spirito, deciso a portare avanti un 218

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Cap. 5  -  Traiettoria escatologica

programma di giustizia e a creare armonia tra le classi sociali (cf. Is 11,1-9); ‒ la figura del servo sofferente nei canti isaiani (cf. Is 42,1-7; 49,1-9a; 50,4-9a; 52,13-53,12); ‒ la figura del «figlio dell’uomo» nella proiezione apocalittica del libro di Daniele (cf. Dn 7,13-14). Queste figure segnano la memoria della comunità e alimentano l’attesa dei «poveri di Yhwh», che continuano a guardare e a sperare in un futuro positivo, mentre le vicende della comunità giudaica sembrano essere dominate dalle tattiche dei vari protagonisti dello scenario politico dei secoli II-I a.C. Accanto alla letteratura canonica centrata sui motivi escatologici della vita e della promessa futura di Dio, si attesta un notevole sviluppo dello stesso tema nella tradizione ebraica (soprattutto nel giudaismo rabbinico). Uno dei temi esempari trattati nel Targum è rappresentato dalla dialettica tra «mondo presente e quello che verrà» (’olam ha-ze // ’olam ha-ba). Voi sarete il mio popolo

La seconda categoria che interseca l’escatologia biblica e segnatamente il motivo della «vita oltre la morte» è segnata dalla «promessa». Prima ancora dell’alleanza mosaica, la figura sulla quale si concentra il motivo della promessa è rappresentata da Abramo (cf. Gen 12-25), il cui ciclo narrativo può essere definito «libro delle promesse». Poiché promettere significa impegnare a un tempo la propria potenza e fedeltà, proclamarsi sicuri del futuro, l’idea che Dio promette ad Abramo una paternità feconda e universale significa che egli si impegna verso il futuro dell’umanità, chiedendo in risposta la disponibilità della fede. La promessa corrisposta crea una relazione di «appartenenza». Come avviene per il dono della vita, la promessa di Dio rappresenta un «dono» che viene offer219

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to all’uomo in vista della sua realizzazione. In questo senso il patriarca non riceve i doni solo per sé, ma diventa per tutte le generazioni future «mediatore» di una «benedizione», destinatario di una terra e di una nurmerosa discendenza (Gen 15,4-5.18-19; 22,17). Il motivo della promessa ritorna come dono di vita e di futuro nelle storie personali dei patriarchi (cf. Giacobbe: Gen 28,13-15; 32,13; Giuseppe: Gen 46,3). Lo sviluppo del tema fa registrare un ulteriore salto qualitativo nella relazione con Mosè attraverso l’alleanza sinaitica (berît). Yhwh sceglie Israele, gli fa dono della Legge (Torâh) ed estende la corrispondenza della fede all’intero popolo ebraico nella prospettiva futura. In tal modo la Legge è la «carta dell’alleanza» (Es 19,5; 24,8, Gs 24,25) cioè il mezzo che il popolo riceve per poter entrare in un’esistenza nuova e santa, vivere come «popolo di Yhwh» e partecipare al destino di felicità. La promessa implica due importanti aspetti, strettamente collegati con il destino di Israele: l’elezione; la terra. Scegliete chi volete servire

La promessa si concretizza nell’elezione da parte di Dio. L’esperienza dell’elezione e della conseguente «appartenenza a Yhwh» segnano l’orizzonte teologico del futuro del popolo, che nella narrazione biblica è diverso da quello di tutti gli altri popoli. Si tratta di una condizione particolare a cui Israele è chiamato, non per una cieca convergenza di circostanze umane ma per una gratuita, inattesa e sovrana iniziativa di Dio. Per spontanea e libera decisione Yhwh ha scelto di eleggere Israele come «suo popolo» e dall’atto di elezione l’esistenza del piccolo gruppo semita diventa inseparabile dal suo destino messianico. Con il verbo Bh. r (= eleggere; in greco: eklegomai) viene indicata la categoria dell’elezione nell’Antico Testamento; in es220

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Cap. 5  -  Traiettoria escatologica

sa «è racchiusa tutta la storia della salvezza sin da prima che fosse storia» (H. Wildberger). La promessa si appoggia su questa scelta misteriosa di Dio: egli ha fatto il primo passo, prendendo l’iniziativa. La memoria di questa appartenenza viene espressa attraverso la preghiera e la fede al progetto salvifico di Dio che si tematizza nella costituzione dell’alleanza. Questa scelta divina si ritrova nelle antiche professioni di fede, di cui il credo originario di Dt 6,4-9; 26,1-11 ne è testimonianza. La storia della liberazione è interpretata come iniziativa divina, che fa «uscire» ed «entrare» perché ha stabilito con il popolo la sua alleanza, a cui egli rimane fedele. Alla stessa iniziativa di Dio si collega la memoria di Giosuè in Sichem (Gs 24), che ricorda come il percorso della liberazione della promessa della terra è compiuto da Yhwh, il quale ha scelto Israele in modo unico. Giosuè domanda al popolo riunito a Sichem: «sceglietevi oggi chi servire» (Gs 24,14). Scegliere, una volta entrati nella terra di Canaan, «colui che ci ha già scelti». Il popolo confermerà la propria fedeltà a Yhwh. Un ulteriore aspetto che qualifica la categoria di elezione è rappresentato dalla domanda che Mosè rivolge a Dio: «farai di noi la tua eredità» (Es 34,9). Dio si è scelto questo popolo tra tutti i popoli (Es 19,5) e questa affermazione elettiva si ripete come una costante nello sviluppo della storia successiva (Nm 23,8s; Gdc 5,3.5.11). L’elezione è un «fatto continuo» e fa crescere l’idea dell’appartenenza per un «disegno straordinario di Dio», anche di fronte alle contraddizioni e alle cadute sperimentate dal popolo. Il motivo dell’elezione e dell’appartenenza di Israele a Yhwh è preparato da singole elezioni precedenti all’esodo e all’alleanza ed è sviluppato attraverso la scelta di nuovi «eletti». Così i singoli protagonisti dell’elezione diventano modelli autorevoli dell’appartenenza a Dio: Abramo 221

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(Gen 12,3) e prima di lui lo schema dell’appartenenza elettiva si applica ad Abele (Gen 4,4), Enoch (Gen 5,24), Noè (Gen 7,1), Sem (Gen 9,26). Così nella storia dei patriarchi ritroviamo lo schema dell’elezione nella scelta della primogenitura (Isacco, Giacobbe, Giuseppe). Nell’evento dell’esodo (cf. Es 1-15) è il popolo che fa l’esperienza della sua relazione di appartenenza a Dio. Il motivo si ripete nell’elezione dei re e dei profeti. La categoria di elezione non è funzionale alla storia umana, ma si collega al dono della salvezza. In tal modo l’elezione di Israele e la sua assimilazione al progetto salvifico di Dio diventano il fulcro dell’intera esperienza di Israele, impastata di continue crisi e ripensamenti. A Davide e ai suoi discendenti la promessa di Dio si ripete in modo fedele e viene testimoniata costantemente nello sviluppo degli eventi storici. Sia nella predicazione profetica che nella riflessione sapienziale si ripete la formula di appartenenza: Yhwh ha scelto Israele, è il popolo della sua alleanza, è sua proprietà perché egli lo ama al di sopra di tutti gli altri popoli. Questa affermazione teologica di appartenenza viene elaborata come leitmotiv nell’intero sviluppo biblico anticotestamentario secondo le diverse tradizioni. Nell’attività profetica si presenta la vocazione dei singoli messaggeri come «eletti da Dio» per una particolare missione. Allo stesso modo Yhwh guida la storia travagliata della monarchia ebraica «scegliendo» i suoi «servi» (re) e i sacerdoti e i leviti, i quali sono oggetto di elezione e di particolare relazione con il mistero sacro (cf. Nm 8,16). I sacerdoti e i leviti sono chiamati a «stare davanti a Yhwh», mediante una forma di esistenza «diversa» da quella del resto del popolo (Dt 10,8; 18,5). Essi rappresentano la consacrazione di tutto Israele, che è «regno di sacerdoti e una nazione santa» (Es 19,6). 222

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Cap. 5  -  Traiettoria escatologica

La terra dove scorre latte e miele

Un ulteriore aspetto dell’elezione e dell’appartenenza che definiscono la promessa divina nei riguardi del popolo è dato dal «dono della terra». Esso rappresenta un segno storico e allo stesso tempo assume un significato escatologico. Il popolo eletto è chiamato a vivere nella «terra promessa» che gli appartiene. Più volte si ricorda che Dio ha destinato la terra a Israele perché è il popolo di sua conquista: il monte Sion (Sal 78,68), scelto a sua dimora (Sal 68,17; 132,13), il tempio di Gerusalemme (Dt 12,5; 16,7-16). L’elezione stessa, rilaborata attraverso i momenti liturgici comunitari, rappresenta un motivo e allo stesso tempo un veicolo della benedizione e della protezione divina nella vita dell’israelita. La riflessione sull’elezione è sviluppata in modo particolare nella visione deuteronomistica. Nel secondo discorso di Mosè (Dt 5-29) – il cuore del Deuteronomio – Dio si rivolge a Israele suo «eletto» (bahûr) con queste parole: «Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore, tuo Dio: il Signore, tuo Dio, ti ha scelto per essere il suo popolo particolare fra tutti i popoli che sono sulla terra» (Dt 7,6). La grandezza di Israele non è la causa, bensì è l’effetto dell’elezione, la quale non ha altra fonte che l’amore grazioso di Dio. Così Israele è tenuto a custodire e a vivere il proprio carattere specifico derivatogli dall’essere «eletto». Questo carattere è detto attraverso due formule: «essere il popolo consacrato a Dio» (o «santo»: Es 19,6) e «essere il popolo suo», cioè scelto da Yhwh in modo unico e speciale, rispetto a ogni altro popolo (Sal 135,4). Nello sviluppo narrativo dei racconti biblici emerge la dimensione educatrice dell’opera di Dio. In prima persona Yhwh è presentato come colui che educa e guida i figli di Israele a comprendere e a fare tesoro delle sue promesse. Dopo la grande crisi esilica, 223

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nel periodo della ricostruzione si annuncia la «nuova elezione», secondo la quale Yhwh ricostruirà di nuovo il tempio e risceglierà Israele come popolo che egli ama in modo unico ed esclusivo (Zc 1,17; 2,16). In questo orizzonte teologico si colloca ancora la figura del «servo sofferente di Yhwh». Essa riassume la teologia dell’elezione in un modo nuovo: il servo non è re, né sacerdote, né profeta, bensì un personaggio misterioso, anonimo, la cui vocazione diventa il segno di un’appartenenza sua propria che consentirà la realizzazione del progetto salvifico di Yhwh oltre i limiti della morte. In tal modo nell’esistenza oblativa del misterioso personaggio isaiano si connette sia il tema dell’elezione che quello della vita oltre la morte. Di fronte alla tragedia dell’esilio sembrerebbe che la promessa di Dio sia venuta meno. Gli accadimenti drammatici, tra cui l’abbandono della terra, vengono interpretati come elementi di prova in vista di una purificazione ulteriore, come fu il «deserto» per l’esperienza dell’esodo. Vi è la consapevolezza che oltre il tempo dell’esilio e della dispersione, sussiste una speranza il cui oggetto riveste tutti i tratti dell’esperienza passata: vi sarà un tempo nuovo, un popolo nuovo che abiterà in una nuova terra finalmente pacificata. Questa terra sarà primariamente quella di Israele, dove il popolo nuovo sarà ricollocato da Yhwh (Ez 47,13-48; 35; Zc 14; Sap 12,3) e sarà chiamata «sua sposa» (Is 2,2ss; 66,18-21; Sal 47,8ss). Essa sarà terra di delizie per una nuova umanità in cui le nazioni si riunificheranno con Israele facendo la pace. A questa prima interpretazione si aggiunge una seconda: il dono della terra, conseguenza della promessa di Dio, non si limiterà a questo mondo, poiché i credenti abiteranno «cieli nuovi e terra nuova» che Dio donerà loro (Is 65,17), per godere di una vita finalmente ricca e feconda (Am 9,13; Os 2,23-24; Is 11,6-9; Ger 23,3; Es 47,1s; Gl 4,18; Zc 14,6-11). 224

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Cap. 5  -  Traiettoria escatologica

In questa prospettiva il possesso della terra assumerà quindi un significato escatologico, che è ancora accentuato dal passaggio dal piano collettivo al piano individuale, iniziato in Is 57,13; 60,21 e sviluppato dai sapienti: «la terra» designa allora a un tempo quella promessa ad Abramo e alla sua discendenza, e un’altra realtà più alta, ma ancora imprecisa; tale è il retaggio dell’uomo giusto che pone tutta la sua fede in Dio (Sal 25,13; 37,3) (G. Becquet). Prigionieri della speranza

Le due prospettive teologiche, la vita come dono e la promessa come appartenenza, vengono rielaborate nella riflessione sapienziale che caratterizza il tratto finale del percorso anticotestamentario. Esso è rappresentato dall’ultima fase della profezia, dall’apocalittica e soprattutto dalla sintesi teologica sapienziale che attinge sia alla tradizione semitica sia ai contesti dell’alveo socio-culturale ellenistico. La consapevolezza del dono della vita e della promessa futura che Dio ha concesso al suo popolo diventano oggetto di riflessione che focalizza alcuni aspetti riguardanti il mondo futuro a partire dall’esperienza del limite e della morte. Sulla base delle attestazioni escatologiche e del loro retroterra religioso, focalizziamo gli aspetti che riassumono la speranza di una vita oltre la morte rintracciabile negli scritti anticotestamentari. Polvere tu sei e in polvere ritornerai

Avendo presente il motivo della «vita come dono» e la connotazione creaturale dell’uomo che porta in sé l’immagine e la somiglianza con Dio, che è «desiderio di vivere», l’elaborazione teologica dell’idea di morte va intesa nel senso della «limitazione» di questo desiderio fondamentale della creatura. Ponendo l’accento sul tema della morte, più che sul «morire», 225

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troviamo nella Sacra Scrittura varie rappresentazioni che definiscono l’immaginario simbolico attestato nei racconti biblici. In primo luogo la morte si presenta come un’esperienza naturale, cioè come il termine biologico della vita umana accettato senza drammi. Essa fa parte del ritmo della vita (Sir 17,1-2) e tutti ne fanno esperienza. L’uomo biblico accoglie la morte con realismo, talora con serenità, specialmente se questa arriva al termine di una lunga vita e di una vecchiaia felice, se lascia dietro di sé una discendenza, se trova un’onorata sepoltura (Gen 25,8; 49,29; Gdc 8,32; 1Re 2,10; Gb 42,16-17; cf. Sir 44,10-11). In altri casi la perdita di persone care produce angoscia in coloro che restano (Gen 50,1; 2Sam 19,1.35-38): l’inevitabilità del morire genera amarezza e riemerge come pensiero angoscioso (Sir 41,3-4). Dalla terra l’essere vivente è stato tratto e alla terra fa ritorno nella morte (Gen 3,19; Sal 90,3; Gb 34,15; Sal 103,14; 104,29; Qo 3,20; 12,7). La testimonianza del culto dei morti segnalata in diversi contesti biblici rappresenta una conferma del collegamento tra desiderio di vita ed esperienza del limite. Talora si pensa di oltrepassare il limite della morte mediante il tentativo di comunicare con i morti e le forme superstizione che accompagnano la memoria dei defunti (Lv 19,28.31; 20,27; Dt 14,1; 1Sam 28; 2Re 21,6). Accanto a una concezione «naturale», sussiste una interpretazione tragica della morte, accompagnata dalla domanda sul destino che attende la persona estinta oltre la morte. Pur non trovando nella Sacra Scrittura una trattazione sistematica riguardo a questo argomento, è possibile cogliere alcune indicazioni concernenti la comune tradizione biblica, ripresa e codificata nel tardo giudaismo. Tutti i morti si riuniscono in una «oscura dimora sotterranea» definita sheol, gli inferi, la casa dove convergono coloro che sono stati nella vita (Gb 30,23; Sal 88,11-13), imma226

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Cap. 5  -  Traiettoria escatologica

ginata come una fossa immensa, un pozzo profondo (Pr 30,15-16; Is 5,14), un luogo di silenzio (Sal 115,17). Si tratta dell’«oltretomba», che simboleggia la lontananza dalla casa di Dio, dove coloro che sono radunati vengono definiti «ombre» (repā’îm: Sal 88,11; Is 14,9) e partecipano della stessa sorte anche se in gradi distinti. Le immagini simboliche tendono a presentare questo stadio di vita ultraterrena in termini angoscianti: i morti nello sheol sono consegnati alla polvere (Gb 17,16; Sal 22,16; 30,10) e ai vermi (Is 14,11; Gb 17,14). La loro esistenza è solo un sonno (Sal 13,4; Dn 12,2). In questa condizione non c’è più speranza, conoscenza di Dio, né comunicazione di preghiera (Sal 6,6; 30,10; 88,12-13; 115,7; Is 38,18): si arriva ad affermare che Dio stesso dimentica coloro che sono ormai morti (Sal 88,6). Una volta oltrepassate le porte dello sheol non c’è più possibilità di ritorno (Gb 10,21-22; 38,17; cf. Sap 16,13): la morte è il «re dei terrori» (Gb 18,14), pensiero desiderabile per colui che dalla vita è perseguitato (Sir 41,1-2; Gb 6,9; 7,13-16), motivo di pianto e di angoscia per colui che la teme imminente (2Re 20,2-3). Di questa angoscia si fa portavoce il libro del Qoèlet per il quale la morte rappresenta la denuncia radicale di ogni illusione umana e lo spegnersi di ogni desiderio (Qo 9,4-5.10). Un terzo aspetto riguarda la morte come punizione del peccato, la cui origine va fatta risalire ai racconti genesiaci della creazione (Gen 1-3), che culminano con la prima tragica esperienza della disobbedienza e del fratricidio di Abele per mano di Caino (Gen 4). È indicativa la pagina della tentazione in Gen 3, che pone in evidenza come la morte rappresenti il superamento del limite che il Creatore ha dato all’uomo (Gen 2,16) e il rifiuto di accettare la propria identità di creatura da parte di Adamo. Annota Bonora: 227

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Parte II  -  Teologia biblica: traiettorie

L’uomo tenta di trasformarsi da destinatario a possessore, da desiderio in sorgente di dono, da uomo in Dio. E in realtà, rinnegando e rifiutando la propria identità, si trasforma (Gen 3,14-24). Tutta l’esistenza umana è ora resa più dura e difficile, continuamente messa in pericolo di essere inghiottita dalla vorace morte [...]. La morte: essa non è la soddifazione del desiderio, la sazietà, bensì un ritornare alla terra (Gen 3,19), lo spegnimento del desiderio. In Gen 2,7 l’uomo viene dalla terra ma è votato alla vita: in Gen 3,19 l’uomo viene dalla terra e ritorna, con la sua morte, alla terra: la morte, a causa del peccato, è il doloroso ritorno, nella direzione inversa alla creazione, alla terra che, dopo il peccato, è maledetta.

Il peccato aggrava la caducità naturale dell’uomo che viene sperimentata come debolezza e limite. Da solo l’uomo non è in grado di soddisfare il proprio desiderio di felicità e di pienezza. In questo senso la morte non rappresenta più il termine naturale della vita umana, ma diviene nella sua tragicità il segno del limite e dell’ineluttabile fine (cf. Sal 88). L’aspetto maggiormente enigmatico per il credente è costituito dalla morte del «giusto» e, più in generale, dalla crisi del sistema retribuzionista nei confronti della relazione tra giustizia, sofferenza e morte. Anche se il legame di solidarietà con il peccato consente di associare la punizione del padre con le relative conseguenze deleterie nei figli (2Sam 12,14; cf. Es 20,5), rimane fermo il principio secondo il quale ciascun uomo è responsabile delle proprie azioni e paga di persona per i propri errori (Ez 18). Tuttavia la riflessione sapienziale pone in evidenza lo «scandalo» della sofferenza e della morte del giusto apparentemente trattato come colpevole (Gb 9,22; Qo 7,15; Sal 49,11), ponendo sotto giudizio il «silenzio» di Dio. Si tratta di un enigma di fronte al quale è chiesto a Israele di lasciarsi condurre verso un cambiamento di prospettiva legato allo sviluppo della riflessione escatologica. 228

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Cap. 5  -  Traiettoria escatologica

Dio non vuole la morte del peccatore

All’idea della morte si contrappone la speranza in una vita ultraterrena, poiché il credente sa nella fede che Dio «non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva» (Ez 18,32; 33,11). È questo il senso dell’invocazione che l’orante rivolge a Dio nell’esperienza del dolore, con la speranza di essere liberato dalla morte (Sal 6,5; 13,4; 116,3): «Dio non abbandonerà la sua anima nello sheol» (Sal 16,10). Il Signore «libererà la sua anima dagli artigli dello sheol» (Sal 49,16). In questa linea vanno interpretati i ringraziamenti rivolti all’Altissimo per il suo intervento salvifico verso coloro che sono in pericolo di morte (Sal 18,17; Gen 2,7; Is 38,17). L’uomo che si affida all’Onnipontente comprende che l’esperienza della sofferenza e il pericolo della morte sono permessi da Dio in vista della conversione a Lui (cf. Gb 33,1930). Il Signore corregge l’uomo e lo educa per ritrarlo dal male e liberarlo dalla morte eterna (Pr 23,13s). Un ulteriore salto qualitativo, che mostra un cambiamento di prospettiva, è rappresentato dall’interpretazione escatologica centrata sull’evento della salvezza. Essa supera i confini terreni e si proietta oltre la morte, fecendo emergere il «desiderio dell’immortalità». Il principio motivante della riflessione teologica post-esilica si fonda sulla ripresa del tema della «vita come dono» e si concretizza mediante la fede nella promessa di Dio «signore della vita». Le categorie di vita e di promessa si confermano come «fulcri dinamici» della riflessione sul futuro escatologico del popolo eletto. Considerando la storia dell’alleanza sinaitica e le vicende che hanno segnato la dissoluzione del regno davidico, cresce in Israele la convinzione sempre più forte che Yhwh è l’unico in grado di realizzare la salvezza e di portare a compimento le sue promesse eterne. Soprattutto nei Salmi 16, 49 e 73 229

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si accenna alla prospettiva della retribuzione ultraterrena, nella certezza che solo Dio può liberare l’uomo dallo sheol (Sal 16,10; 49,16; 73,24). Si tratta di tre testi poetici, elaborati con contesto post-esilico, che esprimono un’intensa fede in Dio che premia i giusti e destina loro l’«eredità futura», secondo uno schema teologico retribuzionista. Si ammette una beatitudine dopo la morte, ma occorre riconoscere che le affermazioni contenute nei testi salmici appaiono abbastanza generiche rispetto allo sviluppo di un sistema dottrinale di stampo escatologico (cf. Sal 16,10-11; 49,16; 73,24). Una simile prospettiva, che celebra la vittoria eterna di Dio sulla morte, si percepisce allo stato embrionale in alcuni testi apocalittici isaiani (Is 25,8 e 26,19). In Is 25,6-12 si evoca l’immagine finale del «banchetto divino» che descrive simbolicamente lo stato di beatitudine dei credenti, con l’eliminazione definitiva della morte e la soppressione della condizione disonorevole del popolo. Allo stesso modo nel testo salmico di Is 26,7-19 viene rappresentato il giudizio di Yhwh, il Dio dall’amore geloso che libera il suo popolo facendolo passare attraverso le prove. I simboli escatologici del giudizio sono raffigurati dalla punizione dello sheol, luogo ombroso dove i morti sono dimenticati. Per i fedeli del suo popolo avverrà come nelle doglie di una donna incinta: dopo una grande tribolazione i defunti si sveglieranno per la potenza vivificante di Yhwh (Sal 26,19). Rapimento, risveglio, vita beata ultraterrena, delizia senza fine, eredità meravigliosa: sono tutte espressioni contestualizzate nel linguaggio poetico o apocalittico della tradizione di Israele, che orientano e preparano gradualmente la riflessione sapienziale verso la formulazione di un’idea dell’immortalità. A negare con forza una vita ultreterrena ancora nel III secolo a.C. è il discusso autore del Qoèlet, quando afferma che 230

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Cap. 5  -  Traiettoria escatologica

il destino dell’uomo è comune a quello delle bestie: entrambi diretti verso la stessa dimora che è la polvere della terra (Qo 3,18-21), e successivamente conferma che «vi è un’unica sorte per tutti, per il giusto e per l’empio» rappresentata dallo sheol (Qo 9,2.10). Anche in Sir 41,11-13; 44,8.14 (cf. Pr 22,1) si accenna all’immortalità della «memoria» degli uomini giusti «il cui buon nome resta per sempre», ma si evita di approfondire specularmente il pensiero escatologico riguardante la «vita oltre la morte». La speranza dei giusti è piena d’immortalità

È solo a partire dalla metà del II secolo a.C., grazie all’influenza del pensiero ellenistico e al complesso fenomeno dell’apocalittica che si sviluppa la fede nell’immortalità e nella risurrezione finale, testimoniata soprattutto nei libri di Daniele, in 2Maccabei e in Sapienza. La corrente apocalittica riveste un importante ruolo dinamico nell’elaborazione dei contenuti escatologici. I temi della vita e delle promesse di Dio vengono attualizzati nel presente storico della comunità ebraica che vive in un tempo di crisi. La singolare forma espressiva dell’apocalittica consente di cogliere l’orizzonte di significati teologici della «storia della salvezza», raffigurata nel combattimento e nella prova. Attraverso di essa si rilegge l’intera vicenda di Israele, segnata da infedeltà, e chiamata a rispondere nella fede al messaggio di rinnovamento innestato dall’irruzione di un «tempo nuovo»: quello della promessa di una nuova vita e del rinnovamento della sua elezione. Con un linguaggio apocalittico si esprime la convinzione che la fine della prova è vicina e che tutta la storia è sotto il giudizio di Dio. È questa la funzione dei simboli e delle immagini apocalittiche che si incontrano nella più recente letteratura profetica (cf. Ez 38-39; Daniele; Zc 9-14). Nel filo 231

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Parte II  -  Teologia biblica: traiettorie

rosso dei racconti biblici si avverte una certezza: Dio rimane il «signore della storia» e questo diventa motivo di speranza e perfino di ottimismo per i credenti. Ne consegue che proprio l’apocalittica costituisce lo sfondo nel quale si innesta la novità dell’annuncio del Nuovo Testamento, con la sua interpretazione decisiva della promessa di Dio. Per quanto concerne lo schema apocalittico della prima parte del libro di Daniele (Dn 1-7), l’autore riprende il motivo teologico del regno eterno quale meta della storia universale (Dn 3,34; 6,27; 7,14). La venuta di Dio e del suo regno si manifesta attraverso le vicende sconvolgenti dei popoli e l’avvicendarsi delle epoche. La seconda parte del libro (Dn 7-12) assume un valore paradigmatico per la densità simbolica del messaggio teologico. L’avvento di un regno escatologico è associato a una figura simile al «Figlio dell’uomo», all’interno della drammaticità di una storia che mette in luce le lotte che oppongono gli imperi del mondo, destinati a scomparire. Nelle visioni notturne il profeta vede apparire sulle nubi del cielo un «personaggio di mediazione», posto nella sfera della trascendenza, che riceve dal Vegliardo «il potere, la gloria e il regno» (Dn 7,14). La centralità della figura messianica, investita del potere eterno ottenuto da Dio, rappresenta il segno fondamentale della speranza escatologica che sta per realizzarsi nel presente. Esso domina il cammino verso la salvezza finale, conducendo il lettore all’estremo limite in cui la storia confina con la trascendenza. La prospettiva della vita oltre la morte appare definita, chiara nella sua proposta, aperta a una attesa che viene espressa mediante la forza del linguaggio apocalittico. La solenne presentazione del «figlio dell’uomo» (Dn 7,1314) rappresenta una delle più importanti figure della cristologia neotestamenteria, il cui titolo viene applicato alla persona di Gesù. 232

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Cap. 5  -  Traiettoria escatologica

Un secondo aspetto escatologico è collegato all’idea della «morte dei giusti», preziosa agli occhi del Signore (Sal 116,15). Abbiamo visto come nel linguaggio dei Salmi appaiono espressioni che alludono a una speranza nella «risurrezione» (cf. Sal 16,10; 18,5-7; 30,4; 86,13; 116,3.8). Occorre notare sul piano strettamente esegetico che il linguaggio della «risurrezione» non trova un’interpretazione concorde negli autori, a causa della varietà dei contesti e delle tradizioni bibliche in cui ricorre. Il primo a usare la categoria di «risurrezione» è il profeta Osea (Os 6,23). Successivamente nel contesto deuteronomistico si incontrano i racconti di «risurrezione» che hanno come protagonisti i profeti Elia ed Eliseo (cf. 1Re 17,17-24; 2Re 4,31-37; 13,21). Tali gesta profetiche, inserite in racconti non privi di caratteri e toni leggendari, hanno più il senso di «rianimazioni» che di «risurrezioni». Abbiamo potuto constatare come nel periodo post-esilico il linguaggio della risurrezione ritorna in altri contesti biblici (cf. Gb 19,25-27; Sal 16,9-11; 49,15; 73,23-28; Is 25,8; 26,19; 53,10; Ez 37,1-14), ma anche in questo caso l’impiego terminologico è soggetto a una fluttuazione di senso e non si inquadra in una precisa definizione escatologica. Occorre ancora aggiungere come l’idea di «vita oltre la morte» riceve un ulteriore impulso dalla concezione della «risurrezione universale» proveniente dal pensiero iranico veicolato attraverso la dominazione persiana. È in questo lento processo culturale, secondo alcuni autori, che va collocata la nascita dell’idea di risurrezione attestata nell’ambiente ellenistico del II-I secolo a.C. Di fronte a questo linguaggio biblico, gli autori si chiedono se si intende una «risurrezione individuale» o ci si riferisce alla «restaurazione nazionale» espressa mediante il senso simbolico del termine. 233

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Dio restituirà di nuovo il respiro e la vita

Il «desiderio» di una «vita oltre la morte» viene enunciato nel testo in Dn 12,1-3 e rappresentato esemplarmente nel martirio dei fratelli Maccabei insieme alla loro madre (2Mac 7,1-42), dopo la testimonianza estrema dell’anziano Eleazaro (2Mac 6,1831). Il testo di Dn 12,1-3 sottolinea la fine dell’attesa da parte del popolo e l’inizio del giudizio finale, al sorgere di Michele, il grande principe. Il linguaggio apocalittico implica l’idea dello scontro finale tra i giusti e gli empi, che ha come riferimento storico il contesto delle persecuzioni scatenate da Antioco IV Epifane (175-164 a.C.). Si vuole affermare che la morte dei giusti, di quei pii giudei che si sono opposti in modo non violento all’impero malvagio, non ferma l’irruzione del regno di Dio. Così è Michele, l’angelo protettore di Israele (cf. Dn 10,13.21), a inaugurare il tempo finale, in cui il giudizio celeste sarà imparziale. È questo l’inizio dell’irruzione del regno di Dio. Si risveglieranno coloro che dormono nella polvere della terra: gli uni per la vita eterna, mentre gli altri per l’obbrorio e l’infamia eterna. Il messaggio finale del testo è rappresentato da una condizione escatologica definitiva nella quale i giusti di Israele (i saggi) otterrano un posto d’onore, risplenderanno come lo «splendore del firmamento». Anche se il concetto di «risurrezione» non è ben definito, il contesto apocalittico del brano consente di individuare non solo un messaggio di speranza per la comunità perseguitata, ma anche un orizzonte di vita «oltre la morte» in cui si stagliano i due gruppi giudicati da Dio: da una parte coloro che godranno di una «vita eterna» e dall’altra quelli che saranno destinati all’«infamia eterna». La testimonianza del martirio di Eleazaro e dei fratelli Maccabei con la loro madre completa il quadro escatologico rilevato in questa specifica sezione 234

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letteraria del canone biblico. Il celebre racconto di 2Mac 7, con un marcato tono didattico, offre un prezioso insegnamento sulla risurrezione attraverso la testimonianza di un’intera famiglia che sceglie di obbedire alla Legge di Dio piuttosto che al potere umano. I sette fratelli Maccabei affrontano la morte pronunciando la confessione di fede nel Signore «re dei re» (2Mac 7,9) e divenendo portavoce della comune fede dei giusti di Israele. È importante sottolineare come il primo giovane, facendosi interprete degli altri, richiama la fedeltà alle «leggi dei padri» e per essa dona la propria vita (2Mac 7,2). Tutti gli altri fratelli insieme alla loro madre, vedendolo spirare in quel modo, si preparano a subire la stessa sorte confidando nelle parole di Dt 32,36: «Il Signore Dio ci vede dall’alto e certamente avrà pietà di noi, come dichiarò Mosè nel canto che protesta apertamente con queste parole: “E dei suoi servi avrà compassione”» (2Mac 7,6). In tal modo essi mostrano come l’obbedienza alla Torah conduce alla vita e che la morte non potrà impedire la giusta ricompensa di Dio. In questo contesto si inserisce l’idea di risorgere/risurrezione (anisthemi; anasthasis), che ricorre in funzione della giustizia retributiva divina (cf. anche 2Mac 3,28; 4,42; 5,10; 8,34-35; 13,8). Lo schema narrativo del libro esalta l’idea di un «ordine» della storia della salvezza voluta da Dio che la morte non può distruggere. Allo stesso tempo la risurrezione rappresenta il premio per i giusti che ricevono la giustizia retributiva da parte di Dio. Di conseguenza secondo l’interpretazione dell’autore l’idea di «risurrezione» (anasthasis) va letta in funzione della giustizia retributiva divina, che garantisce l’ordine cosmico e storico-salfvifico. «In tal modo la risurrezione dei giusti appare come la rivendicazione della giustizia divina, che sembrava “sconfitta” dall’ingiusta morte dei pii giudei. Il giudizio divino (vv. 235

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9.14.16-17.19.31.34) si abbatte invece sul re Antioco IV come condanna irrevocabile» (A. Bonora). Nel libro della Sapienza, soprattutto, il motivo della morte dei giusti si collega all’idea escatologica del­l’immortalità (aphtarsia/athanatia) o, meglio, della «risurrezione dei corpi», che rappresenta una novità importante per la visione anticotestamentaria. In quest’ultimo libro del canone cristiano, prodotto della diaspora giudaica alessandrina, emerge un importante sviluppo della riflessione escatologica (specie in Sap 1-6). Senza entrare negli aspetti letterari del testo, è sufficiente segnalare i passaggi centrali del messaggio teologico del libro. Esso si apre con l’esortazione a seguire la sapienza e la giustizia che prepara l’affermazione sul progetto di Dio e sul destino di «immortalità». Il progetto di Dio non prevede la morte. Questa è il risultato della malvagità umana, perché Dio «ha creato l’uomo per l’incorruttibilità» (Sap 2,23), cioè dotato della capacità vitale e costituito del desiderio di vivere per sempre nella sua amicizia. Pertanto riprendendo la teologia dei racconti genesiaci (Gen 1-2), si afferma che la creazione è una realtà positiva e non esiste in essa «veleno di morte». In Sap 1,12-15 si esclude che il male possa essere attribuibile a una realtà sovrumana: gli inferi (in greco: Ade) non hanno alcun potere sulla terra. Per la prima volta qui si introduce l’idea degli «inferi» non più associata allo sheol ebraico (il comune soggiorno dei morti), ma alla condizione di punizione eterna riservata ai malvagi. È importante sottolineare la distinzione tra la morte naturale che coinvolge tutti gli uomini dalla «morte eterna» riservata per i malvagi. Per questa ragione nello scritto si pone l’accento sulla responsabilità dell’essere umano, dotato di libertà e chiamato a scegliere tra la giustizia e l’empietà. L’origine della morte viene spiegata in Sap 2,23-24 a causa dell’invidia del «diavolo». Riferendosi a Gen 3, il testo pone l’accento sul 236

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motivo della salvezza e afferma che gli empi fanno esperienza della morte nel senso escatologico e non fisico. Anche se la morte dei giusti è ritenuta una sciagura, le loro «anime» sono nella pace, mentre nel giudizio finale (Sap 3,7: «visita») di Dio «gli empi riceveranno il castigo» (Sap 3,10), cioè la morte definitiva. Una simile idea ritorna in Sap 4,7-10, in cui il giusto, morto prematuramente, è contrapposto all’empio che vive a lungo (cf. Qo 8,12-14; Gb 21,7). In definitiva l’ambiguità della morte consiste nel fatto che essa, condizione normale dell’uomo, per chi non crede in Dio e non comprende il suo progetto, si trasforma in tragedia (Sap 17,14.21). Se la condizione per la vita eterna con Dio è la giustizia, essa è resa possibile all’uomo soltanto mediante il dono della «sapienza». La sapienza fa conoscere la volontà di Dio (Sap 9,13.17), dà al credente la capacità di realizzare quel che piace al Signore e rappresenta il principio interiore della vita morale del credente (Sap 7,27-28). La sapienza produce la giustizia e questa produce frutto in vista dell’immortalità beata (Sap 6,17-19). Di conseguenza «il desiderio di sapienza» conduce al regno (Sap 6,20), a una vita di comunione e di preghiera con Dio (cf. Sap 9). Il credente che si affida al Signore trova un alleato nel cosmo (Sap 5,17-23; 16,24) e sarà proprio dal cosmo che egli avrà in dono l’alimento, simboleggiato dalla «manna celeste» (Sap 19,21: «cibo di ambrosia»), che anticipa su questa terra il destino eterno della vita ultraterrena. 3. Nuovo Testamento

Il panorama della riflessione teologica anticotestamentaria che abbiamo abbozzato va tenuto presente nell’elaborazione del percorso neotestamentario secondo una relazione di continuità e di discontinuità. Poi237

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ché l’avvenimento cristologico che segna il fulcro della novità cristiana si realizza in un contesto di attesa escatologica determinata da un prevalente ambiente apocalittico, secondo alcuni autori la traiettoria escatologica innerva l’intera riflessione teologica neteostamentaria. In questo senso E. Käsemann afferma: «L’apocalittica è diventata la madre di tutta la teologia cristiana». Il motivo della «vita oltre la morte» è presente nell’annuncio kerigmatico e viene elaborato nella teologia neotestamentaria coinvolgendo un vasta gamma di temi e di contesti. Focalizziamo il percorso teologico in tre tappe: a) l’interpretazione e la testimonianza di Gesù nei Vangeli sinottici; b) la riflessione teologica paolina; c) la riflessione teologica giovannea. Convertitevi e credete al Vangelo

Le prospettive evidenziate nello sviluppo della teologia anticotestamentaria vengono riprese e rielaborate nel contesto del Nuovo Testamento, il cui centro è rappresentato dalla persona e dalla missione di Gesù di Nazaret. Nei racconti evangelici emergono alcune linee teologiche che illuminano il tema della «vita oltre la morte», partendo dal nucleo kerigmatico della predicazione di Cristo (cf. Mc 1,1415). La dimensione «escatologica» del compimento del tempo è racchiusa nella bella «notizia» (euaggelion), che costituisce l’annuncio di conversione rivolto a tutte le genti. L’irruzione della predicazione di Gesù è un avvenimento escatologico che si colloca all’interno del processo interpretativo del giudaismo del tempo, segnato dall’attesa messianica e dal comune contesto apocalittico. Tale natura escatologica sarà anche una caratteristica della predicazione della chiesa primitiva, in continuità e in progressione con il messaggio salvifico della Pasqua. Occorre sottolineare che la no238

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Cap. 5  -  Traiettoria escatologica

vità della predicazione di Gesù va colta nel quadro dell’ambiente giudaico del tempo. Si è alla presenza di un mutamento che modifica lo standard di speranza di coloro che ascoltavano le parole di Gesù, così come mostrano le parabole che rinnovano le idee di regno apocalittico. Ecco perché colpisce l’insistenza sul presente e sull’imminenza della fine dei tempi. La vicinanza-presenza del regno risulta una costante peculiare del Vangelo, non eliminata neanche dalla redazione successiva dei testi evangelici, nonostante i sintomi di una crisi e di una smentita presente nelle difficoltà degli inizi della missione della chiesa. In esso si possono individuare due elementi caratterizzanti: il primo è rappresentato da una visione «deuteronomistica» della storia, intesa come attualizzazione della parola profetica; il secondo è contrassegnato dalla categoria di «regno di Dio» (dei cieli), la cui signoria avrebbe caratterizzato la fase finale della storia di Israele. All’interno di una tale prospettiva, l’attesa escatologica era legata a determinate figure che, si pensava, sarebbero state di aiuto nell’arrivo dei tempi ultimi. Con estrema sintesi, possono essere ricondotte a tre: la figura del Messia; il Profeta che deve venire; il Figlio dell’uomo. In particolare la figura simbolica del «figlio dell’uomo» (cf. Dn 7,14) viene interpretata dalla letteratura apocalittica come figura individuale, preesistente, che sconfiggerà i nemici nell’ultimo giorno. Fermiamo l’attenzione su quattro contesti evangelici: a) il brano di Mt 10,28; b) la risposta circa la risurrezione dei morti (Mc 12,18-27); c) l’atteggiamento di Gesù di fronte alla sua morte; d) l’indole escatologica dei racconti pasquali. Il potere di far perire (Mt 10,28)

Il brano di Mt 10,28 (cf. Lc 12,4-5) riporta la nota affermazione di Gesù centrata sul binomio ucci239

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dere il corpo/ l’anima (to sōma / tēn psychēn) rivolta ai discepoli, che illumina il successivo logion sinottico di Mt 10,39 (triplice tradizione: cf. Mc 8,35, Lc 17,33; cf. Gv 12,25). Mt 10,28 E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo.

Lc 12,4-5 Dico a voi, amici miei: non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo e dopo questo non possono fare più nulla. Vi mostrerò invece di chi dovete aver paura: temete colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella Geènna.

Nelle due versioni il detto di Gesù riprende la logica del perdere e del salvare la vita, il cui significato escatologico emerge dal contesto. Gesù non specifica in cosa consiste l’atto del salvare, ma esprime l’antitesi dell’azione salvifica con l’idea del perdere la vita, del morire. Allo stesso tempo affermerà in Mt 10,39 che colui che sceglie di «perdere la vita» (morire) per lui (per il Vangelo), cioè per la causa di Dio, la conserva non nel senso che torna a vivere una seconda volta sulla terra, ma che entra nell’esperienza della risurrezione. Nelle due versioni il perdere la vita per Dio viene presentato come una «uccisione del corpo», cioè come morte fisica. Pur nella sua drammaticità, l’uccisione del corpo rimane limitata alla vita terrena, mentre ciò che è rilevante è l’azione del far perire nella Geènna «anima e corpo». Il soggetto che ha il potere (exousian) di «gettare nella Geènna» è il principe del male e della morte, Satana. Si evidenzia un chiaro collegamento tra la dimensione della vita terrena e le conseguenze di una morte nella vita ultraterrena, contestualizzata nell’esortazione di non temere il martirio. Il contronto sinottico fa 240

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Cap. 5  -  Traiettoria escatologica

emergere la differenza tra le due versioni: in Mt 10,28 non si parla solo di «corpo» ma anche di «anima», sostenendo l’idea che il Maligno possa far perire anche l’anima. La versione lucana evita il termine «anima»: alcuni autori spiegano questa differenza come forma volgarizzata che alluderebbe alla concezione dell’immortalità. In definitiva perdere la vita «eterna», ritrovare la «vita» dopo la morte del corpo, sono motivi che richiamano e rimandano alla concezione già prefigurata nella letteratura biblica di stampo ellenistico (cf. 2Mac; Sap). La novità sta nella nuova interpretazione che il Signore conferisce a queste raccomandazioni, rilette alla luce della rivelazione pasquale. Non è Dio dei morti, ma dei viventi

La narrazione di Mc 12,18-27 costituisce l’unico passo nei Vangeli in cui appare il gruppo dei sadducei in una disputa dottrinale con Gesù sul tema della «risurrezione». Senza entrare nel merito delle questioni letterarie della pericope, il nostro interesse verte sulla risposta autorevole del Signore, nella quale va individuata una chiara prospettiva escatologica. Una considerazione previa può essere desunta dalla collocazione della scena in un contesto polemico: emerge il contrasto tra il pensiero di Gesù sulla vita oltre la morte rispetto alle posizioni dei suoi interlocutori sadducei (cf. At 23,6-8). Tale contrasto conferma la singolarità dell’interpretazione del Cristo sulla realtà della vita oltre la morte e sulla condizione delle anime che «non prenderanno né moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli» (Mc 12,25). La questione giuridica posta a Gesù, circa il matrimonio di sette fratelli con l’unica donna rimasta vedova e senza discendenza, focalizza l’attenzione su un doppio aspetto: il primo è legato alla permanenza di un qualche diritto matrimoniale nell’«aldilà» e il 241

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secondo alla «condizione di risurrezione» dell’essere umano «oltre la morte». La risposta del Signore si basa sull’autorità delle Scritture e sulla conoscenza della «potenza di Dio» (Mc 12,24 cf. Es 3,6.15): Rispose loro Gesù: «Non è forse per questo che siete in errore, perché non conoscete le Scritture né la potenza di Dio? Quando risorgeranno dai morti, infatti, non prenderanno né moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli. Riguardo al fatto che i morti risorgono, non avete letto nel libro di Mosè, nel racconto del roveto, come Dio gli parlò dicendo: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe? Non è Dio dei morti, ma dei viventi! Voi siete in grave errore» (Mc 12,24-27).

La risposta si collega alla concezione diffusa nel giudaismo e nella letteratura apocrifa del tempo, secondo la quale gli uomini sussisteranno oltre la morte per vivere con il Dio dei viventi (cf. Lc 16,19-31). In questo senso Gesù chiarisce in modo univoco la realtà «altra» della vita «oltre la morte», parafrasando la condizione dell’uomo come quella angelica e la risurrezione come un «risveglio». Complementari a questo testo sul destino dei morti sono alcuni brani del Vangelo lucano in cui si accenna al destino individuale dei giusti dopo la morte: in Lc 14,14 la conclusione della parabola del banchetto conferma la «ricompensa alla risurrezione dei giusti» per coloro che hanno invitato i poveri alla loro mensa. Nel racconto parabolico di Lc 16,22a si afferma che dopo la morte Lazzaro «fu portato dagli angeli nel seno di Abramo», per indicare la sussistenza di una vita oltre la morte per il giusto che viene premiato, mentre per l’iniquo epulone ci sarà la punizione. Un ultima menzione è rappresentata dalla promessa di Gesù sulla croce rivolta al buon ladrone si conclude con l’affermazione: «oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23,43). 242

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Cap. 5  -  Traiettoria escatologica

Dopo tre giorni risorgerà

Nei racconti evangelici è possibile distinguere l’atteggiamento di Gesù di fronte alla morte altrui e di fronte alla propria morte. Nel primo caso sono soprattutto due le scene che rappresentano la minaccia della morte incombente: la tempesta sul lago (Mc 4,35-41) e l’esperienza di Pietro che cammina sulle acque (Mt 14,22-23). Le narrazioni, con tutta la loro valenza simbolica e didattica, convergono nel focalizzare pricisi elementi teologici, rivelatori del ruolo di Cristo venuto a donare la vita. In primo luogo gli elementi minacciosi della notte, della tempesta, dell’abisso e della paura dei discepoli che indicano la tragicità della morte e della fine. In entrambi i racconti Gesù è posto al centro della scena come colui che governa le forze della natura ristabilendo la pace e la sicurezza nel cosmo e nel cuore dei presenti. I racconti di miracoli sulla natura evidenziano la dialettica della fede nella potenza vitale di Dio, che permette di superare l’angoscia della morte. Ancora più significativi risultano i tre racconti di risuscitazione: la figlia di Giairo (Mc 5,21-43), il figlio della vedova di Nain (Lc 7,11-17) e la straordinaria pagina di Lazzaro (Gv 11,1-44). Anche in queste tre narrazioni occorre interpretare l’azione miracolosa di Gesù come segno di solidarietà verso la sofferenza del distacco dalle persone care e l’apertura della fede alla speranza di una vita piena in Dio. Soprattutto nell’affresco giovanneo di Gv 11 il messaggio teologico ed escatologico collegato al segno è contenuto nelle stesse parole illuminanti del Cristo: «Chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno» (Gv 11,25-26). Circa il secondo aspetto riguardante l’atteggiamento del Signore di fronte alla sua morte i racconti della passione sottolineano la profonda 243

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umanità che caratterizza l’esperienza vissuta dal Cristo e preannunciata nel corso della sua missione (cf. Mc 8,31-32; 9,31; 10,32-34; 9,9; Mc 12,2-12). Gli autori evidenziano la consapevolezza e l’abbandono fiducioso di Gesù di fronte alla previsione della sua morte cruenta. Non sarebbe possibile interpretare la missione salvifica del Cristo se non nella «proesistenza» oblativa della sua persona, compiutasi in modo pieno e definitivo come obbedienza sacrificale nella volontà del Padre. In questa prospettiva si stabilisce una relazione stretta tra la dimensione «terrena» e quella «celeste», tra la realtà «storica» dell’esistenza segnata dal limite della morte e quella «metastorica» della «vita oltre la morte». Le parole e i segni che accompagnano la dinamica oblativa di Cristo confermano ampiamente tale prospettiva: la morte di Cristo nella sua tragicità è da intendersi come culmine della nuova ed eterna alleanza e come inizio di una «vita che vince» andando oltre i limiti umani. Perché cercate tra i morti colui che è vivo?

I racconti pasquali rivelano un’indole escatologica che definisce la concezione nuova della «vita» che vince la «morte» rispetto alle convinzioni e alle attese del giudaismo apocalittico. Di fronte a testi così importanti per l’esito della riflessione teologica, ci limitiamo a osservare la connotazione escatologica di tali narrazioni, attestata nel vocabolario e nei simboli che accompagnano gli avvenimenti pasquali. In primo luogo si evidenzia un comune schema narrativo dei testi pasquali dal carattere kerigmatico (cf. Mc 16,18; Mt 28,1-8; Lc 24,1-10; Gv 20,1-18). La tomba vuota, l’esperienza delle donne al sepolcro, la reazione di timore e di sconvolgimento, il dialogo con gli angeli, l’incontro con il Risorto a cui segue il mandato di annunciare l’evento pasquale sono elementi 244

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Cap. 5  -  Traiettoria escatologica

che formano una ben consolidata struttura narrativa della tradizione pasquale. La versione matteana inserisce l’evento in un quadro decisamente apocalittico, ricalcando i temi della venuta del «giorno del Signore» come giorno di vittoria. La versione marciana sottolinea la reazione impaurita delle donne e il loro timoroso silenzio (Mc 16,8). Il terzo evangelista rilegge l’annuncio pasquale in prospettiva teologica e spirituale, collegando gli avvenimenti mediante il registro della memoria delle «parole di Gesù». L’evento della risurrezione va interpretato come compimento delle Scritture e pienezza del tempo messianico; nel Cristo croficisso e risorto risiede il centro dell’eschaton. Nel quadro evolutivo della cristologia neotestamentaria il quarto Vangelo manifesta con maggiore evidenza la dimensione escatologica della Pasqua di Cristo, soprattutto attraverso l’impiego simbolico dei verbi di visione e la rilevanza della traiettoria spaziale/temporale che connota la rivelazione cristologica (cf. Gv 20,16). Il messaggio della risurrezione espresso narrativamente nei racconti pasquali (cf. Mt 28,6; Mc 16,6; Lc 24,6.34; Gv 20,1923) viene tematizzato nel primitivo kerigma comunitario, a partire dalle antiche formule cristologiche presenti nell’espitolario paolino (cf. 1Cor 15,3-5; Fil 2,6-11; 2Cor 5,14-21; Rm 6,1-14; Col 1,15-20). Il tempo si è fatto breve

Concordemente gli autori attribuiscono a san Paolo il merito di aver sviluppato la riflessione escatologica e segnatamente di aver elaborato in modo più sistematico le risposte concernenti la vita, la morte e la questione dello stadio «intermedio». I motivi escatologici incrociano diverse questioni che l’apostolo affronta nel quadro di una riflessione progressiva (realtà della morte, previsione della parusia, tipo 245

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di «corporeità» dei risorti, giudizio personale e universale, sorte dei morti, stadio «intermedio», vita ultraterrena, beatitudine finale, ecc.) segnata da uno sviluppo del suo pensiero intorno ai «novissimi». Ci limitiamo a segnalare gli aspetti più rilevanti al fine di cogliere la ricchezza del contributo paolino per lo sviluppo della teologia biblica. Un primo aspetto da considerare concerne l’originario kerigma cristiano condensato nell’affermazione di 1Cor 15,3b-5. Scrivendo ai Corinzi l’apostolo afferma di aver trasmesso quello che anch’egli ha ricevuto: «che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (cf. la formula kerigmatica in Rm 4,24; 8,11; 10,9; Gal 1,1; Ef 1,20; Col 2,12). Similmente troviamo in Rm 1,3b-4 l’espressione cristologica: «il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti, Gesù Cristo nostro Signore». Come è possibile notare il motivo della risurrezione «dei morti» appare una costante nell’annuncio kerigmatico delle prime comunità cristiane. Indicando il passaggio dalla «vita terrena» alla vita oltre la condizione di morte, si nota che questa precisazione inserita nel primitivo kerigma cristiano non è superflua, ma possiede una radicale novità. Risuscitando il Cristo e in lui tutti i credenti, Dio non risveglia i defunti per collocarli nello sheol: la risurrezione di Cristo produce la vittoria sullo sheol ossia sul regno dei morti destinandoli a una «vita oltre la morte». Come un ladro di notte

La connotazione «occasionale» della riflessione paolina espressa nella forma epistolare conferisce al messaggio escatologico una singolare efficacia comu246

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nicativa. Infatti la trattazione del tema si esprime in contesti e forme diverse, passando dalle iniziali soluzioni escatologiche proposte ai Tessalonicesi (cf. 1Ts 4,13-5,11) alla più ampia e profonda riflessione sulla risurrezione contenuta in 1Cor 15 e ulteriormente sviluppata nelle successive lettere. Secondo questa premessa ermeneutica occorre considerare in modo unitario la trattazione paolina del tema della «vita oltre la morte». In concomitanza con la tensione escatologica delle prime comunità circa la parusia, l’Apostolo offre una prima soluzione in 1Ts 4,13-5,11. Ai credenti di Tessalonica che ritenevano imminente la parusia di Cristo, l’apostolo risponde che anche i morti parteciperanno alla sua parusia in quanto anche loro risusciteranno e andranno incontro al Signore con quanti ancora sono in vita (cf. 1Ts 4,1518). La venuta del Signore glorioso sarà improvvisa, ma per i «figli della luce e del giorno» che l’attendono vigilanti, il «giorno del Signore» sarà giorno di salvezza (1Ts 5,1-11). Il centro della riflessione è rappresentato dalla salvezza escatologica che Cristo risorto realizza per i vivi e per i morti. La parola rivolta ai Tessalonicesi si traduce in una esortazione a consolidare la fede nel Cristo morto e risorto, capace di consolare nella speranza e di recare la salvezza. Il modo e il tempo della parusia restano un mistero. L’assunzione dei credenti «nel Cristo» vivo e nella comunione con la sua gloria è l’ultimo atto di un progressivo cammino di fede in cui viene rivelata la pienezza nel Risorto nella creazione e nella storia. È noto come lo sviluppo del tema in 2Ts subisce una rettifica riguardante l’immimenza della parusia. L’intento dell’apostolo è quello di consolare e di rassicurare i suoi intelocutori specificando che il credente non deve temere nulla dalla presenza operante del male nella storia. La manifestazione finale del Cristo sarà preceduta dall’apostasia e dalla rivelazione dell’«uomo iniquo», de247

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terminata da Satana. Questi agisce già, ma non può dispiegare la sua azione in modo totale per via di un impedimento che lo trattiene. Nonostante alcune differenze espresse in 1-2Ts, la linea intepretativa di Paolo appare chiara: la parusia rientra nella salvezza progettata da Dio che si apre a una nuova prospettiva determinata dall’evento della morte e della risurrezione di Cristo. Il mistero pasquale non è solo la causa della risurrezione dei credenti ma costituisce l’unica mediazione reale del passaggio dalla vita terrena alla vita «oltre la morte». L’apostolo lascia aperte alcune domande che sviluppa nel carteggio corinzio: Quale tipo di vita inaugura la risurrezione? Come avviene la risurrezione? Chi sono coloro che risorgono? Cristo risorto, primizia di coloro che sono morti

La sistematizzazione escatologica di 1Cor 15 va considerata come punto di arrivo non solo della lettera ai Corinzi ma dell’intera sintesi teologica dell’apostolo. Avendo presente il quadro sincretistico delle idee escatologiche che circolavano nell’ambiente corinzio, focalizziamo la nostra attenzione sulle posizioni assunte dall’apostolo, che articola la sua risposta sulla risurrezione secondo tre nodi problematici: 1) il «fatto» della risurrezione (15,21-34); 2) il «modo» della risurrezione (15,35-49); 3) il «quando» della risurrezione (15,50-58). ❑❑Dopo

aver affermato la centralità della risurrezione di Gesù, testimoniata e professata dalla prima comunità cristiana, Paolo si sofferma sul «fatto» della risurrezione e sulle consegueze che ne derivano per i credenti. La tesi seguita si basa sulla convinzione che l’affermazione della risurrezione di Cristo, primizia di coloro che sono morti (15,20), non ha solo una valenza personale ma universale. Per sostenere questa

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Cap. 5  -  Traiettoria escatologica

tesi l’apostolo fa riferimento a due presupposti comuni nella tradizione ebraica. Il primo è rappresentato dal legame tra Adamo, che è all’origine della specie umana e il resto dell’umanità. Seguendo la tradizione rabbinica questo legame «corporativo» permette di comprendere come la realtà del «peccato» commesso dal primo uomo abbia conseguenze sull’intero genere umano. Il secondo presupposto distingue due tipi (typoi) di uomini: uno inferiore («terrestre»: in quanto plasmato dalla terra) e l’altro superiore («celeste»: in quanto creato a immagine di Dio). Applicando questi due presupposti l’apostolo elabora la tesi sulla risurrezione e la vita oltre la morte: l’umanità ha due capostipiti, Adamo e Cristo che esercitano un ruolo diverso. Il primo, Adamo, è capostipite dell’umanità nell’ordine della fattualità, mentre il secondo, Cristo lo è nell’ordine della fede. Tenendo presente questa differenza Paolo afferma che a causa di Adamo è entrata nel mondo la morte e «in lui» tutti muoiono, mentre «in Cristo tutti riceveranno la vita» (15,22). Paolo precisa che i credenti devono saper attendere, perché la «vita oltre la morte» avverrà nella parusia (15,23). Nei vv. 24-28 si decrivono con un linguaggio apocalittico gli avvenimenti finali: Cristo primizia porta a compimento il regno, annullando ogni principato e potestà, ponendo ai suoi piedi tutti i nemici. Dopo aver annullato la morte ultimo nemico, Cristo si sottometterà a Dio padre, consegnando nelle sue mani ogni potere. ❑❑In

1Cor 15,35-49 Paolo risponde a due domande sul «come» avverrà la risurrezione utilizzando l’analogia agricola del seme. La prima domanda verte sulla modalità dei corpi che risuscitano. In 1Cor 15,3649 l’apostolo sviluppa un «argomento di ragione» (la regola ermeneutica del qal wāh. ōmer) basandosi sulla prova scritturistica di Gen 2,7. Come il seme 249

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non prende vita quando è stato seminato nella terra se non trasformandosi, così il corpo non risuscita se non passando attraverso la morte e trasformandosi nella risurrezione. Pertanto c’è continuità e discontinuità tra il seme e la pianta: allo stesso modo sussiste una continuità e una discontinuità tra il corpo (sōma) umano e il corpo risorto. Per superare l’idea di univocità del «corpo» e sottolineare la pluralità e la diversità vengono elencate le specie animali (carne di animali, carne di uccelli, carne di pesci). Ugualmente si fa allusione alla diversità dello splendore dei «corpi terrestri» e dei «corpi celesti» (vv. 39-41). Tale analogia si applica alla condizione dell’uomo prima e dopo la risurrezione. Nei vv. 42b-44 l’apostolo non scende nei particolari, ma segnala in quattro antitesi costruite in forma parallela la nuova condizione del corpo risuscitato e segnatamente della «vita oltre la morte»: – è seminato nella corruzione, risorge nell’incorruttibilità; – è seminato nella miseria, risorge nella gloria; – è seminato nella debolezza, risorge nella potenza; – è seminato corpo animale, risorge corpo spirituale. Per confermare questa tesi si ricorre alla prova scritturistica (v. 45) che permette a Paolo di collegare la precedente dimensione terrena di Adamo (Gen 2,7: «essere vivente») con la successiva realtà cristologica dell’uomo spirituale («spirito datore di vita»). In definitiva Paolo costruisce il seguente paragone: come il «primo uomo» (Adamo) è di «terra», mentre il secondo uomo viene dal «cielo», così i credenti «prima» portano il corpo terreno (l’immagine dell’uomo terreno) e «dopo» porteranno il corpo celeste (immagine dell’uomo celeste). L’argomentazione paolina verte sulla distinzione tra «corpo fisico e corpo spirituale» (sōma psychikon e sōma pneumatikon). Nella dialettica tra il mondo «fisico» e quello «spirituale» 250

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va colta l’apertura alla «vita oltre la morte». Il corpo che i credenti avranno nella vita oltre la morte corrisponderà alla situazione finale dell’uomo escatologico, collegato con la persona di Cristo risorto, che è «spirito datore di vita». ❑❑Un

ultimo aspetto è sollevato dalla questione del «quando» della risurrezione. Riprendendo le considerazioni svolte nel carteggio ai tessalonicesi, Paolo approfondisce il tema della fine del mondo presente utilizzando un’ampia gamma di simboli apocalittici. Nei vv. 50-58 troviamo tre concetti collegati al compimento della «vita oltre la morte»: il «regno di Dio» (15,50), il concetto di «incorruttibilità» (aphtharsia) e l’allusione al «mistero» (mysterion: 15,51). Nessuno conosce il «quando» della parusia, ma Paolo annuncia con certezza che «tutti», morti e viventi, saranno trasformati e questa trasformazione rappresenta l’inizio di una nuova condizione fondata sulla risurrezione per una «vita oltre la morte». Il ricorso scritturistico a Is 25,8a e Os 13,14b (cf. 1Cor 15,54-55) evidenzia la sconfitta definitiva della morte e ricorda che questa è entrata nel mondo per il peccato e che la forza del peccato è la legge (cf. Rm 5,12-21). Il ringraziamento finale è un forte incoraggiamento per i credenti (vv. 57-58): si sottolinea la centralità della Pasqua di Cristo che ha dato inizio alla trasformazione spirituale del mondo mediante la sua risurrezione. In definitiva Paolo elabora una visione sufficientemente completa dell’escatologia cristiana, unendo sapientemente le attese del giudaismo del tempo con i dati della rivelazione cristologica. La «vita oltre la morte» è un dato acquisito e costituisce un punto di arrivo della rivelazione neotestamentaria, che apre i credenti all’esercizio della speranza. Nel quadro escatologico paolino si intersecano diversi elementi di tipo antropologico e teologico che concorrono a pun251

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tualizzare la realtà misterica della vita oltre la morte. La consapevolezza del giudizio finale è espressa anche in 1Cor 5,5 e 7,29 (cf. 2Pt 3,3- 10). Vivere con Cristo dopo la morte

Un ulteriore sviluppo escatologico è individuabile nelle affermazioni riportate in Fil 1,20-24 e 2Cor 5,1-10. Si tratta di due testi che testimoniano primariamente la natura «mistica» e personale della fede di Paolo. R. Penna ha rilevato che i due testi condividono quattro elementi comuni: a) l’esperienza della sofferenza; b) il desiderio del compimento; c) il valore della vita presente; d) la dimensione cristologica. Nel primo testo l’apostolo presenta ai Filippesi l’esito della sua missione mentre è in carcere, sottolineando l’importanza dell’unione con Cristo di fronte alle prove che lo attendono. A partire da questa profonda convinzione egli afferma in Fil 1,19-24: So infatti che questo servirà alla mia salvezza, grazie alla vostra preghiera e all’aiuto dello Spirito di Gesù Cristo, secondo la mia ardente attesa e la speranza che in nulla rimarrò deluso; anzi nella piena fiducia che, come sempre, anche ora Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia. Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo.

Il testo paolino mostra alcune prospettive escatologiche considerando il linguaggio «testamentario» che presenta il binomio morte/vita come un passaggio necessario secondo il progetto di Dio. È rilevante considerare il vocabolario con cui l’apostolo esprime tale passaggio. L’espressione paolina del v. 20 è costruita in una forma antitetica e ricorda la fraseologia sal252

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mica dell’uomo fedele che «confida in Dio»: «Non sarò confuso» (cf. Sal 21,6; 24,2; 68,7; 118,31.80.116), «Il Signore sarà magnificato, sarà esaltato» (cf. Sal 33,4-6; 34,26-27; 39,17). In primo luogo si coglie il motivo dell’attesa e della speranza (v. 20) con cui l’apostolo intende segnalare la natura escatologica della propria missione. Paolo è di fronte a un dilemma: desideriare di essere sciolto dal corpo per liberare dai «vincoli terreni» il suo essere con Cristo, oppure preferire il non morire, restando a servizio della comunità che ha ancora bisogno del suo aiuto. Rispetto alla riflessione escatologica contenuta nelle lettere ai Tessalonicesi e segnatamente a 1Cor 15 il contesto è radicamente diverso. Nelle precedenti lettere l’apostolo ha risposto a precise questioni di natura escatologica rigardanti la fine della storia del mondo e la risurrezione. Nel nostro contesto prevale la testimonianza «esistenziale» di Paolo che pensa alla propria morte in relazione alla pienezza di vita futura. Il cambiamento linguistico è dovuto alla diversa sensibilità della comunicazione, che assume simboli giudaco-apocalittici in 1-2Ts e 1Cor 15, mentre appare maggiormente connotata dalla cultura ellenistica in ambiente filippese. Pur nella varietà del vocabolario e del contesto, il comune referente escatologico è rappresentato dalla centralità cristologica della riflessione paolina (cf. 1Ts 4,17; 1Cor 15,20-28; Fil 1,23). Il fatto che Paolo affermi la condizione dell’essere con Cristo dopo la morte implica uno sviluppo del pensiero escatologico: oltre all’attesa della parusia (cf. Fil 3,20-21 dove si parla del «corpo misero» e del «corpo glorioso»), l’apostolo lascia supporre uno «stato intermedio» tra l’essere con Cristo alla morte e la risurrezione alla parusia. 2Cor 5,1-10 si colloca nel tumultuoso contesto apologetico del carteggio corinzio e rivela un collegamento motivazionale e tematico con Fil 1,19-24. 253

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A partire da 2Cor 4,7 l’apostolo tratta delle difficoltà del suo ministero che lo espongono frequentemente al pericolo di morte, nella condivisione dello stesso destino del Cristo (2Cor 4,10). Per questa ragione la sua convinzione di essere associato al mistero pasquale di Gesù lo porta a sviluppare il tema della «vita oltre la morte» (cf. 2Cor 4,13-14) centrata su un’escatologia individuale e non collettiva. In 2Cor 4,16-18 la traiettoria della temporalità viene decifrata mediante alcune antitesi che preparano la riflessione escatologica seguente: la situazione attuale della tribolazione non è paragonabile a quella futura della gloria (cf. Rm 8,18), l’uomo «esteriore» si disfà mentre quello «interiore» si rinnova, non fissa lo sguardo su cose «visibili» (temporanee) ma su realtà «invisibili» (eterne). In 2Cor 5,1-4 l’apostolo esplicita il motivo della fede nella vita oltre la morte: Sappiamo infatti che, quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli. Perciò, in questa condizione, noi gemiamo e desideriamo rivestirci della nostra abitazione celeste purché siamo trovati vestiti, non nudi. In realtà quanti siamo in questa tenda sospiriamo come sotto un peso, perché non vogliamo essere spogliati ma rivestiti, affinché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita.

Il brano paolino combina insieme elementi culturali semitici ed ellenistici. La posizione dell’apostolo oscilla tra una prospettiva escatologica in rapporto a ciò che deve venire oltre la storia e una prospettiva spiritualistico-metafisica che considera un semplice «aldilà» delle cose materiali. Tale indeterminatezza è verificabile sia nel vocabolario figurato sia nell’accento posto sulla situazione «individuale» dei credenti. Data la complessità del testo, possiamo riassumere le indicazioni escatologiche in quattro aspetti. 254

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In primo luogo l’apostolo afferma la permanenza della dimensione personale e corporea dell’uomo dopo la sua morte. Un secondo aspetto è costituito dalla riflessione finalizzata a presentare con un linguaggio figurato il motivo della «morte individuale». Le condizioni antropologiche mediante le quali si realizza il passaggio dalla morte alla vita eterna restano oggetto di dibattito. Segnaliamo alcune possibili interpretazioni: a) con la parusia si mette fine alla vita terrena (essere «sopravestiti» senza rinunciare al vestito attuale); b) con la morte l’uomo sperimenta già una nuova e stabile dimensione somatica; c) tra la morte individuale e la parusia si dà uno «stadio intermedio» tra il provvisorio e il definitivo. L’immagine della «nudità» sembrerebbe accreditare la terza ipotesi. Sull’interpretazione dell’immagine della nudità in 2Cor 5,3 vi sono diverse ipotesi: alcuni autori protestanti vedono nella nudità un’allegoria della dannazione eterna, che esprime la condizione dei reprobi nell’ultimo giorno, i quali non risusciteranno e non riceveranno alcun rivestimento di corpo celeste. La nudità sarebbe una separazione dal vestito che per il battezzato è Cristo; in tale modo si ammette la possibilità di essere svestiti di Cristo al momento della morte, in quanto trovati infedeli a lui. Nella nudità c’è un eco dell’antropologia greca che presume una condizione somatica tra la morte e la parusia, in attesa di assumere un corpo celeste definitivo. Un terzo aspetto riguarda il ruolo dello Spirito Santo (v. 5: pneuma) nel processo di trasformazione escatologica. Paolo ritiene che il compimento della «vita oltre la morte» avviene per l’azione dello Spirito Santo donato da Dio come «caparra» (cf. Rm 8,11.23; Ef 1,14; 4,30). Un ultimo aspetto viene esposto in 2Cor 5,6-10. Si ribadisce che la condizione della vita dell’uomo oltre la morte è definita dalla «comunione» con il Signore. In questo «abitare con il Signore» 255

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si porta a compimento il desiderio che accompagna i credenti lungo il cammino della loro esistenza terrena. Scrive l’apostolo: «Siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore» (v. 8; cf. Fil 1,23). Secondo questa prospettiva ciascun credente, consapevole che comparirà davanti al tribunale di Cristo per ricevere la ricompensa delle opere compiute, interpreta la propria esistenza con il «coraggio» che proviene dalla fede e dalla speranza di poter ottenere la «vita oltre la morte». Le questioni sollevate nella visione paolina circa l’escatologia e segnatamente il tema della «vita oltre la morte» si presentano in una forma complessa e progressiva, sia per la difficoltà del tema in sé, che per la natura «epistolare» della riflessione connotata dalla dialettica ecclesiale. Tre considerazioni finali posono contribuire a una sintesi dello sviluppo dell’escatologia in Paolo. La teologia paolina è anzitutto connotata in senso cristologico-trinitario e tale qualificazione determina l’intero impianto del suo pensiero, compreso anche il motivo della «vita oltre la morte». In secondo luogo l’apostolo riesce a coniugare la matrice semitica (le diverse tradizioni e i vari modelli ermeneutici) con il linguaggio (e il pensiero) ellenistico intorno alla questione della «vita oltre la morte». In questa singolare rielaborazione la proposta paolina manifesta una significativa novità. Un ultimo aspetto è rappresentato dall’orientamento «spirituale» e decisamente «pastorale» della riflessione paolina, che adotta spesso il registro della testimonianza biografica, prima ancora di considerare lo sforzo argomentativo e la sua teorizzazione concettuale. Io sono la via, la verità e la vita

Un’ultima traiettoria neotestamentaria è rappresentata dalla teologia giovannea, il cui percorso culmina nell’Apocalisse. Riteniamo opportuno offrire le 256

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principali coordinate escatologiche di questa sezione del Nuovo Testamento, articolando la riflessione in due parti: la «vita oltre la morte» nel quarto Vangelo; la visione escatologica nell’Apocalisse. La riflessione escatologica del quarto Vangelo si presenta come una chiave interpretativa determinante per comprendere l’impianto complessivo dell’opera giovannea. Comunemente gli autori rilevano un «doppio livello» intepretativo della rivelazione cristologica: presente e futuro. In questo senso le realtà ultime vengono presentate nel quarto Vangelo secondo una duplice prospettiva: quella «tradizionale» che riserva tali eventi alla fine del tempo e quella più «originale» che li anticipa al presente. Annota R. Fabris: L’indicazione giovannea della duplice dimensione presente e futura della salvezza comunicata da Gesù pone in evidenza quello che è un aspetto già presente nei testi profetico-apocalittici ripreso nella tradizione evangelica: la realtà dinamica della salvezza. L’azione salvifica di Dio irrompe nella storia e la porta a suo compimento oltre l’orizzonte mondano. Nel quarto Vangelo è ripreso questo modello tradizionale e riletto in chiave cristologica. Nella venuta di Gesù, il Figlio unigenito e l’inviato definitivo di Dio, si ha l’evento decisivo e ultimo della salvezza che si accoglie nella fede.

In linea con la riflessione neotestamentaria, anche la visione escatologica giovannea è strettamente collegata con la fede cristologica. Nel quarto Vangelo si dà una particolare attenzione al tema della «vita» (zoē). Il motivo della vita e il suo vocabolario vengono impiegati sia in senso terreno che escatologico (la vita è «dono»: cf. Gv 4,10). Proprio perché la vita è una «realtà donata» dal Padre (Gv 5,26) e passa attraverso Gesù (Gv 17,1-2), il Signore è colui che la possiede e la dà agli uomini (Gv 5,29; 12,25). L’inizio della vita terrena è segnata dalla nascita, ma la «vita oltre la morte» implica una 257

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salvezza che «viene dall’alto» e non necessariamente coincide con l’esistenza umana. È questa «vita» che rende coloro che la possiedono «figli di Dio» (Gv 1,12). Alla luce di questa fondamentale rivelazione, espressa soprattutto nel dialogo con Nicodemo (cf. Gv 3,1-21), è possibile cogliere la giusta importanza che la teologia giovannea conferisce al nostro tema. La «vita eterna» è strettamente collegata con il dono della salvezza concesso a colui che crede in Cristo, tale processo è inevitabilmente sottoposto a un «giudizio». A differenza dei sinottici e di Paolo secondo cui i giudizio avverrà alla fine dei tempi con la parusia di Cristo, nel quarto Vangelo l’attualizzazione del giudizio avviene nel presente e determina la risurrezione dell’ultimo giorno con la partecipazione alla «gloria» finale del Figlio di Dio (cf. 1Gv 2,18). Il binomio «credere/avere la vita» costituisce il dinamismo centrale della rivelazione del Verbo incarnato. È significativo il collegamento tra fede e vita che si trova in Gv 3,17-18 e 12,47-48, dove si afferma che il giudizio finale, pur rimanendo una «realtà futura» (Gv 12,48), è anticipato al momento storico in cui l’uomo rifiuta di accogliere Cristo: «Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio» (Gv 3,18). Il brano di Gv 3,14-18 presenta una ricca soteriologia che collega l’annuncio della salvezza universale e il dono della «vita eterna» per mezzo del Figlio unigenito di Dio. Soteriologia ed escatologia convergono nel compimento della rivelazione cristologica, in modo tale che il dono della «vita oltre la morte» (o la condanna alla rovina eterna) sono considerate realtà presenti, in quanto inaugurate dall’incontro del credente con Cristo «risurrezione e vita» (Gv 11,25). Più precisamente l’evangelista riporta il tema della «risurrezione» in tre contesti: nell’apologia di Ge258

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sù dopo la guarigione del paralitico alla piscina di Betzatà (Gv 5,29), nel discorso eucaristico di Cafarnao (Gv 6,39-40.44-45) e nel dialogo con Marta che precede la risurrezione di Lazzaro (Gv 11,24-25). È soprattutto la pericope di Gv 5,28-29 a indicare la realtà della «vita oltre la morte», sottolineando la diversa «destinazione» dei risorti: «Viene l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e usciranno, quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna». Gesù insegna che tutti i defunti risorgeranno per una vita «oltre la morte» a opera del Padre (cf. Gv 5,25-26), ma la loro sorte sarà sottoposta a un giudizio sul «bene» e sul «male» compiuto nel corso della loro esistenza terrena. L’espressione «fare il bene e il male» compresa alla luce di Gv 3,19-21 si riferisce a coloro che accolgono o rifiutano la «luce», vale a dire, a coloro che credono alla rivelazione del Verbo incarnato o a coloro che restano nell’incredulità. Un’ulteriore conferma del nostro tema è fornita nel discorso che Gesù pronuncia nella sinagoga di Cafarnao, rivelando a tutti la volontà del Padre della risurrezione finale e del dono della vita eterna. Il figlio non deve perdere nulla di quanto il Padre gli ha affidato, ma deve risuscitare i suoi amici nell’ultimo giorno (Gv 6,39-40.54). Ancora più chiara appare l’affermazione escatologica di Gesù in dialogo con Marta (Gv 11,24-25), dove troviamo la contrapposizione fra la risurrezione alla fine dei tempi e l’anticipazione di tale evento nel segno della vita donata al fratello Lazzaro. In definitiva la fede nel Cristo apre alla risurrezione per una «vita oltre la morte» che consente ai credenti di contemplare la gloria del Figlio unigenito di Dio (cf. Gv 17,24). In quest’ultimo passo Gesù chiede al Padre che i suoi discepoli siano con lui nel regno celeste, affinché si sazino di felicità contemplando la sua 259

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gloria divina (cf. Gv 1,14; 2,11), posseduta fin dalla creazione (Gv 17,5-24). Ritornando in cielo, il Signore risorto va a preparare un posto ai suoi amici nella «casa del Padre» dove vi sono molte dimore e in questo stato di felicità i discepoli vivranno in Dio partecipando della sua gloria (Gv 14,2-3). In definitiva il simbolismo giovanneo coniuga in una formula nuova e densamente teologico-spirituale la tematica escatologica della «vita oltre la morte», collegandola alla rivelazione cristologica e al dono della «vita celeste» che deriva dall’azione trinitaria (cf. 1Gv 1,23) esercitata sulla storia degli uomini, non più estranei ma «resi figli» di Dio (Gv 1,12; 1Gv 2,29-3,2; 5,20). Io sono l’Alfa e l’Omèga

Lo sviluppo dell’escatologia giovannea si esprime in una forma unica attraverso il linguaggio e la teologia dell’Apocalisse. Avendo presente la complessità letteraria e interpretativa del libro, si possono riassumere i motivi e i simboli escatologici che definiscono il percorso teologico di questa importante opera che conclude il canone biblico. In primo luogo va segnalata la continuità cristologica con il quarto Vangelo. L’autore dell’Apocalisse intende rileggere e declinare l’opera salvifica di Dio in Cristo applicandola alla situazione ecclesiale, che conosce un contesto di prova e di persecuzione. Sul piano teologico l’Apocalisse non aggiunge elementi ulteriori alle posizioni espresse nel Vangelo giovanneo e segnatamente nel successivo epistolario. La novità della visione escatologica del nostro autore consiste piuttosto nella capacità di rileggere simboli ed eventi biblici applicandoli alla situazione dei destinatari mediante un codice comunicativo altamente simbolico. Tale rilettura svolta con singolare abilità e notevole complessità espressiva, si inquadra nell’am260

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biente apocalittico di matrice efesina e imperiale. Mediante l’impiego del genere apocalittico, l’autore elabora un dialogo «liturgico» con i suoi destinatari, proponendo loro la rivelazione celeste in un itinerario «tensionale» con un susseguirsi in crescendo di messaggi e simboli da decodificare e applicare. Poiché il «tempo è vicino» (Ap 1,3) e il «grande giorno» di Dio sta per compiersi (Ap 16,14), i credenti sono chiamati a una lettura sapienziale delle sfide e delle prove che vivono nel loro presente (teologia della storia), mentre il «male» sta operando in tutte le sue forme demoniache. Il potere di Babilonia (la città secolare per eccellenza) che si chiude a Dio e alla sua trascendenza verrà superato per opera dell’«Agnello immolato» (Cristo risorto). Solo allora, alla venuta del Signore Gesù (Ap 22,20), i credenti potranno finalmente entrare da persone libere nella «Gerusalemme nuova» (Ap 21,1-22,5) e prendere dimora dove regna Dio e l’Agnello. Anticipati dall’immagine «comunitaria» dei 144 mila che seguono l’Agnello sul monte Sion (Ap 14,15), dopo essere stati istruiti dai «due testimoni» (Ap 11,1-13), tutti i credenti parteciperanno al regno millenario di Cristo (Ap 20,1-6), dopo che la morte e gli inferi saranno resi inefficaci, giudicati e condannati alla fine eterna (Ap 18,21-24). La lettura dell’opera fa emergere un apporto notevole per la teologia biblica, in collegamento ai libri apocalittici dell’Antico Testamento. Focalizziamo due simboli che si collegano al tema della «vita oltre la morte»: il motivo della «prima e della seconda morte» e la «beatitudine dei morti» nella Gerusalemme nuova. Sii fedele fino alla morte

Il tema della morte (thanatos) è connesso con la presentazione del Cristo risorto, che ha vinto e pos261

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siede «le chiavi della morte e degli inferi» (Ap 1,1718). In questo contesto la morte è intesa come forza cosmica, unita all’immagine dell’Ade (= inferi, sheol). Essa indica il fallimento dell’umanità peccatrice, la sua lontananza da Dio e l’impossibilità di raggiungerlo dopo la fine della vita terrena. Questa forza nemica è in potere di Cristo e non ha alcuna possibilità di opporsi al Signore risorto e di vanificare il progetto salfivico di Dio Padre (cf. Gv 5,26-29). In quanto vincitore della morte il Risorto ordina al veggente di scrivere gli eventi della storia e le implicazioni che derivano per i credenti (Ap 1,19). Essi sono chiamati alla fedeltà nelle tribolazioni seguendo Cristo che era morto e ora «vive». In tal modo il vincitore non sarà colpito dalla «seconda morte» (cf. Ap 2,11). Questa espressione contestualizzata nella lettera alla chiesa di Smirne conferma l’idea che la prima morte corrisponde al termine naturale della vita fisica, mentre la seconda morte è la condizione di dannazione spirituale ed eterna che sarà esplicitata nella visione conclusiva del libro (cf. Ap 20,6.14; 21,8). Considerando complessivamente la presentazione della «storia della salvezza» che domina lo sviluppo rivelativo del libro, l’autore intende sottolineare il processo di trasformazione profonda operato da Dio mediante la Pasqua di Cristo, Agnello immolato. È il sangue dell’Agnello che vince l’accusatore, unito all’impegno fedele della testimonianza cristiana. Mediante la forza della Pasqua i credenti sono resi fedeli e capaci di opporsi al male e di disprezzare la propria vita fino alla morte (Ap 6,9-10; cf. Fil 2,8). Essi hanno vinto perché restano uniti all’Agnello. Pur concludendo la loro esistenza terrena (prima morte), essi non saranno colpiti dalla «seconda morte». Non si comprende adeguatamente la «beatitudine» dei morti e la loro abitazione nella Gerusalemme nuova se non si coglie il significato della «seconda morte». 262

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Questa viene presentata nell’ultima sezione del libro (cf. Ap 17,1-22,5), che narra del giudizio definitivo contro Babilonia e il potere di Satana e l’inaugurazione della nuova realtà della Gerusalemme celeste. Le scene che si susseguono nella sezione di Ap 17-22 sono collegate mediante una serie di inclusioni e introdotte da figure angeliche con una funzione interpretativa. Aperta dalla visione di Babilonia-prostituta (Ap 17,1-18), la sezione si sviluppa in quattro unità tematiche introdotte ciascuna dalla visione di un angelo diverso (Ap 18,1-20; 18,21-24; 19,17-21; 20,121,8). Al centro domina la figura del «Logos di Dio» che scende dal cielo per il grande scontro (Ap 19,1116). La quinta scena presenta l’esito dello scontro (Ap 19,17-21) e appare per la prima volta l’immagine dello «stagno di fuoco» in cui vengono gettate le due bestie, mentre i potenti della terra vengono annientati dalla parola del Cristo, simboleggiata dalla spada. La sesta scena (Ap 20,1-21,8) riprende il motivo della battaglia escatologica e prepara l’apparizione conclusiva della nuova città santa. Occorre rilevare che il testo esprime una funzione parenetica e serve a incoraggiare i credenti affinché restino fedeli fino alla morte: in questo modo essi potranno vincere e ottenere la beatitudine escatologica. In Ap 20 compare il tema della «vita» delle anime dei decapitati che regnano con Cristo per «mille anni» a differenza degli altri morti (cf. Ap 20,4-5). In questo contesto l’autore esprime la concezione della «vita oltre la morte» definendo questa situazione «prima risurrezione» (Ap 20,5.6) che si contrappone alla «seconda morte» simboleggiata dallo stagno di fuoco (Ap 20,14; cf. 21,8). Attraverso l’impressionante serie di immagini apocalittiche in Ap 20 è possibile decodificare il messaggio teologico contenuto nel testo: esso presenta il destino definitivo del diavolo, dei suoi angeli e di coloro che non «sono iscritti nel libro 263

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della vita» in quanto hanno peccato (cf. Ap 20,15; 21,8). Per indicare questa rovina finale di quanti si sono opposti a Dio, l’autore adopera l’immagine della «seconda morte». Un cielo nuovo e una terra nuova

In questa prospettiva il libro rivela un capovolgimento escatolgico notevole. La seconda morte non è semplicemente l’esclusione dal mondo futuro, ma comporta la pena infinita dello stagno di fuoco: a esso sono destinati coloro che hanno rifiutato Dio e la sua salvezza. Anche la morte e l’Ade, dopo aver restituito tutti i morti da loro contenuti, sono gettati nello stagno di fuoco insieme ai poteri e ai simboli del male che hanno dominato il mondo. Il capovolgimento escatologico che l’Apocalisse annuncia consiste nel giudizio finale secondo cui i potenti del mondo vengono annientati e destinati alla «seconda morte» mentre i fedeli a Dio e all’Agnello entrano nella beatitudine della Gerusalemme nuova dove «non ci sarà più la morte» (Ap 21,4). In questa prospettiva teologica della «vita oltre la morte» vanno interpretate le «sette beatitudini» (Ap 14,13) presenti nel libro, nelle quali viene riassunta la condizione definitiva di felicità dei credenti. L’immagine della Gerusalemme nuova inquadrata nella visione finale dei cieli nuovi e della terra nuova (Ap 21,1) è presentata come una fidanzata adorna per il suo sposo (Ap 21,2). In questo incontro si esprime la comunione nuziale nella «vita oltre la morte» tra Dio e tutto il popolo fedele, che ripropone al centro della scena escatologica il ruolo dell’Agnello (Ap 21,9) la cui presenza esclude ogni forma di tempio (Ap 21,2231) e altre mediazioni non più necessarie. In Dio e nel Cristo si realizza la «vita oltre la morte» che segnano la realtà escatologica della Gerusalemme nuova. 264

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Cap. 5  -  Traiettoria escatologica

Conclusione

Il percorso della terza traiettoria ha focalizzato un ulteriore ambito della teologia biblica, che interprella l’orizzonte della speranza escatologica. Si tratta di una sintesi che integra le precedenti due traiettorie e fornisce importanti conseguenze per la riflessione teologica e pastorale. Riassumendo il nostro itinerario, ci sembra utile puntualizzare i contenuti emersi secondo tre essenziali prospettive. La prima concerne il tema dominante della «vita». Intesa come un «dono di Dio», la categoria della «vita» viene declinata nello sviluppo biblico-teologico in diversi contesti e forme a partire dall’atto creativo fino alla visione apocalittica della Gerusalemme nuova. Si tratta di un tema che contraddistingue la memoria biblica e proietta il lettore nella visione escatologica di una vita che si dispiega oltre i limiti della storia umana. Una seconda prospettiva è rappresentata dalla centralità «cristologica» che segna in un modo determinante la riflessione sul futuro dell’uomo oltre la morte. Nella teologia anticotestamentaria l’attesa cristologica è preparata sia attraverso il movimento messianico che la riflessione apocalittica. Nondimeno è nella rivelazione neotestamentaria che l’attesa escatologica riceve luce e trova compimento. Nel mistero pasquale di Gesù Cristo, il figlio unigenito del Padre, si attua il passaggio dalla morte alla vita e la stessa condizione del credente, associato al destino di Cristo, riceve luce in vista del premio futuro. Una terza prospettiva riguarda il senso teologico presente nella realtà della morte. Entrata nel mondo per il peccato di Adamo, la morte segna in modo irreversibile il distacco dalla vita terrena e dalla condizione della creatura. Lo sforzo della riflessione ebraica, condizionata negli ultimi secoli dalla cultura 265

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Parte II  -  Teologia biblica: traiettorie

ellenistica, ha tentato di rispondere all’enigna della morte con l’assunzione della dottrina dell’immortalità dell’anima. Il quadro dottrinale ancora vago nel periodo precristiano, riceve un nuovo significato alla luce della morte e della risurrezione di Gesù. Sia i racconti evangelici sia la predicazione della prima comunità cristiana rappresentano la testimonianza di un radicale cambiamento di prospettiva. È soprattutto san Paolo il protagonista della sistematizzazione dottrinale che riguarda la condizione dei credenti «oltre la morte». Rispondendo alle questioni che emergevano dalla dialettica ecclesiale del suo tempo, l’apostolo elabora una ricca e articolata riflessione escatologica, presentando ai credenti del suo tempo il destino di beatitudine e di pienezza che Dio riserva per coloro che lo accolgono nella fede. Nella tradizione giovannea è possible trovare ulteriore conferma di questa riflessione, nella consapevolezza che diversi aspetti della condizione escatologica dell’uomo restano misteriosi e difficilmente spiegabili con le categorie umane. La dinamica «generatrice» di questa terza traiettoria è la speranza. Vivendo pienamente la dimensione del tempo, i credenti possono rileggere attraverso la traiettoria escatologica l’origine e lo sviluppo della speranza. In definitiva la risposta alla domanda sulla vita oltre la morte va cercata e trovata nel Cristo crocifisso e risorto, parola definitiva di Dio in cui si cela il senso ultimo del vivere e del morire.

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Conclusione

❑❑Fare

teologia biblica significa costruire un «ponte». «Costruire», secondo la metafora biblica, indica la rea­lizzazione di un progetto capace di fondare ordinatamente una «realtà vivente» che accoglie tutti ed è in grado di aprire un dialogo universale. Un ponte definisce insieme una dinamica capace di oltrepassare un limite e di progredire verso un orizzonte nuovo. Allo stesso tempo il ponte richiama l’esigenza di comunicare con gli altri, oltrepassando le barriere e i limiti che sembrano invalicabili.

❑❑All’immagine

del ponte si aggiunge quella della «casa». Scrivendo alle comunità perseguitate l’autore di 1Pt afferma: «Avvicinandovi a lui, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo (1Pt 2,4-5). La teologia biblica deve poter collegare le diverse sensibilità letterarie e culturali con la possibilità di sperimentare la comunione familiare nella pluralità delle differenze.

❑❑Tra

ponte e casa c’è una terza metafora: la «strada». Introducendo i singoli capitoli con frasi tratte dall’icona evangelica dei «discepoli di Emmaus» (Lc 24,13-35) si è inteso suscitare nel lettore il desiderio di rileggere e rivivere il percorso, evocando la straordinaria narrazione lucana che ha come leitmotiv la «strada» da Gerusalemme a Emmaus. Essa rappresenta un’efficace attualizzazione di come si fa «teologia biblica», percorrendo le fatiche crepuscolari del

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Conclusione

presente storico nella comune strada della ricerca, accogliendo il misterioso «pellegrino» che si pone in ascolto delle delusioni, riflettendo sulla storia della salvezza e sulla centralità della persona e della missione di Gesù Cristo. In tal modo dal racconto dell’esperienza dei due discepoli, l’evangelista ci fa passare all’ascolto delle Scritture e alla loro reinterpretazione cristologica da parte del Risorto. Camminando verso la casa di Emmaus, il misterioso compagno di strada illumina e libera il cuore dei discepoli delusi. Essi si sentono attratti dall’interpretazione della Sacra Scrittura e si rendono pronti ad accogliere la «Parola» vivente di Dio. L’ospitalità nella casa si traduce in condivisione. Essa culmina nella memoria eucaristica, pienezza della rivelazione cristologica e pasquale. Gli occhi finalmente s’illuminano mentre il Risorto scompare. Raccontando lo stupore del loro incontro, i due discepoli si rimettono in cammino verso Gerusalemme, gettando un «ponte ideale» tra le Scritture ascoltate e l’esperienza dell’incontro attualizzante. Questo ponte è rappresentato della testimonianza pasquale della risurrezione di Cristo. Attraverso il percorso proposto, siamo in grado di cogliere la positività della «teologia biblica», questa giovane disciplina che possiede una sua propria identità in dialogo con le scienze bibliche e teologiche. Abbiamo potuto constatare come tale disciplina è chiamata a un compito importante e delicato, nel vasto campo della ricerca odierna. Si chiede agli studiosi del nostro tempo di approfondire le problematiche della Bibbia, dilatando gli orizzonti dell’analisi esegetica e individuando categorie proprie in vista dell’unificazione e della sistematizzazione teologica. Da un’equilibrata, fondata e aggiornata «teologia biblica» dipende anche il progresso delle scienze teologiche e l’esito del loro dialogo interdisciplinare. È 268

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Conclusione

l’auspicio che accompagna questo volume, che vede la luce mentre si celebra il cinquantenario del concilio Vaticano II. Per noi oggi, risultano ancora più illuminanti le parole con cui esordiva la costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei Verbum: In religioso ascolto della parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia, il santo Concilio fa sue queste parole di san Giovanni: «Annunziamo a voi la vita eterna, che era presso il Padre e si manifestò a noi: vi annunziamo ciò che abbiamo veduto e udito, affinché anche voi siate in comunione con noi, e la nostra comunione sia col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo» (1Gv 1,2-3)1.

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Dei Verbum, n. 1. 269

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Premessa    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5 Abbreviazioni   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6 Introduzione   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7

Prima Parte teologia biblica: Itinerari Capitolo 1 itinerario teoretico   . . . . . . . . . . . . . . 13 Una definizione   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14 1. Fondazione epistemologica e legittimità della teologia biblica   . . . . . . . . . . 16 La denominazione di «teologia biblica» e il suo significato   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 16 Unità e pluralità   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17 La valenza progettuale della definizione   . . . . . . 19 I presupposti della teologia biblica   . . . . . . . . . . . 23 2. La questione metodologica e l’opzione ermeneutica   . . . . . . . . . . . . . . . . . 28 3. Aspetti ermeneutici della teologia biblica   . . . . 32 La relazione tra teologia biblica e storia   . . . . . . 33 La relazione tra approccio storico-critico e fede teologica   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 34 P. Stuhlmacher: l’«ermeneutica dell’accordo»   . . . 36 La relazione tra Antico e Nuovo Testamento: unità e diversità nella teologia biblica   . . . . . 38 PCB: Il popolo ebraico e le sue sacre scritture nella Bibbia cristiana   . . . . . . . . . . . . . . . . . 38 PCB: Bibbia e morale. Radici bibliche dell’agire cristiano   . . . . . . . . 41 279

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4. I modelli interpretativi   . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47 Il dibattito intorno alla teologia dell’Antico Testamento   . . . . . . . . . . . . . . . . . 47 Il dibattito intorno alla teologia del Nuovo Testamento. La relazione tra Vangelo e kerigma 53 L’unità «nascosta» della teologia biblica   . . . . . . . 55 5. Bilancio   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 58 Il compito della teologia biblica   . . . . . . . . . . . . 58 L’istanza metodologica   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 59 L’esigenza del metodo storico-critico   . . . . . . . . . . 60 Il metodo teologico   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 61 Il principio ermeneutico   . . . . . . . . . . . . . . . . . . 62 Conclusione   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 64 Capitolo 2 itinerario storico   . . . . . . . . . . . . . . . . 65 1. La preistoria   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 66 2. L’esordio della teologia biblica e il suo processo di autonomia: Johann-Philipp Gabler   . . . . . . . . . . . . . . . . . . 69 3. L’opera di Georg Lorenz Bauer e i tentativi successivi   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 73 4. Lo sviluppo della scuola di Tübingen: Ferdinand Christian Baur   . . . . . . . . . . . . . . . . 79 5. La scuola liberale (Heinrich Julius Holtzmann) e il modello storico-religioso (W. Wrede)   . . . . 83 6. Il modello descrittivo: la «storia della salvezza» (Heilsgeschichte)   . . . . . . . . . . . . 88 7. Gli inizi del XX secolo e l’affermazione della teologia kerigmatico-esistenziale   . . . . . . . 92 8. Un duplice approccio: il kerigma e la «storia della salvezza»   . . . . . . . . 95 L’approccio kerigmatico-esistenziale   . . . . . . . . . . 95 L’approccio della «storia della salvezza»   . . . . . . . 99 L’apporto dei teologi cattolici nella prima metà del XX secolo   . . . . . . . . . . 103 280

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9. Il pluralismo metodologico e nuovi orientamenti ermeneutici   . . . . . . . . . . 106 Orientamenti di teologia dell’Antico Testamento   107 Orientamenti di teologia del Nuovo Testamento   . 111 P. Beauchamp   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 114 La sfida della frammentazione teologica   . . . . . . 116 10. Il profilo odierno della «teologia biblica»:     punti fermi e principi acquisiti   . . . . . . . . . . . 120 Conclusione   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 123

Seconda Parte teologia biblica: tRAIETTORIE Premessa Un itinerario per la rilettura unitaria della teologia biblica   . . . 127 Un itinerario «puntiforme», tre traiettorie   . . . . . 127 La traiettoria vocazionale   . . . . . . . . . . . . . . . . . 127 La traiettoria antropologica   . . . . . . . . . . . . . . . 128 La traiettoria escatologica   . . . . . . . . . . . . . . . . . 129 Capitolo 3 Traiettoria vocazionale   . . . . . . . . . 131 1. La «vocazione», categoria interpretativa della Bibbia   . . . . . . . . 131 2. Itinerario anticotestamentario   . . . . . . . . . . . . 133 La creazione, i patriarchi, il popolo, la monarchia 133 Il ministero dei profeti   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 137 La sapienza, arte della vita   . . . . . . . . . . . . . . . 143 La vocazione nella poesia e nella preghiera di Israele   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 146 3. Itinerario neotestamentario   . . . . . . . . . . . . . . . 148 Li chiamò... lo seguirono   . . . . . . . . . . . . . . . . . 148 Venite e vedrete   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 153 Chi sei, o Signore?   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 158 La chiamata all’apostolato   . . . . . . . . . . . . . . . . 160 Conclusione   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 167 281

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Capitolo 4 Traiettoria antropologica   . . . . . . 169 1. Alle origini del racconto biblico   . . . . . . . . . . . 169 ’Adam divenne «desiderio di vita» (Gen 2,7)   . . . . 170 Pongo davanti a te la vita (Dt 30,15)   . . . . . . . . 172 Non è bene che ’Adam sia solo (Gen 2,18)   . . . . . 174 Dove sei? (Gen 3,8)   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 176 2. Profili dell’Antico Testamento   . . . . . . . . . . . . 179 Abramo   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 179 Mosè   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 181 Giuditta   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 184 Giobbe   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 187 3. La centralità antropologica della persona di Gesù Cristo   . . . . . . . . . . . . . . 190 Il «volto umano» di Cristo   . . . . . . . . . . . . . . . . 191 Il progetto di salvezza   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 192 La pienezza dell’amore e lo stile della solidarietà   193 4. Profili del Nuovo Testamento   . . . . . . . . . . . . . 194 Maria di Nazaret   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 194 Paolo di Tarso   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 198 Il coraggio di un apostolo   . . . . . . . . . . . . . . . . . 198 Lasciatevi riconciliare con Cristo   . . . . . . . . . . . 199 Camminate secondo lo Spirito   . . . . . . . . . . . . . 200 L’unità in Cristo   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 203 Conclusione   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 204 Capitolo 5 Traiettoria escatologica   . . . . . . . . 207 1. Come sentinella nella notte   . . . . . . . . . . . . . . 208 2. Antico Testamento   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 209 Il dono primordiale   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 210 I racconti di creazione   . . . . . . . . . . . . . . . . 210 La promessa e la risposta di fede di Abramo   211 La speranza del popolo eletto   tra vittorie e sconfitte   . . . . . . . . . . . . . . . 213 È vicino il giorno di Yhwh !   . . . . . . . . . . . . . . . 214 282

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Preparate la via del Signore   . . . . . . . . . . . . . . . 217 Voi sarete il mio popolo   . . . . . . . . . . . . . . . . . . 219 Scegliete chi volete servire   . . . . . . . . . . . . . . . . . 220 La terra dove scorre latte e miele   . . . . . . . . . . . . 223 Prigionieri della speranza   . . . . . . . . . . . . . . . . . 225 Polvere tu sei e in polvere ritornerai   . . . . . . . . . 225 Dio non vuole la morte del peccatore   . . . . . . . . . 229 La speranza dei giusti è piena d’immortalità   . . . 231 Dio restituirà di nuovo il respiro e la vita   . . . . . 234 3. Nuovo Testamento   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 237 Convertitevi e credete al Vangelo   . . . . . . . . . . . . 238 Il potere di far perire (Mt 10,28)   . . . . . . . . . . . 239 Non è Dio dei morti, ma dei viventi   . . . . . . . . . 241 Dopo tre giorni risorgerà   . . . . . . . . . . . . . . . . . 243 Perché cercate tra i morti colui che è vivo?   . . . . . 244 Il tempo si è fatto breve   . . . . . . . . . . . . . . . . . . 245 Come un ladro di notte   . . . . . . . . . . . . . . . . . . 246 Cristo risorto, primizia di coloro che sono morti   . 248 Vivere con Cristo dopo la morte   . . . . . . . . . . . . 252 Io sono la via, la verità e la vita   . . . . . . . . . . . . 256 Io sono l’Alfa e l’Omèga   . . . . . . . . . . . . . . . . . . 260 Sii fedele fino alla morte   . . . . . . . . . . . . . . . . . . 261 Un cielo nuovo e una terra nuova   . . . . . . . . . . . 264 Conclusione   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 265 Conclusione   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 267 BIBLIOGRAFIA   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 271 1. Principali opere di teologia biblica   . . . . . . . . . 271 Per l’Antico Testamento   . . . . . . . . . . . . . . . . . . 271 Per il Nuovo Testamento   . . . . . . . . . . . . . . . . . 272 2. Opere consultate   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 273 Per i capitoli 1-2   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 273 Per il capitolo 3   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 276 Per il capitolo 4   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 276 Per il capitolo 5   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 277 283

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Finito di stampare nel mese di febbraio 2014 Villaggio Grafica – Noventa Padovana, Padova

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