La tentazione del muro. Lezioni brevi per un lessico civile 9788858838952

Esiste ancora un lessico civile? Nel tempo in cui i confini si sono trasfigurati in muri, l'odio sembra distruggere

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La tentazione del muro. Lezioni brevi per un lessico civile
 9788858838952

Table of contents :
Indice......Page 67
Frontespizio......Page 2
Esergo......Page 5
Avvertenza......Page 6
Introduzione......Page 8
1. Il confine......Page 11
Radici e libertà......Page 12
La malattia incivile del muro......Page 14
Delirio di contaminazione......Page 15
La tentazione del muro......Page 17
Il primo volto dello straniero......Page 18
La sensazione paurosa della vita......Page 19
L’intruso......Page 20
Siamo tutti stranieri......Page 21
2. L’odio......Page 23
La passione dell’odio......Page 24
L’odio è più antico dell’amore......Page 25
L’odio o la parola?......Page 26
L’odio come alternativa al lavoro doloroso del lutto......Page 27
L’odio invidioso......Page 29
L’invidia della vita......Page 30
3. L’ignoranza......Page 34
Il padre-padrone......Page 35
Il consolidamento dell’ignoranza......Page 36
La democrazia dei libri......Page 39
Un aneddoto su Freud......Page 41
Elogio dell’ignoranza......Page 42
4. Il fanatismo......Page 44
Il fantasma fanatico della purezza......Page 45
Fuga dalla libertà......Page 48
Il primato inumano dell’Idea......Page 50
L’universale e il particolare......Page 51
Lo spirito di sacrificio......Page 52
5. La libertà......Page 54
La spinta della libertà......Page 55
Il legame sadomasochistico......Page 57
Non si vive mai da soli......Page 59
Degenerazione della libertà......Page 60
Il populismo come deviazione incestuosa della democrazia......Page 62
La poetica delle istituzioni......Page 63

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Recalcati Massimo La tentazione del muro Lezioni brevi per un lessico civile

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione digitale 2020 da prima edizione in “Varia” maggio 2020 Ebook ISBN: 9788858838952 In copertina: © Boris SV/Getty Images. Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

A Stefano Coletta e Pietro Galeotti, che per primi hanno creduto nel mio lessico

“Il problema fondamentale del destino della specie umana a me sembra sia questo: se, e fino a che punto, l’evoluzione civile riuscirà a padroneggiare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla pulsione aggressiva e autodistruttrice degli uomini.” S. Freud, Il disagio della civiltà

Avvertenza

Questo libro riprende e approfondisce i temi che hanno fatto da timone a Lessico civile, il ciclo di trasmissioni televisive andate in onda questa primavera su Rai 3 che sono state registrate prima del Natale 2019. Il trauma collettivo del Covid-19 non era ancora deflagrato. Eppure le riflessioni sviluppate allora mi appaiono oggi, anche alla luce della tragedia che ci ha colpiti, attualissime. Prima dell’esplosione dell’epidemia la scena politica era occupata dal grande problema globale dell’immigrazione e dalla necessità di ripensare l’integrazione con lo straniero. Il simbolo del muro appariva in questo contesto come una risposta sovranista nei confronti della minaccia incombente dell’intruso. Il sovranismo non era solo una tentazione della politica – militarizzazione dei confini, radicalizzazione della pulsione securitaria, chiusura delle frontiere –, ma rifletteva anche una profonda inclinazione psichica: l’essere umano ha da sempre tracciato confini, difeso la propria incolumità, respinto il rischio dell’aperto. La pulsione non si manifesta solo come passione per la libertà, per l’avventura e il viaggio, come sete di conoscenza e di socialità, ma, come insisto a ripetere in questo libro, rivela altresì la spinta alla chiusura, a rifiutare la libertà, a evitare la responsabilità radicale che essa comporta, a contrabbandarla in cambio della propria sicurezza. È questa la tentazione del muro con la quale ogni lessico civile non può evitare di confrontarsi. Il trauma dell’epidemia che ha travolto all’inizio del nuovo anno l’intero pianeta riattiva fatalmente questa tentazione nella misura in cui anche l’amico, il più prossimo, il famigliare può essere portatore di malattia, agente potenziale di contagio. È la natura “terroristica” del virus; esso spariglia ogni distinzione convenzionale tra amico e nemico, conosciuto e ignoto, prossimo ed estraneo. Senza volto, dall’identità incerta, invisibile, il virus è un intruso che abita in noi e tra di noi. La sua presenza dappertutto mette sotto scacco tutti i processi difensivi più consolidati. Il distanziamento sociale ha così

dovuto riabilitare forzatamente l’irrigidimento del confine, la chiusura al posto dell’apertura, la scissione piuttosto dell’integrazione. L’angoscia del contagio e la necessaria difesa dalla diffusione rapida e violenta dell’epidemia hanno imposto misure di sicurezza estreme che hanno oggettivamente compresso le nostre libertà individuali. Qualcuno ha voluto interpretare questo stato di cose evocando lo spettro della minaccia totalitaria di un nuovo potere fondato sul controllo biopolitico della vita. Ma è davvero così? L’ondata traumatica del Covid-19 ha reso davvero possibile, attraverso un’emergenza sociale e sanitaria imprevista, la realizzazione di un sistema neototalitario dagli esiti minacciosi per la vita stessa della democrazia? Non è questo il mio pensiero. Dal punto di vista della libertà, tema che chiude, non a caso, in questo libro, la serie delle mie cinque brevi lezioni, la tremenda lezione di questa epidemia consiste, a mio giudizio, nel mostrare il carattere vacuo e solo ideologico della libertà intesa come proprietà individuale e nell’insegnarci che la cifra eticamente più alta della libertà non è affatto l’arbitrio, né il dispiegamento della volontà individuale, ma la solidarietà. Nella rinuncia all’esercizio della nostra libertà, imposta dall’aggressività del Covid-19, non è in gioco nessun fantasma sacrificale, nessuna vocazione penitenziale, né alcun attentato alla nostra libertà collettiva, ma l’idea profonda che nessuno si può salvare da solo, che la libertà senza fratellanza è una parola vuota. Rilette alla luce della terribile emergenza in cui tutti noi siamo ancora immersi, questo piccolo libro porta un messaggio che spero non venga ignorato. Esso si può riassumere con le parole del Pasolini paolino il cui riferimento chiude la serie delle lezioni: senza la parola “carità” – senza la parola “amore” –, le parole “fede” e “speranza” restano parole informi e cieche, preda di fantasmi mostruosi. Nel loro nome il Novecento ha massacrato milioni di persone. Non dimenticare la parola “carità” è la condizione fondamentale per non schiacciare il carattere irriducibile della singolarità sulla dimensione anonima del numero, per non dimenticare che il fondamento di ogni lessico civile sono le parole “accoglienza”, “ospitalità”, “fratellanza”. Perché il mio cuore, come si dice in questo piccolo libro, è il primo nome dello straniero. Sicché, come insegna la psicoanalisi, ogni processo di integrazione origina dall’amicizia verso lo straniero che porto in me. Milano, 25 aprile 2020

Introduzione

Esiste ancora un lessico civile? Non stiamo forse vivendo in un tempo contrassegnato da un nuovo imbarbarimento della vita sociale? La frenesia indomita della pulsione neolibertina e l’apologia della globalizzazione dei mercati hanno reso impossibile la vita della polis? E che dire della spinta più recente alla militarizzazione dei confini, al loro rafforzamento securitario? Dove è finita la dimensione primaria dell’ospitalità sulla quale si istituisce ogni comunità umana? Il degrado neolibertino dell’individualismo ipermoderno e la trasfigurazione del confine in muro, bastione, fortezza sono due facce della stessa medaglia che definiscono l’inciviltà del nostro tempo. In un caso come nell’altro riconosciamo le spie di un nuovo disagio della Civiltà. Da una parte, una libertà che rigetta ogni limite – la pulsione neolibertina – e, dall’altra, lo smarrimento della dimensione simbolica del confine come luogo di transito e la sua metamorfosi in barriera – la pulsione securitaria.1 In questo libro provo ad attraversare, grazie agli strumenti teorici della psicoanalisi, alcuni snodi fondamentali della nostra vita insieme: la figura dello straniero, il significato del confine, l’odio e l’invidia, il dogmatismo e la laicità della conoscenza, il fanatismo e la “mente democratica”, l’angoscia di fronte alla libertà, la poesia delle istituzioni e il miraggio populista della loro abrogazione. La psicoanalisi mostra che la vita psichica, per non collassare su se stessa, necessita di confini porosi in grado di alimentare lo scambio con l’alterità per allargare l’orizzonte del mondo. Al tempo stesso essa non può ignorare l’esistenza di una tendenza primaria della vita umana – pulsione di autoconservazione – a difendersi dalla vita stessa, a proteggersi di fronte al mondo vissuto come luogo di perturbazioni minacciose, dove, come scrive Freud, lo straniero – “l’esterno” – coincide con l’ostile. Se la libertà è un’aspirazione fondamentale della vita umana, non bisogna nascondere che essa è anche un oggetto di angoscia e di rifiuto. La psicologia delle masse del Novecento ha mostrato sino a che punto gli esseri umani

siano stati in grado di rinunciare alla propria libertà preferendo alla responsabilità etica che essa comporta le catene totalitarie dei regimi fascisti. Anche la verità, come vedremo, è, insieme alla libertà, una componente irrinunciabile di ogni lessico civile, ma questo non esclude affatto che talvolta la stessa sete di verità possa capovolgersi nel suo contrario; è la miscela esplosiva del fanatismo: l’ignoranza elevata a forma suprema della verità, l’ignoranza come passione per una sola Verità che rifiuta ogni altra possibile verità. Questi paradossi mostrano quanto la vita psichica degli individui, dei gruppi umani e delle istituzioni sia contraddittoria e vulnerabile. Il fascismo non è stato solo un periodo storico drammatico per il nostro paese, ma è una tendenza che abita l’umano in quanto tale: la tendenza a preferire l’obbedienza alla libertà, il muro al mare, la schiavitù alla responsabilità, l’ignoranza alla conoscenza, l’inciviltà dell’odio alla civiltà del patto e della parola. Questa primavera ho tenuto per Rai 3 il mio terzo e ultimo Lessico: dopo quello famigliare e quello amoroso, quello civile. Il lettore troverà dunque i testi – riscritti e ampliati sia nei riferimenti sia nel ragionamento – che hanno fatto da bussola alle puntate televisive. Non casualmente ho voluto concludere il ciclo dei miei Lessici televisivi con quello civile.2 Famiglia e discorso amoroso non sono infatti nulla se non li si considera anche dal punto di vista della civiltà che sono in grado di generare. Nella famiglia la civiltà della cura e dell’educazione; nell’amore quella del rispetto assoluto per la differenza, per l’eteros, il solo che, come ha spiegato Lacan, è degno di amore. Nondimeno, questo terzo e ultimo Lessico non parte più dalla dimensione intima della vita nella sua singolarità e nei suoi legami primari, ma si interessa di come questa singolarità appaia da sempre impastata con la dimensione sociale, che non si aggiunge in un secondo tempo alla vita ma la costituisce nel suo essere. Nessuno, infatti, come affermava il Telemaco omerico nelle prime pagine dell’Odissea, ha visto la propria nascita.3 Tutti noi siamo gettati in una vita che non abbiamo voluto ma è stata decisa dall’Altro; la nostra vita non è mai, dunque, sin dalla sua origine, senza l’Altro. È l’idea sulla quale Freud ha sempre insistito: non esiste psicologia individuale che non sia già psicologia sociale; non esiste vita umana che non sia vita immersa in una civiltà.

1

Ho recentemente sviluppato una riflessione clinica approfondita su questi temi in M. Recalcati, Le nuove melanconie. Destini del desiderio nel tempo ipermoderno, Raffaello Cortina, Milano 2019. 2 I contenuti di Lessico famigliare si trovano sparpagliati in alcuni miei libri, tra i quali: M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina, Milano 2011; Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano 2013; Le mani della madre. Desiderio, fantasmi ed eredità del materno, Feltrinelli, Milano 2015; Il segreto del figlio. Da Edipo al figlio ritrovato, Feltrinelli, Milano 2017. I contenuti di Lessico amoroso si trovano invece in M. Recalcati, Mantieni il bacio. Lezioni brevi sull’amore, Feltrinelli, Milano 2019. 3 Cfr. Omero, Odissea, I, 214-220 (versione di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1989).

1.

Il confine

“Un cuore che batte solo a metà è solo per metà il mio cuore. Comincio a non essere più in me. Vengo già da altrove, oppure non vengo più. Un’estraneità si rivela ‘al cuore’ di ciò che vi è di più familiare.” J.-L. Nancy, L’intruso

Radici e libertà La vita umana necessita del sentimento di appartenenza, del radicamento al suolo, dell’identità, della famiglia. Non esiste lessico civile che non tenga conto dell’importanza del confine. Freud costruisce la psicoanalisi come una scienza dei confini tra le diverse province psichiche (inconscio, preconscio, coscienza) e le diverse istanze interne (Es, Io, Super-io). Bion insiste, con il linguaggio della psicoanalisi, sull’importanza della “barriera di contatto” che separa il conscio dall’inconscio, l’interno dall’esterno, il me dal non-me. Senza esistenza del confine la vita precipita nell’indifferenziato, nel caos, nell’indistinto. La domanda di identità e di radicamento accompagna la vita umana sin dalla sua venuta al mondo: appartenenza a una cultura di gruppo, condivisione di un mondo, filiazione, genealogia, stirpe, discendenza. Non esiste vita umana senza la memoria delle sue radici. Se la vita viene alla vita senza protezione, nello sconforto, esposta all’ingovernabilità del mondo, sommersa nella sua inermità, il primo grido del bambino si configura come appello, invocazione, domanda di soccorso e di aiuto rivolta all’Altro. È la socialità fondamentale dell’esistenza. Nessuno si salva da solo; senza l’Altro la vita cade nel nulla. Tuttavia, in un modo che può suonare paradossale, Freud immagina che il primo compito della vita sia anche quello di costruirsi una “nicchia protettiva” di fronte alle potenti e incontrollabili stimolazioni che provengono dall’interno del proprio corpo e dal mondo esterno. La vita umana ai suoi inizi assomiglia a quella di un “uccellino rinchiuso nel guscio dell’uovo con la sua provvista di alimento” che deve offrire riparo alla vita ancora inerme e vulnerabile.4 È questa una spinta primaria della pulsione: la vita umana si deve difendere dal mondo vissuto come fonte di minacce. Di qui l’importanza insuperabile di un’istituzione umana come quella della famiglia. La vita del figlio esige di essere inscritta in un processo simbolico di filiazione.

Non bisogna dunque liquidare la spinta dell’uomo a difendere i confini della propria vita individuale e collettiva come una spinta in sé barbara o incivile. È un’indicazione che viene da Freud stesso: la vita individuale, come quella collettiva, necessita di protezione, di rassicurazione, edifica barriere per poter sopportare l’avversità del mondo. Gli esseri umani hanno da sempre protetto la loro esistenza; dalla potenza inumana della natura e dalla minaccia dei nemici. La spinta a delimitare il proprio territorio è un’espressione del carattere primariamente securitario della pulsione. Il gesto di tracciare il confine è un’operazione necessaria alla sopravvivenza della vita. La vita ricerca primordialmente il rifugio dalla vita e, al tempo stesso, la definizione di confini in grado di circoscrivere la propria identità. Lo sradicamento che caratterizza la venuta della vita al mondo – nessuno nasce scegliendo di nascere, nessuno è padrone delle sue origini – viene compensato da un’aspirazione al radicamento nel luogo dell’Altro (famigliare, sociale, culturale). Senza radici e senza confini verrebbe infatti meno il sentimento stesso dell’identità di un soggetto individuale come di un soggetto collettivo, dell’Io come di un popolo. Non a caso nell’esperienza clinica l’assenza di confine definisce la vita schizofrenica: vita radicalmente smarrita, errabonda, disgregata, frammentata. Tuttavia l’esistenza umana non è solamente desiderio di appartenenza e di rassicurazione, ma è anche spinta all’erranza, desiderio di libertà. Se il desiderio di appartenenza include la vita individuale in una comunità (per esempio quella della famiglia) offrendole diritto di cittadinanza, protezione e sicurezza, esso non può pretendere di esaurire la forma umana della vita. Il desiderio di erranza è desiderio di libertà, desiderio del viaggio, dell’avventura, del superamento del confine, che risulta altrettanto importante della necessità della sua esistenza. Non a caso la malattia di un individuo o di una comunità è sempre legata allo sbilanciamento di questo rapporto. Se, per un verso, l’eccesso di appartenenza comporta la chiusura su se stessi, l’irrigidimento del confine, il conformismo, la massificazione, l’esclusione della differenza, per un altro verso l’eccesso di erranza comporta la recisione delle radici e la perdita del sentimento di identità, lo sbandamento, lo smarrimento, sino al colmo della perdita di se stessi. Sono i due modi che caratterizzano la frattura della “proporzione antropologica”5 tra la necessità impellente del confine e la necessità, altrettanto impellente, del suo trascendimento. Quando il sentimento dell’appartenenza prevale su quello della libertà si

genera malattia della vita, che nel nome dell’adesione conformistica alla propria cultura di provenienza finisce per rinunciare alla sua libertà, per sacrificare la propria libertà all’esigenza della propria sicurezza. In questo caso tutto ciò che oltrepassa il confine, tutto ciò che vive al di là delle proprie frontiere – individuali e collettive – è vissuto come fonte di minaccia permanente. Quando invece prevale a senso unico – sproporzionato antropologicamente – la dimensione dell’erranza e della libertà su quella dell’appartenenza, quando la vita si sradica, sconfina rifiutando ogni legame e ogni discendenza, quando brucia ogni cosa nel nome di una libertà che si vuole assoluta, allora vengono strappati i vincoli simbolici che danno alla vita il diritto di cittadinanza nella comunità umana. La malattia incivile del muro Kafka in Durante la costruzione della muraglia cinese offre un’illustrazione precisa della patologia che può investire la dimensione simbolica del confine: Da chi doveva proteggere la grande Muraglia? Dai popoli del nord. Io sono oriundo della Cina sudorientale. Nessun popolo settentrionale ci può minacciare. Di loro leggiamo nei libri dei vecchi, le crudeltà che commettono secondo la loro natura ci fanno sospirare nelle nostre pacifiche verande. Nei quadri realistici degli artisti vediamo quelle facce di dannati, le bocche spalancate, le mascelle armate di gran denti aguzzi, gli occhi stretti che pare stiano già a spiare la preda che la bocca maciullerà e sbranerà. Quando i bambini fanno i cattivi mostriamo loro questi quadri, ed essi si rifugiano piangendo tra le nostre braccia. Di quei popoli settentrionali però non sappiamo altro. Non li abbiamo mai visti e se non ci allontaniamo dal nostro villaggio non li vedremo mai, neanche se in groppa ai loro cavalli selvaggi si lanciassero direttamente verso di noi – troppo grande è il paese e non li lascerebbe avvicinarsi, disorientati si smarrirebbero nell’aria.6

Lo straniero che abita al di là del confine – “i popoli del nord” – è, proprio in quanto straniero, una minaccia insidiosa rispetto alla quale dobbiamo rafforzare i nostri confini. L’estensione infinita della muraglia descritta da Kafka deve poter esorcizzare questa minaccia creando un baluardo invalicabile. Lo straniero viene vissuto come un’entità maligna e crudele capace di violare l’intimità delle nostre famiglie. È il principio basico di ogni sviluppo patologico di tipo paranoide dell’identità: ogni straniero porta con sé il rischio di una contaminazione nefasta per la nostra identità; l’alterità di chi abita al di là della frontiera è un pericolo che deve essere sventato, dal quale bisogna difendersi. Ecco allora che il confine si sclerotizza, diviene carapacico, si trasfigura in staccionata, filo spinato, muraglia, appunto, arginando tutto ciò che si situa al di là di esso. Questa metamorfosi patologica del confine dimentica di considerare che

la funzione simbolica del confine non è solo quella di delimitare la nostra identità (collettiva o individuale), ma anche quella di garantire lo scambio, la transizione, la comunicazione con lo straniero. Ogni confine, infatti, definisce un’identità solo mettendola in rapporto con una differenza. Non a caso un grande psicoanalista come Bion riconosceva nella virtù della porosità l’attributo fondamentale del confine. Nella spinta a innalzare steccati, staccionate, muraglie, barriere, difese organizzate, come accade nel nostro tempo dove sembra dominare incontrastata un’inedita pulsione securitaria, il confine rischia invece di trasfigurarsi in muro rendendo impossibile lo scambio.7 La chiusura finisce allora per prevalere a senso unico sull’apertura; il sentimento di appartenenza perde ogni contatto con quello dell’erranza e della libertà. Il confine smarrisce la sua porosità. Ritroviamo qui le due forme maggiori di inciviltà che sovvertono ogni lessico civile. Da una parte esiste una patologia relativa alla dissoluzione del confine, alla sua assenza, alla sua non iscrizione simbolica. È la patologia che trova il suo paradigma nella schizofrenia: indistinzione, confusione, caos, indifferenziazione. Prevalenza unilaterale dello sradicamento sul radicamento, dell’erranza sull’appartenenza. Dall’altra parte esiste però una patologia del confine che riguarda la sua trasfigurazione in muro, roccaforte, bastione. In questo caso l’identità si irrigidisce paranoicamente contro la differenza. Lo straniero coincide con il nemico, la minaccia, l’orrore, il terrificante come abbiamo visto nella descrizione kafkiana. Delirio di contaminazione La patologia securitaria, che aliena il confine nella figura compatta e segregativa del muro, ha animato la stagione storica dei totalitarismi nel Novecento e continua ad animare ogni forma di fondamentalismo ideologico. Il suo presupposto è una sorta di delirio di contaminazione: lo straniero è associato a un virus pericoloso, una malattia, un’epidemia, un’infezione. Pensiamo alla ricorrente identificazione di Hitler a medico della Grande Germania che doveva debellare dal corpo della nazione l’epidemia ebraica o comunista e al ruolo che, più in generale, proprio i medici nazisti hanno giocato nel perseguire un ideale folle di immunizzazione collettiva.8 La violenza dell’anticomunismo e dell’antisemitismo risponde a una logica biopolitica di tipo igienistico: purificare il corpo collettivo e individuale dal virus del comunismo, dell’ebraismo, dell’omosessualità, della vita nomade. L’esistenza dello straniero che abita al di là del confine diviene una minaccia

permanente alla purezza dell’identità. Di qui la militarizzazione del confine, il nazionalismo esasperato, il sovranismo, il razzismo. Ma non si tratta, come ha fatto notare Freud, di un semplice imbarbarimento della vita civile. In gioco è piuttosto l’amplificazione di una pulsione propriamente umana. Lo abbiamo visto; il primo volto della pulsione è quello securitario: difesa, scudo, protezione, immunizzazione, conservazione della propria identità. Erigere mura, steccati, barriere, muraglie; difendere la propria casa, chiudere, serrare, sprangare le porte sono gesti che rivelano la tendenza fondamentale dell’umano a ricercare la sua protezione. Non siamo in un mondo primitivo ma all’origine dello Stato moderno. È la tesi di Hobbes: “la paura della morte”, la paura per la propria sicurezza, spinge gli esseri umani a rinunciare alla libertà in cambio di protezione. Il muro è, dunque, una tentazione che abita da sempre l’umano: difendere la propria vita, salvaguardarla dall’impatto con il mondo vissuto come fonte di perturbazioni e di eccitamenti ingovernabili. Nondimeno, la casa senza porte che si aprono non è più una casa, ma una fortezza. È quello che accade allo strano animale protagonista del racconto di Kafka intitolato La tana.9 Esso vorrebbe tagliare fuori il mondo, costruendo una casa-tana che escluda la possibilità dell’incontro e della contaminazione con lo straniero senza però mai riuscirvi del tutto. La rigida organizzazione architettonica della sua tana – edificata con cura meticolosa – non risulta in grado di neutralizzare la presenza dell’Altro. Escluso, estromesso, isolato fuori dalla tana, l’Altro insiste nel fare segno della sua presenza destabilizzante attraverso un “sibilo impercettibile” destinato ad aumentare inesorabilmente di intensità per ricordare al folle costruttore della tana che lo straniero non viene innanzitutto dall’esterno ma è, come Freud stesso definisce l’inconscio, una presenza “straniera interna” e, pertanto, insopprimibile.10 Nessuna opera di ingegneria può escludere l’esistenza dell’Altro e il suo carattere straniero. Per questa ragione Freud insiste nel mostrare che, all’origine della vita, il mondo, in quanto sorgente di perturbazioni ed eccitamenti ingovernabili, è vissuto dal soggetto come straniero e, proprio in quanto tale, proprio in quanto straniero esterno, ostile.11 La coincidenza dell’estraneità con l’ostilità è, infatti, sempre secondo Freud, l’esito del primo moto pulsionale che investe il mondo e viene a sua volta investito dal mondo: il soggetto scopre che la sua nicchia protettiva non è sufficiente a impedire

l’esistenza di quote di eccitamenti ingovernabili che provengono dall’interno del proprio corpo così come dall’esterno. La tentazione del muro La coincidenza dello straniero con l’ostile, la definizione del mondo stesso come ostile in quanto perturbatore dell’equilibrio interno all’apparato psichico, mostra come l’esistenza primaria di una pulsione securitaria scardini la definizione dell’uomo come essere sociale. Se la caratteristica primaria della pulsione si manifesta come tendenza alla chiusura, alla protezione, alla difesa della propria nicchia individuale, non saremmo forse obbligati a correggere la nota affermazione di Aristotele secondo la quale l’uomo è un “animale sociale”? Se, infatti, per un verso, la vita umana viene al mondo come un grido, un’invocazione, un’apertura verso l’Altro, se essa porta con sé l’Altro perché non potrebbe esistere senza l’Altro, per un altro verso questa stessa vita si manifesta come difesa strenua e angosciata dei propri confini, come evitamento dell’Altro in quanto straniero e ostile. Lo ricorda bene Canetti in Massa e potere laddove evoca il brivido perturbante che si prova quando camminando per strada tocchiamo inavvertitamente uno sconosciuto: “Nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto. […] Dovunque, l’uomo evita d’essere toccato da ciò che gli è estraneo”.12 Lo sconosciuto, lo straniero, l’esterno e l’ostile tendono originariamente a coincidere. La vita umana è sociale dall’origine in quanto non può esistere senza il sostegno dell’Altro, senza la sua parola, ma è anche spinta autistica alla difesa della propria nicchia, della propria identità, del proprio confine. Per questo il muro non è solo l’esito di un analfabetismo politico o di una barbarie, ma una vera e propria passione dell’umano, una sua tentazione fondamentale. Donald Trump ha vinto le ultime elezioni presidenziali negli Stati Uniti grazie all’esaltazione sfrenata di questa passione. Nei suoi discorsi più noti il muro viene presentato come fondativo dell’identità nazionale, come difesa necessaria dal pericolo messicano; ma sarebbe errato e ingenuo pensare che sia l’esistenza ostile dei messicani a rendere necessario il muro. Come per lo strano animale narrato da Kafka ne La tana, il pericolo da cui in realtà bisogna difendersi è l’esistenza, in quanto tale, dello straniero; è dunque l’esigenza del muro che risulta primaria, non la presenza dei messicani che ne giustificherebbero politicamente la necessità.

Il primo volto dello straniero Lo straniero non è solo chi abita oltre la frontiera, gli strani uomini feroci e malvagi che Kafka ha descritto nel suo racconto sulla muraglia cinese. I bambini lo rappresentano come un animale pericoloso, lupo mannaro, orco, mostro, cane selvaggio, uomo nero, alieno. È la figura minacciosa che disturba il loro sonno penetrando abusivamente nella cameretta. I bambini che non conoscono razzismo, se non quello dei loro genitori, vivono però sempre la paura dell’uomo nero o del mostro sconosciuto o, come accade al piccolo Hans di Freud, dei cavalli o di altri animali vissuti come pericolosi. Le zoofobie infantili appaiono, in effetti, come la prima forma di difesa dal carattere perturbante della vita incarnato dall’animale. Ma anche una forma di difesa dal rischio della follia. L’uomo teme la propria follia come il bambino teme l’ingovernabilità dell’animale. La follia e l’animale possono incarnare esternamente l’ingovernabilità della propria pulsione interna. Pensiamo alla celebre e leggendaria Stultifera navis rappresentata da Bosch che trascina sulle acque i folli allontanandoli dalla terraferma dove si è insediata la città. Lo sconfinamento della follia angoscia l’uomo che porta da sempre la follia in sé. Lo nota bene Foucault: i folli, nell’età moderna, hanno preso il posto occupato dai lebbrosi nel Medioevo.13 La follia, come la lebbra, incarna una minaccia inarginabile e sempre presente. Di qui la messa in atto di procedure di espulsione e di segregazione: anche in questo caso la tentazione dell’umano è separare la normalità dall’anormalità, la ragione dalla sragione, l’impuro dal puro, l’infetto dal sano. Ma come hanno cercato di mostrare Freud e, in seguito, Basaglia con Freud, la follia non è l’antiumano, ma il cuore più intimo dell’umano. Il confine rigido tra normalità e follia risponde infatti solo a una finalità protettiva: allontanare, escludere e segregare l’alterità dello straniero, del mostro che portiamo con noi. L’importanza cruciale del lavoro di Basaglia è stata quella di pensare, contro ogni tentazione fobico-espulsiva, la follia come espressione della condizione umana e non come regressione dell’umano all’animale. Tutto il suo lavoro contro l’istituzione manicomiale aveva come idea di fondo quella di mostrare che la follia ha pieno diritto di cittadinanza nella polis umana, che essa non è una deviazione maligna dall’umano ma una sua espressione radicale.14 Si tratta, anche in questo caso, di non irrigidire il confine che separa la normalità dalla follia. In questo senso la follia non può essere risolta attraverso la sua espulsione-reclusione, la sua estirpazione dalla

terraferma della ragione, ovvero con il suo confinamento segregativo, perché essa resta, come direbbe Lacan, manifestazione della libertà radicale e drammatica dell’uomo.15 La sensazione paurosa della vita Una delle scoperte maggiori della psicoanalisi è che la malattia mentale non scaturisce tanto dalla frana del confine che separa la ragione dalla sragione, quanto, casomai, da un suo eccessivo irrigidimento. La follia non si genera da un’eccessiva fragilità dell’Io, ma da un suo rafforzamento ipertrofico. L’animale selvaggio o l’uomo nero che spaventano di notte il bambino sono il volto del carattere anarchico della pulsione. Per questo il primo nome dello straniero coincide paradossalmente con la nostra stessa vita. Il piccolo Hans si angoscia di fronte alle sue prime erezioni perché sperimenta di non avere il controllo sul proprio corpo. Il corpo pulsionale sfugge infatti al governo intenzionale della coscienza. Lo straniero, prima di essere lo sconosciuto che abita al di là della frontiera, è ciò che attraversa la mia stessa esistenza: è lo straniero interno, l’inconscio come “territorio straniero interno”. È quello che Lacan sottolinea quando si riferisce alla “sensazione della vita” e al nostro stesso corpo come luogo elettivo di angoscia: Di che cosa abbiamo paura? Del nostro corpo. Lo manifesta quel fenomeno curioso […] che ho chiamato angoscia. L’angoscia è appunto qualcosa che si situa altrove, nel nostro corpo, è il sentimento che sorge dal sospetto di essere ridotti al nostro corpo.16

Si può davvero pensare che sia il nostro stesso corpo vivente a provocare la paura? Pensiamo al nostro cuore. Nessuno può governarne il battito. Questo battito appare come un intruso, un estraneo che però è in me stesso, che è me stesso; un’alterità che coincide con la mia stessa esistenza, uno “straniero interno”, appunto. Può essere il nostro cuore il primo vero volto dello straniero? Una crisi di panico segnala il tratto ingovernabile di questa presenza interna (il battito del cuore) da cui la mia vita dipende totalmente senza però esserne padrona. L’ascolto del proprio cuore può diventare – come insegna, appunto, l’esperienza del panico – un’esperienza angosciante ed estraniante. È quello che è accaduto a un mio paziente che, mentre si stava addormentando, ha avuto la sua prima crisi di panico prestando attenzione proprio al battito del suo cuore che, mentre si rivelava autonomo, rendeva fatalmente irregolare la sua presenza sottoposta allo stress di una vigilanza

eccessiva. Il soggetto è entrato nel panico perché ha fatto l’esperienza del proprio cuore come di una presenza straniera interna. L’intruso Un racconto autobiografico del filosofo Jean-Luc Nancy mette fortemente in evidenza la valenza del confine come definizione dell’identità e come luogo poroso di scambio, ma anche il rischio che comporta il suo eventuale irrigidimento. Intervenendo su una rivista di filosofia che dedicava un numero speciale al tema della Venuta dello straniero, Nancy decide sorprendentemente di parlare del suo recente trapianto di cuore resosi necessario a causa di una grave malattia cardiaca. Perché la vita del filosofo potesse continuare era necessario impiantare nel suo corpo il cuore di un altro. Senza questo trapianto la sua vita sarebbe stata destinata a finire. L’intrusione svela qui un altro volto rispetto a quanto abbiamo visto caratterizzare il primo impatto della vita con il mondo. La pulsione securitaria rifiuta la perturbazione del mondo – straniero e ostile – come un’intrusione angosciante. Diversamente, nel caso della vicenda personale di Nancy il cuore dello straniero – la sua intrusione – appare necessario per rendere possibile la continuazione della vita. L’intrusione non è qui un trauma che genera angoscia, ma l’apertura di una possibilità per la vita di riprendere vita. Per completare il quadro di questa raffinata e drammatica metafora della vita civile, occorre includere un ulteriore elemento: la condizione clinica che rende efficace un trapianto d’organo è l’abbassamento delle difese immunitarie. Se la difesa risulta invece troppo rigida, il nuovo cuore (il cuore dello straniero: dell’ebreo, della zingara, dell’omosessuale, del nero, del polacco) viene rifiutato ed espulso. È quello che la clinica medica definisce tecnicamente come “crisi di rigetto”. Il confine deve rivelarsi poroso per consentire sia il trapianto che l’accoglienza del nuovo cuore. Al tempo stesso, però, l’indebolimento del sistema immunitario provoca fatalmente lo scatenamento di virus e di altre patologie che provengono dall’interno del corpo e che sino a quel momento esistevano solo in una nebulosa condizione di latenza. Un corteo invisibile di presenze straniere interne viene risvegliato; stranieri di ogni genere vengono alla luce sottratti dall’oblio remoto delle viscere. Non dall’esterno della frontiera ma dall’interno del proprio corpo: Identità equivale a immunità, l’una si identifica con l’altra. Abbassare l’una è abbassare l’altra. L’estraneità e l’essere straniero diventano comuni e quotidiani. Questo si traduce in una costante esteriorizzazione di me: è necessario misurarmi, controllarmi, testarmi. Ci vengono fatte mille raccomandazioni riguardo al mondo esterno (le folle, i negozi, le piscine, i bambini, i malati). Ma i

nemici più pericolosi sono all’interno: i vecchi virus da sempre nascosti all’ombra dell’immunità, gli intrusi di sempre, perché ce ne sono sempre stati.17

L’esperienza del trapianto di cuore, per come Nancy la propone, appare come un’intensa metafora della democrazia: la caduta del confine genera il tracollo di una vita invasa da virus di ogni tipo; ma il suo irrigidimento impedisce la ripartenza della vita. Affinché la vita resti viva è necessario misurarsi con la difficoltà, talvolta drammatica, del processo di inclusione e di integrazione. Se il confine cessa di essere un luogo di transito irrigidendosi in muraglia, la vita muore, manca di ossigeno, il cuore cessa di battere. Se la difesa immunitaria è troppo rigida, il trapianto di cuore fallisce e la vita muore. Perché vi sia vita è necessario mantenere il confine poroso senza trasformarlo in muro. Bisogna ospitare il cuore di un altro per continuare a vivere. Il pericolo maggiore, come abbiamo sottolineato, è quello dell’espulsione, della crisi di rigetto. Bisogna indebolire l’automatismo della difesa immunitaria, ripristinare il transito con l’Altro. Solo in questo modo il cuore dello straniero può prendere il posto del nostro cuore e riportarci alla vita. Non è questa una grande lezione di civiltà e di democrazia? Colpisce una straordinaria storia americana: Bill Conner è un padre che nel 2017 ha perso la figlia ventenne. Decide allora di percorrere gli Stati Uniti in bicicletta per quattromila chilometri – dal Wisconsin alla Florida – per incontrare il ragazzo nero al quale era stato trapiantato il cuore della figlia chiedendo di ascoltarne ancora una volta con uno stetoscopio il battito. L’organo è sempre quello della figlia che batte però adesso in un corpo differente. Rappresentazione poetica e umanissima dell’inclusione come primo lemma di ogni lessico civile. Siamo tutti stranieri Il confine definisce un’identità e non può prescindere dalla figura dell’ospitalità. Se l’ospitalità senza identità è caos, l’identità senza ospitalità è morte. L’Odissea di Omero racconta le vicissitudini degli incontri di Ulisse con terre e popoli stranieri. Il re di Itaca nel suo tortuoso viaggio di ritorno incontra popoli differenti, raggiunge terre stregate, sconosciute, ignote, dèi, umani che parlano lingue diverse, valica i confini del mondo, persino il confine proibito dell’Ade, quello che separa la vita dalla morte. È, come sappiamo, la sua hybris fondamentale. Ma Ulisse è lui stesso straniero, migrante, sconfitto, senza patria. Non è solo il re di Itaca o il condottiero valoroso della guerra di Troia, ma

l’emblema del naufrago. La sua è una vita persa in mare, abbandonata a se stessa. Nausicaa, giovane principessa del regno dei Feaci, è l’immagine di un confine, di una terra straniera – l’isola dei Feaci, appunto – che non nega ospitalità al “misero naufrago” Ulisse ma si prende cura di lui: “Fermatevi ancelle: dove fuggite alla vista d’un uomo? Forse un nemico credete che sia? Non esiste uomo vivente, né mai potrà esistere, che arrivi al paese delle genti feace portando guerra […]. Ma questi è un misero naufrago, che c’è capitato, e dobbiamo curarcene: vengon tutti da Zeus gli ospiti e i poveri; e un dono, anche piccolo, è caro. Via, date all’ospite, ancelle, da mangiare e da bere, e nel fiume lavatelo, dov’è riparo dal vento”.18

In questa scena Ulisse assomiglia al cuore straniero che abita ciascuno di noi. È a questo cuore – simbolo dell’alterità interna dell’Altro – che bisogna dare innanzitutto ospitalità affinché la vita resti viva. Lo straniero non coincide con il nemico. È quello che indica il gesto della principessa dei Feaci Nausicaa di fronte al naufrago senza nome. È questo il fondamento etico di ogni lessico civile: il riconoscimento della Legge della parola, dell’ordine del linguaggio come la nostra terra straniera comune.

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S. Freud, Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico, in Opere, a cura di C.L. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1980, vol. VI, p. 455, nota 4. 5 Uso questa espressione molto liberamente. Essa appartiene, con altri contenuti non però del tutto estranei a quelli di cui scrivo, a L. Binswanger, La proporzione antropologica, in Essere nel mondo, Astrolabio, Roma 1973, pp. 346-353. 6 F. Kafka, Durante la costruzione della muraglia cinese, in Tutti i racconti, Mondadori, Milano 1979, vol. II, p. 131. 7 Su tutti questi temi mi permetto di rinviare a M. Recalcati, Le nuove melanconie, cit. 8 Cfr. R. Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004, pp. 115-157. 9 F. Kafka, La tana, in Tutti i racconti, cit., vol. II, pp. 224-255. 10 Cfr. S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), in Opere, cit., vol. XI, p. 170. 11 Cfr. S. Freud, Pulsioni e loro destini, in Metapsicologia, in Opere, cit., vol. VIII, p. 31. 12 E. Canetti, Massa e potere, Adelphi, Milano 1981, p. 17. 13 Cfr. M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1978. 14 Cfr. F. Basaglia, Scritti, Einaudi, Torino 1981, 2 voll. 15 Cfr. J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica, in Scritti, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1976, pp. 170-171. 16 J. Lacan, La terza, in “La psicoanalisi”, n. 12, Astrolabio, Roma 1992, p. 33. 17 J.-L. Nancy, L’intruso, Cronopio, Napoli 2000, p. 27. 18 Omero, Odissea, VI, 199-203 e 206-210.

2.

L’odio

“L’odio è un percorso senza limiti.” J. Lacan, Il Seminario. Libro I

La passione dell’odio L’odio non coincide con la semplice aggressività; la sua meta non è l’attacco rivaleggiante del nemico o dell’avversario. L’odio non scaturisce da una risposta impulsiva, non si genera nella caoticità di una rissa o di un diverbio. Diversamente dall’aggressività, l’odio ha lo statuto di una vera e propria passione che focalizza l’angoscia sostituendola, come accade in altre forme per la fobia, con l’oggetto dell’odio. Nelle fobie infantili, infatti, l’angoscia viene vinta attraverso la localizzazione della paura su di un solo oggetto. La paura dei cavalli nel piccolo Hans, per esempio, risolve provvisoriamente il problema della sua angoscia. Basta dunque evitare quell’oggetto (i cavalli) per scansare l’esperienza perturbante dell’angoscia. La paura del cavallo sostituisce l’angoscia nei confronti dell’ingovernabilità del proprio corpo pulsionale. Nell’odio accade qualcosa di simile: anziché affrontare la propria angoscia – l’angoscia di fronte al proprio corpo pulsionale, al proprio male, alla propria impurità –, si preferisce individuare un oggetto (impuro) sul quale scaricare l’odio. Diversamente dalla fobia, in questo caso non c’è affatto evitamento dell’oggetto ma accanimento contro l’oggetto. In questo modo l’odio dà un volto e un’identità al male che in realtà attraversa il soggetto e al quale egli non sa dare né volto né identità. Per questa ragione la passione dell’odio offre una certa solidità; non c’è il tremore dell’angoscia ma una forza che identifica in un oggetto esterno il pericolo da cui dipende l’infelicità del soggetto, il suo malessere profondo, il suo male. Se, dunque, l’aggressività è una risposta transitoria destinata a dissolversi in breve tempo, a consumarsi nell’impeto dello scatto o della reazione impulsiva di fronte all’immagine del rivale idealizzato, l’odio è un consolidamento stabile dell’aggressività, una passione che punta a distruggere, cancellare, infangare, diffamare la dignità umana dell’odiato. Il suo esercizio non è rabbioso, dissociato, scomposto, ma si mette in atto con

determinazione nel nome della propria purezza contro il contaminato, lo sbandato, l’impuro. Accade per esempio, in modo eloquente, nell’odio nazista nei confronti degli ebrei: la violenza dell’odio implica la disumanizzazione dell’odiato, la sua rappresentazione maligna in quanto rapace, indegno, subumano. L’odio feroce del puro è sempre giustificato dal carattere indegno dell’impuro. Per questa ragione la condizione dell’odiato non dipende da ciò che dice o da ciò che fa, ma da ciò che è. È odio per la sua esistenza in quanto differente, difforme dalla mia. L’odio puro è sempre, in questo senso, ontologicamente razzista. È la sua inciviltà di fondo: trasformare la difformità dell’Altro in deformità morale. L’odio è un trattamento del proprio male tramite l’estroflessione proiettiva dell’oggetto cattivo. È la componente sadica che solitamente lo accompagna. Il sadismo è, infatti, una passione apatica, lucida appunto, come quella del torturatore che non vuole solo estorcere una confessione alla sua vittima, ma annientarne la libertà, l’alterità, distruggerne la dignità, mortificarne l’esistenza. L’odio è più antico dell’amore Per Freud l’odio è più antico dell’amore ed esprime il rifiuto da parte dell’apparato psichico del mondo straniero come fonte di stimolazioni ingovernabili e perturbanti.19 L’odio è più antico dell’amore perché esprime, come abbiamo già visto, la spinta della vita a difendere la propria vita. Per Freud il suo fondamento patemico si troverebbe nello sputare: espellere all’esterno ciò che ci fa soffrire, allontanare da noi stessi ciò che ci fa male. Con un problema aggiuntivo, però, che risulta in realtà decisivo: la pulsione non si può sputare. L’odio vorrebbe scaricare all’esterno ciò che invece abita il soggetto, ovvero il proprio essere pulsionale. La sua impresa è primariamente difensiva: la difficoltà a simbolizzare lo straniero interno fomenta l’odio verso lo straniero esterno. È questa la prima forma, la più arcaica, dell’odio: espellere l’ingovernabile all’esterno, separare il buono (interno) dal cattivo (esterno), il piacere dal dispiacere, sputare il male che mi abita. L’evoluzione psichica del gesto dello sputare definisce nel lessico analitico la categoria della proiezione. Si tratta di un processo inconscio con il quale si trasferisce all’esterno quello che dell’interno risulta insopportabile riconoscere. Si possono fare degli esempi molto semplici: il censore accanito

che prova in realtà un’attrazione smodata per tutto ciò che censura, oppure l’omofobo che coltiva un’omosessualità inconscia che non è disposto in nessun modo a riconoscere. In entrambi i casi quella parte del proprio essere pulsionale che il soggetto non può accettare – non può rendere compatibile con il proprio Io – viene scissa, proiettata, esternalizzata, scaricata attraverso l’odio fuori da sé. L’odio o la parola? La violenza che anima lo scontro delle forze politiche e sociali può sorgere dalla frustrazione, dalla miseria, dall’ingiustizia. Il conflitto può scatenarsi quando la dialettica simbolica tra le parti sociali o tra le generazioni si interrompe. Ma quando l’odio scaturisce dalla disperazione non è assimilabile alla passione lucida che abbiamo appena descritto. Piuttosto esso è generato da un’assenza di risposta dell’Altro (Stato, società, istituzioni). Le rivolte violente dei ceti più marginali e l’odio nei confronti dei rappresentanti dello Stato si possono in questi casi spiegare a partire dalla miseria delle condizioni di vita dei ribelli e dal loro sentirsi abbandonati dalla politica. L’odio sociale può crescere quando nessuno ascolta la disperazione della domanda dei ceti più fragili e socialmente vulnerabili, quando la loro richiesta viene lasciata cadere, ignorata, negata. Lo sconfinamento del conflitto politico verso la violenza può essere generato dalla disperazione, che è una forma radicale di libertà: la libertà di chi reagisce all’assenza di libertà, la libertà di chi resiste alla distruzione della propria libertà. La disperazione è la forma estrema della resistenza della libertà quando la libertà viene aggredita e sopraffatta dal potere. Essa sorge dalla miseria dell’abbandono assoluto ed è, al tempo stesso, espressione del rifiuto dell’essere stati abbandonati nel nulla della pulsione di morte. In ogni caso la violenza che scaturisce dall’odio interrompe il regime simbolico della parola. È un fatto di esperienza individuale e collettiva: finché c’è dialogo, parola in esercizio, non c’è violenza; quando c’è violenza c’è, invece, interruzione della parola, sconferma della sua Legge. Questa Legge esclude per principio l’agito violento, salvo quando la violenza dell’odio si impadronisce anche del linguaggio. In questo caso allora il linguaggio della violenza impedisce la comunicazione, la trasfigura in insulto, ingiuria, diffamazione. La parola viene snaturata, perde ogni valore simbolico per assimilarsi alla pietra, al pugnale, al proiettile.

Accade, per esempio, nella calunnia, dove si attribuiscono azioni o pensieri a qualcuno che non li ha mai compiuti con il solo intento di screditarlo. Allora le parole non valgono più per quello che dicono, ma solo per come e per quanto possono colpire. Per questo nel conflitto politico non esiste quasi mai autentico dibattito, ma solo caricatura dell’avversario, ovvero ciascuno conforma l’avversario sulla rappresentazione caricaturalestrumentale che più gli conviene per far valere le proprie tesi. La violenza dell’odio non si manifesta solamente nella distorsione caricaturale della parola, ma può tendere anche alla sua cancellazione, alla sua soppressione, al suo misconoscimento; mina il diritto di parola sul quale si fonda ogni lessico civile. Se il conflitto, quando assume dignità politica, dovrebbe contribuire a canalizzare simbolicamente la violenza, il passaggio all’atto della violenza senza conflitto scaturisce dalla destrutturazione del campo politico. Allora non c’è più conflitto politico, ma violenza, odio, spinta a distruggere e a rendere inumano il nemico. La violenza senza conflitto politico democratico è solo violenza cieca. Diversamente, il conflitto politico nell’ambito della democrazia è tendenzialmente un modo per sublimare la dimensione ottusamente acefala della violenza. Esistono però anche fenomeni dove il conflitto viene regressivamente riportato alla dimensione cieca della violenza. Accade quando le ragioni politiche sono oscurate da ragioni ontologiche. Per esempio, nella discriminazione razziale; è l’inciviltà fondamentale dell’odio che vorrebbe degradare il proprio nemico fuori dalla Legge del linguaggio, fuori dal Diritto, fuori dalla città. Il fondamento di ogni lessico civile è, come abbiamo visto, la nostra appartenenza, in quanto esseri umani, alla patria del linguaggio, ed è proprio questo fondamento che l’odio vorrebbe distruggere. Se infatti la parola raggiunge i propri obiettivi attraverso percorsi tortuosi e passaggi articolati, attraverso la fatica e la pazienza del dialogo, la violenza dell’odio vorrebbe d’un sol colpo raggiungere la sua meta, eliminando chi ostacola i suoi obiettivi; vorrebbe sostituire alla tortuosità inevitabile, che la mediazione della parola e della politica comporta, l’arroganza di chi vuole semplicemente eliminare il proprio avversario. L’odio come alternativa al lavoro doloroso del lutto Per la psicoanalisi l’odio è senza pensiero e senza mente. Esso sorge al posto di un lutto inelaborato; è l’esito di un lavoro impossibile del lutto. Non dobbiamo dimenticare che il pensiero stesso sorge da un lutto: il bambino

inizia a pensare quando è esposto alla perdita del seno. Lo stesso dicasi per la parola: un bambino può parlare solo perché ha perduto il seno, ha fatto esperienza della sua assenza irreversibile. La sua bocca è vuota, senza oggetto, dunque disponibile alla parola oltre che alla suzione. Diversamente, l’odio sorge da un’intolleranza di fronte al lutto, di fronte all’esperienza tragica e irreversibile della perdita. In questo esso assomiglia all’allucinazione: la perdita non suscita il lavoro lungo del pensiero, ma il cortocircuito dell’allucinazione che vorrebbe porre magicamente riparo alla ferita subita. È un caso descritto da Freud: una giovane madre perde il suo piccolo appena nato e tanto atteso. Ma, anziché elaborare il lutto estremamente doloroso di questa perdita, si aggira nei corridoi dell’ospedale con un pezzo di legno avvolto nelle coperte chiamandolo con il nome del bambino defunto.20 Prendiamo, per essere ancora più chiari, l’esempio della separazione amorosa. Non è raro che un passaggio all’atto violento, animato dall’odio cieco per chi ci ha abbandonati, possa venire in risposta alla difficoltà insuperabile di elaborare la perdita dell’oggetto amato. Accade in modo drammatico nei casi di femminicidio. Anziché elaborare la ferita narcisistica provocata dalla separazione, alcuni uomini ricorrono alla follia del gesto violento; anziché elaborare il lutto doloroso della morte di un amore, sentenziano brutalmente la morte di chi li ha abbandonati autoproclamandosi come giustizieri. Le riflessioni psicoanalitiche e antropologiche di Franco Fornari sul fenomeno della guerra confermano la tesi dell’odio come modo per evitare il carattere doloroso del lavoro del lutto. La guerra stessa sarebbe il risultato di un rifiuto paranoico dell’elaborazione simbolica di un lutto.21 Nell’Africa nera primitiva, per esempio, la morte di un bambino, anziché attivare un’elaborazione del lutto, può provocare una dichiarazione di guerra alla tribù confinante con l’idea che lo sciamano di quella tribù sia stato responsabile della morte di quel bambino. È un esempio significativo del funzionamento proiettivo-paranoico della mente umana che, per aggirare il dolore del lutto, attribuisce la causa della perdita alla malvagità dello straniero. È una tendenza primaria della pulsione: scaricare sull’oggetto odiato la nostra difficoltà a pensare ciò che ci fa più male. L’odio invidioso Esiste, però, anche una forma più sottile dell’odio sulla quale ha

particolarmente insistito la riflessione psicoanalitica: è quella dell’odio invidioso che colpisce chi vorremmo essere e non siamo; è l’odio che attacca non lo straniero – l’oggetto difforme/deforme che abita al di là della frontiera –, ma il più vicino, il più prossimo, chi incarna l’ideale che “io” vorrei essere e non posso essere. Ne abbiamo la matrice mitica nell’episodio biblico del gesto di Caino che uccide il fratello Abele. Secondo Lacan, per comprendere davvero questa scena dovremmo convocare un’altra figura mitologica che non appartiene al mondo biblico bensì a quello classico: la figura di Narciso.22 È infatti Narciso, e il suo sogno suicidario di aderire perfettamente alla propria immagine ideale, il vero riferimento imprescindibile per intendere appieno il gesto cruento di Caino. Egli colpisce il fratello Abele perché questi incarna il proprio ideale narcisistico in quanto irraggiungibile. Dio mostra infatti di preferire i doni di Abele a quelli di Caino, mostra di amare più l’uno dell’altro: CAINO:

Io volevo solo un po’ d’amore, che la mia offerta fosse accolta volevo. Un segno anche modesto che dicesse va bene, così va bene. Il tuo fare è buono, buoni i tuoi frutti. La mia fatica immensa. 23

Dal privilegio che Dio accorda ad Abele scaturisce il sentimento invidioso di Caino che lo condurrà alla decisione di sopprimere la vita del proprio fratello. Per comprendere la spinta umana alla distruzione invidiosa bisogna dunque ricorrere alla dimensione narcisistica della fascinazione e non solo a quella sociale della frustrazione. Esiste una componente profondamente suicidaria e autodistruttiva nell’odio invidioso: Narciso perde la sua vita cercando inutilmente di coincidere con la sua immagine ideale riflessa nelle acque, come mostra bene il Narciso attribuito a Caravaggio. Lo stesso accade a Caino nei confronti di Abele. Il dramma dell’odio invidioso si consuma sempre allo specchio: osservo con tristezza e odio la vita piena di chi invidio, il cui accesso mi è impossibile. L’invidia implica sempre una relazione con un Altro ideale che si detesta solo perché ineguagliabile. L’invidiato è sempre quello che l’invidioso vorrebbe consciamente o inconsciamente essere senza però riuscire a esserlo. L’oggetto dell’invidia non è mai il marginale, il secondario, l’insignificante. L’invidia è sempre invidia per la vita abbondante, ricca, più viva dell’invidiato. È la tesi di Melanie Klein: non è il seno senza nutrimento

che suscita invidia, ma quello più ricco di vita, il seno più generoso. Per questa ragione, infatti, si morde solamente la mano che nutre.24 L’invidioso non invidia mai solo qualcosa, per esempio una proprietà o una qualità dell’invidiato, ma la sua stessa vita. L’invidioso è povero di vita e invidia la vita ricca di vita dell’invidiato. Caligola, l’imperatore sanguinario descritto anche da Camus, mostra bene, nella sua disperazione, come al centro dell’odio invidioso vi sia, in realtà, un vuoto inestinguibile, una povertà di vita. L’odio invidioso può seminare infatti solo morte. La vita del grande imperatore appare ai suoi stessi occhi vuota come quella di un tronco essiccato. L’odio e la brama di potere cercano vanamente di compensare un “grande vuoto” inestinguibile. CALIGOLA:

Non avrò la luna. Comincio ad avere paura. Ah, che abiezione, che schifo, che senso di vomito sentirci crescere dentro quella stessa viltà e quell’impotenza che abbiamo disprezzato negli altri. La viltà! Ma che importa? Nemmeno la paura dura tanto. Sto per ritrovare quel grande vuoto in cui l’anima si placa. Tu sei imperatore, il che è molto. Ma io non sono niente, il che è poco. Niente, Caligola, niente. Sono vuoto e cavo come un tronco secco. Dicono che ho il cuore duro, anche tu lo dici. Ma non è possibile che sia duro, perché al posto del cuore io non ho niente – e tu lo sai bene – nient’altro che un grande buco vuoto nel quale si agitano le ombre delle mie passioni.25

L’invidia della vita Il sentimento invidioso corrode il legame sociale, annulla il senso della gratitudine, cancella la memoria. Caino dimentica il suo legame di fratellanza con Abele, il bambino kleiniano dimentica quanto deve al seno che lo ha nutrito, Giuda dimentica quanto si è abbeverato alla parola del suo Maestro.26 Il vero oggetto dell’invidia non è mai una proprietà o una qualità dell’invidiato. Quello che l’invidioso invidia sino alla morte è la potenza vitale dell’invidiato, la sua superiore capacità di essere vivo, la sua vita più viva. L’odio invidioso, nel suo fondo, sosteneva non a caso Lacan, è pura “invidia della vita”.27 Possiamo evocare due esempi emblematici. Il primo è quello del film Amadeus (1984) di Miloš Forman incentrato sull’invidia di Salieri nei confronti del giovane e impetuosamente talentuoso Mozart. È evidente che qui l’invidia da parte di Salieri del genio del suo rivale non è solo invidia del talento di cui Salieri era privo, ma è soprattutto invidia della vita di Mozart, della sua vita più viva, della sua forza generativa, del suo sorriso. Il secondo esempio è assai più perturbante ma drammaticamente coerente con il primo. Il caso è quello dell’omicidio avvenuto il 23 febbraio 2019 ai Murazzi di Torino. Quello che il giovane assassino non ha sopportato è stata

la presenza del sorriso sul viso della sua vittima. Lo stesso sorriso del giovane Mozart che doveva risultare insopportabile a Salieri. Il suo gesto omicida non ha alcun movente definito se non quello di non tollerare quel sorriso come simbolo di una vita più viva della propria vita. Il sorriso di quel ragazzo suonava beffardo; la vita del suo assassino era infatti senza sorriso, esclusa dallo splendore della vita, una vita senza luce, senza speranza. La dichiarazione rilasciata alle forze dell’ordine dall’assassino di Stefano Leo, immediatamente dopo la sua consegna spontanea, lascia sconcertati: nessun movente se non la felicità di uno sconosciuto. È a causa di questa felicità che la sua mano si è armata di un coltello e ha sgozzato in un rito sacrificale abominevole la sua vittima. “L’ho scelto tra tutti gli altri perché mi sembrava avesse una vita felice”: queste le poche parole con le quali ha provato a spiegare il suo folle gesto. Avrebbe forse potuto ottenere in questo modo un po’ di luce mediatica? Di fatto nessun rapporto, nessun dissidio, nessun rancore, nessuna rivendicazione sospesa tra il killer e la sua vittima. Nessuna voce allucinata che avrebbe ordinato il passaggio all’atto. Solo due giovani uomini sconosciuti l’uno all’altro, uno dei quali decide di togliere la vita al suo simile solo perché apparentemente più felice della propria. Due uomini di fronte a uno specchio tragicamente beffardo? La vita dell’omicida andata a rotoli, in una crisi che lui avverte come priva di ogni possibilità di riscatto: separazione dalla moglie, divieto di vedere i propri figli, assenza di lavoro, solitudine. Quella dell’assassinato una vita sconosciuta la cui sola colpa era, appunto, di sembrare più felice di altre, di sorridere. Questa la scena del crimine. L’invidia gelosa il suo unico movente. Mentre la spinta della passione lucida dell’odio risponde al conflitto amico-nemico, all’antagonismo tra differenti, tra radicalmente e irriducibilmente diversi, l’invidia implica sempre una prossimità promiscua tra l’invidioso e l’invidiato. Non si invidia chi non appartiene al nostro mondo, diceva già Aristotele, ma solo chi è come noi, non troppo diverso da noi, solo più fortunato di noi, più ricco, più vivo di noi. Mentre l’odio si presta a essere cavalcato politicamente, ad armare la mano contro lo straniero, contro l’antagonista, contro il difforme, l’invidia anima più subdolamente il risentimento contro chi, essendo come me, ha (immeritatamente) più di me. L’invidia è sempre cieca perché colpisce chi è come noi e ha più di noi provando a screditarne il valore. Ecco perché la diffamazione è la forma più espressiva dell’invidia.

Ma se spingessimo a fondo l’analisi del sentimento invidioso, come oggetto dell’invidia non troveremmo altro se non la vita stessa. Non si può, ovviamente, provare invidia per la vita misera, depressa, per la vita spenta. L’invidia è sempre invidia della vita felice, è sempre invidia della vita piena. La colpa innocente del giovane uomo assassinato nel mucchio era quella di sorridere, di avere nel suo viso più luce di altri. La stessa colpa di Mozart di fronte allo sguardo risentito di Salieri. La disperazione dell’invidioso non può, infatti, sopportare la ricchezza della vita degli altri; soffre impotente e tristemente, come ricordava Tommaso d’Aquino, per il bene altrui. Non a caso, per i padri della Chiesa il vizio dell’invidia è strettamente collegato a quello della superbia, all’amore per la propria eccellenza (“amor propriæ excellentiæ”) che non tollera la realizzazione dell’invidiato. Etimologicamente invidia viene da in-videre, che significa infatti “non riuscire a vedere”, “non sopportare la vista”, “guardare di malocchio”. Dante ne parla, non a caso, come di uno sguardo che non può vedere bene confinato nelle spesse tenebre del Purgatorio. Gli invidiosi mostrano i loro occhi perforati e cuciti con fili di ferro sorreggendosi uno con l’altro, brancolando come una massa informe e lacerata.28 Viviamo in un tempo che alimenta costantemente l’invidia al posto della lotta e del conflitto contro le ingiustizie. Essa ha surclassato la critica sociale e la giusta domanda di riscatto dei ceti più deboli, talvolta penetrando nella stessa dinamica politica con effetti disastrosi; privatizzando il conflitto, rendendolo senza finalità, promuovendo la distruzione fine a se stessa al posto della lotta per l’emancipazione. Nei social come nelle nostre strade, chi sa ancora sorridere rischia di essere bersaglio dell’invidia di quelli che si sentono esclusi dalla ricchezza della vita. È lo sguardo triste, corrotto dalla gioia degli altri, senza avvenire, dell’invidioso. Per Tommaso d’Aquino l’invidia è l’unico tra i sette vizi capitali che non contempla un godimento attivo. Nessun godimento, nessun beneficio, nessun piacere se non il tormento per la gioia degli altri, per la “tristezza di fronte ai beni altrui”.29

19

Cfr. S. Freud, Pulsioni e loro destini, in Metapsicologia, in Opere, cit., vol. VIII, p. 33. S. Freud, Le neuropsicosi da difesa, in Opere, cit., vol. II, p. 133. 21 F. Fornari, Psicoanalisi della guerra, Feltrinelli, Milano 1970. 22 Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud (1953-1954), Einaudi, Torino 2014, p. 214. 23 M. Gualtieri, Caino, Einaudi, Torino 2011, p. 43. 20

24

Cfr. M. Klein, Invidia e gratitudine, Martinelli, Firenze 1969. A. Camus, Caligola, Bompiani, Milano 1984, p. 62. 26 Sull’invidia gelosa di Giuda mi permetto di rinviare a M. Recalcati, La notte del Getsemani, Einaudi, Torino 2019, pp. 47-53. 27 J. Lacan, Il Seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), Einaudi, Torino 1994, p. 301. 28 Dante, Purgatorio, XIII, 70-72. Su tutti questi temi, vedi C. Casagrande e S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medioevo, Einaudi, Torino 2000, pp. 36-53. 29 Cfr. Tommaso d’Aquino, Il male, a cura di F. Fiorentino, Bompiani, Milano 2001, pp. 883 e 889. 25

3.

L’ignoranza

“Quando l’individuo, crescendo, si accorge che è destinato a rimanere per sempre un bambino, che non potrà fare a meno di tutelarsi contro potenze superiori sconosciute, presta a queste i tratti della figura paterna, si crea gli dèi, che teme, che cerca di propiziarsi, e ai quali nondimeno si affida per essere protetto.” S. Freud, L’avvenire di un’illusione

Il padre-padrone La famiglia patriarcale è dominata dalla parola severa e giudicante del padre-padrone. Attorno ad essa un silenzio misto a timore e rispetto inquieto. L’autorità del padre patriarcale spegne di fatto tutti i discorsi rendendo impossibile l’esercizio singolare della parola. Per questo Freud ha teorizzato che nella psicologia delle masse lo sguardo inflessibile e ipnotico del leader riproduca quello del “padre primigenio”.30 I figli, come le masse, sono sottomessi al potere illimitato del capo. In questo senso la figura patriarcale del padre contraddice la funzione simbolica del padre. Questa funzione dovrebbe infatti essere quella che, innanzitutto, sa donare la parola garantendo la sua circolazione plurale. Il padre per la psicoanalisi non è l’uomo virile con barba e baffi – secondo la raffigurazione stereotipata dell’ideologia patriarcale –, non coincide con il padre reale, non è semplicemente il genitore dei suoi figli, ma il simbolo stesso della Legge della parola e della sua funzione di umanizzazione della vita e di accensione e trasmissione del desiderio. È il simbolo della parola capace di umanizzare la vita che non è detto coincida, appunto, con il padre reale, ovvero con il genitore del figlio, ma può realizzarsi in ogni luogo e attraverso qualunque cosa.31 Nel caso invece della parola sterilmente repressiva del padre-padrone, la Legge si abbatte sulla vita come un’ascia, una frusta, una punizione che non conosce perdono. Con l’aggiunta di colpevolizzare i figli per l’angoscia che il loro comportamento trasgressivo può suscitare nei genitori, come mostra con forza il film Il nastro bianco di Michael Haneke (2009). È la vita ribelle dei figli a rendere necessaria la punizione severa del padre che deve conformare questa vita agli ideali moralistici di una vita retta. Ogni educazione autoritaria vorrebbe infatti regolare la vita dei nostri figli sottoponendola a un dressage di tipo disciplinare. Si tratta di un’educazione che ignora l’esistenza del segreto del figlio, del suo desiderio difforme, divergente, orfano, necessariamente eretico.32 Ogni educazione autoritaria vorrebbe trasformare

l’irregolarità di ogni figlio in una vita passivamente adattata alla cultura del capofamiglia. È questa una delle manifestazioni più incivili e pericolose dell’ignoranza. L’esercizio disciplinare del potere esige la sottomissione sacrificale alla Legge del padre-padrone. Sopprime il diritto di parola e di critica, rende le divergenze pericolose eresie che devono essere riassorbite e rieducate alla giusta via. Tutte le istituzioni autoritarie, non a caso, sembrano confondersi con la famiglia del Nastro bianco. È, come abbiamo visto, la tesi di Freud: lo sguardo infatuato del leader autoritario riflette il potere ipnotico del padre del patriarcato. I figli, come le masse, non hanno alcun diritto alla libertà, ma solo il dovere della sottomissione e dell’obbedienza. Il consolidamento dell’ignoranza Possiamo definire con il termine “fondamentalismo” l’attitudine della vita umana a fabbricare una versione dogmatica della verità che esige una relazione di adorazione fideistica. In questa accezione il fondamentalismo può declinarsi politicamente, religiosamente o culturalmente. Il suo denominatore comune è che una sola Verità impone l’ignoranza di altre possibili verità. L’essenza di ogni fondamentalismo è quella di consolidare l’ignoranza, di porre, più precisamente, l’ignoranza come fondamento di una verità assoluta. In questo modo l’ignoranza non si configura più come un difetto, una mancanza di sapere, ma, alla stessa stregua dell’odio, come una vera e propria passione. La passione dell’ignoranza coincide con la sua pretesa di essere padrona della verità. Ne abbiamo un esempio eloquente nel “pregiudizio”, che altro non è se non un’ignoranza consolidata che vorrebbe porsi come manifestazione incontrovertibile della verità. Il tratto più profondo di ogni fondamentalismo consiste, dunque, nell’esercitare l’ignoranza a partire dall’idea di possedere in modo esclusivo la verità. È questa la sua miscela esplosiva: impastare l’ignoranza con la verità. La passione dell’ignoranza è al centro del recente romanzo autobiografico di Tara Westover intitolato L’educazione. Il fanatismo religioso della sua famiglia di mormoni vieta ogni lettura estranea a quella di un Dio severo e sadico che minaccia un’imminente fine del mondo – i “Giorni dell’Abominio”: Ho solo sette anni ma so che è questo, più di ogni altra cosa, a rendere diversa la mia famiglia: noi non andiamo a scuola. Il papà ha paura che lo Stato ci costringerà ad andarci, ma è impossibile

perché lo Stato non sa di noi. Dei sette figli dei miei genitori, quattro non hanno un certificato di nascita. Non abbiamo libretti sanitari perché siamo nati in casa e non abbiamo mai visto un dottore o un’infermiera. Non abbiamo pagelle scolastiche perché non abbiamo mai messo piede in una scuola. Quando avrò nove anni riceverò una dichiarazione tardiva di nascita, ma per il momento, per lo Stato dell’Idaho e il governo federale, io non esisto. Anche se, ovviamente, esistevo. Ero cresciuta preparandomi ai Giorni dell’Abominio, quando il sole si sarebbe oscurato e la luna avrebbe grondato un liquido simil-sangue. Passavo le estati a inscatolare pesche e gli inverni a fare la rotazione delle provviste. Quando il Regno dell’Uomo sarebbe finito, la mia famiglia avrebbe continuato indisturbata.33

Cresciuta nell’Idaho, in una valle sperduta circondata da alte montagne e fitti boschi, Tara è stata educata secondo i più rigidi canoni mormoni: niente medicine, niente vaccini, niente libri, niente televisione, niente amici, niente patente, niente telefono, nessun certificato di nascita (“Sapevo di essere nata verso la fine di settembre e ogni anno sceglievo un giorno per il mio compleanno”),34 ma, soprattutto, niente Scuola. In primo piano – scolpita con struggente forza tragica – la figura di un padre d’altri tempi che crede di prolungare sulla terra la volontà di un Dio collerico e vendicativo. Si tratta di una versione terrificante del padrepadrone sostenuta dall’ideologia patriarcale. Il delirio religioso di quest’uomo è al centro della vita della sua famiglia. Sempre impegnato, come un Noè folle, a costruire rifugi, ad accumulare e a inscatolare scorte, fucili e benzina, sacchi di grano e fusti di miele per consentire alla sua famiglia di sopravvivere ai “Giorni dell’Abominio”, la catastrofe finale che distruggerà i malvagi che abitano la terra e salverà i puri, quest’uomo incarna un’autorità folle e invasata, una versione folle della Legge. I “socialisti”, gli “infedeli”, le “spie degli Illuminati” popolano, secondo il suo delirio religioso, il mondo esterno rendendolo minaccioso. Bisogna dunque barricarsi nella propria casa, trasformarla, come accade al personaggio kafkiano de La tana, in una fortezza senza finestre e senza porte. Se la famiglia – la tana – è il Bene, il mondo è il Male. Ma la tragica scoperta di Tara, che la libererà da questa prigione, è che il diavolo non è fuori, ma dentro, che la barbarie non è del mondo, ma di questo Dio inesistente e del suo portavoce terreno che lancia maledizioni e predice sciagure. La scoperta più decisiva per l’avvenire della sua vita è che il Male è dentro la sua famiglia e non fuori dalla sua famiglia come voleva l’insegnamento del padre. Il fratello Shawn – probabilmente un pericoloso paranoico – le infligge violenze di ogni genere: le torce i polsi, la soffoca, le infila la testa nel water, la schiaccia contro il pavimento, la insulta (“Puttana, troia!”), la trascina per i

capelli, la minaccia con un coltello o – quando la sorella sarà finalmente dall’altra parte del mondo, lontana dalla famiglia – attraverso delle mail che assomigliano a proiettili sparati da lontano con intenzione assassina. Tutto il mondo degli uomini della famiglia sembra polarizzarsi attorno a questi due estremi solo apparenti poiché la devozione paterna per la Legge di Dio e l’esercizio brutale della violenza da parte del fratello non sono in realtà che due facce della stessa medaglia. Quando, infatti, non si lascia spazio all’eteros, quando non c’è alcun rispetto per l’alterità, la vita diviene un inferno e la Legge il luogo di una volontà caotica e distruttiva. La madre erborista e levatrice “diceva di sentire l’energia calda che scorreva attraverso i nostri corpi”.35 La sua visione omeopatica della medicina è il risultato di uno scambio intimo con Dio: attraverso le sue mani e i suoi occhi è Dio che si prende cura delle povere anime alle quali questa donna si dedica con profondo senso del dovere. La sua posizione nei confronti del marito è quella di un’obbedienza inerme. Lo stesso vale per le violenze scatenate di continuo dal figlio paranoico verso le sorelle. Nessuna presa di posizione; solo un consenso drammaticamente silenzioso. La vita di Tara sembra dunque predestinata: raccattare, trinciare e saldare rottami, lavorare nella discarica al fianco del padre e dei fratelli con gli scarponi dalla punta d’acciaio; vivere immersa in un mondo chiuso che vive il mondo come una minaccia perpetua. Ma una vita non è solo, come credeva Freud, la preda passiva della sua infanzia. La narrazione di Tara Westover mostra che, se le tracce traumatiche del proprio passato possono non smettere di affliggere l’anima e il corpo, la vita del figlio ha sempre la possibilità di dare una forma nuova alla propria storia. Per questo lo sforzo di poesia del figlio necessita di nutrirsi di un altro ossigeno. Accadrà per Tara – come accade per tanti figli – grazie all’incontro con la Scuola. Il college prima e l’università poi sono deviazioni impreviste nella sua vita di predestinata: cambi di direzione, cambi di passo che rendono possibile un nuovo poema. È stato necessario un lungo e tragico apprendistato per fare esperienza di un’altra lingua rispetto a quella (fondamentalista) della propria famiglia. Grazie alla Scuola, Tara può finalmente introdursi alla pluralità sconosciuta e affascinante di altre lingue. Mentre per il padre la Scuola era una malattia che allontanava pericolosamente i bambini da Dio, per Tara diventa il luogo di un’apertura straordinaria verso un sapere nuovo, l’occasione per una ripartenza vitale. Di fronte al bivio che la separa dalle sue

radici Tara non tentenna, ma assume con forza il proprio desiderio di conoscenza anche se questo è osteggiato in tutti i modi dalla sua famiglia: Cosa deve fare una persona, mi chiedevo, quando i suoi doveri verso la famiglia si scontrano con altri doveri – verso gli amici, la società, verso se stessi? [...] Potete chiamare questa presa di coscienza in molti modi. Chiamatela trasformazione. Metamorfosi. Slealtà. Tradimento. Io la chiamo un’educazione.36

Nessuna formazione può però avvenire cancellando il passato. Il processo di soggettivazione e di separazione implica sempre una ripresa in avanti di quello che si è stati. Per questo Tara può, per esempio, riconoscere – al termine del suo tortuoso cammino – che sono state le ore passate sulla scrivania di casa a decifrare “piccoli frammenti di dottrina mormone” a farle acquisire la “pazienza di studiare cose che non riuscivo ancora a capire”: Ripensandoci, credo che sia stata questa la mia educazione, quella che avrebbe contato qualcosa: le ore che passai seduta a una scrivania presa in prestito, cercando di analizzare piccoli frammenti di dottrina mormona e di imitare un fratello che mi aveva abbandonato. Fu così che acquisii una dote fondamentale: la pazienza di studiare cose che non riuscivo ancora a capire.37

Lo sforzo di poesia del figlio lavora sempre sulle macerie, sui resti inceneriti della lingua dei padri. Il cammino di liberazione dall’ignoranza della lingua unica della propria famiglia implica sempre uno strappo, un passaggio stretto, una rottura. Nondimeno ogni esistenza porta con sé le tracce del proprio passato, appare marchiata da quelle tracce che, però, possono trovare un’altra forma di scrittura. Per questa ragione il nostro passato non giace mai immobile alle nostre spalle, ma si risignifica, acquista significanti nuovi solo a partire dal nostro movimento verso l’avvenire. La democrazia dei libri Ogni fondamentalismo dogmatico, abbiamo visto, sostiene verità assolute che entrano in conflitto con una concezione laica della conoscenza. Ne abbiamo un esempio emblematico nella figura del padre delirante di Tara Westover. Non a caso per Freud la psicoanalisi è per definizione laica (Laienanalyse). L’etimologia della parola tedesca laien rivela infatti proprio questo significato: ignorare le verità prime, le verità assolute, incontrovertibili. Le verità del fondamentalismo hanno invece tutte la natura del pregiudizio perché si impongono come verità incontrovertibili, dunque come forme estreme di ignoranza. Sono verità che vengono prima del pensiero, prima del giudizio critico, pre-giudiziali appunto. Per questo lo spirito libero è antagonista a ogni versione dogmatica della verità. Una descrizione epica dell’inciviltà del fondamentalismo è il mito biblico degli uomini di Babele. Il loro delirio è quello di costituire “un solo popolo”,

“una sola lingua”, è quello di “farsi un nome da soli”.38 È un popolo che “sfida Dio” nel nome della propria onnipotenza. Se Dio è il luogo della Legge della parola che deve conservare il pluralismo di tutte le lingue, per i babelici è necessario sfidare la potenza di Dio per imporre la loro lingua unica, la loro verità assoluta. Sfidare Dio come fa il fondamentalismo dei babelici significa voler distruggere il pluralismo delle lingue, che è invece a fondamento di ogni lessico civile e della vita democratica della polis. Il monolinguismo rende infatti impossibile l’esperienza della democrazia. Per questa ragione il Dio biblico interviene nei confronti dei babelici demolendo l’illusione della lingua unica, disperdendo, stratificando, moltiplicando le lingue, costringendo cioè gli uomini a tradursi per intendersi. Come nella bella definizione che Walter Benjamin dava della democrazia: “La democrazia è la necessità della traduzione”. Nessun popolo è padrone della lingua, nessuna lingua può imporsi sulla molteplicità delle altre lingue. Se il fondamentalismo consiste nella riduzione della molteplicità delle lingue a una sola lingua, se il suo fondamento è il consolidamento dell’ignoranza delle altre lingue, la democrazia ha il compito di preservare la molteplicità delle lingue. Non a caso i libri sono odiati e messi al rogo da tutte le dittature. Tutti i fascismi hanno sempre applicato la censura, hanno gettato i libri nel fuoco insieme alle loro idee divergenti. Non esistono i libri, ma solo il Libro: il Libro dei Libri. Il Libro che, alimentando l’ignoranza degli altri libri, arma le mani contro i libri. Infatti l’esistenza del libro contrasta quella del monolinguismo. Il libro è luogo di differenza e di pluralità. È ciò che incrina la passione fondamentalista dell’ignoranza. Da una parte abbiamo la tentazione del muro – “un solo popolo”, “una sola lingua” –, dall’altra la resistenza singolare del libro che contiene la pluralità straniera delle lingue. Il libro è infatti una figura dell’aperto; è un mare contrapposto al muro. E il mare unifica molti paesi, territori, razze, lingue. Leggere un libro è sempre fare esperienza della democrazia, del pluralismo, della morte del monolinguismo, dell’incontro con altre lingue.39 In questo senso la lotta contro l’ignoranza del fondamentalismo coincide con la lotta per la libertà del libro poiché quell’ignoranza vorrebbe sostituire il pluralismo delle lingue con l’aberrazione mortale della lingua unica, della “sola lingua”, ovvero della lingua del pregiudizio che nega l’esistenza di tutte le altre lingue in quanto straniere.

Un aneddoto su Freud Nella vita civile l’inclusione prevale sull’esclusione; l’accoglienza sul respingimento; la mediazione sulla contrapposizione. Dal punto di vista della psicoanalisi, un’attività psichica sufficientemente sana procede sempre per integrazioni plastiche e non per scissioni rigide. Per Bollas è questo il principio di funzionamento di una “mente democratica” o di uno “stato democratico della mente” fondata sull’attività del “tentennamento” e non della risoluzione immediata e rigida: La mente democratica mira a contenere e tollerare tutti i propri elementi divergenti, in modo che nulla sia eliminato. Il processo democratico, cui è affidato il compito di occuparsi di tutte le parti, utilizza il tentennamento come un’attività mentale impegnata a muoversi costantemente tra tutte le parti della mente.40

Un aneddoto della vita di Freud può aiutarci a comprendere meglio questa definizione.41 Freud, ormai noto e riconosciuto padre della psicoanalisi, sta tenendo una conferenza pubblica in un luogo prestigioso, ma la sua parola viene costantemente disturbata dagli schiamazzi di un uomo presente in sala. Dopo diversi ammonimenti a tenere un comportamento più adeguato, l’uomo viene allontanato dalla sala. Ma nemmeno questo lo acquieta poiché anche dall’esterno continua a fare tutto il possibile per disturbare la conferenza del grande psicoanalista. Allora il responsabile istituzionale del convegno sussurra a Freud che diventa purtroppo necessario far intervenire le forze dell’ordine. A quel punto però Freud decide di non chiamare le forze dell’ordine ma di far rientrare l’uomo e di dargli la parola. Questo gesto rivela non solo la profonda umanità di Freud – la sua civiltà – ma anche la finalità fondamentale della psicoanalisi: non segregare, non escludere, non togliere la parola ma darla a chi viene escluso. In fondo, che cos’è una psicoanalisi se non una sorta di parlamento interno dove le diverse lingue o “istanze” – come direbbe più appropriatamente Freud stesso – che compongono il soggetto hanno ciascuna la possibilità di esprimersi liberamente senza censure o interdizioni? E infatti questo episodio è diventato anche un brano della teoria di Freud, nel quale l’inconscio stesso viene paragonato a un estraneo che disturba la “conferenza” tenuta dal nostro Io e che è necessario far entrare nella sala anziché escluderlo come farebbe il processo della rimozione.42 La psicoanalisi è infatti una scienza dei confini che valorizza l’esperienza dell’amicizia e dell’ospitalità con lo straniero interno. È questa, come abbiamo già visto, la natura plastica e porosa che Bion riconosce alla funzione del confine.

Elogio dell’ignoranza Esiste però anche una forma positiva dell’ignoranza. È quella che Nicola Cusano definiva “dotta ignoranza”. Non è ignoranza come pretesa di possedere la verità, ma come motore della ricerca della verità. Il che implica che per questa forma positiva dell’ignoranza la verità non sia considerata come una proprietà, ma come una continua ricerca. Si tratta dell’ignoranza come “pulsione epistemofilica”, secondo Melanie Klein. La spinta alla conoscenza è una necessità libidica come mangiare o avere una vita sessuale. In questo caso l’ignoranza non ostacola la conoscenza, ma la promuove. Essa si mostra come quel non sapere che è all’origine di ogni sapere. Non è l’ignoranza come supposizione di detenere un sapere consolidato, ma è il desiderio di sapere ciò che sfugge al sapere già saputo. Per questo tipo di “ignoranza” la domanda vale assai più di ogni risposta perché il sapere non può essere una proprietà, ma deve circolare, deve essere trasmesso. “Il sapere,” scriveva don Milani nella sua Lettera a una professoressa, “serve solo per darlo.” Con l’aggiunta decisiva che un maestro non è tale se non si impegna in questa attività di trasmissione: “Dicesi maestro chi non ha nessun interesse culturale quando è solo”.43 È la differenza profonda tra divulgare e banalizzare: divulgare significa dire l’essenziale facendo a meno del superfluo in modo che l’essenziale possa arrivare al maggior numero di persone; banalizzare significa invece dire il superfluo facendo a meno dell’essenziale. Ma mentre il maestro si impegna nel far circolare il sapere per scalfire il consolidamento fondamentalista dell’ignoranza, egli sa bene che non potrà mai sapere tutto il sapere, sa che nessuno può detenere il sapere di tutto il sapere. E questa consapevolezza non ostacola affatto la ricerca del sapere bensì la rende possibile. È qualcosa che ritroviamo anche nel mito della Genesi: solo l’impossibilità di accedere al sapere di Dio, ovvero a sapere tutto il sapere, rende possibile la ricerca della conoscenza. Il desiderio di sapere presuppone che il campo del sapere non si possa mai circoscrivere esaustivamente perché c’è sempre qualcosa che sfugge al sapere, perché l’ordine del sapere non è una totalità ma un “non-tutto”. Non si può sapere tutto il sapere. Nessun sapere può infatti appropriarsi del mistero della vita. Sarebbe come ridurre la bellezza del fuoco al semplice fenomeno fisico della combustione della legna.

30

Cfr. S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, in Opere, cit., vol. IX, p. 315. Su questa versione antipatriarcale del padre ha insistito il mio lavoro da Cosa resta del padre?, cit., passando per Il complesso di Telemaco, cit., e Le mani della madre, cit., sino a Il segreto del figlio, cit. 32 Cfr. M. Recalcati, Il segreto del figlio, cit., e Il complesso di Telemaco, cit. 33 T. Westover, L’educazione, Feltrinelli, Milano 2018, p. 14. 34 Ivi, p. 38. 35 Ivi, p. 80. 36 Ivi, pp. 358 e 371. 37 Ivi, p. 84. 38 Genesi, 11, 1-9. 39 Mi permetto su questi temi di rinviare a M. Recalcati, A libro aperto. Una vita è i suoi libri, Feltrinelli, Milano 2018. 40 Cfr. C. Bollas, L’età dello smarrimento. Senso e malinconia, Raffaello Cortina, Milano 2018, p. 67. 41 Cfr. E. Jones, Vita e opere di Sigmund Freud, il Saggiatore, Milano 1973. 42 Cfr. S. Freud, Cinque conferenze sulla psicoanalisi, in Opere, cit., vol. VI, pp. 143-144. 43 Don Milani, Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria editrice fiorentina, Firenze 1967, p. 110. 31

4.

Il fanatismo

“Solo la perdita della purezza del sangue distrugge per sempre la gioia interiore, abbatte per sempre gli uomini.” A. Hitler, La mia battaglia

Il potere della bandiera In un discorso rivolto alla gioventù tedesca Hitler esalta l’attaccamento alla bandiera della Grande Germania. Le sue parole infiammano, seducono, conquistano. La bandiera offre all’insicurezza “naturale” della giovinezza l’ideale di un’identità compatta, imperitura, eterna, un binario ideologico solido che salva dallo smarrimento e dall’erranza. Il discorso di Hitler è vibrante perché mostra come l’ideale della razza ariana doni un senso esaltato di appartenenza che nemmeno la morte potrà mai erodere. In antagonismo con la condizione perennemente esiliata dell’ebreo, ma più in generale, con la fragilità umana, il Führer invoca la bandiera come simbolo indistruttibile di identità. Identificarsi con la bandiera ci salva dalla nostra mancanza e dalla nostra vulnerabilità; “salva dal nulla” afferma suggestivamente Hitler. Non a caso anche il fenomeno più recente della radicalizzazione del musulmano che diviene terrorista mette in risalto non tanto l’esigenza del riscatto sociale quanto quella del radicamento, del ritrovamento di un’identità solida, dell’appartenenza a un gruppo che non abbandona. Il fantasma fanatico della purezza Per Freud la massa offre un’identità solida perché è acefala, senza testa, “priva di mente” direbbe Bion. Essere nella massa, nell’identificazione con la massa, comporta l’adesione a un’ipnosi collettiva che genera regressione e perdita di giudizio critico in cambio del sentirsi protetti e fusi in un unico grande corpo collettivo. Nel nazismo il fanatismo è stato, insieme, nazionalista e razzista. La terra e il sangue sono, non a caso, i suoi simboli maggiori; la purezza della razza ariana la sua ossessione primaria. In questo il nazismo riflette bene lo spirito che accomuna tutti i fondamentalismi: l’esaltazione della propria purezza (e della propria superiorità morale) contro il veleno dell’impurità dell’Altro (della sua inferiorità morale).

Il diverso in quanto difforme è sempre descritto come deforme sia moralmente che fisicamente. Il fantasma di purezza ritorna spettralmente in ogni forma di ideologia fondamentalista. Se la purezza coincide con l’identità e l’impurità con la differenza, la purezza si incarna in modo esemplare nell’innocenza del bambino. Per questo i fondamentalismi di ogni genere esaltano la giovinezza come luogo dell’adesione assoluta alla Causa. Il Novecento ha intruppato i suoi bambini vestendoli da piccoli soldati della Causa. Il pensiero maturo può solo corrompere il coraggio naturale dell’innocente. I terroristi dell’Isis esaltano l’ideale fanatico della purezza trasformando addirittura i bambini in killer e in predicatori invasati. Nella psicologia del terrorista la dedizione alla Causa sino al sacrificio della propria vita è assoluta. È un’identificazione massiccia, adesiva, che non consente scarti. Il terrorista agisce sempre in nome del bene e fare il bene, consacrare la propria vita al bene della Causa non pone alcun limite nell’esercizio del male. È la tragedia umana e politica di ogni totalitarismo: compiere il male nel nome del bene giustifica idealmente la necessità del male. Per questa ragione non esiste più limite al male che si può compiere se, appunto, esso viene fatto nel nome supremo del bene. Il fantasma di purezza del terrorista elimina alla radice il dubbio e l’incertezza. La sua seduzione può essere irresistibile: la verità è sempre dalla nostra parte, ci appartiene, è solo nostra. La figura sconcertante del bambino che, pilotato dai terroristi islamici, diviene giustiziere degli “infedeli” fornisce un’ulteriore prova (raccapricciante) di questa analisi. La sua mano non trema, non denuncia alcuna fragilità, non conosce incertezza, non ha bisogno di tendersi verso un’altra mano come invece accade solitamente alla mano insicura di un bambino. Questa mano, la mano del bambino eletto alla dignità feroce di giustiziere, di boia dell’infedele, esprime l’incarnazione più efferata dell’innocenza posta al servizio accecato della Causa. Il fantasma di purezza sembra aver trovato il suo attore ideale. Non dovremmo mai dimenticare che molti terroristi islamici sono ragazzi, giovani, talvolta bambini, vite che non hanno ancora raggiunto l’età adulta, che non hanno ancora costituito una famiglia, quelle che si martirizzano uccidendo e uccidendosi nel nome della Causa. Non si tratta di un semplice cliché sociologico che dovrebbe acquietare le nostre coscienze del tipo: sono giovani e non sanno quello che fanno. Con un’aggiunta drammatica: il bambino può essere ben più spietato dell’adulto perché non ha ancora metabolizzato simbolicamente il senso autentico dell’alterità. Il suo mondo è

il mondo dei suoi genitori, della sua famiglia, del suo gruppo di appartenenza. La sua soddisfazione consiste nel soddisfare le attese degli adulti che ama e in cui ha fiducia cieca. Egli si è totalmente immedesimato nell’ambiente in cui vive. Il potere del pensiero critico non ha ancora corroso – come accadrà fatalmente nell’adolescenza – la sua vita. Egli è un cavaliere della fede nell’Altro. Per questa ragione la sua obbedienza può essere acritica, pura, assoluta. È esattamente questa “virtù” a spingere il pedofilo alla ricerca dei bambini: trovare un corpo a propria totale disposizione, senza limiti, inibizioni, vacillamenti. Trovare qualcuno che gli si affidi ciecamente, che abbandoni il proprio corpo al suo. È il cuore perverso-pedofilico del fantasma di purezza. Possiamo chiederci: non esiste forse una pedofilia intrinseca a ogni “educazione” totalitaria? Ogni “educazione” totalitaria non si fonda forse su un plagio che non lascia scampo alla libertà dei nostri figli? Il bambino porta con sé un animo fondamentalista perché crede integralmente nel suo Altro, crede nella sua bandiera, nei suoi ideali, vive per soddisfare l’Altro in cui ha fede. Si può dire davvero che un bambino possa essere un criminale? Si poteva osservare lo sguardo del piccolo Hitler e pronosticare il suo destino sanguinario? Si può davvero vedere nel volto mascherato del piccolo atroce giustiziere dell’Isis il ghigno cinico o esaltato di un assassino? Non sarebbe più giusto dire che sono gli adulti a poter fare sempre di un bambino – grazie alla sua fede nell’Altro – lo strumento passivo del loro godimento? Non è questo il nucleo pedofilico di ogni educazione totalitaria? È indubbio: il crimine più orribile è quello di assoggettare la vita di chi invece si affida a noi per sentirsi protetto. Se la dichiarazione assoluta di innocenza e di purezza ha un risvolto paranoico negli adulti è perché attribuisce sempre la responsabilità del male all’Altro. Nei bambini, questa stessa innocenza e purezza può diventare atroce perché manca in loro un autentico pensiero altruista, un’autentica cognizione dell’Altro. Essi possono solo fare la volontà religiosa dei loro padroni. Il bambino elevato malignamente alla dignità di giustiziere non può conoscere il tormento della colpa e del perdono e per questo si presta a essere, se possibile, ancora più spietato dei suoi manipolatori: il boia che, nella sua innocenza e purezza, arriva a giustificare un crimine impossibile da giustificare. La domanda che investe le ragioni della violenza terroristica in generale è la stessa che possiamo porci di fronte alla barbarie totalitaria della Shoah: come è stato possibile? Perché lo hanno fatto? E, soprattutto, questi assassini

crudeli, spietati, privi appunto di ogni forma di pietas, sono ancora uomini? Fanno ancora parte della razza umana? Lo spirito del terrorismo si fonda sulla rinuncia alle insidie della libertà e su una piena sottomissione. Nondimeno in questa loro sottomissione cieca alla Causa si manifesterebbe la loro suprema libertà. È il punto che accomuna il giovane terrorista all’anoressica: l’assoggettamento a un Ideale inflessibile è la forma più alta della libertà. Come afferma Camus, sacrificare la vita nel nome di una Causa comporta il diritto alla propria salvezza. È un fantasma tremendo che appartiene a ogni forma patologica di religiosità sacrificale. Il rimborso che attende chi sacrifica la propria vita è sempre sovrabbondante: se questa vita non è nulla, l’altra, quella ottenuta nell’aldilà, dovrebbe finalmente realizzarla pienamente. La volontà di uccidere di questi giovani si mescola così alla loro volontà di morire. È la dinamica del martirio che però, in questo caso, implica, a differenza per esempio della figura di Antigone, non solo la propria morte ma soprattutto quella di vittime innocenti. Ma uccidere vittime innocenti mentre ci si uccide è la manifestazione di un’insufficienza narcisistica o è una sua folle amplificazione? Davvero il terrorista è servo della sua Causa o non piuttosto colui che si serve della Causa per trasformare la propria vita da una nullità insignificante a quella di un eroico giustiziere inviato da Dio? La santificazione islamica del martirio, diversamente da quella cristiana, esige la lotta attiva e militante contro l’infedele. Non si limita alla consegna passiva di se stessi al sacrificio. Per Marco Belpoliti la spinta suicidaria non può essere compresa se non all’interno di un “paradigma vittimario”: diventare una vittima, sacrificarsi per la Causa nobilita la propria vita agli occhi della comunità di appartenenza.44 La morte non è più ciò che limita la nostra vita ricordandoci la nostra estrema insufficienza e vulnerabilità, ma diviene l’occasione per la sua massima esaltazione; una “prova di amore di sé”, un “rapporto diretto con Dio” che “realizza una sorta di godimento assoluto”.45 Fuga dalla libertà Reich e Fromm, dopo Freud, hanno indagato con grande attenzione il problema della psicologia delle masse nel fascismo e il fenomeno del fanatismo. Il loro presupposto di fondo è che l’euforia fanatica delle masse scongiuri la responsabilità etica di assumere singolarmente il peso ingombrante della propria libertà. In tempi bui e precari, la spinta a rifugiarsi nelle mani di un padrone può

risultare irresistibile. Affidarsi masochisticamente a un capo sadico significa potersi liberare dall’angoscia della libertà, significa, come spiega bene Fromm, fuggire dalla libertà.46 È il paradosso primario della pulsione securitaria che questi studi mettono in rilievo: gli esseri umani possono preferire le catene alla libertà per evitare la responsabilità vertiginosa della scelta. Non a caso Reich, nelle sue analisi sulla psicologia del fascismo, sosteneva che il vero enigma del fenomeno del totalitarismo fascista non era costituito dalla subordinazione passiva delle masse alla dittatura.47 Piuttosto si trattava, a suo giudizio, di cogliere l’esistenza sconcertante di un desiderio attivo delle masse per il fascismo. Si trattava di interrogare la dimensione “eterna”, come direbbe Umberto Eco, del fascismo.48 Esiste infatti una natura fascista del desiderio umano che, per non incaricarsi della responsabilità etica della libertà, tende a strutturare rapporti di dipendenza e di sottomissione. Questa dimensione “eterna” del fascismo si aggancia alla spinta originaria della pulsione; sputare, allontanare, proiettare all’esterno lo straniero che vive in noi; sopprimere o segregare l’intruso che accompagna come un’ombra – come un cuore di tenebra – la nostra vita. Ogni fascismo punta infatti, come spiega Eco, a eliminare l’intruso, la contaminazione, il pluralismo, le differenze, l’infezione dell’alterità, ad abolire lo spazio inquieto della democrazia. Ogni fascismo è infatti segregazionista e ogni segregazionismo è fascista. Aderire fanaticamente alla Causa offre la massima solidificazione dell’identità e attiva processi di evacuazione e di espulsione dell’intruso. Il pensiero critico viene meno mentre l’obbedienza alla Causa prende il sopravvento. È l’essenza religiosa di ogni fanatismo: nel nome di Dio si possono uccidere moltitudini di uomini. Ma fanatismo significa anche cancellazione di tutto ciò che evoca la dimensione del negativo: la malattia, la povertà, la vulnerabilità, l’ebreo, la donna, l’imperfezione, la morte nel nome di un avvenire radioso. Il miraggio di ogni fanatismo è, infatti, quello di offrire, come contropartita di un’obbedienza assoluta, un futuro senza mancanze dove nulla deve risultare impossibile. È la sua euforia di fondo, la sua maniacalità di base. Ma questa euforia ha come fondamento la cessione integrale della propria libertà. Per Fromm alla radice di ogni fanatismo c’è la credenza in un “potere superiore esterno all’individuo, verso il quale l’individuo non può fare altro che sottomettersi”.49 È questa l’inclinazione di quello che sempre Fromm, seguendo le ricerche sociologiche, sviluppate in seno alla Scuola di Francoforte, di Adorno e Horkheimer, ha definito

“carattere autoritario”. È l’aspetto idolatrico di ogni fanatismo: vivere il rapporto con il potere superiore come un rapporto di “dipendenza assoluta”.50 Il primato inumano dell’Idea Come sostiene Hannah Arendt, tutti i totalitarismi si fondano sul primato dell’Idea universale rispetto alla singolarità irregolare della vita. Il fanatismo arma le mani, autorizza il male, scatena la violenza nel nome del Bene assoluto. Anche la violenza più feroce può essere giustificata nel nome del carattere inumano della Causa e può assumere la connotazione di una redenzione folle. Il fanatico che uccide nel nome della Causa annienta la vita nel nome dell’Idea: della Razza, della Storia, del Popolo, della Grande Germania, di Dio, della Lotta di classe. È sempre l’Idea che autorizza la violenza mortale o, come afferma la Arendt, l’esercizio puro del “terrore”. Agli occhi del fanatismo nazista gli ebrei, i comunisti, i cristiani, i liberali, i borghesi, gli omosessuali non sono tanto figure sociali o antropologiche, ma incarnazioni del Male e, come tali, devono essere estirpati e sterminati. È la stessa logica che ispira ogni azione violenta che viene compiuta nel nome dell’identificazione con la purezza assoluta della Causa. Per questa ragione, sempre la Arendt ricorda che ogni ideologia vorrebbe piegare l’“esperienza” – le vite plurali e singolarmente irriducibili degli uomini – a una certa idea di Uomo e di umanità dimenticando che non è l’Uomo in generale, ma sono sempre gli uomini particolari che abitano la terra. Il terrore invece cancella la pluralità dei volti e delle vite – l’esistenza singolare degli uomini – per realizzare il piano necessario e universale dell’Idea.51 Sacrifica il nome proprio del soggetto all’Ideale astratto della Causa. È nel nome di questo Ideale che il brigatista non uccide solo Moro in quanto avversario politico, ma anche il fratello che ha tradito, il disertore, l’infame, chi non è stato all’altezza della Causa condivisa, chi è venuto meno all’abnegazione di se stesso nel nome dell’Ideale. Non a caso i più terribili e radicali interpreti della Legge sono stati storicamente gli eretici, ovvero i primi trasgressori della Legge. In psicoanalisi è questo il circolo vizioso che caratterizza il paradosso cruento del Super-io: l’annodamento del suo volto kantiano con quello sadiano; dell’imperativo del dovere (“Devi!”) con quello del godimento (“Godi!”); dell’applicazione inumana e rigoristica della Legge (Kant) con la sua trasgressione libertina (Sade). Per questo l’eretico può trasformarsi

spaventosamente nell’ortodosso più implacabile come se voltasse una carta a due facce. Allo stesso modo il fanatico idealista che agisce nel nome della Causa della libertà e dell’eguaglianza, sacrificando eroicamente la sua vita, può manifestarsi come un killer senza scrupoli. L’universale e il particolare Il fanatismo implica sempre l’annientamento della memoria. L’oblio del passato, la sua riduzione a un cimitero abbandonato. Esso persegue con determinazione euforica l’ideale di un futuro radioso (il mondo trascendente delle religioni; la dittatura del proletariato; il dominio della razza ariana eccetera) al quale deve essere subordinato il tempo storico. Ogni imperfezione è destinata a essere superata: la malattia, la morte, la miseria, la solitudine. L’universale ipnotizza il particolare e, al tempo stesso, lo deve redimere. È la vera radice di ogni totalitarismo secondo la Arendt: il fanatismo tende a dimenticare la vita singolare nel nome dell’Idea universale della Causa. Di conseguenza la politica si trasfigura in religione cancellando la storia e il volto dei singoli in nome dell’universale astratto della Causa. Ma è proprio il volto dei singoli che invece ogni lessico civile dovrebbe custodire: preservare il carattere insostituibile e concreto del particolare rispetto alle ragioni astratte dell’universale. È un tema che ispira delle pagine intensissime che Philip Roth dedica alla contrapposizione tra la letteratura e la politica: La politica è la grande generalizzatrice […] e la letteratura è la grande particolareggiatrice, e non soltanto esse sono tra loro in relazione inversa, ma hanno addirittura un rapporto antagonistico. Per la politica, la letteratura è decadente, molle, irrilevante, fastidiosa, ostinata, noiosa, una cosa che non ha senso e che non dovrebbe neppure esistere. Perché? Perché la letteratura è l’impulso a entrare nei particolari. Come puoi essere un artista e rinunciare alle sfumature? Ma come puoi essere un politico e permettere le sfumature? Come artista, le sfumature sono il tuo dovere. Il tuo dovere è non semplificare […]. Non cancellare la contraddizione, non negare la contraddizione, ma vedere dove, all’interno della contraddizione, si colloca lo straziato essere umano. Tener conto del caos, farlo entrare. Devi farlo entrare. Altrimenti produci propaganda, se non per un partito politico, per un movimento politico, stupida propaganda per la vita stessa, per la vita come essa stessa, forse, vorrebbe essere propagandata. […] Sofferenza generalizzata? Ecco il comunismo. Sofferenza particolareggiata? Ecco la letteratura. L’antagonismo è in questa polarità. Tenere in vita il particolare in un mondo che semplifica e generalizza: ecco dove comincia la lotta. Non devi scrivere per legittimare il comunismo e non devi scrivere per legittimare il capitalismo. Sei estraneo all’uno e all’altro.52

In queste pagine viene messa in rilievo l’eterogeneità tra il particolare e l’universale attraverso la contrapposizione tra la letteratura (particolare) e la politica (universale). In gioco è l’eterogeneità tra il volto (etica) e il numero (politica). Qui lo scrittore americano definisce la letteratura come Lacan

aveva definito una volta la psicoanalisi, ovvero “scienza del particolare”.53 Mentre la politica ragiona su principi universali, numeri, algoritmi, rapporti di forze, processi, eccetera, la letteratura – come del resto la psicoanalisi – si sofferma sul dettaglio, sulla dimensione anche infima, contraddittoria, casuale, contingente del particolare. Se la politica è pensiero della generalizzazione, dell’ordine, della propaganda, della necessità e delle leggi superiori, la letteratura è pensiero del particolare, della sfumatura, della sofferenza, del singolare e del suo caos. Lo spirito di sacrificio L’apologia della Causa implica il sacrificio estremo della vita individuale. Il suo principio è quello dello spirito di sacrificio. Non a caso in Mein Kampf Hitler esalta lo spirito di sacrificio come virtù propria dell’ariano in quanto essere superiore, “razza migliore, portatrice della civiltà umana”, “Prometeo dell’umanità”: La dedizione individuale a favore della comunità rappresenta il coronamento dello spirito di sacrificio. […] A differenza dell’egoismo e del tornaconto personale, il dovere si basa sull’idealismo. Con questo termine s’intende la capacità di sacrificarsi per il bene della collettività o per il proprio prossimo.54

Mentre l’Io borghese difenderebbe la sua misera sopravvivenza come valore supremo, l’ariano vive subordinando il particolare della sua vita al carattere universale dell’Idea. Egli getta intrepidamente la sua vita nella lotta, obbedendo all’assoluto della Causa alla quale, appunto, sacrifica eroicamente la sua vita. L’ariano si sottomette volontaristicamente all’ideale della Causa. È disposto a sacrificare la sua esistenza singolare senza riserve. Per Hitler questo è lo spirito del sacrificio che contraddistingue il popolo tedesco: mettersi al servizio della Causa, sacrificare la propria vita nel nome di un Ideale assoluto – il primato della razza ariana – che toglie valore alla vita singolare, non è solo una posizione passivamente masochistica come Fromm ha ben sottolineato.55 Nello spirito di sacrificio dell’ariano, il masochismo della sottomissione cambia, infatti, di segno rovesciandosi nel suo contrario, ovvero nel sadismo, proprio perché è attraverso il sacrificio di se stesso che l’ariano – come il kamikaze islamista o il terrorista rosso – può guadagnare il diritto di assimilarsi a Dio, di elevarsi all’assoluto della Causa. Uccidere nel nome di Dio, della Razza, della Storia, del Popolo è, in altri termini, il premio sadico della propria sottomissione masochistica. Nondimeno è sempre l’ideale della Causa che arma la mano dell’assassino, il quale agendo nel nome del Bene assoluto, come abbiamo visto, può giustificare ogni sua

nefandezza. Per questo l’ariano deve riguadagnare la purezza del suo sangue, liberarsi da quel “miscuglio di sangue” che è all’origine della decadenza. È la guadagnata purezza del proprio essere che lo abilita a cancellare dalla terra l’impuro.

44

Cfr. M. Belpoliti, Chi sono i terroristi suicidi, Guanda, Milano 2017. Ivi, p. 59. 46 E. Fromm, Fuga dalla libertà, Edizioni di Comunità, Roma 1979. 47 W. Reich, Psicologia di massa del fascismo, Einaudi, Torino 2002. 48 Cfr. U. Eco, Il fascismo eterno, La nave di Teseo, Milano 2018. 49 E. Fromm, Fuga dalla libertà, cit., p. 151. 50 Ibidem. 51 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Roma 1999, pp. 630-656. 52 P. Roth, Ho sposato un comunista, Einaudi, Torino 2002, pp. 211-212. 53 Cfr. J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in Scritti, cit., p. 254. 54 Cfr. A. Hitler, La mia battaglia, edizione critica a cura di V. Pinto, Free Ebrei, Torino 2017, vol. I, pp. 248-249. 55 Cfr. E. Fromm, Fuga dalla libertà, cit. 45

5.

La libertà

“Solo incompiuta la democrazia può restare tale.” R. Esposito, Dieci pensieri sulla politica

La spinta della libertà Libertà è una parola fondamentale, se non la parola fondamentale per ogni lessico civile. La vita umana non è solo domanda di appartenenza ma anche esigenza di libertà, desiderio di erranza. Tuttavia, la libertà non è solo un’esperienza di liberazione, di affermazione della singolarità della propria vita, ma è anche, paradossalmente, una “condanna”. L’uomo è, infatti, come affermava Sartre, “condannato a essere libero”.56 L’esistenza umana è, in quanto tale, sempre condannata alla libertà. A differenza del mondo animale dove la legge dell’istinto predomina univocamente determinando comportamenti reattivi, fissati geneticamente, che non implicano la dimensione etica della scelta, nel mondo umano la catena propria dello schema istintuale viene sospesa, interrotta, traumatizzata. Per questo la pulsione, rispetto all’istinto, è più libera di “scegliere” modalità di soddisfazione che non sono necessariamente previste dal carattere univoco dello schema istintuale. Il pensiero, la fantasia, l’immaginazione, l’erotismo sorgono da questa libertà dall’istinto rendendo possibili diverse modalità di soddisfazione rispetto alla rigidità di quello schema. Questo significa che non possiamo mai liberarci dalla libertà, che se siamo liberi non è perché abbiamo scelto la libertà, ma perché siamo gettati nella libertà, forzatamente consegnati, vincolati, incatenati alla libertà. Nessuno infatti può scegliere al nostro posto e, anche quando decidessimo di sottometterci senza riserve a un padrone, quando decidessimo di fuggire dalla libertà, sarebbe sempre e comunque una nostra libera scelta, una manifestazione irriducibile della nostra libertà. Per questa ragione, in quanto condanna, vincolo, consegna, la libertà è il luogo elettivo dell’angoscia di fronte al dilemma della scelta. Non posso liberarmi dalla responsabilità della scelta, non posso sottrarmi al suo peso. Anche se scelgo di non scegliere, questa opzione resterà sempre espressione di una scelta singolare.57 Ecco perché Sartre affermava che tutti noi siamo sempre “soli e senza scuse”.58 Per questa ragione la libertà non è solamente

una brezza, una corsa, ma implica sempre la tentazione ambigua della sua negazione, la tentazione di disfarsi della libertà. Anzi, potremmo addirittura affermare che la vita umana sia lacerata dalla libertà. È aspirazione alla libertà e, al tempo stesso, angoscia di fronte alla libertà; è spinta a essere radicalmente libera e, al tempo stesso, è spinta a evitare la vertigine della libertà, a sabotare la propria libertà. A proposito di quest’ultima inclinazione Nietzsche parla di una “nostalgia della terra” che affliggerebbe anche i più grandi navigatori.59 In mezzo all’orizzonte infinito del mare non sperimentiamo solo l’ebbrezza della libertà, della dilatazione dei confini, dell’incontro con l’infinito, ma, ricorda Nietzsche, è sempre in agguato la “nostalgia della terra”, per il suolo, per la propria casa. Questo significa che la libertà non può mai essere del tutto dissociata dall’angoscia per la libertà. Questa angoscia anima per Freud la pulsione securitaria, ovvero la pulsione che, anziché spingere la vita in avanti, la riporta indietro, la rivolge alla difesa autoconservativa della propria identità. Si tratta, come abbiamo visto, di una pulsione altrettanto fondamentale di quella erotica, che invece tende a formare aggregazioni sempre più vaste, a espandere il suo raggio d’azione, ad allargare gli orizzonti del mondo. In Fuga dalla libertà Fromm distingue la “libertà da” dalla “libertà di”.60 La prima è ancora una forma immatura della libertà, che prende le sembianze della semplice opposizione, come accade, per esempio, nell’adolescenza, dove il figlio rivendica una libertà che è solo una libertà “da”, per esempio dalle norme più o meno rigide che la sua famiglia o la scuola gli impongono. Questa libertà – la “libertà da” – mantiene ancora un legame di dipendenza con le persone che si sono prese cura della vita del figlio. In questo modo il soggetto che si dichiara libero può comunque preservare sempre il carattere “primario” dei suoi legami più profondi. Si tratta di una libertà che può sempre ritornare nel grembo da cui il soggetto si è separato. In questo senso è una forma incompiuta della libertà e del processo di individuazione. Diversamente, la “libertà di” è la forma compiuta della libertà che implica la realizzazione del processo di individuazione. Per chiarire questa differenziazione Fromm fa riferimento al mito biblico del giardino dell’Eden. La libertà di Adamo ed Eva prima del gesto della trasgressione sarebbe stata solo una forma incompiuta della libertà. Essi infatti vivevano perduti nell’immediatezza armonica della natura. È solo l’infrazione dell’interdizione di accedere all’albero della conoscenza che interrompe questa fusione senza differenza. In questo atto di disobbedienza

Fromm legge la prima manifestazione della libertà umana.61 La sofferenza che deriva da questo atto – l’espulsione dal giardino dell’Eden – mostrerebbe che la “libertà da” Dio non coincide però ancora con la libertà autoaffermativa del soggetto, con la sua piena “libertà di” esistere autonomamente. È solo la recisione definitiva di questo rapporto di dipendenza a poter sancire il passaggio dalla “libertà da” alla “libertà di”. Ma la “libertà da” in se stessa non può mai assicurare il passaggio alla “libertà di”. Questo significa che la necessaria liberazione dalle costrizioni non coincide ancora con l’esercizio compiuto della libertà. Il legame sadomasochistico Come abbiamo visto, l’uomo può essere terrorizzato di fronte alla libertà. Fromm in Fuga dalla libertà spiega l’esistenza di “meccanismi di fuga dalla libertà” che si attivano quando il soggetto si confronta con esperienze di smarrimento e di solitudine che non riesce a governare. Allora la tendenza a ritornare a legami primari di dipendenza si accentua e pregiudica l’affermazione della propria libertà. Se la separazione dai legami primari – “processo di individuazione” – getta la vita nell’inquietudine, la tendenza sarà quella di compensare questa inquietudine attraverso la restaurazione di legami di dipendenza simili a quelli primari, ovvero tali da escludere l’esperienza della separazione e della libertà. In questo senso si tratta di un meccanismo di fuga dalla libertà. È un paradosso che aveva sottolineato già Spinoza: l’uomo può amare più le sue catene – la sua schiavitù – della sua libertà. È il cuore della pulsione securitaria. Questa pulsione si può pervertire, a sua volta, nei cosiddetti legami sadomasochistici. In questi legami il soggetto può nutrire l’illusione di trovare attraverso l’Altro quella consistenza d’essere di cui si sente privo. Invece di soggettivare la sua mancanza portando a compimento il processo di individuazione, diventa più semplice per lui fondersi con un Altro che mostra di offrirgli, grazie a questa fusione, solidità e orientamento. La dipendenza masochistica dal potere del sadico struttura un legame forte che cancella per entrambi l’esperienza della mancanza e della libertà. Nel masochista questo appare in tutta evidenza nel suo consegnarsi integralmente e passivamente a un “protettore magico” che deve garantire la sua vita sottraendola alla responsabilità della scelta.62 Meglio la fusione e la dipendenza con l’Altro che l’esperienza senza confine della libertà. Se la perversione sessuale del comportamento masochistico consiste nel

trarre piacere dal dolore, nel legame masochistico non è in gioco soltanto un fantasma sessuale, ma un posizionamento del soggetto nei confronti dell’Altro caratterizzato dal cedimento della propria soggettività, dal mettersi nelle sue mani come creta che deve essere plasmata. Il tornaconto di questa posizione sta nel liberarsi dall’angoscia della solitudine e della scelta. Rimettendo la propria esistenza nelle mani dell’Altro, il masochista fugge dalla sensazione angosciante di essere abbandonato che accompagna la sua vita. I legami privi di libertà sono legami che assomigliano a torture delle quali però non si può fare a meno. La sottomissione alla volontà sadica di un padrone consente di “disfarsi dal peso della libertà”.63 Ne abbiamo una testimonianza drammatica in un film di Matteo Garrone intitolato Primo amore (2004), che racconta di una donna costretta a diventare anoressica da un uomo sadico che diviene suo amante, suo padrone e suo “protettore magico”. L’anoressia in questa vicenda non è una scelta del soggetto, ma una prigione costruita con arte perversa da quest’uomo. La donna rinuncia alla sua libertà non tanto in cambio dell’amore (che in questo caso non esiste) quanto per l’ebbrezza che prova nel consegnare tutta se stessa alla volontà di un Altro. Si tratta di una delega assoluta; mentre solitamente la scelta anoressica punta a separare il soggetto dall’Altro rivendicando la propria libertà, qui assistiamo alla sua consegna masochistica a un Altro che si configura come un padrone sadico. In questo caso come, più in generale, in tutti i legami profondamente sadomasochistici, il fine del masochista non è quello di godere del male che il suo padrone sadico gli infligge, ma, come precisa Fromm, è quello, più profondo, di “dimenticare il proprio essere”,64 di annullarsi fuggendo da ogni responsabilità che non sia quella dell’obbedienza cieca. La dipendenza però, a differenza di quello che appare fenomenicamente, è reciproca: se essa si palesa in modo evidente nella vittima rispetto al suo carnefice, è continuamente attiva, anche se in modo meno evidente, nel rapporto del padrone verso il suo schiavo. È qualcosa che vediamo in atto molto spesso nella vita di coppie patologiche. Quando il soggetto masochista trova la forza per ribellarsi alle angherie del suo padrone sadico, questi reagisce precipitando nell’angoscia. Senza il supporto del suo servo la vita del padrone appare priva di scopo. In entrambi i casi (polo sadico e polo masochista) quello che è in gioco è, dunque, “dimenticare il proprio essere” consegnandolo integralmente nelle

mani dell’Altro. La simbiosi surclassa l’individuazione; l’incapacità di sopportare la propria mancanza e la propria solitudine dà luogo a una distruttività profonda. Per Lacan è la quintessenza religiosa di tutti i legami di dipendenza: il soggetto si consegna all’Altro trasfigurandolo in idolo. Non è la religione – diversamente da quello che pensava Freud – a essere una nevrosi (“nevrosi dell’umanità”), ma è la nevrosi stessa, nella sua credenza in un Altro onnipotente a cui consegnare il proprio desiderio e nel suo “altruismo permanente”, a rivelarsi profondamente religiosa.65 Non si vive mai da soli Per Freud la Civiltà si costruisce sul fondamento di una rinuncia alla soddisfazione individuale e immediata della pulsione. Se esiste una spinta asociale dell’uomo – come la psicoanalisi, contro la definizione aristotelica dell’uomo come animale sociale, insiste nel mostrare –, essa coincide con la spinta della pulsione a ricercare il suo esclusivo godimento prescindendo dall’esistenza degli altri. Il programma della pulsione esige, infatti, solo il proprio appagamento autistico. Diversamente, l’istanza della Civiltà impone il differimento del soddisfacimento pulsionale, il suo parziale e necessario addomesticamento. Questi due programmi – il programma della pulsione e quello della Civiltà – sono strutturalmente contrastanti, destinati a dare luogo a un conflitto che esclude ogni ideale di ricomposizione armonica. È quello che Freud definisce “disagio della Civiltà”: l’incivilimento dell’uomo sorge sulla rimozione dell’animale, sul suo “annientamento”, come direbbe hegelianamente Kojève.66 Per Freud l’edificazione della Civiltà esige la rinuncia al soddisfacimento integrale della pulsione. Si tratta di un sacrificio simbolico necessario a rendere possibile la vita della comunità. In questo modo l’Altro non è solo un limite esterno alla mia libertà, ma è ciò che scava all’interno di me stesso un’impossibilità: l’impossibilità di portare a pieno compimento il programma della pulsione. Non a caso per Freud l’Altro, nella vita psichica del soggetto, non manca mai: la psicologia individuale è già da sempre sociale.67 Non si vive mai da soli, l’essere con gli altri è inaggirabile, è un reale spigoloso che non possiamo evitare. Ma l’esistenza degli altri non deve essere pensata come qualcosa che si aggiunge alla mia libertà in un secondo tempo, come una specie di proprietà estrinseca. Non ci sono “Io” e poi gli altri; non c’è la mia libertà da una parte e quella degli altri da un’altra. La mia libertà implica

sempre quella degli altri, non è mai una libertà senza altri. Questo accade sin dalla nostra nascita. Nessuno può scegliere i propri genitori o le proprie origini sociali, ma nessuno può esistere a prescindere dai propri genitori e dalle proprie origini sociali. La vita umana porta con sé la forma di un “essere-con”, di una vita sempre in connessione con l’Altro.68 La libertà non è creare la nostra esistenza dal nulla, farsi un nome da sé, come credevano gli uomini deliranti della torre di Babele, ma è la possibilità, come ripete Sartre, di fare qualcosa di quello che è stato fatto di noi. Non è possibilità di affermare noi stessi senza riconoscere i vincoli sociali in cui la nostra vita è stata ed è presa, non è mai autogenerazione di se stessi. Sartre la definisce come un “piccolo scarto”69; quello “scarto” che ci consente di soggettivare, di fare nostre, le condizioni di partenza della nostra vita che non abbiamo scelto; di fare, appunto, qualcosa di quello che l’Altro ha fatto di noi. È un modo preciso di definire l’eredità che ci rende umani: fare nostro quello che abbiamo ricevuto dall’Altro. Se non possiamo scegliere di essere liberi, se siamo “condannati alla libertà”, se non possiamo sottrarci al tempo della scelta – al carattere irrevocabile del suo “aut aut” –, siamo anche la possibilità continua di trasformare il destino che gli altri hanno attribuito alla nostra vita in un’avventura nuova e imprevista, come il percorso di Tara Westover mostra con forza. Degenerazione della libertà La libertà non consiste nel fare a meno degli altri – ogni fantasma di autogenerazione è perverso –, ma nel riconoscere la nostra dipendenza dagli altri. Quando, infatti, la libertà si pone come assoluta, come contraria alla Legge degli uomini, quando l’unica Legge possibile è la Legge senza Legge della libertà, noi ci troviamo di fronte a una versione solo perversa della libertà. È la libertà che, negando ogni forma simbolica della Legge, si pone al di sopra della Legge. È la libertà come puro arbitrio, predazione, volontà di potenza, che vive come impostura tutto ciò che limita la sua espansione naturale. È una versione libertina della libertà che ha trovato nel marchese de Sade una delle sue figure più significative. È la libertà come Legge del godimento senza limiti che diviene la sola forma possibile della Legge.70 Non è la libertà come semplice trasgressione della Legge, ma come una nuova Legge (inumana) che trascende la Legge (degli uomini). Il perverso infatti odia la Legge perché non sopporta che una Legge possa avere il diritto di

frenare la propria assoluta libertà che egli considera erroneamente come la sola forma plausibile della Legge. Questa versione perversa della libertà finisce per scollare la libertà dalla comunità. Un antagonismo irriducibile rende la declinazione neolibertina della libertà inconciliabile con la vita democratica della comunità. Se questa versione perversa della libertà finisce per coincidere con il carattere acefalo della pulsione, la politica nel senso più alto del termine dovrebbe invece raccordare la libertà alla comunità. Ma la libertà allora non sarebbe pensabile se non come un appello singolare alla propria responsabilità civile. Per questo Aristotele faceva giustamente della politica l’arte più nobile tra tutte le arti. La politica serve infatti alla vita della polis, raccorda le differenze singolari rendendo possibile la loro convergenza complessa. Diversamente dalla versione libertina della libertà che rifiuta il limite, la politica è l’arte che lavora sul limite per comporre e ricomporre incessantemente le condizioni di una comunità possibile. Ma questo lavoro di composizione-ricomposizione esclude per principio la fusione, respinge l’idea di una comunione che abolisca le differenze nell’omogeneità indistinta di un solo corpo e di una sola lingua. Il fondamento della comunità non può che essere la responsabilità dell’“uno per uno”, del singolare che genera la possibilità necessariamente plurale della comunità. Questo fondamento singolare appare in primo piano in una bella scena di Viva la libertà (2013) di Roberto Andò, quando l’oratore, interpretato da un formidabile Toni Servillo, durante un comizio elettorale, declamando a sorpresa una poesia di Brecht, non parla, come accade di consuetudine, a una massa anonima, ma si rivolge a un suo interlocutore singolare indicato nella folla con il “tu!”. La passione civile della politica, se non vuole dimenticare la vita, deve sostenersi sul richiamo costante all’“uno per uno”. La comunità non può dimenticare il carattere della libertà singolare se non vuole trasformarsi in un esercizio dittatoriale del potere. Non si tratta di elevare quella libertà a fondamento della comunità, ma di considerare che non esiste possibilità di comunità democratica senza accoglienza della pluralità delle singolarità. Non si tratta di confondere comunità e comunione, ma di riconoscere che è proprio nell’impossibilità di questa confusione che possiamo reperire il fondamento singolare di ogni comunità.71 Si tratta, per dirlo con le parole di Elvio Fachinelli, di rendere possibile non tanto una comunità di eguali –

fatalmente repressiva delle singolarità plurali – quanto “una relazione di eguaglianza fondata tra non uguali”.72 Il populismo come deviazione incestuosa della democrazia L’“uno per uno” dei “non uguali” non coincide con l’“uno vale uno” della retorica populista. Il populismo è infatti una malattia della democrazia, il segnale sintomatico di una sua inclinazione pericolosamente incestuosa. Questa diagnosi ha come presupposto la radicale avversione del populismo alla politica in quanto arte che compone gli interessi e i soggetti molteplici della vita della polis. I populisti in generale hanno deciso, infatti, di optare per la soppressione di ogni tipo di compromesso nel nome della volontà generale del popolo o dei cittadini. Un lessico propagandistico stravolge quello politico e prende il posto del difficile compito della mediazione e della composizione degli interessi particolari della città, perseguendo la cattura, con qualunque mezzo, del consenso elettorale. Il pensiero necessariamente lungo della politica – come ricordava Enrico Berlinguer – si schiaccia sull’immediatezza della ricerca del consenso prima di ogni altra cosa. La politica stessa viene vissuta come tradimento del popolo anziché il suo luogo elettivo di rappresentazione. Piuttosto la sovranità del popolo viene agitata demagogicamente contro il carattere rappresentativo della democrazia e delle sue leggi simboliche. Il presupposto dogmatico è falso e astratto: il popolo – entità generica o inesistente – coincide con il Bene. La critica ai privilegi, la rivolta nei confronti della casta, il rifiuto di tutti i simboli del potere rafforzano questa equivalenza demagogica. La retorica della propaganda prende allora il posto della riflessione critica. Non possiamo non evocare qui la nota immagine di Platone in cui il retore, demagogo populista, viene paragonato a un pasticciere che offre a un gruppo di bambini malati una cura basata sul consumo illimitato di dolci e di ogni genere di prelibatezze che risulta, ovviamente, per i suoi piccoli pazienti, assai più gradita e credibile della dieta salutare proposta invece da un medico austero ma rigoroso. La crociata antipolitica del populismo non si accorge di gettare via il bambino con l’acqua sporca. La guerra alla politica e alla sua corruzione finisce per trascinare verso l’improvvisazione e l’isolamento imprigionando il discorso in una retorica cieca di tipo antistituzionale. Per questa ragione l’oltraggio dei simboli della democrazia – per esempio quello del parlamento

italiano all’epoca della prima grande avanzata del Movimento 5 Stelle – non è solo un fatto estetico, ma la cifra di fondo del carattere antistituzionale di ogni populismo; l’invidia sociale si scatena colpendo i simboli della democrazia e contrapponendo alla logica del merito quella del livellamento delle differenze, della dissoluzione della rappresentanza, delle competenze scientifiche, del principio di delega, elevando, infine, il popolo a giustiziere sociale. Pauperismo, statalismo, paternalismo, ribellismo, giustizialismo, antiparlamentarismo ricorrono in ogni forma di populismo e si sposano incestuosamente con la pulsione securitaria che odia tutto ciò che vorrebbe distogliere la pulsione dalla sua spinta autoconservativa e, fatalmente, autodistruttiva. La poetica delle istituzioni Contro la retorica populista dell’“uno vale uno” e la sua cifra antistituzionale, nel lessico civile la zona dove la libertà e la comunità si incontrano è quella della vita delle istituzioni. Per Lacan il primo fine di un’istituzione è quello di porre un “freno al godimento” individuale, alla spinta acefala della pulsione.73 Ma un’istituzione non è solo il luogo dove le libertà individuali trovano il loro limite, la loro castrazione simbolica, per usare una categoria psicoanalitica. La sua funzione non si esaurisce nel normare il godimento individuale. Secondo Pasolini ogni istituzione porta sempre con sé qualcosa di “commovente” e “misterioso”; porta con sé il mistero dello stare insieme, il miracolo di una comunità che non si fonda sul comune ma sulla singolarità di ciascuno, sulle differenze singolari: Anime belle del cazzo, per cos’altro moriranno i due fratelli Kennedy, se non per un’istituzione? E per cos’altro, se non per un’istituzione, moriranno tanti piccoli, sublimi Vietcong? Poiché le istituzioni sono commoventi: e gli uomini in altro che in esse non sanno riconoscersi. Sono esse che li rendono umilmente fratelli. C’è qualcosa di così misterioso nelle istituzioni – unica forma di vita e semplice modello per l’umanità – che il mistero di un singolo, in confronto, è nulla.74

Cosa ci dice qui il poeta? Fate attenzione a non sputare sui vostri padri e sulle vostre madri. Fate attenzione – “anime belle del cazzo” – a non dichiarare la vostra libertà in opposizione all’esistenza delle istituzioni che sono i nostri padri e le nostre madri. Se c’è qualcosa di “commovente” e di

“misterioso” nelle istituzioni, capace di far impallidire anche il miracolo della vita individuale, esso va cercato in questo legame profondo tra libertà e responsabilità, tra storia e avvenire, tra vita individuale e vita collettiva, tra Legge e desiderio, tra provenienza e destinazione. Per questa ragione Pasolini invita le giovani generazioni a non disertare la politica ma a parteciparvi in modo militante. Della sua celebre poesia intitolata Il Pci ai giovani! scritta nel ’68, dopo la cosiddetta battaglia di Valle Giulia, si ricorda solo il tono “reazionario” con il quale il poeta prende le parti dei poliziotti contro i giovani contestatori. Egli dichiara di stare con i figli dei proletari e non con i figli dei borghesi, di preferire i “poveri” ai “ricchi”. È la pars destruens di questo testo che ha purtroppo completamente oscurato la pars construens. Quest’ultima, in realtà, viene introdotta all’inizio della poesia, quando Pasolini situa se stesso come padre simbolico di questa generazione di figli ricordando loro di non perdere tempo: “Siete in ritardo, figli”.75 Nei versi finali il suo appello si rinnova e diviene chiarissimo e forte. Il poeta si rivolge a loro, ai giovani contestatori, invitandoli a partecipare con coraggio alla vita della polis. Si rivolge ai protagonisti del ’68 per incitarli a fare come il mio Telemaco76: Ma andate, piuttosto, figli, ad assalire Federazioni! Andate a invadere Cellule! Andate ad occupare gli uffici del Comitato Centrale! Andate, andate ad accamparvi in Via delle Botteghe Oscure!77

Questo appello ai figli è finalizzato a mettere in movimento la vita, non contro le istituzioni ma per le istituzioni. Non a caso Pasolini chiede loro di andare a occupare le sedi del vecchio Pci, di prendere la responsabilità della sua direzione. Le istituzioni non sono infatti un ostacolo alla libertà, ma dovrebbero essere la sua traduzione simbolica più compiuta. Tuttavia le istituzioni non hanno bisogno solo di forza, ma anche di poesia. Il compito di un lessico civile degno di questo nome è quello di rendere le istituzioni quanto più prossime alla poesia. Non macchine impersonali, grigie, dispositivi anonimi, luoghi di alienazione, ma dimensioni “misteriose” e “commoventi” dove si realizza il miracolo della vita insieme. Affinché questo possa avvenire è necessario avere il coraggio, sembra dirci ancora Pasolini, di introdurre una parola nuova. In un articolo del 28 settembre del 1968 pubblicato sul “Tempo”, egli scrive che gli ideali di speranza e di fede senza quello della carità hanno incendiato il mondo, ma non lo hanno trasformato generativamente. Speranza

e fede, prive della parola “carità”, hanno paradossalmente giustificato i peggiori crimini dell’umanità nel nome di un avvenire radioso che non teneva conto della singolarità irriducibile della vita. Diventa allora necessario aggiungere una terza parola per comprendere la poetica immanente delle istituzioni, il loro carattere “commovente” e “misterioso”. Questa parola non appartiene al lessico politico in senso stretto, ma alla cultura cristiana, precisamente al lessico di Paolo di Tarso. È la parola “carità”, che potremmo tradurre anche, seguendo l’insegnamento di Paolo, con “amore”.78 Senza carità – senza, dunque, “amore” –, fede e speranza non sono solo impensabili, ma ci appaiono persino “mostruose”: La carità – questa “cosa” misteriosa e trascurata – al contrario della fede e della speranza, tanto chiare e d’uso tanto comune, è indispensabile alla fede e alla speranza stesse. Infatti la carità è pensabile anche di per sé: la fede e la speranza sono impensabili senza la carità: e non solo impensabili, ma mostruose.79

Il mistero delle istituzioni – la loro poetica – dovrebbe essere quello di coniugare la carità con la speranza e la fede. Solo in questo modo la singolarità dell’“uno per uno” potrà essere rispettata e non annichilita dal furore universale dell’ideologia. Una Legge senza perdono è inumana come è inumana un’istituzione senza amore.

56

Cfr. J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, a cura di F. Fergnani, Mursia, Milano 1978, p.

63. 57

In psicoanalisi non è però mai scontato chi sceglie. Sceglie l’Io o sceglie l’inconscio? L’inconscio può essere un alibi che solleva dalla responsabilità (“non sono stato Io, è stato lui, è stato l’Es!”), oppure può dilatare la nozione di responsabilità. Freud si chiedeva, non a caso, se possiamo considerarci responsabili anche dei nostri sogni. Cfr. S. Freud, Alcune aggiunte d’insieme alla “Interpretazione dei sogni”, in Opere, cit., vol. X. 58 J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, cit., p. 63. 59 F. Nietzsche, La gaia scienza, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1979, vol. V, t. 2, p. 129. 60 Cfr. E. Fromm, Fuga dalla libertà, cit., pp. 30-42. 61 Ivi, pp. 38-40. 62 Ivi, pp. 154-155. 63 Ivi, p. 136. 64 Ivi, p. 138. 65 Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro VI. Il desiderio e la sua interpretazione (1958-1959), Einaudi, Torino 2013, p. 500. 66 Cfr. A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, Milano 1996, p. 687. 67 Cfr. S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, in Opere, cit., vol. IX, p. 261. 68 Non a caso l’“essere-con” è per Heidegger una struttura ontologica fondamentale dell’esistenza. Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976. Una ripresa radicale dell’importanza ineludibile dell’“essere-con” si trova in J.-L. Nancy, Essere singolare plurale, Einaudi, Torino 2001.

69

Cfr. J.-P. Sartre, L’idiota della famiglia. Gustave Flaubert dal 1821 al 1857, il Saggiatore, Milano 2019. 70 Mi permetto su questo di rinviare a M. Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Raffaello Cortina, Milano 2010. 71 Cfr. J.-L. Nancy, Essere singolare plurale, cit., e R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 2006. 72 E. Fachinelli, Quale autorità nella scuola?, in Al cuore delle cose. Scritti politici (1967-1989), DeriveApprodi, Roma 2016, p. 55. 73 Cfr. J. Lacan, Allocuzione sulle psicosi infantili, in Altri scritti, Einaudi, Torino 2013, pp. 359360. 74 P.P. Pasolini, Trasumanar e organizzar, Garzanti, Milano 1971, p. 18 (corsivo nel testo). 75 Cfr. P.P. Pasolini, Il Pci ai giovani! (Appunti in versi per una poesia in prosa seguiti da una “Apologia”), in Empirismo eretico, Garzanti, Milano 2000, p. 151. 76 Cfr. M. Recalcati, Il complesso di Telemaco, cit. 77 P.P. Pasolini, Il Pci ai giovani!, cit., p. 155. 78 Cfr. Paolo di Tarso, I Lettera ai Corinti, 13, 1-13. 79 P.P. Pasolini, Le critiche del Papa, in Il caos, Editori Riuniti, Roma 1981, p. 47 (corsivo nel testo).

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Frontespizio Esergo Avvertenza Introduzione 1. Il confine Radici e libertà La malattia incivile del muro Delirio di contaminazione La tentazione del muro Il primo volto dello straniero La sensazione paurosa della vita L’intruso Siamo tutti stranieri 2. L’odio La passione dell’odio L’odio è più antico dell’amore L’odio o la parola? L’odio come alternativa al lavoro doloroso del lutto L’odio invidioso L’invidia della vita 3. L’ignoranza Il padre-padrone Il consolidamento dell’ignoranza La democrazia dei libri Un aneddoto su Freud Elogio dell’ignoranza 4. Il fanatismo Il potere della bandiera Il fantasma fanatico della purezza Fuga dalla libertà Il primato inumano dell’Idea L’universale e il particolare Lo spirito di sacrificio 5. La libertà La spinta della libertà Il legame sadomasochistico Non si vive mai da soli Degenerazione della libertà Il populismo come deviazione incestuosa della democrazia La poetica delle istituzioni

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