La settima arte
 883592734X, 9788835927341

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Universale arte e spettacolo

VSEVOLOD PUDOVKIN

LA SETTIMA ARTE Prefazione di Ansano Giannarelli

I edizione: giugno 1984 © Copyright by Editori Riuniti Via Serchio 9/11 - 00198 Roma CL 63-2734-6 ISBN 88-359-2734-X

Vsevolod Pudovkin

La settima arte Traduzione di Umberto Barbaro

Prefazione di Ansano Giannarelli

Editori Riuniti

Indice

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Introduzione di Ansano Giannarelli 1 II regista e il materiale cinematografico Le caratteristiche del materiale cinematografico, p. 3 ■ Cinema e tea­ tro, p. 3 - Il metodo del cinema, p. 4 - Spazio e tempo nel film, p. 8 - Il materiale cinematografico, p. 9 - Analisi, p. 11 - Il montag­ gio come logica dell'analisi filmica, p. 14 - La ripresa in movimento, p. 16 - Organizzazione del materiale da ripresa, p. 18 - Relazione tra le inquadrature, p. 19 - Organizzazione del materiale « occasionale », p. 21 - L'immagine filmica, p. 23 - La tecnica della regia, p. 26 Il regista e la sceneggiatura, p. 28 - L’ambiente, p. 29 - L’ambiente e i personaggi, p. 31 - Creazione del ritmo filmico, p. 33 - Il regista e l'attore, p. 35 - Due generi di produzione, p. 35 - Attore e tipo cine­ matografico, p. 35 - La direzione dell’attore, p. 37 - L’affiatamento, p. 39 - Il movimento espressivo, p. 40 - Oggetti espressivi, p. 41 Il regista crea l’affiatamento, p. 42 - L’attore e il quadro, p. 42 - L’at­ tore e la luce, p. 43 - Il regista e l'operatore, p, 45 - L’operatore e la macchina da presa, p. 45 - La macchina da presa e l’angolazione, p. 46 - La ripresa del movimento, p. 47 - La camera costringe io spettatore a vedere come vuole il regista, p. 48 - Elaborazione formale del quadro, p. 50 - Stampa e sviluppo, p. 53 - Il collettivismo è la base del lavoro cinematografico, p. 53.

55 La sceneggiatura cinematografica Premessa, p. 57 - La sceneggiatura, p. 59 - Che cos’è la sceneggiatura, p. 59 - Costruzione della sceneggiatura, p. 60 - Il tema, p. 61 - Tema e chiarezza, p. 63 - Elaborazione del tema, p. 64 - Concentrazione della materia, p. 68 - Elaborazione del soggetto, p. 70 - Conclusione, p. 72 - Il materiale plastico, p. 74 - La scelta del materiale, p. 74 Le didascalie, p. 77 - I più semplici mezzi di ripresa, p. 79 - Metodi per l’elaborazione del materiale, p. 81 - Montaggio delle scene, p. 82 -

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Montaggio degli episodi, p. 84 - Montaggio degli atti, p. 85 - Mon­ taggio del soggetto, p. 86 - Il montaggio quale strumento psicologico, p. 87. 89 II montaggio nel film 95 L’attore nel film Teatro e cinema, p. 97 - Contraddizioni nel lavoro dell’attore, p. 104 Discontinuità nel lavoro dell’attore cinematografico, p. 109 - Premesse teoriche della discontinuità, p. 114 - Il lavoro delle prove, p. 121 L’immagine di montaggio, p. 128 - Il dialogo, p. 136 - Duplice ritmo di suono e immagine, p. 143 - Dizione, trucco, gesto, p. 148 - Reali­ smo della recitazione, p. 154 - Il film senza attori, p. 160 - La scelta delle parti, p. 165 - Collaborazione creativa, p. 169 - Esperienze per­ sonali, p. 175 - Conclusione, p. 179.

181 II montaggio

199 II lavoro dell’attore cinematografico e il « sistema » di Stanislavski 257 Filmografia 265 Indice dei nomi

Introduzione

Sono passati poco più di cinquantanni da quando, in Italia, si è cominciato a conoscere Vsevolod Pudovkin come teorico del­ l’arte filmica. Fu infatti nel 1932 che Umberto Barbaro curò la pubblicazione di un volumetto 1 contenente alcuni scritti del ci­ neasta sovietico, che a quell’epoca aveva già diretto la famosa trilogia del periodo muto: La madre (1926), La fine di San Pie­ troburgo (1927), L’erede di Genghis Khan (1928; noto in Italia anche con il titolo Tempeste sull’Asia). Questo mezzo secolo può essere diviso in due parti abba­ stanza distinte, per ciò che riguarda il « destino » italiano di Pudovkin teorico (ma in fondo anche del Pudovkin autore di film). Per circa un trentennio — dagli inizi degli anni trenta agli inizi degli anni sessanta — i suoi scritti sono stati « nutrimento » di diverse generazioni di cineasti e studiosi di cinema. È noto infatti quanto la lettura di Pudovkin — e in parte anche la visione di qualche suo film, pur se in quel periodo non era facile una conoscenza diretta della cinematografia sovietica — abbia contribuito, durante il fascismo, alla formazione culturale di quelle forze intellettuali che avrebbero poi sviluppato nella concretezza delle opere un nuovo cinema italiano negli anni qua-1

1 V. Pudovchin, Il soggetto cinematografico, traduzione, prefazione e note di Umberto Barbaro, Le Edizioni d'Italia, 1932. Brani dei saggi di Pudovkin erano apparsi in precedenza in alcune pubblicazioni periodiche (L'Italia Letteraria, Scenario, ecc.).

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ranta, prima della fine della guerra e subito dopo la Resistenza2. Ma anche nel dopoguerra i testi teorici e filmici di Pudovkin continuarono a essere punto di riferimento importante per cineasti, critici, saggisti del nostro paese. Tre esempi, diversi tra loro, mi sembrano significativi. Nel 1949, Pudovkin venne in Italia per partecipare a un convegno internazionale di cinematografia che si tenne a Perugia nel settembre del 19493. In quell’occasione, egli conobbe diversi uomini di cinema italiani, tra cui Cesare Zavattini, il quale, quando lo incontrò, «... arrossi leggermente, la sua espressione si apri a quel sorriso infantile e tenero che tutti gli conosciamo, poi disse, un po’ confusamente, che era felicissimo, sinceramente commosso. Un attimo dopo, con naturalezza e voce chiara, Zavattini aggiunse: "Per noi italiani, Pudovkin non è soltanto un grande regista. Per noi Pudovkin significa: il cinema­ tografo" »4. Nel 1954, Galvano della Volpe definiva Pudovkin « un caso unico nella storia dell’arte del film », in quanto « ha

2 Sull’importanza degli scritti di Pudovkin nei periodo fascista esiste un’ampia bibliografia. Va ricordato innanzi tutto Umberto Barbaro, e i volumi che raccolgono molta della sua produzione: Il film e il risarcimento marxista dell*arte (I edizione 1960, II edizione 1974) e Servitù e grandezza del cinema, del 1962, entrambi degli Editori Riuniti. Si veda inoltre un esplicito riconoscimento di C. Lizzani nel suo studio II cinema italiano, Editori Riuniti, 1982 (Il edizione), pp. 79-81. E si vedano anche le pagine che G. P. Brunetta dedica al « mito sovietico » che — insieme a quelli americano e francese — contribuisce negli anni alla formazione di nuovi quadri della cinematografia italiana (in Storia del cinema italiano 1895-1945, Editori Riuniti, 1979, pp. 416-423 e 453-454, con una serie di indicazioni bibliografiche nel testo e in appendice). 3 A proposito di questo convegno si veda il capitolo La battaglia delle idee: il fronte della sinistra, nella Storia del cinema italiano dal 1945 agli anni ottanta, di G. P. Brunetta, Editori Riuniti, 1982. La maggior parte delle relazioni lette al convegno furono pubblicate a cura di Umberto Bar­ baro nel volume II cinema e l'uomo moderno, Le edizioni sociali, 1950. Al dibattito parteciparono cineasti e studiosi di diversi paesi, tra i quali: gli americani Ben Barzman, Paul Strand e Alvah Bessie (uno dei « dieci di Hollywood », la cui vicenda è narrata nell’interessantissimo Inquisizione a Hollywood, di L. Ceplair e S. Englund, pubblicato nel 1981 dagli Editori Riuniti); i francesi Georges Sadoul e Georges Auriol; Joris Ivens; il regista polacco Aleksandr Ford; Pudovkin; gli italiani U. Barbaro, M. Camerini, A. Capitini, G. della Volpe, A. Lattuada, C. Lizzani, A. Vergano, C. Zavattini. 4 II racconto è di U. Barbaro in Poesia del film, Edizioni Filmcritica, 1955, p. 70. Il corsivo è mio.

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raggiunto l’eccellenza nell’arte e nella filosofia dell’arte a un tem­ po »; e considerava i principali testi teorici di Pudovkin « un capolavoro insuperato, il codice estetico fondamentale dell’arte filmica »5. I volumi Film e fonofilm e L’attore nel film, conte­ nenti i principali scritti teorici di Pudovkin tra il 1926 e il 1934, e pubblicati in Italia rispettivamente nel 1935 e nel 1939, furono ristampati in nuove edizioni nel 1950 e nel 1947; e nel 1961 gli Editori Riuniti pubblicarono la raccolta antologica — curata da Barbaro — La settima arte, con le sceneggiature desunte dai film L’erede di Genghis Khan e II ritorno di Vassili Bortnikov (fu un lavoro di trascrizione in moviola effettuato da Mino Argentieri e da me, e io l’ho sempre considerato come una delle esperienze più formative che abbia compiuto nel corso del mio ininterrotto apprendistato cinematografico ). Nel dopoguerra, tra l’altro, aumentarono anche le possibilità — che durante il fascismo erano riservate a pochi — di vedere le opere cinematografiche di Pudovkin, consentendo in tal modo un approccio più approfondito, oltre che all’artista, anche al teo­ rico, il quale spesso, nei suoi scritti, si riferiva alla sua esperienza personale di lavoro (e uno degli aspetti più appassionanti degli scritti di Pudovkin — come accade quando un « teorico » è an­ che un « pratico » — è il continuo intreccio tra riflessioni con­ cettuali e individuazione di elementi centrali del concreto proces­ so produttivo specifico del cinema: e cioè progettazione, realiz­ zazione nei suoi diversi aspetti, diffusione e rapporto con gli spettatori). Si trattò, beninteso, di un incremento di conoscenza pubblica assai relativo: perché la diffusione dei film di Pudovkin — insieme a tante altre opere cinematografiche — restò sostan­ zialmente confinata nell’ambito dei cineclub, e con tutte le diffi­ coltà continuamente frapposte dalla censura cinematografica, go­ vernata in quel tempo dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio on. Andreotti. E a questo proposito Barbaro ricordava un gustoso episodio riguardante proprio Pudovkin: in occasione di un suo breve soggiorno in Italia, nel 1951, il Circolo romano 5 G. della Volpe, Opere, a cura di I. Ambrogio, Editori Riuniti, 1973, v. 5, p. 56: è l’inizio dello scritto Pudovkin e 1‘attuale discussione estetica, fusione di due articoli precedenti, pubblicato per la prima volta in II vero­ simile filmico e altri scritti di estetica, Edizioni Filmcritica, 1954.

del cinema organizzò la proiezione dell’edizione sonora di L'erede di Genghis Khan in un cinema romano; Andreotti autorizzò la proiezione a patto che « si trattasse di una manifestazione di cultura, e ristretta » 6. Poi comincia un secondo periodo, per ciò che riguarda il rapporto tra Pudovkin e la cultura cinematografica italiana. A partire grosso modo dalla fine degli anni sessanta (non è possi­ bile naturalmente indicare una data precisa in quello che è un processo tutt’altro che esplicito e consapevole, caratterizzato per di più dall’assenza di dati piuttosto che dalla loro presenza), su Pudovkin cala progressivamente il silenzio. Ed è un silenzio che lo riguarda sia come autore cinemato­ grafico che come teorico dell’arte filmica7. Non è inutile, io credo, una breve riflessione sui caratteri di questo lungo silenzio, e sui motivi che possono averlo deter­ minato. Ritengo che un primo elemento che entra in gioco sia costi­ tuito dall’interesse che si diffonde in Italia, in modo caotico ma abbastanza esteso, nei confronti di un altro grande cineasta so­ vietico, S. M. Ejzenstejn, soprattutto per quel che riguarda la sua produzione teorica. L’antagonismo EjzenStejn-Pudovkin era stato anche in precedenza un dato costante di molta pubblicistica cinematografica, soprattutto di quella perennemente alla ricerca di argomenti appetito ,1 sotto il profilo giornalistico. E del resto erano stati gli stessi Ejzenstejn e Pudovkin a mettere in rilievo

6 U. Barbaro in Poesia del film, cit., p. 73. 7 Sotto questo profilo, proprio perché vuol essere un’indagine concisa ma estesa sia sul piano temporale che geografico, mi sembra sintomatico il volume Teorie del cinema dal dopoguerra a oggi, di F. Casetti, Espresso strumenti, del 1978. In esso è del tutto assente un qualsiasi riferimento a Pudovkin. Non a lui solo. Ma la delimitazione cronologica dell'indagine non impedisce almeno di citare — per fare qualche esempio significativo — i nomi di Ejzenstejn, di Balazs, di Dziga Vertov (relativi all’anteguerra); e anche di Barbaro, a proposito del quale l’autore scrive che « ... il sacrificio può essere pesante: ad esempio, parlando del realismo, saremo costretti a perdere quel grosso apporto che pure ha dato, negli anni cinquanta, Um­ berto Barbaro » (p. 23). Però anche gli scritti di Bazin risalgono a quel­ l’epoca: eppure è il primo autore analizzato in dettaglio (rapportandosi alle dimensioni del volume): e giustamente; ma allora anche il « sacrificio » di Barbaro è dovuto a una scelta, come il silenzio su Pudovkin.

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più (Tuna volta, nei rispettivi scritti, le diversità teoriche esistenti tra di loro (più che le differenze stilistiche tra le loro opere cine­ matografiche). Queste diversità furono poi in molte occasioni riprese, ampliate, ingigantite, estese al piano personale da critici, biografi e giornalisti: i quali naturalmente non avevano alcun interesse a ricordarsi, per esempio, l’accordo che i due « rivali » avevano trovato di fronte all’avvento del sonoro, indiscutibilmen­ te il principale problema teorico e pratico che si pose ai cineasti di tutto il mondo alla fine degli anni venti, e al quale i due autori sovietici reagirono redigendo e firmando nel 1928 (insieme a G. Aleksandrov) quelle pagine note come « manifesto dell’asincronismo »89 , che restano a tutt’oggi forse la più alta ipotesi di uso artistico del rapporto immagini-suono in un cinema autonomo rispetto al teatro. Ma quando in Italia, alla fine degli anni sessanta, si verifica questa fiammata d’interesse principalmente per l’Ejzenstejn teo­ rico (e, in misura assai minore, anche per Dziga Vertov) ’, si assiste a un fenomeno per lo meno paradossale: Pudovkin « scom­ pare ». Non è che — scrivendo di Ejzenàtejn, pubblicando molti dei suoi scritti, studiandolo, analizzandone le posizioni — si ac­ cenni in qualche modo anche alla concezione pudovkiana del ci­ nema, magari per criticarla o addirittura per negare a essa un qualche valore, ma in ogni caso considerando il peso oggettivo avuto in precedenza. No: la soluzione adottata è il silenzio. Rileggendo i testi su Ejzenàtejn apparsi in quel periodo, si resta veramente stupefatti per un’assenza pressoché totale di rife­ rimenti al nome di Pudovkin. Un esempio macroscopico è il se­ guente. Nel settembre del 1974, numerosi studiosi, di diversa età, specializzazione e posizione culturale, si riuniscono a Fiesole per discutere di Ejzenàtejn; e per tre giorni — tanto dura il convegno — nessuno pronuncia il nome di Pudovkin! L’unica eccezione è Guido Aristarco, che ne parla, sia pure in termini 8 Lo si legga in questo volume, con il titolo L'asincronismo. Il titolo originale era L'avvenire del film sonoro. 9 II volume Teoria del cinema rivoluzionario, edito da Feltrinelli nel 1975, e contenente scritti di EjzenStejn e di Dziga Vertov, è un esempio evidente della « fiammata » d’interesse per questi due autori in una deter­ minata ottica politico-culturale, di cui l’introduzione al volume di P. Bertetto è altrettanto significativa (e anche qui, nemmeno una parola su Pudovkin).

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polemici: « ... non è vero che in Italia, nei tempi bui, tutti hanno sostenuto che Ejzenstejn era inferiore a Pudovkin. Qualcuno, attaccato da molti, sosteneva al contrario che Ejzenstejn era molto più grande di Pudovkin » ,0. Aristarco, peraltro, polemizzava con­ tro ignoranze e neoconformismi; ma nelle sue parole c’è forse contenuta implicitamente un’altra ragione del silenzio che s’in­ staura su Pudovkin. È come se si stabilisse una specie di equa­ zione: i tempi bui sono quelli dello stalinismo, durante il quale anche in Italia si determinarono schieramenti culturali contrappo­ sti, e avvennero scontri, furono espresse condanne, si assunsero atteggiamenti acritici e mitologici; in quei tempi bui gli stalinisti consideravano Pudovkin superiore a Ejzenstejn, sia come teorico che come autore di opere filmiche; adesso che i tempi bui sono finiti, ci si può liberare anche del mito di Pudovkin, ignorandolo. (È un’equazione che non attrbuisco certamente ad Aristarco, ma che ho la sensazione vi fosse nel profondo di molti degli illustri o ancora poco noti partecipanti a quel convegno, in ogni caso partecipi — consapevoli o meno — dell’ostracismo verso Pudovkin.) Insomma, nella battaglia che si sviluppò in campo culturale negli anni post-staliniani, anche per quel che riguarda il circo­ scritto mondo del cinema italiano, Pudovkin fu coinvolto suo malgrado in una specie di rivincita che alcune tendenze culturali cercavano verso e contro una pretesa egemonia dei comunisti e del marxismo, entrambi « ufficiali », nell’attività cinematografica in Italia: teorica, critica produttiva. Da questo punto di vista, letture e visioni superficiali e affrettate (se non addirittura riferimenti indiretti) potevano far apparire Pudovkin più « ortodosso » di altri artisti nei confronti delle direttive partitiche che via via erano emanate in Unione Sovietica sull’attività cinematografica. E forse si scambiò per con­ vinzione e adesione radicata il tributo che anch’egli (come del resto Ejzenstejn e tanti altri, a molti dei quali purtroppo ciò non 10 11 cinema di S. M. Ejzenstejn, Atti del Convegno Internazionale « Premio città di Fiesole » ai Maestri del Cinema 1973, Guaraldi, edito nel 1975, p. 107. Per la verità, in un saggio pubblicato in appendice, La Galas­ sia di Ejzenstejn, di Nedelcio Milev, Pudovkin è ricordato insieme a Kulesov (altro nome sostanzialmente ignorato nel convegno).

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risparmiò conseguenze drammatiche) fu costretto a rendere al dominio dello zdanovismo e all’aberrante imposizione delle co­ siddette « autocritiche » pubbliche: si vedano in questo volume le ultime pagine dello scritto II lavoro dell'attore cinematografico e il « sistema » di Stanislavski, che sarebbe stato anche possibile tagliare (usando appunto sistemi praticati dalla censura della bu­ rocrazia sovietica) se si fosse voluto dare un ritratto di Pudovkin privo di contraddizioni. C’è da aggiungere che Pudovkin poteva apparire più « orto­ dosso » proprio anche come teorico, se confrontato con persona­ lità come EjzenStejn e Dziga Vertov, coinvolti nelle esperienze delle avanguardie artistiche sovietiche degli anni venti, verso le quali, alla fine degli anni sessanta, si manifestano interessi da parte di molti, nell’ambito di una nuova stagione politica e cul­ turale. quanto mai feconda e importante, in cui però giocano spe»^ anche tendenze all’imitazione e alla ripetizione di prece­ denti fenomeni apparentemente simili, ma in realtà del tutto diversi. In questo quadro, si costituì probabilmente un’immagine — anche stavolta più ipotizzata che documentata — di un Pudovkin identificato con il realismo socialista; ma la più che giusta contestazione di un unico modello artistico, imposto dal potere parti­ tico in Urss e accettato acriticamente anche in Italia, difficilmen­ te poteva investire il Pudovkin teorico o il Pudovkin della trilo­ gia muta: e allora la condanna che si preferì applicare fu appunto quella del silenzio. A mio avviso, però, questa condanna non è soltanto un episodio tutto sommato marginale in una più ampia battaglia delle idee. Da essa scaturiscono altre considerazioni, tanto da fargli assumere, almeno ai miei occhi, un significato emblematico più ampio. Sono infatti convinto che determinate forze e tendenze culturali miravano, oltre il bersaglio tutto sommato facile del realismo socialista, a mettere in discussione e a colpire un altro obiettivo: e cioè tout court il realismo nell’arte, in tutte le sue articolazioni e manifestazioni, e inevitabilmente anche con tutti i suoi impliciti significati ideali. Ma ritengo che ci sia ancora di più; e sono costretto quindi a un sia pur sommario ampliamento del quadro d’insieme, per

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tentare una risposta a domande che mi pongo: perché chi intese emarginare Pudovkin riuscì nel suo intento? perché anche l’at­ tacco e il tentativo di ridimensionamento del realismo nell’arte (del suo peso nella vita sociale e culturale, intendo) hanno rag­ giunto tutto sommato sostanziosi risultati? Nel corso di tutti gli anni settanta si sviluppa in Italia un processo ampio e complesso, al quale partecipano molte forze, anche eterogenee tra di loro. Sono anni in cui l’Europa conosce l’avvio di profonde trasformazioni politiche e sociali, anche se non prive di marcate contraddizioni. In queste dinamiche, quello culturale si rivela rapidamente come un settore di primaria im­ portanza per influire sul processo in corso. Si apre allora, proprio sul terreno culturale, una seria battaglia, di lungo periodo, che vede mobilitate grandi forze nazionali e internazionali, apparati produttivi, strumenti di formazione dell’opinione pubblica, centri di ricerca culturale e di elaborazione, università, singoli « specia­ listi »: tutti collegati — non da un’unica centrale strategica di sapore francofortiano, ma da logiche analoghe — per assicurarsi il controllo dei sistemi culturali e informativi complessivi, e per imporre consumi di massa di prodotti culturali da cui siano as­ senti elementi di impegno politico, di critica sociale, di proposta innovatrice. È una pratica che elabora e produce anche teorie coerenti che giustificano e anzi considerano necessaria la diffu­ sione di prodotti culturali indifferenziati e intercambiabili; e per­ sonalmente devo rilevare che anche a sinistra (se « sinistra », come « destra », ha ancora un significato: ed è chiaro che io ritengo di sì) c’è chi teorizza, in campo culturale, il disimpegno, la neutralità, la moda, la supremazia ideale assoluta del mercato, l’efficacia del consumismo nel porre continuamente in essere nuovi pseudo-modelli e nuovi pseudovalori, il dominio ormai in­ contrastato della tecnologia elettronica (rimando a questo propo­ sito alle osservazioni che fanno Armand e Michèle Mattelart in alcune pagine brucianti sul ruolo degli intellettuali, nel loro libro I mass media nella crisi H). In Italia, di cui va considerata tutta l’importanza come « paese-laboratorio sperimentale » sotto tutti i punti di vista, 11 Si vedano le pp. 39-44, sotto il titolo Intellettuali per l’ordine tri­ laterale. Il volume è stato pubblicato dagli Editori Riuniti nel 1981.

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questa tendenza si propone di diventare rapidamente egemonica; e in molti casi ci riesce: ecco l’accantonamento di Pudovkin. Ma non ci si limita a discriminare artisti e autori che propongano determinati contenuti (uso qui per brevità espressioni schemati­ che: sarebbe meglio dire determinate idee): ben presto si emar­ ginano anche tentativi, ricerche, esperienze formali di nuovi lin­ guaggi, nuove forme espressive, nuovi stili. Per intenderci, e per ritornare al terreno più specifico del cinema, a poco a poco — dopo gli entusiasmi durati qualche anno — ora anche Ejzenstejn e Dziga Vertov vengono accomunati, nel destino del silenzio, a Pudovkin. Tra l’altro, sorge anche il sospetto che tutti e tre questi registi-teorici abbiano un difetto: quello di essere sovietici, e quindi del tutto « fuori moda ». E a questo proposito il rischio di passare per vetero o neo o addirittura post-stalinista non può impedirmi di constatare che da diversi anni i sistemi informativi dominanti in Italia (ma più in generale in occidente) hanno ac­ centuato la tendenza a ridurre in termini molto ristretti la cono­ scenza di quanto avviene — almeno in campo culturale — nell’Unione Sovietica. Ancora una volta, a una mitologia se n’è so­ stituita un’altra, di segno eguale e contrario; e come punto di riferimento culturale esclusivo si sono scelti gli Stati Uniti. Insomma, per tornare a Pudovkin con un esempio significa­ tivo, non credo che sia pura casualità se la televisione pubblica italiana ha trasmesso, dal 1955 a oggi, un solo film di Pudovkin, La madre12, quando di altri autori abbiamo visto tutto e più duna volta, in cicli inventati per giustificarne la replica. Ed è evidente — a parte la questione della « legittimità » estetica di trasmettere per il piccolo schermo opere nate e concepite per un diverso rapporto con gli spettatori — l’importanza della diffusio­ ne televisiva per una conoscenza di massa di opere cinematogra­ fiche rimaste per anni patrimonio culturale di un pubblico molto limitato. Ma di tutto ciò non c’è da stupirsi. Se è in corso — come è chiaro io ritengo sia in corso — una grande battaglia ideale nel mondo (di cui tra l’altro fa parte essenziale oggi anche una lotta

12 II film è stato mandato in onda due volte, nel luglio 1971 e nel febbraio 1973.

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vitale molto determinata per la pace e contro il pericolo di distru­ zione nucleare), le forze della conservazione, o del mutamento « alla gattopardo » (mutare qualcosa perché la sostanza non cam­ bi), fanno il loro mestiere; e sviluppano tattiche, fanno progetti, compiono esperimenti, articolano strategie. C’è semmai da stupirsi di piu rispetto all’atteggiamento della sinistra italiana, politica, sociale e soprattutto culturale: che ap­ pare — nella migliore delle valutazioni — fortemente lacerata, e quindi con una scarsa capacità di elaborazione e di risposta com­ plessiva alle sfide in corso. Inevitabilmente, accennando al « destino » italiano di Pu­ dovkin e cercando di inquadrarlo in uno sfondo più generale, il rischio è quello di generalizzazioni e di schematizzazioni radicali. È addirittura ovvio che il panorama, specifico e complessivo, si presenta in modo molto più articolato: ma qui siamo nell’ambito di una prefazione che si propone soltanto di incoraggiare la let­ tura di Pudovkin e se possibile stimolare ulteriori riflessioni su questo autore. Per intenderci, il « silenzio di piombo degli ultimi anni » su Pudovkin (come lo definisce Orio Caldiron B) non è totale e assoluto. Riviste di cinema ne hanno talvolta parlato; c’è stato qualche convegno a lui dedicato 13 14; dagli archivi della Cineteca nazionale e di quella di Italia-Urss — che possiedono pressoché la totalità dei film di Pudovkin — escono di tanto in tanto, richieste da qualche cineclub, copie dei suoi film (per la verità quasi sempre quelli della trilogia muta: che possono anche essere considerati come i suoi « più belli »; ma non sarebbe bene ve­ dersi anche, per esempio, quel Ritorno di Vassili Bortnikov che

13 Dal cinema degli zar al cinema di Lenin 1908-1924, a cura di O. Caldiron, Quaderni di documentazione della Cineteca nazionale, 1978, p. 9. Caldiron parla anche, in quel contesto, « dopo la prima e tenace " incorona­ zione” di Pudovkin », di « una recente riequilibratura di tiro, se non proprio una rimitizzazione »: affermazione, quest’ultima, che mi sembra invero un po’ azzardata. 14 Un convegno che ebbe luogo a Padova, nel settembre 1977, vide anche la partecipazione di Anatolij Golovnia, il direttore della fotografia di tanti film di Pudovkin. In occasione di quel convegno fu anche pubblicato l’opuscolo II cinema di V. Pudovkin, di A. Costa, edito dall'Assessorato alla cultura del Comune di Padova.

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fu una svolta nella cinematografia sovietica post-staliniana?); qualche cattedra universitaria di cinema, come quella di Argen­ tieri a Napoli, organizza corsi e cicli sul cinema sovietico nei quali Pudovkin ha la sua giusta collocazione; in qualche volume sull’estetica del cinema (magari addirittura destinato programma­ ticamente a una diffusione nelle scuole superiori) 15 Pudovkin non è dimenticato, anche se si sottolinea la sua contestazione « da tutta la giovane critica, soprattutto da André Bazin che opporrà una rigorosa esigenza di sintesi aWAnalisi in cui sfocia il discorso del teorico sovietico »; esaurita la prima edizione della Settima arte, gli Editori Riuniti la ripubblicarono nel 1974 praticamente come reprint, senza le sceneggiature annesse. Ma questi elementi positivi non mutano la considerazione di fondo — per restare al solo problema di Pudovkin — riguar­ dante la sostanziale rimozione della sua teoria filmica e delle sue opere cinematografiche, che contraddistingue gli ultimi quindicivent’anni: rimozione che non sarebbe neppure giustificata se di entrambe si fosse dimostrata la caducità o l’inutilità o il defini­ tivo superamento: il che nessuno ha fatto, anche perché non po­ teva seriamente farlo. Cosicché non mi sembra azzardato dire — per quanto riguarda l’ambito della teoria estetica sul cinema — che sono si aumentate le strumentazioni e quindi le possibilità di indagine e di studio; che si è ampliato l’uso di nuovi strumenti di analisi (psicologia, semiologia, sociologia, psicanalisi, tecno­ logia, ecc), in precedenza rifiutati (e ora, invece spesso assunti come totalizzanti, in un atteggiamento che a me pare segnato non di rado da una forte subalternità): ma tutto ciò non ha anco­ ra determinato una ripresa sostanziale di approfondimento teori­ co sull’arte del film. E pertanto va secondo me condiviso il giudizio critico che di questo fenomeno dà Gian Piero Brunetta quando scrive: «... il senso di vuoto teorico sembra divenuto una condizione permanente e strutturale ». In questa prospettiva, rifare i conti anche con Pudovkin ha un senso preciso: verificare

15 Mi riferisco in questo caso esemplificativo a Estetica del cinema, a cura di P. Colaprete, edito da G. D’Anna nel 1973 nella collana « Tangenti: proposte e verifiche culturali per le scuole superiori ». Il volume contiene un testo-base del francese H. Agel e « confronti antologici » di diversi autori italiani. La citazione è tratta da p. 67.

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sui testi se abbia fondamento e se valga ancora oggi, per la situa­ zione odierna, un’altra osservazione — questa invece a mio av­ viso discutibile — che Brunetta fa a proposito dell’epoca del neorealismo, citando proprio Pudovkin ed Ejzenstejn: «... gli stessi moderi teorici sono obsoleti rispetto ai fenomeni in atto » 16. In ogni caso, quello del « vuoto teorico » è, a mio parere, il problema di fondo; e affrontarlo è tanto piu necessario se si tiene conto delle profondissime modificazioni nel settore più ge­ nerale della comunicazione audiovisiva, che si stanno verificando a livelli mondiali, e che interessano il cinema non soltanto dal punto di vista produttivo o tecnologico o distributivo, ma anche per ciò che riguarda la sua stessa essenza, la sua peculiarità arti­ stica, la sua specificità espressiva. C’è infine da rilevare che, proprio a proposito di Pudovkin, non mancano segni che sembrano annunciare un’inversione di tendenza. Accogliendo l’invito di Fernaldo Di Giammatteo, che dirige una collana di « ritratti » di cineasti, un giovane studioso, Stefano Masi, sta lilialmente preparando un volumetto informativo-critico su Pudovkin. Nel giugno del 1984 si preannuncia a Roma una rassegna di tutti i film di Pudovkin (salvo probabil­ mente un titolo o due) 17 ; e questa coincidenza con il trentesimo anniversario della morte di Pudovkin induce a ricordare le parole che Barbaro scrisse in quell’occasione: « Con la morte di Pu­ dovkin, che segue oggi, a pochi anni di distanza, quella di Béla Balàzs e di S. M. Eisenstein, il triumvirato del cinema, la grande terna dei maestri dei maestri, è scomparsa; sono scomparsi coloro per i quali il linguaggio del film s’è fatto coscienza... »18: parole che sono anche una grande lezione di stile umano. E questa stessa riedizione della maggior parte degli scritti contenuti nel volume La settima arte assume un significato preci­ so come riproposta dei principali scritti teorici di Pudovkin (del* quale c’è comunque da sperare che un giorno siano pubblicate le 16 In Storia del cinema italiano dal 1945 agli anni ottanta cit., pp. 613 e 136. Il corsivo è mio. Il « vuoto teorico » non significa ovviamente ne­ gazione dei contributi che hanno dato molti autori, oltre a quelli già citati, per ampliare le indagini sul cinema. 17 La rassegna sarà curata dalla Cineteca nazionale, da Italia-Urss e dal Comune di Roma. 18 In Servitù e grandezza del cinema, cit., p. 20.

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opere complete, insieme a quelle di Ejzenstejn). Il fatto poi che in questo caso si tratti ancora della versione degli scritti curata da Umberto Barbaro ha un valore quasi simbolico — al di là delle ragioni di economia editoriale — se si ricorda ciò che una volta Barbaro scrisse proprio di sé stesso: «... sono rimasto per molti "quello che ha tradotto in italiano le opere di Pudovkin!”. E non me ne dispiace: anzi ,ne sono sempre assai fiero » 19.

Ansano Giannardii

19 In Poesia del film, cit., p. 63.

Il regista e il materiale cinematografico

Le caratteristiche del materiale cinematografico Cinema e teatro

Nei primi anni della sua esistenza, il film non fu altro che un inte­ ressante ritrovato, che dava la possibilità di fissare fotograficamente il movimento, possibilità che era assolutamente negata alla fotografìa. E pertanto nel film si potevano conservare la rappresentazione e la documentazione di tutti i possibili processi della realtà. 1 primi film non sono che il tentativo di fissare sulla pellicola il movimento di un treno, di passanti per le vie, di un paesaggio dal finestrino di un treno c cosi via. Alle sue origini, dunque, il film non fu che fotografia vivente. Il primo tentativo di portare il film nel campo dell’arte lo mise, naturalmente, in relazione col teatro; e, solo come curiosità divertente, come le primitive riprese di treni in movimento o di onde del mare, furono girate scene a carattere comico o drammatico, e recitate da attori teatrali. Apparve cosi il primo pubblico cinematografico. E sorse una serie di piccoli teatri nei quali furono proiettati questi primi film. In seguito, la cinematografia cominciò ad assumere le caratteristiche di un’industria, e anche particolarmente redditizia. Fu subito preso in considerazione il fatto che da un solo negativo si possono ricavare nu­ merosi positivi e che perciò la pellicola può essere riprodotta e diffusa in parecchi esemplari come un libro. Grandi possibilità si aprivano, dunque, per la cinematografia, considerata allora come una semplice attrazione. kpparveTQ quindi i primi tentativi di ripresa di un materiale serio e significante, ma i legami col teatro non potevano sciogliersi tanto facil­ mente per ragioni assai comprensibili, e si capisce come i primi produt­ tori si siano sforzati di riprendere cinematograficamente gli spettacoli teatrali. Sembrava allora una cosa straordinariamente interessante quella di

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poter dare una durata alle rappresentazioni teatrali e alla recitazione degli attori, arte transitoria, e attuale solo nel momento dell’osserva­ zione da parte dello spettatore. Il film rimase, come prima, soltanto una fotografia vivente. Nel lavoro della ripresa non c’era ancora posto per l’arte. Si fotografava solo l’arte dell’attore; e naturalmente allora non era ancora possibile parlare di una particolare recitazione cinematografica, di singole parti­ colarità caratteristiche o di specifici metodi impiegati dai registi per la ripresa e la composizione del film. A che cosa si limitava, infatti, in quei tempi il lavoro del regista? Egli aveva dinanzi a sé il soggetto da realizzare e questo era in tutto eguale all’opera scritta dall’autore per il teatro. Soltanto le parole dei protagonisti erano eliminate e, per quanto era possibile, sostituite da movimenti e da gesti, o anche, molto più semplicemente, da didascalie. Il regista realizzava le scene seguendo l’ordine teatrale, indicava i passaggi, i movimenti, le entrate e le uscite degli attori. La scena, ordinata in un tal modo, era eseguita mentre l’operatore, girando inin­ terrottamente, impressionava sulla pellicola l’intera scena. Il procedere della ripresa per altro non poteva esser concepito di­ versamente perché il regista aveva per materiale le stesse personalità degli attori con le quali aveva a che fare nel teatro. La sua macchina da presa serviva solo a fissare scene già determinate e definitivamente stabilite. I singoli pezzi di pellicola venivano girati semplicemente se­ condo una successione corrispondente allo sviluppo dell’azione, cosi come l’atto dell’opera teatrale risulta naturalmente da un complesso di scene. L’unione di questi pezzi era presentata al pubblico come film. Per fare breve il discorso, il lavoro del regista cinematografico non differiva in nulla da quello del regista teatrale. Una fedele impressione sulla pellicola e la proiezione sullo schermo di un lavoro teatrale interpretato da attori di teatro e da cui erano state eliminate le parole: questo fu nei primi tempi il film.

Il metodo del cinema Furono gli americani i primi a scoprire l’esistenza di particolari metodi e di particolari possibilità nella cinematografia. Si comprese al­ lora che il film non poteva limitarsi a riprendere solamente e sempli­ cemente gli oggetti posti dinanzi aU’obbiettivo della « camera » ma che

Il regniti e il materiale cinematografico 5

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t ra in grado di esprimersi con mezzi suoi propri e i ucolari. Si prenda, ad esempio, una dimostrazione che si svolga n< > via. Perché lo spettatore abbia una chiara ed esatta idea di quest.. li most razione, egli deve darsi a un particolare lavoro. Dapprima do .1 arrampicarsi su! tetto di una casa per vedere la sfilata in tutta la su interezza; poi scenderà a guardare dal secondo piano i cartelli e le indegne dei dimo­ stranti. Infine, si mescolerà colla folla stessa, per cogliere l’aspetto dei partecipanti alla manifestazione. L’osservatore cambierà cosi tre volte il suo punto di osservazione, stando ora più lontano, ora più vicino, in modo da avere una idea il più possibile ampia e viva deH’avveniménto. Gli americani furono i primi a sostituire un tale attivo osservatore u'i. ' •" • bina da presa. Essi dimostrarono, con le loro opere, che la scena può essere ripresa non solo da un obbiettivo che compia la funzione di uno spettatore seduto nella sua poltrona a teatro, ma anche mediante il muoversi dello spettatore, cambiando cioè la sua posizione rispetto all’oggetto da riprendersi; anche alla macchina da presa è data la possibilità di riprodurre, e in maniera più chiara e più esatta, la scena voluta. La macchina da presa, fino ad allora immobile spettatore, venne a prendere una vera e propria vita. E ricevette cosi la possibilità di trasformarsi da semplice spettatore in osservatore attivo. Ne risultò che la macchina da presa, nelle mani del regista, potè non solo dare allo spettatore la possibilità di vedere, ma anche quella di considerare l'azione in maniera ordinata. In quel momento apparvero per la prima volta nel film i concetti di primo piano, di figura intera e di campo lungo-, concetti che, in se­ guito, hanno avuto una parte di prim’ordine nell’arte del montaggio, che è il fondamento dell’opera creativa del regista. E da quel momento si fece chiara la differenza fondamentale che esiste fra il regista teatrale e cinematografico. In un primo momento, infatti, il materiale su cui essi lavoravano era lo stesso: gli stessi attori recitavano, in uno stesso ordine, identiche scene, che per il film erano semplicemente accorciate e private, il più possibile, del dialogo. E la recitazione dell’attore cinematografico non si differenziava da quella del­ l’attore teatrale, se non per lo sforzo di rendere il più possibile com­ prensibili le parole e le battute mediante i gesti. Era quella l’epoca in cui il film si definiva, e con pieno diritto, un surrogato del teatro. Ma con l’apparire del concetto di montaggio la

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situazione cambiò radicalmente. E vero materiale per la creazione del film non furono piu le scene reali su cui può dirigersi a piacere l’obbiettivo della macchina da presa. Il regista teatrale ha sempre a che fare con la realtà e con avveni­ menti reali che costituiscono il materiale tipico della sua arte: perché l’opera teatrale definitivamente creata e formata, le scene recitate dun­ que, costituiscono un avvenimento effettivo e reale che si sviluppa in condizioni reali di spazio e di tempo. Se l’attore si trova da un lato del palcoscenico non può venire a trovarsi nella parte opposta di esso senza fare i passi necessari per arrivarci; e questo passaggio è ima necessità assoluta, assolutamente condizionata dalle leggi dello spazio e del tempo reali. Il regista teatrale non può in alcun caso trascurare questa esigenza caratteristica della sua arte. Perciò, nella realizzazione teatrale, è inevitabile una serie di intervalli che collegano i punti capi­ tali dell’azione. Se si considera invece il lavoro del regista cinematogra­ fico si vede che il suo materiale è costituito unicamente da una serie di pezzi di celluloide sulla quale sono impressionati gli avvenimenti, ripresi da diversi punti di vista; sullo schermo dipende unicamente dalla disposizione di quei pezzi di pellicola, che rappresentano la realtà fil­ mica dell’avvenimento: il materiale del regista cinematografico in so­ stanza non è costituito da avvenimenti che hanno luogo in uno spazio e durante un periodo di tempo determinati, tali e pertanto inseparabili, ma in una serie di pezzi di pellicola che sono in suo assoluto dominio. Il regista cinematografico può dunque, per qualsiasi motivo gli sembri opportuno agli effetti del risultato visivo che vuole ottenere, e sempre, distruggere tutti i momenti di passaggio, epperò concentrare l’azione, rispetto al tempo, su di una misura ideale, nata dalla sua volontà artistica. Questo metodo della concentrazione del tempo, e conseguentemente dell’azione, mediante l’annullamento dei momenti di passaggio reputati inutili, esiste, per altro, in forma sia pure assai piu semplice, anche nel teatro: se ne trova l’espressione in quelle opere che sono costituite da più atti. Un lavoro teatrale in cui, per esempio, tra il primo e il secondo atto passino vent’anni dimostra questa parziale possibilità di concen­ trazione di tempo e di azione nel teatro. Nel cinematografo questo metodo è portato alle sue estreme conse­ guenze: esso è la base di tutta la cinematografia. Mentre però il regista teatrale ha la possibilità di avvicinare due azioni lontane nel tempo in due atti diversi, annullandone ogni passaggio, gli è impossibile fare

7 altrettanto entro i singoli atti o le singole scene. Il regista cinemato­ grafico invece concentra nel tempo non solo le singole scene, ma per­ line i movimenti di una persona. Nel caso che si vogliano riprendere dei dimostranti che passano per una via, il risultato non sarà una fotografìa dell’avvenimento, ma una particolare figurazione dell’avvenimento stesso: tra gli avvenimenti reali c la loro riproduzione sullo schermo esiste una grande e significante dif­ ferenza: e in questa differenza sta tutto ciò che fa del film un’opera d’arte. Guidata dal regista, la macchina da presa si assume la responsabilità di eliminare tutto ciò che è inutile e di dirigere l’attenzione dello spet­ tatore in modo tale che egli veda solo quello che di importante e di caratteristico c’è da vedere. Girate un certo numero di scene in campo lungo, la camera si immergerà tra la folla dei dimostranti per pescarvi i particolari piu tipici. Questi particolari non sono occasionali, ma scelti in modo che la loro somma, in quanto somma di singoli, sia suscettibile di esser composta in un intero quadro. Supponiamo che la sfilata debba esser caratterizzata dall’ordine del corteo che la costituisce: prima le guardie rosse, poi gli operai, poi i pionieri. Nel caso che ad un operatore venisse l’idea di far vedere il seguito della dimostrazione, piazzando la macchina da presa da un dato angolo visuale e facendo sfilare dinanzi aU’obbiettivo tutta la massa dei dimostranti, egli costringerebbe lo spettatore del film a perdere tanto tempo quanto ce n’è voluto per il passaggio di tutto quanto il corteo. IS. peggio ancora, lascerebbe allo spettatore l’arbitrio di scegliere i par­ ticolari importanti del corteo sfilato nella sua interezza sotto i suoi occhi. Applicando invece sanamente il metodo fondamentale del cinema­ tografo, si devono riprendere singolarmente gli operai, i soldati, i pio­ nieri e unire i pezzi di pellicola con una visione totale così che nulla di importante vada perduto. Lo spettatore sarà così messo in condi­ zione di apprezzare tanto la grandiosità della dimostrazione quanto i particolari di essa; e solo sarà diverso il tempo che gli occorrerà per questa visione di quello che occorrerebbe al testimone dell’avvenimento reale. In fin dei conti, molti di quelli che si chiamano trucchi cinemato­ grafici non sono altro che metodi particolari della cinematografia. Per mostrare sullo schermo la caduta dal quinto piano di un uomo, si può, come tutti sanno, condurre la ripresa in questo modo: prima si riprende l’uomo che cade dalla finestra su di una rete, e naturalmente

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in modo che la rete sia fuori campo, poi si riprende da un punto più basso lo stesso personaggio mentre cade. I due pezzi montati assieme daranno l’effetto voluto. Ma nella realtà non è avvenuta nessuna cata­ strofe; essa è risultata solo dall’unione di diversi pezzi di pellicola. Del pfocesso della caduta di un uomo da una enorme altezza si sono presi in considerazione solo due momenti — il principio e la fine — e tutta la parte di mezzo è stata eliminata. Questo processo non è che un sem­ plice impiego di mezzi cinematografici, in tutto analogo a quello che fa trascorrere cinque anni tra un atto e l'altro di una commedia. La caduta di un uomo da una altezza di sei metri su di una rete, e da una cassapanca a terra, sullo schermo apparirà come il pauroso precipitare di un uomo da un’altezza di trenta metri.

Spazio e tempo nel film

Dall’intenzionale direzione della macchina da parte del regista c dalla fusione dei singoli pezzi ripresi risulta il nuovo tempo cinemato­ grafico. Non dunque il tempo reale, necessario allo svolgersi dell’azione reale, ma un nuovo tempo, ideale, risultante dalla rapidità dell’osserva­ zione e dalla quantità o durata dei singoli elementi scelti per la riprodu­ zione cinematografica dell’azione stessa. Le azioni reali non si svolgono solo nel tempo, ma anche nello spazio. Come il tempo cinematografico si differenzia da quello reale perché è condizionato solo dalla maggiore o minore lunghezza dei pezzi di pellicola tagliati e incollati; cosi anche lo spazio cinematografico dipende da quello che è il lavoro fondamen­ tale del film: il montaggio. Incollando a sua volta pezzi di pellicola di lunghezza da lui determinata, il regista cinematografico crea tempo e spazio ideali propri del cinematografo. In forza della già enunciata possibilità di eliminare connessioni, passaggi e momenti superflui per tutto il lavoro cinematografico, il risultato è un quadro fantastico dato dagli elementi reali che sono stati captati dalla camera. Nel 1920, L. Kuliesciov, a titolo di esperimento, girò la seguente scena : 1. Un giovane avanza da sinistra a destra. 2. Una donna va da destra verso sinistra.

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3. S’incontrano e si stringono la mano. Il giovane indica con la mane qualche cosa. -t. Un grande edifìcio bianco, con una larga scala. 5. Entrambi salgono la scala.

I singoli pezzi ripresi separatamente furono incollati nell’ordine suddetto e proiettati; lo spettatore aveva l’impressione chiara di una azione ininterrotta: il camminare di due giovani, il loro incontro presso la casa e il salirne insieme le scale. I singoli pezzi invece erano stati ripresi in diversi luoghi: il giovanotto presso un edificio del centro, la stretta di mano plesso il monumento a Gogol, il loro incontro presso il Bolscioi Teati; la casa poi era stata ripresa da una fotografia di un settimanale americano (ed era la White House), la salita sulle scale alla Cattedrale. Ma il risultato qual era? Che lo spettatore considerava la scena come un tutto unitario. Le parti di spazio reale riprese erano per cosi dire concentrate sullo schermo. Ne risultava cioè quella che Kuliesciov chiamò la « geografia ideale ». In sostanza, il montaggio aveva creato un nuovo spazio cinematografico inesistente nella realtà. Edifici lontani migliaia di chilometri erano stati riuniti in un breve spazio ideale che l’attore poteva percorrere con pochi passi.

H materiale cinematografico Finora abbiamo mostrato i principali punti di divergenza tra l’opera del regista teatrale e cinematografico. Abbiamo visto che questa diffe­ renza consiste nella differenza del materiale impiegato: il regista teatrale lavora con la realtà, che egli può deformare, ma sempre rimanendo nel dominio delle leggi del tempo e dello spazio reali; il regista cinemato­ grafico invece ha a sua disposizione, quale materiale, soltanto dei pezzi di pellicola impressionata, e questo materiale, con il quale egli co­ struisce la sua opera, non è fatto di uomini viventi e di paesaggi reali né di vere e reali messinscene, ma di rappresentazioni plastiche, che, impressionate su singoli pezzi di pellicola, debbono poi essere accor­ ciate, modificate e ordinate. Su questi pezzi di pellicola sono impressionati diversi pezzi di realtà, ma il regista, accorciandoli o allungandoli a suo piacere, e combinandoli secondo un ordine dipendente soltanto dalla sua volontà artistica, crea il suo spazio e il suo tempo cinematografico.

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Egli non se ne serve per creare la realtà, ma una nuova realtà, e la cosa piu caratteristica e più importante di questo lavoro è il fatto che, in esso, le leggi immutabili di spazio e di tempo appaiono elastiche e obbedienti. Il film raccoglie elementi di realtà al solo scopo di creare con essi una nuova verità tutta sua e caratteristica. Le leggi di spazio e di tempo, che nel lavoro teatrale, con uomini, messinscene e ambienti teatrali, sono immutabili, nel film sono del tutto diverse; esse sono cioè totalmente sottoposte al regista. Il mezzo fondamentale dell’espressione cinematografica è la costru­ zione dell’unità di un film da singoli pezzi, da elementi, dai quali può essere eliminato tutto il superfluo, lasciando solo la parte essenziale e più caratteristica. Questo metodo è ricco di possibilità infinite. È noto a tutti che, quanto più ci si avvicina ad un oggetto, tanto minore diventa il campo della nostra visione, quanto più il nostro sguardo indagatore si fa dappresso alle cose, tanto maggiore è il numero delle particolarità che ne cogliamo. Noi non consideriamo più allora l’oggetto della nostra osservazione nella sua unità, ma scegliamo col nostro sguardo quell’insieme di elementi caratteristici che, per effetto dell’associazione d’idee, ci dànno un’impressione del tutto, che viene però ad essere più profonda e più acuta di quella che non ci darebbe uno sguardo generale. Quando noi ci disponiamo ad osservare una cosa, cominciamo sem­ pre dai contorni generali, dopo di che, approfondendo la nostra indagine quanto più è possibile, arricchiamo la prima impressione di un sempre crescente numero di particolari. I particolari e il dato singolo diventano, nell’osservazione delle cose, sinonimo di approfondimento. La forza del film sta nel fatto che la sua caratteristica particolare è la possibilità di dare un’evidente e chiara rappresentazione dei dettagli; l’efficacia della rappresentazione cinematografica sta nella continua tendenza a dirigere la macchina da presa, con quanta più profondità è possibile, nel punto centrale di ogni scena La macchina si dirige, per cosi dire, a viva forza, nella vita più densa, là dove non può giungere, col suo sguardo fuggevole, l’osservatore comune. La macchina da presa procede in profondità, si avvicina ad ogni cosa visibile, cogliendola e fissandola sulla pellicola. Quando noi ci avviciniamo ad una qualsiasi realtà, dobbiamo impie­ gare un certo tempo e fare una certa fatica per passare dal generale al particolare, per dirigere cioè la nostra osservazione sul punto centrale che illumina i particolari, li mette in evidenza e ne chiarisce l’impor­

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tanza. Il montaggio elimina e annulla nel film questa fatica. Lo spetlatore del film è uno spettatore ideale e acuto: e chi lo fa tale è il regista. Il momento della scoperta del particolare nascosto e tipico è il vero momento creativo, quello che dà un valore esclusivo e singolare dell’avvenimento mostrato. Far vedere qualche cosa cosi come ognuno Li vede non significa niente, perché quello che può essere colto dal primo sguardo fuggevole, generico e superficiale, non ha importanza e ne ha invece solo quello che si rivela ad uno sguardo indagatore che vuole v può vedere piu profondamente. Questo è il motivo per cui i più grandi artisti che abbia il cinematografo sono quelli che meglio sanno < ogliere il particolare caratteristico. Per far questo essi eliminano tutti gli aspetti generici delle cose e tutti i momenti di passaggio che sono l’attributo inevitabile di ogni realtà. Nell’elaborazione del suo materiale il regista teatrale non è mai capace di eliminare dal campo visivo del suo spettatore lo sfondo, la massa circostante e tutti gli inevitabili accessori che accompagnano i momenti caratteristici e i particolari significativi, egli non può che accen­ tuare quanto, del tutto, gli appaia più utile o necessario, ma rimarrà sempre compito dello spettatore quello di dirigere e concentrare la sua attenzione su quel punto. La condizione di un regista cinematografico è ben diversa: l’attenzione dello spettatore è sempre nelle sue mani. La macchina da presa è, in certo qual senso, l’occhio dello spettatore e vede e nota solo quello che il regista ha voluto fargli vedere, e cioè quello che il regista ha considerato essenziale nello svolgimento del­ l’azione.

Analisi

Eliminate le circostanze generiche e accidentali, l’apparire sullo schermo di un particolare, colto in profondità, ottiene e raggiunge nel lìlm il più alto grado di espressività. Il film toglie allo spettatore tutto il lavoro di selezione e di eliminazione dal campo visivo del superfluo per mostrargli solo quello che è essenziale, privo di qualsiasi cornice. Quest’eliminazione risparmia le forze dello spettatore e porta a con­ seguire la massima esattezza ed efficacia. Prendiamo come esempio la scena del giudizio nel film di Griffith

12 Intolerance 1 ; essa ci mostra una donna che si vede condannare a morte il marito innocente. Il regista presenta il viso della donna: un tremito angoscioso alle labbra, quasi un sorriso convulso tra le lacrime. E im­ provvisamente appaiono allo spettatore, per un attimo, le mani della donna strette convulsamente e adunghiami le carni. Questa è una delle scene più forti di tutto il film. Neanche per un minuto noi ve­ diamo l’intera figura della donna, ma soltanto il viso e le mani. Ed è forse al fatto di aver scelto, dalla quantità dei particolari che gli si offrivano, questi due soli, tanto caratteristici, che il regista deve la straordinaria efficacia di quella scena. Ci troviamo quindi dinanzi ad un tipico esempio della possibilità, esposta più sopra, di eliminare tutti gli elementi non essenziali, che sono inseparabili dalla realtà, e di conservare solo i punti culminanti e più caratteristici dell’azione. L’importanza del montaggio è tutta data da questa possibilità. Connessioni e intervalli sono attributi inevitabili della realtà: in essa Io spettatore può evitare di concentrare su loro la propria attenzione solo rivolgendola sugli elementi essenziali. Quando lo spettatore a teatro vede un personaggio, dirige la sua attenzione prima sul viso, poi il suo sguardo percorre tutta la figura per fissarsi eventualmente sulle mani. Altrettanto avviene nella realtà. Tutto questo lavoro è risparmiato allo spettatore di un film: egli non consuma nessuna energia, perché il regista cinematografico elimina tutti i momenti superflui e rafforza cosi l’attenzione rivolta ai momenti e ai particolari essenziali, conferendo all’azione un’efficacia molto mag­ giore di quella della stessa realtà. Il lavoro del regista ha dunque un carattere duplice. Prima della creazione della forma filmica, egli necessita di un materiale adatto: quando si accinge a fare un film, non può e non deve riprendere la realtà nel modo in cui si offre allo sguardo distratto di un osservatore comune. Per creare una forma cinematografica, il regista deve scegliere gli elementi che saranno poi i dati essenziali di questa forma stessa. Anzitutto deve trovarli. Ed eccoci dunque di fronte alla necessità di un particolare lavoro di analisi condotto sull’azione reale che il regista

1 I titoli dei film sono dati sempre nella lingua originale quando non ne esista un’edizione italiana. Unica eccezione i film di Pudovkin, che sono dati sempre in italiano e di cui si può vedere il titolo originale nella filmografia in appendice (n.d.r.).

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vuole riprendere. Su questa azione si deve compiere un’operazione simile a quella che in matematica si chiama differenziazione: il regista deve cioè intraprendere una suddivisione dell’azione stessa nei suoi elementi costitutivi. Qui la tecnica dell’osservazione si collega al pro­ cesso creativo della scelta degli elementi caratteristici nei confronti dell’opera futura. Per presentare la donna dinanzi ai giudici, Griffith immaginò forse qualche dozzina di espressioni di disperazione e non ne vide certo solo le mani e il volto. Scelse però, dall’intera visione, solo il sorriso tragico tra le lacrime e il convulso atteggiamento delle mani creando un’indimenticabile immagine filmica. Prendiamo un altro esempio. Nello straordinario film di Eisenstein, La corazzata Potiomkiii, il regista ha ripreso la scena della sparatoria sulla folla da parte dei soldati di Odessa. L’impressionante fuga della folla non lo è però tanto quanto il precipitare per la scalinata, in senso inverso, della carrozzina con dentro il bambino, abbandonata dalla madre uccisa. La carrozzina è un particolare come lo è, nello stesso film, la visione del ragazzo dal cranio spaccato. Analizzata nei vari elementi, la moltitudine fuggente e colpita ha offerto un ampio campo per il lavoro creativo del regista, e i suoi particolari, saggiamente scelti, hanno dato vita, mediante il montaggio, a un episodio pieno di efficacia. Ancora un esempio, più semplice, ma tipico per rivelare la natura caratteristica del lavoro cinematografico. Come si fa a rendere cinemato­ graficamente un incidente automobilistico? Supponiamo di dover far vedere l’investimento di un uomo. Il materiale reale è molto complicato e vario. C’è la strada, il pe­ done, l’automobile che investe l’uomo, l’autista atterrito, i freni, il motore che, per forza di inerzia, continua a girare, e infine il cadavere. Nella realtà le azioni e le impressioni sono quasi simultanee o comunque si susseguono senza interruzione. Come ha risolto il problema l’ame­ ricano Mason Hopper nel suo film Daddy? Egli ha disposto i singoli pezzi di montaggio nel modo seguente: 1. La strada percorsa da automobili. Un passante l’attraversa volgendo le spalle alla macchina: un’automobile che sopraggiunge e ne nasconde la figura. 2. Molto breve. U viso dell’autista atterrito che aziona i freni. 3. Della stessa lunghezza. Il volto della vittima con la bocca spalancata in atto di urlare. 4. Ripresa dal sedile dell'autista. Due gambe che compaiono da sotto una delle ruote anteriori.

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5. 6.

Le ruote frenate della macchina che, per l’impulso, slittano. Il cadavere presso l’automobile ferma.

I singoli pezzi sono montati secondo un ritmo molto rapido, dato dalla loro brevità. Per far risultare sullo schermo l’infortunio, il regista ha suddiviso analiticamente l’intera azione reale, che si svolgeva natu­ ralmente senza interruzioni, nelle sue parti, e di queste ha scelto, con parsimonia, solo quelle sei che gli sono sembrate essenziali. Questi sei momenti risultano sufficienti e danno una visione efficace dell’intera azione. In matematica, dopo la scomposizione negli elementi — la cosiddetta differenziazione — viene il momento della riunione dei singoli elementi in un tutto: processo che si chiama di integrazione. Nel lavoro del regista cinematografico, analogamente, il processo dell’analisi è solo un momento al quale deve naturalmente far seguito quello della ricreazione e ricomposizione del tutto con le singole parti. Il trovare gli elementi e i particolari deU’azionc non è che un momento introduttivo a un più vasto lavoro. Si deve cioè finalmente creare un’ope­ ra con queste diverse parti; poiché, come abbiamo detto di sopra, la vera catastrofe automobilistica poteva essere suddivisa dallo spettatore in dodici e magari anche in cento parti diverse. Il regista ha scelto solo sei di quelle parti. Ha dunque fatto una scelta. E quella scelta era naturalmente determinata a priori, per quella immagine cinemato­ grafica della catastrofe che, senza dubbio, il regista aveva già in mente in precedenza. Il montaggio come logica dett'analisi filmica Il lavoro del regista consiste propriamente nell’ideazione, in forma cinematografica, di avvenimenti concepiti quali rappresentazioni singole, il cui succedersi sullo schermo costituirà poi un’azione unitaria, nel considerare ogni azione reale come un materiale grezzo, dal quale i singoli elementi caratteristici debbono essere ricavati con la creazione, da essi, di una nuova realtà cinematografica. Quando il regista si trova dinanzi oggetti reali in un ambiente reale, egli pensa solo all’apparire di quegli oggetti sullo schermo: non li considera cioè nella loro vera essenza, ma ne rende solamente quelle particolarità, che dovranno es­ sere riprodotte sullo schermo. Il regista cinematografico considera il suo materiale solo condizionatamente; secondo condizioni assoluta­

15 mente specifiche che non sono altro che le caratteristiche del cinema­ tografo. Nella lavorazione di un film la ripresa deve esser già fatta in vista del montaggio. La forma cinematografica non è mai identica alla realtà ma le è soltanto simile. Quando il regista ha stabilito il contenuto e l’ordine di successione dei singoli elementi (che riunirà poi in un tutto quando non saranno che pezzi di pellicola impressionata), deve mettersi di fronte a essi, prendendone in considerazione il contenuto e la lunghezza, cioè considerandoli come elementi di tempo e di spazio cinematografico. Immaginiamo che dinanzi a noi, sul tavolino, giacciano disordina­ tamente i singoli pezzi di montaggio ripresi per la scena dell’investi­ mento automobilistico. Questi pezzi debbono anzitutto essere riuniti in un’unica lunga striscia di pellicola. Si può disporli in qualsiasi modo; se per esempio noi proviamo a dar loro apposta un ordine privo di senso, per esempio cominciando con l’automobile, poi con le gambe dell’uomo investito a cui facciamo succedere l’uomo che attraversa la strada e infine il viso atterrito dell’autista, il risultato sarà una riu­ nione assurda di vari pezzi, che non potrà dare allo spettatore che un’impressione di caos. Il succedersi dei pezzi avrà un ordine razionale solo quando avranno almeno quella successione che avrebbero nella mente di uno spettatore occasionale, che dirigesse lo sguardo ora su questo ora su quel particolare della scena reale. Solo allora sarà dato ai singoli pezzi un legame che farà risultare la proiezione sullo schermo come una scena organica ed efficace. Non basta però che i pezzi siano riuniti secondo un ordine dato. Ogni azione si svolge non solo nello spazio ma anche nel tempo, e, come il succedersi di pezzi sciolti ha creato uno spazio cinematografico, allo stesso modo, da elementi di tempo reale nasce un nuovo tempo cinematografico. Supponiamo che, nell’unire i pezzi girati per l’incidente, non si sia pensato alla loro rispettiva lunghezza e supponiamo che il montaggio sia stato fatto cosi: 1. 2. 3. 4.

Qualcuno attraversa la strada. Lungo. Il viso dell’autista che frena. Altrettanto lungo. La bocca spalancata dell’investito che urla. Gli altri pezzi tutti della stessa lunghezza.

Una scena che fosse montata in questo modo, per quanto esatta, dal punto di vista spaziale risulterebbe assurda. L’avvenimento stesso

16 scomparirebbe e al suo posto non si vedrebbe che la presentazione di un materiale privo di senso cosi da apparire costituito da riprese occa­ sionali, indipendenti dalla intenzione specifica della creazione di una scena. Quando invece ogni pezzo avrà la giusta lunghezza, quando si sarà ottenuta una rapida e quasi convulsa successione di quadri, quasi nati dal panico rivolger qua e là lo sguardo, da parte di uno spettatore, allora le immagini proiettate sullo schermo vivranno dell’artistica ed efficace vita conferita loro dal regista. Il montaggio è dunque il vero linguaggio del regista. Altrettanto avviene infatti, se ben si riflette, nella lingua parlata o scritta, in cui le parole sono quell’elemento che nel film è il pezzo di pellicola. Una frase è una combinazione di parole. Per giudicare la personalità di un regista cinematografico non si deve far altro che osservare i suoi metodi di montaggio. Quello che per uno scrittore è lo stile, per il regista è il suo modo particolare e individuale di montaggio. L’unione, in successione creativa, dei singoli pezzi di pellicola è decisiva rispetto al risultato finale che è il film; ed è compito del regista quello di creare, con dati elementi (pezzi-di-pellicola-parole), intere scene (frasi).

La ripresa in movimento Il lavoro organizzativo del regista non si limita solo al montaggio. C’è si una serie di tecnici cinematografici che credono che il montaggio sia l’unico centro unificatore del lavoro cinematografico. Essi credono che sia indifferente come e dove siano stati ripresi i singoli pezzi e che solo il montaggio abbia qualche interesse. E che, mediante un montaggio artistico e ben pensato, si possa creare un film con qualsiasi materiale. Naturalmente, se si prende come condizione fondamentale del mon­ taggio quella di esprimere un’idea, anche il materiale deve essere invece, almeno fino ad un certo punto, organizzato. Una serie di riprese casuali di uno stesso luogo e di una stessa città, poniamo Mosca, possono essere tenute insieme in qualche modo dal dato dell’unità di luogo. Una serie di personaggi e di avvenimenti possono essere ripresi, per esempio un mercato o una riunione politica, e riuniti insieme: l’unità spaziale darà un senso a tale unione. Si tratta in questo caso di propor­ zioni. Simili film possono essere paragonati ai giornali, in cui l’enorme

quantità di contenuto (le notizie più disparate) deve essere disposta in colonne, in appendici e rubriche. Il complesso delle notizie sugli avve­ nimenti mondiali nei giornali è organizzato e ordinato. Ma quando quelle stesse notizie debbono servire per un articolo o per un libro, il loro ordine deve essere di un grado superiore. Nella creazione di un film, il lavoro di organizzazione può e deve essere più ampio e più profondo e cioè diretto alla esatta realizzazione di un piano di montaggio strettamente prestabilito. I singoli pezzi de­ vono avere una stretta relazione organica ed essere considerati unica­ mente in vista della futura opera di montaggio. Fino ad ora abbiamo proceduto per esempi, e tra questi alcuni ci hanno messo di fronte ad avvenimenti che si svolgevano dinanzi alla macchina da presa, indipendentemente dalla precisa volontà del regista. La ripresa cinematografica di una dimostrazione, in fin dei conti, non era altro che la ripresa di un fatto reale, non creato dal regista, ma offerto spontaneamente dalla vita. Ma perché una qualsiasi azione presenti una forma suscettibile di montaggio, per riprendere qualche pezzo di realtà non espressamente inscenata dal regista in modo da potersene servire, occorre, in un modo o nell’altro, sottoporre questa azione reale alla propria volontà. Cosi nella ripresa della dimostrazione citata noi dobbiamo, se vogliamo darne una chiara rappresentazione, penetrare con la camera nel bel mezzo della folla, riprendere perso­ naggi scelti come tipici, e cosi cogliere il naturale svolgersi dell’avve­ nimento, per poi renderlo utilizzabile, agli effetti della futura rappre­ sentazione cinematografica. Se prendiamo un esempio un po’ più complesso, vedremo ancora più chiaramente che, per la ripresa di un’azione e per la creazione fil­ mica, noi dobbiamo possederla, cioè dobbiamo avere la possibilità di svolgerla tutta, di ripeterla più di una volta per cogliere, ogni volta, un nuovo particolare, ecc. Supponiamo di voler riprendere la partenza di un aeroplano in modo che i pezzi di pellicola impressionata ci pos­ sano servire poi agli effetti del montaggio; scegliamo, per la rappre­ sentazione cinematografica, i seguenti elementi: 1. Il pilota si siede al posto di guida. 2. La mano del pilota mette in azione il motore. 3. Il meccanico gira l’elica. 4. L’aeroplano si avvicina all’obbiettivo della camera. 5. L’aeroplano si solleva (preso da un altro punto di vista) cosi che lo si veda allontanarsi.

18 Per riprendere, agli effetti del montaggio, un’operazione semplice, come il sollevarsi di un aeroplano dal suolo, bisogna dopo il primo movimento dell’apparecchio smettere e, cambiato rapidamente il piaz­ zamento della macchina, portatala cioè alla coda dell’apparecchio stesso, ripetere due volte la ripresa: la prima di fronte e la seconda da dietro. Per ottenere l’effetto voluto, noi dobbiamo in entrambi i casi o ar­ restare l’azione o ripeterla. Quasi sempre, nella ripresa di un avveni­ mento, che si svolge in un succedersi ininterrotto, noi dobbiamo, per coglierne i particolari, ripetere più volte l’azione. È chiaro dunque che tutto dipende dalla volontà del regista anche nella ripresa di più sem­ plici avvenimenti che in apparenza non hanno niente a che vedere con la regia. Se si rifiuta deliberatamente di aver a che fare con l’indipen­ dente svolgersi di avvenimenti reali, si rende impossibile la creazione del film. Perché una ripresa, che non sia altro che una fotografica im­ pressione sulla pellicola dello svolgersi dell’avvenimento, è tale da escludere ogni possibilità di utile impiego delle riprese stesse; impiego che consiste nell’accentuazione dei momenti essenziali e nell’eliminazione dei superflui.

Organizzazione del materiale da ripresa Passiamo ora ad esaminare una nuova fase del lavoro della regia, e cioè la fase dell’organizzazione del materiale da ripresa. Se anche si tratta solo di riprendere un documentario a carattere, poniamo, indu­ striale (una fabbrica o un grande ufficio), nel quale apparentemente il compito del regista consiste unicamente nell’impressionare la pellicola con una serie di avvenimenti che non richiedono il suo intervento di regista, il suo lavoro non consiste solo nel semplice piazzamento della camera in diversi punti, per la ripresa di uomini e di macchinari. Per ottenere riprese utilizzabili in sede di montaggio, il regista deve scegliere le inquadrature, controllarne l’esecuzione, determinarne la lunghezza. Ma, se passiamo all’esame del film cosiddetto narrativo, la regia e l’organizzazione del materiale diventano naturalmente molto più impor­ tanti e indispensabili. Abbiamo visto che, per riprendere tutti i mo­ menti dell’azione necessari alla rappresentazione dell’infortunio auto­ mobilistico, il regista deve cambiare spesso inquadratura e deve far ripetere più volte i movimenti dell’auto, dell’autista e del pedone. Av­ viene talvolta nel film narrativo che l’azione, che risulta sullo schermo,

19 non è avvenuta affatto nella realtà: essa si è svolta solo nella mente e nell’immaginazione del regista, che si è procurato solo gli elementi necessari per la creazione cinematografica. Per ottenere questo risultato son bastati alcuni pezzi di montaggio. La ripresa di un singolo pezzo di montaggio dipende naturalmente dalle leggi del tempo e dello spazio reali; il lavoro con i singoli elementi del tempo cinematografico e dello spazio cinematografico è direttamente subordinato al futuro montaggio. Per dare allo spettatore un’impres­ sione violenta, il regista, nel montaggio dell’incidente automobilistico, ha dato un ritmo mosso, ottenuto mediante la brevità dei singoli pezzi. Non si può però, col semplice taglio o con l’interruzione della ri­ presa, ottenere il materiale necessario; bisogna tener ben conto del contenuto di ogni singolo pezzo di pellicola. Supponiamo che sia nostro compito riprendere una scena impressionante a ritmo movimentato, e dunque risultante da pezzi di montaggio assai brevi. Se, nella ripresa, le scene e le parti di scena, che si sono svolte dinanzi aU’obbiettivo, sono state girate con lentezza ed inerzia, al momento del montaggio ci si troverà dinanzi ad un ostacolo insormontabile. Si dovevano girare delle brevi scene, ma l’azione contenuta in ogni pezzo di montaggio era così lunga che, per ottenere la necessaria brevità del pezzo, si dovrà eliminarne una parte. Per conservare l’intera ripresa i pezzi sono troppo lunghi. I

Relazione tra le inquadrature

La camera che inquadra una grande parte dell’ambiente, per esempio due persone che parlano, si avvicina, a un tratto, a una di esse e ne mostra un particolare che, per lo sviluppo della scena, e in quel dato momento, è particolarmente importante. Poi la macchina tor­ na indietro e lo spettatore vede il successivo sviluppo della scena di nuovo in campo totale, e cioè vede entrambi i personaggi in campo. Si deve notare che l’impressione di un ininterrotto sviluppo dell’azione sullo spettatore si ottiene solo nel caso che il passaggio dal totale al primo piano (e viceversa) sia fatto sul movimento. Se, per esempio, l’intero dettaglio è una mano che, durante il dialogo, estrae un revolver dalla tasca, la ripresa della scena è sottoposta a questa inevitabile con­ dizione: la prima inquadratura del campo totale termina con un movi­ mento della mano dell’attore che entra nella tasca; nel primo piano,

20 che segue e nel quale è ripresa la sola mano, il movimento già iniziato continua e la mano estrae il revolver dalla tasca; poi viene il campo totale nel quale l’azione continua a svolgersi, mentre la mano già armata di revolver si dirige verso l’altro attore. Una relazione di movimenti tale che l’oggetto della ripresa non esca mai dal campo è condizione assoluta della necessaria chiarezza. I tre pezzi sono se­ parati, ma tecnicamente è piu giusto girare in una sola volta i due campi totali, cominciando dal movimento della mano per finire col gesto di minaccia; il primo piano verrà ripreso a parte. S’intende che il primo piano delle mani dell’attore nell’inquadratura in campo totale è giusto solo quando il movimento delle mani dell’attore coincide esattamente. L’esempio citato è di una straordinaria semplicità. Il movimento delle mani non è affatto complicato e non è dif­ ficile ottenerne una esatta ripetizione. In caso di difficoltà occorre ripren­ dere simultaneamente con più macchine le necessarie inquadrature della stessa scena. I movimenti degli attori possono essere molto complicati. E per ripetere in primo piano Ì movimenti del campo lungo, occorrendo un’assoluta identità di tempo e di spazio, il regista e l’attore devono lavorare con la più grande precisione tecnica.

Nella preparazione del materiale da riprendere, nella costruzione delle scene, nella scelta e nella determinazione di questa o di quella forma di movimento, e, per dirla con una parola, nell’organizzazione del lavoro, il regista ha dei limiti che son dati non solo dal piazzamento della macchina e dal montaggio, ma anche dal particolare campo visivo della camera. Il regista vede la scena che si svolge dinanzi alla macchina da presa non come uno spettatore qualsiasi, ma con l’occhio dell’obbiettivo. Egli vede cioè solo quella parte limitata dall’ambiente che l’obbiettivo della camera può cogliere. Questo campo è limitato da contorni definiti: s’intende che se l’attore, per esempio, fa movimenti troppo ampi, può uscire di campo. Se, in un primo piano, l’attore tiene la testa abbassata e la deve poi sollevare, un errore di soli dieci centimetri può far sì che, in proiezione, risulti poi sullo schermo solo il mento, e tutto il resto rimanga tagliato via, o, come si dice tecnicamente, resti fuori campo. Quest’esempio elementare dimostra chiaramente la necessità di una esatta determinazione di ogni movimento. E, sarebbe superfluo aggiun­ gerlo, questa necessità non è affatto limitata al primo piano: sarebbe

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un errore grossolano quello di riprendere tre quarti di una persona invece dell’intera figura. Uno dei risultati ai quali deve pervenire l’opera del regista è quello di disporre il materiale da riprendere e i suoi movimenti nel rettangolo dello schermo, in modo che ogni cosa ed ogni avvenimento sia chiaro ed efficace e in modo che la parte che è alla destra non guasti ciò che è dall’altra parte e non turbi la chiarezza e l’armonia della composizione.

Organizzazione del materiale « occasionale »

Chiunque abbia un po’ di pratica con la pittura sa come il formato della tela, su cui è dipinto il quadro, ne condizioni la composizione, dato che le figure e gli oggetti del quadro debbono esservi racchiuse. Altrettanto avviene nel film: il regista non pensa nessun movimento, nessuna cosa, nessuna persona oltre il rettangolo di spazio che tecni­ camente si chiama quadro. È da notarsi che il regista non ha sempre la possibilità di ordinare il materiale cosi come dovrà apparire, perché spesso avviene che quanto lo circonda non sottostà docilmente alla sua volontà. Per esempio, la ripresa del mare, di una cascata, di una tempesta, di una valanga, di un’eruzione. Tutte cose che spesso si sono viste nel film legate organicamente alla trama e la cui ripresa dunque ha dovuto essere organizzata come tutto il restante materiale da mon­ taggio. In questi casi, il lavoro del regista è dipendente da una serie di circostanze esterne, perché egli non può dirigere a suo piacere gli elementi naturali, che si svolgono secondo le leggi proprie. E tuttavia il materiale necessario al regista, il materiale utile e suscettibile della rielaborazione del montaggio deve essere organizzato. Quando il regista si trova dinanzi a un caso simile, deve sapersi servire saggiamente dell’occasionalità. Il regista ha la possibilità di cogliere un materiale suscettibile di essere unito in sede di montaggio ad altro, anche se nella realtà i due pezzi si riferiscono ad azioni che si sono svolte in epoche molto distanti; e tanto è possibile per quanto si è detto della capacità che ha il cinematografo di sottrarsi alle leggi dello spazio e del tempo reali. Se per esempio occorre, in un film, vedere un fiume, la rottura di un argine e la conseguente inondazione, si può riprendere il fiume e

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l’argine in autunno e l’inondazione in primavera e ottenere cosi con l’unione dei due pezzi l’effetto voluto. Altrettanto dicasi nel caso che occorra il mare calmo che s’infuria; le due riprese possono aver luogo a mesi di distanza e, sullo schermo, appariranno separate da un giorno o anche solo da poche ore. Nella ripresa di molti film capita spesso di dover fare delle riprese di animali; anche qui esiste una seria difficoltà nell’organizzazione del materiale. Si racconta che un regista americano impiegò sessanta ore di lavoro per far fare a un gatto un salto precisamente quale gli occor­ reva per il suo film. Per il Meccanismo del cervello si doveva riprendere, per esempio, un leone marino. L’animale, spaventato, nuotava rapida­ mente e scompostamente nel bacino. Certamente non ci sarebbe stata nessuna difficoltà a riprenderlo dall’alto e da lontano. Ma il piano di montaggio era:

1. Il leone marino nuota in direzione della riva. (Ripresa dall'alto per poter seguire meglio i movimenti della bestia nell’acqua.) 2. Il leone marino salta verso la spiaggia e si precipita di nuovo in acqua 3. Il leone marino si allontana. Tre volte dovette esser cambiata la posizione della macchina da presa. Una volta si fece la ripresa dall’alto, poi si piazzò la macchina in modo che l’animale, saltando verso la spiaggia, venisse a trovarsi molto vicino aU’obbiettivo, e la terza volta il leone marino fu ripreso mentre si allontanava, per mostrare la rapidità del suo movimento. Nello stesso tempo si combinò il materiale in modo che, sullo schermo, risul­ tasse per lo spettatore l’impressione che le tre riprese separate costituis­ sero un movimento ininterrotto. Alla bestia non si poteva chiedere di nuotare nella direzione voluta, per avvicinarsi alla macchina da presa. Ma la forma del suo movimento era descritta esattamente nel piano di montaggio, connesso alla costruzione dell’intero film. Quando fu ripreso dall’alto, il leone marino nuotò, attratto da un pesce, entro il bacino, finché casualmente venne a trovarsi nel campo della ripresa, come voleva il regista. Per il primo piano, l’esca fu gettata tante volte finché l’animale saltò verso la spiaggia nel punto voluto, e saltò come occorreva. Delle trenta riprese, tre furono scelte e utilizzate in modo da dare, durante la proiezione, l’impressione di un movimento ininter­ rotto. Questo movimento non era stato organizzato in base all’esigenza

23 dell’opera, ma ottenuto con un controllo approssimativo di elementi occasionali e con una rigorosa selezione del materiale ottenuto. Occasionalità è sinonimo di vita reale, non falsificata, non recitata. Il regista ha a che fare con essa per un buon cinquanta per cento del suo lavoro. Organizzazione e giusto ordine costituiscono la legge fon­ damentale del lavoro cinematografico che si attua nel montaggio. Il piano di montaggio esiste prima delle riprese, ma può essere modificato durante la ripresa quando il regista, cui capiti un materiale imprevisto, riesce ad usarlo orientando però sempre il suo lavoro in vista della forma futura che l’intero complesso verrà ad assumere. Per esempio, nella Corazzata Potiomkin, le bellissime scene del­ l’operatore Tissé, riprese nella nebbia, sono state montate e unite organicamente al film per quanto nessuno avesse previsto la nebbia. Non solo non si era prevista la nebbia, ma fino allora la si era consi­ derata come un ostacolo al lavoro. Ma, in entrambi i casi, la ripresa deve essere connessa organicamente al piano di montaggio, e conse­ guentemente rimane in vita l’esigenza di un esatto calcolo del contenuto spaziale e temporale di ogni singolo pezzo.

L'immagine fìlmica Se vogliamo dare forma filmica ad un’azione reale invece di limitarci alla sua fedele riproduzione sulla pellicola, se vogliamo cioè sostituire l’effettivo e ininterrotto svolgersi del fatto con un’integrazione di ele­ menti creativamente selezionati, dobbiamo considerare immediatamente quelle leggi che legano lo spettatore al regista che esegue il montaggio. Quando i pezzi di montaggio sono riuniti in forma disordinata o caotica, il risultato è l’impressione, per lo spettatore, di un pasticcio sen­ za significato. Perché è proprio l’impressione dello spettatore quella che dà la misura del risultato: e cioè che ci dice se si è riusciti o meno a disporre i pezzi nell’ordine necessario. Come si troverà quest’ordine? Per dirla in termini generici, si può sostenere che esso dipende, come ogni creazione artistica, direttamente dall’intuizione dell’autore. Tuttavia conviene tentare di indicare le vie che, per lo meno approssi­ mativamente, determinano la direzione che un simile lavoro deve avere. Ho già avuto occasione di paragonare l’occhio dello spettatore con

24 l’obbiettivo: questo paragone può essere ripreso e sviluppato. Il regista che piazza, per la ripresa, la macchina, determinando le singole inquadra­ ture, e che stabilisce la lunghezza dei singoli pezzi di montaggio, può infatti paragonarsi, come ho già detto, ad uno spettatore che diriga, ora su questo ora su quell’altro momento dell’azione, i suoi sguardi; come uno spettatore, beninteso, non indifferente ma partecipe e com­ mosso. Quanto piu la scena che si svolge sotto i suoi occhi lo com­ muove, tanto più rapida e spezzata la sua attenzione balza da un punto all’altro (vedi l’esempio dell’incidente automobilistico). Quanto più in­ vece l'azione è considerata indifferentemente o flemmaticamente tanto più l’attenzione si rivolge lentamente e ciò corrisponde a un più lungo pezzo di montaggio. L’emozione è dunque indiscutibilmente propor­ zionata al ritmo specifico del montaggio. Griffith usa largamente e sag­ giamente di questo metodo in intere parti dei suoi film. Da qui dipende anche l’altro metodo tipico del regista, quello di sostituire, per cosi dire, al protagonista lo spettatore, e mostrare cosi a quest’ultimo l’azione dal particolare punto di vista del primo. La maggior parte dei sistemi di montaggio attualmente in uso è dipendente da questa relazione tra lo spettatore e la camera. Le stesse leggi, che determinano la necessità dello spostamento dello sguardo, reggono i principi del montaggio. Sarebbe però sbagliato credere che questo paragone esaurisca il problema del montaggio. La creazione della forma cinematografica di­ pende senza dubbio dal montaggio, e può raggiungersi con metodi sempre nuovi: il montaggio è decisamente il culmine massimo del la­ voro creativo del regista. Proprio nel ricercare e nel trovare e mettere rettamente in opera nuovi metodi di utilizzazione del materiale grezzo delle riprese consiste la possibilità di elevare e mantenere la cinema­ tografia al livello delle altre arti. L’arte del film oggi è ancora in fasce. Le similitudini, le analogie, ecc., che hanno una funzione organica nelle altre arti, nel film si vanno appena tentando. A questo proposito citerò il magnifico esempio di un metodo di montaggio indiscutibilmente nuovo, introdotto da Eisenstein nella Corazzata Potiomkin. La quarta parte si chiude con un colpo di cannone, che la corazzata ribelle spara contro il teatro di Odessa. Questo momento è rappresen­ tato da Eisenstein in un modo straordinariamente interessante. Eccone il montaggio.

25 1. Didascalia: E la corazzata ribelle risponde alla brutalità dei carnefici con una cannonata sulla città. 2. La minacciosa torretta con il cannone. 3. Didascalia: Il bersaglio è il teatro di Odessa... 4. Gruppo marmoreo in cima all’edificio del teatro. 5. Didascalia: ... dove risiede lo stato maggiore. 6. Il cannone spara. 7. Due brevissime inquadrature della scultura di Cupido in cima all’edificio. 8. Un’esplosione potente. 9. Tre brevi inquadrature: un leone di pietra che dorme, poi con gli occhi aperti, che balza in piedi. 10. Nuova esplosione che coglie il bersaglio: il portone è abbattuto.

Si tratta di una costruzione di montaggio, che difficilmente può essere resa con la parola, ma che suscita un’enorme impressione sullo schermo. Qui il regista ha messo in atto un mezzo molto audace: un’im­ magine, certamente efficace e tale che fino a ieri non si sarebbe creduta possibile se non nella letteratura, è stata portata sullo schermo e ciò rappresenta un risultato molto significativo. È interessante osservare che tutti gli elementi caratteristici e propri specificamente della forma filmica sono riuniti in questo pezzo. La co­ razzata è ripresa a Odessa, i leoni in Crimea e il portone a Mosca. I diversi elementi sono ripresi in diversi spazi reali e raggruppati per la creazione di un unico spazio cinematografico. Con diversi leoni im­ mobili si è creato il movimento, tutto irreale, di un leone di pietra che balza in piedi. Contemporaneamente si è creato, con questo movimento irreale e cinematografico, un tempo, anch’esso irreale e cinematografico, dipen­ dente dal movimento stesso. La corazzata ribelle è puntualizzata e sim­ boleggiata dal solo cannone, mentre lo stato maggiore è simboleggiato dal gruppo marmoreo che è in cima all’edificio. La rappresentazione della lotta tuttavia non perde, anzi guadagna, in chiarezza ed efficacia. Naturalmente, l’esempio addotto costituisce un tipo di montaggio, in cui il succedersi dei pezzi non è stato determinato dall’identifica­ zione, accennata di sopra, tra la macchina da presa e un immaginario spettatore. Questo è un esempio eccezionale di un metodo; che indi­ scutibilmente è pregnante di molti sviluppi in avvenire. Qui il film da quel naturalismo, che in certo senso e fino a un certo punto gli è caratteristico, passa ad una libera e simbolica rappresentazione, del tutto priva di aspirazioni ad una elementare verosimiglianza.

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La tecnica della regia

Come particolarità caratteristica della regia cinematografica abbiamo già indicato il piazzamento della camera e il suo dirigersi, quanto più è possibile, in profondità per cogliere gli elementi tipici dell’azione, 1’avvicinarsi quanto più è possibile all’oggetto osservato, il cogliere quanto può percepire soltanto uno sguardo assai acuto, e l’eliminare tutto il generico e tutto il superficiale. Non meno caratteristico del film è l’immenso campo degli avvenimenti che può abbracciare. Si può quasi affermare che il film si sforza in certo qual modo di portare lo spettatore fuori dell’ambito più ristretto degli altri, per dargli una visione più ampia e più precisa. Da un canto, il film acuisce, dunque, l’attenzione, concentrandola su alcuni particolari; dall’altro la allarga, potendo mostrare contemporaneamente azioni che si svolgano in Ame­ rica o a Mosca. Un materiale molto ricco risulta da questa doppia operazione di slargamento e di restringimento del campo di osserva­ zione. Il regista dovrà dunque organizzare e rielaborare con ogni cura, secondo un piano preciso e preordinato, un gran numero di immagini, adempiendo compiti diversi preventivamente stabiliti. Per esempio: anche in un film mediocre, il numero dei personaggi è raramente infe­ riore a una dozzina, e ciascuno di essi, anche se vi compare brevissi­ mamente, deve essere e agire conseguentemente a tutto il film. L’agire di questi personaggi secondari deve dunque essere predisposto e pen­ sato con precisione e cura, come se fosse un’azione particolare di uno dei protagonisti del film. Un film è davvero importante quando ogni sua parte costituisce, in­ sieme con le altre, un tutto inscindibile: cosa che si ottiene solo me­ diante un’accurata elaborazione di tutti i singoli elementi. Se si pensa che in un film di circa 1.200 metri ci sono all’ingrosso 500 inquadrature, si comprende che esse costituiscono 500 problemi particolari che il regista deve risolvere. Se si tien conto del fatto che il periodo di lavo­ razione di un film, per un complesso di necessità contingenti, è limitato ad un tempo massimo prestabilito, si capisce l’enorme sovraccarico cui è soggetto il regista. E quindi il suo lavoro va suddiviso in una serie ordinata e successiva di operazioni singole, tutte collegate e di­ pendenti le une dalle altre. Anche a considerare solo superficialmente

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le fasi principali di questo lavoro, si ha un quadro impressionante: 1 ) il soggetto e la sua elaborazione; 2) elaborazione del piano di mon­ taggio; 3) scelta degli attori; 4) costruzione delle scene e scelta degli esterni; 5) direzione e ripresa dei singoli gruppi di scene in cui il film è suddiviso, secondo il piano di lavorazione; 6) sviluppo e stampa del materiale; 7) montaggio. Il regista, come unico centro organizzatore della creazione del film dal principio fino alla fine, deve intervenire in tutti i lavori suddetti. Se si ha un insuccesso, anche in uno solo di essi, tutto il film ne sof­ frirà, e ne sarà responsabile il regista, sia che si tratti di una cattiva scelta degli attori, sia di un soggetto slegato o di una stampa imper­ fetta. È quindi naturale che il regista sia l’organizzatore principale del gruppo di collaboratori che tende al fine comune indicato dal regista. Il lavoro collettivo nel cinema non è una semplice concessione fatta al modo di vita del collettivismo, ma una necessità che scaturisce dalle caratteristiche fondamentali dell’arte filmica. I registi americani sono assistiti nel loro lavoro da un intero esercito di collaboratori, di cui ciascuno ha una funzione delimitata e precisa. Esaminiamo ora le singole fasi del lavoro di regia per chiarire sempre meglio il carattere di quest’attività.

Il regista e la sceneggiatura La lavorazione di un film si svolge in questo modo: ricevuto il soggetto, il regista lo rielabora sceneggiandolo, e cioè ricrea il materiale offertogli dall’autore a seconda della sua personalità artistica. Egli tra­ duce cioè l’opera del soggettista nel suo linguaggio, nel linguaggio cine­ matografico, che è la lingua delle singole immagini, dei singoli elementi, dei singoli pezzi di montaggio che si succedono rispettivamente secondo un ordine prestabilito. Se si paragona un film con il suo soggetto è possibile distinguere il tema, l’elaborazione della materia ed infine la forma cinematografica del soggetto realizzata dall’opera del regista. S’intende che questi tre momenti debbono essere immediatamente connessi. Tuttavia fino a un certo punto domina il lavoro deD’autore, e in seguito quello del re­ gista. Non c’è nessuna forma artistica in cui sia pensabile un taglio netto tra due tappe di lavoro. Non si può prendere il compito di con­ tinuare il lavoro di un altro, senza essergli stato legato fin dal principio. Ci sono due possibilità nelle relazioni tra il regista e il soggettista: o il regista collabora fin da principio alla creazione del soggetto, oppure, qualora ciò non gli sia possibile, egli deve rielaborare a fondo il sog­ getto, eliminare il superfluo, e modificarne radicalmente interi pezzi e magari anche tutta la costruzione. Il regista ha il compito di presentare una serie di immagini (parole) plasticamente espressive. L’arte del regi­ sta sta tutta nella capacità di trovare queste immagini, nella capacità di creare chiare ed efficaci sequenze (brani) dall’unione di singole scene, di unire queste frasi in periodi e brani altrettanto chiari ed efficaci, e di comporre con essi il film. Non sempre il soggettista è in grado, specialmente se non ha una testa che pensa cinematograficamente (nel qual caso egli è già, fino a un certo punto, regista), di dare un materiale « girabile », General­

29 mente l’autore non dà che l’indirizzo, il pensiero, il contenuto dell’azio­ ne e non la sua forma concreta. È facile esprimere pensieri tali che per il regista essi rimangano astratti' e non suscettibili di concretizzarsi in forma. Il tema stesso deve essere posto, scelto e deciso in collaborazione con il regista. Il soggetto presenta un certo numero di situazioni dei protagonisti, le loro relazioni e i loro conflitti. Tutto ciò ha una sua forma, ma il soggettista, che proviene nella maggior parte dei casi dalla letteratura, difficilmente sa creare una forma plastica e visiva. Sin dalla prima scelta del soggetto debbono essere definite le scene fondamentali, che hanno importanza per la formazione definitiva del film. E passa in seconda linea perfino la caratteristica del protagonista se essa non è vista in gesti, movimenti o situazioni visivamente im­ portanti.

L’ambiente

Ogni azione di qualsiasi soggetto si svolge necessariamente in un ambiente che, per cosi dire, dà il determinato colorito generale del film. Quest’ambiente può essere, per esempio, un particolare modo di vivere. E, procedendo oltre nel particolareggiare, l’ambiente può esser anche una singola caratteristica e peculiarità. Quest’ambiente, questo sfondo generale del film, non può e non deve essere rappresentato mediante una scena che lo spieghi, o me­ diante una didascalia: esso deve impregnare di sé tutto il film o, per lo meno, tutta una sua parte, dal principio alla fine. Tutta l’azione deve essere immersa nell’ambiente. Una serie di buoni film recenti ha mo­ strato che questa concezione dell’ambiente, che viene a fare, per cosi dire, da sfondo all’azione, è una caratteristica tipica dell’arte cinema­ tografica. Un film come Tol’able David di Henry King lo mostra chia­ ramente. È interessante notare il fatto che la creazione di questo co­ lore ambientale, che ha una sua efficacia, di potenza quasi indicibile, obbliga a completare il film con una serie di particolari scelti con fi­ nezza e precisione. Sarà naturalmente inconcepibile pretendere dal soggettista che trovi e determini, nel soggetto, tutti i particolari necessari. Il meglio che possa fare il soggettista è di limitarsi a trovare l’opportuna formulazione del

30 soggetto, mentre il compito del regista sarà quello di intendere ap­ pieno la formulazione data e di sottoporla alla necessaria elaborazione formale e plastica. Da parte del soggettista, espressioni di questo genere: « Nella stanza c’era un insopportabile odore di chiuso », oppure « nell’aria greve e fosca risonavano le sirene di numerose fabbriche » non sono affatto da escludere perché servono legittimamente da ponte di passaggio tra il pensiero del soggettista e la futura rielaborazione plastica del regista. Si può affermare fin da ora, in modo assoluto, che uno dei compiti del regista è la creazione in forma cinematografica dell’ambiente che circonda i personaggi. I primi tentativi in questo senso furono fatti dagli americani, credo, quando presero ad iniziare i film con delle vedute di paesaggio a inten­ zione simbolica. Tol’ able David è un film che s’inizia con la visione di un villaggio ripreso attraverso un ciliegio in fiore. TI mare, spumeg­ giante e tempestoso, simboleggia il leit motiv del film Male and Female di De Mille. Un esempio meraviglioso, che senza dubbio rappresenta una con­ quista culminante in questo campo, sono i quadri di alba nebbiosa che sorge sul cadavere del marinaio ucciso nel Potiomkin. La descrizione dell’ambiente è, indubbiamente, uno dei momenti più importanti della creazione del soggetto, e questo lavoro naturalmente non può essere compiuto senza l’immediata partecipazione del regista. Anche il paesaggio deve esser connesso con la linea anteriore allo sviluppo dell’azione; e a questo proposito ripeterò, ancora una volta, che il film, nel suo lavoro, deve essere straordinariamente sobrio e preciso: niente può esserci in un film di superfluo. E perciò non c’è uno sfondo indifferente, ma ogni cosa deve essere diretta all’unico fine di risolvere cinematograficamente l’assunto. Ogni azione, infatti, finché si svolge nel mondo reale, è sempre determinata da condizioni generali, e cioè a dire dal carattere dell’am­ biente. Le scene si svolgono sia di giorno che di notte: e, ancora oggi, le riprese notturne sono un problema interessante per il regista. Griffith è riuscito ad ottenere, nel film America, un’alba con effetti di luce e di ombra delicati e meravigliosi. Per questo genere di lavori ogni regista ha a sua disposizione un enorme materiale. Come ho già detto, il film è interessante, perché non solo nuò concentrare i particolari, ma perché può dare unità, coi materiali più largamente scelti. Prendiamo, ad escm-

31 pio, lo stesso problema dell’alba. Per ottenere l’effetto voluto il regista può valersi non solo del sorgere del sole, ma anche dei numerosi avve­ nimenti caratteristici che, agli occhi dello spettatore, ne evocano l’im­ magine. La luce dei fanali trascolorante sul cielo che si rischiara, le masse scure degli edifìci appena illuminati, le cime degli alberi appena accarezzate dal primo sole, il risvegliarsi degli uccelli, il canto del gallo, la nebbia, la rugiada... tutto ciò può essere utilizzato dal regi­ sta e armonizzato poi, mediante il montaggio, in un tutto organico. In un film è impiegato un metodo interessante per rappresentare l’alba: per dare il senso della luce che si sveglia e si estende progressi­ vamente, i singoli pezzi di montaggio si susseguono l’un l’altro in modo che, al principio, quando è ancora buio, sullo schermo si vedono solo alcuni particolari. In un primo tempo, la camera ha ripreso soltanto primi piani, come se essa, similmente all’occhio dell’uomo, nell’oscurità circostante, non vedesse che gli oggetti piu vicini. Col crescere della luce, la macchina da presa si allontana sempre piu dall’oggetto della sua inquadratura. Dal primo piano, emergente nell’oscurità, il regista è pas­ sato progressivamente ad un campo lungo, come se egli volesse mo­ strare direttamente il progressivo crescere e diffondersi della luce, che si diffondeva sempre piu ampiamente su tutte le cose. È interessante notare che qui è stata utilizzata una possibilità pu­ ramente tecnica, e assolutamente particolare del film, per la rappresen­ tazione di una sensazione molto sottile. È chiaro che l’opera, diretta alla soluzione di problemi simili, è colle­ gata altrettanto strettamente alla conoscenza della tecnica cinematogra­ fica quanto al puro processo della regia, all’analisi, alla scelta, al mon­ taggio creativo del materiale e che, quindi, tali problemi non possono essere risolti dal solo soggettista. Siccome è assolutamente necessario esprimere l’ambiente spirituale coi mezzi tecnici del film, la collabora­ zione del regista col soggettista è assolutamente indispensabile.

Uambiente e i personaggi Tengo a ricordare che in quasi tutti i film di uno dei piu vigorosi registi cinematografici, D. W. Griffith, specie in quelli in cui ha rag­ giunto la massima forza espressiva, l’azione dei personaggi è direttamente fusa col mondo circostante.

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Il tempestoso finale dei film di Griffith è costruito in modo che l’agitazione tumultuosa dei protagonisti si ripercuota, con efficacia pro­ gressiva, sullo spettatore, fino a raggiungere livelli insospettabili. L’ef­ fetto vi è spesso raggiunto grazie all’introduzione di elementi naturali come vento, tempesta, ghiacci che si spezzano, fiumi che straripano, precipitare di cascate. Quando Lillian Gish in Agonia sui ghiacci di Griffith fugge dispe­ rata dalla casa, e Barthelmess si precipita a inseguirla per restituirla alla vita, questo inseguimento della donna disperata da parte dell’uomo innamorato si svolge, su di un ritmo velocissimo, durante una spaven­ tevole tempesta di neve. Il finale è dato da una scena, in cui Griffith costringe lo spettatore a partecipare alla tragedia, e precisamente da quella in cui un blocco di ghiaccio, sul quale è raggomitolata una donna, si avvicina al precipizio di un’enorme cascata, simile a un abisso dispe­ rato. La progressione è significativa: dapprima la tempesta di neve, poi lo schiumeggiante fiume, pieno di blocchi di ghiaccio, ancor piu impressionanti della stessa tempesta, infine la paurosa cascata, terribile come la stessa morte. Questa successione riproduce, su di una scala più ampia, ogni grado della disperazione crescente, che tende verso la morte, dalla quale i protagonisti sono presi irresistibilmente. La consonante ar­ monizzazione della tempesta della passione umana e della furia degli elementi è una delle più forti creazioni del geniale regista americano. Quest’esempio mostra con singolare chiarezza quanto ampiamente e profondamente il contenuto del soggetto debba essere legato alla regia cosi che l’opera risultante ne abbia interezza e unità. Il regista non si limita a dare forma e movimento alle scene create dal soggettista, ma deve invece aver compreso il soggetto nel suo valore unitario, deve aver­ ne sentito ogni scena come una parte necessaria e insostituibile della costruzione unitaria; e ciò può accadere solo se egli ha collaborato organicamente alla creazione del soggetto stesso.

Perché, soltanto quando il soggetto presentato nel suo schema ge­ nerale è svolto nelle singole scene, si giunge finalmente al momento del più duro lavoro sul soggetto stesso, quello in cui è prevista ogni forma dell’immagine che deve poi tradursi in risultato; il momento in cui si stabilisce cioè il piano del montaggio, e in cui si determinano le singole sequenze c le singole inquadrature, la cui somma costituirà il film.

33 Se, in un primo momento, si è potuto parlare del soggettista come dell’individuo che dava l’indirizzo al lavoro, mentre il regista doveva solo badare ad accogliere in sé organicamente l’altrui lavoro, portandolo alla consonanza col suo proprio io, a questo punto le cose cambiano radicalmente. La direzione esclusiva del lavoro è ora nelle mani del regista agguerrito dalle conoscenze tecniche e dal suo specifico talento, che gli permettono di trovare immagini limpide ed esatte, che rappre­ sentino, quanto piu chiaramente è possibile, figurativamente le intenzioni dell’autore. Il regista organizza ogni singola scena; egli la analizza, dissolven­ dola nei suoi elementi e, al tempo stesso, pensa e crea le possibilità di riorganizzare unitariamente, mediante il montaggio, questi singoli ele­ menti. Il suo compito è quello di badare alla formazione di ogni dato in sé, non perdendo mai di vista l’idea fondamentale che in esso deve esprimersi. Solo una stretta collaborazione tra il soggettista e il regista dà pra­ ticamente la possibilità di creazioni artistiche valide. È ovvio che, ideal­ mente parlando, il soggettista e il regista dovrebbero essere una sola persona. Altrove però ho già detto della vastità e complessità della crea­ zione cinematografica che, a parer mio, non possono essere dominate da una sola persona. La creazione del film è dunque inevitabilmente collettiva, e i col­ laboratori debbono essere completamente fusi.

Creazione del ritmo filmico

Il complesso lavoro del montaggio non si esaurisce nel ritrova­ mento delle singole scene, momenti e cose che debbono essere ripresi, ma consiste anche nella precisazione dell’ordine secondo cui questi pezzi dovranno essere mostrati. Ho già detto che, nello stabilire questa successione, non si deve aver dinanzi agli occhi solo il contenuto plastico, ma anche la lun­ ghezza di ciascun pezzo di montaggio, si deve cioè tenere in conside­ razione il ritmo, secondo il quale le immagini debbono essere riunite. Mediante questo ritmo il regista è in grado, tanto di commuovere ed esaltare, quanto di placare lo spettatore. Un errore nel ritmo può

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annullare l’effetto della scena, cosi come un ritmo ben trovato può accrescerne di molto l’efficacia, anche se essa non aveva in sé niente di particolare come materiale visivo. L’elaborazione ritmica del soggetto non si limita a mettere insieme le singole scene con l’unione di vari pezzi. Si deve tener presente che il film si compone di inquadrature, la cui somma costituisce le scene, le scene si sommano in episodi, gli episodi in atti e gli atti nel film completo. Ovunque c’è un taglio e un attacco, ovunque le singole parti, siano esse particolari pezzi di pellicola o sequenze dell’azione, sono riunite, costà soprattutto deve esser preso in considerazione l’elemento ritmo; e non perché ritmo sia una parola di moda, ma perché il ritmo, creato dalla sicura volontà del regista, può, e deve, essere un sicuro e potente strumento di efficacia. Ricordiamo, per esempio, come affaticava e spegneva l’emozione il ritmo confuso e ininterrottamente agitato del grande film di Kuliesciov 11 raggio della morte e, all’altro canto, come era invece abil­ mente distribuita la materia di Tol’able David, dove l’alternarsi di ten­ sione e calma metteva pienamente in grado lo spettatore di apprezzarne il bel finale. L’elaborazione del soggetto riguardo al montaggio, e cioè non solo la considerazione del contenuto plastico di ogni singola parte del film, ma anche il succedersi ritmico di esse e la loro lunghezza, la determi­ nazione di questa progressione, che già si riferisce alla forma definitiva che l’immagine assumerà proiettata sullo schermo, è l’ultima fase del lavoro del regista al soggetto. A questo punto entrano in ballo nuovi fattori, e precisamente l’uo­ mo concreto e l’oggetto nel loro ambiente e movimento.

Il regista e l’attore Due generi di produzione Per quanto si riferisce alla recitazione, i film possono, all’ingrosso, dividersi in due generi. Nel primo gruppo sono compresi quei film che si basano sulla interpretazione di un attore, o star, come dicono in America. Il soggetto di tali film è scritto appositamente per l’attore, e tutta l’opera del regista si risolve nel presentare allo spettatore, in nuovi ambienti e con nuovi comprimari, quanto più e quanto piu gradevol­ mente è possibile la ben nota figura dell’idolo del pubblico. In questo modo si producono i film di Charlie Chaplin, Douglas Fairbanks, Mary Pickford e Harold Lloyd. Al secondo gruppo appartengono quei film alla cui base è un’idea definita, i cui soggetti non sono stati scritti per un attore, ma i cui attori sono stati scelti appositamente per la realizzazione di un dato soggetto. Cosi lavora David Griffith. È da notare, in proposito, che Griffith ha, spesso e per parecchi film, rifiutato attori celebri come Mary Pickford, Mae Marsh e altri: tutta una schiera di eroi e di eroine che egli, dopo averli impiegati per uno o due film, ha passato in mano d’altri registi. Quando un film è fatto per dire qualche cosa, per esprimere un mondo o un’idea definita, e non unicamente per far sfoggio di virtuo­ sismo tecnico o per mostrare al pubblico un viso attraente, le relazioni tra l’attore e il materiale cinematografico vengono ad assumere un ca­ rattere specifico, tutto proprio di questa arte.

Attore e tipo cinematografico

Per raggiungere lo scopo di assumere l’aspetto e l’espressione vo­ luta, l’attore di teatro ha a sua disposizione la truccatura che modifica

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il suo viso secondo la sua volontà. Se egli deve interpretare la parte di un atleta si fascera i bicipiti di enormi muscoli di ovatta; e se, per esempio, egli deve interpretare la parte di Sansone, sulla scena si co­ struiranno colonne di cartapesta che egli poi, nel corso dell’azione, farà agevolmente precipitare.

Simili scenografie e simili truccature del viso e del corpo sono, nel film, impensabili e assurde. Un uomo truccato, messo a recitare in un ambiente reale, tra veri alberi, acqua e sassi è cosa altrettanto assurda quanto potrebbe esserlo un cavallo verq in una scena di cartapesta. La creatività del film non si esercita sulla realtà: esso non domina la materia ma solo lo spazio e il tempo. Non si tratta dunque di creare artificialmente il tipo richiesto dalla parte, ma di trovarlo. Perfino nei film cosiddetti d’interpretazione, nei film a protagonista, fatti per un divo o per una diva, questa esigenza e questa ricerca sopravvivono per le seconde e le terze parti. Questo lavoro di ricerca, questa scelta di persone, il cui aspetto e la cui espressione corrisponda alle esigenze della sceneggiatura, costituisce uno dei compiti piu ardui del regista. Nel film non c’è da interpretare una parte; c’è solo il fatto di pos­ sedere o no un complesso di requisiti e di qualità reali che costituiscano un aspetto esteriore ed un’espressione capaci di suscitare nello spetta­ tore una data impressione. Si comprende quindi facilmente che spesso venga impiegato nei film un passante qualsiasi, che non aveva nessuna intenzione né aveva mai pensato di far l’attore; questo avviene quando quel passante è un tipo espressivo, le cui caratteristiche corrispondono alle particolari esigenze del regista.

Allo scopo di chiarire sempre meglio la fondamentale necessità di scegliere, per la creazione di un film, persone che abbiano nella realtà requisiti voluti dal tipo di personaggio pensato, mi servirò, ancora una volta, di un esempio. Supponiamo che, per il nostro film, ci occorra un vecchio. In teatro, la cosa sarebbe semplicissima: un attore, relativamente giovane, po­ trebbe dipingersi sul viso delle rughe e apparire allo spettatore come un vecchio. Una cosa simile sarebbe assurda in un film. Perché? Perché una vera ruga è una incavatura, una piega su di un viso, e quando un vecchio realmente rugoso volta la testa, la luce giuoca con le sue rughe, che non sono righe nere, ma un’ombra che si muove ed ha una sua vita specifica, data e dal movimento e dalla sua posizione

37 rispetto alla luce. Ma se su di un viso liscio noi facciamo una riga nera, sullo schermo essa apparirà, quando il viso è in movimento, né più né meno che un segno nero e niente affatto una ruga. E, naturalmente, ciò tanto più avverrà, quanto più la ripresa sarà eseguita da vicino, e specialmente dunque nei primi piani. Un trucco simile, ed altri dello stesso genere, sono invece possibili nel teatro, perché i palcoscenici sono illuminati in modo costante e

senza ombre. Da quest’esempio si capisce quanto, e fino a qual punto, debba esser simile, almeno nell’aspetto esteriore, l’interprete prescelto al tipo descritto nel soggetto. In sostanza si può dire che, nella maggior parte dei casi, nel film l’attore interpreta sé stesso e che l’opera del regista non consiste nel forzarlo ad assumere espressioni che egli non ha, ma nel cogliere, quanto più vivamente ed espressivamente è possibile, i suoi aspetti reali e caratteristici.

La direzione dell’attore

Poste queste leggi per la ricerca del materiale umano, che dovrà comparire sullo schermo, resta naturalmente esclusa la possibilità di gruppi fissi sul tipo delle compagnie teatrali. Il regista è costretto a lavorare con un materiale umano sempre nuovo, e, il più delle volte, del tutto inesperto. Inoltre il lavoro degli individui, che debbono esser ripresi, è strettamente connesso e sotto­ posto a tutta una serie di condizioni particolari del film. Ho già detto che tutti i pezzi di montaggio debbono essere orga­ nizzati con esattezza nel tempo e nello spazio in modo che il regista possa agevolmente, unendoli, conferir loro l’aspetto di un tutto uni­ tario. Perciò il lavoro dell’attore cinematografico (la sua recitazione) deve esser considerato con la più gran cura, come ogni altro oggetto di ripresa. Giova ricordare il processo, che abbiamo già esposto in precedenza, di far risultare ogni scena e ogni azione, mediante la composizione di diversi pezzi di pellicola. Per lavorare con esattezza, occorre anzitutto ripetere più volte, e quindi sapere come ottenere da sé stessi, certi movimenti, certi gesti e certe espressioni, imparare ad ottenerli e ricordarli con precisione. Perché il lavoro dell’attore cine­ matografico non comporta quella ininterrotta continuità che è propria

38 dell’attore teatrale. La recitazione dell’attore cinematogralìco risulta dalla composizione di centinaia di pezzi separati, disarticolati dal tutto, perché le esigenze della lavorazione cinematografica vogliono che si giri in un ordine che non è quello dell’azione narrata nel soggetto; spesso l’attore comincia il suo lavoro con delle scene che sono addirit­ tura il finale del film, e quindi egli è privo della coscienza della con­ tinuità ininterrotta dell’azione. La sua recitazione va dunque concepita come dipendente dal montaggio. Quello che l’attore fa dinanzi all’obbiettivo non è, per il regista, che materiale grezzo. Un attore, che si lasci ispirare da una scena, non riuscirà mai da solo a dare alla sua opera limiti tali che essa ne risulti un frammento della lunghezza e del contenuto quali saranno poi necessari al mon­ taggio. Questo caso può verificarsi solo se l’attore ha una conoscenza piena e assoluta del processo creativo del film cosi come il regista. C’è una tendenza che sostiene che la recitazione dell’attore cine matografico deve essere prestabilita dal regista fin nei minimi parti­ colari, fino al più piccolo movimento di un dito, delle ciglia, delle sopracciglia: tutto deve essere vagliato dal regista e fatto eseguire. Ma questa è un’esagerazione che sbocca in un vano meccanicismo. E tut­ tavia ciò non vuol dire che ogni libera interpretazione dell’attore possa essere utilizzata. È interessante ricordare a questo punto che un regista come Griifith, che pure si distingue per un suo caratteristico psicologismo, crea plasticamente i suoi attori. Nell’opera di Griffith è frequente un tipo femminile tutto particolare, che è pateticamente indifeso ed eroico a un tempo. È molto interessante vedere, nei suoi film, diverse donne esprimere lo stesso stato emotivo con gli stessi mezzi esteriori. Ricor diamo come piange Mae Marsh nel tribunale di Intolerance, come singhiozza la protagonista di America accanto al fratello morente, c come singhiozza Lillian Gish nelle Due orfanelle quando racconta di sua sorella. Sono gli stessi movimenti del viso, lo stesso impulso al pianto e lo stesso debole e tremulo sforzo di sorridere tra le lacrime. L’analogia dei mezzi impiegati da diversi attori americani che hanno lavorato sotto il controllo di uno stesso regista, per conseguire simili effetti emotivi, dimostra chiaramente l’importanza del regista agli effetti della costruzione della recitazione degli attori.

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L'affiatamento In teatro esiste il concetto di affiatamento, con cui si designa la consonanza generale del complesso lavoro dei diversi attori che collaborano all’interpretazione di un testo. L’affiatamento deve senza dubbio esistere anche nel film; ma per esso vale quello che si è detto circa la recitazione del singolo, e cioè che si consegue e si compone in unità mediante il montaggio. Sta di fatto che l’attore cinematografico non ha la possibilità di sentire da sé stesso questo affiatamento. Capita, infatti, e molto spesso, che l’attore non veda neppure l’azione del suo partner che magari si svolge nella stessa scena e in rapporto a lui: e ciò avviene ogni qualvolta il regista ha la necessità, in vista del mon­ taggio, di girare separatamente le azioni dei due attori. L’affiatamento dunque, cioè la relazione tra le recitazioni dei vari attori, dipende unicamente dal regista. £ il regista che immagina il film nel suo montaggio finale ed è quindi lui il solo che può sentire le esigenze singole del tutto e che deve preordinarne l’adempimento. II problema dei limiti che deve avere l’influenza del regista sull’opera degli attori è un problema tuttora aperto. Non c’è dubbio che un’esatta e passiva obbedienza allo schema dato dal regista non può essere la soluzione buona. Né lo è, d’altro canto, la libera interpretazione del­ l’attore, in conformità, sia pure, ai suggerimenti generici datigli dal regista. Metodo, quest’ultimo, che è in uso presso molti registi sovietici. Fin da ora è tuttavia chiaro che la recitazione di un attore risulta solo quando i diversi pezzi girati sono già stati uniti nell’insieme orga­ nico del montaggio; e che l’opera dell’attore, nei singoli pezzi di mon­ taggio, deve essere strettamente legata alla rappresentazione della futura unità. Se questa esigenza è continuamente presente all’attore consapevole, egli può lavorare liberamente; in caso contrario sono soltanto le tas­ sative indicazioni del regista, creatore del futuro montaggio, che pos­ sono sanamente determinare l’opera degli attori. Difficoltà eccezionali incontra in genere il regista quando lavora con un materiale umano occasionale. Ma questo materiale occasionale è, come ho già detto, inevitabile in quasi tutti i film. E, d’altro canto, esso è di un interesse eccezionale. La durata di un film è di circa un’ora e mezza; e in quell’ora e mezza passano spesso dinanzi agli occhi dello spettatore dozzine di

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personaggi diversi che egli deve ricordare, riconoscere, e che costi­ tuiscono l’ambiente del protagonista. È chiaro dunque che essi debbono essere scelti con cura particolarissima. Spesso tutta l’efficacia e tutto il valore di un film dipendono esclusivamente dai personaggi secondari, che costituiscono il contorno umano del protagonista. Lo spettatore li vede solo per sei o sette secondi ed è quindi ovvia la necessità che essi gli facciano una forte e netta impressione. Si pensi, ad esempio, al gruppo di manigoldi di Tol’able David, oppure ai due vecchi in The isle of the lost ships di Maurice Tourneur. Ogni volto rimane impresso fermamente e vivamente nella memoria di tutti, come se si trattasse di personaggi descritti da un narratore geniale. Trovare dei personaggi tali, che lo spettatore, dopo sei o sette secondi che li vede, possa dire « quello è un farabutto! » oppure « quel tipo è un buon diavolo! » oppure « è un pazzo! »: questo è uno dei compiti più importanti del regista, nella scelta del suo materiale umano.

Il movimento espressivo

Quando il regista ha scelto i suoi interpreti e dà inizio alle riprese sorge per lui un nuovo problema: l’attore deve muoversi dinanzi all’obbiettivo, e i suoi movimenti debbono essere espressivi. Il concetto di movimento espressivo non è cosi semplice come può sembrare a prima vista. Anzitutto il movimento espressivo non è identico a quello cui l’uomo è assuefatto quando agisce in un mondo reale. Nella realtà, l’uomo ha a sua disposizione, come mezzo espressivo, non solo il gesto ma anche la parola. Talvolta la parola rafforza il gesto talvolta il gesto la parola. Cosa questa che sussiste nel teatro e che costituisce uno dei principali motivi per cui un attore, che abbia un’esperienza teatrale, si trova in difficoltà nel lavoro cinematografico. Nel film Kollezski reghistrator [Registratore di collegio] *, Moskvin — un attore dotato senza dubbio di eccezionali possibilità cinematogra­ fiche — riesce, coi movimenti della bocca e con una chiara mimica, a rendere il ritmo di parole che non dice. Ma una mimica che accom­ pagni parole inesistenti è una cosa inammissibile nel film. Questi mo1 Di Geliabuzski e Moskvin; realizzato nel 1925 dal Postiglione di Pusckin (n.d.r.).

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vimenti, perduta ogni relazione colle parole, che Io spettatore non sente, diventano un plastico farfugliare privo di senso. Il regista deve con­ durre la recitazione in modo che il punto culminante dell’azione sia di carattere mimico e non discorsivo. In una scena patetica, Moskvin parla molto e accompagna automaticamente ogni parola con uno stesso gesto della mano, del tutto simile a quello che farebbe un uomo avvezzo a parlare di affari. Ebbene, durante la ripresa, la scena di Moskvin ottenne, in forza della parola che tutti sentivano, un effetto vivissimo, ma, sullo schermo, il risultato fu penoso e qualche volta addirittura ridicolo. L’idea che l’attore cinematografico debba esprimere, con gesti, ciò che nella vita esprime con parole, è del tutto errata. Nella crea­ zione del film, il regista e l’attore usano solo quei momenti nei quali la parola è superflua, quando lo sviluppo sostanziale dell’azione è muto, quando la parola può accompagnare il gesto, ma non determinarlo.

Oggetti espressivi Gli oggetti inanimati hanno nel film un’importanza enorme. Perché un oggetto in sé è già una cosa piena di significato, la cui vista provoca nello spettatore una serie di associazioni di idee. Una rivoltella è una minaccia silenziosa, un’automobile, che corra a preci­ pizio, è una promessa di salvezza o di intervento favorevole e tem­ pestivo. La recitazione di un attore, connessa ad un oggetto e determinata da esso, è uno dei mezzi piu potenti della creazione cinematografica; ne risulta una specie di muto monologo, per cosi dire, che può dar chiara espressione alle sfumature dei sentimenti interiori piu sottili; cosa che i gesti e la mimica non giungeranno mai ad ottenere. Nella Corazzata Potiomkin protagonista del film è la nave stessa: protagonista efficacissima. Gli uomini sembrano quasi fame parte come singoli pezzi, e formano un tutto unico con la nave. Alla sparatoria sulla folla non rispondono i singoli marinai, ma la corazzata stessa, che vive e respira con cento bocche. E quando, nel finale, la nave si lancia a tutto vapore contro la flotta, le colossali macchine d’acciaio, lavorando furiosamente, si può dire incarnino in sé stesse il cuore dell’equipaggio che pulsa furiosamente nella tensione dell’attesa.

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Jl regista crea l’affiatamento

Il concetto di affiatamento è, per il regista, vastissimo, e, oltre che alle persone, si riferisce alle cose: nella forma finale del film la recitazione dell’attore è legata immediatamente ad altre cose, alla creazione delle quali egli non ha collaborato e di cui, tutt’al più, può avere una qualche cognizione. Solamente il regista le può conoscere e valutare nella loro interezza. Dunque il regista considera l’attore alla stessa stregua di tutti gli altri materiali grezzi, occorrentigli per la creazione del film e che egli deve sottoporre ad una speciale elaborazione. Per mezzo del montaggio il regista crea non solamente intere scene, che nella realtà non si son mai recitate, ma perfino, a volte, un attore nuovo. Quante volte non succede di vedere in un film un personaggio che resta per noi indimen­ ticabile, per quanto ne abbiamo visto solo la testa e, separatamente, le mani? In un film sperimentale, Kuliesciov tentò la creazione di una donna che cammina mediante il montaggio di riprese singole di piedi, mani, occhi e testa di donne diverse. Il risultato del suo montaggio fu quello voluto: sullo schermo si vedeva un’unica donna che camminava. Naturalmente quest’esempio non è stato citato qui per proporre un metodo particolare, e cioè quello della creazione, mediante il mon­ taggio, di personaggi che non esistano nella realtà; ma esso vuol ser­ vire solo ad accentuare e sottolineare l’affermazione che la recitazione, e lo stesso aspetto esteriore degli attori, non son dati dai singoli mo­ menti del loro lavoro, ma solo dalla relazione definitiva che fa di quei singoli un tutto.

L'attore e il quadro

Ho già detto della necessità di un’attenta considerazione del ret­ tangolo dello schermo, che deve contenere ogni movimento ripreso. Il movimento dell’attore, nello spazio reale e tridimensionale, serve al regista solamente come materiale per la selezione degli elementi adatti alla creazione del futuro quadro bidimensionale che, proiettato, com­ parirà poi sullo schermo. Il regista non vede mai gli attori e le attrici

43 come uomini e donne reali: egli ne prevede e immagina solo il futuro aspetto filmico, e sceglie gli elementi necessari, facendo muovere questi uomini e queste donne reali e variando i piazzamenti della macchina da presa. Non c’è in tutta la lavorazione di un film un solo istante in cui il regista si trovi dinanzi degli esseri viventi, ma solo parziali componenti del futuro film.

Ciò tuttavia non rende affatto necessaria, da parte degli attori, una forma di passivo e meccanico automatismo. L’attore può essere natu­ rale quanto vuole e non è affatto necessario che egli interrompa la naturale continuità dei suoi movimenti; ma il regista, che sorveglia la macchina da presa, si limiterà a scegliere e a riprendere, dell’azione dell’attore, solo quelle parti che egli ritiene necessarie. Quando Griffith, nella scena del tribunale, riprese le mani di Mae Marsh, è probabile che l’attrice piangesse realmente, presa dalla commozione della scena che interpretava; ma, nella sua interpretazione, il regista ha creduto giustamente opportuno riprendere solo le mani.

L’attore e la luce

Devo ora trattare di un elemento che è tipico per il lavoro del regista: l’illuminazione. Elemento importantissimo perché, senza la luce, non esisterebbero sullo schermo né gli oggetti né i personaggi. Il regista, quando stabilisce la disposizione delle luci nel teatro di posa, crea letteralmente la forma di tutto ciò che apparirà poi sullo schermo. Perché la luce è, si tenga ben presente, l’unico elemento che agisca sulla striscia di celluloide che si deve impressionare, e solo diverse disposi­ zioni- e gradazioni di luce determinano l’esistenza e la forma di quello che poi vedrà lo spettatore. La luce non serve soltanto a creare la forma, ma addirittura a ren­ dere visibili o invisibili gli oggetti. Un attore non illuminato in modo da risultare semplicemente visibile è un semplice oggetto, indifferenziato e indefinito. La luce deve essere alterata e diretta in modo tale da far entrare l’attore come componente organico nell’opera intera. La luce può eliminare alcune cose, può sottolinearne altre, può mo­ dificare l’aspetto. La luce non è dunque uno strumento necessario a fissare la recitazione autonoma dell’attore, ma è un elemento importan­

44 tissimo della recitazione stessa. Si veda, per esempio, la faccia del prete illuminata dal basso, nel Potiomkin. L’opera dell’attore, nella creazione della propria immagine cine­ matografica, è determinata da un assai intricato complesso di elementi tecnici, che sono le condizioni propriamente specifiche del film. L’esatta conoscenza di esse è propria del regista, e l’attore può essere creativa­ mente partecipe solo quando ne sia cosciente e abbia organicamente collaborato col regista e col soggettista alla preparazione del film. E così siamo arrivati alla conclusione della necessità, per la creazione del film, di un complesso organico di collaboratori.

Il regista e l’operatore L’operatore e la macchina da presa Quando si sono scelti gli attori e si sono create le scene, si dà mano alla ripresa. Qui viene in ballo a collaborate un nuovo personaggio, armato di macchina da presa: l’operatore. E ora il regista si trova dinanzi ad un nuovo problema da risolvere: tra il materiale scelto e preparato e la futura opera compiuta sta la macchina da presa e l’uomo che la manovra. Tutto quello che si è detto fino a ora, circa la composizione del­ l’azione e circa la funzione della luce, viene ora a doversi applicare in conformità delle possibilità tecniche della ripresa. E la camera viene cosi ad avere la sua parte nella creazione del film. Importantissimo anzitutto è l’angolo di ripresa. Lo sguardo umano normale può abbracciare, dello spazio che lo circonda, poco meno di 180°, il che vuol dire che l’uomo può vedere quasi la metà del proprio oriz­ zonte. Il campo dell’obbiettivo è molto piu piccolo; il suo angolo visivo è di circa 45° e questo è uno dei primissimi elementi per cui il regista si allontana dalla normale visione dello spazio reale. Questa partico­ larità dell’obbiettivo fa si che esso non colga nella sua interezza il campo visivo, ma solamente una parte e questa è la cosiddetta inqua­ dratura. Per mezzo di numerosi accessori speciali della macchina da presa, questo campo e questa inquadratura possono esser variamente impiccioliti e i contorni del quadro possono essere alterati mediante le cosiddette mascherine. E, non solo si può limitare il campo della camera in larghezza e lunghezza, ma anche, in virtu delle particolarità tecniche dell’obbiettivo, in profondità. Un attore che sia ripreso molto da vicino, non solo deve badare a non uscire dai limiti dell’inquadratura ma deve anche stare attento a non avvicinarsi e a non allontanarsi troppo dall’obbiettivo per non andar fuori fuoco ai danni della chiarezza dell’immagine.

46 La camera ha una serie di particolarità tecniche che, lungi dal limi­ tare il campo di attività del regista, lo ampliano enormemente. Si pensi, in molti film di Griffith, a certe fotografie dolci e piene di lirismo che sembrano riprese attraverso un velo. Si tratta di un ritrovato tecnico che senza dubbio rafforza l’efficacia delle scene riprese e che consiste nel cosiddetto velatino o nell’uso di lenti speciali. Si pensi alla straordinaria e potente scena del Potiomkin, quando il ferito vede i gradini della scalinata balzargli incontro. Questo risultato efficacissimo si è ottenuto muovendo rapidamente dal basso all’alto la macchina da presa. L’operatore dispone di possibilità che lo mettono in condizione di attuare in pieno la concezione del regista. Il campo di queste sue pos­ sibilità è infinito.

La macchina da presa e l'angolazione Quando la macchina da presa è piazzata, il regista non deve orien­ tarsi unicamente verso l’immagine futura che egli ha concepito durante l’elaborazione del soggetto e durante la scelta degli attori e le prove; egli non deve limitarsi a vedere e a immaginare soltanto questo. Guar­ dando nel mirino applicato alla camera, egli vedrà, in scala ridotta, il quadro quale esso apparirà sullo schermo. Il soggetto è scritto e i suoi compiti sono chiaramente formulati: il momento della ripresa di quella scena, il cui ritmo e il cui contenuto sono stati determinati, è stabilito, gli attori sono stati scelti, tutta la preparazione è stata fatta: ora non resta che fissare tutto quel materiale sulla pellicola. La camera inquadra la scena dal punto di vista da cui la vedrà lo spettatore; punto di vista che può variare in mille modi. Ma il piazza­ mento della macchina da presa e l’inquadratura non debbono esser mai scelti a casaccio. Essi sono invece connessi a tutto il contenuto del film e vanno scelti per creare l’effetto voluto. Prendiamo un esempio semplicissimo. Noi vogliamo riprendere, dunque, una sigaretta appoggiata all’orlo del tavolino. Si può piazzare la camera in modo che l’obbiettivo sia rivolto direttamente verso di essa; il risultato della nostra ripresa non sarà una sigaretta, ma la linea di profilo del tavolino con sopra un piccolo disco bruno, l’apertura, colma di tabacco, della sigaretta stessa che nessuno potrà riconoscere per tale.

41 Per mettere lo spettatore in grado di vedere una sigaretta, anche l’obbiettivo della camera dovrà vederla; e cioè il piazzamento della camera dovrà essere fatto in modo da renderne la forma nel modo piu vitale e più chiaro. Se si vuole riprendere una sigaretta rotta, l’operatore dovrà piaz­ zare la camera in modo che si veda chiaramente lo squarcio e il tabacco che ne fuoriesce. L’esempio della sigaretta è, evidentemente, molto elementare: serve solo a dimostrare l’importanza della scelta accurata di un buon angolo di ripresa. Questo lavoro costituisce una delle pagine più importanti dell’attività del regista e dell’operatore. Avrei potuto agevolmente presentare un esempio più complicato. Al regista non compete solamente la necessità della rappresentazione formale di un singolo oggetto; ma, anzitutto, quella della definizione della sua posizione nell’ambiente e delle sue relazioni con gli altri og­ getti. Allora le cose si fanno molto più complicate. Nella ripresa, l’operatore può allontanarsi molto dalla scena, am­ pliare il campo della ripresa e comprendervi, a esempio, anche una parte del pavimento, oppure può inquadrare un orologio a muro, ma molto dal basso, in modo che ne risulti prospettivamente chiara la posi­ zione. Se si tien conto che le complicazioni di questo genere sono infinite, si comprende bene quanto sia grande l’importanza dell’angolazione. Ri­ prendere una locomotiva vuol dire: scegliere un punto di vista tale che la locomotiva appaia nel modo più chiaro e più evidente. Una buona angolazione condiziona l’espressività e l’efficacia del­ l'immagine futura. Tutto quello che si è detto fino ad ora si riferisce particolarmente alla ripresa di oggetti immobili, che cioè non alterano la loro posizione rispetto alla camera.

La ripresa del movimento Il lavoro della ripresa diventa ancor più complicato quando si tratta di riprendere il movimento di persone o di oggetti. Un oggetto non ha infatti soltanto una forma, ma questa forma si altera, nella riprodu­ zione, in funzione del suo movimento; e, infine, anche il movimento ha una sua forma che è, a sua volta, oggetto della ripresa.

48 L’esigenza fondamentale rimane questa: che la camera sia piazzata e diretta in modo tale, da riprendere tutto quello che succede, nel modo piu evidente e piu chiaro. Perché una parata militare, ripresa dall’alto, provoca un effetto cosi forte? Perché è dall’alto che risulta meglio la massa e il movimento regolare delle truppe. Perché l’impressione di un treno in corsa o di una gara automobilistica è piu forte quando il veicolo è preso al suo apparire in lontananza e si avvicina alla camera e le passa accanto? Perché nel crescere prospettico di volume dell’og­ getto, la sua velocità si raffigura nel modo piu evidente. Se si tratta di riprendere una automobile e il conducente che vi è dentro e che dorme, l’operatore farà una ripresa da vicino e dal basso. Ma se si vorrà riprendere la corsa dell’auto attraverso il traffico delle strade, l’operatore riprenderà la scena dal terzo piano di una casa per coglier meglio la forma e l’essenza di quel movimento. La scelta dell’angolazione può dare l’impressione voluta in diversi modi. La ripresa di una locomotiva, che si dirige verso l’obbiettivo, rende esattamente la gigantesca mole della macchina. Nella Corazzata Potiomkin le bocche dei cannoni sono dirette minacciosamente contro lo spettatore. Nel film The virgin of Stambul di Tod Browning l’operatore ha ripreso il galoppo dei cavalli in modo che l’alternarsi degli zoccoli avvenga, per così dire, sulla testa dello spettatore e che l’impressione della velocità della corsa ne sia cosi enormemente potenziata. Qui il lavoro dell’operatore non si limita ad essere la semplice impressione sulla pellicola di una scena preparata dal regista. La qualità di un film non dipende unicamente da quello che si ri­ prende, ma dal come lo si riprende. Questo come deve essere stabilito dal regista e realizzato dall’operatore.

La camera costringe lo spettatore a vedere come vuole il regista Con la scelta dell’angolo visuale della camera, il regista e l’operatore guidano l’occhio dello spettatore. Il punto di vista della camera è rara­ mente quello dello spettatore comune. La forza del regista sta essen­ zialmente nel fatto che egli è in grado di costringere lo spettatore a guardare non come egli è abituato a vedere, ma in maniera del tutto diversa. La camera, che si mette in movimento, si comporta in modo e maniera tutta sua particolare. Essa si mette, per cosi dire, in una

49 relazione particolare con l’oggetto della ripresa; ora, come mossa da un subito interesse, gli va vicino e ne scopre i particolari, ora lo con­ templa nella sua interezza. Spesso si mette al posto del protagonista per guardare con gli occhi di lui, spesso partecipa al movimento del­ l’oggetto stesso e lo segue. Nel film The leather pushers di Harry Pol­ lard la camera vede, d’un tratto, con gli occhi del pugile colpito, che, rovesciato dal pugno, ha l’impressione del roteargli intorno di tutto il pubblico. La macchina da presa sente come lo spettatore e questa è una delle caratteristiche più interessanti del lavoro cinematografico. Si può dire che l’uomo percepisce il mondo che lo circonda differentemente, a se­ conda dei propri stati d’animo. Molti tentativi del regista cinematogra­ fico sono diretti all’invenimento di metodi di ripresa tali da rendere la condizione emotiva e da rafforzare cosi l’efficacia della scena. Griffith ha fatto l’esperimento di riprendere una scena tragica come attraverso una leggera nebbia, volendo far intendere cosi che lo spet­ tatore la vedeva attraverso un velo di lacrime. In Stacka (Sciopero) di Eisenstein c’è una scena interessante: al­ cuni operai, che vanno a fare una gita fuori della città. Dinanzi al gruppo c’è un suonatore di fisarmonica. Poi il primo piano della fisar­ monica inizia e chiude una serie di riprese, nella quale gli operai che passeggiano sono ripresi da diversi, e spesso lontani, punti di vista. Ma la fisarmonica rimane in ogni fotogramma vanamente e appena vi­ sibile. La campagna e i gruppi degli operai si vedono attraverso di essa. Qui il problema espressivo è stato risolto con un mezzo tecnico particolare. Il regista voleva raccordare la rappresentazione della pas­ seggiata, che egli faceva svolgere nei dintorni della città, col ritmo carat­ teristico della fisarmonica. E l’effetto voluto l’ha raggiunto, perché l’operatore ha saputo trovare una forma concreta, capace di rendere l’idea del regista. Per la ripresa di questa scena, la fisarmonica ha dovuto essere avvolta di un panno nero, ed è stato necessario calcolare esatta­ mente il tempo di esposizione delle riprese della campagna e della fisar­ monica stessa. E sono stati necessari calcoli implicanti una perfetta conoscenza della tecnica della ripresa e delle sue possibilità. L’idea del regista riesce ad incarnarsi concretamente nel film quando la conoscenza tecnica e la fantasia creatrice si fondono, cioè quando l’operatore è inserito organicamente nel collettivo e partecipa dal prin­ cipio alla fine alla creazione del film.

50 Elaborazione formale del quadro II piazzamento della macchina è una parte di quell’operazione par­ ticolare che consiste soprattutto nella scelta di un giusto punto di ripresa. Per le riprese di esterni il regista e l’operatore hanno anzitutto scelto il luogo nel quale dovrà svolgersi la scena. E una tale scelta, come tutto il film, non può assolutamente essere occasionale. La natura non deve mai servire da sfondo alla scena, ma deve appartenere orga­ nicamente alla totalità e rappresentare una parte del suo contenuto. Ogni sfondo, che sia fine a sé stesso, deroga dalle leggi fondamentali del film Se il regista, in una data scena, ha bisogno solo di far vedere l’attore, qualunque sfondo distrae una parte dell’attenzione dello spet­ tatore dall’azione e viene cosi ad annullarne il risultato. Quando il quadro debba rappresentare qualche cos’altro, oltre l’azione, questo qualche cos’altro deve essere ripreso insieme all’azione stessa. In Agonia fra i ghiacci Griffith ci mostra il giovane Barthelmess coi piedi affondati fino alle ginocchia nell’erba alta e circondato di mar­ gherite tremule e piegate dal vento. In questo caso, la natura non è servita al regista come uno sfondo qualsiasi, ma gli è servita invece a rafforzare, secondo il senso voluto, la scena. L’opera del regista, intesa a dare un significato alla scena che ri­ prende, l’invenimento di una relazione organica tra la recitazione e l’ambiente, è ineliminabile e tanto importante, che la ricerca di esterni adatti alla ripresa costituisce uno dei compiti piu gravi del lavoro pre­ paratorio del regista e dell’operatore. Uno dei primissimi compiti del regista è quello di prestabilire la durata delle riprese, e cioè la lunghezza dei pezzi di pellicola, proporzio­ natamente all’importanza della scena. Ogni quadro è l’inizio di un mo­ vimento, che deve svolgersi fino ad un punto dato; il tempo necessario a questo svolgimento deve, dunque, esser calcolato con esattezza.

Nel caso che questo movimento sia prolungato o accorciato, il pezzo di pellicola ne viene ad aver la lunghezza proporzionalmente alterata.

Tutto ciò che è occasionale e non organizzato, tutto ciò che non è subordinato al piano prestabilito del montaggio avrà per conseguenza una mancanza di chiarezza e di purezza nella definitiva precisazione, in sede di montaggio, della scena. La scena, proiettata sullo schermo, ot­

51 tiene l’effetto previsto, solo se è montata bene e se se n’è saputo trovare il giusto ritmo; ma questo ritmo dipende dalle corrispondenti lun­ ghezze dei pezzi, le quali, a loro volta, dipendono organicamente dal loro contenuto. Perciò il regista deve costringere il materiale di ripresa entro una stretta cornice temporale. Prendiamo, ad esempio, la scena seguente: l’attore siede su di una seggiola nell’attesa ansiosa di un suo possibile arresto. Egli sente che qualcuno si avvicina alla porta; vede come il campanello della porta comincia a muoversi. Allora egli prende lentamente il revolver che aveva nascosto tra la seggiola e la spalliera; la porta comincia ad aprirsi; rapidamente egli punta il revolver, ma, invece di un poliziotto, entra un ragazzo con in braccio dei cagnolini. Il montaggio è stato condotto in questo modo. L’attore seduto sulla seggiola si drizza perché ha sentito un rumore. Il suo sguardo ansioso. Dettaglio. Il campanello della porta si muove. Dettaglio grande. La mano dell’attore che a tentoni raggiunge il revolver 5. La porta che s’apre lentamente. 6. Dalla porta entra un bambino con dei cagnolini in braccio.

1. 2. 3. 4.

Gli elementi della scena, nella quale l’attenzione dello spettatore si rivolge ora all’uomo, ora alla porta, sf concentrano poi sul campanello, sulla mano dell’attore, sul revolver, si svolgono sullo schermo e costi­ tuiscono un’unica scena ininterrotta. Naturalmente, per la creazione del brusco passaggio, tra la lentezza dell’ansia crescente e l’inatteso e im­ provviso sollievo, il regista deve trovare un ritmo adatto. Ogni elemento della scena deve esser ripreso singolarmente e la durata dell’azione, durante la ripresa, deve essere calcolata con la più grande cura. Ma non basta stabilire limiti di tempo. Entro questi limiti di tempo, l’attore deve espletare una serie di movimenti, la sua azione, ed ogni pezzo di pellicola deve esser colmo di un chiaro ed espressivo contenuto plastico. Se la recitazione dell’attore è lasciata al caso, per quanto si riferisce allo spazio, può derivarne un movimento superfluo dell'attore e quindi un prolungamento dei limiti di tempo previsti dal regista. Questo spostamento, alterando la lunghezza dei pezzi di mon­ taggio, turberà tutto il ritmo costruttivo della scena. Come si vede, non basta dunque costruire il tempo dell’azione, ma anche la forma del movimento. Il contenuto plastico dell’opera dell’at-

tore in ogni scena deve essere stabilito accuratamente dal regista se egli vuole ottenere un dato risultato nella forma definitiva della scena, che dovrà provocare, proiettata sullo schermo, un determinato effetto sullo spettatore, svolgendosi, non più secondo la realtà, ma secondo una nuova realtà fìlmica. L’adeguatezza dei limiti spaziali e temporali dell’azione costituisce un’esigenza assoluta, mediante la cui predisposizione il regista può ot­ tenere risultati chiari e significativi.

Il regista e l’operatore debbono mettere la stessa cura, non solo nella costruzione delle scene, ma anche nella scelta degli esterni della ripresa, dai quali risulterà, sullo schermo, l’ambiente. Quando si tratta di ri­ prendere un fiume o un bosco sembra a taluno basti scegliere un bel fiume o un bel bosco. Ma effettivamente il regista non cerca mai un fiume o un bosco, egli cerca sempre il quadro che gli è necessario. E questi quadri, corrispondenti all’esigenza della scena, possono essere costituiti da dodici fiumi che, montati opportunamente, costituiscano un tutto or­ ganico. Il regista non riprende la natura, ma solo se ne serve per la futura composizione del montaggio. I compiti di questa composizione possono essere talmente rigidi, che spesso il regista e l’operatore si vedono costretti a deformare e a ricreare un pezzo di natura, per otte­ nere le forme che son loro necessarie. Eliminare dei rami che stonano, abbattere un albero e trapiantarlo là dove esso possa occorrere, riempire un fiume di ghiaccio, tutto questo è caratteristico dell’opera del regista, che si serve di ogni mezzo per la creazione della forma cinematografica estratta dalle forme della natura.

L’uso della natura come materiale grezzo raggiunge il suo massimo grado nelle costruzioni in teatro, dove con vera terra, vere pietre, veri alberi, vera sabbia e vera acqua si crea esattamente quella forma di cui il regista ha bisogno. La scelta dell’angolazione, il piazzamento della macchina, che tecni­ camente si chiamano « scelta del quadro », sono complicati ancora da un’altra esigenza. Quella della luce. Perché, infine, è proprio la luce quella che crea la forma, che apparirà sullo schermo. Solo quando un oggetto è illuminato nella maniera voluta e con la voluta intensità, può dirsi pronto per la ripresa. La proiezione della pellicola sullo schermo non è che una combinazione di macchie chiare e di macchie scure. Sullo schermo, di tutta la realtà non restano che luci di diversa intensità.

53 Quindi il senso della qualità e dell’intensità della luce, il computo della relazione diretta tra l’oggetto e la sua rappresentazione futura è strettamente connesso alla tecnica dell’operatore.

Stampa e sviluppo Tutto quello che si è detto circa la necessità di una stretta relazione di tutti i collaboratori di un film vale naturalmente anche per l’operatore. Oltre che al regista, che trasforma in materiale cinematografico tutti gli avvenimenti della realtà, l’operatore è legato a tutti gli altri collaboratori di questo lavoro collettivo che è la creazione del film: col soggettista e con gli attori. Dal canto suo, egli serve da intermediario tra il regista e i tecnici dello sviluppo e della stampa, che eseguono le fasi di lavoro immedia­ tamente successive a quella della ripresa. Dopo lo sviluppo del negativo e la stampa del positivo, il regista ha finalmente, in forma pura, il materiale cinematografico col quale com­ piere la sua opera. Come tutte le altre fasi della lavorazione, anche questa non è determinata da semplici e meccaniche applicazioni proto­ collari, date dalle leggi chimiche. Anche questo è un lavoro, che deve essere sottoposto alle esigenze espressive del soggettista e del regista. Il crepuscolo, nel film di Griffith America, non sarebbe risultato tale senza sapienti operazioni di stampa e di sviluppo. Solo quando siamo finalmente in possesso di tutti i pezzi necessari alla creazione (pezzi di pellicola positiva), soltanto allora finisce la col­ laborazione tra i diversi elementi cooperanti alla creazione del film. Collaborazione, che è necessaria per la creazione di un’opera reale, completa e significativa. Il regista allora congiunge i singoli pezzi in un tutto. Ha inizio allora quel lavoro creativo ed essenziale, del quale s’è già discorso al­ l’inizio del presente testo.

Il collettivismo è la base del lavoro cinematografico

Il mio scritto sul regista ha incluso tutti coloro che collaborano alla creazione del film; e non potrebbe essere diversamente. La produzione cinematografica ha tutte le caratteristiche di una impresa industriale:

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l’ingegnere, per esempio, non può produrre senza capimastri e operai, e il suo lavoro rimarrebbe senza risultati soddisfacenti, se ciascuno dei suoi collaboratori si limitasse ad una stretta esecuzione dei compiti assegnatigli. Il collettivismo è quel fenomeno per cui ogni parte, anche minima, del lavoro vivente è organizzata nell’ambito del compito co­ mune. Una particolarità della produzione cinematografica è che, quanto più piccolo è il numero delle persone che partecipano direttamente e organicamente alla produzione, quanto più sconnesso è il loro lavoro, tanto peggiore ne è il risultato, cioè il film.

La sceneggiatura cinematografica

Premessa I soggetti che abitualmente vengono presentati alle case di produ­ zione cinematografica hanno un carattere tipico. Quasi tutti rappre­ sentano la primitiva esposizione di un qualsiasi contenuto di invenzione» mediante la quale gli autori si sono preoccupati solo di raccontare qual­ che azione, servendosi, per lo più, dì mezzi letterari e senza domandarsi e senza chiedersi se il materiale che offrono possa essere interessante agli effetti della realizzazione cinematografica. Eppure questa domanda è molto importante. Ogni arte possiede una sua maniera particolare ed esclusiva di ela­ borazione della materia prima; e questo avviene, naturalmente, anche per il cinema. Lavorare a un soggetto, senza conoscere i procedimenti adoperati dai registi, i procedimenti della ripresa e del montaggio del film, è una cosa altrettanto priva di senso quanto quella di dare a un francese una poesia russa in una traduzione letterale: mentre è chiaro che, per dare al francese l’esatta impressione della poesia russa, la si deve elaborare nella traduzione, in base alla conoscenza delle proprietà della metrica francese. Per creare un soggetto adatto alla realizzazione, bisogna conoscere i metodi mediante i quali si riesce, col film, a ottenere la voluta impressione sullo spettatore. Si suole sostenere che il soggettista debba dare solo il primitivo e semplice schema generale delazione del film; e che il lavoro complessivo della realizzazione cinematografica sia compito esclusivo del regista. Ma quest’idea è del tutto errata. In nessun’arte, infatti, se ben si riflette, si può suddividere la creazione in stadi singoli e reciprocamente indi­ pendenti. Quando si elabora un soggetto, naturalmente, la forma defi­ nitiva del film appare solo con contorni indefiniti. Ma anche lo schema più generale, che prevede future rielaborazioni, contiene, di fatto, ac­ cenni a particolari e dettagli.

58 Da ciò risulta chiaro che, se anche il soggettista si astiene dall’indicare con precisione che cosa e come riprendere, che cosa e come mon­ tare, tuttavia la conoscenza e la considerazione delle possibilità e delle particolarità della regia gli consentono di dare un materiale che può essere adoperato dal regista e che mette il regista in condizione di ricavarne un film cinematograficamente espressivo. Compito del nostro studio è quello di offrire un’elementare espo­ sizione dei metodi fondamentali per la creazione del soggetto, in rela­ zione ai principi basilari dell’opera del regista. Un soggetto cinematografico può essere trattato come un dramma teatrale e sarà, in tal caso, sottoposto alle leggi che regolano la creazione teatrale: oppure può avvicinarsi al romanzo e, in tal caso, sarà determi­ nato da altre leggi costruttive. Problemi questi che, nella presente trattazione, possono essere solo accennati, per cui il lettore che se ne interessi particolarmente deve rivolgersi ad opere speciali.

La sceneggiatura Che cos’è la sceneggiatura

È universalmente noto che il film consta di un’intera serie di pezzi di pellicola, più o meno corti, che sono uniti tra loro secondo un deter­ minato ordine. Nello sviluppo dell’azione cinematografica, lo spettatore è trasportato da un luogo a un altro, e, per di più, una stessa scena, una situazione o un interprete possono essergli mostrati non solo nella loro interezza, ma nei loro particolari, dato che l’apparecchio da ri­ presa può cogliere singole parti della scena o del corpo umano. Questo metodo di creazione del film, che scinde la materia nei suoi elementi per poi costruire un tutto cinematografico, si chiama mon­ taggio. Nella realizzazione del soggetto, il regista non è in condizione di seguire passo passo il succedersi delle scene, di riprenderle cioè suc­ cessivamente e ordinatamente dalla prima fino all’ultima. E questo per un motivo assai semplice: in ogni soggetto infatti avviene generalmente che le scene, che si svolgono in un ambiente, siano intercalate da altre che hanno luogo in ambienti diversi Ora. costruita una scena, se al regista saltasse in mente, dopo la ripresa della prima azione, di passare alla ripresa di quelle successive che si svolgono in altro ambiente, dovrebbe farle costruire tutte senza smontare la precedente, e dovrebbe cioè disporre di una straordinaria quantità di scene e quindi di uno spazio immenso e di un’ingente quantità di materiale. S’ dovrebbe fare una serie di costruzioni sceniche, senza aver mai la possibilità di smon­ tarle se non a film completamente girato. Lavorare in questo modo è naturalmente impossibile. Né il regista né gli interpreti hanno dunque, praticamente, la possibilità di lavorare secondo l’ordine deH’azinne La mancanza di questa possibilità può pregiudicare l’unità di stile della realizzazione e quindi comprometterne l’efficacia. Allo scopo di salvare quest’unità, è stato quindi necessario

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elaborare un metodo che, nonostante l’atomismo delle singole scene, salvasse l’unitaria forma del tutto. In tal senso è anzitutto importante elaborare in precedenza il sog­ getto in ogni suo particolare, poiché il regista consegue buoni risultati solo se ha sempre dinanzi agli occhi il definitivo risultato visivo e cine­ matografico di ogni particolare. È questo lavoro preparatorio quello che crea lo stile, cioè l’elemento che condiziona il valore di qualsiasi opera d’arte. Le diverse posizioni della macchina da presa (campo lungo, primo piano, dal basso, ecc.), tutti i mezzi tecnici che legano un pezzo al successivo e ai seguenti, tutto ciò che costituisce il valore intrinseco di una scena deve essere stabilito con esattezza, perché, in caso con­ trario, si incorrerebbe in errori che sarebbe poi impossibile eliminare. Perciò la sceneggiatura (cioè la forma tecnica del soggetto) non è che la definitiva precisazione di ogni particolare, con la descrizione di tutti i mezzi tecnici necessari alla ripresa. Certamente, chiedere ai soggettisti di scrivere in questo modo si­ gnifica chieder loro di diventare registi; e tuttavia il lavoro dei sogget­ tisti in questo senso è necessario, perché, se essi non daranno al regista una sceneggiatura di ferro, già pronta per la ripresa, gli offriranno comunque un materiale che si avvicinerà alla forma ideale, gli daranno una serie di spunti, che potranno essere utilizzati. Quanto più un sog­ getto sarà stato, fin dall’inizio, elaborato circostanziatamente da un punto di vista tecnico, tanto maggiori saranno le possibilità, per l’autore, di vedere sullo schermo le proprie immagini, quali egli le ha concepite.

Costruzione della sceneggiatura Se tentiamo di suddividere, nelle sue fasi, il lavoro di creazione della sceneggiatura cinematografica, nel passaggio dal generale al parti­ colare, otteniamo il seguente schema:

a) tema, b) soggetto (azione), c) elaborazione cinematografica del soggetto. Un tale schema, naturalmente, si può ricavare solo da una sceneg­ giatura pensata e compiuta. Il processo creativo può anche attuarsi in

61 un ordine diverso, e singole scene possono presentarsi come convenienti, durante la lavorazione, e quindi essere inserite nella storia. Ma la forma definitiva e ideale della sceneggiatura elaborata compiutamente com­ prende tutti e tre i suddetti momenti nel loro succedersi.

Si pensi che il film, per la sua particolare natura (il rapido susse­ guirsi di pezzi collegati tra loro da un nesso logico), esige dal pubblico una straordinaria attenzione. Il regista e, conseguentemente, anche lo sceneggiatore dirigono dove vogliono l’attenzione dello spettatore: e quest’ultimo vede quindi solo ciò che gli mostra il regista. Non vi è luogo né tempo per una riflessione critica o per un qualche dubbio. Perciò anche il piu piccolo errore ai danni della chiarezza e dell’evidenza, nella costruzione narrativa, genera un vuoto e un senso sgradevole di scompiglio. Ricordando tutto ciò, ci si deve sempre sforzare di conse­ guire la piu grande semplicità ed evidenza nella soluzione di ogni pro­ blema, in qualunque momento si presenti.

Per una conveniente trattazione del nostro assunto, esamineremo separatamente i singoli punti dello schema dato, cosi da poter definire le esigenze specifiche che il film pone nella scelta e nell’impiego dei diversi materiali e dei diversi procedimenti.

Il tema Tema è un concetto che va oltre l’arte. Giacché ogni pensiero umano può esser assunto come tema; e il film, come ogni altra arte, non può stabilire limiti alla propria scelta di un tema; di esso si può solo discu­ tere l’efficacia e la maggiore o minore rispondenza allo scopo. Il problc ma, però, dell’opportunità sociale della scelta di un tema esula dal presente saggio. Si possono solo citare certe esigenze che condizionano la scelta del tema, allo stato attuale della giovane arte del film; si pos­ sono cioè indicare alcuni limiti provvisori, senza attribuire a essi la durevolezza e l’inflessibilità di vere leggi assolute.

Per molto tempo ci fu, nella cinematografia, una tendenza (che sus­ siste in parte ancor oggi) a scegliere temi che abbracciassero un campo straordinariamente esteso, sia nello spazio che nel tempo. Citiamo, per esempio, il film americano Intolerance. Il suo tema può essere formulato cosi: « In tutti i tempi e presso

62 tutti i popoli, dalle lontanissime epoche fino ai nostri giorni, è regnata tra gli uomini l’intolleranza, e l’intolleranza ha come conseguenza im­ mediata il delitto ». È questo un tema di enorme ampiezza, e il solo fatto che si estenda « a tutti i tempi e a tutti i popoli » implica, come conseguenza logica, una quantità di materiale non circoscrivibile. Il risultato della sua realizzazione cinematografica è caratteristico. Nel film tutto il materiale è stato suddiviso in dodici atti e l’elaborazione è risultata tanto pesante da mettere a repentaglio ogni efficacia. Inoltre la quantità della materia, derivata dall’ampiezza del tema, ha costretto il regista a trattarlo in modo assai generico e senza entrare nei particolari, e ne è nata pertanto una forte discrepanza tra la profondità del motivo fondamentale e la superficialità della realizzazione.

Solo la parte che avviene ai nostri giorni, nella quale l’azione è con­ centrata, ha ottenuto un risultato di forte efficacia. Ma la quantità del ma­ teriale e la conseguente superficialità sono state fatali a quel film. Il cinema è un’arte ancora troppo giovane per potersi assumere il compito di esprimere temi cosi vasti. È noto che i buoni film, per la maggior parte, sono fatti con un criterio del tutto opposto: un tema semplice ed una realizzazione non complicata. Béla Balàzs osserva in Der sìcbtbare Mensch che il falli­ mento di molte riduzioni di opere letterarie è da attribuirsi al fatto che l’autore in questi casi vuole assommare, in un limitato seguito di immagini, troppa materia. Un film è anzitutto limitato dalla lunghezza della pellicola: se esso è piu lungo di 2.300 metri, facilmente stanca; c’è. è vero, la possibilità di produrre film in niù episodi, ma questa possibilità è ristretta ad un genere particolare, il genere avventuroso, il cui contenuto è dato da una serie di peripezie che sono ner lo niu scarsamente collegate tra loro e che, presentando un particolare interesse dato da acrobazie, truc­ chi cinematografici, ecc., si prestano ad essere svolte in piti serie. Io spettatore può infatti, senza alcun danno, assistere al secondo episodio pur senza conoscere il primo, sul quale può essere informato da una didascalia preliminare La connessione delle parti si ottiene con un facile eccitamento della curiosità degli snettatori: per esempio, abban­ donando il protagonista alla fine di un episodio in una situazione dif­ ficile. che si risolverà poi al principio dell’episodio successivo e cosi via.

63 I film di più serio contenuto, il cui valore è nell’unità della realiz­ zazione, non possono certo essere suddivisi in questo modo.

Si aggiunga che, per la chiara espressione filmica di un’idea, oc­ corre più spazio che non per la sua espressione verbale. Spesso una pa­ rola sola contiene un intero complesso di pensieri ed ha in sé vastissime risonanze, mentre le forme visive capaci di rappresentare simbolicamente tali complessi sono assai poche. Se non si vuole rinunciare all’effetto necessario nella scelta del tema di un film, occorre quindi proporsene uno ben limitato. Ripeto che quest’esigenza è forse soltanto transitoria, ma, nel mo­ mento attuale, appare innegabile.

Tema e chiarezza Un’esigenza invece che, poiché è basata sulla natura stessa del film, sembra doversi porre come eterna è quella della chiarezza.

Già più sopra ho accennato alla necessità di una assoluta chiarezza nella soluzione dei problemi particolari che si presentano nella realiz­ zazione di un film: altrettanto vale per quanto si riferisce all’elabora­ zione del tema. Se il problema centrale che deve servire da spina dorsale è incerto e confuso, il soggetto è senz’altro coftdannato all’in­ successo; supposta anche la più attenta e accurata elaborazione, è molto facile che il soggetto sbocchi nell’oscurità e si areni. Mi servirò di un esempio pratico: un soggettista ci offre un sog­ getto assai ben rifinito sulla vita degli operai prima della rivoluzione. Il manoscritto ha per protagonista la figura di un operaio; nel pro­ cedere dell’azione costui è messo in rapporto con una serie di persone, amici e nemici; i nemici gli fanno del male, gli amici lo aiutano. Al principio del film, il protagonista viene presentato come un uomo sel­ vatico e rozzo, alla fine esso si è tramutato in un onesto lavoratore rivo­ luzionario. Il manoscritto era elaborato con molto realismo e offriva senza dubbio una materia assai interessante, che testimoniava delle doti di osservazione e di potenza elaboratrice dell’autore. Tuttavia esso non era realizzabile. Un seguito di pezzi di vita, un succedersi di azioni determinate dal caso e di conflitti non collegati tra loro da altro che dalla loro sue-

64 cessione nel tempo non costituiscono che una massa di episodi. Se manca il tema, cioè Videa centrale che dia un senso a tutti questi epi­ sodi, i singoli personaggi, in una significazione più profonda, sono con­ dannati all'impersonale: l’agire del protagonista è caotico e casuale, e tutta l’azione diviene simile al movimento dei pedoni, che passano per la via osservati da una finestra. Il soggettista era un uomo pieno di perspicacia e, in seguito alle nostre osservazioni, sottopose il suo soggetto a una rielaborazione. Portò il protagonista su una nuova linea, mettendolo in relazione con un tema chiaramente formulato. Questo tema — quest’idea fondamen­ tale — fu espresso in una formula chiara e comprensibile: non basta essere un uomo tendenzialmente rivoluzionario: per servire la causa, bisogna anche possedere una coscienza concretamente organizzata della realtà. Per far breve il discorso, l’operaio rissoso e pieno di vita di­ venne un anarchico: cosi i suoi nemici furono messi in un fronte chia­ ramente determinato e l’urto fu quindi del protagonista contro di essi e contro i suoi futuri amici venne ad assumere un chiaro senso e una precisa importanza; una intera serie di episodi che appesantivano sover­ chiamente l’azione fu abolita e il confuso soggetto si tramutò in un quadro dalle intenzioni trasparenti e persuasive. Si può pertanto affermare che la chiara formulazione del tema con­ diziona assolutamente l’intero lavoro e può, essa sola, dare il risultato di una creazione limpida ed efficace. Come regola si dica dunque: occorre formulare il tema con chia­ rezza e con esattezza, altrimenti il lavoro non avrà mai quella profonda significazione e quell’unità di cui necessita ogni opera d’arte. S’intende che la scelta del tema è legata all’elaborazione del sog­ getto poiché, come ho già detto, il processo creativo non avviene mai in un ordine schematico; quando si accetta un tema, si deve contempo­ raneamente pensare alla creazione del soggetto.

Elaborazione del tema Sin dall’inizio il soggetto presenta un certo materiale che prenderà poi forma nel quadro dell’opera. Questo materiale è dato dall’esperienza, dallo spirito d’osservazione, dalla fantasia. Quando il tema, cioè l’idea

65 fondamentale, che condiziona la scelta stessa del materiale, è ben solido, il soggettista può senz’altro procedere al suo riordinamento. Anzitutto vanno pensati i personaggi; poi stabilite le loro reciproche relazioni e la loro importanza nello sviluppo dell’azione; infine vanno indicate le proporzioni in cui è suddiviso l’intero materiale.

Nel momento in cui elabora la sceneggiatura, l’autore viene per la prima volta a contatto con le leggi della creazione artistica. Se il puro contenuto, la trama, può esser considerato come prodotto da un momento di attività non ancora artistica, l’elaborazione del soggetto è invece sottoposta ad una serie di esigenze, che sono proprie soltanto dell’arte. Cominciamo, anzitutto, dal procedimento più generale, cominciamo cioè col determinare il carattere del lavoro di sceneggiatura. Quando uno scrittore progetta la sua futura opera, egli determina sempre una serie di punti fissi, che sono fondamentali per rivelare il tema e per cominciare a dar forma alla materia. Questi punti fissi costituiscono lo scheletro della futura opera. Tra questi sono gli elementi caratteristici dei singoli personaggi, il carattere degli avvenimenti che influiscono su di essi e, spesso, anche i particolari che determinano il senso e l’intensità del movimento crescente o discendente dell’azione. È assurdo concepire astrattamente un soggetto. È inutile dire sem­ plicemente che, al principio, il protagonista è un anarchico e che, in seguito ad una serie di disavventure nei suoi tentativi di attività rivo­ luzionaria, egli diviene un comunista cosciente. Un tale spunto non è che una ripetizione del tema e non contribuisce a elaborarlo. Non si deve sentire soltanto quello che succede ma anche il modo come succede. Nell’elaborazione del soggetto deve essere implicito rinveni­ mento della forma. Proporsi come assunto la modificazione della con­ cezione del mondo del protagonista non costituisce ancora la creazione del punto culminante del soggetto. L’idea astratta della trasformazione delle idee del protagonista in sé, e prima che se ne sia trovata una forma concreta, capace di tradurre il pensiero dell’autore e di comu­ nicarlo dallo schermo coll’effetto voluto allo spettatore, non ha nessun valore artistico e non può servire come punto d’appoggio per la strut­ tura del soggetto. Questi punti d’appoggio sono indispensabili; essi rappresentano il solido scheletro dell’opera; e valgono inoltre a elimi­ nare tutte le zone morte, che possono sempre presentarsi, quando un

66 momento importante della narrazione sia concepito con insufficiente attenzione e in modo astratto. La sottovalutazione di un simile mo­ mento può avere conseguenze disastrose: la piu comune è che si intro­ ducano elementi che ostacoleranno, in seguito, la definitiva elaborazione figurativa, guastandone cosi l’intera costruzione. Il romanziere può sottolineare i punti fondamentali della sua opera con descrizioni particolareggiate, il drammaturgo con i dialoghi, ma lo sceneggiatore deve pensare mediante immagini plastiche (esteriormente espressive). Egli deve abituare la sua forza d’immaginazione a presen­ tare ogni pensiero nella forma di un seguito di immagini susseguentisi sullo schermo. Ancora di piu, egli deve imparare a dominare queste immagini e tra tutte quelle che concepirà deve scegliere le più evidenti ed espressive. Egli deve imparare a dominarle come uno scrittore domina la parola e un drammaturgo il dialogo.

La chiarezza e l’evidenza dell’elaborazione del soggetto dipendono dalla precisa formulazione del tema. Prendiamo come esempio un film americano di De Mille, molto ingenuo e di scarso valore, intitolato Saturday night. Prescindendo dalla povertà del contenuto, questo film offre un eccellente modello di film a tema nettamente delimitato e di semplice trama elaborata con chiarezza. Il tema si può formulare cosi: « Esseri di diverse classi sociali non pos­ sono mai raggiungere la felicità se si uniscono in matrimonio ». La trama è questa: un autista respinge l’amore di una lavandaia, perché è innamorato della figlia di un capitalista, che egli deve quotidiana­ mente condurre in auto. Il figlio di un altro ricco signore vede casual­ mente la lavandaia in casa sua e se ne innamora. Entrambe le coppie si sposano. La povera stanzetta dell’autista sembra a sua moglie, abi­ tuata agli agi della ricca casa da cui proviene, un canile. Il legittimo desiderio dell’autista, dopo la sua faticosa giornata di lavoro, di trovare in casa il pranzo pronto, cozza contro un ostacolo insormontabile: sua moglie non ha neppure la più lontana idea di come vadano trattati fuoco e fornelli; il fuoco è troppo caldo, le stoviglie rovinano le mani, e il pranzo, cotto a metà, si riversa sul pavimento. Quando gli amici del­ l’autista vanno a trovarlo, per passare insieme un’allegra serata, si com­ portano, secondo l’opinione della viziata signora, cosi rozzamente che ella infine fugge via dalla stanza in preda a uno scoppio isterico di

pianto.

67 E le cose non vanno allatto meglio per la lavandaia in casa del ricco marito. Circondata dalla servitù, ella si trova in continui imbarazzi. La cameriera, che l’aiuta a vestirsi e a spogliarsi, la riempie di continuo stupore; il complicato vestito che indossa la fa apparire assurdamente ridicola; a pranzo, tra gli ospiti, commette una serie di sconvenienti attentati all’etichetta, che ben presto la fanno bersaglio di ironie, che mettono nella disperazione il marito e il relativo parentado.

Per caso s’incontrano poi l’autista e l’ex lavandaia. E ne nasce che, sotto l’influsso della comune delusione, si risveglia l’antica simpatia. Entrambe le coppie si separano e ne seguono due nuove unioni felici. La lavandaia sa cucinare perfettamente e la nuova sposa del ricco gio­ vane sa portare benissimo qualunque vestito e balla meravigliosamente il charleston. Come si vede, il soggetto non è meno primitivo del suo tema, e tuttavia si può indicare questo film come assai ben riuscito per chiara e preordinata costruzione. Ogni particolare vi è a posto, in stretta relazione col pensiero che si vuole esprimere. Inoltre vi si sente che, già dal primitivo schema del soggetto, il seguito delie immagini è stato elaborato con plastica chiarezza: la cucina, gli ospiti dell’autista, l’abito elegante che la lavandaia deve indossare, gli ospiti del ricco signore e di nuovo la cucina e di nuovo, e sotto diversa luce, un elegante vestito: ogni momento essenziale nello sviluppo della trama è impersonato da un materiale plastico significativo.

Come esempio opposto, voglio offrire un brano di imo dei molti soggetti che quotidianamente mi arrivano: « Una famiglia è caduta nella più nera miseria, perché né il padre né la figlia possono trovare lavoro; dappertutto rifiuti. Un amico va spesso a trovare la disperata ragazza e cerca di sostenerla con parole consolatrici... ecc. ». Questo è un esempio tipico di mancanza di valore cinematografico e di povertà di fantasia nella trattazione. Non vi si trovano che visite e dialoghi. Espressioni come « spesso un amico la va a trovare », « so­ stenerla con parole consolatrici », « dappertutto rifiuti » mostrano l’as­ soluta impossibilità di un nesso tra l’elaborazione del soggetto e la forma cinematografica che esso dovrà assumere. Gli elementi dati e altri simili possono, nel migliore dei casi, servire come materia per le didascalie, ma in nessun caso per le riprese cinematografiche. La parola

68 « spesso » naturalmente vuol dire parecchie volte, mentre che mostrare quattro o cinque volte l’amico che va a far visita alla ragazza è cosa tale da sembrare assurda perfino all’autore di quel soggetto. Lo stesso dicasi per la frase « dappertutto rifiuti ».

Non si tratta della pedantesca condanna di un’espressione. Ciò che importa stabilire è che, anche nella elaborazione preliminare e generale del soggetto, si deve escludere tutto ciò che non è filmabile e che non si può rendere visivamente, e includere solo quanto può avere valore espressivo e plastico agli effetti della realizzazione. Nel soggetto in que­ stione si sarebbe dovuta dare la descrizione di una scena, che indicasse lo stato di estrema miseria della famiglia, e di un’azione, che caratte­ rizzasse (non per mezzo di parole dunque) la relazione tra l’amico e la figlia. Si potrebbe obiettare che l’elaborazione della forma plastica del soggetto appartiene ad una fase successiva, e precisamente al lavoro del regista. Obiezione alla quale io nuovamente oppongo che la forma pla­ stica deve essere sempre, e fin dal primo momento, dinanzi agli occhi dell’autore. Fin dal primo momento si deve sapere a quale obiettivo si tende ed eliminare tutte le difficoltà che possono sorgere. Si pensi, per esempio, all’inutile e « intraducibile » spesso.

Resta dunque stabilita la necessità, per l’autore, di orientarsi invece sul materiale plastico, che è l’elemento essenziale da cui prende forma il soggetto.

Concentrazione della materia Passiamo ora al problema della concentrazione della materia. Esiste una quantità di norme, che regolano la costruzione del racconto, del romanzo e del dramma. Esse sono di certo strettamente collegate all’ela­ borazione del soggetto, ma la loro esatta esposizione esula dal campo di questo saggio.

Dal gruppo dei problemi sulla costruzione artistica qui si deve men­ zionare solo la necessità per l’autore di controllare, sempre e in ogni momento, il diverso grado di intensità dell’azione. Questa intensità non dipende soltanto dalle situazioni drammatiche e può anche essere provocata con mezzi del tutto diversi. La progres­

69 sione dinamica dell’azione, l’introduzione di scene che mostrino un potenziamento dell’energia del protagonista, tutto ciò mira ad accrescere l’emozione dello spettatore; si deve imparare a costruire una sceneg­ giatura tale che l’azione, che vi si svolge, leghi progressivamente l’at­ tenzione dello spettatore, ma sempre in modo che il piu forte fattore emotivo si risolva nella chiusa. Una grande quantità di soggetti sono guastati dalla cattiva dispo­ sizione del fattore « intensità ». Si può prendere in proposito, come esempio, il film russo Le avventure di Mr. West, di Kuliesciov. Le pri­ me parti si vedono con interesse crescente. Un cow-boy, venuto a Mosca in compagnia dell’americano West, si trova in una serie di situa­ zioni diffìcili, dalle quali riesce a liberarsi con una destrezza che accresce e consolida progressivamente l’interesse iniziale del pubblico. Queste prime parti, piene di dinamismo, « si vedono volentieri » e tengono lo spettatore in uno stato di ansia. Ma la fine della terza parte, in cui le avventure del cow-boy terminano in un finale inatteso, provoca nello spettatore una naturale reazione, e il seguito, nonostante che la regia vi sia migliore, è accolto con minor interesse; l’ultima parte, la piu debole di tutto il film (che porta per le vie di Mosca e in qualche fab­ brica), cancella definitivamente la prima impressione favorevole e lascia scontento Io spettatore.

Quale esempio opposto, e cioè di giusta progressione dei momenti emotivi dell’azione, si possono citare i film del famoso regista ameri­ cano Griffith. Egli ha creato un tipo di chiusa di film che si suol perfino chiamare finale alla Griffith e che è stato — ed è — molto usato dai suoi seguaci. Prendiamo, ad esempio, il già citato Intolerance. Un gio­ vane operaio, licenziato in seguito alla sua partecipazione ad uno scio­ pero, va a New York, dove finisce immediatamente in mezzo a una Banda di mariuoli. Ma, dopo aver incontrato una ragazza di cui s’in­ namora, decide di procurarsi un’occupazione onorevole. I malvagi com­ ponenti della banda però non lo lasciano in pace, cosicché riescono a l.irlo imputare di un delitto che egli non ha commesso; e il giovane operaio è arrestato. Gli elementi a suo carico sembrano cosi probativi < he il tribunale lo condanna a morte. Nel finale, la ragazza, che frattanto < divenuta sua moglie, scopre in modo inatteso il vero omicida, mentre già si fanno i preparativi per l’esecuzione. Solo il governatore potrebbe, n>n la sua autorità, farla sospendere ed egli ha, proprio allora, lasciato

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la città col diretto. Ne consegue un veloce inseguimento per la salvezza dell’eroe: la donna su di un’auto, il cui pilota ha compreso che dalla sua velocità dipende la vita di un uomo, insegue il treno. Nella cella, il giovane condannato si confessa prima della morte. L’auto ha rag­ giunto il treno. Negli ultimi istanti, quando già la corda sta per essere messa intorno al collo dell’eroe, arriva la grazia ottenuta dall’estrema energia e prontezza della donna. Il rapido alternarsi dei pezzi di mon­ taggio, la variazione ritmica piena di contrasto tra il treno in corsa e i lenti e metodici preparativi per l’esecuzione di un innocente, che natu­ ralmente accrescono la tensione del pubblico (riuscirà? non riuscirà?), tutto ciò ottiene una progressione di effetti emotivi, che, con il loro risolversi, chiudono degnamente il film. Il metodo di Griffith implica tanto l’azione drammatica quanto il magistrale impiego di effetti esterni (tensione dinamica). I suoi film possono essere presi come modello di progressione ben condotta. Una trama elaborata in cui siano chiaramente determinate tutte le linee fondamentali dell’azione, in cui siano indicate le caratteristiche essenziali dei protagonisti, e in cui infine sia cosi esperto il procedere dell’azione attraverso i momenti di presentazione, nodo e chiusa, è il testo di cui ha bisogno il regista: il quale lo rimpasterà poi, nella sceneggiatura, dal punto di vista del materiale e del valore visivo.

Elaborazione del soggetto La fase successiva del lavoro dell’autore è già l’elaborazione parti­ colarmente cinematografica. Fino a questo punto, il soggetto non con­ tiene nessuna effettiva determinazione cinematografica: esso ha sol­ tanto, per cosi dire, i requisiti essenziali per diventare un film. Ora viene dunque in prima linea la vivificazione plastica delle immagini. Il manoscritto deve essere diviso in parti, le parti in episodi, questi in scene, le scene in inquadrature che corrispondano ai pezzi di pellicola di cui sarà costituito il film. Gli atti non debbono superare una certa lunghezza, e il soggettista deve imparare a sentirla', la lunghezza media degli atti va dai 300 ai 400 metri. Per rendersi conto concretamente del valore di questa lun­ ghezza, bisogna tener presente quanto segue: la macchina da proiezione a velocità normale passa un metro ogni 3 secondi e di conseguenza l’in­

71 tero atto è proiettato in circa venti minuti. Se si considerano a ogni atto le scene corrispondenti che vi si svolgono, e si ticn conto del tempo che esse esigono, si può anche stabilire quante ne occorrano come contenuto di un atto. Un soggetto elaborato scenicamente si presenta cosi: Prima scena. Per una via di campagna si trascina lentamente, affondando le

mote nel fango, un carretto contadinesco. Triste e irritato il carrettiere incita lo stanco cavallo. In un angolo del carro è accasciata una figura ricoperta da una vecchia mantellina militare per proteggersi dal vento tagliente. Un pedone che avanza in senso inverso si ferma incuriosito; il carrettiere gli chiede: Didascalia: C'è ancora molto per Nabin? Il pedone fa con la mano un cenno di risposta. Il carro riprende la sua via mentre il pedone lo segue con lo sguardo. Seconda scena. Capanna di contadini. In un angolo della panca giace un vecchio coperto di stracci. Respira a fatica. Una vecchietta si dà da fare intorno alle stufe e alle pignatte. Il malato si volta a fatica e le dice: Didascalia: Mi sembra che qualcuno abbia bussato. La vecchia va alia finestra e guarda fuori. Didascalia: No, vecchio mio, ti sbagli; è il vento che batte alla porta.

Un soggetto scritto in tal modo, già suddiviso cioè nelle singole scene e con le didascalie, rappresenta la prima fase dell’elaborazione cinematografica. Ma è ancora lontano dalla forma ultima della sceneg­ giatura, la sola che possa costituire la base della realizzazione.

Si pensi a questo proposito che, nell’esempio citato, un’intera serie Ji particolari caratteristici è data in forma narrativa come ad esempio « con le ruote affondate nel fango », « il triste cocchiere », « avvolto in una mantellina militare », ecc. Tutti questi particolari non possono essere notati dallo spettatore se figurano sullo schermo come elementi della scena, ripresa cosi come è descritta.

Perché questi particolari vivano efficacemente nel divenire dell’azio­ ne, il cinematografo ha a sua disposizione un mezzo particolare e efficace, grazie al quale si può costringere lo spettatore a rivolgere la sua attenzione su ogni particolare. Mediante questo metodo non si nota a caso: « Cattivo tempo, due uomini in un carro », ma invece ognuno dei particolari introdotti viene rappresentato efficacemente; questo me­ todo si chiama montaggio. Alcuni soggettisti usano qualche cosa di simile, per esempio: « Stra­ da di paese — giorno di festa — una famiglia di contadini è nel mezzo

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della scena — una giovane comunista che parla vivacemente — nuovi gruppi arrivano e lanciano grida di rivolta, ecc. ». Questo genere di tagli è meglio non farli poiché non hanno niente in comune col montaggio: le indicazioni « inciso » o « interruzione » nascono da concetti assurdi e sopravvissuti, dall’incomprensione cioè dei metodi tecnici del cinematografo. Tutti i particolari, che appartengono organicamente a scene del genere di quelle citate, non debbono essere semplici accessori della scena, ma la scena deve risultare da essi. Sul montaggio come metodo fondamentale per influire efficace­ mente dallo schermo sullo spettatore avrò occasione di ritornare dopo aver dato qui i necessari chiarimenti sui metodi fondamentali di ri­ presa e sulla scelta del materiale plastico.

Conclusione Se l’autore vuol comunicare, per mezzo dello schermo, il complesso dei suoi pensieri allo spettatore, egli deve rendere il suo lavoro quanto più gli è possibile adatto alla rielaborazione definitiva; e per far ciò deve conoscere tutti i metodi specifici (e possibilmente trovarne di nuovi) che il regista userà per la realizzazione.

L’autore dovrà osservare attentamente i film altrui e tentare di annotarne le varie parti costitutive in modo da trascriverne la costru­ zione di montaggio; con una simile attenzione rivolta ai lavori degli al­ tri egli potrà acquistare la pratica necessaria. A titolo di esempio presento qui una scena già pronta per essere girata. Didascalia: La rivolta dei lavoratori è schiacciata. 1. Lenta apertura di diaframma. A! suolo sono sparse cartucce esplose e armi. 2. Panoramica lenta di una lunga barricata su cui giacciono cadaveri di lavo­ ratori. 3. Particolare della barricata. Cadaveri di lavoratori. Una donna è tra questi con il capo rovesciato all’indietro. Una bandiera stracciata pende dall’asta sghemba. Chiusura di diaframma 4. P. P. Una donna guarda, con occhi sbarrati, in direzione deirobbiettivo. Chiusura di diaframma 5. La bandiera sventola al vento. Diaframma lento

73 Questo esempio può esser presentato come modello di un difficile inizio, grave e solenne. Le lente chiusure di diaframma sottolineano questo ritmo sostenuto. Passiamo ora a un esempio di un tempo di montaggio più rapido. 1. Da un lato si precipita in corsa un gruppo di operai. Essi corrono verso l'obbiettivo. Rapido lampeggiare di volti dinanzi a esso. 2. Un operaio salta un grosso pezzo di ferro e corre. Si ferma e grida: Didascalia: Salvale il primo gruppo! 3. Un altro operaio si arrampica su di una gru. 4. Vapori esalano dal basso. Suona una sirena d'allarme. 5. L’operaio, dall’alto della gru, guarda in basso. 6. Il gruppo degli operai in fuga (inquadralo dall'alto}. 7. L’operaio, dall’alto della gru, grida a tutta voce: Didascalia (a lettere più grandi): SALVATE IL PRIMO GRUPPO! 8. Ripresa dall'alto. La moltitudine dei fuggenti si arresta per un momento, poi riprende a correre. 9. Una parte della folla che fugge rovescia una donna. 10. La donna (in p. p.) caduta che si alza, si afferra il capo, vacilla. 11. La folla che fugge.

Qui il montaggio presenta una serie di pezzi, rapidamente alternantisi, che col loro ritmo veloce creano l’emozione voluta. La seconda didascalia a caratteri ingranditi sottolinea l’accrescersi del panico. È ovvio che una forma simile di sceneggiatura esige una pratica particolare e che solo lo sforzo dell’autore di avvicinarsi per quanto è possibile a una forma tecnica cosi netta può portare risultati utili, comunque farà sì che il testo da lui elaborato offra una base utilizza­ bile per la realizzazione filmica. Il soggetto dunque può dirsi buono quando l’autore conosce i me­ lodi propri del film e sa servirsene come di un’arma per ottenere l’ef­ fetto voluto sullo spettatore; diversamente da così, il soggetto presen­ terà solo un materiale rozzo tale che, in novanta casi su cento, dovrà essere sottoposto alla rielaborazione di uno specialista.

Il materiale plastico Lo sceneggiatore deve aver sempre presente il fatto che ogni frase che egli scrive deve essere tradotta sullo schermo plasticamente in una forma visiva. Quindi non sono importanti le parole che egli scrive, ma il contenuto di queste parole, quel tanto che queste parole conten­ gono di traducibile plasticamente. In verità non è troppo facile trovare queste immagini plastiche. Esse devono essere anzitutto chiare e espres­ sive. L’intenditore di opere letterarie può facilmente capire che cosa si­ gnifichino una parola e un linguaggio espressivo: egli sa che sono effi­ caci i chiarì complessi di parole ricchi di espressione, e sa inoltre che una lingua non chiara e stiracchiata è il risultato dell’incapacità a sce­ gliere le parole e a dominarle nella forma. Quello che si è detto per il lavoro letterario vale anche per il lavoro del soggettista: soltanto che, al posto delle parole, vanno messe le immagini che dovranno passare sullo schermo, le forme plastiche. Si deve imparare a scegliere, nella illimitata quantità di materiale che offre l’osservazione del mondo circostante, quelle forme e quei mo­ vimenti che esprimano il più chiaramente e il più persuasivamente l’in­ tera complessità del pensiero dell’autore.

La scelta del materiale

Presentiamo, per il problema della scelta del materiale, alcuni esem­ pi delucidatori. Nel film Tol-able David di Henry King si trova un episodio nel quale entra in scena un personaggio, un forzato evaso e vagabondo. Questo vagabondo è un tipo estremamente malvagio. L’autore lo ha immediatamente definito in questo suo carattere.

75 1. Il vagabondo, un tipo di giovane mal messo e col viso irsuto e non rasato, dirige verso una casa. A un tratto si ferma e rivolge la sua attenzione verso qualche cosa. 2. Il viso del vagabondo che guarda. 3 Quello che vede: un grazioso gattino che dorme, al sole. 4. Di nuovo il vagabondo. Egli raccoglie un grosso sasso con l’evidente inten* /ione di uccidere la bestiola addormentata, e solo il casuale urto con un uomo che portava in casa qualche oggetto gli impedisce di attuare il suo malvagio proposito. si

Questo piccolo episodio non ha nessuna didascalia, eppure l’im­ pressione è chiara ed evidente. Perché? Perché il materiale plastico vi è scelto con giusta efficacia. Il gattino che dorme è una buona espressione di spensieratezza e di innocenza e, di conseguenza, il grosso e pesante sasso nella mano dell’uomo gigantesco diviene immediatamente simbolo di insensata e assurda malvagità. Il risultato della scena doveva essere, agli occhi dello spettatore, questo: quell’uomo è un malvagio. Quindi lo scopo è raggiunto. Il contenuto astratto è pienamente espresso per mezzo di un materiale plastico ben scelto. Ancora un esempio tratto dallo stesso film. Su di una famiglia di contadini si è improvvisamente abbattuta una serie di sventure. Il figlio maggiore è stato investito dal crollo di una massicciata, il padre ne muore di crepacuore e l’ultimo figlio, ancora ragazzo, sa che responsabile di queste sciagure è il vagabondo di cui si è detto sopra, il quale ha colpito proditoriamente suo fratello. Il gio­ vinetto pensa più volte di vendicarsi sul malvagio. Egli possiede, come sua unica arma, un vecchio fucile. Quando il fratello colpito viene porta­ to a casa e tutta la famiglia, muta dalla disperazione, si aduna intorno al Ietto, il ragazzo, un po’ piangendo, un po’ battendo i denti dalla paura, carica il fucile. Ma l’improvvisa morte del padre e lo svenire della madre, che nella sua disperazione ha abbracciato i piedi del figlio, lo arrestano nel suo proposito. Il ragazzo è rimasto ormai l’unico appoggio della famiglia. Egli ha appena staccato dal muro e afferrato na­ scostamente l’arma, quando la voce della madre lo chiama e lo prega di comperarle qualche cosa. Il ragazzo riappende il fucile e corre fuori. Si osservino qui l’uso magistrale e l’ottima funzione di quel vec­ chio fucile arrugginito. È come se l’arma simboleggiasse il desiderio di vendetta del ragazzo. Ogni volta che la mano di questi lo prende, il pubblico sa quello che avviene nell’animo di lui. Nessuna didascalia

76 e nessun commento sono necessari. E si pensi alla scena descritta, al richiamo della madre. Appendere l’arma e correre alla bottega significa dimenticare sé stessi per l’altro. Siamo qui di fronte a una piena realizzazione che, da una parte, mostra l’ingenua impulsività del ragazzo e, dall’altra, il nascere in lui del senso del dovere. Citiamo un altro esempio tratto dal film The leather pushers di Harry Pollard. Un uomo aspetta un amico stando seduto ad un tavolino. Egli fuma, e dinanzi a lui ci sono un portacenere e un bicchiere di tè, pieni di un’enorme quantità di mozziconi di sigarette. Lo spettatore ha imme­ diatamente il senso della lunghezza dell’attesa e, non meno, del grado di eccitazione che ha costretto il protagonista a fumare una tale quan­ tità di sigarette. Dagli esempi riferiti risulterà chiaro che cosa si debba intendere con il concetto di materiale plastico. Noi abbiamo qui un gattino, un vagabondo, una pietra, un fucile, un portacenere e nessuno di questi oggetti sta qui per caso, senza una determinata funzione. Tutti questi oggetti, pur essendo e rimanendo qualche cosa di og­ gettivo che non necessita di alcuna spiegazione, contengono in sé stessi un valore allusivo ben chiaro. Si può dunque ricavare la seguente importante regola: nell’elabo­ razione di ogni particolare si deve badare con molta attenzione all’espres­ sione visiva, poiché di ogni idea e di ogni concetto esistono centinaia di possibilità espressive. Il compito dell’autore è quello di scegliere le piu chiare e le più immediatamente comprensibili; ma egli deve de­ dicare la più grande attenzione agli oggetti. Le relazioni tra gli uomini sono date per la maggior parte dai dialoghi, ma non cosi certamente quelle dei personaggi con gli oggetti. La gioia e il dolore devono essere rappresentati mediante azioni riferentisi a oggetti; in tal modo, si sentirà l’importanza delle cose in rela­ zione ai pensieri astratti. Per il soggettista, più di ogni altro lavoro è certamente importante quello che si riferisce al materiale plastico. Quando si tratta di rendere il carattere dei personaggi dell’azione, si deve presentarli per mezzo di qualche azione o di qualche gesto che li metta nell’angolo visuale

77 voluto (pet es., il vagabondo e il gattino). Se si tratta di presentare un avvenimento, le scene debbono essere tali da presentare nel modo piu palmare l’avvenimento stesso e la sua significazione.

Le didascalie

Connesso a ciò è il problema delle didascalie, al quale ci rivolgiamo subito. L’opinione comune sulla funzione e sulla utilità delle didascalie, c che cioè esse rappresentino un elemento portato e incidentale che si deve ad ogni costo eliminare, è, presa in assoluto, inesatta. Natural­ mente, una didascalia può essere superflua, ma solo nel complesso, così come, in un film, una intera scena può essere superflua. Didascalie esplicative. Le didascalie si possono suddividere, secondo il loro contenuto, in due gruppi. Le didascalie esplicative dànno allo spettatore in una forma breve c chiara le spiegazioni necessarie alla comprensione dell’azione e sup­ pliscono quindi una parte di essa non essenziale, la cui presenza appe­ santirebbe l’azione. Un esempio tratto dal già citato The leather pushers. In questo soggetto ci sono tre tipacci che l’autore impiega per mettere inizial­ mente in difficoltà Ì suoi protagonisti. Prima del loro apparire, sullo schermo c’è la seguente didascalia: « Tre forzati evasi dal vicino car­ cere ». Naturalmente, in luogo della didascalia si sarebbe potuto benis­ simo far vedere la fuga, ma poiché per l’autore non la fuga, ma i for­ zuti avevano importanza, l’episodio della fuga, sostanzialmente inutile itilo sviluppo dell’azione, è stato sostituito giustamente dalla didasca­ lia: l’essenziale, il comparire dei vagabondi, è presentato e giustificato da una didascalia esplicativa. Questo è un procedimento corretto. Un altro paio di maniche è nel caso che la didascalia sia posta in un momento essenziale dell’azione, cosi che la visione che segue ne è, per cosi dire, il risultato. Dopo la didascalia: « Olga non sopportava il carattere del suo crudele marito e quindi decise di abbandonarlo », mostrare Olga che esce dalla porta di casa significa far seguire un’azione piò debole della didascalia stessa, dimostrando cosi che l’autore non Ini saputo impiegare utilmente il materiale plastico. Vanno considerate didascalie esplicative quelle che si riferiscono

78 al tempo, o il luogo Didascalie visiva che

come: « Un anno dopo », oppure quelle che indicano l’ora dell’azione, come: « La sera », oppure: « In casa di Ivan ». che con poche parole suppliscono ad una rappresentazione inutilmente aggraverebbe l’azione.

Ricapitolando si può dunque dire: le didascalie esplicative sono legittime solo quando eliminino dal soggetto il superfluo, e cioè quando spieghino brevemente allo spettatore il necessario, che lo prepari ad abbracciare comprensivamente l’azione futura. Didascalie dialogate. Questo genere di didascalie porta nell’azione la lingua parlata e viva. Sulla loro importanza non c’è molto da dire. La loro esigenza fondamentale è quella di una buona elaborazione letteraria, e quanto piu sintetica è possibile. Si deve pensare che, per ogni riga di una didascalia, è necessario un metro di pellicola in media, e che ogni riga può contenere due o tre parole; che di conseguenza una didascalia di dodici parole dura sullo schermo da dodici a diciotto secondi e che una tale interruzione di tempo può facilmente rompere il ritmo e quindi l’efficacia della scena. Come per le didascalie esplicative cosi per quelle dialogate è neces­ saria la massima chiarezza. Espressioni ricercate può darsi che rendano piu bella la frase, ma spesso ostacolano la rapidità della comprensione e sono quindi da evitare. Lo spettatore non ha alcun bisogno di parole prive di contenuto; la frase deve « arrivare » direttamente allo spet­

tatore. A quanto si è detto si deve aggiungere che, nella creazione del soggetto, si deve badare alla distribuzione delle didascalie. Una propor­ zionata e continua distribuzione di didascalie non è conforme ai fini cinematografici. È assai meglio distribuirle (in ispecie quelle esplicative) in modo che si concentrino tutte in una parte del soggetto, lasciando l’altra parte per lo sviluppo dell’azione. In un modo simile procedono gli americani, i quali nel primo atto sogliono dare le necessarie spiega­ zioni, nel secondo si servono di didascalie dialogate e nella rimanente parte sviluppano l’azione pura fino al finale, con un ritmo sempre piu rapido e cercando, per quanto è possibile, di evitare qualsiasi tipo di didascalia. È importante l’uso di didascalie di diversa grandezza, per sottolineare, con la dimensione delle lettere, l’importanza delle parole. Nel film di propaganda Fame... Fame... Fame... c’era una didascalia

79 finale molto efficace. Dapprima appariva una parola a grandezza nor­ male: Compagni. Poi questa parola scompariva e la sostituiva un’altra parola di maggiore dimensione: FRATELLI, e infine la terza, grande come tutto lo schermo: A I U T O !

Una tale didascalia ha naturalmente un effetto molto maggiore di tinello consueto, e l’autore può contare con sicurezza sulla sua efficacia.

Ancora piu grande dell’importanza visiva è l’importanza ritmica. Abbiamo già detto che non ci si deve mai servire di didascalie troppo lunghe; a complemento di ciò diciamo che si deve tener conto, per la lunghezza delle didascalie, della rapidità dell’azione in cui esse vengono introdotte: un’azione rapida richiede didascalie brevi e pregnanti, una lenta può averne di piu lunghe.

I più semplici mezzi di ripresa

Ora che sappiamo che cosa sia il materiale plastico, conviene im­ parare a conoscere qualcuno dei mezzi puramente tecnici che il regista < l’operatore sono soliti usare. Apertura di diaframma: sullo schermo buio appare ima zona chiara, < he si allarga e si apre a poco a poco rivelando l’immagine. Chiusura di diaframma: il processo inverso del chiudersi dell’imfungine fino al completo oscurarsi dello schermo.

L’uso del diaframma ha importanza prevalentemente rispetto al rit­ mo del film: il lento scomparire dell’immagine dal campo visivo dello spettatore corrisponde, in opposizione all’improvviso scomparire della Mena, a un allontanamento dello spettatore dal luogo dell’azione. Con il diaframma termina generalmente un episodio, specialmente se la scena è stata condotta con un ritmo lento. Un esempio: un uomo si avvicina con fare stanco verso una sedia, < i si lascia cader sopra, appoggia la testa alle mani, pensa... Lenta­ mente il diaframma si chiude. Il riaprirsi del diaframma corrisponde ■il prestabilito trasporto dello spettatore in un altro ambiente ed in un'ultra azione. Il ritmo di apertura e di chiusura del diaframma deve natural­ mente adeguarsi al ritmo generale del film. Alcune scene vengono frequentemente ingabbiate tra un’apertura

80 e una chiusura di diaframma: questo metodo serve a staccare e isolare un episodio dall’azione generale del film. Tale metodo viene spesso adoperato, per esempio, nel « ricordo ». Spesso l’apertura del diaframma coincide con l’inizio di una scena e la chiusura del diaframma con la sua fine. Il diaframma può avere diverse forme. La più frequente è quella rotonda, il cosiddetto iris. Altre forme di diaframma sono la tendina scura che si alza o si abbassa, l’oscurarsi laterale progressivo, ecc. Si è generalmente costatato che l’uso frequente di diaframmi spe­ ciali ha per risultato quello di stancare lo spettatore. Ripresa con diaframma o con mascherina. Sullo schermo buio si fa al centro un’apertura chiara, rotonda o di qualsiasi altra forma: in questo centro, detto iris fisso, l’azione continua a svolgersi. L’uso di questo metodo è determinato da diversi scopi; nel caso più comune esso viene impiegato per far guardare lo spettatore dal punto di vista di un personaggio: per esempio, il personaggio guarda dal buco di una serratura, e quello che egli vede viene ripreso attraverso una mascherina dalla forma di un buco di serratura. Si possono usare mascherine a forma di telescopio e di ogni altro

genere. È importante citare l’uso di una piccola mascherina rotonda che è adoperata spesso nei film americani. Per esempio: 1. Il protagonista sta su una montagna e guarda in lontananza. 2. Appare una via ripresa da lontano. Sulla via corre un cavallo.

Con questo sistema di ripresa si ottiene indiscutibilmente un du­ plice scopo: a) con l’impicciolirsi del campo visuale, l’attenzione dello spet­ tatore è forzatamente concentrata su di un punto, quello che il perso­ naggio guarda; b) si conserva la proporzione (cosa che non avverrebbe con un primo piano o con qualunque altra ripresa da vicino), e cosi si mantiene la necessaria impressione della distanza. Dissolvenza. Il passaggio da una parte del film all’altra non av­ viene di colpo, ma progressivamente; cioè il quadro si oscura e al suo posto ne appare un altro.

81 z\nche questo metodo ha un’importanza prevalentemente ritmica. Le dissolvenze infatti generano un ritmo lento. Sono spesso utilizzate per la rappresentazione del ricordo quasi < he esse diano la suggestione del processo per cui un pensiero ne origina un altro. Occorre mettere in guardia gli autori di soggetti contro l’uso troppo liiquente delle dissolvenze che a volte presentano, oltre tutto, varie didicoltà tecniche.

La panoramica. Durante la ripresa, la macchina si muove con moto uniforme, verticalmente o orizzontalmente. L’obbiettivo segue cioè l’oggetto della ripresa che si muove dinanzi .1 Ini, oppure gli gira intorno mostrandone una dopo l’altra le diverse parti. L’importanza di questo metodo è evidente.

Movimento in avanti o all*indietro della macchina da presa. Du­ mo tc la ripresa la macchina si avvicina all’oggetto, oppure se ne allon­ tana. Questo metodo è oggi assai poco in uso; esso vuol creare un passaggio progressivo dal quadro totale al primo piano o viceversa. Ripresa fuori fuoco o con velatino. In molti film si vedono parti ipcr esempio visi in primo piano) che sono ripresi in modo che i con­ iai ni ne rimangano imprecisi. Con questo metodo si ottiene, in scene di lirismo pronunciato, una certa dolcezza e soavità. E però questo un metodo da considerarsi come molto speciale, che va usato con la maggior cautela. Tutto quello che si è detto fino ad ora circa i più semplici mezzi di ripresa non può avere che un valore informativo. Quale particolare Imma di ripresa sia da usarsi caso per caso possono dirlo all’autore siilo il suo gusto e la sua sensibilità. Non ci possono essere regole. Il campo delle nuove creazioni e delle nuove combinazioni è inesauribile.

Metodi per Velaborazione del materiale

Il film, e quindi anche il soggetto, è diviso in un gran numero di pezzetti, o, meglio, esso viene costruito con essi. L'intera sceneggiatura va suddivisa in parti, queste in episodi, gli episodi in scene e infine le scene risultano composte da un’intera serie

82 di pezzi girati da diversi punti di vista. Questi pezzi sono l’elemento primigenio del film: i pezzi del montaggio. Una sceneggiatura deve tener conto di queste particolarità fonda­ mentali del film e deve cioè descrivere non solo tutto ciò che dovrà apparire sullo schermo, ma deve dare l’esatto contenuto di ogni pezzo di montaggio e indicare chiaramente il succedersi di questi pezzi.

Si chiama montaggio la costruzione di una scena mediante i vari pezzi di pellicola girati, di un episodio mediante le varie scene e così via. Il montaggio o taglio del film è uno dei mezzi piu importanti e piu ricchi di efficacia che abbiano a loro disposizione l’autore e il regista.

Montaggio delle scene

È familiare a tutti coloro che sogliono andare al cinematografo il concetto di primo piano. Le varie presentazioni dei visi dei protagonisti, la ripresa di singole mani o piedi che occupano l’intero schermo sono universalmente cono­ sciute. Ma per valutare esattamente i primi piani bisogna intenderne bene il significato. Il primo piano concentra violentemente l’attenzione dello spettatore su un particolare che, nel corso dell’azione, è, in quel momento, il piu importante. Supponiamo che in una scena agiscano tre personaggi. L’importanza di questa scena sta nel complessivo procedere del­ l’azione: per esempio, tutti e tre insieme sollevano un oggetto pesante, quindi tutti e tre vanno ripresi insieme nel cosiddetto campo lungo. Ma, nel caso che uno di essi passi a un’azione individuale, che ha una importanza prevalente su quella intera (per esempio estragga cautamente dalla tasca un revolver), allora la macchina si dirigerà verso di lui e riprenderà il particolare di quest’azione. Quanto si è detto non vale unicamente per le persone, ma anche per le singole parti di esse o per gli oggetti. Supponiamo di dover riprendere un individuo che, mentre sembra che ascolti tranquillamente il discorso di un altro, in realtà riesce a fatica a dominare il suo furore. Tremando dall’eccitazione, egli sbriciola una sigaretta che ha in mano, gesto che però resta inosservato agli altri personaggi dell’azione. In

83 questo caso, la mano deve esser mostrata in primo piano sullo schermo; altrimenti un particolare cosi importante andrà perduto per lo spet­

tatore. Si è creduto, un tempo, che il primo piano costituisse una inter­ ruzione dell’azione; idea completamente errata: col primo piano non c’è interruzione dell’azione, ma legittima e caratteristica costruzione di essa. Affinché sia chiara l’importanza del montaggio di una scena ci si può servire di un esempio. Si pensi a questa scena: un uomo sta di­ nanzi alla parete di una casa e volge il capo a sinistra mentre un altro cautamente sgattaiola dentro la porta. Entrambi rimangono abbastanza discosti uno dall’altro. Il primo prende un oggetto qualsiasi e lo mo­ stra all’altro come per dileggiarlo. Costui, in preda al furore, gli si precipita addosso. In quel momento compare alla finestra del terzo piano una donna e grida: « La polizia! ». I due fuggono.

Qui la « camera » deve compiere la funzione dell’osservatore. Come si comporterebbe dinanzi ad una scena simile un osservatore? Egli guarderebbe singolarmente ognuno dei personaggi e volgerebbe il capo ora da una parte, ora dall’altra; baderebbe a come reagiscono i due personaggi dell’azione l’uno rispetto all’altro e come si comportano al grido della donna. Infine vedrebbe il risultato finale: la fuga di entrambi. L’ipotetico osservatore si trovava abbastanza vicino alla scena e ne ha colto ogni particolare; egli ha dunque dovuto volgere il capo com­ pletamente più di una volta, a seconda dell’interesse dell’osservazione e del succedersi degli avvenimenti. Se si fosse trovato lontano dal luogo dell’azione e avesse guardato la scena, ne avrebbe avuto solo un’im­ pressione generale, senza neppure la possibilità di distinguerne bene i protagonisti. In questo esempio mi sembra che l’importanza del montaggio co­ struttivo appaia evidente. Lo scopo del montaggio è quello di mostrare lo sviluppo della scena quando l’attenzione dell’osservatore è attratta rapidamente ora su uno ora sull’altro particolare. L’obbiettivo della « camera » sostituisce gli occhi dello spettatore. La macchina da presa, che si dirige sui per­ sonaggi e sui particolari dell’azione, sottostà alle stesse necessità a cui sottostanno gli occhi dell’osservatore. Chi fa del cinema, se vuole

84 ottenere la più grande chiarezza, la necessaria accentuazione dei parti* colati e l’evidenza della scena, deve riprenderla in pezzi singoli, diri­ gendo l’attenzione dello spettatore sui momenti più importanti di essa; deve costringere lo spettatore a vedere cosi come un attento osser­ vatore avrebbe visto. Da qui si può dedurre facilmente il motivo per cui il montaggio costruttivo ha una cosi grande e diretta efficacia sull’animo dello spet­ tatore. S’immagini un osservatore eccitato che segue una scena che si svolge con rapidità. Il suo sguardo commosso la segue e passa rapi­ damente da un particolare all’altro. Seguiamo questo sguardo con la macchina ed otterremo una serie di immagini che si alternano rapida­ mente e quindi un montaggio assai movimentato e rapido. L’opposto a questo è il montaggio composto di lunghi pezzi di pellicola intercalati da dissolvenze che producono un montaggio lento. Con quanto si è detto, resta stabilita l’importanza fondamentale del montaggio delle scene. Esso crea la scena, collegando i diversi pezzi di pellicola e concentra l’attenzione dello spettatore sui singoli momenti essenziali della scena stessa. Il succedersi di questi pezzi non deve av­ venire regolarmente, ma deve corrispondere al crescere e al diminuire dell’attenzione dell’immaginario osservatore. In questo succedersi si esprime la logica particolare che esiste solo allorché ogni pezzo di mon­ taggio contiene uno stimolo dell’attenzione per l’immagine successiva. Per esempio: qualcuno volge il capo ed ecco appare ciò che egli vede.

Montaggio degli episodi Guidare l’attenzione dello spettatore sui diversi momenti dell’azione è una caratteristica particolare del film. Abbiamo visto che le singole scene, e spesso anche i movimenti di un uomo sullo schermo, risultano da un’intera serie di pezzi di pellicola. Ma un film non è soltanto una raccolta di scene. Quindi, come è costruita da diversi pezzi la scena che rappresenta un’azione unitaria, così le singole scene si raggruppano e costruiscono i diversi episodi. L’episodio risulta dal montaggio delle scene. Supponiamo di avere il compito di costruire il seguente episodio: due spie avanzano cautamente con l’intenzione di far saltare in aria un deposito di esplosivi. Frattanto una di esse perde una lettera con le

85 istruzioni. Una terza persona trova la lettera e avverte la sentinella. Questa fa appena in tempo ad arrestare le spie e a salvare il deposito degli esplosivi. L’autore si trova, in questo caso, dinanzi ad una contemporaneità di azioni in luoghi diversi. Mentre si prepara l’esplosione, un uomo trova la lettera, corre al corpo di guardia, ecc. Volendo continuare il paragone fatto più sopra tra l’osservatore e la macchina da presa, non possiamo più limitarci a far voltare il pubblico da un lato o dall’altro, dobbiamo invece trasportarlo da un posto all’altro. Lo spettatore, cioè la macchina da presa, prima segue le spie, poi va al posto di guardia e cosi via. Nella relazione tra le scene vale la stessa legge che regola il suc­ cedersi dei pezzi; un episodio apparirà sullo schermo ben costruito solo quando l’attenzione dello spettatore sarà portata giustificatamente da una scena all’altra. Nel caso presente, il passaggio da una scena all’altra sarà buono perché lo spettatore si pone la domanda: « Giungerà la sentinella al deposito prima dell’esplosione? ». E l’autore risponde col mostrare le spie che preparano l’esplosione: « È ancora in tempo ». L’autore, dirigendo l’attenzione degli spettatori ora sulle spie ora sui salvatori, ottiene il risultato di accendere l’interesse dello spettatore. Cosi che l’episodio si può dire costruito bene. Esiste una legge psicologica in base alla quale, se ad ogni moto dell’anima corrisponde un movimento esterno, si può rievocare quel moto con l’imitazione del movimento che esso ha prodotto. È questo il modo in cui l’autore di un film può commuovere lo spettatore. Perciò il montaggio è, in assoluto, un’imposizione forzata dell’idea dell’autore. Se il montaggio non è che una semplice e irregolare unione di pezzi diversi non dirà nulla allo spettatore. Ma, se è adeguato al suo corpo e rende con chiarezza l’andamento dell’azione e il pensiero dell’autore, non può mancare di comunicare allo spettatore l’emozione voluta.

Montaggio degli atti Ogni film è composto di atti. Ogni atto presenta un tutto più o meno chiuso che, fino a un certo punto, corrisponde all’atto teatrale. Gli atti hanno una lunghezza che va dai 300 ai 400 metri. Qui vorrei notare che la lunghezza media di un pezzo di montaggio è di

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due o tre metri e che quindi un atto consta di cento o centocinquanta di tali pezzi. Dalla considerazione di tali cifre, l’autore può rendersi conto della quantità di materiale che va introdotta in un atto. L’atto è costituito dai vari episodi; e quando si parla della com­ posizione dell’atto dai suoi episodi si rientra in quella fase che è la costruzione del soggetto e della quale si è già trattato al principio di questo lavoro.

Il succedersi conseguente dei singoli episodi non è determinato dal rivolgersi qua e là, da un punto ad un altro d’osservazione, ma dallo sviluppo della trama, che rappresenta la base del soggetto.

Montaggio del soggetto

L’unione dei diversi atti costituisce il soggetto. La lunghezza media del film è di circa 2.000, 2.300 metri, lunghezza questa che non provoca un’eccessiva stanchezza per lo spettatore. Come il montaggio degli atti, così quello del soggetto è intimamente connesso all’elaborazione del soggetto.

Lo sviluppo del soggetto deve raggiungere la sua più alta tensione emotiva in un punto che, per lo più, si trova al finale del soggetto stesso. Mantenere l’attenzione dello spettatore fino al finale è molto importante e significa difendere lo spettatore dalla stanchezza superflua. Questa progressione emotiva si rafforza anche con le didascalie, che vanno aggruppate in maggior numero nella prima parte per rendere possibile poi di svolgere ininterrottamente l’azione fino alla fine del film. Nella descrizione delle varie fasi del montaggio abbiamo sin qui seguito quest’ordine: montaggio delle scene, degli episodi, degli atti e quindi del soggetto. Questo per la necessaria chia­ rezza: il processo creativo dell’autore si svolge in ordine inverso. Prima si crea il soggetto, poi lo si divide in atti, poi gli atti vengono analizzati nei loro episodi, poi si passa alle scene e ai particolari di esse.

87 Il montaggio quale strumento psicologico Abbiamo già detto che il montaggio non è soltanto un mezzo per riunire le singole scene o pezzi, ma che esso è la guida psicologica dello spettatore. Citiamo ora i più importanti metodi di montaggio che si propon* gono di influire sullo stato d’animo dello spettatore. Il contrasto. Se si vuole raffigurare il misero stato di un affamato, il racconto otterrà una maggiore efficacia se contrasterà con scene di spensierata ricchezza. Su questo semplice esempio si basa il metodo di montaggio in questione. Sullo schermo l’effetto sarà maggiore perché lo spettatore è costretto a paragonare le due azioni, di cui l’una raddoppia l’efficacia dell’altra. Il montaggio a contrasto è certamente uno dei più efficaci, ma è anche uno dei più comuni e si farà bene a non abusarne. Parallelismo. Questo secondo metodo è simile a quello del con­ trasto, ma va ancora oltre, in quanto presenta le due azioni contrapposte alternativamente in un unico montaggio. Si possono cosi unire due azioni schematiche non collegate tra loro e farle procedere insieme. Un esempio può illustrarlo meglio della sua definizione. Un operaio, uno dei leader di uno sciopero, è condannato a morte; l’esecuzione è fissata per le cinque del mattino. Il proprietario della fabbrica, nella quale lavorava il condannato, esce ubriaco da un risto­ rante e guarda il suo orologio da polso: sono le quattro. Il condannato è ora pronto per essere condotto fuori. E di nuovo il proprietario che suona un campanello d’una casa per chiedere l’ora: le quattro e trenta. La vettura che trasporta il condannato, seguita da una numerosa scorta, percorre una strada. La donna che apre la porta. La moglie del con­ dannato presa da un improvviso malore. Il proprietario ubriaco che russa, sdraiato sul letto vestito. Il suo braccio pende all’infuori e si vede, all’orologio che egli ha al polso, che sono le cinque. In questo caso due episodi senza connessione narrativa sono svi­ luppati parallelamente col proposito di rendere, con l’orologio del pro­ prietario, il passare del tempo e l’avvicinarsi dell’esecuzione. Questo metodo è straordinariamente interessante e può essere applicato molto variamente. TI soggettista voleva dire: come un bue è ucciso dal macellaio con

88 un colpo di pugnale, così sono freddamente, e crudelmente, massacrati i lavoratori. Questo genere di montaggio è particolarmente interessante, in quan­ to porta alla coscienza dello spettatore un concetto astratto senza alcuna didascalia. La simultaneità. Nei film americani, il finale è costruito sul rapido e simultaneo svolgersi di due azioni, in cui il risolversi dell’una è col­ legato a quello dell’altra, come mostra il già citato esempio del film intolerance. Questo metodo parla solo all’animo dello spettatore, for­ zandolo continuamente alla domanda: « Arriverà in tempo? », « Non arriverà in tempo? ». E, benché oggi sia usato molto frequentemente, resta sempre il mezzo più forte per un finale pieno di efficacia. Leit motiv o reiterazione del tema. Spesso è interessante per il soggettista riaffermare il tema del soggetto; per questo serve ottima­ mente il metodo della reiterazione del tema o motivo. La sua natura può essere facilmente chiarita con un esempio. In una sceneggiatura antireligiosa, che si proponeva di dimostrare la crudeltà e l’ipocrisia della Chiesa ai tempi del regime zarista, viene ripetuta più volte la stessa scena: le campane d’una chiesa che sonavano a distesa e sovrim­ pressa la didascalia: « Il suono delle campane invia al mondo un mes­ saggio di rassegnazione e di amore ». Questa scena appariva ogni qualvolta l’autore voleva sottolineare l’assurdità della rassegnazione e l’ipocrisia dell’amore così predicato ai quattro venti. Tutto quello che qui si è detto sul montaggio non esaurisce natu­ ralmente l’intero campo dei suoi metodi. In questa sede era solo im­ portante mostrare che il montaggio, essendo specificamente inerente al cinema, diviene nelle mani dello sceneggiatore uno strumento utilissimo al raggiungimento degli effetti voluti. La conoscenza e lo studio del montaggio rappresentano il più im­ portante impulso verso nuove possibilità cinematografiche, che noi tutti vogliamo scoprire per la creazione di nuove forme.

Il montaggio nel film

Base estetica del film è il montaggio. Sotto l’insegna di questa parola muove la cinematografia sovietica, che non ha perduto a tutt’oggi nulla della sua importanza e della sua efficacia. Bisogna riconoscere che il concetto di montaggio non è sempre inteso nella sua interezza e interpretato nel suo vero significato: fre­ quente è la concezione ingenua che intende per montaggio la semplice operazione dell’incollare i vari pezzi di pellicola secondo l’ordine cro­ nologico; per altri esistono due soli tipi di montaggio, uno lento e uno rapido, dimenticando o ignorando essi che il ritmo, cioè la legge che determina la lunghezza o la brevità dei pezzi di pellicola da mon­ tare, è in realtà ben lungi dall’esaurire tutte le possibilità del montaggio. Mi sia lecito ricorrere, per chiarezza, ad un’altra forma d’arte, la letteratura, per mettere sotto gli occhi del lettore con maggiore evi­ denza l’importanza del montaggio e le sue future possibilità. Per il poeta e per lo scrittore, le singole parole costituiscono la materia prima; esse possono avere i più diversi significati che si precisano solo nella frase. Ma se il significato della parola dipende dalla composizione, anche la sua efficacia e il suo valore sono mutevoli, finché essa non fa parte della forma artistica compiuta. Analogamente per il direttore cinematografico, ogni scena compiuta rappresenta quello che per il poeta rappresenta la parola. Con una serie di tentativi e di prove e con la cosciente composizione artistica egli crea le « frasi di montaggio », dalle quali, passo passo, risulterà la definitiva opera d’arte: il film. L’espressione « girare un film » è del tutto falsa e deve sparire dall’uso. Un film non è girato, bensì costruito coi singoli fotogrammi e con le scene che ne costituiscono il materiale grezzo. Se uno scrittore adopera ima parola, per esempio betulla, questa

92 non è, per così dire, che il protocollo di un dato oggetto, ed è priva di un intrinseco valore spirituale: solo in relazione con altre parole, nella cornice di una forma elaborata, riceve vita e realtà artistica. Io apro un libro che ho qui dinanzi e leggo « il verde tenero di una be­ tulla »; questa composizione, che non è certamente peregrina, mostra tuttavia chiaramente la differenza essenziale che c’è tra la singola parola e un complesso di parole; e, in essa, la betulla non è più determina­ zione protocollare ma è divenuta già forma letteraria. La parola morta è stata risvegliata alla vita dall’arte. Io sostengo dunque che un oggetto, ripreso da determinati punti di vista e mostrato in proiezione allo spettatore, non è che una cosa morta, anche se si muoveva dinanzi alla camera. Il muoversi di un oggetto o di una persona dinanzi alla macchina da presa non è ancora il movimento filmico, ma costituisce soltanto il materiale grezzo per la futura composizione-montaggio. Solo quando l’oggetto è colto in una moltitudine di singoli fotogrammi e risulta sintesi di diverse forme particolari, l’immagine acquista vita fìlmica; cosi anche la parola « be­ tulla » si trasforma, in questo processo, e, da copia protocollare e fotografica della natura che era, diviene forma artistica.

Gli oggetti debbono essere portati sullo schermo, per opera del montaggio, in modo tale da ottenere una realtà non fotografica, ma cinematografica. Da ciò risulta che l’importanza del montaggio e il relativo ciclo di problemi non si esauriscono nella successione contenu­ tistica delle scene o nella istituzione di un ritmo. Il montaggio è quel momento creativo per cui da una fotografia inanimata scaturisce la viva forma cinematografica.

Caratteristico è il fatto che per la creazione di una forma cinema­ tografica può essere impiegato un materiale diversissimo, che, nella realtà, è legato ai più diversi fenomeni. Mi sia lecito, a chiarimento di tutto ciò, un esempio, tratto dal mio film La fine di San Pie­ troburgo. Al principio dell’atto, che è dedicato alla guerra, io volevo mostrare una grande esplosione di dinamite. Per rendere l’esplosione con assoluta autenticità, ho fatto sotterrare una grande quantità di dinamite e ho girato lo scoppio; questo fu veramente straordinario, ma solo nella realtà; sullo schermo risultò inanimato e noioso. In se­ guito, dopo lunghi tentativi e lunghe prove, ho finito col creare l’esplosione e ho ottenuto l’effetto mediante il montaggio che desideravo,

93 senza impiegare neppure un pezzetto della esplosione girata: mi sono servito di un lanciafiamme che emanava una grande quantità di fumo, e per dare l’impressione dell’esplosione ho montato brevi riprese di lampi di magnesio in un alternarsi ritmico di chiari e di scuri. In mezzo ho interposto una ripresa già fatta da molto tempo e che, per la sua particolare luministica, mi pareva adatta. Ottenni cosi infine il risultato che m’ero prefisso; ormai sullo schermo l’esplosione c’era, e quello che le corrispondeva nella realtà era tutto quel che si vuole, ma non certo un’esplosione.

Con quest’esempio ho voluto dimostrare che « il montaggio è il creatore della realtà cinematografica » e che la natura non offre alla sua elaborazione che materia grezza. Una tale concezione si applica pienamente anche all’attore. La ri­ presa di un uomo non è che materiale grezzo per la futura composizione della sua immagine nel film effettuata dal montaggio. Quando, per esem­ pio, nella Fine di San Pietroburgo, ho dovuto presentare un magnate dell’industria, ho cercato di risolvere il problema montando la sua immagine col monumento equestre di Pietro il grande. Io sostengo che i risultati ottenuti per questa via sono di una realtà ben altrimenti efficace che non quelli che può dare abitualmente la mimica di un attore per lo piu viziato dalla recitazione teatrale. Nel primo mio film, La madre, ho tentato di dare al pubblico la presentazione psicologica dell’attore per mezzo del montaggio. Il figlio è in prigione; improvvisamente e segretamente riceve un biglietto che gli annunzia che il giorno seguente egli sarà liberato. Si trattava quindi per me di dare, cinematograficamente, l’espressione della gioia: la semplice espressione del suo viso eccitato dalla gioia sarebbe rimasta senza effetto. Io ho quindi mostrato solo il giuoco delle mani e un primo piano della metà inferiore del volto e la bocca sorridente. Queste riprese le ho poi montate con un materiale del tutto estraneo e cioè con il precipitoso scorrere di un torrente primaverile, con un giuoco di raggi di sole rifrangentisi sulle acque, con animali domestici starnazzanti in una corte e infine con un ragazzo ridente. In tal modo ho creduto di rendere « la gioia del prigioniero ». Non so come il pubblico abbia giudicato il mio esperimento; per conto mio sono profondamente con­ vinto della sua importanza. La cinematografia progredisce con un ritmo assai rapido; le sue

94 possibilità sono inesauribili. Non bisogna dimenticare che essa ha tro­ vato ormai la sua vera via, liberandosi dall’assurda soggezione a forme d’arte estranee, al teatro per esempio, ed è entrata finalmente nel campo dei suoi metodi specifici. Io sono convinto che la volontà di agire sulla ragione e sull’animo degli spettatori, per mezzo del montaggio, costituisce la via per la quale dovrà procedere la grande arte internazionale del film.

L’attore nel film

Teatro e cinema La polemica sulle relazioni fra teatro e cinema, sulla necessità per il cinema di un’integrale acquisizione della cultura teatrale sul pro­ blema dell’attore nel teatro e nel cinema non è stata, il piu delle volte, impostata rettamente, perché alla base di queste discussioni non c’è stata un’elettiva e chiara comprensione del cinema come momento di sviluppo del teatro. Per giustamente intendere quanto ci sia, per noi, da rigettare, quanto da conservare e quanto da modificare dell’eredità del teatro, noi dobbiamo, valutando la nuova natura e i nuovi mezzi del film, chiarire anzitutto a noi stessi quali nuove possibilità tecniche abbia portato con sé il cinematografo. Dico di proposito possibilità, e sottolineo questa parola, perché molti teorici e molti cineasti si smarriscono per la via errata, che porta a considerare il cinema semplicemente come uno spettacolo foto-fisicomeccanico che può fissare e far sopravvivere il vero spettacolo teatrale con tutte le sue specifiche caratteristiche tecniche. L’intrinseca natura del cinema sarà valutata rettamente solo quando noi ci metteremo per la via della piena utilizzazione delle sue nuove basi tecniche, non solo per fissare una forma teatrale già trovata, ma anche per invenire nuovi e qualche volta piu espressivi e piu profondi mezzi per trasmettere allo spettatore un pensiero creatore. La possibilità di utilizzare il cinema solo come fotografia dello spettacolo teatrale esiste certamente sempre, e un tale uso della camera può anche avere qualche significato nel campo della cultura. Ma io ripeto ancora una volta che lo sviluppo del cinema, in quanto arte, non può in alcun modo identificarsi col trasferimento sullo schermo dello spettacolo tea­ trale con tutta la somma dei metodi particolari che lo condizionano. La lotta contro la teatralità nel cinema non significa affatto nega­ zione del teatro: essa vuole semplicemente impostare con chiarezza

98 e con fermezza la necessità di indagare a fondo le antinomie che inevi­ tabilmente si creano nel processo evolutivo del teatro e di trovare la soluzione di esse nel cinema, basandosi sulle sue nuove possibilità tecniche. Indiscutibilmente questa ricerca condurrà alla negazione della serie dei metodi teatrali e all’invenimento e all’accettazione di quelli cine­ matografici. È chiaro che anche il parziale problema della tecnica dell’attore cinematografico noi non possiamo risolverlo senza una conoscenza delle fondamentali contraddizioni, che sorgono nel lavoro dell’attore teatrale. Noi non possiamo risolvere questo problema senza una chiara visione dei fondamenti tecnici del cinema e di quelli del teatro. Quali sono le contraddizioni fondamentali del teatro che il cinema viene ad annullare? Ogni opera d’arte può esser definita un atto di conoscenza e trasformazione collettiva della realtà. Il che significa che l’opera d’arte, nella sua integrità, non va considerata come un atto risultante da due fattori, l’artista creatore e l’opera creata, ma da un processo complicato in cui intervengono tre fattori: l’artista crea­ tore, l’opera creata e lo spettatore. L’atto di conoscenza della realtà, fissato dall’artista nella sua opera, continua a vivere e si riproduce nella molteplicità degli spettatori. In­ sieme con l’artista lo spettatore partecipa alla conoscenza della realtà e in tal modo trasforma l’opera d’arte in un concreto fenomeno storico­ sociale, e cioè la rende reale ed attuale. Lo spettacolo teatrale, come ogni altra opera d’arte, comincia ad esistere stabilmente solo nell’atto del suo contatto col pubblico. Per l’artista sovietico, questo pubblico possiede una caratteristica par­ ticolare, che dipende dalla sua enorme grandezza. Il nostro spettatore è tutta la popolazione dell’Unione e, in ultima istanza, tutta la popo­ lazione del mondo. Che cosa rappresenta lo spettacolo teatrale dal punto di vista dell’estensione della massa degli spettatori? Il numero medio degli spettatori teatrali può essere, quest’anno, approssimativamente di centomila; e noi possiamo moltiplicare questo numero per le repliche degli altri teatri. Ma, anche ammesso un alto livello tecnico nella rete dei vari teatri, gli spettacoli che si dànno a Mosca differiranno per qualità da quelli di Odessa, di Tuia o di Kazan; questi saranno ine­ vitabilmente sottoposti a particolari contingenze: i metodi e la qualità delle diverse regie, i diversi attori e i diversi mezzi tecnici. Perfino

99 nella stessa città ci saranno indubbiamente differenze qualitative deter­ minate dalle differenti regie di una stessa opera. E se procediamo oltre e consideriamo i molti milioni di spettatori dei colcos, ci imbattiamo immediatamente in una differenza qualitativa del più alto grado tra le rappresentazioni del Teatro d’arte di Mosca e quelle di un teatro di colcos, che nemmeno l’organizzazione più perfetta potrebbe dotare sempre di attori di prima grandezza. Conseguentemente, l’estensione della rete dei teatri è in proporzione inversa alla qualità degli spettacoli. Un singolo teatro può estendere il suo pubblico ampliando i suoi locali, ma anche qui esiste un limite, che non può essere superato, un limite definito che rivela una acuta contraddizione, Ìnsita nella natura stessa dello spettacolo teatrale; l’attore che recita deve anzitutto essere ben visibile e udibile. Per questo, per esser chiaramente percepito e udito dalla maggior parte degli spettatori, l’attore studia dizione, imposta la voce, impara ad ampliare i gesti pur mantenendo il loro significato espressivo, e in­ somma impara a muoversi e a parlare in modo che lo si possa vedere e udire dall’ultima fila del loggione.

Ma quanto più netto è il gesto dell’attore, tanto minore in lui è la possibilità di nuancest e quanto più forte gli è necessario parlare, tanto più gli si rende difficile il compito di dare allo spettatore le sottili sfumature dell’intonazione. Tutto ciò, insieme con altre cause che vedremo, porterà l’attore ad una generalizzazione della forma, che, in fin dei conti, sbocca inevitabilmente nello schema e nella stilizza­ zione tecnica, arida e fredda. La profondità e il realismo dell’opera del­ l’attore di teatro è, dunque, inevitabilmente in proporzione inversa alla massa degli spettatori. L’estensione dei locali ha un suo limite, oltre il quale si rende necessaria la trasformazione dello spettacolo stesso e il suo passaggio alla forma particolare di spettacolo per massa: solennità popolari, carnevali, parate. In tal modo, noi vediamo che l’arte del teatro, sviluppandosi nelle attuali condizioni, genera una contraddizione tra l’aumento quantitativo del suo pubblico e il livello qualitativo dei suoi spettacoli. Come si eliminano queste contraddizioni nel cinema? Il grado della qualità artistica, nell’opera cinematografica, si fissa una volta per sempre nella realizzazione del film. E l’alta qualità raggiunta può essere tra­ smessa allo spettatore, immutata, mediante l’ampia rete di cinema­ tografi. L’estensione del pubblico cinematografico è soddisfatta dallo

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stesso carattere tecnico del film, così che, quantitativamente, esso può essere addirittura tutta la popolazione del globo terrestre. E la qualità dello spettacolo in qualsiasi punto, anche lontano dai centri, varia solo relativamente all’attrezzatura tecnica del locale in cui ha luogo. In un prossimo futuro noi avremo probabilmente installazioni cinemato­ grafiche in ogni abitazione, e il perfezionamento della televisione com­ binata con le radiotrasmissioni darà la possibilità di una simultanea presentazione del film in ogni punto della terra. Si potrebbe obiettare che anche lo spettacolo teatrale, nel futuro, potrà essere trasmesso ovunque, tanto per l’udito, quanto per la vista. Ma al cinema rimarrà sempre la possibilità di un’infinita serie di pro­ grammazioni, una volta raggiunta e fissata la qualità migliore. Anche il secondo esposto della contraddizione, tra l’attore e la quantità di pubblico, si risolve nel cinema. Infatti la grandezza dei cinematografi, per l’effettiva possibilità di ingrandire lo schermo e di moltiplicare il numero degli altoparlanti, può essere portata a qualsiasi dimensione. E, dallo schermo, l’attore parla senza la minima esagera­ zione, libero nella scelta delle sfumature piu tenui tanto nel campo della voce, quanto in quello del gesto o della mimica. Avremo piu oltre occasione di trattare partitamente l’importanza di questa possi­ bilità per l’attore cinematografico. Veniamo ora ad una nuova contraddizione, che, nelle nostre attuali condizioni, ostacola lo sviluppo del teatro. L’artista, che porta lo spet­ tatore nel processo di conoscenza della realtà mediante l’opera d’arte, ha la naturale tendenza ad abbracciare nella sua opera una porzione di realtà, quanto piu gli è possibile, vasta e profonda. Tanto più in un’epoca come la nostra, in cui il tempestoso evolversi della realtà scompiglia e supera quotidianamente le generalizzazioni del pensiero umano, è ovvio che questa comune tendenza degli artisti voglia espri­ mersi in una realistica rappresentazione dei molteplici fenomeni che continuamente presentano aspetti nuovi. Un appassionato desiderio di cogliere, oltre ogni generalizzazione, la viva complessità della vita, sempre poliedricamente nuova, porta naturalmente alla volontà di comprendere, nell’opera d’arte, il maggior numero possibile di fenomeni, e quindi di dare all’opera la possibilità di abbracciare la maggior estensione possibile di realtà nel tempo e nello spazio. La possibilità di abbracciare un’estensione di realtà ampia nel

101 tempo e nello spazio è data a ogni forma d’arte dai suoi metodi parti­ colari, connessi alle sue peculiarità tecniche. Nel teatro, a esempio, questo si ottiene mediante la suddivisione dello spettacolo in atti o in quadri. Un atto unico, che si svolga senza interruzione per la durata di un’ora e con due persone che parlano, di fatto abbraccia solo un dialogo di due persone che si svolge in un unico luogo e per la durata effettiva di un’ora. Per abbracciare una maggior quantità di tempo noi possiamo dividere l’atto in due quadri di cui il primo può svolgersi di primavera a Berlino e il secondo d’autunno a Mosca. Talché con questa divisione dell’atto in due quadri, noi abbiamo abbracciato una maggiore estensione di spazio e di tempo. Meyerhold, nelle sue rappresentazioni di lavori teatrali classici, si è sforzato d’immettere in essi un contenuto moderno ed è stato co­ stretto perciò continuamente a uscire dalle vecchie intelaiature delle tre unità, entro le quali erano congegnate le vecchie opere di teatro. Per creare nel pubblico, mediante lo spettacolo teatrale, la necessaria impressione della complessità dialettica del fenomeno, Meyerhold ha dilatato ogni atto suddividendolo in momenti scenici il cui scopo è la espressione di quell’attuale concetto della realtà contemporanea cui aspira tanto l’artista quanto lo spettatore di oggi. Da qui lo spez­ zettamento, da parte di Meyerhold, dello spettacolo, non solo in quadri, ma anche in numerosi episodi nel corso dello stesso quadro. È inte­ ressante ricordare il primo atto della Foresta di Ostrovski, in cui Meyerhold, per mezzo di questi spezzettamenti, conduce due attori attraverso un’intera provincia, senza che essi escano mai dalla scena. Ma se noi sviluppiamo questo metodo, rimanendo nell’ambito dei mezzi del teatro, sbocchiamo inevitabilmente in una insolubile con­ traddizione di ordine tecnico. Immaginare uno spettacolo teatrale sud­ diviso in pezzi della durata di un minuto e di due minuti è un’as­ surdità. Un tale spettacolo presuppone una nuova invenzione, che possa attuare una fulminea rapidità di cambiamenti di scena, e che permetta allo spettatore di trasferire rapidamente e senza fatica la sua attenzione da un momento all’altro e da un punto all’altro del­ l’azione. Ochlopkov, nella messinscena di Impeto di Stavski, ha fatto il ten­ tativo di sparpagliare piccole scene isolate per tutto lo spazio scenico, in modo che lo spettatore, al cambiare di ogni episodio, dovesse solo voltare la testa, a destra, in avanti, e qualche volta perfino all’indietro.

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Si capisce bene che se fosse stato possibile costruire una poltrona meccanicamente girevole, tale da eliminare allo spettatore l’inutile fa­ tica di una serie di movimenti obbligati, il compito del buon allesti­ mento scenico dello spettacolo sarebbe stato risolto a tutto vantaggio dello spettatore. Ma perché inventare una simile poltrona, se la fon­ damentale base tecnica del cinema assolve questo compito con per­ fettissima semplicità e facilità? Anche nel vecchio cinema del « periodo teatrale », quando si consi­ derava il film solo come una semplice ripresa fotografica di opere tea­ trali, si usavano scene, nessuna delle quali aveva una durata maggiore di cinque minuti. In altre parole, le piu lunghe scene cinematografiche di allora erano uguali alle piu brevi scene di teatro. La possibilità di numerosi fulminei cambiamenti dei luoghi del­ l’azione fu impiegata fin dall’infanzia del film; e la possibilità di abbrac­ ciare un’estensione quasi illimitata di tempi e di spazi fu apprezzata e impiegata fin dai primi lavori di seri maestri di arte cinematografica. Lo spezzettamento dello spettacolo, derivante dal bisogno di una maggiore estensione spaziale e temporale di realtà rappresentabile, a un dato punto diviene inammissibile per il teatro mentre è il punto di partenza della evoluzione del cinema. Se per il teatro la durata di tre minuti è limite impensabile di rapidità di cambiamento scenico, tale durata è per il cinema l’estremo limite della lentezza. In che cosa consiste la nuova base tecnica che elimina, nel cinema, la contraddizione che abbiamo visto verificarsi nel processo di evoluzio­ ne del teatro? Anzitutto questa nuova base tecnica consiste nella pre­ senza della macchina da presa spostabile che, per cosi dire, sostituisce a quello dello spettatore un piu perfetto occhio. Un occhio che può allontanarsi a qualsiasi distanza dall’oggetto, per abbracciare il campo visivo piu grande possibile, e che può avvicinarsi al più piccolo parti­ colare per concentrare su di esso tutta la sua attenzione. Quest’occhio può balzare da un punto all’altro dello spazio, senza che la somma dei movimenti provochi il minimo sforzo nello spettatore. Inoltre, il mi­ crofono che rappresenta un orecchio attento e capace di udire, con la stessa facilità, e il più tenue bisbiglio umano e il potente fischio d’una sirena lontana chilometri. Nel presente scritto io intendo stabilire i vari aspetti nei quali que­ ste nuove basi tecniche influiscono sul lavoro di uno dei più importanti elementi del complesso creatore del cinema e del teatro: l’attore.

103 Non bisogna certamente pensare che la nuova base tecnica influisca sull’opera dell’attore solo sgravandolo della necessità di superare una serie di antitesi teatrali (quali ad esempio l’impostazione-intensificazione della voce e l’accentuazione dei gesti, destinate a superare, come abbiamo detto, lo spazio che divide l’attore dallo spettatore nei grandi teatri). La nuova struttura tecnica del cinema non viene solo a render piu semplice l’attività dell’attore, ma comporta invece una serie di dif­ ficoltà inesistenti nel teatro o in esso presenti solo in misura molto più debole. * Ma prima di trattare dei compiti specifici dell’attore cinematografico, bisogna considerare anzitutto gli aspetti della sua attività che sono co­ muni al teatro e al cinema e insopprimibili in entrambi.

Contraddizioni nel lavoro dell’attore Il compito fondamentale dell’attore, tanto di teatro che di cinema, è la creazione di un personaggio pieno e vitale. Fin dall’inizio del suo lavoro, l’attore deve mettersi sulla via della comprensione e dell’acqui­ sizione di questo personaggio intero addestrando sé stesso, nelle prove per il teatro e nel cosiddetto periodo preparatorio per il film. Tanto nel teatro che nel cinema, l’attore deve incarnare il perso­ naggio nel suo significato più profondo, cioè nella sua finalità e nella sua ideologia. Questo lavoro di approfondimento dell’immagine è, natu­ ralmente, caratterizzato non solo da momenti oggettivi, ma anche da momenti soggettivi. Il personaggio concepito da realizzare non è condizionato soltanto dai dati dell’opera scritta nella sua interezza, ma anche dalla natura dell’attore stesso, in quanto personalità particolare. Tutti i problemi del­ la personificazione, comunque si voglia interpretarla, non possono in alcun modo esser scissi dalla sua esistenza in quanto individualità defi­ nita, coi suoi dati particolari di carattere e di cultura. Specialmente all’inizio del lavoro, questa relazione tra l’attore, in quanto individuo, e la forma da realizzare è fortemente accentuata. E l’accento particolare cade nel momento del rapporto, nel suo, diciamo cosi, saggiare, del personaggio, questo o quell’aspetto a lui congeniale e che immediata­ mente lo invaghisca; aspetti questi che possono e debbono costituire i punti iniziali e di appoggio per la sua opera creatrice. Soltanto in se­ guito, procedendo oltre, nella fase dell’approfondimento conoscitivo del­ l’intera opera, l’attore comincia ad espletare il suo lavoro sul contenuto ideologico. Egli deve quindi far suoi i problemi generali dell’opera. Perciò l’attività dell’attore, nella creazione del suo personaggio, è inevitabilmente duplice: il personaggio essendo, da un lato, costituito dalla definita personalità dell’attore, in quanto individuo con tutte le sue personali caratteristiche; dall’altro, dalla relazione di questa perso­

105 nalità con la richiesta comprensione e acquisizione del problema centrale dell’opera. Fino a un certo punto, l’obiettivo dello spettacolo, e dell’attore che è in esso, è quello di trasmettere allo spettatore l’immagine di un uomo reale o almeno di un uomo che può esser concepito come esistente. In tutto il processo del lavoro creativo sulla sua parte, l’attore non può non rimanere un singolo individuo organico e vivo: quando egli entra in scena niente di ciò che esiste in lui si annulla: se è un galantuomo e fa una parte di mascalzone, egli rimane un galantuomo che fa una parte di mascalzone. Perciò la creazione del personaggio, da parte sua. non deve procedere attraverso l’esibizione di attributi non suoi, ma attraverso il superamento dei suoi stessi attributi. La creazione si compie solo quando la serie data di movimenti inte­ riori ed esteriori, richiesti dall’opera, saranno trovati, non attraverso una meccanica riproduzione di parole, di gesti e di intonazioni dettate e suggerite, ma, dunque, attraverso il superamento di sé stesso in quanto personalità reale. Questa maniera di creare una parte è necessaria per­ ché essa possa raggiungere la voluta organicità e interezza, che certa­ mente non attingerebbe se fosse arbitrariamente avulsa dall’organica e completa personalità dell’attore vivente. La bilateralità del processo di creazione della forma effettivamente riverbera in sé la bilateralità del processo di conoscenza della realtà e, direi quasi, di ogni pratico antagonismo dell’uomo col fenomeno. Per esempio, nel campo dell’attività politica, che, come ogni altra attività, comporta una creatività iniziale, noi conosciamo bene la necessità del­ l’unione di teoria e pratica. La teoria deve essere confortata dalla pra­ tica, e la pratica deve universalizzarsi in teoria e solo allora il processo procederà rettamente. Analogamente nel lavoro dell’attore, il fattore emotivo e il fattore logico debbono risolversi in una sintesi. La logica dell’opera dovrà esser controllata dalle individuali agitazioni emotive e acquistare un’unitaria organicità vitale, e queste individuali commozioni debbono essere controllate a appoggiarsi alla logica del lavoro. Per que­ sto l’attore, tanto nel teatro che nel film, non può mai essere, come è stato sostenuto più di una volta, semplice e spontanea natura. Il concetto dell’attore quale pezzo di natura considera tutta la sua attività come una specie di processo meccanico suscettibile di scompo­ sizione in parti distinte e quasi indipendenti; esso si basa sulla assurda negazione dell’attore in quanto persona viva e, privandolo dell’inte­

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riore senso del suo lavoro, rende effettivamente impossibile, tanto per il palcoscenico che per lo schermo, la creazione di una forma unitaria. In tal modo, abbiamo stabilito fermamente la nostra posizione fonda­ mentale nei confronti dell’attività dell’attore, tanto nel teatro che nel cinema. Il processo di conquista di un’organica unità formale costituisce l’essenza della tecnica dell’attore. Ma le condizioni tecniche, tanto nel teatro, quanto nel cinema, pre­ sentano indubbiamente una serie di esigenze, che portano continuamente a interrompere l’interezza e a frazionare la continuità della parte. La suddivisione dello spettacolo teatrale in atti, scene, episodi, e an­ cor più le continue interruzioni del lavoro dell’attore, durante la ripresa cinematografica, costituiscono una serie di ostacoli, oltre i quali tutta la collettività cooperante alla creazione dello spettacolo (l’attore e il re­ gista in teatro: l’attore, il regista, l’operatore, ecc. nel cinema) debbono portare l’organica unità della creazione. L’inevitabile interruzione della recitazione sbocca in una difficoltà per il mantenimento dell’immagine unitaria da parte dell’attore. Egli recita a intervalli; durante questi intervalli egli continua a vivere effet­ tivamente come uomo; senza recitare. Questa contraddizione tra l’interruzione continua imposta dalle esi­ genze tecniche del teatro e del cinema e l’esigenza dell’attore di vivere ininterrottamente nella creazione, i cattivi attori e i cattivi teorici cre­ dono di eliminarla affermando la semplice possibilità di un apprendi­ mento meccanico dei gesti e delle parole necessarie alla parte. Nell’assurdo metodo di trattare gli attori si suole indicare mecca­ nicamente la serie degli atteggiamenti esteriori; e gli intervalli tra i lon­ tani pezzi di recitazione rimangono un vuoto che non necessita affatto di un vivente tessuto connettivo. E un vuoto rimane tutto ciò, non solo durante la rappresentazione e la ripresa, ma perfino durante le prove. Questo orrendo modo di considerare gli attori è enormemente dif­ fuso nel cinema. Bisognerà invece ormai considerare la discontinuità del lavoro dell’attore come un ostacolo che bisogna superare. Bisogna dire che lo spezzettamento della recitazione dell’attore di teatro è infinita­ mente minore che non nel cinema, perché le condizioni tecniche del teatro permettono all’attore una più lunga permanenza nel personaggio. Per di più nel teatro ci si sforza con tutti i modi a dare all’attore la possibilità di collegare i vari pezzi della parte in modo che essi formino, nell’interiorità dell’attore, un tutto organico. E per ottenere questo, gli

107 attori di teatro hanno la grande risorsa delle prove, durante le quali essi non sono legati dalle ferree condizioni del testo che interpretano. Gli attori della scuola di Stanislavski durante le prove recitano non solo i pezzi della loro parte, ma anche pezzi che, di fatto, non esistono nel­ l’opera scritta, e che sono necessari all’attore per raggiungere una piena adesione sentimentale alla parte stessa. Prove di questo tipo mettono l’attore in condizioni di sentirsi in tutto libero di muoversi in ogni senso, rimanendo sul piano dell’imma­ gine progettata. E questo è precisamente il lavoro che collega i lontani pezzi della sua parte nell’ininterrotto sentire di un’unica immagine di uomo vivo. Il più profondo senso di questo lavoro delle prove sta nel fatto che esse danno la possibilità all’attore di trasformare l’astratto pensiero del testo scritto nei concreti atti del suo comportamento. Se l’attore rimane allo stadio mentale del suo lavoro, egli continua a essere un attore. Se l’attore stabilisce che l’individuo, la cui parte egli deve rappresentare, tra il primo e il secondo atto del lavoro può uccidere un uomo, egli dovrà includere questo possibile omicidio, non solo come astratta comprensione, nell’elaborazione dell’immagine del se­ condo atto, ma deve eseguire questo possibile omicidio nelle prove, in modo da poter sentire in sé non solo l’idea dell’azione, ma anche la possibilità dell’azione stessa nella sua concretezza.

Il metodo di queste prove che tenta di collegare tutta la compli­ cazione del personaggio oggettivamente pensato con l’individuo vivo attore, con tutta la ricchezza del suo carattere individuale e della sua cultura, può definirsi processo di acquisizione della parte. Stanislavski, in una delle sue note, parla dell’arte di vivere una parte e dell’arte di rappresentarla, volendo cosi distinguere gli attori in due tipi: il primo che è mosso da una forza interiore e il secondo da una meccanica teatrale esteriore. Egli dice: « Mentre l’arte di vivere una parte tende a produrre il sentimento della parte caso per caso e lavoro per lavoro, l’arte di rap­ presentare una parte si sforza di trovare l’espressione una volta per tutte, per poi contraffare la forma esprimente l’interno stato d’animo ruolo per ruolo; gli attori artigiani lungi dal rivivere il ruolo tentano di elaborare una volta per tutte una forma bell’e pronta che esprima il significato e l’aspetto esteriore della situazione. In altre parole dunque

108 per l’arte della recitazione il vivere la parte è indispensabile. Nel me­ stiere artigianesco ciò non è necessario e avviene solo per caso » *. Qui effettivamente sarebbe necessario sostituire l’espressione vivere la parte con l’altra: acquisire la parte, perché proprio questo processo, di una profonda connessione interiore tra l’elemento oggettivo proprio del testo, e il giudizio dell’attore stesso sul testo, è il corretto processo di elaborazione della forma. Questa connessione deve assolutamente esser trovata dal vero attore, mentre, come giustamente vuole Stanislav­ ski, gli altri attori debbono essere banditi dal teatro. Si può accettare o non accettare la necessità di vivere le parti in quel complicato e particolareggiato senso che dànno a questa espressione gli attori del teatro d’arte, ma in ogni caso il legame organico tra la per­ sona dell’attore con ogni momento della vita del personaggio da lui rappresentato è necessario. Questa relazione è la prima condizione di un’immagine realista. E certamente tutto lo sforzo che si attua per creare l’organica interezza della parte deve farsi anche per creare l’unitaria forma dell’intero spet­ tacolo. La fondamentale asserzione di Stanislavski sulla necessità per l’at­ tore di scoprire la cosiddetta azione intermedia rappresenta anche un mo­ mento essenziale del lavoro dell’attore nella parte. È interessante notare che il momento dell’acquisizione della forma concepita obiettivamente si presenta come esigenza assoluta non solo del teatro e del cinema. Io credo che questo processo del concreto sen­ tire il legame personale con le forme create sia non solo legittimo, ma imprescindibile, processo creativo di ogni arte. Noi sappiamo, dai sem­ pre interessanti referti degli scrittori sul loro lavoro, come essi sempre e ovunque mormorino le parole dei personaggi delle loro opere per tro­ vare, attraverso un concreto personale sentimento, le necessarie intona­ zioni, frasi c parole. Noi conosciamo l’espressione di Gogol, il quale afferma che ogni personaggio delle sue Anime morte rappresenta quei sotterranei aspet­ ti della sua propria natura che egli voleva distruggere in sé. Il metodo delle prove è il mezzo con cui il teatro facilita all’attore la profonda e unitaria incarnazione della parte.

1 Konstantin Stanislavski, Remeslo (Il mestiere) in Teatr, 1938, n. 1, p. 86.

Discontinuità nel lavoro dell’attore cinematografico Tutto ciò che s’è detto, della necessità e del significato della crea­ zione di una forma unitaria nel teatro, si trasferisce naturalmente, in tutti i suoi compiti essenziali, nell’arte dell’attore cinematografico. Si può dire che il realismo e di conseguenza la coerenza del personaggio presentano, nel cinema, nei confronti del teatro, più sottili e più impel­ lenti problemi. In teatro, tutti i possibili spettacoli sono basati sull’iper­ trofia delle convenzioni sceniche, e gli spettacoli aventi un carattere astrattamente estetico sono poi del tutto lontani dalla diretta rappresen­ tazione della realtà, mentre il cinema deve essere considerato l’arte che dà le maggiori possibilità di avvicinarsi alla realistica riproduzione della realtà. Io sottolineo sempre la parola possibilità, per richiamare l’attenzione del lettore sul fatto che non è mia intenzione di affermare il cinema come uno statico complesso di metodi che debbano essere legiferati una volta per sempre. Certamente anche nel cinema esiste la possibilità di stabilire convenzioni che astraggano dalla semplice riproduzione della realtà; certamente anche nel cinema esiste la possibilità di astrazioni che possono giungere a qualsiasi culmine fino a combinazioni suprematistiche di bianchi e di neri. Ma, a parte tutto ciò, il cinema è la forma d’arte capace di approssimarsi al massimo alla viva realtà e di darne una diretta riproduzione. Il problema del grado di astrazione nell’opera d’arte è il problema del senso di misura dell’artista avvertito dallo spettatore: il quale può reagire o con una reale commozione (il che costituisce un’alta valuta­ zione per l’opera) o con freddezza e disapprovazione. Quando io parlo di possibilità cerco anche di determinare la ten­ denza generale dello sviluppo di una singola forma d’arte, nel senso del­ la quale l’artista realizzatore deve lavorare trovando personali soluzioni. Nel cinema, esattamente come nel teatro, noi ci imbattiamo imme­ diatamente nel problema della discontinuità del lavoro dell’attore in

110 diletta contraddizione con il suo sforzo per la creazione di una vivente continuità nella forma della sua recitazione. In forza delle specifiche condizioni del film, delle quali tratterò più oltre, questa contraddizione vi si presenta con un carattere assai più stridente che non nel teatro. Se consideriamo il materiale che ci offrono le impressioni degli attori di teatro circa il loro occasionale lavoro nel cinema, troviamo un’infinita serie di attacchi, di proteste e persino di maledizioni che sono tutte provocate dalla ben nota, e ipertrofica, quan­ tità di interruzioni della recitazione dell’attore. Gli attori affermano di esser costretti, lavorando nel film, a rappre­ sentare la parte che recitano nel modo più astratto possibile, limitan­ dosi ogni preparazione ad una superficiale lettura della sceneggiatura, o a mettere sé stessi a disposizione del regista e dei suoi assistenti fa­ cendosi schiavi privi di volontà, costretti a subire una serie di urli e di ordini da parte del regista, che impone loro un lavoro meccanico e in­ comprensibile. Gli attori aggiungono che essi perdono ogni possibilità di sentirsi, durante le riprese, esseri viventi, perché oggi si chiede loro di recitare la fine della parte, domani il principio, dopodomani le scene di mezzo; tutti i pezzi sono confusamente mischiati, e tutti sono orrendamente corti; ora si riprende uno sguardo che si riferisce a quello che l’attore dovrà fare tra un mese, quando sarà ripreso il movimento d’ima mano che ha provocato quello sguardo. La parte creata dall’attore, frazionata in piccolissimi pezzi, soltanto in seguito si riunirà in un tutto, e per di più anche questo processo di riunione dei pezzi non lo fa l’attore ma il regista il quale, il più delle volte, non ammette nessuna forma di sor­ veglianza, e neppure la più semplice forma di partecipazione, da parte dell’attore, su questo suo lavoro. Questa è, nelle linee generali, la pro­ testa dell’attore di teatro che ha avuto a che fare col cinema. Ma è poi proprio vero che il cinema, in forza delle sue peculiarità tecniche, imponga un inevitabile annientamento di tutte le possibilità per l’attore di sentire concretamente l’unità della sua parte? È poi davvero inevitabilmente necessario mettere l’attore a lavorare in condizioni che egli, in quanto artista, non può accettare? Certamente no. Bisogna dun­ que riconoscere che il sistema di lavoro con l’attore, quale effettiva­ mente viene praticato dalla maggior parte dei registi di oggi, non solo non è perfetto, ma è semplicemente sbagliato. E noi dobbiamo cercare di scoprire quelle vie che, come nel teatro (ho già detto che anche in teatro

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esiste, sia pure in grado assai minore che non nel cinema, una disconti­ nuità), ci permettano di garantire all’attore condizioni di lavoro, nelle quali egli possa compiere il necessario processo di assimilazione della

sua parte. Qui non si può tralasciare di dire che, certamente, noi non solo non ci liberiamo, nella ripresa cinematografica, del frazionamento della reci­ tazione dell’attore, ma non dobbiamo liberarcene, se comprendiamo la natura dello sviluppo secondo il quale il cinema può e deve evolversi. Noi dobbiamo affermare quei mezzi tecnici mediante i quali l’attore possa, nel corso della recitazione durante la ripresa, ristabilire la possi­ bilità per lui della creazione interiore, e la possibilità di mantenere il filo ideale, attraverso i separati frammenti della recitazione, di una immagine unitaria, organica e viva. La necessaria elaborazione e gli svi­ luppi del lavoro dell’attore sono resi possibili nel teatro dalle prove. Noi, nel cinema, dobbiamo trovare dei metodi che ci permettano di seguire la stessa strada. Consideriamo anzitutto l’origine dell’orrendo sistema di lavoro con l’attore cinematografico, che abbiamo or ora ricordato. L’affermazione della necessità del frazionamento dell’opera dell’attore in pezzi di mon­ taggio è nata dalle convinzioni ultratecnicistiche con le quali i registi lavoravano alla creazione del film. Fin dai primi tempi dell’apparizione del cinema, coloro che piu profondamente e più seriamente lo conside­ rarono un’arte furono, in prima linea, i registi, e non c’è da meravigliarsi che le nostre prime opere importanti si siano prodotte secondo l’esclu­ siva tendenza del film creato dal regista. I registi cercavano, ed effettivamente trovarono, nel cinema, speci­ fiche possibilità-, che permisero, col cinema e nel cinema, di produrre negli spettatori una impressione non solo poderosa, ma spesso più po­ derosa di quanto non fosse possibile ottenere con qualsiasi altra arte. Essi trovarono la speciale forma di composizione, dapprima visiva, e successivamente anche sonora, che nel cinema fu chiamata montaggio. La composizione ritmica delle parti, che è elemento indispensabile di ogni arte, nel cinema ha preso un sottile significato, in quanto quivi è con­ nessa con la possibilità, inesistente per tutte le altre arti, esclusa forse la letteratura, di esprimere estesamente la complessità del mondo reale. La comprensione e la combinazione della camera e del microfono quale ideale spettatore, mobile nello spazio e nel tempo, ha dato a quei primi film un carattere epico; ma, di fatto, in un certo periodo di tempo

I 12 ha stornato il regista e lo sceneggiatore dalla retta comprensione dell’im­ portanza dell’attore come individuo vivo, con tutta la sua profondità e complessità. La possibilità di collocare la camera nell’infinita serie dei possibili punti di vista, la combinazione di questi nel processo del mon­ taggio, la possibilità di eliminare particolari azioni del film mediante intervalli, la possibile contrazione e dilatazione del tempo stesso, tutte queste possibilità portarono a quei risultati, che fecero mettere il cinema alla testa delle arti, per la sua capacità di esprimere il mondo contem­ poraneo nella sua complessità. Nel corso di queste ricerche, i registi furono portati, a un dato momento, a impiegare gli uomini reali, gli attori, semplicemente come componenti del film, che potevano essere usati alla stessa stregua di tutti gli altri componenti, semplice materiale grezzo e indifferente, sottoposto alla composizione del montaggio nella fase finale della creazione del film. L’attore, per così dire, era considerato e impiegato come un aero­ plano, un’automobile, un albero. Il regista, nella ricerca dei metodi di creazione non seppe capire che per l’integrale spettacolo cinematografico l’uomo vivo deve essere, nel processo della ripresa, non annientato e nemmeno semplicemente conservato, ma messo in valore; se questa messa in valore non sarà realistica unitaria e viva, allora nel film l’uomo sarà, in fin dei conti, privo di vita più di un aeroplano o di un’automo­ bile; cosa che, bisogna dire, è avvenuta nel film di molti registi.

Con l’attore usato come una macchina, in maniera meccanica, ci fu­ rono le occasionali dichiarazioni teoriche, basate sull’estensione del me­ todo del montaggio (alternativa di pezzi lunghi e di pezzi brevi) all’opera dell’attore. Tutte quelle enunciazioni teoriche non meritano di esser chiamate teorie perché si sono dimostrate poi, quali effettivamente era­ no, frammentarie giustificazioni di mezzi empirici, di esperimenti relativi, principalmente, ai problemi della composizione del film. La via di quella tendenza era press’a poco questa. Nel film noi abbiamo campi lunghi e primi piani. Perciò l’attore deve saper adattare esattamente il suo comportamento dinanzi alla macchina da presa, secondo le esigenze di quei diversi campi. Nello schermo noi abbiamo, senza dubbio, reciproca azione di due immagini successive, perciò la prima può contenere un pezzo di recitazione dell’attore e la seconda un qualsiasi fenomeno necessario al regista e allo sceneggiatore e che abbia luogo in qualsiasi punto dello spazio lontano dall’attore: perciò «.pesti deve essere in grado di recitare il suo pezzetto senza principio

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e senza fine, e senza la presenza di quello che, secondo la volontà del regista e dello sceneggiatore, deve determinare, sullo schermo, il com­ portamento del personaggio. Sullo schermo noi possiamo trasportare l’attore, con enorme rapidità, da un punto del tempo e dello spazio ad un altro che sia lontano. Sul palcoscenico questo non possiamo farlo. E dunque l’attore deve saper recitare pezzi lontani, separati da qualsiasi passaggio di tempo, spettando di connetterli solo al regista che è il solo capace di raffigurarsi il futuro film completamente montato. Tale, schematicamente, la somma di capacità tecniche richieste all’at­ tore. In questa concezione meccanicistica mancava ogni comprensione del reale processo creativo deU’attore/che consiste nell’elaborazione del sen­

timento della viva essenza del personaggio, elaborazione mediante la quale ogni pezzo, per quanto separato dagli altri, deve essere collegato ad essi nell’interiorità dell’attore. Nessun aiuto veniva dato in questo senso all’attore, e la tecnica della recitazione cinematografica veniva, di conseguenza, a trovarsi ad un livello assai basso. Debbo ancora ripetere che, parlando di tecnica della recitazione e di filo conduttore unitario, io non rinnego in nessun modo, né ripudio, la necessità di fare riprese di piccoli pezzi separati per la realizzazione del film. Esiste una tendenza a favorire l’attore riprendendolo in inquadrature di lunga durata e in campi lunghi. Questa tendenza effettivamente è la linea di minor resistenza e contrabbanda, nel cine­ ma, la tecnica del teatro. Questa tendenza ignora le enormi possibilità del cinema, che gli hanno procurato un posto particolare nella serie delle altre arti, che, come ho già detto, dipende direttamente dalla molteplicità, e quindi dalla brevità dei pezzi di montaggio che com­ pongono il film. Il film Grozà [L’uragano] di V. Petrov possiamo, sotto questo punto di vista, considerarlo un film reazionario. Tuttavia a conti fatti esso presenta per noi uno speciale interesse culturale perché è uno dei primi film del nostro cinema che abbia dato all’attore la possibilità di sentirsi, anche durante la recitazione, un essere umano. Però non c’è dubbio che questa maniera di trasformare lo spet­ tacolo filmico in spettacolo teatrale, limitando le variazioni di tempo e di spazio, non è la via giusta del cinema. Noi dobbiamo tenacemente affermare quel metodo che comprende in sé tutta la ricchezza delle possibilità che il cinema può dare: anche se l’affermazione di un tale metodo è, naturalmente, destinata a incon­ trare il maggior numero di difficoltà.

Premesse teoriche della discontinuità Ripeto che il teatro, come ogni altra forma d’arte, consiste nella collettiva rappresentazione e nella trasfigurazione della realtà me­ diante il suo rispecchiamento nell’opera d’arte. Nell’arsenale dei metodi, mediante i quali si svolge questo processo nel teatro, il dialogo occupa indiscutibilmente il primo posto. Il rispecchiamento della realtà, che è il compito dell’autore, si ottiene, nel teatro, principalmente per mezzo dell’arte dell’attore, per mezzo cioè dell’uomo vivente, della sua azione, della sua parola, delle sue relazioni con gli altri personaggi nel dialogo. In verità, nella rappresentazione teatrale, l’azione si svolge anche indipendentemente dall’uomo, e il materiale che costituisce la mes­ sinscena ha una parte nella diretta rappresentazione della realtà anche a prescindere dagli attori. E tuttavia la natura del teatro è tale che il principio fondamentale, che costituisce il contenuto dello spet­ tacolo, è l’uomo che parla, cioè l’attore in relazione con un altro in una stessa azione. La rappresentazione della realtà, indipendentemente dall’attore, è una possibilità limitata al massimo grado dalla tecnica del teatro. Esi­ stono, è vero, casi in cui nel teatro si dà la parte principale al materiale scenico. Ma se il teatro si metterà per questa via, rapidamente esaurirà le sue possibilità. Perché la rappresentazione di grandi e svariati eventi, legati a qualsiasi momento dell’attività umana, è possibile solo pei mezzo della loro descrizione nel testo, cioè a dire ancora per mezzo della parola umana sulla scena, per mezzo dell’attore. L’immediata rappresentazione di eventi organicamente connessi con l’azione, ma separati nel tempo e nello spazio, può effettuarsi, in un lavoro teatrale, mediante il racconto di essi. Messi, confidenti, conférenciers (questi ultimi impiegati oggi cosi spesso negli spettacoli teatrali) sono procedimenti caratteristici del teatro. Il mondo della realtà che l’artista coglie, nell’atto creativo della

115 sua comprensione di essa, può essere portato sul palcoscenico sola­ mente per mezzo dell’attore, della sua parola, del suo gestire, del suo comportamento. Tutto ciò è caratteristico del teatro. Nel cinema la cosa è diversa. Ciò che nel teatro può essere solo raccontato qui può esser mostrato direttamente, poiché la particolare natura tecnica del cinema, come ho già detto, lo rende capace di una diretta rappresentazione e di una diretta trasmissione allo spettatore di qualsiasi avvenimento della realtà. Si potrebbe obiettare che questa diretta rappresentazione non è necessaria e perfino che essa è inutile. Il processo per cui il particolare insignificante acquista valore universale, che è essenzialmente carat­ teristico di ogni atto creativo, e specialmente dell’arte, può attuarsi indipendentemente dalla diretta rappresentazione di avvenimenti sud­ divisi nel tempo e nello spazio. Allo stesso processo, l’artista può giungere anche se legato alla unità di tempo e di spazio. E questa è una verità effettivamente fuori di discussione: ma svilupparla fino all’idealistico acconciarsi a facili forme sorpassate e stantie col rifiuto di valersi di nuove possibilità, mai esistite fino ad oggi, credo sia da considerarsi atteggiamento sbagliato e sostanzialmente retrivo.

Ho avuto recentemente occasione di parlare con un drammaturgo, che mi ha francamente ammesso di aver sentito, progettando di scri­ vere un dramma sull’aviazione, come un simile tema, per sua natura, avrebbe potuto, molto piu chiaramente ed efficacemente, trovare una forma adeguata nel film. Si vede, in questo concreto esempio, come un notevole e signi­ ficativo fenomeno della realtà attuale, lo sviluppo mondiale dell’avia­ zione, fenomeno che ha determinato notevoli variazioni e' sviluppi nella psicologia umana, possa essere dominato nella sua piena ricchezza e trasmesso al pubblico solo mediante un’ampia elaborazione e una diretta rappresentazione di fatti che si svolgono in luoghi tali che è impossibile portare sulla scena. Nel teatro, l’attore può raccontare del volo, nella letteratura l’autore aggiunge a questo racconto la descrizione dell’interiore esperienza del suo protagonista, ma solo il cinema può dare allo spettatore la diretta rappresentazione dell’uno e dell’altra. E la rappresentazione diretta — giova dirlo? — produce sempre un’impressione particolarmente forte. Non per caso lo spettacolo tea­ trale, per la forza della sua influenza sullo spettatore, è sempre in testa

116 alle altre arti. Ora, se noi pensiamo che col cinema si può direttamente esprimere una materia immensamente piu ricca di quella che può esprimere il teatro, comprenderemo facilmente come la ricchezza delle sue possibilità avvicini il cinema alla letteratura e gliela faccia a volte perfino superare, nella sua eccezionale potenza di mezzi espressivi.

Il cinema, coi suoi mezzi, appare dunque lo specchio ideale della complessità dialettica degli eventi nella sua pienezza; nell’atto di questa diretta rappresentazione, c’è un profondo momento, in cui lo spet­ tatore stesso è portato a partecipare al processo creativo. Se si tiene presente il processo di pensiero che sempre condiziona la struttura della diretta rappresentazione della realtà, nel film, si capisce come esso costringa lo spettatore a riflettere, nel momento stesso della proiezione. £ noto che Lenin, con la straordinaria semplicità e chiarezza che gli erano proprie nel cogliere l’essenza delle cose, ha immediatamente definito il cinema, sulla base di un occasionale rapporto di carattere puramente tecnico, anzitutto come un mezzo potente per cogliere, nella sua ampiezza, e conoscere la realtà e quindi per trasmetterla a masse di molti milioni di uomini. Mi riferisco qui al noto programma per i cinematografi, nel quale Lenin ha sottolineato l’importanza della possibilità del film per far conoscere, alle grandi masse operaie e contadine, il mondo, i paesi stranieri e cosi via. Il nostro cinema, nell’opera dei suoi maggiori maestri, si è svi­ luppato e si sviluppa nella tendenza ad abbracciare, col film, il massimo possibile della varietà dei fenomeni della realtà, qualche volta anche a spese della necessaria universalizzazione ideologica. lo credo che questa caratteristica non la si possa spiegare sem­ plicemente come espressione di un gusto individuale dei registi. Mi sembra invece che si debba riflettere sul fatto che la nostra epoca e la nostra realtà ci mettono quotidianamente sotto il naso una tale com­ plessa infinità di fenomeni che, spesse volte, nello sforzo di coglierla, di trasmetterla allo spettatore, noi non riusciamo a contenerla entro poche idee generali. Noi sappiamo bene quale quantità di dogmi siano stati annientati e distrutti dalla rivoluzione. La lotta, che dura tuttora, contro il dogmatismo, e contro le sopravvivenze della concezione capitalistica, spesso si esprime nel fatto che l’artista, invece di formule ideologiche,

ne dà il vivo contenuto, facendo appello alla collaborazione dello spet­ tatore. per creare, nella sua comprcnsività, l’ideale generalizzazione della complessità rappresentatagli. Mi piace qui portare un esempio, anche se ha solo un’indiretta relazione col nostro problema. Lev Tolstoi, che con Guerra e pace ci ha dato un’opera stupenda, per pienezza di materiale reale e vivo, invecchiando ha poi scritto Resurrezione, opera che, pagina per pagina, capitolo per capitolo, è piena di generalizzazioni, digressioni, disserta­ zioni, e dove i personaggi si muovono e agiscono tanto meno, e sono, come i luoghi dell’azione, di numero tanto più limitato. Sul finire della sua vita, Lev Tolstoi ha poi abbandonato ogni realtà di vita e di personaggi vivi, per scrivere unicamente trattati filosofici. Queste osservazioni su Tolstoi non hanno, naturalmente, la pre­ tesa di formulare un giudizio sulla sua opera. Io ho voluto solo notare, con quest’esempio, il fatto che una giovanile percezione della realtà può, nell’intensità creativa, produrre un’opera d’arte densa e importante, senza rinunziare all’ampia e diretta rappresentazione degli innumerevoli elementi staccati dalla realtà. L’eccesso di teorizzazione è, certamente, la via di quel processo che sbocca nel dogma, e, in un dato momento, direttamente legato alla decadenza senile, porta dalla creazione artistica all’arido e freddo sermone. Ecco perché, pensando alle vie del cinema, io non posso non para­ gonare le sue possibilità con quello che ha fatto il genio di Tolstoi, e non posso non spaventarmi del fatto che, perfino il genio di Tolstoi ha finito per cristallizzarsi nel dogmatismo ideologico. Non bisogna aver paura della quantità di materiale nei nostri film. Mi è accaduto di incontrarmi spesso con degli accaniti sostenitori del famoso film di Chaplin Una donna di Parigi. Questo film rappresenta, indiscutibilmente, un modello di alta maestria, tanto per regia che per recitazione, ma il fatto si è che i suoi sostenitori non lo apprezzano solo come tale, ma intendono che i suoi metodi siano esemplari, da essere seguiti cioè per la creazione di film d’arte. Il film si svolge in maniera intimistica; l’azione, per la maggior parte, ha luogo in due o tre ambienti; l’unico esterno che vi si trova è un pezzetto di strada, sulla quale i personaggi s’incrociano per l’ultima volta e si separano proseguendo ciascuno per le rispettive direzioni. L’intensa attenzione del regista vi si è concentrata nei più minuti

118 particolari del dram inetto, che si svolgeva nell’intima cerchia di quattro o cinque personaggi. Tutto ciò era condotto assai bene ed è sembrato potesse esser seguito da noi. Il già citato Grozà di Petrov è molto simile, nella sua condotta cinematografica, a quello di Chaplin. A me sembra che un tale modo di concepire il lavoro cinematogra­ fico, non solo sia inadatto per molti dei nostri registi, ma sia tale da distogliere il cinema dalle sue specifiche, eccezionali e potenti possibilità.

Per Chaplin, tutta la ricchezza degli avvenimenti legati alla com­ plessa vita della società umana non è servita perché già da molto tempo il pensiero borghese ha incasellato tutto ciò in una serie di morti dogmi. Chaplin, che vive in un ambiente borghese, ha trovato facile separare il minuscolo mondo dei suoi quattro personaggi da tutto il resto, perché il resto, tanto per lui, quanto per il pubblico al quale egli si rivolge, è un mondo di idee preconcette non mutabili e non interessanti. Le idee universalmente accettate e le regole rappresentano, per il pubblico borghese, la muraglia nella quale esso si rinserra per di­ fendersi dai pericoli della società in sviluppo, muraglia che è compito dell’artista mantenere inviolata. Il contatto con tutta la ricchezza del mondo esterno spaventa inevitabilmente l’artista borghese. Naturalmen­ te, per i nostri artisti e per i nostri spettatori, le cose non stanno affatto così. Il legame organico, tra l’intensa complessità della nostra epoca e il carattere specifico dell’arte cinematografica, non può esser negato. E la tendenza verso la massima incorporazione di realtà possibile nel film per lo sfruttamento pieno delle sue effettive possibilità ci porta fatal­ mente al metodo specifico dell’arte cinematografica, il montaggio di pezzi brevi. Dobbiamo ora ricordare ancora una possibilità tipica del cinema, che porta alla inevitabilità del frazionamento dell’opera dell’attore du­ rante la ripresa. Immaginiamo che l’attore debba fare un’orazione patetica dinanzi a un grande uditorio, che ascolta, reagisce alle parole dell’oratore: applaude e lo interrompe con grida solitarie. Ora, se noi vogliamo rap­ presentare la folla non come una massa, anonima e senza volto, ma come una unità poliedrica, se intendiamo che la massa ha la sua signi­ ficazione e il suo reale contenuto quando in lei si possono vedere gruppi separati e, in ogni gruppo, i componenti individuali di esso, noi dob­ biamo, continuamente e velocemente, spostare la macchina da presa

119 da un punto all’altro, e, nel corso dell’orazione, alternare il campo lungo che abbracci l’oratore e il pubblico coi particolari colti entrando tra la folla: un gruppo e un singolo individuo che reagisca con gesti o con grida. Naturalmente, dobbiamo frazionare il discorso dell’oratore in pezzi che, congiunti nel montaggio ai pezzi in cui si vedrà la rea­ zione dell’uditorio, faranno di questa moltitudine di particolari un’unità. Si potrebbe sostenere che per un simile tipo di montaggio non è necessario interrompere il discorso dell’oratore in pezzi, e che può bastare riprendere l’orazione tutta intera per poi, al tavolo di mon­ taggio, suddividerla meccanicamente inserendovi i necessari pezzi con gli ascoltatori. Ma nessun regista, capace di servirsi delle possibilità del cinema, potrebbe seguire questo sistema. Del discorso non interes­ sano le sole parole: e noi sappiamo bene infatti che imponenza ab­ biano, per la pienezza dell’immagine dell’uomo che agisce, i gesti e la mimica connessi alle parole. La mimica, anche la più complicata e sot­ tile, ha una parte non minore dell’intonazione della voce. Talvolta la piena significazione della parola o della frase detta si rivela da un gesto della mano; tal’altra il chiudersi degli occhi dà una inattesa pateticità ad una parola o ad una frase. Ebbene, solo il cinema, grazie alla camera sempre spostabile, può dirigere l’attenzione del suo pubblico in modo che ogni momento della recitazione sia visto nel più sottile e nel più espressivo dei suoi lati. Ecco dunque che, per meglio mostrare allo spettatore la recitazione dell’attore, si presenta la necessità di interrompere l’unità dell’orazione in pezzi di ripresa staccati. Ad un dato punto, vediamo l’oratore che parla ad occhi chiusi': in un altro lo vediamo protendersi tutto con le braccia alzate; in un altro momento sentiamo il suo sguardo fìsso sopra di noi. E un movimento nervoso della sua mano dietro la schiena può servire a caratterizzare acutamente e col necessario colorito la sua personalità. Un tale materiale si può ottenere solo riprendendo separatamente brevi pezzi dell’azione e cambiando la posizione della macchina da presa e del microfono. La ripresa simultanea di diverse camere, messe in luoghi diversi, non può darci questo veramente sottile e limpido mate­ riale di montaggio perché una camera piazzata per un primo piano si troverebbe nel campo della camera piazzata per la contemporanea ripresa del campo lungo. La ripresa a pezzi separati è dunque indispensabile.

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Il problema può essere formulato cosi: debbono le possibilità enormi offerte dal cinema per l’approfondimento e l’affinamento, col montaggio, della stessa recitazione dell’attore essere sacrificate al natu­ rale desiderio dell’attore di svolgere la sua recitazione per quanto più a lungo è possibile senza interruzioni, o si deve tendere all’invenimento di un mezzo che ci permetta di mantenere e di sfruttare al massimo quelle possibilità? La difficoltà della soluzione di questo problema è la difficoltà fon­ damentale della recitazione cinematografica, e la sua soluzione è la tecnica stessa dell’attore cinematografico. Questa difficoltà, come ho già detto, esiste anche per il teatro. L’interruzione tra due entrate non deve differire sostanzialmente dal­ l’interruzione tra due frasi, quale può avere luogo nel cinema. Tutto il contenuto di un lavoro teatrale potrebbe, in fondo, pren­ dere la forma di un singolo ed ininterrotto discorso fatto da un attore declamatore senza mai uscire dal palcoscenico. In generale però il teatro introduce personaggi e rappresentazione diretta di avvenimenti in­ vece di limitarsi a riferirli con parole. Il teatro rompe l’unità dell’azione in atti e in intervalli che ne eliminano una parte. L’attore può rimanere nel corso di tutta l’azione sulla scena, e non uscire nemmeno per un minuto, ma necessità teatrali lo porteranno tra le quinte perché l’ampliamento realistico dell’azione richiede a un dato punto l’introduzione di nuovi personaggi e questi nuovi personaggi non solo lo faranno retrocedere nel secondo piano, ma talvolta lo soppianteranno del tutto dal campo di attenzione dello spettatore. E l’attore dovrà rimanere dietro le quinte, aspettando che lo sviluppo dell’azione lo richiami nuovamente nella sua orbita. Ripeto che questo processo, che interrompe la vita del personaggio sulla scena, non differisce sostanzialmente dall’interruzione della reci­ tazione dell’attore nel processo della ripresa cinematografica. La contraddizione tra la personalità dell’attore e il suo sforzo per rimanere, nel corso della recitazione, una figura unitaria, nelle condi­ zioni dalle quali si trova circondato in un film realistico, esistono — ripeto — tanto nel teatro che nel cinema e, in genere, in qualsiasi crea­ zione artistica. Ripeto che la soluzione di questa contraddizione sta nella retta comprensione del significalo della tecnica dell’attore nell’invenimento dei suoi metodi.

Il lavoro delle prove Quali sono i metodi fondamentali della tecnica dell’attore? Ho già detto che il teatro facilita l’attore nel suo sforzo per la creazione di una immagine unitaria e organica mediante una minuziosa metodo­ logia di prove. È appunto nelle prove, dove secondo la volontà degli attori e del regista possono essere rimosse le rigide condizioni della composizione della pièce, che si sviluppa quell’integrale ininterrotto lavoro, che per­ mette all’attore il collegamento della sua vivente personalità con il personaggio che interpreta in qualsiasi modo possa essere necessario. Nelle prove l’attore, non ostacolato dalle interruzioni di tempo e dalle variazioni di spazio, può unire i pezzi separati della sua parte in un tutto, può immedesimarsi nella parte concretamente, può pro­ vare tutta una serie di pezzi che non esistono nel testo, ma che appar­ tengono indubbiamente all’organico sviluppo della sua parte. Egli può dunque, in una parola, fare nelle prove tutto quel lavoro che gli permetterà in seguito di sentire ogni pezzo separato della sua parte, in modo che le interruzioni meccaniche nel corso dello spettacolo siano colmate, se non dalla sua fisica permanenza sulla scena, dalla continuità del suo interiore sentire e comprendere il ruolo. Che cosa si fa nel cinema per dare questo necessario ausilio tecnico all’attore nel suo complesso lavoro creativo? Bisogna ammettere che questo aiuto quand’anche ha luogo nei gruppi di ripresa si svolge in maniera quasi assurda. In questo senso ci saranno state le preliminari rielaborazioni della sceneggiatura da parte del regista insieme con l’at­ tore. La parte sarà stata discussa, se ne sarà parlato molto, avranno avuto luogo le cosiddette delucidazioni della parte. Il cosiddetto lavoro di tavolino, quello che nel teatro precede le prove, ha luogo abitualmente anche nel cinema, nel senso della fusione dell’immagine trovata a tavo­ lino colla sua persona fisica e i suoi mezzi di espressione: cioè il mo­

122 mento fondamentale, nel quale si trasforma il concetto nell’azione del­ l’attore, non esiste. L’elaborazione preventiva della futura forma da parte dell’attore viene a essere assurdamente e meccanicamente separata dalla concreta pratica su sé stesso, in quanto persona viva, essere umano che si muove e parla in unità espressiva. L’attore giunge cosi alla ripresa, cioè a una fase di lavoro, che necessita di un’esecuzione sicura e tecnicamente definita, senz’altro ausilio che non sia la verbale e letteraria rappresen­ tazione del generico significato della sua parte in nessun modo con­ nessa con la sua vivente personalità. Tanto avviene nel migliore dei casi; nel peggiore, l’attore è semplicemente privo di qualsiasi notizia circa la sua parte, salvo la somma delle indicazioni che il regista gli «dà durante la ripresa, pezzo per pezzo. Naturalmente ogni pezzo sarà preceduto da qualche simulacro di prova, ma di questo non è il caso di parlare seriamente, dato che esse non hanno, né possono avere, alcun interiore legame coll’unitaria immagine del personaggio incarnato dall’attore.

Proprio da questa errata concezione dei compiti della recitazione è nata la pseudoteoria del montaggio dell’immagine (che, tengo a di­ chiararlo, non ha un concreto nome di autore). Questa teoria ha affer­ mato che la figura del personaggio può esser confezionata meccanicamente, incollando separati pezzi di ripresa non connessi in interiore unità ideale da parte dell’attore. La giusta concezione del montaggio della recitazione è totalmente diversa e ha una grande importanza per l’attore cinematografico. Ne tratteremo oltre. Come in teatro, cosi nel cinema, il metodo delle prove ha un’im­ portanza decisiva per l’attore. Ho già detto che nel cinema questo metodo ha un compito piu serio e più sottile in quanto le continue interruzioni del lavoro del­ l’attore, durante la ripresa, esigono una conoscenza della parte straor­ dinariamente precisa e particolareggiata. Saggi di organizzazione sistematica del lavoro delle prove prima della ripresa sono stati fatti anche nel cinema. Io non posso parlare del lavoro dei Gruppi sperimentali in quanto essi non hanno dato relazioni né verbali né scritte dei metodi e dei risultati delle loro espe­ rienze. Analizzerò quindi l’esperimento di Kuliesciov fatto con il suo film Vieliki utiescitiel [Il grande consolatore].

123 Kuliesciov scrisse una sceneggiatura di montaggio, tecnicamente ela­ borata. Tutte le inquadrature, nell’ordine numerico progressivo, furono portate in un piccolo palcoscenico sperimentale. In sostanza, prima del­ l’inizio della ripresa fotografica, fu recitato uno spettacolo che era costituito da piccolissime scene di lunghezza identica ai pezzi del futuro montaggio. Kuliesciov, per quanto gli fu possibile, rappresentò ogni scena col suo piccolo palcoscenico in modo tale da poter poi, dopo minuziose prove, portarle immediatamente e senza variazione nella ripresa. L’intenzione di questo esperimento era triplice. In primo luogo: approfondire al massimo la recitazione degli attori. In secondo luogo: dare al regista la possibilità di vedere uno spettacolo tanto simile al futuro film da permettere le rielaborazioni eventualmente manifestatesi come necessarie. In terzo luogo: infine, ridurre il piu possibile l’im­ piego di tempo per la preparazione degli attori nel corso stesso della ripresa, tempo che, come è noto, costa molto caro.

Lo spettacolo creato dal Kuliesciov in base a queste esigenze venne ad assumere un aspetto particolarmente originale. Tendendo a fare lo spettacolo delle prove in tutto simile al futuro film, Kuliesciov non solo si è limitato a fare delle prove per gli attori, ma è stato costretto a trattare il film nella maniera piu semplice per adattarlo a seguire la traccia delle stesse. Non è per caso che nel film di Kuliesciov ci sono pochissimi per­ sonaggi, non è per caso che la massa vi sia del tutto assente, e non è infine un caso che i pochissimi esterni abbiano proprio l’aspetto di campagne disabitate o di strade cittadine, per le quali non s’incontra nessuno, eccetto i due o tre personaggi dell’azione. Ma, naturalmente, Kuliesciov ha scritto il soggetto e scelto il luogo dell’azione e il numero dei personaggi in modo che fosse possibile realizzare con facilità e rapidità uno spettacolo teatrale su di un pic­ colo palcoscenico primitivamente adattato allo scopo. Io non credo che si possa dire che questo lavoro di Kuliesciov sia fondamentalmente sbagliato: esso si presenta infatti come un esperi­ mento indubbiamente interessante. Ma sbagliate sarebbero le deduzioni facili che se ne potrebbero dedurre, nel senso di convertire quello che è un puro esperimento in una ricetta dogmatica, che debba essere assolu­ tamente applicata per la preparazione alla ripresa di qualsiasi film. Il nostro compito rimane, evidentemente, quello di trovare tali

124 vie, tali forme e tali metodi di prove che non tolgano niente al film delle sue possibilità di largo e ricco contenuto. Si pone dunque per noi il problema di come organizzare la prepara­ zione degli attori per film concepiti in modo cinematografico, cioè per film che abbiano una molteplicità di scene, che si svolgano in luoghi distanti, e che pongano in sostanza problemi tali, che non possano essere risolti sul palcoscenico.

Perché certo noi non possiamo, né dobbiamo, per seguire il nostro naturale desiderio di una buona preparazione, rappresentare il futuro film per intero sulle tavole del palcoscenico, eliminando da esso quegli elementi estranei all’attore che recita e che tuttavia dànno al film forza e ricchezza di possibilità veramente cinematografiche. Io credo che la giusta impostazione del problema della metodologia delle prove noi l’otterremo solo se ci faremo chiari i suoi compiti fondamentali. Questo compito è indubbiamente la creazione da parte dell’attore del­ l’unitaria immagine del suo personaggio. Tutto il resto: la presenta­ zione della futura interezza del film e degli ambienti (che nella forma ultima non è mai possibile, a meno che il film non limiti le sue riprese al teatro di posa) deve essere limitato dal massimo incremento delle condizioni che vanno date all’attore perché egli possa espletare il suo preciso compito tecnico: quello dell’assorbimento del personaggio. Quali sono le premesse fondamentali di un metodologico tipo di prova? Consideriamo anzitutto fa struttura della sceneggiatura, che consiste naturalmente nella successione compositiva della serie dei pezzi di montaggio. Quasi ogni momento del comportamento dell’attore è intercalato da azioni parallele inseritevi, compiute da altri attori che si trovino in altri luoghi, o da elementi di quei fatti generali e sociali, ai quali l’attore è legato nel corso dell’intera azione. Immaginiamo la scena seguente: un uomo, in una stanza, chiacchie­ ra con qualcuno, mentre aspetta ansiosamente l’arrivo del fratello, che deve arrivare in aeroplano. L’azione è interrotta dallo squillo del cam­ panello, che annuncia l’imminente atterraggio del velivolo. Sullo scher­ mo, l’azione si trasferirà all’aeroporto, dove noi vedremo l’apparecchio, che si abbassa e precipita in un’improvvisa catastrofe, che provoca la morte dei passeggeri. Il pezzo seguente ci riporta al fratello, che aspetta e che già riceve la terribile notizia. In sede di prove sarà necessario sforzarsi per mostrare sulla scena l’uomo che aspetta e poi la catastrofe aviatoria? Nei confronti della

125 recitazione dell’attore, tutto ciò non solo non è necessario, ma è addi­ rittura dannoso. Infatti sarà meglio dare all’attore la possibilità di rimanere ininterrottamente nella sua azione sostituendo la visione della catastrofe con la notizia telefonica della disgrazia. Supponiamo che sullo schermo si debba vedere un personaggio che sfugge a un inseguimento, gettandosi a nuoto in un fiume e raggiunge la riva opposta, dove s’incontra con l’uomo che egli cercava per dargli un messaggio: certamente sarebbe una cosa sciocca e insensata quella di preoccuparsi, durante le prove, dell’attraversamento del fiume. Quello che è importante per la preparazione dell’attore è la presenza di un grave ostacolo che gli è necessario sormontare e l’inclusione di quella sensazione di recente vittoria sull’ostacolo, nel suo dialogo con l’uomo incontrato all’altra sponda. E dunque, nelle prove, il fiume può essere sostituito da qualche altro ostacolo, per esempio da una finestra che sia necessario scavalcare o una porta, che sia necessario abbattere per penetrare in un’altra stanza. Io porto esempi molto semplici, per dare un’idea chiara del fatto che i pezzi separati (i pezzi di montaggio), che rappresentano i singoli momenti dell’azione quale dovrà apparire sullo schermo, debbono, nel lavoro delle prove, esser trasformati in qualche cosa di diverso e di analogo che soddisfi l’esigenza che ha l’attore di concentrarsi tutto nella creazione del comportamento del personaggio. Questa nuova forma di sceneggiatura io la chiamo sceneggiatura per gli attori. Nella sceneggiatura per gli attori, i pezzi separati, relativi a ogni singolo personaggio, debbono essere avvicinati l’uno all’altro e comporre pezzi di recitazione di maggior durata, privi di interruzione. Tutto il materiale di montaggio previsto dal regista o dalla sceneggia­ tura sarà conservato: soltanto esso sarà rielaborato in un ordine nuovo, che avvicini i pezzi sparsi e dia cosi agli attori la possibilità di un più lungo e ininterrotto movimento interiore. Certamente questa contrazione in unità di pezzi separati obbliga spesso alla sostituzione di alcuni elementi con altri, come si è visto nel mio esempio dell’aeroplano col telefono.

Non c’è dubbio che tale fusione di pezzi separati, agli effetti della recitazione, sia un lavoro che esige una grande esperienza pratica. Ma la sua fondamentale importanza è evidente. La pratica del teatro, e, in particolare, la pratica della scuola di Stani-

126 slavski sugli intervalli, alla quale abbiamo accennato di sopra, può avere nelle prove per il film una grande parte.

Il regista Kozintsev ha detto che, durante le prove per Tritoghia o Maksim [Trilogia di Maksim], ha lavorato con i suoi attori solo a quei pezzi delle loro parti che non hanno avuto luogo nel film. Il senso esatto delle sue parole è certamente questo: il compito fonda­ mentale del regista e dell’attore nelle prove è quello di stabilire l’unità di ogni singolo pezzo col tutto.

Per non confondere l’attore con convenzioni teatrali estranee al cinema, il regista, durante le prove, deve corredare l’attore di condi­ zioni reali che siano pratici surrogati, possibili sulla scena o nella sala di prove, di quelle del futuro momento della ripresa. Cosi per non costringere l’attore a sprecare energia durante le prove per immaginare il fiume, che egli nella ripresa si troverà dinanzi effettivamente, il regista, insieme con l’attore, creeranno un pezzo di prova nel quale l’interiore contenuto, che determina il comportamento del personaggio, non muti: cosi il fiume che egli dovrà attraversare a nuoto sarà sosti­ tuito da qualcuno degli altri ostacoli di cui ho già parlato. Voglio ora sottolineare lo straordinario pericolo dell’impiego di spe­ cifici metodi teatrali, nessuno dei quali sarà poi impiegato durante la ripresa. La soluzione del problema della preparazione dell’attore cinemato­ grafico proposta dal Kuliesciov, cioè la rappresentazione diretta sul pal­ coscenico del futuro film, presenta appunto questo pericolo. Voglio dunque affermare con energia ancora una volta che quella che ho chiamato la sceneggiatura per gli attori esige un profondo e attento lavoro, attuato insieme con l’attore, nel quale si crei l’intelli­ gente surrogazione delle condizioni reali descritte nella sceneggiatura e nel piano di montaggio, con le diverse condizioni attuabili in sala di

prove. Se noi escludiamo del tutto la collaborazione dell’attore alla crea­ zione della sceneggiatura, impostiamo senz’altro male il problema. Tutto il vecchio sistema di lavoro riduceva l’opera dell’attore a una quasi meccanica esecuzione dei gravi e difficili compiti postigli dal regista. E noi non ci allontaneremo di fatto dall’antico modo di considerare l’attore come una cosa, come un pezzo di natura, se non risolviamo il problema dei possibili modi di collaborazione dell’attore col regista

127 fin dal primo inizio del lavoro del film, precedentemente alla ripresa. Se Fattore collabora soltanto col regista alla sceneggiatura, ragio* nando con lui del suo futuro lavoro soltanto astrattamente, rimane in pratica privo della possibilità di definire concretamente questa o quella divergenza che lo scarti dalla parte progettata dal regista. Io penso che la sceneggiatura per l’attore e il lavoro delle prove diano quel concreto fondamento sul quale è possibile basare la collaborazione creativa tra attore e regista. Il regista opererà secondo la propria esigenza e volontà, impiegando cioè al massimo i mezzi del cinema. Ma, in seguito, egli deve conden­ sare i pezzi di montaggio previsti nella sua sceneggiatura in una nuova sceneggiatura: quella per l’attore. Questa nuova sceneggiatura per l’at­ tore e per le prove non solo offre le soluzioni a dati problemi di ripresa, ma offre anche quelle necessarie per dare all’attore la possibilità di mantenere la necessaria unità e vitalità della sua parte. Non c’è dubbio che da questa sceneggiatura, nel corso delle prove, nascerà una sceneggiatura definitiva, che sostituirà legittimamente e vantaggiosamente la prima e che sarà la sola valida per la ripresa. Io credo che solo per questa via si possa veramente raggiungere l’effettiva e reale fusione dell’attore con tutto il complesso lavoro della ripresa.

L’immagine di montaggio Passiamo ora all’esame del concetto di « immagine di montaggio ». Questo concetto che ha provocato tanti contrasti e tanti attacchi è profondamente legato alla nuova natura (diversa da quella del teatro) del cinema. Quando l’attore di teatro opera per l’interiore acquisizione della propria parte, non può separare questo lavoro, in primo luogo, dalla ricerca delle forme esterne di espressione (voce, gesto, mimica); in secondo luogo, dalla chiara valutazione della tendenza ideologica della propria parte che lega la sua opera a tutto Io spettacolo, e, singolar­ mente, a ciascuno dei suoi particolari. Cominciamo dal primo momento. Lavorando alla sua espressione esterna, l’attore di teatro naturalmente conduce l’intero corso della sua recitazione in maniera ritmica. Nel suo parlare, si accentua o si affie­ volisce l’intonazione a seconda che egli voglia attrarre il suo pubblico con il lato intellettuale o con il lato emotivo della sua battuta. Nella for­ ma dei suoi movimenti e dei suoi gesti, egli crea anche momenti di altezza e di caduta, di evidenza e di ritegno, di forza e di debolezza. Ma un attore, che si muove e che parla sulla scena, rimane sempre a una data distanza dallo spettatore e in una posizione più o meno costante rispetto a lui. Perché lo spettatore possa vedere le sue mani, egli deve mostrargliele; perché lo spettatore possa vedere la sua faccia, egli deve rivolgerla verso di lui; perché lo spettatore possa sentire il suo mormorio egli deve portare anche questo sul tono forte. Nel film un simile ritmo di manifestazioni espressive si ottiene per via diversa. Come ho già detto, la macchina da presa e il microfono possono avvi­ cinarsi o allontanarsi dall’attore e cogliere cosi il più piccolo movimento del suo corpo e la più sottile intonazione della sua voce. E perciò l’opera dell’attore, ripresa in campi lunghi e in primi piani, risulta particolarmente viva ed espressiva.

129 Se l’attore di teatro vuole, in un momento particolarmente espres­ sivo, attrarre tutta l’attenzione dello spettatore, poniamo, sul suo sorriso seguito dalla parola no, egli sa bene che non solo gli è necessario dir bene la parola e sorridere bene, ma anche che lo spettatore osservi attentamente il suo sorriso e ascolti la sua parola.

Per ottenere questo scopo, l’attore si serve di tutto il complesso meccanismo dei mezzi della tecnica teatrale. Egli può servirsi di azioni, che distolgano l’attenzione dello spettatore dai suoi collaboratori per fissarla, nel momento necessario, su sé stesso. Egli può servirsi, a esempio, di una pausa, immediatamente seguita dal concentrarsi su lui della luce dei riflettori. Nel cinema tutto questo complicato sistema può essere costituito dalla semplice ripresa di un primo piano. Nel cinema, il primo piano è una parte integrale del ritmo dell’esteriore espressività della recitazione dell’attore. Il montaggio di diversi piani nel cinema sostituisce, nella maniera più chiara ed espressiva, quella tecnica che obbliga l’attore di teatro a teatralizzare l’immagine acquisita della sua parte. L’attore cinematografico deve chiaramente intendere che il movi­ mento della macchina da presa non è un semplice mezzo di realizzazione che interessi solo il regista. La comprensione e il senso della possibilità che olire la ripresa di piani diversi debbono sussistere anche nel processo creativo dell’attore, che lavora alla creazione del suo personaggio. L’attore cinematografico deve sentire il bisogno e la necessità di una data posizione della camera nella ripresa di ogni momento della sua parte, cosi come l’attore di teatro sente che, a un certo punto, nel corso della sua recitazione, gli occorre fare un gesto particolarmente ampio, avanzare verso la ribalta o salire due dei gradini della costruzione scenica. L’attore deve capire che proprio per questi spostamenti della mac­ china da presa si crea quel pathos indispensabile, che porta dal natu­ ralismo informe all’opera d’arte. L’attore di teatro, per quanto profondamente egli abbia « rivis­ suto » la sua parte, non può e non deve, nel corso del suo lavoro, far astrazione dall’obiettiva previsione e valutazione del risultato finale, che sarà rappresentato da sé stesso, sul palcoscenico, nell’atto di recitare alla presenza del pubblico. La parte, che l’attore avrà pienamente e pro-

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fondamente assorbita, non può esistere isolatamente nello spettacolo. E legato al corso dell’azione, egli sarà soggetto al complesso giuoco delle mutue influenze, che fanno dello spettacolo un tutto. L’importante significato sociale del lavoro dell’attore si rivela solo nell’interezza dello spettacolo. E neanche un elemento di questo spet­ tacolo (recitazione di un collega, costruzione scenica, ecc.) può essere avulso dalla forma definitiva. Perfino nei primissimi momenti del lavoro preparatorio, nei quali l’attore cerca e intuisce la via per connettere sé stesso col personaggio che deve interpretare, come individuo deter­ minato, egli dovrà raffigurarsi chiaramente la figura unitaria delineata nel testo scritto, alla quale egli tende e che infine si muoverà e parlerà sul palcoscenico. Egli intende bene che cosa debba essere la sua futura immagine sulla scena e come essa sia legata all’unità dello spettacolo. Ma, nel teatro, l’attore che sente e dà forma alla propria parte, nello spettacolo, rimane una persona viva. Il personaggio da lui creato non lo separa mai da sé stesso quale vivente personalità che sente, che parla e che vive. Non cosi nel film. L’immagine scenica, in cui culmina il lavoro dell’attore di teatro, nel film si trasforma in qualche cosa di molto diverso: nell’immagine di montaggio, cioè nell’immagine dell’attore, fissata definitivamente per lo schermo perché considerata come il miglior risultato del suo lavoro, e sottoposta, a parte ogni altra cosa, a elabora­ zioni tecniche, destinate a rafforzare la sua espressività, che sarebbe assurdo pensare di poter applicare ad un essere vivente.

Proprio come nell’unità dello spettacolo teatrale, l’immagine del personaggio, nella pienezza del suo contenuto, è prodotta dalla completa reciproca azione di tutte le forze che sono in giuoco nella rappresentazione scenica, così nel cinema i pezzi di ripresa della recitazione dell’attore sono fusi in una immagine, l’unità e l’indirizzo della quale sono deter­ minati non solo dall’unità trovata dall’attore fra sé stesso e la parte, ma anche dalla interazione dei brani che contengono avvenimenti ai quali l’attore non partecipa. Le linee piu generali e profonde, che determinano il contenuto del­ l’immagine, si trovano, naturalmente, solo nell’intera composizione del film. Ho già detto che l’ampiezza degli avvenimenti della realtà, che si può esprimere nel film, è molto maggiore che non nel teatro. Perciò nel teatro le relazioni tra l’attore e l’intera opera sono determinate preva­

131 lentemente dal reciproco rapporto dell’attore e dei suoi colleglli attra­ verso il dialogo; nel cinema invece l’attore non è a contatto solo con l’uomo. Tutta la molteplicità della realtà oggettiva nel film finito è in relazione con la recitazione dell’attore, e ciò lo mette in una posizione che l’avvicina più al protagonista di un romanzo letterario che non a quello di un’opera di teatro. Il concetto di montaggio dell’immagine non implica affatto (come molti hanno tentato di sostenere) una negazione della necessità per l’attore di una fusione di sé stesso con la sua parte. Questo concetto non porta affatto all’affermazione della teoria dell’attore cinematogra­ fico, inteso come pezzo di natura, in grado di fornire solo un materiale grezzo e frammentario che, nel processo del montaggio mediante una meccanica composizione dei pezzi, dovrebbe raggiungere un’unità. Viceversa questo concetto implica, analogamente a quanto avviene nel teatro, che l’attore abbia anzitutto la capacità di valersi, con piena cognizione di causa, delle variazioni di angolo e di inquadratura, nel lavoro di esteriorizzazione della sua parte, e in secondo luogo esige, anche nell’attore, una chiara conoscenza dei mezzi del montaggio crea­ tivo dell’intero film per la comprensione e la valutazione dei più pro­ fondi e più significativi orientamenti della sua recitazione.

Nel teatro esiste un concetto chiaro e limpido: quello del com­ plesso artistico; alla creazione di questo complesso lavorano non solo il regista, ma anche il singolo attore, che elabora la sua parte in con­ tinua e diretta connessione con tutto lo spettacolo. Nel cinema questo concetto giunge alla massima precisione tecnica; la chiarezza e la preci­ sione della composizione ritmica nel film, che comprende in sé la reci­ tazione dell’attore, può essere portata fino alla esattezza e alla preci­ sione della composizione musicale. Da ciò deriva la rigidità alla quale gli attori, che hanno presente non solo la parte ma l’unità del futuro film, debbono sottoporre le loro ricerche espressive. L’attore di teatro sa bene che un « attacco » o un cattivo impiego della musica, che preceda il suo parlare, non solo può guastare ma addirittura deformare la parte che egli recita. E l’attore cinematogra­ fico deve intendere che un pezzo di campagna o qualsiasi altra visione preceda o segua il suo pezzo di recitazione entra indubbiamente come i. imponente nella vita di quell’immagine che lo spettatore vedrà poi sullo schermo. L’immagine montata è quella finale e definita forma che entra in

132 contatto con il terzo elemento componente l’opera d’arte: lo spettatore. Quest’immagine, diversamente da quella del teatro, è separata dall’at­ tore vivo; per non perdere la sua unità realistica, deve essere conce­ pita dall’attore, fin dalle prime fasi del suo lavoro su sé stesso e sulla sua parte. Mentre l’attore di teatro può dare, nelle repliche, un più preciso assestamento della sua parte nell’unità dell’intero spettacolo, questa pos­ sibilità non esiste per l’attore cinematografico. Il lavoro dell’attore cine­ matografico nel senso del suo approfondimento dell’unità dell’intero film è molto più complesso e più difficile; perciò bisogna considerare come una cosa orribile il fatto che, fino ad oggi, questo lavoro sia stato con­ dotto con molta più serietà e profondità nel teatro che non nel cinema. Occorre ora ricordare ancora una tipica difficoltà del lavoro dell’at­ tore cinematografico. Nel teatro esiste il cosiddetto legame vivente tra l’attore che recita e il pubblico che si commuove. È un fatto noto che gli spettacoli nel teatro vanno soggetti a variazioni nelle repliche e che queste variazioni dipendono dalle diversità del pubblico. C’è un’infinità di aneddoti su grandi attori di teatro, che narrano come la viva rea­ zione del pubblico li abbia costretti spesso a trovare nuove forme per la loro parte e ad abbandonare quelle precedentemente trovate. Tutti gli attori di teatro dichiarano che l’alta-pressione necessaria per la recitazione essi riescono a raggiungerla quando sentono la com­ mozione del pubblico nella sala. Nel cinema, noi ci troviamo in presenza di un fenomeno del tutto nuovo; l’attore in nessun momento della sua recitazione, nemmeno nei più importanti, quando è dinanzi alla macchina da presa che riprende la sua azione giunta al culmine di perfezione, ha la possibilità di sentire direttamente la reazione dello spettatore. Lo spettatore egli può imma­ ginarlo solo come il futuro spettatore. Nel vivente rapporto dell’attore col pubblico bisogna distinguere due elementi che noi dobbiamo analizzare separatamente in relazione al cinema. Questi due elementi sono: primo, l’eccitamento e l’ispirazione che l’attore di teatro prova quando sente migliaia di occhi diretti su di lui e l’attenzione di migliaia di spettatori rivolta alla sua recitazione; secondo, la viva reazione del pubblico, che viene quasi a prendere parte al processo creativo dello spettacolo e in tal modo è di grande aiuto all’attore.

133 Il primo elemento, cioè il diretto senso da parte dell’attore della presenza della folla degli spettatori, è del tutto estraneo al cinema. Du­ rante le riprese, l’attore vede dinanzi a sé solo la macchina da presa. Il sistema di illuminazione circonda l’attore, e, quasi a farlo apposta, lo isola nel campo dell’inquadratura, campo che spesso è cosi piccolo che l’attore viene perfino ad esser privato della possibilità di vedere l’in­ tera stanza nella quale si svolge l’azione. Si deve dunque dedurre che il sentimento del pubblico e lo stimolo e l’ispirazione che ne derivano siano del tutto estranei dall’opera dell’at­ tore cinematografico? Io credo di no. Soltanto credo che a quel senti­ mento si debba giungere con una nuova e particolare maniera. Mi ricordo di una conversazione che ebbi con Maiakovski. Egli mi raccontò una volta della sensazione che provò, durante gli anni della rivoluzione, allorché declamò i suoi versi dalla balconata del Pa­ lazzo del soviet di Mosca, dinanzi ad un’enorme folla. Maiakovski si lagnava del fatto di non riuscire piu a sentire la potente ispirazione di allora. « Solo in un caso, egli mi disse, io provo la stessa eccitazione, se non un’eccitazione piu forte, quando mi capita di dover parlare alla radio. » Io sono convinto che Maiakovski fosse assolutamente sincero. Ed è interessante che a un uomo come lui, che nutrì organicamente il proprio lavoro della risonanza della massa degli spettatori, la cabina di trasmissio­ ne radiofonica non desse il senso di una cella isolata che lo separava dagli spettatori. La fantasia creatrice, caratteristica di ogni vero artista, e che lo unisce con tutto il mondo della realtà, lo metteva in grado, non solo di capire, ma anche di sentire direttamente che le parole che egli diceva al microfono si diffondevano in uno spazio immenso per essere ascoltate da milioni di attenti ascoltatori. Insisto sul fatto che Maiakovski non si riferiva ad una intellettua­ listica comprensione dell’importanza della radio, ma al diretto eccita­ mento e all’ispirazione che provocava in lui il microfono; c che Maia­ kovski paragonava quest’eccitamento a quello che aveva provato quando aveva visto dinanzi a sé una folla di migliaia di ascoltatori. Io credo che, anche per l’attore cinematografico, che effettivamente vive la sua arte, la possibilità di un simile stimolo non sia esclusa. Nel teatro l’attore recita per qualche centinaio di persone, nel cinema per milioni di persone. Qui la quantità diviene qualità e genera una forma di stimolo non meno reale e certamente non meno importante.

134 Passiamo al secondo elemento: la partecipazione del pubblico, con la sua viva reazione, alla recitazione dell’attore, nella quale egli apprezza e applaude il buono e il vero e freddamente respinge il falso e il non riuscito, non può esistere nella ripresa cinematografica. Perciò io sostengo che il regista cinematografico, che, durante la ri­ presa, è il solo e unico spettatore della recitazione dell’attore, ha in questo senso una responsabilità particolare, che non esiste per il regista di teatro. La solitudine durante le riprese è un grave peso per l’attore. Perciò il regista, che si sforza di aiutare quanto piu è possibile l’attore, o di dargli le necessarie condizioni per una libera, facile e chiara recita­ zione, deve saper reagire al lavoro dell’attore in modo da risultare, per questi, un fine sensibile e cordiale — anche se unico — spettatore. Io pongo seriamente il problema della possibilità, per il regista, di far si che l’attore non solo gli creda come a un teorico, a un maestro, a una guida, ma anche come a uno spettatore, che si commuove e che ora approva, ora disapprova.

Il ritrovamento di questo interno contatto tra il regista e l’attore, lo stabilirsi di un profondo reciproco rispetto e fiducia è uno dei piu importanti problemi del gruppo che collabora alla creazione del film. La mia personale esperienza di lavoro con l’attore (che, debbo dire, io non posso, oggi, codificare in una forma unitaria e coerente che me­ riti di esser chiamata, piu o meno, sistema) mi ha indotto a basarmi, nei piu importanti momenti della recitazione, sulla fiducia che avevano in me gli attori. Mi ricordo che, trattandosi di film « muti », io non potevo trattenere parole di commossa approvazione, che incoraggiavano l’attore durante la ripresa, perché erano effettivamente sincere. È interessante il fatto che Vera Baranovskaia interpretando La ma­ dre mi abbia categoricamente dichiarato (eravamo allora a metà del no­ stro lavoro) che non poteva recitare, se io non mi trovavo nel mio posto abituale accanto alla macchina da presa. Riferisco questa dichiarazione come prova del fatto che la presenza del regista, che osserva la recita­ zione dell’attore, è, per quest’ultimo, una necessità organica. Ricordo che, con tutti gli attori che avevano parti di una qualche importanza nei miei film, io ho stabilito relazioni personali, molto strette, prima che cominciassero le riprese. Io ho sempre considerato importante accattivarmi una profonda fidu-

eia da parte degli attori perché essi potessero, basandosi su questa fidu­ cia, non sentirsi troppo isolati. Molti parlano della inevitabilità di un dualismo, nell’attore, durante la sua recitazione; mentre egli vive e recita la sua parte, deve, d’altro canto, controllare oggettivamente il risultato del suo lavoro. Secondo me questo controllo non è altro che una specie di ideale spettatore, che si trova nell’interiore coscienza dell’attore stesso. E credo che non possa esserci dubbio sulla necessità che questo controllo si basi su di uno spettatore vivente ed estraneo all’attore, che l’osservi e reagisca, altrimenti l’attore si esaurirà nel circolo oggettivo-soggettivo e si tra­ sformerà in un freddo e astratto fantasma. Io credo che la freddezza e l’esteriore meccanico formalismo, che è dato incontrare spesso nella nostra cinematografia, possa esser spiegato, in molti casi, con la freddezza e col meccanico e formalistico metodo im­ piegato dai registi per dirigere l’attività dei loro attori durante la ripresa. E sostengo che la decisiva importanza dell’opera del regista, nei con­ fronti dell’attore, durante la ripresa, sia, in questo senso, caratteristica del cinema e che, nel teatro, essa non giunga ad un simile grado di im­ portanza. Vediamo ora una nuova differenza tipica che distingue la tecnica del cinema da quella del teatro, nell’opera dell’attore. Nel teatro l’attore deve, non solo trovare l’immagine della sua parte, assimilarla, adeguare sé stesso all’esteriore forma della sua espressione, sentire la necessaria forma ritmica della sua recitazione e la relazione tra sé stesso e l’intero spettacolo, ma deve ancora, durante le prove, mantenere quella forma. Nonostante tutto ciò non v’è dubbio che, nelle repliche, l’attore continua, in certo qual modo, a sviluppare la sua parte; e tuttavia il momento dell’apprendimento e di determinazione di essa e della sua recitazione gli è sicuramente presente in teatro, in misura mag­ giore o minore. Perché il regista teatrale, a un dato punto, cede il posto allo spetta­ tore, e la rappresentazione teatrale si svolge nella sua forma finale, senza la sua partecipazione. Nel cinema, il momento di ricordo e di variazione è eliminato per l’attore e per il regista, dal meccanismo della camera, dal microfono e dal laboratorio di stampa che riproduce indefinitamente, da un solo negativo, le copie del film. Dunque, fino al momento ultimo e culminante, l’attore e il regista cinematografico collaborano nel più vivo e nel più diretto contatto.

Il dialogo Passerò ora ad esaminare il momento successivo del lavoro dell’at­ tore cinematografico, momento che presenta per lui una particolare dif­ ficoltà. Si tratta della possibilità dell’assenza dell’interlocutore nel dia­ logo. Nel teatro, noi non possiamo nemmeno immaginare che esista la possibilità di un caso in cui l’attore debba parlare con un interlocutore non presente; mentre che nel cinema questo può avvenire in forza di quelle difficoltà tecniche che nascono dal naturale bisogno di applicare il metodo del montaggio al dialogo. Certamente nel teatro esiste il cosiddetto monologo in cui, per l’at­ tore, fa da interlocutore immediato lo spettatore. Ma nel cinema si tratta di cose diverse. Prendiamo un esempio assai evidente: il caso di una scena in cui un attore parla con una folla di mongoli, che reagisce in qualche modo. È probabile che la ripresa delle parole dell’attore debba aver luogo a Mosca, per esser poi raccordata coi pezzi, che saranno ripresi in Siberia. Certamente è possibile opporre a quest’esempio che, nei casi normali di scene che riprendono l’azione dei protagonisti, non c’è questa necessità di un simile frazionamento dell’azione. Ma anche nei casi piu normali, questo spezzettamento è inevitabile nel cinema. Prendiamo l’inserimento di primi piani in diversi pezzi separati di dialogo in cui l’attore invece dell’intero sviluppo del dialogo riceve solo l’inizio della replica. Se eliminiamo le numerose insufficienze tecniche derivanti dalla cattiva organizzazione della produzione, credo sia possibile, e doveroso, trovare dei mezzi mediante i quali, senza rinunciare ai ricchi metodi di montaggio del dialogo, sia praticamente possibile conservare all’attore la sua viva relazione coll’interlocutore. Ai tempi del « muto », questo era molto più facile. Allora si poteva creare all’attore, ripreso in primo piano, l’ambiente, più complicato, se gli era necessario, mentre la camera inquadrava soltanto il personaggio.

Nel film sonoro le cose sono molto più difficili. Il microfono non ci dà la possibilità di stabilire dei limiti precisi alla sua sensibilità; esso ri­ prende tutti i rumori, che si producono attorno a lui con una data forza e ad una data distanza. E perciò isolare l’attore in primo piano si può solo, in pratica, annullando ogni e qualsiasi rumore non previsto come utile a quel pezzo. Nel film « muto », noi potevamo eliminare tutto quello che era superfluo per il film finito e necessario solamente per favorire la recitazione dell’attore, non solo isolandolo, nella data inqua­ dratura, ma anche con l’uso delle forbici del regista, che possono elimi­ nare quella parte introduttiva servita durante la ripresa solo all’attore per fargli trovare il necessario momento della sua recitazione. Nel film sonoro può sembrare che tutt’e due queste strade siano impossibili. In pratica, però, si è dimostrato che non è vero. All’ingrosso, il film sonoro può essere ripreso come il « muto », basandosi sulle possibili future variazioni in sede di montaggio. Le parole dell’interlocutore, quelle del regista e tutti i rumori necessari all’attore per il suo sentirsi in relazione con quello che lo circonda durante la ri­ presa, possono essere eliminati dalle forbici, se si suppone che ci sia stata una esatta e corretta organizzazione del materiale durante la ripresa. Un pezzo che, montato definitivamente, apparirà sullo schermo solo come un breve momento della recitazione dell’attore, può, anche nel film sonoro, essere ripreso come un pezzo più lungo; solo che nel montaggio se ne userà il brano occorrente. L’inizio e la fine del pezzo possono essere tagliati dalle forbici. Lavorare con questo metodo è soltanto un problema di pratica. Bi­ sogna spingere questa pratica sul suo significato fondamentale che è quello di dare il maggior aiuto possibile all’attore; nel senso di per­ mettergli di rimanere quanto più a lungo e quanto più organicamente è possibile nel personaggio che recita. La colonna sonora è in genere un materiale altrettanto maneggevole quanto quello fotografico con cui si deve raccordarla. La colonna sonora può esser tagliata o montata, di­ ciamo di più, in certi casi, deve esser tagliata e montata.

Prendiamo, per esempio, le pause che separano dati momenti nel dialogo di due o più interlocutori. Non sempre queste pause possono essere riprese nella realtà. E vediamo ancora l’esempio che abbiamo fatto poc’anzi. Un oratore parla dinanzi a una folla di ascoltatori: la sua parola è coperta da urla generali, da applausi e da grida isolate. Nella ripresa di

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questa scena, neanche il regista che tenda al massimo alla maniera tea­ trale, e che neghi l’importanza fondamentale del montaggio, può conten­ tarsi di riprendere un solo campo lungo, che comprenda tutta la scena: e l’oratore e le reazioni dei singoli ascoltatori. E in una ripresa fatta a pezzi separati, la pausa, che divide una frase completa o incompleta del­ l’oratore dalle grida degli spettatori o dai loro applausi, non può esser col­ ta nella realtà. Siccome i due pezzi sono stati ripresi separatamente e deb­ bono essere uniti insieme solo nel montaggio, la lunghezza di questa pausa non dipenderà dalla sua lunghezza reale, ma dalla quantità di pelli­ cola non impressionata che il regista includerà nella colonna sonora dopo la fine delle parole dell’oratore prima dell’inizio delle grida dello spet­ tatore. Da questo esempio noi vediamo come nel processo del montaggio cinematografico si manifesti costantemente la necessità di creare mo­ menti separati, che entrino organicamente nel vivo tessuto della recita­ zione dell’attore. Vediamo infine come anche la pausa, l’enorme impor­ tanza della quale ben conoscono gli attori di teatro, è inevitabilmente e direttamente dipendente dalle forbici del regista e, conseguentemente, dalla sua sensibilità e dalla sua capacità. Ed ecco una ragione di piu per affermare la necessità e l’importanza della diretta partecipazione dell’at­ tore al montaggio del film. Il lavoro del montaggio, il tagliare e incollare i pezzi del film, ri­ chiede i più sottili accorgimenti, enormemente importanti, dal punto di vista creativo, anche per quanto si riferisce al ritmo del dialogo. Teorica­ mente è sempre possibile per l’attore, d’accordo col regista, di stabilire la forma definitiva della propria recitazione solamente col montaggio dei pezzi fotografici e sonori. Il lavoro del vero attore deve continuare nel processo del mon­ taggio; l’attore deve prender parte ad esso e deve sentire il montaggio come la necessaria rifinitura del suo lavoro di recitazione. Io sostengo la necessità della partecipazione dell’attore al montag­ gio cosi energicamente perché fino ad oggi esso ha avuto luogo in pra­ tica assai di rado, mentre è prevalsa spesso la falsa concezione del mon­ taggio, che porta registi dittatori a mutilare e a devastare l’opera del­ l’attore nell’interesse delle loro formalistiche trovate. L’attore deve essere legato al montaggio quanto il regista. Egli deve sapersi riferire ad esso in ogni fase del suo lavoro. Egli deve amarlo come l’attore di teatro ama l’intera forma dello spettacolo, desiderare

139 il suo successo e desiderare cioè la connessione di ogni momento del suo lavoro al tutto. Torniamo ora a quanto io ho detto della viva relazione dello spet­ tatore coll’attore di teatro.

Lo spettatore sensibile può assistere a uno spettacolo realizzato giu­ stamente e profondamente solo quando il regista e l’attore, mediante l’uso integrale di tufte le risorse della tecnica, giustamente rie­ scono a dirigere la sua attenzione. Se lo spettatore, a un dato momento della rappresentazione, quando l’azione è concentrata sulle parole del protagonista, guarderà non quel protagonista, ma, chissà perché, un per­ sonaggio secondario che si trovi in fondo alla scena all’angolo opposto, vuol dire che la progressione emotiva dello spettacolo è rotta. Lo spet­ tatore riceve un’impressione che non è quella preveduta dall’autore, dal regista e dall’attore. La tecnica dello spettacolo teatrale consiste nell’incanalare l’attenzio­ ne dello spettatore per la via prevista e creata per rendere il significato del lavoro. Ogni singolo attore, mentre esegue la sua parte, sa che la sua tecnica teatrale deve aiutarlo, nei momenti importanti, a concen­ trare l’attenzione dello spettatore solo su di lui, e, in certi casi, solo su qualche particolare della sua recitazione e, nel caso opposto, l’attore deve, per cosi dire, cancellare sé stesso e trasferire cosi l’attenzione dello spettatore sul suo collega. Tutto questo processo determina il ritmo dello spettacolo, quello stesso ritmo che, in effetti, è come il respiro di ogni opera d’arte, il ritmo che commuove il pubblico, e che determina nello spettatore quel­ la partecipazione emotiva senza la quale, in fin dei conti, nessuna opera d’arte può veramente esistere. Nel teatro, l’immissione dello spettatore in questo ritmo rappresenta uno dei compiti tecnici più difficili. Nel cinema, questo compito l’assolve in pieno il montaggio. Voglio raccontare su quali principi ho basato il dialogo cinematogra­ fico del mio film 11 disertore. Immaginate che in una stanza siano se­ duti quattro romani, che parlano tra di loro. Noi sappiamo che quando lo spettatore vede, nella scena, quattro persone, la sua attenzione si rivolge da un personaggio all’altro secondo il ritmo dell’interesse della situazione. Egli può guardare ora quello che parla, ora quello che ascolta, ora un particolare di essi. Questo trasferirsi dell’attenzione dello spetta-

140 tore è dettato dall’interno contenuto della scena. Ognuno dei quattro attori ha un significato definito nel corso detrazione. Le loro reciproche relazioni, la possibile reazione di uno alle parole dell’altro, e il dia­ gramma temporale e spaziale di questo trasferimento di attenzione sono in diretta relazione con l’importanza che lo spettatore sente che spetta a ciascuno dei personaggi. Noi sappiamo che il cinema, con l’alternarsi dei campi e dei piani, ha la possibilità di cogliere unicamente l’oggetto necessario per con­ centrare l’attenzione dello spettatore proprio su di esso. I vari piazza­ menti della macchina da presa hanno il compito importante di sta­ bilire, per lo spettatore, il preciso ritmo del trasferirsi dell’attenzione nel modo voluto dall’autore, dal regista e dall’attore. La struttura ritmica di un episodio ripreso, montato e proiettato mostra, come s’è detto, la precisione e l’esattezza di un brano musicale.

Ecco tre forme possibili di montaggio del dialogo (beninteso, ce ne possono essere altre). Immaginiamo che uno dei quattro attori parli. Noi vediamo unica­ mente quest’attore parlare e fare una domanda. Lo spettatore aspetta la risposta da uno dei suoi compagni. In teatro egli volgerebbe la testa per vedere colui che deve rispondere. Nel cinema, il regista, sentendo l’inevitabilità di questo impulso, rapidamente sostituisce all’inquadra­ tura dell’uomo che fa la domanda quella dell’attore che gli risponde. Lo spettatore che ascolta prima vede l’attore e poi sente la risposta. Nel montaggio del film sonoro, l’immagine dell’attore appare un po’ prima che se ne sentano le parole. Prendiamo un altro caso. Un tale parla e noi lo vediamo sullo schermo. Egli ha finito di parlare, ma l’interesse dello spettatore è ancora attratto da lui per qualche ragione, forse lo spettatore pensa che continui a parlare. Il film viene montato in modo che una parte delle parole del secondo attore si sentano sulla visione del primo e l’immagine del secondo attore, leggermente ritardata, compaia dopo qualche attimo. Qui il suono precede l’immagine. Prendiamo un terzo caso. Una persona parla: lo spettatore è inte­ ressato a sapere come reagiscono alle sue parole gli altri attori. Egli li guarda mentre ascoltano il discorso di colui che parla. Di nuovo e alternativamente l’attenzione dello spettatore può volgersi al perso­ naggio che parla e agli attori che ascoltano. Nel film montato noi

141 vediamo alternativamente ora l’attore che parla ora i suoi ascoltatori e udiamo costantemente le sue parole. Se consideriamo con attenzione questi tre semplici esempi di mon­ taggio del dialogo, noi ci accorgiamo di essere di fronte a due tipi correlativi di ritmo. Il primo è un ritardo del dialogo, nel quale le parole si alternano con le pause e la domanda è seguita dalla risposta. E queste pause e discorsi si succedono alla stessa maniera che nella realtà oggettiva. Il dialogo è dunque raccordato come in una scena teatrale. Ma che cos’è il secondo tipo di ritmo, quello dell’alternarsi delle immagini separate degli attori? Abbiamo visto nei nostri esempi come l’alternarsi delle immagini possa non sempre coincidere coll’alternarsi delle voci. L’immagine ora precede, ora segue la nuova voce, ora infine cambia ritmicamente men­ tre si sente sempre la stessa voce. Questo alternarsi delle immagini rappresenta sostanzialmente la reazione emotiva e intellettiva dello spet­ tatore di fronte al contenuto del dialogo, di ogni parte, e di ognuno dei personaggi che partecipano alla scena.

Il regista calcola di quanto le parole debbano precedere le im­ magini, o le immagini le parole. Se l’importanza dell’attore, che ha appena finito di parlare, è grande, allora bisognerà che lo spettatore ascolti parecchie parole del nuovo interlocutore, prima di distogliere la sua attenzione dal primo per rivolgerla al secondo. Se, viceversa, la battuta del secondo sarà attesa impazientemente dallo spettatore commosso, che sente che essa è importante e signifi­ cativa nel corso dell’azione, allora basterà forse anche una sola sillaba per distogliere l’attenzione dello spettatore dal primo interlocutore e per fargliela rivolgere al secondo. Noi vediamo, in tal modo, che il processo creativo del montaggio non rappresenta un semplice incollamento meccanico di pezzi di pel­ licola con diverse immagini. La combinazione dei due ritmi complemen­ tari, fissando obiettivamente il dialogo e montandolo con l’immagine, dà come risultato la rivelazione del vero contenuto della scena; in cui, per cosi dire, per mezzo del montatore, si suggerisce allo spettatore la giusta maniera di guardare la scena, e si chiarisce la relazione del con­ tenuto di questa con l’unità dell’intero film.

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In tal modo, il montaggio della scena non dipende da fattori mec­ canici, ma costituisce un problema, la soluzione del quale coinvolge le piu profonde significazioni della scena stessa. Si deve determinare la reciproca importanza di ogni personaggio e si deve rivolgere sul piu importante l’attenzione dello spettatore; il corso alterno di questa attenzione determina, in definitiva, la totalità e la chiarezza della sua reazione al film.

Duplice ritmo di suono e immagine Uno dei momenti fondamentali, per la soluzione del problema del film sonoro, è rappresentato dalla comprensione e dalla capacità di avvalersi della possibilità che il cinema offre col duplice ritmo di suono e di immagine. Il regista è, in fin dei conti, il primo e il piu importante spettatore del film. È chiaro che il lavoro dell’attore può essere portato fino alla necessaria compiutezza solo quando anche l’at­ tore sarà ammesso a collaborare al montaggio; in modo da impiegare cinematograficamente, nella maniera più appropriata e più limpida, quel particolare momento dell’attività dell’attore, che si esplica, anche in teatro, nel fatto che l’attore si pone e si considera dal punto di vista dello spettatore. Nel cinema, l’attore non deve soltanto recitare la propria parte; egli può e deve dare insieme col regista, nel montaggio, la necessaria rifinitura alla forma progettata della sua recitazione, costringendo cosi lo spettatore a guardare la parte che lui impersona da un punto di vista che ne mette in evidenza il significato creativo. Mediante rinve­ nimento definitivo dell’alternarsi ritmico del fotografico col sonoro, l’attore induce lo spettatore a determinare sicuramente l’intimo valore della sua recitazione, nella singola scena e nell’intero film. Per quanto non abbia un diretto riferimento al lavoro dell’attore cinematografico, io voglio tuttavia citare ancora un esempio di mon­ taggio, dal mio film II disertore, un esempio che mostra come le due diverse linee ritmiche, del suono e dell’immagine, possano essere rac­ cordate in diversi modi. Nell’ultima parte del Disertore si vede una dimostrazione di lavo­ ratori berlinesi che viene sciolta dalla polizia. In che modo? Seguiamo anzitutto il succedersi delle immagini. Le tranquille vie di Berlino. Traffico di automobili, regolato da un metropolitano. Improvvisamente si vedono dei segni d’irrequietezza.

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Gli occhi dell’agente vedono, in lontananza, apparire una bandiera. Panico nelle vie, che si fanno deserte. I manifestanti si avvicinano con passo fermo e deciso. La massa degli operai si fa più folta, perché nuovi gruppi affluiscono dalle vie laterali. Annunciata dalle sirene, irrompe a bordo di motociclette e autocarri una squadra di poliziotti. Scontro. I dimostranti si arrestano. A piedi e a cavallo, forze di polizia si gettano sugli operai; ne nasce una battaglia, che si accentra attorno alla bandiera rossa, che prima precedeva il corteo. La bandiera cade, ma ogni volta è risollevata. La battaglia continua con alterne vicende, e si fa sempre più accanita. La polizia ha la meglio. Gli operai sono sconfitti. La bandiera rossa è caduta a terra, insieme col suo eroico alfiere e con il poliziotto avvinghiato a lui. Gli arrestati vengono ba­ stonati e portati via. Improvvisamente, quando la disfatta dei lavoratori ha colpito lo spettatore con la sua inevitabilità, di nuovo, in lontananza, si leva sulla folla la bandiera rossa, simbolo della vittoria, se non ma­ teriale, morale della dimostrazione. Questo il succedersi delle immagini. Se la si considera dal punto di vista dell’effetto emotivo, la sequenza può essere rappresentata da una curva complessa, con un’ascensione iniziale, una relativa caduta al centro, un’oscillazione, una profonda caduta e una nuova ascensione finale. Alle immagini è raccordato l’andamento del sonoro. Io avevo sta­ bilito di impiegare, nel sonoro, soltanto il commento musicale. Abi­ tualmente la musica, nei nostri film sonori, è utilizzata come puro e semplice accompagnamento, in un inevitabile e monotono parallelismo con l’immagine. Se avessi voluto associare la musica alla scena de­ scritta più sopra, il sonoro avrebbe avuto all’incirca il seguente anda­ mento: valzer, durante la visione delle strade di Berlino; una marcia allegra, durante l’avanzare impetuoso della dimostrazione; quindi un tema di allarme e di pericolo all’arrivo della polizia; questo tema si dilata, quando la bandiera cade; fanfare di vittoria quando la bandiera si risolleva; la musica prende toni di accorata disperazione, mentre gli operai sono sconfitti e, di nuovo, s’innalza in accordi trionfali, quando la bandiera riappare al di sopra della folla.

D’accordo con il musicista Sciaporin, decisi di seguire un’altra strada. La musica fu scritta, diretta e incisa, per tutto l’episodio, come un unico brano di marcia, sicura e vittoriosa, con un crescendo inin­ terrotto, dal principio alla fine.

145 Qual era il significato di questa composizione? Nella seconda linea, costituita dalla colonna sonora, noi abbiamo cercato di tradurre la valutazione soggettiva dello spettatore, colpito dalla rappresentazione visiva di quella scena. I marxisti sanno che ogni colpo inflitto alla classe operaia è sempre legato a un nuovo passo in avanti verso la vittoria. La necessità storica dei continui scontri di classe è legata alla necessità storica dello svi­ luppo del proletariato e al declino della borghesia. Quest’idea ci ha dettato la linea dello sviluppo verso l’immancabile vittoria, che abbiamo mantenuto costante, attraverso le complicazioni e le contraddizioni dell’episodio mostrato nella parte visiva. La musica ci ha imposto questa strada e ci ha fatto scoprire in concreto un processo storico ineluttabile. Quale fu il risultato sullo schermo? Si vedono le strade tranquille di Berlino e si ode, ancora tenue ma decisa, la musica che accompagna la marcia dei lavoratori. Lo spettatore riceve una strana impressione di discordanza tra la mu­ sica e la visione delle splendide automobili che passano davanti a vetrine di lusso. Quando appare la bandiera dei dimostranti, la musica si fa sempre più chiaramente comprensibile e, sul suo ritmo, lo spet­ tatore segue la massa dei lavoratori, che marciano per le grandi strade ormai deserte. Accorre la polizia: ha inizio la battaglia, ma la musica impetuosa, come lo spirito rivoluzionario che anima i lavoratori, trascina lo spet­ tatore, sale di tono; la bandiera cade e la musica ha un ritmo cre­ scente; Ì lavoratori sono sconfitti, e la musica poggia su note alte. Nel finale il riemergere della bandiera sulla folla coincide con una « coda » musicale di eccezionale vigore emotivo e conclude con tale intensità l’episodio e il film. Durante la proiezione separata dell’episodio ebbi modo di costatare come una profonda commozione prendesse gli spettatori, soprattutto quelli più legati alla lotta della classe operaia. E capii, inoltre, che quella commozione non poteva derivare dai singoli momenti, ma dal mon­ taggio delle immagini con la musica di Sciaporin. Essa nasceva come la risultante di due linee: la presentazione obiettiva della realtà, da un lato, e la scoperta « sonora » del suo significato più profondo, dall’altro. Quest’ultimo esempio non si collega direttamente col lavoro del­ l’attore, ma mostra l’importanza e il significato dell’associazione del suono con l’immagine, non nel senso primitivamente naturalistico, ma

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in un senso più profondo (io direi realistico) che permette ai creatori di film non solo di dare la diretta rappresentazione dei fatti, ma anche la loro più universale significazione. Solo quando di ogni avvenimento abbiamo trovato le linee ritmiche indipendenti di suono e di immagine e sappiamo orientare nella direzione che rivela il senso dialettico di ogni fenomeno, otteniamo quel risultato realistico ed eccezionalmente pieno di quella poderosa forza che solo il cinema, colla ricchezza e la complessità dei suoi metodi, rende possibile. Noi non dobbiamo rinunziare in nessun momento del nostro lavoro a queste grandi possibilità del cinema. Perciò noi, parlando det­ rattore, dobbiamo porre il problema del necessario ampliamento della sua cultura.

Se, nei film « muti », ci è stato possibile ammettere che l’attore fosse completamente separato dal montaggio, tanto nel processo di ri­ presa quanto nel processo di taglio, ora nel film sonoro questo metodo è assurdo. Le possibilità dell'attore nel film sonoro sono straordinariamente grandi e, per quanto si riferisce alla reazione che la sua opera dovrà provocare nello spettatore, esigono il massimo di finezza e di preci­ sione. Se egli ha un retto senso ed una conoscenza dell’arte del mon­ taggio, ha anche la possibilità di determinare infallibilmente l’interesse e l’emotività del pubblico. Queste possibilità sono connesse col mon­ taggio dei diversi piani e, conseguentemente, portano alla continua interruzione del lavoro durante la ripresa. Le nuove possibilità impli­ cano anche nuove difficoltà. Gli attori e i teorici della recitazione dell’attore nel film debbono, alla fine, comprendere che bisogna guardare i problemi non da un solo punto di vista. Mossi solo dal desiderio di dare all’attore le migliori e più favorevoli condizioni possibili di rimanere più a lungo ininterrottamente nella parte, noi siamo spinti alla teatralizzazione del cinema nel peggior senso della parola. Pezzi lunghi, ripresa della scena in campo lungo., nel quale si trovino due o tre attori e parlino e reci­ tino la loro scena cosi come nel teatro, costringendo lo spettatore, come nel teatro, a scegliere da sé quello che egli deve guardare e quello che deve sentire, — tutto questo porta per una strada falsa e sbagliata il cinematografo, perché in questo modo noi, seguendo la linea di minor resistenza, rinunciamo a tutto quello di buono che il cinema dà e che può dare esso solo.

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La tecnica dell’attore sarà intesa rettamente solo quando la con­ sidereremo un’arma per la sua battaglia creativa. Battaglia per che cosa? Ripeto: per l’unità realistica dell’immagine. La discontinuità della recitazione nel cinema, che rende possibile un risultato di im­ magine montata e che influisce profondamente sullo spettatore, non bisogna sostituirla con lunghe e macchinose scene, ma bisogna invece annullare, con una sana tecnica di recitazione, l’influenza negativa che può nascere da questa discontinuità per l’unità della recitazione. L’unità che l’attore trova nella sua interiorità, durante il periodo delle prove, deve poter eliminare la meccanicità della sua recitazione anche durante la ripresa che, necessariamente, si compie a pezzi separati.

Dizione, trucco, gesto Nel teatro, ci sono tre elementi fondamentali legati alla tecnica dell’attore: la voce, il gesto, il trucco. Ognuno di questi elementi rap­ presenta. come ho già detto, la sostanza essenziale della tecnica del teatro, che io ho descritto come lo sforzo dell’attore per superare le due condizioni impostegli dalle basi meccaniche del teatro, per con­ quistare la realistica unità della sua opera. Quando l’attore di teatro lavora all’impostazione della voce e alla dizione, ciò non si tiferisce affatto a quella che può essere la sua parte, ma solo alla distanza che lo separa dallo spettatore. L’attore di teatro mormora urlando, contraddicendo lo stesso senso della parola mormo­ rare. Mormorare significa infatti non farsi udire dai vicini colleghi. Non importa. Il mormorio dell’attore di teatro deve essere udito dallo spettatore che sta alla quarta fila della galleria. Quando l’attore di teatro lavora alla plastica e all’espressività del proprio gesto, lo rende largo e generico eliminando i particolari, non perché egli debba rappresentare un uomo che ha l’abitudine di gesti­ colare a quel modo, ma perché il suo gesto deve essere visibile anche per il piu lontano degli spettatori. L’attore di teatro inoltre esagera il trucco e accentua i lineamenti, sempre perché la forma e il movimento del suo viso siano visibili alla distanza che è la condizione materiale del teatro. Tutto questo lavoro sulla voce, sul gesto e sulla truccatura è la tecnica del teatro. Che viene esaurientemente compresa quando l’attore, rafforzando la sua voce, si sforza tuttavia a non portarla al livello di una falsa declamazione; am­ pliando l’estensione del suo gesto, si sforza di conservargli una forma reale; truccando la sua fisionomia, non si allontana dai dati reali del suo vivo volto di uomo. Tutto il lavoro dell’attore sulla voce, sul gesto e sulla truccatura costituisce quello che si dice: teatralizzazione della forma esteriore del

149 personaggio interpretato. Essa non può certamente essere intesa come nuda tecnica, ma in essa si rivela invece un carattere specifico dell’arte teatrale. Perché, in generale, in ogni arte il processo dell’esterioriz­ zazione nella forma non può esser considerato qualche cosa di isolato e di avulso dal processo creativo. Sottolineando l’aspetto tecnico io desidero solo mettere in evi­ denza la sua stretta connessione con le condizioni specifiche dello spettacolo teatrale, che sono diversissime dalle condizioni del cinema. La teatralizzazione della recitazione dell’attore non può essere con­ siderata un’arte a sé. Essa è condizionata dallo sforzo dell’attore di rendere la sua recitazione quanto è più possibile viva ed efficace, e, se si parla di arte realistica, è connessa allo sforzo dell’attore per man­ tenere il massimo di complessità e di vivezza agli avvenimenti della vita reale, che l’autore ha voluto riprodurre nella sua opera. All’espressione di teatralizzazione della forma nel cinema si deve sostituire il termine di « cinematografizzazione ». Io credo che questa parola includa un concetto importante. Se la teatralizzazione implica un rafforzamento in chiarezza ed efficacia della voce, del gesto e della mimica, obbligando a trasformare deliberatamente i suoi, normali e non teatrali, voce, gesto e mimica, nel cinema lo stesso potenziamento dell’espressività può essere com­ piuto mediante gli spostamenti della macchina da presa, mediante il primo piano, l’angolazione, la luce, la maggiore o minore distanza del microfono, e, in una parola, mediante la « cinematografizzazione », che risulta dalla conoscenza del montaggio e della capacità a sfrut­ tarne i metodi. Ogni movimento espressivo dell’uomo è sempre condizionato dal­ l’antagonismo di due momenti: la forza esteriore, che tenta di attuare meccanicamente il movimento, e la costrizione della volontà, che trat­ tiene questo movimento dandogli una particolare forma espressiva. Esistono norme, che determinano la forma dei movimenti umani nelle ordinarie condizioni di vita. Sulla scena, la realizzazione di queste forme del movimento è ostacolata da parecchie costrizioni della volontà. Cosicché spezzando o indebolendo la costrizione della volontà, e con­ servando l’interiore impulso al gesto, l’attore sul teatro lo ingrandisce in ampiezza e lo dà quindi più chiaro e evidente al pubblico della sala. Il cinema non richiede nulla di tutto ciò all’attore. Il movimento interno, quantunque trattenuto dalle costrizioni della volontà al mas-

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simo grado, può esser veduto e sentito dallo spettatore per mezzo della camera o del microfono vicinissimi. Gli sforzi per avvicinarsi al realismo della recitazione che son stati fatti dal teatro sono ormai noti a tutti: essi si debbono principalmente a Stanislavski e alla sua scuola. Questi sforzi ebbero la loro piu accentuata forma nelle realizzazioni del Primo studio, dove tutto il teatro non era più grande di una grande camera e dove quindi lo spettatore era assai vicino agli attori. Con questo metodo, però, il teatro veniva fatalmente e inevitabilmente a sboccare in un grado di intimità, che contraddiceva l’esigenza essenziale di ogni arte: quella di abbracciare e attrarre il maggior numero di spettatori. La protesta contro la trasformazione del teatro in un circolo spe­ rimentale portò inevitabilmente alla richiesta della teatralizzazione della recitazione dell’attore, e questa protesta originò dai più prossimi di­ scepoli di Stanislavski, tra i quali era anche Vachtangov. Come ho già detto, il primo piano, nel film, elimina la contraddi­ zione tra il desiderio del realismo nell’arte dell’attore e l’esigenza di un massimo di pubblico. Quali sono i compiti che, di conseguenza, si pongono all’attore cinematografico? Anzitutto: con la possibilità di avvicinare la macchina da presa cade la necessità di rafforzare la voce e si moltiplica la scala dei movimenti espressivi del corpo e del viso. Praticamente parlando, la necessità di impostare la voce cade nel cinema perché quivi essa deve solo superare la distanza che separa un interlocutore dall’altro; esat­ tamente come nella realtà. (Ripeto che, sul palcoscenico, l’attore deve impostare la propria voce con una forza non determinata dalla distanza che lo separa dal suo interlocutore, ma da quella che lo separa dallo spettatore del log­ gione. ) Assurdo diviene anche, nel cinema, il trucco teatrale con la sua rozza schematicità. Nel cinema, la qualità del trucco, quando esso è necessario, dipende dalla sua capacità a mantenere le più sottili sfu­ mature espressive di un volto umano. Un’espressione artificiale, una gota impiastricciata, una linea che rappresenta una ruga inesistente, nel cinema sono semplicemente fuori posto; perché manca la necessità teatrale di fissare un’espressione visibile a distanza, e possono essere addirittura dannose, annientando l’espressività sottile del primo piano.

151 L’attore cinematografico, che abbia una truccatura teatrale, obbliga nella ripresa a piazzare la macchina lontano perché i dettagli del mo­ vimento del suo viso non arrivino allo spettatore. Una truccatura stilizzata automaticamente forza il cinema a rinun­ ziare ai suoi propri metodi di lavoro e lo cambia in un semplice stru­ mento per fissare lo spettacolo teatrale dalla distanza e dall’angolo di udibilità del teatro. Ogni teatralizzazione dell’attore nel cinema deve cadere. Il lavoro dell’attore quando egli si trova dinanzi alla macchina da presa deve esser condotto in maniera quanto più è possibile vicina alla vita reale. L’attore cinematografico che recita in esterno, in un giardino reale, in mezzo ad alberi reali, accanto a un reale ruscello, non deve sentirsi estraneo e diverso dalla realtà naturale che lo circonda. Il lavoro creativo in queste condizioni richiede non minore sforzo, non minore tecnica, di quanta ne richieda la recitazione teatrale. Nella Mia vita nell'arte, Stanislavski racconta come in una certa occasione, durante una delle sue tournées in provincia, un gruppo dei suoi attori, passeggiando in un parco, si sia trovato dinanzi ad una visione che ricordò loro vivissimamente la scenografia del secondo atto di Un mese in campagna di Turghieniev. Agli attori piacque l’idea di mettersi a improvvisare una recita in quello scenario naturale. Stanislavski cosi ci descrive quel tentativo: «. Venne la mia entrata. Io e Olga Knipper, come vuole il lavoro, pas­ seggiammo lungo il viale dicendo le nostre battute, poi ci sedemmo su di una panchina, esattamente come nella nostra messinscena, comin­ ciammo a parlare e... ci arrestammo. Non potevamo continuare. La mia recitazione nello sfondo naturale sembrava falsa. E si dice ancora che noi abbiamo spinto la naturalezza fino al naturalismo! Come ap­ pariva artificiale tutto quello a cui eravamo avvezzi in teatro! » ’. Io sostengo che come elemento fondamentale della recitazione del­ l’attore cinematografico possa porsi il suo poter passeggiare con una compagna per un viale reale di un reale giardino, senza provare nes­ suna impressione di falsità o di artificiosità, e poter continuare il di­ scorso incominciato sedendo su una reale panchina, all’ombra di alberi reali. 1 Stanislavski, Sohranie sacìncnii (Raccolta delle opere). Moskva, 1954, v. I, P. 243.

152 Le riprese in esterno sono, del resto, lo stile caratteristico della produzione realmente cinematografica e, secondo me, continueranno a esserlo in futuro. È interessante notare come lo stile teatrale del film Grozà abbia fatto si che i pochi quadri di esterni, che vi si trovano, abbiano preso l’aspetto di fondali dipinti.

II senso di artificiosità, provato da Stanislavski, gli veniva probabil­ mente dal fatto che l’ambiente naturale dal quale egli si trovava cir­ condato lo costringeva a sentire, in tutta la sua pienezza, la vivente lealtà dei suoi colleghi, a sentire l’impulso a parlare e a muoversi come nella vita, senza alzare la voce oltre il necessario per parlare con una persona vicina, a sedere sulla panchina comodamente, rivolgendosi all’interlocutrice, senza preoccupazione alcuna dello spettatore; il quale vede da un determinato punto di vista e vuole, non tanto i gesti, quanto la loro accentuata rappresentazione. Senza dire che proprio Stanislavski si è sforzato ardentemente per giungere alla creazione di un teatro realistico e per portarlo sulle scene; si è esercitato anzi­ tutto, in quanto attore, proprio nel senso della completa separazione dal pubblico della sala, per immettersi, insieme con i suoi collaboratori, in una vita particolare sulla scena, privata dal senso della rappresen­ tazione scenica; e tuttavia egli, al primo contatto colla vita reale, senti immediatamente l’inevitabilità dell’influenza delle condizioni della sce­ na sull’opera creativa dell’attore. Quando sosteniamo l’assurdità della teatralizzazione della recitazio­ ne dell’attore cinematografico, non vogliamo dire che la teatralizzazione in sé sia qualche cosa di non bello e neppure di sgradevole; costatiamo semplicemente l’assurdità, e conseguentemente lo sgradevole senso di falsità, di uno sforzo svolto a rimuovere ostacoli inesistenti. Una dizione accentuata, il « birignao » teatrale e il gesto, anche lievemente ampliato, contrastano nello schermo col primo piano, che è l’enorme avvicinamento dello spettatore all’attore, e creano quindi una sensazione di inutile e pazza artificiosità. Ma quella stessa artificiosità, quello stesso gesto, nelle condizioni del teatro, realmente dirette a superare difficoltà veramente esistenti, diviene un’alta espressione d’arte e commuove lo spettatore. Nelle scuole di recitazione teatrale, lo studio della dizione e della impostazione della voce costituisce la base degli insegnamenti relativi alla tecnica dell’attore. Ora, con il film sonoro, il problema della voce

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si è venuto ponendo anche per l’attore cinematografico, ma disgra* ziatamente lo si è basato, il piu delle volte, su di una pura meccanica trasposizione nel cinema della pratica del teatro. Io penso che gli americani, che dedicano tutti i loro sforzi al per­ fezionamento del microfono e alla creazione di apparecchi da ripresa sonora, che possano correggere il parlato scorretto sul fonogramma già ripreso, siano su di una strada piu giusta. Il problema della dizione e della voce nel film sonoro mi ricorda il vecchio, e ai suoi tempi assurdamente posto, problema della foto­ genìa, quando i tecnici del cinema sostenevano che l’attore deve avere particolari qualità di viso e di corpo per creare un’immagine perfetta ed espressiva sullo schermo. Noi sappiamo bene che, come la pratica della macchina da presa e dell’illuminazione ha dimostrato, ogni essere umano può dar vita a un’immagine magnifica. Basta saperlo riprendere.

Realismo della recitazione Da tutto ciò che abbiamo detto si può concludere che la tecnica dell’attore cinematografico deve essere suddivisa in due momenti fon­ damentali: primo, la padronanza dei mezzi creativi dell’arte del mon­ taggio e la subordinazione della recitazione ad essi; secondo, l’assor­ bimento della parte e la sua trasformazione in una immagine organica e coerente. Veniamo ora alla questione circa la parte, che dovrebbe avere nel lavoro dell’attore cinematografico quella che, nel linguaggio ordinario, si chiama sincerità, spontaneità, naturalezza. Noi sappiamo che nel cinema, diversamente che nel teatro, ci siamo trovati di fronte ad un’in­ tera serie di casi concreti di attori che non recitavano che sé stessi; ruoli separati o episodici sono stati spesso realizzati da persone che non avevano mai avuto a che fare con la recitazione, e che non solo hanno dato immagini espressivamente efficaci, ma per di piu non hanno costituito un divario stilistico nel film rispetto agli attori professionisti. Nello spettacolo teatrale ciò non può avvenire. Un cane vivo in Un originale e cavalli fragorosamente scalpitanti sulle tavole di legno del palcoscenico neìVAmleto non possono che dare un senso di sgra­ devolezza e di discrepanza con lo spettacolo. Mentre si può dire che noi non abbiamo visto un solo film nel quale, insieme con gli attori, non si siano trovati bambini e animali, senza che la loro presenza turbasse in alcun modo l’unità stilistica. Bisogna opporsi energicamente all’idea che un non-attore reciti una parte grande e complicata in un film. Ma non si può, senza barare, so­ stenere che un occasionale non-attore in una piccola parte e magari in un solo pezzo di ripresa, anche posto accanto a un buon attore cine­ matografico, debba per necessità creare nello spettatore quel senso di disagio, che immancabilmente procurerebbe il comportamento non tea­

trale di un personaggio sul palcoscenico, come nel caso del cane e dei cavalli, o, per esempio, nel caso dei bambini, che spesso si son voluti portare in scena. Stanislavski, che all’inizio della sua carriera drammatica aveva orien­ tato la recitazione dell’attore verso il naturalismo, fu costretto ad ab­ bandonare l’idea di introdurre in uno spettacolo una vecchia contadina per quanto gli sembrasse molto adatta ed espressiva. Certamente non si può sostenere la necessità, per l’attore cinema­ tografico, di recitare, una o due volte, sé stesso. Per di piu, quando anche recitasse solo sé stesso, non potrebbe non modificare il proprio com­ portamento, in rapporto alle esigenze dell’intero film, e dare a questa parte una certa direttiva ideologica. Certamente, in nessun caso, il per­ sonaggio nel film potrà essere una semplice copia del suo essere reale con tutte le relative caratteristiche. In certo modo dunque anche l’attore non professionista e occasionale (che piuttosto stupidamente si suol chiamare tipo} deve seguire fino a un certo punto le indica­ zioni del regista, e, in altri termini, deve recitare. L’attore cinematografico, nel corso della sua carriera, dovrà lavo­ rare alla realizzazione di diversi personaggi, lontani dalle sue caratte­ ristiche individuali. Dal che deriva immediatamente il problema di incarnare, come si dice, il personaggio. L’attore nel suo processo creativo conosce la realtà; insieme con lo spettatore e in forza dei mezzi specifici della sua arte esprime poi il risultato di questa sua conoscenza nella forma di un suo comporta­ mento completamente rielaborato da lui stesso. In questo lavoro egli si sforza inevitabilmente di conservare, nel suo aspetto, viva e inalterata, la sua personalità, egli si sforza di continuare a sentire sé stesso davanti alla macchina da presa come un uomo vivo e intero e non come un meccanico sostituto di quello; dunque se ci mettiamo dal punto di vista della negazione della meccanica costruzione della recitazione del­ l’attore, io credo che dobbiamo accettare il concetto di incarnazione del personaggio. Io non parlerò ora del processo del vivere la parte: una intera serie di metodi, che si sommano in una complessa metodologia, è stata creata dai maestri dello spettacolo teatrale. Tratteremo in seguito la questione nei confronti del cinema. Notiamo ora quello che è importante mettere in rilievo in questo processo: la trasformazione da parte dell’attore del suo comportamento

156 personale in quello di un personaggio, trasformazione indispensabile per trasmettere allo spettatore un’immagine organica, piena e realisti­ camente espressiva. Giunti a questo punto, notiamo che in teatro l’at­ tore si trova immancabilmente, in questo lavoro, dinanzi ad un con­ flitto tra la teatralizzazione della forma e la sua volontà di mantenerla sul piano realistico. Nel cinema questi elementi della teatralizzazione non esistono, resi inutili dagli spostamenti della camera e del micro­ fono che permettono il montaggio della recitazione. L’attore nel film, eliminato il momento della teatralizzazione, ha dinanzi a sé solo il problema della conquista di una forma realistica. Con quale processo noi acquisiamo la conoscenza di un fenomeno reale? Con un processo di avvicinamento, di studio del fenomeno stesso nella sua profondità, ricchezza, complessità, e in rapporto agli altri fenomeni. In arte noi chiamiamo realistica una rappresentazione quando è immaginata col massimo di precisione, di chiarezza, di profondità e di pregnanza. Qui l’uso della parola « massimo » sta a suggerire l’idea che il naturalismo è la più alta forma di realismo nell’arte.

Ma bisogna ancora una volta ripetere che naturalismo, realismo e idealismo in arte non sono forme separate e indipendenti, capaci di esistenza autonoma e parallela. Naturalismo e idealismo sono due forme estreme, che si allontanano nel loro sviluppo dalla giusta tendenza alla conoscenza del reale, che sempre torna dall’astratta generalizzazione alla concretezza della vita e per poi nuovamente generalizzarne i dati e procedere oltre. Il naturalismo che copia i fenomeni della realtà senza darne alcuna generalizzazione crea piuttosto un freddo meccanismo privo dei le­ gami interiori che esistono nei fenomeni e che li connettono con tutti gli altri fenomeni in un tutto organico. Il realismo di un’immagine si approssima alla complessità dell’og­ getto, approfondendone i particolari e, ad un tempo, rappresentandolo come parte di un tutto. L’opera realistica evita il naturalismo solo quando nella sua rap­ presentazione di un fenomeno sono presenti quella relazione e quegli interiori elementi generalizzanti, che riducono il fenomeno a una parte del tutto. Applicando questo principio all’opera dell’attore, è chiaro che la

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tendenza realistica gli farà intendere la necessità di sommare a un dato momento del suo lavoro i pezzi separati della sua recitazione dinanzi alla macchina da presa in un tutto inseparabilmente legato all’intera rap­ presentazione, e, in genere, alla funzione di tale rappresentazione nella nostra vita sociale in continuo sviluppo.

Il vecchio paradosso di Diderot, che dimostra la possibilità per l’at­ tore di una freddezza che gli consenta a un tempo di far piangere lo spettatore con l’eccellente interpretazione della parte e di ridere a un collega che, tra le quinte, fa le boccacce, e ha quindi statuito la pos­ sibilità di una separazione tra il reale comportamento dell’attore, in quanto uomo vivo, e il comportamento del personaggio recitato, non contraddice in nessun modo alla necessità, nell’uno o nell’altro momento della sua preparazione sulla parte, di fondere in un tutto organico questi due comportamenti. In questo senso è profondamente giusto e onesto — nelle sue premesse — l’insegnamento di Stanislavski. È pur vero che l’attore durante la recita non deve vivere effettivamente la vita del suo per­ sonaggio. Ma, se nell’impressione che lo spettatore riceve ha luogo un senso di viva e unitaria realtà, è certo che questa unità non può venire dal nulla. Questa unità deve emergere durante il lavoro dell’attore sul per­ sonaggio. Coquelin e Karatyghin che hanno mostrato la loro recitazione, in qualche luogo e in qualche tempo, avevano certamente creato il con­ tenuto di ciò che volevano mostrare. Il cinema ci permetterà una maggiore chiarezza. È evidente che le ombre bianche e nere, che si proiettano sullo schermo, non possono sentire nulla. Esse compiono tecnicamente dei movimenti separati e frammentari, e tuttavia lo spettatore ha l’impressione di una unità. Perché alla base della scelta di questi movimenti isolati è la visione dell’organica unità del fenomeno reale che si riprende. Nel cinema, noi incontriamo un’interessante particolarità: l’attore può interrompere il suo lavoro prima che la forma trovata per l’ese­ cuzione della parte sia diventata un’abitudine meccanica e rozza. Noi sappiamo che nel teatro esiste il pericolo che gli attori « re­ citino ». Stanislavski, a un certo punto delle sue memorie, parlando della sua interpretazione del Dr. Stockman, in una prima ed in una seconda fase, scrive: « Passo passo io mi volgevo al passato e sempre più e più chiaro intendevo che l’interiore che io mettevo nella mia

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parte al tempo della prima interpretazione e la forma esteriore nella quale la parte era venuta degenerando nel volger del tempo erano lontani tra loro come il cielo e la terra. Prima, tutto veniva da una bella e viva verità interiore; e ora di essa non rimaneva che il vuoto involucro, il residuo, la mondezza, incagliatisi nell’anima e nel corpo per varie cause che non avevano niente di comune coll’arte dell’origi­ nale » Io credo che questo svuotarsi dell’interiore verità di Stanislavski non dipendesse unicamente dalla grande quantità delle repliche. Certa­ mente tutto ciò è avvenuto perché anche Stanislavski cambiava, e gli organici elementi interiori, che lo avevano legato all’immagine di Stockman, quale egli l’aveva concepita, non esistevano più da molto tempo. Io cito questo esempio perché la sua finezza sottolinea il contrasto provocato dall’opera dell’attore cinematografico, la cui viva e reale relazione colla immagine recitata cessa molto prima che non nell’attore di teatro, come di fatto cessa in qualsiasi altra arte, eccetto che nel teatro, nel momento della separazione dell’artista dalla sua opera. L’attore cinematografico deve essere vivo, sincero, e nella sua ten­ denza al realismo dell’immagine « naturale ». Questa naturalezza non soffre, per lui, dei disturbi della teatralizzazione; ma d’altro canto, per trovare il retto contenuto della parte che si recita, ci dev’essere un grande lavoro di preparazione. Tutto ciò avvicina i principi fondamentali della scuola di Stani­ slavski con le esigenze che abbiamo posto per l’attore cinematografico. Io considero i metodi della scuola del Teatro d’arte molto più vicini e adatti di quelli in uso per una scuola di attori cinematografici. Naturalmente, bisogna saper riconoscere ed eliminare da questi metodi tutte le forme di teatralizzazione, che non possono valere che in una scuola di teatro. Beninteso, io mi riferisco alla scuola del Teatro d’arte, non quale essa esiste adesso, e bisogna dire che le idee di vero­ simiglianza nell’opera dell’attore Stanislavski non le realizzò, e, in fin dei conti, non poteva realizzarle, perché, lavorando nel teatro, egli non poteva annullarne le caratteristiche esigenze. Particolare interesse assumono nelle memorie di Stanislavski i brani in cui parla della necessaria immobilità dell’attore, volta a con­ centrare l’attenzione dello spettatore sulla sua interiorità. 1 Stanislavski, Sobranie socìnenii, cit., v. I, p. 296.

159 Stanislavski credeva che l’attore, che tende alla veridicità, potesse fuggire gli elementi di rappresentazione del suo sentire, c dovesse essere capace di trasmettere al pubblico la pienezza dell’immagine recitata in un momento quasi mistico. E, naturalmente, urtò contro l’impossibilità di risolvere questo compito nel teatro. È da notarsi che questo compito non solo l’assolve il cinema, cui l’estrema parsimonia di gesti, fino all’assoluta immobilità, è spesso indispensabile. Per esempio, nel primo piano, nel quale il gesto è completamente inutile in quanto il corpo dell’attore non si vede.

Il film senza attori Parlando del realismo dell’attore cinematografico, è necessario mo­ strare l’enorme importanza di quegli esperimenti che, a suo tempo, furono fatti con attori non professionisti (deliberatamente evito la pa­ rola assurda: tipi). È lontano dalle mie intenzioni sostenere qui quelle teorie, che affermano che il cinema non abbisogni di attori. La formu­ lazione di quella teoria è stata in passato attribuita a me, senza tener conto che tutta la mia passata attività si è espletata, letteralmente in ogni film, con la collaborazione non solo di attori cinematografici parti­ colarmente provetti, ma perfino con vecchi attori di teatro. Trattiamo quindi, non tanto di quelle deviazioni teoriche, che fu­ rono attribuite a me, quanto degli esperimenti singoli di lavoro con attori non professionisti, mostrando come noi investissimo e risolves­ simo il problema del perché alcuni momenti del comportamento reale di un uomo, non esercitato in nessuna scuola teatrale, non fossero affatto fuor di luogo in un film e come, in certi casi, potessero addirittura servire da esempio per il lavoro degli attori professionisti. Mi sembra che quegli esperimenti dimostrino anzitutto che l’attore cinematografico deve, tanto nell’intero quanto nel frammento, orien­ tare sempre il suo comportamento verso il reale e concreto sentire di quel tutto che egli si sforza di creare attraverso la serie dei separati pezzi di ripresa. E bisogna dire che, nel cinema, questo fine si raggiunge quasi sempre attraverso forme reali, presentate nella pienezza della loro realtà. Come ben dimostrano gli esterni naturali, caratteristici del film. In che modo ho impiegato io attori occasionali e non professio­ nisti? Il mio metodo consisteva nel creare, per dati pezzi, quelle reali condizioni di vita, all’attore non professionista, in modo che le sue reazioni immediate fossero proprio quelle che mi occorrevano per il film. Prendiamo per esempio il komsomolets e il pezzo della sua reci­

161 tazione nell’adunata dell’ultima parte del mio film, Il disertore. Si trattava di un ragazzo naturalmente riflessivo e la previsione dei com­ piti, che il regista gli avrebbe affidato, era tale da agitarlo e da incep­ parlo nella sua stessa confusione. Io ho intenzionalmente accresciuto questa confusione perché essa mi dava il colorito necessario. Quando lo feci alzare, allo scrosciar degli applausi, e cominciai a lodare sperticatamente la sua recitazione, il giovanotto non potè resistere, benché tentasse in tutti i modi di farlo, e scoppiò in una bellissima risata di contentezza che risultò un pezzo superbo, che io considero come uno dei più riusciti, nel senso (se in questo caso è lecito esprimersi cosi) della recitazione. In questo caso, tutte le condizioni della ripresa erano analoghe a quelle che dovevano risultare sullo schermo: la confusione del ragazzo, che inaspettatamente è scelto per presiedere una grande adunata e non riesce a contenere la sua gioia, quando l’annuncio della nomina è accolto con un’ovazione unanime dall’enorme folla adunata. Certo non si può parlare, in questo caso, di recitazione, perché nel ragazzo che faceva quella parte non c’era consapevolezza del proprio lavoro. E tuttavia questo metodo può essere sviluppato nel suo aspetto pratico, in aiuto dell’attore, quando egli, in accordo col regista, desi­ deri trovare un effettivo ausilio esterno per il suo lavoro. Ripeto ancora una volta che, nel teatro, questo ausilio reale, nella maggior parte dei casi, deve essere immaginato e sostituito dal magico se di Stanislavski. A proposito di questo se, Stanislavski scrive: « L’at­ tore dice a sé stesso: tutta questa messinscena, questi oggetti, questo trucco, questi costumi, questo pubblico spettacolo costituiscono una totale falsità, io lo so e non me ne importa niente. Queste cose non hanno significato per me... ma... se tutto quello che mi circonda nella scena fosse vero, ecco quello che farei allora, ecco come reagirei a questo o quell’avvenimento »x. Con questo magico se, secondo Sta­ nislavski, comincia la vera esperienza creativa dell’attore. Forse in tea­ tro, ciò, per quel tanto che la teatralizzazione del comportamento del­ l’attore lo consente, è un aspetto insopprimibile. Nel film anche se esiste questo se, esso deve essere in forma del tutto differente e deve essere strettamente connesso, come quasi tutti gli elementi di gene­ ralizzazione, con l’elaborazione del montaggio della parte. 1 Stanislavski, Sobranie socinenìi, cit., v. I, p. 304.

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Voglio ricordare ancora un caso caratteristico di lavoro con un attore non professionista durante la ripresa di Un caso semplice. La scena era questa: si incontravano il padre e il fìglioletto, pioniere, dopo molto tempo che non s’erano visti; era mattina presto, il ragazzo era appena venuto fuori dal letto e si stiracchiava ancora; alla voce del padre: « Beh, come va la vita? », egli si voltava e, invece di rispondere, gli rivolgeva un dolce sorriso un po’ commosso.

Il compito era difficile, e bisognava servirsi di un bambino di circa dieci anni, perché nel cinema nemmeno il più retrogrado regista di tea­ tro penserebbe mai d’impiegare un attore adulto o una donna per fargli interpretare la parte di un ragazzo come sul palcoscenico sarebbe possibile. Lavorando con un attore non professionista, è impossibile basarsi sulle prove. L’apprendimento di movimenti meccanici risulta sempre impossibile. Trovare la necessaria forma creatrice e, una volta tro­ vatale, riprodurla è impossibile per chi non abbia una speciale prepa­ razione. Nel caso di una cosi complessa azione dalla quale doveva risultare, per quanto era possibile, il carattere del personaggio, occorreva stabilire condizioni tali da determinare i movimenti, richiesti dal re­ gista, come reazioni spontanee e inevitabili di un dato stimolo esterno. Io progettai di far provare effettivamente al ragazzo il bisogno di stiracchiarsi. E, per ottenere ciò, gli proposi di piegarsi, di prendersi tra le mani un piede e di rimanere in quella posizione finché io non gli avessi dato il permesso di rialzarsi. « Allora, — gli dissi, — sentirai effettivamente il bisogno di stirac­ chiarti e di stiracchiare i tuoi muscoli, e questo è precisamente quello che mi occorre. » Deliberatamente gli spiegai il senso di tutto il problema, contando che si sarebbe interessato alla cosa, perché questo suo interessamento mi era necessario per la seconda parte del mio assunto. Effettivamente il ragazzo si interessava; io lo sentivo. Allora gli permisi di sollevarsi ed egli si stirò con un gesto naturale, che però io interruppi con la domanda: « Beh, Vania, non è una cosa davvero divertente? ». Parlare durante la ripresa non si può, e il ragazzo lo sapeva bene. Dato il suo carattere, io lo conoscevo bene, mi avrebbe certamente risposto con un sorriso, quale mi occorreva, di approvazione e un po’ confuso, coerentemente alla stranezza della situazione.

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Insisto che far delle prove sarebbe stato impossibile; io volevo semplicemente cogliere la spontaneità della reazione. Cominciò la scena, il ragazzo era già curvo da parecchio tempo; io gli ordinai di alzarsi, lui si stiracchiò, e io vidi sul suo viso la duplice soddisfazione per il benessere fìsico e per la facilità con cui le cose si svolgevano secondo il previsto. Io feci la mia domanda ed ebbi in ri­ sposta quel magnifico sorriso che mi occorreva. Certamente poteva andar male, ma io ero convinto del contrario e non ho sbagliato. Il lavoro con elementi non professionisti e occasionali nel cinema esige naturalmente una speciale e non comune fertilità d’immaginazione da parte del regista. E, si capisce, egli non deve estendere questo me­ todo nel lavoro con gli altri attori. È evidente che non si può, da questi esempi, ricavare alcuna teorizzazione e alcun tipo di metodo scolastico. Ma tuttavia io credo che dall’esperienza di questo lavoro possano de­ dursi molte suggestioni per il pratico processo di assorbimento della parte e per la ricerca dell’esteriore espressione degli stati d’animo.

Il momento della creazione di condizioni adatte a evocare reazioni naturali può spesso offrire un grande aiuto per la ricerca della forma della recitazione, anche per gli attori professionisti, specialmente nel caso frequente delle riprese in esterni. Trattando di attori non professionisti è necessario dire che, se non si può proporre una totale ed esclusiva sostituzione degli attori cinematografici che abbiano una preparazione scolastica e un’esperienza con elementi occasionali, è altrettanto impossibile fare un film col suo gran numero di personaggi con i soli attori professionisti. Non si può impostare il problema rifiutandosi di impiegare totalmente attori non professionisti e occasionali. Questo risulterà evidente da un sem­ plice calcolo matematico: il numero dei personaggi principali in un lavoro teatrale è di 15 o 20; in un film abbiamo spesso più di 60-80-100 scene separate con diversi personaggi, ognuno dei quali ha una sua particolare e considerevole importanza. Le piccole parti episodiche, che non durano più di 20 secondi o di un minuto, hanno spesso una reale importanza e quindi richiedono un alto livello di espressività. La massa, la folla che, sul palcoscenico, rimane qualche cosa di compatto, di generale, di indifferenziato, nel film, come sappiamo, è frazionata in primi piani. Il contenuto della folla, in quanto unità, risulta dal frazionamento stesso. Nella ripresa in primo piano dei singoli componenti della folla ci vogliono un’esattezza e un rigore non minori

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di quelli che occorrono a un attore che interpreta una parte importante. Se sul palcoscenico un piccolo episodio può avere scarsa importanza, può esistere solo in funzione di tessuto connettivo o di sfondo, nel cinema, con la continua concentrazione dell’attenzione dello spettatore su ogni fotogramma, questi momenti solamente connettivi non esistono. Nel cinema ogni pezzo, anche il più piccolo, nell’ordinata struttura ritmica del film, deve tendere ad esprimere il 100% del suo contenuto. Bisogna mettere in relazione l’alto livello raggiungibile, anche nell’epi­ sodio più breve, con le difficoltà che presenta l’organizzazione della produzione di un film, che non ha la possibilità di avere anche per le piccole parti degli attori. Al che si può naturalmente obiettare che a Hollywood vivono di questo lavoro migliaia di comparse; ma io non credo che questo sistema possa attecchire da noi. Col corretto sviluppo del cinema, inteso come l’arte che abbraccia al massimo la realtà, e col conseguente sviluppo degli esterni e relativi viaggi dei gruppi di lavoro in lontani paesi, non si può certo contare su di una gran massa di attori, da impiegare in parti secondarie. Noi vogliamo mettere il regista dinanzi all’imprescindibile neces­ sità di impiegare nella ripresa elementi occasionali, reclutati nei luoghi della ripresa anche lontani dai grandi centri. Questo problema è connesso anche, mi pare, con l’impossibilità del cinema di valersi di truccature esagerate e teatrali, che permettono al giovane Chmeliov di comparire sulla scena come un vecchio portiere. Esiste sempre, come è naturale, la possibilità di adattare i testi al gruppo di attori di cui può disporre un dato studio. Questo sistema di lavoro, ad esempio, è seguito da Kuliesciov, che scrive i suoi sog­ getti attenendosi rigorosamente alle possibilità del suo gruppo. Ma a me sembra che questo metodo non sia il migliore, e che, anzi, pre­ cluda il pieno sfruttamento delle possibilità del film. E, come si vede, il problema diventa problema di stile. Se noi possiamo contare solo su due o tre autentici attori è cosa insensata pensare di realizzare un soggetto che si basi su centinaia di piccole scene. Sarebbe, dico, una cosa assurda, per quanto, come l’esperienza ha dimostrato, possa trovarsi il modo per servirsi di un materiale umano non esercitato. Io sono convinto che l’unica barriera che si oppone a questa via sia soltanto lo scolastico concetto astratto di « cinema per l’attore ».

La scelta delle parti Torniamo sul problema del lavoro dell’attore sulla sua parte e fer­ miamoci su quel primissimo momento che è dato dalla scelta della parte stessa. L’attore cinematografico» come qualsiasi altro artista di qualsiasi altra arte, comincia il suo lavoro con l’approfondimento della sua parte nel senso della sua finalità e della sua ideologia. In questo processo compaiono, inevitabilmente, non solo momenti oggettivi, ma anche momenti profondamente soggettivi. Se il lavoro dell’attore fosse determinato solo dalle esigenze poste dal soggetto e dalla sceneggiatura e dall’esecuzione di queste, senza nessun personale e profondo interessamento da parte sua, non si giun­ gerebbe all’opera d’arte. Come non vi si giunge quando sia l’intera opera, che la parte sono qualche cosa di estraneo al mondo interiore dell’artista. Solo quando il soggetto e il ruolo diranno quello che, con profonda verità e passione, avrebbe voluto dire l’artista, si può essere sicuri di muoversi sul piano dell’arte. Io sostengo che fin dal principio, fin dal primo contatto tra l’attore e la sua parte, deve manifestarsi una profonda partecipazione interiore dell’attore. Ma oltre all’interessamento per l’aspetto ideologico, che si pone fin dal primo inizio del lavoro, l’attore deve immancabilmente sentire e valutare con esattezza le sue possibilità di perfetta esecuzione di quel compito. La parte adatta a un attore non lo è soltanto per ragioni ideologiche. Nei primi assaggi della parte deve trovarsi qualche aspetto connesso coi dati personali del carattere e della mentalità dell’attore, che possano costituire i primi punti di appoggio per il suo futuro e concreto lavoro per l’acquisizione della forma.

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Fin dal primo incontro con la sua parte, l’attore deve sentirla sim­ paticamente, emotivamente connessa alla sua personalità oltre che all’unità del soggetto. Questo primo momento, in cui l’attore intuisce la futura immagine nella sua interezza realistica, può immediatamente sorgere in lui o anche esser trovato coll’aiuto del regista. Ma, nell’uno o nell’altro caso, è il momento di profonda attrazione per le possibilità del futuro lavoro che induce l’attore alla scelta della parte. Sul problema della scelta delle parti è necessario trattenersi parti­ colarmente perché la nostra pratica fino ad oggi ci ha portato a una meccanica distribuzione delle parti tra gli attori, spesso anche senza tener conto dei caratteri individuali di essi e quasi sempre senza dare il giusto valore alla partecipazione e al creativo interessamento dell’at­ tore ad essa. È chiaro che il lavoro dell’attore sulla sua parte può dare buoni risultati solo quando questo lavoro è preceduto da quello della scelta, cioè dal desiderio e dallo sforzo dell’attore per ottenere e recitare precisamente quella parte. In questo senso, l’attore cinematografico si trova in condizioni assai meno favorevoli che non l’attore di teatro. Nel cinema non ci sono, o per lo meno sono assai poche, comunità affiatate di attori, e i sog­ getti sono scritti per un determinato regista, ma senza tener conto in nessun modo degli attori, che vengono scelti soltanto all’ultimo mo­ mento. La possibilità per un attore di scegliere le sue parti quasi non esiste ed è praticamente limitata alla possibilità di accettare o di rifiutare la parte che gli viene proposta. Bisogna dire che di questa condizione non è responsabile solo la presente organizzazione della produzione, né solo la mancanza di ini­ ziativa dei registi e dei soggettisti. Io credo che in tutto ciò abbia una gran parte di responsabilità il livello culturale degli stessi attori. Analizziamo ora attentamente ciò che può costituire l’elemento di attrazione di una parte e che deve indurre l’attore a decidere circa la sua scelta. Prima di cominciare a lavorare alla creazione dell’immagine, l’attore deve (e in ciò è la sua artisticità) saper contenere tutto il suo futuro lavoro entro i limiti stabiliti dall’intera opera Anzitutto deve esistere il suo interessamento e la sua adesione ah tema generale dell’opera;

167 poi deve assolutamente esistere il chiaro senso delle sue personali capacità espressive, connesse con una esatta valutazione delle caratte­ ristiche del personaggio da creare e colla conoscenza dei mezzi tecnici di cui si dispone a questo scopo. Noi sappiamo che in teatro spesso i comici desiderano interpretare Amleto, ma non l’hanno mai fatto o, se l’hanno fatto, si sono convinti della irragionevolezza di questo desiderio. Un artista non può incapric­ ciarsi astrattamente di una parte. Il suo desiderio deve basarsi su dati concreti di carattere e di tecnica che egli possiede.

Una rapida visione delle possibilità che gli offre il futuro ruolo è essenziale per l’attore; e costituisce quel piano generale, preliminare e necessario in ogni lavoro, che mette in chiaro la complessità dei com­ piti, la cui valutazione lo porta ad accettare o a respingere il lavoro. Nell’attore, il giusto modo di sentire una parte è, come ho già detto, oltre all’adesione ideologica, il sommario calcolo, e il senso delle pro­ prie possibilità di attore, il possesso della tecnica, il carattere personale, il temperamento e, in una parola, la somma delle sue particolarità fisiopsicologiche. L’attore di teatro, nel suo preliminare contatto colia parte e deside­ rare o non desiderare di averla assegnata, si basa sulla sua conoscenza dei mezzi specifici del teatro. Come ho già detto, l’attore cinematografico per la sua preparazione deve attenersi al metodo praticato nella scuola di Stanislavski. Perciò gli elementi essenziali della sua aspirazione a una parte debbono essere basati sull’interiore contenuto di essa. Ma sarebbe pro­ fondamente assurdo ed erroneo separare questo contenuto da quella forma esteriore nella quale essa dovrà esser presentata allo spettatore sullo schermo. Disgraziatamente la piena conoscenza di questa futura forma è stata fino ad ora riservata al regista e l’attore non ne ha partecipato affatto o solo in misura insufficiente. E in questo modo l’aspirazione degli attori a una parte, nel maggior numero dei casi, non è stata che una velleità simile a quella del comico che vuol fare la parte di Amleto. Nel caso della legittima aspirazione di un attore ad una parte colla quale si sente emotivamente legato, bisogna che questa attrazione, fin dal primo momento, sia legata alla comprensione del fatto che ogni momento della parte non solo lo interessa e lo commuove, ma risponde alle sue possibilità di trovar loro una forma adeguata. I problemi posti

168 dalla parte possono essere difficili, ma debbono essere risolvibili: e questo è tutto. Per un preliminare assaggio della parte, è assolutamente necessario che l’attore possegga una piena e completa conoscenza della tecnica della sua arte. Questa conoscenza è necessaria all’attore per poter af­ fermare con sicurezza che la sua aspirazione alla parte lo condurrà effettivamente al necessario risultato. L’attore di teatro, che conosce il luogo dove dovrà recitare, il suo regista, i suoi colleghi e le basi tecniche del teatro, può fare la preli­ minare valutazione della parte, immaginando sé stesso sulle tavole di quel palcoscenico dinanzi al pubblico. L’attore cinematografico, abitualmente, non immagina le possibilità che ha e quelle che possono essergli messe a disposizione dal cinema per dar vita al personaggio sullo schermo e senza questa previsione è impossibile lavorare. Fino ad ora la visione del futuro film nella sua interezza è stata riservata al regista; che solo prevedeva il montaggio della recitazione, quale doveva risultare allo spettatore a film finito e che doveva immettere nel mondo soggettivo dell’attore questa visione. Certamente l’attore cinematografico non è responsabile se l’orga­ nizzazione generale della produzione non dà la possibilità di farsi la necessaria preparazione tecnica. E, in un modo o nell’altro, egli è stato messo nella condizione di non aver nessuna responsabilità per la scelta delle sue parti: è stato meccanicamente separato dalla sfera del montaggio, che è stata riservata sempre al solo regista; mentre la cono­ scenza di esso è la prima ed essenziale condizione di tutta la cultura cinematografica, specialmente per l’attore. In conclusione, anche il problema della scelta delle parti ci porta nuovamente ad affermare che l’attore deve assolutamente avere una più vasta e più profonda conoscenza del cinema, di modo che l’aspi­ razione ad una parte non sia una semplice velleità, ma un momento, determinato da precise leggi, del processo creativo dell’opera.

Collaborazione creativa Ponendo il problema della necessità di un’attiva partecipazione dell’attore alla scelta delle parti, io credo che abbiamo anche trovato una soluzione del problema delle cosiddette attribuzioni di esse. Queste attribuzioni erano fatte in base a complicate discussioni, in gran parte basate sui piani di lavorazione degli studi, e considerate come concrete espressioni delle aspirazioni creative non solo dei registi ma anche dei soggettisti e degli attori tra i quali dovevano essere distribuite le parti. A me sembra che quel metodo di lavoro porti soltanto ad una del tutto inutile e assurdamente meccanica richiesta di attribuzione delle parti stesse. Evidentemente nessun promemoria scritto può sostituire, per il regista e per lo sceneggiatore, la necessaria conoscenza dell’attore. Per questo, perché l’attore sia veramente compreso e apprezzato dal regista, non bastano le conversazioni e le relazioni scritte, ma occorre un profondo studio reciproco. Bisogna dire che nelle attuali condizioni la maggior parte dei registi e degli attori (e sono poi tanto pochi) non si conoscono affatto tra di loro. E cosi il problema della collettività di lavoro si trova ancora oggi al primissimo stadio del suo possibile sviluppo. Parlando delle mie esperienze personali, ho già detto fino a qual punto il regista debba spingere l’interiore contatto con gli attori perché il lavoro della ripresa si svolga in quell’atmosfera di mutuo aiuto e fiducia che è indispensabile per l’esecuzione del lavoro. Le nostre organizzazioni cinematografiche non hanno nemmeno il tempo per organizzarsi e rafforzarsi neanche per la creazione di un solo film. Allo stato attuale delle cose, da noi, il regista fa la conoscenza anche dei più importanti tra i suoi attori, solo alla fine delle riprese. Parlando ancora della mia personale esperienza, ricordo che il vero contatto interiore tra me e la Baranovskaia ci fu soltanto verso

170 la metà della lavorazione e con l’attore Livanov le cose andarono anche peggio, perché solo verso la fine del film cominciammo a capirci.

Una tale mancanza di conoscenza reciproca e di intesa è una cosa assurda e dimostra la necessità e l’urgenza di una radicale riforma nei nostri sistemi di organizzazione. Io credo che la formazione di troupes permanenti sia una pratica soluzione del problema. Bisogna, a questo proposito, ricordare la limi­ tazione che hanno gli attori di cinema nella possibilità di cambiare l’aspetto esterno, cosa che in troupes fisse limiterebbe la fantasia degli sceneggiatori e, in altri termini, verrebbe a colpire il futuro film proprio nella parte più sostanziale, il suo contenuto ideologico. D’altro canto l’organizzazione di gruppi collettivi va favorita e in­ coraggiata perché, almeno come elemento di elevazione del livello cul­ turale degli attori, non può mancare di dare buoni frutti. Ma, a parte queste collettività, noi dobbiamo pensare a circostanze che permettano all’attore e al regista di congiungere le loro forze, per uno o due film, nel modo migliore, basato quindi sulla reciproca colleganza e com­ prensione. L’unica base per la formazione di una collaborazione creativa in cui esista una comprensione di tal genere è l’organica collaborazione di tutti gli elementi al processo creativo, cosa che presuppone una comu­ nanza di idee, una comunanza di metodi di lavoro ed un comune livello di cultura cinematografica. Il vero lavoro di collaborazione e, se volete, la stessa possibilità dell’esistenza di collettività creatrici può aver luogo solo nel caso che tutti i componenti della troupe di ripresa prendano contatto tra loro fin dai primissimi momenti della creazione. Quindi si pone inevita­ bile il problema della partecipazione degli attori alla sceneggiatura. Abbiamo già parlato del caso in cui l’attore si trova a cozzare colla sceneggiatura già pronta e con la parte già definita in ogni particolare quando egli cerca in essa quegli elementi che possano attrarlo e che possano determinare la pienezza e il contenuto del suo futuro lavoro. C’è il caso del soggettista che scrive il suo lavoro in vista di un dato attore; caso che può dare buoni risultati se egli effettivamente lo conosce e bene; come avviene dunque nelle troupes fisse. Ma ci può essere anche il caso, nel quale l’attore, invitato dal regi­ sta e dal soggettista, partecipa alla elaborazione del soggetto stesso e influisce subito sulla parte. E allora saranno strettamente e veramente

171 connessi, soggettista, soggetto, attore, parte e regista. Questo sistema può essere adottato anche per la sceneggiatura. Purtroppo di questo non c’è esempio a tutt’oggi nella nostra cinematografia. Se talvolta c’è stata collaborazione effettiva tra regista e attore e tra regista e soggettista, mai si è verificato il caso di collaborazione tra soggettista, attore e regista. Io non ho mai avuto una troupe fissa, nel corso della mia attività, e ho fatto partecipare gli attori al processo creativo del film solo rara­ mente e scarsamente. Questo a causa soprattutto della organizzazione della produzione, che non ha mai lasciato tempo per la creazione di un tale affiatamento tra i vari collaboratori. Durante il corso della ripresa è già tardi per tentare di trovare un reale contatto collaborativo, e nella maggior parte dei casi è addi­ rittura impossibile. Ci potrà essere un maggiore o minore interesse da parte dell’attore per il suo lavoro, una maggiore o minore simpatia per i singoli pezzi che lo costituiscono, ma una saldatura reale non potrà mai esserci. E s’intende quindi perché l’attore sia normalmente escluso dalla fase più importante di tutto il lavoro che è il montaggio. Egli è messo da parte e torna fuori solamente per vedere il film, quando esso è già finito e non c’è più possibilità di modificare ciò che il regista ha fatto. Perché la fase della ripresa è contraddistinta da un eccesso di tensione e da un costante nervosismo? Soprattutto perché succede sem­ pre di dover lavorare con sceneggiature incompiute e con una insuf­ ficiente preparazione. Quasi tutta l’attenzione del regista, durante la ripresa, è volta alla sceneggiatura ed egli ha la possibilità di conoscere i suoi collaboratori, solo un giorno, o un’ora, prima delle riprese. Il sistema di escludere gli attori dalla collaborazione della collet­ tività creatrice del film è certamente un pessimo sistema. Perché durante il periodo delle riprese non è possibile instaurare una vera e propria collaborazione. Il momento fondamentale per essa è dunque il periodo della preparazione. Solo durante il periodo della preparazione si hanno tutti i dati necessari per la reciproca comprensione; solo allora è possibile un orientamento comune, può nascere una scuola, si può trovare un comune impulso creativo. Abbiamo costatato le tristi condizioni in cui è costretto a lavorare l’attore nell’attuale produzione. Se il regista cinematografico ha la pos­

172 sibilità di parlare chiaramente di ciò che ha in animo di fare, può trovare il soggettista che sia il piu adatto per scrivere il soggetto che gli occorre e può avere gli attori che siano effettivamente quelli che gli son necessari. Alcuni sostengono la necessità di dare agli attori la possibilità di fare delle prove che mettano in luce le loro capacità e le loro attitudini alla parte. Ma questo è praticamente impossibile. Per avere la possibilità di scegliere, bisogna avere elementi tra cui scegliere. E come li possono avere gli attori se il processo di stesura e di elaborazione dei soggetti è precluso per loro? Il soggettista e il regista che elaborano da soli la sceneggiatura, nella quale esistono i tratti fondamentali dei futuri personaggi, di fatto escludono l’attore dalla possibilità di scegliersi la parte. Se il soggetto appena concepito, quando è ancora alla sua primis­ sima forma, fosse largamente diffuso tra gli attori, essi potrebbero veramente, interessandosi e valutando le varie possibilità, scegliere e il soggetto e il regista, cosi che, con le successive prese di contatto, si potesse addivenire alla formazione di buoni gruppi di lavorazione. Questo sarebbe il primo passo verso l’organizzazione di complessi sa­ namente collaboranti. Ma la soluzione pratica di questo problema è irta di difficoltà. Il personale degli attori è limitato in uno studio e Io è altrettanto quello dei registi. Parlando quindi di larga diffusione dei soggetti e della necessità di rivolgere tutti gli sforzi alla creazione di organici gruppi di lavorazione si deve parlare anche della necessità di annullare le suddivisioni in diversi studi del personale artistico. Mancando cioè una generale organizzazione unitaria, bisogna pensare alla possibilità pratica di uno scambio, su larga scala, degli elementi artistici tra le varie or­ ganizzazioni. La larga diffusione dei soggetti e dei progetti di film deve esser fatta oltre i limiti di una singola organizzazione, in modo che la reci­ proca scelta di registi e di attori possa effettuarsi nelle condizioni migliori. E a questo punto viene in ballo il problema del cosiddetto impiego dell’attore, cioè a dire, la definizione dei limiti impostigli dal suo tipo, limiti che nel cinema sono fisici e connessi con la sua esteriore espres­ sività. La possibilità di una variazione di aspetto esteriore è molto pili limitata per l’attore cinematografico che per l’attore di teatro: il per-

173 sonaggio che l’attore crea deve essere molto più vicino al suo carat­ tere, al suo temperamento e al suo aspetto fisico di quanto non debba esserlo in teatro. Nel lavoro del film, non è possibile servirsi del trucco che dovrebbe alterare un’immagine tridimensionale mediante una linea piana. Di­ pingere, come si fa in teatro, una .protuberanza del viso, è impossibile perché le variazioni della luce, nel movimento, metterebbero in evi­ denza la falsa immobilità di un’ombra disegnata la quale verrebbe a risultare semplicemente una macchia di sudiciume. Il disegno di una protuberanza inesistente sul volto è impossibile nel cinema; per esser possibile, dovrebbe essere non un disegno ma una costruzione tridi­ mensionale ed anche in questo caso non risulterebbe mai vera perché non riuscirebbe mai ad entrare nella viva interdipendenza del sistema muscolare del viso umano. Il trucco è possibile nel teatro solamente perché la (relativamente fissa) luce della ribalta e dei proiettori dall’alto non dà ombre e perché lo spettatore, seduto ad una determinata distanza, non può notare l’as­ surda immobilità di una macchia di trucco. La varietà delle parti che un attore può interpretare in un film dipende da fattori interiori, dalla varietà delle condizioni in cui un nuovo film lo pone. Nel cinema uno stesso attore, col volto e col ca­ rattere inalterato, può interpretare parecchi film. Noi sappiamo, ad esempio, che Chaplin, conservando sempre la stessa truccatura, e conservando sempre lo stesso carattere, ha creato un personaggio straordinariamente pregnante che si ritrova nell’intera serie dei suoi film. Io penso che si debba seriamente investire il problema della limi­ tazione delle parti possibili per gli attori cinematografici. E veniamo dunque alla questione delle cosiddette stars-, come si crea e come viene sfruttata una star nel mondo borghese? Quando un attore è gradito al pubblico per il suo aspetto e per la sua maniera di recitare, che il più delle volte è una vera e propria forma di trucco, la produzione fa di tutto per mantenere nell’attore quanto più esat­ tamente e rigorosamente è possibile quelle prerogative che lo hanno fatto piacere la prima volta, confezionando a questo unico scopo ap­ positi soggetti. Il lavoro con le cosiddette stars non richiede altro al regista che la presentazione della stessa star in diversi sfondi. Cosi, ad esempio, noi

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vediamo come Menjou, che con Charlie Chaplin ha recitato brillantemente, in un’intera serie di film successivi, deplorevolmente cretini, ha conservato immutato lo stesso aspetto di allora e uno stesso schema generale di comportamento, trasformandosi sempre piu in un pupazzo vuoto e privo di qualsiasi interesse. Io credo che questa maniera meccanica di ripetere l’aspetto di un attore e il suo comportamento per piacere al pubblico non sia adatta per noi, come non è adatta alla creazione di autentiche opere d’arte. Quello che deve rimanere dell’aspetto esteriore di un attore in un secondo film non deve essere semplicemente quello che l’ha fatto pia­ cere nel primo; ma l’attore deve fare un nuovo passo sulla via per la quale si è messo. Deve, per cosi dire, portare oltre quell’immagine, colla quale ha cominciato a lavorare, mettendola a contatto con una nuova sezione di realtà. Menjou è stato mostrato semplicemente come una ripetizione di sé stesso fino alla completa caduta delle sue capacità perché i film sono creati attorno a lui ed egli non vi entra mai come parte integrante. Anche Chaplin mantiene la stessa immagine, ma in ogni film egli è nuovo e interessante proprio perché passa attraverso nuovi mondi, creando realmente sempre una nuova ed organica opera d’arte. I film, in cui ritorna un tipo di attore, debbono rappresentare un processo di sviluppo regolato, che conduca l’artista per la via di una sempre piu profonda rivelazione del personaggio.

Esperienze personali Come conclusione, voglio dire qualche parola circa la mia esperienza personale di attore. A me sembra che quelle esperienze riflettano bene la mancanza di chiarezza e la confusione di orientamenti che fino ad oggi hanno caratterizzato ogni scuola di recitazione. Le mie prime parti furono recitate col metodo di Kuliesciov. La sostanza effettiva della recitazione dell’attore si manifestava in quella scuola nell’esteriore espressività, trattata semplicemente come conseguenza meccanica, una volta scelto l’attore, e una volta dettatigli i movimenti dal regista. Il montaggio della recitazione sullo schermo si riduceva ad una mec­ canica incollatura di pezzi, collegati tra di loro solo in una temporale composizione di movimenti schematici. Anche i movimenti del primo piano, che sembravano esigere dall’attore un grande lavorio interiore, si riducevano abitualmente all’apprendimento della facoltà di scom­ porre in elementi i movimenti del viso. L’ordine del regista di spingere in avanti la mascella, di sbarrare gli occhi, di inchinare o sollevare la testa era abituale nel corso delle riprese. Si diceva, è ben vero, che si potevano e si dovevano basare questi movimenti su qualche cosa di interiore, ma che cosa poi fosse questo qualche cosa nessuno lo diceva mai. Io ricordo che talvolta questo qualche cosa era semplicemente la gioia, che sanamente e limpidamente ci veniva dall’apprendimento dello schema. Tal’altra si provava una specie di estasi, che era diffìcile sepa­ rare dalla sensazione di tensione fisica che dipendeva dalla consape­ volezza dell’importanza di ciò che si stava facendo. Cosi io ho lavorato in Mister West e nel Raggio della morte. Bisogna dire che Kuliesciov, col suo effettivamente grande talento pe­ dagogico, mi introduceva a partecipare appieno al lavoro di sceneg­ giatura e di montaggio, non solo permettendomi di recitare, ma anche di mettere in scena pezzi con altri attori.

176 La lavorazione nel film in ogni suo campo mi ha insegnato a sen* tire me stesso non solo come un uomo che lavora dinanzi alla camera, ma anche a prevedere Io sviluppo delle future immagini, quali sareb­ bero risultate nel montaggio.

Io penso che la scuola di Kuliesciov, senza tener conto di tutto ciò che di meccanico c’era nella sua concezione di allora dell’attore, abbia avuto un’enorme importanza per i membri del suo gruppo, dal quale, non di rado, sono usciti magnifici attori, come ad esempio V. Foghel e Komarov. Io tendevo allora, nel mio lavoro, a basarmi su di una consistenza interiore; tentavo di trovare dentro di me quella connessione che mi permettesse di sentirmi, durante la recitazione, un essere vivo ed intero. Ma questa possibilità di svilupparsi per proprio conto io non l’ebbi al tempo della mia collaborazione con Kuliesciov. Solo quando passai al « Mezrabpom » ebbi la possibilità di vedere il lavoro dell’attore da un punto di vista diverso: quello del regista. Ma ogni volta ed in ogni film io provai ad interpretare una qualche parte, sia pur piccolissima. Mi sembra relativamente felice il pezzetto, che recitai nel mio film La madre, in cui facevo la parte di un ufficiale, un topo di polizia, incaricato di fare una perquisizione nell’appartamento di Pavel. Ri­ cordo che in quel lavoro, per vecchia abitudine, mi basai principal­ mente sull’aspetto esteriore. Cominciai col tagliarmi i capelli a spaz­ zola, mi feci crescere i baffi, e mi misi gli occhiali, che mi pareva sottolineassero il contrasto tra la divisa, che dà sempre ima certa spa­ valderia e virilità, e il debole e basso carattere di un topo d’archivio di polizia. Mi ricordo che l’interiore consistenza sulla quale io ho provato a basare il mio comportamento in quella parte fu un amaro sconforto e una specie di noia, che mi pareva dovessero produrre nello spetta­ tore un’impressione abbastanza sottile del meccanismo atroce della polizia, che spegne inesorabilmente ogni scintilla vitale di pensiero e di sentimento. Mi ricordo che, pur in quella piccola parte, tutto il mio lavoro fu eseguito tenendo costantemente presente il montaggio. La sonno­ lenta e annoiata figura dell’agente, ripresa in campi lunghi e in mezzi campi lunghi, fu ripresa invece in primi e primissimi piani quando doveva, secondo la parte, dimostrare un qualche barlume di interesse, come di un bracco che fiuti la selvaggina.

Il mio unico ruolo importante, come attore, fu la parte di Fedia nel Cadavere vivente. La regia non era mia. La mia parte era lunga e complessa. In ogni momento della parte si sarebbe dovuto porre il problema del tutto, dell’organicità della parte, della sua funzione nel film e del significato stesso dell’intero film. Onestamente bisogna ammettere che non si fece niente di tutto questo.

Il mio lavoro in quel film, a causa di un complesso di circostanze, si svolse, in genere, per me come un riposo dalle mie precedenti fatiche di regista. Io mi detti interamente nelle mani del regista, deliberatamente prestabilendo che non avrei mai fatto il minimo tentativo per superare il mio aspetto fisico e il suo personale carattere. E cosi lasciai al regista il compito di creare l’unità del film e non mi curai del montaggio della recitazione. Io potevo solo immaginare vagamente come sarebbero stati montati i diversi pezzi. La connes­ sione generale dei diversi momenti cercai di stabilirla da me; in breve, io recitai me stesso. In ogni separato elemento della mia recitazione, per mezzo di vari metodi di natura strettamente individuale e che si possono applicare solo a me stesso, riuscii a mettermi in condizioni di fare, con sin­ cerità e in stretta connessione col mio carattere, i vari movimenti che esigevano da me il soggetto e il regista. Mi ricordo della scena nella quale, col revolver in mano, io stavo dietro una stufa, girando intorno lo sguardo per rappresentare il viso di un uomo quasi impazzito, che è sulla soglia del suicidio. Mi ricordo che, per fare questo pezzo, uscii dal campo, mi nascosi dietro la stufa e, appoggiando il revolver sul cuore, ripetei ininterrotta­ mente le parole di Kirillov (dei Demoni di Dostoievski): « Su me, su me, su me... » finché non arrivai alla fine a uno stato di stordimento. Ricordo ancora un’altra scena in questo senso caratteristica. In un vuoto vestibolo prima di abbandonare la casa e la moglie, io mi congedo da mia sorella. Ricordo che mi fu molto facile esprimere un senso di delicatezza e di tenerezza nei confronti della ragazza che reci­ tava quella parte. La ragazza mi piaceva come donna nella vita. E sentire che dovevo allontanarmi da lei per sempre e lasciarla sola in quella vuota casa, desiderare di aiutarla, farle una carezza, che nello stesso tempo era un gesto per allontanarla da me, fu semplice e facile, perché tutto ciò non solo non si differenziava, ma quasi coincideva, coi dati reali del mio carattere.

178 In genere tutto il lavoro nel Cadavere vivente fu condotto con un considerevole e profondo lavorio interiore, ma questo lavoro non mi ha dato il senso che io avrei potuto espletare qualche altra parte che non si basasse sulla riproduzione di me stesso e del carattere che abi­ tualmente io manifesto nella vita. La mia esperienza, nel recitare 11 cadavere vivente, non può in alcun modo esser d’esempio per nessuno. L’interna relazione e connessione del carattere alla parte non fu condotta nel senso della trasformazione di sé stesso, ma semplicemente su quella della diretta manifestazione di sé. Io rimasi, nel pieno senso della parola, me stesso. Ogni elemento nuovo e diverso da me risultò semplicemente dal montaggio. In altre parole, l’immagine cinemato­ grafica di Fedia la creai semplicemente in base ai dati del copione, e non fu un carattere costruito dalla recitazione. Io credo che il fattore decisivo e fondamentale di quell’opera sia stato precisamente la mia personale indifferenza a concepire l’intero personaggio, che mi fece trattare la mia interpretazione come un sem­ plice viaggio nel film, senza lo sforzo di adeguare me stesso alla fina­ lità dell’intera opera; sforzo che non solo dà all’attore la soddisfazione di risolvere un compito tecnico, ma il senso della soluzione del compito ideologico posto dal film in quanto opera intera, viva e significativa non solo per lo spettatore, ma anche per l’attore. Io credo ancora che allo stato attuale della nostra teoria e della nostra pratica sia impossibile parlare di un definitivo sistema per lavorare con gli attori. Un tale sistema deve essere anzitutto creato e poi dev’essere preso come punto di partenza, che ci obblighi a creare le condizioni che rendano possibile l’applicazione del sistema

stesso. Allo stato attuale delle cose io debbo limitarmi dunque alla sem plicc descrizione delle mie esperienze e di quelle degli altri.

Conclusione Tiriamo le somme e concludiamo. 1. Le nuove basi tecniche del cinema (la mobilità della macchina da presa e del microfono) rendono, non solo inutile, ma addirittura privo di senso, per Fattore, tutto quel lavorio tecnico che, nel teatro, è imposto dalla grande distanza che separa il palcoscenico dall’immobile spettatore. E vengono cosi a cadere: la particolare impostazione teatrale della voce, la dizione teatrale, il gesto teatrale, la truccatura dipinta. 2. Di conseguenza viene anche a modificarsi il concetto teatrale dell’impiego dell’attore. Una varietà di ruoli interpretabile da un attore cinematografico, in un primo caso, variando i caratteri e mante­ nendo una esteriorità costante (Stroheim) e, viceversa, nello sviluppo di un carattere, uno e costante, variando le circostanze (Chaplin). 3. Perduta cosi la possibilità di creare un tipo con mezzi teatrali (truccatura stilizzata, gesticolazione generica, accentuazione dell’espres­ sività vocale ecc.), l’attore cinematografico acquista in compenso pos­ sibilità indispensabili per il teatro: la possibilità di forme di recitazione piti sottilmente realistiche che si avvicinino al massimo all’effettivo com­ portamento di un uomo vivo nelle varie circostanze della vita. Il tipo, nel cinema, viene creato piuttosto in base all’azione esterna, in base alla ricca varietà del comportamento umano nelle varie circostanze. (Si paragoni lo sviluppo di un carattere nel romanzo e nel dramma; in questo senso, il cinema è più vicino al romanzo che al teatro.) 4. Della preparazione culturale dell’attore di teatro si trasferisce nel cinema tutto ciò che è connesso al processo di creazione di una forma unitaria e l’acquisizione di essa da parte dell’attore; tutto quello dunque che precede l’invenimento della forma scenico-teatrale della recitazione. (Certamente, in pratica, non esiste una separazione di questi due momenti, perché nell’attore di teatro esiste sempre il senso della forma scenica; e tuttavia si può per comodità stabilire questa

180 distinzione.) Ecco perché la scuola di Stanislavski che sottolinea l’im­ portanza dell’acquisizione della forma intera, da parte dell’attore (anche a detrimento della teatralità della rappresentazione), è la piu vicina all’attore cinematografico. L’intimismo della recitazione dell’attore della scuola di Stanislavski (che un tempo portò lo spettacolo all’eccessiva sovrabbondanza di poco percepibili particolari, e che eliminava quindi lo splendore della tea­ tralità) nel cinema può trovare i suoi naturali sviluppi. 5. Tutti quei mezzi che la cultura teatrale ha fornito, per favorire l’attore nell’acquisizione di una forma unitaria frazionata nell’opera in vari pezzi, debbono essere trasferiti nella pratica del cinema. In primo luogo, il lavoro delle prove, condotto soprattutto per dare al­ l’attore tutte le possibili condizioni per mantenere un’ininterrotta esistenza all’immagine del personaggio (sceneggiatura speciale per le prove). 6. Il montaggio della recitazione dell’attore (cioè la composizione sullo schermo di pezzi ripresi separatamente e in luoghi diversi) non è affatto un trucco del regista che sostituisca la recitazione dell’attore. Ma un metodo nuovo e potente, del tutto proprio del cinema, a ser­ vizio di quella recitazione. La padronanza di esso, da parte dell’attore cinematografico, è altrettanto importante quanto, per l’attore di teatro, la padronanza della tecnica teatrale. 7. Ne risulta dunque che la necessaria cultura dell’attore cinema­ tografico raggiungerà il debito grado di perfezione quando comprenderà una profonda conoscenza dell’arte del montaggio e dei suoi specifici metodi. Questa esigenza si è creduto erroneamente fino ad oggi dovesse essere propria esclusivamente del regista. 8. La preparazione dell’attore non può essere disgiunta dall’elabo­ razione del film al quale egli dovrà partecipare; dalla revisione della sceneggiatura durante le prove, fino all’ultima fase del montaggio. 9. Lavorando al film sonoro, l’attore provveduto e coltivato deve sforzarsi di trovare modi di recitazione e di montaggio, che producano forme potentemente emotive, quali furono trovate ai tempi del muto. Egli non deve cedere a quelle forze retrograde di regia che s’adat­ tano supinamente all’impiego dei metodi teatrali estranei al cinema.

Il montaggio

Tutti sanno che l’opera filmica consiste in un gran numero di pezzi relativamente brevi, ripresi isolatamente e poi congiunti. Tutti sanno altresì che lo spettatore normale non s’avvede dei tagli e delle incol­ lature tra i singoli pezzi in cui si articola la scena durante la ripresa. L’opera filmica viene percepita come un movimento continuo, ben­ ché le immagini dello schermo siano nettamente separate da intervalli temporali e spaziali. L’alunno che ascolta le parole di un maestro ele­ mentare diventa, nel giro di un secondo, uno studente che discute la lesi di laurea. Saluta la sua ragazza a Mosca e, nel giro di un secondo, stringe la mano a chi è venuto a riceverlo alla stazione di Vladivostok. Di più: si mette il cappello dinanzi allo specchio della sua stanza e, nel giro di un secondo, se lo toglie per salutare un amico in strada. Ancora: accusato, si discolpa e comincia a dire: « Non avrei agito così, se... » e, nel giro di un secondo, ci appare più giovane di dieci anni, mentre in una località del sud o del nord, che dista mille chilo­ metri dal tribunale, dimostra l’inconsistenza dall’imputazione mossagli. Con un brusco salto di tempo e di spazio si ritorna nell’aula del tri­ bunale, mentre l’eroe conclude il suo dire. Lungo tutto il film abbondano questi salti che si misurano talvolta in metri e minuti e talaltra in chilometri e decenni. A quanto pare, persino l’azione più semplice dell’interprete può essere frazionata. L’attore volge la testa per guardare qualcuno. Il primo gesto (il vol­ gersi della testa) ha inizio in un pezzo in cui si vedono entrambi gli attori, ma il secondo gesto (lo sguardo) compare in un altro pezzo, in un primo piano che consente di esaminare l’espressione degli occhi. L’attore comincia a parlare. Le prime parole sono raccordate alla sua figura, ma d’un tratto si sente la fine della frase, mentre sullo schermo si vede l’interlocutore che ascolta. In media, in un film ci sono da cento a mille salti, ma, quando

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l’opera sia realizzata da buoni tecnici, lo spettatore ne percepisce l’azione come un tutto organico. Solo l’incapacità può dare l’impressione del frantumarsi dell’azione e un senso di disagio per il variare del­ l’inquadratura o di irritazione per il brusco mutamento di spazio e di tempo. L’arte di unire i pezzi ripresi, in modo che lo spettatore ne tragga l’impressione di un movimento coerente e ininterrotto, è l’arte del montaggio. Gli inglesi parlano semplicemente di cutting, cioè di taglio. In effetti, i due termini sono ormai inadeguati, perché cinquan­ tanni di evoluzione dell’arte filmica hanno dimostrato che la creazione di un movimento unitario con pezzi ripresi in luoghi e tempi diversi non coincide con la semplice incollatura, che richiede solo un po’ di pratica e di mestiere. I termini monter e cut, che designano solo l’aspetto tecnico del processo, risalgono all’epoca in cui il film non era considerato ancora un’arte autonoma e progressiva, un’arte non solo inedita, ma anche ricca d’avvenire. Cerchiamo adesso di definire in che cosa consista effettivamente il montaggio di pezzi già ripresi, sviluppati e stampati. Perché sullo schermo un’inquadratura possa seguire all’altra senza soluzione di continuità, è indispensabile che i pezzi siano connessi tra loro con estrema chiarezza. La connessione può fondarsi anzitutto sul desiderio di esprimere un concetto astratto. Esempio: l’aula del tribunale; l’im­ putato, innocente, ascolta la condanna; e di colpo sullo schermo ven­ gono raffigurate le circostanze reali del crimine, che giustificano appieno l’imputato. La verità dei fatti viene alla luce, mentre si sentono le parole dell’ingiusta sentenza. La palese contraddizione tra i pezzi mon­ tati esprime il concetto astratto della faziosità del tribunale. Ma la connessione tra i pezzi può anche essere puramente esteriore e for­ male. Per esempio, in un’inquadratura si vede un fucile che spara e, nella successiva, il proiettile che raggiunge il bersaglio. Tra la connessione ideale, concettuale, e quella meramente formale, esteriore, si apre, naturalmente, tutta una gamma di gradi intermedi: ma queste varie connessioni devono comunque consentire al montaggio di creare sullo schermo un movimento ininterrotto, coerente e ricco di significato. Non si possono incollare due pezzi di pellicola, se il secondo non rappresenta, in qualche modo, la diretta continuazione del primo. In quest’ambito esiste, beninteso, un’ampia gamma di con­ nessioni, compreso il contrasto che è talora la forma piu nitida di congiunzione di due o piu pezzi nell’organico svolgimento di un’idea.

185 È opportuno dire in proposito che un montaggio farraginoso, confuso, talvolta assurdo, non è affatto raro oggi, soprattutto nel campo dei cosiddetti documentari o delle attualità.

Così, l’elemento fondamentale di un film, la connessione intrinseca dei singoli pezzi, sfugge al montatore. Non è lui il creatore del nesso, la cui genesi artistica avviene molto prima, in fasi precedenti di lavoro, durante l’elaborazione della sceneggiatura e durante le riprese. Io credo che, nell’esaminare teoricamente il fenomeno che, con termine non troppo appropriato, chiamiamo montaggio, non dobbiamo indugiare sui metodi dell’incollatura, ma su ciò che li precede e determina. Per il momento sono ancora costretto ad usare il termine di « montaggio », ma ritengo tuttavia utile precisare il significato che attribuisco a questa parola. Per me il montaggio non è, come lo concepisco attualmente, la somma dei singoli pezzi ripresi o l’esecuzione dei tagli nelle singole scene; d’altro canto, io non propongo la sostituzione di questo termine con il concetto piuttosto generico e formale di « composizione ». Il montaggio è la scoperta ©unilaterale, realizzata con tutti i possibili metodi, dei nessi esistenti tra i fenomeni della vita reale e la loro rappresentazione nelle opere filmiche. Il montaggio definisce, in que­ st’accezione, il grado di cultura del regista, che gli consente non solo di conoscere ma anche di interpretare rettamente la vita. Esso deter­ mina inoltre la sua facoltà di osservare la vita, di esaminare e meditare con originalità le proprie osservazioni. Infine il montaggio condiziona il talento stesso del regista, che gli permette di tradurre il nesso intrin­ seco e riposto dei fenomeni reali in una connessione chiara, tangibile, evidente di per sé. Quando sullo schermo, alla visione dei sacchi di grano accaparrati a fini di speculazione subentrano i primi piani dei ragazzi emaciati ed esauriti dalla fame, questo è montaggio. La corre­ lazione individuata dall’intelletto colpisce in tal caso con l’immediauzza visiva dell’infame contrasto (Paul Rotha). Quando, nell’episodio della prima guerra mondiale (nella Fine di San Pietroburgo), si vedono le rapide scene dell’aggiotaggio in Borsa, cui seguono i pezzi del tra­ gico sterminio dei soldati lanciati in un attacco disperato, questo è montaggio. Il nesso tra gli interessi della Borsa nella Russia zarista e le finalità imperialistiche della guerra risulta dal rapido alternarsi dei pezzi brevi, e il grido dei soldati: « Per che cosa combattiamo? » • splode come una conclusione necessaria, inevitabile. Quando in un

186 film l’azione si arresta d’improvviso, e si retrocede nel passato, per poi ritornare di colpo al presente e quindi di nuovo al passato, anche questo è montaggio. In tal modo si scopre e si rivela il rapporto tra il presente del personaggio e la sua vita passata. Quando, in un pezzo di pellicola, vediamo un uomo, pallido e di­ sperato, sulla coperta di una nave che salpa da un’isola dell’Oceano artico, nel pezzo successivo lo vediamo magro e con la barba lunga, a bordo di un aereo che sorvola una catena montuosa, e, nel terzo, con la barba irsuta, lo vediamo spalancare la porta di una stanza dove giace la figlia ammalata, anche questo è montaggio; un montaggio che alle complicazioni del viaggio, presumibilmente molto lungo, oppone soltanto la volontà ininterrotta — e quindi capace di connettere ogni fenomeno — di arrivare in tempo al capezzale della figlia agonizzante. Tutti i movimenti degli uomini, degli animali e delle cose possono essere descritti mediante il montaggio. Il salto di un cavallo, un dera­ gliamento ferroviario, il lancio di un paracadutista possono essere scomposti, durante la ripresa, in pezzi singoli, che vengono poi riuniti secondo un dato criterio, per rendere più nitida l’impressione com­ plessiva. Ogni fenomeno naturale (un paesaggio statico, una tempesta, la pioggia, l’aurora, la notte, il crepuscolo) può essere riprodotto sullo schermo in modo più o meno efficace in rapporto al metodo di mon­ taggio scelto dal regista nella sua elaborazione artistica. Il montaggio descrittivo, che è la forma più elementare di montaggio, è caratteriz­ zato tuttavia dalla ricerca e dalla scoperta di una connessione precisa, se non tra fenomeni importanti, quanto meno tra singoli aspetti e particolari di uno stesso fenomeno. Se il regista è incapace di analizzare, sia pure sul piano intuitivo, un dato fenomeno, se non sa penetrarne l’essenza, coglierne i particolari caratteristici e intenderne a un tempo il nesso che lo congiunge agli altri fenomeni in un tutto organico, egli non può fornire una rappresentazione limpida e puntuale del feno­ meno da riprendere. Noi diamo il nome di legge al nesso fondamentale che determina la forma e l’orientamento di ogni processo evolutivo. Si può dire con suf­ ficiente precisione che, per fare un buon montaggio, cioè per riprendere correttamente i singoli momenti di ogni fenomeno, bisogna capire con chiarezza le leggi del suo sviluppo. Beninteso, si può anche trascurare l'analisi, l’esame dei particolari e dei nessi. Si può solo fotografare con precisione quel che cade sotto lo sguardo di ogni individuo non por­

187 tato alla riflessione. Se si deve mostrare un tramonto, basta riprendere il sole all’orizzonte che inabissa il suo carro nel mare e, in primo piano, le nere sagome degli alberi. Per riprendere due persone che parlano, basta inquadrarle, sedute o in piedi, dinanzi alla macchina da presa e farle parlare Anche ne abbiano voglia. Anzi, perché la scena non risulti monotona, si possono mo­ strare gli interlocutori mentre salgono o scendono da una scala o pas­ seggiano in una camera arredata con gusto. Si può anche escogitare una passeggiata nel bosco e seguire gli attori con la macchina da presa. La ripresa in movimento, la panoramica o la carrellata, viene concepita da molti registi « ingenui » come il mezzo piu compiuto per sostituire il montaggio di pezzi separati. Ci si può infatti rifugiare nella ripresa « ininterrotta » come nel cosiddetto campo totale. In entrambi i casi il regista si attiene allo stesso criterio, che consiste nella riluttanza a complicare le riprese con la suddivisione delle scene in pezzi, che dovranno in seguito essere riuniti, per dare un senso di continuità al­ l’azione. Perché ricorrere a questo sistema, si argomenta, quando la continuità dell’azione è già presente nella scena? Il solo problema è di riprendere la situazione in modo che tutto vi appaia con la massima evidenza. Un simile ragionamento sembra assolutamente razionale, ma, purtroppo, tale razionalità risulta compromessa, non appena si consi­ deri l’arte filmica con la dovuta serietà, non appena si ravvisi nel cinema un’arte progressiva, destinata ad avere nella vita culturale del­ l’uomo una parte piu grande di qualsiasi altra forma d’arte, dalla pittura alla scultura, dalla musica alla letteratura, al teatro. Si dimentica spesso che il cinema è un’arte realmente progressiva. E lo è anzitutto in virtù della sua recente origine e della sua rapi­ dissima evoluzione. L’avvento e lo sviluppo del film sono intimamente connessi con le più moderne acquisizioni del pensiero filosofico e della cultura tecnica. Sarebbe un grave errore pensare che il cinema sia una specie di arte « sintetica » o, meglio, sommaria, che rinchiude in sé, come uccelli in gabbia, altre arti, rappresentate dai diversi collaboratori del film. Per l’architettura e la pittura c’è lo scenografo; per la musica il compositore; per la letteratura lo sceneggiatore; per il teatro l’attore, c cosi via. La realizzazione di un film unisce, in effetti, tutti questi artisti, ma nessuno di essi può o deve essere, in sostanza, un semplice esecutore che trasferisce meccanicamente nell’arte filmica le tradizioni

188 della propria arte. Se si vuole, si può dire che i diversi collaboratori esprimono nella produzione filmica tradizioni di altre arti; ma queste tradizioni vengono comunque sottoposte, nella realizzazione del film, a una revisione profonda, a un radicale mutamento qualitativo, che lascia sopravvivere, da ultimo, solo i dati comuni a tutte le arti: l’unità organica, per esempio, la fedeltà al vero, la struttura ritmica e armonica. Il cinema, alimentandosi delle tradizioni delle altre arti, le trasforma in tradizioni nuove e specifiche. Allo stesso modo l’uomo, alimentandosi di piante e animali, li tramuta in tessuti del proprio organismo; e io credo che non sarebbe esatto definire l’organismo umano come una sintesi di manzo e patate, per il solo fatto che l’in­ dividuo si nutre di bistecche con contorno. Il cinema ha, o meglio può avere, un suo metodo artistico specifico; dispone già, anche se in forma embrionale, di nuovi mezzi per la scoperta della realtà concreta, mezzi che vanno dalla descrizione esterna alla introspezione piu profonda. Nel perfezionamento del metodo e nell’acquisizione ininterrotta di nuovi mezzi che estendano le possibilità stesse del metodo è da ravvisare, senza dubbio, il grande avvenire dell’arte filmica. Nei miei primi lavori, parlando di questo metodo, io ho parlato di montaggio. Ma ripeto, ancora una volta, che il termine, in virtù delle nuove dilatazioni del suo contenuto, viene acquisendo un significato sempre nuovo. Il montaggio è il metodo specifico scoperto dall’arte del film per individuare e rappresentare nitidamente tutti i nessi, dai più super­ ficiali ai più profondi, della realtà. Riprendere un’azione, una scena, un paesaggio con la stessa angolazione e in campo totale, come potrebbe vederli chi si limiti a osservarli, significa usare il mezzo filmico per una trascrizione primitiva, tecnicistica, protocollare. Ma da questa contemplazione inerte, che pur si effettua nella vita reale, si può e si deve passare ad altri mezzi. Si può tentare di vedere di più di quanto non si scorga da un unico angolo visivo. Si può, per cosi dire, non solo contemplare, ma anche esaminare, non solo vedere, ma anche capire, non solo apprendere, ma anche comprendere. L’aiuto necessario ci viene qui dal montaggio. Immaginiamo una scena: un tale racconta la storia della tragica morte di una donna sconosciuta, a cui ha assistito per caso. L’interlocutore riconosce nella donna descritta la figlia di cui aspettava da tempo l’arrivo. Supponiamo che nel film la morte della figlia sia determinante per il destino del padre. Ebbene, se il regista vuole

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condurre il pubblico al nodo che è racchiuso nel profondo dell’azione, deve ricorrere al metodo del montaggio. Colui che parla appare sullo schermo solo per assicurare al pubblico che ignora del tutto il tragico significato delle sue parole. Il primo piano del padre sviluppa e approfondisce il dramma. La scena è quindi suddivisa in pezzi non perché sia interessante vedere l’uno o l’altro personaggio durante il colloquio, ma per svelare al pubblico con chia­ rezza la linea unitaria della storia. L’esempio qui riferito è molto rozzo, e tuttavia mostra che l’impostazione e la ripresa di una scena scatu­ riscono sempre dal suo assunto concettuale. Il montaggio non può essere separato dal pensiero, dal pensiero che analizza, scompone e critica, dal pensiero che sintetizza, unifica e generalizza.

Si perviene in tal modo all’elemento fondamentale del montaggio. Se infatti si definisce il montaggio in senso lato come scoperta delle connessioni intrinseche dei fenomeni reali, si pone, in sostanza, un segno di identità tra il montaggio e il processo intellettivo in genere. E, del resto, il discorso umano coerente e il relativo processo di pen­ siero non sono forse la riproduzione immediata dei fenomeni reali nelle loro reciproche connessioni? E il carattere principale di ogni opera d’arte non consiste forse nel contenuto ideale, ossia, di nuovo, nella profonda scoperta dei nessi, delle leggi che operano nella vita? La definizione piu generale del montaggio risulta pertanto valida per ogni campo della conoscenza umana e dell’elaborazione formale delle sue acqui­ sizioni. Eisenstein ha ragione quando in Montaggio 1938 {Iskusstvo ktno, 1939, 1) trae esempi di montaggio dai testi di Pusckin e dalle tele di Leonardo. Secondo me, si possono trovare esempi di montaggio anche fuori dell’arte, nel campo delle ricerche scientifiche. Sotto un determinato profilo, l’arte è un atto di conoscenza collettiva della realtà. Parlo di « conoscenza collettiva », perché l’opera d’arte comincia a esistere solo quando il risultato degli sforzi individuali dell’artista di­ viene patrimonio dei molti a cui l’opera è destinata. L’artista crea per unire gli uomini a sé e tra di loro. Il significato oggettivo della sua opera è lo stesso significato implicito nel processo evolutivo del discorso umano, nel pensiero. Per questo motivo nella serie « discorso-pensiero-montaggio » noi ravvisiamo un nesso pro­ fondo, genetico. La definizione piu generale del montaggio si richiama alla genesi più profonda di questo metodo. Ma in pari tempo impone un’elaborazione ulteriore, che consenta di chiarire l’essenza dei mezzi

190 pratici di montaggio, che sono connessi immediatamente solo con il cinema e con la sua futura evoluzione. Per mancanza di spazio, non si possono qui argomentare le varie affermazioni e si è quindi costretti a esporle come semplici tesi. La forma più compiuta di pensiero elabo­ rata sino ad oggi dal genere umano è il pensiero dialettico, che rispec­ chia con la massima pienezza tutti i processi della realtà oggettiva di cui abbiamo nozione.

Una delle caratteristiche fondamentali del pensiero dialettico è la seguente: ogni fenomeno è considerato anzitutto nel suo movimento, nella sua evoluzione ininterrotta; cioè ogni fenomeno diventa realmente comprensibile nella sua realtà solo quando sia esaminato come un momento della sua stessa storia. Inoltre, ogni fenomeno viene preso in esame dal pensiero dialettico solo attraverso la sua connessione im­ mediata e organica con tutti i fenomeni che l'attorniano. La parte assume un significato chiaro e reale solo quando sia concepita come espressione del tutto. Analogamente, ogni generalizzazione assume un significato reale solo in quanto sia espressa nella particolarità. Tralascio di proposito un altro aspetto del pensiero dialettico, l’analisi della natura di ciascun processo evolutivo. I limiti necessariamente imposti al presente scritto mi costringono a parlare solo dei dati che ci con­ sentono di chiarire le proprietà specifiche dell’arte filmica. Abbiamo già detto che la serie « discorso-pensiero-arte » è legittima e realmente esistente nella storia del genere umano. Abbiamo già avvertito che l’arte (come il discorso) è un atto di conoscenza collettiva della realtà, il quale impone all’artista di trasmettere i risultati della sua riflessione agli altri uomini. Da quest’angolo visivo possiamo considerare adesso le varie arti, compreso il cinema. Nel processo di rispecchiamento della realtà oggettiva nella coscienza dell’uomo particolare importanza assume il senso della vista, ossia la « visione » diretta di ogni fenomeno. L’acqui­ sizione del fenomeno con un unico sguardo è già un inizio di genera­ lizzazione, cioè di affermazione del fenomeno nella sua unità organica. L’immagine visiva corrisponde, sul piano storico, alla forma assunta dal pensiero primitivo, alle origini del genere umano, ma, d’altro canto, essa è tuttora, soprattutto nell’arte, un impulso sensibile immediato, che rende realisticamente persuasiva ogni astrazione. Rendere concretamente sensibile (visibile, in particolare) ogni processo di pensiero e il suo risultato sul piano dell’arte significa creare un’opera pienamente valida. In questo senso la pittura e la scultura

191 hanno conseguito grandi successi nel raffigurare la realtà di cui l’artista ha preso coscienza. Ma l’una e l’altra danno solo uno spaccato del fenomeno nella sua realtà temporale. Il quadro e la statua non possono ritrarre il fluire del tempo. Il passato e il futuro dell’azione raffigurata dall’artista possono essere solo immaginati. Per cogliere il contenuto profondo deH’U/Zzwa cena di Leonardo o del Mose di Michelangelo Bisogna conoscere la Bibbia o i testi evangelici. Per capire L’uccisione del figlio da parte di Ivan il terribile di Riepin, non solo come espres­ sione drammatica e pittoricamente efficace, ma nella sua realtà con­ creta, bisogna conoscere la storia o ricorrere a un commento. È neces­ sario cioè l’ausilio della parola. Non per caso il quadro o la statua esi­ gono sempre un titolo che integri le lacune dell’immagine. La pittura e la scultura forniscono un’immagine generalizzata senza rappresentarne il movimento nel tempo. Al polo opposto, o quasi, c’è la musica. Il suo mezzo è il tempo nell’espressione sensibile del suo movimento, nel ritmo. Ma, se le arti figurative non possono rappre­ sentare il movimento nel tempo, la musica può fare solo questo, perché m essa manca ogni generalizzazione visiva. Essa può nascere solo come • isonanza, allo stesso modo in cui in pittura si può avere la risonanza di un’armonia musicale. La musica vive e si evolve in quella zona del pensiero umano che si suol chiamare astrazione, nella zona in cui ci si distacca consapevolmente dalle osservazioni reali nello sforzo di gene­ ralizzarle. La musica dà la storia dei sentimenti e delle idee dell’uomo senza gli oggetti che li determinano. A differenza della pittura, la musica ntfre una sensazione immediata di movimento nel tempo, una storia, senza percezione dello spazio che può essere solo immaginato. Veniamo alla letteratura. L’espressione verbale, che sta a base della letteratura, è in sostanza geneticamente identica al pensiero. Per mezzo delle descrizioni la letteratura crea immagini che possono quasi perce­ pirsi con lo sguardo. E, svolgendo un dato soggetto, rende quasi direti amente percepibile il movimento degli uomini e delle cose nel tempo. Infine, associando il ragionamento e la descrizione, la letteratura può svelare nitidamente il nesso tra la parte e il tutto, tra la legge e il caso, può quindi rappresentare in ultima istanza la pienezza di contenuto della vita. Se non che, per ben due volte, ho dovuto ripetere « quasi ».

L’immagine generalizzata, a cui dà vita la descrizione letteraria, non è percepibile direttamente. Il movimento nel tempo non può essere osservato senza mediazioni, ma risulta da un processo mentale integra­

192 tivo. Lo stesso si dica della scoperta delle connessioni generali nell’unità del reale. La letteratura non ha alcuna possibilità di giovarsi della per­ cezione immediata dei fenomeni reali con quella totalità che è propria dello sguardo umano. Non per caso, a volte, alcune illustrazioni geniali sono un ottimo sussidio per un libro. La coincidenza della letteratura con l’espressione verbale dilata senza dubbio le possibilità dell’opera letteraria rispètto a quella pittorica o musicale nella resa integrale del pensiero; ma, in pari tempo, la mancanza di immagini visive limita le possibilità della letteratura nella resa sensibile e immediata del fenomeno. Quanto al teatro, lo spettacolo si avvale di un vero e proprio arse­ nale di mezzi figurativi. Alla sua percezione prendono parte la vista e l’udito. Uno spettacolo può essere contemplato come un pezzo di vita reale; il dialogo può essere ascoltato con tutte le sue, anche più sottili, sfumature, che in letteratura vengono solo descritte, suggerite. Lo spettatore non solo vede l’azione sulla scena, ma ascolta anche le parole che la chiariscono e la precisano. Il teatro non si limita a descrivere, ma mostra immediatamente il movimento nel tempo, la storia. La divisione in atti serve a indicare anche lunghi intervalli di tempo. Nel teatro moderno vi sono stati, infine, dei tentativi di un più libero movimento nel tempo per esprimere in modo più profondo e puntuale l’idea fon­ damentale di un testo (Priestley). In teatro la letteratura sembra arricchirsi della realtà visiva e audi­ tiva. L’idea contenuta nello spettacolo teatrale può operare con la forza dell’immediatezza sensibile propria del quadro o della statua; ma in pari tempo essa può risultare più profonda e precisa in virtù del movimento nel tempo e della parola viva. Il teatro dilata pertanto i confini della pittura e della scultura. Le immagini visive sono dinamiche, si muovono nel tempo. I mezzi espressivi della musica, connessi con il ritmo, partecipano alla costruzione dello spettacolo teatrale. Infine, la parola conferisce all’arte scenica la possibilità di rappresentare diret­ tamente il pensiero, come avviene nell’opera letteraria. Se si ricorda quel che si è detto più sopra del pensiero dialettico, si capisce agevol­ mente come il teatro si avvicini a raffigurare la vita reale in tutta la sua pienezza (scoperta appunto dal pensiero dialettico). I nessi tra ciascun fenomeno, il divenire del tempo e il mondo circostante possono essere rivelati appieno nell’arte scenica. L’azione si svolge tutta nel tempo, da una scena all’altra, da un atto all’altro. Se è necessario, possiamo

193 tornare indietro o trasfeiirci nel futuro. Una scena può svolgersi a Mosca, e la scena successiva in America. Possiamo cosi cogliere e raffigurare la connessione tra fatti che ac­ cadono in luoghi diversi e anche molto lontani. Lo spettacolo può essere strutturato in modo che il pubblico veda svolgersi sotto i suoi occhi non solo la vita concreta, ma anche la realtà quale viene indagata e con­ cepita dall’artista secondo il metodo piu progressivo di ricerca, secondo il metodo dialettico. E tuttavia anche le possibilità del teatro sono cir­ coscritte. Il teatro non può rappresentare tutto. Di molte cose può solo parlare, come fa la letteratura. L’attore teatrale sarà sempre, in lai senso, il portavoce del contenuto del testo: per suo mezzo lo spet­ tatore può apprendere tutto quello che deve pur sapere per capire appie­ no le vicende che si svolgono sulla scena.

Nel teatro greco i corifei avevano appunto il compito di integrare le vicende sceniche con gli eventi non rappresentati ma fondamentali per lo svolgimento dell’azione. Oggi non vi sono più corifei, ma la loro funzione non è venuta meno. Nel teatro moderno questo compito viene affidato a vari personaggi, alle lettere, ai telegrammi, alle tele­ fonate, ecc. Naturalmente, il teatro si è evoluto e ha cercato di dilatare le sue possibilità non solo nella presentazione diretta dell’attore, ma anche della ricchezza di vita, di vicende oggettive che circondano l’inicrprete e sono connesse con la sua vita interiore. Il teatro ha ripudiato Ir unità di tempo e di luogo, introducendo scenografie complicate e i elidendo possibili con vari artifici tecnici i rapidi mutamenti di scena. Ma i suoi limiti sono tuttavia evidenti. Se il testo parla degli esseri umani, della loro vita intima, dei loro rapporti, lo spettacolo può esultare artisticamente compiuto. Ma si tenti di estendere la rappre­ sentazione della realtà, nel senso specifico del romanzo; si tenti di por­ tate in scena ima folla di personaggi, ognuno dei quali agisca in luoghi di versi e in circostanze particolari (uno a nord, l’altro a sud, un terzo ni l'estero, un quarto al fronte, e cosi via; d’altro canto, nel romanzo < mesti personaggi non devono di necessità incontrarsi, perché possono essere idealmente congiunti dal pensiero dell’autore); si tenti di espri­ mere scenicamente la natura (il gelo invernale, la calura estiva, l’alba, il crepuscolo, i diluvi e gli uragani, il mare e i monti, i fiumi, le pia­ nure, tutto ciò che trova ampio posto nel flusso unico della narrativa), n il mondo interiore dell’attore stesso in quanto uomo concreto. Questo processo, che in precedenza non era stato esaminato e che pareva quindi accessibile solo a uomini geniali, questo processo che '.irne definito con il termine terribilmente astratto di « reincarnazione » • stato analizzato a fondo da Stanislavski. Il risultato dell’analisi, collegata con il continuo controllo dell’espe। irnza pratica, è stato che il regista e l’attore hanno potuto accostarsi

212 con piena coscienza, mediante un lavoro diligente e accurato, a quella recitazione autentica che sempre sorprende lo spettatore e che in pas­ sato si aveva solo in casi eccezionali o veniva attribuita a un’ispirazione divina propria soltanto di uomini geniali. Ai tempi in cui cominciai a lavorare nel cinema, la teoria e la scuola di Stanislavski erano già in pieno sviluppo. I miei primi esperimenti furono, in sostanza, solo un tentativo dilettantesco di applicare nel­ l’arte filmica i principi fondamentali del lavoro di Stanislavski con l’at­ tore. Assai spesso, mentre realizzavo il mio primo film, imbattendomi in qualche problema particolare, sentivo che il tentativo di risolverlo mi induceva ad applicare nell’arte filmica qualche nuova tesi di Stani­ slavski che ancora ignoravo.

La prima questione di cui mi sono interessato è stata la tesi della « vita nella parte », che costituisce uno dei cardini di tutto il « sistema » di Stanislavski. Sapevo con chiarezza che l’espressione « vita nella par­ te » indica il nesso reale tra il mondo personale, interiore dell’artista, che egli sente come una realtà viva e concreta, e i sentimenti e le idee di cui deve rivestirsi il personaggio da lui creato. La « vita nella parte » era per Stanislavski un processo reale che si svolge nel mondo interiore dell’interprete. Egli sapeva bene quale pro­ fondo abisso separi la descrizione teorica della vita interiore del per­ sonaggio, cosi come il regista e l’attore lo elaborano nel processo di ideazione della parte, dal fatto concreto della recitazione sulla scena; quale profondo abisso separi la piu nitida formulazione di ciò che si deve fare dalla recitazione stessa, ossia da ciò che si fa. Ogni attore e ogni regista sa bene quanto sia difficile il primo passo dalla fantasia alla realtà, quanto sia intricato il trapasso dal contenuto dell’immagine da interpretare al modo come interpretarla. Il genio di Stanislavski ha indicato le vie metodiche del trapasso dal « che fare » al « come fare ». Egli ha affermato la necessità di trovare il modo per rivivere realmente sulla scena ciascun brano della parte. Ma in che modo pervenire alla « vita nella parte »? Stanislavski diceva che l’attore doveva vivere nella parte come sarebbe vissuto nella realtà, se fosse stato realmente il personaggio che incarnava sulla scena. La comprensione della parte deve cioè diventare per l’attore sensazione di sé nel personaggio. Le idee che condizionano i senti­ menti devono tramutarsi, esse stesse, in sentimento. È quindi naturale che i primi passi che un attore può muovere in

213 questa direzione si ricolleghino alla sua esperienza individuale, ai sentimenti particolari, alle reminiscenze personali del modo come si