La Sagra degli Ominidi

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Antidedica A Caino, Giuda, Barabba: idoli di ogni tempo

Com'è prassi, si dichiara che ogni riferimento a persone, nomi, soprannomi e cose è puramente casuale. Si avverte inoltre che, se, per fatalità, qualcuno dotato di fervida fantasia trovasse possibili somiglianze fra sé ed uno dei personaggi di quest'opera, sarebbe nel giusto se attribuisse la fortuita combinazione al non infinito gioco delle possibilità inventive, anziché ad una precisa volontà di strumentalizzazione da parte dell'autore.

Aldo Onorati

Editrice S.A.I.R. VIA QUATTRO FONTANE, 25 - 00184 Roma

© Editrice S.A.I.R. - Roma 1972

Officina Grafica Commerciale - Via Germanico, 168/B – Roma

FUNERALE E VINO

« Oh, Sbuciapanze, non te vedremo più... », piangevano i bevitori, intorno alla bara ancora aperta. Un solo cero, pendente come la torre di Pisa. E una ventina di volti rossi e paonazzi. « Hai finito di dare bastonate ai carabinieri e ai preti... », mormorava in lacrime la Scorfana. Sbuciapanze non aveva nessuno al mondo, fuorché gli amici delle osterie. Ognuno di essi aveva recato un fiore, e tutti assieme qualche corona con la scritta d'oro: « Osteria del Bucione », « Cantina Cecche », « Ritrovo della Collina », « Cantinone detto Er Puciaro », « Ritrovo del Sumararo »... Una animalesca malinconìa raggiungeva quasi il misticismo. Quei duri volti, scavati nelle rocce, fatti con l'accetta, lavorati col piccone, erano sudati, per l'autunno caldo dei Castelli Romani. E giungevano lacrime odorose di vino. Venne lo stagnino a chiudere la cassa. Allora, si fece silenzio. Grugnito aprí a forza la bocca a Sbuciapanze morto di cirrosi epatica, steso con una gran pancia che quasi gli impediva di toccarsi le mani disposte malamente in croce, e versò un bicchiere di vino, che si sparse sul cuscino e sui fiori. « Bevi, bevi, Sbuciapà... » piagnucolarono tutti. E il morto sembrava dire: « Non ce ne entra più in corpo ». Poi, Trubbiano prese due fiaschi ben tappati e li mise sottobraccio a Sbuciapanze, uno a destra, uno a sinistra. « Pòrtatelo appresso: quando lo bevi, all'altro mondo, ricordate dell'amici... », disse. Ma, Grugnito ebbe espressioni più reali: « Custodiscilo bene... Fra dieci anni, se camperemo, saremo tutti a stappare 'sti fiaschi... ». Scesero in muto corteo funebre; furono in chiesa. Un prete cominciò: « Kyrie eleison ». Begardo, ubriaco, dondoloni e miope, avendo capito che il sacerdote gli avesse domandato: « Chi è lei... », rispose: « lo so' Begardo ». « Kyrie eleison », continuò il prete. E l'alcolizzato: « lo so' Begardo », marcò con voce decisa. « Kyrie eleison », disse ancora il tonacato. Allora, il bevitore borbottò: « Che sei umbriaco che non capisci chi so' io? ». Quando si fu al « Dies irae », Begardo, che era lí non si sa perché, cominciò a masticare male. « A porta inferi... » sentenziò il prete. E Begardo sproloquiò: « Eh, no, mo' basta! »; e se

ne andò via facendo gli scongiuri. Nel tardo pomeriggio, furono al cimitero, sull'alto del colle. Moriva un sole rossiccio, sul mare, cosí morbido e caldo da sembrare un fiasco di vino a galla. Si tagliavano nel cielo i disegni duri dei visi attenti. E dai cespugli di mirto veniva un odore acre e composto, come di ville remote all'odorato di chi è solito pascersi di alcool nelle cantine umide e fumose. Fece il discorso Trubbiano: « Amici, uno di noi se n'è ito... Ha finito de tribola e de beve... Ha vangato più terra lui che un aratro. E mo' non vanga più, povero Sbuciapanze: si riposa. A noi poveracci ci viene il riposo solo sottoterra... ». Vi fu allora la promessa solenne di ritrovarsi tutti, dopo dieci anni, alla riesumazione delle ossa di Sbuciapanze per bere il vino che « sarebbe stato un rosolio ». Alcuni giorni prima avevano dissotterrato lo scheletro di Cacasaette, morto anch'egli di idropisia, e avevano ritrovato le sei bottiglie di vino ben conservate. Tolta, con uno straccio, la terraccia attorno, se le passarono religiosamente bevendo a garganella. « Un vino cosí », disse qualcuno, « non si beve da anni... ». Quella sera, appena le pale fecero cadere la terra sulla cassa di Sbuciapanze, le destre si distesero sulla fossa in atto di saluto estremo, oblique dalla spalla alla bara. Una grezza solennità era in esse. I cipressi, alteri guardiani del nulla, sorridevano al plenilunio del primo autunno. Nelle vigne, intanto, il passero saltava da vite a vite, scuotendo i grappoli d'oro, che rimanevano a lungo a dondolare sul filaro. Il breve corteo, commentando le risse di Sbuciapanze coi poliziotti e le sue entrate in prigione, si nascose in un'osteria ad alleviare il dolore coi bicchieri colmi. Fuori, la notte dava l'ultimo tocco alla sepoltura, con mani invisibili, con voce impercettibile, col volto vuoto e maligno di chi è eterno. Si allestí una « passatella » in fretta e furia. Da una parte, Arconte, poiché il giorno dopo avrebbe chiuso i battenti, dette fuoco alla frasca secca di lauro che per un mese era stata illuminata dal sole e dalla lampada, protettrice del cartello « Bianco asciutto lire 160 il litro ». Un odore acre di alloro riempi il grottino, e le fiamme fecero urlare Giovenale. Allora si bevve alla salute dell'anima di Sbuciapanze e si ricordarono le sue cacce grosse ai gatti. Morto lui, chi avrebbe portato più i felini, rachitici e dolenti di reumatismi, a cuocere in salmi o alla cacciatora? Una sera (con voci meste, narrarono l'episodio, quasi per convincersi che l'amico era ancora in vita), Sbuciapanze e altri organizzarono un safari a due gatti. Li fecero entrare, mettendosi a semicerchio attorno, in un buco aperto in una porta di cantina, e dentro c'era Architrave con una clava. All'imboccatura, un sacco. Appena questo si mosse, giù colpi di bastone. Uno morí; l'altro rimase solo stordito. Quando stavano a spellarli sulla palanca umida, il secondo si riebbe con forti stridii e graffiò il chirurgo, che era Sbuciapanze. Tutti si nascosero. E il gatto saltò, col ventre fuori, sulle botti, finché le budella gli si impigliarono fra i chiodi delle filze scomposte di pomodori. Un simile fatto io stesso avrei visto di lí a poco. E avrei sgranato gli occhi di fronte alla lucentezza mortale e sinistra delle pupille a segmento di una gatta incinta, alle sue unghie sguainate su un bigoncio, al suo tremare, al suo sibilo dato dalle ultime risorse della morte. All'uscita, le nebbie attorniavano i monti, appena appena. E rendevano tristi, come

fossero intorno al cuore. La sera d'ottobre, la strada pare si faccia più lunga. L'autunno è quel bizzarro pittore che, stufo del verde, intinge il pennello nella vernice gialla e poi nella rossa. Finché, stanco di questi colori che si abbrunano al sole, prende una grande gomma e cancella tutto. Le sue lunghe dita piene di anelli d'oro avevano in mano una grossa gomma. Il cielo, infatti, aveva i brividi neri del freddo e il languore dell'agonia. Sono cosí belli i crepuscoli sui Castelli Romani, che non si vorrebbero vedere più né giorno né notte: abbruna cosí dolcemente su queste colline, che il cuore pare cadere fra le calde vesti di una nonna tenera è odorosa di vivande. Da queste parti, le madri coi neonati in braccio, all'ora di pranzo e di cena, chiamano a lungo i figli, con voci stridule e acute che si incrociano fra loro come i fischi scomposti delle canne dei pecorai. Pare di assistere alle lunghe lamentazioni delle pecore che chiamano gli agnelli, inconsciamente, per desiderio naturale di legarli a sé come un fiore l'ape che sugge. E questi richiami lunghi, nel sole del mezzodí o nel grigio dell'Ave Maria, hanno un sapore dolcemente animalesco e primordiale...

SOFONISBA RAPITA Lungo la strada, ripensai sorridendo meravigliato alla storia d'amore di Arconte. Castellano di più generazioni, da giovane faceva il porcaro ed abitava insieme con le povere bestie in una grotta vicino al lago di Nemi. Corteggiava una ragazza di nome Sofonisba, e un giorno le fece dichiarazione. Ella accettò, perché Arconte è tutt'ora un bell'uomo, sanguigno, dai lineamenti non tanto duri, ma decisi. Si avvicina ai sessant'anni, ma li nasconde bene dietro una sagoma di energia e di forza fisica, sotto il bel colorito di pesca matura del suo viso, sempre atteggiato al sorriso, alla calma. I genitori di lei, però, si opposero. Pretendevano un partito meno cattivo. Allora, i due decisero di fare la cosa alla chetichella e di mettere i « vecchi » di fronte al fatto compiuto. Una notte, infatti, accadde il rapimento romantico di Sofonisba da parte di Arconte. Tutto si svolse come nei grandi amori avventurosi. Non serví la scala, perché Sofonisba abitava a piano terra, anzi al seminterrato. E, anziché scendere, per fuggire dovette salire fino alla strada. Di lí, la folle corsa degli innamorati, verso il castello del principe azzurro, anzi dell'Arconte rosso di vino. Dopo mezz'ora di fuga tra gli spini e le fratte, sulle mulattiere, consumarono il matrimonio, non consacrato dal rito religioso, dentro il porcile di Arconte. I porci rullavano, Arconte diceva parole dolci al suo amore; Sofonisba languiva tra le scrofe e i maiali sdraiati, nell'idillio della prima notte...

MISTICISMO E ALCOOL A 15 GRADI Qualche sera appresso, Giovenale mi invitò a bere. Basso e largo, egli reggeva bene cinque litri di vino, senza tentennare. Entrammo da Bastone. Si cucinava, in un angolo, su un fornelletto a gas rimediato. E le botti, ammucchiate nel buio di grotta, davano l'idea delle catacombe. Una folla anonima, sparsa sulle palanche e i sedili lunghi, poggiata ai bigonci, taceva. Mezzi litri e quartini vuoti dormivano malinconici sui fondi dei caratelli

rivoltati. « Qua » mi disse Giovenale « fuori a 'sta frasca sotto l'arco del ponte ce veniva a fa l'amore la madre de Cicerone ». L'oste, abbronzato nonostante l'inverno, girava fra quel popolo primitivo, che beveva e taceva. Tutti di spalle, li vidi. E l'oste pareva un diavolo nel suo regno. Le botti stampavano le loro ombre ingigantite sulle curve pareti delle grotte. E i litri diventavano donne dai larghi seni, immobili, con le mani ai fianchi. « Ahò! », urlò Giovenale. E il vecchio rispose con un dondolio ripetuto del capo. Quindi, storse le labbra. E mormorò: « Arriva ». Guardai dietro, per vedere cosa arrivasse. Un piattone di carne. Ben profumata. « Mettite a sedere e magna! », ordinò l'anziano, le cui parole odoravano di vino e si fermavano nell'aria fitta, azzurra di fumo, a metà altezza fra cielo e terra. Eravamo in un angolo semibuio. Giovenale mi presentò. « Mettite a sedere e magna! ». Dovetti ubbidire, ché nelle osterie il rifiuto è un'ingiuria. Se non ti va di bere, di mangiare, esci o non entri affatto. Ma una volta imboccata la porta, accetti ogni conseguenza, come il novizio che prende i voti. La carne non era male. Sapeva di lepre, tanto era arrabbiata di pepe. Il vino faceva da refrigerio. Vicino a noi, sedette uno dagli occhi storti. E aprí una cartata di formaggio. Giovenale emise un urlo, lungo, stridulo, che echeggiò nelle caverne, come un'eco selvaggia. E a quel richiamo accorsero altri individui, e fummo presentati cosí: « Questo è un uomo regolare. E questi so' amici ». Loro non fecero motto, tanto poco ha importanza lí dentro tutto quanto non sia cibo o bevanda. Poi, venne anche una femmina, di mezza età, nera. Un inferno pareva lí, primitivo nei suoi odori e nelle tremanti fiammelle dei ceri obliqui sulle botti, uno qua, uno là, sparsi. « Chi è quella? », chiesi a Giovenale. « E' la Scorfana. Beve come un cammello. La conosci tu, Cacò? », domandò a un vicino, dagli occhi rossi e spenti. « Ci ha certi peli lunghi cosí.. » rispose, esponendo l'intero braccio. C'erano troppe bocche, ormai. E la carne si assottigliò. « Era un po' anziano », borbottò Giovenale aggiungendo non so quale bestemmia. E Mànico, il vecchio fatto con la scure e la vanga, gracchiò: « Ci aveva la sciatica ». Si sentí una puzza, all'improvviso, che asfissiava. Ma per loro era tutto normale. Poi risero. Parlavano ancora di un poveraccio con la sciatica, di un altro con l'artrite. « L'ho visti a 'sta maniera, e mi hanno fatto pena. L'ho levati da mezzo co' due bastonate ». Allora, uno dagli occhi storti afferrò un litro e lo alzò in segno di minaccia. Poi tornò al suo posto, a ruttare e a bere, a mangiare formaggio. La Scorfana disse, calma: « Te li potevi chiudere dentro casa i gatti... ». « L'avevo riposti dentro la stalla pe'la cenetta di domani a sera! », rispose infuriato lo strabico. Una parola tirò l'altra. Un insulto aumentò l'altro. A un certo punto, non ci si vide più per le botte. Volarono litri, bicchieri, si rotolarono barili. E certi pugni scuotevano l'aria...

La Scorfana urlava come partorisse. Giovenale scomparve col bicchiere pieno e un pezzo di gatto in mano. Mi arrivò un piatto addosso e mi unse. Come da una calamita, anche tutti gli altri furono attratti. La rissa divenne generale. Ma l'oste prese il fucile e sparò in aria. Come per miracolo, nessuno si mosse più. Giovenale riapparve all'improvviso. E, mandate due bestemmie, invitò alla calma e ordinò un litro. La pace era fatta. Apparve, dalla porta in fondo, quasi uno squarcio di scenario, il cielo. Mi sembrava la grotta dei pirati, la caverna degli ominidi...

UNA LUNGA SERA Al centro dei Castelli è normale che un figlio frequenti l'osteria in compagnia della madre. E si vedono, a notte, uscire dalle bettole, sottobraccio, coppie di tal genere, tentennanti. Di solito il figlio è magro e alto e la genitrice è bassa e larga. Una sera, in una bettola, che sta sotto un gran ponte e porta il nome del cielo, me ne stetti in disparte con un quartino. Non c'erano troppi avventori, ma quei pochi erano buoni. Ad un tavolo oleato sedevano, cogli occhi cisposi, un certo Moretto, un tal altro Cignale, un non meno famoso Righetto e Recchia. Poi, una vecchiotta, piena di vita e di vino, rosseggiava beata fra loro. Profumava di pepe nella bettola. Non tardarono a giungere i musici. Ricordo che il violinista con un dito abbassava due corde; alla stonatura faceva il broncio e spiccava un piccolo salto. Mangiarono della carne (che molto somigliava ai gatti delle volte precedenti) e bevvero non meno di venti litri. Alla fine invitarono anche me. E siccome non si può dire di no... Non ci presentammo neppure, né vollero sapere chi fossi. Stavo all'osteria, e ciò bastava. Righetto, noto per aver spaccato in testa a un vicino di vigna un passone, spremeva il limone nel vino. Diceva: « Me caco sotto, sindu... ». Moretto fu richiesto di cantare. Allora si alzò e aprí le fauci ancora grasse di gatto e di olio. Mandò un rutto e rise. Poi cominciò una cantilena d'amore, vecchia quanto gli avi che gliel'avevano tramandata. « Alfonsia bella, che per amore si suicidò... ». I loro occhi erano assorti, come cantasse Caruso. E, a dire il vero, sia la voce rauca e forte, sia la melodia, non erano privi di fascino. Entrò all'improvviso un gigante. Fece un acuto, e poi si accompagnò, con un verso che pareva un trombone, al Moretto. Questi aveva una mano a un'orecchia e, agli acuti, gli uscivano gli occhi di fuori, diveniva rosa, poi rosso, poi nero. Allora pure gli altri cominciarono a cantare. Ma ne scaturiva un frastuono grottesco che nemmeno cento campanacci attaccati a cento somari raglianti avrebbero coperto. Più tardi, verso le otto e mezzo, quando Recchia s'improvvisò poeta a braccio con gli stornelli romaneschi, mi licenziai a fatica da loro. Scesi alcune scale (il vento frizzante seccava il sudore) e imboccai un'osteria piccola e nascosta, sulla cui bandiera era scritto: « Rosso speciale lire 160 ». Trovai un palmo di banco, mi sedetti e sorseggiai un quartino. Si parlava di politica. Il vino era buono e « asciutto ». Un grassone diceva: « Ce vorrebbe che 'sti cervelloni venissero a vedere come vanno le cose a 'sti tinelli... Mi' nonno è morto mentre pistava

l'uva, mi' padre faceva er carrettiere a vino e portava er vino a Roma. Un giorno un barile ci ha stuccato una mano e doppo c'è venuta l'infezione e doppo è morto pure lui... Mi fijo non vuole studia e non vuole lavora. Fa bene: oggi lavorano i fessi! In qualche maniera tirerà a campà: farà come fanno tutti... ». Un balbuziente si lamentava della grandine che gli aveva distrutto il raccolto, per cui egli faceva la fame: « A lo te... tempo ci ha roduto lo cu... culo e m'ha m'ha rovinato... ». Uno, sporco di calce, bestemmiava perché in un mese, a causa della pioggia, aveva lavorato si e no quattro giorni. Ogni bicchiere sembrava uno spruzzo d'acqua su un incendio. In quella bettola, di allegro non c'era niente. Vicino a me, sedeva uno con un solo braccio: il sinistro, mi pare. « Io ho fatto la guera e m'hanno dato una zampata in faccia », borbottava. Aveva i denti aguzzi come un lupo. Le labbra, tirate verso le orecchie, mostravano una lingua mobilissima e nerastra di fumo. Un mozzicone di sigaro veniva tritato da quella macina pestifera di vino e di aglio bruciato nel peperoncino. Gli occhi, piccoli e rossi di congiuntivite, terribilmente instabili, si puntavano per poco nel vuoto delle grottine ove erano riposte le botti. E masticava parole piccanti come il fiato. Poi liberava un fragoroso gracidio come di raganelle suonate da cento mani. E ruttava coprendosi di nuvole stomacose di sigaro. D'un tratto, venne una donna scapigliata e brutta. Urlò al muratore. « Ma non te pare ora de rientrà? ». « Arriva la bella mia... », mormorò il marito, con aria consueta. Poi, invitata a sedersi al tavolo da uno che la chiamava « commare », trangugiò anch'ella vari bicchieri. Quella, più delle altre bettole, sapeva di miseria. Fuori faceva freddo. Più tardi, entrò uno strozzino. E bevve molto vino. Quando uscí, il monco disse. « Scroccone! Va sempre a sbafo. Non paga mai. Campa senza fa' gnente e se beve pure l'animaccia sua ». Appena ebbi terminato il quartino, pagai, salutai e uscii. Mancavano venti minuti alle dieci. Facevo in tempo a visitare un'altra osteria. Ma mi bloccò in un vicolo un omone grosso e sbronzo. Mi aveva scambiato per uno al quale era debitore di centomila lire. « lo te le rido quando me pagano le botti de malvasia... ». E siccome gli ubriachi non bisogna contrariarli, tacqui. Nasceva una luna, all'imbocco del vicolo, che pareva medioevo. Non una luce elettrica. Da una finestra si udirono improperi e suoni secchi di schiaffi. Forse un marito che picchiava la moglie. Si capiva una soia frase: « lo lavoro tutto il giorno e la sera voglio trova la cena, capito?... ». Poi, piangeva un ragazzino. Venne un cane più tardi. E ci gironzolò attorno. Poi, cominciò a ringhiare. La luna era piena, l'aria chiara... credetti che l'animale fosse arrabbiato. Ma all'improvviso azzittí e andò via. L'ubriaco mi tempestava di carezze e diceva: « Te pago quando vendo lo vino... ». E mi annaffiava il viso di saliva come una pompa l'insalata da taglio. Anch'egli lamentava l'annata cattiva e il gelo che gli aveva distrutto tremila piante di broccoli. Poi cominciò a piangere, ché aveva il figlio soldato e alla vigna andava solo. « Le opra costano... e io li quattrini non li tengo... », ripeteva. Alla fine, volle offrirmi da bere. Scendemmo il vicolo, entrammo per una porta antica. Sopra di noi giganteggiava il ponte nero. E le arcate, enormi, filtravano interminabili fasci di luna...

« E' ora di chiusura » borbottò Trubbiano l'oste, un vecchio mio vicino di vigna. Quando però mi riconobbe, spense la lampada esterna che pendeva dal ramo di leccio e chiuse la porta. « Offro mezzo », disse. Ma, nel chiarore della cantina ben illuminata, l'ubriaco ebbe un attimo di lucidità. S'accorse che non ero il suo creditore e si placò. Mi rimproverò tuttavia di non averglielo detto prima. E non potei che continuare a tacere. Trubbiano spillò molte volte il vino, quante nemmeno ricordo. Ma, quando uscimmo, l'orologio segnava mezzanotte. L'ultimo tram sferragliava sul ponte. Giù, negli orti, verso il mare, biancheggiava una sadica luna... Traversammo la parte bassa del paese, diretti a una nuova osteria, annuale, dove il vino era di magazzino, cioè « fatto de polvere e de alcoole ». Ma noi ordinammo birre. Era pieno di gente, ancora. Trubbiano offri un cordone di salsicce cotte nel vino. Quell'ubriaco vomitò, sporcò il tavolo e il pavimento. Il padrone del locale lo afferrò per la giacca e gli disse: « Vattene a casa da tu' moje ». Ma questi reagí risentito e offeso. Allora l'oste lo afferrò per il collo e lo sbatté sul selciato della strada. Trubbiano si alzò e rimproverò il proprietario. Ma non accadde nulla perché, in fondo, anche Trubbiano era contento di esserselo tolto dai piedi. Mangiammo e bevemmo. Quelle salsicce erano un'opera d'arte. Ma la birra sopra vi stonava. Allora Trubbiano mi bisbigliò all'orecchio: « Mo' ritorniamo alla cantina mia ». Quindi uscimmo di fretta, pagato l'oste e salutati i più vicini di tavolo. Sul selciato, steso, c'era l'ubriacone. Lo rialzammo e, visto che dormiva dalla grande sbornia, decidemmo di portarlo a casa noi due. Trubbiano a destra, io a sinistra, egli in mezzo come un corpo morto. Alla prima fontana, gli cacciammo la testa intera dentro l'acqua. Il vento quasi lo gelò: si lamentava. Imboccammo un vicolo in discesa. Trubbiano bussò a una porta sulla stradetta buia. Uscí, con la vecchia che aprí, un tanfo insopportabile. « Te possino sparatte! » urlò quella in camicia da notte. Vidi, attraverso la porta, un'abitazione da elemosinante, un letamaio. Pensai chi potesse essere il suo creditore. E per tutta la strada, fino al tinello di Trubbiano, fui invaso da questo pensiero. Mi raccontò il vicino di vigna che quegli era un brav'uomo, ma era stato in galera per aver rubato un paio di galline quando la moglie partorí: era disoccupato e malaticcio. « Aveva bisogno di rimettersi la moglie... aveva partorito... era debole... e lui li quatrini pe' comprare la carne non ce l'aveva... », spiegava Trubbiano, tra un bicchiere e l'altro. A un tratto non bevvi più. Mi doleva il fegato. E l'amico credette che non mi piacesse il suo vino. Gli promisi che sarei andato a trovarlo la sera appresso. E si rasserenò. Lo lasciai che erano le due passate. Sul ponte, non girava nemmeno più il vento. Per tutto il percorso, mi rese triste il pensiero di quell'ubriaco, mandato in galera per due galline. Al mio paese (che dista mezz'ora di cammino da quello di Trubbiano) giravano le « nottole » in bicicletta. E mettevano i foglietti nelle saracinesche dei negozi. Mi videro passare, col bavero alzato e il basco basso sugli occhi, le mani in tasca e il passo svelto dal freddo. Mi seguirono un po' sulle biciclette. Poi si ficcarono al bar di turno. In cielo tutte le stelle sbiadivano per la gran luna. Era una notte troppo bella per dormire. Salii all'anfiteatro Domiziano, che fiancheggia quasi il cimitero. Su quei ruderi erbosi senza voce, mi sentii ben poca cosa, anche io futuro rudero. E la chiara luna

suonava un'impercettibile dolce marcia funebre. Poco oltre, svettavano appena i cipressi sulle tombe bianche. Mi prese un'improvvisa felicità. L'unica cosa bella al mondo è che tutto passa. Scompare chi mangia polvere di zolle e chi fa il bagno nell'oro. Cosí come finirono gli schiavi e i neroni, i gladiatori e le folle arroventate su questo anfiteatro, ora muto, erboso, pallido di luna...

PASSATELLA, MORRA E MORTE La sera appresso, alle sette, mi recai da Trubbiano. Fu lieto nel vedermi. La taverna era piena di clienti. Il cielo lucidissimo per la tramontana. I litri dormivano sulle palanche poggiate ai bigonci rivoltati. Burino cantò un brano malinconico. Poi, la madre raccontò che da piccolo aveva una voce da tenore di opera, ed era una promessa. Lei, senza marito anzi tempo, con nove figli, arando come un trattore, lo aveva mandato a scuola di musica. Ma poi aveva dovuto toglierlo perché con la guerra la fame li aveva « infilati tutti ». A vederla, ancora grossa e decisa, dai muscoli dell'avambraccio turgidi e le mani callose, incuteva rispetto. « A primavera » diceva con voce forte « finisco settantanni e entro a settantuno. Nove figli tutti in grazia de Dio. E tengo un cacatore de nipoti ». Mi prese in simpatia perché diceva che somigliavo al nipote maggiore. E mi offrí da bere, Il figlio non parlava mai. Quanto asseriva la madre era esatto: non c'era bisogno di commenti. Poi cominciarono i canti scomposti, le bocche si aprivano dietro i litri e si deformavano. Ognuno si squarciava la gola, come volesse liberarsi di qualcosa che lo opprimeva dentro. Il canto delle osterie è uno sfogo, una valvola di sicurezza. Lí dentro non ci sono sofferenti di insonnia. Cominciarono molte canzoni assieme, ma alla fine la voce più forte le attirò tutte e uno batteva il tempo sulla palanca ruvida. La vecchia intonò un inno antico quanto le sue vesti. E copri tutte le altre voci, smascellata e violacea, dalle orbite sinistre di cispo, agitate le mani all'arco della grotta, come una Sibilla scoperta e avvelenata. Pareva che avesse dieci gatti disperatamente miagolanti in gola. A tratti sembrava una Furia, o la Medusa. Un volto cosí orribile non avrei visto più per mesi, oltre il suo, contuso di sanguinaccio e di emorragie gengivali. « Ma da 'ndò esce 'sto fiato? », chiese meravigliato Trubbiano. Allora fu richiesta di cantare un assolo. Trangugiò un bicchierone e mandò un rutto per schiarirsi le corde vocali. Poi, con occhi al soffitto, sentendosi ammirata, traballandole il petto mastodontico, fiatò: « Rondine campagnola che voli sola sola... »

Applausi e altro vino. La vecchia disse: « Mo' facemo la passatella ». E' questo un genere tremendo di bevuta. Si sorteggia un « capo » e un « sotto ». Questi due divengono i despoti del vino in palio, che di solito non è poco. Per quei giro, di fatti, sulle traverse c'erano ben cinque litri ed eravamo dieci. « Capo » fu nominato Trubbiano. « Sotto » la vecchia. Allora Trubbiano comandò: « lo me lascio un litro pe' me. Mo' vediamo lui », disse rivolgendosi a Burino.

« Che chieda », ordinò la vecchia. « A piacere del "sotto" », disse (com'è legge) guardando impaurito e querulo la madre. « A questo bravo giovine, mezzo litro tutta una ingorzata ». Il figlio bevve. Uno, forse più sazio o più gracile di fegato, rifiutò. E dovette scolarselo la « sotto ». Che, alla fine della passatella, aveva gli occhi di fuori. Vi furono tuttavia otto giri dopo quello. E uno ancora oltre perché offrí Trubbiano. Allora volevano giocare a morra. Ma siccome la legge lo vieta, un avventore, Lope, ci portò nei grottoni del palazzo principesco. Con le candele (erano le dieci e più), uno dietro l'altro, scendemmo la scalinata che non voleva finire mai. Giù, nel buio delle volte umide e calde, c'erano in terra chiazze d'acqua. « Zzè! » urlò a tutta forza Lope. E cominciò la morra. I visi paonazzi, le mani ora tese ora contratte, gli occhi acquosi di tutti, e le candele che tremavano, le lunghe risa sguaiate: tutto sapeva di altri tempi. Poi ballò la vecchia. Fece due giri su se stessa e rotolò nel pantano. Ma Lope urlò: « Congrega, dietro a me! ». Come in processione, nelle cene dell'antica Roma, ci dirigemmo a una botticella di vino vecchio. In fila indiana, a turno, mettevamo la bocca sotto il rubinetto e Lope « scavolava » a suo piacere. « Se lo tenesse mi' moje all'ospedale... », mormorò Stennerello. « A tu moje ce lo porta l'amante! », esclamò la vecchia, sporca come una topa uscita da una fogna. « E i figli che ha fatto so' de Treccano. Ah, ah, ah... », commentò Lope. Stennerello si irrigidí. « Avrà fatto come quella malamente de tua moje! », ribatté. Ma Lope era vedovo da quindici anni e non aveva figli. Rispose: « Lascia perdere quelle quattr'ossa benedette che riposano in pace ». « E tu lascia perdere mi' moje che ha fatto i gemelli. So' due angioletti, povere creature ». « Eh... » mormorò la vecchia, « poveri figli de Treccano... ». Ma Stennerello non la digerí. E, coi vino che aveva, prese in petto la maldicente. Quella gli mollò una sberla che sembrò una bomba. E Stennerello non ci provò una seconda volta. Allora, tra le risa generali, la donnona, alta un buon metro e ottanta, raccontò le sue avventure manesche. « Nel quaranticinque, rientrati da lo sfollamento, cercai Culetto, quello zozzo che aveva rubato a mi' marito, bonanima. In piazza, di fronte a tutti, me lo so' ficcato sotto e l'ho massacrato de ugnate, botte, mozzichi, e scarpate in faccia... E' venuta la moglie e ce so' state pure pe' essa. E' sceso lo figlio e ci ha buscato pure lui. lo me so' fatta sempre rispettà! ». I grottoni del palazzo, enormi nella mole e belli di peperino, un tempo ospitavano le carrozze del principe. Ora, assente il gatto erede, i topi ballavano. « Co' li signori me ce farei li lacci delle scarpe e co' lo grasso der core l'assogna pe' ingrassane! », esclamò Trubbiano. « lo pe' buscammi la stozzaccia, vango come uno schiavo... » continuò il Mulo.

« E' finita la monarchia, hanno detto nel quarantasei », mormorò Lope, « Ma me pare che qua li stracci vanno sempre pe' l'aria ». A un certo punto, la candela, mobile nelle mani di Lope, illuminò un angolo, su cui la muffa aveva disegnato una specie di figura umana, quasi un'ombra. E il calcio gocciato dal soffitto, fra le pietre, l'aveva sbiancata. « Er fantasma! » urlò la vecchia, abbracciandosi il figlio. « Ma che sogni a occhi spalancati? » biasimò Lope, allungando il braccio in direzione della macchia. « E' calce... » commentò Burino, ridendo per la paura della madre. « No, no... » urlava quella: e non bastarono ragioni. Dovemmo cambiare androne, perché, secondo lei, quello era lo spettro del principe Corrado, morto assassinato in quel luogo da un cortigiano (secondo la leggenda). « L'anima vaga qua drento perché non trova pace fino a che Dio non la chiama... » spiegò lei. Ma Lope rispose: « So' ducent'anni che l'hanno accoppato... Se doveva morí de morte naturale, mica campava ancora, accidenti! ». Allora, la fantasia di ognuno si sbrigliò. E tutti ebbero qualcosa di straordinario da raccontare. La vecchia narrò un sogno, fatto pochi giorni dopo la morte del marito. Lui stava tra le fiamme e le chiedeva preghiere e Messe, perché era in Purgatorio. « Che belli suffragi che ce mandi a quel poveraccio: entri sempre alle osterie... » aveva rimproverato, sornione, Lope, infilandosi un dito nel naso. « Mandaci un fiasco de vino, ch'è meglio... » borbottò Trubbiano. Ma la vecchia si risentí e li biasimò tutti, perché le anime vagavano in mezzo ai vivi ogni tanto: e sentivano, vedevano e giudicavano. « Se quell'ombra bianca fosse er principe Corado » proferí Lope, « io gli infilerei un ferro nella panza! ». « A te che t'ha fatto quella bon'anima? » chiese Stennerello. Ma Lope lo guardò bieco e si puntò l'indice in petto, come per fargli intendere che lui era solidale coi poveri e non difendeva i ricchi, specie quelli per nascita. Allora Stennerello raccontò la storia dei Savelli, un casato che per decenni aveva spolpato una zona amena dei Castelli. Disse (e tutti qui conoscono quella storia) che il « signore » aveva il diritto di passare la prima notte con la ragazza che andava a nozze e la rimandava con una « quarta di terra » in dote. Lope interruppe cosí: « Beh? Ti pare niente un oltraggio simile? ». Ma Trubbiano commentò: « Almeno te portavano la vigna in cambio della verginità. Oggi non portano né l'una né l'altra ». Le risate sommersero Lope che voleva fare il filosofo. E Stennerello concluse con grande fatica e a voce alta la narrazione. Disse che un Savelli ne fece troppe e il popolo si ribellò. Infatti, su una collina che porta il nome di quel casato, ci sono le mura diroccate del castello, in un panorama di fiaba. Cosí, tutto contento di aver raccontato un fatto che tutti sapevano, Stennerello cantò il ritornello: « Dimmi Savello se avesti paura quanno lo foco te vinne a brucià: piccoli e grandi sartorno le mura, dimmi Savello se avesti paura... »

Quando uscimmo, erano le due passate. Cucchiara si mise a fare qualcosa addosso al muro del castello e, per ogni peso di cui si liberava, esclamava improperi contro i ricchi, il governo, i preti etc... Ad un tratto, udimmo un urlo di cavernicolo, stridulo da far uscire le corde vocali dalla gola. Giovenale sbucava da un vicolo, più che bazzotto. Era stato al tinello di Zampaccia a mangiare i gatti in « salmí ». E poiché essi non si possono più digerire nei mesi senza la erre, ora ci davano sotto. Grandi risate e urla per l'incontro. E dopo una mezz'ora, per il freddo, ci salutammo. Con Giovenale feci la strada del ritorno assieme. Sul ponte si disperò di urla. Fissava gli occhi, spalancava la bocca, allungava le mani aperte al cielo sereno. E intramezzava i gridi prolungati con qualche bestemmia. A metà, oltre i giardinetti, abbaiò un cane. Ed egli urlava, il cane abbaiava. Abbaiava forte il cane e lui si massacrava di urla, strane, paurose, indefinibili. E tutte rivolte ai cielo. Grida, ululati di disperazione e libertà di ridere di tutto. Primitivi lamenti strazianti di chi viene ucciso. Era solo, l'uomo tondo e rosso, pulito e laureato. Aveva una sorella, una giovane di viva intelligenza, bella e piena di vita. Un giorno, durante una gita in barca sul lago, la vide perder l'equilibrio, poiché stava in piedi, e svanire senza un grido nelle acque torbide. Soltanto la mano cercò il remo e presto si tese nelle onde che la inghiottirono. Le pareti del lago lugubre si riempirono di urla e di pianti. Ma la malvagità della natura non rilasciò nemmeno il cadavere. I flutti la seppellirono, dopo averla rubata al sole di quel pomeriggio tiepido d'autunno. E la morte volò sulle acque, come uno spettro, per tutte le notti che seguirono. Dai monti intorno, cupi e silenziosi, scendeva una luna stregata, dal freddo sorriso che hanno gli amici della morte. E pareva cosí che una pietà, indistinta e flebile, penetrasse quello specchio nero. Ma venivano i brividi nel vedere la cinerea luna scendere fra le creste delle onde... « La morte l'ho vista in faccia, io... » diceva sempre Giovenale, scrollando le spalle. « Campo per sbaglio, ormai. Allora, chi me lo fa fare tutto il resto? La vita è quella che è... La vita è quella che è... ». I forti dolori, o temprano e spronano alla lotta magari col coraggio della disperazione, o ricurvano su se stessi anche i forti. Non sempre sublimano. Cosí, poco dopo, parti anche il padre per il viaggio senza ritorno. E Giovenale urla, si strazia di urla, nelle urla soffoca un turbine di dolore che lo comprime dentro. Ma ride pure: anzi ghigna. La gente guarda. Ed egli continua ad urlare, con una maschera rossa e odorosa di vino... fino a che, sfiatato, beve soltanto... fino a che non beve più, assonnato a un angolo di osteria. FRATE CERCANTE

Fulminea si sparse la notizia della morte di fra Ruffino. Stavo ancora a letto, ed era domenica. Il frate più popolare del Lazio era caduto a testa indietro, sulla piazza del mercato. Fino all'ultimo momento aveva chiesto l'elemosina. Saltai dalle coperte, vestii i primi Indumenti che trovai e corsi giù. L'avevano già portato all'ospedale, con un codazzo interminabile di gente dietro. Molti, lasciati i banchi di vendita, abbandonati i garzoni nelle botteghe, comunisti e fascisti, ebrei e cattolici, atei e bestemmiatori, si pigiarono fuori l'ospedale. Dovevo stilare il brano per il giornale. E un carabiniere mi aiutò a farmi largo tra

la folla pigiata come l'uva nella tinozza. Dai termine della calca fino all'entrata, ripetemmo cento volte « stampa ». Attesi un po', col Priore dei francescani. Composero Fra Ruffino nella sala mortuaria, con due soli ceri, il saio ruggine, il viso ruggine, il cappuccio ruggine. Nient'altro. E un mare di persone, dal volto mesto. Aveva ottantacinque anni fra Ruffino e da oltre cinquanta visitava la campagna romana e i paesi tutti, in giro di questua. Ha visto due generazioni. Ha eliminato il mal di denti a migliaia di bocche gonfie, con una pinza casareccia sempre a portata di mano. E fino all'ultimo giorno, col bastone nocchieruto, è sceso fra i vicoli, coi sandali, e la morte attaccata ai nodi del cordone. Un santo? No, non crediamo: né sta a noi giudicare. Comunque, medaglia d'oro al valore civile: ha donato il sangue a due generazioni. E medaglia d'oro al valore militare: era della Crocerossa. Un omone di scarse parole, rude, primordiale. Non esiste muro che non l'abbia visto estate e inverno, con la pioggia o col sole, sempre con lo stesso saio, chiamare nei cortili per la liretta. Ricordo che, due giorni prima che morisse, lo vidi salire faticosamente la strada che porta al convento, quella strada che faceva cantando, quando, giovane come frate Francesco, portava il grano e l'olio della questua. Respirava coi lamenti. E la sua ultima mattina, destatosi, com'è rito, anzi l'alba, ascoltò la Messa e svenne, nel coro, con le mani in croce sul petto. E sul suo curvo saio marrone, scivolò il primo raggio di sole dell'inverno che moriva. Frate Ruffino, cercante. Chi non lo aveva visto, al tramonto, sudato e scuro arrampicarsi per la via del convento, fra le ombre della luna incerta? Poi la via fu asfaltata e la illuminarono i lampioni. E ad una ad una le lampade impararono quel volto, dal gran naso nerastro, dalla barba nera e poi grigia... poi bianca e rada... Possedeva un saio e due sandali fra Ruffino. Sempre quelli. Non estraneo al vino, anzi buon amico dei bicchieri colmi, tutte le osterie erano sue, perché ognuno lo invitava a bere nel proprio tinello. Amato dai credenti, più ancora dai miscredenti: egli li aveva visti tutti bambini e li chiamava tutti a nome. Sapeva i segreti di ogni famiglia e, non di rado, vuotava nelle case dei poveri l'elemosina accumulata per il convento. Un uomo che, col saio o senza, avrebbe fatto il cercante per prendere e dare, senza appropriarsi d'un chicco di grano e di una lira. Ricordo che ogni domenica entrava nel nostro cortile e chiamava ognuno a nome. Chiamava mia madre, la vicina di casa, la vecchia avanti alla mia loggia, e svegliava tutti. Ognuno (eppure la fame del dopoguerra ci ischeletriva!) aveva la liretta da tirargli dalla finestra. E non ringraziava che cosí: « San Francesco provvederà ». Un primo di maggio, quando la cosiddetta festa del lavoro era ancora al bando, una parte di popolo si raccoglieva (col vino e la musica) al bosco comunale, fitto di querce e di lecci neri, di mirti pungenti e di pervinche. Non vidi mai la terra, tanto era alto lo strato di foglie secche che la copriva, insomma, al bosco quel giorno ci andavano solo comunisti e socialisti. Ebbene, ad ogni primo di maggio, fra Ruffino sbucava dal convento, che dà proprio sul bosco, e passava fra le acclamazioni della folla. Beveva, mangiava con essa. E veniva riempito di soldini, di ciambelle, di dolci e di arrosti. Sulla sua veste, una volta, misero la falce, il martello e la stella. Lo fecero ballare in mezzo a un cerchio fitto di persone, al ritmo di una musica indiavolata. Poi, cessato il ballo, bevendo, diceva: « Viva San Francesco! ».

Aveva, in quei tempi, già oltre settant'anni. Per le vie e le piazze, quella mattina fredda di fine marzo, ognuno aveva da raccontare un particolare nuovo riguardo fra Ruffino. E molte erano le vecchie cogli occhi umidi. « Povero fra Ruffino... » commiseravano, « era tanto buono... Tutti cosí, andrebbe meglio er mondo... ». Egli viveva tra la massa più oscura del popolo, tra quelle persone che sono un po' tutte uguali, anche se di colore politico diverso. Faceva parte di una tradizione che oggi è scomparsa e che si poteva identificare nel credo (a volte superstizioso) in una misteriosa comunione degli esseri, quando la solitudine e l'incomunicabilità non erano neppure parole, per cui odio ed amore giungevano a punte più violente e passionali, e ognuno (adoratore di Stalin o della dea natura) era un religioso nella speranza di una giustizia stranamente immanente e trascendente assieme. Cosí, né differenze ideologiche né religiose rappresentarono mai per lui un limite o una pregiudiziale. «Figli miei, fratelli miei...»: la dolce invocazione che. ereditò da Gesù e da frate Francesco, dolce richiamo di ogni uomo di buona volontà.

LA CIVILTA' DELLA CANZONETTA Una di quelle mattine, mentre il cielo assolato dava alle nostre meravigliose colline un aspetto primaverile, sulla piazza si radunò gran folla, come il lunedí del mercato. Giovenale uscí dall'osteria, indicò con le sue dita e disse: « C'è Ledi Bumme! ». E in un attimo, tutti gli ubriaconi furono alle finestre. « Ledi, Ledi, Ledi... », chiamarono dalla scuola, mentre da parte sua la gente sulla piazza acclamava. Un'insegnante portò la classe a rimirare tanto prodigio. E le macchine da presa e tutti i rotocalchi del mondo erano in agguato per fotografare la fanciulla dall'ugola d'oro. In un momento fu il caos. Travolto il cordone di sicurezza, sbattuti via i vigili, la folla, presa come dal panico di un incendio o di un terremoto, con le gole squarciate e le mani protese a rubare non so quale grazia, fece salire al cielo un tumulto mai udito prima.. Per la salita dello Stallone, una paralitica centenaria si straziava: « Aiutateme che la vojo vede' pure io! ». Il nome di Lady volava per l'aria come quello di « Dio mio » quando c'è il bombardamento. Vennero le camionette di rinforzo e i pompieri; molte femmine si accapigliarono per precedersi. Una donna incinta, respinta con le parole da un poliziotto, chiamò il marito. Questi, afferrato il tutore dell'ordine, strillò: « Se mi fijo nasce co' la voja, t'ammazzo! ». Poi, giù in fondo, si fece un po' di largo. Una ragazza nel trambusto era svenuta. I monelli si arrampicarono ai lampioni; chi pendeva dalle logge; dalle finestre volavano confetti e fiori sguarniti ai vasi dei davanzali. « E' la cantante che ha vinto il Litro d'Oro! » mi spiegò Giovenale mandando urla e improperi. D'un tratto, da via Peperoni, scese un corteo in fila indiana. « Ricalcano le orme di Ledi Bumme, in processione », mi disse un vigile, che con la testa arrivava alla finestra del palazzo accanto. « Per forza non va avanti l'Italia! » affermò un magretto che bestemmiava sul

camioncino fermo perché gli si faceva tardi. I giornalisti e i fotografi si pigiavano per captare un sorriso o una sola parola... Dopo un'ora di strilli, manate, spinte, (dall'alto pareva un fiume combattuto da più correnti), con altri rinforzi fecero passare Lady Boom per una via di sicurezza ricavata dai vigili messi di qua e di là a cordone. E la massa si sparpagliò solo dopo minuti di fanatismo che molto somigliano agli isterismi dei negri. Ricordai la scena di follia dietro la bara di Gandhi. Certo, Gandhi non cantava: strano... Se Gesù Cristo, tornato in terra, fosse passato per xy quella mattina, avrebbe trovato solo qualche vecchio già sbronzo che gli avrebbe detto: « Ma te la fai, si o no, la barba? ». La sera, alle ore sette, andai nella sala delle conferenze, dato che un gruppo di giovani insoliti cominciava una serie di dibattiti. Aspettai fino alle nove. Quasi solo. Quando gli organizzatori avevano deciso di rimandare il tutto al giorno seguente, entrò un ometto sbandando, il cui respiro infestava l'aria di vino intorno intorno. « Che c'è qua? » chiese. « C'è il dibattito », rispose uno. « M'erano detto che se beveva... », masticò egli. E, senza salutare, se ne andò barcollando com'era entrato. Alla fine del corridoio, regalò un rutto all'aria che rimbombò. Mentre fuori era scesa la notte, sulla piazza ancora sporca del subbuglio mattutino, sbadigliavano grigi i lampioni. Il fracasso s'era spostato fuori e dentro la sala cinematografica, dove « Ledi Bumme » cantava. Poiché il cinema dava sul corso, la polizia aveva fatto deviare il traffico dall'arteria alle straduzze arrampicate fra le case. Un autotreno con rimorchio s'era incastrato in una curva in salita e col tetto del cassone aveva rotto il lampione. All'oscuro, bestemmie del camionista e rombare di motori sospesi con la frizione, dietro quel macigno immobile, nauseante di nafta bruciata. Poi i clacson della fila che aumentava: un vigile trillava e si dimenava come avesse i tizzoni ardenti dentro le scarpe. Allora, il traffico fu incanalato in un'altra parte del paese, dove le strade erano disselciate, polverose e piene di buche. Una macchina colma di patate affondò nella melma al ciglio della via e rovesciò le cassette sulle auto che arrancavano dietro. I tuberi si maciullarono fra le ruote e parte rotolò giù per i portoni, dentro alle trattorie, nella fontana. Un contadino uscí furibondo dalla cantina illuminata da un cero, con uno zolfanello in mano dal bagliore azzurrognolo e vibrò i pugni all'aria. Un autista aprí lo sportello e gli mollò un calcio. Allora, il vignaiolo, fuori di sé perché una patata gli aveva intorbidato il vino, non resse all'insulto e marchiò con lo zolfo rovente il viso del malcapitato. Un urlo inorridí l'aria. E dalle finestre facce sghembe occhi larghi volti contratti mani nere si muovevano come fantasmi nella notte cieca senza luna. Davanti al cinema, una ressa di gente ondeggiante urlava. Erano finiti i biglietti e nessuno voleva restar fuori. I carabinieri e i poliziotti spingevano e gesticolavano, afferravano or questo or quello cercando di trascinarlo sul cellulare, ma rimanevano bloccati dalla marea impazzita. Rantoli, voci clamanti e lamentose mandavano il nome di Lady Boom al cielo: querule invocazioni come di chi cerca la grazia dal Santo che sta per scomparire. Notai, nella calca, una grassona che veniva sempre a piangere al patronato scolastico perché non aveva un soldo nemmeno per comprare il pane al figlio. A un certo punto, nel macello, un giovanotto le dice qualcosa. La bestiona spalanca un foglio da

diecimila lire e lo versa all'altro, che le dà il suo biglietto d'ingresso. « Me so' guadagnato cinque sacchi! » gridò il furbo, che aveva rivenduto il biglietto per il doppio. La signora si aprí un varco tra la carne delirante, quasi fosse un cuneo di ferro nelle salsicce ammassate. Una forza di gomiti, un livore di faccia, una deformazione di labbra e di occhi, la portarono in breve all'entrata del cinema. Lí, però, trovò ostacoli insormontabili. Allora sventolò il biglietto in aria e cercò l'aiuto della polizia. Ma un omone alto e arcigno allungò la mano, rubò il foglietto prezioso e cominciò a picchiare la testa di chi gli si parava davanti. Le urla della grassona si fusero con le parolacce dei malmenati, che si ribellarono e iniziarono una scazzottata senza fine, la quale si trasmise a tutto l'ambiente. La signora cadde svenuta e finí sotto i piedi di tutti. Il biglietto si frantumò in mille coriandoli. A un certo momento, il serra serra fuori, sulla strada, si sfoltisce. Che era accaduto? Alcuni scalmanati avevano portato delle scale di legno altissime e si erano arrampicati dalla parte opposta del palazzotto, sul tetto della sala, che aveva un'ampia apertura per arieggiare l'interno. E quella sera il cielo era sereno: la grande botola era aperta. Da lí, con le corde legate ai ferri di sostegno, come pirati si calavano gli esclusi da tanta festa. Quelli che erano in sala, nel fumo che saliva come una colonna verso l'apertura, urlavano nel sentire sulle zucche gli scarponi dei nuovi arrivati. Ma, a un certo momento, essendosi stuccata una corda, uno piovve dal cielo sulla calca al centro della sala: e fu il finimondo. Il padrone del cinema spinse una leva e le ali della botola si chiusero schiacciando in mezzo un paio di « uomini volanti », i quali, riusciti poi a sfuggire alle morse di acciaio, si tuffarono sul carnaio sottostante che non poté diradarsi tanto era serrato. Verso la mezzanotte, ormai fuori di sé per l'isterismo, alcuni giovani saltarono sul palco urlando il nome della cantante, con voci strozzate e tuonanti. Lady abbandonò il microfono e fuggi tra le quinte, dalle quali uscirono gli agenti. Ma uno degli invasori era riuscito a strappare un pezzo di vestito a Boom e andava in estasi: gli occhi fissi nel vuoto e la reliquia stretta al petto, piangeva. Se ne accorsero alcune donne. Volarono come furie sul palco e derubarono il ragazzo che, di lí a poco, insieme con la grassona fu portato in ospedale. Li seguirono quei due pigiati dalle strettoie e altri che li avevano riparati. Il proprietario del locale dovette chiudere per restauri. Al Comune fu attaccata causa da alcuni autisti rimasti nelle buche delle strade. Questi i danni più appariscenti. Ma per le vie, nei negozi, nelle case, ognuno si vantò, per molto tempo, di aver visto da vicino — e magari toccato — « Ledi Bumme ». Gli spazzini dovettero faticare molto a raccogliere pezzi di dischi e frammenti di cartoline con l'immagine della Lady. Infatti, chi aveva portato con sé il microsolco con la custodia per avere un autografo della cantante, nel pigia pigia aveva perduto l'oggetto prezioso, o se l'era trovato in mano spaccato in più parti. Ma questo non è tutto. Alcuni ladri, approfittando dell'occasione, erano penetrati negli appartamenti vuoti ed avevano fatto razzia di tutto. Altri avevano rubato le macchine in sosta al limite del paese. La mattina seguente, eravamo solo cinque giornalisti ad attendere Salk a Ciampino. E la televisione, che aveva mandato i suoi cameraman a riprendere Lady, ignorò la venuta di quel benefattore dell'umanità.

GESÙ EBBE PIETÀ DELLE MOLTITUDINI... Hanno scoperto le superstelle. Sulle quali un orologio (che sul sole indietreggerebbe un secondo ogni sei mesi) resterebbe fermo. Sulle quali il tempo, troppo relativa misura del nostro piccolo pianeta, non esisterebbe più. E' proprio possibile che l'elemento carne, questo urlo di libidine e di dolore, sia germinato solo sulla Terra, granello di sabbia nella spiaggia immensa dell'universo? E il figlio di Dio, del Creatore di tutti questi mondi che dalla nostra piccola specola nemmeno vediamo né forse scopriremo mai, possibile che sia disceso solo qua, addirittura a versare il sangue? Quanto sembra strano ciò! Perché mai le cose possibili sono spesso illogiche? Ahimé, visto che non è facile conoscere tutto di noi, quando alzeremo gli occhi alle lontananze che ci annullano, ai tempi fermi e a quelli misurati in miliardi d'anni luce, per cessare di trucidarci? Cosa vuoi che importi quale sia stata la recondita discendenza di Luigi XVIII, quando per impararla si deve sacrificare parte di un tempo che inesorabile finisce, mentre tante cose più degne di essere apprezzate aspettano chi le scopra? Quant'è più saggio chi, riconosciutosi, considera inutile l'inutile! Voi che vi ritenete infallibili, mi sapete precisare che sarà di noi fra cento anni? Dove saremo più, in quale striscia di terra, in quale angolo di altro assurdo inferno? Tizio risponde: « Io so dirvi dove sarete con me, con tutte le donne che ora amano fondere la loro carne alla mia. Sarete con me, e con quelli che vedete e non vedete, nel macero. Inutili cadaveri che puzzano e vanno sotterrati. Lontano dagli occhi e dalla luce, peggio dello sterco che il cane ricopre con pudico istinto. E con noi, fra la nostra cenere, scenderà ogni affanno, ogni dolore. Mentre neppure una delle vostre inutili asserzioni vi seguirà, nulla prima di voi, già vuote avanti il nascere. A guardare un momento il cielo, ogni cosa umana si esaurisce. Perché pare che tutto esista per dimostrare a noi che siamo niente. Spesso, sembra un istinto irrefrenabile della natura la morte. E il peggio non è tanto essa, quanto il non sapere scegliere fra la vita e il suo opposto. E' come stare in una camera scomoda, e non uscirne per paura di passare una porta che dà su un abisso... ». « Eppure », dice Caio, « quante volte ci pare di sentire nel nostro cuore un palpito di eternità! Se Dio è l'autore pure delle superstelle, c'è da tacere davvero. E da donarci la mano fra noi, da unirci, con la speranza che Egli ci guardi, cosí opachi nel nostro mortale opaco pianeta... ».

VIGILIA ELETTORALE: « NOI FAREMO... » Mancavano una ventina di giorni alle elezioni (quell'anno le comunali e le politiche coincidevano). Finí la pace delle passeggiate e la digestione solitaria. Persone che, per anni, non si erano degradate a salutare i cavernicoli delle osterie; che camminavano come avessero la pipa in bocca e la puzza sotto il naso, tanto basso e sporco e vile era il resto del mondo per loro nati fra le nuvole dell'Olimpo e la cipria dell'autolatria; divennero all'improvviso cosí cordiali, umanitarie, pronte al saluto, da suscitare ilarità e pena allo stesso tempo. Se in quel momento avessi chiesto loro, in cambio del voto, di gettarti il vaso da notte, pure l'avrebbero fatto. E non soltanto si autopresentavano a raccomandare

la propria candidatura, coi viso che molti politici hanno, ma smuovevano quelle persone alle quali, per un motivo o per un altro, non potevi dire di no senza grande imbarazzo. Un concorrente, genio assoluto e personalità altera, quasi sopportasse il povero mondo fatto di idioti, una sera si abbassò al punto di entrare in un'osteria e bevve nel bicchiere di Burino, abbracciò la madre di costui, tessé le lodi di lavoratrice della povera vecchia, offri da bere a tutti e promise a Burino un posto. Trubbiano commentò: « Vediamo di non darglielo al camposanto questo posto... ». Pure i logori gradini di casa mia divennero, in quei giorni, le scale adorate dai galoppini e dai papabili. Tante lodi come in quel periodo non le avevo ricevute in anni e anni. Uno baciò la mano a mia zia sorda che in quel momento stava sturando il lavandino. E dovunque ti vedevano, s'affannavano (con occhi larghi e denti di fuori in un sorriso tirato e umilissimo) a venirti incontro, a consegnare al vento parole di stima, di ammirazione, di sottomissione. E ti davano di sotterfugio fogli pubblicitari, raccomandandoti di votare per loro: martiri dell'ideale, altruisti votati al supplizio dell'incomprensione e all'eroismo dell'impopolarità a causa dell'abnegazione alla giustizia. Questi aveva conosciuto mio nonno; quegli era stato compagno di scuola di un mio zio mai sentito nominare prima neppure da me... « lo ti sono stato sempre amico sincero », affermò strisciando un candidato al Comune, forse debole di memoria: fino al giorno avanti aveva seminato palesemente zizzania nei miei confronti. « Co' tutta 'sta cartaccia ce faremo er foco... », aveva commentato Arconte, seduto sui trono della sua osteria. « Lo vedi quello che viene sempre qua da dieci giorni a 'sta parte? Finite le elezioni, se m'azzardo a salutarlo me fa carcerare... », aveva continuato Moretto. « La prossima volta », propose Giovenale, « faremo la lista per conto nostro e come simbolo ce metteremo una bottiglia di vino e una porchetta... Piglieremo il novanta per cento dei voti e concorreremo noi: tutti i bevitori onesti dei Castelli Romani e andremo pure a Montecitorio, cosí faremo tutte leggi a favore dell'uva, delle vigne e delle cantine ». Vennero anche deputati e senatori a tuonare dai palchi sulle piazze. Il politico del partito « W » disse fra l'altro: « ... L'angolazione diametrale dell'inabissamento prospettico e programmatico a un certo livello dell'individuo collettivo nello pseudo impegno di origine equilibrata ma avanzata nella prospettiva cosmogonica... »; un deputato del partito « M » lesse: « La massa assurge a capostipite di uno smantellamento burocratico capovolto al fine ideologico di portare al potere il lavoratore al fine di impugnare giustamente il prosieguo della lotta classista al fine di sovvertire l'ordine borghese al fine di impegnare il capitale ai dividendi del programma... ». Passata la festa, gabbato il santo. Poveri spazzini, quanto lavoro! E, finalmente, un po' di pace. Le scale di casa mia tornarono solitarie; il telefono squillò meno di frequente e tacque di notte. Soprattutto, non ebbi più il dovere di rispondere ai mille saluti e inchini dei candidati i quali, una volta riusciti o trombati, erano tornati al loro riserbo e alla loro arcigna prosopopea.

LA MORTE NASCE DALLA VITA Dormiva una luna in cielo, tenue come lo zucchero filato che il vento assottiglia. Contavo in essa gli anni, sempre più rapidi a svolgersi in questo enigma che si chiama tempo. In esso, come un figlio senza madre, un vivente fuggiva la folla. Da solo, balbettava in giro parole con occhi attoniti a rubare le sfumature di un gesto. Aveva ai piedi il peccato della povertà e sulle mani i segni della passione che la miseria dà in eredità agli ultimi. Scoprí che di figli senza madre la terra è piena e che nessuno ha il diritto di essere ascoltato. Sentí, una notte, il pianto dell'usignolo. E rimase incantato per molto, sí che ad ascoltarlo tardarono le stelle e il giorno fu pregato di indugiare alle porte di oriente. Scoprí allora che i gemiti cantati erano altra moneta. Seppe che l'uomo non porge orecchio senza essere dilettato. E nascose il pianto come l'usignolo, come il cardellino chiuso in gabbia. Si potesse fare come quel pomo che, sazio di sole e di rugiada, staccatosi dal ramo ringraziò la terra che fino a quel momento lo aveva nutrito! Chiesi un mattino a un vecchio che passava, cosa significasse avere dentro il veleno e il miele. Non rispose e continuò per la sua via. Poco dopo tornò portando con sé una corda. L'annodò a un arboscello. Mi dette un'estremità di essa ed egli tenne l'altra. Tirammo or io, or lui. Alla fine la pianta crollò. Cosí accadrà per colui che due forze potenti ed opposte distruggono. Di lui si dirà: « Le sue stesse risorse lo hanno ucciso ».

IL GRANDE POETA BARACÀNO Dopo l'ammonimento di un « uomo di cultura », il quale, vedendomi dentro un'osteria, aveva fatto fuoco e tuoni perché perdevo tempo con gli ubriaconi e mi aveva quasi ordinato di sprovincializzarmi andando a frequentare qualche salotto romano, per intercessione di una mezza femmina, che supplisce il cervello con le chiome lunghe fino a terra, come scope, riuscii ad essere ammesso ad ascoltare poesie cosmiche di un poeta nuovo, venuto dall'altro emisfero! Nel salotto letterario della nobile donna Rachele dei Conti di Ipsilon, il professore critico d'arte signor Camaleonti presentò con le seguenti parole assai pesate il poeta Baracàno. « Amici, è oggi un giorno di gaudio, dacché abbiamo tra noi uno dei massimi poeti delle terre giovani di occidente, per cui ogni aggiunta è superflua oltre il nome: Suph Baracàno! » E seguí un fittìo di applausi. Costui si alzò in piedi con una certa fatica, gli occhi alcoolizzati dietro il vetro degli occhiali orlati di nero, alto com'era e scuro nella faccia dalle turgide labbra. Sembrava che la terra dovesse sprofondare sotto i suoi piedoni. Con accento straniero e cupo, iniziò cosí: « Vi leggerò poesia scritta da me, poeta Baracàno ». Le vecchie di almeno cent'anni ognuna, alle prime file, portavano all'occhio un occhialino mobile e si beavano alla vista di cosí rude maschione. Il giornalista di grido, membro del premio « Testoni », Fiorellino M. si muoveva deliziosamente come pregustasse il fluido magnetico dei versi di Baracàno. Fu il silenzio. Il poeta cominciò con voce da cavernicolo, chiusi i suoni, lento come un corteo funebre, quasi il fiato venisse

davvero dall'altro emisfero: « Radici di sega minareti di zolfo vinaccia focaccia sangue di torso muto e orizzonte cintole estatiche la nostalgia del tranvai che viene e che vai... »

Gli applausi non finirono più. Tutti dicevano: « E' una poesia veramente nuova. Ormai qui non abbiamo più tanti poeti che scrivono cose nuove. Bisogna importarli dall'America Latina o dall'Africa... ». Gli fu chiesta un'altra lettura. Il critico Fiorellino, lisciando le mani a Baracàno, disse: « Bisogna presentarlo a un premio, per esempio al premio "Testoni" ». Ma tutti son buoni i premi oggi per riconoscere il vero talento, ta-len-to, perché, lei, bel giovane, lo ha e merita un attestato... ». Da una parte della prima fila, un grassone con tanto di baffi e mascelle da asino, sui tipo di certi industriali ormai all'apice, sorridendo soddisfatto mormorava con voce soda ma prudente: « Che ti dicevo io? Quest'anno, il best-seller lo tiriamo fuori da questo pezzente. Tu domani fammi apparire in terza pagina cinque colonne con foto di questo cretinone e prepara la presentazione del suo libro nel mio ufficio di ZZ per la prossima settimana... ». Colui che ascoltava l'editore, evidentemente suo consulente letterario, non era meno soddisfatto di lui. E disse: « Beh, beh, la scelta è stata felice. E questa volta te ne do pienamente atto, caro amico ». «Certamente», continuò l'altro, pavoneggiandosi. «Tu dicevi di far vincere un premio a quel falegname, presentandolo come autodidatta e autore del romanzo scritto da tua figlia. Ma dà retta a me: anche la poesia può essere un grosso affare. Il prossimo anno gettiamo in edizioni economiche il libro che quest'anno targhiamo tremila lire. Oh, ecco Camaleonti... ». Confabularono un po' con il professore. Alcune donne dicevano fra loro: « E' una poesia difficile, ma assai graziosa... Quella possiamo penetrarla soltanto noi che siamo iniziate... Che pensi, tu, Leopolda? Non credi che la nostra contessa abbia un gran talento di scopritrice? ». « Non è merito suo la scoperta di questo giovane astro della penna, sai... », rispose una vecchia incartapecorita con la voce da pecora. « E' tutto vanto dell'editore... Tu non farai nessun pezzo sulla serata? ». « Come non farlo? Non hai sentito che poesia? Non hai notato che profondità di pensiero? E che chiarezza prospettica... ». « Andiamo a intervistare Baracàno », propose una. Seguivo la scena furtivamente. Le lasciai andare e mi accostai a quelli delle ultime file, che non erano iniziati. « Ma ci hai capito niente tu? », chiedeva un giovanotto a un omone dalla lunga barba, « Fiòlo mio... » rispose l'altro muovendosi tutto, « e che credi tu che sia una cosa semplice capire i capolavori senza una adeguata conoscenza della problematica artistico-

lirica? Che mi son lasciato la barba per niente? ». Un bassetto pelato, forse più ubriaco di due Giovenale messi assieme, disse, parlando fra sé ad alta voce: « 'Sti poeti più stà e più diventano complicati. Ma se 'sti capoccioni su la cattedra dicono che va bene, vedrai che qualche cosa de bono c'è... ». In un angolo, due ragazze seguivano le mosse di Baracàno e le commentavano cosí: « Guarda guarda come muove l'indice... la giacca come mai la porterà cosí stretta? Per darsi un tono lo farà... Un tono, che dici! Ha bisogno lui di un tono? con quel cervello che ha? E' un fusto però... Lo pubblicherà il libro?... Guarda guarda, adesso parla con quelle della prima fila... andiamo a sentirlo da vicino... ». E da vicino le cose si svolsero cosí. « Lei, poeta », disse una signora, « cosa pensa di questi urlatori di oggi... ». « Io non pensare... Avere molto urlatori in foresta fuori casa, la notte iene uuuhhh... ». E la battuta fu acclamatissima e venne registrata da ognuna delle presenti. « Di questa apertura del Centro-Sinistra, della DC e del PSI? Ci dica qualcosa », sospirò un'altra. Il moro si guardò attorno, e poi, smarrito, biasciò: « Quale porta dare a sinistra per pisci... Io avere proprio bisogno andare a pisci... ». E si allontanò, correndo come quello che non ce la fa più. Allora vi fu un attimo di smarrimento fra le giornaliste. Ma una rise a lungo ed esclamò: « Stupendo! Anticonformista! Acutissimo! Furbissimo: per non esprimere il suo giudizio su questo Centro-Sinistra, ha messo la cosa in barzelletta... E' magnifico. Domani farò uscire in prima pagina la sua foto! ». Mi allontanai piano piano, alla chetichella, e presi anche io la porta che stava tra il centro e la sinistra. Alzai il raso spésso che faceva da sipario e cercai davvero un bagno. Alla fine del corridoio, c'era il gabinetto. Credetti vi fosse dentro Baracàno. E attesi paziente. Ma all'improvviso il poeta moro esce da un'altra porta, tenendosi su i pantaloni, con un'espressione ancor più ebete di prima. Mi guardò e disse: « Tu essere di Roma? ». Annuii in silenzio. « Tu non sapere dove stare cesso con rotolo di carta fina? Io cercato ma non trovato... ». Ed era un po' imbarazzato. Allora, comprimendo le risa, gli indicai il bagno. Quando fu dentro, entrai nella camera dalla quale era uscito. Era il salotto della contessa... Basta. Un convulso di risate mi fermò nel corridoio. Quando tornai in sala, già tutto era quieto e pronto per la seconda parte della conferenza. Ma la sedia di Baracàno era vuota. Dov'è il poeta? Ci si chiedeva. Un'ansia mai scorta prima possedeva i cuori. D'un tratto, si sentirono dei colpi violenti a una porta. Poi un rantolo indistinto, come di leone in gabbia. Mi parve che Giovenale si annunciasse. Allora qualcuno rise. L'editore sbarrò gli occhi. Ma il « maggiordomo » sistemò subito le cose. All'apparire di Baracàno con orbite da bestia inferocita, vi fu un silenzio ambiguo. Che si mutò in applausi quando Camaleonti urlò: « Ecco l'eroe dell'America Latina, il quale è un perseguitato politico: egli ha preferito rinunciare agli agi che gli offriva la patria, anziché alla libertà... Libertà va cercando, che è si cara, come sa chi per lei vita rifiuta... e come sapete anche voi ». Intanto, Baracàno faceva segno come un muto che aveva sete. Udii un commento: « Si sente che soffre della sua poesia, poveretto. C'è nei versi un odio accumulato da secoli.

Voglio applaudire ancora questo eroe ». E urlò: « Viva Baracàno, alfiere della libertà! ». Allora, per la stanza echeggiarono epiteti quali: « Vessillifero... Mazziere... Antesignano... Archiatra degli avanguardisti... Archimandrita di tutti gli esuli sei tu... ». In un clima cosí eccitato, Camaleonti, facendo gesti con la mano per calmare il pubblico, gridò: « Fra pochi giorni, i sospiri di libertà di questo giovane, raccolti in volume, usciranno coi tipi dell'editrice... ». Il rumore non cessò. Continuarono gli elogi a Baracàno, il quale, capito chissà cosa, impauritosi, cercava di scappare. « Bravo, rifiuta gli onori. Calmiamoci », urlò uno dall'ultima fila. E già. era nato il mito di Baracàno. « Ora, è d'uopo tracciare la biografia di questo giovane. Voi sapete quanto sia decisivo discorrere in questo salotto, anticamera della celebrità ». Cosí cominciò Camaleonti, dicendo che Baracàno era professore di estetica all'università del suo paese e che aveva sostenuto una strenua battaglia ideologica con il ministro dell'educazione, difendendo le insostituibili premesse eterne della libertà e dello spirito. Richiesto di parlare, Baracàno si alzò. Ma tacque. Allora Camaleonti lo aiutò: « Ci dica della polemica dello spirito... ». « Spirito? » parlò il poeta, con voce lenta e cupa, occhi ebeti e grandi labbra, nel silenzio addirittura mistico della sala. « Spirito? Buono... buono spirito... lo bevuto... lo distillato spirito mia terra... Buono spirito... ». La folla rimase perplessa un po'; ma Camaleonti, fatto sedere Baracàno, interpretò: « Come i discepoli bevevano le parole di Socrate, cosí come Pascoli usa questa immagine corposa e viva, Baracàno, forte del suo simbolismo e della sua cultura, in una capacità di solida sintesi, con echi biblici, al momento in cui Dio vide che il suo creato "era buono", egli dice in questo momento che lo spirito è buono e che egli ha bevuto la causa dello spirito, l'ha sposata, e distillato negli anni la quintessenza dello spirito... ». Fiorellino, alla fine della serata, toccando le mani al moro, disse con voce femminea: « Domani scriverò l'introduzione alla tua magnificentissima opera e la presenterò io stesso al premio "Testoni", e la imporrò come merita. Ma tu, bel giovane, dovresti venire con me questa notte, acciocché io estragga dalla tua viva voce le notizie più importanti e sappia i motivi segreti che ti hanno ispirato... Ti offro la cena e poi andremo a casa mia... ». Appena sentito la parola cena, Baracàno sgranò le fauci e gli occhi. Lasciò tutti con un palmo di naso; e preso a braccetto Fiorellino, trascinatolo fuori, scomparve. Anche questo gesto fu preso come un'espressione genuina di indipendenza e di libertà. L'editore diceva soddisfatto a Camaleonti: « Bravo, il best-seller è fatto. Di là in salotto ti consegnerò l'assegno più che meritato. La contessa anche sarà lieta. Come ricompensa a lei, pubblicherò le sue sciocche novelle...ah, ah ah... ». Ci fu poi una breve conferenza del professor Duroni, il quale, rifacendosi al Niesely del '600, dichiarò che qualunque opera dovrebbe essere giudicata secondo i generi letterari. Ed escluse dal catalogo, perché non rientranti in alcuno dei generi canonizzati dalla tradizione, niente di meno che il « Tristan Shandi » di Sterne e I'«Ulisse» di Joice. Quindi, prese la parola un certo Minimi, traduttore di moralisti d'oltralpe, asserendo che Dostoevskji in « Delitto e castigo » si era rifatto a Manzoni, che anzi aveva copiato tutto dai « Promessi Sposi » e come ragione sufficiente portava questa dimostrazione: « In

entrambi le opere si legge: questo matrimonio non s'ha... non si deve fare. Allora poiché Manzoni l'ha scritto prima, Dostoevskji è il plagiatore ». A un certo momento venne un servitore e disse impacciato: « Signori, la signora contessa vi prega di aspettare un po' mentre i camerieri mettono in ordine il salotto per il vermouth d'onore... ». Professore, consulente, editore si guardarono, alzando una sopracciglia ognuno, come per dire: « C'è lo zampone di Baracàno anche qua ». Comunque andassero le cose una volta riassettato il salotto, la verità è che la radio, la televisione, tutta la stampa nazionale, dai quotidiani ai rotocalchi, alle riviste letterarie, parlarono di Baracàno. In una settimana divenne celeberrimo. E consolidò la sua fama l'assegnazione del premio « Testoni ». Il libro, in poco tempo ebbe più ristampe, raddoppiò le edizioni, e Baracàno, da operaio di una distilleria dell'altro emisfero, si trovò mutato in mito a Roma. Egli è un esempio clamoroso (ma né il primo né l'ultimo) di nullità elevate agli onori. Barabba, da sempre e per sempre, sarà preferito a Gesù. Baracàno rappresenta quelle persone che, incerte se giocare a carte o grattarsi la groppa, scelgono di scrivere poesie. E nessuno potrà mai azzardarsi a dire loro la verità. Si reputano grandi vati. E ambiscono subito un Nobel. Sfrontati come non è il vero artista, che, seguendo una forte vocazione poetica, si macera nel dubbio e nella responsabilità della creazione, costoro sono oscuri nel senso, e barocchi nella parola. Difatti, la chiarezza sovrana è prerogativa del poeta vero. Ricercano il complicato e il torbido i mediocri, nel tentativo di mascherare l'assenza di ispirazione, la fuga dal pensiero, la carenza perniciosa di timbro personale, la vigliaccheria dei plagi. E sono come il loglio in mezzo al grano, che solo il tempo che seguirà alla mietitura farà gettare nel fuoco...

TOCCATA E FUGA D'improvviso, fu primavera, in un giorno fiorirono i prati. E nel cielo c'era un azzurro nuovo, fitto e pulito... Il viso di ogni bambino sapeva di tutti i fiori della terra. Basta una folata di vento, che rapida sparisce, a non farci odiare la vita, questa irripetibile combinazione... questo momento che l'uomo rende spesso triste all'uomo. Quel giorno, il primo chiaro di sole e tiepido di azzurro, entrò nella macchina una farfalla piccola, comune: una cavolaia. E portò sulle ali tenui la primavera. Mi misi al belvedere con altri sconosciuti, sotto i raggi del giorno. Eravamo come la piccola folla che seguiva Gesù aspettando la sua benedizione, il suo miracolo. Ma la vita stessa cos'è se non un miracolo? Vivifica un corpo, un albero per pochi anni. Poi lo abbandona e va via, come un'amante instabile e capricciosa. Per i viottoli scendevano a gruppi i contadini, con vanghe sulle spalle: la terra voleva essere aperta e fumare al primo sole. I canti salivano fino a noi, rauchi ma belli. Il sole scivolava sopra gli alberi perché ancora non avevano foglie... Nelle nostre vigne, quando il palmite fioriva sui filari tirati e interminabili, eravamo soliti allietare i canti con bicchieri di vino appena filtrato.

LA TV DEGLI OMINIDI Il signor x si presentò al telequiz. Non era capace di riconoscere un suono di un violino da quello di una tromba; era incapace di dare un suo giudizio anche sulle cose più banali; confondeva Raffaello con Caruso: ma sapeva « tutto sul libro Cuore ». Era convinto ancora che fosse il sole a girare attorno alla terra e attribuiva a Dante la paternità delle canzoni dei Beatles: ma conosceva « tutto sul libro Cuore ». Ignorava il perché dell'avvicendarsi delle stagioni; affermava che Gesù era coetaneo di Napoleone; non sapeva distinguere un platano da una quercia; non aveva mai letto nulla al di fuori del libro Cuore: ma sul libro Cuore sapeva tutto. Non era ben sicuro se l'Italia fosse una repubblica o un regno; diceva che la luna è la sede degli spiriti e che l'uomo, se vi fosse andato, sarebbe caduto di sotto; asseriva che Omero e Maometto fossero gli inventori del telegrafo senza fili: ma del libro Cuore egli sapeva a memoria il numero delle virgole e dei punti. Con questo prezioso bagaglio culturale guadagnò in poche settimane trentacinque milioni; fece il giro dell'Europa spesato di tutto; da alcuni fu battezzato: il nuovo Pico della Mirandola; dettò a un mediocre scrittore le sue memorie che uscirono sotto il titolo: « Il travolgente romanzo di una vita », libro che andò a ruba e vinse un premio letterario. Alcuni salotti mondani gli offrirono fior di quattrini perché li rendesse illustri con la sua sola presenza e dovunque andava c'erano sempre in agguato fotografi e giornalisti. Un giorno fischiettò un'aria e un musicista della RAI si offri a mettergliela sul pentagramma. Il disco raggiunse una vendita che suscitò l'invidia dei più celebri astri della canzonetta e la televisione si senti in dovere di dedicare una trasmissione intera al più portentoso cervello dei nostri giorni. Alla fine lo scritturarono anche per girare un film. Ora costui si è messo tre segretari forniti di timbri con il suo nome per apporre autografi. Sembra che una sera, mentre camminava per le vie di Roma, nel parapiglia degli ammiratori rimase contuso. Il giorno dopo molti rotocalchi esaurirono il cospicuo numero delle loro pagine con due sole notizie: l'incidente del signor x e la nascita del figlio dell'attrice y.

ACCORDATA Uscivo di scuola con un'emicrania d'inferno. Ma le rondini, le rondini fugaci sotto l'azzurro chiaro, ebbero il potere di attenuare il male, fragili rondini di primavera... Sul mare vaporeggiavano banchi di nuvole candide, sferiche, proprie dell'aprile in ritardo. Entrava nei pori l'aria lustrata, filtrata dalle tele del tramonto... Dal nulla al nulla, l'ironia d'un momento intercorre. E saremo alberi bruciati quando la fiamma dell'esistenza ci avrà consunti. Ma chi ha la fortuna di sentire il vento che attizza il fuoco che ci dà vita e morte? Alterati gli equilibri, male e bene si toccano, il giorno e la notte si identificano, evoluzione e involuzione parlano la stessa lingua, santi e criminali salgono lo stesso patibolo, geni e mezze figure scivolano su un identico binario. Farà giustizia il tempo, ma è una giustizia che costa cara, perché il tempo si esprimerà in morte, quando i giudicati saranno polvere e memoria, e nemmeno più quella. E allora? Fra il tutto e il nulla c'è l'uomo, ch'è tutto e nulla.

UNA LUNGA STRANA INTERMINABILE NOTTE Quella sera stessa mi diressi verso l'osteria di Policarpo. Appena giunto, credevo di trovarvi Giovenale; m'imbattei invece in una ciurmaccia che ringhiava. Le bestemmie rimbalzavano di bocca in bocca come palle appiccicate da racchetta a racchetta. Riconobbi Lummacone, famoso per aver sventrato... oltre cento galline in vita sua. Notai il Vaccaròtto, Nerchiafracica, Ciampo. Tutta gente celebre da queste parti per bontà d'azioni. Quest'ultimo aveva accoltellato un trentenne sposato perché gli aveva dato un nipotino... Nerchiafracica aveva continuato il mito di Edipo essendo concubino della madre e padre dei fratelli dei quali la mamma era madre e nonna. Vaccaròtto giganteggiava per le gesta compiute. Sulla settantacinquina ormai, si vantava di avere infilzato col tridente da fieno un ladro di carciofi e di avere avvelenato un ladro di fichi. Dai grandi baffi ancora nerastri, ad arco sotto un naso enorme, Vaccaròtto menava nervosamente un occhietto piccolo e sadicamente pazzo. Sull'altro annacquarito nereggiava una pezza da corsaro. C'era uno, chiamato Corsaro, che non aveva naso. Su esso un cerchietto di stoffa nera appariva, al centro del viso, come il quadrante di un tirassegno. «Ce l'ha mozzicato o sumare », spiegò l'oste. Ma si sapeva che era stata una malattia contratta sotto le armi. Lummacone, intramezzando il discorso alle bestemmie, magro e giallo, lamentò che la moglie aveva l'acqua alla pancia. « So' già tre volte che la siringano e se riempe sempre. Pare che ci ha la sorgente drento a le budella... ». Avvolto da una gran pena per quella gente, il cui mondo mi incuriosiva e turbava, non riuscii a ridere quella sera. Né ad alzarmi per fuggire da tutti, per correre fra i solitari palazzi vecchi e muti, fino alle libere piazze, alle pinete altissime assorte in un casto sopore, fino all'orizzonte marmoreo. Le chiacchiere si allontanavano vieppiù e si disfacevano. Favole di un mondo al di là dell'ironia. A un certo punto entrò Giovenale rosso come un pomodoro sfatto, dalla pelle tesa come un tamburo e lucido per il sudore. Un grugnito fu il suo saluto generale. Mi batté la mano sulla spalla e urlò: « Paga mezzo litro ». Cercai di sorridere, annuii, mi sforzai di apparire normale. Raccontò che aveva già fatto visita a tre "chiese", e che in ognuna si era bevuto un litro. Poi disse: « E' morto Culone ». Come nulla fosse, asciugò il bicchiere con l'avidità di chi nel deserto vaneggia per la sete. E, a bicchiere finito, mandava un rufolo di soddisfazione e di sollievo. Poi, si sbracava sulla panca senza schienale urlando ogni tanto: « Ah moro... Ah moretto... ». Nerchiafracica portò il discorso su Culone. « Ieri stava bene! », esclamò. « E oggi è morto », rispose Giovenale con lo stesso tono con cui avrebbe potuto dire: « E' piovuto ». Allora, un altro della ghenga, brontolò: « Meno male ch'è morto! ». Chi fosse questo Culone, non so. Ma da come lo trattarono e da quante ne dissero, era il più vecchio usuraio del paese, e ne aveva fatte di tutti i colori. Dopo molti improperi, cominciarono a decantarne i « pregi »... Fatto sta che un erede, piangendo dietro il funerale, già aveva fatto capire dall'aria troppo accorata che egli non avrebbe lasciato nel pianto un altro erede... Un certo tipo, sui quarant'anni, dai grandi baffi alla Nietzche o meglio alla Stalin, si alzò

di scatto e mosse la mano come fosse un oratore in procinto di parlare a una gran folla. Gli occhietti più ebetini che maligni, dal colore inconfondibile dell'idiozia, si spalancarono quasi per captare dal cumulo dei cervelli presenti le sensazioni e le idee. Mi impressionò soprattutto la sporcizia di quell'uomo che chiamavano Ottone. Il collo della camicia consumato e logorato dalla barba nerastra e incolta, né lunga né rasa, si raccartocciava in un colore sudicio e stomachevole. I denti cariati e verdognoli perdevano la bava come i lati aperti della bocca di un cane. Fattasi la calma, Ottone cominciò: « Noi vogliamo il lavoro! Se qua non si lavora la colpa è del governo! Noi siamo tutti uguali! Noi vogliamo la libbbertà! In Italia ce disoccupazione e schiavitù! Bisogna andare in Cina per trovare giustizia, fraternità, bontà, uguaglianza, benessere, progresso, perfezione! La Cina è il Paese più libero del mondo...». A questo punto fu interrotto dall'oste che ironizzò: « E tu perché non ci vai? Invece di stare a piagnere qua perché non vai da Mao? ». « Ci ha paura che lo fanno lavorare per davvero », inframmezzò Giovenale. Un altro continuò: « E siccome Ottone cerca lavoro ma prega Dio de non trovarlo, ci ha paura che i russi lo mandano in Siberia e i cinesi in fabbrica ». « Lingue sacrileghe », esclamò irato Ottone, cambiando « registro culturale ». « Voi credete ancora al prete! Non lo sapete che i preti magnano senza lavorare? Da quando è venuto Mao dobbiamo da essere tutti uguali. E' finito il tempo che i professori devono essere più rispettati di me che non sono potuto studiare! Il popolo apre gli occhi e sta per vení il giorno che i lavoratori delle braccia guideranno l'Italia e in cima alle sedie delle cattedre ce metteremo a insegnare noi e taglieremo la capoccia ai preti, ai professori, ai maestri... Deve nascere tutto dal popolo; bisognerà studiare una soia materia: i pensieri di Mao! In Italia ci abbiamo i più grandi cervelli tutti drento il nostro partito! Chi è Dante? Chi è Scecchespìre? Sono uomini come me. Chi sono Omero e Manzoni in confronto del cantore dei cacatori romani Recchietta che è veramente un contestatore globale e prende le difese dei poveri indifesi? Il più grande poeta della storia non perde tempo a scrivere il Paradiso e il Purgatorio ma risolve i problemi sociali vivendo insieme ai delinquenti, agli omosessuali: è veramente un rivoluzionario! ». Giovenale mi sussurrò all'orecchio: « M'hanno detto che c'è stato a letto pure lui con quel grande genio di Recchietta ». « Le cose cambiano », continuò Ottone, infervorato dalla foga del discorso. « Il segno toccabile è quando perché è stato eletto supercommissario del popolo il nostro grande compagno vangatore, analfabeta, lavoratore delle braccia e protettore dei lavoratori delle braccia Venceslao F. ». « Ex-fascista » esclamò uno dalla mischia. « Quando andremo al potere vi uccideremo a tutti! » concluse irato quell'oratore. Allora, Giovenale, rivolto a noi, disse: « Sono dieci volte che sento 'sto discorso: sempre uguale, non manca una virgola. Lo sa a memoria lui e Tantobbè: lo hanno imparato in sezione e lo ripetono a tutti quanti, in qualunque occasione, pure nelle latrine pubbliche. Ottone! », chiamò forte, « Quanto buschi per fare sta' propaganda? ». Ottone invelení ancora contro il regime borghese e concluse che, venendo Mao, lui salirebbe in cattedra e gli scienziati andrebbero a farsi una cultura vera nelle miniere.

Entrò Gervasio. Magro come una spiga di grano, disse anch'egli: « E' morto Culone ». Allora ripresero i commenti. Ognuno aveva da dire la sua e a ognuno Culone aveva fatto del male. Per dodici persone, arrivarono più di trenta litri. La moglie dell'oste cosse un caldaio di pasta fatta in casa, larga un dito, che distribuí su una tavola lunga. La condí e ognuno attinse da quella specie di lungo piatto comune. Galleggianti sul sugo delle pozzanghere formate dalla pasta aromatica, erano le salsicce cotte nel vino e nel pepe. Una sagra di una religiosità pagana é immutata nei secoli. Vaccaròtto uscí. E tornò con un sacco di fave fresche: una primizia. Tutte le mani vi si buttarono sopra, con un atto di libidine. Nell'euforia del vino e del cibo, i canti scomposti e primitivi si levarono a pigiare il soffitto di travi tarlate. A un certo punto, entrò una comitiva di maschi e di femmine in nero. Qualcuno aveva gli occhi rossi e lucidi. Si fece un silenzio insolito. L'oste dette le condoglianze a un certo Tito per la morte della madre. « E' meglio che è morta », gli rispose quegli. « Tanto non capiva più gnente e se cacava tutto a letto... ». Si unirono ai fragore, che aumentò, e dopo un quarto d'ora arrivò la porchetta. Un maialino giovane e tenero fumigava intorno al palo, cosparso di vino e di lauro, pungente di aglio e rosmarino. Aveva un viso arrostito cosí bello e innocente... Ottone, dagli occhietti che ormai non si vedevano più, perché il vapore del suino glieli aveva affumigati, allungò il collo. La mano maestra dell'oste affondò il bisturi nelle carni del porcellino, e Giovenale si ritirò come fosse lui lo squartato. Gervasio liberò i dentoni dal labbro superiore e mi parve un ominide. Il vino non si misurava più. Fuori, il cielo era violaceo. C'erano già le stelle. E non tardò la luna a schiarire i poggi alberati. Gervasio ed io uscimmo, e dietro la prima pianta... Allora sentimmo un mastichìo animalesco: « Anamòrra... Anamòrra... », gorgogliava una donna di mezza età, brutta come l'inferno. Aveva due occhi enormi sbiancati dalla luna, diabolici come quelli di una cagna arrabbiata. Ripeté in maniera violenta quella parola indecifrabile, guardandoci disperatamente. Poi gesticolò con le mani verso il suo sesso. Noi credemmo fosse pazza. « Annamòrra... Ducèto... », grufolò. Ma noi rientrammo nell'osteria, di corsa. Le sue urla ci seguirono come quelle di un lupo mannaro: « Ahù.... ahùmmm... ». Se ne accorse l'oste, che, fattosi sull'uscio, gesticolò e disse qualcosa che non riporto. Restammo sbalorditi, e uno ci spiegò che quella poveraccia era una sordomuta e rimediava da vivere dandosi al meretricio. Tradusse lo strano linguaggio: « All'amore... facciamo all'amore... Duecento lire! ». L'orologio da polso di uno sconosciuto segnava le nove, ormai. I litri continuavano a venire e i visi erano tutti rossi. Qualcuno già dormiva afflosciato sulle pancacce dure e ruvide. Il mio bicchiere era restato pieno. L'oste, anzi, mi guardava di traverso, credendo ch'io non gradissi il suo prodotto. E a un contadino dire che il vino è cattivo, o sol- tanto non berlo, è fare la peggiore offesa, come criticare un autore per le sue poesie.

Misi scusa che non mi sentivo bene. Non ci credette. E tuttavia, mi confidò che aveva la colite a sangue, ma che lui non ci faceva caso: « Se campa tanto poco!... Te ne pigli? Io me ne frego. Le budella protestano? Peggio! Due bicchieri! Cacarella? Quattro! Cacarella? Otto! ». E continuò a fare i doppi... Fu l'ora della chiusura. Qualcuno se ne andò, molti altri rimasero. Giovenale prese a urlare con quanto fiato aveva in corpo, fino a che fu scarico e steccò. Si affievolí allora sul tavolinaccio posto su due bigonce a traverso, e bestemmiò col sibilo che gli era rimasto. Gervasio mostrava solo i dentoni grossi e aguzzi come vanghe. L'aria era irrespirabile. Uscimmo. Lope sorgeva anch'egli da un'altra osteria e si dirigeva a fare a « morra » nei grottoni del palazzo principesco. Lo seguivano la madre e il figlio di quell'altra sera, Stennerello e un amico. Lope sbatteva alle colonne e alle sedie del bar, dentro il quale sette od otto viveurs di provincia, con sigaretta nei bocchini ed aria stanca, come di un altro mondo, s'illudevano di stare a via Veneto. Per la strada, Nerchiafracica s'irrigidí e cadde privo di sensi. Allora il solito trattamento nella fontana, immersa la testa fino al collo. Ciampo ci invitò a casa sua a bere « un'altra goccia ». Andammo l'oste ed io, in più il nonno di un mio alunno. Gli altri ubriachi si erano accodati, compreso Giovenale, a Lope. Ottone e Gervasio scomparvero. Quando entrammo in un vicolo stretto, dalle case medievali, la luna stava a picco. Da una finestrella illuminata e piccola come lo sfiatatoio delle latrine penzolanti sulle logge fiorite, una femmina piagnucolò: « Asdrù... viè su... ». E Asdrubale, che era Ciampo, le rispose maluccio. Salimmo, comunque. La moglie ci aprí, cogli occhi rossi e il tanfo più forte di quello di una fogna. « E' venuto l'ufficiale giudiziario » disse. « Ci ha pignorato tavolino, sedie, credenzone, e poi è sceso a lo tinello a mettere all'asta l'imbuttatore e li bigonzi... », Cominciò a piangere, mentre il marito andava su tutte le furie. Entrammo nell'unica stanza, dove forse solo dei porci si sarebbero trovati a loro agio: dormivano, in tre lettucci, sei monelli. Due per letto, coi piedi dell'uno nel naso dell'altro. Come gli stoccafissi nelle casse. Il più grande si svegliò. Uscí dalle coperte, si avvicinò al padre con la grinta di un cinghiale. « Sempre umbriaco! » urlò, con le mani aite sul viso, a minaccia. « So' affari che non te riguardano! » troncò Ciampo. « Qua lavoro solo io! », replicò il figlio, e si rivolse alla nostra comprensione. La madre urlava con voce strozzata: « Sete boni, sete boni... », mentre gli altri alzavano come leprotti, ad una ad una, le testine affondate nei cuscini sporchi. All'improvviso vagí il più piccolo, dalle mani cicciute come quelle di un bambolotto. Allora il maggiore, afferrato il padre per la giacca, lo trascinò fuori della porta e chiuse a chiave. Le urla divennero un coro scomposto. Quello che dormiva nel letto col più grande (e doveva essere il secondo), alto e peloso ma dal viso bonario e fanciullesco si alzò. Preso il fratello per il collo, gli sferrò calci nella schiena come un somaro imbestialito. I più piccoli piansero. La madre racimolò un calcio anch'ella. Il nonno del mio alunno, ubriaco a non dire, aprí a Ciampo, che entrò come un lupo. Percosse i figli, la moglie... fin quando non lo atterrarono pestandolo di pugni. L'oste si dette autorità e cercò di calmare la lite. A un certo punto, riuscimmo a fermare Ciampo. Si respirò. Ma cominciò la moglie a dare in isterismi. Si alzò

le vesti, se le strappò, urlò parole indecifrabili. Corse alla finestra e i figli la fermarono. Il più grande, perso il controllo, picchiò anche la madre. Allora l'oste non sopportò più la scena. Gli mollò un calcio all'inguine e quello fu tolto di mezzo. Accorsero i vicini. Fu presto una gran folla in casa. Ciampo respingeva tutti come un pazzo e urlava. Le ingiurie continuarono. Si spegnevano e si riaccendevano con una frequenza ritmica mirabile. Le mani si limitarono a gesticolare. Il figlio maggiore era sempre lí a terra, con le mani sull'inguine e la bocca sul pavimento. La madre si conficcava le unghie nella testa e strideva istericamente, batteva i piedi, si straziava le carni. Ciampo, con tutto il vino che aveva in corpo e in testa, era il meno cosciente della situazione. Sotto la finestrella erano ammucchiati i tetti. Su uno luccicava alla luna una antenna di televisione. Un contrasto che rendeva più triste la catapecchia. Dopo tante parole e tanti buoni ammonimenti, uscimmo in fila, come da un teatro a tragedia finita. E ognuno diceva la sua. Quando i vicini si furono rinchiusi nei loro buchi, noi tre (l'oste, il nonno del mio alunno ed io) restammo in un angolo buio per sentire se ricominciassero. Ma tutto sembrò calmo. Anche la finestrella si accecò d'un vuoto che aumentò il chiaro del cielo. Nei vicoli stretti e rintorti, ripidi e silenziosi, le nostre voci echeggiarono come in un'ala arcaica di vita. Verso le stalle, un vecchio di novantanni, senza più fisionomia, attaccava il somaro al carretto. La sua ombra era enorme sulle umide pareti del tinello, e vibrava come la fiamma della candela messa sopra a una botte. « Emilio... » chiamò l'oste. Ed Emilio salutò con la mano, senza parlare. Nella notte, con una luna che riempiva di latte la valle e i colli, quell'asino fermo e il vecchio appartenevano a un'altra era. Anche noi non eravamo più del novecento, ma divenivamo sempre più innocenti come primitivi, beati figli della terra, quando la bestia ed il cielo avevano un'anima insieme con la pianta e la pietra. Un'aria che si perdeva nel buio del tempo, e ci inchiodava come bambini davanti ad un asino fermo al tremore di una candela... E una notte bianca infinita... Su per un altro vicolo, il più buio, risonava il grufolare d'un dormiente che aveva lasciato la finestra aperta. Fuori dei bar c'era più gente del solito, il giorno dopo, anzi quel giorno (suonava la una), era festa. Riposo quindi. L'oste decise di andare ai grottoni del palazzo principesco a trovare Lope e la congrega. Mi era venuto miracolosamente un po' sonno. L'avo del mio alunno disse che aveva la prostatite. Se ne andò traballando, fino a sparire nell'ombra della strada in salita che culmina nel cimitero. Bussammo alla porta di Lope. I vocii si spensero. « Polizia! », esclamò l'oste. « Ce lo sgrulli! », stridè la voce di Giovenale. E presto le porte si aprirono con scricchiolio di ruggine. Riconobbi la Scorfana, nera di peli come una scimmia, dalla puzza di cagna. Giovenale (essendogli tornata la voce), emise un urlo, ma Lope, dal forte tanfo di caprone, gli tappò la bocca e mormorò: « Te venga 'na sincope: te sente la Forza e poi sono impicci ». Mi salutò Trubbiano, enfatico per il gran vino che gli spaccava le vene sul naso e sugli zigomi. Recchia cantava sempre, seduto su un bigoncio, con la bocca sgangherata e gli

occhi incaciati. Zampacorta arbitrava la « morra » con un vocione di grotta, e bestemmiava a ogni pie' sospinto. Trubbiano mi presentò Camillo, un adolescente magro e giallognolo. Questi disse qualcosa timidamente, muovendo su e giù l'aguzzo pomo d'Adamo nel collo esile. « Non gli potresti trovare un posto a 'sto ragazzo? » chiese Trubbiano. « Caro amico, non sono mica un ministro... », risposi ridendo perché adocchiai un essere completamente alcoolizzato, di nome Gufarello. Dal viso rotondo, basso, gli occhi cerchiati oltre l'iride d'un giallo animalesco e i denti cariati, portava in eterno il basco e indossava un impermeabile a forma di campana, che gli toccava le scarpe. Sul naso era pieno di croste. Parlava e poi taceva per fare alcuni rumori... Poi riprendeva la parola e commentava: « Una bocca pe' volta deve da parlare: prima quella de sopra e poi quella de sotto, sennò s'imbrogliano... ». Trubbiano mi prese a braccetto e continuò sottovoce, col vino a fior di lingua: « Camillo l'altro giorno l'ho portato a vangare, ma è svenuto su la vanga. E' orfano de guerra... Sta solo come un cane. Dorme dentro a la stalla de Sbracone insieme a li somari e a li bovi... ». Venne offerto del vino rosso, molto aromatico e irresistibile. A Lope balenò un'idea. Uscimmo, perciò, tutti all'aperto. « Annamo a femmine », brontolò l'oste. E Zampacorta « annaffiò » la strada, a un palmo dalla Scorfana. Giovenale cambiò umore all'improvviso. Sussurrò: « Carta... carta... carta... ». E l'unico che l'aveva ero io: un appunto importante, che sacrificai alla necessità dell'amico. « Non so' fatto a tempo », concluse desolato e smarrito quando tornò. Qualcuno rise, qualcuno ghignò. Giovenale prese a bestemmiare malamente e a minacciare il cielo con gli occhi spalancati e le mani tese. Si allontanò di nuovo, ma quando tornò notammo che le cose si erano messe peggio... Sgattaiolò un'ombra nel fondo del vicolo: Zampacorta afferrò un sasso e glielo scagliò addosso. L'ombra scomparve. Noi ridemmo. Trubbiano disse che era « Settimmio », un donnaiolo. « Sai chi se manna pe' l'ossa? La moglie di... ». «Possibile!», esclamai. «A un uomo cosí intelligente la moglie preferisce Settimio? Settimio non è quello che sta sempre in galera? ». « Si! E puzza de vaccina come un vaccaro ». « E' proprio vero che la femmina non se porta a casa l'asino perché ce rompe le lenzuola... », concluse Trubbiano. Intanto, Lope era venuto con un camion dal cassone coperto. « Annamo tutti a Roma. Domani è festa! », spiegò Trubbiano. Camillo, ora che era uscito alla luna, pareva un cadavere. Anche le pupille erano sbiadite. « Sopra! » comandò Lope. Salimmo sul cassone, come un branco di pecore e di porci. Per sistemarvi la vecchia, ci vollero tre uomini sotto e due sopra, peggio di quando si caricavano i bigonci pieni di uva. La Scorfana invece si arrampicò da sé. « Lo sai che sei 'bbona? », disse Recchia che stava giù a guardare.

« lo so' 'na stella », mormorò lei, carezzando tutti in faccia, con quelle manone ruvide come scorze di albero. Giovenale puzzava quanto una latrina. E ognuno lo allontanava, spingendo e bestemmiando. Ma egli rideva nel fare dispetto. Avanti, con Lope, salí Trubbiano. Eravamo in sedici. Più i due alla guida, diciotto. « Via! » ordinò Lope. Giovenale disse di farlo scendere perché si doveva cambiare. Coperto come un vagone, il camion prese la corsa e noi traballammo gli uni addosso agli altri. Mi capitò sopra la vecchia che mi schiacciò. Tastoni, Ghinaùa, un giovane dalle mani come le rocce e dal naso quasi assente, scoprí un barile nel fondo del cassone. A turno, messo il caucciù alla bocca, ognuno tirava su il vino. Lope frenò bruscamente. E un fragore di parolacce echeggiò nelle orecchie. Tutti si ammucchiarono. Recchia, che stava bevendo, tossi sputando vino dai naso. Giovenale scese. Salutò urlando e facendo gesti osceni, ai quali fu risposto con altri canti, fino a che da una finestra volò un vaso da notte pieno... Giovenale perse il senno, afferrò l'oggetto e lo ritirò al proprietario, ma sbagliò bersaglio e finí contro i vetri della finestra del piano inferiore. Mentre lanciava il coso, urlava: « Stanotte m'hanno pigliato per un cacatore... ». Al rumore di vetri infranti Giovenale se la dette a gambe e noi sentimmo delle voci rauche di sonno uscire da quel palazzo. Fra le risa convulse, ripartimmo cantando: «Noi vogliamo le mulatte dal color del caffelatte purché siano ben fatte... »

Gufarello, in un angolo, senza espressione, come un ebete, si toglieva le croste dal naso e le mangiava. Trubbiano pregò tutti di tacere, perché lungo l'Appia avremmo incontrato la polizia stradale. Chiuse anche l'entrata del cassone con il copertone scuro. Scendemmo all'aria solo a Roma, quando fummo cioè nella penombra dei lecci e dei pini alla Passeggiata Archeologica. Solo quattro « nobildonne » passeggiavano. Trubbiano andò a contrattare. La vecchia disse al figlio: « Daglie sotto bello de mamma! » e la Scorfana litigava con l'amante: « Se tu ce vai, te scanno! ». Quella sera non sarei andato neanche con Nannarella, che pure era fresca come un fiore. Figuriamoci se potevo mettermi in fila, per cogliere un petalo vizzo e strapazzato. Al momento opportuno, tentai di svignarmela verso l'Appia Antica. Le quattro « dame » avevano accettato. Vollero i soldi in anticipo. E da ragioniere fece Trubbiano. Le ombre si persero sulle rovine romane. M'allontanai verso le rotaie del tram. D'un tratto, come in una allucinazione, udii canti religiosi. E vidi una processione di pellegrini diretti alla Madonna del Divino Amore. Scalzi. Credetti che fosse la stanchezza a farmi vaneggiare. Portavano le candele accese i pellegrini. E cantavano. Erano passati pure vicini al camion. Una forza maggiore mi trascinò dietro a loro. C'era una Croce nera, alta su tutti, nella notte... Una Croce che s'ingrandiva ai miei occhi, mentre cantavo anch'io, pellegrino calzato, ma triste. Tornai che la Scorfana stava picchiandosi con la sgualdrina con la quale era stato il suo amante. Poi, per dispetto, chiamò Gufarello. L'amante di lei scrollò le spalle e disse: « C h i se ne frega..,». Quindi afferrò la mano ad un'altra peripatetica e, per ripicca, andò con lei

sui ruderi. La notte di baldoria, che pareva interminabile, fini all'improvviso: all'apparire del « carrozzone » della polizia. Non albeggiava ancora. Sul camion eravamo tutti un po' abbacchiati. Solo Gufarello aveva preso a fare il verso della pecora, e non la smetteva più. Alla fine, Zampacorta, con una manata, pesante come una tavola, dietro il collo, lo ridusse al silenzio. Ma lui si toglieva sempre le croste dal naso... Scorfana ed amante se ne dicevano di tutti i colori... Rincasai che era il crepuscolo. Il cielo aveva un celeste morbido ad oriente, sulle colline. Venere brillava come una pietra preziosa. Mi rigirai nel letto... e già partivano i contadini sui carretti che martellavano il selciato. I cani, legati sotto l'arco delle ruote enormi, abbaiavano all'alba non lontana. E i vignaioli vociferavano tra loro, mentre il gallo insonne cantava. Capii ben presto che era un'altra notte da trascorrere sveglio. Ormai, ci ero abituato. Qualcuno per la strada chiamava forte il vicino di vigna. Anche quel giorno sarebbe uscito il sole. Mi venne freddo. Andai in cucina a scaldarmi il caffelatte. Spesso, ho paragonato l'eternità all'insonnia, e in quel caso la morte non mi spiaceva. La stanza si schiarí man mano. Saliva il giorno. Il pigiama era caldo e pesante. Rigavo i vetri appannati e mi divertivo a posare lo sguardo sulle colonne bianche della strada. Di momento in momento aspettiamo la morte, come il rospo che, fermo in una buca strettissima, dalle pareti lisce di sapone, guarda inorridito e impotente la pietra che prima o poi rotolerà giù per schiacciarlo. E quell'angoscia di fronte all'inesorabilità di un tragico futuro gli vieta di godere almeno del presente. Allora, meglio non aspettare la pietra e decidere a mente fredda l'ora della fine. Non si sa bene se è più coraggioso chi sopporta le angherie della vita per paura della morte, o chi si sottrae al sadismo dell'esistenza divenendo arbitro del momento fatale. La nascita fa un vivo; la morte un uomo. Chi sigilla col sacrificio della vita un ideale, entra nel quasi disabitato regno degli uomini. Recchia aveva cantato alcuni stornelli, sul camion: « Fior de cucuzza, Luigina mo' che campa è sempre zozza, e doppo, quanno è morta, è zozza e puzza... » « Fior d'ogni fiore, er polso batte finché c'è l'amore, quanno non batte più vordí che mòre... » « Fior de lattuga co' 'na fregata nasci e una mòri, nasci da un bugo e vai drento 'na buga... » « Fior de rughetta, perché ce vieni al mondo non lo sai, ma c'è sempre la morte che t'aspetta... »

E cantava questi stornelli fra mille risate, in una carnevalesca puzza di vino... Nacque il sole. Batté sulle pupille che quella notte, come tante altre, non si erano chiuse neppure un secondo.

Quando scesi, tirava il venticello fresco del primo mattino. Già alle chiese si affollavano vecchiette in scialle nero; una giornata piena di tristezza cominciava. Presi un altro caffelatte al bar. Si parlava di sport e di politica, ridotta in termini di pettegolezzo paesano. Cicerone apriva l'osteria anzitempo. Mi intrattenni con lui. E il sole fu alto nel cielo. L'oste offri da bere, ma l'ora mi impedí di essere un buon ospite. Lungo il corso cominciò la processione eterna e medievale di gente pulita e vestita a nuovo, che va su e giù come il flusso e riflusso d'una marea. Quello è il divertimento della festa. Avanti e indietro. Poi, alla una tutto cessa. Per ricominciare alle tre; e via, fino alla mezzanotte. Cento, duecento volte, si battono su e giù i selci del corso. In quei cinquecento metri di strada (il budello dell'Appia), vengono seminate e disperse tutte le velleità. Ancora una notte per me (lunga strana interminabile notte, o forse ancora crepuscolo serale), avevo sezionato il tempo e fatto tutt'uno con le sue lische, con le sue spine, ora che avevo scoperto la sua sostanza composta di sipari di sonno. Sipari che scandiscono gli attimi in cui il tempo recita, ora maligno ora allegro, ma pur sempre veloce e inafferrabile. Salii verso xy, pian piano, fuggendo gli sguardi dei perdigiorno. « Ohé, salute... », ti dicono prendendoti sottobraccio. Allora si rigirano per il tuo verso, ti accompagnano, parlano di Tizio che si è fatto la macchina mangiando pane e sputo, di Caio che campa sulla moglie e... poi cominciano a parlare del pugilato e della ruota, ti dicono che la squadra del cuore vincerà lo scudetto, che Mara Trafili canta come un usignolo, che pure loro scrivono canzoni... E, quando te li sei tolti di torno con maggior fatica che se avessi dovuto ammazzare un toro, eccone altri, peggiori di loro: « Ahò, moretto... Stai proprio brutto de viso. Ho letto l'Iliade. E' bellina... ma oggi non vanno più quelle cose... sai, io pure vorrei pubblicare... I miei versi sono più attuali di quelli di Omero... Sai, la storia... sai, l'esperienza insegna: esperientia dòcette... E poi, l'importante è seguire la strada tracciata dalla grande innovazione operata dai genio degli scrittori all'avanguardia come Merdàvia... ». Alla fine ti recitano come litanie i loro versi, con la bocca vicino all'orecchia, come ti confidassero un segreto. Ti dicono: « Bella eh? Hai visto che profondità... non ci capisce niente nessuno perché io mi ispiro ai grandi poeti contemporanei. Essi scrivono complicato perché sono dei grandi cervelli e poi... diciamolo tra noi che siamo adulti e battezzati: se oggi ti fai capire, ti pigliano subito per stupido e sei bell'e fritto. Invece, se ti esprimi ingarbugliato, la gente, per paura di scoprirsi ignorante, dice bene e meglio... ». Quando poi, per miracolo, sei riuscito a prendere la fuga, incontri la conoscente che ti fa una testa come un pallone elencandoti le virtù del figlio, il quale è più intelligente di Leonardo, più buono di un santo, più bravo di tutti... A xy, visto che stava preparandosi brutto tempo, salii al camposanto, il cielo gocciolò. Riparai nella cappellina. Solo, finalmente solo, in mezzo ai morti, meravigliosamente silenziosi. La solitudine è privilegio di pochi, forse di chi non la cerca. Più tardi, la pioggia scese a fiumi, il cielo, che si era inaspettatamente fatto buio, tuonò e lanciò fulmini. I vasi di fiori delle tombe erano sbattuti via, contro le immagini dei morti, quasi a schiaffeggiarli pure ora che non c'erano più. Di fronte alla porta, di faccia a me, una lapide biancheggiava come una lama. Il vento rovesciò un barattolo di latta, che la infangò tutta. E mi parve che il viso ritratto allargasse le orbite, drizzasse i capelli e torcesse la bocca. Si muoveva ogni

cosa, là. Le catenelle strisciavano con rumore allegramente funebre sulle pietre. Quasi un coro di morti. « Morimmo... Non siamo più... Niente più vino... né letto, né carne... la carne..., Niente cielo, niente sole...». Ma io, in fondo, chi ero, se non uno di loro in potenza? E tutta quella gente semimorta incontrata per il corso? E quelli che non vedevo perché vivono al di là dei monti, oltre il mare? Era quello l'unico cimitero del mondo? In basso, lontano, al termine della pianura livida, serpeggiavano luci azzurre. La cappella puzzava di cera e di putredine. Anche la giacca bagnata puzzava di putredine. Le osterie colme di alcoolizzati, allora... i rantoli di una pazza libidine... un sole di acciaio che non c'era... e gli urli ancora vivi d'una madre per la figlia tritata dalle ruote, là nella Cappella... Corone di fiori e un ghigno di non so chi, sulle travi, in alto. Fu come notte. Un tuono mi fece vibrare con le luci che si spensero. Una sola candela rimase, a tremare con me, coi cipressi folti e acri, dalle lunghe creste attorcigliate, eterni custodi di un giardino fatto di niente... Non spiovve. Ad uno ad uno, ogni paese, ogni città riversano i loro cittadini in questi luoghi. E gli uomini si sterminano. E il cielo fulmina. Avevo bisogno di annullarmi, di aderire a una fanciulla calda e spensierata... La chiamai, volato in paese fra il bagliore dei lampi, il boato dei tuoni e il diluvio. Più tardi, due corpi scomposti e separati, peggio che morti... mentre tuonava ancora. Ognuno con la condanna della vita e della morte, guardavamo le nostre pupille, che si andavano lentamente ricomponendo, i lunghissimi capelli le scurivano il volto, quei capelli che si sparpaglieranno nella terra quando la carne non sarà più... Avevo un nodo alla gola che mi fece urlare come un pazzo. Ma allora ero già un altro. Allora, mi si inchiodò la morte nell'anima in tutta la sua entità. E niente può descriverla, se non un urlo e un serrare di denti, attaccate le unghie a qualcosa di vivo, fosse anche un cane o un verme... Pare che un'onda ti sbatta sulla scogliera. Mentre ti aggrappi con la disperazione alle dita, la nuova onda rugge per venire. Avrei preferito allora una marcia funebre, un bruciare di incenso su di noi, sui nostri corpi sfibrati dal ghigno del genio della specie. Ma sopra di noi c'era un soffitto rosato, e più ancora il cielo torbido, più ancora il sole che non si vedeva, più oltre, più ancora... chissà... Miagolarono i gatti nel giardino, il temporale andava diminuendo. Forse anche i gatti lamentavano la loro sorte, finito un attimo che chiamano amore... Due gatti mendicavano, col viso in alto e gli occhi e la voce umani. Come noi, come tutto, disperazione! Il sonno, fratello di Dio, venne a farmi visita, impietosito. E protesse due ore di amnistia. Solo allora finiva una notte per me...

IL SUICIDIO Fu la voce degli amici a destarmi. Li trovai nella stanza, pettinati, freschi di riposo, odorosi di colonia. Per quanto volessi loro bene, non trattenni un'imprecazione. Ormai, chissà quando lo avrei più incontrato il sonno, questo essere più avaro di una fanciulla che sapendosi corteggiata fugge... Il cielo era tornato sereno, d'improvviso, lo l'avevo lasciato che era cupo come d'inverno. Avevo fatto dei brutti sogni, che a mano a mano ricordai, lungo la strada; fino a che fummo da « Gecche Sfregiato ». Trubbiano & Company già erano pieni di vino.

Stavano alla terza « passatella ». Alla quarta mi fecero « olmo ». Per fortuna. Poi, Giovenale fu capo. E per dispetto mi ordinò di bere. Ma preferii pagare i tre litri in ballo e lasciai a lui il piacere che per me sarebbe stato un aggravio. Recchia raccontò che una sera fece « olmo » venti persone, bevendo lui solo tutto il vino. Rimase sulla sedia, inebetito. Ma aveva vinto, e la moglie lo lodò a lungo nelle vigne, al tempo della spuntatura. Giovenale mi disse all'orecchio che Sfreggiato aveva il vino più buono di tutti. Era questi un uomo sordo, vecchio, largo e basso. Gli occhi volpini su un viso da gangster, aveva meritato il titolo di sfregiato grazie ad una cicatrice profonda un dito che gli partiva da sotto l'occhio destro, gli traversava il naso spaccandoglielo in due, scendeva sulle labbra che mostravano i denti e poi finiva, con una languida sfumatura, nella parte sinistra del mento. « E' stata una coltellata del fratello », mi spiegarono. « Risale a dieci anni fa. Gecche stava per bucargli la pappagorgia, quando il serramanico gli si chiuse e il fratello ebbe la meglio ». Tutta questa lite a sangue era accaduta per circa mezzo metro quadrato di terra, giù, alla vigna. Quel pomeriggio le ore fluirono, lente, monotone, fra una risata e l'altra, nella lunga cantina di Gecche. Fuori passavano fanciulle nella loro primavera. Beato Giovenale che ha sposato la botte di vino, e le è sposo fedele. Anche la moglie non lo tradisce mai, ed è sempre pronta, ad ogni richiamo. Egli ignora i mali dell'amore... Pure Gufarello non ha di questi problemi. Bastano a lui le croste del suo naso e un bicchiere di vino. Ma uno di quelli che era nella cricca con noi aveva fatto molti anni di galera per aver ammazzato l'amante della moglie. Senza, per altro, aver risolto nulla. Perché la moglie se ne fece uno nuovo, poi un altro, poi due assieme, poi tre... E quando il violento tradito uscí da Regina Coeli, senza fatica si trovò una serie di figli. Ed ora? Ora convivono, come nulla fosse accaduto. Ella è sempre, anche vecchia, una donna generosa per gli altrui mariti e lascia qualcosa anche al suo, quando non lo ammazza di botte come una matrigna. Il signor x, sempre della congrega, aveva fecondato la cognata, sorella della sposa. E le teneva entrambe in casa e a letto. Strano, ma vero: e loro andavano bene d'accordo come in un hàrem. Dai baffi neri nonostante l'età, la sua trippa schizzava fuori dal panciotto, prepotente, come avesse un cervello e un cuore di leone fra le budella. Saliva a cavallo, ancora, e conduceva una vetta di buoi senza stancarsi. E ogni sera, il suo fegato filtrava oltre due litri di vino e il suo grasso intestino digeriva gatti e lepri, in una nostalgia dei tempi giovanili, quando andava a caccia nei cespugli marini, allora disabitati e selvaggi. Aveva un figlione grasso, matto per giunta. E da lui aveva avuto parecchie sberle e diversi calci al sedere. Ma era matto... Alla nona passatella, fu fatto « olmo » Giovenale. Allora si illividí, perché era « capo » Grugnito, il fratellastro di Gufarello, suo nemico personale. Disgrazia volle che Grugnito fosse confermato « capo » per altre quattro passatelle, e Giovenale dovesse subire l'onta di pagare senza bere. Ma poiché le ruote della fortuna girano, egli ebbe a rifarsi. E Grugnito restò all'asciutto. Quindi, la conta venne a Trubbiano. E, dietro pressione di Giovenale, egli e il suo « sotto » fecero « olmo » ancora Grugnito. Ma questi, non

accettando l'intromissione dell'estraneo, sbraitò. Gli animi accesi dal vino alimentarono la lite e divisero i presenti in due fazioni. Chi diceva si e chi no. Ma molti furono dalla parte di Grugnito. A un certo punto, uscí dalla tasca di uno un coltello lucente. E i bicchieri volarono col vino che pioveva su di noi. « I Garbigneri! », gridarono. Ma si accorsero della finzione e fecero peggio. Sfreggiato urlò, sordo com'era, e si mise a proteggere la botte col coltello in mano. « Chi s'avvicina, è sventrato! », sbraitava. Giovenale era pallido, col suo faccione da luna piena. Ed era sbiancata pure la cotica, pelato com'era, quasi una palla d'avorio. Ma quella sera fu Trubbiano a calmare la situazione. Con grandi urla fu creato giudice imparziale, poiché era « una persona istruita ». Ordinò che Giovenale pagasse una passatella, perché quella non era stata regolare. Grugnito fu soddisfatto. Il mio amico annui, a malincuore, sotto le nostre occhiate e le nostre pressioni. Gecche, col viso di un galerante, aguzzava lo sguardo e cercava di capire, sordo com'era. Tuttavia la calma, col vino che scivolava nelle budella, sarebbe durata poco, se la fortuna non ci avesse assistiti. Entrarono due preti e si sedettero con noi. Allora fummo più tranquilli. Arrivarono le braciole di maiale. Il pecorino con la lacrima. Le fave. I finocchi, i piselli. Il pane profumato. E la solita porchetta, splendida, superlativa, ineffabile. Guardavo tutte quelle cose, spizzicando come un uccello, mentre Gervasio, nonostante il suo scarso appetito, divorava pure le bucce e asciugava i bicchieri. Ma presto fu sera e il cibo finí. I tonacati sazi se ne andarono. E Grugnito storse gli occhi ubriachi e melmosi. Giovenale pure non si tenne più, avvinazzato come mai prima. L'atmosfera si tese di nuovo e peggio. Le panche scottavano. Grugnito e lui si guardarono in cagnesco. Poi, il primo scoppiò: « A me non me ha fregato mai nessuno! ». Ma Trubbiano perse le staffe e urlò: « Basta! ». Sbatté il pugno sul tavolo e si alzò. « Ormai, giustizia è fatta. Giovenale ha pagato e sta a posto! ». « E' giusto! Ha ragione! E' cosí! », commentarono tutti. E Gecche s'era messo di nuovo il coltello in mano e parava la botte cogli occhi lucidi fuori delle orbite. Grugnito guardò male tutti. Ma non gli demmo peso. Sicché, restò a stridere e a friggere da solo. A un certo momento, Giovenale iniziò le sue urla sgangherate e disumane. Ognuno cantava per conto suo. Pure a me venne voglia di cantare. Gufarello fu fatto salire sul lungo tavolo, formato di una palanca spessa, e ballò al ritmo delle nostre mani. Piccolo ed ebete qual era, non vidi mai comico simile. Trubbiano, sbronzo per la prima volta nella sua lunga carriera, cadde addosso ad una bigoncia che faceva da pilastro, sicché rovinò a terra anche la palanca, con tutti i bicchieri, i litri, le bucce e Gufarello. Il quale sbatté la fronte sul selciato della cantina, e ci rimase. Ma erano tutti ubriachi: non lo notarono. Io vidi una chiazza di sangue allargarsi. « Fermi, Gufarello è morto! », cominciai a urlare. E, tiratolo su, constatammo che non si reggeva. Rivoltò la sclerotica al cielo, anzi al soffitto di peperino, e si abbandonò. Noi tutti credemmo che fosse andato nel mondo dei più. Ma, all'improvviso, aprí la bocca e chiamò piagnucolante mamma. Allora ridemmo alleggeriti. Gecche riempí il litro e glielo versò sulla ferita, il prurito dell'alcool lo fece strillare. Grugnito era livido. In un angolo, covava la sua vendetta. A Gufarello Gervasio chiuse la ferita col fazzoletto. Ma il sangue non si stagnò subito. Gecche stava sempre davanti al rubinetto della botte, col viso da cane da guardia,

il coltello in mano e la cicatrice chiara come una medaglia al valore. Entrò Tortore. « Ragazzi, non fate cagnara », borbottò. Poi disse: « Hanno portato all'ospedale Lope perché è rimasto steso intesito: ha bevuto cinquantadue bicchieri de vino da un quarto l'uno e s'è scofonato due chili de porchetta. Sta attaccato alle corde co' li piedi e vommita e puzza come un cacatore... ». Difatti, Lope non era con noi. il povero Lope, dopo quella bravata di gola, per tre anni ha bestemmiato per il mal di fegato e la colite. Passava davanti alle osterie e rifiutava tutti gli inviti. Poi, alla fine, proprio all'ultima, veniva come risucchiato da un motore di reattore o attratto dalla calamita gigante del vino, ed entrava. Ne beveva uno, due, tre... Poi, andava a casa a picchiare la moglie, ché lo faceva mangiare pesante. Una sera, la sposa non la trovò. Pensò che si fosse gettata dal ponte. Invece la trovò in mezzo alla prima arcata, nel cunicolo che fa da traliccio per le riparazioni. Con lei era Trubbiano. E vi fu una rissa a sangue, in bilico a mezzo ponte, a quaranta metri di altezza. Come nei film. Ma alla fine i due, dopo essersi pestati, andarono all'osteria e fecero pace. « Ndell'urtimo », sentenziò Lope, « a zoccola è essa, tu che c'entri? lo pure me so' mannato pe' l'ossa tu' moglie l'anno scorso. Stamo pace ». Ma la sposina infedele di Lope stette col ghiaccio in testa una settimana per le carezze del marito, e la dolce metà di Trubbiano sostenne una quindicina di rounds col suo sposo inferocito come un toro. Alla fine, visto che le forze erano bilanciate, moglie e marito si misero d'accordo. E Lope e Trubbiano sono tutt'ora amici. Ognuno mangia la cacciagione dell'altro e beve vino scambievole. Uscivamo alle stelle. Sulla piazza, attorniata da cento bulli, una pupa in visone e cappellino nero elargiva grazie al popolo degli spasimanti, Giovenale, appena fu al suo cospetto, liberò un rumore porcino e tirò avanti tranquillo. Gufarello barcollava e Grugnito borbottava malamente... Stanco di stare con loro, al primo vicolo buio me la squagliai. A passo rapido traversai la piazza, imboccai il ponte. Pochi ubriachi smaltivano la sbornia, affacciati al buio della lunga valle. Andavo quasi soprappensiero. I lampioni, che cadevano verso est, sulle chiome del parco, lasciavano in vaga penombra la sponda che guarda il mare. Sentii delle urla: « Fermo, che fai, fermo... ». E fu istintivo affacciarmi, scrutare qua e là, alla meglio. Vidi il pettino di una camicia volare giù. E niente altro. Corsi a metà strada. E tutti andarono là. Un uomo, certo Chiruò, bianco e sudato, tremava dicendo: « Non ce l'ho fatta... Non ce sono riuscito... ». E un vecchio alcoolizzato: « Era mezz'ora che faceva su e giù pe' lo ponte... lo me credevo che s'era scolato mezzo caratello de vino... E invece s'è fionnato de sotto... ». Un altro, cieco ad un occhio, coi peli irti fuori della maglietta, acido di sudore, borbottò: « Io tengo tanti affari miei da pensa, che me frega dell'altri... ». Ma non ascoltai più oltre. Scesi di corsa sotto il ponte, con la trepidazione di chi si appresta a vedere uno spettacolo raccapricciante. Passai la voce scivolando tra la folla sulla piazza. Altri mi seguirono, molti ebbero paura. Altri ancora indifferenza. Arrivai trafelato sotto i primi archi. E c'erano le nuvole. Non ci si vedeva. Mandai una rapida occhiata al lungo ponte e mi percorse un brivido, come l'avessi fatto io il volo. Dietro di noi urlava la

camionetta. E presto le torce elettriche piombarono sul morto. Scomposto, fermo sul calcinaccio. Chi può essere, chi può essere... ripetevo dentro, col cuore alle tempie. La polizia faceva già largo intorno alla salma. E quelli che pigiavano erano respinti fin sulla strada. Mi valsi della tessera del giornale per restare a immalinconirmi di fronte a quello spettacolo. Era caduto bocconi, come uno scadente nuotatore che si tuffa e sbatte la pancia. Una gamba era lunga, una era corta; le mani erano gonfie e sembravano galleggiare sull'acqua. Scattata una foto, lo girarono. Nei mille pensieri che turbinavano in mente, e nel terrore di scoprire un volto a me caro o conosciuto, mi avvicinai troppo. Nessuno fu mai cosí brutto e mostruoso. Si era fermato in una espressione di dolore e di pentimento, cogli occhi sbarrati sul vuoto e la bocca enorme. Da quel viso sfracellato non usciva che sangue. E la staticità dell'orrore mi infilzava come ferro rovente. Una forza maggiore, forse un sadismo ignoto della natura e del destino, mi irrigidí a guardarlo. Non aveva nulla in tasca. I giornali, all'alba, a caratteri cubitali scrissero che era sconosciuto. Chissà come sarà stato il suo ultimo viaggio... I giornali, ridotta prima la notizia a mezza colonna, lasciarono poi il posto ad altri suicidi, ad altri omicidi, pieno com'è il mondo di dolori e insaziabile com'è l'uomo di placare il suo travaglio nel dolore altrui... Il mattino, la sponda est del ponte pullulava di gente curiosa e nuova. Ripercorrevano col pensiero il volo, rivivevano gli ultimi momenti. Ma il morto era lui, del quale, a sera, già non si parlava più. La marea di gente si era via via perduta, incalzata dal tempo e dalla vita che non lascia tregua. Non c'è spazio pei morti nel cuore dell'uomo. Sa che anch'egli morirà: sa che egli pure, nel cuore di chi resta, non avrà posto.

QUALE DIO E' PIÙ SUBLIME DI CRISTO-UOMO? Fu Natale. Lo festeggiai dormendo sette ore. E, quando fui desto, restai fermo a guardare il pulviscolo della stanza, in una fascia di sole gialla e viola, muoversi come un faro di lucciole. Un Natale a cielo limpido. Come sempre qui. Salii al bosco, sulla brina delle morte foglie, sotto i rami scarni affondati nell'azzurro. E un freddo ghiaccio entrava nelle narici fino alla fronte, gelandola. Dalla bocca uscivano a folate nuvole di fumo, come da quella dell'asino che traina il carretto in salita. Tutte luci inutili in quell'alba cosí importante. Verso i monti, sulle mulattiere bagnate e nere, salivano i muli bastardi. Uno era zoppo e veniva frustato più di tutti. Mi allungai su una panchina, a vista del lago di turchese. L'orizzonte si aprí e si slargò. Quasi duemila anni fa, in una grotta, senza Re Magi e senza adorazione di pastori, senza musica né Angeli, forse senza né asino né bue, nasceva Gesù. E nessuna stella annunciava al mondo tanta nascita. Perché il Miracolo sbocciava con Lui. Sorridi pure, o tempo, ma la clessidra tua è l'Uomo che nacque e non morí. Cercai un ulivo per illudermi di trovare sulle foglie il riflesso di due occhi che pregarono nella notte dei secoli, mentre l'ombra della Croce si allargava sulle sue spalle come proiettata dalla luna.

'O RICACCIO (1) Nemmeno tornai a xy che mi andò l'occhio ad un manifesto funebre. « Questa notte è deceduto improvvisamente Camillo M... Gli amici ne danno il triste annuncio. La salma sarà trasportata da via... alle ore 15 del giorno... Si ringraziano tutti coloro che vorranno partecipare alle onoranze funebri per rendere l'estremo saluto all'estinto... ». Mi andò subito l'idea al ragazzo pallido di qualche aprile avanti, che mi era stato presentato da Trubbiano. Uno, in piazza, disse: « Abbitava drento a la stalla co' li sumari e ci ha dato un carcio in petto un sumare e l'ha ammazzato ». Allora, un vecchio si credette meglio informato ed esclamò: « Ah! Lo conosco pure io. E' morto de tibbiccí... ». Poi, tutti dissero di saperne qualcosa. Ma il popolo ha la fantasia fertile. Mi avviai verso la porta bassa di xy. Una catapecchia aveva ospitato la bara. Vibrava un sole idiota su di noi, privo anch'esso di vita e di calore... I tetti digradavano come scalini e le lambrette e gli asini salivano ormai dalla valle incalzati dal vento. La cassa era ancora scoperta. Riconobbi Camillo, pallido quasi come quella sera. E ricordai che mi aveva chiesto un lavoro... Un lavoro. Le sue parole echeggiavano in me sempre più forti e ossessive. Mi assali il rimorso di non avere tentato nulla. Una sera, verso novembre, mi ero ricordato di lui guardando i cenci di un alunno tremante di freddo. E avevo pensato di scendere a cercarlo per parlargli. Ma poi mi era uscito di mente, rapiti sempre come siamo dal nulla e dalla lotta per l'esistenza. Il suo viso di ghiaccio, ormai ridotto a pelle bianca ed ossa, col vetro stranamente espressivo degli occhi, pareva rimproverarmi. Era morto nell'atto di tossire, tanto la gola e il collo e gli occhi e le narici erano ancora convulsi e tesi. Stavano zitti e cupi Trubbiano, Nerchiafracica, Recchia, Gufarello e Grugnito. Dalle finestrelle, gli acquitrini della valle davano un senso di freddo. Ma Camillo non li vedeva più. Gli amici avevano fatto l'obolo. E pure Gufarello, cogli occhi spenti e gialli come un gatto, che stava lí e pareva ridere come si fosse trattato di uno scherzo e di una festa, aveva versato qualcosa, per una corona sola, per un posto sotterra, all'addiaccio. Avevano scavato una buca al camposanto e vi era piovuto dentro. Si asciugherà alla meno peggio. Vuol dire che Camillo, abituato alla stalla e alla vanga, ai pantani delle vigne umide, non vi farà caso. Stava in camicia nella cassa, e con i pantaloni rattoppati. Trubbiano mormorò: « Poro Camillo... Ce volevo bene come un figlio... Me rincresce proprio de fa' 'sto ricaccio... », e gli si inumidirono gli occhi. Gufarello aveva una piega sulle labbra che non sapevi se rideva o piangeva. Forse, non faceva nessuna delle due cose, racchiuso tutto in un metro d'impermeabile e in un baschetto unto. Poi si sentí una gran puzza. Recchia suonò la solita manata all'alcoolizzato dicendo: « Ma pure quando c'è er morto! Non te vergogni pe' gnente... ». Ma Grugnito, sempre bilioso e scuro in viso, borbottò: « E' stato Camillo. Non lo sai che i morti scureggiano? ». Chiusero la bara. Un legno ruvido e sottile, il tac tac secco del martello ghiacciò l'atmosfera. Pareva che li piantassero sul cranio del morto i chiodi. « L'altro giorno m'è cascato sulla vanga... Trovaje un posto... Poro monellaccio, né patre né matre... Ci ha dato un carcio in petto un sumare... E' morto de tibbiccí... » rintronava nella mia mente. « E' fatto », disse il falegname, un vecchietto che puzzava di vino a distanza.

Ci guardammo tutti con una rapida intesa. A spalla, una piccola corona di pochi fiori, una striscia nera dorata agli orli: « Gli amici ». E basta. Uscimmo al sole. Eravamo si e no dieci. A noi, più su, si aggiunse la Scorfana. Entrammo in chiesa, il prete non c'era. Cerca il prete, cerca il prete, alla fine eccolo. « De profundis clamavi... A porta inferi... ». in quel punto, nell'aria che pareva uno scherzo, si levò l'incenso bruciato. Terminata la funzione, dato che l'anima ormai stava a posto, portammo fino al camposanto il prete, un po' seccato di doversela fare a piedi. Povero Camillo, nessuno pregherà per te, nessuno farà celebrare messe in tuo suffragio. Tu, vissuto e morto senza una lira, trasportato a putrefarti con le elemosine degli amici, sarà difficile che entrerai in Cielo. Prima di te ci sta l'industriale, che ha lasciato per le messe di suffragio non so quanti spiccioli. Poi c'è Culone al quale i figli hanno eretto una tomba dove i vermi non entrano e la putredine può stagnare, senza dissolversi. Ancora prima di te c'è il commerciante, che ebbe il funerale di lusso. Alla fine (ma dopo ancora mille altri) verrai tu. E allora ti accorgerai che il Paradiso è pieno. E per te non ci sarà posto. Ché i poveri hanno sulle spalle un marchio peggiore del reato. Speriamo, invece, che Gesù il povero ti accolga col sorriso buono di chi ama i sofferenti e, donandoti un vestito quale non hai avuto mai, ti indichi un letto di paglia mutata in velluto. Caro gracile amico... Fosse vero che un'altra vita si aprisse per te e per noi tutti, dove potessimo, ancora caldi di carne, guardare almeno i volti cari dei quali ci privò la morte... Troppo crudele è il destino dell'eterno addio... Raccontò Trubbiano, lungo la salita di via degli Olmi, che una sera Camillo era andato, per la fame, a rubare una pagnotta di pane al forno. E presolo il padrone, lo schiaffeggiò. Poi, tutta la popolazione puní con le botte il « ladro ». E Camillo cadde svenuto in un angolo come un cane morto. Aveva avuto anche una relazione tenera, il giovane bianco ed esangue. Occhieggiava a una pupa su un balcone, fiorente allora come un rametto di mandorlo. Lei, nella rosea atmosfera del suo sbocciare all'amore, vergine nel cuore, arrossí. Dal balcone, odoroso di basilico, alla strada che Camillo percorreva, si intessé una tela di sorrisi e di mutue intese, di simpatie adolescenti e vaghe. Ma la mamma di Lilletta, che per la figliola sognava un avvenire migliore del suo di contadina, aveva messo gli occhi su un compaesano, un bullo di vent'anni, cascante di grasso e di vizietti plebei. E Camillo fu causa di dolore per Lilletta. Ogni occhiata a lui, costava a lei una sberla della madre, una del padre, una del fratello. Finché pure il giovane ebbe a pagare caro quel suo ardimento non concesso ai poveri. Lo zio della fanciulla non lo chiamò più a vangare alla sua vigna, lo minacciò e, senza aspettare il pretesto, passò all'atto pratico. Ma quella sera Camillo, non ancora stremato dal male, reagí bene. La notte, poi, quello stesso l'attese fuori della stalla col fratello (il padre di lei), e lo massacrarono. Ora, tutte queste botte, Camillo se le portava con sé, chiuse nella cassa che scendeva sotterra. Noi tenevamo per la corda la bara. E, quando lasciammo, Gufarello volò nella fossa urlando. S'era impigliato un piede alla fune, e il peso della cassa lo aveva trascinato con sé. A vedere quegli occhi ebeti smarriti, per la prima volta espressivi in quella reazione di paura, scoppiammo a ridere. Egli si dimenava urlando. Era violaceo. E, se non fosse stato per Grugnito, noi lo avremmo lasciato lí, a far da Rigoletto al nostro malumore. Salito su, vomitò dal panico. E

si strinse ai fratello come un ragazzino alla madre la notte della Befana. Era pallido il cielo. Anche l'ultimo lembo di azzurro sui monti diveniva bianco. Una ventata alzò la polvere. Fu il via che la natura dette al becchino. Poche palate di terra seppellirono Camillo, mentre Gufarello tremava ancora, cogli occhi enormi come avesse visto il diavolo nella fossa. La nostra mesta compagnia scese al paese. Trubbiano aprí il tinello: il giorno appresso un altro manifesto funebre avrebbe coperto quello di Camillo e la notte stessa gli asini dimentichi avrebbero dormito tranquilli insieme con le vacche ed i buoi. E Lilletta? Oh, Lilletta si era accorta presto del pericolo che aveva corso nell'invaghirsi di un povero. E, figliola ubbidiente, non contrariò la madre. Sotto la casa era ferma una sprint rossa... Sedemmo sui bigonci arrotolati in terra alla rinfusa. Dicemmo qualcosa. Qualche risata pure sfuggí, e la Scorfana si attaccò con le labbra al rubinetto. Grugnito era sempre nero di rabbia contro un ignoto nemico che anch'egli cercava. Gufarello, scacciata la paura con un bicchiere colmo, tornò a sorridere senza espressione in un angolo, colle lampade degli occhi spente, e riprese, come sempre, a mangiarsi le croste del naso, che non finivano mai. Qualcosa si aggiunse alla tristezza del giorno, al languore del sole anemico che moriva... (1) E' l'atto del trarre fuori da un luogo una cosa. In questo caso significa: tirar fuori dalla stanza il morto.

TORNA LA PREISTORIA Salii, un tardo pomeriggio, a Colle Pardo immerso nel vento, sotto un cielo scuro e livido. Fischiavano le chiome dei pini e, a valle, un'infinita pianura di pascoli e vigne si dileguava verso il mare. Se ne andava straziato un sole apocalittico, esagonale, stregato. E scompariva a metà cielo, benché fosse ormai il tramonto. Era cosí diverso e nuovo e infernale quei luogo, che mi parvero diversi anche i paesi avvolti nel grigio, sgranati su un filo di ponti come i coralli scuriti d'una corona spezzata. Dall'alto, monte Cavo tuonava come un vulcano tornato in vita. E i neon di un paese riflettevano se stessi nell'aria torbida, quasi una metropoli specchiata da un enorme lontano soffitto di vetro e mercurio. Il vento non dava tempo di pensare, ché è già esso un pensiero del cielo e della terra. Una fuga di case lontane, aggruppate; una serie di ghirlande fievoli di lumini facevano i cimiteri. Poi, il viola totale della fine del mondo. Lontano, i fulmini squarciavano il cielo abbassato al mare. Fra i capelli scompigliati, penetrò la pioggia. I fulmini precipitarono per la pianura, col fragore ferreo di uno scudo enorme caduto dalle nuvole. Ero piccola cosa nel delirio della natura. Ma all'unisono con essa. Dalla capanna di fascine, che dorme sul pendio, ululava una cagna sotto il temporale. E il fuoco diveniva fumo, spegnendosi man mano. Ebbi forse un'allucinazione e vidi un pastore unirsi alla bestia che strideva e ringhiava. I suoi erano urli strazianti, che né Giovenale né licantropo avevano emesso mai. Eravamo strumenti nel temporale, corde musicali nell'universo, figli inquieti di madre inquieta. E gli ululati sparivano sopraffatti dal tuono e riapparivano man mano che il boato moriva... L'acqua penetrò attraverso la giacca, entrò dal colletto aperto della camicia e si divise a rigagnoli sul petto e sulla schiena. Presto la pelle tremò alla pioggia che gelava.

Sognai di essere l'ultimo uomo, nel punto della distruzione del mondo. Ed anche i paesi svanirono nel fragore e nel buio. Oppure il primo, esterrefatto di fronte alla Creazione, impazzito di urla, con le unghie ficcate nel vuoto freddo e ventoso. Un fulmine illuminò lo scenario, il pecoraio prese a calci la cagna dalla pancia enorme. Dalla capanna sulla radura uscí un ariete infuriato e scornò i due. Un lampo ancora e vidi il pastore vibrare come un ossesso un bastone tra le corna del pecorone e le bestemmie fischiavano col vento e con i guaiti della cagna, col tremolante e arcaico belato del montone: nasceva un ululato, un fragore che profondava il midollo nei gridi straziati della preistoria, quando i padri lottavano con le fiere e di esse divenivano pasto. Ma all'improvviso spiovve e fu notte. E, diradate le nubi da inaspettata tramontana, sorrise una nitida luna a metà cielo, sulle ultime nuvole, sui pini, sulle creste rasserenate dei monti e dei colli, sulla pianura senza più bordi né confini. Sfogato insieme con la natura, e con essa placatomi, amai rubare il frizzante profumo della resina sotto le scorze bagnate. E ricordai che quella stessa cosa avevo fatto da bambino, in un tempo imbalsamato. Davanti al mio sguardo stupito, c'erano la stessa grande valle e le case arrampicate ai costoni che preludono ai monti. Era passata la guerra, e il ponte non c'era più. Allora, tornando a sera da questo colle, passammo nel Parco, ora chiuso al mondo. E nel fitto di cespugli e di alberi enormi, poiché era primavera tarda, un brulichio di lucciole, più belle delle luci di un gran luna park, ci accompagnò per i sentieri profumati di menta. Ero per mano a mio padre e portavo nella mano libera un ciuffo di ruchetta dal sapore pungente... « Ama e difendi la libertà e non la vendere a nessuno, per nessun prezzo ». Queste le sue parole di ieri e di oggi. Le notti irrefrenabili e il sole e i crepuscoli hanno invecchiato quell'uomo e maturato il bambino. Ma al di là delle leggi su cui la carne si regola e vive, gli spiriti si collegano e si innestano. E l'anziano consegna ai più giovane un'eredità ch'è come la fiaccola olimpionica. Purché arda, non importa se chi la impugna e la ripara dai venti rimane oscuro. Basterà che uno la rechi in porto e ricordi i predecessori dai quali ebbe il fuoco: quella fiamma salvata dalle cadute che seminarono ad uno ad uno gli altri corrieri stanchi lungo la via della storia. Ero giunto passo passo in paese, fra vicoli poveri e desolati. Presso un angolo di un'osteria chiusa, un gatto spelacchiato miagolava alla luna...

IL GRANDE TRUBBIANO Seppi, il giorno seguente, che, durante il temporale, Trubbiano si trovava a bere la solita goccia in una delle tante osterie sparse per Ariccia, quando un fulmine precipitò con fragore di mitra, nella sua casa. Entrò dal camino, serpeggiò come una lama infuocata per la cucina, passò in camera da pranzo e uscí per le scale, smorzandosi nell'umida terra della cantina. Uno spavento da fine del mondo. La moglie, urla a parte, lí per lí non riuscí ad alzarsi da letto e, sembra, non andò al bagno per sgravarsi di qualcosa... Danni: un tavolo di legno rimase bruciacchiato come passato dal ferro che mette il marchio ai buoi; un paio di sedie furono pressocché carbonizzate. Quando, a notte fonda (uno spicchio tenue di luna era fra una nuvola e l'altra),

Trubbiano mise piede in casa, e trovò tutta quella gente, ebbe un'esitazione. Pensò che gli fosse morta la suocera. E, tirato un lungo respiro, liberò un sospiro e un rutto all'aria frescoumida. Al quale annuncio, si affacciarono tutti alla tromba delle scale, come i piccoli e i grandi animali nel bosco, appena scorsero Biancaneve. « Ecchelo! », urlò un bambino, forse il figlio. E la moglie cominciò a piangere dal letto. « E' entrato un fulmine... una saetta pe' casa... Dio ce ne liberi... », mormoravano. E Trubbiano, ancora inebetito dal vino e dai sigari, non esclusa la pesantezza causatagli dalla cena piccante, con occhi acquosi prima, e ancor più indifferenti poi, spalancò la bocca e disse: « Embè? ». La moglie, mezza morta, assistita da qualche anima buona di vecchia dal lungo scialle frangiato nero, biascicava le litanie. E una, dai non pochi peli addosso, rispondeva a gran voce: « Àmmene... Àmmene... ». A queste invocazioni, un po' rotte nella bocca ma unite nel cuore, si accoppiò una sonora bestemmia di Trubbiano, che, venuta su per le scale fatte a chiocciola, s'ingigantí come in una tromba. E fece eco. Allora, due o tre comari si segnarono con veemenza. E se ne andò la luce. « Dio te castiga... », brontolarono minacciose. Ma Trubbiano lasciò andare un'altra imprecazione, un po' meno chiara e roboante, ma che si capiva lo stesso. E si riaccesero le lampade. Allora, alcune non trattennero un certo disappunto e si guardarono in faccia, interrogative, come per dire: « E che succede qua? Uno biastima e se riaccende la luce? ». In verità, tutto fu a posto dopo una frase di Checcosecco, un certo vicino di casa di Trubbiano. « E' finito tutto 'bbene, graziaddio. Poteva annare peggio. Bevemoce sopra ». Cosí fecero. Fino ad un'ora della notte molto vicina all'aurora. Dopo di che, Trubbiano, caduto addormentato sulla sedia, fu portato a letto da due uomini, uno dei quali lo prendeva per le braccia, l'altro per i piedi. Come un'amaca fra due alberi. E lo dondolavano, accompagnandosi con la voce, in un ritmo acidulo di vino e di sigarette. Contando uno-due-tre!, lo lanciarono come un sacco di patate sul suo « nuzial talamo ». E Trubbiano ricadde pesantemente, senza destarsi, con un ruffolare del diavolo, accompagnato da stridii vari prodotti dalle maglie arrugginite delle reti e dalle spalliere che sbattevano fra i muri stretti, a movimento ora convergente ora divergente. Molto più tardi, premuto dal bisogno, si alzò a occhi quasi chiusi; dondolò nel mezzo buio della camera, fece qualche verso e, aperto il cassetto del comò... Quando il giorno dopo, gli mostrarono che aveva scambiato il ripostiglio delle maglie per il gabinetto, stette un po' attonito. Alla fine, guardò male moglie e suocera. Ed esclamò: « Questa mica è robba mia! ». Non so se vi scapparono delle parolacce o più ancora. Fatto sta che Trubbiano non è ancora convinto di avere sbagliato luogo. E, scrollando la testa pesantemente, mormora ancora: « A casa mia, me vonno proprio male... Fanno li danni e poi me incorpano a me... ma qualche giorno però... ».

NON NEGATECI IL PENSIERO Al pensiero che siamo attimo di rumore e guerra, dolore e fatica, e poi scompariamo

come un pallone che scoppia, molti valori si deformano e vanno riveduti. Molti valori si annullano e molti credo si afflosciano. Ché, se Dio ha dato a noi il privilegio della ragione, ci ha resi all'altezza del dubbio. Quando l'umanità di ieri, di oggi, di domani sarà solo un velo di cenere, gli Angeli, mai morti perché mai vissuti, non suoneranno. Con te e senza di te, uomo, il mondo va avanti ugualmente. Dunque? Specchiati. E rimani davanti alla tua immagine fino alla morte. Allora, pure stando di fronte a te stesso, non ti vedrai più. E una mano solerte procurerà di togliere la tua bruttura dalla faccia del mondo, da sotto il sole. Cosa ormai ripugnante, tu svanisci laddove si sono macerate epoche incalcolabili di umanità. E l'uomo che domani vangherà il tuo orto, inceppata la vanga nella tua mandibola, bestemmierà, ché perde tempo. Prenderà quella parte morta di te, senza sapere che afferra se stesso, e la getterà, sporca di terra, nel letamaio. E un cane affamato la sbaverà tutta, deluso di non trovarvi più carne. Opere del corpo ed opere dell'anima si perderanno in un mucchio di cose morte, morto l'uomo. E Dio, sonnecchiando stanco sulle rovine dell'universo, farà il conto degli anni luce. E non ricorderà d'esser mai nato, impressionato dalla sua eternità, stanco di avere rinnovato ogni tentativo per rendere buono l'uomo, deluso dal caos del suo firmamento, deciderà di fare punto al tutto. Luna, sole, stelle, macchine lucide e veloci, musiche e sogni, fanciulle vive e palpitanti, aromi e colori delle stagioni nella terribile e stupenda stagione ch'è la vita, morirete con noi! E fra un'era ancor forse lunga, tutto ciò che oggi è legge o bellezza, dolore o formula di verità, morto l'uomo svanirà in fumo, fregola vaga del suo cervello, abituato a creare fantasmi per confortarsi.

EVVIVA IL CORPO DEL PORCO « Fatti voi foste a viver come bruti e per seguir la vuota indifferenza... » (Dante XX secolo, adattamento, per musica, di un capellone)

Su ventiquattro ore, devi dormirne otto almeno, se vuoi essere sano; altre otto devi lavorarle, per soddisfare lo stomaco; altre due per lavarti e mangiare: sempre del corpo si parla; infine, delle sei ore rimaste ne usi tre per divagarti, se non vuoi cadere vittima del superlavoro; e le altre tre per gli impicci vari e per la donna. Riassumendo: otto ore per riposare il corpo. Otto per guadagnare i soldi per il corpo. Due per curare il corpo e riempire lo stomaco, che fa parte del corpo. Tre per rilassare il cervello, che fa anch'esso parte del corpo. Tre per le questioni del vivere civile e per il sesso, che non sono altro dal corpo. Corpo, corpo, corpo. E lo spirito? Qualche raro uomo sottrae le ore alla carne per un piacere che la trascenda? E, a proposito di corpo, ecco la sagra della porchetta, sempre a xy. Non ho mai visto tanta gente e cosí acclamata organizzazione per lo spirito. Arrivai che già era pomeriggio, caldo di sole e gonfio di sudori di ascelle. Qualche ragazza ti passava accanto, mista di puzza e di odore. Poi, ondeggiando su gambe modellate in officine sadiche, andava a sdraiarsi al bar... Abelardo, che mi stava accanto, coi suoi diciotto anni parlava parlava, nell'afa estiva,

del suo idolo, della sua madonna « venuta da cielo in terra a miracol mostrare ». Diceva: « E' migliore di me, e lei non li farà i ragionamenti cattivi su me. lo, purtroppo, sono tanto animale che qualche volta la penso come non la dovrei pensare... Il mio idolo... Quando immagino che uno fa cattivi pensieri e infanga il mio idolo, mi viene l'impeto di fare a pugni... Il mio idolo, un miracolo della natura, oh, me fortunato! ». Poi, il suo idolo passò. E gelosamente lo presentò a me come a colui al quale si accorda grande fiducia e lo si fa quindi partecipe di un privilegio. Una ragazzetta, bellina, della sua stessa età, cogli occhi sensuali e le labbra carnose. La serata era mossa. Le porchette fumigavano sulle « spianatore » e gli « scifi ». Si perpetuava una festa pagana, dedicata al suino, grande amico dei latini, sicurezza di Roma e dei Castelli. Il mio paese accampa ancora oggi sullo stemma la scrofa e i maialini. Perciò, questa bestia, che è segno di sudiciume, di bruttura fisica e morale, ha pure il diritto di essere considerata nel giusto, preziosa com'è. E ad essa, come ad ogni altra divinità del mondo animale, è doveroso tributare onori, una volta l'anno almeno. Com'era prevedibile, Giovenale non mancò. E già aveva dentro oltre un litro, con fritti vari e pèsche bagnate nel vino, in piazza si accalcava già molta folla, e i ragazzini facevano su e giù dal palco delle canzoni. Per ammazzare il tempo, ci cacciammo nella bettola di Pummidoro, dove Anacleto, un vecchio alto mezzo metro, dalla testona di nano, cantava vestito da Rigoletto. Lo accompagnava col violino Zampaccia, bevendo senza bicchiere nel mezzolitro, a garganella e mordendosi le labbra ogni volta che stonava a causa delle dita troppo grosse che afflosciavano due corde anziché una. Tavoletta, un seccaccio dal viso piatto come una tavola, rovinava un'aria su una fisarmonica. Puzzava di aglio, in giro. Grugnito, mezzo cupo e torvo, se ne stava da una parte. Gli arrivò una cipolla addosso, che rimbalzò sul bicchiere. Il vino gli si spruzzò sul vestito. E quel giorno il povero Grugnito, dopo un mese di pane e sputo, ne aveva indossato uno nuovo di zecca, scuro, con la camicia inamidata. Il faccione nero per il sole e screpolato come le zolle, era più marcato nella forzata eleganza del doppiopetto: era il prototipo del « burino ». Mi aspettavo che parlasse e facesse a botte. No. Pianse peggio di un ragazzino, e destò tanta pena. « Non macchia er vino bianco », sentenziò Trubbiano. Nerchiafracica librava all'aria di fuoco rumori tuonanti; e rideva, fiero di poter dimostrare tanta salute. Gufarello provò ad imitarlo. E nello sforzo dell'emulazione arrossí. Ma sbiadí presto... Strabuzzò gli occhi allora; quindi li chiuse, per accertarsi, e spalancò la bocca in segno di meraviglia... Lope era malinconico. Mi confidò che il fegato non gli reggeva più, ma lui faceva come il nonno, il « sor Peppino ». Questi, reso quasi cieco dalla congiuntivite, ebbe una ricetta crudele da parte del medico: scegliere fra il vino e la cecità. Allora, quel vecchio, di cui il nipote andava tanto fiero, esclamò: « Sor Peppino o non sor Peppino, fuori l'occhi e dentro il vino! ». Giovenale urlò con quanta vita aveva nei nervi. Era come una via aperta al concerto sguaiato della serata. Scendemmo in piazza che il sole era fermo sui tetti, come un ubriaco. I pallonai cantavano una tiritera e i bambini piangevano dietro ad essi fin quando le mamme non compravano loro il palloncino. Era pieno di stridii: fischietti, trombette,

pernacchie. E vaporose nuvolette di zucchero filato apparivano e sparivano sui bastoncelli mobili. Anche i balconi erano a festa, infiorati come l'estate prescrive. Giovenale aveva gli occhi da pupo e le spalle a bottiglia. Non avrebbe mai potuto fare il portalettere, non per mancanza di voce, ma perché la borsa gli sarebbe scivolata giù. I monelli sparivano ebbri tra la folla, veloci come motociclette. Raganito portava il lutto. Gli demmo le condoglianze. Disse che era morta Filomena. Chi pensò alla moglie, chi alla madre, chi alla figlia, chi a una zia. Invece era la moto. Ricordo che un giorno, passando sotto la scuola, gli si fermò. Scese dal sellino, pianse, si inginocchiò: « Filomè, Filomena mia, non me abbandonà... », e la baciò sul motore, sulle ruote, sul serbatoio. Quella sera, Raganito era triste. Non gli si poteva parlare. Si accesero le luci, presaghe di una notte rumorosa ed allegra. Rosse, rosa, blu, gialle, viola, verdi, celesti, arancioni, indaco, pisello, marroni, biancochiaro, lattee... Stelle filanti, come in un carnevale estivo, scesero dalle finestre sui fili tranviari. Sui volti incipriati e goffi di rossetto, si disperdevano nuvole di coriandoli. La banda musicale attaccò una marcia. A considerarli tutti, compreso il direttore, non se ne salvava uno: ubriachi da far tartagliare anche gli ottoni. Un cantante matto, simile ad uno spaventapasseri, lanciava al cielo note strozzate per richiamare l'attenzione di qualcuno. E quando, più tardi, salí sul palco una compagnia di attori e musicanti venuti da Roma, vi fu l'arrembaggio. Dieci o dodici ubriachi tolsero il microfono dalle mani dello speaker e si autoannunciarono: « Mo' canto io, er mejo gargarozzo de li Castelli... ». La folla ondeggiava sotto, a marea. Fu la volta di uno zoppo, un po' scemo, magro da tisi e bavoso, sdentato, calvo, curvo: un Tersite dei nostri giorni. « Ora canterà per voi il grande cantante... ». E la sua vocetta flebile da castrato ci curvò tutti dalle risa. Allora, alcuni presero sulle spalle il matto che urlava dal basso e lo alzarono fino alla staccionata del palco, mentre i microfoni gracchiavano. Ma sopraggiunse la polizia e quelli si dileguarono lasciando il matto sospeso nell'aria: ghiacciati gli occhi, precipitò bestemmiando. Cosí, mentre si formò il crocchio di chi si picchiava, da un camion gettavano pagnottelle con fette di porchetta. E la calca si pestò, come un branco di cani con le fauci aperte al cibo che arriva. Di mano in mano, fra i piedi, dai denti sbavanti: ognuno rubava all'altro. L'inferno dantesco, nella bolgia di Filippo Argenti, è pallida cosa. Ci fu pure chi, per una fetta di maiale cotto e profumato, si sfasciò il grugno dai pugni. Facemmo il bagno turco, nel calore animalesco irresistibile. Tavoletta, con tutta la fisarmonica, fu sbattuto sui gradini della chiesa, ed anche il prete rimediò una manata in capo. Fra questo turbine di pane e porchetta, di sberle urli panciate capocciate bestemmie scarpate, passò un'ora. Poi, la marea di cani affamati si diresse alla tombola. Non ritrovai più né Giovenale né Gufarello (confusi tra la folla, bassi entrambi come tavolini di bar). Né gli altri della congrega. Ero finito contro voglia nella parte alta della piazza, non senza ammaccature. Ero stanco peggio che se avessi vangato otto ore. Mi trovai in una cricca di forestieri, poi in mezzo ad un gruppo di ragazze del nord Europa, sbiadite nei capelli e rosse in faccia come gamberi, lo sembravo il figlio, basso com'ero in confronto a loro, lunghe come pertiche.

« Are you English? », chiesi. « Ir...landa », rispose stentata la più giovane. E, sicuro della calca, restai a lungo fra le loro morbide curve, fino a che uscí il vincitore della tombola e il ponte ci attese per lo spettacolo pirotecnico. Un meraviglioso volo di colori dipinse il cielo senza luna. Si disegnarono nell'aria estiva fiori verdi e rossi, girandole bianche, interminabili dita arancioni polverose e dritte, il tuono scuoteva il cuore. Sui volti delle irlandesi, si riflettevano i mutevoli colori del cielo. Quegli occhi erano nati sotto altre nuvole e portavano il sapore della terra lontana, bianca e fredda di nevi. Stabilimmo presto una certa familiarità, col mio inglese dalla cadenza romanesca. Mi invitarono sulla loro brutta ma comoda macchina, con l'intesa reciproca di visitare i colli Albani di notte, facendo io da cicerone nostrano. Partimmo che era mezzanotte.

PETTINATURE A VOLO DI TASTIERA Passato il ponte, fummo presto ad xxx. Il corso lunghissimo declinava fino all'asfaltata che va a Roma. Visitammo i giardini della villa e i ruderi romani che una testa di legno divenuto assessore aveva mutato in aiuole stomachevoli. Salimmo ai Cappuccini in vista del lago, e lí ci fermammo, bassi i fari sulle siepi tremolanti per il canto dei grilli. Un cielo scuro e pieno di stelle ci avvolgeva. Le irlandesi ebbero il buon gusto di aprire la radiolina portatile: trasmettevano la Pastorale di Beethoven. Un linguaggio universale ci prese un momento. E ogni tanto le ragazze facevano coro al motivo dominante, che tornava sotto altre tonalità e variato nel timbro degli strumenti. C'era un tepore cosí morbido, cosí amabile sotto le grandi braccia delle querce, da cospargermi di sensualità su tutta la pelle. La linea curva modulata dei colli fu abitata un tempo da genti rudi e selvagge, più pure di noi forse e più sane. Allora, Febo saliva al monte Cavo, alle colonne del Tempio di Giove, e tramontava sui boschi del Tevere, ancora fitti e intatti sui Sette Colli. Adesso, Roma si slarga luminosa come una meteora nella vasta pianura e con uno sguardo rapido la si abbraccia tutta. Le irlandesi furono calamitate dall'immenso fuoco d'artificio della Città Eterna. Dai silenzio attonito traspariva lo stupore di vedere, quasi in un mare pieno di paranze notturne, « la più famosa e ammaliante metropoli del mondo ». Queste le loro parole. E aggiunsero che Roma ha un magnetismo particolare che non ti lascia più. Dissero che se ai loro Paese avessero una sola delle volte del Colosseo, ci costruirebbero attorno un giardino di paradiso e un recinto invalicabile. Conclusero che i romani moderni non si rendono conto del tesoro in cui vivono e lo imbrattano, lo sporcano e lo seppelliscono col cemento. « Voi siete barbari », concluse in bell'italiano, inaspettatamente, una. E continuò, in inglese, dimostrando come ognuno ha la sporcizia che si merita: se dentro casa vuoi l'ordine, devi fare tu in modo che ci sia. E' una questione che dipende da ogni singolo cittadino. Ma, dall'alto dei Colli, la vicinissima e pur lontana Roma, era lucente e silenziosa: sembrava profumare di castagni in fiore e di allori pungenti. Giù, sotto le coste ripide e verdi, il lago Olimpico vibra un'eterna storia indecifrabile. Là,

sulle rive selvatiche di nocini e fichi, verdi di canneti nell'acqua insidiosa, passai l'adolescenza, ragazzaccio corrusco. Là, sui blocchi vulcanici allungati nel lago violaceo, cercavo in profondità il gioco grottesco della vita. Fino a che veniva l'autunno rosso di castagni morenti e giallo di pioppi tremuli. Ma i lecci erano sempre torvi e maestosi intorno alle baie pescose. Forse, fu lí che conobbi, nel mutare pazzo e meraviglioso dei giorni e delle ore, il palpito che ci proietta fino all'estremo limite dei tempi e dell'universo, oltre il centro focale di un infinito senza margini, alla ricerca di quel Dio che ci ha separati da lui con la carne. Se vi fosse un al di là, un paradiso, lo immaginerei cosí; un lago come questo, un cielo e una mulattiera ombrosa... E un eterno avvicendarsi di stagioni, accanto ai volti che vedemmo per primi, e a quelli che, lungo gli anni, amammo riamati; al suono delle voci che per prime udimmo e dalle quali imparammo l'alfabeto della vita, e a quelle che ci accompagnarono fino al declino e all'addio.

« AT TE NOCTURNIS "NON" IUVAT IMPALLESCERE CHARTIS... » (quasi Persio, sat. V)

Scendemmo al lago, entrammo nell'unico « bar di vita » ancora aperto. Quattro effeminati ridacchiavano con vocine argentee per una stupidaggine divenuta cantilena. In un angolo, nella luce rossastra, una bella bruna dai pantaloni neri, i capelli neri, le ciglia piene di matita, puliva la bava a un cisposo, e questi, ebete nell'espressione sempre incline al riso ingiustificato, le mollava di tanto in tanto una sberla. E lei gli si accostava, aderiva a lui come una calamita, faceva gli occhi languidi della masochista. E lui sbavava, sprofondato nei vimini intessuti, in quei venti minuti in cui rimanemmo lí, lei ebbe una decina di sonate in faccia, senza contare i calci agli stinchi. Eppure lo baciava sempre più accalorata, lo custodiva gelosa degli sguardi altrui. Quando lo stomachevole energumeno mongoloide sbirciò le irlandesi, lei bevve la sua bava e gli coprí gli occhi. A voler ridurre in termini matematici quella scena, si può dire che ogni due puliture di bava volava uno schiaffone. E ad ogni schiaffone lei si abbandonava, col viso sbiadito di libidine, sul mento unto del suo uomo. Feci fatica a mandar giù la birra, mentre le nordiche ridevano. Usciti all'aria pura, passeggiammo lungo la riva. Poiché nessuno sapeva parlare speditamente, canticchiammo in coro arie celebri. Mi piacque molto che conoscessero Vivaldi, Bellini e Rossini. Allora ricordai che una sera, invitato a casa da una studentessa, dovetti sorbire l'ascolto dei più sgangherati urlatori. Fui rimproverato di non essere aggiornato nell'arte, mentre la bionda ossigenata, studentessa dagli occhi vuoti come una notte senza luna, si dondolava beata al rumore stridulo, monotono, insignificante del giradischi.

LA NOTTE DI RECCHIETTA Dopo che avemmo fatto molti giri in macchina, le ragazze mi accompagnarono a xxx. Scesi all'inizio del corso, sul piazzale antistante la magnifica villa romana. Erano forse le tre. Sotto un leccio gigante, un gruppo di giovinastri chiacchierava animatamente. La luce dei lampioni giungeva fioca laggiù. Ad un tratto, da essi si stacca un uomo basso e magro, occhialuto, elegantissimo, dal viso noto. Un cumulo di improperi e di burla e di pernacchie

lo seguí fino alla fuoriserie, sulla quale salí e sparve a tutto gas verso Roma. Poi, sento un urlo conosciuto: « Ahooo, che fai in giro quasi a giorno? ». Giovenale attizzò le risa, alle quali si aggiunsero le mie. Andai verso il crocchio che beveva birre e cocacole e che fumava, liberando rumori porcini. « Hai visto chi era quello là? » mi chiese Giovenale. Risposi: « M'è sembrato lo scrittore Recchietta. Che stava facendo qua a tre ore di notte? ». La rumorosa risata di Giovenale accompagnò il gesto di un fornaio dal viso di gorilla. Capii: era storia vecchia e risaputa. « Mo' Recchietta fa razzia a 'sto paese. Ha detto che domani se trasferisce a xy e poi va verso mare... », disse uno dalle mascelle di asino, non più alto di un nano né più grande di un adolescente. « L'avemo fatto a pezzi e ci ha scaricato un sacco de quatrini... », proferí un altro. E tutti assieme: « Voleva un torello... Ah, ah, ah... ». Allora Giovenale raccontò che c'era stata di mezzo la più voluminosa bottiglia di cocacola e un altro voleva tirargli una pietra. Poi, lo avevano picchiato dietro sua richiesta e buttato dentro la grotta per ragionar d'amore. Un'ora di narrazione di fatti edificanti. A un certo punto Giovenale, divenuto serio, disse: « io ho solo guardato: a me la carne de porco non me piace. E pensà che Sanbuciardo, per baciare la ragazza, ha beccato la multa e la lettera a casa lui e lei... ». « Ah, ah... e a Recchietta gli hanno dato un premio certi religiosi di una congregazione molto pia... » obiettò uno dall'aspetto elegante e frivolo. « Non lo sai che le cose vanno cosí? Ormai, col dialogo, i cattolici vanno a braccetto coi comunisti. Alla fine lo faranno santo quel merdaio vivente... », riprese Giovenale, continuando, rivolto a me: « Vuoi vedere che se tu ci fai un articolo sopra, te sbattono dentro dritto dritto? Chi ha reputazione sta sempre a zero. Il mondo è di chi contesta. Se fai una scoreggia e dici che è una canzone di protesta, vendi un milione di dischi e ti santificano ». Una ventina di ragazzi di tutte le risme e le età stavano sbracati sotto l'albero più pingue e più antico della villa. Uno disse: « Ce siamo buscati tre sacchi a testa ». Il più elegante, invece batté una mano sul ginocchio e mormorò: « Io non ero di suo gusto perché troppo femmineo: femmineo a me, capite? E lui che è? ». « L'altro ieri », aggiunse un altro dal viso elefantino, « l'hanno pescato drento a un portone con sette regazzini e ieri a sera è annato co' certi tipi e ci ha dato quattro sacchi... ». « La prossima volta se vòle, bisogna che ce ne sgancia cinque a testa, sennò bisogna che va dar toro... », gracchiò un altro dal buio, sudato e rosso di congiuntivite come un diavolo. Dietro i monti schiariva: come si stesse alzando un grande coperchio da una pila scura e nauseante. Di lí a poco il sole avrebbe cancellato le orme sulle rugiade e condotto i bambini a giocare sullo stesso prato in cui la notte avanti erano accaduti altri giochi, erano state masticate altre parole...

CILECCA DELL'ABRACADABRA Una di quelle sere, uscii per il viale che conduce ai ruderi della villa di Pompeo. M'imbattei in Giacomo e Giacoma. « Dove vai? » chiesero. « In giro ». « Vieni con noi. Ché noi annamo a fa' il triduo. Gesù Cristo me la deve da fa' la grazzia... ». Riuscii a sfuggire. Li seguivano sette o otto vecchiette, con le corone in mano. Poco dopo entrarono in chiesa. Caso volle che, alla fine del terzo giorno di preghiere e di scongiuri, Michele morisse per un collasso alle coronarie. Giacomo e Giacoma urlarono: « Dio è giusto! Ha fatto la grazzia ». E addobbarono un altare in casa. Tutto il vicinato andò a pregarvi, a battersi il petto, a leccare i pavimenti e a sgranare sui denti strane orazioni. Ma Puletto, che invece li aveva rubati lui i cinquanta chili di fagioli, mentre passava il funerale di Michele, fu preso dal rimorso. Corse a casa di Giacomo e Giacoma, i quali bevevano alla giusta scomparsa di Michele e cantavano lodi a Dio che li aveva esauditi. « Lo so' rubato io er mezzo quintale di facioli! » esclamò Puletto per liberarsi d'un tratto dalla morsa della coscienza. Ma Giacomo non volle credergli. La moglie andò dal prete (il quale, a dire il vero, li aveva sconsigliati di fare il triduo) e vi restò fino a sera. Tornata, trovò il marito in costernazione. Allora cominciarono un nuovo ciclo di preghiere per far morire Puletto. Era giovedí. Avrebbe dovuto tendere le cuoia di domenica, finito sabato sera il triduo. Il venerdí andai pure io: ma non a pregare, intendiamoci. A ridere. Tutti grossi, sputavano orazioni con la velocità del lampo, come il bambino che sta immobile sul banco per acquistarsi il dono in palio. E che, presolo, con quello stesso viso poi fa il pandemonio. Tutti gli altari erano chiari di candele: Giacomo non badava a spese, pur di cattivarsi la simpatia di Dio e della Madonna, per farli suoi complici e uccidere Puletto. Ma che pensare dello sbaglio fatto da Dio nell'ammazzare un innocente come Michele? Dio non sbaglia: certamente l'avevano rubato in due il sacco di fagioli, pensava Giacomo. Domenica. Giacomo e Giacoma si battono il petto in casa; dinanzi ad ogni immagine che incontrano lungo la strada, genuflessioni e occhi languidi, urli e scongiuri come: « Famme 'sta grazzia! fammela... ». Tutti i componenti il gruppo dei « flagellanti » aspettavano la morte di Puletto. Puletto esce, fa la cartella della tombola, la vince. Nella stessa sera, si compra l'asino nuovo e riporta il mezzo quintale di fagioli a Giacomo. Tutto questo provocò un trauma a Giacoma e un infarto al marito, che pochi giorni dopo tese le gambe. Ma questa volta, dicevano gli oranti, Dio non era stato giusto. E i figli di Giacomo sgombrarono le pareti di tutti i Santi e appiccarono fuoco all'altare delle Grazie, il prete (che trova sempre l'utile scusa per calmare gli animi) celebrò una messa per Michele e Giacomo, a suffragio delle loro anime in Purgatorio, mentre Giacoma stava col ghiaccio sul cervello, a casa.

ABELARDO E IL SUO IDOLO (prima parte) Nella stessa settimana, ebbi da fare con Abelardo. Andammo in villa assieme e mi imbottí la testa con la fidanzata, l'idolo, il miracolo: « io sono indegno, sono indegno anche di nominarla... ». Giovannotto, che ci seguiva da presso, con la turba dei suoi clienti, disse: « Ma ora dorme questo fenomeno? ». Parlò Puzzetta: « Vuoi per caso dormire con lei? ». « Non mi spiacerebbe », rispose Giovannotto. « Ha un bel... ». « Non ti permetto! » intimò Abelardo. « Io mi contenterei di toccarla solamente », aggiunse Puzzetta. Abelardo illividí. « Basta! Basta! », urlò, con le mani ai capelli, inorridito. « Basta sul serio », profferí Cacàia. « Siete proprio sozzi. State sempre a pensare a queste cosacce, mentre quella povera fanciulla sta a dormire nuda con le mani nelle tasche ». Alle gran risa che seguirono Abelardo sbiadí. Si avviò come impazzito verso l'ultimo che aveva parlato e, piangendo, gli mollò un morso in testa. Cacàia bestemmiò. Con un pugno allo stomaco lo piegò in due. L'amante ideale rimase addosso a un muraccio rotto, a lamentarsi e a vomitare. lo rincasai. Gli altri andarono a Roma, sulle macchine. Per puro caso, ero a xz il giorno dopo. Mi ci aveva condotto a pranzo Puzzetta. E al ritorno, mentre lascio il mio amico, incontro l'Idolo. « Ciao », le mormoro gentile ma distaccato. E mi risponde molto interessata. Se ne va verso la stazione, io mi avvio a motore spento verso il corso. « Ti accompagno », le chiedo sicuro di un no. Riflette un po' « Grazie », mi dice; e sale. « Dove ti porto? ». « A xxx. Mi aspetta lui ». E tutt'a un tratto si fa scura. « Che hai? », domando, mentre spio con la coda dell'occhio i suoi movimenti e tolgo il gas. « Se mi vedrà scendere dalla macchina, geloso matto com'è, mi farà la scenata ». « Se è geloso, è segno che ti vuole bene... », mormorai, cercando una piazzetta dove fermarci un attimo. L'Idolo mi guardava con una patina di lucido sulle pupille. E riabbassava gli occhi, quando si incontravano coi miei. « E' troppo geloso », ribatté. « E poi... è troppo giovane per me... ». Abelardo mi faceva pena, e non volli andare oltre la confidenza verbale col suo « miracolo ». « Gli diremo che hai perso l'auto »; cambiai discorso. « Allora, aspettiamo che passi davvero. Fermati ». E sostai sotto i platani ché il sole galleggiava nell'afa del tardo pomeriggio. Ci guardammo a lungo, con sguardi poco abelardiani. Le pigiai due dita nei capelli. « Coraggio. L'auto è passato. Andiamo », dissi. Avevo ancora dentro di me i lamenti di Abelardo piegato in due addosso ai ruderi. Ella

si fece triste. Avrebbe forse desiderato rimanere di più, dirmi qualcosa. Ma in me c'era Abelardo che mugolava, c'ero io di tanti anni prima. Misi in moto, dopo averla sfiorata con l'indice su tutto il viso, dopo aver gustato il suo chiudere di occhi. « Fammi preparare a recitare la parte », disse, quando fummo oltre xy. « Scendi una fermata prima di quella fissata », le consigliai. « Dirai al tuo fidanzato che sei scesa prima per distrazione. Sarà meglio ». Ed imboccai un vicolo, per non farmi vedere da Abelardo. D'altronde, anch'io alle sei, a xh, avevo un appuntamento. Ed Annie tardò. Ma quando giunse, bella come una fuoriserie, mi passò ogni uggia.

INTERMEZZO INDIPENDENTE (E le cose stanno cosí!) Bottiglia premiò Fiasco, il quale, tre mesi dopo, essendo membro della giuria del premio « Mari e Monti », ripagò Bottiglia. Entrambi, l'anno appresso, furono giudici ai premio « Sètta ». E scelsero fra tutti il loro amico Bicchiere. Costui, un mese dopo, facendo parte della Commissione di un famoso premio, assegnò il riconoscimento ex aequo a Fiasco e a Bottiglia. Bottiglia, Fiasco e Bicchiere si incontrarono « per caso » in commissione al più importante guidernone dell'anno. Esso si articolava in tre sezioni: poesia, narrativa, critica. Bottiglia dette a Bicchiere il premio di poesia. Bicchiere assegnò a Fiasco quello di narrativa. Fiasco consegnò a Bottiglia quello di critica... E l'editore era sempre lo stesso.

ABELARDO E IL SUO IDOLO (seconda parte e... fine) Ad Abelardo fecero la spia. « Tu hai salito in macchina la mia Donna », mi disse con la pelle di tamburo. « Beh? Non si possono fare favori? ». « Ora mi racconterai per filo e per segno tutto quello che avete fatto, che avete detto, come si muoveva lei, come ti comportavi tu... ». « Ti ama profondamente ». « Lei mi ha detto qualcosa di più », e arrossí. « Che cosa... ». « Ci hai provato e lei ti ha respinto! ». « Non mi pare... », risposi un po' impacciato. Un tardo pomeriggio di luglio, il « miracolo » salutò Abelardo con un innocente bacio sulla guancia e salí sul pullman. Seguii con la mia cacafuoco il movimento. E l'Idolo scese, anziché a xx, ad xy. Camminò fino alla piazza, al vicolo che porta a valle. Là c'era una flavia ad attenderla, con un uomo di mezza età sopra. Mi era parso infatti di averla vista un giorno al mare con un tipo sospetto. E in quel momento ne ebbi la certezza. Stetti a distanza. Ormai nasceva nel cielo chiaro Venere, e il crepuscolo tingeva di un solo colore le cose. Annotai la targa. Ma la flavia accelerò nella lunga fettuccia della valle, e non potei starle dietro. Abelardo era al biliardo. Lo chiamai. Gli dissi: « Telefona alla tua fidanzata, per favore

». E gli mostrai il numero della targa con un sorriso maligno. Non era ancora in casa. E l'aveva lasciata da un'ora circa. « Vuoi venire con me sul luogo del delitto? ». « Non è vero!!! », urlò. « Se non è vero puoi denunciarmi per calunnia. Ma sali ». Lentamente, ci dirigemmo all'imbocco di quella valle sotto la Porta Vecchia. « Da qualche sera » disse trepidante, « si ferma con me solo un'ora. E poi se ne va... ». « E a casa dice che sta con te fino alle dieci », aggiunsi. Avevo ben sentito la meraviglia della madre quando aveva alzato la cornetta, e lo smarrimento di Abelardo. Venere scese sul limite dell'orizzonte. Una luna piena di vapori nacque da colle Pardo. Temevo che la flavia passasse per un'altra strada e facesse scendere l'idolo a xx. Ma non disperai. Abelardo già inveiva contro di me. « Non era in casa perché avrà incontrato qualche amica... ». Provò a ritelefonare, ma non rispose nessuno. Tuttavia Abelardo trovò la giustificazione anche questa volta. Decidemmo di aspettare altri dieci minuti. I fari di una flavia illuminarono finalmente la salita. « Eccola! » dissi. Abelardo tremò. Ma la macchina sfrecciò vicino a noi. Erano oltre le nove. Per l'Appia alzai i fari e l'Idolo fu riconoscibile. L'altro accelerò e ci perse. Avevo paura che Abelardo morisse in macchina... « A casa sua... a casa sua... portami a casa sua... ». Presi la scorciatoia. Bloccai davanti al portone di lei. Dopo un po', dei tac tac frettolosi punsero la quiete della sera tarda. Abelardo stravolse gli occhi. Fece la bava, aprí lo sportello, urlò rauco: « Disgraziata!!! ». E svenne in terra, sbattendo l'occipite, in tanto grottesco, mi venne da ridere. Il « miracolo » guardò senza espressione il suo fidanzato, poi mandò un sottile grido. Mi fissò con stizza e sali le scale, con grande lentezza. Abelardo non dava segni di vita. Lo caricai in macchina e lo condussi ad una fontana. Gli affondai la testa nell'acqua fino al collo. Per tutta la strada, ripeteva lamentoso un solo nome e una sola parola: « Perché... perché... ». Appena suonai il campanello della sua abitazione, il padre voleva picchiarmi. « Tu l'hai investito! ». E Abelardo diceva sempre e solo il nome di lei e chiedeva: « Perché... ». Finalmente potei spiegarmi. Dissi come stavano le cose. E mi rinfrescai con un buon cognac. Quando ritornai al biliardo, fui attorniato da mezzo paese: la notizia s'era già stranamente sparsa. E Abelardo restò un bel pezzo in stato di trauma. Quando si fu rimesso, implorò un colloquio con il suo « idolo », propenso a chiudere un passato e a dimenticare. Anzi, le scrisse questa precisa lettera: « Amore, perdonami quella triste serata. Fui indiscreto, lo so. Ma se tu mi vuoi ancora, io considero tutto un brutto sogno e seppellisco il passato, la mia vita ora dipende da te sola, solo da te... »

Ma ella non volle più saperne. Abelardo ne fece un male, una fissazione, cominciò a dimagrire e ad affossare gli occhi. Fino a che, un brutto giorno, un'autoambulanza bianca con le croci rosse ai vetri appannati lo condusse in casa di cura...

IL RONDO' DEL CUORE L'estate cominciava ad assiepare il vento. Per le strade e i vicoli stagnava l'arsura di fine luglio. E la luna, a notte, non si stancava mai di superare i vapori del mezzo cielo. Vi è un lago dalle nostre parti, cupo e verde, che la sera mette paura. Sprofondato nel cavo di un grande vulcano spento, fitto di ombre intorno alle sue rive, ha inghiottito più vittime umane che albergato pesci. Eppure, insidioso e crudele, esso determina un fascino misterioso, proprio perché incute paura e rispetto. Quante cose amiamo per timore e per terrore? Quante sono belle perché pericolose? Le sue spiagge sono divise in due parti: quelle che hanno l'asfaltata dietro di sé, e quelle per gli spiriti solitari, che i cuculi abitano e i corvi neri. Queste ultime, a volte sono promontori in miniatura, fatti di lava secca; più spesso palmi di terra vergine, nera qua e là di rena e aspra di pesci morti. Non sempre il sole perfora le piante, le cui chiome sono una protesta al cielo e alla luce. Ma la luna, la delicata pallida luna, cala i suoi raggi intorno ai tronchi, misteriosamente. E scheletri di quercia a fior d'acqua scandiscono un tempo lugubre e bello, senza ritornelli né pause: uguale. Per molti metri, gli alberi si curvano sull'acqua, ad arabescarla di ombre, a ricoprirla di foglie nell'autunno, come un pio dono tradizionale. Allora, ad uno ad uno si snudano i rami, e le foglie galleggiano fra i canneti che perdono i flabelli al rossiccio vento del tardo novembre. Eppure, fa male anche a dirlo, la mano vandalica dell'uomo e l'asfalto e il fuoco sono giunti anche in questo paradiso. E alberi ed ombre sono scomparsi per far posto alle ruote. L'estate brucia le messi, oltre alle schiene dei contadini. Il Cesputo, un settantenne, dalla logica primordiale e zotica, ma precisa e senza contraddizioni, rompeva l'afa col vocione rauco e imponente. Gli stava il figlio accanto, nato scemo da madre scema. Diceva: « Lo vino non lo vòle nessuno. Ce sciacqueremo la panza a le vacche!... ». E il figlio di trentanni rideva, col riso dei minorati, che non sai se sia di vergogna o di gioia o di nullità. Il vecchio disse che quel giorno aveva mangiato il pane a « panzanella », cioè una pagnotta inumidita nell'acqua, condita col sale, l'olio e il pepe. « Nemmanco un pummidoraccio, porca la tu' matina... ». Poi parlò del figlio: « Sto fenomeno capisce poco... E io er sangue mio all'altri non ce lo do. Ce sta papà, ce sta! Papà te lascia la terra, non la vende, che male che va, 'na patataccia e 'n broccolo lo magni sempre... ». « Er supplí » aveva la cancrena alle gambe. E beveva. « io me morirò co' una sbornia... » diceva. Dal suo naso umido come quello di un cane, usciva un fumo sottile come se egli

avesse nei polmoni il fuoco. Quasi gli bruciassero le budella per la cancrena. Lo portavano alle tre, con una sedia, e lo venivano a riprendere alle dieci, quando il vino gli era arrivato alle tonsille. « Me morirò fra poco... », mormorava. « E allora, accidentaccio allo campà... ». Beveva e rideva. « Quando la cancrena fracica le budella, allora gnente vino più... ». E diveniva triste. Scorticavipere aveva la cirrosi epatica, invece. E non lo sapeva. Credeva di avere il « calore ». Era pieno di acqua nella pancia. Ma continuava a bere, accorciando precipitosamente l'esistenza. Ma forse faceva bene, tanto ogni sacrificio sarebbe risultato vano. Egli era rimasto vedovo quaranta anni prima, con sette figli. Da solo, allevò la famiglia. Lavorò come un negro e non conobbe riposo. Bevve al ritmo del lavoro. Ed ora, i riconoscenti figli, con un calcio, via! Ma lui non si lagna. Per la gente di terra, la morte non è una nemica. Essi raramente hanno da rimpiangere qualcosa. Il Cesputo disse: « Me rincresce pe' 'sto povero figlio che capisce poco e me lo sfruttano... Sennò, da morí non me importava gnente... me levavo da tribola... ». Il Cesputo non è alto, non è curvo, non è ubriacone. Lavora. Ha la praticità dell'uomo di terra. Di colui il quale all'alba ha già vangato tre ore. A mezzodí, prepara il fascette di viti secche per cuocere due fagioli nel camino nero. E a sera, dopo aver lavorato nella cantina a filtrare il vino con la vecchia « calza », si rintana coi veterani delle vigne in osterie odorose di sigaro e vinaccia. Perse la moglie qualche anno fa, non si sa di che. Pianse e si rassegnò. « lo so' quasi arrivato... Quanno alla bestia je casca er pelo, è segno che se mòre... ». Non c'è assistenza per lui, come per gli altri. Debbono lavorare fino all'ultimo giorno. « Qua c'è pensionato e pensionato. Se me se fermano le gambe, vado a stende' la mano. So settant'anni che lavoro e mo' me danno un calcio... A un amico mio che non ha fatto mai niente, impiegato alle tramvie, je passano centocinquantamila lire al mese de pensione... Chi ha prodotto di più tra me e lui? A un minimo decente pe campa' avemo diritto tutti, che te pare? ». Sturapippe, che è amico del Cesputo, ha la cassa da morto sotto il letto. « Appena che me ne vado, è pronta. Non cacciano 'na lira pe' me. 'Na volta che ho stirato le zampe, chi s'è visto s'è visto. Bònanotte a li sonatori. Co' li soldi della pensione ce pago giusto er vino. Semo come lo strofinaccio: quando non serve più se butta via... ». Seppi che Cesputo aveva abitato non lungi da casa mia. Le sue camere davano su un antichissimo cortile. Il quartiere ove ho vissuto quasi trent'anni è topograficamente il più alto di xxx, ma intellettualmente il più retrogrado. E' un rione ai piedi della chiesa di san Paolo, che chiude in alto una magnifica piazza cinta di platani. Per quella via, passava il santo Gaspare del Bufalo. Ed ora essa porta il suo nome. Vedi appesi ai palazzi scrostati i gabinetti piccoli come casette di piccioni, sospesi nell'aria, i vasi da notte gocciano come i panni sciorinati, a tutte le ore. E i giradischi schiamazzano giorno e notte, a volume da impazzire. Tutti i divi della canzone sono in queste case, e urlano senza sosta, insieme con i ragazzini che fanno la sassaiola, fitti come gli arabi nei mercati. Senti i tam-tam delle mazze sulle botti,

ora ferrei ora cupi, ritmici come una cadenza di farsa preistorica. E gli uomini a dorso nudo, atletici, ora si gonfiano ora si sgonfiano. Le femmine a cerchio e a crocchio per le strade fanno la maldicenza e la calza. Sfruttando l'ombra d'estate, il sole d'inverno. E i somari ragliano, il fieno accaldato puzza, le capre si scornano contro le porte, perché vogliono uscire. E le galline scavano buchi addosso ai palazzi vecchi, sempre più profondi. In giugno, un tappeto lungo e roseo di granoturco fresco vernicia la strada. In ottobre, il mosto la profuma, mentre la nebbia scende dai monti. A Natale, odora di maiale ammazzato e di coppa. Sa di sanguinaccio, in giro. A Ferragosto, i cocomeri popolano gli angoli e le soglie. E, per tutto l'anno, si alternano le luci delle fraschette e il chiasso allegro dei bevitori. E sempre, sempre, le vecchie litigano e si scornano. Ma ogni salmo finisce in gloria. Vi hanno sistemato accanto una scuola prima, degli uffici poi. E allora via galline, via capre, via foglie di canna al sole e rovi spaccati. Via i muli dalla strada, le botti da fuori le cantine a stagnare alla pioggia. Tutte macchine sul selciato. Ma restano le osterie e i gabinetti, i vasi da notte e i panni stesi. Nacqui in una specie di grotta, in una strada parallela. Ma ci rimasi pochi giorni. Poi, la guerra. E quando rientrammo dallo sfollamento, si vedeva il cielo da ogni camera. Mattone su mattone, angolo su angolo, la ricostruimmo. E murati vi sono anche gli anni, perché tutto parla di affetti e di ricordi. Un'infanzia incisa sopra i sassi della strada, come quella del figlio di nessuno. Un'adolescenza ribelle, scritta su ogni onda del lago, su ogni sentiero del bosco, su ogni foglia. E un giorno dopo l'altro: accatastati là, in una camera ghiaccia d'inverno e torrida d'estate. Noi non sappiamo chiudere questa catapecchia, testimone dei tempi di fame e di dolore, amica fedele e semplice della miseria... Mi sento come un figlio che non cambierebbe mai la madre brutta con una matrigna avvenente. Trent'anni circa della mia vita sono lí. Lí ho mosso i primi passi e lí mio padre e mia madre hanno iniziato lentamente a invecchiare. In quelle camere larghe e fredde, ha rintronato la cupa voce di mia zia sorda, che lavava e rilavava i mattoni che non brillavano. Per quella strada è cresciuta come un leccio provato da tutti i venti una generazione scampata alla guerra...

« EHEU NOS MISEROS, QUAM TOTUS HOMUNCIO NIL EST! » (Petronii Cena Trimalchionis) Un giorno di quell'estate, un pomeriggio tardo dei primi di agosto, entro in un'osteria del mio rione. Mi chiama Teraccia, un sessantenne pieno di barba, allegro, spensierato. « Viette a fare un bicchiere. Lo sai chi sei? Ne lo sai che ci hai? La vita è bella. Occhèi ». E in tutta la sua esistenza aveva cantato sempre: « La vita nà che tà prendi comme viene, perché lo sai comme sei, perché lo sai chi sei... E qua semo tutti ozziosi senza voglia de lavorà... »

Trangugiava litri su litri, sempre con un sigaro tra i denti, che imbalsamava l'aria, specie quando, venute le prime piogge, si chiudevano i vetri delle fraschette e scintillava il focherone sotto i tavoli lunghi e avvinati. « Che fai, figlio mio? », mi chiese. « So' stato giù al lago a scorticarmi: una volta all'anno bisogna lavarsi pure... ». C'era tutta la élite contadina, una classe di gente che « ha la certezza in mano e la radice della verità ». « lo, se fossi il governo, farei giustizia: metterei le tasse ar conte x e ar commendatore y ». Un altro sapeva la verità infallibile sulla religione: « lo capisco che le religioni so' venute doppo. E allora non è vero gnente! ». Un altro ancora, politico discernitore e fine, asseriva che: « Pe' essere felici, ce vó er communismo. In Russia c'è libbertà e progresso, pane e lavoro. Evviva la faccia! Là sono tutti giusti e tutta gente istruita, in Italia il communismo non può vení perché siamo tutti ladri! ». Ma Crastatozzo non la pensava come lui. « lo so' fascista e me ne vanto! Quelle quattr'ossa de Mussolini, benedett'anima dove riposa... ». E si tolse il cappello. Il democristiano disse a sua volta: « in Russia e in Cina sono tutti schiavi. Noi qua se parla perché non c'è dittatura. Se stavi in Russia, mo', già t'avevano mandato in Siberia... ». Allora il repubblicano urlò: « lo so' repubblicano storico! Mazzini diceva: Dio e lavoro! E teneva ragione lui ». Ma un giovanottone, arroventato di sole e di peperoncino, gracchiò: « io so' archice! », il che significa: lo sono anarchico. Tutti erano convinti di essere nei giusto. E ognuno batteva i pugni sul tavolo per sostenere la propria ragione. Alla fine, Teraccia parlò di religione un'altra volta e disse che a lui la religione gli « scuciva un baffo ». Allora Merlasecca sentí il nome di Dio. E cominciò a bestemmiarlo, sputando saliva e bava, curvandosi fino al suolo come celebrasse un rito. Lo stesso fece con Santi ed Angeli... Quando non aveva più fiato in corpo, sparlò dei preti... Ma il democristiano disse: « Un communista amico tuo lavora mezz'ora al giorno e rubba! Perché è communista, tu giustifichi tutto... ». « Non ce credo! », urlò cogli occhi di fuori Merlasecca. « Li communisti so' tutta gente regolare! L'ultimo communista può fare il sindaco a Londra! ». « Fesso!!! », scoppiò il dicci. « La canaglia c'è a tutti i partiti! ». « Ner partito communista » stridè il repubblicano, « ci stanno tutti i fascisti che ieri mettevano la camicia nera. Vuoi che te faccia i nomi? Se ritorna Mussolini, ricantate tutti "Giovinezza"! ». Allora, un cattolico fervente, detto Acquasantiera, che stava in fondo, si alzò e disse, con voce contrita: « Abbi pietà di noi, Dio mio! », e si segnò. « Ma piantala! » urlò l'archice, ridendo a crepapelle. « Ma quando te sviluppa er cervellaccio? Nun lo sai che non c'è nessuno? Se non sei tu che lavori co' le bracciacce tue, è inutile che chiami er Padreterno! ».

Il caos ebbe inizio. Stavo smascellandomi dalle risa e non badai più a Teraccia. Quando tornai a guardarlo, vidi che aveva gli occhi vitrei e sbarrati. « Terà... » chiamai. E mentre gli altri stavano per venire alle mani, chiamai ancora il vecchietto. Il quale sbatté il viso sul tavolo. Rotolò. Cadde in terra. « E' morto Teraccia! » urlai. Il sangue gli fluí dal naso, lo sfigurò. Aveva una smorfia di pianto non versato. Dopo pochi minuti, era già in lui la durezza del morto e la deformità del cadavere. Accorse la moglie e si strappò i capelli. Nell'osteria vi fu il turbinio tipico causato dalle morti improvvise. Venne la polizia e fu disteso un panno bianco sopra al cadavere. Solo allora, per me, fu veramente morto. Il bianco e una chiazza di sangue in mezzo riempirono l'aria di funereo. Tre quattro fermarono la moglie, che voleva ammazzarsi. Un estraneo, richiamato dalle uria, entrò claudicando sul suo bastone. E, approfittando del fatto che l'oste era in faccende, si scolò una fila di bicchieri. Tanta ira si era spenta in un biancore di morte. Lo portarono via. La casa era a piano terra. Toccò a me e a Merlasecca vestirlo. Ad ogni movimento, sgranava di più gli occhi, irrigidiva le dita e le riallentava, spalancava la bocca quando gli mettevano le maglie pulite. Ma poi, perché lo vollero cosí vestito a festa i familiari? E' una festa la morte? Gli mettemmo una cordicella perché tenesse chiusa la bocca, come lo scialletto di chi ha mal di denti; un elastico grosso per unirgli i piedi, una coroncina nera tra le dita. E buonanotte. Arrivò il prete e disse quattro preghiere. Le femmine si inginocchiarono e cercarono per la casa gli indumenti neri. Una portò le candele. Merlasecca le accese e le piantò addosso al letto del morto, come conficcasse i paletti in terra, E una si curvò e si ruppe. Allora Merlasecca bestemmiò sottovoce; ma lo senti il chierico, che lo rimbeccò. Merlasecca azzittí, perché il prete lo squadrò da capo a piedi. Allora fece il broncio, col suo viso ebete e delinquentesco, magro come appunto il soprannome indica. Affermava sempre che la massima gioia per lui sarebbe stata di poter dire per ultima parola prima di morire una bestemmia a Dio, in atto di sfida e di odio. E ancora vive e beve. Chissà se manterrà la promessa all'ultima ora della sua vita? il padre fu di parola. Aveva promesso a sé e agli altri che avrebbe respinto il prete e l'Estrema Unzione. E cosí fece, con l'ultimo filo di fiato che aveva sulla lingua. Teraccia era lí fermo, fra le lamentazioni muliebri e le bestemmie sorde di Merlasecca, suo compagno di armi e vicino di vigna, « Se almeno era morto a casa... », piagnucolava la moglie. « Se almeno era morto piano piano, qualche parola la diceva... », piagnucolava la figlia. E Teraccia aveva puntato il naso grumoso di sangue al soffitto, sotto al quale aveva russato e goduto di notte con la moglie ormai sbracata e sfatta. « Almeno a sapé l'ultima parola che ha detto... povero papà mio... », mormorava scivolosamente la figlia. io la sapevo l'ultima parola, anzi le ultime due, ma non volli dirle. Esse furono: « Mezzo litro! ». Peccato che non lo abbia potuto bere. Cosí è la vita: uno ordina e non consuma. Ordina e aspetta. Ma la sorte arriva sempre prima della cosa attesa.

« La vita nà che tà prendi comme viene, perché lo sai comme sei, perché lo sai chi sei... »

ripetevo fra me, rivedendo la sua bocca muoversi e gli occhi sorridere al canto stonato e gracidante. Teraccia non ha avuto il tempo di conoscere la morte né di impressionarsi. Non ha avuto il tempo di ragionare su se stesso che crepava. E di soffrire la vera morte quando era ancora in vita. Ché la morte non è dopo l'ultimo respiro, ma molti momenti prima. Da quando cioè tu conosci con certezza la tua fine. La tua impotenza a restare, il dubbio della sorte che ti aspetta: questa è la morte. E' l'ultimo attimo, lo stacco finale, il colpo di forbici allo spago teso e corroso. Dopo, il dolore e la coscienza della fine non ci sono più, mai più. Ad un certo punto, la moglie del cadavere conversò con una delle intervenute. « il posto nel loculo del Camposanto? Andò lo mettemo? ». « Sotto tera non te ce metto! » urlò la figlia. « Che dici, Assù... la commare Ada ce lo darà per il momento un posto drento a la tomba de famiglia? ». E venne la comare Ada. « Commare Assunta mia, non ve lo posso presta. Se me more qualcuno all' improvviso, andò' lo butto? Alla munnezza? C'è rimasto un posto solo ». « E nun ce pensate a 'sta tristezza! Lo rilevo subbito. Il tempo necessario pe' comprà un fornetto appena l'hanno costruito... Pe' carità, fatelo pell'anime sante del Purgatorio... Requiameternadonaeisdommine... ». E un coro di voci caprine rispose in un latino intraducibile, tanto più sacro quanto più indecifrabile e inintelligibile. E ne ripeterono fino a che ebbero un ultimo filo di fiato, come se il numero delle preghiere dovesse decidere la sorte di Teraccia. Ma il cuore di lui s'era fermato ed egli, che più non era, si andava gelando sempre più. Uscimmo alla sera, col cattivo odore delle candele nei vestiti, e col lugubre coro delle vecchie ancora nelle orecchie. All'angolo di una strada violacea nel crepuscolo, due contadini si massacravano di botte perché l'uno, dando il solfato di rame, aveva, al confine, pestato con un tallone una zolla del vicino. E questa violazione di territorio, questo gesto di pura « politica imperialistica ed espansionistica », era un fatto morale. Passammo oltre. Quand'ero piccolo, ricordo che due ortolani litigarono per una cima di broccolo. Essa era nata al confine di due pezzi di terra. La radice era sul terreno di nord, le foglie e la pianta redine sulle zolle di sud. Il primo vantava i diritti perché l'aveva piantata, e nutrita con la sua terra. Il secondo diceva che stava sul suo terreno e doveva coglierla lui, perché l'aria e il sole erano stati rubati alla sua terra. Per farla breve, la pianta non la colse nessuno. Il primo andò al cimitero con una roncolata all'aorta; il secondo lo raggiunse presto, assalito dal tetano che gli aveva provocato la lama arrugginita dell'altro.

L'UOMO NACQUE IN ESTATE Illanguidiva il vaporoso agosto. Sulle colline verdissime, come un incanto di fiaba, saliva il giorno chiaro. E l'acqua ferma e gelida era piena di vele, i giorni uguali, sempre

accesi di sole e di luce, impazzivano di cicale e di cuculi. La terra, nascosta sotto i grandi lecci, era bruna e fresca; e sapeva di legno bagnato. La macchina, tuffata col muso tra le foglie di nocino basso, crepitava come i pini, in quell'arsura inconsueta. E mi scioglievo di sudore, arrosolato alla sabbia rada come un pollo allo spiedo. Un gusto sensuale mi invadeva. Penetrava nella pelle, fino al midollo delle ossa, il fuoco. E il sole fermo e stupendo e cocente mi scorticava come una massaggiatrice campagnola. I corpi a fianco del mio erano trascolorati e diafani, d'una lucentezza che appare a chi si sveglia dal buio del sonno. E l'acqua bolliva, non era più acqua. Era sole anch'essa, come i monti che non respiravano più. La carne nacque in estate, sudando per il calore, superiore a quello del ventre sanguinoso della madre. L'uomo fiorí in estate e morí in primavera, perché gli fu vietato di rivedere la potenza delle stelle. Sentivo il fruscio delle serpi, come un rumore amico. E il volo lungo e nerastro dei falchi, come un omaggio al silenzio e all'estate. Non c'è posto per le nuvole, non c'è posto per l'ombra. C'è solo il desiderio, ardente come il sole, di bere il fresco e di innestarti nella maestosa fermezza dell'eternità. La vita è zucchero filato: con un morso si riduce alle dimensioni di un cucchiaio da caffé, da enorme com'era. Alla brace del sole, le carni odorano di bruciato. Rogo immenso la terra, sotto la cupola gialla della profondità celeste.

PIZZICATO PER MONOCORDO Mia zia sorda, col suo vocione sgraziato e cupo, monotono e fisso, dolente alle orecchie, con i suoi occhi neri lucidi come l'ebano, nacque sana, ma a tre anni una meningite la privò della percezione dei suoni. E quando ascolto la radio o un disco, ella avverte le vibrazioni coi nervi e chiede con occhi da bambina: « Che? che? come?... », e agita le dita. Cosa le spiego? Le dico che non vale la pena sentirli, che fanno male ai cervello e io sono costretto per motivi di studio, in quel suo mondo di silenzio, non c'è posto per la distrazione. Zia Maria sbriga le faccende di casa con la velocità della luce. Ha cresciuto me e Laura, mentre mia madre andava in campagna, per lunghe interminabili giornate. Si riunisce settimanalmente con gli amici sordi, le amiche mute. E allora noi le lasciamo il camerone. Dall'altra parte, sentiamo un rumore strano: sembrano voci non umane. Ma ormai mi sono care, esse e tutti i sordomuti di questa terra, col loro strano chiuso mondo. Alcuni mettono pure su famiglia, e fanno figli belli e intelligenti. C'è una coppia, un omone e una donna gentilissima, che vengono spesso da mia zia. Hanno sei figli, tutti sposati. Il marito ha fatto il calzolaio e la moglie la donna di casa. Ognuno di loro ha un accento, un modo particolare di esprimersi e di vedere il mondo. Li capisco benissimo ormai. Mi divertono le loro battute, mi crucciano i loro dolori. C'è un mio coetaneo sposato con una sordoparlante bellissima. Guida la motocicletta e lavora a Roma. Tanta è la convivenza e l'abitudine, che non mi sembrano più sordi. Sono entrato nel loro mondo. Sono entrato nel loro modo di agire e di vedere. Se ti odiano, sono i peggiori nemici; se ti amano, sono i migliori amici. Primitivi nel cuore e nella ragione, impulsivi, lineari, senza sovrastrutture, risolvono i problemi di Dio e della vita con grande semplicità. C'è tra loro un falegname più colto, che è quasi un maestro. Legge i giornali e

informa, traduce, mette al corrente degli avvenimenti. Guida la macchina e dirige le sorti comunitarie della sua congregazione. E' molto ascoltato; ma ha un rivale, un ex-muratore, sposato con una udiente, padre di molti figli ed ora pensionato e calzolaio per hobby. Egli pure è sempre al corrente di tutto, specie in politica, ed è un gran donnaiolo. Loro due sono ritenuti dei supermaestri e non di rado fanno da giudici nelle questioni fra sordi e da solutori dei problemi più complessi, e quindi collettivi. Se il falegname e il muratore-calzolaio sono i più evoluti, Spàracio era il più singolare, il più grottesco. Di statura normale, dal viso più largo che lungo, con le grandi mascelle e il petto irsuto a metà scoperto estate e inverno, dal passo traballante, larghi i pantaloni e antichissime le scarpe, Spàracio era forse l'unico esempio di sordo che parlasse assolutamente in dialetto. Già anziano, dormiva in un grattino all'umido, e aveva intorno una decina di cani e di gatti, i quali andavano d'accordo e d'amore. Siccome lui faceva lo scannaporci e, in tempi di secca, il mondatore di pesce, i suoi animali non pativano la fame. Ma una puzza cosí assoluta usciva dal suo tugurio, mai spazzato per anni e aperto ai sole di rado e per sbaglio (quando, ubriaco, dimenticava di chiudere la porta che fungeva anche da finestra), che avresti creduto ci fossero dentro, a putrefare, un popolo di cadaveri. Spàracio, infatti, portava in casa pesce avariato e pezzi di maiale: sanguinaccio e budella già private del peritoneo. I gatti e i cani mangiavano e sporcavano, sotterravano nei terreno umido gli ossi e le lische. Quella stamberga era tutt'un gabinetto comune. Ma Spàracio mangiava nelle osterie, bevendo a sazietà e nutrendosi per lo più di ravanelli e di coppiette, per bruciare il palato ai fine di bere di più. Parlava forte, e di politica. Sempre. Ce l'aveva coi « fattìcci » (parola che, per metatesi, come molte altre, lui aveva coniato e significava: fascisti), e coi « chiesaroli » (i preti); salutava sempre a pugno chiuso e diceva, in tono oscuro: « io so' commutticcia e me piace 'a pastatuccia » (io sono comunista e mi piace la pastasciutta). Analfabeta, onesto, (viveva senza pensione, del suo solo lavoro che, in inverno, al banco del pescivendolo, in piazza, gli spaccava le mani sempre graffiate dagli spinoni dei pesci e dalla tramontana che gelava fra le sue rughe l'acqua e il sudore), aveva appreso in giro quel che sapeva. E qualcuno si era divertito a insegnargli cose strampalate, per ridere, come nomi sbagliati e concetti ridicoli. I pantaloni gli avevano detto che si chiamavano « Grottaferrata » (un paese dei dintorni) e lui spesso diceva: « Me tengo da comprà grottaferrata: questi so' strappati ». Ma il gioco non si fermava lí. Il repertorio era più vasto e osceno. Si che Spàracio parlava da blasfemo e intendeva dire invece cose normalissime, quali: Oggi ho scorticato tre razze... e usava questo inconscio sproloquio: « Oggi so' sventrato tre zozze... ». Arrivò il giorno in cui, all'ora consueta, quando la notte è lí lí per svanire, la logora scricchiolante porta di Spàracio non si aprí. Ma nessuno si dette pena: una sbornia più pesante delle altre, pensarono in giro. Quando il sole ebbe fatto la ruota del pavone, e si era infilato fra i vicoli scuri, tagliati sul mare dai colore metallico di mille sgombri e tonni, i cani e i gatti chiusi in quella tomba non si tennero più. E guaiti, miagolii, colpi alla porta richiamarono l'attenzione dei vicini. La porta non fece molta resistenza. Spàracio stava bocconi sulla « rapazzola », rantolando. La paralisi gli aveva offeso la parte destra del

corpo e gli aveva abbassato le palpebre che mostravano il rosso sotto la sclerotica, come due ginocchia sbucciate: un mostro. La bocca si era contorta in un'espressione di disgusto e la barba ispida, bianca, aumentava la tragedia in quel viso mugolante, rosso fuoco, dagli occhi come due uova fritte a galla nel pomodoro. Spàracio riprese a camminare: a zoppicare, anzi. E a bere. Coi mesi, tornò a scorticare le razze cosí come poteva. E d'inverno, nella bruma dei mattini glaciali, stava lí come una pietra al banco della rivendita, respirando a fatica, liberando incontrollati rumori col fiato, quasi un lamento soffocato a stento: tortura del gelo che gli riapriva antiche piaghe, non cicatrizzate fessure. I geloni gonfiavano quell'unica mano mobile, e il vento sembrava entrare come un coltello all'interno degli occhi spalancati di Spàracio che, una mattina, con le stesse orbite sgranate al soffitto curvo, rimase fermo per sempre, alla marcia funebre dei suoi unici amici: i cani e i gatti.

CAPITOLO DEL SOGNO CHIAVE Declinò agosto, rossastro di tramonti uguali e infuocati, dal cielo bianco al mezzodí per la calura. E le notti argentate di luna, distese e rapide, avevano un fascino fatale. E pare che al buio delle siepi, al luccichio delle beate lucciole, suoni qualche invisibile strumento. Agosto è il mio mese, e da lí, ogni anno, ha inizio la crudele insonnia. Anche allora, crudele e spietata, tornò all'improvviso. Erano ancora calde le spiagge, e le onde riuscivano gradite sulla pelle bruna e sudata... I giorni, prima belli di sole, saporiti di vini nell'acqua ghiacciata, erano la calce viva della morte. Cosí, prima di settembre, partii per l'oasi fresca e silenziosa di Orvinio, sui monti Sabini, al confine degli Abruzzi. Ma quella quiete insolita e pietosa mi fece peggio, meno stanco il giorno, più solo la notte. E una lunga notte, aspettando il sonno per sette pazienti ore, lo sentii venire verso il mattino. Lo afferrai coi nervi attenti come quelli di un cacciatore quando ode i passi di un cerbiatto e vigila. Poggiò sugli occhi la sua ala divina. Per poco, per non più di un quarto d'ora. Ma ebbi il tempo di sognare, disabituato anche a questa forma di illusione. Era il meriggio. Mi trovavo in un canneto. E il cielo rosato profumava di datteri e ananas. Una luce fioca ma diffusa portava un lamento di cose nuove ed enormi. Un'atmosfera di avvenimenti eccezionali, come quelle che precedono una catastrofe. Poi c'era un fiume: « Questo è il Giordano... », mi disse uno, pustoloso e bianco di cancrena. E rideva: « Oggi crocifiggono il Maestro, il Rabbi di Galilea... ». Era il Venerdí santo. E non c'erano campane né colombe. C'era il rossiccio del deserto. E il fuoco della Palestina, il lebbroso mi rise in faccia e mi toccò sadicamente. Poi mi sputò addosso. E se ne andò lasciandomi tremante in mezzo al canneto. « Evviva Barabba! Ammazzalo quell'ebreo... Dice che è Dio, quel matto! Ammazzalo!... », sentivo da lontano, una lontananza di sogno, quasi astrale. E un brusio enorme di folla, un trambusto di lance e legni e chiodi e schiaffi e uria e risa... Allora mi guardai le mani: ero lebbroso! Corsi al fiume. Mi bagnai alle acque battesimali del Giordano. Ero sempre più cancrenoso. Mi specchiai: ero gonfio, e la carne bianca morta si staccava dal viso.

« Cristo solo può farmi guarire... », pensai con la forza della disperazione. « Ma Gesù muore alle tre e ora sono già le due... Non farò più in tempo... ». Corsi come un pazzo, col cuore in gola, chiuso nell'ansia e nello spasimo di vedermi lebbroso. « La salvezza è là... », ansimavo. Ma le gambe non ressero. Caddi tre volte. Respiravo a fatica, a rantoli, e piangevo. Ma ecco i fuochi: una gran folla: il Calvario. Tre Croci lontane. Lo stridio sempre più prossimo, il dolore, le lacrime, le mie urla: « Non lo uccidete: è innocente: è il Salvatore del mondo... ». Eccomi, eccomi nella folla... Maria dove? Dove gli Apostoli? Tutto è rosso, è verde, è nero, è cattivo. Tutti visi stampati col ferro infuocato, lo sono lebbroso e mi si fa un vuoto attorno, fetente di vino e di aceti e di sangue. « Gesù... », urlo con la gola che mi butta sangue. « Non morire, non sono le tre, aspettami... ». Ed Egli non mi sente. E' rivolto al cielo, non si accorge di me... Il Calvario è sempre più distante, il cuore non mi batte più, divento nero... Cado ancora tre volte, mi infango, semino le carni morte lungo la salita. Mille mille occhi in alto in basso a destra a sinistra obliqui larghi stretti scuri maligni mille mille bocche aperte chiuse i denti il sangue gli urli le lance le lance le lance nella mia schiena la corsa trafelata il delirio.... La Croce! E' Gesù che muore, e sono già le tre. Alzo la mano destra per toccargli i piedi, ma un centurione mi trafigge il petto con una lancia. Disperatamente, mi aggrappo ai piedi rossi di Gesù e la mano torna normale. « All'ultimo momento... Ho fatto in tempo all'ultimo momento... ». Un'altra lancia mi passa da destra a sinistra la gola e mi inchioda alla Croce. Gesù mi sorride, e muore. La terra non c'è più, non c'è più la folla, non c'è più il sole: è tutto bianco. E non più sangue né lebbra, il sereno chiarore che annulla i mondi ed i cieli, nell'infinità di Dio e dell'eternità. Con un balzo mi destai, il sole stregato e liquido era su di me, penetrato non so per quale magia tra le persiane d'un tratto spalancate. il giorno era passato attraverso i monti e inondava di luce e di calore le valli. Gli alberi erano fermi alla calura estiva come mummie imbalsamate in un oceano senza tempo. Nello stupore del ripensamento, trascorsi molti minuti. E il cuore voleva uscire dal petto... Il canneto allungava le foglie fino al balcone della camera, nella pulita atmosfera sabina. Il sogno mi aveva turbato. Passeggiai infreddolito sotto il sole, come un ramarro, ripensando allo strano sogno. Lontano, a sud-est, scintillava il Velino, come una lama. Pareva che là il mondo dovesse finire. Era cosí malinconico il mattino, fin troppo lucido per i miei occhi innamorati dell'ombra e della notte. Si stendeva alle valli rosate e gialle, come in una pellicola, una quiete colorata e corporea. Ogni montagna ha un profilo, ogni arbusto un'ombra, calcata e precisa. Sembra che in quella calma di nevi perenni, ove il corvo non si disturba nemmeno a gracchiare, né il vento suona le foglie e la pelle dei fiumi, l'uomo debba per forza guardarsi dentro. E il silenzio pare che ti trafigga. Il giorno fluí nella sua immobilità. E fu sera. Il vento fresco sbucava dai muri ancora caldi di sole, bianchi di pietra. E il Velino lontano si nascose nel buio, ché la luna non si destò. Il giro nero di montagne tremava qua e là di fuochi. I pastori vegliavano al cielo indefinibile e impressionante. In quelle gobbe passeggiava Adamo, perché il cuore tornava

alle origini. Non cercai la casa, ché il sonno non sarebbe venuto. Ma scesi nell'irresistibile oscurità, nelle valli, paurosamente sole e ferme. Un pastore assiepato con il vento, tra le sue pecore e la brace quasi spenta, in quel mondo privo di tempo e di morte, mi salutò. Era cosí ovvio per lui che io passassi, un io qualsiasi, sotto le stelle d'oro... « Addu vane? », chiese, con un canto che sapeva di latte e di lana grassa. « A monte... », risposi, con un tono arido e secco, un tono ipocrita di città. « Vé ecco », invitò. Poi aggiunse: « A notte è nera. Assèttate... ». Come un santone dell'Himalaya, incrociai le gambe e stetti in un religioso silenzio. Quella notte la paura si trasformò in desiderio. Sarebbe stato cosí bello morire allora, sotto un cielo immobile senza meteore, dalle stelle cosí distanti, più chiare e silenziose delle stelle della campagna odorosa di agresti e di more. Che c'era al di là dei monti? Che al di là della volta nera del cielo? Che al di là di noi? il pastore intonò una nenia, e sentivo ch'era un canto di morte. Veniva la morte, a trovarmi soltanto, non a portarmi via. Perché essa è crudele e non ti tocca quando tu lo vuoi. Mi parlò la morte, con una voce che si percuoteva come un dito sui vento. E al di là era il buio. La nenia filtrava nella pelle. Entrava nel cuore con spietata immediatezza. E pareva scuoiarmi. Sudava la mia anima alla morte lí presente. Alla morte che non aveva parole ma solo brividi. Mi distesi col viso al cielo. Senza pensare più, per non inorridire. E le stelle si muovevano, parlavano un linguaggio pauroso. Ed ecco la luna, come un teschio, gialla. Il suo sorriso disumano, sadico, senza tempo, somigliava alla voce afona e penetrante della morte. L'oscurità rappresenta meglio l'infinito che equivale al nulla. Alla luce pallida e moribonda della luna, il pastore mi apparve brutto e animalesco, con la sua voce simile ai belati delle capre nere, lucide al cielo, uguale al lamento delle pecore ferme come piccole nuvole sulle gobbe morte. Tutto era fermo, pure la luna bassa, ad oriente. Ma il cuore del gregge, del pastore, il mio cuore, inconsapevoli battevano il tempo, accelerato verso la morte. Un ritmo travolgente. Mi percossi il petto per fermarlo. Sarei morto con gioia, quella notte. Come quando ubriaco, steso in terra a vomitare l'aceto del vino, sorridevo pensando: « Se viene ora la fine, non me ne accorgo nemmeno... », Fu l'alba, invece, d'un tratto. Ed eravamo pieni di rugiada. Un'alba fatta di raggi di sole staccati, addormentati di fiore in fiore, di pietra in pietra. E i monti assorti si ridestavano anche essi, pieni di corvi neri, e di falchi romiti. Lasciai che il sole mi asciugasse, come un'erba o un sasso muschioso. E immaginai quando, sepolto, fra le radici vive dei fiori e degli sterpi, non sarò più che un'ombra nei ricordo vago dei pigri rimasti. E il sole non asciugherà rugiade sulla pelle putrefatta. Come un eremita nel deserto, ma schiacciato da dubbi e da viltà, rimasi fra quei monti a sudare e a dormire, a tremare per la brezza della sera, a snudarmi per il pomeriggio. E quando tornai, come Mosé dal monte Sinai, ma un Mosé di piccole dimensioni, pauroso, indegno di vedere Dio, i dubbi erano più saldi e più numerosi. Per reazione, sfuggito agli sguardi noiosi e vuoti di coloro che mi credevano morto, mi chiusi nella cantina del nonno materno. E bevvi come lui, quando, assalito dall'unico dubbio della vita concreta, tirava a campare e cantava tra un bicchiere e l'altro. Ma disabituato com'ero, bastò poco a farmi

vaneggiare. Cosí, come dopo la vita c'è la morte, dopo quella certezza dell'esistenza data dall'euforia del vino, riapparve il dubbio. Tremendo, mortale. Come sempre, d'altronde, come sempre.

E' BEN PAGATO IL DOLORE SE HA LE LACRIME DEL MONDO Quando tornai a xxx morí Togliatti. Per le strade vidi gente piangere, quelle persone che avevano consegnato nelle mani di un capo il loro avvenire ed avevano riposto in lui le speranze di un domani felice. Il Cesputo disse: « Mo' l'interessi nostri chi ce li guarda più? ». Rispose Merlasecca: « L'idea rimane. E' morto Palmiro, ma non è mica morto er communismo! ». In ogni osteria vi fu silenzio. Pareva che quei visi dolenti toccassero con mano il crollo di un'illusione troppo a lungo alimentata. E anche Merlasecca, nonostante la sua frase ripetuta con fermezza dopo averla appresa dai maestri di psittacismo, nutriva un istintivo dubbio circa la realizzazione del promesso domani di benessere e di perfezione. Il giorno dei funerali, tutte le osterie furono deserte. Molti cantieri si spopolarono. Non pochi Castelli Romani mandarono il grosso della popolazione per le esequie. Di fronte al feretro, un numero considerevole di persone si faceva il segno della Croce. E pregava. Perché, cosa pregavano? E chi pregavano? Che banale miscuglio di cristianesimo e marxismo... Quando morí Pio XII, ero a Milano con mio padre. Noi amiamo di più (per nostra natura) il parroco di campagna dalla tonaca bianca di fango che, seduto a mensa, spartisce con noi il pane e il bicchiere di vino. E cosí, teniamo per freddi tutti coloro che non hanno questa possibilità di confidarci le minime cose né di ascoltare le nostre confidenze. Era in una stanza del Palazzo Pontificio di Castelgandolfo, Papa Pacelli, nell'ottobre assolato e dolce. Aveva per sfondo al suo ultimo giorno di silenzio il lago profondo. Papa della mia primavera... Pensavo che il Papa fosse immortale, e quale fu il mio turbamento quando al soglio di Pietro salí un nuovo Pontefice... Quella cupola altissima di san Pietro in Roma dovrebbe essere il centro del mondo e il legame etico dei tempi. Gli stupendi colonnati due braccia enormi che dovrebbero stringere al cuore tutta l'umanità. Ma le campane del mondo suonano a ritmo diverso e con note che assieme stonano. Altri dèi pigiano ad Oriente e a Occidente per entrare, altre cupole svettano al cielo. Si che nel concerto dissonante emanato dal globo, si odono le campane più rumorose.

LA ROSA DEI VENTI Il Cesputo aveva aperto l'osteria nella parte alta del paese. Passavo là davanti, di ritorno da una passeggiata salutare e quasi spensierata. Mi sentii chiamare con un grido rauco. Giovenale non accettò scuse. Dovetti entrare. E lí, dall'assemblea delle « scarpe grosse » e delle « mani callose », appresi che i due banditi X e Y erano stati catturati. Acquasantiera, un uomo magro magro e rosso di vene sporgenti sulle gote, stava

quieto in disparte. Ma non poté fare a meno di entrare in discussione quando Merlasecca, spiattellando il suo giornale in faccia a tutti, prese le difese dei due delinquenti. « Me tocca sempre a intervenire... » cominciò piano Acquasantiera. « Te pare che due assassini che hanno sparato a due poveri figli de madre per derubarli e hanno svuotato una famiglia sana, devono essere difesi a tutti i costi? ». « E' colpa della disoccupazione se X e Y hanno sparato, è colpa del governo... », obiettava Merlasecca. Allora Giovenale, con più vino del solito nella testa, scrollò le spalle e disse, in tono triste: « Ce voleva che t'ammazzavano i figli tuoi, Merlasé... ». « Che c'entra! », scoppiò questi, aggiungendo: « Vanno a rubare perché c'è disoccupazione. Senti che dice il giornale della verità... ». « il giornale dei protettori della delinquenza! », esclamò un poliziotto in borghese, che fino a quei momento aveva fatto il finto tranquillo. « Vi mettete a cavillare se il colonnello ha sparato per primo o per secondo... », aggiunse alzandosi in piedi. « Volevate che, dopo tanti omicidi, ne facessero altri, ammazzassero i carabinieri, la gente che era lí! Il colonnello ha sparato solo quando il mitra di X lo ha sfiorato. Ha risposto ai colpi. Acclamate i criminali, basta che ci sia da dar contro al governo... ». Merlasecca, che non aveva riconosciuto l'agente, disse: « Doveva da ammazzare pure li carabinieri, perché so' zinnate cattive de la madre... ». Giovenale si risenti. Disse, come da tanto non lo ascoltavo più: « Vi fanno comodo i ladri e i birboni per movimentare peggio possibile l'ordine costituito e far venire il malcontento. Volete i disordini voi, e incoraggiate la delinquenza... Avete fatto dello sciopero l'arma della rivolta e della sobillazione! ». Merlasecca era nero, il Cesputo, da buon oste, parteggiava per tutti e per nessuno: stava in un controllato silenzio, perché per lui i clienti erano clienti, e tutti uguali. A mano a mano, il calpestio di parole condusse i ragionamenti su un filo diverso. Merlasecca disse: « Pure i preti rubano e non lavorano! ». Acquasantiera, da timorato qual era, si scandalizzò e manifestò la seguente opinione: « Che ti credi che lavora significa solo lavorà con le braccia? Che idea vi siete fatti del lavoro? ». « Voi siete tutti capitalisti e sfruttate l'operaio! » replicò Merlasecca. « Già! Questo non lo puoi dire a me che vango pure la notte! lo ci ho i calli alle mani come pagnotte, hai capito? Questo lo devi dire ai capi tuoi che, da buoni difensori delli braccianti e delli proletari, ci hanno l'autista, le ville, l'isola nel Tirreno e l'areoplano privato. Dillo a quelli che giocano sulla vostra buona fede e vi gabbano come babbei. Il prete, almeno, dico io, ti dice che la ricompensa ce l'avrai all'altro mondo... ». Giovenale, con un'espressione amara, borbottò a me soltanto: « Poveri illusi tutt'e due! Merlasecca aspetta Baffone e Acquasantiera se crede che viene l'Angelo dar Paradiso... La vita è quella che è... A noi che semo stracci ce rimane sempre de volà col vento... La vita è quella che è, non ti mette' in testa cavoli... Nessuno te regala niente se non te lo sudi... », e mandò giù d'un sorso un bicchiere pieno. Un uomo che stava in disparte, dall'aria singolare, sentenziò: « Bisogna salvare il marxismo dai comunisti e il cristianesimo dai cattolici! ». Uscii alla luna. Lungo la strada c'era la processione, in una piazza tenevano un

comizio, e il rosso delle bandiere contrastava col lutto degli incappucciati della buona morte. Altre confraternite in bianco, al chiaro tremulo dei ceri, cantavano preghiere di perdono. La folla, attenta all'altoparlante, aspettava il riscatto e si affidava al suono ormai consunto e volpino delle parole « giustizia uguaglianza lavoro libertà ». Gli altri chiedevano in lunga fila pace e perdono. Al tepore del cielo profondo e puro scelsi altra via. Tagliai la piazza delle morte promesse, attesi che passasse la processione, impalpabile come suono di mille strumenti e diafano più dei riflessi della luna, a passi irreali fuggii per le campagne odorose e aperte, ad innestarmi all'alito eterno della natura. Padre, se un giorno dovrai giudicarci, che farai coi figli scettici, i quali hanno messo troppo a frutto la ragione? E cosa coi rigidi, con quelli che hanno scacciato il dubbio fecondo e il dolore della lotta intima? Tu sei un sole che ognuno vede secondo un proprio prisma. E i prismi opachi ti vedono opaco, altri si accecano della tua luce. Vidi quasi una nebbia sui prati lunghi e ripiegati verso il mare... Camminavo tra la cenere di tanta carne putrefatta, di tutta l'umanità dai secoli ai secoli. Tanto clamore di voci e tanto sangue di battaglie erano consunti in nuvola di vapori delle ideologie terrene e vane, in quell'attimo chiaro di stelle amorose e fuggenti, imbalsamate dai fiori cerei lunari, respirai l'alito di Dio. E si capovolse l'ordine delle cose. Ma fu un momento, e la Rosa dei Venti riportò la sua geometrica formula all'uomo, perno caduco dell'universo.

L'ULTIMA SBORNIA A pranzo, aprii il giornale e lessi che a xh il poeta De Ottusis teneva una conferenza sul tema: « Differenza tra prosa e poesia ». Avevo, dal giorno prima, appuntamento con Giovenale. Conciliai le due cose. Me lo portai appresso. Agile sui piedini da nano, col sole che rifletteva la luce sulla sua zucca lustrata, Giovenale sembrava una palletta poggiata a un pallone a sua volta in equilibrio su due stecchini. Rideva come un bambino: candido e sferico pure nella bocca spalancata, dalla quale una linguetta rossa come una lecca-lecca scivolava sui denti. Era più alto seduto che in piedi. Era andato a pranzo nella cantina di un suo amico ortolano e mi aspettava da un po' al bar della piazza, giocando a biliardo e chiacchierando con la voce argentea come quella di una tromba d'opera. Accettò di buon grado e ci incamminammo sotto il cielo e gli alberi, tagliando per i vicoli e le strade secondarie, alla volta di xh. Mi disse che da qualche giorno si sentiva proprio bene e che avrebbe potuto alzare una montagna. « Finita la conferenza » mormorò prima di entrare, « ci rintaniamo da Trubbiano, intesi? ». Il poeta De Ottusis, celebrato lirico presente in tutte le antologie e membro di quasi tutti i premi letterari del Paese, nonché grande consulente televisivo, cominciò in tono tragico, dalle ganasce grasse e dagli occhi tutt'altro che espressivi: « Molto si è discorso sulla poesia e sulla prosa, nonché sulle loro specifiche differenze, eziandio confermando ora, ed ora negando, quelle peculiarità di ciascun genere letterario... »; disse che il poeta è colui che scrive in versi e che il narratore e scrittore è colui che si esprime in prosa. Dimostrata

(secondo lui) la superiorità della poesia alla prosa, chiari perché Ada Negri è poetessa e Verga romanziere: « Negri ha usato il verso e Verga la prosa. Orbene, risulta chiaro che Boccaccio è scrittore e Aleardi poeta, Tolstoi scrittore e Ceccardo Roccatagliata Ceccardi poeta, il Manzoni dei Promessi Sposi narratore e quello degli inni sacri poeta, tutti i verseggiatori contemporanei poeti e Cervantes scrittore, Dostoewskij romanziere e Parini poeta... ». Di quel passo, parlò un'ora. Alla fine, un giovane obiettò: « Mi scusi, professore, ma, se ho ben capito, la differenza tra le due forme di espressione consiste in una scelta esterna: vale a dire se uno scrive: « lo vado a Roma », tutto in una riga, ha fatto prosa, se invece scrive: « lo, a capo, vado, a capo, a, a capo, Roma, a capo, ha fatto poesia... ». Un altro disse: « Non c'è forse più poesia nei Malavoglia che in tutti i versi prosaici della Negri? ». « Se bastasse scrivere in versi per essere poeti, sarebbero poeti tutti... » disse inaspettatamente Giovenale. « E' ora di finirla con questa banale distinzione! » continuò il giovane che aveva parlato per primo. « Poeta è Michelangelo, è Bach, è Dante, è Manzoni, è Boccaccio, mentre i prosatori, e meno che prosatori, sono quei tanti scribacchini presuntuosi che, messe quattro parole in colonna, credono di potersi definire dei Foscolo o dei Virgili... ». Usciti ben presto alla luce del sole basso fra i tetti, Giovenale commentò: « Quanti romanzi sono opere di poesia e quante poesie non sono nemmeno prosa... lo me ne infischio, perché le chiacchiere non riempiono la botte, però adesso capisco perché tutti 'sti babbei di contemporanei con due articoli e un sostantivo pubblicano un libro... ». Trubbiano stava discorrendo animatamente nel suo grottino. Il crepuscolo entrava nella taverna come una nebbiolina celeste. Dai muri antichi il tepore del giorno pareva staccarsi come l'intonaco. Un mulattiere aveva legato la bestia all'anello di un portone; l'animale torceva il lungo collo e rubava al suo carico i fili più lunghi dell'erba e le foglie infilzate dai rami, in quell'angolo morbido per la lontananza da qualunque asfaltata, potevi sentire, misti alle voci dei bevitori, gorgheggi di uccelli: trilli provenienti dagli alberi e dalle gabbie appese ai davanzali, tra vasi sempre verdi e mele aperte ad asciugare alla luna. Con una scusa Giovenale ed io uscimmo all'aria, per ascoltare in silenzio il canto di quelle creature sempre più rare. E quelle note acute, limpide, veloci, riempirono il nostro cuore di beatitudine, come una folata di vento fresco nell'afa di luglio, come una carezza di sole fra i vetri appannati dell'inverno. Ma sentimmo un colpo di fucile. E Giovenale urlò a lungo, squillando come una cornetta d'argento. Rispose un altro sparo. E i pallini di piombo piovvero, al ritorno dal cielo e dagli alberi, su noi. « Ahò », borbottò il mio amico. « andamosene dentro sennò facciamo la fine dell'uccelli... ». « Accendi la luce! » ordinò un avventore. Trubbiano, che voleva risparmiare, mandò un'imprecazione e disse: « A ragionare ce se vede pure all'oscuro: tanto, se er cervello non te funziona, te credi che con la lampadina funziona mejo? ». Tira e molla, l'interruttore fu mosso. Notai, allora, nel fondo del locale, col viso scuro per la collera, Sorrecchio che guardava di sbieco il quartino vuoto. Lo invitammo a bere con noi e gli si illuminarono gli occhi. « Se gli fai la verticale », sussurrò Giovenale, « non gli esce dalle saccocce nemmeno

una moneta da cinque: so' sette mesi che magna aria e vento... Sta' a senti': mo' gli faccio sfilare la corona. Sorré: come va co' 'sto sciopero? ». « Li possino ammazzalli! » rispose Sorrecchio, storcendo il muso. « Co' sette mesi me so' venduto casa e mo' abbito co' li soceri... Scioperate che vi daranno il doppio, dicevano i sindacati. Protestate che vi daranno i dividendi e poi pure la fabbrica. Un giorno, due... una settimana, due... Ahò, je dissi a un sindacalista, ma qua mi figli me se moreno de fame e mi moje deve da andare a zappare... Pazienta e tieni duro e il potere sarà nostro! rispose er sindacalista. Un mese, due... tre mesi, quattro... Alla fine la fabbrica chiude. E ottanta famìje in mezzo alla strada. Allora so' andato dar sindacalista e ci ho detto: mo' come se fa? M'ha risposto: ad una ad una chiuderanno tutte le fabbriche capitalistiche; quando andremo al governo noi vi riassumeremo con tutti i dividendi, lo ma però già me moro de fame, ci ho risposto, e le creature mie vanno a finí tubercolose... Lo sai che mi ha risposto? La lotta costa sacrificio e la vittoria sarà il premio che coronerà la classe operaia. Ma però quando verrà 'sta corona? ». « Quella de spine in capo già ce l'hai... » interruppe Giovenale. « Com'è andata a finí? » continuò Sorrecchio. « E' andata a finí che ho venduto casa e me l'ha comprata er sindacalista... ». « In Italia se va sempre agli eccessi... » commentò Trubbiano, mentre portava nella prima tavolata chiassosa quattro litri e otto bicchieri. « Lo sapete che quando ero monello io, i padroni ce facevano lavora dalle quattro de matina fino al tramonto? Povera mia madre mi diceva, a me che tremavo de freddo e cascavo de sonno: fijetto mio, prega l'anime sante pe' intenerí er core der padrone, ce facesse annà via prima che nasce la luna... E poi due ore de strada. Li quatrini pochi e quanno volevano loro. Se te sentivi male andavi ai macello e te ammazzavi. Se ar padrone non gli rompi er grugno, non te dà niente de volontà sua ». « E' vero », commentò Giovenale nel brusio crescente. « E' proprio vero. Però i padroni cambiano volto ma ci sono sempre, ieri il proprietario del campo e dell'officina, oggi gli industriali e i sindacalisti che vogliono andare al potere servendosi della massa e del disordine. Non vedete che i sindacati sono più forti dei partiti? E il popolo, la classe operaia, è sempre il grande strumento truffato. Ricordatevi: Marx voleva fare del lavoro uno strumento di liberazione. I russi hanno fatto del lavoro uno strumento di spersonalizzazione e di asservimento ». « Perbacco, caro Giovenale », esclamai. « Non ti ci facevo... ». Giovenale mi guardò un po' ironico, da sotto in su, lucido per la pelle grassa senza un capello né un pelo di barba. « lo l'ho capita la vita... » concluse. « La storia si ripete: nessuno si fa la croce per cavarsi l'occhi e tutti lottano per conquistare il potere... ». « Qua però è pieno di ingiustizie! » borbottò uno dal viso di cornacchia. « Lo sapete che mio figlio laureato ha fatto un concorso: c'erano trenta posti e i concorrenti erano ventimila? E i raccomandati diecimila e quelli che hanno portato il tema già bell'e fatto sono stati un paio di cento. Che li fanno a fare i concorsi? Non è una presa in giro? ». « I concorsi li bandiscono di modo che a chi fa una bella prova gliela scambiano con quella del raccomandato, ah, ah, ah... » spiegò Giovenale. « E poi » continuò, « le lauree

tra un po' saranno carta da cesso, io con la mia ci ho incartato le caldarroste. Oggi una laurea non la prende chi non la vuole pigliare: te la regalano e ti pagano pure per regalartela ». li mulattiere, d'un tratto, ordinò mezzo litro e un altro bicchiere. Quindi uscí e dette il vino alla sua bestia. Poi lo liberò delle fascine e dell'erba e se la portò nell'osteria. « A Napoleone je piace la zinna de li vecchi... » gongolò il boscaiolo, mentre già il mulo dondolava il capo dalla sbornia. « Lui non fa mai sciopero co' tutte le bastonate che je rifilo sulla groppa... lo ma però je vojo bene e un litro ogni tanto je lo pago... ». « Noi non semo mica muli, però... » obiettò Trubbiano. « Quello che è giusto è giusto: ogni potere deve essere controllato: quello dei capitalisti e quello dei sindacati... » rispose Giovenale, aggiungendo: « Dopo un mese di sciopero aumentano dieci lire a una categoria ma tutti i prezzi per tutte le categorie salgono di venti o di trenta. Che bella vittoria di Pirro! ». « A proposito di Pirro », disse Trubbiano, « perché non facciamo una morra? ». Chiusa la porta a possibili ingerenze non gradite, formammo tre gruppi di quattro persone ognuno, i numeri uscivano dalle gole rauchi, squillanti, caprini, sibilanti, cupi, secchi. Una marrana di vino sgorgò dalle botti. Giovenale, a un certo momento della serata, si alzò, si mise su un tavolino, riempi un litro e se lo versò sulla testa. Poi cominciò a ballare con Gufarello che gli leccava la cotica come un cane l'osso. Napoleone ragliò in modo' strano e, all'improvviso, da buono com'era stato, divenne nervoso. Allora Trubbiano ingiunse al mulattiere di mettere fuori la bestia. Ma proprio appena stavano espellendolo « per indegnità morale e per cattiva condotta » (parole di Giovenale), il mulo cadde sulle ginocchia e cominciò a lamentarsi come fosse un uomo, e un bambinone. Dagli occhioni avvinazzati sembravano uscire lacrime e fumo. Quindi allungò la lingua e si addormentò sui selci. « Ogni tanto fa cosí dopo bevuto... » ci rincuorò il proprietario. E fece un gesto che significava: state tranquilli, non ci darà fastidio per un bel po'. Arrivata la sbornia anche per Sorrecchio, la comitiva ebbe da ridere, il disoccupato salí con notevole stento su una botte e, allungando le mani, si mise a mangiare i pomodoretti attaccati per le filze al soffitto, in quella posizione gli calarono i pantaloni, in quel momento qualcuno bussò alla porta. « Chi è là? » chiese Trubbiano, ordinando il silenzio con un cenno. « Ahò, ma che me vói fa olma? » rispose la Scorfana. Aprimmo. Era ubriaca da non stare in piedi. Aveva le palpebre basse sull'iride, le labbra tumefatte, un color ciclamino ai pomelli e un pallore al resto del viso, le gocce di sudore e la voce nasale da stupire: mai prima l'avevamo vista cosí. Trubbiano cavò dalle postazioni delle botti un catinone e cominciò a tamburellarvi sopra con un bastone. « Ballate tutti! » ordinò steccando. A ruota, ognuno con le mani sulle spalle di quello avanti, facemmo tanti giri intorno al tavolo centrale, finché la Scorfana, a ritmo del tum-tum del cavernicolo, prese a fare lo spogliarello, danzando e sbandando, respinta ora da questo ora da quello, abbracciata a una botte o a una palanca. Quando fu in sottana, Giovenale prese il grembiule di lei e si abbigliò in modo cosí buffo da farci piegare tutti

dalle risate. Pareva un maialetto vestito, e forse un'ampolla di vino coperta di stracci. Trubbiano ballò con Giovenale, e Grugnito, buono fino ad allora, fece la corte alla Scorfana la quale, in un attimo di lucidità, accortasi d'essere semisvestita, arranfiò Giovenale. Nel tira e molla, caddero sul mulo che scosse la testa e la lasciò pesantemente ricadere sul pavimento. Si sentí un rumore secco di denti e di mandibola. A poco a poco i girotondi ci fecero sudare e i canti sguaiati coprirono le voci: «Non te mettere in cammino se la bocca non puzza de vino... » « Er pediluvio, er pediluvio... » proposero alcuni. Allora Trubbiano illividí. « Er vino chi me lo paga? » disse, proteggendo con le mani il rubinetto. « Lo famo co' l'acqua » sentenziò Burino che, quella sera, era senza madre. Portata la tinozza alla fontana, fu riempita e riportata al tinellone. « Una schizzata de vino ce vole! » ordinò Lope, che dall'inizio non faceva altro che sgranocchiare e mangiare noci, distribuendole a tutti sbavate dalla sua saliva. Purificata l'acqua con un paio di litri di vino, ci scalzammo e immergemmo i piedi nell'ampia tinozza, battendoli al ritmo del tamburino come pigiassero l'uva. « Fermi! » ordinò Trubbiano, per un'idea che gli era baluginata d'un tratto. Entrò nella grotta e tornò con la corteccia di un grosso tronco e con una zucca grande come una falce. « Via! » esclamò. Percuotendo ora il catinone di zinco, ora il legno, ora lo zuccone, formò un indescrivibile comico ritmo di sapore esotico. Alla fine la zucca si spaccò. Allora Trubbiano ce ne scagliò addosso i pezzi. Li afferrammo e li ritirammo a lui. Intanto, il disoccupato aveva sguarnito due lunghe filze con la sua fame arretrata. La Scorfana cadde all'indietro e Gufarello finí nella pozzanghera formata dagli schizzi e dalle onde. Lope voleva fare il discorso. Ma non fu ascoltato, perché alcuni andarono a battere le palme delle mani sulle botti vuote e altri sulle bigonce. Giovenale allora credette giunto il momento di liberare un urlo altissimo e interminabile. Coprí ogni rumore e venne applaudito. All'improvviso Trubbiano propose: « Tutti al mare a magna li spaghetti alle vongole! ». Di lí a poco partimmo, pigiati su un paio di Balille sconquassate, lasciando Napoleone a russare malconcio nell'osteria.

LA COSA CHE NON SAPREMO MAI Stavamo bevendo nell'osteria di Tantobbè, quando giunse improvvisa la notizia della morte di Giovenale. Era salito sulla vespa con un amico e, a una curva, un giaguaro su una potente motocicletta li aveva investiti, il criminale se l'era cavata con un graffio al collo e una slogatura del polso. L'autista del piccolo motociclo si era fratturato una spalla. E Giovenale vi aveva rimesso la pelle. Il funerale si svolse in tono minore, in forma quasi privata: senza i rialzi e le bevute e i discorsi che avevano accompagnato all'ultima dimora, qualche giorno avanti, il gatto di Gervasio. Il felino aveva dodici anni e pesava cinque chili. L'avevano portato a spalla a turno, fino al bosco. Lí, avevano sturato due barili di malvasia e uno di cacchione. AI suono di un violino ubriaco e di una fisarmonica stonata era disceso nel buio il gatto vecchissimo, mentre Giovenale urlava e bestemmiava in una farsa di preistoria. Allora, Cornuto, vestitosi da prete, aveva officiato una specie di funzione d'addio, mentre a Gervasio

cadevano davvero le lacrime sulle guance. Trubbiano, nei veder l'amico piangere, cosí aveva commentato: « Je dispiace de non averselo magnato prima er gatto suo... ». A sbornia avanzata, tutti avevano ballato una danza funebre intorno alla piccola bara, urlando e fingendo di piangere una gran perdita. E avevano dato le condoglianze a Gervasio che andava narrando le prodezze di cacciatore del suo amico defunto. « A casa mia erano spariti tutti li sorci... », aveva ripetuto fino a notte: finquando, cioè, era rimasta ancora un goccia di vino nei barili. Poi era stato acceso un fuoco enorme, sulla cui brace erano state cotte un numero incalcolabile di bistecche di maiale, arrosolato un sacco di cipolle, bruciacchiato un canestro di patate olandesi grosse come bambini in culla. Dietro la bara di Giovenale non si piangeva. Trubbiano bestemmiava contro il destino infame. Gufarello si trascinava come un automa e faceva sempre di sí col capo. La Scorfana starnutiva di continuo, tanto che non sapevi se la poltiglia che aveva sui viso era muco o pianto. « A uno a uno se ne annamo tutti... », biasciò Lope, triste e affannato. « La salita non ce la faccio più a farla; er core se allacca... » diceva ansimando come un mantice, divenendo paonazzo e urlando al guidatore del carro funebre: « Ma non poi annà un po' più piano? Ma che me voi sotterrà puro a me col pòro Giovenale? ». Fummo in capo ai colle. Sul mare, lontano, a scaglie si perdeva la luce del giorno. Veniva freddo dalle tombe ammassate fra i cipressi pingui. « Li vedi come so' grassi 'sti arberi? » diceva Lope a Trubbiano. « Qua mica manca er concime!? Sa come verrebbero bene li facioli e li pummidori? ». A un certo punto, la Scorfana dà un urlo. Allora, come presi da un magnetismo irresistibile, tutti gli altri cominciarono a chiamare per nome il morto. Ma la cassa stava scendendo nella terra. E di lí a poco il becchino l'avrebbe nascosta al cielo con poche palate. Poi fu il silenzio. Noi facevamo corona alla fossa. « Ecco qua quello che siamo! », esclamò Trubbiano, sconsolato, indicando la buca. Segui un lungo silenzio. I volti erano duri, scavati, nerastri. Poi, Lope disse: « L'avemo sotterrato vicino a Sbuciapanze... Mo' è quasi ora che se bevemo quelli paro de' fiaschi che avemo consegnato a Sbuciapanze... ». « Come è passato er tempo, amici... », commentò mesto Trubbiano. « Camillo sta un po' più in là... », mormorò la Scorfana. « Eh, che ci vói fa'? A uno a uno li riempiremo tutti 'sti buchi. A uno a uno dovemo da fini qua sotto: non se scappa... ». « lo me domanno che venimo a fare a questo mondo... » brontolò Trubbiano. Lope scrollò le spalle e rispose: « Non te stanca er cervello: questa è 'na cosa che non la sapremo mai... ». Lentamente, quasi in silenzio, il gruppo si sciolse. Ognuno si recò alle tombe in cui erano sepolti altri amici, altri parenti. Ma era il crepuscolo, ormai, il becchino dette voce più volte, echeggiando sinistro come una civetta fra i marmi e i tumuli. Quando fummo tutti fuori dal recinto, il cancello scricchiolò alle nostre spalle e il custode mise il catenaccio con gran rumore. « E quanno scappi più da lí? », commentò Trubbiano.

« Lo sai che ha aperto l'osteria Crisantemo? Ci ha un vino che è un liquore... Annamo a beve lí? ». « Come te pare: basta che se beve... Qua comincia a fa' freddo... ». Imboccammo la via principale. Le macchine rombavano alla notte, furiose e innumerevoli come le luci disseminate nella vasta pianura.

Castelli Romani, 1964-1971