La saggezza spiegata a chi la cerca 9788858523070

La saggezza è più preziosa della felicità, perché ci aiuta a ottenere non solo una vita riuscita?, in cui possiamo espri

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La saggezza spiegata a chi la cerca
 9788858523070

Table of contents :
Indice......Page 3
Frontespizio......Page 6
Il libro......Page 4
L’autore......Page 5
Esergo......Page 8
LA SAGGEZZA SPIEGATA A CHI LA CERCA......Page 7
Desideri vivere bene?......Page 9
Qual è la differenza tra saggezza, spiritualità, religione e filosofia?......Page 16
La felicità è dentro di te......Page 25
Dire sì alla vita......Page 33
Essere se stessi e sintonizzarsi con il mondo......Page 40
L’eccellenza umana: l’amore e le virtù......Page 45
Esercizi spirituali......Page 58
Dalla prigione dell’ego alla libertà del Sé......Page 69
La saggezza dei bambini......Page 73
Bibliografia......Page 79
Ringraziamenti......Page 80

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Sommario

Copertina L’immagine Il libro L’autore Frontespizio LA SAGGEZZA SPIEGATA A CHI LA CERCA Desideri vivere bene? Qual è la differenza tra saggezza, spiritualità, religione e filosofia? La felicità è dentro di te Dire sì alla vita Essere se stessi e sintonizzarsi con il mondo L’eccellenza umana: l’amore e le virtù Esercizi spirituali Dalla prigione dell’ego alla libertà del Sé La saggezza dei bambini Bibliografia Ringraziamenti Copyright

Il libro

L

a saggezza è più preziosa della felicità, perché ci aiuta a o enere

non solo una vita riuscita, in cui possiamo esprimere la nostra vera natura, ma anche una vita buona, che fa crescere la nostra umanità.

Ma come è possibile aumentare la gioia e diventare più virtuosi, essere sé stessi e anche in armonia con il mondo? Frédéric Lenoir – lui stesso in cerca della saggezza fin dall’adolescenza – risponde con sincerità a queste e altre domande, in un dialogo in cui le sue riflessioni si intrecciano con gli insegnamenti delle più diffuse filosofie occidentali e orientali e dei “maestri” più amati, da Seneca a Montaigne, da Spinoza a Jung. La saggezza è difficile da conquistare, perché non è un obiettivo definito, ma piuttosto un orizzonte cui tendere. Chi la cerca si esercita nel distacco dalle emozioni e nell’arte dell’attenzione, impara a indirizzare meglio le aspirazioni, a coltivare i rapporti che fanno bene e arricchiscono lo spirito. E in questo modo fa una scelta capace di cambiare l’esistenza. Il percorso, come ogni cammino, è disseminato di ostacoli, prove da superare, zone buie. Ma alla fine fortuna e avversità non conteranno più e potremo essere davvero noi stessi, in sintonia con la vita e con il prossimo. Un libro semplice e denso di una sapienza universale intramontabile, attraverso la quale l’autore ribalta l’ideale della felicità.

L’autore Frédéric Lenoir, sociologo e filosofo, è ricercatore presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales. È cofondatore della Fondazione SEVE (Savoir Être et Vivre Ensemble), che propone laboratori di filosofia e di meditazione nelle scuole. È autore di numerosi bestseller, tradotti in dodici lingue, tra i quali sono disponibili in italiano Lettera aperta agli animali (e a coloro che li amano) (2018), La forza della gioia (2017), L’anima del mondo (2015), La felicità (2014).

Frédéric Lenoir

LA SAGGEZZA SPIEGATA A CHI LA CERCA Traduzione di Anna Maria Foli

LA SAGGEZZA SPIEGATA A CHI LA CERCA

Quand’anche potessimo essere sapienti del sapere altrui, non possiamo essere saggi se non della nostra propria saggezza. MONTAIGNE , Saggi, I, 25

DESIDERI VIVERE BENE?

Amico lettore, prima di iniziare questa conversazione vorrei che ti chiedessi che cosa ti interessa davvero. Il termine “saggezza”, infatti, può essere inteso in due sensi piuttosto diversi tra loro. Hai scelto questo libro perché stai cercando di comportarti in maniera moderata e prudente? Oppure desideri vivere felicemente, secondo il bene? L’accezione filosofica di saggezza a cui mi riferisco è l’ideale di un’esistenza ben riuscita. Aspiri a ottenere successo, un lavoro importante e guadagni consistenti, oppure alla vera felicità? Da sempre gli esseri umani si pongono domande esistenziali: siamo sulla Terra unicamente per mangiare, dormire, riprodurci, faticare, divertirci? Oppure la vita umana può avere un altro significato? Uomini e donne, in epoche e luoghi molto diversi e in base alle loro conoscenze e alle loro esperienze, hanno tentato di rispondere a questa domanda, e le risposte spesso si sono rivelate simili tra loro. La cosa più importante durante il nostro breve percorso terreno, affermano, è imparare a usare il cuore e l’intelligenza per condurre la miglior vita possibile. Per crescere in umanità. Per essere profondamente felici e utili agli altri. Per vincere i mali che ci rattristano l’anima e avvelenano i nostri rapporti con il prossimo. Ed è proprio questo che chiamiamo «saggezza»: tendere verso l’ideale di un’esistenza nobile, consapevole, lucida, responsabile, amorevole, armoniosa, giusta, serena, felice, libera.

È vero, è proprio questo che desidero, ma non è una meta inarrivabile? È molto difficile da raggiungere e proprio per questo è qualcosa a cui puntare e non un obiettivo da conquistare a ogni costo. Voler accrescere la propria saggezza significa già compiere una scelta

fondamentale che può far cambiare la nostra vita: stabilire una gerarchia di valori. Che cosa è importante e che cosa non lo è? Quali priorità devo darmi? Privilegio la ricchezza esteriore o quella interiore? Preferisco morire circondato da molti beni materiali o da tanti cari amici?

Una cosa non impedisce necessariamente l’altra! Non si può essere contemporaneamente ricchi e saggi? Naturalmente sì. Non per forza il denaro e il successo sociale sono da evitare. Esistono persone ricche e potenti che sono anche buone e sagge e altre povere e sconosciute che invece sono avide e cattive. L’imperatore romano Marco Aurelio era uno degli uomini più facoltosi e importanti del suo tempo, ma amava profondamente la saggezza e cercava di condurre una vita giusta. Eppure sarebbe stato pronto a rinunciare a tutti i suoi beni e poteri se questi avessero rischiato di corrompere la sua anima e distoglierla dal suo obiettivo principale. Ed è proprio questa la domanda che ti pongo: qual è la cosa più importante per te? Realizzarti e tendere a un’esistenza buona e felice a prescindere dagli sforzi necessari per ottenerla? Oppure per te conta di più diventare ricco e famoso anche se, ripeto, le due cose non sono per forza incompatibili? Ci sono persone che desiderano unicamente dormire bene, nutrirsi, fare l’amore e distrarsi senza porsi altri interrogativi, e non si preoccupano di migliorare se stesse, né di contribuire al miglioramento del mondo. Come dice Maimonide, il grande pensatore ebreo del XII secolo: «Ogni uomo ha la possibilità di essere giusto […] o malvagio, saggio o stupido […]. Nessuno lo costringe o determina in anticipo il suo comportamento, nessuno lo spinge sulla via del bene o del male. È lui che, da solo e in piena coscienza, intraprende la strada che sceglie». Anche se sono propenso, sulla scia di Spinoza e Freud, a moderare la fede assoluta nel libero arbitrio dell’essere umano, tanto forte risulta infatti il condizionamento delle affezioni inconsce, sono tuttavia

consapevole che ci troviamo continuamente di fronte a scelte etiche che ci portano in direzioni anche diametralmente opposte. Ora, chi cerca la saggezza tenta di progredire, crescere, sviluppare il suo potenziale d’intelligenza, creatività e bontà, e nello stesso tempo s’impegna per migliorare il destino del mondo in cui vive.

E tu? Qual è stata la priorità nella tua vita? Sei relativamente ricco e conosciuto grazie al successo dei tuoi libri. È stata questa la tua preoccupazione principale? È importante che io sappia rispondere a questa domanda. Come potrei parlarti di questo argomento, se non avessi intrapreso io stesso questa via, non provassi piacere nel percorrerla e non avessi esperienza in merito? La saggezza, per i filosofi dell’Antichità, è un sapere sia teorico (sophia, in greco, che significa anche «sapienza») che pratico (phronesis). Non esiste un aspetto senza l’altro. Come dice il mio amico André Comte-Sponville, che ha trattato mirabilmente questo tema: «Il saggio pensa la sua vita e vive il suo pensiero». Di conseguenza l’importante è cercare sempre di concretizzare le proprie idee e convinzioni in azioni. Ciò non significa che ci sarà sempre una perfetta coerenza tra loro, ma che dobbiamo tendervi costantemente. Per tornare alla tua domanda: fin dall’infanzia mi sono interrogato sul senso della vita umana. «Perché siamo sulla Terra?», mi chiedevo. Ho cominciato a trovare un accenno di risposta verso i tredici o quattordici anni, quando mio padre mi ha messo tra le mani Il simposio di Platone. Da allora ho divorato tutti i dialoghi socratici e ho capito quello che volevo davvero fare: crescere imparando a conoscere me stesso e il mondo e progredire in saggezza! Da adolescente ho letto moltissime opere di psicologia e spiritualità che mi sono state di grande aiuto durante il mio percorso. Dopo la maturità mi sono iscritto alla facoltà di filosofia, una disciplina che riunisce i concetti di saggezza e sapienza. Ho vissuto alcuni mesi in India e ho imparato a meditare dai lama tibetani.

Durante questa intensa ricerca interiore ho anche vissuto una fortissima esperienza mistica cristiana che mi ha portato, all’età di vent’anni, a entrare in un monastero, proseguendo però gli studi universitari. Ne sono uscito tre anni e tre mesi dopo rinunciando a pronunciare i voti perché, pur amando quella vita di rinuncia e contemplazione, sentivo di non essere fatto per seguire i dogmi di una Chiesa, qualunque essa sia, né per il voto di castità. Poi ho ricominciato a inseguire apertamente la saggezza e mi sono interessato in particolare al buddismo, sostenendo un dottorato sull’incontro di questa dottrina con l’Occidente. Da allora non ho mai smesso di studiare, leggere e riflettere sulle grandi questioni esistenziali, quelle della saggezza, e di meditare. Contemporaneamente mi sono sempre sforzato di realizzare una vita buona e felice compiendo un grande lavoro su di me e per quasi vent’anni mi sono sottoposto a terapie di vario tipo. Questo mi ha permesso di conoscermi meglio e di liberarmi di vari blocchi, paure, tristezze e rancori ereditati da un’infanzia dolorosa dal punto di vista affettivo. Così, anche con l’aiuto della meditazione, ho imparato ad accogliere e dominare meglio le mie emozioni e a collegare corpo, cuore e mente. Infatti mi sembra che anche l’armonizzazione delle diverse componenti del nostro essere sia un aspetto fondamentale della saggezza, su cui insisterò in seguito. Ora passiamo alle tue domande sui soldi e il riconoscimento sociale. Per me il denaro non è mai stato un obiettivo primario, anche se oggi guadagno molto bene grazie ai miei libri. Il successo è arrivato quando avevo quarantadue anni, dopo aver pubblicato una ventina di libri che avevano avuto una diffusione molto limitata. Eppure non ero affatto infelice. Non ho mai deviato dalle mie priorità, indipendentemente dai guadagni e dalla fama. Quando ho cominciato a mantenermi grazie alla scrittura, ho ceduto ad alcuni desideri materiali, come comprare un’auto sportiva decappottabile. Poi però mi ha stancato e l’ho rivenduta per riprendere la mia vecchia macchina, che oggi ha più di vent’anni e trecentocinquantamila chilometri. La maggior parte dei miei redditi se ne va in tasse (e quindi in

favore della società) e viene ridistribuita in diverse associazioni e fondazioni, alcune create da me. Vivo molto bene, ma senza eccessi. Quanto alla notorietà, i numerosi anni di terapia mi hanno aiutato a capire che in passato ne avevo avuto bisogno per dimostrare a mio padre che poteva essere orgoglioso di me. Dopo aver acquisito una vera fiducia in me stesso e liquidato questa nevrosi, mi sono liberato di questa necessità. La celebrità mi consente di diffondere le mie idee e ne sono felice. Oggi la mia unica ragione di vita è continuare a crescere in umanità ed essere utile agli altri.

Allora sei un saggio? Assolutamente no! La saggezza, ripeto, è un ideale a cui tendo. Anche se cerco il più possibile di rendere coerenti i miei valori, i miei pensieri e le mie azioni, ci sono settori in cui mi risulta ancora difficile. Non riesco a correggere alcuni aspetti della mia natura. L’essenziale è desiderare di migliorare, voler crescere e trasformarsi. È meglio dedicarsi a questa ricerca, anche se incompiuta, piuttosto che rinunciarvi o sentirsi in colpa perché rappresenta una meta troppo elevata. Comunque mi sento sempre più profondamente e complessivamente felice e ci sono poche cose che turbano la mia gioia e la mia serenità. Ma chissà se domani potrei cambiare a causa del decesso di una persona cara o di una grave malattia?

Vuoi dire che la cosa più importante è darsi una rotta, una direzione e cercare di seguirle anche se non saremo mai sicuri di arrivare a destinazione? Esattamente. Una delle massime che preferisco e che ho fatto stampare e incorniciare è una frase di Montaigne tratta dai Saggi, ispirata a Seneca: «Nessun vento è favorevole per chi non sa in quale porto approdare». Questo significa che se si vuole andare avanti nella vita bisogna puntare a una meta e dotarsi di mezzi per conquistarla,

piuttosto che errare senza obiettivo. Nessuno ha mai raggiunto una destinazione nobile senza averla agognata ardentemente. Questo vale sia per la vita artistica, sportiva, professionale e familiare che per l’ideale della saggezza. Dobbiamo desiderare di essere felici profondamente e in modo duraturo, impegnarci per riuscirci e allora i venti potranno esserci favorevoli. Dobbiamo aspirare a diventare persone più intelligenti, lucide, buone e responsabili e avremo tutte le possibilità di essere migliori. Se invece non vogliamo nulla di tutto ciò, è poco probabile che accresceremo la nostra umanità. Dobbiamo voler fare della nostra esistenza un’opera d’arte perché la vita ci aiuti a ottenerla.

Eppure ho letto da qualche parte che «il saggio non si aspetta nulla» e il buddismo, per esempio, consiglia di eliminare qualsiasi desiderio. Quello che Budda suggerisce di sopprimere per non soffrire è l’«attaccamento» (tanha, in sanscrito), ma non è vero che ogni desiderio sia cattivo in sé, al contrario. Voler migliorare se stessi o raggiungere il Risveglio sono aspirazioni spirituali estremamente necessarie e benefiche. Riguardo alla frase citata, non significa affatto che non bisogna aspirare alla saggezza, ma che non si deve vivere nella speranza e nell’attesa che essa arrivi. Bisogna far di tutto per raggiungerla, ma non attendere o sperare alcun risultato, altrimenti trascorreremmo la nostra esistenza nella delusione! Se progrediamo su questa via, se siamo felici e costanti nella vigilanza, tanto meglio. Se fatichiamo ad arrivarci e non sempre i nostri sforzi portano a dei risultati, non è grave. Questa ricerca non dev’essere né un’imposizione né una performance. È vero che viviamo in un mondo fatto di prescrizioni, anche nel campo dell’essere – «Devi essere felice e realizzarti nella vita» –, che riserva un culto alla prestazione, all’efficienza e al rendimento, cosa del tutto contraria a questo spirito.

L’individuo non deve tentare di diventare un eroe spirituale, l’uomo più saggio o virtuoso del mondo, ma crescere il più possibile, accettando i propri limiti, le proprie vulnerabilità e fragilità. Questo percorso è una via di umiltà e accettazione della realtà.

QUAL È LA DIFFERENZA TRA SAGGEZZA, SPIRITUALITÀ, RELIGIONE E FILOSOFIA?

Hai detto che alcuni uomini hanno condotto la ricerca della saggezza in epoche e luoghi molto diversi. Com’è nata questa esigenza universale? È probabile che, fin dalla sua comparsa sulla Terra, l’homo sapiens si sia interrogato sul mistero della sua esistenza. Inoltre, il fatto che abbia sepolto i defunti in modo ritualizzato, spesso insieme a cibo e armi per la caccia, dimostra che aveva credenze in una vita dopo la morte. Uno dei testi più antichi dell’umanità, L’epopea di Gilgamesh, redatto circa quattromila anni fa in Mesopotamia, è percorso da domande sul senso della vita, la morte e l’immortalità, la possibilità di essere felici; affronta le grandi domande della saggezza, pur rispondendovi in modo molto parziale. In quell’epoca, le società umane erano completamente regolate da religioni istituite, che veicolavano credenze e rituali e fungevano da collante per le diverse grandi civiltà antiche che cominciavano a formarsi; in quel contesto l’individuo era considerato meno importante del gruppo. Quel libro è stato il primo a rivelare inquietudini di ordine più spirituale e individuale che religioso e collettivo. Tuttavia sono passati più di mille anni prima che si diffondessero questioni relative al destino personale. Solo verso la metà del primo millennio prima della nostra era assistiamo, in tutte le aree culturali, alla ricerca di una felicità individuale, di una buona vita, di una salvezza o di una liberazione. Ovunque, in Cina, Egitto, Persia, Mesopotamia, Giudea, India e Grecia, le persone si interrogano sul senso della vita umana, preoccupandosi tanto della sorte del singolo che di quella della città, del regno o dell’impero. È la nascita della ricerca della saggezza, con la comparsa delle grandi correnti spirituali: il confucianesimo e il taoismo in Cina; le

Upanishad, il giainismo e il buddismo in India; lo zoroastrismo in Persia; il profetismo ebraico in Israele; la filosofia in Grecia.

Tutte queste correnti sono nate quasi nello stesso momento in regioni del mondo e aree culturali diverse. Si sono ispirate l’una all’altra? Talvolta vi sono state interazioni. Pitagora, uno dei padri della filosofia greca, probabilmente era stato in India, e il profetismo ebraico si è sviluppato a contatto con le civiltà egiziana, babilonese e persiana. Tuttavia i rapporti diretti sono stati rari, ed è probabile che alcune idee e tematiche siano comparse contemporaneamente in aree culturali diverse semplicemente a causa del carattere universale dello spirito umano. Qualunque sia il colore della loro pelle e in qualsiasi luogo si trovino, gli uomini si pongono le stesse domande, aspirano alla felicità, provano gelosia o compassione, hanno simili inquietudini etiche o dilemmi morali, si confrontano con la tristezza della perdita dei loro cari. E quando una società raggiunge un certo livello di sviluppo economico e culturale e i bisogni fondamentali di sopravvivenza e sicurezza sono assicurati, emergono le stesse tematiche spirituali. Tutto ciò naturalmente provoca problemi politici e religiosi piuttosto rilevanti, in quanto chi invita alla saggezza emancipa in un certo modo il singolo dal peso del gruppo e della tradizione.

Intendi dire che la saggezza libera l’individuo dall’influenza sociale, religiosa e politica a cui è sottomesso? Possiede quindi un carattere rivoluzionario? Sì, assolutamente! Nella misura in cui lo incita a conoscere se stesso e il mondo, a sviluppare sapere e intelletto, a diventare libero e realizzarsi secondo la sua natura, essa risulta profondamente sovversiva riguardo alle autorità che collaborano strettamente tra loro

per mantenere la coesione e la stabilità del gruppo sociale, talvolta con l’uso della forza. Se l’uomo comincia a preoccuparsi della sua salvezza o della sua felicità personale, se accresce le sue facoltà cognitive e la conoscenza, rischia di non aderire più alle norme collettive. Inoltre, se pensa che l’amore sia più importante della legge e che gli esseri umani siano uguali perché tutti aspirano a essere felici o a essere salvati, è l’intero sistema istituzionale che rischia di crollare. È per questo che alcuni grandi iniziatori alla saggezza sono stati perseguitati e addirittura uccisi. Gesù (come altri profeti di Israele) è stato condannato a morte e probabilmente Budda è stato avvelenato, perché sia l’uno che l’altro predicavano un messaggio di uguaglianza di tutti gli uomini e di supremazia della compassione rispetto alla legge che risultava inaccettabile al potere. Insegnando che ogni individuo, uomo e donna, ricco o povero, può giungere al Risveglio grazie a un lavoro spirituale personale che non ha nulla a che fare con il rituale religioso, l’Illuminato faceva decadere il sistema delle caste su cui si basava (e si basa ancora oggi) tutta la società indiana, annullando la pretesa dei bramini di essere gli unici a poter raggiungere la liberazione e svolgere pratiche indispensabili al mantenimento dell’ordine del mondo. Affermando il primato della carità, realizzando guarigioni nel giorno dello Shabbat o rifiutando di lapidare l’adultera, Gesù trasgrediva la legge ebraica predicando la saggezza universale dell’amore e limitando l’influenza dei sacerdoti. Anche Socrate è stato condannato a morte con l’accusa di corrompere la gioventù e minacciare la religione dello stato. Poiché oggi abbiamo la tendenza a confondere religione e spiritualità, non comprendiamo più il carattere rivoluzionario della ricerca spirituale e della saggezza.

Potresti tornare brevemente sulla differenza tra religione e spiritualità? In realtà questi due concetti si confondono un po’ nella mia mente.

Per semplificare, diciamo che la religione è collettiva e la spiritualità individuale. La prima mira a collegare gli individui di una stessa entità politica (una città, una nazione, un regno) facendo loro condividere la fede in una trascendenza invisibile e superiore; richiede l’obbedienza a credenze, regole, norme. La seconda è lo sforzo personale dell’individuo che tenta di scollegarsi da tutti i condizionamenti culturali e i preconcetti intellettuali per cercare la verità, l’amore e la vera felicità; la vita spirituale coinvolge sia la mente che il cuore. Entrambi possono tendere agli stessi fini, come la giustizia, l’amore e la pace, ma lo fanno in modi diversi. Detto questo, le due dimensioni possono anche coesistere: tutti conosciamo uomini religiosi spirituali, buoni, con la mente aperta, mentre altri seguono ciecamente i dogmi del loro credo senza porsi la minima domanda e a volte possono arrivare all’intolleranza o alla violenza settaria. Riassumendo, direi che l’essere umano è un animale sia spirituale che religioso, e forse è proprio questa la caratteristica particolare che lo contraddistingue dalle altre specie animali. Spirituale perché si pone domande sul senso della sua esistenza, tentando di rispondervi e migliorare se stesso con l’anima e l’intelligenza; e religioso perché crea società fondate sulla fede in entità invisibili, a cui rende un culto. La storia umana ci mostra che partendo dalle sue domande metafisiche l’homo sapiens ha cominciato a inventare delle religioni, da cui in seguito si è emancipato (più o meno parzialmente o completamente) per sviluppare correnti spirituali al di fuori di esse. È quello che chiamiamo saggezza e infatti le grandi scuole filosofiche dell’Antichità propongono una spiritualità fondata sulla ragione e non sulle credenze religiose. Avviene lo stesso per il buddismo, il confucianesimo e il taoismo, anche se ai giorni nostri al loro interno sono ancora presenti alcuni elementi di religiosità, perché nel corso della storia hanno svolto un ruolo politico di legante sociale. Inoltre alcuni pensatori isolati, come Montaigne, Spinoza o Krishnamurti, sono giunti a una saggezza che hanno tentato di realizzare concretamente nella loro vita.

Il termine “filosofia” racchiude il concetto di amore della saggezza e della sapienza, mentre io ho in mente una disciplina estremamente razionale che non ha molto a che fare con la ricerca della felicità e ancor meno con la spiritualità! Effettivamente è così che la filosofia viene insegnata oggi all’università o al liceo. Eppure, quando è nata in Grecia verso la metà del primo millennio avanti Cristo, essa aveva come obiettivo principale il conseguimento della saggezza: philo (amo) e sophia (sapienza, saggezza). Questa ricerca, così come un’esistenza gioiosa, si ottiene con l’aiuto della ragione che aspira alla verità. Lo afferma anche Epicuro: «La filosofia è un’attività che, con discorsi e ragionamenti, ci procura una vita felice». Il filosofo desidera la saggezza, ma non vuole illudersi e quindi usa l’intelligenza per discernere ciò che è vero, o giusto, da ciò che non lo è. Di conseguenza non è né un intellettuale, né un professore, né uno specialista, ma un avventuriero dello spirito che tenta di vivere in modo buono e lieto con lucidità. Come riassume bene André Comte-Sponville: «La saggezza è il massimo di felicità nel massimo di consapevolezza». La filosofia com’era concepita dagli Antichi non ha lo scopo di formare esperti, ma uomini. Oggi il «filosofo» viene confuso con uno «storico» della filosofia o delle idee. Anche se lo studio delle opinioni di chi ci ha preceduti è molto prezioso, possiamo filosofare anche senza conoscerli, e lo facciamo quando ci stupiamo, ci poniamo domande, ragioniamo e cerchiamo di vivere la miglior vita possibile. I bambini ne sono capaci. Così la filosofia antica si è sviluppata per quasi un millennio intorno a grandi correnti molto diverse, ma che avevano come obiettivo principale la ricerca della saggezza: platonismo, aristotelismo, epicureismo, stoicismo, cinismo, scetticismo, neoplatonismo. Anche se queste scuole studiano ogni tipo di disciplina, come la logica, la retorica, la matematica, la fisica, la cosmogonia, lo scopo ultimo del loro insegnamento resta la felicità e la formazione dell’essere umano, affinché questo possa accrescere il più possibile la sua umanità.

La concezione atomistica dell’epicureo o la cosmologia dello stoico, per esempio, sono essenziali per la loro visione etica dell’esistenza. Il primo non ha paura della morte perché pensa che tutto sia composto di atomi e non ci sia nulla da temere dagli dei o da un destino post mortem, visto che l’anima scompare con il corpo. Il secondo, al contrario, fonda la sua azione sulla convinzione di possedere un logos (ragione) individuale immortale, parte del Logos universale divino. Indipendentemente dalle differenze teoriche, tutti i pensatori del passato propongono una filosofia pratica, esistenziale, un’arte e un modo di vivere. Come ha ricordato bene Pierre Hadot, il grande storico del pensiero antico: «L’atto filosofico non si situa soltanto nell’ordine della conoscenza, ma in quello del “sé” e dell’essere: è un progresso che ci fa essere di più, che ci rende migliori. È una conversione che sconvolge tutta la vita, che cambia l’essenza di chi la realizza, facendolo passare da una condizione di non autenticità, oscurata dall’inconsapevolezza, tormentata dal dubbio, a uno stato di autenticità in cui l’uomo raggiunge la coscienza di sé, la percezione esatta del mondo, la pace e la libertà interiori». In breve, filosofare significa imparare a vivere. È questo il motivo per cui le scuole di saggezza greche e romane consigliavano ai loro adepti diversi esercizi spirituali: la pratica dell’attenzione, l’esame di coscienza, l’apprendimento di massime di vita, il dominio di sé, le terapie delle passioni, i ricordi di ciò che è bene ecc. In seguito i Padri della Chiesa si sono ispirati ad alcuni di questi dettami riscrivendoli in una prospettiva religiosa.

Perché questa concezione pratica e spirituale della filosofia è venuta meno quasi del tutto? Perché questa disciplina si è trasformata, ponendo l’attenzione solo sul sapere? Le scuole dell’Antichità sono scomparse quando l’Impero romano, all’interno del quale prosperavano, si è convertito al cristianesimo. L’imperatore Giustiniano ha chiuso la più antica, quella di Atene, nel 529; la più recente, quella di Alessandria, fondata all’inizio del V

secolo da Ipazia, è sopravvissuta fino alla conquista araba, nel 640. I musulmani l’hanno poi liquidata, facendo però tradurre le opere principali dei filosofi greci; questa decisione avrà un ruolo rilevante all’inizio del Rinascimento, con la riscoperta delle conoscenze del passato. È stata quindi la vittoria delle religioni monoteiste a porre fine alla filosofia antica. La fede ha soppiantato la ragione e la certezza dogmatica ha sostituito la ricerca della saggezza.

Non è proprio la riscoperta del pensiero ellenico durante il Rinascimento che ha favorito il ritorno della saggezza in epoca moderna? Effettivamente i primi grandi pensatori di quel periodo, Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, hanno tentato di far rivivere l’ideale greco della saggezza e cercato di inserire, come gli Antichi, l’essere umano in un cosmo: l’uomo fa parte di un Tutto a cui è collegato e di cui segue le leggi universali. Nel XVII secolo, Baruch Spinoza riprenderà in un certo modo questa visione ereditata dal passato, costruendo un’etica completamente dedicata alla ricerca della saggezza; nel secolo precedente, anche Montaigne ne aveva proposta una «ad altezza d’uomo», più sfumata di scetticismo, ma rivolta comunque verso la felicità e la gioia. All’inizio del Seicento, tuttavia, René Descartes guarda con disincanto la relazione dell’essere umano con la Natura e ripensa la filosofia partendo dalla coscienza e dalla soggettività. Pur interessandosi anch’egli al conseguimento di una buona vita, soprattutto attraverso il dominio delle passioni, traccia così la strada principale del pensiero moderno, quella dell’esaltazione del soggetto che vuole e pensa, ripresa poi da Kant e Hegel, che restano i punti di riferimento principali della filosofia attuale. Il primo, del resto, definisce la felicità come un ideale non della ragione, ma dell’immaginazione, mettendo da parte la saggezza. L’«altra via», per riprendere l’espressione di Blandine Kriegel,

quella degli Antichi, dei pensatori del Rinascimento e di Spinoza, andrà nel dimenticatoio. Ecco perché la saggezza appare alla maggior parte dei contemporanei un cammino tanto illusorio quanto arcaico.

Sembra però che oggi ci siano sempre più persone che s’interessano a questo argomento, me compreso. Hai citato due autori, André Comte-Sponville e Pierre Hadot, che hanno rimesso in auge la saggezza degli Antichi. Per non parlare dell’attenzione riservata recentemente alle correnti spirituali orientali come il taoismo e il buddismo… È vero, ed è grazie a loro e ad altri come Marcel Conche che sono riuscito io stesso ad approfondire la conoscenza dei pensatori del passato, di Spinoza e Montaigne. Tuttavia gli studiosi che si interessano di saggezza rimangono marginali nella comunità intellettuale. Molti docenti universitari sono altamente specializzati in un certo autore o in un determinato periodo e con il pretesto del rigore scientifico si astengono da un’opinione o da una pratica personali. È lo stesso per un gran numero di professori (non tutti, però), che insegnano storia della filosofia cercando di restare quanto più neutrali possibile, senza avventurarsi sul terreno della saggezza che implica un impegno spirituale ed esistenziale che talvolta assimilano, a torto, alle credenze religiose. D’altro canto, invece, constatiamo un vero e proprio entusiasmo per questo argomento da parte di un pubblico sempre più numeroso. Le opere degli stoici, di Montaigne e Spinoza non sono mai state così diffuse, così come quelle dei saggi orientali, a cominciare dai libri del Dalai Lama. Ciò deriva, mi pare, dal triplice crollo delle ideologie religiose, politiche e ultraliberali consumistiche, che si proponevano di giovare all’umanità con ricette rivelatesi fallimentari. Così molti contemporanei si pongono nuovamente la domanda sul senso della vita e della felicità individuale e collettiva. Non viviamo più nello stesso ambiente sociale, economico e

culturale degli Antichi, ma lo spirito e il cuore dell’essere umano non sono cambiati da duemilacinquecento anni a questa parte, e gli interrogativi esistenziali e alcuni esercizi spirituali del passato sono ancora perfettamente adatti per noi.

LA FELICITÀ È DENTRO DI TE

Come dicevo all’inizio di questo dialogo, desidero essere felice in modo più profondo e duraturo e tu mi hai risposto che è questo l’obiettivo della saggezza. È davvero possibile? E come fare per arrivarci? Effettivamente la questione della felicità è al centro di tutte le grandi correnti spirituali dell’umanità. Come ricordava Epicuro, tutti vi aspiriamo, qualunque forma essa assuma. Tuttavia sperimentiamo anche che risulta inafferrabile come l’acqua o il vento. Non appena pensiamo di essercene impossessati ci sfugge. Se tentiamo di trattenerla, si allontana da noi. A volte si nasconde dove speriamo che sia o emerge all’improvviso nel momento in cui meno ce l’aspettiamo. Eppure, io stesso l’ho sperimentato, possiamo davvero diventare più felici se riflettiamo sulla nostra vita, lavoriamo su di noi, impariamo a fare le scelte più ragionevoli, oppure se impariamo a modificare i pensieri, le credenze o le rappresentazioni di noi stessi e del mondo che ci costruiamo. Il grande paradosso della felicità è che è allo stesso tempo indomabile e addomesticabile. Dipende tanto dal destino o dalla fortuna quanto da un atteggiamento razionale e volontario. Per gli antichi indiani, cinesi o greci, la saggezza è simile alla ricerca di una condizione di appagamento generale e durevole dell’esistenza, che non dipende dalle incertezze della vita e quindi dagli avvenimenti del mondo esteriore. In questo si identifica con l’idea della felicità, concepita come uno stato interiore. Spesso i filosofi antichi hanno costruito questo concetto proprio partendo dall’ambivalenza dell’esperienza del piacere: questo è la realizzazione di un bisogno o di un desiderio, ma non dura e dipende da cause esterne. Il saggio, invece, intende creare una condizione di soddisfazione duratura e non vincolata a motivi esteriori (onori, relazioni, ricchezza ecc.).

Secondo Epicuro, per esempio, questo ideale può essere raggiunto grazie alla ragione pratica (phronesis) che ci invita alla moderazione e al discernimento per rimanere in una condizione di serenità e assenza di turbamento (atarassia). Per Budda bisogna rinunciare al desiderio-attaccamento che genera frustrazione e sofferenza e, come scopo ultimo, raggiungere uno stato di felicità per mezzo del Risveglio, cioè la consapevolezza di non essere l’ego con cui ci identifichiamo spontaneamente. Potremmo definire così l’ideale della saggezza: piuttosto che tentare di adattare il mondo ai desideri, il saggio li trasforma per adeguarli al mondo, ossia il reale, imparando ad amare la vita in modo incondizionato e non solo quando tutto è favorevole. È questa la meta a cui la maggior parte degli intellettuali moderni non crede più e che ho voluto riabilitare, perché anch’io mi dedico a questa ricerca da quasi quarant’anni.

Siamo evidentemente molto lontani dal concetto contemporaneo di felicità, centrato più sull’avere che sull’essere. Bisogna chiarire un grande malinteso a questo proposito… È vero, l’ideale della saggezza e la nozione di felicità che essa veicola sono agli antipodi rispetto alla visione più diffusa nelle società materialiste e consumiste di oggi: bisogna essere i migliori, i più competitivi, ricchi, famosi ecc. A questa imposizione del «sempre di più», la saggezza oppone la ricerca dell’«essere meglio». La felicità è da ricercare più nell’ordine dell’essere che in quello dell’avere. Aggiungerei che il raggiungimento di questa condizione implica molta fatica: richiede l’apprendimento di un sapere, l’approfondimento di una riflessione, il buon utilizzo della ragione e la mobilitazione della volontà, un nuovo e giusto orientamento dello sguardo e dei desideri ecc. In breve, è un percorso lungo e impegnativo, all’opposto delle ricette facili e veloci vendute dai moderni ciarlatani. Ci tengo anche a precisare che mi sento piuttosto esasperato dall’ingiunzione alla felicità, parola d’ordine contemporanea

denunciata egregiamente da Pascal Bruckner. L’autore di L’euforia perpetua fa infatti notare che a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale il «diritto» alla soddisfazione personale si è trasformato in «dovere» e, per questo, in fardello. L’uomo è «condannato» a essere appagato e «può prendersela solo con se stesso se non ci riesce […]. Probabilmente siamo le prime società della storia a rendere le persone infelici di non essere felici. […] Alla drammatizzazione cristiana della salvezza e della perdizione si accompagna la drammatizzazione laica del successo e del fallimento». È chiaro che questo imperativo, associato oltretutto ai criteri moderni di performance, non può che portare all’infelicità. Forse questo spiega il numero sempre più elevato di persone che cadono in depressione perché non riescono a rispondere in modo adeguato alla pressante richiesta di realizzazione di sé: è la famosa «fatica di essere se stessi» ben descritta dallo storico della psichiatria, Alain Ehrenberg.

Comprendo bene che la saggezza inviti alla felicità come condizione dell’essere globale e duratura, ma alcuni autori contemporanei, come Luc Ferry, mettono in evidenza, sulla scia di Kant, l’asimmetria radicale che esiste tra felicità e infelicità, bene e male. Quando Budda afferma che «tutto è sofferenza», ricorda che la vita, dalla nascita fino alla morte, è costituita da una serie di esperienze dolorose. Anche quando viviamo un momento felice, ne avvertiamo la precarietà. «Tutto è impermanenza», conclude quindi il saggio. Non c’è nulla in questo mondo che sia stabile, duraturo, fisso per sempre. E lo stesso vale per i nostri desideri. Così soffriamo perché non possediamo ciò che vorremmo, poi soffriamo per la paura di perdere ciò che possediamo e in futuro soffriremo ancora per la perdita di ciò che abbiamo. Di conseguenza dobbiamo ammettere che effettivamente nelle nostre esistenze ordinarie forse il male è più presente del bene, sebbene possano esserci variazioni sensibili da un individuo all’altro.

È proprio questo il motivo per cui l’Illuminato, come tutti i saggi dell’umanità, ha cercato una via che non fosse più così permeabile al male. La saggezza rifiuta di rassegnarsi alla fatalità dell’onnipresenza del dolore e propone una strada, faticosa da percorrere anche questa, che consente di sviluppare un sentimento interiore di serenità e/o di gioia indipendente dai rischi, dagli alti e bassi della vita; rappresenta quindi una risposta immediata alla constatazione di uno squilibrio tra felicità e infelicità.

Affermano inoltre che mentre l’infelicità è facilmente definibile e identificabile, è impossibile determinare a priori che cosa sia la felicità… Nelle nostre esistenze quotidiane sia l’una che l’altra mi sembrano ugualmente individuabili: in generale sono felice quando mi piace la vita che faccio e sono infelice quando non mi piace. Esistono momenti intensi di gioia, quando per esempio si realizza un desiderio profondo: un incontro amoroso, la nascita di un bambino, il buon esito di un esame, un successo professionale… Allo stesso modo esistono momenti intensi di infelicità: la perdita di una persona cara, una grave malattia, un fallimento lavorativo… Naturalmente possiamo sottolineare il carattere relativo della felicità, che varia a seconda delle culture, degli individui e, per ognuno, in base alle fasi della vita. Spesso assume l’aspetto di ciò che non abbiamo: per un malato è la salute, per un disoccupato il lavoro. A questo si aggiunge la dimensione soggettiva: un artista prova gioia nella sua arte, un intellettuale nei concetti, un sentimentale nel legame amoroso. Freud ha giustamente osservato: «È la costituzione psichica dell’individuo che sarà decisiva. L’essere umano in cui predomina l’erotismo darà la priorità ai rapporti sentimentali con altre persone; il narcisista, concentrandosi su se stesso, cercherà le soddisfazioni essenziali nei fenomeni interiori; l’uomo d’azione resterà attaccato al mondo esterno in cui può mettere alla prova la sua forza». Questo è uno dei motivi per cui non esiste una “ricetta” valida per tutti.

Tuttavia questo carattere relativo e soggettivo non impedisce di identificare la gioia non solo come un’emozione passeggera e gradevole (che sarebbe piuttosto la definizione di piacere), ma come una condizione che si configura in una certa durata e una certa globalità. Possiamo dirci «felici» o «soddisfatti» della nostra vita perché essa ci procura contentezza nell’insieme e in quanto abbiamo trovato un certo equilibrio tra diverse aspirazioni, una stabilità di sentimenti ed emozioni e un appagamento nei settori più importanti della nostra vita: emotivo, professionale, sociale, spirituale. Al contrario, ci definiremo «infelici» o «insoddisfatti» se sperimentiamo poco piacere, se siamo combattuti tra desideri contraddittori, se le nostre affezioni sono incostanti e generalmente dolorose o proviamo una sensazione intensa di fallimento affettivo o sociale. Solo attraverso una globalità di situazioni e condizioni ci percepiamo felici o infelici, e per determinarlo ci basiamo su una certa durata. Ecco perché definirei la felicità come la consapevolezza di una condizione di soddisfazione complessiva e duratura della nostra esistenza.

Ma questo stato non rimane precario? La nostra felicità non può forse trasformarsi improvvisamente in infelicità a seconda degli eventi? Certamente, e il suo carattere provvisorio ed effimero è stato descritto molto bene sia da Budda e i saggi dell’Antichità che da Kant e i filosofi critici. Ed è qui che la saggezza tenta di attribuirle un nuovo senso: felicità non è semplicemente amare la vita che conduciamo, ma amare la vita in generale, con i suoi alti e bassi, i suoi momenti favorevoli e sfavorevoli, la sua parte di gioie e dolori. Senza negare il suo carattere imprevedibile e fragile, lo scopo del saggio è cercare di renderla il più possibile profonda e permanente, al di là delle incertezze, degli eventi esteriori, delle emozioni piacevoli o spiacevoli del quotidiano: dobbiamo amare ciò che è. Vorrei insistere ancora una volta sul fatto che la saggezza

costituisce un ideale e un obiettivo da raggiungere, ma che forse non riusciremo mai a realizzare completamente. Alla fin fine, però, non importa! Ciò che conta è aspirare a quella meta, cioè lavorare su noi stessi per diventare sempre più capaci di essere felici. Occorre far crescere la propensione alla felicità e quindi, allo stesso tempo, far diminuire la tendenza all’infelicità. Tutti, infatti, abbiamo una certa inclinazione all’una o all’altra: alcuni sociologi americani lo chiamano «tasso fisso». Quest’ultimo dipende, innanzitutto, come aveva già indicato molto bene Schopenhauer, dalla nostra sensibilità: ci sono individui ottimisti e pessimisti, gioiosi e tristi. Al temperamento stabilito dai geni si aggiungono le influenze subite nella prima infanzia, che condizionano intensamente anche la nostra sensibilità: alcuni mancheranno di autostima per tutta la vita perché i genitori non li hanno aiutati a costruire un’immagine positiva di loro stessi. Saranno meno felici di chi, invece, ha fiducia in sé e nella vita. Ecco perché, come ricordava Aristotele, la felicità deriva per buona parte dalla fortuna (la genetica, l’ambiente familiare), ma anche molto da quanto ci impegniamo per aumentare la nostra capacità di ottenerla. Questa percentuale che dipende da noi può quindi cambiare in base alle nostre scelte e allo sguardo che rivolgiamo a noi stessi, agli altri e al mondo. Possiamo così avvicinarci sempre di più all’ideale della saggezza – la gioia o la serenità continua – senza necessariamente raggiungerlo o essere per sempre in questa condizione beata. Possiamo essere felici sempre di più in modo completo e duraturo, anche se alcuni drammi possono colpirci provvisoriamente e alterare la nostra situazione. In ogni caso, questo è quanto posso affermare in base alla mia esperienza.

Hai ricordato più volte che la saggezza è la ricerca di uno stato di soddisfazione che non dipende più dagli eventi esteriori. Quindi il saggio è felice qualunque cosa accada? In effetti la sua condizione non è collegata principalmente ai fatti sempre imprevedibili della realtà esterna, ma all’armonia del suo

mondo interiore. È felice perché ha saputo trovare la pace o la gioia in se stesso. Invece di voler adattare la realtà ai suoi desideri, dedica tutti i suoi sforzi a cambiare se stesso. È grazie a questo rovesciamento che la felicità diventa possibile. Quest’ultima non è ostacolata dal reale, ma dalla rappresentazione che ce ne facciamo. La stessa cosa, infatti, può essere percepita in modo diverso da due persone: una se ne rallegrerà, l’altra se ne dispiacerà. Un individuo può considerare una grave malattia come un terribile colpo del destino, mentre un altro, al di là del dolore presente, vedrà in essa un’occasione per rimettersi in discussione e cambiare qualcosa nella sua vita, senza rinunciare alla serenità interiore. Di fronte a un’aggressione, alcuni proveranno odio, desiderio di vendetta; invece altri non sentiranno risentimento di alcun tipo. Il saggio stoico Epitteto afferma infatti: «Ricorda che non ti fa violenza chi ti insulta o ti colpisce, ma l’opinione che queste azioni siano offensive. Dunque, se qualcuno ti fa arrabbiare, sappi che il responsabile di questa collera è il tuo giudizio». Un breve racconto sufi illustra molto bene questo concetto. Uno straniero arriva in un luogo che non conosce, vede un anziano seduto alla porta di ingresso della città e gli chiede: «Dimmi, buon uomo, come sono le persone che vivono qui, buone o cattive?». Il vecchio gli rigira la domanda: «Com’erano nel posto da cui provieni?». L’altro risponde, senza esitare: «Molto sgradevoli, ed è per questo che me ne sono andato!». L’anziano lo guarda dritto negli occhi e gli dice: «Ebbene, qui è uguale!». Allora l’uomo stizzito riprende il cammino, borbottando: «Che sfortuna! Dovunque vada trovo gente malvagia». Qualche tempo dopo si presenta un altro forestiero che pone la stessa domanda e viene a sua volta interrogato: «Com’erano gli abitanti del paese da cui arrivi?». «Molto gentili», risponde. L’altro allora ribatte: «Ebbene, qui è uguale!». Un mercante di cammelli che aveva assistito a entrambi gli incontri interviene, provocandolo: «Tu menti! Come puoi dire una cosa e subito dopo l’esatto contrario?». Il saggio lo guarda con aria divertita: «Non ha alcuna importanza, amico mio, perché ognuno ha il mondo nel suo sguardo. Un uomo

infelice in un luogo lo sarà ovunque e un uomo felice in un luogo lo sarà ovunque».

DIRE SÌ ALLA VITA

Conosco persone, molto rare in realtà, che sembrano sempre soddisfatte, non si lamentano mai, amano vedere il lato buono delle cose e sanno addirittura consolare quelli che devono sopportare una malattia o una prova. Sono saggi nel senso in cui lo intendi tu? Sicuramente sì. Alcuni possiedono in modo innato questa saggezza, che, per così dire, è iscritta nel loro temperamento. Esistono individui generosi, ottimisti, fiduciosi e contenti di natura. È una grande fortuna, visto che sono queste le qualità necessarie per vivere bene e felicemente, e queste persone diffondono il bene intorno a loro. Ma la maggioranza degli individui non ha questa fortuna, e la saggezza diventa per loro una bussola preziosa, che indica una direzione e qualche mezzo utile per essere migliori e più gioiosi. Dobbiamo smettere di accusare la vita o gli altri e prendere in mano la nostra esistenza comprendendo che gran parte delle nostre sofferenze potrebbe essere evitata se modificassimo la rappresentazione che abbiamo di noi stessi e del mondo. Dico appositamente «sofferenza» e non «dolore», perché quest’ultimo è universale e non possiamo sfuggirvi. Quando però al male fisico o morale si aggiungono la rabbia, la tristezza, l’odio, il risentimento, il rifiuto, la negazione o la lamentela, allora le pene psichiche e spirituali vengono ad aggiungersi al patimento oggettivo che proviamo. Mentre non possiamo schivare il dolore, possiamo eludere la sofferenza orientando volontariamente e positivamente il nostro cuore e la nostra mente. Saggezza non significa non aver più male, ma trasformare questa condizione negativa in serenità.

Come possiamo riuscirci? Non ci sono mille modi, dobbiamo solo dire «sì» alla vita, cioè

amarla e accogliere la realtà così com’è e non come vorremmo che fosse. È un cammino di accettazione e consenso che presuppone un amore incondizionato per l’esistenza. «E io amo la vita», diceva Montaigne. È questa la porta d’ingresso che conduce a un’esistenza felice in modo profondo e duraturo, indipendentemente dagli eventi che si verificheranno. Saggezza non vuol dire vivere su una nuvoletta o in un mondo in cui va tutto bene, perché questa condizione non esiste, ma integrare tragicità e felicità. Significa accettare la vita con i suoi alti e i suoi bassi, i momenti piacevoli e spiacevoli, le gioie e le pene; amarla tutta, con il peso di difficoltà e prove che comporta.

Ma dire «sì» a tutto, accettare qualunque cosa accada non è un atteggiamento fatalista? Mi vengono in mente i fedeli che si rassegnano a ogni cosa perché «è la volontà di Dio»… Hai ragione: di primo acchito sembra che la saggezza si confonda con un modo di pensare religioso fatalista, ma in realtà esiste una differenza fondamentale tra questi due atteggiamenti. Il saggio, secondo le parole di Epitteto, invita a distinguere ciò che dipende da ciò che non dipende da noi. Quando si verifica un evento, per esempio una grave malattia che non abbiamo scelto, spetta comunque a noi cercare di curarci, da una parte, e dall’altra tentare di affrontare il meglio possibile la prova, invece di lasciarci abbattere. Dobbiamo quindi cominciare accettando l’ineluttabile che non dipende da noi, come i problemi di salute, invece di negarlo. Poi occorre agire in funzione di quanto è in nostro potere: trovare i rimedi giusti e reagire più positivamente che possiamo alla situazione. Infine, se nonostante tutti i nostri sforzi non guariremo, ci toccherà ancora una volta farci una ragione dell’inesorabile che non possiamo evitare: la malattia cronica o la morte. La saggezza ci propone di accettare ciò che non si può cambiare, ma anche di operare concretamente su quello che può essere modificato, sia l’interiorità (emozioni e pensieri) che l’esteriorità

(cercare le medicine adatte). Questa distinzione essenziale è diversa dal fatalismo religioso, che spesso considera bene tutto ciò che accade e talvolta incita anche a mantenere l’ordine delle cose. La prima volta che sono stato a Calcutta, in India, sono rimasto stupefatto vedendo persone miserabili morire per strada, nell’indifferenza generale. Ho capito che quel modo di fare era legato a una credenza religiosa degli indù: quello che succede in questa vita è il risultato della nostra esistenza anteriore e non serve a nulla lottare per cambiare il destino o il corso del mondo. Se un essere umano muore nella miseria vuol dire che l’ha meritato ed è inutile volerlo aiutare. Questo atteggiamento mi ha disgustato e mi sono offerto come volontario presso le Missionarie della Carità di Madre Teresa per raccogliere quei moribondi, portarli in un luogo in cui potessero essere curati e accompagnarli fino all’ultimo respiro. Quando possiamo fare qualcosa per soccorrere un bisognoso, consolare una persona sofferente, lottare contro un’ingiustizia, la saggezza ci invita a farlo in quanto considera l’amore, la compassione e la giustizia il vertice di tutte le virtù. Facciamo quello che dipende da noi, agiamo per preservare la nostra salute e il nostro benessere, per progredire su un piano etico e spirituale, per contribuire alla costruzione di un mondo migliore. Quando però non possiamo fare nulla, quando ci confrontiamo con una forza esterna su cui non abbiamo nessun potere, è meglio accettare con gioia la realtà piuttosto che provare un senso di rifiuto e rimozione, oppure sprofondare nel risentimento, nella rabbia, nella disperazione, nella lamentela. Solo così il nostro cuore e la nostra mente saranno in pace, anche in presenza del dolore. È quello che spiega Epitteto attraverso la metafora del cane attaccato a un carro tirato da due buoi, simbolo della potenza del destino. Quando ha voglia di girare a destra mentre il carro va a sinistra non può resistere alla forza dei bovini: o accetta di seguirli accompagnando il loro movimento, cioè adeguando la sua volontà alla loro, oppure fa resistenza e nonostante i suoi sforzi sarà trascinato nelle peggiori sofferenze.

Anche se capisco bene la distinzione tra l’accettazione religiosa fatalista e quella della saggezza, mi sembra comunque sia più facile riuscire a dire questo «sì» alla vita se crediamo in Dio o nell’immortalità dell’anima. Infatti in quel caso possiamo sopportare prove terribili pensando che hanno un senso e che nell’aldilà saremo felici. Sicuramente confidare in una vita dopo la morte aiuta moltissimo a superare le difficoltà dell’esistenza. Il credente coltiva una speranza, ha la sensazione che quello che gli succede, compresa la sua scomparsa e soprattutto quella dei suoi cari, non è la fine di tutto e può attribuirgli un senso. Alcune correnti spirituali orientali affermano che il nostro spirito è imperituro e si reincarna fino alla liberazione finale, intesa come una condizione indefinibile di beatitudine; i fedeli delle religioni monoteiste sperano in una vita eterna presso Dio. Anche gli stoici credono nell’immortalità dell’anima e Socrate ha bevuto serenamente il veleno della cicuta perché convinto che la sua anima sarebbe vissuta felice insieme a quelle dei giusti, nell’aldilà. Quindi è evidente che la fede nell’eternità rappresenta un aiuto forte e decisivo per tollerare le pene di questa terra. Del resto anch’io condivido la convinzione che il nostro spirito non muore, anche se non so bene che cosa accada dopo la morte del corpo. Questa idea mi ha aiutato molto a superare la scomparsa di persone care, perché nel mio intimo sono profondamente certo che il loro percorso continui in un’altra dimensione. Non collego quest’opinione a nessuna religione in particolare: l’idea è sempre stata radicata in me come qualcosa di evidente, mentre per altri non c’è dubbio che alla fine dei nostri giorni non ci sia più nulla. Sono un po’ come quegli indiani che alla domanda: «Qual è il contrario della morte?», rispondono senza indugio: «La nascita», mentre quasi tutti gli occidentali dicono: «La vita». Secondo me il vivere e il morire non sono in opposizione, ma sono due momenti fondamentali dell’esistenza, due passaggi del cammino dello spirito, che è cominciato prima del nostro arrivo sulla terra e

continuerà dopo la scomparsa del nostro corpo… non so bene dove. Tuttavia l’atteggiamento di accettazione di tutta la realtà, questo «sì» fiducioso può esprimersi anche all’interno di una saggezza materialista. Epicuro e i suoi discepoli più importanti, come Lucrezio, non credono né in Dio né nell’immortalità dell’anima, ma sono convinti che per preservare la pace interiore sia indispensabile sopportare con gioia tutto ciò che non si può evitare. Lo stesso vale, in un certo senso, anche per Montaigne, che potremmo definire agnostico, e per Nietzsche, che è decisamente ateo. Come gli Antichi, quest’ultimo suggerisce di acconsentire a tutto con gioia, senza eccezione, e invita a dire «sì», «Ja sagen», ad amare il destino: amor fati. Secondo lui se vogliamo vivere pienamente e non in modo limitato, dobbiamo accettare tutto ciò che accade: le gioie e le pene, i piaceri e i dolori, perché felicità e infelicità fanno entrambe parte dell’esistenza. Dovremmo amare la vita come la musica: apprezziamo una composizione perché alterna suono e silenzio, momenti brillanti e gioiosi (allegro) e momenti più lenti e tristi (adagio); passaggi armoniosi e dissonanti. È il contrasto tra istanti luminosi e bui che rende bello il vivere: «La mia formula per la grandezza dell’uomo è amor fati: non volere nulla di diverso, né dietro né davanti a sé, per tutta l’eternità. Non accontentarsi di sopportare l’ineluttabile, e ancor meno nasconderlo […], ma amarlo…». La saggezza, che si creda o no nell’immortalità dell’anima, riconcilia felicità e infelicità invece di metterle in opposizione.

Mi sembra possibile accettare la realtà e amare la vita quando non ci troviamo a dover affrontare gravi prove. Ma come si fa, chiede Luc Ferry, quando si è torturati da un aguzzino? Anche se questo è un caso estremo e ben pochi esseri umani vivranno questo tipo di esperienza tragica, è comunque necessario affrontarlo direttamente, in quanto ci permette di andare fino in fondo al ragionamento, per vedere se e come regge. Dire «sì» alla vita dev’essere inteso in senso generale, come ho

suggerito poco fa: significa amare l’esistenza con tutti i suoi colori, le sue tonalità, i suoi contrasti. Se questo sguardo è radicato profondamente in noi, quando sopraggiungerà una prova terribile, come la tortura, la considereremo in maniera diversa. Non vuol dire che dobbiamo apprezzarla e rallegrarci del dolore che procura, ma vederla come parte di un insieme, per quanto penosa essa sia. Dobbiamo accettare il tutto nella sua interezza e quindi anche questo supplizio, sebbene avremmo preferito evitarlo. Quando Gesù entra in agonia sul Monte degli Ulivi, poco prima della Passione, suda sangue per la tensione e supplica Dio di risparmiargli quel calvario. Poi si ricrede e dice: «Non la mia volontà, ma la tua». Non ha nessuna voglia di essere torturato e morire, ma acconsente al suo destino: è questo l’amor fati. E nonostante tanta tribolazione, alla fine la pace interiore prevarrà sull’angoscia. Come molti sono rimasto sconvolto dalle lettere scritte dall’olandese Etty Hillesum quando era imprigionata nel campo di concentramento di Westerbork, poco prima di essere deportata ad Auschwitz. La giovane afferma che i suoi carcerieri non possono intaccare la sua serenità e felicità interiori: «La vita e la morte, la sofferenza e la gioia, le vesciche nei piedi estenuati per il cammino, il gelsomino dietro la casa, le persecuzioni, le innumerevoli atrocità, tutto, tutto è in me come un unico, potente insieme, e lo accetto come una totalità indivisibile». Dicevo prima che la saggezza è un ideale forse inaccessibile, ma questa testimonianza dimostra che a volte può essere raggiunto. Ho citato questo passaggio anche nel libro La felicità. Un viaggio filosofico e il mio amico Luc Ferry mi ha risposto che l’autrice del testo era «psicotica». Credo invece che con una lucidità perfetta comprendesse tutto il reale in uno sguardo di saggezza e d’amore che le permetteva di sopportare l’insopportabile. La felicità, ancora una volta, non si oppone al dolore. Possiamo essere sereni, o addirittura gioiosi, anche sperimentando una grande pena. Una donna che partorisce soffrendo è allo stesso tempo contenta di dare alla luce il figlio. È tutta una questione di occhi: è possibile trascendere il male allargando lo sguardo, considerando la vita nella

sua globalità, «come una totalità indivisibile», come esprime così bene Etty, che precisa, sulla scia di Epitteto e dei saggi buddisti: «Il grande ostacolo è sempre la rappresentazione e non la realtà».

ESSERE SE STESSI E SINTONIZZARSI CON IL MONDO

Dopo questo primo scambio di opinioni comprendo bene lo scopo del nostro discorso. Ora parlami del cammino da seguire: come arrivare a questa felicità profonda e duratura? Come ricorda Socrate, la via della saggezza comincia dalla conoscenza di sé. Poniti la domanda: «Chi sono?». Non interrogarti solo sulla tua identità animale o familiare: sei un essere umano, ti chiami… Sei il figlio o la figlia di… Non limitarti a quella culturale: sei francese, bretone, corso, basco… Non considerare soltanto quella sociale: eserciti questo o quel mestiere e hai una certa reputazione ecc. No, interrogati sulla tua natura profonda: chi sei, al di là di tutte queste identità? Chi sei in quanto essere particolare? Qual è la tua vera sostanza? A che cosa aspiri? Scoprirai allora che può esistere uno scarto tra l’immagine che gli altri hanno di te, o che intendi dare loro, e la tua essenza. Che non sei pienamente te stesso. Che il lavoro che fai è quello che i tuoi genitori hanno voluto per te o hai scelto a tavolino, per ottenere una certa sicurezza economica. Che non sei te stesso nella vita affettiva e sociale, perché vuoi piacere agli altri ed essere amato e riconosciuto. Oppure che non sai davvero chi sei e sei insoddisfatto di come vivi, ma non sai come fare o dove andare per realizzarti completamente. Porsi questo interrogativo è fondamentale, in quanto nessun cammino di saggezza può proseguire sulla base di un «falso sé», di una cattiva conoscenza della propria natura profonda e delle sue vere aspirazioni.

Benissimo, ma come imparare a conoscersi? Con un lavoro di introspezione, cioè con l’osservazione minuziosa delle tue emozioni, dei tuoi pensieri, delle tue parole, delle tue azioni,

delle tue reazioni emotive, dei tuoi desideri e delle tue avversioni. Baruch Spinoza non è soltanto uno dei più grandi filosofi di tutti i tempi, ma anche il precursore della psicologia del profondo. Nel suo libro Etica spiega che ogni organismo vivente fa uno sforzo per perseverare nella sua essenza e crescere. Constata inoltre che ogni volta che aumentiamo la nostra potenza d’azione e ci realizziamo secondo la nostra natura individuale siamo nella gioia. Al contrario, quando quella forza diminuisce o non ci comportiamo secondo il nostro essere profondo, siamo nella tristezza. Questi sentimenti, quindi, sono i due elementi fondamentali che ci permettono di sapere se siamo noi stessi oppure no, se cresciamo o diminuiamo, se siamo sulla strada della realizzazione della nostra unicità o su una via sbagliata che ci distoglie da noi e dalla vera felicità.

Se ho capito bene, la gioia e la tristezza sono come due bussole che mi indicano se sono me stesso e se la mia vita è orientata nel verso giusto per raggiungere una felicità profonda e duratura? Sì, ma ci sono due precisazioni importanti da fare. Partendo dalla constatazione che ogni emozione è legata a un’idea, a un pensiero, Spinoza spiega che possiamo avere delle gioie false, che chiama «passive». Sono quelle legate a idee «inadeguate», sbagliate, e finiscono sempre per trasformarsi in tristezza. L’esempio più comune è quello della passione amorosa. Siamo profondamente compiaciuti di aver trovato una persona con cui condividiamo un amore passionale. Poi, con il passare del tempo, ci rendiamo conto che l’altro non è quello che pretendeva di essere o che volevamo vedere e il sentimento si trasforma in malcontento, spesso addirittura in odio. Al contrario, una gioia «attiva» è collegata a un’idea «adeguata». Siccome è fondata sulla verità e l’oggetto del nostro amore o del nostro desiderio concorda con la nostra natura particolare, la contentezza che ne deriva è profonda e duratura. Dobbiamo quindi imparare a distinguere le gioie passive da quelle attive, e questo richiede una grande capacità di osservazione di sé e

molta lucidità. Anche le sensazioni di infelicità richiedono un discernimento. Alcune sono giustificate e non bisogna cercare di evitarle, per esempio quando dipendono dalla perdita di una persona cara; altre, spiega Spinoza, sono dovute a un cattivo orientamento dei desideri e a idee sbagliate. Sto male perché amo una persona che risulta nociva al mio benessere, svolgo un mestiere che non mi si addice, oppure perché aderisco a credenze o concetti falsi. Con l’esperienza e l’introspezione, la ragione deve aiutarci a correggere questi errori e dare una nuova direzione alle nostre aspirazioni, rivolgendole a cose o persone che ci fanno crescere e di conseguenza ci offrono gioia, in quando si accordano alla nostra vera natura. Per Spinoza, tutto nella vita è questione di incontri: se sono cattivi significa che non sono in sintonia con la nostra autentica essenza e presto o tardi ci faranno sprofondare nella tristezza, mentre se sono buoni e concordano con la nostra singolarità, ci apriranno la via della gioia. Questi contatti possono avvenire con idee, credenze, persone, alimenti ecc. Imparando a conoscerci poco per volta scopriamo cosa ci fa bene e cosa no, cosa si adatta a noi e cosa no, cos’è favorevole alla salute del nostro corpo e della nostra anima e cosa invece li avvelena. Ecco perché diventare se stessi permette di sintonizzarsi meglio con il mondo, un po’ come uno strumento musicale: se è ben accordato suona correttamente, potrà inserirsi adeguatamente nell’orchestra e svolgere al meglio il suo ruolo, insieme agli altri. La gioia, quindi, deriva dal fatto che siamo davvero noi stessi e ci troviamo nel posto giusto nel cosmo, nella vita, nella società. Il termine greco eudaimon (felice) lo esprime semplicemente: eu (in accordo) e daimon (genio, divinità); significa che siamo felici se siamo in sintonia con il nostro buon genio o la parte di divino che è in noi. Potrei anche dire: se il nostro essere interiore e la realtà vibrano insieme. Nel saggio l’io concorda perfettamente con il mondo, segue il suo spartito e la musica risulta bella ed emozionante proprio perché questa armonia è perfetta.

Quello che dice Spinoza mi fa pensare alla famosa massima di Nietzsche, «Diventa ciò che sei!», ma anche alla psicanalisi che ci invita, con uno sforzo di lucidità e conoscenza del nostro io, a smontare le nostre false identità per diventare noi stessi. Nietzsche ha ripreso la formula del poeta antico Pindaro e ha avuto le grandi intuizioni della sua filosofia proprio dopo aver conosciuto l’Etica di Spinoza, di cui era un assiduo lettore. Anche Freud riconosce quest’ultimo come il vero pioniere della psicanalisi, sebbene il filosofo olandese non abbia mai usato il termine «inconscio», pur avendone descritto perfettamente gran parte dei suoi funzionamenti. Infatti afferma che, anche se non ne siamo consapevoli, siamo tutti mossi dalle nostre affezioni, cioè da desideri, emozioni, sentimenti. Tornerò su questo argomento a proposito della questione della libertà. Tuttavia, per rimanere sul tema della conoscenza di sé, vorrei citare anche il «processo di individuazione» elaborato da Carl Gustav Jung. Ispirandosi ai racconti mitologici e alle grandi ricerche leggendarie come quella del Graal, lo psicanalista svizzero mostra che la nostra esistenza può essere considerata simile a un cammino iniziatico. La meta consiste nel realizzare il nostro Sé, cioè diventare un individuo unico, al di là di tutti i condizionamenti psichici e sociali. Il percorso è costituito da tutte le esperienze che ci propone la vita: è questo il processo di individuazione. Naturalmente durante il viaggio incontriamo numerosi ostacoli che dobbiamo superare, proprio come gli eroi mitologici o i cavalieri di re Artù. Il principale è la necessità di attraversare la nostra ombra, cioè le zone buie di noi stessi che non vogliamo vedere. Riportare alla superficie della coscienza alcuni contenuti nascosti nell’inconscio si rivela un’avventura pericolosa, che spesso richiede un aiuto esterno, quello dell’analista. Nell’ambito delle saggezze tradizionali, però, questo sostegno potrà arrivare dal maestro spirituale, personaggio centrale delle grandi correnti induista, buddista, cristiana o sufi. Queste figure hanno già seguito la strada che separa l’oscurità dalla luce e di conseguenza sono capaci di guidarci, sorreggerci e confortarci. È evidente che occorre anche un buon discernimento per scegliere

la persona a cui appoggiarsi per compiere il nostro percorso.

Quali sono i criteri che ci permettono di selezionare un buon terapeuta o un autentico maestro spirituale? In entrambi i casi mi sembrano essenziali tre elementi. Prima di tutto la guida, che sia psicologica o spirituale, deve aver sperimentato ciò che insegna. È questo che le permetterà di accompagnare un altro nel viaggio iniziatico. Poi dev’essere benevola, cioè volere il bene della persona che le si affida. Ciò si concretizza nel desiderio di rendere il paziente, o il discepolo, il più autonomo possibile. È il contrario del guru di una setta o del terapeuta perverso che consciamente o inconsciamente vuole che l’assistito si senta dipendente da lui. Questo atteggiamento porta anche a una posizione di gratuità: il denaro non deve costituire il suo interesse principale, la sua azione dev’essere disinteressata. Nell’ambito di una terapia è normale che ci sia uno scambio di soldi, ma il tutto deve rimanere a livelli ragionevoli. Sono da evitare gli specialisti che chiedono somme molto elevate o sempre più importanti man mano che la cura prosegue. Nel caso di accompagnamento all’interno di una tradizione spirituale, solitamente non viene richiesto nessun pagamento. Anche se il sostegno di una guida può rivelarsi molto utile quando desideriamo attraversare le zone più oscure della nostra psiche, possiamo effettuare da soli, sulla scia di Socrate, Montaigne o Spinoza, la parte fondamentale del cammino, che consiste nel conoscere e scoprire ciò che è adatto e giusto per noi e ci fa entrare in uno stato di gioia attiva. Lo scopo finale è tentare di fare delle nostre vite un’opera d’arte.

L’ECCELLENZA UMANA: L’AMORE E LE VIRTÙ

All’inizio della nostra conversazione hai detto che la saggezza vuole condurci a una vita buona e felice. Qual è la differenza? Socrate stabilisce una distinzione fondamentale tra vita felice e vita buona. Possiamo cercare una felicità egoista, senza preoccuparci troppo degli altri, o addirittura praticando l’ingiustizia. Conosciamo tutti persone che vivono pensando: «Dopo di me il diluvio!»; sono concentrate solo su se stesse o il loro clan e non hanno la minima considerazione per il bene comune. Non credo però che riescano a essere profondamente felici, perché la gioia vera è legata all’amore, all’altruismo, a una giusta relazione con gli altri. In ogni caso, aspirano alla felicità senza aspirare a vivere secondo il bene. Ora, la saggezza aiuta a ottenere una vita sia felice, perché ci invita a realizzarci seguendo la nostra natura particolare, sia buona, perché ci insegna a tener conto del prossimo, a rispettarlo, a vivere secondo il bene.

Vivere seguendo il bene significa amare gli altri? Sì e no. L’amore è il vertice della saggezza, perché quando amiamo e quando esso ci guida noi vogliamo e facciamo il bene senza essere obbligati da leggi o da qualsiasi altra cosa. Tuttavia è anche possibile rispettare gli altri e praticare semplicemente il bene per scrupolo morale e per virtù. Esistono vari tipi di amore: quello che è essenzialmente desiderio (in greco eros), quello d’amicizia (philia) e quello universale, completamente disinteressato (agape). Il primo è molto ambiguo perché in casi estremi può portarci a dare la nostra vita per l’altro o, viceversa, a ucciderlo… per passione!

Il secondo (che comprende la relazione tra amici, genitori e figli, uomo e donna) è molto più profondo e spirituale: noi siamo benevoli verso quelli che abbiamo scelto o desiderato: il coniuge, i familiari, gli amici. Vogliamo il loro bene perché li amiamo. Infine, l’amore universale (preferisco tradurre in questo modo il termine greco agape, piuttosto che con «carità», dalle connotazioni troppo forti) è quello più spirituale e disinteressato: non amiamo solo i nostri cari, quelli a cui siamo più vicini, ma ogni essere umano e addirittura ogni essere sensibile. È il sentimento predicato da Budda e Gesù, che non richiede reciprocità. Esso è creatore, perché non è rivolto a persone desiderabili e amabili in se stesse, ma siamo noi che, amandole, le rendiamo tali. È la definizione stessa di amore divino descritto nella Bibbia: Dio non ama gli uomini perché ne sono degni, ma in modo gratuito. Siccome il Padre ama tutte le sue creature, ci dice Cristo, attribuisce loro un valore infinito e anche noi dovremmo fare così. Il Messia ci invita quindi a rispettare il prossimo e a fare il bene non per dovere, ma per amore, prendendo per modello quello divino. È questo che farà dire a Spinoza: «Cristo ci ha liberati dalla schiavitù della legge e, tuttavia, l’ha confermata e impressa per sempre nel fondo dei nostri cuori». Il buddismo Mahayana (Grande veicolo) ha subito la stessa evoluzione, passando dalla benevolenza (maitri in sanscrito) alla compassione attiva verso ogni creatura (karuna). Non è più semplicemente per obbedire a una norma che rispettiamo il prossimo, ma perché lo amiamo. Questo amore universale e disinteressato è il coronamento della saggezza e sono convinto che sia tanto più giusto quanto più si estende a tutti gli esseri dotati di coscienza e sensibilità, e non solo agli uomini. Secondo me, un autentico saggio ama e rispetta il più possibile tutti gli esseri viventi.

È molto difficile accedere a questo amore universale, soprattutto

se non si è supportati da una fede in un Dio-Amore, come Cristo, o da un’intensa pratica spirituale, come nel caso del buddismo! Effettivamente è vero, ed è per questo motivo che abbiamo bisogno di valori e qualità morali. I filosofi dell’Antichità ne hanno definiti alcuni che manifestano la perfezione dell’umanità, assegnando loro il nome di «virtù», la cui etimologia significa «eccellenza». Solitamente parliamo delle virtù di una pianta o di un medicinale per indicare la sua azione specifica; per esempio, quella dell’arnica o dell’aspirina è di calmare il dolore. Applichiamo questo concetto all’uomo: come si esprime la sua forza? Qual è la particolarità che lo rende davvero umano? Quali sono le doti che ci permettono di eccellere non solo come medici, avvocati o banchieri, ma come esseri umani? Questa è una delle grandi domande della saggezza. Partendo da questi interrogativi, gli Antichi hanno definito un certo numero di caratteristiche etiche, cioè legate all’azione e alla vita nella società, che ci permettono di essere pienamente umani. Montaigne e Spinoza si sono inseriti in questa logica che, dal mio punto di vista, continua a essere valida ancora oggi. Scrive infatti Montaigne: «Nulla è bello e legittimo come essere uomo compiutamente e debitamente».

Quali sono queste doti morali che consentono di esprimere al meglio la nostra umanità? Le quattro principali sono quelle che nella tradizione occidentale vengono chiamate «virtù cardinali»: giustizia, temperanza, fortezza e prudenza. La prima è probabilmente la più importante e Aristotele la definisce «completa» in quanto rappresenta l’orizzonte di tutte le altre. Si può essere prudenti, temperanti e coraggiosi in modo egoistico; un tiranno può dar prova di grande audacia, senza comunque collegare questa dote a un valore umanista. La giustizia, invece, è sia un valore universale – se manca non si può parlare di vita in società – che morale e personale. Anche i

bambini piccoli capiscono molto bene che cosa sia cogliendola nelle sue due grandi accezioni: la legalità (ciò che è conforme alla legge) e l’equità (che implica l’uguaglianza di tutti gli uomini di fronte a tale legge). Se uno di loro non si comporta come dovrebbe, gli altri diventano immediatamente i garanti dell’ordine: «Se non rispetti le regole non giochiamo più!». E chi si sente leso nei suoi diritti, quando per esempio riceve meno dei compagni, si ribella subito: «Non è giusto!». Aristotele ha dato una definizione molto corretta di questo concetto: «Giusto è ciò che è conforme alla legge e rispetta l’uguaglianza, ingiusto ciò che è contrario alla legge e non rispetta l’uguaglianza».

Non può esistere un conflitto tra queste due dimensioni della giustizia, visto che a volte capita che una legge sia ingiusta? Certo che sì! Socrate ha accettato di morire anche se sarebbe potuto fuggire perché non voleva sottrarsi alla sentenza del tribunale della sua città, per quanto ingiusta. Non sono sicuro che abbia avuto ragione, in quanto le norme di uno stato o le decisioni prese con la forza dell’autorità non sono sempre giuste. Sotto il regime di Vichy, hanno avuto ragione i membri della resistenza e non i collaboratori che hanno rispettato la legge. Inoltre, se fossi vittima di un giudizio totalmente arbitrario non credo proprio che lo accetterei docilmente! Di conseguenza, la giustizia morale in quanto equità mi sembra più fondamentale di quella politica, per quanto quest’ultima sia necessaria per la vita comune. La schiavitù è stata legale per millenni, pur essendo una pratica moralmente inaccettabile perché fondata su una discriminazione tra gli esseri umani. Per fortuna ci sono stati uomini e donne che hanno lottato per cambiare questa situazione anche in molti altri settori, e hanno affermato l’uguale dignità di tutti gli individui, la libertà di coscienza e di espressione, la parità tra i due sessi… La virtù morale della giustizia ci incita a non dominare e soggiogare gli altri, proponendoci di metterci al loro posto e cercando

di comprendere i loro interessi prima di agire. Ci invita a proteggere i membri più deboli della società che aspirano come noi alla felicità. Come ho accennato poco fa a proposito dell’amore universale, penso che oggi la coscienza umana sia evoluta a sufficienza per estendere il concetto morale di giustizia a tutti gli esseri sensibili. Non dobbiamo approfittare della nostra forza per sfruttare e far soffrire atrocemente gli animali, come nel caso dell’allevamento industriale e della vivisezione. Rispettiamo i loro bisogni naturali e vietiamo ogni azione crudele nei loro confronti. La giustizia si sviluppa per mezzo della ragione, ma anche dell’empatia e della compassione, cioè la capacità di sentire quello che prova l’altro. Darwin l’ha espresso magnificamente nel 1871: «L’umanità verso gli animali inferiori è una delle virtù più nobili di cui sia dotato l’uomo e corrisponde all’ultimo stadio dello sviluppo dei sentimenti morali. È solo quando arriviamo a preoccuparci della totalità degli esseri sensibili che la nostra moralità raggiunge il suo livello più alto». Rispettare chi ci è vicino è relativamente facile e comprendiamo bene quanto sia corretto e utile farlo, ma agire allo stesso modo nei confronti degli esseri viventi più lontani da noi, appartenenti a un’altra specie, è segno di una vera capacità di occuparsi degli altri, in maniera completamente disinteressata.

E dopo la giustizia, in che modo la temperanza ci permette di essere pienamente umani? Questa virtù regola il carattere continuamente insoddisfatto del nostro desiderio e, contrariamente a quanto generalmente si crede, non è l’assenza di piacere, cioè l’ascesi. Già Epicuro lottava contro questa avversione per il piacere proposta da Speusippo, il nipote e successore di Platone all’Accademia, e ha voluto riabilitarlo. Spinoza aveva lo stesso atteggiamento: «Soltanto una torva e triste superstizione vieta la gioia». Per i saggi, tuttavia, il piacere risulta tanto più intenso quanto più è limitato, valutato, misurato. Voler godere di tutto, infatti, significa

non godere più di nulla. La sofferenza che prova un alcolizzato, un fumatore compulsivo o un drogato è molto più grande della gioia che deriva dalla sua dipendenza. Come dice molto bene André Comte-Sponville, la temperanza ci invita «a godere il più possibile e il meglio possibile, ma intensificando la sensazione o la consapevolezza che ne derivano, e non moltiplicando in modo indefinito i suoi oggetti». È meglio preferire la qualità alla quantità e conviene, tramite questa virtù, imparare a limitare i desideri, trarre piena soddisfazione dal poco, assaporare ogni minimo piacere con intensità. È a questa «sobrietà felice», a questa «forza della moderazione» che ci invitano i saggi di ieri e quelli di oggi, come Pierre Rabhi.

E la fortezza? Il coraggio, o la fortezza, come dicevano gli Antichi, è innanzitutto un tratto del carattere. Si può essere coraggiosi senza avere nessuna moralità e mettere questa dote al servizio di uno sport estremo, di un’esistenza pericolosa, o semplicemente di una capacità naturale di superare le proprie paure. Diventa davvero una virtù quando si esplica nel superare se stessi e i propri limiti allo scopo di condurre una vita buona, e ancor più quando si mette a disposizione degli altri. Immaginiamo un’aggressione in metropolitana: se l’obiettivo sono io e non sono spaventato, l’affronterò senza difficoltà. In quel caso, non c’è nulla di etico. Se invece ho timore e lo vinco ho già compiuto un’azione virtuosa che mi permette di crescere. Se sono testimone di un atto di violenza e vado in soccorso della vittima, compio qualcosa di altamente morale, perché metto il mio coraggio al servizio del prossimo. Questa dote ci consente di realizzare e aumentare la nostra umanità. Ecco perché viene ammirato in ogni cultura ed esiste un vero e proprio culto dell’”eroe”. Quest’ultimo – gli americani ne vanno pazzi! – è colui che ha sormontato difficoltà interiori ed esteriori e ha

saputo rischiare per una causa senza alcun interesse egoistico. Al contrario, in tutte le civiltà il “vigliacco” è il personaggio più disprezzato.

Rimane la prudenza… Ultima virtù cardinale, dipende più dall’intelligenza che dalla volontà, e in questo senso risulta necessaria per tutte le altre. Oggi il termine è dotato di una connotazione particolare e rimanda alla ragionevolezza, alla cautela, all’assenza totale di rischio, mentre nell’ambito della saggezza il suo significato è molto diverso: prudentia è la traduzione latina della parola greca phronesis che potremmo rendere con «saggezza pratica» o «discernimento». La prudenza, spiega Aristotele, è una disposizione dell’intelletto che in una data situazione ci permette di deliberare con giustizia su ciò che è buono o cattivo e di agire di conseguenza. Per Epicuro è la virtù principale in quanto ci consente di distinguere i vari tipi di piacere e orientare in modo giusto i nostri desideri. Senza discernimento la saggezza non è possibile. Quindi, contrariamente a quanto suggerisce l’accezione moderna del termine, può spingerci ad affrontare dei pericoli e dar prova di coraggio, per esempio in nome della giustizia.

La prudenza ci invita anche a tener conto delle conseguenze delle nostre azioni? Sì, sia sul piano individuale che su quello collettivo. È questa virtù che ispira il principio moderno di precauzione, in particolare in quel settore così cruciale dell’ecologia. Di conseguenza risulta molto utile nell’ambito di una società altamente tecnologica che comunque non ha rinunciato a preoccupazioni di ordine etico.

La prudenza non è quello che la saggezza popolare chiama

«buon senso»? In maniera più ampia potremmo stabilire un’analogia tra la prudenza e l’istinto degli animali. Questi riescono naturalmente a capire ciò che è bene o male per loro in ogni circostanza e agire di conseguenza. Questa facoltà, che qualcuno chiama effettivamente «buon senso», in noi esiste ancora, ma è molto attenuata a causa dello spazio preponderante occupato dalla cultura, rendendo tanto più necessario l’uso del nostro intelletto pratico, del discernimento. Ci sono molte altre virtù, come la generosità, l’umiltà, la misericordia, la dolcezza, la fedeltà, la tolleranza ecc., che sono altrettanto importanti per aiutarci ad accrescere la nostra umanità. Se ti interessa, ti invito a leggere due testi notevoli e molto completi su questo argomento: Etica Nicomachea di Aristotele e Piccolo trattato delle grandi virtù di André Comte-Sponville.

Lo farò! Mi chiedevo se l’umorismo, a cui sono molto sensibile, potesse essere considerato una virtù. Assolutamente sì. La tua domanda mi permette di aggiungere ancora qualche parola su due virtù poco presenti nella tradizione e che invece mi sembrano essenziali per il raggiungimento della saggezza: l’umorismo e l’elasticità, che sono molto legate tra loro. Una delle caratteristiche principali del primo è che ci permette di relativizzare, dar prova di flessibilità, prendere le distanze dagli elementi tragici dell’esistenza. Come dice Woody Allen: «La vita è solo una serie di problemi, ma la cosa peggiore è che finisce!». L’umorismo è una qualità dello spirito che ci consente di affrontare una situazione difficile o addirittura drammatica, capovolgerla e renderla più leggera, riuscendo talvolta a ricavarne anche un po’ di gioia. L’umorismo rivolto verso se stessi è il più spirituale e profondo, come ben sanno gli ebrei.

Perché gli ebrei hanno sviluppato un senso così particolare

dell’autoironia? Ritengo ci siano un motivo teologico e uno storico. Il primo deriva dallo scarto abissale tra l’elezione divina di questo popolo e i comportamenti dei suoi membri, tutto sommato molto umani. Secondo la Bibbia, infatti, questo piccolo popolo è stato scelto dal Dio creatore dell’universo sebbene non fosse più santo o virtuoso degli altri. Questo fardello della predilezione è così pesante da portare che tanto vale riderne e prendersi gioco di sé. La ragione storica è che gli ebrei hanno subito ogni sorta di persecuzione da due millenni a questa parte. Come ho accennato, l’umorismo permette di sopportare il tragico e attribuirgli quasi un senso. Mi pare che il formidabile senso ebraico dello humour, vertice dell’autoironia, si sia sviluppato all’incrocio di queste due questioni, l’elezione e la persecuzione, in quanto la seconda rende ancora più problematica la prima, rafforzando quel distacco che permette alla comicità di esprimersi al meglio. L’umorismo, però, ha altre due virtù: crea comunione, legame sociale (grazie al potere comunicativo della risata) e rende lieve ciò che è troppo pesante, favorendo l’umiltà. La saggezza senza senso dello humour sarebbe greve, opprimente, e infatti giustamente si dice che un «santo triste è un triste santo». Questo elemento, quindi, mi sembra indispensabile, da una parte perché permette di colmare lo scarto – tragico e quindi buffo – tra l’ideale a cui aspiriamo e la realtà di quello che siamo; meglio ridere dei nostri limiti, delle nostre vulnerabilità e dei nostri difetti che lamentarsene o piangerne. Dall’altra, perché ci rende più leggeri e umili su un cammino spirituale che può facilmente farci diventare troppo seri, orgogliosi o vanitosi. Ogni volta che incontro una persona che pretende di essere un “maestro spirituale”, la prima cosa che verifico è se ha senso dell’umorismo. Chi ne è privo, infatti, mi sembra abbia ancora molta strada da percorrere prima di diventare un essere umano realizzato.

Hai accennato anche all’elasticità, parlandone come di una virtù

essenziale. Penso che intendessi quella dello spirito e non quella del corpo! Quella fisica è importante per muoversi bene, ma l’altra per vivere bene. Mi sembra che la flessibilità, la capacità di adattarsi a ogni situazione, sia un aspetto fondamentale della saggezza. È assente dalla tradizione occidentale, ma è alla base di una grande filosofia cinese che amo molto: il taoismo. Nato in Cina verso il IV secolo avanti Cristo, si sviluppa accanto al pensiero ufficiale del confucianesimo (da cui in parte trae ispirazione) come dottrina non dogmatica, scettica e critica. Propone valori che appaiono paradossali, come la forza della debolezza, la sapienza del bambino e l’efficacia del non agire. Ora, la virtù principale di cui parla uno dei suoi principali fondatori, Zhuangzi (che aveva un grande senso dell’umorismo), è proprio l’elasticità. Il saggio, o colui che aspira a diventarlo, è flessibile, adattabile; non è mai rigido, né nel pensiero né nel comportamento. In questo modo si abitua ad accompagnare interiormente il moto permanente della vita, invece di opporgli resistenza con un atteggiamento dogmatico od ostinato. Contrariamente a quanto ritenevano i seguaci di Confucio o gli stoici, non deve imitare un ordine cosmico perfetto, ma conformarsi con gioia al flusso abbondante, caotico, mobile e imprevedibile dell’esistenza terrena. La saggezza taoista, quindi, non è caratterizzata dall’ordine, ma dal disordine; non dalla stabilità, ma dal movimento; invita alla spontaneità, all’elasticità e alla fluidità al fine di recuperare l’armonia non con un sistema immutabile, ma con la sovrabbondanza della realtà. È questa la chiave della vera felicità, della gioia suprema. In questo concetto ritroviamo l’idea fondamentale di accettazione, di abbandono, di «sì» alla vita a cui abbiamo accennato in precedenza, ma in una prospettiva non dogmatica, gioiosa, impregnata di leggerezza. Che è lo stesso modo in cui i bambini piccoli guardano il mondo.

Le virtù di cui hai parlato, e in particolare quelle cardinali, sono tutte naturali? Come fare per acquisirle e svilupparle? Mi capita

infatti di sapere che cosa è buono per me e che cosa dovrei fare, ma spesso sono troppo debole o incostante per riuscirci. Le virtù permettono all’essere umano di estendere e realizzare tutte le potenzialità morali della sua natura. La maggior parte dei moralisti pensa che esse derivino unicamente dall’educazione: un bambino allevato dai lupi cercherebbe perciò di assimilare le doti di questi animali, mentre chi abita in una società umana tenterebbe di far propri i valori di quest’ultima. È incontestabile, ma ciò non toglie che esistono disposizioni naturali, diverse a seconda degli individui, a essere giusti, temperanti, coraggiosi o prudenti. Lo stesso vale per il senso dell’umorismo, la generosità, la compassione ecc. Ogni persona ne porta in sé germi ed espressioni differenti: alcuni bambini sono più propensi all’altruismo, all’umiltà o alla giustizia di altri. L’educazione, però, svolge un ruolo cruciale nel loro sviluppo, permettendo di correggere tendenze che potrebbero portare a dipendenze o vizi. Dal mio punto di vista, quindi, le virtù sono al crocevia di natura e cultura, anche se quest’ultima è determinante per il loro sviluppo. Secondo Aristotele le virtù si acquisiscono e sono chiamate a formare un modo di essere duraturo; si trasmettono con l’insegnamento, ma si fortificano e si radicano in noi tramite l’esercizio. Questo però non vuol dire che si possa diventare virtuosi a vita! È con l’esperienza che s’impara, è suonando il pianoforte che si diventa pianisti ed è compiendo regolarmente azioni di coraggio o temperanza che si diventa coraggiosi o temperanti. La virtù, dice la tradizione, è un habitus, traduzione latina del greco hexis, una qualità stabile, una piega che assumiamo man mano che agiamo in un certo modo. È anche vero il contrario: il vizio si radica in noi man mano che compiamo atti negativi. L’alcolizzato è tale a forza di cedere alla piccola tentazione di bere un bicchiere di più. Del resto, Aristotele definisce la virtù come un giusto mezzo (areté in greco) tra due estremi che costituiscono dei difetti. Quindi la temperanza sta tra la dissolutezza (vizio del piacere eccessivo) e l’ascesi (vizio della mancanza di piacere); il coraggio tra la vigliaccheria (non voler correre nessun rischio) e la temerarietà

(assumere rischi sconsiderati) ecc.

Questo mi fa pensare alla famosa «via di mezzo» auspicata da Budda. È la stessa idea? Budda, in effetti, ha cominciato sperimentando situazioni estreme. Dopo aver vissuto nel lusso della vita principesca è passato all’ascetismo e alla rinuncia totale. Rendendosi conto di non riuscire a progredire si è seduto ai piedi di un albero e ha meditato per alcuni giorni. Così ha raggiunto l’Illuminazione, che gli ha permesso di intuire che la vera saggezza consiste in una via di mezzo tra l’attaccamento ai piaceri e il loro rifiuto. «Evitando questi due opposti» disse nel primo sermone pronunciato a Benares «ho scoperto il cammino che dona la visione e la conoscenza e conduce alla pace, alla saggezza, al Risveglio e al Nirvana.» È la stessa idea, sviluppata da Aristotele, di un equilibrio tra due contrari, applicata però a tutta la vita. La saggezza ci invita a condurre un’esistenza equilibrata, senza eccessi, a gustare i piaceri dei sensi senza rimanervi attaccati. Alla fin fine, si gioca tutto ogni giorno nelle piccole decisioni che poco per volta diventano abitudini, buone o cattive, virtuose (che fanno accrescere la mia umanità) o viziose (che la diminuiscono).

Ma come fare per cambiare una cattiva abitudine? Come liberarsi da una dipendenza o da un vizio che ci rendono infelici o fanno del male a chi ci sta intorno? Basta prenderne coscienza oppure serve forza di volontà? Per correggere le inclinazioni negative e dare nuovo orientamento ai desideri gli epicurei pensano che sia sufficiente la saggezza pratica, il discernimento. Gli stoici, invece, sono convinti che sia tutta questione di volontà: «Se vuoi, puoi!». L’esperienza mostra che sono necessarie entrambe le cose, anche se

spesso non bastano! Un alcolizzato può essere perfettamente consapevole che il suo problema lo rende infelice e deve risolverlo. Magari vorrebbe smettere di bere, ma nonostante tutti i suoi sforzi non ci riesce. Avviene lo stesso per la maggior parte delle dipendenze o delle cattive pieghe che abbiamo preso: esserne coscienti e voler cambiare non è sufficiente. Probabilmente Spinoza è il primo saggio ad affermare che l’individuo, oltre alla ragione e alla volontà, necessita anche del desiderio. Quest’ultimo, e non solo il bisogno, rappresenta «l’essenza dell’uomo», e la sua forza è tale da riuscire a mobilitare tutto l’essere per provocare una trasformazione decisiva del comportamento; senza la sua potenza vitale le nostre decisioni di cambiamento resterebbero solo buoni propositi. L’intelletto, infatti, è fondamentale, ma permette solo di chiarire e orientare le nostre azioni; quando siamo prigionieri di un atteggiamento che ci rende infelici o fa soffrire gli altri, il suo ruolo consiste nel suscitarne di nuovi, che ci consentiranno di crescere e sentirci appagati. L’intelligenza ci permette di discernere meglio nuovi oggetti (o persone) verso cui dirigere la nostra volontà, al fine di abbandonare un modo di agire inadeguato che crea sofferenza. Il desiderio, quindi, è il fondamento delle nostre azioni e bisogna imparare a rivolgerlo nella giusta direzione, sviluppando motivazioni legate a idee adeguate: scoprire che cos’è davvero buono per noi, che cosa conviene alla nostra natura, che cosa ci attrae facendoci migliorare ed essere felici. La morale di Spinoza, con cui concordo perfettamente, è agli antipodi di un’etica del dovere fondata sulla volontà: «Devi…», «Bisogna che…». È invece un’etica illuminata dalla ragione e basata sulla forza vitale, sul desiderio e sulla nostra aspirazione alla gioia.

ESERCIZI SPIRITUALI

All’inizio di questa conversazione hai detto che le scuole filosofiche dell’Antichità proponevano pratiche spirituali per aiutare ad accedere alla saggezza. Anche le correnti orientali, come il buddismo, consigliano numerose tecniche. Che cosa suggeriresti a un individuo del nostro tempo? L’esercizio più importante, che condiziona tutti gli altri, è conservare l’intenzione e la vigilanza. Per quanto riguarda la prima, significa rinnovare ogni giorno il desiderio di crescere in umanità, diventare più consapevole, più amorevole, più responsabile, più virtuoso e perseverare in questa intenzione. Rimanere vigile vuol dire essere sempre presente, in particolare di fronte alle situazioni che richiedono una scelta o possono provocare reazioni emotive. Così facendo potrai sia affrontare nel modo più adeguato possibile ogni evento, sia, poco per volta, diventare più saggio. Infatti voler migliorare un giorno e l’indomani non pensarci più non serve praticamente a niente! È un lavoro quotidiano che consiste nel porre continuamente attenzione a quello che succede dentro di te, alle tue reazioni agli avvenimenti, alle relazioni che intrattieni con gli altri. Se insisti, progressivamente potrai acquisire virtù, modificare il tuo spirito, dar prova di più discernimento ed elasticità, allargare lo sguardo. Si gioca tutto in questa intenzione sempre rinnovata e in questa vigilanza costante.

Capisco bene l’intenzione generale, ma in concreto, come dev’essere utilizzata la vigilanza? Fammi alcuni esempi. Budda, che la chiama anche veglia dello spirito, dice che dobbiamo applicarla innanzitutto ai pensieri e alle parole.

Quando sopraggiunge un’idea malsana, morbosa o legata a sentimenti di paura, tristezza, rabbia o odio, se rimaniamo vigili possiamo evitare che si sviluppi ulteriormente. I pensieri hanno un impatto considerevole non solo su noi stessi, ma anche sugli altri; se cattivi, possono diventare un vero e proprio veleno che oscura la mente e il cuore e in quanto energia prodotta dal nostro spirito possono anche raggiungere chi è intorno a noi. Quello che nelle culture tradizionali è chiamato «malocchio» non è una superstizione. Pensare in modo ostile a una persona può causare su di lei un reale influsso negativo, ma è vero anche il contrario: la nostra positività può avere un effetto benefico su di noi e sugli altri. Nelle religioni, pregare è innanzitutto rivolgere un pensiero favorevole nei confronti di noi stessi o di qualcun altro e, che Dio esista o no, questa pratica può avere ripercussioni grazie alla sola forza della mente. Ecco perché il consiglio di «vigilare» è una costante di tutte le tradizioni spirituali dell’umanità. Lo stesso vale per quello che diciamo. Le nostre parole, evidentemente, hanno una conseguenza rilevante sulle nostre relazioni con gli altri. I discorsi possono uccidere o salvare. La tradizione buddista tibetana parla di quattro virtù collegate alla parola e invita a non mentire e non pronunciare termini futili, che possono ferire o portare discordia. La saggezza popolare ci invita, giustamente, a «morderci la lingua tre volte prima di parlare».

Oltre alla vigilanza costante su pensieri e parole esistono esercizi utili da praticare tutte le mattine e tutte le sere, un po’ come dei riti quotidiani? In effetti in tutte le tradizioni spirituali sono presenti raccomandazioni di questo tipo. Posso condividere con te quelle che ho sperimentato personalmente: appena sveglio concediti un po’ di tempo per meditare, concentrarti, fare dei propositi per la giornata che sta per cominciare, orientare la mente e mantenerla vigile sull’essenziale; poi rimani in silenzio per qualche minuto, senza

particolari intenzioni, restando solo presente a ciò che è, fissando l’attenzione sul respiro per aiutarti a non seguire il flusso continuo dei pensieri. Questa breve pausa, che puoi cercare di ripetere più volte nell’arco della giornata, permette di accedere a una situazione di consapevolezza di sé, degli altri e del mondo; risulta benefica per l’interiorità, favorendo la calma mentale, e donerà alle ore successive un profumo speciale. Aiuterà anche a creare una certa distanza rispetto ai pensieri perturbatori e alle emozioni che sopraggiungeranno in seguito, perché avrai preso l’abitudine di osservarli in modo distaccato.

Hai accennato alla meditazione; esistono gesti o posture particolari da adottare o un luogo da privilegiare? Sono tutti elementi secondari! Puoi fare questo esercizio in camera da letto, in salotto, ma anche in automobile, in metropolitana, camminando ecc. È innanzitutto un atteggiamento dello spirito: significa essere attenti e consapevoli di fronte a ciò che è; insegna a osservare in maniera neutra e distaccata quello che accade dentro di te, lasciando passare i pensieri senza seguirli. Ti sarà utile concentrare l’attenzione sul respiro o sulle sensazioni fisiche, per uscire dal flusso continuo della mente. Tutto ciò, però, si può fare ovunque e in qualsiasi momento: la cosa più importante è restare vigile durante questa pratica e ripeterla, anche solo per qualche minuto, il più sovente possibile. Questo ti permetterà, con il passare del tempo, di essere sempre più sereno e presente a quello che fai.

Consigli di dedicarsi a questa attività la sera, prima di addormentarsi? Com’è importante fare dei buoni propositi la mattina, può essere utile, prima di andare a dormire, stendere un breve bilancio della giornata appena trascorsa. È quello che gli Antichi chiamavano

«esame di coscienza», che in seguito è stato ripreso dai cristiani. Possono bastare pochi minuti per cercare di riassumere quanto avvenuto da un punto di vista spirituale: che cosa ho fatto di bene e di meno bene? Ho forse ferito qualcuno? Sono stato davvero attento?

Da bambino studiavo in una scuola cattolica e ciò che hai detto risveglia in me brutti ricordi! Ogni sera bisognava torturarsi per capire se avevamo peccato e all’epoca ho sviluppato un senso di colpa morbosa che ho impiegato anni a cacciare. Non è la stessa cosa. Un esame di coscienza, nel senso filosofico in cui lo praticavano gli Antichi, non è un’auto-accusa sotto lo sguardo di un Dio percepito generalmente dalle vecchie generazioni come un giudice tirannico, anche se questa visione è completamente contraria al messaggio evangelico. Si tratta semplicemente di concedersi un breve momento di introspezione che permetta di osservare e capire se siamo riusciti a realizzare le intenzioni del mattino, se possiamo migliorare in questo o quel settore, se abbiamo avuto una reazione positiva o negativa di fronte a eventi imprevisti ecc. Non è necessario giudicarsi, ma regolarsi al meglio come si accorda uno strumento musicale, per potersi sintonizzare ogni giorno con se stessi, gli altri e il mondo nel modo più giusto. C’è un’altra piccola pratica quotidiana che ti raccomando vivamente: quella della gratitudine. La mattina, non appena ti alzi, ringrazia di essere vivo e in buona salute (se è così) e la sera, quando ti corichi, per quello che ti ha reso felice durante la giornata. Fallo ogni volta che senti una gioia inondarti l’anima, quando ricevi una buona notizia, la vita ti fa un regalo o ti senti in pace. E se progredirai in saggezza, imparerai a farlo anche quando incontrerai una difficoltà, un fallimento o una prova, perché avrai compreso che ogni ostacolo può essere fonte di crescita, consapevolezza e amore. Questo esercizio, a cui mi dedico ogni giorno da molti anni, ha come effetto di accrescere l’amore e la felicità nel nostro cuore.

Prima hai accennato a detti e sentenze: a volte i filosofi dell’Antichità li imparavano a memoria per essere pronti ad affrontare ogni evento destabilizzante. Li utilizzi anche tu? Sì e no. Non conservo tra i ricordi decine di massime di vita, pronte all’uso in caso di difficoltà, ma in realtà da moltissimo tempo ho l’abitudine, mentre mi dedico alle mie numerose letture, di annotare frasi o riflessioni che trovo particolarmente utili o argute. Da qualche anno ne pubblico una ogni domenica sulla mia pagina Facebook per condividerla con i miei lettori e, come ben sai, mi piace anche riprenderle negli incontri con il pubblico e nelle mie opere. Personalmente, quando ne ho bisogno trovo più consolazione nella poesia e nella musica che nella filosofia. Il mio cuore e la mia sensibilità necessitano di essere nutriti in modo sano tanto quanto la mia mente!

Infatti, come ho potuto constatare leggendo alcuni tuoi libri e partecipando a qualche conferenza, tu insisti molto sul collegamento tra mente, cuore e corpo, dimensioni che spesso vengono considerate separate. Conosco alcune discipline come lo yoga e filosofi seguaci di Spinoza che mettono in evidenza lo stretto legame tra corpo e spirito, senza però parlare anche del cuore. È per questo che secondo me è assolutamente indispensabile rompere le barriere e creare un’armonia tra loro. È un peccato vedere persone che coltivano il fisico senza assegnare nessuna importanza alla mente, o intellettuali brillanti che hanno il cuore chiuso o il corpo continuamente contratto! Nella vita, il nostro essere funziona come un tutto in cui i vari elementi sono legati intimamente, che ne siamo consapevoli o meno. Pensieri e sentimenti hanno un effetto rilevante sul fisico e, viceversa, la salute influenza notevolmente affezioni e idee. È tutto collegato, e se la saggezza riguardasse solo l’intelligenza sarebbe molto povera e tristemente razionale; la sua ricerca invece coinvolge anche il cuore, gli affetti e la materia. Per questo motivo la

definirei, prima di tutto, come un’arte di vivere, un’arte di respirare, mangiare, pensare, sentire, provare, guardare, ascoltare, gustare, toccare, amare. La saggezza è esattamente il contrario della vita ascetica che disprezza il corpo e le emozioni, ma è il modo di godere in modo sano della vita con tutte le dimensioni della nostra natura. Sono convinto che solo considerando tutti questi aspetti e tentando di armonizzarli tra loro impareremo davvero a vivere bene. È un percorso che dura tutta la vita, ma per me è il più bello che ci sia. Chi aspira a condurre una vita buona e felice cominci interessandosi a come respira e mangia. Lo yoga mi ha aiutato molto a prendere coscienza del respiro e da qualche anno sto tentando seriamente di modificare la mia alimentazione, sia per motivi di salute che per ragioni etiche, cioè per rispettare il benessere animale e il pianeta. Prediligere cibi biologici e prodotti locali, diminuire o eliminare il consumo di carne animale significa prendersi cura di sé, degli altri e del mondo.

Per scegliere alimenti bio bisogna poterselo permettere! È un falso problema. A meno di coltivarsi da soli un orticello, è certamente più dispendioso che acquistare al supermercato prodotti importati e pieni zeppi di pesticidi. In realtà se, parallelamente, riduciamo considerevolmente il consumo di carne e di tutte le bevande zuccherate (bibite e altro), disastrose per la salute, il budget ritrova un equilibrio. Mangiare meno proteine animali comporta quattro conseguenze considerevoli: compiamo un’opera utile per la Terra, perché l’allevamento industriale intensivo rappresenta una catastrofe ecologica (riscaldamento climatico, esaurimento delle risorse d’acqua ecc.); evitiamo che milioni di animali siano allevati e uccisi tra atroci sofferenze; miglioriamo la nostra salute (l’OMS suggerisce una dieta più ricca di vegetali per prevenire varie malattie cardiovascolari) e infine possiamo risparmiare per comprare altri cibi di origine

biologica.

Diventare vegetariani è estremamente difficile, considerate le nostre abitudini alimentari. Anche se fossi convinto di questa necessità, mi sembra una scelta molto impegnativa e piuttosto ascetica! Senza cambiare completamente dieta da un giorno all’altro, cosa che pochi riescono effettivamente a fare, me compreso, possiamo tendere verso il vegetarianismo diminuendo poco per volta il consumo di animali diventando «flexitariani», come me. Non compro più carne e l’unico pesce che acquisto è quello locale, vicino alla mia casa in Corsica, ma mi capita ancora di mangiare questi due cibi al ristorante, quando non c’è nient’altro che mi tenti sulla griglia, o a casa di amici. Non mangio più del tutto solo il vitello e l’agnello, perché mi viene la nausea al pensiero di quei cuccioli sgozzati qualche settimana o pochi mesi dopo la nascita. Spero, un giorno, di smettere del tutto, perché penso sia la cosa migliore per il pianeta e tutte le sue creature, me compreso, ma ci sto arrivando al mio ritmo, senza forzarmi e sentirmi in colpa. Del resto, è proprio questo il modo in cui intendo la ricerca della saggezza in generale: progredire in una direzione che ci sembra quella più giusta, ma in base alla propria andatura, senza flagellarsi o mettersi addosso un’eccessiva pressione. Aggiungo due cose: con l’associazione che ho fondato, Ensemble pour les animaux 1, e diversi esperti, gruppi e allevatori, stiamo lavorando alla creazione di un’etichetta etica, in modo che tutti possano comprare la carne in coscienza, scegliendo di pagarla un po’ più cara per essere certi che l’animale ha sofferto meno, a costo di diminuirne il consumo. Inoltre, cambiando abitudini alimentari, ho imparato a cucinare in modo diverso: adoro mettermi ai fornelli e scoprire proteine e nuovi sapori che mi consentano di continuare a mangiare con piacere e in modo equilibrato.

Prendersi cura del proprio corpo, però, significa anche fare un po’ di moto ogni giorno, dormire bene, coricarsi prima di mezzanotte, imparare ad accogliere le emozioni ed essere attenti alle sensazioni. Confesso che ho ancora molti progressi da fare in tutti questi settori, in particolare in quello dello sport e del sonno. Come diceva Giovenale, l’obiettivo della saggezza è «una mente sana in un corpo sano» e, aggiungerei io, «un cuore buono».

Mi piacerebbe tornare sul tema dell’amore a cui hai accennato brevemente prima di parlare delle virtù, definendolo il vertice della saggezza. Ma possiamo amare meglio e in maniera giusta, e in che modo? Come conciliare l’amore-desiderio con quello universale e disinteressato? Questo sentimento è talmente variegato e complesso che è molto difficile comprendere che cosa accada in noi, quali siano le nostre motivazioni e le nostre attese quando lo proviamo. Se dico a qualcuno «ti amo», può voler dire sia «ho voglia di te» che «desidero che tu sia felice», «ho bisogno di te e vorrei che ti prendessi cura di me», «sono felice che tu esista» ecc. E in una relazione sentimentale, infatti, c’è un po’ di tutto questo!

Eros (l’amore-desiderio, legato alla mancanza), philia (l’amicizia, che implica scelta e reciprocità) e agape (il dono, totalmente gratuito) molto spesso sono intrecciati e da questa connessione deriva la complessità e l’ambiguità dei rapporti amorosi. Torno a sottolineare, quindi, che l’importante è imparare a conoscere noi stessi e distinguere le nostre vere motivazioni. Abbiamo il diritto di vivere una passione, ma è meglio conservare la lucidità e sapere che se ci innamoriamo rischiamo di perderla! E se non questa, almeno l’obiettività. Dobbiamo anche essere consapevoli che generalmente proiettiamo sull’altro le nostre mancanze, le nostre

attese e i nostri bisogni. Spinoza ha analizzato in modo perfetto questo atteggiamento; molto brevemente, ma anche propriamente, definisce infatti l’amore «una gioia legata all’idea di una causa esteriore». Il concetto è molto preciso: la felicità deriva non dalla persona che amiamo, per esempio, ma dall’immagine che abbiamo di lei. Come ho detto prima, quest’ultima può essere adeguata o inadeguata, vera o falsa. Quando conosciamo bene l’altro e lo amiamo per quello che è davvero, la gioia che ne deriva è «attiva», profonda e duratura. Quando invece proiettiamo su di lui le nostre aspettative e le nostre necessità infantili irrisolte – come succede frequentemente nei rapporti di coppia – allora è «passiva», intensa ma precaria; quando l’illusione verrà meno, prima o poi si trasformerà in tristezza e a volte addirittura in odio (rimproveriamo l’essere amato di averci deluso o tradito). Questa forza distruttiva, del resto, non è legata soltanto al sentimento amoroso, ma può manifestarsi anche nell’amicizia o nel rapporto familiare, quando il legame è fondato più sulla mancanza e la sopraffazione che ne derivano che sulla benevolenza e sul dono. È il tipico caso di genitori che vogliono bene al figlio in modo condizionato, provando un forte senso di possesso e desiderando che realizzi quello che loro vogliono (cercando quindi di ottenere, tramite la progenie, ciò che non hanno saputo conquistare per sé); se questo tenta di sfuggire alla loro influenza, facendo per esempio una scelta di vita, mestiere o religione opposta alla loro, diventano violenti e possono interrompere ogni rapporto con lui accusandolo di renderli infelici. Questo atteggiamento indica che il bambino era stato voluto, di solito inconsapevolmente, per riempire un vuoto, e di conseguenza quando cerca di sottrarsi a questa costrizione viene considerato un traditore. Per realizzarsi in modo giusto, duraturo e profondo, l’amore invita alla consapevolezza di sé, alla lucidità, alla bontà e alla gratuità. Che si tratti del coniuge, di un amico o di un figlio, teniamo sempre presente che l’altro non ci appartiene. Amarlo veramente significa volere la sua felicità quanto lui vuole la nostra, e questo è necessario sia in un

rapporto di coppia che di amicizia. Siamo contenti della gioia dei nostri cari anche se hanno idee diverse dalle nostre. Il poeta libanese Khalil Gibran lo esprime magnificamente nel libro Il profeta, dove scrive: «I vostri figli non sono figli vostri, ma della vita». È questo il motivo per cui le correnti di saggezza ci invitano ad amare senza attaccamento.

Ma com’è possibile? A meno di essere monaci, si può davvero amare marito, moglie e figli con distacco? Che il cuore si affezioni ai nostri cari è normalissimo e il contrario sarebbe addirittura inquietante! Quando si parla di «distacco» o «non attaccamento» s’intende che lo spirito non deve appropriarsi dell’altro, volerlo trattenere a tutti i costi, considerarlo una cosa propria o un bene personale. Non bisogna nemmeno entrare in un rapporto di dipendenza: dobbiamo amare la vita senza che questo amore passi esclusivamente nel prisma di una relazione affettiva. Di conseguenza possiamo essere attaccati (con il cuore), ma senza attaccamento. La nostra mente è capace di liberarci da questo senso di possesso che può portare a tante infelicità e drammi. Rifiutare tutto questo, quindi, non è il frutto di una mancanza, ma di un’eccellenza d’amore. È proprio perché vogliamo amare l’altro nel modo migliore che coltiviamo un «non attaccamento». Evidentemente quest’ultimo può anche denotare una carenza di sentimento, ma non confondiamo queste due cose che non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra.

Anche se adottiamo questo distacco, come fare per non essere sopraffatti dal dolore quando, per esempio, si verifica il decesso di un nostro caro? La perdita di un parente, un coniuge o un caro amico ci fa sprofondare nella tristezza perché in quel momento veniamo separati

da una persona che amiamo. Questa sofferenza, però, non sarà la stessa se ci troviamo in uno stato di attaccamento o di distacco. Nel primo caso ci sentiamo crollare il mondo addosso e lo sconforto per la sua scomparsa ci rimanda alle nostre mancanze, alle nostre fragilità affettive e alla paura della morte. Nel secondo, sopportiamo la sua dipartita accettando la legge universale della nascita e della morte, sapendo che forse la sua fine è anche un bene per lei e ricordando tutti i momenti felici trascorsi insieme. Allora nella disperazione può addirittura essere presente una certa gioia, come ho sperimentato quando sono mancati la mia compagna e mio padre. È chiaro che anche il fatto di credere che la loro anima continui a esistere in un’altra dimensione mi ha aiutato molto. Montaigne afferma di aver perso cinque dei suoi figli «senza rancore». Questo non significa che non abbia provato dolore, ma che non era arrabbiato con la vita e si adeguava all’inesorabile. È lo stesso concetto espresso da questa breve storia taoista: «La moglie di Zhuang-zi era morta e Hui Shi andò a fargli le condoglianze. Trovò il vedovo con le gambe divaricate che cantava e tamburellava su una scodella. Gli disse: “Che non pianga per la morte della compagna della tua vita che ha allevato i tuoi figli è già tanto, ma che canti è davvero troppo!”. “Nient’affatto” rispose l’altro. “Nel momento in cui se n’è andata naturalmente mi sono sentito addolorato, ma poi, riflettendo sull’inizio, ho scoperto che in origine lei non aveva vita, né forma, e nemmeno respiro. Qualcosa di fuggevole e inafferrabile si è convertito in respiro, il respiro in forma, la forma in vita, e ora ecco che la vita si è trasformata in morte. Tutto questo somiglia alla successione di primavera, estate, autunno e inverno. In questo momento, mia moglie giace nella Grande Dimora. Se mi lamentassi singhiozzando rumorosamente vorrebbe dire che non comprendo il corso del destino. Ecco perché mi astengo dal farlo”». 1. Insieme per gli animali [N.d.T.].

DALLA PRIGIONE DELL’EGO ALLA LIBERTÀ DEL SÉ

Hai associato più volte la saggezza alla libertà, ma senza spiegare ulteriormente il loro rapporto. In che modo sono collegate? Non intendevo le libertà politiche, per esempio di circolazione, coscienza ed espressione, ma quella interiore. Si può godere di molti diritti politici ed essere schiavi delle proprie passioni, pregiudizi e idee sbagliate. È la constatazione che possiamo fare tutti, sulla scia di molti saggi che ci hanno preceduto, a cominciare da Spinoza: il suo libro principale, l’Etica, è un vero e proprio cammino verso la libertà.

Pensavo che Spinoza non credesse in questo valore… Era scettico solo sul libero arbitrio, cioè in una disposizione naturale a compiere scelte libere da costrizioni interiori. Secondo lui non nasciamo liberi perché siamo completamente condizionati da affezioni inconsapevoli, ma possiamo diventarlo eseguendo un lavoro di rettificazione di credenze, desideri ed emozioni. Quello che suggerisce è un percorso tutto interiore. I concetti di Spinoza sono dotati di una grande forza emancipatrice, sia politica che spirituale. Politica in quanto è il primo pensatore dell’Illuminismo a proporre un sistema democratico fondato sulla separazione del potere politico e religioso e garante della libertà di coscienza e di espressione. Spirituale perché, contrariamente agli altri filosofi che gli succederanno nel XVIII secolo, ritiene che per l’essere umano sia altrettanto importante liberare la ragione dalla prigione delle idee inadeguate e degli effetti passivi che ne derivano. Solo imparando a pensare meglio riusciremo a dare una nuova direzione ai nostri desideri, orientandoli verso persone o cose che ci faranno crescere procurandoci una gioia attiva e duratura. In questo

modo eviteremo anche la schiavitù delle passioni, la più dannosa perché non ne abbiamo coscienza, e diventeremo uomini liberi. Ha esplicitato questo argomento, già abbozzato dai saggi dell’antichità, in modo meraviglioso, sia in termini filosofici che psicologici. Gli stoici, per esempio, dicono che siamo come degli attori di un’opera teatrale. Non siamo noi ad aver scelto di interpretare questo o quel ruolo, ma siamo noi a decidere se recitare bene o male, se provare piacere o dispiacere. Per questi filosofi, come per Epicuro, la vera libertà è interiore e si manifesta nel modo in cui reagiamo agli eventi.

Penso anche ai saggi orientali che da più di tremila anni invitano alla «liberazione dello spirito». È la stessa idea dei pensatori occidentali? È assolutamente lo stesso concetto, ma espresso nel contesto culturale indiano della credenza nel karma e nella trasmigrazione. Gli indiani, infatti, sono convinti che esista una legge universale di causalità: ogni azione produce un effetto. Pensano inoltre che ogni essere vivente possieda un frammento di divino (il brahman impersonale) dentro di sé: l’atman. Quest’ultimo passa di vita in vita, di corpo in corpo (compreso quello animale), finché riesce a uscire dal ciclo incessante delle rinascite (samsara) liberandosi dall’ignoranza e prendendo coscienza di non essere l’ego con cui si è identificato, ma una particella di sacro. Questa è la realizzazione del Sé. Passando dall’io al Sé attraverso una presa di coscienza spirituale che lo libera dall’ignoranza, ma anche dalla prigione delle passioni, l’essere umano accede all’affrancamento (moksa), che i buddisti chiamano Risveglio. A quel punto non si reincarnerà più e vivrà in uno stato di beatitudine eterna, il Nirvana, in un’altra dimensione impossibile da capire o descrivere con parole o idee umane.

Potresti esplicitare meglio il passaggio dall’io al Sé? Come definisci l’ego e perché ne siamo prigionieri?

Secondo la grande filosofia-psicologia del Vedanta indù, la nostra identità più profonda è l’atman, la scintilla divina in noi (l’equivalente del logos degli stoici). Il problema è che lo dimentichiamo molto in fretta, perché fin dalle prime settimane di vita cominciamo a identificarci con il nostro ego. Questo, che in un certo modo corrisponde all’«io» della psicanalisi, è il sentimento di esistere come individui separati e unici e si costituisce attraverso gli occhi degli altri e tutte le idee ed emozioni che ne derivano. Tramite lo sguardo della madre, il bambino comprende di essere distinto da lei e di avere un’identità, bisogni e interessi che gli sono propri. Parte quindi alla ricerca di ciò che gli fa bene e gli risulta piacevole, rifiutando quello che lo danneggia o che lo percepisce come spiacevole o contrario al suo interesse. L’ego è necessario per sopravvivere e se ne fossimo privi diventeremmo tutti psicotici e incapaci di difenderci; ci permette di avere la sensazione di un’esistenza autonoma, di cercare ciò che ci soddisfa e di proteggerci dai pericoli. Un io (o un ego) ben strutturato è indispensabile al corretto sviluppo psichico dell’individuo. A questo punto, però, insorgono due problemi. Il primo è che ci concentriamo troppo su di noi e i nostri problemi dimenticando gli altri. L’educazione deve svolgere la duplice missione di aiutare il bambino ad acquisire un io correttamente formato, cioè una giusta considerazione e stima di sé, ma anche ad avere la capacità di tener conto degli altri e di condividere. La formula biblica «Ama il prossimo tuo come te stesso» e la famosa regola d’oro, presente in tutte le culture antiche, «Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te», riassumono bene questo equilibrio da trovare tra amore di sé e amore degli altri, rispetto di sé e rispetto degli altri, mostrando che queste due dimensioni sono strettamente legate tra loro. A chi non si vuol bene o non ha stima di sé risulterà molto difficile amare e rispettare il prossimo.

Capisco bene la necessità di trovare un equilibrio tra egoismo e altruismo, ma come e perché bisogna liberarsi dell’ego per passare

al Sé? Questo è il secondo problema posto dall’ego: alla fine arriviamo a identificarci con lui. Si costruisce nello sguardo degli altri ed è costituito da tutte le idee ed emozioni che ne derivano, ma non rappresenta la nostra identità più profonda, che è di essenza divina o cosmica e chiamiamo Sé. Questa presa di coscienza è una forma di risveglio, d’illuminazione, e ci permette di non identificarci più con il nostro io, che vive continuamente attraverso gli occhi degli altri, è sensibile ai complimenti e alle critiche, cerca di difendere a tutti i costi i suoi interessi ecc. La realizzazione del Sé può anche essere descritta in termini spirituali sia nell’ambito delle correnti orientali che in termini psicologici nel processo d’individuazione junghiano a cui abbiamo già accennato. Essa fa cambiare il modo in cui guardiamo noi stessi e il nostro rapporto con il mondo, nella misura in cui realizziamo che siamo una parte del Tutto, che la nostra identità profonda è più singolare di quanto immaginiamo e allo stesso tempo collegata all’Assoluto, un’energia universale presente in tutto il cosmo, che i saggi di varie correnti chiamano in modo diverso Dio, il divino, Logos, Tao, Brahman, Anima del mondo ecc.

LA SAGGEZZA DEI BAMBINI

All’inizio di questa conversazione hai detto che la saggezza filosofica è accessibile anche ai bambini. Non ti sembra un po’ esagerato? Per leggere Platone o Epicuro occorre saper comprendere concetti astratti e avere una buona padronanza del linguaggio, non credi? Certo che sì, ma stai confondendo “filosofare” con “acquisire un sapere filosofico”. È chiaro che un bambino di sette anni non riuscirà a leggere la Critica della ragion pura di Kant e nemmeno l’Etica Nicomachea di Aristotele: nemmeno i più dotati possono affrontare le grandi opere della storia della filosofia prima dell’adolescenza. Capisco quindi benissimo che si cominci a studiare la storia del pensiero solo alle superiori, intorno ai quindici anni. Invece l’azione del filosofare e la ricerca della saggezza possono essere intraprese molto prima. Scrive Epicuro nella Lettera sulla felicità (o Lettera a Meneceo): «Nessun giovane aspetti ad amare la filosofia, né chi si trovi nell’età della vecchiaia sia stanco di filosofare. Nessuno è troppo giovane né troppo vecchio per il benessere dell’animo. Colui che dice che non è il momento di dedicarsi alla filosofia o che il momento sia già passato è nella stessa condizione di chi dice che non è giunto ancora il momento per la felicità o che ormai quel momento è passato. Dunque sia per il giovane che per il vecchio è giusto dedicarsi alla filosofia, in modo che chi invecchia conservi un animo giovane grazie ai beni che derivano dai ricordi del passato e che il giovane sia maturo, grazie all’assenza di timore rispetto al futuro. È dunque necessario adoperarsi per ciò che può dare origine alla felicità, poiché se essa è presente abbiamo tutto, se manca, facciamo di tutto per ottenerla». Infatti i bambini si pongono molto presto delle domande sul modo di essere felici. Si trovano ad affrontare conflitti interiori, difficoltà

emotive e si chiedono come fare per risolverli e imparare a gestirli. Aristotele ci dice che la filosofia comincia con lo stupore: è così che entriamo in un processo di interrogativi e ragionamenti. I piccoli passano il tempo a meravigliarsi, chiedere, e molto presto meditano sul senso della vita. Da molti anni insegno filosofia nelle scuole elementari. Quando chiedo a studenti dai sei agli undici anni quali argomenti vogliono trattare nel laboratorio rispondono sempre: la felicità, il senso della vita, la morte, l’amore, la libertà ecc. Tutti questi grandi temi li appassionano davvero e spesso le loro risposte sono impregnate di profonda saggezza.

Ma un laboratorio di filosofia con i bambini non è la trasmissione di varie conoscenze, come al liceo? È molto diverso: nel primo caso l’animatore (l’insegnante o un altro adulto) si mette allo stesso livello degli allievi, non assume l’atteggiamento o la postura di chi sta insegnando. Tanto per cominciare si sistema in cerchio insieme ai bambini e in seguito si limita ad animare la discussione, senza mai dire quello che pensa o giudicare i discorsi degli altri; spiega che non sono lì per ripetere o ricevere un voto, ma per esprimere i loro pensieri, valutare quelli degli altri e progredire insieme nella riflessione. Dopo la scelta dell’argomento della discussione permette a ognuno di parlare, facendo attenzione che tutti quelli che lo desiderano possano intervenire, si ascoltino l’un l’altro con attenzione e rispetto, rimanendo fedeli al tema e discutendo con l’aiuto di argomenti razionali.

Da quando esiste questa pratica della filosofia con i bambini? È la prassi in Francia, nelle scuole primarie? L’idea si è sviluppata nell’America del Nord negli anni Settanta su idea del pedagogo statunitense Matthew Lipman e in seguito si è

diffusa nel mondo francofono, soprattutto grazie alla mediazione di Michel Sasseville, originario del Quebec, e dei francesi Michel Tozzi e Jacques Lévine. Nel 2018 risulta applicata in settanta paesi e nel 2016 è stata creata una Cattedra UNESCO , di cui è responsabile Edwige Chirouter, che ha anche dato vita a un corso di laurea di pratica della filosofia con i bambini all’università di Nantes. Per contribuire alla diffusione di questa iniziativa, di cui ho potuto constatare gli straordinari benefici dopo aver animato una cinquantina di questi laboratori in molti paesi, ho creato con altri soci la fondazione e l’associazione SEVE (Savoir Être et Vivre Ensemble 1), sotto l’egida della Fondazione di Francia, che propongono, senza fine di lucro, percorsi rivolti a insegnanti e non, per imparare a tenere corsi di filosofia per bambini e adolescenti. In due anni, quasi tremila persone hanno aderito a questo progetto in Francia, Svizzera, Belgio, Canada e Lussemburgo, riuscendo a raggiungere decine di migliaia di studenti. Nel mondo francofono esistono una decina di associazioni che perseguono lo stesso fine: Philo jeunes, Petites Lumières, Les Francas, Philocité, Éducphilo ecc. È un movimento spontaneo che però incontra resistenza da parte di chi pensa che la riflessione filosofica possa cominciare solo a un’età più avanzata.

Capisco questa opposizione, stento a immaginare bambini sotto i dieci anni capaci di esprimere opinioni filosofiche profonde come quelle degli adulti! Nel capitolo XXVI del primo libro dei Saggi, Montaigne scrive che «un bambino è in grado di filosofare fin da quando è accudito da una balia, molto meglio di quanto riesca a imparare a leggere e scrivere». Infatti, come ho già detto, fin dalla più tenera età i piccoli pongono domande importanti sul senso della vita, Dio, la morte ecc., e fin dai sei-sette anni sono capaci di argomentare, dibattere, valutare. Ricordo uno dei primi laboratori con allievi di questa età che ho tenuto in un paesino del Capo Corso. Volevano parlare di felicità e

alcuni hanno formulato l’idea che consistesse nella realizzazione dei desideri. Uno di loro ha alzato la mano e li ha contraddetti, affermando che se fosse così non saremmo mai veramente soddisfatti, perché abbiamo sempre nuovi desideri, aggiungendo poi: «Quando avevo cinque anni ho capito che se volevo essere felice dovevo essere contento di quello che ho già». «Ti chiami Seneca?», gli ho chiesto. «No, Julien», mi ha risposto, e alla fine è riuscito a convincere il resto della classe che la sua opinione era corretta. Un compagno allora gli ha chiesto: «E allora cos’è per te la felicità?». Dopo qualche istante di riflessione ha risposto: «Essere e basta, esistere nel mondo». Seneca non avrebbe potuto esprimersi meglio! Qualche giorno dopo sono venuto a sapere che quella sera il bambino era tornato a casa e aveva detto alla mamma, tutto entusiasta: «Se penso che ho aspettato sette anni e mezzo per fare filosofia!».

Ai bambini diverte molto poter dire quello che pensano su soggetti importanti, sui quali spesso non sono interrogati perché ritenuti argomenti riservati agli adulti. I laboratori di filosofia non solo donano grande gioia ai piccoli, in quanto rappresentano l’unico spazio in cui possono esprimere liberamente le loro idee senza essere valutati con un voto, ma permettono anche di imparare a discernere, argomentare, sviluppare un pensiero critico. Come diceva Montaigne, l’educazione non deve solo consistere nel «riempire un vaso» e formare «teste belle piene», ma anche, e soprattutto, «accendere un fuoco» e costituire «menti ben fatte», cioè capaci di giudicare da sole. Siccome oggi i bambini si trovano di fronte a una massa di informazioni non gerarchizzate e a volte false (dicerie, teorie del complotto ecc.), mi pare che ai giorni nostri non ci sia nulla di più importante che permettere loro di sviluppare uno spirito critico, una capacità di discernimento.

Mi torna alla memoria un altro esempio molto significativo, legato a un tema di attualità. Alcuni mesi dopo i terribili attentati di Parigi, a fine 2015, ho organizzato un laboratorio nella capitale francese in una classe di bambini dagli otto ai dieci anni su un argomento tipico della saggezza: «Che cosa vuol dire avere una buona vita?». Mentre molti allievi collegavano la realizzazione dell’esistenza alla questione della felicità, un bambino di nove anni ha preso la parola e ha affermato: «I terroristi erano soddisfatti di aver ucciso delle persone, ma io non credo che sia giusto». Quando gli ho chiesto perché, mi ha risposto: «Perché va bene cercare di essere felici, ma bisogna anche rispettare gli altri». La maggior parte dei compagni si è dichiarata d’accordo con lui e rafforzato addirittura l’idea: «Sì, vivere bene vuol dire essere contenti senza fare del male agli altri, ed essere giusti», e via dicendo. Ho parlato così al ragazzino che aveva fatto quella riflessione: «Sai, c’è un grande filosofo, che si chiama Socrate, che duemilacinquecento anni fa ha detto più o meno la stessa cosa». Allora ha replicato: «Sono felice di sapere che la pensa come me!». Questa risposta mi è piaciuta moltissimo! In questi laboratori si manifesta il carattere davvero universale della ragione umana e della meditazione filosofica che ne deriva. I bambini riscoprono da soli, attraverso una riflessione comune, verità e argomenti che gli Antichi avevano già affrontato. Questa esperienza li segnerà per sempre, mentre se avessi tenuto un corso su «Socrate e il senso della vita» o «Seneca e la felicità» forse non avrebbero capito nulla, oppure avrebbero dimenticato tutto molto in fretta.

Hai accennato spesso alla gioia come a un sentimento collegato alla saggezza. Sovente i bambini sono molto contenti: vuol dire che sono saggi precoci o non c’entra nulla? La gioia dei bambini per me rappresenta la felicità perfetta, quella che i saggi impiegheranno tanto tempo e tanti sforzi per raggiungere! I piccoli non sono ancora preda del loro ego, vivono completamente nell’istante presente e danno prova di grande

spontaneità: tre qualità essenziali della saggezza. È questo il motivo per cui sono così felici e i grandi maestri li considerano un esempio. Gesù stesso apostrofa così i discepoli che li vogliono allontanare da lui: «Lasciate che i bambini vengano a me, perché di questi è il regno dei cieli» (Matteo 19, 14). Questa idea era già presente nel taoismo. Totalmente incapace di sopravvivere da solo e di compiere azioni, con la sua sola presenza il neonato mette in moto gli adulti, è il centro della famiglia. Agisce senza agire. È tutto gioia e spontaneità. Allo stesso modo, il modello del saggio taoista non è l’anziano che sa (o crede di sapere), ma il bambino, come scrive Lao Tzu: «Diventa l’impluvio del mondo. Esserlo significa che la virtù non ti abbandona mai e ritorni allo stato di infante».

Un’altra qualità dei bambini legata alla saggezza è la capacità di stupirsi. Infatti! Ne aggiungerei un’altra, che forse è la più essenziale: sono capaci di dire «sì» alla vita. Di fronte a una prova, non assumono un atteggiamento di rifiuto o negazione. Un professore che dirige un centro per bambini malati di leucemia ha confessato di essere continuamente sorpreso dalla gioia e la serenità emanate dai suoi piccoli pazienti, nonostante la terribile malattia e la prospettiva della morte. «Sono i genitori che si sentono angosciati e si ribellano, non loro», ha affermato, nella sostanza. Vivendo nell’istante presente, senza paura di morire, con la capacità di meravigliarsi e interrogarsi senza pregiudizi, accettando la vita e assaporando la gioia, i bambini sono modelli di questa saggezza che alcuni, come te e me, cerchiamo di ritrovare da adulti. 1. Saper essere e vivere insieme [N.d.T.]. Se ha gradito la lettura di questo libro la preghiamo di venire a trovarci su: marapcana.today clicchi su questo testo e troverà la biblioteca completamente gratuita più fornita ed aggiornata del web! La aspettiamo!

Bibliografia

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Ringraziamenti

Ringrazio vivamente Luc Ferry, con cui da molti anni ho discussioni stimolanti su questo argomento. Siccome spesso abbiamo opinioni discordanti, che comunque non sono di ostacolo alla nostra amicizia, ho ripreso nelle domande vari argomenti che mi ha proposto. Un grazie di cuore a Julie Klotz per i preziosi spunti e le osservazioni che mi ha suggerito nel corso della scrittura di questo breve libro, aiutandomi a renderlo più vivace.

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